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H.P. LOVECRAFT TUTTI I RACCONTI 1927-1930 (1991) a cura di Giuseppe Lippi Indice Nota alla presente edizione Introduzione Cronologia di Howard Phillips Lovecraft Fortuna di Lovecraft Lovecraft in Italia RACCONTI (1927-1930) Il caso di Charles Dexter Ward (1927) Il colore venuto dallo spazio (1927) L'antica gente dei monti (1927) Storia del Necronomicon (1927) Ibid (1928?) L'orrore di Dunwich (1928) Colui che sussurrava nelle tenebre (1930) RACCONTI SCRITTI IN COLLABORAZIONE - REVISIONI L'ultimo esperimento (con Adolphe De Castro, 1927) La maledizione di Yig (con Zealia Brown Bishop, 1928) Il boia elettrico (con Adolphe De Castro, 1929) K'n-yan (con Zealia Brown Bishop, 1929-30) L'abbraccio di Medusa (con Zealia Brown Bishop, 1929) APPENDICE SAGGISTICA Le "revisioni" di Lovecraft: fino a che punto sono opera sua?, di S.T Joshi Chi fu il vero Charles Dexter Ward?, di M. Eileen McNamara e S.T. Joshi
APPENDICI BIBLIOGRAFICHE Riferimenti bibliografici dei racconti contenuti nel presente volume Bibliografia generale Nota alla presente edizione Questo volume costituisce il terzo tomo di un'opera che sarà conclusa il prossimo anno e che offrirà Tutti i racconti di H.P. Lovecraft in ordine cronologico. I primi due volumi, pure apparsi in questa collana, abbracciavano rispettivamente il periodo 1897-1922 e 1923-1926. Il criterio seguito qui è lo stesso che informava i due volumi precedenti: le traduzioni dei racconti sono state rifatte sulla nuova edizione dei testi stabilita da S.T. Joshi, e pubblicata in quattro volumi dall'Arkham House; il materiale narrativo è diviso in due sezioni: la prima con i racconti scritti da Lovecraft in proprio e la seconda con quelli scritti in collaborazione o per conto di clienti. Al materiale narrativo è unita una parte informativa e saggistica per la quale dobbiamo essere grati soprattutto a Marc Michaud della casa editrice Necronomicon Press e a S.T. Joshi, oggi il principale ricercatore di cose lovecraftiane. Ringrazio anche, per la loro cortese collaborazione, Kenneth Faig, Eileen McNamara e Barton Levi St. Armand, ai quali mando un simpatico "arrivederci" a Providence. Voglio qui ricordare, infine, che il lavoro da noi svolto in maniera indiretta, e quello di ricerca originale effettuato negli Stati Uniti da Joshi e da molti altri appassionati, non sarebbe stato possibile senza l'esistenza di alcune strutture efficienti: in primo luogo quelle della Brown University e della John Hay Library, dove la Collezione Lovecraft è diretta con mirabile passione da John Stanley e Jennifer Lee. Senza di loro questo libro e tante altre cose non sarebbero stati possibili. G.L. Introduzione H.P. Lovecraft nasce il 20 agosto 1890 nel più piccolo degli Stati Uniti, il Rhode Island: la famiglia materna appartiene all'agiata borghesia della capitale, Providence, mentre il padre è un viaggiatore di commercio noto per una certa ostentazione di anglicità sia nei modi che nell'accento. La malattia che lo condurrà alla morte, quando Lovecraft è ancora bambino,
sarà una conseguenza della sifilide. Che Winfield Scott Lovecraft non abbia avuto una grande influenza sul piccino è evidente, ma lo scrittore indosserà da adulto alcuni suoi abiti e una cravatta, ricordandolo affettuosamente come "l'inglese" che gli ha dato la luce. Anche la madre, Sarah Susan Phillips, discende da una famiglia inglese che tuttavia si è stabilita nel paese fin dall'età coloniale. Donna nervosa, attaccatissima al bambino e probabilmente ostile al marito a causa della sua malattia, tende ad essere iperprotettiva nei confronti di Howard e sembra che per tenerlo più attaccato a sé l'abbia convinto di essere così brutto che gli altri bambini ne avrebbero paura. Probabilmente l'infanzia di Lovecraft, come quella di tutti i ragazzi fortemente dipendenti dai genitori, è stata oppressa da un senso di limitazione e di precarietà, ma la leggenda che lo vuole schivo e completamente solo ("il solitario di Providence") va in parte ridimensionata. I suoi migliori amici d'infanzia sono Harold e Chester Munroe, con i quali gioca e si diverte all'aria aperta (lui stesso ne ha lasciato testimonianza nel vasto epistolario). Anche da adulto il contatto umano non gli mancherà, sebbene sottoposto alle particolari regole ed esigenze della sua persona. Nell'infanzia di Lovecraft l'ombra della morte si insinua presto e ne segnerà in qualche modo l'esistenza: la nonna materna, nella casa della quale il bambino vive con la madre, muore nel 1896 e in seguito egli ricorderà l'incubo ossessivo di quel lutto; il padre muore in una casa di cura due anni dopo. Nel 1904, ultimo fatale colpo, viene a mancare il nonno Whipple Phillips, che con la sua cultura e la sua esperienza aveva fatto le veci di figura paterna. Lovecraft, pur turbato da questi avvenimenti (e dalla perdita, una volta per tutte, dell'agiatezza conosciuta in casa dei nonni), ha già cominciato a sviluppare una vita interiore che lo aiuterà a sopportare le burrasche dell'esistenza. La ricca e antiquata biblioteca del nonno Phillips gli ha spalancato orizzonti di piacere; si appassiona alla mitologia, alle scienze, all'astronomia. A sette anni è già autore di raccontini propri, di versi e più tardi di articoli giornalistici d'argomento scientifico. La sua grande scoperta è il piacere che viene dall'inanimato, da ciò che è maestoso e remoto, ed è riassunta nel grande fervore per la chimica e l'astronomia da cui è caratterizzata la sua adolescenza. Frequentatore intermittente delle scuole pubbliche, è costretto più volte a ritirarsi per esaurimento nervoso e a proseguire gli studi con tutori privati. Non otterrà mai il diploma di scuola media superiore. La sua vita si svolge apparentemente all'ombra della madre e delle due zie materne Lillian e
Annie. Dal 1904 al 1924 Lovecraft vive al 598 di Angell Street, la stessa strada dove sorgeva la casa dei Phillips (venduta dopo la morte del nonno). Dal 1924 al 1926, nei due anni di matrimonio, abita a New York. Nel '26 torna a Providence e si stabilisce al 10 di Barnes Street con la zia Lillian, e finalmente, nel 1933, si trasferisce in quello che sarà il suo ultimo domicilio, il n. 66 di College Street. In queste case prende vita il suo torrenziale, ossessivo universo fantastico: ma per trovare la strada giusta e imboccarla Lovecraft impiega del tempo. A diciotto anni, disgustato dalla sua produzione narrativa, decide di distruggerla salvando soltanto pochissime cose; per quasi dieci anni si dedica esclusivamente al giornalismo scientifico e alla poesia, imitando gli amati rimatori del sec. XVIII. La vastità dei cieli e la loro indifferenza, Poe e il tema della morte, il mondo greco-romano e quello del Settecento inglese e coloniale, le letture fantastiche in cui si butta a capofitto: sono alcuni interessi dell'eclettico e onnivoro Lovecraft. Una serie di lettere da lui inviate a una rivista nel 1913, il settimanale "Argosy", viene notata dai responsabili della United Amateur Press Association e li induce a mettersi in contatto con lui, reclutandolo nelle schiere di "giornalisti dilettanti" raggruppati da quell'antica organizzazione. Il giornalismo dilettante o amatoriale è l'equivalente di quello che oggi, nel mondo della cultura popolare americana, è noto come fandom: appassionati di questo o quel genere letterario si dedicano alla produzione di riviste dilettantesche, spesso soltanto ciclostilate, i cui collaboratori sono gli altri membri del gruppo e per i quali di solito non è previsto pagamento. La differenza con il giornalismo amatoriale dell'epoca di Lovecraft sta in questo: che gli interessi dei membri non erano circoscritti ad un solo argomento ma spaziavano virtualmente in tutti i campi dello scibile, e che gli autori si consideravano future promesse della letteratura o della poesia. È su riviste di questo tipo, spesso note soltanto ai loro collaboratori, che hanno visto la luce i primi racconti di Lovecraft, una parte della sua poesia e i saggi; le pubblicazioni professionali sono posteriori o addirittura postume. Lui stesso redigeva un proprio foglio, intitolato "The Conservative". Per Lovecraft, come per ogni spirito creativo, avere a disposizione uno sbocco sia pur limitato è fondamentale: l'affiliazione alla stampa amatoriale e un paio di altri avvenimenti quasi contemporanei costituiscono la spinta che gli ridarà voglia di scrivere e che gli permetterà di iniziare quella vasta, "mostruosa" corrispondenza che a buon diritto può considerarsi il terzo lato della sua opera. Amicizie epistolari, conoscenze, scambi diretti o
indiretti: è l'aprirsi di un mondo e l'inizio della lunga strada che in seguito porterà due corrispondenti di Lovecraft, August Derleth e Donald Wandrei, a fondare una casa editrice nata apposta per tramandarne l'opera: la Arkham House. Nel 1917, in uno dei suoi momenti di massima depressione, HPL decide di arruolarsi nell'esercito. Un po' per interessamento di sua madre, un po' per la salute cagionevole, viene respinto. La delusione è cocente: lui interventista, patriottico, militarista deve rassegnarsi alla condanna d'invalidità che Susie Phillips ha deciso di fargli pesare. Da questo momento in poi è come se HPL prendesse una decisione irrevocabile: se non può essere il trionfatore del giorno lo sarà della notte. La sua vena macabra prende il sopravvento: dopo quasi dieci anni di silenzio torna al racconto e scrive The Tomb, un delirio necrofilo nel quale il protagonista sogna di poter finalmente riposare in una cripta la cui vista lo ossessiona da anni in virtù di un particolare grottesco: ha la porta socchiusa, "come usava cinquant'anni fa". La produzione narrativa, una volta ripresa, continua regolarmente. La vita schiude a Lovecraft nuove soddisfazioni: tra il 1919 e il 1920 negli ambienti dei giornalisti dilettanti si sussurra che esista un idillio tra HPL e la poetessa Winifred Jackson, con la quale Lovecraft scriverà alcuni racconti in collaborazione. Poco dopo, in un convegno tenutosi a Boston, Howard conosce la futura moglie Sonia Haft Greene e scopre la narrativa di Lord Dunsany, un autore fantastico che a lungo rimarrà il suo idolo letterario insieme a Poe. La madre Sarah Susan, ricoverata già da tempo in un ospedale per malattie nervose, muore per una banale operazione. È il 1921 e si chiude definitivamente una parte della vita di Lovecraft. L'amicizia con Sonia si approfondisce e nel 1924 i due si sposano a New York senza che lo scrittore abbia il coraggio di confessarlo alle zie. Lo farà in una lettera trepidante e confusa successiva alla cerimonia. Il matrimonio avviene in un clima particolarmente propizio: dal marzo dell'anno prima, 1923, è apparsa nelle edicole "Weird Tales", una rivista professionale dedicata al fantastico e al soprannaturale; Lovecraft ha incominciato a venderle i suoi racconti e nel 1924 l'editore, Charles Henneberger, gli offre addirittura la carica di direttore. Sfortunatamente la sede della casa editrice è a Chicago e HPL non se la sente di sobbarcarsi ad un nuovo trasferimento, tantopiù che a lui amante della Nuova Inghilterra il pensiero di dover vivere nel Midwest riesce odioso. È una rinuncia importante, destinata probabilmente a segnare la sua vita: ma per il momento
Lovecraft preferisce assestarsi a New York e vedere se gli riesce di trovare lavoro laggiù: sua moglie Sonia ha un negozio di modista ed è una donna attiva e intraprendente. La fonte principale di reddito, per lo scrittore, non sono gli sporadici assegni di "Weird Tales" ma i pochi dollari che guadagna con l'attività di revisore del lavoro letterario altrui: riscrive racconti, corregge poesie, sfronda articoli di inesperti e dilettanti che lo pagano per questo; è un'attività che risale a parecchi anni addietro, e resterà per tutta la vita l'unica fonte di reddito sicura. Nel '24 il mago Houdini - che ha una cointeressenza nella proprietà di "Weird Tales" - gli propone di scrivere un racconto per lui e HPL inventa il memorabile Imprisoned with the Pharahos. Ma le amarezze connesse a questo tipo di attività, le insoddisfazioni e le frustrazioni non sono da poco: nelle sue lettere Lovecraft ci ha lasciato alcuni meravigliosi ritratti degli incompetenti che si rivolgono a lui per risolvere i loro problemi letterari. Annoiato, seccato e angustiato cercherà ancora una volta rifugio nei sogni, quella parte così importante della sua esistenza che lo ha abituato a fantastiche esperienze fin da bambino. Che Lovecraft sia soprattutto un sognatore è cosa che pochi metteranno in dubbio, anche alla luce della sua produzione; ma è di quelli che posseggono l'invidiabile capacità di gettare un ponte tra il mondo dei sogni e quello della veglia, finché poco a poco l'uno trascolora nell'altro in un amalgama originalissimo. Fin dall'infanzia la notte gli porta alcune immagini ricorrenti: enormi altopiani deserti sui quali giganteggiano colossali rovine; abissi senza fondo che si spalancano su altre sfere di realtà; celle e corridoi sotterranei che si snodano sotto le fondamenta di edifici familiari, mettendo in comunicazione il mondo della superficie con un netherworld gravido di segreti; esseri mostruosi che riempiono, al tempo stesso, di meraviglia e terrore. Lovecraft confessa: "Se io mi siedo alla scrivania con l'intenzione di scrivere un racconto, è molto probabile che non ci riesca. Ma se scrivo per mettere sulla carta le immagini di un sogno, tutto cambia completamente". Egli si sente posseduto, costretto dai sogni: dopo aver avuto l'incubo che sta alla base di Nyarlathotep, ne scrive la prima parte in uno stato di dormiveglia, senza aspettare il mattino. I sogni trasfigurano per lui la realtà: lo mettono in contatto con stelle remote e universi paralizzanti, gli creano l'illusione che la Nuova Inghilterra, New York addirittura, siano luoghi incantati dove la magia è dietro l'angolo, il tempo scorre in modo diverso ed è ancora possibile recuperare quella chiave d'accesso alla felicità che si era persa con la fine dell'infanzia. Amatore e conoscitore profondo della storia coloniale americana anche
dal punto di vista architettonico, nei due anni di soggiorno newyorchese Lovecraft batte la città in cerca degli angoli perduti, delle reliquie setteottocentesche, si delizia in compagnia degli amici (Loveman, Frank Belknap Long, Morton e pochi altri) dell'aria segreta che la metropoli respira di notte. Ma per quanto i suoi sogni lo mettano in contatto col mondo romantico di cui vagheggia, il lato diurno della situazione è molto meno roseo. La mancanza di lavoro lo affligge; il peso di una famiglia cui non è in grado di provvedere lo angustia; le folle di immigranti di varie nazionalità che brulicano nelle strade lo fanno schiumare di rabbia, xenofobo com'è e sostenitore della supremazia teutonica sulle altre razze. Eppure, quest'uomo che a parole sembrerebbe degno di un Mein Kampf americano ha sposato un'ebrea russa, ha amici ebrei ed omosessuali (Samuel Loveman), ama la cucina del meridione d'Italia (gli spaghetti sono una sua passione). L'orrore che prova verso gli stranieri è soprattutto un mezzo di difesa e spesso trova sfogo in incubi letterari, come The Horror at Red Hook, racconto che mette in scena le sue paure e ubbie newyorchesi, portandole a livello di melodramma. Ma l'esperienza matrimoniale volge al termine: Sonia deve trasferirsi nel Midwest per necessità di lavoro e Lovecraft non intende seguirla; si lasciano con l'intesa di rivedersi al più presto, ma intanto HPL fa le valige e torna a Providence: è il 1926. Ristabilitosi nella città e nel clima che gli è congeniale, Lovecraft comincia a produrre la serie di capolavori (quasi tutti in forma di racconto lungo) ai quali è legata la sua fama. L'intuizione geniale che gli era già balenata anni addietro, forse all'epoca di Dagon, prende forma: nel racconto dell'orrore gli esseri umani sono pedine di una più vasta scacchiera cosmica; le nostre mitologie, le nostre stesse paure, sono pietose menzogne che servono a coprire più mostruose, assurde realtà dell'essere. I nostri dei indigeni si inchinano a mostruose divinità dell'oltrespazio che non conosceremo mai, ma la cui semplice menzione può scatenare la follia. Lovecraft, per dirla con le parole di Fritz Leiber, sposta l'oggetto del terrore dalla terra al cosmo, dai diavoli, dalle streghe e i vampiri della tradizione gotica alle creature calate da altri mondi e dimensioni che aspettano di riprendere possesso del nostro universo. Nasce così il mito di Cthulhu, che ruota intorno a una serie di entità spaventose non di questo spazio, ma i cui nomi sembrano sapientemente ricavati da un dizionario di mitologia anagrammata: Azathoth, Yog-Sothoth "il dio cieco e idiota che gorgoglia blasfemità al centro dell'universo", Nyarlathotep messaggero dell'olimpo degenere e via dicendo. L'idea di creare un
pantheon fittizio doveva essergli nata leggendo The Gods of Pegäna di Lord Dunsany, che è un capostipite in questo particolare tipo d'invenzione letteraria; anche Arthur Machen, coi suoi racconti del Piccolo Popolo e il suo ritorno del dio Pan dev'essere stato un influsso non trascurabile; ma Lovecraft ha ampliato il disegno e, riprendendo determinati motivi in tutti i racconti che andava scrivendo, ha conferito al suo "mito" credibilità e spessore originali. La controparte terrestre di questo ribollire di dèi e demoni è rappresentata dagli Stati della Nuova Inghilterra, che Lovecraft vede segnati da colpe antiche e sotterranei connubi con le entità malefiche. A differenza dei grandi ossessi del New England (Hawthorne, in primo luogo) Lovecraft si compiace di quest'atmosfera corrotta e decadente, anzi ne calca le tinte: e siccome nessuna città umana, nemmeno la maledetta Salem, potrebbe esser degna degli orrori cosmici che gli è caro immaginare, ne inventa di nuove: Arkham, Innsmouth, Kingsport, Dunwich. Gli ultimi due son quasi villaggi, piccole comunità arretrate che esemplificano i guasti a cui può portare il sesso tra consanguinei e il commercio con entità malsane. Innsmouth è un caso a parte, una colonia di sanguemisto da far rizzare i capelli; Arkham, in cui alcuni vedono la trasfigurazione fantastica di Salem, è invece una città dotta e universitaria, al centro della valle del fiume Miskatonic e vero e proprio fulcro delle più inquietanti invenzioni lovecraftiane. Così, intorno all'originario Rhode Island (colpito più raramente ma non meno spettacolarmente dalle antiche maledizioni) sorge una serie di Stati assediati e in procinto di crollare sotto le forze ribollenti del fantastico: lo pseudo-Massachusetts di Arkham e Dunwich, il Vermont di The Whisperer in Darkness, l'angosciata Boston di Pickman's Model. In questi luoghi tutto può avvenire, e qui, dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Trenta, si svolgerà la grande sfida tra un pugno di uomini colti e originali e le forze più antiche del tempo che tentano di insinuarsi da una crepa nel continuum. Negli ultimi anni della sua vita Lovecraft non torna più ai temi sognanti e dilettevoli della prosa dunsaniana (quelli, per intenderci, che aprono la sua produzione), ma approfondisce la tematica dell'orrore e in un certo senso si avvicina allo spirito della fantascienza: negli ultimi, ponderosi racconti cerca di dar conto della "storia naturale" dei suoi stregoni venuti dall'altrove, visti sempre più come veri e propri extraterrestri. Questo passaggio di prospettiva avviene in The Shadow Out of Time, nel romanzo At
the Mountains of Madness ed è prefigurato da alcune storie più brevi come The Whisperer in Darkness, che in definitiva esprime l'anelito più volte provato da Lovecraft di affrancarsi dal corpo e vagare nello spazio, libero di osservare con distacco i misteri e le meraviglie del grande cosmo esterno. Sono, come si diceva prima, racconti d'immaginazione: più che il frisson, più che il brivido del colpo di scena quello che qui conta è la costruzione immaginaria, l'atmosfera onirica, gli squarci di visione che a volte si aprono nella sua prosa densa di aggettivi e fin troppo elaborata (un'accusa, questa, che è facile muovergli, ma a cui si può rispondere agevolmente affermando che Lovecraft è uno di quegli scrittori in cui ciò che dice è più importante di come lo dice, senza che la cosa sembri paradossale). Se nella prima parte della sua narrativa egli ha espresso una rivolta, completa e cosciente, contro il mondo prosaico che lo circonda, nell'ultima ha raggiunto risultati fantastici che in pochi altri autori di questo secolo è dato riscontrare. Gli metteremmo accanto William Hope Hodgson, il raffinato M.R. James, Algernon Blackwood e Lord Dunsany; e, fra i colleghi americani, almeno il poète-visionnaire Clark Ashton Smith. I sogni e gli incubi di Lovecraft sono ciò che veramente trapassa gli anni e lo rende leggibile, affascinante anche a distanza di tempo. C'è chi ha voluto tentare, in virtù della grande devozione di Lovecraft per il suo maestro, un confronto con Poe: così Jacques Bergier lo ha definito "Edgar Poe cosmico", Jean Cocteau lo ha lodato per la stessa ragione, Jorge Luis Borges lo ha definito "involontario parodista" del suo modello, Frank Belknap Long - da vero amico - lo giudica addirittura superiore. Non importa. Quello che conta è che nei racconti migliori Lovecraft ha veramente qualcosa dell'inquietudine, della visionarietà di Poe: non nell'imitazione stilistica, non nel giro di frase, ma nell'attitudine verso l'angoscia e il terrore. E come in Poe vi è stato il tentativo, grandioso e seducente, di far passare il fantastico per le maglie della ragione, anzi di distillarlo dai deliri della ragione, in Lovecraft vi è l'illusione di poter combinare fantastico e scienza, magia nera e quell'atteggiamento filosofico e distaccato che è la prerogativa di tanti suoi personaggi. E se manca, a Lovecraft, la sensibilità esasperata del suo idolo, è però vero che lui è il cronachista di altri tempi, di altri spazi: il suo tema è l'annichilimento totale dell'uomo, il suo schiacciamento, senza possibilità di palingenesi né di resurrezione. Divorziato da Sonia nel 1929, Lovecraft trascorre gli ultimi anni viaggiando: nella Nuova Inghilterra, a New York, in Canada, in alcuni Stati del
Sud. Le sue condizioni economiche sono sempre più precarie, vive sulla base della più rigida economia. Quando si sposta, lo fa con i mezzi meno costosi e a volte più elementari: del resto gli piace così, è anche questo un modo per tuffarsi nel passato. A casa lavora molto di notte, scrive lunghissime lettere, collabora con gli amici alla stesura di lunghi pastiches. È entusiasta del fatto che i colleghi vogliano imitarlo, inserirsi anche loro nel filone del "mito di Cthulhu" (locuzione che peraltro non è stata ancora inventata, ma che si riduce, nella corrispondenza scherzosa al riguardo, a frasi come Cthulhoid tales e simili). Attraverso lettere e incoraggiamenti l'influsso di HPL è determinante sui giovani autori: Robert Bloch, Fritz Leiber, Henry Kuttner e indirettamente Ray Bradbury. Buona parte della narrativa fantastica del dopoguerra è stata scritta tenendo presente l'esempio di Lovecraft. Malato di cancro all'intestino, evita di comunicarlo agli amici per non deprimerli e si fa ricoverare da solo al Jane Brown Memorial Hospital di Providence: è il marzo 1937. All'alba del 15 muore ed è sepolto nel cimitero di Swan Point, dove fino a qualche anno fa non esisteva una lapide che ne contrassegnasse la tomba. Ci ha pensato un gruppo di appassionati americani, guidati da Dirk Mosig: ora l'indicazione esiste e sul marmo funerario si legge la scritta I AM PROVIDENCE. 1927-1930 Reduce dal tormentato periodo newyorchese e da un matrimonio ormai in dissoluzione, H.P. Lovecraft si lascia alle spalle l'incubo della metropoli ostile, brulicante di razze e ben poco disposta ad accogliere un letterato di pochi mezzi e poca fortuna come lui e si ristabilisce a Providence, che dall'inizio del secolo è diventata la capitale del Rhode Island (quest'onore era stato diviso fino all'anno 1900 con Newport, l'altra importante città dello stato). A Providence, immerso nell'atmosfera che ama e che lui stesso, nelle sue pagine, contribuirà a rendere famosa, Lovecraft produce subito alcuni racconti importanti: The Call of Cthulhu, pubblicato nel volume II di quest'edizione e considerato il manifesto della sua nuova estetica dell'orrore; The Silver Key - che si può leggere come l'estremo atto di rifiuto nei confronti del tipo di vita materialistico e antiestetico della metropoli - e il romanzo "incompiuto" The Dream-Quest of Unknown Kadath, di cui Lovecraft non fu mai abbastanza soddisfatto per licenziarne una versione definitiva e con il quale chiudevamo il secondo volume di Tutti i racconti. The Silver Key e The Dream-Quest rappresentano un po' l'addio di Lo-
vecraft alla vena poetico-onirica dei racconti alla Dunsany, che si manifesterà in un'altra occasione soltanto: il romanzo breve Through the Gates of the Silver Key scritto in collaborazione con E. Hoffmann Price. Al posto degli impareggiabili tramonti e delle fatate città-giardino di quella produzione giovanile subentra la necessità di trarre meraviglie dal mondo che lo circonda, dalla stessa Providence che era servita da modello per la capitale fatata di The Dream-Quest of Unknown Kadath. Questa operazione, sperimentata già in alcuni racconti-chiave (The Shunned House, The Call of Cthulhu), si realizza appieno nell'opera più ambiziosa della carriera di Lovecraft fino a questo momento: il romanzo The Case of Charles Dexter Ward con cui si apre il presente volume. È un racconto complesso che unisce i principali motivi del fantastico di Lovecraft a un magnifico omaggio alla città di Providence, e che si chiude con una riflessione matura ma venata di amarezza sul senso della propria esistenza. Innanzi tutto Charles Dexter Ward è un romanzo di magia nera: il suo tema è la negromanzia, già in passato prediletta da Lovecraft e qui trattata come una disciplina rigorosa che insegue obbiettivi di portata cosmica. In un primo momento la magia di Joseph Curwen e dei suoi accoliti sembrerebbe un'altra faccia della scienza naturale, nello spirito che effettivamente guidò una parte degli alchimisti e perfino degli occultisti medievali, ma alla fine del romanzo risulta chiaro che il suo fine non è semplicemente di giungere alla conoscenza (come nel mito di Prometeo o in quello di Faust), quanto di stravolgere tutte le leggi dell'universo. I tre maghi del romanzo sanno di poter arrivare a tanto: e quando avranno dato la scalata ai cieli "con la violenza dell'uragano" nulla nel cosmo sarà più lo stesso. Un nuovo ordine, o forse un nuovo caos, regneranno sull'abisso. Sappiamo che per Lovecraft uno degli obbiettivi principali della narrativa fantastica è rompere la tirannide delle leggi di causa ed effetto a cui siamo sottoposti, farci avvertire "il fruscio di ali nere che si agitano oltre i confini dell'universo" e che proprio per questo spalancano visioni non solo cosmiche, ma anzi extra-cosmiche e ultra-cosmiche: visioni dell'impossibile concesse soltanto alla fantasia nei suoi paurosi giochi d'associazione. Affinché tutto questo ci coinvolga e ci procuri il brivido dell'arcano, di ciò che è assolutamente straordinario (e non semplicemente "meraviglioso" come nelle favole o "assurdo" come negli incubi), Lovecraft costruisce un'elaborata atmosfera volta a farci sperimentare direttamente il "timor sacro" di un'esperienza che in fondo trascende ogni altra. A questo mira l'elaborata costruzione dei suoi racconti, la densissima atmosfera, il fuoco di
fila verbale che, se a volte fallisce il suo obbiettivo, non è certo per economia di mezzi. Charles Dexter Ward contiene questi elementi e contiene l'idea, comune a molta letteratura gotica ma da Lovecraft giustificata in modo originale, per cui la sospensione delle leggi di natura debba essere accompagnata da un senso di scandalo, riprovazione e orrore. La differenza fra la narrativa lovecraftiana e quella dei suoi predecessori "neri" sta nella coscienza, tipica del nostro autore, che l'orrore non è legato soltanto a ragioni moralistiche o a scrupoli religiosi, ma alla ripugnanza che l'uomo illuminato avverte per la sfera dell'ignoto, da lui rimossa. In un mondo dove l'esperienza del trascendente è andata progressivamente affievolendosi, ciò che sfugge alla nostra comprensione viene condannato e maledetto, e la "ribellione dell'universo" alle nostre aspettative è vissuta come la morte stessa, assurda e senza speranza. In questo senso lo scandalo che Lovecraft descrive ha ben poco in comune con le preoccupazioni dei suoi predecessori vittoriani: esso rappresenta la difesa "impazzita" della civiltà nata dall'illuminismo dinanzi al mistero dell'esistenza. È per questo che nella seconda parte di Charles Dexter Ward ritroviamo l'atteggiamento non diremo moralistico, ma certo d'indignazione spirituale che caratterizza gran parte della produzione lovecraftiana, e che qui ci sembra espresso al meglio. Il simpatico dottor Willett che porta a termine la spaventosa missione contro Joseph Curwen è un uomo di oggi costretto a sottoporsi a un'esperienza lontana dal nostro spirito di "moderni": quella di avvicinarsi all'ignoto nel suo aspetto più radicale, cioè trascendente. Capace di reggere al terrore e allo scandalo cui le sue esperienze lo costringono, Willett esce dall'odissea a fronte alta come i più interessanti personaggi di Lovecraft: intellettuali e uomini d'immaginazione che hanno saputo riconoscere l'ignoto e non hanno esitato a varcare il confine che lo separa dalla nostra sfera limitata. L'esperienza dell'assoluto è tremenda, ma se anche alla fine l'ordine delle cose non è stato ricomposto, se anche bisogna prendere atto che la nostra condizione nel cosmo è inimmaginabile e traumatica (un punto di forza della poetica lovecraftiana), rimane il fatto che proprio il terribile ci ha portati un passo al di là dei nostri confini abituali, rivelandoci una sfera solo in parte materiale, solo in parte tangibile e concepibile: vale a dire, usando il termine nell'accezione più vasta, la sfera del "divino". Mi rendo conto che molti lettori, affezionati a un'immagine tradizionale di Lovecraft da lui stesso tramandata, e che si riassume nei due aggettivi
"razionalista" e "meccanicista", trasaliranno alla semplice menzione della parola; ma è innegabile che in una parte della sua opera serpeggi, accanto alla ricerca degli effetti estetici di straniamento e orrore, di evasione e lotta contro la banalità del reale, una riflessione sul religioso da cui, del resto, difficilmente può prescindere qualsiasi seria considerazione della letteratura gotica. Lo faceva osservare in modo convincente, in un bel volumetto del 1977, il professor Barton L. St. Armand, che andando alla ricerca delle Roots of Horror in the Fiction of H.P. Lovecraft (e cioè le radici dell'orrore nella narrativa lovecraftiana), si serviva di alcuni concetti tratti dagli studi sull'esperienza religiosa di Rudolf Otto: "Nonostante l'apparenza del contrario, l'essenza dell'horror lovecraftiano è costituita da un terrore di marca 'spirituale', ed è questa la sua radice più profonda: cercherò di dimostrarlo attraverso la griglia fornita da Rudolf Otto nel classico studio sul misticismo ortodosso e gli stati visionari ad esso connessi...". Lo studio in questione, L'idea del sacro (1923), è il tentativo di descrivere l'esperienza religiosa e la percezione della realtà suprema che da essa deriva così come si manifesta nelle varie fedi. In questo modo è possibile identificare l'elemento che ad esse è comune, e che potremmo definire lo "specifico fenomeno religioso". Inizialmente Otto seguì la via tracciata dal grande filosofo e teologo Friedrich Schleiermacher, che vedeva la religione quale irripetibile stato della coscienza e definiva quest'esperienza straordinaria come "il senso di assoluta dipendenza" dell'uomo. Rudolf Otto fu profondamente suggestionato dalla formulazione di Schleiermacher e gli attribuì il merito di aver riscoperto il sacro nell'èra post-illuministica. In seguito, tuttavia, gli parve che l'analogia del maestro evocasse troppo da vicino sentimenti ordinari e "naturali", e al concetto di dipendenza assoluta sostituì quello del "sentirsi creatura". È il sentirsi creatura che caratterizza l'esperienza religiosa, ma questo non è che uno dei due termini del problema, quello soggettivo. Il polo oggettivo, che "proietta il primo come un'ombra", è esterno alla nostra coscienza e Otto lo definisce come l'esperienza del Nume, ciò che è "completamente Altro". Si tratta di qualcosa che trascende del tutto la sfera mondana ed è più o meno equivalente ai termini tradizionali di "soprannaturale" e "trascendente". Quando noi sperimentiamo il divino, scrive Otto, siamo di fronte a "qualcosa per cui esiste una sola espressione adeguata, mysterium tremendum... come la bellezza di un componimento musicale non è razionale ed elude completamente l'analisi concettuale. Per questo può essere discusso
solo in termini simbolici". H.P. Lovecraft, potremmo dire con una formulazione un po' altisonante, appartiene a quel gruppo di intellettuali e di artisti che hanno "riscoperto il sacro", o almeno l'esperienza del timor sacro, nell'èra post-illuministica. Ciò non vuol dire che egli fosse necessariamente uno spirito religioso, ma che la strada innovativa da lui imboccata nell'ambito della letteratura fantastica lo facesse passare attraverso una precisa riflessione sull'idea del sacro e le esperienze psicologiche ad essa collegate. Del resto, fra l'esperienza del divino e quella del terrore così cara a Lovecraft esiste un nesso su cui il nostro autore si è soffermato consapevolmente. Nel saggio Supernatural Horror in Literature scrive infatti: la paura dell'ignoto "è contemporanea del sentimento religioso e strettamente legata a molti dei suoi aspetti; è una parte fondamentale della nostra più antica eredità biologica e per questo non perderà mai la sua importanza per una minoranza della nostra specie"'. "Il terrore - osserva Barton St.Armand - impone una ricerca di ciò che è 'completamente altro'... in termini propriamente semantici è un mezzo d'evoluzione verso l'ineffabile". Tenuto presente questo, noi sappiamo che nell'opera di Lovecraft esiste anche un altro polo: quello dell'orrore puro che, stando alle teorizzazioni formulate già nel Settecento dalla signora Radcliffe è l'opposto del terrore spirituale in quanto "restringe l'anima e l'annichilisce" invece di espanderla verso il sublime. E tuttavia nella narrativa lovecraftiana l'orrore non è che il contraltare della cosmic fear, la paura dell'anima di fronte a ciò che è "completamente altro". La discesa verso l'abisso è complementare all'apertura verso i misteri dell'infinito, e proprio un romanzo come Charles Dexter Ward ci mostra la singolare simmetria che esiste fra i due movimenti. Nel suo libro St. Armand si propone di mostrare - a mio avviso con successo - che l'orrore è lo strumento di una discesa nell'inconscio parallela ai viaggi nelle immensità di cui parlano i suoi racconti cosmici. "Orrore e terrore sono i mezzi visionari di cui Lovecraft si serve per infrangere le leggi eterne del tempo e dello spazio... l'orrore, discesa verso ciò che Lovecraft stesso definisce 'innominabile', svela e aggiunge una dimensione archetipale alla narrativa gotica". Tutta l'opera di HPL si muove fra i due poli estetici del terrore e l'orrore, fra l'esperienza di ciò che è "completamente Altro" e quella della discesa nel profondo; ancora una volta, in Charles Dexter Ward quest'ultima è simboleggiata dalla scoperta di misteriosi sotterranei e dall'abbandonarsi al passato, il tempo a cui tutto risale. Immediatamente dopo The Case of Charles Dexter Ward, anzi quello
stesso mese (marzo 1927), in un generoso slancio creativo Lovecraft dà vita a un altro capolavoro, The Colour Out of Space. È una delle storie più belle non solo per la magistrale economia stilistica che la contraddistingue, ma perché i misteri dei cieli così minacciosamente evocati da un "colore" che fa pensare ad Ambrose Bierce illuminano una tragedia umana di non minore entità. Servendosi dei suoi più efficaci mezzi evocativi (la descrizione del Massachusetts rurale, la valle del Miskatonic, la contea di Arkham) e aggiungendovi un elemento emozionante come lo spettacolo del cielo - capace da solo, in una notte stellata, di suscitare il terrore: quale più tipica sensazione di awe o timore reverenziale? - Lovecraft racconta un dramma inspiegabile e che colpisce senza discriminazione un gruppo di innocenti. Non è facile resistere alla tentazione di vedere questo bel racconto d'atmosfera come una versione lovecraftiana del Libro di Giobbe, anche se la speranza di un'ultima redenzione vi è del tutto assente. The Colour Out of Space viene generalmente considerato uno dei racconti "di fantascienza" scritti da Lovecraft: diremo meglio che è servito da spunto a numerosi racconti di fantascienza (fra cui The Tree of Life di Brian W. Aldiss). È certo, comunque, che la ricerca di Lovecraft lo sta portando verso una nuova regione dei cieli, e quindi verso nuove scoperte. Passa più di un anno prima che HPL metta mano a un nuovo racconto: The Dunwich Horror è dell'estate 1928. Potente epifania tutt'altro che priva di echi mitici, racconta la classica storia dell'unione fra un nume e una mortale. L'idea remota del racconto risale forse a Beyond the Wall of Sleep, una storia giovanile che i lettori troveranno nel primo volume di questa edizione; l'ambiente rurale è lo stesso e i protagonisti sono ancora una volta qualcosa di più che sempliciotti arretrati: sono i membri di una comunità campagnola che una sorta di inarrestabile decadenza ha trasformato in degenerati. Eppure, non sono soltanto le condizioni economiche o l'estremo isolamento ad aver prodotto questo terribile risultato: i Whateley, per esempio, erano una famiglia patrizia, e da qualche parte esiste ancora un ramo non decaduto. Ma i Whateley di Dunwich hanno abitudini malsane: conservano in casa grimori e libri occulti, si dice che praticassero la magia e durante certe stagioni dell'anno accendono misteriosi falò sulle colline, come un tempo facevano gli indiani. Per chi danzano? Chi vogliono propiziarsi o evocare? La risposta arriverà puntuale dai cieli, perfettamente in carattere con la maledizione di Dunwich e i grandiosi progetti della famiglia Whateley. Nel racconto domina ossessivo il tema della reversion to type, l'estrema
degenerazione che è uno dei motivi ricorrenti della narrativa di Lovecraft: da una parte esso risale allo shock prodotto sulla cultura occidentale dalle moderne teorie biologiche (alcuni esperti, e fra gli altri St. Armand, hanno mostrato come certi aspetti del darwinismo abbiano influito sullo sviluppo della fantascienza e della letteratura nera); dall'altra ripropone il motivo della maledizione ancestrale, uno dei tratti distintivi della letteratura puritana della Nuova Inghilterra: Lovecraft vi aggiunge la sua personale ricerca di ciò che è "completamente Altro", e The Dunwich Horror è un racconto che propone abbastanza direttamente il problema del confronto con il nume. Nel finale, uno dei più apocalittici e movimentati che Lovecraft abbia immaginato, ci è offerta la possibilità di sperimentare quest'incontro portentoso e di assistere a un esorcismo che è la versione "all'aria aperta" di quello che conclude Charles Dexter Ward. Ma gli dei tornano ad agitarsi in The Curse of Yig, scritto per Zealia Bishop, e perfino in The Electrical Executioner (in collaborazione con Adolphe de Castro). In questi anni Lovecraft intensifica la sua attività di revisore o correttore per conto di aspiranti scrittori, spesso riscrivendo le loro opere da cima a fondo. Unita all'imponente corrispondenza, questa attività ruba sempre più tempo ai suoi sforzi creativi. Dopo The Dunwich Horror passano due anni prima che Lovecraft scriva un'altra storia non legata all'attività di "ghost-writer": The Whisperer in Darkness, iniziato nel febbraio 1930, viene completato solo a settembre. Nei racconti più maturi di questi anni Lovecraft tocca il vertice della ricerca di ciò che è "assolutamente Altro". In seguito, un aspetto sempre più importante della sua personalità lo spinge a guardare altrove, a improntare la sua creatività anche ad altre esigenze. Con il tempo la tendenza al trascendente (sia pur nel senso che abbiamo detto) si unisce sempre più alla necessità di trovare una ragione nel cosmo, per quanto difforme e lontana dalla nostra. I mostri e i numi di Lovecraft hanno anch'essi una storia, naturale o innaturale che sia: e un poco alla volta HPL comincia a raccontarla, riprendendo le fila che aveva abbandonato nel deserto di The Nameless City. Nasce il sospetto che alcuni di essi non siano affatto numi, ma abitanti di mondi grotteschi che per l'ultima volta prestano alla fantasia dello scrittore il loro lato buio e impenetrabile. Un caso lampante è quello di The Whisperer in Darkness, racconto in cui la ricerca delle meraviglie dei cieli è effettuata attraverso gli espedienti di una storia per così dire "fantascientifica", anche se non priva di spessore mitico. Al contrario che in The Dunwich Horror, non sarà un nume a scen-
dere sul nostro mondo ma un mortale a intraprendere la via delle stelle, e con un mezzo affatto singolare. Le creature di Yuggoth, il nero pianeta di cui parla The Whisperer in Darkness, ci offrono il quadro di una vasta e complessa civiltà interplanetaria; non indegni di loro sono i progenitori della nostra specie che si annidano nel mondo sotterraneo di The Mound. In quest'ultimo racconto - scritto per Zealia Bishop - il mito di Cthulhu è ripensato in chiave fantascientifica e l'effetto finale è di orrore più che terrore sublime. Comincia, con queste storie, una fase della carriera di Lovecraft che culminerà con il romanzo At the Mountains of Madness e il racconto lungo The Shadow Out of Time, opere che in un certo senso prefigurano la fantascienza e per così dire "razionalizzano", ammesso che sia possibile, il portento del mysterium tremendum. Quello che mi preme sottolineare, tuttavia, è che Lovecraft non abbandona mai la ricerca del meraviglioso e del diverso, di ciò che è radicalmente altro; ed è questo a rendere la sua narrativa qualcosa di diverso dalla normale fantascienza, dal puro e semplice tale of terror. Mai come nei racconti scritti in questi anni ci accorgiamo che il suo è un genere autonomo, quasi autosufficiente: una sorta di cammino iniziatico praticabile anche dai profani, con un occhio alla magia nera e l'altro alle meraviglie dei cieli. Giuseppe Lippi Cronologia di Howard Phillips Lovecraft A cura di Kenneth Faig La presente cronologia della vita e delle opere di Lovecraft si basa essenzialmente sul materiale pubblicato, in particolare i cinque volumi delle Selected Letters; tuttavia, nei casi opportuni ho fatto uso di fonti inedite custodite nella Lovecraft Collection della John Hay Library (Brown University, Providence). Per quanto riguarda le citazioni bibliografiche, mi sono affidato principalmente alle bibliografie di George T. Wetzel e Robert E. Briney (SSR Publications, 1955; ristampa: The Strange Company, 1975) e di Jack L. Chalker (in The Dark Brotherhood and Other Pieces, Arkham House 1966), ma in caso di divergenza ho preferito le date citate nell'Index to the Weird Fiction Magazines di T.G.L. Cockroft e pubblicato a cura dell'autore a Lower Hutt, Nuova Zelanda, nel 1962-64 (rist. 1967). Per la datazione della narrativa di Lovecraft mi sono affidato alla ripro-
duzione olografa della "Chronology" da lui stesso redatta e pubblicata in facsimile alle pp. 224-225 del volume Lovecraft at Last di H.P. Lovecraft e Willis Conover (Carrollton Clark, 1975). Le ricerche effettuate in proposito mi hanno convinto che questa è la fonte più attendibile, anche per ciò che riguarda la progressione dei racconti all'interno di ciascun anno: nella mia cronologia, quindi, ho sempre relegato la narrativa alla fine dell'anno relativo, rispettando strettamente l'ordine stabilito da Lovecraft. In alcuni casi ho aggiunto tra parentesi la datazione più precisa (quando, ad esempio, è noto il mese o addirittura il giorno di redazione di un singolo racconto): queste informazioni derivano perlopiù dalle date poste in calce ai manoscritti o da lettere edite e inedite. Ulteriori ricerche nell'epistolario lovecraftiano dovrebbero rendere possibile una datazione ancora più esatta. Ho incluso nel corpo generale della cronologia i racconti giovanili, le cosiddette "revisioni" (almeno quelle di argomento fantastico) e i due romanzi rimasti inediti durante la vita di HPL, che invece l'autore ha omesso dall'elenco della propria produzione. Ho raggruppato in sezioni separate i racconti "ripudiati" dall'autore, ossia tutti quelli non inclusi nella citata "Chronology": è possibile che la loro successione all'interno dei singoli anni non risponda sempre al mio criterio. In genere ho evitato di sottolineare i rapporti tra la narrativa scritta in un dato anno e gli avvenimenti dell'anno stesso, preferendo lasciare la parola alle date. In alcuni casi, la successione cronologica dei lavori pubblicati postumi è problematica e potrà essere risolta solo da ulteriori ricerche presso il Copyright Office. Nelle pagine che seguono ho cercato di compendiare gli avvenimenti più importanti della vita di Lovecraft, ma altre ricerche basate sull'epistolario inedito dovrebbero permettere di arrivare a una cronologia più dettagliata. Spero che questa rappresenti un piccolo inizio. Kenneth Faig, jr. (1977) N.B. Per l'edizione italiana, oltre ad apportare i necessari aggiornamenti, si è divisa la cronologia di Faig in due parti: la prima termina con la morte di Lovecraft, mentre nella seconda è dato conto delle vicissitudini editoriali della sua opera. Per quanto riguarda i problemi di datazione ci siamo attenuti, in caso di divergenze, alle ultime ricerche di S.T.Joshi. (N.d.C). 1630 Arrivo del reverendo George Phillips (m. 1644) in America. Lovecraft fa-
ceva risalire i Phillips del Rhode Island a un figlio di questo personaggio, Michael Phillips di Newport (m. 1686), ma alcuni esperti di storia locale dubitano che esista un tale legame. Asaph Phillips (1764-1829), che nell'albero genealogico disegnato da Lovecraft figura come bisnipote di Michael, si trasferì a Foster, nel Rhode Island, fra il 1778 e il 1790; suo figlio Jeremiah Phillips (1800-1848) costruì uno dei primi mulini ad acqua di Foster, sul fiume Moosup, e morì per un incidente fra le sue pale. Il figlio di Jeremiah, Whipple V. Phillips (1833-1904), fu un intraprendente uomo d'affari nonché nonno materno di Lovecraft. Whipple Phillips guadagnò una fortuna con le sue proprietà del Rhode Island occidentale e si trasferì a Providence nel 1874. 1827 È la data, indicata da Lovecraft, dell'arrivo in America del suo bisnonno paterno, Joseph. (R. Alain Everts ha dichiarato che i registri d'immigrazione dicono altrimenti e che i Lovecraft sarebbero arrivati nel 1830-31.) Joseph Lovecraft e i suoi fratelli e sorelle emigrarono nel Nuovo Mondo dopo che il loro padre Thomas (1745-1826), di Minster Hall nei pressi di Newton-Abbott, Devonshire, fu costretto a vendere la sua proprietà nel 1823. Joseph Lovecraft si stabilì in un primo momento in Canada ma poco dopo si trasferì nel nord dello Stato di New York, dove morì. Il suo unico figlio, George (1815-1895), sposò Helen Allgood e da lei ebbe Winfield Scott Lovecraft, futuro padre dello scrittore; Winfield nacque a Rochester, nello Stato di New York, il 26 ottobre 1853. 1889 12 giugno. Winfield Scott Lovecraft (1853-1898), venditore per conto della Gorham Company di Providence - una casa di argentieri - sposa Sarah Susan Phillips (1857-1921), seconda figlia di Whipple e Robin A. Phillips. La cerimonia viene celebrata nella chiesa episcopale di San Paolo, a Boston. La prima dimora della coppia è alla periferia di Dorchester. 1890 Il 20 agosto, alle nove del mattino, Howard Phillips Lovecraft nasce nella casa dei nonni materni a Providence, nel Rhode Island, unico figlio di Winfield e Sarah Susan. 1890-1893
Durante questo periodo la famiglia Lovecraft vive nella zona di Boston, in appartamenti d'affitto. Fra il giugno e il luglio 1892 trascorre sette settimane in casa della poetessa Louise Imogen Guiney (1861-1920) ad Auburndale, nel Massachusetts. 1893 Aprile. Follia di Winfield Scott Lovecraft, che oltretutto è vittima di una paralisi. Viene rinchiuso nel Butler Hospital di Providence e Albert A. Baker (1862-1959) è nominato suo amministratore. 1893-1904 Lovecraft e sua madre si trasferiscono nella casa dei nonni Phillips al 194 di Angell Street, Providence. (Nel 1895 il numero civico verrà cambiato in 454.) Qui il futuro scrittore trascorre gli anni più felici dell'infanzia. Le zie materne si sposano: Annie Emeline con Edward F. Gamwell (1869-1936) nel 1897; Lillian Dolores con il dottor Franklin CClark (1847-1915) nel 1902. 1894 Lovecraft è in grado di leggere correntemente. Le fiabe dei fratelli Grimm e Le mille e una notte sono i suoi primi amori. La Mitologia di Bulfinch e la scoperta del mondo classico seguono nel 1897. Poe, Wells, Verne e le scienze naturali lo appassioneranno a partire dal 1898. 1896 26 gennaio. Morte della nonna materna Rhoby Alzada Phillips (nata Place, 1827-1896). Lovecraft, traumatizzato, sogna i "magri notturni" (nightgaunts), esseri d'incubo dei quali parlerà diffusamente nei suoi racconti e nelle lettere. I due primi racconti, il perduto The Noble Eavesdropper e The Little Glass Bottle (apparso per la prima volta nell'antologia The Shuttered Room and Other Pieces, Arkham House 1959) vengono scritti nel 1897. 1897 8 novembre. Primo componimento in versi di Lovecraft, The Poem of Ulysses or the Odyssey (manoscritto inedito, custodito presso la John Hay Library dell'Università di Providence).
1898 19 luglio. Morte di Winfield Scott Lovecraft. Albert A. Baker fungerà da amministratore del ragazzo dal 1899 al 1911. 1898 Nuovi sforzi nel campo della narrativa: The Secret Cave or John Lee's Adventure e The Mystery ofthe Grave-Yard or a Dead Man's Revenge (ora in Juvenilia, Necronomicon Press, West Warwick 1984). 1898-1903 Lovecraft frequenta saltuariamente la Slater Avenue School di Providence (1898-1899, 1902-1903); istitutori privati lo istruiscono negli intervalli. È di questi anni l'amicizia con i suoi migliori compagni d'infanzia, Chester e Harold Munroe. 1899 L'interesse di Lovecraft per le scienze fiorisce. Attrezza un laboratorio chimico nel seminterrato di Angell Street e pubblica il primo numero di una rivista duplicata con la carta carbone: è la "Scientific Gazette" del 4 marzo 1899. Negli anni 1903-1904 la "Gazette" esce ogni settimana e non verrà completamente abbandonata fino al 1909. 1899 Lovecraft e sua madre trascorrono le vacanze a Westminster, nel Massachusetts. 1901-1905 Lovecraft compone altri versi giovanili (manoscritti custoditi presso la John Hay Library): An Account in Verse of the Adventures of H. Lovecraft, Esq., Whilst Travelling on the W & B Branch NyNH & HRR in Jany. 1901, etc. (1901); Poemata Minora or Minor Poems (parte dei quali apparsi in "Tryout", apr. 1919); e De Triumpho Naturae: The Triumph of Nature over Northern Ignorance (1905). 1902 The Mysterious Ship (racconto, in Juvenilia, cit.) 1903-1904
Lovecraft continua a studiare con tutori privati. 1903 2 agosto. Appare il "Rhode Island Journal of Astronomy", il più voluminoso tra i periodici giovanili redatti da Lovecraft. Pubblicato settimanalmente nel 1903-1904 e riprodotto in carta carbone; ciclostilato nel 1905 (sempre con cadenza settimanale); passato a mensile nel 1906-1907; abbandonato nel 1909. 1904 Morte di Whipple V. Phillips, il nonno materno. Poco dopo Lovecraft e sua madre si trasferiscono in un appartamento al 598 di Angell Street e la casa di famiglia viene venduta. 1904-1924 Lovecraft vive nell'appartamento al piano terreno di Angell Street 598; dell'andamento della casa si occupa sua madre fra il 1904 e il 1919 e le due zie Annie e Lillian dal 1919 al '24. 1904-1908 Frequentazione irregolare della Hope Street High School (anni scolastici 1904-1905, 1906-1907, 1907-1908). Vari malesseri impediranno a Lovecraft di terminare le scuole e diplomarsi. 1904-1908 Produce numerosi racconti del brivido giovanili: ma solo The Beast in the Cave (21 aprile 1905) e The Alchemist (1908) sopravviveranno alla massiccia distruzione delle sue cose giovanili che l'autore effettuerà nel 1908. 1905-1906 Un esaurimento nervoso costringe Lovecraft a ritirarsi da scuola. R. Alain Everts attribuisce molti dei malesseri accusati da HPL nell'adolescenza e nella prima giovinezza a una grave caduta dal primo piano di una casa in costruzione che Lovecraft subì verso il 1905. 1906 3 giugno. Prima pubblicazione di Lovecraft: si tratta di una lettera del 27 maggio contro l'astrologia ospitata dal "Providence Sunday Journal". Una
seconda lettera (datata 16 luglio) esamina le prove a favore dell'esistenza di un pianeta trans-nettuniano e i possibili metodi per scoprirlo. La lettera viene pubblicata dallo "Scientific American" del 25 agosto 1906. 1906 27 luglio-28 dicembre. Lovecraft pubblica una serie di articoli astronomici sul "Pawtuxet Valley Gleaner", un settimanale di Phenix, West Warwick. (Verranno ristampati nel 1976 dalla Necronomicon Press di Marc A. Michaud: anche questa di West Warwick, Rhode Island.) Il "Gleaner" cessa le pubblicazioni alla fine del 1906. 1906-1908 Articoli astronomici mensili sul "Providence Morning Tribune" e il "Providence Evening Tribune"; il primo appare sull'"Evening Tribune" del 1 agosto 1906. La collaborazione cesserà verso la metà del 1908. 1907 The Picture (racconto perduto). 1908 Un esaurimento nervoso costringe Lovecraft a ritirarsi definitivamente da scuola, senza aver conseguito il diploma superiore. 1908-1913 Sono gli anni migliori dell'amicizia con Chester e Harold Munroe, Ronald Upham, Stuart Coleman ecc, molti dei quali conosciuti nell'infanzia o nella prima adolescenza. Nei pressi di Rehoboth, Massachusetts, Lovecraft e i suoi amici organizzano la Great Meadow Country Clubhouse per fare gite e scampagnate; grandi escursioni in bicicletta. 1909-1912 Corso per corrispondenza (International Correspondence Course, Scranton, Pennsylvania) e studi da privatista in chimica. Non li porterà a termine. Nel 1910 scrive un manuale intitolato Inorganic Chemistry, andato perduto. 1911 Lovecraft e sua madre subiscono un decisivo rovescio economico a causa
dei cattivi investimenti fatti da uno zio materno, Edwin E. Phillips. 1912-1917 Componimenti poetici in stile georgiano, che assorbono gran parte degli sforzi di Lovecraft in questo periodo. Nei primi tempi risente dell'influenza dello zio acquisito, il dr. Franklin C. Clark. 1912 4 marzo. Primi versi pubblicati: si tratta di Providence in 2000 A.D., un componimento ospitato sul "Providence Evening Bulletin". Altri versi appariranno sul "Providence Evening News" fra il 1915-1918. 1912 12 agosto. Lovecraft stila il testamento che verrà omologato nel 1937. 1913 Settembre. Nella rubrica della posta di "Argosy" comincia la controversia fra Lovecraft, John Russell e altri lettori sui meriti dello scrittore popolare Fred Jackson. La polemica durerà fino all'ottobre 1914 e si concluderà col reclutamento di Lovecraft nella United Amateur Press Association (UAPA) da parte di Edward F. Daas. 1914-1918 Articoli mensili di astronomia sul "Providence Evening News", a cominciare dal 1 gennaio 1914. Campagna contro l'astrologo Hartmann su un quotidiano di Providence (seconda metà del 1914). La collaborazione con l'"Evening News" si chiude con la vendita del giornale nel 1918. Un'altra serie di articoli astronomici appare sulla "Gazette-News" di Asheville (North Carolina) per interessamento di Chester Munroe (febbraio-maggio 1915). 1914 6 aprile. Lovecraft diventa membro della United Amateur Press Association. È attivo nel Providence Amateur Press Club, un gruppo di scrittori dilettanti e appassionati di giornalismo formato da studenti delle scuole serali. Ne fanno parte, tra gli altri, Victor L. Basinet e John T. Dunn (1914-1916). William B. Stoddard è il primo consocio che venga a far visita a Lovecraft da fuori Providence (1914).
ca. 1915 Comincia il lavoro di revisione letteraria per conto del poeta, conferenziere ed ecclesiastico David Van Bush, che per dieci anni rimarrà il cliente più fedele di Lovecraft in questo campo. HPL si mette in società con alcuni amici nel tentativo di organizzare il lavoro di revisione su vasta scala: con Anne Tillery Renshaw e la signora J.G. Smith forma il Symphony Literary Service (1917); con Maurice W. Moe il Molo (1919); con James Ferdinand Morton il Crafton Service Bureau (1924) e, con Frank Belknap Long, pubblica un annuncio per offrire i suoi servigi su "Weird Tales" (1928). Nonostante questi sforzi, la maggior parte dei clienti gli verranno da contatti privati e occasionali. Per tutto il corso della carriera Lovecraft ricaverà la maggior parte dei suoi introiti dal lavoro di revisione, solo una piccola parte del quale rientra nel campo del fantastico. 1915 Marzo. Pubblica il primo numero della rivista amatoriale "The Conservative", con una tiratura di 210 copie. Ne appariranno in tutto tredici numeri, l'ultimo dei quali datato luglio 1923. 1915 26 aprile. Muore il dr. Franklin C. Clark (1847-1915), marito della zia materna Lillian e mentore poetico di Lovecraft. 1915 Estate. Durante un convegno tenuto a Rocky Mount, North Carolina, HPL viene eletto vicepresidente dell'UAPA per l'anno 1915-1916. Leo Fritter è il presidente e Edward F. Daas coordinatore editoriale. Lovecraft pubblicherà numerosi interventi critici e ogni tanto racconti, poesie o saggi sull'organo dell'associazione, "The United Amateur" (anni 1914-1925). Questi scritti sono stati ristampati dalla Necronomicon Press di Marc Michaud col titolo Writings in the "United Amateur" (1976). 1915 Settembre. Su "The United Amateur" appare un breve profilo biografico di Lovecraft a firma di Andrew Francis Lockhart. 1916
Giugno. Prende vita il KLEICOMOLO, un club epistolare formato da Reinhardt Kleiner (1892-1949), Ira A. Cole, Maurice W. Moe (1882-1940) e HPL. Rimarrà attivo fino al 1918, per essere sostituito dal GALLOMO (Galpin, Lovecraft e Moe). L'attività di quest'ultimo cessa nel 1921. 1916 31 dicembre. Muore Phillips Gamwell (n. 1898), unico figlio di Edward e Annie Gamwell, la zia materna di HPL. Il cugino Phillips era l'unico membro della famiglia che appartenesse alla generazione di Lovecraft. 1917 Maggio. HPL si offre volontario per l'arruolamento nella Guardia Nazionale del Rhode Island, ma per intervento della madre viene respinto come non idoneo. Nel dicembre dello stesso anno viene riformato al servizio di leva. 1917 Estate. Durante il congresso di Chicago, Lovecraft viene eletto presidente dell'UAPA per l'anno 1917-1918. Verna McGooch viene eletta coordinatore editoriale. 1917 Giugno-luglio. Lovecraft ricomincia a scrivere narrativa dopo un intervallo di nove anni e per incitamento dell'amico W. Paul Cook (1881-1948), devoto giornalista dilettante e artefice delle riviste "The Monadnock Monthly" (1899, 1901 e 1905-1913), "The Vagrant" (1915-1923, con un ultimo numero spedito nel 1927), "The Recluse" (1927) e "The Ghost" (1943-1947). 1917 Settembre. W. Paul Cook va a trovare per la prima volta Lovecraft a Providence. 1917 Novembre. HPL chiede di entrare a far parte della National Amateur Press Association. Dopo lo scioglimento dell'UAPA nel 1925, la maggior parte dell'attività di Lovecraft si svolgerà in seno alla National, anche se per tutti gli anni Venti le sue iniziative in questo senso saranno ridotte al minimo.
Negli anni Trenta riprenderà a collaborare con i periodici amatoriali, e in particolare con il "Californian" di Hyman J. Bradofsky - in qualità di consulente poetico - e "Driftwind" di Walter J. Coates, come membro della redazione. 1917 Scrive i racconti: The Tomb (giugno. Prime pubblicazioni: "The Vagrant" del marzo 1922; "Weird Tales", gennaio 1926). Dagon (luglio. "The Vagrant", novembre 1919; "Weird Tales", ottobre 1923). 1917-1918 Scrive la poesia "Psychopompos" ("The Vagrant", ottobre 1919; "Weird Tales", settembre 1937). 1918-1920 Pubblica professionalmente alcune poesie in "The National Magazine" di Boston. 1918-1921 Lovecraft diffonde in Inghilterra la sua rivista manoscritta "Hesperia". Questa pubblicazione conteneva la conclusione di un racconto oggi perduto, The Mystery of Murdon Grange. 1918-1924 Clifford M. Eddy Jr. e sua moglie Muriel E. Eddy diventano gli amici più stretti di Lovecraft a Providence. Durante questo periodo lo scrittore revisiona per Clifford The Loved Dead (" Weird Tales", maggio/giugno/luglio 1924), Deaf, Dumb and Blind ("Weird Tales", aprile 1925), The Ghost Eater ("Weird Tales", aprile 1924) e Ashes ("Weird Tales", marzo 1924). Nell'ottobre 1926 Lovecraft e Eddy cominciano la stesura di un libro sulla superstizione per conto del mago Harry Houdini, ma il lavoro viene interrotto dall'improvvisa morte del mago, il 31 ottobre 1926. 1918 6 luglio. Reinhardt Kleiner visita HPL a Providence. 14 novembre. Morte di Edwin E. Phillips (1864-1918), l'unico figlio di Whipple V. Phillips. Non lascia eredi.
1918-1919 Lovecraft comincia la stesura del suo Commonplace Book, un taccuino pubblicato per la prima volta dalla Futile Press nel 1938 e ristampato nel volume della Arkham House Beyond the Wall of Sleep (1943). Nuova ed.: Necronomicon Press, 1987. 1918 Scrive il racconto: Polaris ("The Philosopher", dic. 1920; "Weird Tales", dic. 1937). 1919 Febbraio. Per la prima volta Lovecraft si reca di persona a un congresso della stampa dilettantesca. L'avvenimento si tiene a Boston e HPL ascolta una conferenza di Lord Dunsany. 1919-1921 Il nome di Lovecraft e quello dell'aspirante scrittrice Winifred Virginia Jackson (1876-1959), di Boston, vengono associati in quello che si ritiene un idillio sentimentale. In realtà HPL si limita a collaborare con lei ai racconti The Green Meadow (ca. 1919), apparso per la prima volta su "The Vagrant" della primavera 1927, e The Crawling Chaos (ca. 1920), apparso su "The United Cooperative" dell'aprile 1921. Oggi, come tutte le collaborazioni di HPL, sono ospitati nel volume The Horror in the Museum and Other Revisions, nuova ed. Arkham House 1989. 1919 Scrive i racconti: Beyond the Wall of Sleep ("Pine Cones", ott. 1919; "Weird Tales", marzo 1938); The White Ship ("The United Amateur", nov. 1919; "Weird Tales", mar. 1927); The Doom that Came to Sarnath (3 dicembre, manoscritto custodito alla John Hay Library; in "Scot", giugno 1920; "Marvel Tales", mar.-apr. 1935; "Weird Tales", giugno 1938); The Statement of Randolph Carter (dicembre; in "The Vagrant", maggio 1920; "Weird Tales", febbraio 1925). 1919 Racconti ripudiati: The Transition of Juan Romero (16 settembre, manoscritto custodito pres-
so la John Hay Library; prima pubbl. in Marginalia, Arkham House 1944); Memory (in "The United Cooperative", giugno 1919; Beyond the Wall of Sleep, cit). 1920 Marzo. Prima seria idea per un romanzo: il titolo progettato è The Club of the Seven Dreamers. Non si sa quanto sia andato avanti il lavoro, ma non ne esiste più traccia. 1920 Giugno. Edward F. Daas visita HPL a Providence. 1920 Estate. Al congresso di Columbus, Ohio, Lovecraft è eletto coordinatore editoriale dell'United Amateur Press Association. Alfred M. Galpin (19011984) è presidente. HPL ricopre la carica fino al 1925, ma la United è ormai agonizzante; sua moglie, Sonia Lovecraft, sarà presidente dal 1923 al 1925. 1920 Luglio, agosto e settembre. Lovecraft presenzia a tre diverse riunioni dell'Hub Club a Boston. Incontra per la prima volta i corrispondenti James Ferdinand Morton (1870-1941) e George Julian Houtain alla riunione di settembre. 1920-1921 Fa circolare i suoi racconti, in manoscritto, sia in Inghilterra che negli USA. Si serve di una rete denominata Transatlantic Circulator e difende diffusamente il suo Dagon dalle critiche dei lettori. (Il manoscritto di questa polemica è custodito presso la John Hay Library e in seguito è stato pubblicato come In Defense of Dagon: prima ed., parziale, in "Leaves" II, 1938). 1920 Scrive i racconti: The Terrible Old Man (in "Tryout", luglio 1921; "Weird Tales", agosto 1926); The Tree ("Tryout", ott. 1921; "Weird Tales", agosto 1938); The Cats of Ulthar (composto il 15 giugno. Manoscritto custodito presso la
collezione Grill; "Tryout", nov. 1920; "Weird Tales", febb. 1926); The Temple ("Weird Tales", sett. 1925); Arthur Jermyn ("The Wolverine", marzo e giugno 1921; "Weird Tales", col titolo The White Ape, apr. 1924); Celephaïs (composto il 12 novembre. "The Rainbow", apr. 1922; "Marvel Tales", maggio 1934; "Weird Tales", giugno-luglio 1939); From Beyond (composto il 16 novembre. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "The Fantasy Fan", giugno 1934; "Weird Tales", febb. 1938); The Picture in the House (composto il 12 dicembre. "The National Amateur", luglio 1919; "Weird Tales", gennaio 1924). 1920 Racconti ripudiati: Poetry and the Gods (in collaborazione con Anna Helen Crofts; "The United Amateur", sett. 1920; The Shuttered Room and Other Pieces, Arkham House, cit.; The Horror in the Museum and Other Revisions, Arkham House, cit.); The Street ("The Wolverine", dic. 1920; The Shuttered Room, cit.); Nyarlathotep ("The United Amateur", nov. 1920; Beyond the Wall of Sleep, Arkham House, cit.); Life and Death (oggi smarrita. Nel 1946 questa poesia in prosa fu scoperta da George Wetzel presso la Library of Amateur Journalism, allora presso l'Istituto Franklin di Philadelphia, e inclusa nelle bibliografie delle pubblicazioni dilettantesche di Lovecraft apparse su "Destiny", "Vagabond" e nella "Lovecraft Collector's Library". È annotata anche da Lane-Evans [1943], ma probabilmente rimase inedita e fu ripudiata dall'autore. Wetzel smarrì la collocazione precisa e a tutt'oggi, per quanto io ne sappia, Life and Death non è stata ritrovata). 1921 22 febbraio. Lovecraft partecipa a un congresso di giornalisti dilettanti a Boston e trascorre la sua prima notte fuori casa dal 1901. Il 12 marzo è di nuovo a Boston per un convegno. 1921 24 marzo. La madre Sarah Susan Phillips muore in seguito a un'operazione di cistifellea.
1921 Giugno. Lovecraft visita la signora M.A. Little a Portsmouth, New Hampshire, e C.W. Smith del "Tryout" ad Haverhill. 1921 Agosto. Nuova visita nel New Hampshire. 1921-1924 Fiorisce l'idillio con Sonia H. Greene (1883-1972), che Lovecraft incontra per la prima volta a Boston nell'estate 1921, durante un congresso dell'UAPA. In questo periodo HPL è spesso a Boston e non perde una sola convention. Il 4 e 5 settembre 1921 Sonia va a Providence per fare visita a Lovecraft e alle zie Annie e Lillian, con le quali egli vive dopo la morte della madre. 1921 HPL scrive i racconti: The Nameless City ("The Wolverine", nov. 1921; "Weird Tales", nov. 1938); The Quest of Iranon (composto il 28 febbraio. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "Galleon", luglio-agosto 1925; "Weird Tales", mar. 1939); The Moon Bog (composto in marzo. "Weird Tales", giugno 1926); The Outsider ("Weird Tales", aprile 1926); The Music of Erich Zann ("The National Amateur", mar. 1922; "Weird Tales", maggio 1925); 1921 Racconti ripudiati: Ex Oblivione ("The United Amateur", mar. 1921; Beyond the Wall of Sleep, Arkham House, cit.); The Other Gods (composto il 14 agosto. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "The Fantasy Fan", nov. 1933; "Weird Tales", ott. 1938). 1921-1922 Scrive il romanzo breve: Herbert West, Reanimator. Pubblicato in sei puntate sulla rivista semiprofessionale "Home Brew" di George Julian Houtain, sotto la dicitura "Gruesome Tales" e con i seguenti titoli (uno per ogni puntata): "From the
Dark" (febb. 1922; "Weird Tales", luglio 1942); "The Plague Demon" (mar. 1922; "Weird Tales", luglio 1942); "Six Shoots by Moonlight" (apr. 1922; "Weird Tales", sett. 1942); "The Scream of the Dead" (maggio 1922; "Weird Tales", nov. 1942); "The Horror from the Shadows" (giugno 1922; "Weird Tales", sett. 1943); "The Tomb-Legions" (luglio 1922; "Weird Tales", nov. 1943). 1922 6-12 aprile. Prima visita di Lovecraft a New York. Sonia mette a disposizione di HPL e dell'amico poeta Samuel Loveman (1887-1976) il suo appartamento al 259 di Parkside, Brooklyn. Kleiner e Morton conducono Lovecraft in giro per la metropoli e HPL incontra per la prima volta il suo giovane pupillo Frank Belknap Long (n. 1902). Lovecraft, Long e Morton visitano il cottage di Poe. 1922 Estate, viaggi: visita alla signora M.A. Little di Portsmouth, New Hampshire; nuovo incontro con Sonia Greene a Providence (giugno). Il 23 giugno HPL si reca al palazzo dei congressi di Boston per una conferenza di David V. Bush e in luglio incontra Sonia a Magnolia, nel Massachusetts. In agosto si spinge fino a Cleveland, Ohio, dove per la prima volta incontra di persona Alfred Galpin, altro amato pupillo. Tra agosto e settembre sarà nuovamente ospite di Sonia a New York. 1922 12 agosto. Comincia la corrispondenza con il poeta Clark Ashton Smith (1893-1961) di Auburn, California. I due uomini non si incontreranno mai. ca. 1922 Collabora con Sonia Greene ai racconti Four O'Clock e The Invisible Monster, quest'ultimo pubblicato anche su "Weird Tales" nel nov. 1923. Dopo essere stati inclusi nel volume Something About Cats, Arkham House, cit., si trovano ora permanentemente nella raccolta The Horror in the Museum and Other Revisions (Arkham House, cit.) 1922 Novembre. HPL viene nominato presidente della National Amateur Press Association per un periodo che terminerà nel luglio 1923; la decisione,
presa dal comitato esecutivo, segue le dimissioni di William Dowdell. Lovecraft accetta l'incarico in casa di George Julian Houtain, a New York. 1922 Dicembre. Viaggio a Boston con Edward Cole e Edith Miniter. HPL prosegue per Salem e Marblehead; vede per la prima volta Marblehead, ammantata di neve, alle quattro del pomeriggio del 17 dicembre 1922. 1922 Scrive i racconti: Hypnos ("The National Amateur", maggio 1923; "Weird Tales", numero del maggio/giugno/luglio 1924); The Hound (composto in settembre. "Weird Tales", febb. 1924. Il racconto è ispirato a una visita di HPL e Reinhardt Kleiner al cimitero della Chiesa Riformata Olandese di New York, il 16 sett. 1922); The Lurking Fear ("Home Brew", in quattro puntate: gennaio, febbraio, marzo e aprile 1923; "Weird Tales", giugno 1928). 1922 Racconti ripudiati: What the Moon Brings (composto il 5 giugno. Manoscritto custodito presso la John Hay Library. "The National Amateur", maggio 1923; Beyond the Wall of Sleep, Arkham House, cit); Azathoth (frammento di romanzo composto in giugno. "Leaves" II, 1938; Marginalia, Arkham House 1944). Nello stesso numero di "Leaves" Robert H. Barlow pubblicò altri due frammenti di Lovecraft, che intitolò rispettivamente The Descendant e The Book. In una lettera del 1938 tentò una datazione dei tre brani, collocandola intorno al 1922. Tutti e tre sono stati ristampati in Marginalia, cit., dove tuttavia Azathoth è datato "1922 circa", The Descendant "1926 circa" e The Book "1934 circa". Successivamente, i tre frammenti sono stati inseriti nell'edizione uniforme della narrativa di HPL. 1923 Marzo. Esce il primo numero di "Weird Tales"; ne appariranno 279 numeri fino alla cessazione nel sett. 1954 (ma in seguito più di un editore tenterà di resuscitarne le sorti, in genere con scarso successo. A tutt'oggi - gennaio 1989 - la numerazione è giunta comunque a 292). Durante la vita di Lovecraft costituirà il principale sbocco per la sua narrativa. La rivista è stata diretta da Edwin Baird (1923-1924), Otis A. Kline (numero del mag-
gio/giugno/luglio 1924), Farnsworth Wright (1924-1940) e Dorothy McIlwraith, (1940-1954). Direttori delle successive riprese: Sam Moskowitz (1973-1974, quattro numeri), Lin Carter (1980-1981, quattro numeri), Gil Lamont e Forrest Ackerman (1986, due numeri) e Darrell Schweitzer, George Scithers e John Betancourt (a partire dal 1988, tre numeri; pubblicazione tuttora in corso). 1923 Aprile. HPL esplora Danvers, nel Massachusetts, e la circostante "regione delle streghe". Sempre in aprile vengono pubblicati i Poetical Works of Jonathan E. Hoag, curati da Lovecraft, Morton e Loveman. Il tributo a Hoag sarà la prima composizione di HPL a vedere la luce in edizione rilegata. Jonathan E. Hoag (1831-1927) era un anziano poeta proveniente dal nord dello Stato di New York e legato al mondo della stampa amatoriale. 1923 Estate. Viaggi e visite di amici. In giugno HPL è di nuovo a Marblehead; il 3-4 luglio è a Boston per una riunione dell'Hub Club. Nel corso del mese Sonia lo raggiunge a Providence e insieme si recano in gita a Narragansett Pier, Rhode Island. Il 10 agosto Maurice W. Moe e HPL si incontrano per la prima volta di persona a Providence; sempre in agosto, gita a Portsmouth nel New Hampshire. 1923 Estate. In the Editor's Study, un saggio apparso sulla rivista di Lovecraft "The Conservative", ottiene i massimi onori della National Amateur Press Association. 1923 Autunno. Ampie esplorazioni di Providence e della campagna circostante, con C.M. Eddy e James Ferdinand Morton. 1923 Scrive i racconti: The Rats in the Walls ("Weird Tales", mar. 1924); The Unnamable ("The Vagrant", data non specificata nelle bibliografie Wetzel/Briney e Chalker/Owings; "Weird Tales", luglio 1925); The Festival ("Weird Tales", gennaio 1925).
1924 Febbraio. Scrive Under the Pyramids, un lungo racconto dell'orrore commissionatogli dal mago Houdini (del quale si finge un'avventura). Il dattiloscritto viene smarrito alla stazione di Providence mentre Lovecraft è sul punto di partire per New York, dove sposerà Sonia Greene. Bisogna ribattere il racconto durante la luna di miele; "Weird Tales" lo pubblicherà col titolo Imprisoned with the Pharaohs (numero di maggio/giugno/luglio 1924). 1924 3 marzo. Lovecraft e Sonia si sposano nella St. Paul's Chapel di New York. Luna di miele a Philadelphia, dopodiché i due coniugi si stabiliscono nell'appartamento di Sonia al 259 di Parkside, Brooklyn. 1924 Primavera. L'editore di "Weird Tales", Jacob Henneberger, offre a Lovecraft la direzione della rivista appena lasciata da Edwin Baird. HPL esita a trasferirsi a Chicago, dove hanno sede gli uffici, e il posto viene assegnato al collaboratore Farnsworth Wright. Lovecraft cerca invano lavoro a New York, 1924-1926. 1924-1926 Sono i giorni migliori del Kalem Club, a New York. Membri principali: George Kirk, Reinhardt Kleiner, Arthur Leeds, Frank Belknap Long, HPL, Samuel Loveman, Everett McNeil e James Ferdinand Morton. In seguito si uniranno Wilfred B. Talman, Herman C. Koenig e i fratelli Donald e Howard Wandrei. Lovecraft è attivo altresì nel Blue Pencil Club di New York, insieme a Kleiner, Morton e altri. 1924 Scrive il racconto: The Shunned House ("Weird Tales", ott. 1937; W. Paul Cook ne aveva fatto un'edizione privata nel 1928 per i tipi della Recluse Press, ma non era mai riuscito a distribuirla. Parte delle copie verranno rilegate e diffuse da Robert Barlow nel 1936, parte dalla Arkham House nel 1961). 1924
Inverno. HPL lavora al romanzo The House of the Worm (incompiuto, oggi perduto). 1925 1 gennaio. Sonia deve lasciare New York per approfittare di un'opportunità di lavoro nel Midwest. Lovecraft non la segue e affitta una camera al 169 di Clinton Street, sempre a Brooklyn (1925-1926). 1925 Aprile. Visite in Virginia e a Washington, D.C. 1925 Scrive i racconti: The Horror at Red Hook (composto il 2 agosto, manoscritto custodito presso la New York Public Library. "Weird Tales", genn. 1927); He (composto l'11 agosto. Dattiloscritto custodito presso la John Hay Library. "Weird Tales", sett. 1926); In the Vault ("Tryout", nov. 1925; "Weird Tales", apr. 1932). 1926 17 aprile. HPL torna a Providence, la sua città natale. Vive in un monolocale con servizi e una piccola alcova al primo piano di Barnes Street, 10 (1926-1933). La zia materna Lillian D. Clark (1856-1932) affitta un appartamento al secondo piano dello stesso edificio e assume il controllo della casa. 1926 Maggio. Esce The Materialist Today, che le bibliografie Wetzel/Briney e Chalker/Owings indicano come il primo opuscolo pubbl. da HPL. Si tratta di un saggio destinato a diffusione privata e pubblicato in sole 15 copie dalla Driftwind Press di Walter J. Coates. Il testo viene ripreso su "Driftwind" dell'ottobre 1926. 1926 Estate. HPL scrive il celebre saggio Supernatural Horror in Literature, la cui prima pubblicazione avviene sul "Recluse" di W. Paul Cook nel 1927. Ripreso a puntate, ma in forma incompleta, su "The Fantasy Fan" nel 1933-35, appare finalmente nel primo volume rilegato delle opere di Love-
craft, The Outsider and Others (Arkham House, 1939). Oggi è inserito in fondo al terzo dei tre tomi in cui si articola l'edizione uniforme americana, Dagon and Other Macabre Tales. 1926 Luglio. Comincia la corrispondenza con August W. Derleth (1909-1971) di Sauk City, Wisconsin. I due uomini non si incontreranno mai, ma in seguito Derleth fonderà la Arkham House al solo scopo di diventare l'editore di Lovecraft. 1926 Harry Houdini visita HPL a Providence. Lovecraft gli fa da "negro" per un articolo sull'astrologia di cui il mago ha urgente bisogno. Un libro commissionato con la stessa urgenza, e da intitolarsi The Cancer of Superstition, viene cominciato da Lovecraft e C.M. Eddy, ma interrotto per l'improvvisa morte del mago il 31 ottobre 1926. 1926 Ottobre. HPL e la zia più giovane, Mrs. Annie E. Gamwell (1866-1941), esplorano i luoghi ancestrali della famiglia Phillips nella valle del fiume Moosup, a Foster (Rhode Island). 1926 HPL scrive i racconti: Cool Air ("Tales of Magic and Mystery", mar. 1928; "Weird Tales", sett. 1939); The Call of Cthulhu (composto probabilmente in ottobre. " Weird Tales", febb. 1928); Pickman's Model ("Weird Tales", ott. 1927); The Silver Key ("Weird Tales", genn. 1929); The Strange High House in the Mist (composto il 9 novembre. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "Weird Tales", ott. 1931). 1926 Verso la fine dell'anno Sonia va a far visita a Lovecraft e alle zie e propone di stabilirsi a Providence, dove potrebbe mantenere l'intera famiglia con la sua attività nel campo della modisteria. Le zie rifiutano, mettendo fine ufficialmente al matrimonio.
1926-1927 Inverno. Lovecraft lavora a The Dream-Quest of Unknown Kadath, un romanzo breve terminato il 22 gennaio 1927. Durante la vita dell'autore rimane in manoscritto, tranne per una battitura parziale di Robert Barlow, e viene pubblicato per la prima volta dalla Arkham House nel 1943, in Beyond the Wall of Sleep, cit. 1927 Gennaio-marzo. Lovecraft scrive The Case of Charles Dexter Ward, un romanzo terminato il 1 marzo 1927. (Manoscritto custodito presso la John Hay Library.) Rimasto inedito in vita dell'autore, e battuto parzialmente a macchina dal volonteroso Robert Barlow, appare per la prima volta (in versione abbreviata) su "Weird Tales" nel maggio e luglio 1941. Ristampato in Beyond the Wall of Sleep, cit. 1927 Maggio. Comincia il lavoro di revisione per conto di una nuova cliente, la signora Zealia Bishop. Basandosi su semplici idee fornite dalla Bishop, Lovecraft scrive i seguenti racconti fantastici: The Curse of Yig (terminato il 9 marzo 1928; "Weird Tales", nov. 1929); The Mound (composto nell'inverno 1929-30; "Weird Tales", nov. 1940) e Medusa's Coil ("Weird Tales", genn. 1939). 1927 Estate. Viaggi e visite di amici. A luglio vengono a trovarlo a Providence Donald Wandrei, James Ferdinand Morton, Frank Belknap Long e famiglia, W. Paul Cook e H. Warner Munn. In agosto HPL va a far visita ad Arthur Goodenough nel Vermont; verso la fine dell'estate è la volta di una serie di gite nel New England, in particolare nel Maine. In settembre Wilfred B. Talman arriva a Providence. In ottobre-novembre è la volta di W. Paul Cook. 1927 Agosto. HPL cura una raccolta postuma di poesie del dilettante John Ravenor Bullen, dal titolo White Fire. 1927 Settembre. The Horror at Red Hook appare nel terzo volume della serie di
antologie "Not at Night", You'll Need a Night Light, a cura di Christine Campbell Thomson. L'editore è il londinese Selwyn & Blount. È la prima apparizione di un racconto di Lovecraft in edizione rilegata. 1927 Novembre. Comincia il lavoro di revisione per Adolphe Danziger de Castro. Tra il dicembre '27 e il gennaio '28 HPL rivede tre racconti tratti da un vecchio libro del cliente, In the Confessional and the Following (Western Authors' Publishing Association, New York and San Francisco, 1893). Due vengono accettati da "Weird Tales": The Last Test (nov. 1928) e The Electric Executioner (agosto 1930). Su preghiera di Lovecraft, Frank Belknap Long intraprende la revisione di un altro testo, Bierce and I, pubblicato nel 1929 dalla Century Company. 1927 2 novembre. In una lettera a Donald Wandrei Lovecraft descrive un sogno fatto recentemente ma in cui si vede proiettato in epoca romana. Il resoconto del sogno verrà pubblicato integralmente - col titolo The Very Old Folk - in "Scienti-Snaps" dell'estate 1940 e dalla Arkham House in Marginalia, cit. Frank Belknap Long ne inserirà alcune parti (riprese letteralmente) nel suo romanzo breve The Horror from the Hills ("Weird Tales", gennaio-marzo 1931). 1927 24 novembre. In una lettera a Donald Wandrei Lovecraft descrive il sogno che sta alla base del frammento The Thing in the Moonlight ("Bizarre", gennaio 1941; Marginalia, cit.). In Dagon and Other Macabre Tales, edizione 1965, questo frammento è datato 1934, ma presso la John Hay Library dell'Università di Providence non sembra esistere il relativo manoscritto: nella nuova edizione critica dei racconti, a cura di S.T. Joshi, il brano è stato soppresso come di dubbia paternità. 1927 Scrive il racconto: The Colour Out of Space ("Amazing Stories", sett. 1927). ca. 1927-28 Dicembre-gennaio. Sonia si reca a Providence per diverse settimane, in
modo da essere con Lovecraft durante le vacanze di Natale. Benché il matrimonio, di fatto, sia finito, i due coniugi non hanno ancora preso nessuna decisione ufficiale al riguardo. ca. 1928 Lettera a Maurice W. Moe che contiene la traccia del racconto Ibid: Lovecraft la rivedrà per la pubblicazione nel gennaio 1931, ma il testo apparirà postumo. ("O-Wash-Ta-Nong", genn. 1938; Beyond the Wall of Sleep, cit.) 1928 Primavera. Visita a Bernard A. Dwyer a West Shokan, nello Stato di New York. 1928 Primavera. White Fire di John Ravenor Bullen, e a cura di HPL, viene pubblicato dalla Recluse Press. 1928 Maggio-giugno: viaggi. In maggio HPL è a New York dove va a trovare la moglie Sonia, senza peraltro riprendere i rapporti coniugali. In giugno si reca per due settimane nel Vermont - a Bratdeboro - da Vrest Orton; prosegue il viaggio con W. Paul Cook per andare da Arthur Goodenough, nello stesso stato; lo ritroviamo ad Athol, Massachusetts, per una settimana, mentre Cook stampa The Shunned Home. Nella stessa località vive anche H. Warner Munn, popolare scrittore fantastico. A Wilbraham, Massachusetts, HPL incontra Evanore Beebe; in luglio fa una gita alla Shenandoah Valley e alle Endless Caverns. Torna a Providence alla fine del mese. 1928 Giugno. Scrive The Dunwich Horror ("Weird Tales", aprile 1929). 1928 Novembre. The Horror at Red Hook appare in "Not at Night", a cura di Herbert Asbury e pubblicato da Macy Masius, The Vanguard Press. È la seconda apparizione antologica di Lovecraft. 1928-1929 Rivede Doorways to Poetry di Maurice W. Moe, che sembra debba essere
pubblicato da Macmillan & Co. Il testo rimane inedito. 1928-1929 Inverno. Sonia Lovecraft comincia a far pressioni per ottenere un divorzio formale. 1929 Visita Samuel Loveman, a Boston. 1929 25 marzo. Per accontentare la moglie, Lovecraft presenta istanza di divorzio alla Corte Superiore di Providence. Quest'ultima si pronuncia a favore della richiesta, motivata da abbandono del tetto coniugale. La sentenza definitiva non verrà mai pronunciata, ma rimarrà in vigore quella preliminare. 1929 Aprile-maggio. Viaggi: a Yonkers, nello stato di New York, presso Vrest Orton; ad Athol, Massachusetts, in casa di W. Paul Cook; dai Long a New York; a Charleston, Norfolk, Williamsburg, Richmond, Fredericksburg, Washington, Philadelphia, New York, West Shokan (in casa di Bernard A. Dwyer), New Paltz, Albany, Troy; ad Athol, Massachusetts, da W. Paul Cook e H. Warner Munn; nel Vermont da Arthur Goodenough. Rientro a Providence a fine maggio. 1929 Agosto. Con la zia più giovane, Annie Gamwell, visita i luoghi legati al passato della famiglia Phillips, nella zona di Howard Hill a Foster. 1929 Pickman's Model appare nella quinta antologia della serie "Not at Night", By Daylight Only (Selwyn & Blount); verrà ristampato in Not at Night Omnibus, Selwyn & Blunt 1937. 1929 The Call of Cthulhu appare nell'antologia Beware After Dark!, a cura di T. Everett Harre e pubblicata dalla Macauley Company di New York.
ca. 1929 Lovecraft scrive la History and Chronology of the Necronomicon (pubblicata come opuscolo dalla Rebel Press, Oakman, Alabama 1938 e in Beyond the Wall of Sleep, cit.) 1929 23 novembre-3 dicembre. Sul "Providence Journal", nella rubrica "The Sideshow", vivace scambio di lettere tra Lovecraft e B.K. Hart sui temi della letteratura fantastica. Vengono pubblicati elenchi dei racconti preferiti da HPL, Frank Belknap Long e August Derleth. Hart minaccia rappresaglie perché Lovecraft, in The Call of Cthulbu, ha osato servirsi per scopi tremebondi di un suo vecchio indirizzo (Thomas Street n. 7, lo Studio Fleurde-Lys). HPL racconta l'esito della vicenda nella poesia The Messenger, pubblicata dallo stesso giornale il 3 dicembre. Cinque dei Fungi from Yuggoth, i noti sonetti di Lovecraft, verranno pubblicati nella pagina letteraria del "Providence Journal" (8 gennaio-14 marzo 1930). 1929-1930 27 dicembre-4 gennaio. HPL compone un ciclo di trentasei sonetti intitolati complessivamente Fungi from Yuggoth. Alcuni verranno pubblicati, durante la vita dell'autore, su riviste amatoriali, su "Weird Tales" e il "Providence Journal". Il progetto di raccoglierli in volume viene lasciato incompiuto da Robert Barlow nell'estate 1936. La prima edizione (meno di cento copie tirate al ciclostile) viene effettuata nel 1943 da William H. Evans per la Fantasy Amateur Press Association e ristampata in Beyond the Wall of Sleep, cit. 1930 Primavera. Forte lavoro di revisione per conto di Anne Tillery Renshaw e Woodburn Harris. 1930 Aprile-giugno. Viaggi. A fine aprile Lovecraft è a New York, il 4 maggio a Charleston e il 15 a Richmond. A partire dal 24-25 maggio è di nuovo a New York per due settimane. Il 5 giugno è a West Shokan, nello stato di New York, per far visita a Bernard A. Dwyer, quindi riparte alla volta di Athol e Worcester, Massachusetts. Il 19 giugno rientra a Providence.
1930 Estate. Inizia la corrispondenza con Robert Ervin Howard (1906-1936), altro autore fantastico pubblicato da "Weird Tales". Non si incontreranno mai. 1930 Agosto. Gita di tre giorni a Quebec, nel Canada. Durante il viaggio di ritorno attraversa Boston e Provincetown, Massachusetts. 1930 Ottobre. Lavora a un resoconto del viaggio estivo, A Description of the Town of Quebeck, etc.; il manoscritto (lungo 136 pagine) viene completato nel gennaio 1931. Prima pubblicazione in To Quebec and the Stars, a cura di L. Sprague de Camp (Donald M. Grant, 1976). 1930 Racconti: The Whisperer in Darkness (cominciato il 24 febbraio; terminato in prima stesura a Charleston, South Carolina, il 7 maggio; revisione compiuta a Providence entro il 26 settembre. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "Weird Tales", agosto 1931). 1931 Viaggi. A St. Augustine; a Dunedin (presso il reverendo Henry S. Whitehead, altro autore fantastico pubblicato da "Weird Tales"); a Key West; di nuovo a St. Augustine e a Savannah; a Charleston, Richmond e New York. Ritorno a Providence il 19 giugno. 1931 The Music of Erich Zann viene incluso nell'antologia Creeps by Night a cura di Dashiell Hammett e pubblicata dalla John Day Company, New York. L'anno dopo il libro viene ristampato in Inghilterra, da Gollancz, col titolo Modern Tales of Horror, il racconto di Lovecraft appare anche sul "London Evening Standard" del 24/10/1932. 1931 The Rats in the Walls appare nella sesta antologia della serie "Not at Night", Switch on the Light (Selwyn & Blount, Londra).
1931 Racconti: At the Mountains of Madness (composto fra il 24 febbraio e il 22 marzo. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "Astounding Stories" lo pubblicherà, in versione abbreviata, nei numeri di febbraio, marzo e aprile 1936). The Shadow Over Innsmouth (terminato il 3 dic. 1931. Manoscritto custodito presso la John Hay Library). Il lungo racconto vede la luce prima in un opuscolo pubblicato dalla Visionary Press di William Crawford (200 copie), poi nell'omnibus della Arkham House The Outsider and Others (1939) e quindi, in versione abbreviata, nei numeri di gennaio e marzo 1942 di "Weird Tales". ca. 1932 Comincia il lavoro di revisione per Hazel Heald. I seguenti racconti, tutti pubblicati sotto il nome della cliente, sono in gran parte frutto del lavoro di HPL: The Horror in the Burying Ground ("Weird Tales", maggio 1937); The Horror in the Museum ("Weird Tales", luglio 1933); The Men of Stone ("Wonder Stories", ott. 1932); Out of the Eons ("Weird Tales", aprile 1935) e Winged Death ("Weird Tales", marzo 1934). 1932 Marzo. Escursioni a Bristol e Warren, Rhode Island, in compagnia di Harry Brobst: è il miglior amico di Providence in questi ultimi anni. 1932 Ancora spostamenti: a New York, Roanoke, la Shenandoah Valley, Knoxwille, Chattanooga (con gita alla Lookout Mountain); a Memphis, Natchez, New Orleans (presso E. Hoffmann Price), Mobile, Montgomery, Atlanta, le due Caroline, Richmond, Fredericksburg, Washington, Annapolis, Philadelphia. Il 1 luglio HPL torna in fretta à Providence dopo aver appreso, per telegramma, che la zia Lillian D. Clark è gravemente ammalata. 1932 3 luglio. Muore Lillian D. Clark (1856-1932) all'età di 76 anni. 1932 Agosto-ottobre: altri viaggi. In agosto, durante la "guerra delle tariffe" scoppiata tra le compagnie che gestiscono i traghetti locali, HPL va spesso
a Newport; il 30 è a Boston, dove incontra W. Paul Cook. Il 31 è a Newburyport e in settembre a Montreal e a Quebec. In ottobre torna a Salem e a Marblehead. 1932 Autunno. Con Sonia nel Connecticut: gite a Farmington, Weathersfield e Hartford. È l'ultimo incontro tra Lovecraft e la sua ex-moglie. 1932 Ottobre. E. Hoffmann Price gli spedisce la prima stesura di Through the Gates of the Silver Key. 1932 23 novembre. Muore il reverendo Henry S. Whitehead (1882-1932), corrispondente di Lovecraft dal 1930 e suo ospite in Florida nel 1931. 1932 Narrativa: The Dreams in the Witch-House (terminato il 28 febbraio. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "Weird Tales", luglio 1933). 1932-1933 26 dicembre-2 gennaio. Visita di Natale ai Long, New York. 1933 Primavera. Lovecraft riscrive completamente Through the Gates of the Silver Key, il racconto mandatogli da Price. Apparirà con la firma di entrambi ("Weird Tales", luglio 1934). 1933 15 maggio. HPL si trasferisce dal numero 10 di Barnes Street al 66 di College Street, la sua ultima casa (1933-1937). Vi abiterà, al secondo piano, insieme con la zia Annie E. Gamwell. 1933 Luglio-ottobre. Il 14 giugno la signora Gamwell cade sulle scale del nuovo appartamento e si rompe una caviglia: costretta a letto, è assistita dal nipote.
1933 E. Hoffmann Price va a trovare Lovecraft a Providence; insieme, e sulla macchina di Price battezzata "Juggernaut", esplorano la regione del Narragansett. 1933 Luglio. La famiglia Long ed Helen V. Sully fanno visita a Lovecraft nella sua città. Con i Long HPL va in gita a Onset, nel Massachusetts. 1933 Agosto. James Ferdinand Morton è a Providence da Lovecraft. 1933 Settembre. Terza visita a Quebec. HPL rientra via Boston (con una visita a Cook), Salem e Marblehead. 1933 22 ottobre. In una lettera a Clark Ashton Smith Lovecraft descrive il sogno di un "prete malvagio". Il racconto omonimo, The Evil Clergyman, verrà ricavato dal contenuto di una lettera di HPL a Bernard A. Dwyer e pubblicato come The Wicked Clergyman su "Weird Tales" nell'aprile 1939. (Ristampa in Beyond the Wall of Sleep, cit.) Nella vecchia cronologia dei racconti di HPL (in Dagon and Other Macabre Tales, ediz. 1965), questo frammento veniva datato 1937, ma studi recenti hanno permesso di stabilire che la sua genesi risale, appunto, all'ottobre 1933. 1933 Narrativa: The Thing on the Doorstep (composto il 21, 22 e 23 agosto. Manoscritto custodito presso la John Hay Library; "Weird Tales", gennaio 1937). 1933-1934 Dicembre-gennaio. HPL ospite della famiglia Long a New York. Famosa riunione del Kalem Club. Incontro con Howard Wandrei, Herman C. Koenig, T. Everett Harre e, per la prima volta, Abraham Merritt. 1934
Aprile-luglio. Viaggi nel sud, via Charleston e Savannah; prolungata permanenza presso la famiglia di Robert H. Barlow a Cassia, in Florida (2 maggio-21 giugno). Poi a St. Augustine, Charleston, Richmond, Fredericksburg, Washington, Philadelphia. Ritorno a Providence il 10 luglio. 1934 Primavera. The Battle That Ended the Century, una parodia imbastita da Lovecraft e Barlow, viene spedita agli amici sotto forma di ciclostilato in due pagine. Ristampata in "The Acolyte" dell'autunno 1944 e in Something About Cats, Arkham House 1949. 1934 Estate. Tramite Herman C. Koenig Lovecraft scopre i racconti di William Hope Hodgson e rivede il saggio Supernatural Horror in Literature per includervi un esame dell'opera di questo autore. 1934 2-4 agosto. Nuova visita di Morton a Lovecraft: escursione insieme a Newport (4 agosto). HPL da solo a Boston e a Nantucket. 1934 Ottobre. Gite in Massachusetts e nel sud del Rhode Island con la macchina di Edward F. Cole. In novembre, visita a W. Paul Cook (Boston). 1934 Autunno. Lovecraft comincia a lavorare a The Shadow Out of Time. Parecchie stesure distrutte prima della versione definitiva. 1934-1935 30 dicembre-7 gennaio. Ospite della famiglia Long a New York. Riunione del Kalem Club. 1935 2-3 marzo e 27-28 aprile. Visite di Robert E. Moe (figlio di Maurice W. Moe). 1935 3-5 maggio. Gite a Marblehead e Boston con Edward F. Cole.
1935 25 maggio. Charles D. Hornig, curatore della rivista "The Fantasy Fan", visita HPL nella sua casa di Providence. 1935 Giugno-settembre. Viaggi a sud: Fredericksburg, Charleston, Savannah e Jacksonville. Prolungata permanenza presso la famiglia di Robert H. Barlow a Cassia, in Florida (9 giugno-18 agosto). Durante questa visita HPL aiuta Barlow a comporre per la stampa The Goblin Tower, una raccolta di poesie di Frank Belknap Long. Riprende il viaggio: St. Augustine, Charleston, Richmond, Washington, Philadelphia, New York. Qui è ospite per due settimane di Donald Wandrei (1-14 settembre, giorno del suo rientro a Providence). 1935 Estate. HPL scrive la sua parte della "round-robin-story" The Challenge From Beyond, commissionata dal "Fantasy Magazine" (sett. 1935). Il racconto viene ristampato in Beyond the Wall of Sleep, cit. 1935 Settembre. Revisione di The Diary of Alonzo Typer per conto di William Lumley ("Weird Tales", febb. 1938). 1935 20-23 settembre. Visita a Edward F. Cole (Boston). 1935 8 ottobre. A New Haven, Connecticut, con alcuni amici della zia Annie. Il 16-18 ottobre HPL è a Boston, presso il poeta Samuel Loveman. 1935 Autunno. Kenneth Sterling e famiglia si trasferiscono a Providence, dove Sterling stringe amicizia con Lovecraft. Insieme scrivono il racconto In the Walls of Eryx ("Weird Tales", ott. 1939). 1935 Narrativa: The Shadow Out of Time (terminato il 24 febbraio; "Astounding
Stories", in versione abbreviata, giugno 1936). The Haunter of the Dark (composto dal 5 al 10 novembre; "Weird Tales", dic. 1936). 1935-1936 30 dicembre-7 gennaio. Ultima visita alla famiglia Long, New York. Riunione del Kalem Club. Lovecraft riceve in regalo una copia dell'opuscolo The Cats of Ulthar, che contiene il suo racconto e che Robert H. Barlow ha stampato a sorpresa in 42 esemplari. Per Frank Belknap Long il regalo è una copia di The Goblin Tower, tirato da Barlow in 100 esemplari. 1936 Marzo-aprile. Seria malattia della signora Gamwell, che ritorna all'appartamento di College Street ma dev'essere accudita da HPL per tutta l'estate. 1936 Primavera. Herman C. Koenig pubblica il resoconto di viaggio Charleston, di cui è autore Lovecraft, in un'edizione ciclostilata di circa 50 copie; rist. in Marginalia, Arkham House 1944. 1936 Estate-autunno. HPL lavora alla revisione di Well Bred Speech per conto di Anne Tillery Renshaw. Il saggio Suggestions for a Reading Guide (manoscritto custodito presso la John Hay Library; prima pubbl. in The Dark Brotherhood and Other Pieces, Arkham House 1966) viene scritto da Lovecraft come capitolo finale di questo libro ma non sarà usato. Una versione ridotta appare nell'autunno 1936 (seconda ed. 1940). 1936 11 giugno. Suicidio di Robert Ervin Howard (1906-1936). Lovecraft scrive un articolo commemorativo per "Fantasy Magazine" (sett. 1936), poi ristampato in Skull-Face and Others, Arkham House 1946. 1936 28 luglio-1 settembre. Robert H. Barlow viene a Providence per far visita a Lovecraft. Adolphe de Castro si unisce loro dal 6 al 10 agosto e insieme, nel St. John's Churchyard, compongono tre sonetti acrostici in memoria di
Edgar Allan Poe (7 ago.). Maurice W. Moe ne aggiunge un altro e li ciclostila col titolo Four Acrostic Sonnets on Poe: li distribuirà tra i suoi alunni nell'autunno 1936. 1936 9 ottobre. HPL si reca a una riunione degli Skyscrapers, un gruppo di appassionati d'astronomia vagamente appoggiato dalla Brown University. Negli ultimi mesi di vita si riaccende l'antico amore di Lovecraft per l'astronomia. 1936 Ottobre-novembre. Escursioni sulla Neutaconkanut Hill, a Providence. Alcune descrizioni di Lovecraft verranno riprese da August Derleth in The Lamp of Alhazred. 1936 Autunno. La signora Gamwell trova, nello studio di Lovecraft, una serie di "Istruzioni in caso di decesso". 1936-1937 Dicembre-marzo. L'ultima malattia, diagnosticata in marzo come cancro dell'intestino. Il 10 marzo Lovecraft viene ricoverato al Jane Brown Memorial Hospital, una branca del Rhode Island Hospital. La morte sopraggiunge il 15, alle sei del mattino circa. Il seppellimento viene effettuato il 18 marzo nello Swan Point Cemetery, alla presenza della signora Gamwell, Edna W. Lewis, Ethel Phillips Morrish e Edward F. Cole. Fortuna di Lovecraft A cura di Kenneth Faig (aggiornamento di Giuseppe Lippi) 1937 Marzo-aprile. Robert H. Barlow (1918-1951), designato esecutore letterario di Lovecraft nelle "Istruzioni in caso di decesso", arriva a Providence per fare l'inventario dei manoscritti; in un arco di tempo che va dal 1937 al 1942 li donerà alla John Hay Library, con l'eccezione di The Shadow Out of Time. Proprio questi manoscritti costituiranno il nucleo della Collezione Lovecraft che la Brown University amplierà progressivamente negli anni;
alla morte di Barlow, nel 1951, la sua famiglia affiderà alla John Hay tutte le lettere indirizzate a Robert da HPL. 1937 26 marzo. Barlow raggiunge un accordo formale con la signora Gamwell per occuparsi dell'opera letteraria di Lovecraft. 1937 Estate. Hyman Bradofsky pubblica un numero commemorativo del suo "Californian" dedicato a HPL. Corwin Strickney pubblica un opuscolo di versi "in memoriam" intitolato HPL. 1937-1943 Numerosi racconti di Lovecraft venduti da August Derleth a "Weird Tales" per conto della signora Gamwell. 1938 Maggio-giugno. Il Commonplace Book, ovvero il taccuino dello scrittore, viene pubblicato dalla Futile Press di Lakeport, California, in un'edizione di circa 75 copie a cura di Robert H. Barlow. 1938 19 ottobre. Albert A. Baker, esecutore legale della proprietà Lovecraft, riconosce la posizione di Barlow a condizione che continui a collaborare con August Derleth e Donald Wandrei nella pubblicazione degli scritti di HPL per conto della signora Gamwell. 1939 August Derleth e Donald Wandrei fondano la Arkham House, una casa editrice che si prefigge, inizialmente, di pubblicare solo le opere di Lovecraft. Il primo volume è un omnibus di 553 pagine intitolato The Outsider and Otbers, pronto in novembre con una tiratura di 1268 esemplari. In seguito la casa espande i suoi programmi e si dedica alla pubblicazione di altri autori fantastici: lo stesso Derleth e Clark Ashton Smith (1941,1942). A causa della guerra Donald Wandrei è costretto a rompere i ponti con la Arkham House, tranne per quel che riguarda la redazione delle opere di Lovecraft (1942).
1940 Edward F. Cole pubblica un numero speciale della sua rivista, "Olympian", in memoria di HPL. 1941 30 gennaio. Morte di Annie E. Gamwell (1866-1941), per cancro. In un testamento del 1940 la signora aveva disposto che i diritti d'autore maturati dalla vendita di The Outsider and Others andassero a Derleth e Wandrei. I rimanenti diritti sarebbero stati divisi in parti uguali tra Edna W. Lewis ed Ethel Phillips Morrish. 1941 Pubblicazione di In memoriam: Howard Phillips Lovecraft. Recollections, Appreciations, Estimates di W. Paul Cook (Driftwind Press). Ristampato in Beyond the Wall of Sleep, Arkham House, cit., e nel 1977 dalla Necronomicon Press di Marc Michaud. Nei cinque numeri della sua rivista "The Ghost" (1943-1947) Cook pubblicherà molto materiale legato alla figura di Lovecraft. 1942-1946 Francis Towner Laney (1914-1958) pubblica la rivista "The Acolyte", dando vita alla prima ondata del cosiddetto fandom lovecraftiano. Nei cataloghi dei librai le poche copie reperibili di The Outsider and Others arrivano al prezzo astronomico di 100 dollari. 1943 Pubblicazione di Beyond the Wall of Sleep, Arkham House. 1943 The Rats in the Walls e The Dunwich Horror vengono inclusi nell'antologia Great Tales of Terror and the Supernatural, a cura di Herbert Wise e Phyllis Fraser (Random House, nella serie Modern Library). Immediatamente dopo l'apparizione di questo volume le ultime copie dell'omnibus di Lovecraft si esauriscono del tutto. 1943 Robert Barlow invia alla rivista "Golden Atom", pubblicata da Larry Farsaci, gli appunti presi da HPL per due racconti mai scritti. Farsaci li ospita
nel numero dell'inverno '43: si tratta di The Round Tower (poi steso da Derleth e inserito in The Lurker at the Threshold) e Other Notes (steso da Derleth e inserito in The Watchers Out of Time). 1943 26 dicembre. Winfield Townley Scott (1910-1968), caposervizio letterario del "Providence Journal", pubblica nel suo quotidiano The Case of Howard Phillips Lovecraft of Providence, R.I., che verrà ripreso e ampliato, col titolo His Own Most Fantastic Creation, in Marginalia, Arkham House 1944. È il primo, lungo saggio biografico su HPL. Scott pubblicherà altro materiale riguardante Lovecraft nella sua rubrica fissa sul "Journal", "Bookman's Gallery" (1944-1948). 1944 Pubblicazione di Marginalia, Arkham House. In questo volume vengono ufficialmente attribuite a Lovecraft alcune delle sue numerose "revisioni". Il libro è completato da saggi di e su HPL, nonché materiale biografico. 1945 Pubblicazione dell'antologia Best Supernatural Stories of H.P. Lovecraft, World, Cleveland. È la prima edizione paperback. 1945 Pubblicazione di The Lurker at the Threshold, Arkham House. È la prima delle cosiddette "collaborazioni postume" tra l'ignaro Lovecraft e il suo editore Derleth. In realtà il testo è di Derleth al 100% e trae spunto da suggestioni lovecraftiane. 1945 Pubblicazione di HPL: A Memoir di August Derleth (Ben Abramson, New York). Breve volumetto di 122 pagine. 1945 Esce Rhode Island on Lovecraft a cura di Donald M. Grant e Thomas P. Hadley (Grant-Hadley Publications, Providence). 1945 Esce in volume Supernatural Horror in Literature, il noto saggio di HPL
(Ben Abramson, New York). 1945 24 novembre. Appare sul "New Yorker" il famoso saggio critico di Edmund Wilson dedicato a Lovecraft, Tales of the Marvellous and the Ridiculous. 1946 George Wetzel intraprende una ricerca bibliografica sulle apparizioni di HPL nelle riviste amatoriali e per farlo si basa sul materiale custodito dalla Library of Amateur Journalism, allora presso l'Istituto Franklin di Philadelphia. (Nel 1964 trasferita al reparto Special Collections della Biblioteca dell'Università di New York.) Le ricerche di Wetzel continuano nel 195153. All'inizio degli anni Cinquanta bibliografie parziali appaiono sulle riviste amatoriali "Destiny" e "Vagabond" e i risultati vengono compendiati nel vol. VII della Lovecraft Collector's Library, 1955 (vedere sotto). 1947 "Weird Tales" attribuisce il copyright della maggior parte dei racconti di Lovecraft ad August Derleth e Donald Wandrei. 1949 Pubblicazione di Something About Cats and Other Pieces, Arkham House. Il volume contiene revisioni, saggi e poesie di Lovecraft, più una serie di interventi critico/biografici ad opera di vari autori. (Fa spicco il saggio di Fritz Leiber A Literary Copernicus). 1950 James Warren Thomas porta a termine la prima tesi su HPL, discussa alla Brown University e di carattere eminentemente biografico. Verrà parzialmente pubblicata in "Fresco" (1958-59). 1951 Suicidio di Robert H. Barlow ad Azcapotzalco, in Messico. 1951 Victor Gollancz importa Lovecraft in Inghilterra pubblicando The Haunter of the Dark and Other Tales of Horror. La Panther Books provvederà alle
edizioni tascabili, ma solo a partire dal 1963. 1953-1955 Appare la Lovecraft Collector's Library, edita dalla SSR Publications di North Tonawanda, New York. Si tratta di sette volumetti a cura di George Wetzel e diffusi in edizione ciclostilata da 75 copie. Ristampa: The Strange Company (R. Alain Everts), Madison, Wisconsin, 1975. 1954 Le Editions Denoël intraprendono la traduzione di Lovecraft in francese (a cura di Jacques Papy). 1955 Pubblicazione di The Dream-Quest of Unknown Kadath (Shroud Publishers, Buffalo, N.Y.). 1957 The Survivor and Others (Arkham House). Una nuova raccolta di "collaborazioni postume" tra HPL e Derleth. 1958 Primavera. Numero speciale di "Fresco": Howard Phillips Lovecraft Memorial Symposium. La rivista è il trimestrale dell'università di Detroit a cura di Steve Eisner. 1959 Some Notes on H.P. Lovecraft di August Derleth (Arkham House). 1959 The Shuttered Room and Other Pieces, Arkham House. Questo volume non è tanto importante per le "collaborazioni postume" imbastite da Derleth e qui raccolte, quanto per la pubblicazione di alcuni racconti giovanili di HPL che per la prima volta vedono la luce. 1961 Jack L. Chalker comincia le pubblicazioni di "Mirage" (originariamente battezzata "Kaleidoscope"), la più notevole rivista amatoriale dedicata a Lovecraft e argomenti affini dopo "The Acolyte". Verso la metà degli anni
Sessanta seguiranno "Haunted" (a cura di Samuel Russell) e "Lore" (a cura di Gerald W. Page). Ma il secondo periodo d'oro del fandom lovecraftiano inizierà solo negli anni Settanta, con le riviste "Nyctalops" di Harry O. Morris, "The Dark Brotherhood Journal" di George T. Record, "Shadow" e "Bibliotheca: HPL" di David A. Sutton (con molti testi su Lovecraft di Eddy C. Bertin), "HPL" di Meade e Penny Frierson, "Whispers" di Stuart David Schiff, "The Miskatonic" di Dirk W. Mosig e l'attività delle case editrici amatoriali The Esoteric Order of Dagon (fondata da Roger Bryant nel 1973) e Necronomicon (fondata da R. Alain Everts nel 1975). 1962 Esce la New H.P. Lovecraft Bibliography a cura di Jack L. Chalker (ed. Anthem Fantasy Library, Baltimora). 1962 Esce il volume Dreams and Fancies (Arkham House). 1962 Arthur Koki prepara una tesi biografica su HPL e la discute alla Columbia University (tit. : H.P. Lovecraft, an Introducion to His Life and Writings). Numerose tesi universitarie seguiranno negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. 1962 Il noto saggista inglese Colin Wilson parla di Lovecraft nel suo libro The Strength to Dream. 1963 Roger Corman realizza il primo (e forse, a tutt'oggi, il migliore) adattamento cinematografico da Lovecraft: The Haunted Palace (in Italia La città dei mostri). Sceneggiato da Charles Beaumont e interpretato da Vincent Price, è liberamente tratto da The Case of Charles Dexter Ward. Seguiranno: Die, Monster, Die di Daniel Haller (1965, in Italia La morte dall'occhio di cristallo), interpretato da Boris Karloff e tratto da The Colour Out of Space; The Shuttered Room di David Green (1966, in Italia La porta sbarrata), con Gig Young, Oliver Reed, Carol Lynley e basata sul racconto di Derleth-Lovecraft; The Dunwich Horror di Daniel Haller (1969, in Italia Le vergini di Dunwich), tratto dal racconto omonimo; Re-animator
di Stuart Gordon (1985, da Herbert West, Reanimator). 1963-1965 La narrativa di HPL viene ripubblicata in tre volumi dall'Arkham House dopo essere stata esaurita per molti anni. I titoli: The Dunwich Horror and Others (1963), At the Mountains of Madness and Other Novels (1964) e Dagon and Other Macabre Tales (1965). Insieme all'epistolario scelto, di cui v. sotto, i tre volumi verranno costantemente ristampati e negli anni Ottanta ne apparirà una nuova edizione critica. Le case editrici Lancer e Berkeley danno il via alle edizioni americane tascabili (1963); nuove edizioni, più complete, usciranno dalla Beagle e dalla Ballantine Books negli anni Settanta. 1963 Esce il volume Collected Poems di HPL, pubblicato dalla Arkham House. 1963 Esce la Autobiography of a Nonentity di HPL, pubblicata dalla Arkham House. 1963 Esce H.P. Lovecraft: A Symposium a cura di Leland Shapiro, con note di August Derleth (Los Angeles Science Fiction Society). 1965-1976 Escono, in cinque volumi, le Selected Letters di HPL (Arkham House): I, 1965; II, 1968; III, 1971; IV e V, 1976. I primi tre volumi sono a cura di August Derleth e Donald Wandrei; gli ultimi due di August Derleth e James Turner. 1965 Esce Mirage on Lovecraft a cura di Jack L. Chalker (Mirage Publications). 1966 Esce The Dark Brotherhood and Other Pieces (Arkham House). Il volume contiene una miscellanea di revisioni effettuate da Lovecraft per conto dei suoi amici e clienti; una "collaborazione postuma" tra HPL e August Derleth; saggi e poesie di Lovecraft; racconti e reminiscenze dei numerosi di-
scepoli (in particolare C.M. Eddy) e il bell'omaggio di Fritz Leiber To Arkham and the Stars. 1966 H.P. Lovecraft: The House and the Shadows di J. Vernon Shea viene pubblicato in "The Magazine of Fantasy and Science Fiction". 1968 La Mirage Press ristampa l'omaggio a Lovecraft di W. Paul Cook, apparso originariamente nel 1941. 1969 Esce in Francia il ricchissimo volume critico-biografico Lovecraft, nella serie dei Cahiers de l'Herne (a cura di Francois Truchaud). È una vasta antologia di materiale americano ed europeo, con alcuni testi dello stesso Lovecraft. 1970 Esce l'antologia The Horror in the Museum and Other Revisions, in cui la Arkham House raccoglie tutte le revisioni di Lovecraft, i racconti scritti in collaborazione e per conto terzi, che in precedenza erano apparsi in volumi diversi come Marginalia e Something About Cats. 1971 4 luglio. Muore August Derleth (1909-1971), proprietario dell'Arkham House. I suoi eredi decidono di continuare l'attività della casa editrice e la trasformano in società per azioni. La dirigeranno Donald Wandrei (dal 1971 al 1973) e James Turner (dal 1974 ad oggi). 1972 Esce in Francia il saggio Lovecraft di Maurice Lévy (Union Générale d'Editions). 1972 Esce Lovecraft: A Look Behind the Cthulhu Mythos di Lin Carter (Ballantine Books). Pubblicato direttamente in tascabile, questo breve saggio offre una biografia di Lovecraft e un ragguaglio tematico sui racconti principali.
1972 26 dicembre. Muore a Sunland (California) Sonia H. Davis, ex signora Lovecraft. Ha 89 anni. 1973 Esce A Reader's Guide to the Cthulhu Mythos di Edward P. Berglund e Robert Weinberg (Silver Scarab Press). È una bibliografia ragionata dei racconti che rientrano nel cosiddetto "ciclo di Cthulhu". 1973 Esce The Revised H.P. Lovecraft Bibliography di Mark Owings e Jack L. Chalker. 1973 Nuova edizione di Supernatural Horror in Literature (Dover Books, N.Y.). 1974 Esce The Watchers Out of Time and Others, la raccolta che compendia tutte le "collaborazioni postume" Lovecraft-Derleth (Arkham House). 1975 Pubblicazione della prima, lunga biografia dello scrittore: Lovecraft di L. Sprague de Camp (Doubleday, New York. Edizione tascabile abbreviata, Ballantine Books). 1975 Esce Lovecraft at Last di Willis Conover e HPL (Carollton-Clark). È la riproduzione dell'epistolario Lovecraft-Conover in una sontuosa veste editoriale. 1975 Esce A Catalog of Lovecraftiana di Mark Owings e Irving Binkin. Si tratta di una descrizione della collezione creata da Philip Jack Grill (1903-1970). 1975 La rivista francese "Caliban", diretta da Maurice Lévy, ospita nel n. XII un
articolo di Barton St. Armand: H.P. Lovecraft, New England Decadent. 1975 Si tiene a Providence, città natale di Lovecraft, la prima World Fantasy Convention. Agli autori che si sono maggiormente distinti nel campo viene assegnata una statuetta che riproduce il volto di HPL (ne è autore Gahan Wilson). La World Fantasy Convention è giunta ormai alla XIV edizione. 1976 Pubblicazione di HPL: Dreamer on the Nightside di Frank Belknap Long (Arkham House). È un omaggio informale rivolto a Lovecraft dal suo migliore amico, e, probabilmente, il più bel contributo di prima mano per la conoscenza dell'uomo e dello scrittore. 1976 La Necronomicom Press di Marc A. Michaud, con sede a West Warwick nel Rhode Island, comincia a ristampare vari scritti di HPL: First Writings in the Pawtuxet Valley Gleaner: 1906; Writings in the United Atnateur, 1915-1925; The Providence Amateur: Volume One Number One (in facsimile) e l'atteso The Complete Conservative: 1915-1923. 1976 Esce To Quebec and the Stars a cura di L. Sprague de Camp (Donald M. Grant, West Kingston, Rhode Island). Prose scelte, fra cui A Description of the Town of Quebeck, etc. 1976 Esce Essays Lovecraftian a cura di Darrell Schwitzer (T-K Graphics, Baltimora). Raccolta di celebri saggi lovecraftiani in veste economica. 1977 Esce A Winter Wish a cura di Tom Collins (Whispers Press), una raccolta di poesie e prose. Escono inoltre: The Lovecraft Companion a cura di Philip Shreffler (Greenwood Press, Greenwood, Connecticut) e The Major Works of H.P. Lovecraft nelle Monarch Notes. 1977 In occasione del 40° anniversario della morte di Lovecraft si tiene a Trieste
il primo Convegno internazionale dedicato alla sua figura. Vi partecipano Alfred Galpin, amico di gioventù di HPL e in seguito professore di francese e italiano a Madison; Dirk W. Mosig, Emilio Servadio, Gillo Dorfles, Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco. 1978 Esce The Roots of Horror in the Fiction of H.P. Lovecraft, di Barton St. Armand. Lungo saggio dedicato alle fonti del terrore nella narrativa nera di Lovecraft. 1980 Esce la fondamentale antologia di saggi H.P. Lovecraft, Four Decades of Criticism a cura di S.T. Joshi, Ohio University Press (v. bibliografia generale). 1981 Esce la più completa bibliografia lovecraftiana fino ad oggi compilata: H.P. Lovecraft and Lovecraft Criticism: An Annotated Bibliography a cura di S.T. Joshi (Kent State University Press, v. bibliografia generale). 1983 Escono due studi critici sull'autore: Lovecraft di S.T. Joshi (Starmont House, v. bibliografia generale) e H.P. Lovecraft, A Critical Study di Donald R. Burleson (Greenwood Press, v. bibliografia generale). 1982-1986 S.T. Joshi, un giovanissimo studioso dell'opera lovecraftiana, corona dieci anni di ricerche sui manoscritti dell'autore portando a termine la prima edizione critica della sua narrativa. Sebbene i titoli siano gli stessi della precedente edizione, come pure la ripartizione in tre volumi (The Dunwich Horror and Others, At the Mountains of Madness e Dagon and Other Macabre Tales), i testi sono sostanzialmente revisionati e, dove possibile, ricomposti in base ai manoscritti originali (Arkham House). 1985 Lovecraft, che già da anni è diventato un personaggio della narrativa altrui, è il protagonista del romanzo di Richard Lupoff Lovecraft's Book, in cui sventerà un complotto germanico ai danni dell'America. (Un altro romanzo
del genere è Pulptime di Peter Cannon, in cui Lovecraft incontrerà Sherlock Holmes.) 1988 Esce l'edizione critica di The Horror in the Museum and Other Revisions, a cura di S.T. Joshi (Arkham House). 1989 Esce una nuova biografia letteraria: H.P. Lovecraft di Peter Cannon, Twayne Publishers, Boston (v. Bibliografia). 1989 S.T. Joshi pubblica per l'Arkham House il quarto volume dell'opera lovecraftiana, The Horror in the Museum and Other Revisions (v. bibliografia generale), che rappresenta l'edizione critica dei numerosi racconti scritti da HPL in collaborazione o per conto terzi. 1990 In occasione del centenario della nascita di Lovecraft viene organizzato a Providence, sua città natale, un convegno commemorativo. Dal 17 al 20 agosto si riuniscono, sotto gli auspici della Brown University, della John Hay Library e del Rhode Island Committe for the Humanities, studiosi e appassionati provenienti da varie parti del mondo. Sono presenti fra gli altri Barton L. St. Armand, S.T. Joshi, Gahan Wilson, John Stanley e Jennifer Lee della biblioteca John Hay, Ken Faig, Peter Cannon, Will Murray, Donald R. Burleson, Robert Price, Steven J. Mariconda, Paul Buhle ed Eileen McNamara, vale a dire tutti i più impegnati giovani ricercatori americani; Rusty Burke, nuovo pioniere degli studi su Robert E. Howard; Maurice Lévy, autore di uno tra i migliori saggi francesi su HPL (Lovecraft ou du fantastique, ora tradotto anche in America); Gilles Menegaldo dell'università di Poitiers; lo studioso tedesco Kalju Kirde; gli scrittori Les Daniels e Fred Chappel; Marc Michaud della Necronomicon Press. Il sottoscritto ha avuto il doppio piacere di partecipare ai festeggiamenti e di incontrare in loco ben altri due appassionati italiani. Per la prima volta la città di Providence ha consentito che venisse apposta una targa commemorativa dello scrittore: si trova nel giardino antistante la John Hay Library, a due passi da quella che fu la sua ultima casa. La targa è stata inaugurata il 20 agosto con intervento di alcune autorità cittadine. Gli atti del convegno
verranno pubblicati dalla Necronomicon Press, mentre un numero speciale della rivista "Books at Brown" sarà dedicato a Lovecraft sotto la cura di Barton St. Armand e John Stanley. 1990 Esce il nuovo libro di S.T. Joshi, H.P. Lovecraft: The Decline of the West (Starmont House, v. Bibliografia). 1991 Esce il volumetto H.P. Lovecraft's Centennial Conference Proceedings (Necronomicon Press) con gli atti del convegno di Providence. Lovecraft in Italia di Giuseppe Lippi 1958 Nonostante che nessuna opera di Lovecraft sia stata ancora tradotta in italiano, alcuni attenti osservatori della scena culturale pubblicano i primi saggi su di lui attingendo alle edizioni straniere. In aprile Mario Picchi, uno dei nostri più sensibili traduttori e saggisti letterari, pubblica su "La Fiera Letteraria" "Lovecraft o l'angoscia del cosmo" e in maggio replica sullo stesso periodico con "Ancora Lovecraft". Nelle sue opere - scrive Picchi sul primo dei suoi articoli - " c'è qualcosa che, al di sopra del loro linguaggio spesso trasandato e della loro concezione a volte troppo schematica, ci parla d'un universo sconosciuto ed immenso nel quale la fantasia dello scrittore dovette vagare, e ci dà la misura della sua sensibilità che poteva percepire con esattezza impressionante quella che Michel Deutsch nel suo saggio apparso su 'Esprit' chiamava l'angoscia del cosmo". 1960 Luglio. Bruno Tasso traduce nell'antologia Un secolo di terrore (Sugar) The Rats in the Walls di HPL. Probabilmente è la prima apparizione di Lovecraft nella nostra lingua. 1960 Dicembre. Carlo Fruttero e Franco Lucentini ospitano, nella loro antologia Storie di fantasmi (Einaudi), ben tre racconti di Lovecraft: The Dunwich Horror (trad. Floriana Bossi), The Call of Cthulhu (trad. Elena Linfossi) e
In the Vault (trad. Lodovico Terzi). Saranno questi i testi che spianeranno la strada alla "fortuna" di HPL nel nostro paese. 1963 16 giugno. Carlo Fruttero fa tradurre altri tre racconti sul n. 310 di "Urania": The Whisperer in Darkness (trad. Sarah Cantoni), Pickman's Model (trad. Adalberto Chiesa) e The Colour Out of Space (trad. Sarah Cantoni). Di quest'ultimo racconto è data una versione parziale e in alcuni punti erronea. 1966 Gennaio. Esce presso Sugar la prima antologia italiana di HPL, Le montagne della follia (se si esclude il n. 310 di "Urania", un periodico destinato esclusivamente alle edicole). Il volume contiene: At the Mountains of Madness, The Case of Charles Dexter Ward, The Shunned House e The Statement of Randolph Carter, tutti tradotti da Giovanni De Luca. Si tratta diversioni integrali ma in alcuni casi molto approssimative. (Si veda, ad esempio, Charles Dexter Ward: il romanzo è redatto per buona parte in inglese arcaico, cioè la lingua parlata dallo stregone Curwen, senza che di tutto ciò sia dato conto in italiano.) 1966 Giugno. Esce da Mondadori una nuova e ricca antologia di Lovecraft, I mostri all'angolo della strada. A cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, contiene: Dagon, The Call of Cthulhu, The Colour Out of Space, The Dunwich Horror, The Whisperer in Darkness, The Shadow Over Innsmouth, The Thing on the Doorstep, The Haunter of the Dark, The Gable Window (di August Derleth), Nyarlathotep, The Outsider, The Music of Erich Zann, Herbert West, Reanimator, The Rats in the Walls, In the Vault, Cool Air, Pickman's Model. Le traduzioni dei racconti già apparsi in italiano sono riprodotte come da precedenti edizioni, tranne Pickman's Model che è dato in una nuova versione non integrale e ritoccata (di Roberto Mauro). Altre traduzioni ritoccate o parziali sono: The Call of Cthulhu, The Colour Out of Space, The Haunter of The Dark, The Outsider, Nyarlathotep, The Thing on the Doorstep, The Whisperer in Darkness. La copertina di Karel Thole, splendida e rara, è così adatta che abbiamo pensato di riprodurla nella presente edizione.
1967 Aprile. Esce da Sugar la terza antologia italiana di HPL, La casa delle streghe. Contiene: The Dreams in the Witch-House, The Silver Key, Through the Gates of the Silver Key, The Dream-Quest of Unknown Kadath. Traduzioni di Giovanni De Luca. Costituisce, insieme con Le montagne della follia, la versione italiana dell'ant. At the Mountains of Madness (Arkham House). Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco documenteranno le manchevolezze delle traduzioni sul periodico "Il re in giallo" (n. 2, Trieste 1977). 1967 Sul n. XIII della rivista "Studi americani", pubblicata dall'Università di Roma, Carlo Pagetti pubblica il bel saggio L'universo impazzito di H.P. Lovecraft. 1967 Esce il volume di Giorgio Manganelli La letteratura come menzogna (Feltrinelli), con il saggio lovecraftiano La città blasfema. 1969 Esce il primo volume del dizionario letterario Arcana (Sugar) dedicato al meraviglioso, l'erotico e l'insolito. Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco sono responsabili di numerose voci relative alla narrativa fantastica nel nostro secolo, e in particolare della voce Lovecraft, vero e proprio studio sintetico sull'argomento. Per alcuni anni rimarrà il testo di riferimento-base per i lettori italiani. 1971 Sul numero di luglio della rivista "Playmen" Gianfranco de Turris pubblica un ampio saggio biografico su HPL, L'ultimo demiurgo, corredato da illustrazioni e foto. 1972 Maggio. Sul mensile "La destra" Gianfranco de Turris pubblica un nuovo saggio su HPL, Il demiurgo della notte, e in appendice undici pagine di lettere di Lovecraft dal 1915 al 1927. 1973
L'editore Sugar riunisce tutti i racconti di HPL già tradotti in italiano e acquista i diritti di quelli ancora inediti contenuti nelle antologie The Dunwich Horror e Dagon (Arkham House). Il risultato è un volume-monstre di oltre 900 pagine in formato grande, che esce in novembre col titolo Opere complete di H.P. Lovecraft. In realtà mancano il romanzo breve Through the Gates of the Silver Key e tutti i racconti scritti da HPL per conto terzi oppure in collaborazione (le famose revisioni); mancano, inoltre, i saggi, la poesia, le lettere. Se, dunque, non si può parlare di "Opere complete", si può dire almeno che tutta la narrativa maggiore di HPL sia ormai edita in italiano. Purtroppo, come faranno notare Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco nel 1974 (Le incomplete "Opere complete" di H.P. Lovecraft, in "Pianeta" n. 57), le traduzioni dei racconti inediti sono ancora una volta inesatte e insoddisfacenti. Ciò nonostante, data la praticità del volume e il prezzo contenuto, questa rimarrà l'edizione-standard per una quindicina d'anni. 1974 Longanesi pubblica l'edizione tascabile de Le montagne della follia. 1974 Mondadori pubblica la seconda edizione rilegata dei Mostri all'angolo della strada, immutata rispetto alla precedente salvo che nella copertina. Essendo andato smarrito l'originale della precedente, ne viene commissionata una nuova e sensibilmente più piatta a Karel Thole, che poi verrà riutilizzata per l'edizione tascabile. Per riprodurre, nella presente edizione, la copertina del 1966, si è dovuto ricorrere a un procedimento di ripresa fotografica. 1975 Arrivati alla guida della piccola casa editrice Fanucci, specializzata in letteratura fantastica, i giornalisti de Turris e Fusco sono in grado di pubblicare in modo del tutto adeguato la versione italiana dell'antologia Tales of the Cthulhu Mythos, compilata da August Derleth per raccogliere i racconti dei continuatori di HPL. Il volume, intitolato in italiano I miti di Cthulhu, è accresciuto rispetto all'edizione originale e illustrato, e rappresenta l'occasione per avviare un corretto discorso critico ma anche editoriale sul mondo di Lovecraft. Le traduzioni, integrali, sono di Alfredo Pollini e Sebastiano Fusco.
1976 Proseguendo il discorso avviato con I miti di Cthulhu, Fanucci pubblica in due volumi tutti i racconti scritti in collaborazione da HPL, e contenuti originariamente in The Horror in the Museum and Other Revisions (Arkham House). I due tomi, curati da de Turris e Fusco e tradotti da Roberta Rambelli, sono Nelle spire di Medusa e Sfida dall'infinito. In appendice al secondo è contenuto un lungo saggio metodologico dei curatori, Guida alla lettura di Lovecraft. Sempre in Sfida dall'infinito, e grazie alle ricerche di Dirk W. Mosig, appare in prima edizione mondiale un racconto "ritrovato" di HPL, The Night Ocean. Il racconto, frutto della collaborazione tra Lovecraft e R.H. Barlow, era apparso a firma di quest'ultimo nel numero dell'inverno 1936 di "The Californian", la rivista di Hyman Bradofsky. Come Mosig è riuscito a dimostrare, si tratta di un lavoro che HPL riscrisse quasi completamente sulla base di un rough draft dovuto a Barlow. Il dittico pubblicato da Fanucci si distingue, altresì, per la traduzione di numerosi saggi e documenti d'epoca sulla figura di Lovecraft. 1977 Febbraio-marzo. Esce a Trieste il secondo numero della rivista amatoriale "Il re in giallo", interamente dedicato a HPL. In 126 pagine di grande formato, stampate in offset, la pubblicazione raccoglie testi di G. de Turris e S. Fusco, Dirk Mosig, Michel Caen e Jacques van Herp (tratti dal Cahier de l'Herne su Lovecraft), Darrell Schweitzer e lo stesso HPL. Un secondo numero lovecraftiano della stessa rivista uscirà nel 1978, con contributi prevalentemente italiani. 1977 Longanesi pubblica l'edizione tascabile de La casa delle streghe. 1977 27 marzo. Sul "Piccolo" di Trieste esce l'articolo commemorativo Lovecraft, una mitologia dell'orrore di Fabio Pagan e Giuseppe Lippi. 1977 11 e 12 giugno. Si tiene a Trieste, per iniziativa del Festival Internazionale del Film di Fantascienza e del centro La Cappella Underground, il primo Convegno italiano dedicato allo scrittore, di cui ricorre il quarantesimo an-
niversario della scomparsa. Ne è ospite d'eccezione Alfred Galpin, il "Galpinius" delle lettere di HPL: suo amico di gioventù, è ormai un professore in pensione ritiratosi in Italia. Con Galpin sono a Trieste la moglie, signora Isabella Panzini, lo studioso americano Dirk W. Mosig, Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, Gillo Dorfles ed Emilio Servadio. 1977 29 giugno. Gillo Dorfles pubblica sul "Corriere della sera" il suo punto di vista sul Convegno (Racconti dell'orrore all'esame di letteratura). 1977 Esce a Roma, per i tipi di Fanucci, la coppia di volumi Il guardiano della soglia e La lampada di Alhazred; tradotti da Roberta Rambelli, rappresentano l'edizione italiana dell'ant. The Watchers Out of Time and Others (Arkham House), cioè la raccolta delle "collaborazioni postume" tra August Derleth e Lovecraft. In appendice al primo volume si trova il saggio di Claudio De Nardi Alla ricerca della Chiave d'Argento. De Nardi diventerà con gli anni uno dei più sensibili conoscitori e traduttori italiani di HPL. 1978 Esce una riedizione delle Opere complete (Sugar), con la dicitura "Seconda edizione riveduta e corretta". Tecnicamente non si potrebbe parlare di nuova edizione, ma soltanto di "ristampa" (gli impianti tipografici sono quelli vecchi ed è quindi impossibile apportarvi sostanziali modifiche). Chi scrive è stato responsabile di una introduzione generale al volume, di una bibliografia, una cronologia e di alcune limitatissime correzioni testuali, basate perlopiù su indicazioni già date da G. de Turris e S. Fusco. 1979 Dicembre. Nella collana "Il castoro" della Nuova Italia esce la monografia Lovecraft di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, a tutt'oggi l'unico volume di autore italiano sull'argomento. L'esame critico dell'opera lovecraftiana è dettagliato e puntuale, ma forse troppo carico di preoccupazioni ideologiche per riuscire altrettanto chiaro della più breve Guida alla lettura di Lovecraft inserita in appendice a Sfida dall'infinito, cit. Fondamentali le appendici cronologiche e bibliografiche, che rappresentano lo sforzo più concreto per puntualizzare la situazione Lovecraft in Italia.
1980 Aprile-giugno. Esce il primo numero di "Star", rivista di fantasy e fantascienza diretta da Alfredo Castelli e Luigi Naviglio (Milano). Si tratta di uno "speciale horror-Lovecraft" che, oltre a un saggio di de Turris-Fusco sull'Eredità letteraria di Lovecraft, contiene racconti e rubriche di Benedetto Pizzorno, Gianluigi Zuddas, Fabio Calabrese, Luigi De Pascalis, Giancarlo Pellegrin, ecc. 1980-1986 Numerosi articoli pubblicati sulla stampa italiana a proposito di Lovecraft, e in particolare sul "Manifesto", "La Repubblica", "L'Unità". Accompagnati, in genere, da una riproduzione del celebre ritratto di Virgil Finlay, cercano di recuperare in area democratica le inquietudini e i terrori del sognatore di Providence. 1980-1989 Mondadori pubblica l'edizione tascabile dei Mostri all'angolo della strada (Oscar), ristampandola di continuo. 1982 Nell'antologia Weird Tales, pubblicata da Fanucci, esce la traduzione di Roberta Rambelli della poesia The Track. 1984 Nell'antologia Ancora Weird Tales (Fanucci) appaiono le traduzioni delle poesie The Familiars e The Pidgeon Flyers, più una nuova traduzione del racconto Celephaïs (tutte di Roberta Rambelli). 1986 Nell'antologia Di nuovo Weird Tales (Fanucci), Claudio De Nardi cura la traduzione di due racconti che solo negli ultimi anni è stato possibile attribuire a Lovecraft grazie alle ricerche di S.T. Joshi: The Tree on the Hill e The Disinterment. In origine i racconti erano apparsi su "Weird Tales" e "Polaris" rispettivamente nel 1937 e 1940 a firma Duane W. Rimel, uno dei tanti clienti dell'attività di revisore di HPL. Lo stesso Rimel ha rivelato di essere solo in minima parte responsabile dei racconti nella loro stesura definitiva.
1987 In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di HPL, Claudio De Nardi cura e traduce lo splendido Vita privata di H.P. Lovecraft, pubblicato a Trento da Reverdito. Si tratta di un'antologia di materiali biografici inediti in Italia e scrupolosamente annotati dal curatore, che vanno dal famoso Omaggio di W. Paul Cook al ricordo della moglie Sonia e al bellissimo saggio di Fritz Leiber Un Copernico letterario. Riccamente illustrato e ben curato nella veste, è il testo più importante uscito da noi su Lovecraft insieme al "Castoro" di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco. 1987 La Fanucci di Roma, non più diretta dalla coppia de Turris-Fusco, si lancia nell'impresa di ripubblicare tutta l'opera di HPL in quattordici volumi rilegati, in cui il materiale narrativo è accompagnato da articoli, lettere o saggi di varia provenienza. Al momento in cui scriviamo l'opera non è ancora completata. RACCONTI (1927-1930) Il caso di Charles Dexter Ward Cominciato nel gennaio 1927 e terminato il primo marzo dello stesso anno, The Case of Charles Dexter Ward è tra i capolavori di Lovecraft e appartiene al fecondo periodo che segue il ritorno dall'"esilio newyorchese", vale a dire la parentesi di due anni (1924-1926) in cui lo scrittore aveva vissuto a Brooklyn con la moglie Sonia. L'emozione del ritorno a Providence, l'unico ambiente verso cui egli provasse un senso di affezione e appartenenza, era già stata manifestata nel romanzo The Dream-Quest of Unknown Kadath, scritto alla fine dell'anno precedente e pubblicato nel secondo volume di Tutti i racconti. Ma in Kadath Lovecraft ricorreva alla finzione poetica di mascherarsi dietro l'alter ego Randolph Carter, il sognatore di Boston, ed è nell'elogio di quella città che il lettore deve saper cogliere il riferimento a Providence. Charles Dexter Ward, invece, è "il romanzo di Providence" per eccellenza, e come pochi altri racconti (The Shunned House, The Call of Cthulhu, The Haunter of the Dark) deve gran parte del suo fascino alle atmosfere e alla storia della capitale del Rhode
Island. È certamente un romanzo autobiografico, ed è necessario ribadirlo pur nella consapevolezza che tutta l'opera di Lovecraft deve ritenersi tale; in Charles Dexter Ward il tema dell'alienazione di un giovane studioso dai gusti antiquari, la sua separazione dagli affetti familiari e la tragica odissea in cui s'imbarca "per troppo amore del passato", riassume al meglio una riflessione complessiva sul senso della propria esistenza che rimane tra le cose più sincere e riuscite di Lovecraft, anche perché costituisce una sintesi geniale della sua opera. C'è tutto: l'amore per l'antica Providence e la storia coloniale americana; il gusto della rievocazione del passato, che qui raggiunge livelli grandiosi e s'impone come in nessun altro racconto precedente; il fantastico "dietro l'angolo della strada", l'estremo realismo dell'ambiente e dei personaggi, il mito degli dèi alieni che ben si sposa con un'ottima storia di magia. Alcuni critici, fra cui Peter Cannon, hanno sottolineato la bellezza quasi poliziesca del racconto: e in effetti un elemento giallo c'è, tanto da far considerare il romanzo quanto più si avvicini a un "mystery" tradizionale nella produzione di Lovecraft. Il tema quasi ossessivo del passato s'impone a due livelli: uno di rievocazione scrupolosa e meticolosa (come già avveniva in The Shunned House), l'altro puramente linguistico. Joseph Curwen, lo stregone seicentesco del romanzo, scrive e parla come un uomo dei suoi tempi, e in definitiva sarà proprio l'elemento linguistico a fornire alle "forze del bene" la chiave dell'enigma. Come romanzo di magia, indubbiamente un argomento che affascinava Lovecraft, Charles Dexter Ward è un piccolo capolavoro e può darsi che la sua idea centrale si basi su un celebre episodio di cui si vantava Eliphas Levi, l'occultista francese più volte citato nel testo, il quale sosteneva di aver evocato lo spirito di Apollonio di Tiana per apprenderne la conoscenza. Nel Ward non sembra essere possibile, nonostante le buone intenzioni di Willett, una vera e propria separazione tra magia "innocua" e "pericolosa": per dirla con le parole di James Blish, che ha dedicato all'argomento uno dei romanzi più interessanti del genere (Pasqua nera con il suo seguito Il giorno dopo l'apocalisse), la magia è tutta pericolosa, nel senso che le operazioni dei maghi si fondano sull'evocazione di intelligenze esterne per ottenere uno scopo che è legato a obbiettivi di controllo, potere e dominio. Ma tramite opportune pratiche l'uomo può farsi ricettore di forze positive, e questo lo riscatta; è ciò che accade al dottor Willett, il quale diventerà uno strumento al servizio di entità che per caso o per di-
segno hanno deciso di ricomporre l'equilibrio e vendicare la Natura oltraggiata. Per questa via, e indirettamente, si riaffaccia in Lovecraft un motivo "religioso" troppo spesso trascurato dai suoi esegeti. I lettori, abituati a prendere la sua narrativa più per il lato scettico e fantascientifico che per quello spirituale, faranno bene a non sottovalutare questo livello di lettura. Proprio come nel romanzo di Blish, infine, il tema di Lovecraft è quello della conoscenza, del sacrificio che l'uomo fa di se stesso per la propria affermazione intellettuale. Una curiosità, prima di rimandare i lettori al breve saggio ospitato in appendice e dedicato al protagonista di Charles Dexter Ward: fino all'ultimo momento Lovecraft fu indeciso sul titolo da dare al romanzo, e in una lettera a Frank Belknap Long del 27 febbraio 1927 comunica l'intenzione di battezzarlo The Madness out of Time. Si vede che quel titolo gli piaceva davvero, perché comunque lo utilizzò (smembrato) in due opere successive: At the Mountains of Madness e The Shadow out of Time. La traduzione si basa sul testo stabilito da S. T. Joshi, che riproduce il manoscritto autografo di Lovecraft. "I sali essenziali de' gli Animali possono essere in tal guisa preparati e conservati, che un Uomo d'ingegno custodisca nel suo Studio un'intiera Arca di Noè, e a suo piacimento possa resuscitare la Forma perfetta d'un animale dalle relative Ceneri. In virtù dell'istesso procedimento un filosofo può, senza macchiarsi di criminale negromanzia, richiamare alla vita uno qualunque dei suoi predecessori, facendolo sorgere da' sali essenziali e dalla polvere in cui il corpo fu a suo tempo consumato." Borello I. Una scoperta a mo' di prologo 1 Da una clinica privata per malattie nervose nei dintorni di Providence, Rhode Island, è scomparso di recente un paziente piuttosto singolare. Si
chiamava Charles Dexter Ward ed era stato ricoverato, con riluttanza, dal suo stesso padre, che aveva seguito con dolore il procedere dell'aberrazione dallo stadio di semplice eccentricità a quello di pericolosa mania tinta di tendenze omicide e accompagnata da un profondo quanto straordinario cambiamento nei pensieri dell'ammalato. Gli specialisti si dichiarano perplessi sulla natura del caso, che presenta diversi punti oscuri sia a livello psicologico che fisiologico. Tanto per cominciare, il paziente sembrava più vecchio dei suoi ventisei anni. I disordini mentali, è vero, contribuiscono a invecchiare rapidamente, ma il volto del giovane aveva assunto quell'aspetto decrepito che si riscontra solo nei vecchissimi. In secondo luogo, i processi mentali seguivano vie così abnormi che nella letteratura clinica non c'era riscontro. Respirazione e battito cardiaco presentavano un'impiegabile asimmetria; la voce se n'era andata, sicché il paziente non riusciva a emettere alcun suono al di sopra di un sussurro; la digestione era incredibilmente lenta e ridotta, le reazioni nervose agli stimoli abituali non avevano alcun rapporto con quelle note, sia normali che patologiche. La pelle era secca, e spiacevolmente fredda, la struttura cellulare dei tessuti grossolana e smagliata. Una voglia a forma di oliva sulla natica destra era scomparsa, mentre sul petto si era formato uno stranissimo neo, o chiazza nera, di cui non esisteva traccia in precedenza. Nel complesso, i medici si trovano d'accordo nel dichiarare che in Ward i processi metabolici si erano rallentati a un livello senza precedenti. Ma Charles Ward era unico anche dal punto di vista psicologico. La forma di follia da cui era affetto non trova riscontro nemmeno nei più recenti e completi trattati, ed era unita a una forza intellettuale che ne avrebbe fatto un genio o un capo, se non fosse stata distorta in modo tanto bizzarro e grottesco. Il dottor Willett, medico di famiglia dei Ward, sostiene che le capacità intellettive del paziente - valutate in base a una serie di discussioni su argomenti che esorbitavano dalla sua ossessione - fossero aumentate dopo l'attacco di follia. È vero che Ward era sempre stato un uomo di studio e un appassionato di antichità, ma nemmeno i suoi lavori più brillanti mostravano le prodigiose capacità di intuizione e penetrazione che gli alienisti avevano riscontrato durante gli ultimi esami. Era stato tutt'altro che semplice ottenere l'ordine legale di internamento, perché il giovane sembrava estremamente lucido e padrone di sé: solo in base alle testimonianze di terzi e alle straordinarie lacune che Ward mostrava in certi campi (ma che non avevano niente a che fare con l'intelligenza), finalmente l'avevano rinchiuso. Fino al momento della scomparsa era stato un lettore onni-
voro e un conversatore accanito, per quanto la sua voce permettesse; e gli osservatori più acuti, che non erano riusciti a prevederne l'evasione, ora pronosticavano che non avrebbe faticato a ottenere un'ordinanza ufficiale di dimissioni. Solo il dottor Willett, che aveva fatto nascere Charles Ward e l'aveva visto crescere sia fisicamente che intellettualmente, sembrava atterrito dal pensiero che il suo paziente fosse in libertà. Aveva avuto una terribile esperienza e fatto una scoperta che non osava rivelare ai colleghi più scettici: si può ben dire che Willett stesso rappresenti un piccolo mistero all'interno della vicenda. Era stato l'ultimo a vedere il paziente prima della fuga, e da quell'ennesima conversazione era uscito in uno stato di orrore misto a sollievo di cui molti s'erano ricordati quando la fuga di Ward era stata scoperta, circa tre ore dopo. L'evasione in sé resta un mistero insoluto nella clinica del dottor Waite. Una finestra aperta su un precipizio di oltre venti metri non sembra affatto la spiegazione più semplice, ma dopo la conversazione con Willett il giovane era effettivamente scomparso. Il dottore non ha risposte da offrire al pubblico, ma dopo la scomparsa del paziente si è mostrato molto più tranquillo. Alcuni hanno la sensazione che gli piacerebbe dire di più, se pensasse di essere creduto. Il dottor Willett aveva trovato Ward in camera sua, ma poco dopo che se n'era andato gli inservienti avevano bussato senza ottenere risposta. Aperta la porta, avevano constatato che il paziente non c'era: tutto quello che avevano trovato era la finestra aperta da cui la brezza fredda di aprile soffiava una nube di polvere grigioazzurra che li aveva quasi soffocati. È vero, i cani avevano cominciato ad abbiaiare qualche tempo prima, ma in quel momento Willett era ancora in clinica e in seguito non c'erano state altre molestie o segni sospetti. Il padre di Ward era stato avvertito immediatamente, al telefono, ma era parso più rattristato che sorpreso. Quando il dottor Waite aveva chiamato personalmente, Willett aveva già parlato con l'anziano signore ed entrambi negarono di essere al corrente dell'evasione o di averla favorita. Dagli amici del dottor Willett e del padre di Ward si sono potuti ottenere ulteriori indizi, ma si tratta di cose troppo fantastiche per essere credute dalla gente. Il fatto incontrovertibile, comunque, è che fino a questo momento non si è trovata la minima traccia del folle scomparso. Charles Ward aveva nutrito fin da ragazzo la passione delle antichità, senza dubbio stimolata dalla città venerabile in cui viveva e dalle testimonianze del passato che riempivano ogni angolo della casa paterna in Prospect Street, sulla cima della collina. Con gli anni la sua devozione per le
cose antiche era aumentata: storia, genealogia e lo studio dell'architettura, della mobilia e dell'arte coloniale avevano escluso qualunque altro argomento dalla sfera dei suoi interessi. È importante tener presenti questi gusti quando si pensa alla follia di Charles Dexter Ward: perché, pur non formandone il nucleo fondamentale, giocano un ruolo di primo piano nel suo aspetto immediato. Le informazioni che il paziente ignorava, come gli alienisti osservarono, riguardavano tutte il mondo moderno, ed erano controbilanciate da una simmetrica, eccessiva e malcelata conoscenza del passato che opportuni interrogatori avevano portato alla luce. Era come se, grazie a un'oscura sorta di autoipnosi, il paziente si fosse letteralmente trasferito in un secolo precedente. La cosa strana è che, con l'avanzare della follia, Ward perdesse interesse verso i monumenti che conosceva così bene, come se l'eccessiva familiarità gliene avesse tolta la devozione. I suoi ultimi sforzi furono tesi a padroneggiare, piuttosto, quegli aspetti del mondo moderno che erano stati cancellati dalla sua coscienza. Ward fece del suo meglio per nascondere questa disastrosa perdita, ma a tutti quelli che lo osservarono fu chiaro come il suo programma di letture e conversazioni fosse determinato dall'impellente desiderio di assorbire quanto più poteva sui particolari della propria esistenza e su ciò che fa da sfondo alla vita culturale e quotidiana del XX secolo, quella che gli apparteneva in virtù della sua nascita (avvenuta nel 1902) e dell'educazione che aveva ricevuto nelle scuole del tempo. Gli alienisti si chiedono come il fuggiasco, avendo subito una perdita così grave, possa cavarsela nel complesso mondo di oggi; l'opinione dominante è che egli si sia "rifugiato" in un'occupazione umile e poco impegnativa e che farà così fino a quando il suo livello di conoscenze sul mondo moderno sarà tornato alla normalità. I medici non sono d'accordo sull'inizio della follia: il dottor Lyman, il grande specialista di Boston, lo situa nel 1919 o 1920, l'ultimo anno in cui il ragazzo frequentò la Moses Brown School e all'improvviso abbandonò lo studio del passato per dedicarsi a quello dell'occulto. Ward rifiutò di affrontare gli esami d'ammissione all'università sostenendo che aveva cose molto più importanti da fare: è provato che all'epoca le abitudini del giovane cambiarono e che intraprese una lunga ricerca negli annali della città e nei vecchi cimiteri per trovare una tomba scavata nel 1771. Era il sepolcro di un antenato di nome Joseph Curwen, di cui Ward sosteneva di aver trovato certi scritti dietro il rivestimento di un'antichissima casa in Olney Court, sulla Stampers' Hill, che Curwen aveva costruito e abitato. L'inver-
no 1919-20, è innegabile, produsse in Ward un grande cambiamento; il giovane abbandonò gli studi antiquari per dedicarsi a una disperata ricerca nel campo dell'occulto che lo impegnò sia in patria che all'estero, e che fu interrotta solo dai tentativi di ritrovare la tomba dell'antenato. Ma il dottor Willett dissente dall'opinione del collega di Boston: il suo verdetto si fonda sulla continua e ravvicinata conoscenza del paziente e su certe paurose indagini e scoperte che fece verso la fine; indagini e scoperte che hanno lasciato in lui un marchio indelebile, tanto che la sua voce trema quando ne parla e la mano gli vien meno quando cerca di scriverne. Willett ammette che il cambiamento del 1919-20 sembrerebbe indicare l'inizio del progressivo deterioramento culminato nell'orribile e straordinaria follia del 1928, ma osservazioni personali lo spingono a fare una più sottile distinzione. Senza nascondere che il ragazzo è sempre stato emotivamente fragile e fin troppo suscettibile o entusiasta nel reagire ai fenomeni del mondo circostante, il dottor Willett rifiuta di ammettere che quel primo cambiamento segni il passaggio dalla normalità alla follia, e crede alle dichiarazioni - rese dal paziente - secondo cui Ward avrebbe scoperto, o almeno riportato alla luce, una verità il cui effetto sul pensiero umano sarebbe allo stesso tempo profondo e meraviglioso. La vera e propria follia, il dottore ne è certo, sopravvenne con un successivo cambiamento, dopo la scoperta del ritratto di Curwen e delle sue carte; dopo un viaggio in misteriose località straniere e le tremende invocazioni che Ward salmodiò in quella circostanza; dopo che le risposte a tali invocazioni furono chiaramente indicate e il giovane vergò una lettera disperata in condizioni terribili, inspiegabili; dopo l'ondata di vampirismo e le minacciose dicerie che circolarono a Pawtuxet, e, infine, dopo che la memoria del paziente perse la nozione del mondo contemporaneo e la voce gli venne a mancare, mentre il suo aspetto fisico subiva il sottile mutamento che tanti avrebbero osservato. Solo a questo punto, sottolinea Willett con acutezza, l'incubo prese il sopravvento su Ward: e il dottore è certo (ma rabbrividisce nell'affermarlo) che esistano prove per confermare le pretese del giovane sulla sua fondamentale scoperta. In primo luogo, due operai di spiccata intelligenza assistettero al ritrovamento delle antiche carte di Joseph Curwen; in secondo luogo, il giovane le mostrò una volta al dottor Willett insieme a una pagina del diario di Curwen, e i documenti avevano ogni apparenza di autenticità. Il buco in cui Ward dichiarava di averli trovati fu per diverso tempo una visibile realtà, e Willett li rivide per l'ultima volta in un ambiente alquanto straordinario la cui esistenza, forse, non potrà mai essere provata. Ci sono
poi i misteri e le coincidenze relativi alle lettere di Orne e Hutchinson; il problema degli scritti autografi di Curwen e di ciò che gli investigatori scoprirono sul conto del dottor Allen; infine, il terribile messaggio in grafia medievale che fu trovato nella tasca di Willett quando riprese conoscenza dopo la sua terribile esperienza. Decisivi, inoltre, sono i terribili risultati che il dottore ottenne da un certo paio di formule nell'ultima fase delle sue indagini: risultati che dimostravano virtualmente l'autenticità dei vecchi documenti e le loro mostruose implicazioni nel momento in cui venivano banditi per sempre dalla conoscenza dell'umanità. 2 La vita di Charles Ward - almeno nelle sue prime fasi - deve essere considerata come qualcosa che appartiene al passato, al pari delle antichità che profondamente amava. Nell'autunno 1918, con notevole rispetto per le esigenze militari del periodo, si era iscritto al primo anno della Moses Brown School, a due passi da casa sua. Il vecchio edificio principale, eretto nel 1819, aveva sempre deliziato il suo gusto giovanile di appassionato delle antichità, e l'ampio parco in cui l'accademia è sistemata soddisfaceva il suo occhio amante di belle vedute. Le attività sociali a cui si dedicava erano poche: Ward trascorreva gran parte del tempo a casa, in lunghe passeggiate, a scuola e a fare addestramento; oppure a caccia di fonti storicogenealogiche nel municipio della città, alla State House, presso la Biblioteca pubblica, l'Atheneum, la Società storica, le biblioteche John Carter Brown e John Hay della Brown University, e la nuova biblioteca Shepley di Benefit Street. È ancora possibile dipingerselo com'era in quei giorni: alto, magro, biondo, con gli occhi di chi studia molto e la schiena leggermente curva, vestito senza troppa attenzione e un aspetto generale d'innocua goffaggine più che di fascino. Le passeggiate di Ward erano delle vere e proprie avventure nel passato, durante le quali mille testimonianze dell'antica città che gli viveva intorno suggerivano alla sua fantasia un'immagine vivida e parlante dei secoli trascorsi. La casa in cui abitava era una grande costruzione georgiana sulla cima della ripida collina che si erge a est del fiume, e dalle finestre posteriori del piano più alto poteva guardare, affascinato, la distesa di guglie, cupole, tetti e grattacieli della città bassa e le colline violette della campagna che si stendeva oltre. Lì era nato, e dal magnifico porticato classico
che si apriva sulla facciata di mattoni a doppia campata la balia l'aveva fatto uscire per le sue prime escursioni in passeggino. Si erano spinti oltre la piccola fattoria bianca vecchia di duecent'anni che la città aveva da tempo inglobato e avevano proseguito verso i maestosi edifici dell'università, lungo il viale alberato ed elegante dove antiche ville squadrate di mattoni e case in legno più piccole, dallo stretto e robusto porticato dorico, sognavano, resistenti ed esclusive, nei loro generosi cortili e giardini. Poi l'aveva condotto per la sonnolenta Congdon Street, un po' più in basso sul ripido fianco della collina, dove le case del versante orientale sorgono su alte terrazze. Lì le costruzioni di legno erano più antiche, perché la città si era arrampicata, espandendosi, su quel lato della collina. Nelle passeggiate con la balia Charles aveva assorbito un po' del calore dell'antico villaggio coloniale; lei aveva l'abitudine di fermarsi sulle panchine della Prospect Terrace per fare quattro chiacchiere con i poliziotti, e uno dei primi ricordi del bambino era il gran mare di tetti velati dalla bruma, cupole, campanili e le remote colline d'occidente che un pomeriggio d'inverno gli erano apparse dalla gran terrazza col parapetto: tutto mistico e azzurro sullo sfondo di un tramonto eccezionale tinto di rossi, oro, porpora e bizzarre sfumature di verde. La grande cupola di marmo della State House era una sagoma massiccia contro il sole, e intorno alla statua che la sormontava si era formato un fantastico alone creato dall'apertura di una nuvola dorata che segnava il cielo fiammeggiante. Quando Charles diventò più grande cominciarono le sue famose passeggiate: prima con la governante che trascinava impaziente dietro di sé, poi da solo in sognante meditazione. Si spingeva sempre più in fondo alla collina quasi perpendicolare, e ogni volta giungeva a livelli più antichi e bizzarri della vecchia città. In fondo alla quasi perpendicolare Jenckes Street, con la sua fila compatta di muri e abbaini coloniali, esitava cauto; all'angolo dell'ombrosa Benefit Street gli si presentava frontalmente una vecchia costruzione in legno con due porte a colonne ioniche, di lato una casa preistorica col tetto a doppio spiovente intorno a cui restava una traccia dell'aia antica, e infine la grande abitazione del giudice Durfee, con le sue perdute vestigia di grandezza georgiana. Il quartiere si avviava a diventare un ghetto, ma gli olmi giganteschi lo proteggevano con la loro ombra ristoratrice e il ragazzo amava spingersi oltre le lunghe file di case pre-rivoluzionarie dai massicci comignoli centrali e le porte in stile classico. Sul versante orientale le case poggiavano, altere, su una piattaforma da cui partivano due rampe di scale di pietra fiancheggiate da un corrimano; il giovane Charles
se le figurava nel loro aspetto originale, quando la strada era nuova e uomini vestiti di stivali e parrucca decoravano i frontoni dipinti, ora in decadenza. Verso occidente la collina precipitava ripida come nella parte superiore, raggiungendo la Town Street che i fondatori avevano spianato sulla riva del fiume nel 1636. Da quel versante partivano innumerevoli viottoli fiancheggiati da case curve, ammucchiate le une sulle altre e di grande antichità; e benché ne fosse affascinato, passò molto tempo prima che Charles osasse sfidare quelle erte arcaiche e quasi verticali, temendo che potessero rivelarsi solo un sogno o la soglia di terrori sconosciuti. Molto meno rischioso continuare per Benefit Street, oltre la cancellata del cimitero nascosto di St. John, il retro della Colony House del 1761 e la sagoma cadente del Golden Ball Inn, dove Washington aveva sostato. All'altezza di Meeting Street - la Gaol Lane e King Street d'altri tempi - egli alzava gli occhi verso est e vedeva le gradinate curve cui la strada maestra doveva cedere per arrampicarsi sul pendio; in basso a ovest scorgeva la vecchia scuola coloniale di mattoni che sorride sul lato opposto della strada, sotto l'antica insegna della Testa di Shakespeare: il "Providence Gazette and Country-Journal" veniva stampato in quell'edificio prima della rivoluzione. Seguivano la squisita First Baptist Church, eretta nel 1775 e addirittura magnifica col suo campanile disegnato da Gibbs, i tetti georgiani e le volte che s'innalzavano tutt'intorno. A questo punto, verso sud, il quartiere migliorava e offriva finalmente un meraviglioso gruppo di ville antiche: ma i vialetti decrepiti seguitavano a tuffarsi dal pendio verso ovest, spettrali nell'antichità dei loro cento abbaini e sfiorati da un tumulto di variopinto squallore là dove il vecchio, turpe quartiere del porto fa ripensare ai giorni dei traffici con l'India: il porto dove si mescolano vizi e lingue straniere, abbandono e moli in putrefazione, marinai con la cataratta sull'occhio e stradine che ancora si chiamano Vicolo del Vapore, del Lingotto, dell'Oro, dell'Argento, della Moneta, del Doblone, della Sovrana, del Fiorino, del Dollaro, del Diecino e del Centesimo. A volte, quando diventò più grande e ardimentoso, il giovane Ward si avventurò in quel maelstrom di case fatiscenti, transenne marcite, gradini sbriciolati, balaustre contorte, facce brune e odori sconosciuti. Procedeva a zigzag da South Main Street a South Water, cercando i moli dove attraccavano ancora i vapori della baia e dello stretto, quindi tornava a nord rimanendo al livello del porto; poi superava i magazzini dal tetto a spiovente costruiti nel 1816 e l'ampio piazzale all'altezza del Great Bridge, il gran
ponte dove la Market House del 1773 è ancora ben salda sulle vecchie arcate. In piazza, Ward si fermava per assorbire l'eccezionale bellezza dell'antica città che da quel punto si arrampica sulla collina orientale, punteggiata dai due campanili georgiani e incoronata dalla gran cupola della nuova Christian Science come Londra dalla cattedrale di San Paolo. Gli piaceva raggiungere quel punto nel tardo pomeriggio, l'ora in cui il sole al tramonto sfiora la Market House, gli antichi tetti e i campanili sulla collina, e li tinge d'oro creando un alone di magia sui moli sognanti dove un tempo attraccavano i bastimenti dell'India. Dopo una lunga occhiata Ward si sentiva quasi girar la testa per l'amore poetico che il panorama gli ispirava: e allora riprendeva la salita nel crepuscolo, diretto a casa, oltre l'antica chiesa bianca e su per le strade a precipizio, dove luci gialle cominciavano a spuntare dietro le finestre a piccoli rettangoli e le lunette delle porte, in cima a una doppia fila di gradini fiancheggiati dai corrimano di ferro bizzarramente lavorati. A volte, in anni successivi, Ward imparò a cercare vividi contrasti: metà della passeggiata si svolgeva nelle zone coloniali in rovina a nordovest di casa sua, dove la collina scende verso la più modesta elevazione di Stampers' Hill con il suo ghetto e il quartiere negro ammassati intorno al punto da cui la carrozza per Boston partiva prima della rivoluzione; l'altra metà aveva come sfondo il grazioso quartiere sud intorno a George, Benevolent, Power e Williams Street. In questa zona la vecchia collina conserva intatte le belle dimore e frammenti di giardini cintati e ripidi viottoli verdi dove aleggiano tante memorie. È a quelle passeggiate, oltre agli studi zelanti che le accompagnavano, che si devono le conoscenze antiquarie del giovane: le stesse che alla fine cancellarono dalla sua mente il mondo attuale. Esse rappresentano il terreno mentale su cui, in quel fatale inverno 1919-20, s'impiantarono i semi destinati a dare frutti tanto orribili e straordinari. Il dottor Willett è sicuro che, fino al maledetto inverno del primo cambiamento, la passione antiquaria di Charles Ward fosse del tutto priva di tracce morbose. I cimiteri non avevano per lui altra attrattiva che la loro antichità e valore storico, mentre era del tutto assente dal la sua mente qualsiasi traccia di violenza o di impulsi aggressivi. In seguito, e per gradi quasi impercettibili, una delle più brillanti ricerche genealogiche dell'anno precedente ebbe bizzarre conseguenze... A quell'epoca Ward aveva scoperto fra gli antenati materni un uomo estremamente longevo di nome Joseph Curwen, giunto da Salem nel marzo 1692, intorno al quale si raccontavano storie misteriose e inquietanti. Un
trisavolo di Ward, Welcome Potter, aveva sposato nel 1785 una certa "Ann Tillinghast, figlia della signora Eliza e del capitano James Tillinghast", della cui discendenza la famiglia non conservava altra traccia. Verso la fine del 1918, mentre esaminava un volume di antiche cronache della città in manoscritto, il giovane storico si imbatté in un documento legale relativo a un cambio di cognome: nel 1772 una certa Eliza Curwen, vedova di Joseph Curwen, aveva ripreso insieme a sua figlia Ann il nome da nubile di Tillinghast; questo perché "il Cognome del Marito era divenuto causa di Pubblica Ignominia per quanto erasi appreso dopo la morte di lui; la qual cosa confermando un antico et diffuso rumore che peraltro non potevasi imputare a una Moglie dimostratasi a lungo fedele oltre ogni cagione di dubbio". Il documento era venuto alla luce per l'accidentale separazione di due pagine che erano state accuratamente incollate insieme e contate come una grazie a una laboriosa rinumerazione delle successive. A Charles Ward fu immediatamente chiaro di aver scoperto un antenato fino a quel momento sconosciuto: scoperta per lui doppiamente entusiasmante, in quanto aveva già sentito vaghi racconti e letto le più strane allusioni su un individuo intorno al quale rimanevano così pochi documenti accessibili - a parte quelli divenuti di pubblico dominio in tempi moderni che pareva fosse esistito un complotto per cancellarlo dalla memoria. Il poco che era trapelato, del resto, sembrava così strano e affascinante che non si poteva fare a meno di fantasticare su ciò che gli scribi coloniali erano stati ansiosi di nascondere e dimenticare, né di sospettare che la cancellazione avesse motivi fin troppo fondati. Prima di questo episodio, Ward si era contentato di nutrire i propri sogni sul conto di Curwen con una certa pigrizia; ma dopo aver scoperto la sua parentela con un personaggio evidentemente "censurato" si diede a ricercare con sistematicità tutto ciò che poteva su di lui. In questa ricerca ebbe successo al di là delle più rosee aspettative: vecchie lettere, diari e fasci di memorie inedite scoperti nelle soffitte polverose di Providence, ma anche in altri luoghi, rivelarono brani illuminanti che i loro autori non avevano ritenuto opportuno distruggere. Un'informazione collaterale ma importante venne nientemeno che da New York, dove nel museo della Fraunces' Tavern era conservata una certa quantità di corrispondenza del Rhode Island coloniale. Tuttavia il punto cruciale, e quello che secondo il dottor Willett costituì la vera origine della tragedia di Ward, fu il materiale scoperto nell'agosto 1919 dietro il pannello di legno della casa in rovina a Olney Court. Fu quello, senza dubbio, a spalancare la porta sulle nere visioni che dove-
vano gettare il disgraziato in un abisso senza fondo. II. Un antefatto e un terribile avvenimento 1 Secondo le vaghe leggende che Ward aveva letto e udito, Joseph Curwen era un individuo sorprendente, enigmatico e oscuro. Era fuggito da Salem per riparare a Providence - eterno rifugio dei dissenzienti, dei liberi pensatori e degli individui più strani - all'inizio della grande caccia alle streghe: temeva di essere incriminato per le sue abitudini solitarie e certi misteriosi esperimenti chimici o alchemici. Era un uomo pallido di circa trent'anni e non passò molto tempo perché venisse ammesso a Providence come libero cittadino, dopodiché acquistò un appezzamento di terreno edificabile appena a nord di Gregory Dexter, ai piedi di Olney Street. La sua casa fu costruita sulla Stampers' Hill a ovest di Town Street, in quella che sarebbe divenuta in seguito Olney Court, e nel 1761 il proprietario la sostituì con un'altra più grande nello stesso luogo. Questa seconda costruzione esiste ancor oggi. La prima cosa strana sul conto di Joseph Curwen è che non invecchiava: rimase identico a com'era il giorno del suo arrivo. Si dedicò a varie attività mercantili e marittime, acquistò un regolare diritto d'attracco nella baia di Mile-End, collaborò alla ricostruzione del Great Bridge nel 1713 e fu membro fondatore della Chiesa Congregazionalista eretta sulla collina nel 1723; ma sempre conservò quell'aspetto indefinibile di uomo sui trentatrentacinque anni o poco più. Man mano che passavano i decenni quella straordinaria qualità cominciò a suscitare sempre maggior sorpresa, ma Curwen la spiegava dicendo che i suoi antenati erano gente dura, che lui stesso era abituato a regole di vita semplici e in questo modo non si logorava. Come una tale semplicità si potesse conciliare con gli inspiegabili vai e vieni del furtivo mercante, o con l'insolito bagliore delle sue finestre a tutte le ore della notte, non era molto chiaro agli abitanti della città, i quali erano propensi a spiegare altrimenti la sua longevità ed eterna giovinezza. I più ritenevano che l'incessante traffico di Curwen con sostanze chimiche avesse a che fare con quella condizione, e i pettegolezzi parlavano di misteriosi ingredienti importati con le sue navi da Londra e dalle Indie, o comperate a Newport, Boston e New York. E quando il vecchio dottor Jabez Bowen arrivò da Rehoboth e aprì la farmacia all'insegna dell'Unicorno
e del Mortaio, al di là del Great Bridge, ci furono infiniti pettegolezzi sulle droghe, gli acidi e i metalli che il poco affabile recluso acquistava continuamente o ordinava da lui. Supponendo che Curwen fosse dotato di meravigliose e segrete facoltà mediche, molti sofferenti della più varia natura si rivolsero a lui per aiuto; e benché egli sembrasse incoraggiare, senza compromettersi, tali illazioni e fornisse pozioni dai bizzarri colori a chiunque ne facesse richiesta, fu notato che ben di rado le somministrazioni avevano effetto alcuno. Cinquant'anni dopo l'arrivo dello straniero, quando il suo corpo e il volto non mostravano che cinque anni d'invecchiamento al massimo, la gente cominciò a fare congetture più sinistre e Curwen poté godere pienamente quel diritto all'isolamento che aveva sempre cercato. Lettere e testimonianze dell'epoca rivelano tutta una serie di ragioni per cui Joseph Curwen suscitava meraviglia, era temuto e finì per essere evitato come la peste. La sua passione per i cimiteri, nei quali veniva visto a tutte le ore e con tutti i climi, era nota, anche se nessuno l'aveva mai sorpreso a compiere atti empi. Sulla via di Pawtuxet aveva una fattoria, dove generalmente viveva d'estate; lì lo vedevano correre alle ore più strane del giorno e della notte. Laggiù i suoi unici servitori, braccianti e aiutanti erano una coppia piuttosto cupa di indiani Narragansett: il marito muto e con una strana cicatrice, la moglie con una faccia addirittura ripugnante, forse per un incrocio con sangue negroide. Nella dipendenza di questo edificio era sistemato il laboratorio dove si svolgeva la maggior parte degli esperimenti chimici. I garzoni curiosi che consegnavano bottiglie, sacchi e casse di merci alla porticina sul retro si scambiavano interminabili racconti sui fantastici alambicchi, fiasche, crogioli e fornaci che s'intravvedevano nella stanza bassa e piena di scaffali; e profetizzavano, a bisbigli, che il taciturno "chimista", parola con cui volevano dire alchimista, non avrebbe tardato a trovare la pietra filosofale. La famiglia che abitava più vicino - i Fenner, a circa un quarto di miglio - riferì cose ancora più strane a proposito di certi rumori sconosciuti che venivano, di notte, dalla fattoria di Curwen. Dissero che si sentivano grida e addirittura ululati, e non riuscivano a spiegarsi il gran numero di bestie che venivano condotte al pascolo perché certo erano troppe per il sostentamento di un vecchio e due servitori, pur tenendo conto che oltre alla carne servivano il latte e la lana. E la mandria cambiava di continuo, perché ogni settimana venivano acquistati nuovi capi dai contadini di Kingstown. Inoltre, c'era qualcosa di inquietante in un certo edificio di pietra che sorgeva davanti alla casa, con solo due alte feritoie al posto delle finestre.
Dal canto loro gli sfaccendati del Great Bridge avevano non poco da dire sulla casa di città di Curwen, in Olney Court: non tanto la nuova e più bella che il vecchio avrebbe costruito nel 1761, all'età di quasi cent'anni, ma la prima (quella con il tetto a doppio spiovente, la soffitta senza finestre e i lati d'embrice di legno) che il vecchio si preoccupò di bruciare dopo averla fatta demolire. Intorno alla casa di città regnava un alone di mistero meno fitto, è vero; ma il fatto che le candele fossero accese alle ore più assurde, la reticenza dei due bruni stranieri che rappresentavano tutto il personale maschile, l'orribile e indistinto borbottio della vecchissima governante francese, le grandi quantità di cibo che entravano in una casa dove vivevano solo quattro persone e il timbro delle voci che a volte venivano udite conversare in ore impossibili... tutto questo, unito a ciò che si sapeva della fattoria di Pawtuxet, contribuiva a dare al luogo una cattiva fama. La casa di Curwen costituiva argomento di conversazione anche negli ambienti altolocati, poiché man mano che il nuovo venuto s'era inserito nella vita religiosa e commerciale della città aveva stretto naturalmente legami del genere migliore, la cui compagnia e conversazione ben si addicevano alla sua cultura. I suoi natali erano ottimi, perché i Curwen o Corwin di Salem non avevano bisogno di presentazioni nel New England; come si venne a sapere poi, Joseph Curwen aveva viaggiato molto quando era giovanissimo, aveva vissuto in Inghilterra e due volte era stato in oriente. La sua lingua, quando si degnava di usarla, era quella di un inglese colto e raffinato. Ma per un motivo o per l'altro Curwen non s'interessava alla vita sociale, e se non era mai arrivato al punto di respingere apertamente un visitatore, aveva eretto intorno a sé un tal muro di riserbo che pochi riuscivano a pensare a qualcosa da dire che non l'offendesse. Nel suo comportamento sembrava nascondersi una segreta, beffarda arroganza, come se muovendosi fra entità più misteriose e potenti avesse finito col trovare noiosi gli esseri umani. Quando l'arguto dottor Checkley venne da Boston nel 1738 per assumere l'incarico di curato alla King's Church, non trascurò di andare a trovare il personaggio di cui aveva sentito tanto parlare, ma se ne andò in breve tempo a causa di un sottofondo sinistro che aveva avvertito nei discorsi dell'ospite. Una sera d'inverno in cui parlavano di Joseph Curwen, Charles Ward disse al padre che gli sarebbe piaciuto sapere che cosa il misterioso vecchio avesse detto all'energico uomo di chiesa, ma che tutti i biografi concordano sulla reticenza del dottor Checkley a ripetere anche una parola di ciò che aveva udito. Il pover'uomo aveva subito un brutto shock e non riusciva a nominare Curwen
senza perdere la cordialità per cui era famoso. Meglio definita, invece, la ragione per cui un altro uomo di gusto e buon lignaggio decise di evitare l'altezzoso eremita. Nel 1764 il signor John Merritt, un anziano gentiluomo inglese di inclinazioni letterarie e scientifiche, si trasferì da Newport alla città che la stava rapidamente superando in importanza e costruì una bella villa di campagna sul Neck, in quello che è oggi il cuore del miglior quartiere residenziale. Merritt viveva con gusto e ampi mezzi: in città fu il primo ad avere una carrozza e i servitori in livrea, ed era fiero dei suoi telescopi, microscopi e di una scelta biblioteca in inglese e latino. Avendo saputo che Curwen possedeva la migliore biblioteca di tutta Providence, il signor Merritt si affrettò a fargli visita e fu ricevuto più cordialmente di tanti altri visitatori. La sua ammirazione per i vasti scaffali dell'ospite, che oltre ai classici greci, latini e inglesi contenevano una formidabile raccolta di opere filosofiche, matematiche e scientifiche con le opere di Paracelso, Agricola, Van Helmont, Silvio, Glauber, Boyle, Boerhaave, Becher e Stahl, spinse Curwen a proporgli una visita nel laboratorio annesso alla fattoria, dove non aveva mai invitato nessuno. I due partirono immediatamente nella carrozza del signor Merritt. Quest'ultimo ha sempre confessato di non aver visto nulla di orribile alla fattoria, ma ha sostenuto che i titoli dei volumi contenuti nella speciale biblioteca taumaturgica, alchemica e teologica tenuta da Curwen nella stanza principale erano bastati a ispirargli un'invincibile ripugnanza; e forse l'espressione del proprietario, al momento di mostrarglieli, aveva contribuito al pregiudizio. Quella straordinaria collezione, a parte un gruppo di libri tradizionali che il signor Merritt non era ancora troppo allarmato per invidiargli, comprendeva quasi tutti i cabalisti, maghi e demonologi conosciuti all'uomo e costituiva un tesoro nei dubbi settori dell'alchimia e dell'astrologia. C'erano Ermete Trismegisto nell'edizione di Mesnard, la Turba Philosophorum, il Liber Investigationis di Geber, la Chiave della saggezza di Artephius; non mancavano il cabbalistico Zohar, la raccolta di Alberto Magno curata da Peter Jammy, l'Ars Magna et Ultima di Raimondo Lullo nell'edizione Zetsner, il Thesaurus chemicus di Ruggero Bacone, la Clavis Alchimiae di Fludd e il De Lapide Philosophico di Tritemio, gli uni accalcati sugli altri. Occultisti ebrei e arabi del medioevo erano rappresentati in abbondanza e il signor Merritt era impallidito quando, dopo aver estratto un bel volume con una vistosa stampigliatura che lo proclamava per il Qanoon-e-Islam, aveva scoperto che si trattava in realtà del proibito Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred, di cui anni prima aveva sentito
sussurrare cose mostruose in relazione a un culto sconosciuto che veniva praticato nel piccolo villaggio di pescatori di Kingsport, nella Provincia di Massachusetts-Bay. Ma la cosa che più aveva inquietato il gentiluomo, strano a dirsi, è un particolare all'apparenza trascurabile. Sul gran tavolo di mogano era appoggiata, con le pagine aperte e rivolte in alto, una copia molto consumata di Borello che recava al margine note misteriose e sottolineature di Curwen. Il libro era aperto circa alla metà e un paragrafo era segnato con tratti di penna così tremuli e spessi, proprio sotto il capoverso, che il visitatore non aveva potuto trattenersi dal leggerlo. Fosse la natura del brano in questione, o la febbrile intensità dei segni che lo sottolineavano, c'era qualcosa in quella combinazione che colpì il signor Merritt profondamente e in modo drammatico. L'avrebbe ricordato sino alla fine dei suoi giorni, e a memoria lo trascrisse nel suo diario finché un giorno cercò di recitarlo al suo buon amico dottor Checkley, accorgendosi che la cosa lo disturbava. Il brano era questo: I sali essenziali de' gli Animali possono essere in tal guisa preparati e conservati che un Uomo d'ingegno custodisca nel suo Studio un'intiera Arca di Noè, e a suo piacimento possa resuscitare la Forma perfetta d'un animale dalle relative Ceneri. In virtù dell'istesso procedimento un filosofo può, senza macchiarsi di criminale negromanzia, richiamare alla vita uno qualunque dei suoi predecessori, facendolo sorgere da' sali essenziali e dalla polvere in cui il corpo fu a suo tempo consumato. Ma le cose peggiori sul conto di Joseph Curwen si mormoravano sui dock lungo la parte meridionale di Town Street. I marinai sono gente superstiziosa, e i maturi naviganti che formavano la ciurma degl'innumerevoli sloop addetti al commercio del rum, degli schiavi e della melassa, delle vistose navi corsare o dei grandi brigantini che appartenevano ai Brown, ai Crawford e ai Tillinghast, facevano strani e furtivi gesti di scaramanzia al solo apparire di quell'uomo magro e ingannevolmente giovane, dai capelli biondi, che sgusciava nel magazzino Curwen in Doubloon Street o restava a confabulare con i comandanti delle grandi navi da carico sul molo dove la flotta Curwen attraccava e salpava senza posa. Gli ufficiali e impiegati di Curwen lo odiavano e lo temevano; i marinai erano furfanti sanguemisto della Martinica, Sant'Eustachio, l'Havana o Port Royal. La paura del vecchio padrone era ispirata, nella parte più immediata e tan-
gibile, dalla frequenza con cui quei disgraziati venivano sostituiti: l'equipaggio di una nave veniva congedato o mandato in città per una serie di commissioni e quando si riuniva era certo che uno degli uomini mancasse, a volte più d'uno. Le commissioni avevano come meta, per lo più, la fattoria sulla strada di Pawtuxet: e che pochi ne fossero mai tornati non era ignorato dai compagni. Per questo Curwen trovò sempre più difficile mettere insieme le sue ciurme mal assortite: dopo aver sentito i pettegolezzi che circolavano nel porto di Providence gli uomini disertavano, e la loro sostituzione nelle Indie Occidentali rappresentò per il mercante un problema sempre più grave. Nel 1760 Joseph Curwen era praticamente isolato, sospettato di vaghi misfatti e di alleanze demoniache che parevano tanto più sinistre in quanto era difficile definirle, comprenderle o anche solo provare che avessero un fondamento. La goccia che fece traboccare il vaso, forse, fu il mistero dei soldati scomparsi nel 1758, perché nel marzo e aprile di quell'anno due reggimenti reali diretti verso la Nuova Francia si accamparono a Providence e vennero inesplicabilmente decimati, al punto da rendere incredibile ogni normale ipotesi di diserzione. Circolarono voci secondo le quali Curwen era stato visto parlare più volte, anzi con frequenza, ai soldati in divisa rossa, e quando parecchi scomparvero la gente ripensò alle misteriose sparizioni dei marinai. Nessuno può dire che cosa sarebbe accaduto se ai reggimenti non fosse stato ordinato di riprendere immediatamente il cammino. Nel frattempo, gli affari del mercante prosperavano. Aveva praticamente il monopolio cittadino del salnitro, del pepe nero e della cannella e superava ogni altra ditta mercantile, tranne i Brown, nell'importazione di oggetti d'ottone, della pianta d'isatide, del cotone, lana, sale, sartiame, ferro, carta e ogni tipo di prodotti dall'Inghilterra. Negozianti come James Green della Bottega dell'Elefante in Cheapside, i Russell dell'Aquila d'Oro oltre il fiume o Clark e Nightingale della Padella e il Pesce presso il Caffè Nuovo, dipendevano quasi completamente da lui per i loro rifornimenti; inoltre, gli accordi di Curwen con le distillerie locali, i caseifici, gli allevamenti di cavalli a Narragansett e i fabbricanti di candele di Newport ne facevano uno dei principali esportatori della Colonia. Benché trattato con ostracismo dalla comunità, non mancava di una sua specie di senso civico. Quando la Colony House bruciò, Curwen contribuì generosamente alle collette grazie alle quali fu possibile costruire la nuova, eretta nel 1761 e ancora oggi visibile alla testa di una sfilata di monumenti
nella vecchia strada principale. Quello stesso anno Curwen contribuì per la ricostruzione del Great Bridge dopo la tempesta di ottobre, sostituì molti libri della biblioteca civica andati perduti nell'incendio della Colony House e comprò senza lesinare i buoni della lotteria con i proventi della quale venne fatta la pavimentazione delle fangaie che erano Market Parade e Town Street, strade piene di fossi che finalmente furono lastricate a ciottoli tondi e nel mezzo ebbero un marciapiede di mattoni del tipo chiamato "causey". Fu verso quest'epoca che Curwen costruì la semplice ma splendida casa nuova la cui porta d'ingresso costituisce un esempio ancora insuperato d'intaglio. Quando i partigiani di Whitefield si separarono dalla chiesa del dottor Cotton sulla collina e fondarono quella di Deacon Snow al di là del ponte, Curwen li seguì, anche se ben presto il suo zelo e l'assiduità alle funzioni vennero meno. Per un poco, tuttavia, mostrò di coltivare la pietà religiosa come un tempo e cercò di disperdere le ombre che l'avevano gettato nell'isolamento, e che, se non dissipate in tempo, avrebbero danneggiato i suoi commerci. 2 La vista di quell'uomo pallido, strano, che sembrava appena di mezz'età e tuttavia non aveva meno di un secolo, quell'uomo che cercava di emergere finalmente da una nube di sospetti e paure troppo vaghe per essere precisate o analizzate, era uno spettacolo che aveva qualcosa di patetico, drammatico e disprezzabile insieme. Ma il potere del denaro e dei gesti più superficiali è tale che l'avversione nei suoi confronti parve mitigarsi un poco, specie dopo che le rapide sparizioni dei marinai cessarono all'improvviso. Nelle sue spedizioni ai cimiteri Curwen deve aver usato la stessa cautela e segretezza, perché nessuno lo vide più su quella strada, e i pettegolezzi di suoni misteriosi che venivano dalla fattoria di Pawtuxet diminuirono in proporzione. Le quantità di cibo e bestiame che consumava erano sempre eccessive, ma fino ai nostri giorni, quando Charles Ward ha esaminato i conti e i documenti di Curwen nella biblioteca Shepley, non è mai venuto in mente a nessuno - tranne forse a un giovane amareggiato - di fare l'agghiacciante confronto tra l'altissimo numero di uomini di colore che il mercante importò dalla Guinea fino al 1766 e il piccolissimo numero di quelli per i quali fu in grado di produrre ricevute di vendita, sia ai mercanti di schiavi del Great Bridge che ai piantatori nelle campagne della Narragansett Country. Certo l'astuzia e l'ingegnosità dell'aborrito personaggio
erano straordinari, una volta che la necessità lo costringeva a ricorrervi. Ma ovviamente l'effetto di questo tardivo pentimento fu lieve. La gente continuò a evitare Curwen e a diffidare di lui, come se il solo aspetto di eterna giovinezza bastasse a condannarlo; e il mercante si rese conto che ben presto le sue fortune ne avrebbero sofferto. I suoi elaborati studi ed esperimenti, qualunque fosse la loro natura, richiedevano somme ingenti, e siccome un eventuale trasferimento lo avrebbe privato dei vantaggi che aveva acquisito col commercio, non gli sarebbe convenuto ricominciare da zero in un'altra zona. Il buon senso richiedeva che Curwen migliorasse i suoi rapporti con la popolazione di Providence, in modo che la sua presenza non desse più la stura ai pettegolezzi a mezza voce, a grossolane scuse di "impegni altrove" e a una generale atmosfera di imbarazzo e disagio. I suoi impiegati, ridotti a un esiguo gruppetto di inetti e diseredati che nessun altro avrebbe assunto, gli davano non poca preoccupazione, e Curwen riusciva a mantenere i comandanti e i secondi delle navi solo grazie ad astuzie che gli conferivano qualche potere su di loro: un'ipoteca, un pagherò, informazioni delicate sulle loro finanze. In molti casi, come i diari dell'epoca riferiscono con timore, Curwen mostrava poteri quasi sovrannaturali nell'indagare i segreti di famiglia di cui faceva poi discutibile uso. Negli ultimi cinque anni della sua vita, solo colloqui personali con gente morta da tempo avrebbero potuto fornirgli le informazioni che il vecchio aveva così prontamente sulla lingua. Più o meno a quell'epoca egli ricorse a un ultimo e disperato tentativo per riguadagnare il terreno perduto nella comunità. Se fino a quel momento era stato un completo eremita, ora decise di fare un matrimonio vantaggioso e di prendere in moglie una signora la cui onorabilità rendesse impossibile qualsiasi ostracismo verso la sua casa. Può darsi che lo studioso avesse più profonde ragioni per desiderare un'unione, ma in tal caso si trattava di motivi del tutto estranei alla sfera dell'universo conosciuto e che solo le carte trovate un secolo e mezzo dopo la sua morte hanno indotto qualcuno a sospettare; del resto, non si può dire nulla di certo. Ovviamente Curwen sapeva che un normale corteggiamento da parte sua avrebbe suscitato orrore e indignazione, quindi si mise alla ricerca di una candidata sui cui genitori potesse esercitare una certa pressione. Scoprì che non era facile, anche perché le sue pretese in fatto di bellezza, educazione e sicurezza sociale non erano da poco. Alla fine le ricerche si restrinsero intorno alla casa di uno dei suoi migliori e più vecchi comandanti, un vedovo di ottima nascita e irreprensibile condotta che rispondeva al nome di Dutee Tillin-
ghast, e la cui unica figlia, Eliza, sembrava dotata di tutte le qualità meno la prospettiva di diventare un'ereditiera. Il comandante Tillinghast era sotto il completo dominio di Curwen, e dopo un terribile colloquio nella sua casa dal tetto a cupola sulla collina di Power's Lane, acconsentì alla blasfema unione. A quell'epoca Eliza Tillinghast aveva diciotto anni ed era stata educata con tutta la cura che le ridotte sostanze paterne consentivano. Aveva frequentato la scuola di Stephen Jackson, di fronte alla passeggiata del tribunale, e prima di morire di vaiolo nel 1757 sua madre le aveva insegnato tutte le arti e le finezze della vita domestica. Un esemplare dei suoi lavori di ricamo, eseguito nel 1753 all'età di nove anni, può essere ancora ammirato nelle sale della Rhode Island Historicai Society. Dopo la morte della madre era stata la ragazza a mandare avanti la casa, aiutata solo da una donna di colore. Le sue discussioni col padre circa il prospettato matrimonio con Curwen devono essere state dolorose, ma non abbiamo documenti in proposito. È certo che il fidanzamento di Eliza con il giovane Ezra Weeden - secondo ufficiale del vapore Enterprise, di proprietà Crawford - fu debitamente interrotto e che il matrimonio con Joseph Curwen avvenne il 7 marzo 1763 nella Chiesa battista, alla presenza di una delle più raffinate assemblee che la città potesse vantare; la cerimonia fu celebrata dal pur giovane Samuel Winsor. La "Gazette" citò l'evento brevemente, ma nella maggior parte delle copie giunte sino a noi il trafiletto sembra essere stato tagliato o strappato. Dopo molte ricerche Ward trovò una copia intatta negli archivi di un famoso collezionista privato e notò con divertimento la vuota formalità del linguaggio: Lunedì sera ultimo il signore Joseph Curwen, mercante di codesta città, prese in moglie la signorina Eliza Tillinghast, figlia del comandante Dutee, giovine donna di meriti indubbi e bella persona, in virtù de' quali l'unione matrimoniale sarà indubbiamente benedetta e la sua felicità perpetuata. Il carteggio Durfee-Arnold, scoperto da Charles Ward poco prima della cosiddetta pazzia nella collezione privata del signor Melville F. Peters, in George Street, copre il periodo del matrimonio e quello subito precedente, gettando vivida luce sull'offesa che una coppia così male assortita rappresentò per l'opinione pubblica. L'influenza sociale dei Tillinghast, comunque, non può essere negata, e ancora una volta Joseph Curwen vide la sua casa frequentata da persone che altrimenti non avrebbe mai potuto convin-
cere a varcarne la soglia. La sua accettazione non fu per niente completa, e sul piano sociale lo scotto del matrimonio combinato finì per ricadere sulla sposa; in ogni caso, il muro di totale ostracismo si era sgretolato. Nel modo di trattare la moglie il bizzarro consorte stupì tanto la stessa Eliza che la comunità, dando prova di un'estrema gentilezza e considerazione. La nuova casa in Olney Court si era liberata delle manifestazioni misteriose, e benché Curwen si recasse spesso alla fattoria di Pawtuxet, che sua moglie non visitò mai, si avvicinava all'immagine del cittadino normale più di quanto fosse mai avvenuto nei lunghi anni di residenza. Solo una persona gli restava apertamente ostile, il giovane ufficiale il cui fidanzamento con Eliza era stato bruscamente interrotto. Ezra Weeden aveva giurato francamente vendetta, e benché fosse di natura mite e tranquilla, ora accarezzava un proposito malsano, nutrito dall'odio e che non prometteva niente di buono per il marito usurpatore. Il sette maggio 1765 nacque l'unica figlia di Curwen, Ann, che fu battezzata dal reverendo John Graves della King's Church: sia il marito che la moglie ne erano diventati frequentatori subito dopò il matrimonio, per trovare un compromesso fra le rispettive affiliazioni d'origine, congregazionale e battista. L'atto di nascita, come pure quello del matrimonio avvenuto due anni prima, fu in seguito eliminato dagli annali della chiesa e da quelli cittadini, o almeno dalla maggior parte delle copie, e Charles Ward riuscì a rintracciarli con grande difficoltà dopo aver scoperto che la vedova dal nome cambiato era una sua parente, fatto che aveva stimolato il febbrile interesse poi culminato nella follia. L'atto di nascita, caso abbastanza curioso, fu rintracciato grazie a uno scambio epistolare con gli eredi del lealista dottor Graves, che aveva preso un duplicato di tutti i documenti quando aveva lasciato la parrocchia allo scoppio della rivoluzione americana. Ward aveva tentato quella strada perché sapeva che la sua trisavola Ann Tillinghast Potter era un'episcopale. Poco dopo la nascita della figlia, avvenimento che aveva accolto con un entusiasmo insolito per il suo temperamento gelido, Curwen decise di posare per un ritratto. Lo fece eseguire da un artista scozzese di talento, di nome Cosmo Alexander, che all'epoca abitava a Newport e divenne famoso per essere stato il primo maestro di Gilbert Stuart. Il quadro, secondo certe voci, fu appeso a un pannello di legno in biblioteca, ma nessuno dei due antichi diari che ne parlano accenna alla disposizione. In questo periodo il bizzarro studioso mostrò strani segni di vaghezza e passò la maggior parte del tempo nella fattoria sulla via di Pawtuxet. Qualcuno dichiarò che
sembrava in preda a un'eccitazione repressa o a un vivo senso d'attesa, come se aspettasse qualcosa di straordinario o fosse sul punto di fare una scoperta incredibile. La chimica e l'alchimia dovevano avere un ruolo importante nella faccenda, perché trasportò alla fattoria la maggior parte dei suoi libri sull'argomento. Curwen non smise di affettare interesse per la vita della comunità e non perse l'occasione di aiutare uomini eminenti come Stephen Hopkins, Joseph Brown e Benjamin West nel loro sforzo di elevare il tono culturale della città, che allora era di gran lunga inferiore a Newport in fatto di protezione delle arti. Curwen aiutò Daniel Jenckes a fondare la sua libreria nel 1763 e in seguito ne diventò il miglior cliente; un altro aiuto lo diede alla "Gazette" che usciva ogni mercoledì dalla Bottega della Testa di Shakespeare. In politica sostenne ardentemente il governatore Hopkins contro il partito di Ward, la cui roccaforte era Newport, e il suo eloquente discorso alla Hacher's Hall nel 1765, contro la trasformazione di North Providence in città autonoma e la possibilità che l'Assemblea Generale guadagnasse un altro voto pro-Ward, fece più di ogni altro gesto per sgretolare i pregiudizi contro di lui. Ma Ezra Weeden, che lo teneva d'occhio attentamente, rideva amareggiato di fronte a queste apparenze e giurava che si trattava d'una maschera per coprire il commercio senza nome in atto fra Curwen e i più neri pozzi del Tartaro. Tutte le volte che sbarcava in città, il giovane vendicativo riprendeva lo studio sistematico del rivale e dei suoi atti: quando la luce nei magazzini Curwen era accesa, Ezra si appostava sui moli tenendo una barchetta pronta e seguiva la piccola imbarcazione che a volte prendeva il largo dalla baia. Teneva d'occhio, naturalmente, anche la fattoria di Pawtuxet, e una volta fu ferito gravemente dai cani che la vecchia coppia di indiani sguinzagliò su di lui. 3 L'ultimo cambiamento in Joseph Curwen avvenne nel 1766. Fu improvviso e destò l'attenzione degli abitanti della comunità, perché l'aria di attesa e trepidazione da cui lo avevano visto circondato cadde come un vecchio mantello per cedere il posto a un senso di malcelata esaltazione e trionfo. Curwen non poteva fare a meno di vantarsi in pubblico delle cose che aveva scoperto, appreso o realizzato, ma il bisogno di segretezza dovette essere più forte del desiderio di condividerne la gioia, perché in questo caso non diede spiegazioni a nessuno. Fu dopo il cambiamento, verifi-
catosi ai primi di luglio, che il sinistro studioso cominciò a stupire la gente mostrandosi in possesso di informazioni che solo avi morti da lunghissimo tempo avrebbero potuto comunicargli Le segrete e febbrili attività di Curwen non cessarono affatto con la metamorfosi. Anzi, tendevano ad aumentare, e una parte sempre più cospicua dei suoi affari mercantili venne affidata ai comandanti delle navi, che il vecchio teneva legati a sé con vincoli tremendi e altrettanto persuasivi delle minacce finanziarie. Egli abbandonò completamente il commercio degli schiavi, sostenendo che i profitti erano sempre più bassi, e dedicò ogni momento libero alla fattoria di Pawtuxet. Si mormorava che fosse stato visto in luoghi non proprio vicini ai cimiteri, ma così propizi per chi avesse voluto frequentarli che la gente avveduta si chiedeva fino a che punto le abitudini del mercante fossero cambiate. Ezra Weeden, che pure doveva limitare la sua attività spionistica a periodi brevi e intermittenti, perché il lavoro lo costringeva a viaggiare, era animato dall'ostinazione della vendetta che mancava agli altri abitanti della città o delle campagne: in questo modo riuscì a tener d'occhio gli affari di Curwen come nessun altro. Le misteriose manovre delle navi del vecchio sembravano rientrare perlopiù nella norma, perché i tempi erano tormentati e non c'era colono che non fosse deciso a opporsi al Real Decreto sullo zucchero, che rischiava di strangolare un commercio fiorente. Contrabbando ed evasione erano all'ordine del giorno nella Baia di Narragansett, e le spedizioni notturne di carichi illeciti erano altrettanto frequenti. Weeden, tuttavia, seguiva notte dopo notte le imbarcazioni leggere o piccoli sloop che si allontanavano dai magazzini Curwen lungo i moli di Town Street e presto ebbe là certezza che il terribile mercante non cercasse soltanto di evitare le navi armate di Sua Maestà. Prima del cambiamento avvenuto nel 1766, le piccole imbarcazioni di Curwen avevano trasportato soprattutto negri in catene, i quali venivano condotti al di là della baia e sbarcati in un punto buio della costa a nord di Pawtuxet; di lì venivano guidati attraverso la campagna alla fattoria Curwen, dove erano rinchiusi nella grande dipendenza di pietra che non aveva vere e pròprie finestre, ma solo strette feritoie. Dopo la metamorfosi, tuttavia, l'intero programma fu cambiato. L'importazione di schiavi cessò immediatamente e per un certo periodo Curwen rinunciò alle escursioni di mezzanotte: poi, verso la primavera del 1767, adottò una nuova politica. Ancora una volta le imbarcazioni leggere cominciarono ad allontanarsi dai moli neri e silenziosi, puntando in fondo alla baia e spingendosi a una certa distanza, forse fino a Namquit Point; lì si riunivano per
imbarcare il carico di certe navi pesanti e quanto mai eterogenee. I marinai di Curwen depositavano la merce nel solito punto lungo la costa e la trasportavano via terra alla fattoria, dove la chiudevano nell'enigmatico edificio di pietra che prima aveva ospitato gli schiavi. Il carico consisteva quasi interamente di scatole e casse, perlopiù pesanti e di forma oblunga, tanto da dare la sgradevole impressione che si trattasse di bare. Weeden sorvegliava la fattoria con particolare assiduità e ogni notte vi si recava per lunghi periodi; raramente passava una settimana senza che l'avesse sorvegliata almeno una volta, tranne quando nevicava e le tracce sarebbero state compromettenti. Ma anche in questo caso egli si avvicinava il più possibile sulla strada carrozzabile o camminando sul ghiaccio del fiume vicino, per vedere quali tracce avessero lasciato gli altri. Poiché la sua vigilanza era interrotta dagli impegni di bordo, Weeden affidò a un compagno di taverna, un certo Eleazar Smith, il compito di continuare la sorveglianza in sua assenza; fra tutti e due avrebbero potuto mettere in giro le più straordinarie dicerie, ma non lo fecero perché sapevano che la pubblicità avrebbe messo in guardia la preda e reso impossibili ulteriori progressi. Molto meglio scoprire tutto ciò che si poteva prima di passare all'azione. Quello che appresero deve essere stato straordinario, e più volte Charles Ward confessò ai genitori di rimpiangere che Weeden avesse deciso di bruciare i suoi taccuini. Tutto ciò che sappiamo è quello che Eleazar Smith buttò giù in un diario niente affatto coerente, e quello che altri diaristi o epistolografi del tempo hanno timidamente riferito circa le dichiarazioni finali dei due amici: la fattoria non sarebbe stata che il guscio esteriore di una vasta e ripugnante attività segreta, l'estensione e la profondità della quale erano fin troppo dubbie e impalpabili. Pare che Weeden e Smith si fossero convinti che sotto la fattoria si stendesse una rete di gallerie o catacombe, abitate da un certo numero di persone oltre che dal vecchio indiano e sua moglie. La casa era una reliquia col tetto a punta della metà Seicento, con un enorme camino e finestre a rettangoli piccolissimi munite di inferriata; il laboratorio di Curwen si trovava in una dipendenza della casa vera e propria, e il tetto inclinato della seconda costruzione sfiorava il suolo. Apparentemente il laboratorio non era collegato agli altri edifici, ma a giudicare dalle voci che si sentivano provenire dall'interno alle ore più strane, è probabile che fosse accessibile da qualche passaggio sotterraneo. Prima del 1766 le "voci" erano state soprattutto mormorii, sussurri di negri e urla disperate, a volte strani canti e invocazioni. Dopo quella data, tuttavia, presero un timbro agghiacciante e
coprirono tutto l'arco che va da un brontolio di rassegnazione a un'esplosione di terror panico e rabbia, passando per brandelli di conversazione, mugolii di sofferenza, sospiri soffocati e grida di protesta. Le parole sembravano profferite in lingue diverse, tutte note a Curwen, la cui voce sibilante veniva udita spesso nell'atto di rispondere, rimproverare o minacciare. A volte sembrava che nella casa dovessero esserci molte persone: Curwen, i suoi prigionieri e i guardiani dei prigionieri. C'erano voci talmente Strane che Weeden e Smith non ne avevano mai sentito l'uguale, nonostante la loro esperienza di navigatori, e altre che non riuscivano ad attribuire a questa o quella nazionalità. La natura delle conversazioni faceva pensare a una sorta di catechismo, come se Curwen cercasse di estorcere informazioni ai prigionieri ribelli e atterriti. Weeden trascrisse nel suo taccuino i resoconti testuali di ciò che aveva udito, perché le lingue più usate erano l'inglese, il francese e lo spagnolo, che egli conosceva: purtroppo nessuno di questi documenti è arrivato fino a noi. Il giovane dichiarò, tuttavia, che a parte alcuni macabri colloqui riguardanti i passati affari delle famiglie di Providence, le domande e risposte che era riuscito a decifrare riguardavano argomenti storici o scientifici e a volte si riferivano a luoghi ed epoche remoti. In una certa occasione, per esempio, un personaggio che sembrava alternativamente irato e depresso fu interrogato in francese sul massacro del Principe Nero avvenuto a Limoges nel 1370, come se dietro la faccenda ci fossero ragioni nascoste che il personaggio avrebbe dovuto conoscere. Curwen chiese al prigioniero - ammesso che di prigioniero si trattasse - se l'ordine di uccidere fosse stato dato per via del segno del Capro, trovato sull'altare dell'antica cripta romana sotto la cattedrale, o se l'Uomo Nero della congrega di Haute Vienne avesse pronunciato le Tre Parole. Non avendo ottenuto risposta l'inquisitore era ricorso, a quanto pare, a mezzi estremi, perché si era udito un urlo terribile seguito da un silenzio, un mormorio e un rumore strascicato. Nessuno di quei colloqui aveva avuto testimoni oculari, e del resto le finestre erano protette da pesanti tendaggi; tuttavia una volta, durante una discussione in una lingua sconosciuta, dietro le tende si era delineata un'ombra che aveva sorpreso Weeden in modo straordinario e gli aveva ricordato una delle marionette di uno spettacolo che aveva visto nell'autunno 1764 in Hacher's Hall, quando un uomo venuto da Germantown, Pennsylvania, aveva dato una magnifica rappresentazione meccanica reclamizzata così: "Una veduta della famosa città di Gerusalemme in cui sono rappresentati l'istessa, il Tempio di Salomone, il suo Trono reale, le note
Torri e Colline, come pure le Sofferenze del Nostro Salvatore dal giardino di Getsemani alla Crocifissione sul monte Golgota; artistica esibizione di Statue degna d'interessare i Curiosi". Fu in questa occasione che l'ascoltatore, avvicinatosi alla finestra della stanza principale dove si svolgeva il colloquio, trasalì così violentemente da attirare l'attenzione della vecchia coppia di indiani, che gli sguinzagliò addosso i cani. Dopo questo episodio nella casa non si udirono più conversazioni, e Weeden e Smith conclusero che Curwen si fosse trasferito nei sotterranei. Che tali sotterranei esistessero è ampiamente provato. Di quando in quando deboli grida e gemiti si alzavano dalla terra stessa, in punti lontani da qualsiasi edificio; mentre fra gli arbusti che crescevano sul retro della casa, in riva al fiume, dove il terreno scende ripidamente verso la valle del Pawtuxet, fu scoperta una porta in legno di quercia e pesante cornice di pietra, ben nascosta, che rappresentava senz'altro l'ingresso alle gallerie scavate nella collina. Quando o come i cunicoli fossero stati costruiti, Weeden non avrebbe saputo dirlo, ma sottolineò più volte con quanta facilità il luogo potesse essere raggiunto da gruppi di operai arrivati dal fiume. Joseph Curwen usava i marinai sanguemisto per numerose mansioni, non c'è che dire! Durante le forti piogge della primavera 1769, i due osservatori tennero d'occhio la riva scoscesa del fiume per vedere se fosse possibile portare alla luce qualche segreto del sottosuolo, e furono premiati dalla scoperta di una quantità di ossa umane e animali in punti in cui il terreno lungo la sponda era franato. Naturalmente c'erano molte spiegazioni per la presenza di oggetti simili sul retro di una fattoria dove veniva tenuto del bestiame, e in una località dove erano comuni le antiche tombe indiane: ma Weeden e Smith trassero le loro conclusioni. Nel gennaio 1770, mentre Weeden e Smith cercavano di chiarirsi le idee su ciò che dovevano fare o pensare dell'inquietante faccenda (ammesso che le cose stessero davvero come sembravano), avvenne l'incidente della Fortaleza. Esasperata dall'incendio della nave doganiera Liberty, avvenuto a Newport l'estate prima, la flotta reale comandata dall'ammiraglio Wallace aveva aumentato la sorveglianza sui vascelli sospetti e in quell'occasione lo schooner di Sua Maestà Cygnet, comandato dal capitano Charles Leslie, catturò il mattino presto, dopo breve inseguimento, la nave Fortaleza di Barcellona, comandata dal capitano Maniel Arruda; secondo il diario di bordo l'imbarcazione straniera era diretta dal Cairo, in Egitto, a Providence. Ispezionata per accertare che non vi fosse materiale di contrabbando, la nave aveva rivelato un'incredibile sorpresa: il carico, infatti, consisteva e-
sclusivamente di mummie egiziane da consegnare al "marinaio A. B. C", che sarebbe venuto a reclamarle su una barca più leggera, al largo di Namquit Point; e il comandante Arruda si era fatto un punto di non rivelarne l'identità. La capitaneria di Newport si era trovata in imbarazzo, perché da una parte la merce non era di contrabbando e dall'altra l'intrusione nelle acque territoriali era una violazione della legge. Dietro suggerimento dell'esattore Robinson si era deciso infine di lasciar andare la nave ma di vietarle l'ingresso nei porti del Rhode Island. Secondo alcune voci che circolarono poi, la nave sarebbe stata vista al largo di Boston, anche se non attraccò in porto. Lo straodinario incidente non mancò di suscitare sensazione a Providence e non furono pochi a dubitare l'esistenza di un qualche legame fra il carico di mummie e il sinistro Joseph Curwen. I suoi studi esoterici e le curiose sostanze chimiche che acquistava erano cosa familiare, mentre la sua predilezione per i camposanti era nel sospetto di tutti. Non ci volle molta immaginazione, quindi, a collegarlo con la nuova e insolita serie di importazioni, che non potevano essere dirette a nessun altro in città. Ben consapevole dei sospetti popolari, in diverse occasioni Curwen si preoccupò di parlare casualmente del gran valore chimico che possedevano i balsami trovati nelle mummie, come se in questo modo l'affare potesse sembrare più naturale; nondimeno, un attimo prima di ammettere il suo diretto coinvolgimento finiva per tacere. Weeden e Smith, ovviamente, non ebbero alcun dubbio sul significato della cosa e costruirono le più fantastiche teorie su Curwen e le sue mostruose esperienze. La primavera seguente, come quella dell'anno prima, fu molto piovosa e i due osservatori tennero d'occhio la sponda del fiume dietro la fattoria. Alcuni tratti sabbiosi cedettero all'acqua e rivelarono un gran numero di ossa, ma non si trovò l'ingresso a eventuali tane o cunicoli sotterranei. Nel villaggio di Pawtuxet - che si trova circa un chilometro e mezzo più a valle, dove il fiume forma una cascata e precipita da una terrazza rocciosa nella conca tranquilla abbracciata dalla costa - circolavano strane voci. In quell'abituro di vecchie capanne, che si arrampicavano da un rustico ponte sul fianco della collina e dove le barche dei pescatori languivano all'ancora di moli addormentati, si sentì dire che il fiume trasportava a valle misteriosi corpi, i quali balenavano alla vista un momento prima di precipitare dalla cascata. Naturalmente il Pawtuxet è un lungo fiume che attraversa numerose regioni abitate e piene di cimiteri, ed è anche vero che le piogge di primavera erano state più forti del solito; ma i pescatori che chiacchierava-
no sul ponte del villaggio non apprezzarono il modo in cui uno dei corpi "lanciò un'occhiata verso il basso" mentre precipitava nelle acque della baia, né l'urlo emesso da un'altra figura, che pure aveva da lungo superato lo stadio in cui i corpi umani sono in grado di gridare. Queste voci indussero Smith (perché Weeden in quel momento era imbarcato) a precipitarsi sulla sponda del fiume dietro la fattoria, dove infatti rimanevano le tracce di un'ampia frana. Ma non c'era segno di un cunicolo che corresse direttamente lungo la sponda, perché la piccola valanga si era lasciata alle spalle una solida parete di terra mista a cespugli caduti dall'alto. Smith cercò persino di scavare, ma desistette per mancanza di risultati (o forse per timore che i risultati ci fossero). È interessante immaginare che cosa avrebbe fatto il tenace e vendicativo Weeden, se in un momento come quello fosse stato a terra. 4 Nell'autunno 1770, Weeden decise che era venuto il tempo di mettere a parte la comunità delle sue scoperte: era in grado di collegare un gran numero di fatti apparantemente senza nesso e disponeva di un secondo testimone oculare pronto a respingere l'eventuale accusa che gelosia e desiderio di vendetta avessero offuscato il suo cervello. Come primo confidente Weeden scelse il comandante James Mathewson della Enterprise, che lo conosceva piuttosto bene e non avrebbe messo in dubbio le sue parole, e in secondo luogo era abbastanza influente da venire ascoltato a sua volta con rispetto. Il colloquio si svolse in una stanza al piano superiore della Sabin's Tavern nella zona del porto, con Smith presente per corroborare ogni affermazione dell'amico. Il comandante Mathewson fu visibilmente impressionato dalla testimonianza dei due: come chiunque altro, in città, nutriva neri sospetti sul conto di Curwen e il resoconto di Weeden e Smith, oltre a fornirgli le informazioni che gli mancavano, fu la conferma di cui aveva bisogno. Alla fine della conversazione si mostrò preoccupato e impose ai due giovani il più assoluto silenzio; poi aggiunse che avrebbf trasmesso le informazioni a una decina dei più colti e autorevoli cittadini di Providence, cercando di scoprire come la pensavano e di seguire i consigli che avessero voluto dargli. La segretezza era essenziale in ogni caso: innanzi tutto perché non si trattava di una faccenda che il conestabile o la milizia della città potessero risolvere da soli, ma soprattutto perché bisognava tenere nell'ignoranza il popolino eccitabile o si sarebbe rischiato, in tempi così turbo-
lenti, di ripetere lo spaventoso panico di Salem verificatosi meno di un secolo prima, e che aveva indotto Curwen a trasferirsi a Providence. Le persone giuste a cui rivolgersi, secondo il comandante Mathewson, erano il dottor Benjamin West, il cui saggio sul recente passaggio di Venere lo qualificava come uno studioso e un acuto pensatore; il reverendo James Manning, rettore dell'università appena trasferita a Providence da Warren, e che era temporaneamente alloggiata nella nuova scuola di King Street, in attesa che fosse completata la costruzione dell'edificio in Presbyterian-Lane, sulla cima della collina; l'ex governatore Stephen Hopkins, che era stato membro della Società filosofica a Newport ed era un uomo di mente molto ampia; John Carter, editore della "Gazette"; i quattro fratelli Brown (John, Joseph, Nicholas e Moses), riconosciuti magnati della città fra i quali Joseph si distingueva come una sorta di scienzato dilettante; il vecchio dottor Jabez Bowen, uomo di notevole erudizione e che aveva personalmente servito Joseph Curwen nei suoi acquisti straordinari; infine, il capitano Abrahm Whipple, un corsaro del Re di fenomenale audacia ed energia su cui si poteva contare per qualunque eventuale azione di forza. Questi uomini, se favorevoli, avrebbero potuto riunirsi per prendere insieme le decisioni del caso, e a loro sarebbe toccata la responsabilità di decidere se informare o meno il governatore della Colonia, Joseph Wanton di Newport, prima di intraprendere eventuali azioni. La missione del comandante Mathewson ebbe un successo insperato, e se uno o due degli interpellati si mostrarono in qualche modo scettici sul lato più orripilante del racconto di Weeden, non ce ne fu uno che non ritenesse necessario fare qualcosa, in segreto ma con un progetto preciso. Curwen, era evidente, costituiva una potenziale e oscura minaccia per il benessere della città e della Colonia: dunque, bisognava eliminarlo a tutti i costi. Alla fine di dicembre 1770 un gruppo di illustri cittadini si riunì in casa di Stephen Hopkins ed esaminò le possibili soluzioni. Gli appunti di Weeden, che questi aveva fornito al comandante Mathewson, vennero letti attentamente ed entrambi i testimoni furono invitati a scendere nei particolari. Prima che la riunione si sciogliesse qualcosa di molto simile alla paura afferrò come una morsa l'intero gruppo, ma al timore si accompagnava una ferma determinazione che fu espressa al meglio da un'improvvisa e profana esclamazione del capitano Whipple. Poiché sembrava necessaria un'azione extralegale, i convenuti decisero di non informare il governatore; con i poteri misteriosi e oscuri di cui sembrava disporre, il vecchio mercante non era uomo a cui si potesse intimare semplicemente di lasciare la
città. Vendette imprevedibili avrebbero potuto scatenarsi su tutti, e anche'ammesso che quel sinistro individuo obbedisse all'ordine, il suo allontanamento non avrebbe fatto altro che scaricare il problema su un'altra comunità. Erano tempi senza legge, e in caso di emergenza gli uomini che per anni avevano frodato gli esattori del Re non si sarebbero tirati indietro di fronte ad atti anche più drastici. Bisognava sorprendere Curwen alla fattoria di Pawtuxet con un numeroso gruppo di uomini armati, i quali gli avrebbero dato un'ultima possibilità di giustificarsi. Se si fosse dimostrato un pazzo - uno che si divertiva a gridare o a tenere conversazioni immaginarie simulando diverse voci - lo avrebbero internato; ma se fosse emerso qualcosa di più grave e gli orrori del sottosuolo si fossero rivelati autentici, lui e tutti quelli che occupavano la casa sarebbero morti. Era una cosa che si poteva fare con dicrezione, e persino alla vedova e a suo padre non si sarebbe detta la verità. Mentre si discutevano queste misure, avvenne in città un episodio così tremendo e inspiegabile che per qualche tempo non si parlò d'altro in tutto il circondario. Nel cuore di una notte di luna, a gennaio, con il terreno abbondantemente coperto di neve, si udì un'orrenda serie di urla sul fiume e verso la collina; parecchi si affacciarono alla finestra, assonnati, e la gente di Weybosset Point vide una gran cosa bianca correre a perdifiato sullo spiazzo ingombro di neve davanti alla Turk's Head. In lontananza si udiva un latrare di cani, che si calmò non appena il clamore della città risvegliata si poté udire anche a distanza. Gruppi di uomini con lampade e moschetti si affrettarono a vedere cosa accadesse, ma le ricerche non furono premiate. La mattina dopo, tuttavia, fu trovato un corpo giagantesco, muscoloso e completamente nudo, sulle lastre di ghiaccio intorno ai tralicci meridionali del Great Bridge, là dove il Long Dock si protendeva dalla distilleria di Abbott. L'identità del morto fu oggetto di interminabili discussioni a mezza voce; non erano tanto i giovani quanto i vecchi a fantasticare, e solo nei patriarchi quel volto cadaverico, con gli occhi che schizzavano dalle orbite per l'orrore, suscitava qualche ricordo. Tremando, i vegliardi si scambiavano parole di paura e stupore, perché nei lineamenti rigidi e spaventosi del cadavere avevano scoperto una somiglianza stupefacente, anzi una vera e propria identità con un cittadino morto cinquant'anni prima. Ezra Weeden fu presente al ritrovamento, e ricordando l'abbaiar di cani della notte prima si avviò per Weybosset Street e attraversò il ponte di Muddy Dock, da cui i latrati sembravano provenire. Nutriva una curiosa speranza, e non fu sorpreso quando, raggiunto il limitare della zona abitata
dove la strada cittadina confluiva nella via di Pawtuxet, si imbatté in alcune bizzarre tracce nella neve. Il gigante nudo era stato inseguito dai cani e da parecchi uomini con gli stivali, che avevano lasciato segni ben visibili anche sulla via del ritorno. I cani e i loro padroni avevano abbandonato la caccia quando si era fatta troppo vicina alla città: Weeden sorrise con cupa soddisfazione, e come un segugio risalì le orme fino al punto da cui venivano. Si trattava, come Weeden aveva immaginato, della fattoria di Joseph Curwen, e se nel cortile le orme non fossero state troppe e confuse sarebbe andato oltre. Visto come stavano le cose, e siccome era pieno giorno, finse di non mostrarsi troppo interessato; ma il dottor Bowen, dal quale Weeden andò subito con le notizie, fece l'autopsia del cadavere e scoprì alcune cose che lo lasciarono di stucco. Sembrava che l'intestino del colosso non funzionasse da anni, mentre la pelle appariva ruvida e smagliata, fatti per cui non sembrava esserci una spiegazione. Impressionato dalla somiglianza che i vecchi ravvisavano tra il cadavere e il fabbro Daniel Green (morto da tempo e un cui bisnipote, Aaron Hoppin, era sovrintendente al carico nella flotta di Curwen), Weeden fece una serie di domande casuali finché scoprì dove Green fosse sepolto. Quella notte un gruppo di dieci uomini si recò nell'antico cimitero chiamato North Burying Ground, di fronte a Herrenden's Lane, e aprì una tomba. Proprio come si erano aspettati, la trovarono vuota. Nel frattempo erano stati presi accordi con i messi postali per intercettare la corrispondenza di Joseph Curwen, e poco prima dell'episodio del cadavere fu sequestrata una lettera di un certo Jedediah Orne di Salem, che diede molto da pensare ai nemici del mercante. Alcuni brani della lettera, copiati e conservati negli archivi privati della famiglia Smith, dove Charles Ward li trovò, dicono quanto segue: Mi compiaccio dell'impegno che portate ne li Studi Antichi, et a vostro modo, poi che non credo li eseguisse meglio il signor Hutchinson a SalemVillage. Certo quello che H. resuscitò non fu che un animato Obbrobrio, perché poté impadronirsi solo parzialmente de la materia prima. Quanto voi mi inviaste non funzionò, o perché mancava qualche elemento o perché le Parole non erano esatte quando le pronunciai e copiai. Da solo nulla posso: non posseggo le arte chimiche per obbedire a Borello e sbagliai al punto VII. Portate con voi il Necronomicon che mi raccomandaste, ma vi priego di osservare quello che ci fu detto sulla necessità imperativa di prestare grande attenzione a Chi noi evochiamo, giacché sapete ciò che scrisse
il signor Mather nel Magnalia ecc, et potete giudicare come fosse autentica la cosa orrenda che vi è riferita. Vi dico ancora: non evocate niuna Entità che non possiate indietro rimandare, col che significo alcuna cosa i cui poteri siano più grandi dei vostri. Fui atterrito nel leggere che eravate a conoscenza di ciò che Ben Zariatnatmik custodiva nella sua cassa d'ebano, poiché ho benissimo compreso chi ve lo disse. Ancora vi priego di indirizzarmi le vostre lettere come Jedediah, non Simone: in questa comunità la vita di un uomo può essere breve, e voi conoscete il Progetto pel quale tornai indietro nei panni di mio figlio. Spero che mi farete parte di ciò che l'Uomo Nero apprese da Silvano Cocidio nella tomba sotto il muro romano et vi sarò obbligato per il prestito del manoscritto di cui parlate. Un'altra lettera non firmata, da Philadelphia, provocò uguale apprensione, soprattutto per il brano che segue: Osserverò la cautela che mi fate d'inviare i resoconti solo per nave, ma non so quando potrò ricevere i vostri. Per la faccenda di cui parlammo: solo un passo mi manca, ma voglio essere sicuro di avervi compreso appieno. Mi informate che per ottenere i Resultati non deve mancare parte alcuna, ma voi sapete benissimo come sia difficile averne la certezza. Mi sembra gran rischio et onere assai grave il trafugare l'intiera cassa, senza contare che in città (nei camposanti di San Pietro, San Paolo, Santa Maria o della Chiesa di Cristo) riuscirvi è impossibile. Riconosco quali imperfezioni erano in ciò che resuscitai lo scorso ottobre, e quanti esemplari vivi avete voi dovuto usare prima di raggiungere l'esito dell'anno 1766; perciò da voi mi lascerò guidare in ogni cosa. Attendo impaziente l'arrivo della nave et ogni giorno chiedo notizie presso il molo del signor Biddle. Una terza lettera sospetta era scritta in una lingua e in un alfabeto sconosciuti. Nel diario di Smith ritrovato da Charles Ward una singola combinazione di caratteri, ripetuti spesso, era goffamente riportata più volte: le autorità della Brown University hanno concluso che l'alfabeto sia abissino o amarico, anche se la parola ripetuta rimane sconosciuta. Nessuna delle lettere menzionate fu mai recapitata a Curwen, benché la scomparsa di Jedediah Orne da Salem, avvenuta poco tempo dopo, dimostri che gli uomini di Providence avessero già cominciato ad agire in segreto. La Pennsylvania Historical Society conserva tuttora alcune lettere bizzarre ricevute dal dottor Shippen a proposito di uno sgradevole personaggio che viveva a Phila-
delphia, ma atti ancora più drastici si annunciavano: e a notte fonda, nei magazzini della famiglia Brown, fidati e incalliti marinai o ex corsari resero ai signor Weeden una serie di dichiarazioni segrete cui dobbiamo i frutti più interessanti delle sue scoperte. Poco a poco gli uomini di Providence misero a punto un piano d'azione che non avrebbe lasciato traccia degli abominevoli segreti di Joseph Curwen. Nonostante le precauzioni, tuttavia, questi s'era reso conto che qualcosa non andava per il verso giusto e sembrava preoccupatissimo. A tutte le ore si vedeva la sua carrozza sfrecciare in città e sulla via di Pawtuxet, finché poco a poco egli abbandonò del tutto l'aria di socievolezza che si era imposto per vincere i pregiudizi della comunità. La famiglia che viveva più vicino alla fattoria, i Fenner, vide un gran fascio di luce proiettarsi nel cielo notturno da un'apertura praticata nel tetto dell'enigmatico edificio di pietra con le finestre alte e strette come feritoie; il fatto venne immediatamente comunicato a John Brown, a Providence. Il signor Brown era diventato il capo del gruppo di cittadini che si erano dedicati alla distruzione di Curwen e aveva informato i Fenner che un'azione era imminente. Non c'era modo di evitarlo, perché essi avrebbero assistito all'incursione finale e Brown giustificò la necessità di una drastica reprimenda con la scusa che Curwen era noto come spia della dogana inglese a Newport: a Providence non c'era mano di mercante, spedizioniere o contadino che non fosse alzata, apertamente o clandestinamente, contro l'autorità reale. Non è possibile stabilire se i vicini, che avevano visto tante cose strane, credessero a quella storia, ma non c'è dubbio che i Fenner attribuissero a Curwen, uomo dai modi tanto strani, ogni malvagità. A loro il signor Brown aveva affidato il compito di sorvegliare la fattoria e di riferire con regolarità ogni incidente che vi si potesse verificare. 5 L'eventualità che Curwen fosse in allarme e tentasse qualcosa di straordinario (come dimostrava lo strano fascio di luce), precipitò l'azione che il gruppo di scrupolosi cittadini aveva attentamente programmato. Secondo il diario di Smith un gruppo di circa cento uomini si riunì la sera di venerdì 12 aprile 1771, verso le dieci, nella sala grande della taverna di Thurston all'insegna del Leon d'Oro, in Weybosset Point, proprio al di là del ponte. Degli illustri cittadini che fin dall'inizio avevano fatto parte del complotto erano presenti, oltre al capo John Brown, il dottor Bowen con una valigetta
di strumenti chirurgici, il rettore Manning senza la parrucca per cui era famoso (si diceva che fosse la più grande di tutte le Colonie), l'ex governatore Hopkins avvolto in un mantello nero e accompagnato dal fratello Esek un marittimo che egli aveva iniziato all'ultimo momento con il permesso degli altri -, John Carter, il comandante Mathewson e il capitano Whipple, che avrebbe guidato il gruppo degli attaccanti vero e proprio. Questi uomini si appartarono in una stanza sul retro e quando ebbero finito di discutere il capitano Whipple tornò nella sala principale perché i marinai che vi erano riuniti prestassero giuramento e ricevessero le ultime istruzioni. Eleazar Smith era con i capi nell'appartamento posteriore e aspettava come tutti l'arrivo di Ezra Weeden, il cui compito era di pedinare Curwen e riferire il momento in cui la sua carrozza fosse partita per la fattoria. Verso le dieci e mezzo si sentì un gran trepestio sul Great Bridge, seguito dal rumore di una carrozza all'esterno: a quell'ora non c'era bisogno di aspettare Weeden per sapere che il vecchio condannato era partito per la sua ultima notte di stregonerie. Un attimo più tardi, mentre la carrozza si allontanava sul Muddy Dock Bridge, Weeden comparve e gli uomini uscirono silenziosamente per strada, in ranghi militari, impugnando i fucili ad acciarino, quelli da caccia e gli arpioni da balena che facevano parte del loro equipaggiamento. Weeden e Smith si unirono al gruppo, mentre degli altri cittadini erano presenti il capitano Whipple, capo della spedizione, il capitano Esek Hopkins, John Carter, il rettore Manning, il capitano Mathewson e il dottor Bowen; a costoro si era aggiunto Moses Brown, arrivato alle undici senza partecipare alla riunione preliminare nella taverna. I liberi cittadini, scortati da un centinaio di marinai, intrapresero la lunga marcia senza esitare e con aria cupa, ma quando si lasciarono alle spalle il Muddy Dock e salirono il lieve pendio di Broad Street verso la via di Pawtuxet, apparivano non poco preoccupati. Appena superata la chiesa di Elder Snow alcuni uomini si voltarono a dare un'occhiata d'addio a Providence, che si stendeva sotto le prime stelle di primavera. Campanili e abbaini svettavano neri e maestosi, e una brezza salmastra soffiava dolcemente dalla baia a nord del Great Bridge. Vega saliva sulla grande collina oltre il braccio d'acqua, e la corona d'alberi che la sormontava era interrotta dai tetti dell'edificio non ancora completo dell'università. Ai piedi della collina, e lungo le strette viuzze che ne risalivano i fianchi, l'antica città sognava: vecchia Providence, per la cui salvezza e prosperità era necessario eliminare un pericolo mostruoso e senza nome... Un'ora e un quarto più tardi gli uomini arrivarono come stabilito alla fat-
toria Fenner, dove si fecero dare gli ultimi ragguagli sul conto della vittima. Curwen era arrivato più di mezz'ora prima e subito la misteriosa luce era balenata in cielo, anche se dietro le feritoie non si scorgeva nessuna possibile sorgente. Ultimamente avveniva sempre così, e proprio mentre veniva data questa notizia il fascio luminoso si alzò ancora una volta verso sud e il gruppo si rese conto di essere in un luogo di grandi portenti. Il capitano Whipple ordinò ai suoi uomini di dividersi in tre gruppi: uno, composto di venti marinai e comandato da Eleazar Smith, doveva piazzarsi lungo il fiume e tenere d'occhio il punto d'attracco, per evitare lo sbarco di possibili rinforzi a Curwen. Questo contingente sarebbe intervenuto, in caso di necessità, solo quando un messaggero lo avesse convocato. Un altro gruppo di venti uomini, al comando del capitano Esek Hopkins, aveva il compito di occupare la zona a valle del fiume dietro la fattoria, e di abbattere con le asce o la polvere da sparo la grande porta di quercia che si apriva lungo la sponda alta e ripida; il terzo gruppo si sarebbe avvicinato alla casa e agli edifici annessi. Di quest'ultimo contingente, un terzo passava sotto la guida del comandante Mathewson che l'avrebbe condotto verso il misterioso edificio di pietra dalle strette finestre, un altro avrebbe seguito il capitano Whipple verso la fattoria vera e propria e l'ultimo gruppo avrebbe formato un cerchio intorno agli edifici, fino a quando il segnale definitivo non l'avesse chiamato all'azione. Il gruppo a valle doveva abbattere la porta di quercia al suono d'un semplice fischio, dopodiché sarebbe rimasto in attesa e avrebbe catturato eventuali creature minacciose che fossero emerse dai cunicoli sotterranei. Due fischi erano il segnale che avrebbe fatto avanzare gli uomini dentro la galleria, pronti a opporsi a un eventuale nemico o a unirsi agli altri membri dell'impresa. Il contingente incaricato di sorvegliare la dipendenza di pietra avrebbe rispettato gli stessi segnali: aprirsi il varco al primo fischio e immergersi negli ingressi sotterranei (se ce n'erano) nel caso di due fischi prolungati, pronto a partecipare allo scontro che ci si aspettava di dover affrontare nel sottosuolo. Un segnale d'emergenza (tre fischi) avrebbe avuto l'effetto di richiamare il contingente di riserva presso il fiume: venti marinai si sarebbero divisi in due gruppi di dieci per entrare nelle misteriose catacombe attraverso il doppio accesso della fattoria e dell'edificio di pietra. La convinzione del capitano Whipple che le gallerie esistessero realmente era assoluta, e quando fece i suoi piani non prese in considerazione alcuna alternativa; aveva con sé un fischietto acuto e di grande potenza e non temeva che i segnali si confondessero o venissero male interpretati.
Gli uomini dell'estrema riserva - quella che sorvegliava il punto d'attracco - erano, ovviamente, quasi fuori dalla portata del fischietto: per questo, in caso di bisogno, si sarebbe dovuto ricorrere a un messaggero. Moses Brown e John Carter andarono con il capitano Hopkins sulla sponda del fiume, mentre il rettore Manning fu mandato con il comandante Mathewson alla dipendenza di pietra. Il dottor Bowen, con Ezra Weeden, rimase nel gruppo del capitano Whipple che avrebbe attaccato la fattoria. L'attacco sarebbe cominciato non appena un messaggero del capitano Hopkins avesse raggiunto Whipple per avvertirlo che il gruppo sulla sponda era pronto. Il capo avrebbe allora fischiato una volta sola e i vari gruppi avrebbero dato l'assalto alla proprietà Curwen da tre punti. Poco prima dell'una del mattino le tre divisioni lasciarono la fattoria Fenner: una per sorvegliare il punto d'attracco, un'altra per cercare la porta di quercia che si apriva lungo la sponda e la terza per dividersi a sua volta e caricare i veri e propri edifici della fattoria. Eleazar Smith, che accompagnava il gruppo di guardia sul fiume, riferisce nel suo diario che la marcia si svolse senza avvenimenti degni di nota e gli uomini si disposero a una lunga attesa all'attracco nei pressi della baia; attesa che fu interrotta solo una volta da quello che sembrava un fischio lontano, e ancora da un miscuglio soffocato di grida, urla e un'esplosione che giungevano dalla stessa direzione. Più tardi uno degli uomini credette di sentire spari in lontananza, e in seguito lo stesso Smith udì l'eco di voci tumultuose portate dal vento. Poco prima dell'alba un messaggero sparuto, con gli occhi strabuzzati e i vestiti impregnati di un odore sconosciuto, fece la sua comparsa e disse agli uomini di tornare tranquillamente a casa e non pensare più agli avvenimenti della notte o a colui che era stato Joseph Curwen, ma soprattutto di non parlarne. Nell'atteggiamento del messo c'era un'autorità che le semplici parole non riuscivano a spiegare, e benché fosse un marinaio che gli altri conoscevano bene, la sua anima aveva misteriosamente perduto (o guadagnato) qualcosa che ne avrebbe fatto per sempre un altro uomo. I convenuti ebbero la stessa sensazione quando incontrarono altri compagni che si erano spinti nella fattoria: la maggior parte di essi aveva perduto o guadagnato qualcosa d'indefinibile, indescrivibile. Avevano visto, sentito, provato cose che non sono per gli esseri umani e che non avrebbero potuto dimenticare. Nessuno di loro lasciò trapelare il minimo pettegolezzo, perché anche il più ovvio degli istinti umani non può sottrarsi a certi vincoli; e il messaggero solitario che per primo era venuto ad avvertirli trasmise agli uomini del fiume un senso di timore reverenziale che
sigillò per sempre le loro labbra. Pochissime sono le notizie che dobbiamo ai membri della battuta, e il diario di Eleazar Smith resta l'unico documento scritto della spedizione che partì dalla taverna del Leon d'Oro sotto le stelle. Charles Ward, comunque, scoprì altri indizi nella corrispondenza dei Fenner conservata a New London, dove sapeva che si era stabilito un altro ramo della famiglia. Sembra che i Fenner, dalla cui abitazione era possibile vedere in distanza la fattoria condannata, avessero tenuto d'occhio la colonna che si allontanava e avessero udito con chiarezza l'abbaiare dei cani di Curwen, seguito dal primo fischio che aveva provocato l'attacco. Al fischio era seguita una nuova manifestazione del fascio di luce che partiva dall'edificio di pietra, e dopo un istante, risuonato il secondo segnale quello che ordinava l'attacco generale - i vicini avevano udito una lontana scarica di fucileria, seguita da un urlo orrendo e feroce che Luke Fenner aveva reso per iscritto con quest'accozzaglia di lettere: "Waaaahrrrrr... R'waaahrrr". Ma l'urlo possedeva caratteristiche che la semplice scrittura non riusciva a esprimere, e l'autore della lettera raccontava che sua madre era svenuta dal terrore. In seguito l'urlo si ripeté con minor impeto, e ci furono colpi d'arma da fuoco ancora più lontani, accompagnati da una terribile esplosione che si verificò dalla parte del fiume. Circa un'ora dopo i cani cominciarono ad abbaiare freneticamente, e dalla terra si levarono boati così intensi che le candele poste sulla mensola del camino tremarono. Si sentì un forte odore di zolfo e il padre di Luke Fenner affermò di aver sentito il terzo fischio, quello che segnalava l'emergenza, ma gli altri non se ne accorsero affatto. I colpi di moschetto continuarono a susseguirsi in lontananza, questa volta accompagnati da un grido profondo, meno penetrante ma anche più orrendo di quelli che l'avevano preceduto: qualcosa che faceva pensare alla tosse o a un gorgoglio di gola, risonante, la cui efficacia dipendeva più dalla sua durata e dall'effetto psicologico che non dall'effettivo livello acustico. Poi, nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la fattoria Curwen apparve un corpo fiammeggiante e si udirono le grida di terrore e disperazione di parecchi uomini. Ci fu una scarica di moschetto e la creatura fiammeggiante cadde al suolo. Ne apparve una seconda, e questa volta fu possibile udire un urlo tipicamente umano; Fenner scrive di aver afferrato persino alcune parole, compresse dalla sofferenza: «Onnipotente, proteggi il tuo agnello!». Seguirono altri spari e la seconda creatura fiammeggiante stramazzò. Per circa tre quarti d'ora ci fu silenzio e alla fine il piccolo Arthur Fenner,
fratello di Luke, esclamò che aveva visto una "nebbia rossa" levarsi alle stelle dalla fattoria maledetta. Di questo fenomeno non esistono altri testimoni, ma Luke annota una strana coincidenza: quasi nello stesso momento i tre gatti presenti nella stanza arcuarono la schiena e drizzarono il pelo, come in preda a un panico incontrollabile. Cinque minuti dopo si alzò un vento freddo e l'aria fu ammorbata da un odore insopportabile che solo la vicinanza del mare risparmiò agli uomini appostati nei pressi dell'approdo e agli abitanti svegli di Pawtuxet (ammesso che ce ne fossero). Era un odore che i Fenner non avevano mai sentito e induceva una sorta di terrore senza nome, senza forma, superiore a quello della tomba e dell'ossario. Subito dopo si udì la voce spaventosa che nessuno degli sfortunati testimoni avrebbe potuto dimenticare. Calò dal cielo come una tromba del giudizio, e anche quando gli echi cominciarono ad attenuarsi le finestre tremarono. Era un suono profondo e musicale, poderoso come un basso d'organo e malvagio come i testi proibiti dei maghi arabi. Nessuno fu in grado di ripetere ciò che la voce disse, perché parlava in una lingua sconosciuta, ma questo è ciò che Luke Fenner scrisse per dare forma alla litania demoniaca: "DEESMEES... JESHET... BONE DOSEFE DUVEMA... ENITEMOSS". Fino al 1919 nessuno pensò di mettere in relazione questa cruda trascrizione con qualsiasi cognizione umana, ma Charles Ward impallidì nel riconoscere quella che Pico della Mirandola, atterrito, aveva definito la più pericolosa tra le formule di magia nera. Al diabolico portento che risuonava sulla fattoria di Curwen rispose un inconfondibile urlo umano, o un coro di grida, dopodiché all'odore sconosciuto se ne aggiunse un altro ugualmente insopportabile. Un lamento molto diverso dall'urlo di prima arrivò alle orecchie dei vicini e si ripeté più volte, in ondate parossistiche che aumentavano d'intensità e poi calavano, come il protrarsi di un ululato. A tratti si aveva quasi l'impressione di un linguaggio articolato, benché nessun testimone riuscisse a distinguere le parole; a un certo punto sembrò piuttosto una risata isterica, diabolica. Poi da decine di gole umane si levò un grido di paura così forte da rasentare la follia, e nonostante le profondità da cui proveniva risuonò chiaro e forte; dopodiché, finalmente, tenebre e silenzio si stesero su tutte le cose. Volute di fumo acre si alzarono verso il cielo cancellando le stelle, sebbene non ci fossero fiamme e il giorno dopo non si vedessero tracce di edifici danneggiati o distrutti. Verso l'alba due messaggeri spaventati, con gli abiti impregnati di un lezzo disgustoso e non identificabile, bussarono alla porta dei Fenner e
chiesero un barilotto di rum, per il quale pagarono bene. Uno dei due rivelò alla famiglia che l'affare Joseph Curwen era terminato, e che era meglio non parlare più di quanto era successo nella notte. Sembrava un ordine arrogante, ma l'aspetto di colui che lo diede liberò i Fenner da ogni risentimento e conferì allo straniero una temibile autorità. Nel complesso, a testimoniare l'accaduto rimangono solo le furtive lettere di Luke Fenner a un parente del Connecticut, che avrebbe dovuto distruggerle. La disubbidienza del destinatario, in virtù della quale le lettere poterono salvarsi, fece sì che sulla tragedia non cadesse l'oblìo. Dopo lunghe ricerche svolte fra gli abitanti di Pawtuxet in caccia di antiche tradizioni, Charles Ward riuscì a ricostruire altri particolari. Il vecchio Charles Slocum, un abitante del villaggio, rivelò che suo nonno conosceva una vaga leggenda a proposito di un cadavere contorto e carbonizzato che era stato trovato nei campi una settimana dopo l'annuncio della morte di Joseph Curwen. Le dicerie popolari furono alimentate dal fatto che il corpo, per quanto si poteva dedurre dalle sue pessime condizioni, non era completamente umano e non apparteneva ad alcuna specie animale di cui gli abitanti di Pawtuxet avessero mai letto o sentito parlare. 6 Nessuno di coloro che avevano partecipato alla terribile spedizione avrebbe detto una sola parola in proposito, e ciò che è giunto sino a noi proviene da elementi esterni ai membri del gruppo. C'è qualcosa di spaventoso nella cura con cui i giustizieri distrussero ogni minimo indizio che potesse rimandare alla vicenda: otto marinai rimasero uccisi, e sebbene i loro resti non fossero trasportati in città le famiglie si accontentarono della dichiarazione che erano morti durante uno scontro con gli ufficiali della dogana. La stessa giustificazione servì per i numerosi casi di ferite, tutte curate e medicate solo dal dottor Jabez Bowen, che aveva fatto parte della spedizione. La cosa più difficile da spiegare fu l'odore inidentificabile che impregnava gli uomini, e su cui si chiacchierò per settimane. Dei cittadini che avevano assunto il comando, il capitano Whipple e Moses Brown vennero feriti piuttosto gravemente e le lettere delle rispettive mogli testimoniano lo stupore provocato dalla loro reticenza, ma anche dalla gelosia con cui difendevano le proprie medicazioni. Da un punto di vista psicologico tutti i membri della spedizione sembravano invecchiati, scossi e maturati. Fortunatamente erano uomini forti e d'azione, semplici e ortodossi dal punto di
vista religioso: individui più complessi e introspettivi non ce l'avrebbero fatta. Il rettore Manning fu quello che soffrì di più, ma alla fine riuscì a superare le ombre tenebrose e a mitigare i ricordi con la preghiera. Ciascuno dei capi avrebbe compiuto negli anni successivi un'impresa memorabile, e questa fu probabilmente la loro fortuna. Poco più di dodici mesi dopo il capitano Whipple guidò la ciurma che bruciò la guardacoste Gaspee, e in quel gesto avventuroso possiamo vedere il tentativo di cancellare ricordi più sgradevoli. Alla vedova di Joseph Curwen fu inviata una strana bara di piombo, trovata alla fattoria per servire chissà quali scopi, e le fu detto che all'interno era rinchiuso il corpo del marito. Le fu spiegato che era rimasto ucciso in una battaglia con i funzionari della dogana, e che era buona politica non fornire troppi particolari. Nessuno sprecò una parola di più sulla fine di Joseph Curwen, e per costruire la sua teoria Charles Ward dovette partire da un singolo accenno; si trattava, in realtà, di un filo esilissimo, un brano sottolineato nella lettera di Jedediah Orne a Curwen, la stessa che i cittadini avevano confiscato e che Ezra Weeden aveva parzialmente ricopiato. La copia fu trovata in possesso dei discendenti di Smith: sta a noi decidere se Weeden l'avesse consegnata all'amico dopo la fine dell'avventura - come muta spiegazione dell'enormità che avevano vissuto - o se, come è più probabile, Smith la possedesse già prima e avesse sottolineato personalmente il passaggio in questione, illuminato da ciò che era riuscito a strappare all'amico con astute domande e brillanti deduzioni. Il brano sottolineato è il seguente: Vi dico ancora, non evocate niuna Entità che non possiate indietro rimandare, col che significo alcuna cosa che possa contro di voi voltarsi e contro cui le Arti più potenti non bastino ad aver ragione. Convocate sempre lo Minore, giacché lo Maggiore non vorrà rispondervi e avrà potere in gran misura superiore a voi. Alla luce di questo passaggio, e riflettendo sugli innominabili alleati che un uomo ridotto alla disperazione poteva evocare in un momento di estremo bisogno, Charles Ward può aver avuto ragione nel domandarsi se i cittadini di Providence fossero effettivamente riusciti a eliminare Joseph Curwen. La deliberata cancellazione di ogni ricordo del defunto dalla vita e dagli annali della città fu resa possibile grazie all'influenza dei capi della spedi-
zione; in un primo momento essi non avevano pensato di compiere un'opera così radicale, e avevano permesso alla vedova, a suo padre e sua figlia di restare all'oscuro della verità. Il comandante Tillinghast, tuttavia, era un uomo astuto e raccolse parecchie voci che alimentarono in lui un vivo senso d'orrore, dal quale fu spinto a far domanda perché sua figlia e sua nipote cambiassero cognome, a bruciare la biblioteca e le restanti carte di Joseph Curwen e a cancellarne il nome dalla lapide. Tillinghast conosceva bene il capitano Whipple, e da quel rude uomo di mare ottenne probabilmente più notizie di chiunque altro sulla fine del negromante. Da quel momento la soppressione di qualsiasi ricordo di Curwen si fece sempre più sistematica e infine, per consenso comune, si estese agli annali della città e alle copie della "Gazette"; fatto paragonabile solo al silenzio che cadde per dieci anni dopo il processo sul nome di Oscar Wilde, e che si può accostare al destino del re peccatore Runazar nel racconto di Lord Dunsany, in cui gli dèi decidono di punire il reo cancellandone non solo l'esistenza, ma la stessa possibilità che sia mai esistito. La signora Tillinghast - come la vedova si fece chiamare dopo il 1772 vendette la casa in Olney Court e si trasferì dal padre in Power's Lane: qui rimase fino alla morte, avvenuta nel 1817. La fattoria di Pawtuxet, evitata da ogni essere vivente, si deteriorò col passare degli anni e si disfece con inspiegabile rapidità. Nel 1780 rimanevano in piedi soltanto le parti in pietra e mattoni e nel 1800 anche queste si erano ridotte a mucchietti informi. Nessuno ebbe mai voglia di penetrare gli arbusti intricati che crescevano sulla riva del fiume e al di là dei quali doveva trovarsi la porta sul fianco della collina; nessuno cercò di rappresentarsi la scena finale in cui Joseph Curwen era scomparso fra gli orrori da lui stesso evocati. Solo il vecchio e robusto capitano Whipple fu sentito dai curiosi mormorare a volte, fra sé e sé: «Che gli prenda il vaiolo, non aveva il diritto di ridere mentre gridava! Era come se quel furfante avesse un asso nella manica. Per mezza corona brucerei la dannatissima casa!». III. Ricerca ed evocazione 1 Come abbiamo visto, Charles Ward apprese di essere un discendente di Joseph Curwen nel 1918; non c'è da meravigliarsi che provasse un immediato e profondo interesse per quel lontano mistero, e ogni più piccola te-
stimonianza che avesse udito sul conto del negromante diventò per lui, uomo in cui scorreva il sangue di Curwen, una questione vitale. Nessun appassionato di genealogia, specie se eccitabile e fantasioso come Ward, avrebbe resistito a tuffarsi in un'avida e sistematica raccolta di informazioni sul conto di Curwen. Nei suoi primi tentativi Ward non cercò la segretezza, e perfino il dottor Lyman esita a datare la follia del giovane prima della fine del 1919. Ward parlava liberamente delle sue ricerche con la famiglia (benché sua madre non fosse particolarmente lieta di avere un antenato come Curwen) e con altrettanta sincerità ne discuteva con i funzionari delle biblioteche e dei musei che visitava. Quando si rivolgeva a famiglie private per ottenere documenti che erano in loro possesso, non faceva alcun mistero del suo scopo e condivideva il divertito scetticismo con cui venivano considerati gli antichi diaristi ed epistolografi. Ward manifestava un sincero stupore a proposito di ciò ch'era avvenuto un secolo e mezzo prima nella fattoria sul Pawtuxet (di cui aveva invano cercato il sito) e sull'autentica personalità di Joseph Curwen. Quando trovò il diario di Smith e i relativi documenti, fra cui la lettera di Jedediah Orne, Ward decise di fare un viaggio a Salem per indagare sulle prime attività di Curwen e le amicizie che aveva coltivato laggiù. Questo proposito fu messo in atto durante le vacanze di Pasqua del 1919. All'Essex Institute - che gli era ben noto da precedenti soggiorni nell'antica città di abbaini puritani in rovina e tetti a doppio spiovente ammassati gli uni sugli altri - Ward venne ricevuto cordialmente e scoprì un gran numero di informazioni che riguardavano Curwen. Venne così a sapere che il vecchio mago era nato a Salem-Village, oggi Danvers (una località a circa dieci chilometri dalla città), il 18 febbraio 1662 o 1663 (l'anno era incerto); che si era imbarcato per la prima volta a quindici anni, era scomparso dal paese per altri nove e al suo ritorno aveva sfoggiato la parlata, il modo di vestire e le abitudini di un perfetto inglese. A questo punto aveva deciso di stabilirsi nella vera e propria Salem e si era virtualmente separato dalla famiglia, trascorrendo la maggior parte del tempo fra i curiosi libri che aveva portato dall'Europa e le misteriose sostanze chimiche che arrivavano per lui con i bastimenti provenienti da Inghilterra, Francia e Olanda. Le sortite di Gurwen in campagna suscitavano la curiosità locale, perché si mormorava che fossero collegate an'apparizione di fuochi che balenavano nottetempo sulle colline. I soli amici intimi che avesse erano un certo Edward Hutchinson di Sa-
lem-Village e un certo Simon Orne di Salem, con i quali era stato visto discutere nelle campagne intorno ai due centri; visite reciproche non erano infrequenti. Hutchinson aveva una casa fuori del villaggio e quasi ai confini del bosco: non era un personaggio particolarmente amato per via dei rumori che i più sensibili avvertivano di notte in casa sua. Si diceva che ricevesse misteriosi visitatori e le luci che apparivano alle finestre non erano sempre dello stesso colore. Le conoscenze che dimostrava a proposito di persone morte da lungo tempo e di avvenimenti dimenticati era considerata innaturale; Hutchinson scomparve all'epoca in cui cominciò la caccia alle streghe e non fu mai più visto. Fu in quel periodo che anche Joseph Curwen si allontanò da Salem, ma ben presto si venne a sapere che si era stabilito a Providence. Simon Orne visse a Salem fino al 1720, quando la sua incapacità di invecchiare cominciò a destare l'attenzione. In seguito egli scomparve, benché trent'anni dopo un figlio che gli somigliava moltissimo e aveva lo stesso modo di comportarsi venne a reclamare la sua proprietà. Queste pretese erano suffragate da alcuni documenti scritti nella grafia di Simon Orne, e il figlio Jedediah continuò a vivere a Salem fino al 1771, quando alcune lettere indirizzate dai cittadini di Providence al reverendo Thomas Barnard e ad altri personaggi, ebbero come esito il suo discreto trasferimento in luoghi sconosciuti. Alcuni documenti lasciati da questi strani personaggi, o che comunque li riguardavano, si potevano consultare all'Essex Institute, presso il tribunale e l'ufficio del registro: si trattava in parte di materiale innocuo e comune, come titoli terrieri e atti di vendita, in parte di frammenti oscuri ma più interessanti. Nei verbali dei processi per stregoneria c'erano quattro o cinque inconfondibili allusioni a questi signori: per esempio, il 10 luglio 1692 una certa Hepzibah Lawson giurò in udienza, davanti alla Corte presieduta dal giudice Hathorne, che "Quaranta striglie e l'Uomo Nero si dettero convegno ne' boschi dietro la casa del signor Hutchinson", e una certa Amity How dichiarò nella sessione dell'8 agosto davanti al giudice Gedney che "Il signore G. B. (il reverendo George Burroughs) pose in quella istessa nottata il marchio del dimonio sopra Bridget S., Jonathan A., Simon O., Deliverance W., Joseph C., Susan C., Mehitable C. e Deborah B.". Era sopravvissuto, inoltre, il catalogo della straordinaria biblioteca di Hutchinson, che i cittadini avevano trovato subito dopo la sua scomparsa, e un manoscritto di suo pugno, non finito, composto in un cifrario che nessuno era in grado di decodificare. Ward fece una fotocopia del manoscritto e non appena gli fu consegnata cominciò a lavorare casualmente al cifrario.
Dopo il mese di agosto gli sforzi che fece per venire a capo del codice divennero intensi e addirittura febbrili, e da ciò che disse all'epoca, ma anche dalla sua condotta, c'è ragione di credere che trovasse la chiave prima di ottobre o novembre. Tuttavia, non dichiarò mai pubblicamente se fosse riuscito o meno nell'impresa. Ma il materiale più interessante era quello di Orne, e a Ward occorse poco tempo per dimostrare, in base all'identità della grafia, un fatto che già traspariva con chiarezza dal testo della lettera a Curwen: cioè che Simon Orne e il suo preteso figliolo erano la stessa e identica persona. Proprio come Orne aveva detto al suo corrispondente, non era affatto sicuro che un uomo come lui potesse vivere a Salem molto a lungo; per questo aveva deciso di restare trent'anni all'estero e di non tornare a reclamare le terre se non nei panni di un proprio discendente. Orne aveva posto ogni cura nel distruggere la maggior parte della sua corrispondenza, ma i cittadini che intrapresero l'azione del 1771 trovarono e conservarono alcune lettere e documenti che eccitarono la loro curiosità. Vi erano misteriose formule e diagrammi tracciati dalla mano di Orne e da altre persone: Ward li copiò accuratamente o li fece fotografare. Vi era anche una misteriosa lettera autografa che il ricercatore poté attribuire con certezza a Joseph Curwen confrontando altri scritti nell'ufficio del registro. La lettera di Curwen, benché senza indicazione dell'anno, non poteva essere quella cui Orne aveva risposto e che era stata confiscata: in base all'evidenza interna Ward riuscì a collocarla non più tardi del 1750. Non sarà inopportuno riportarla integralmente, come saggio dello stile di un uomo la cui storia fu così oscura e tremenda. Il destinatario è indicato come "Simone", ma il nome è cancellato con un tratto di penna (Ward non riuscì a stabilire se la precauzione fosse stata presa da Curwen o dallo stesso Orne). Providence, il primo di maggio (Ut. vulgo) Fratello, mio antico e onorevole amico, i dovuti rispetti e i più vivi omaggi a Colui che serviamo in nome dell'eterno potere. Sono appena giunto a svelare ciò che voi certo conoscete sulla quistione de l'ultima Estremità e quello che intendete farne. Nondimeno io non sono disposto a seguirvi, e perché i miei anni sono numerosi e perché a Providence non è ancora diffuso il costume di dar la caccia con tenacia e crudeltà a ciò che non conoscesi, né di istruire processi contro di noi. Io sono qui mercante e fornitore di beni: non posso adottare la vostra soluzione poi che sotto la mia fattoria di Pawtuxet havvi ciò che sapete, e
mai aspetterebbe il mio ritorno in altra guisa. Tuttavia non sono impreparato alli esperimenti più difficili, proprio come vi dissi, e certo studiai il modo di tornare indietro dopo la fine. La notte scorsa trovai le parole per l'evocazione di YOGGE-SOTHOTHE, e per la prima volta vidi il volto di cui parla Ibn Schacabao nel... ed Esso disse, il III Salmo del Liber Damnatus contiene la Piccola Chiave. Col sole in quinta Casa, Saturno in terza, traccia il Pentagramma del Fuoco e recita tre volte il nono verso. Ripetilo ogni quindici settembre e ogni Vigilia d'Ognissanti, sicché la Cosa crescerà nell'Esterne Sfere. E dal seme dell'Antico uno nascerà per guardarsi indietro, pur non sapendo ciò che vuole. Ma tutto ciò a nulla servirà se non vi sarà un Successore, e se i Sali, o la maniera di prepararli, non saranno pronti per la sua mano. Qui ammetterò di non avere intrapreso i passi necessari, né di avere trovato gran cosa. Il processo non è affatto prossimo a compiersi, ma i tentativi consumano gran parte dei miei Esemplari e non hawi possibilità di ottenerne in quantità sufficiente, non ostante i marinai che procuro nelle Indie. La popolazione della città si è fatta molto curiosa, ma a ciò io sono in grado di guardare. I patrizi sono peggio del volgo, agendo essi con più scrupolo, e ormai sono in gran numero quelli che credono alle peggiori dicerie. Il curato e il signor Merritt molto discussero fra loro; io li temo, ma finora non vi furono istanze di pericolo. Quanto ai preperati specifici, è facile averne copia, essendovi in città due chimici eccellenti: il dottor Bowen e Sam. Carew. Sempre io seguo l'insegnamento di Borello et haiutami il libro VII del Moro Abdul Al-Hazred. Certo voi avrete notizie di qualunque mio risultato. Nel frattempo, non dimenticate di adoperare le Parole che vi diedi: sono quelle giuste, ma se desiderate vederLo manifestarsi, usate la formula che scrissi sul pezzo di... e che vi accludo in codesto pacchetto. Recitate i versi ogni natale e Vigilia d'Ognissanti; e se il verso non vi tradirà, uno nascerà in anni a venire che guarderà nel passato et userà i Sali o l'equivalente de' sali che voi lascerete (cfr. Giobbe XTV, 14). Sono lieto di sapere che tornaste a Salem e spero di vedervi di qui a non molto: ho un ottimo stallone e sto pensando di acquistare una carrozza. In città ve n'è già una, quella del signor Merritt, ma le strade sono in condizioni pessime. Se voi siete incline a viaggiare, non mancate di venirmi a trovare: da Boston prendete la strada postale che traversa Dedham, Wrentham e Attleborough, tutte città fornite di ottime taverne: vi raccomando quella del signor Bolcom a Wrentham, dove i letti sono migliori che da
Hatch, però mangiate all'altra locanda, dove la cucina è superiore. Entrate in Providence dalle cascate di Pawtuxet e dalla strada che passa davanti alla taverna del signor Sayles. La mia casa trovasi dirimpetto alla taverna di Epenetus Olney, vicino a Towne Street, ed è la prima in Olney's Court sul lato nord. La distanza da Boston è di circa XLIV miglia. Rimango, signore, il vostro antico e fedele amico e servitore in Almonsin-Metraton Josephus C. Al signor Simon Orne, William's-Lane, a Salem. Fu proprio questa lettera, stranamente, a dare a Ward l'esatta ubicazione della casa di Curwen a Providence: i documenti che aveva letto fino a quel momento, infatti, non contenevano indicazioni precise. La scoperta fu doppiamente importante perché indicava che la nuova casa di Curwen costruita nel 1761 - era sorta sul sito della vecchia e ancora si poteva vedere in Olney Court, dove Ward l'aveva più volte notata nei suoi vagabondaggi antiquari lungo la Stampers' Hill. Il luogo si trovava a pochi passi da casa di Ward, nella parte superiore dell'estesa collina ed era diventata l'abitazione di una famiglia di colore, molto apprezzata nel vicinato per i suoi servigi di lavanderia, pulizie domestiche e manutenzione dei camini. L'aver scoperto, nella lontana Salem, una prova tanto inattesa dell'importanza che un farabutto come Curwen aveva avuto nella storia della sua famiglia, fu per Ward una cosa sconvolgente e decise di esplorare la casa non appena tornato a Providence. I passi dottrinari della lettera, che il giovane ricercatore scambiò per un bizzarro codice simbolico, lo lasciavano interdetto; ma il brano biblico a cui Curwen faceva riferimento era un verso familiare: "Se l'uomo che muore potesse rivivere, aspetterei tutti i giorni della mia milizia finché arrivi per me l'ora del cambio". 2 Il giovane Ward si trovava in uno stato di piacevole eccitazione e dedicò il sabato seguente a un lungo ed esauriente studio della casa in Olney Court. L'edificio, cadente per gli anni, non era mai stato una villa vera e propria ma pittosto una modesta casa di legno di città con due piani e ammezzato, come ce ne sono tante nella Providence coloniale; il tetto a punta era piuttosto semplice, il camino centrale era imponente e la porta d'ingres-
so artisticamente lavorata aveva una lunetta superiore a raggiera, frontone triangolare e sottili colonne doriche. Esternamente aveva subito poche modifiche, e Ward ebbe la sensazione di aver posato gli occhi su qualcosa che somigliava molto all'oggetto sinistro della sua ricerca. Gli inquilini negri conoscevano Ward, che fu gentilmente invitato a entrare dal vecchio Asa e dalla sua robusta moglie Hannah. L'interno dell'abitazione aveva subito le alterazioni maggiori, e Ward vide con disappunto che i fregi a forma d'urna e pergamena sul camino, nonché le finiture a conchiglia della credenza, erano praticamente distrutti, mentre la maggior pane del rivestimento in legno e delle modanature erano graffiati, intaccati o coperti con scadente carta da parati. Tutto sommato l'ispezione non diede i risultati che Ward si era aspettati, anche se fu piuttosto emozionante trovarsi fra le arcaiche mura che avevano ospitato un individuo orribile come Joseph Curwen. Con un brivido d'eccitazione Ward notò che il monogramma era stato del tutto cancellato dall'antico batacchio d'ottone. Da quel momento, e fino al termine dell'anno scolastico, Ward dedicò tutto il tempo libero alla copia fotostatica del cifrario Hutchinson e alla raccolta di informazioni locali sul conto di Curwen. Il cifrario continuò a sfidare ogni tentativo di interpretazione, ma nel secondo campo Ward ottenne un così gran numero di notizie e indizi che collimavano alla perfezione - pur venendo da luoghi disparati - che in luglio era già pronto a fare un viaggio a New London e New York, per consultare vecchie lettere di cui si conosceva l'esistenza in quelle città. Il viaggio diede buoni frutti e fu in questa occasione che Ward trovò le lettere dei Fenner con la tremenda descrizione dell'attacco alla fattoria di Pawtuxet e il carteggio NightingaleTalbot, in cui venne a sapere del ritratto dipinto su un pannello della biblioteca di Curwen. La faccenda del ritratto lo interessò in modo particolare, perché avrebbe dato qualunque cosa per sapere che aspetto avesse l'antenato; quindi decise di fare una seconda ispezione alla casa in Olney Court e tentare di scoprire se non vi fosse traccia del vecchio dipinto sotto i numerosi strati di pittura e carta da parati ammuffita che i successivi proprietari avevano aggiunto nel tempo. All'inizio di agosto cominciò questa seconda ricerca: Ward non trascurò le pareti di nessuna stanza abbastanza grande da poter ospitare la biblioteca del malefico mercante, prestando particolare attenzione ai grandi pannelli che sormontavano i camini e che ancora sopravvivevano. Dopo circa un'ora fu molto eccitato nello scoprire che un ampio tratto di parete, sul camino di una stanza a pianterreno larga e spaziosa, era sensibilmente più scuro a
causa dei successivi raschiamenti di pittura; non poteva trattarsi di una normale colorazione dell'intonaco, ma neppure di legno sottostante. Saggiando cautamente con un temperino, Ward si rese conto di aver scoperto un ritratto a olio di grandi dimensioni. Imponendosi una disciplina degna dello studioso che era, il giovane non rischiò di danneggiarlo con un affrettato tentativo di pulizia effettuato con il coltello, ma lasciò la casa proponendosi di cercare aiuto. Dopo tre giorni tornò con un pittore di grande esperienza, il signor Walter C. Dwight, il cui studio si trovava ai piedi di College Hill: l'esperto restauratore si mise al lavoro con le opportune sostanze chimiche e i mezzi più idonei. Il vecchio Asa e sua moglie, naturalmente, furono eccitati dalla presenza dei due visitatori e vennero adeguatamente compensati per quell'invasione del loro focolare. Man mano che il lavoro di restauro progrediva, Charles Ward ammirava con interesse sempre più accentuato le sfumature e i lineamenti portati alla luce dopo tanto tempo. Dwight aveva cominciato dal fondo, e siccome il ritratto era un tre-quarti la faccia non apparve fino all'ultimo. Si poteva notare, intanto, che il soggetto era un uomo magro, ben fatto e che indossava una giacca blu scuro, un panciotto con le iniziali, biancheria di satin e calze bianche di seta; l'uomo era seduto su una sedia scolpita e ritratto sullo sfondo di una finestra da cui si vedevano il porto e le navi. Quando emerse la testa, si vide che portava una bella parrucca Albemarle e che possedeva un volto calmo, sottile, nient'affatto particolare, che sembrò in qualche modo familiare sia a Ward che all'artista. Solo alla fine, tuttavia, il restauratore e il suo cliente furono in grado di apprezzare con stupore tutti i particolari di quel volto magro e pallido, e di riconoscere con un senso di timor sacro il drammatico scherzo giocato dall'ereditarietà. Ci volle un ultimo bagno d'olio e un'altra passata del delicato raschietto per rivelare l'espressione che i secoli avevano nascosto, e per notare la perfetta identità fra i lineamenti di Charles Dexter Ward, ricercatore del passato, e quelli del suo terribile antenato. Ward portò i genitori a vedere la sorprendente scoperta e immediatamente suo padre decise di acquistare il ritratto, benché fosse eseguito direttamente sul pannello. La rassomiglianza con il giovane, nonostante l'età molto più avanzata dell'uomo del dipinto, era meravigliosa: uno scherzo biologico aveva fatto sì che i lineamenti di Joseph Curwen venissero duplicati alla perfezione dopo un secolo e mezzo. Al contrario, la somiglianza della signora Ward con l'antenato non era per nulla evidente, anche se ella ricordò alcuni parenti che avevano, almeno in parte, le caratteri-
stiche del volto di suo figlio e del vecchio Curwen. Alla signora la scoperta non piacque e disse a suo marito che sarebbe stato meglio bruciare il dipinto anziché portarlo in casa. C'era qualcosa di malsano, confessò la signora Ward, e non solo nel dipinto in sé ma nella somiglianza con Charles. Tuttavia il signor Ward era un uomo pratico, abituato ad occuparsi di affari e a far valere la sua volontà: un industriale del cotone con tanto di filatoi a Riverpoint, nella valle del Pawtuxet, non si lascia impressionare da certi scrupoli femminili. La somiglianza fra l'uomo del quadro e suo figlio lo colpì notevolmente e decise che il ragazzo lo meritava in regalo. Inutile dire che Charles patteggiò con tutto il cuore per questa soluzione: pochi giorni dopo il signor Ward trovò il proprietario della casa (un uomo piccolino, dall'accento gutturale e l'aspetto d'un roditore) e acquistò il pannello di legno su cui era eseguito il ritratto, pagando un prezzo che impose rapidamente e che eliminò i prevedibili tentativi di mercanteggiamento. Non restava che rimuovere il pannello e trasferirlo in casa Ward, dove vennero fatti i dovuti preparativi per la sua completa restaurazione e l'installazione nello studio di Charles al terzo piano, sopra un moderno caminetto elettrico. A Charles fu lasciato il compito di sovrintendere alla rimozione, e il 28 agosto accompagnò due esperti operai della ditta di restauri Crooker alla casa di Olney Court, dove furono staccati la mensola del camino e il pannello che la sovrastava; eseguito questo lavoro con estrema cura, il materiale fu trasportato nel camioncino della ditta. Sotto il pannello rimase un tratto di parete di mattoni ora nuda, dove si poteva distinguere il percorso della canna fumaria; qui il giovane Ward notò una nicchia a forma di cubo larga circa trentacinque centimetri, e che doveva essersi trovata proprio dietro la testa del ritratto. Incuriosito da ciò che il cunicolo poteva contenere, il giovane si avvicinò e guardò all'interno: sotto un profondo strato di polvere e sporcizia c'erano un fascio di carte ingiallite, un rozzo e spesso libricino e alcuni brandelli di stoffa marcita che probabilmente venivano dal nastro con cui il tutto era stato legato. Soffiata via la polvere e la sporcizia, Ward prese il libretto e lesse la chiara iscrizione in copertina. Era una mano che aveva imparato a riconoscere all'Essex Institute, e definiva il volume come il "Diario e note di Jos. Curwen, Gent., di Providence-Plantations e già di Salem". Eccitato oltre misura da questa scoperta, Ward mostrò il diario ai due operai curiosi che erano dietro di lui; la loro testimonianza conferma nel modo più assoluto la natura e l'autenticità del ritrovamento, e il dottor Willet si basa su questo punto per fondare la sua teoria secondo cui il giovane
non era pazzo quando cominciò a manifestare le prime eccentricità. Anche le altre carte erano scritte da Curwen, e un documento sembrava particolarmente fantastico a causa di questa intestazione: "A colui che verrà dopo di me, e in che modo potrà superare la barriera del Tempo e delle Sfere". Un altro era cifrato: Ward sperò che si trattasse dello stesso codice usato da Hutchinson, e che fino a quel momento lo aveva sfidato. Un terzo, e qui il ricercatore ebbe un tuffo di gioia, sembrava essere la chiave del codice, mentre il quarto e il quinto erano indirizzati rispettivamente a "Edw. Hutchinson, cavaliere" e "Mess. Jedediah Orne", "Ovvero al loro Erede o Eredi, o a coloro che li rappresenteranno". Il sesto e ultimo documento recava l'iscrizione: "Joseph Curwen, la sua Vita e Viaggi ne' gli anni dal 1668 al 1687: dei luoghi ove diresse, di quelli che visitò, chi conobbe e ciò che apprese". 3 Siamo arrivati al punto in cui gli alienisti di scuola più tradizionale fanno risalire la follia di Charles Ward. Dopo la scoperta il giovane aveva scorso immediatamente alcune pagine del diario e dei manoscritti, scorgendovi qualcosa che doveva averlo impressionato moltissimo. Infatti, nel mostrare i reperti agli operai aveva esaminato il testo con eccezionale attenzione e gli uomini avevano avuto l'impressione che Ward fosse in preda a uno stato di agitazione che neppure l'importanza antiquaria e genealogica della scoperta poteva giustificare. Tornato a casa riferì la notizia ai genitori con un'aria di imbarazzo, come se volesse comunicare la sua estrema importanza senza mostrarne le prove. Si rifiutò di far vedere i documenti e si limitò a dire che aveva trovato certe carte scritte da Curwen di suo pugno, "perlopiù in codice", e che richiedevano studi laboriosi per decifrarne il contenuto. È improbabile che Ward avrebbe mostrato le carte agli stessi operai, ma la curiosità di quelli era stata troppo palese; stando così le cose, il giovane aveva voluto evitare di mostrarsi reticente per non aumentare l'interesse dei due. Quella notte Charles Ward rimase nella propria stanza a leggere il diario e gli altri documenti, e non smise neppure a giorno fatto. Quando sua madre venne a vedere come stesse, Ward la pregò vivamente di mandargli i pasti in camera, e così fu fatto; nel pomeriggio uscì solo quando gli uomini vennero a installare il quadro di Curwen e la mensola del camino. La notte seguente dormì solo a tratti, completamente vestito, e per il resto del tempo
lottò alla decifrazione del manoscritto in codice. Al mattino sua madre vide che non era al lavoro sulla copia fotostatica del cifrario Hutchinson, che Charles le aveva più volte mostrato: in risposta alle sue domande egli disse che il codice Curwen non adoperava lo stesso sistema. Quel pomeriggio il giovane abbandonò il lavoro e osservò affascinato gli uomini che completavano l'installazione del quadro sul realistico caminetto elettrico; la mensola e il fregio superiore furono sistemati in modo da essere un po' discosti dalla parete nord, come se dietro ci fosse la canna fumaria, e i lati furono coperti da pannelli identici a quelli della stanza. Il pannello frontale, quello su cui era dipinto il ritratto, fu segato e munito di cardini, in modo da diventare lo sportello di una piccola alcova. Quando gli operai se ne furono andati, Ward trasferì tutti i documenti nello studio e sedette di fronte al camino, con gli occhi ora sul cifrario e ora sul ritratto che lo fissava come uno specchio d'altri tempi, memento dei secoli. Cercando di ricostruire la condotta di Charles in quel periodo, i genitori forniscono interessanti particolari sulla sua nuova reticenza. In presenza dei servitori Ward raramente nascondeva i documenti a cui stava lavorando, perché giustamente pensava che l'arcaica e intricata grafia di Curwen fosse loro del tutto incomprensibile. Con i genitori, invece, era pittosto circospetto, e a meno che il manoscritto in questione fosse in codice, o addirittura un ammasso di simboli misteriosi e ideogrammi sconosciuti (come quello intitolato A colui che verrà dopo di me ecc), Charles aveva preso l'abitudine di coprire il testo con un foglio di carta fino a quando il visitatore non fosse andato via. Ben presto il giovane riprese le abitudini e gli orari normali, salvo per il fatto che le lunghe passeggiate e gli altri interessi esterni persero l'importanza di una volta. La riapertura della scuola, dove ormai frequentava l'ultimo anno, sembrò costituire per Ward un grande fastidio e più volte affermò di non aver alcun interesse a iscriversi all'università: doveva compiere una serie di ricerche speciali, disse, che gli avrebbero aperto molte più strade verso la conoscenza e le scienze umane di qualsiasi università sulla faccia della terra. Solo un individuo che era sempre stato più o meno noto come uno studioso, un eccentrico e un solitario avrebbe potuto permettersi un comportamento del genere senza destare sospetti per molti giorni. Per fortuna Ward era un eremita e un uomo di studio per sua intima costituzione: i genitori, quindi, furono meno sorpresi che dispiaciuti dal comportamento furtivo, quasi da recluso, che il ragazzo aveva adottato; inoltre, sia il padre che la madre trovavano strano che Charles non li rendesse partecipi delle
sue magnifiche scoperte e non rivelasse ciò che aveva decifrato fino a quel momento. Ward si difese spiegando che voleva aspettare fino a quando potesse annunciare qualcosa di concreto, ma col passare delle settimane, e in assenza di qualsiasi confidenza, fra il giovane e la famiglia cominciò a formarsi una sorta di malinteso, che nel caso della madre era acuito dalla sua intensa disapprovazione per tutto ciò che aveva a che fare con Curwen. Nel mese di ottobre Ward riprese a frequentare le biblioteche, anche se non più per arricchire le sue conoscenze antiquarie come una volta. Gli argomenti che lo occupavano adesso erano stregoneria e magia, occultismo e demonologia, e quando le fonti disponibili a Providence si dimostravano insufficienti, prendeva il treno per Boston e andava a soddisfare la sua curiosità nella grande biblioteca di Copley Square, nella Widener Library di Harvard oppure alla Zion Research Library di Brooklin, dove erano disponibili rari testi di argomento biblico. Ward comperava molti volumi e dovette aggiungere una nuova libreria nello studio per ospitare le opere di argomento magico che costituivano il suo nuovo interesse; durante le vacanze di Natale, poi, fece una serie di viaggi fuori città, compresa un'escursione a Salem per consultare certi documenti custoditi all'Essex Institute. Verso la metà di gennaio 1920, affiorò nell'atteggiamento di Ward un senso di trionfo che egli non cercò di giustificare; sta di fatto che nessuno lo vide più al lavoro sul cifrario Hutchinson. Fu in quel periodo che il giovane si dedicò a una nuova serie di ricerche chimiche e storiche: per le prime attrezzò un laboratorio nell'attico di casa ormai in disuso, mentre per le seconde attinse a tutte le fonti documentarie e statistiche di Providence. I rivenditori locali di farmaci e apparecchi scientifici, interrogati in seguito, fornirono elenchi straordinari ma privi di significato delle sostanze e degli strumenti che Charles Ward aveva ordinato; viceversa gli impiegati della State House, del municipio e di alcune biblioteche concordano sull'oggetto ben preciso del secondo interesse. Ward cercava con un'intensità addirittura febbrile la tomba di Joseph Curwen, dalla cui lapide, una generazione dopo, era stato saggiamente cancellato il nome. Poco a poco i genitori si convinsero che c'era qualcosa che non andava. Già in passato Charles si era comportato stranamente e aveva cambiato interessi, ma sempre in cose di poco conto; la crescente segretezza e la profondità con cui era assorbito dalle sue strane ricerche non erano normali neppure in un tipo come lui. Il lavoro scolastico era ormai ridotto al minimo, e benché Charles riuscisse a non prendere insufficienze nei compiti, era chiaro che l'applicazione di una volta era svanita. Altre sembravano le
sue preoccupazioni, e quando non era in laboratorio con una ventina di vecchi trattati alchemici, lo si poteva trovare immerso sugli antichi certificati di sepoltura della città o incollato ai volumi dell'occulto che accumulava nello studio, dove il volto di Joseph Curwen (che gli somigliava in modo straordinario, e, si sarebbe detto, sempre più accentuato) lo fissava blandamente dal gran fregio che sovrastava il camino sulla parete nord. Verso la fine di marzo, alle ricerche condotte negli archivi Ward affiancò una serie di macabre spedizioni negli antichi cimiteri della città. La causa fu evidente in seguito, quando da impiegati del municipio si apprese che il giovane aveva trovato, probabilmente, un indizio importantissimo. Le ricerche si erano improvvisamente spostate dalla tomba di Joseph Curwen a quella di un certo Naphthali Field, cambiamento che si spiegò quando gli investigatori, esaminando le informazioni riesumate da Ward, scoprirono il frammento d'una testimonianza che riguardava la tomba di Curwen ed era sfuggito alla generale cancellazione. Secondo questo frammento la bizzarra bara di piombo sarebbe stata interrata "dieci piedi a sud e cinque piedi a ovest della sepoltura di Naphthali Field, nello...". Il frammento non specificava in quale cimitero si trovasse la fossa in questione, il che complicava notevolmente le ricerche. La tomba di Naphthali Field sembrava elusiva come quella di Curwen, ma nel suo caso non era stato fatto alcun tentativo di nasconderne l'ubicazione: anche se i relativi documenti erano andati perduti, ci si poteva ragionevolmente aspettare di imbattersi nella lapide vera e propria. È questa la ragione dei vagabondaggi di Ward, da cui furono esclusi soltanto il camposanto di St. John (ex King's Churchyard) e l'antico lotto congregazionalista nel mezzo del cimitero di Swan Point, perché altri documenti avevano dimostrato che Naphthali Field (deceduto nel 1729) era stato di confessione battista. 4 Nel mese di maggio, su richiesta di Ward padre e forte delle informazioni sul conto di Curwen che i genitori erano riusciti a ottenere prima che Charles si chiudesse nel segreto, il dottor Willett ebbe un colloquio con il giovanotto. La discussione non approdò a molto, perché il dottore ebbe la sensazione che Charles fosse del tutto padrone di sé e si occupasse di questioni molto importanti; se non altro, tuttavia, costrinse il reticente studioso a offrire una spiegazione razionale del suo recente comportamento. Ward, che apparteneva a quel genere d'uomini distaccati e impassibili i quali non
cadono facilmente nell'imbarazzo, sembrava disposto a parlare delle sue ricerche pur non rivelandone l'oggetto. Affermò che i documenti del suo antenato contenevano il segreto di notevoli conoscenze scientifiche, molte delle quali in codice, la cui apparente portata era paragonabile solo alle scoperte di Bacone e forse addirittura superiori. Tuttavia, a meno di non metterle in relazione con un corpus di conoscenze ormai del tutto obsoleto, esse non avevano senso. Presentarle senza mediazione a un mondo abituato solo alla scienza moderna sarebbe equivalso a privarle di tutta la loro importanza e drammaticità. Per prendere il posto che meritavano nella storia del pensiero umano, quelle antiche scoperte dovevano essere collegate fra loro da qualcuno che conoscesse lo sfondo da cui si erano evolute: e a questo compito Ward si stava dedicando. I suoi sforzi consistevano nell'impadronirsi il più velocemente possibile delle arti dimenticate che un attento interprete delle scoperte di Curwen doveva senz'altro conoscere; col tempo, il giovane sperava di presentare e commentare ampiamente il materiale elaborato dall'alchimista, materiale che avrebbe rivestito il massimo interesse per l'umanità e il mondo del pensiero. Neppure Einstein, secondo Ward, avrebbe rivoluzionato così profondamente l'attuale visione del mondo. Quanto alle ricerche nei camposanti, di cui Ward ammise francamente lo scopo ma di cui non rivelò gli ultimi sviluppi, disse che aveva ragione di pensare che la lapide mutilata di Joseph Curwen recasse certi simboli mistici - scolpiti in base a precise indicazioni contenute nel suo testamento e risparmiati, per ignoranza, da coloro che avevano cancellato il nome - i quali erano assolutamente essenziali per la soluzione del cifrario. Curwen, secondo Ward, aveva voluto preservare i propri segreti con estrema cura e ne aveva distribuito le chiavi in modo più che bizzarro. Quando il dottor Willett chiese di vedere i misteriosi documenti, Ward mostrò una gran riluttanza e cercò di fuorviarlo sottoponendogli le fotocopie del cifrario Hutchinson e i diagrammi di Orne, ma alla fine gli mostrò l'esterno delle carte che riguardavano Curwen: il Diario et note, il cifrario (con il titolo pure in codice) e il messaggio pieno di formule indirizzato A colui che verrà dopo di me; inoltre, gli permise di osservare da vicino quelli che erano scritti nel modo più oscuro. Poco dopo aprì il diario in un pùnto scelto accuratamente per la sua innocenza e diede a Willett un esempio del corsivo normale di Curwen. Il dottore esaminò attentamente le lettere contorte, complicate, ed ebbe l'impressione che la pagina risalisse addirittura al Seicento: questo sia per l'a-
spetto della grafia che per lo stile, nonostante che l'autore fosse vissuto fino al secolo successivo. Willett si convinse dell'autenticità del documento, benché il testo fosse di per sé banale, ed è in grado di ricordarne un solo passaggio: Merc. 16 ott. 1754. Quest'oggi la mia corvetta Wakeful arrivò da Londra con XX nuovi uomini raccolti ne le Indie, spagnuoli della Martinica e 2 olandesi del Sulinam. Codesti olandesi sembrano ansiosi di desertare, avendo udito cose malevole a proposito de' nostri Affari: però io vederò di persuaderli a restare. Merci portate per il signor Knight Dexter dell'esercizio 'Bay and Book': 120 pezze di cammello, 100 pezze tipo-cammello, 20 pezze blu per giacche pesanti, 100 pezze flanella, 50 pezze calico, 300 pezze ciascuna di tessuti misti. Per il signor Green dell'Elefante feci venire 50 galloni di infusi misti, per il signor Perrigo numerose combinazioni di spezie. Tre volte dissi il SABAOTH la notte scorsa, ma non apparve Alcuno. Più debbo apprendere dal signor H. in Transilvania, per difficile che sia raggiungerlo e per strano il fatto che non possa consentirmi ancora di adoprare ciò che egli stesso usò con tanto successo per centinaia d'anni. Simone non mi scrive da V settimane, epperò aspetto di sentire al più presto sue notizie. Quando, arrivato a questo punto, il dottor Willett voltò pagina, Ward lo afferrò bruscamente e gli strappò quasi il diario di mano. Tutto ciò che il dottore riuscì a vedere sulla pagina appena aperta fu un paio di brevi frasi, che, fatto abbastanza strano, rimasero tenacemente impresse nella sua memoria. Eccole: "Avendo recitato i versi del Liber Damnatus per V natali e IV Vigilie d'ognissanti, spero che l'Essere sia già cresciuto nell'Esterne Sfere; esso guiderà Colui che deve venire, lo quale si darà grande pensiero per le cose del Passato e saprà guardare indietro negli anni. Epperciò io debbo avere pronti i Sali o la Materia da cui son fatti". Willett non vide altro, ma quell'unica occhiata gli trasmise un nuovo e vago terrore del ritratto di Curwen, che li guardava blandamente dal fregio sul camino. Anche in seguito il dottore conservò la bizzarra sensazione (che la sua preparazione medica gli garantiva essere soltanto un'illusione) secondo cui gli occhi del ritratto avessero il desiderio, se non una vera e propria tendenza, a seguire il giovane Ward quando si muoveva nella stanza. Prima di andarsene Willett si soffermò con attenzione sul ritratto, meravigliandosi della somiglianza con Charles e imprimendosi nella memoria
ogni più piccolo particolare del volto enigmatico, senza colore, caratterizzato da una piccola cicatrice o fossetta sulla fronte liscia, poco sopra l'occhio destro. Cosmo Alexander, rifletté il dottore, era un pittore degno di quella Scozia che già aveva dato al mondo un Raeburn, e un maestro all'altezza del suo illustre pupillo Gilbert Stuart. Rassicurati dal dottor Willett sul fatto che la salute mentale di Charles non era in pericolo, e che anzi era occupato in ricerche i cui risultati avrebbero potuto essere della massima importanza, nel giugno successivo (quando il giovane stabilì definitivamente che non avrebbe frequentato l'università), i Ward si mostrarono più arrendevoli di quanto sarebbero stati normalmente. Charles affermò di dover completare studi d'importanza vitale e avanzò la richiesta di recarsi all'estero l'anno dopo, per consultare fonti che in America non esistevano. Il signor Ward, pur rifiutandogli il permesso sulla base del fatto che si trattava di una cosa assurda per un ragazzo di appena diciotto anni, si arrese per quanto riguardava l'università; in questo modo, dopo essersi diplomato non troppo brillantemente alla Moses Brown School, Charles si tuffò per tre anni in un periodo di profondi studi dell'occulto e ricerche nei camposanti. La gente imparò a conoscerlo come un eccentrico e Charles si sottrasse più decisamente di quanto non avesse mai fatto alla vista degli amici di famiglia; non si occupava d'altro che del suo lavoro e di tanto in tanto faceva un viaggio in altre città per consultare oscuri documenti. Una volta andò nel sud per parlare con uno strano vecchio mulatto che viveva vicino a una palude e sul quale un quotidiano aveva pubblicato un articolo bizzarro. In un'altra occasione Charles visitò un villaggio degli Adirondack da cui erano giunte notizie di misteriose pratiche rituali; ma ancora i genitori gli vietavano il viaggio nel vecchio mondo che Charles tanto desiderava. Divenuto maggiorenne nell'aprile 1923, e avendo ricevuto già da qualche tempo una piccola eredità dal nonno materno, Ward decise finalmente di compiere il viaggio in Europa che fino ad allora gli era stato negato. Nulla rivelò sull'itinerario che aveva deciso di seguire, ma si limitò ad ammettere che per necessità di studio avrebbe dovuto recarsi in numerosi luoghi e promise che avrebbe scritto tutti i particolari ai genitori. Quando videro che era impossibile dissuaderlo, il signor Ward e sua moglie abbandonarono ogni tentativo d'opposizione e lo aiutarono come meglio potevano, sicché a giugno il giovane s'imbarcò per Liverpool; il padre e la madre gli fecero tutti i loro auguri e lo accompagnarono a Boston, dove videro la nave allontanarsi dal molo della Stella Bianca a Charlestown. Non passò
molto tempo che giunsero notizie dell'arrivo di Charles in Inghilterra e dell'appartamento che aveva preso in affitto in Great Russell Street, a Londra; lì decise di restare, evitando accuratamente gli amici di famiglia, fino a quando non avesse esaminato tutte le fonti del British Museum in un certo settore. Della sua vita quotidiana Ward parlava poco, anche perché c'era poco da dire; lo studio e gli esperimenti assorbivano tutto il suo tempo, e una volta accennò al laboratorio che aveva attrezzato in una stanza dell'appartamento. Il fatto che non menzionasse eventuali passeggiate antiquarie nella vecchia città irta di cupole e guglie, affollata di strade e stradine il cui fantastico intreccio, e i cui improvvisi scorci di panorama, invitavano e sorprendevano il visitatore, fu preso dai genitori come buon segno dei nuovi interessi che avevano assorbito la mente del giovane. Nel giugno 1924 una breve nota rivelò che Charles si era diretto a Parigi, dove aveva già fatto un paio di brevi viaggi per consultare certe fonti della Bibliotéque Nationale. Per tre mesi non giunsero altro che cartoline postali, in cui il giovane forniva un indirizzo della Rue Saint-Jaques e accennava a una ricerca speciale che stava conducendo fra i manoscritti custoditi nella biblioteca di un non meglio identificato collezionista privato. Ward continuava a evitare i conoscenti e nessun turista riferì di averlo visto; seguì un periodo di silenzio e a ottobre i genitori ricevettero una cartolina illustrata da Praga, antica città in cui Charles affermava di essersi trasferito per conferire con un uomo vecchissimo, probabilmente l'unico essere vivente in possesso di certe curiose notizie medievali. Il giovane fornì un indirizzo della Neustadt e annunciò che non si sarebbe mosso fino al gennaio seguente, epoca in cui spedì una serie di cartoline da Vienna raccontando di aver fatto tappa nella capitale austriaca durante il viaggio che l'avrebbe portato verso una regione più orientale, dove era stato invitato da uno dei suoi corrispondenti e ricercatori dell'occulto. La cartolina successiva arrivò da Klausenburg in Transilvania: Ward era ormai vicino alla sua destinazione. Il suo ospite era un certo barone Ferenczy, le cui terre si trovavano fra i monti a est di Rakus; l'indirizzo a cui si poteva raggiungerlo era appunto Rakus, presso il nobiluomo. Una settimana dopo la famiglia ricevette un'altra cartolina in cui Charles raccontava come la carrozza dell'ospite fosse venuta a prenderlo e ora si accingesse a lasciare il villaggio per le montagne. Fu questo il suo ultimo messaggio per parecchio tempo, e anzi Charles non rispose alle numerose lettere dei genitori fino a maggio, quando scrisse alla madre per scoraggiare il progetto di un appuntamento a Londra, Parigi o Roma durante l'estate, che i genitori
avevano deciso di trascorrere in Europa. Charles disse che le sue ricerche non gli permettevano di abbandonare il luogo dove si trovava, e che la posizione del castello Ferenczy non incoraggiava i visitatori. La fortezza sorgeva su un picco scosceso fra le montagne coperte di boschi, e la regione, scrupolosamente evitata dagli abitanti delle campagne, avrebbe messo a disagio una coppia di turisti. Per di più, il barone non avrebbe fatto bella impressione a una degna famiglia della buona borghesia conservatrice del New Ingland: i suoi modi e il suo aspetto erano peculiari e la sua età così avanzata da essere inquietante. Sarebbe stato meglio, osservò Charles, che i genitori lo aspettassero a Providence: ormai la data del ritorno non era lontana. In realtà essa fu differita fino al maggio 1926, quando, dopo aver annunciato il suo rientro con qualche cartolina, il giovane giramondo approdò discretamente a New York a bordo della Homeric e coprì il lungo tragitto per Providence in pullman. Gustò avidamente il paesaggio di verdi colline, i frutteti profumati e in fiore, le città del vecchio Connecticut con i campanili bianchi: il suo primo assaggio dell'antico New England dopo circa quattro anni. Quando l'autobus attraversò il Pawcatuck ed entrò nel Rhode Island nell'oro fatato di un pomeriggio di primavera inoltrata, il cuore di Ward prese a battere più forte, e l'ingresso a Providence lungo la Reservoir e la Elmwood Avenue fu una cosa meravigliosa, da lasciarlo senza fiato nonostante gli anni trascorsi a contatto sempre più intimo con argomenti proibiti. Nell'alta piazza dove confluiscono Broad, Weybosset ed Empire Street Charles vide davanti a sé e in basso, nel fuoco del tramonto, le piacevoli case dei suoi ricordi, le cupole e i campanili dell'antica città; ed è strano, ma quando il veicolo si avvicinò al terminal, alle spalle dell'Hotel Biltmore, la testa gli girò alla vista della cima tondeggiante e del dolce scenario verde punteggiato di tetti della vecchia collina oltre il fiume, mentre l'alta guglia coloniale della First Baptist Church si colorava di rosa nella magica luce della sera, ritagliata contro il verde fresco e primaverile del ripido pendio. Vecchia Providence! Era la città, con le forze misteriose della sua storia lunga ma continua, ad averlo generato e ad averlo attratto verso meraviglie e segreti di cui nessun profeta poteva stabilire i limiti; e nella città si annidavano gli arcani - meravigliosi o terribili secondo i casi - a cui lo avevano preparato anni di viaggi e studi. Un taxi lo portò velocemente in Post Office Square con la vista del fiume, davanti all'antica Market House all'estremità della baia e su, per l'erta salita di Waterman Street ricca di curve,
fino a Prospect Street, dove la gran cupola splendente e le colonne ioniche illuminate dal tramonto della Christian Science Church ammiccavano a nord. Poi l'ultima parte del tragitto, fra le belle dimore antiche che aveva imparato ad amare da bambino e i marciapiedi di mattoni che tante volte aveva calpestato da ragazzo; alla fine, alla sua destra, la piccola fattoria bianca inghiottita dalla città, e a sinistra il classico porticato Adam e la facciata maestosa della grande costruzione di mattoni in cui era nato. Era il crepuscolo, e Charles Dexter Ward era tornato a casa. 5 Una gruppo di alienisti un poco meno rigidi della scuola a cui appartiene il dottor Lyman, fa risalire la follia di Ward al suo viaggio in Europa. Disposti ad ammettere che quando partì fosse ancora padrone delle proprie facoltà, essi ritengono che il suo comportamento dopo il ritorno sia il frutto di un mutamento disastroso: ma anche questa ipotesi viene respinta dal dottor Willett. L'inizio della follia, egli insiste, è successivo, e le stranezze del giovane in questa fase andrebbero attribuite alle pratiche e ai rituali appresi all'estero: cose certo molto strane, ma che non implicano affatto un'aberrazione mentale. Ward, benché visibilmente invecchiato e indurito, reagiva ancora normalmente e in numerosi colloqui con Willett mostrò un equilibrio che un pazzo non potrebbe simulare neppure ai primi stadi della malattia. Ciò che tuttavia fortificò il partito della follia furono i suoni che in quel periodo si udivano a tutte le ore nel laboratorio di Ward, dove ormai il giovane trascorreva la maggior parte del tempo. Si trattava di canti, ripetizioni e violente litanie modellate su ritmi sconosciuti; e benché i suoni fossero profferiti senz'altro dalla voce di Ward, qualcosa nel suo accento e nel ritmo con cui intonava le formule faceva rabbrividire chi le ascoltava. Venne osservato che Nig, il vecchio e amato gatto nero di casa, drizzava il pelo e inarcava la schiena ogni volta che si ripetevano determinati toni. Gli odori che di tanto in tanto filtravano dal laboratorio erano stranissimi. Qualche volta si trattava di zaffate disgustose, ma più spesso erano profumi aromatici, indefinibili e ossessivi, e che sembravano dotati del potere di indurre fantastiche visioni. Chi li sentiva godeva, per qualche istante, di sconfinati miraggi: strane montagne o interminabili viali fiancheggiati di sfingi e d'ippogrifi si perdevano in distanze infinite. Ward non riprese la vecchia abitudine di fare passeggiate, ma si applicò con diligenza agli strani volumi che aveva portato a casa e ad altre ricerche ugualmente
misteriose; tutte queste attività si svolgevano fra le pareti domestiche, e il giovane spiegò che le fonti europee avevano di gran lunga ampliato le possibilità del suo lavoro, promettendo grandi rivelazioni negli anni futuri. L'aspetto più maturo di Ward sottolineò in modo straordinario la somiglianza con il ritratto di Curwen appeso nello studio, e spesso, alla fine di una visita, il dottor Willett si fermava davanti al dipinto meravigliandosi della virtuale identità fra i due: solo la fossetta sull'occhio destro, rifletté Willett, distingueva lo stregone defunto dal giovane che aveva davanti a lui. Le visite di Willett, motivate da una richiesta dei genitori, si svolgevano in modo piuttosto strano. In nessun momento Ward respinse il dottore, ma questi si accorse di non poter far breccia nell'intimo di Charles; anzi, notò che si circondava volentieri di strani oggetti: piccole figure di cera dall'aspetto grottesco sugli scaffali o i tavoli, resti mal cancellati di circoli, triangoli e pentagrammi tracciati col gesso o il carboncino sul pavimento dell'ampia stanza. Sempre, di notte, risuonavano incantesimi e litanie, finché mantenere i servitori o impedire che cominciassero a diffondersi le voci sulla pazzia di Charles divenne un problema. Nel gennaio 1927 avvenne uno strano incidente. Una notte, verso mezzanotte, mentre Charles cantava un rituale la cui bizzarra cantilena echeggiava spiacevolmente in tutta la casa, dalla baia si alzò un improvviso refolo di vento, e tutto il vicinato avvertì un debole, misterioso tremito della terra. Nello stesso momento il gatto dei Ward si mostrò spaventatissimo, mentre i cani abbaiarono per oltre un chilometro e mezzo nel circondario. Fu il preludio a un violento temporale, anomalo per la stagione e accompagnato da scoppi così violenti che i Ward pensarono che la casa fosse stata colpita. I genitori corsero al piano di sopre per constatare i danni, ma Charles venne loro incontro sulla porta dell'attico: era pallido, deciso e formidabile, con un'espressione quasi spaventosa di trionfo e solennità dipinta sul volto. Il giovane assicurò ai genitori che la casa non era stata colpita e il temporale sarebbe passato presto. Il signor e la signora Ward si fermarono un momento, e guardando da una finestra si accorsero che Charles aveva ragione: i lampi guizzavano sempre più lontani, mentre l'improvviso vento freddo che si era alzato dal mare non piegava più gli alberi. Il tuono si era ridotto a una specie di lontana risata echeggiante, e alla fine morì del tutto. Apparvero le stelle e l'espressione di trionfo sulla faccia di Charles Ward si trasformò in una maschera conturbante. Per circa due mesi dopo il temporale, Ward passò meno tempo del solito in laboratorio; manifestò un interesse piuttosto bizzarro per i fenomeni at-
mosferici e fece tutta una serie di domande sul disgelo primaverile. Una notte, alla fine di marzo, lasciò la casa dopo mezzanotte e non tornò fin quasi al mattino: sua madre, che era sveglia, sentì personalmente il rombo di un motore nel vialetto d'ingresso. Seguirono alcune imprecazioni soffocate e la signora Ward, che si era alzata ed era andata alla finestra, vide quattro sagome nere che, sotto la direzione di Charles, trasferivano una cassa lunga e pesante dal retro di un camioncino verso l'ingresso laterale della casa. Poi la signora udì passi pesanti sulle scale e l'ansimare degli uomini: quindi un tonfo sordo nell'attico. I passi discesero le scale e i quattro riapparvero all'esterno, allontanandosi con il camioncino. Dal giorno dopo Charles riprese l'abitudine di chiudersi al piano superiore, bloccando le imposte alle finestre del laboratorio e dedicandosi a quello che sembrava il lavoro su qualche sostanza metallica. Non apriva la porta a nessuno e rifiutava con decisione qualunque offerta di cibo. A mezzogiorno venne dall'attico uno schianto d'ossa, seguito da un urlo terribile e da un tonfo: ma quando la signora Ward bussò alla porta del figlio questi, dopo un pezzo, rispose con voce appena udibile che non era successo niente. Quanto al puzzo disgustoso e insopportabile che si era diffuso nella casa, Charles affermò che era del tutto innocuo e purtroppo necessario. La solitudine era indispensabile al suo lavoro, ma quella sera sarebbe sceso a cena. Nel pomeriggio, dopo che dietro la porta chiusa si furono uditi una serie di suoni sibilanti, Ward finalmente apparve: aveva un aspetto emaciato e proibì a chiunque di entrare in laboratorio per qualsiasi ragione. Fu l'inizio di una nuova politica di segretezza, e in seguito non fu permesso a nessuno di visitare la misteriosa stanza di lavoro nel sottotetto o l'adiacente dispensa che il giovane aveva pulito, arredato alla men peggio ed eletto a camera da letto, facendone una sorta di aggiunta al proprio regno inviolabile. Lassù visse, con i libri che aveva portato dallo studio al piano inferiore, finché non acquistò il bungalow di Pawtuxet e vi trasferì tutti gli apparecchi scientifici. A sera Charles fece sparire il giornale per evitare che attirasse la curiosità dei genitori e ne danneggiò una parte simulando un incidente. In seguito il dottor Willett, dopo essere riuscito a stabilire la data grazie alle dichiarazioni di alcuni membri della casa, ne rintracciò una copia intatta presso la redazione del "Journal" e scoprì che la parte distrutta da Charles conteneva il seguente trafiletto: PROFANATORI NOTTURNI SCOPERTI
NEL NORTH BURIAL GROUND Robert Hart, guardiano notturno al North Burial Ground, ha sorpreso questa mattina un gruppo di parecchi uomini forniti di camioncino nella parte più antica del cimitero, ma è riuscito a spaventarli prima che portassero a termine il loro scopo misterioso. La scoperta ha avuto luogo verso le quattro, quando l'attenzione di Hart è stata risvegliata dal rumore di un motore all'esterno della baracca. Uscito a investigare, ha visto un grosso camioncino sul viale principale, ma non è riuscito a raggiungerlo prima che il rumore dei propri passi sulla ghiaia ne tradisse la presenza. Gli intrusi si sono affrettati a depositare nel camion una grande cassa e si sono diretti verso la strada prima che il custode potesse raggiungerli. Dal momento che nessuna tomba risulta violata, Hart ritiene che la cassa fosse un oggetto che i profanatori intendevano seppellire. Il lavoro degli sconosciuti deve essere cominciato molto prima della scoperta, poiché Hart ha trovato una fossa di notevoli dimensioni presso il luogo di sepoltura di Amasa Field, sul retro del cimitero, a una notevole distanza dalla strada. La fossa, grande e profonda come una tomba, era vuota e non corrisponde a nessun luogo di sepoltura registrato negli archivi del cimitero. Il sergente Riley, del secondo distretto di polizia, ha esaminato il luogo ed ha espresso l'opinione che lo scavo sia opera di contrabbandieri decisi a trovare un macabro ma sicuro nascondiglio per il liquore clandestino, in un luogo che certo nessuno sarebbe andato a disturbare. Rispondendo alle domande degli inquirenti, Hart ha dichiarato che il camion in fuga si è diretto verso Rochambeau Avenue, benché non possa esserne sicuro. Nei giorni seguenti Charles Ward fu visto raramente dai familiari. Avendo trasferito la camera da letto nel sottotetto, vi rimaneva tutto il tempo e pretendeva che il cibo gli fosse lasciato davanti alla porta, evitando di ritirarlo fino a quando il servitore non fosse andato via. Monotone litanie e inni bizzarri si succedevano a intervalli, mentre in altre occasioni gli ascoltatori riuscivano a distinguere il tintinnio di cristallo contro cristallo, il sibilo di prodotti chimici, il rumore dell'acqua corrente o delle fiamme di gas. Odori della più indefinibile natura, e completamente diversi da quelli che si erano avvertiti fino a quel momento, aleggiavano intorno alla porta; le rare volte in cui il giovane recluso si avventurava fuori del laboratorio l'aria di tensione che si notava in lui eccitava le più ardite speculazioni.
Una volta si recò in tutta fretta all'Athenaeum per cercare un libro che gli serviva, mentre in un'altra occasione pagò un messo perché gli portasse un oscuro volume da Boston. Su tutta la situazione aleggiava una tensione insostenibile, e sia i genitori che il dottor Willett confessarono di non sapere che cosa fare o pensare. 6 Il 15 aprile si ebbero nuovi e bizzarri sviluppi. Niente era cambiato nella sostanza, ma l'intensità del mutamento fu radicale e il dottor Willett vi attribuisce grande importanza. Era venerdì santo, circostanza che i servitori mettono in grande risalto, ma che altri si limitano a giudicare una coincidenza irrilevante. Nel tardo pomeriggio il giovane Ward cominciò a ripetere ad alta voce una certa formula, bruciando contemporaneamente una sostanza così acre che i fumi si diffusero in tutta la casa. La litania era perfettamente udibile nel corridoio oltre la porta chiusa e la signora Ward non poté fare a meno di mandarla a memoria, mentre aspettava e ascoltava in preda all'ansia; in seguito, su richiesta del dottor Willett, fu in grado di trascriverla. La riportiamo qui di seguito, avvertendo che alcuni esperti hanno rivelato al dottor Willett che qualcosa di molto simile appare negli scritti esoterici di Eliphas Lévi, lo studioso del mistero che è riuscito a penetrare in un'apertura della porta proibita e a contemplare le visioni spaventose del vuoto cosmico: Per Adonai Eloim, Adonai Jehova, Adonai Sabaoth, Metraton On Agla Mathon, verbum pythonicum, mysterium salamandrae, conventus sylvorum, antra gnomorum, daemonia Coeli Dio, Almonsin, Gibor, Jehosua, Evam, Zariatnatmik, veni, veni, veni. La cantilena proseguì per circa due ore senza cambiamenti o intervalli, dopodiché nel vicinato i cani scatenarono un pandemonio: l'inferno prodotto dall'abbaiare delle bestie fu tale che il giorno seguente il giornale gli dedicò un articolo, ma per chi si trovava in casa Ward il fenomeno fu eclissato dall'odore che immediatamente lo seguì. Era spaventoso, penetrava dappertutto e nessuno lo aveva mai sentito prima. Nel diluvio mefitico saettò una luce improvvisa, simile al lampo, che sarebbe risultata accecante e an-
cora più misteriosa se non si fosse verificata di giorno; poi si udì la voce che nessun testimone potrà mai dimenticare; una voce tonante e remota, profondissima, spaventosamente diversa da quella di Charles Ward. Faceva tremare la casa, e fu udita con chiarezza da almeno due vicini nonostante l'abbaiare dei cani. La signora Ward, che era rimasta ad ascoltare angosciata fuori la porta sbarrata del laboratorio, tremò nel percepire quel tono infernale: Charles, tra l'altro, le aveva parlato della sinistra fama che si attribuiva alla voce nei grimori, e della prima volta in cui, stando alle lettere dei Fenner, era risuonata sulla fattoria condannata di Pawtuxet la notte in cui Joseph Curwen era stato distrutto. Non era possibile fraintendere quella frase d'incubo, perché ai tempi in cui parlava senza reticenza del mistero Curwen, Charles l'aveva descritta fin nei minimi particolari. Si trattava di un frammento di un linguaggio arcaico e dimenticato, né più né meno che questo: "DIES MIES JESCHET BOENE DOESEF DOUVEMA ENITEMAUS". Subito dopo la luce del giorno si oscurò per un attimo, anche se al tramonto mancava un'ora buona, e nell'aria si diffuse un odore diverso dal primo ma comunque sconosciuto e intollerabile. Charles aveva ricominciato a cantare e sua madre riuscì a distinguere alcune sillabe, che erano qualcosa di simile a "Yi-nash-Yog-Sothoth-he-lgeb-fi-throdog", e alla fine uno "Yah!" la cui forza maniacale saliva in un crescendo che sembrava voler rompere i timpani. Un attimo dopo tutti i ricordi furono cancellati da un urlo o lamento che esplose con violenza disperata e gradualmente si trasformò in una risata demoniaca, isterica. La signora Ward, in preda al terrore ma anche a un cieco coraggio di madre, avanzò e bussò spaventatissima alla porta del laboratorio, senza ottenere risposta. Bussò ancora ma si interruppe, snervata, quando risuonò un secondo urlo, senz'altro lanciato da suo figlio e che echeggiò contemporaneamente alla risata demenziale, la quale apparteneva a un altro essere. Alla fine la signora svenne, benché sia tuttora incapace di ricordare le cause precise e immediate del malore; a volte la memoria cancella misericordiosamente i particolari più terribili. Il signor Ward tornò dal quartiere degli affari alle sei e un quarto circa, e, non trovando sua moglie al pianterreno, fu informato dai servitori atterriti che probabilmente montava la guardia alla porta di Charles, da cui si erano sentiti grida e rumori più strani che mai. Immediatamente il signor Ward raggiunse l'attico, e rendendosi conto che la moglie era svenuta, le prese un bicchier d'acqua da una brocca in un'alcova. Il liquido freddo le corse sulla faccia e il marito si rincuorò nel vedere che la signora si ripren-
deva; poi, mentre gli occhi si aprivano, un brivido attraversò da capo a piedi il signor Ward, tanto che per poco non perse coscienza come era accaduto a lei. Il laboratorio silenzioso, infatti, non lo era completamente, ma lasciava filtrare i mormoni di una conversazione tesa, soffocata, troppo bassa perché si potessero distinguere le parole, ma sconvolgente per l'anima. Ovviamente non era una novità che Charles borbottasse formule magiche, ma stavolta era diverso. Non c'era dubbio che si trattasse di un dialogo o imitazione di un dialogo, con il normale cambiamento di tono che suggeriva domanda e risposta, affermazione e negazione; una voce era evidentemente quella di Charles, ma l'altra si esprimeva con una profondità e un tono rauco che le facoltà mimiche del giovane, frequentemente messe alla prova nei suoi cerimoniali, non avevano mai raggiunto. Nella faccenda c'era qualcosa di orribile, blasfemo e anormale, e se non fosse stato per un grido della moglie che si stava riprendendo, e che snebbiò la sua mente risvegliandone l'istinto protettivo, è improbabile che Theodore Howland Ward sarebbe riuscito a mantenere per quasi un altr'anno la sua famosa vanteria di non essere mai svenuto. Prese la moglie fra le braccia e la portò velocemente al piano di sotto, prima che anche lei potesse udire le voci che l'avevano sconvolto. Anche così, tuttavia, non riuscì ad evitare di sentire qualcosa che lo fece vacillare pericolosamente. Il grido della signora Ward doveva essere stato udito anche da qualcun altro, e da dietro la porta del laboratorio erano giunte le prime parole comprensibili di quel colloquio terribile ed enigmatico. Era soltanto un avvertimento e la voce che l'aveva proferito era quella di Charles, ma il senso e soprattutto il contesto diedero un brivido al padre che le intraudì. La frase era semplicemente questa: «Shh!... Scrivi!». Dopo cena il signor e la signora Ward parlarono per qualche tempo; il padre decise di affrontare Charles quella sera stessa e avere un serio colloquio con lui. Non importava quanto fosse grande l'obbiettivo delle sue ricerche: una condotta del genere non poteva continuare e gli ultimi avvenimenti trascendevano ogni limite di normalità, costituendo una minaccia per l'ordine e il benessere di tutta la casa. Evidentemente il ragazzo aveva perso la testa, perché solo la follia poteva giustificare le urla improvvise e le conversazioni immaginarie, in tono contraffatto, che si erano udite quel giorno. Tutto questo doveva finire, o la signora Ward si sarebbe sentita male e mantenere i servitori si sarebbe rivelato impossibile. Alla fine del pranzo il signor Ward si alzò e salì verso il laboratorio di
Charles; al primo piano, tuttavia, si fermò per ascoltare certi suoni che venivano dalla biblioteca ora in disuso del figlio. I libri erano sparpagliati dappertutto, e così pure una serie di documenti: oltrepassando la soglia il signor Ward vide che il giovane era nella stanza, intento a raccogliere con grande eccitazione una massa di libri di ogni forma e dimensione. L'aspetto di Charles era stanco, tirato, e a sentire la voce del padre il ragazzo trasalì e fece cadere i volumi. A un ordine dell'altro sedette in poltrona e ascoltò per qualche tempo i rimproveri che aveva così a lungo meritato. Non ci furono scenate: alla fine della reprimenda Charles ammise che suo padre aveva ragione e che i suoi rumori, borbottii, incantesimi (per non parlare dell'odore dei prodotti chimici), erano fastidi che non potevano essere tollerati. Quindi acconsentì a una politica di maggior quiete, pur insistendo sulla necessità di prolungare la sua totale reclusione. Gran parte del lavoro che avrebbe dovuto svolgere in futuro, disse, non avrebbe richiesto che lo studio dei libri, ma avrebbe affittato un alloggio indipendente per recitare i rituali che erano indispensabili a ulteriori progressi. Charles si mostrò profondamente dispiaciuto per lo spavento e lo svenimento di sua madre, e spiegò che la conversazione udita dal padre faceva parte di un elaborato esercizio simbolico il cui scopo era indurre una certa atmosfera mentale. L'uso di termini tecnici e astrusi meravigliò il signor Ward, ma quando padre e figlio si lasciarono il primo ebbe l'impressione che Charles, pur sottoposto a una tensione di origine misteriosa e senz'altro grave, fosse tuttavia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Il colloquio non approdò ad altro, e quando Charles raccolse i suoi libri e uscì dalla stanza, il signor Ward non era riuscito a farsi un'idea più chiara dell'intricata vicenda. Tutto rimaneva misterioso come la morte del povero vecchio Nig, il cui corpo irrigidito era stato trovato un'ora prima in cantina, con gli occhi sbarrati e la bocca distorta dalla paura. Spinto da un vago istinto ad approfondire la faccenda, il padre, perplesso, guardò con curiosità gli scaffali vuotati per vedere che cosa il figlio avesse portato nell'attico. La biblioteca di Charles Ward era organizzata in modo semplice ma schematico, in modo che si poteva dire con un'occhiata che libro o gruppo di libri fossero stati presi. In quell'occasione il signor Ward fu sorpreso nel notare che non mancava nessun testo storico o dell'occulto, a parte quelli che erano già stati prelevati. No, i libri portati via all'ultimo momento riguardavano argomenti contemporanei: storia moderna, scienze, geografia, manuali di letteratura, opere filosofiche e un certo numero di quotidiani e riviste. Era un curioso cambiamento rispetto alle
abitudini di Charles Ward e il padre, assalito dai dubbi, si immerse sempre più profondamente in un mare di ipotesi fuori dell'ordinario. Lo straordinario era l'elemento che dominava su tutto, con forza, e quando si chiese che cosa stesse accadendo il signor Ward provò una morsa al petto. C'era qualcosa di profondamente sbagliato in tutta la vicenda, e non solo spiritualmente ma tangibilmente. Fin da quando era entrato in biblioteca il padre si rese conto che mancava qualcosa, e alla fine capì di che si trattava. Sulla parete nord c'era ancora il fregio antico che proveniva dalla casa in Olney Court, ma il grande ritratto di Curwen, restaurato con tanta fatica e screpolato in più punti, sembrava irreparabilmente danneggiato. Il tempo e gli sbalzi di temperatura avevano fatto finalmente il loro lavoro; in un momento imprecisato da quando la stanza era stata rigovernata per l'ultima volta, era accaduto il peggio. Staccatosi dal legno in riccioli sempre più spessi, che a loro volta si erano ridotti in briciole con incredibile rapidità, il ritratto di Joseph Curwen aveva rinunciato per sempre a sorvegliare il giovane cui somigliava così stranamente; tutto quel che ne rimaneva era visibile sul pavimento: un mucchietto di polvere azzurra. IV. Mutazione e follia 1 Nella settimana che seguì quel memorabile venerdì santo Charles Ward fu visto più spesso del solito, occupato com'era a trasportare libri dalla biblioteca nel laboratorio in soffitta. Il suo comportamento era tranquillo e ragionevole, ma al tempo stesso aveva un aspetto furtivo, da uomo braccato, che sua madre non gradì affatto; aveva sviluppato un incredibile, smisurato appetito che teneva la cuoca costantemente sotto pressione. Il dottor Willett aveva saputo dei rumori e degli altri avvenimenti di quel venerdì, e il martedì successivo ebbe una lunga conversazione con il giovane, nella biblioteca dove il quadro non li fissava più. Come al solito il colloquio non approdò a nulla, ma Willett giura tuttora che a quell'epoca il ragazzo era sano quanto lui. Charles continuò a promettere rivelazioni a breve scadenza e parlò della necessità di trovarsi un laboratorio altrove. Per quanto riguarda la perdita del ritratto, che pure lo aveva entusiasmato tanto, sembrò dolersi poco, e anzi trovò qualcosa di ridicolo nel modo in cui si era sbriciolato. Circa due settimane dopo Charles prese ad assentarsi da casa per lunghi
periodi e un giorno, quando la buona vecchia Hannah, la donna di colore, venne a dare una mano per le pulizie di primavera, la famiglia venne a sapere che il giovane frequentava spesso l'antica casa in Olney Court, dove si recava con una grande valigia e si dedicava a curiosi scavi in cantina. Era sempre molto generoso sia con Hannah che con il vecchio Asa, ma sembrava più preoccupato di prima. Questo impensieriva la povera donna, che lo aveva visto crescere da quando era un bambino. Altre voci sulle sue attività vennero da Pawtuxet, dove alcuni amici di famiglia lo videro da lontano numerose volte. A quanto pareva Charles frequentava la spiaggia e il deposito di canoe di Rhodes-on-the-Pawtuxet, e successive ricerche del dottor Willett in quella località rivelarono che il suo scopo era quello di raggiungere la ripida sponda del fiume, lungo la quale si incamminava verso nord e non riappariva per un pezzo. Verso la fine di maggio nel laboratorio in soffitta ripresero i canti rituali e il signor Ward dovette farsi sentire, mentre Charles promise con aria distratta che sarebbe stato più attento. Una mattina si udì uno strano vocio che ricordava la conversazione immaginaria udita in quel turbolento venerdì santo. Il giovane discuteva o protestava animatamente con se stesso, e si udirono perfettamente grida di tono diverso e un'alternanza di domande e risposte che indussero la signora Ward a correre all'ultimo piano e origliare alla porta. Non riuscì a sentire più di un brandello di conversazione, le cui uniche parole intelligibili erano "deve averla rossa per tre mesi"; ma quando bussò alla porta le voci si calmarono all'improvviso. Charles, interrogato più tardi dal padre, disse che certe sfere di coscienza entravano in conflitto tra loro e che solo con grande abilità si poteva evitarlo, ma che, comunque, egli avrebbe cercato di trasferirle su altri piani. Verso la metà di giugno si verificò uno strano incidente notturno. In laboratorio, la sera presto, c'erano stati rumori e tonfi di vario genere, e il signor Ward era sul punto di andare ad accertarsene quando all'improvviso il baccano si calmò. A mezzanotte la famiglia si era ormai ritirata e il maggiordomo stava per chiudere la porta d'ingresso quando, secondo la sua dichiarazione, Charles apparve incerto e barcollante ai piedi delle scale con una grande valigia e fece segno che voleva uscire. Il giovane non disse una parola, ma il fedele servitore dello Yorkshire rimase colpito dallo sguardo febbrile del signore e tremò senza ragione. Aprì la porta e il giovane Ward uscì, ma la mattina seguente il galantuomo presentò alla signora Ward le proprie dimissioni; c'era, disse, qualcosa di sacrilego nello sguardo con cui Charles lo aveva fissato. Non era quello il modo in cui un gentiluomo fissa
una persona onesta, e il maggiordomo affermò di non poter resistere un'altra notte. La signora Ward gli permise di partire, ma non diede gran peso alla motivazione: immaginare Charles in preda al delirio, quella notte, era un fatto addirittura scontato, e fino a quando era rimasta sveglia la signora aveva udito deboli rumori nel laboratorio dell'attico. I suoni facevano pensare a qualcuno che camminasse nervosamente, singhiozzasse e sospirasse in preda a una profonda disperazione. La signora Ward era ormai abituata ad ascoltare i rumori della notte, perché il mistero del figlio le aveva cancellato dalla mente ogni altro pensiero. La sera dopo, come era già accaduto quasi tre mesi prima, Charles Ward si impadronì del giornale molto presto e perse accidentalmente le pagine della cronaca. Nessuno si ricordò della faccenda fino a qualche tempo dopo, quando il dottor Willett cominciò ad indagare sui punti meno chiari della vicenda e a cercare i tasselli che mancavano qua e là. Nella redazione del "Journal" trovò le pagine che Charles aveva perduto e sottolineò due articoli che forse avevano un nesso con il suo paziente. Erano i seguenti: ANCORA INTRUSI NEL CIMITERO Nelle prime ore del mattino Robert Hart, guardiano notturno del North Burial Ground, ha scoperto che nella parte antica del cimitero sono tornati all'opera i profanatori di tombe. La sepoltura di Ezra Weden, nato nel 1740 e morto nel 1834 (secondo le indicazioni riportate sulla lapide quasi del tutto sradicata dal terreno e gravemente danneggiata), è stata violata e manomessa. L'offesa è stata perpetrata con un badile custodito in un vicino ripostiglio dove vengono tenuti gli arnesi. Il contenuto della tomba - quale che fosse, dopo quasi cent'anni - è stato asportato con l'eccezione di alcune schegge di legno marcito. Non sono state trovate tracce di ruote, ma la polizia ha fatto il calco di alcune orme trovate nelle vicinanze e lasciate da scarpe di tipo costoso. Hart ritiene che l'incidente si debba collegare a quello avvenuto nel marzo scorso, quando un gruppo di persone munite di un furgone vennero spaventate dal sopraggiungere del guardiano e fuggirono dopo aver scavato una fossa profonda. Ma il sergente Riley, del secondo distretto di polizia, scarta questa ipotesi e fa osservare le fondamentali differenze fra i due casi. In marzo lo scavo è stato effettuato in un punto dove non si sapeva se fosse mai esistita una tomba, mentre questa volta è stata violata e depredata una sepoltura contrassegnata dalla propria lapide. È come se i profanato-
ri avessero voluto perseguire uno scopo ben preciso e avessero agito con deliberata malvagità: ne è una prova la lastra ridotta quasi in frantumi e intatta fino al giorno prima. I membri della famiglia Weeden, informati dell'accaduto, hanno espresso stupore e disappunto, aggiungendo di non essere in grado d'immaginare chi potesse avere interesse a manomettere la sepoltura del loro antenato. Hazard Weeden, domiciliato al n. 598 di Angell Street, ricorda una leggenda di famiglia secondo la quale Ezra Weeden sarebbe stato coinvolto in avvenimenti straordinari ma non certo disonorevoli poco prima della rivoluzione; tuttavia si dichiara all'oscuro di qualsiasi più recente mistero e non sa fare ipotesi sui persecutori della propria famiglia. Le indagini sono state affidate all'ispettore Cunningham, che spera di scoprire quanto prima indizi più sostanziosi. CANI INQUIETI A PAWTUXET Verso le tre del mattino gli abitanti di Pawtuxet sono stati svegliati da un fenomenale abbaiare di cani il cui epicentro sembrava trovarsi nella zona del fiume, poco a nord di Rhodes-on-the-Pawtuxet. Il volume e la qualità dei latrati si possono ben definire straordinari, e su questo concorda la maggior parte dei testimoni. Fred Lemdin, guardiano notturno a Rhodes, afferma che ricordavano le urla di un domo in preda a sofferenze o terrori mortali. Un violento e brevissimo temporale che ha colpito le immediate vicinanze della riva ha posto fine al tumulto. La popolazione ritiene che gli strani e sgradevolissimi odori avvertiti nella zona al momento dell'incidente venissero dai serbatoi di petrolio della baia e siano responsabili, almeno in parte, dell'eccitazione dei cani. In quel periodo Charles apparve sempre più sofferente e preoccupato, e in seguito i testimoni convennero che forse aveva desiderato fare una dichiarazione o una confessione, ma che il terrore l'aveva probabilmente trattenuto. Sua madre, che continuava ad ascoltare ogni notte i rumori provenienti dalla stanza del figlio, notò che approfittando dell'oscurità Charles usciva di casa con sempre maggior frequenza. La maggior parte degli alienisti di scuola tradizionale sono d'accordo, oggi, nell'imputargli i misteriosi casi di vampirismo di cui la stampa si è occupata in modo così eclatante ma i cui autori rimangono a tutt'oggi avvolti nel mistero. Si tratta di incidenti troppo noti e recenti per meritare una ricostruzione particolareggiata, ma si può dire che le vittime fossero di ogni tipo ed età e le zone colpite
rimangono sostanzialmente due: la collina residenziale nel quartiere di North End, vicino alla casa dei Ward, e i centri suburbani oltre Cranston, nei pressi di Pawtuxet. Le aggressioni non hanno risparmiato né i ritardatari che si affrettavano per le strade a notte tarda né chi s'era addormentato con le finestre aperte; alcune vittime sono state in grado di raccontare la terribile avventura e hanno riferito che l'assalitore era un mostro magro, agile, scattante, che affondava i denti nella gola o alla radice del petto e succhiava avidamente. Il dottor Willett, il quale esclude che la pazzia di Charles possa risalire a quel periodo, è molto cauto nel cercare di spiegare questi orribili episodi. Ammette, sì, di avere delle teorie in proposito, ma preferisce limitare le proprie dichiarazioni a una particolare forma di negazione: «Non dirò chi o che cosa abbia perpetrato quei delitti e quelle aggressioni, ma ho la certezza che Charles Ward non sia colpevole. Ho le mie buone ragioni per affermare che il mio paziente non abbia mai assaggiato sangue umano, e del resto il suo continuo deperimento e il crescente pallore lo provano meglio di qualsiasi difesa verbale. Ward si è impelagato in cose terribili e ne ha pagato lo scotto, ma non è mai stato un mostro o un delinquente. In quanto al presente preferisco non pensarci. È avvenuto un mutamento e mi accontento di credere che il povero Charles Ward sia morto con esso; comunque il suo spirito è morto, perché il pazzo che è fuggito dall'ospedale era animato dallo spirito di qualcun altro». Willett parla con cognizione di causa: frequentava spesso casa Ward e ultimamente aveva preso a curare i nervi della signora, che sembravano sul punto di cedere. A furia di tendere le orecchie notte dopo notte era arrivata al punto di avere delle allucinazioni, e ne parlava al medico con una certa preoccupazione; egli cercava di tranquillizzarla e di minimizzare, ma quando era solo vi rifletteva allarmato. Le allucinazioni riguardavano immancabilmente i deboli suoni che la madre credeva di udire nel laboratorio del figlio o nella camera da letto nell'attico, e i sospiri e i singhiozzi soffocati che filtravano alle ore più impossibili ne costituivano i fenomeni principali. Verso i primi di luglio Willett ordinò alla signora Ward un soggiorno terapeutico ad Atlantic City a tempo indeterminato e raccomandò sia al signor Ward che a Charles - sempre più sparuto e ambiguo - di scriverle solo lettere serene, in modo da alleviarne le preoccupazioni. È probabile che questo viaggio forzato, e intrapreso con riluttanza, abbia salvato la vita e la ragione della signora Ward.
2 Non molto tempo dopo la partenza di sua madre, Charles Ward cominciò le trattative per l'acquisto del bungalow di Pawtuxet. Era una piccola e squallida costruzione di legno con un garage di cemento appollaiata sul pendio che sale dal fiume proprio sopra Rhodes, in una zona scarsamente abitata; per qualche strana ragione, tuttavia, il giovane non prese in considerazione nessun altro capanno e non diede pace alle agenzie immobiliari finché non riuscirono a ottenerlo per lui dal riluttante proprietario, che pretese un prezzo assurdo. Non appena la casupola fu sgombrata, Ward ne prese possesso col favore dell'oscurità, e con un gran furgone chiuso vi trasportò l'intero contenuto del laboratorio, compresi i libri occulti e moderni che a suo tempo aveva prelevato in biblioteca. Il carico del furgone fu effettuato nelle ore piccole, e quella stessa notte il signor Ward ricorda di aver sentito tra veglia e sonno qualcuno imprecare fra i denti, e un rumore di passi su e giù per le scale. Una volta effettuato il trasloco, Charles tornò a vivere nel suo vecchio appartamento al primo piano, senza più rifugiarsi in soffitta. Nel bungalow di Pawtuxet Ward aveva portato tutti i segreti del suo regno nell'attico, con la differenza che adesso i suoi misteri erano condivisi da un mezzosangue portoghese pescato nella zona del porto, in South Main Street, il quale gli faceva da servo e aveva l'aspetto di un orribile ceffo; e da uno straniero sottile, con gli occhiali scuri e la barba ispida ma folta, a quanto pare tinta, che a tutti gli effetti doveva essere un collega. I vicini tentarono invano di attaccare conversazione con i due strani personaggi: il mulatto Gomez parlava molto poco l'inglese e l'uomo con la barba, che si presentava come dottor Allen, seguiva per libera scelta l'esempio del compare. Personalmente Ward cercava di essere più affabile, ma i suoi vaghi resoconti di ricerche chimiche non facevano che stimolare la curiosità degli ascoltatori. Non passò molto e cominciarono a circolare strane voci sul fatto che nel bungalow le luci restavano accese tutta notte; poi, quando questo fatto cessò, si sentirono storie anche più strane sulle ordinazioni sproporzionate di carne fresca e sulle ritmiche cantilene, litanie, urla addirittura che, secondo alcuni, si levavano da una profonda cantina sotto il bungalow. I nuovi e bizzarri vicini non furono affatto apprezzati da quelli che abitavano nel circondario, e non è affatto strano che venissero avanzate le ipotesi più sinistre sul possibile legame fra gli odiati occupanti della casetta e la corrente epidemia di omicidi o mutilazioni a sfondo vampire-
sco. Le illazioni erano rese ancora più gravi dal fatto che l'epicentro dei crimini sembrava essersi ristretto alla sola Pawtuxet e alle strade adiacenti di Edgewood. Ward passava la maggior parte del tempo nel bungalow, ma di tanto in tanto dormiva a casa ed era ancora ritenuto un membro della famiglia. Per due volte si allontanò dalla città e rimase assente una settimana, ma la sua destinazione non è stata ancora scoperta. Si fece sempre più pallido ed emaciato, e nel ripetere al dottor Willett la vecchia storia delle ricerche vitali e delle prossime rivelazioni, perse in parte la propria sicurezza. Willett lo incontrò spesso in casa del padre, perché quest'ultimo era preoccupato e voleva che il figlio ricevesse tutti i consigli che un carattere elusivo e indipendente come il suo fosse in grado di accettare. Il medico insiste che persino in una fase tanto avanzata il giovane era in possesso delle proprie facoltà e adduce come prova una lunga serie di conversazioni avute con lui. Verso settembre i casi di vampirismo diminuirono, ma nel gennaio seguente Ward rischiò di essere coinvolto in una faccenda molto grave. Già da qualche tempo la gente faceva commenti sull'arrivo e la partenza di certi camioncini dal bungalow di Pawtuxet, e all'inizio dell'anno un avvenimento imprevisto permise di scoprire almeno un campione del loro contenuto. In un punto isolato vicino alla Hope Valley si verificò una delle frequenti, sordide imboscate tese ai furgoni sospetti da "autostoppisti" che in realtà cercavano di mettere le mani sui carichi di liquore clandestino: ma per una volta la sorpresa sgradita toccò ai ladri. Le lunghe casse su cui erano riusciti a mettere le mani, infatti, rivelarono un contenuto estremamente macabro, anzi addirittura orrendo, e la storia fece il giro del mondo della malavita. I ladri si affrettarono a seppellire ciò che avevano scoperto, ma quando la polizia dello stato ebbe sentore dell'accaduto organizzò un'accurata ricerca. Finalmente un vagabondo arrestato da poco accettò di guidare sul posto un gruppo di poliziotti in cambio dell'immunità: così, nel nascondiglio scavato in tutta fretta fu rinvenuto un oggetto che era insieme orribile e vergognoso. Non gioverebbe al decoro nazionale né a quello degli altri paesi che il pubblico venisse a conoscenza di ciò che fu trovato dall'attonita squadra di poliziotti. Non c'era da sbagliarsi, anche se gli agenti non erano le persone più istruite di questo mondo, e a Washington furono spediti in tutta fretta una serie di telegrammi non poco allarmati. Le casse erano indirizzate a Charles Ward, all'indirizzo del bungalow di Pawtuxet, e i funzionari della polizia di stato e federale gli fecero una visita tutt'altro che amichevole. Lo trovarono pallido e preoccupato, insieme ai
due strani compagni, ma ricevettero quella che sembrava una valida spiegazione e una prova d'innocenza. Ward sostenne che gli esemplari anatomici facevano parte di un programma di ricerche la cui validità e importanza poteva essere testimoniata da chiunque l'avesse conosciuto negli ultimi dieci anni; in definitiva aveva ordinato il materiale che gli occorreva, e nella quantità desiderata, ad operatori che aveva ritenuto legittimamente autorizzati ad effettuare la transazione, sempre nei limiti in cui questo tipo di cose possono definirsi legittime. Quanto all'identità dei cadaveri non ne sapeva assolutamente nulla, e sembrò scioccato quando gli ispettori accennarono al terribile effetto che una notizia del genere avrebbe provocato sul sentimento pubblico e la dignità nazionale. Nelle sue dichiarazioni Ward fu appoggiato fermamente dal barbuto collega Allen, la cui voce rauca suonava anche più convincente dei modi nervosi del giovanotto. In definitiva gli agenti decisero di non prendere provvedimenti, ma trascrissero accuratamente il nome e l'indirizzo di New York che Ward aveva fornito come base per indagini ulteriori, e che tuttavia non portò a nulla. Val la pena aggiungere che i cadaveri furono rapidamente e discretamente restituiti ai luoghi cui appartenevano, e che il grande pubblico non venne a conoscenza della loro blasfema rimozione. Il 9 febbraio 1928 il dottor Willett ricevette una lettera di Charles Ward che egli considera di straordinaria importanza, e a proposito della quale ha spesso litigato con il dottor Lyman. Quest'ultimo ritiene che il messaggio costituisca la prova di un caso ormai maturo di dementia praecox, mentre Willett la considera come l'ultima manifestazione di sanità mentale da parte del disgraziato e richiama l'attenzione dei colleghi sul carattere assolutamente normale della scrittura: pur mostrando tracce di tensione nervosa, è senz'altro quella di Ward. Il testo completo è il seguente: 100 Prospect St. Providence, R.I. 8 febbraio 1928 Caro dottor Willett, credo sia venuto finalmente il tempo di fare le rivelazioni che ho a lungo promesso, e che lei ha cercato ripetutamente di ottenere. Non potrò mai dimenticare la pazienza che ha dimostrato nel saper attendere e la fiducia che ha accordato alla mia persona e alla mia integrità. Ora che sono pronto a parlare devo ammettere, con un senso di umiliazione, che nessuno dei trionfi che ho sognato sarà mio. Invece dell'apice
della conoscenza ho trovato il terrore, e questa mia confessione non sarà un canto di vittoria ma una richiesta d'aiuto e di consiglio per salvare me stesso e il mondo da una minaccia che trascende ogni umana concezione ed ogni nostro calcolo. Ricorderà ciò che le antiche lettere dei Fenner raccontano sull'ultima spedizione alla fattoria di Pawtuxet: ebbene, la cosa dev'essere fatta di nuovo e alla svelta. Da noi dipende molto più di ciò che io possa dirle a parole: la civiltà, le leggi di natura, forse persino la sorte del sistema solare e dell'universo. Ho riportato alla luce una mostruosa anomalia, ma l'ho fatto per amore di conoscenza. Ora, per amore della vita e della stessa natura, lei deve aiutarmi a respingerla nelle tenebre. Ho lasciato per sempre il bungalow di Pawtuxet e dobbiamo estirpare ciò che si nasconde laggiù anche a costo di uccidere. Personalmente non ci andrò più, e anche se venisse a sapere che mi trovo lì non deve crederci. Quando la vedrò di persona le spiegherò perché mi esprimo in questo modo. Sono tornato definitivamente a casa e la prego di venirmi a trovare non appena potrà dedicarmi cinque o sei ore del suo tempo, in modo che possa dire senza interruzioni ciò che ho da dirle. Ci vorrà più o meno tanto, e mi creda se le dico che non ha mai avuto un dovere professionale più urgente di questo; la mia vita, la mia ragione sono l'ultima cosa che rischia di andare perduta per sempre. Non oso parlare con mio padre perché non credo che riuscirebbe ad afferrare il quadro nella sua interezza; ad ogni buon conto gli ho detto che mi trovo in pericolo ed egli ha assunto quattro agenti di un istituto di polizia privata perché sorveglino la casa. Non so a che cosa serviranno, perché devono battersi contro forze che persino lei troverebbe difficile immaginare e riconoscere. La prego, venga presto se vuol vedermi vivo e apprendere il modo di salvare il nostro universo dalla distruzione. Qualunque ora andrà bene, non mi muoverò di casa. Non telefoni prima di venire, non sappiamo chi o che cosa potrebbe intercettare la chiamata. Preghiamo gli dèi nei quali crediamo perché nulla sorga a impedire il nostro incontro. Con la più gran costernazione e serietà, Charles Dexter Ward P.S. Spari a vista al dottor Allen e dissolva il cadavere nell'acido. Non lo bruci. Il dottor Willett ricevette la lettera verso le dieci e mezzo del mattino e
decise di dedicare il pomeriggio e la sera all'importante colloquio, pronto a concedere al giovane - se fosse stato necessario - anche la notte. Sarebbe arrivato dai Ward alle quattro, e nelle ore che mancavano all'incontro si immerse in ogni tipo di congettura, anche le più stravaganti, sul compito che lo attendeva; tanto che eseguì in modo puramente meccanico la maggior parte degli altri doveri quotidiani. Ad un estraneo la lettera sarebbe parsa l'opera di un maniaco, ma il dottor Willett aveva visto troppe cose strane nel caso di Charles Ward per considerarla il frutto di un delirio. Che qualcosa di sottile, antico e tremendo facesse parte della vicenda era un fatto di cui il dottore s'era ormai convinto; l'allusione al dottor Allen, poi, era in perfetto accordo con le dicerie che circolavano a Pawtuxet sull'enigmatico collega di Ward. Willett non l'aveva mai visto, ma aveva sentito spesso parlare del suo aspetto e comportamento, e non poteva fare a meno di domandarsi che tipo d'occhi nascondessero i famosi occhiali da sole. Alle quattro, puntualmente, il dottor Willett si presentò a casa dei Ward, ma scoprì con dispetto che Charles non aveva mantenuto la promessa di aspettarlo. Gli uomini della guardia del corpo c'erano, ma dissero che il giovanotto sembrava essersi liberato dei suoi timori. Quella mattina aveva parlato con qualcuno al telefono, in un tono che mescolava paura e indignazione, o così riferì uno degli agenti; poi aveva risposto all'interlocutore sconosciuto con frasi come «Sono molto stanco e devo riposare un poco», «Per un po' non posso ricevere nessuno, dovete scusarmi», «Per favore rimandate ogni azione decisiva finché non avremo trovato una sorta di compromesso», oppure «Mi dispiace, ma devo abbandonare per un poco ogni genere di attività: parlerò con voi più tardi». Quindi, facendosi più baldanzoso dopo quella che era sembrata una pausa di riflessione, era uscito di casa così silenziosamente che nessuno lo aveva visto o si era accorto che fosse andato via, fino a quando era tornato all'una circa ed era entrato in casa senza dire una parola. Era andato di sopra, dove la paura doveva averlo riafferrato almeno in parte, perché non appena entrato in biblioteca aveva cacciato un urlo spaventoso e ne era uscito singhiozzando fin quasi a soffocare. Tuttavia, quando il maggiordomo era andato a chiedere che cosa fosse accaduto Charles si era affacciato alla porta mostrando un coraggio del tutto inconsueto e aveva allontanato il servitore con un gesto che aveva atterrito il vecchio senza una ragione precisa. Dopo questo episodio Charles si era dedicato, presumibilmente, a riordinare gli scaffali, perché erano seguiti un gran frastuono di oggetti spostati, tonfi e cigolii; poi era apparso di nuovo e improvvisamente aveva lasciato la casa. Willett chiese se aves-
se lasciato un messaggio per lui, ma risultò che non c'era niente. Il maggiordomo continuava a mostrarsi turbato per qualcosa che aveva a che fare con l'aspetto e il comportamento di Charles, e chiese premurosamente se ci fosse speranza di curare i suoi disturbi nervosi. Per quasi due ore il dottor Willett aspettò invano nella biblioteca di Charles Ward, osservando gli scaffali polverosi dove ampie zone di vuoto corrispondevano ai libri che erano stati rimossi e fissando cupamente, ma con soddisfazione, il fregio sul camino della parete nord, da cui un anno prima i pacati lineamenti del vecchio Joseph Curwen dominavano tranquillamente la stanza. Dopo un po' cominciarono a raccogliersi le ombre, e l'allegria del sole cedette il posto a un vago ma crescente disagio che scorreva a sua volta come l'ombra che precede la notte. Finalmente arrivò il signor Ward, che si mostrò stupito e in collera per la sparizione del figlio dopo tutta la pena che si era dato per proteggerlo. Non sapeva niente dell'appello rivolto a Willett e promise al dottore di fargli sapere quando Charles fosse rientrato. Augurando la buonanotte al medico, il signor Ward espresse forti dubbi sulle condizioni mentali del giovane e pregò l'ospite di fare tutto ciò che era in suo potere per riportarlo in condizioni normali. Willett fu lieto di andarsene dallo studio di Charles, perché sembrava contagiato da un che di spaventoso e sacrilego: come se il ritratto polverizzato avesse lasciato dietro di sé un'atmosfera malefica. Il quadro non gli era mai piaciuto e anche adesso, per quanto avesse i nervi saldi, Willett ebbe la sensazione che dal pannello vuoto sul camino emanasse un'aura che gli fece desiderare di uscire al più presto a respirare l'aria pura. 3 La mattina dopo Willett ricevette un messaggio dal vecchio Ward in cui si diceva che Charles era ancora assente. Il signor Ward aggiungeva che il dottor Allen gli aveva telefonato per dire che Charles sarebbe rimasto a Pawtuxet per qualche tempo e che non doveva essere disturbato. La cosa era motivata dal fatto che Allen stesso doveva allontanarsi per un lungo periodo, lasciando le ricerche sotto l'esclusiva responsabilità del giovane. Charles inviava al dottore i suoi migliori saluti, rimpiangendo il fastidio che il suo improvviso cambiamento di piani doveva avergli causato. In questa occasione il signor Ward aveva sentito per la prima volta la voce del dottor Allen, che aveva stuzzicato in lui un ricordo vago ma elusivo, di cui non era facile rintracciare l'origine e che lo turbava al punto da incuter-
gli timore. Di fronte a notizie tanto inquietanti e contraddittorie, il dottor Willett non sapeva assolutamente cosa fare. La disperata urgenza del biglietto di Charles era innegabile, ma cosa pensare di quel repentino cambiamento di piani? Il giovane Ward aveva scritto che le sue ricerche erano diventate pericolose e blasfeme, che dovevano essere assolutamente impedite e il barbuto collega doveva essere ucciso. Inoltre, non sarebbe mai tornato sul luogo in cui si svolgevano. Eppure, nonostante i buoni propositi aveva dimenticato tutto e si era tuffato di nuovo nel mistero. Il buonsenso avrebbe voluto che il giovane fosse lasciato alle sue mattane, ma un più profondo istinto impediva al dottore di dimenticare l'impressione che aveva provato leggendone la lettera accorata. Willett la lesse di nuovo e non riuscì a convincersi che fosse del tutto priva di significato o dettata dalla follia, come lo stile enfatico e la mancanza di ogni riscontro pratico avrebbero fatto supporre. Il terrore che il biglietto esprimeva era profondo e reale, e unito alle informazioni già in possesso del dottore suscitava ipotesi inquietanti su entità mostruose che sottendevano lo spazio e il tempo, e non permettevano nessuna cinica spiegazione. Per più di una settimana il dottor Willett rifletté sul dilemma che gli si presentava, sempre più incline a far visita a Charles nel bungalow di Pawtuxet; nessun amico del giovane aveva osato avventurarsi in quel formidabOe ritiro, e persino suo padre ne conosceva l'interno solo in base alle descrizioni che Charles si era degnato di fornire. Dal canto suo, Willett sentiva che una conversazione diretta col paziente era necessaria. Il signor Ward aveva ricevuto da suo figlio brevi ed elusive note scritte a macchina e dichiarò che a sua moglie, in convalescenza ad Atlantic City, non erano state riservate maggiori attenzioni. Alla fine il dottore decise di agire, e nonostante il curioso timore suscitato dalle vecchie leggende di Joseph Curwen, dalle ultime rivelazioni e dagli inviti alla cautela che più volte Charles aveva ripetuto, si avviò coraggiosamente verso il bungalow sul colle che sovrastava il fiume. Willett aveva già visitato il luogo per curiosità, anche se ovviamente non era mai entrato nel capanno e non aveva annunciato la sua presenza; quindi sapeva perfettamente che strada prendere. Nelle prime ore di un pomeriggio alla fine di febbraio si avviò con la sua decappottabile lungo la Broad Street, e con un senso d'inquietudine il pensiero tornò alla terribile spedizione partita da quella stessa via centocinquantasette anni prima, con un compito tremendo che forse nessuno avrebbe mai capito in pieno.
La corsa per i sobborghi fatiscenti della città fu breve, poi apparvero la linda Edgewood e, più sonnolenta, Pawtuxet: Willett girò a destra per Lockwood Street e guidò finché gli fu possibile per la strada di campagna, poi scese e proseguì a piedi verso nord, dove il colle dominava le anse dolci del fiume e la distesa pianeggiante, avvolta nella bruma, che si stendeva più oltre. Le case erano ancora poche e non fu difficile individuare il bungalow isolato, con il garage di cemento, che si stagliava su un crinale alla sua sinistra. Willett percorse a passo veloce il vialetto d'ingresso trascurato e coperto di ghiaia, bussò alla porta con mano ferma e parlò senza timore al sinistro mulatto portoghese che aveva aperto a malapena una fessura. Il dottore disse che doveva vedere Charles per una cosa importantissima: non avrebbe accettato scuse e un eventuale rifiuto lo avrebbe costretto a riferire tutto al padre di Ward. Il mulatto esitava ancora, e quando Willett cercò di spingerla si appoggiò alla porta con tutto il suo peso; il medico, dal canto suo, si limitò ad alzare la voce e a ripetere le domande. Dall'interno buio giunse un sussurro rauco che gelò il sangue del visitatore, anche se non era facile dire perché. «Fallo entrare, Tony» disse la voce sussurrante. «Possiamo parlare anche ora, se vuole.» Benché quel modo di bisbigliare fosse di per sé inquietante, ciò che seguì fu ancora più terribile. Il pavimento scricchiolò e l'uomo che aveva parlato apparve in piena vista: il possessore della voce misteriosa, echeggiante, non era altri che Charles Dexter Ward. Il dottor Willett ricorda la conversazione di quel pomeriggio in ogni particolare e così ce l'ha trascritta, per l'importanza che attribuisce a quel particolare periodo. Per la prima volta egli ammette che nella mente di Charles Dexter Ward si era verificato un profondo cambiamento e ritiene che le parole del giovane fossero ormai dettate da una personalità completamente estranea a quella di cui Willett aveva seguito lo sviluppo per ventisei anni. La controversia avviata col dottor Lyman lo costringe ad essere preciso, e a suo parere la follia di Charles Ward data dal momento in cui i genitori cominciarono a ricevere i biglietti scritti a macchina. Non erano concepiti nello stile abituale di Ward e neppure in quello della disperata lettera a Willett: al contrario sono messaggi bizzarri, in prosa arcaica, e fanno pensare che il crollo della volontà avesse spalancato le porte a un diluvio di suggestioni o fissazioni accumulate inconsciamente dall'infanzia grazie alla passione di Ward per le antichità. Lo stile denota senza dubbio lo sforzo di essere moderno, ma lo spirito e a volte il linguaggio sono quelli del passato.
Il passato, del resto, trapelava da ogni gesto e ogni parola di Ward, il quale invitò il medico nella penombra del bungalow. Fece un inchino, indicò una sedia e d'un tratto cominciò a parlare nello strano bisbiglio che cercò di giustificare fin dal primo momento. «La maledetta umidità del fiume m'ha fatto venire la raucedine» cominciò. «Deve scusare il modo in cui parlo, suppongo che la mandi mio padre per sapere come sto; confido che non gli dirà nulla di allarmante.» Willett ascoltava il rauco sussurro con estrema attenzione, ma ancora più attentamente studiava la faccia dell'interlocutore. C'era qualcosa che non andava, e pensò a quello che i genitori gli avevano detto sul turbamento del maggiordomo la sera in cui s'era trovato faccia a faccia con Charles. Il dottore avrebbe voluto che non fosse così buio, ma non chiese al suo ospite di aprire le imposte; invece, si limitò a domandargli perché avesse rinunciato al colloquio chiesto con tanta urgenza poco più di una settimana prima. «Ci stavo arrivando» rispose il padrone di casa. «Deve sapere che verso in gravi condizioni nervose e dico o faccio cose di cui non posso rispondere. Come ho detto più volte, sto per fare scoperte così grandi da farmi smarrire il lume. Chiunque sarebbe terrorizzato da ciò che intrawedo, ma io ritornerò presto alla normalità. Sono stato sciocco a chiedere una guardia del corpo: essendomi spinto così lontano nelle mie ricerche devo star qui, non certo a casa. I miei signori vicini, lo so, non dicono gran bene di me e forse io stesso mi son convinto che ci fosse del vero in quei pettegolezzi. Ma è stata solo debolezza: non c'è niente di male in quel che faccio, purché lo faccia come si deve. Abbia la bontà di aspettare sei mesi e le mostrerò qualcosa che ripagherà la sua pazienza. «Come forse sa, ho un sistema che mi consente di apprendere i segreti del passato da fonti molto più sicure dei libri: lascio a lei giudicare l'importanza del contributo che fornirò alla storia, alla filosofia e alle arti in virtù delle soglie cui ho accesso. Il mio antenato era già sul punto di enormi scoperte quando i maledetti ficcanaso vennero ad assassinarlo; ora io sono sulle sue tracce, e sia pure imperfettamente ho riportato alla luce una parte di quella sapienza. Stavolta non devono esserci impedimenti, men che meno esitazioni o assurdi timori da parte mia. Signore, io la prego vivamente di dimenticare ciò che ho scritto e di non temere questo luogo e ciò che contiene. Il dottor Allen è un ottimo collaboratore e gli devo le mie scuse per quel che ho detto di lui. Vorrei averlo accanto a me in questo momento, ma c'erano cose importanti da fare altrove. In tutto ciò che riguarda i
nostri studi il suo zelo è uguale al mio, e immagino che quando mi ha assalito l'irragionevole paura del mio lavoro io abbia accomunato nel timore anche lui, perché è il braccio destro di tutto ciò che faccio.» Ward fece una pausa, mentre il dottore non riusciva a immaginare che cosa dire o pensare; di fronte alla tranquilla negazione di tutti i timori contenuti nella lettera si sentiva come uno sciocco, eppure non riusciva a liberarsi dalla convinzione che mentre l'attuale discorso gli suonava bizzarro, estraneo e in ultima analisi folle, la lettera, pur nella sua tragicità, era indubbiamente frutto del Charles Ward che conosceva. Willett cercò di spostare la conversazione su argomenti che riguardavano il passato, in particolare su episodi che potessero restituire al giovane la sua normale sensibilità: ma in quel tentativo ottenne risultati assurdi. In seguito gli alienisti dovettero constatare lo stesso fenomeno: parti importanti della memoria di Ward - in particolare quelle che riguardavano i tempi recenti e la sua vita personale - erano state inspiegabilmente cancellate, mentre l'accumulo di conoscenze antiquarie che risalivano alla giovinezza erano affiorate dalle profondità dell'incoscio, sommergendo l'aspetto contemporaneo e individuale della personalità. L'intima conoscenza di cose tanto antiche era anormale e inquietante, e Ward faceva ogni sforzo per nasconderla. Quando Willett nominava uno o l'altro degli argomenti preferiti da Charles al tempo degli studi giovanili, e cioè le antichità, l'altro rispondeva illuminandoli di una luce che nessun uomo dei nostri tempi avrebbe potuto gettarvi, e ogni volta che una di quelle allusioni s'infiltrava nel discorso il medico rabbrividiva. Non era normale sapere che giovedì 11 febbraio 1762, sporgendosi dalla balaustra dell'Accademia Istrionica del signor Douglass, in King Street, il grasso sceriffo avesse perso la parrucca mentre assisteva a una rappresentazione; o come i commedianti avessero così inopportunamente sconciato il testo del Conscious Lover di Steele che c'era quasi da rallegrarsi per il decreto battista di quattordici giorni dopo, in seguito al quale il teatro era stato chiuso. Che la carrozza per Boston di Thomas Sabin fosse "maledettamente scomoda" Ward poteva averlo appreso da vecchie lettere, ma quale appassionato di storia avrebbe potuto sapere in che modo scricchiolava al vento la nuova insegna di Epenetus Olney - l'allegra corona che aveva scelto come simbolo dopo aver battezzato la propria taverna Crown Coffee House - e che, oscillando, ricordava le prime note di un nuovo brano jazz diffuso da tutte le radio di Pawtuxet? In ogni caso Ward si difendeva dalle domande-trappola: sugli argomenti
personali o che avevano a che fare con i tempi moderni glissava in modo sommario, mentre per ciò che riguardava il passato si mostrava annoiato e indifferente. Era abbastanza chiaro che il suo unico desiderio fosse quello di tranquillizzare il visitatore, in modo che se ne andasse e non tornasse più. Per questo si offrì di mostrare a Willett tutta la casa e guidò il dottore, stanza dopo stanza, dalla cantina al solaio. Willett si guardava intorno con occhio indagatore, ma notò che i libri disseminati in giro erano troppo pochi e banali per essere quelli che avevano riempito gli scaffali di casa Ward, e che lo squallido "laboratorio" non era che una sorta di ripostiglio. Era evidente che l'autentica biblioteca e il vero laboratorio si trovavano altrove: dove, era impossibile dirlo. Essenzialmente sconfitto nella ricerca di qualcosa a cui non riusciva a dare un nome, Willett tornò in città prima di sera e raccontò al signor Ward tutto ciò che era avvenuto. Entrambi si trovarono d'accordo sul fatto che Charles non era più in sé, ma decisero che per il momento non bisognava prendere misure drastiche; soprattutto bisognava tenere all'oscuro la signora Ward di quello che si stava verificando, almeno finché l'avessero consentito i biglietti dattiloscritti spediti dallo stesso Charles. A questo punto il signor Ward stabilì di fare una visita personale al giovanotto, ma senza preannunciarla e agendo di sorpresa. Una sera il dottor Ward lo accompagnò in macchina, lasciandolo a pochi metri dal bungalow e aspettando con pazienza il suo ritorno. Il colloquio fu molto lungo e il padre uscì dalla casupola in uno stato di profonda tristezza e meraviglia. Era stato accolto, disse, più o meno come Willett, ma Charles era apparso solo dopo un pezzo che suo padre si era introdotto con la forza nel vestibolo e aveva obbligato il portoghese a chiamarlo; inoltre, nel comportamento alterato del giovane non c'era stata traccia di affetto filiale. Nel bungalow le luci erano estremamente fioche, ma anche così Charles aveva protestato che lo abbagliavano in modo insopportabile; non era mai riuscito a parlare normalmente, sostenendo di aver mal di gola, e nel rauco sussurro che gli usciva di bocca c'era qualcosa di tanto inquietante che il signor Ward non poteva dimenticarlo. Decisi a fare tutto ciò che era possibile per la salvezza mentale del giovane, il signor Ward e il dottor Willett cominciarono a ricercare le più piccole informazioni che il caso offrisse. Le dicerie di Pawtuxet furono il primo campo d'indagine, e il compito si rivelò abbastanza facile perché entrambi avevano amici nella regione. Il dottor Willett ne raccolse la maggior parte, forse perché la gente parlava con più franchezza a un medico
che al padre del diretto interessato; comunque, da quello che venne a sapere Willett si rese conto che la vita del giovane si era fatta molto strana. Il popolino attribuiva a lui gli episodi di vampirismo dell'estate scorsa, mentre il viavai di camion durante la notte aveva dato la stura ad altre tenebrose supposizioni. I commercianti locali rivelarono che il poco raccomandabile mulatto faceva, per conto del padrone, ordini stranissimi: carne fresca in quantità incredibile e sangue fresco procuratogli dai due macellai più vicini. Per essere una casa in cui vivevano solo tre persone, erano quantità veramente esorbitanti. Poi c'era la questione dei rumori sotterranei. Non era facile farsene un'idea precisa, ma tutte le allusioni concordavano su alcuni punti fondamentali: suoni di carattere rituale erano stati uditi con certezza, spesso quando il bungalow era al buio. Naturalmente poteva darsi che venissero dalla cantina, ma le voci messe in giro dalla gente sostenevano che ci fossero più profonde e vaste cavità. Memori dei vecchi racconti sulle catacombe di Joseph Curwen, e dato per scontato che il bungalow attuale fosse stato scelto proprio perché si trovava sul luogo del capanno di Curwen (come avevano rivelato i documenti rinvenuti dietro il ritratto del mago), Willett e il signor Ward prestarono particolare attenzione a questa parte della leggenda e più volte cercarono di individuare, senza successo, la porta che si apriva lungo la sponda del fiume e che tutti i vecchi documenti citavano. Quanto all'opinione popolare sugli occupanti del bungalow, fu presto chiaro che il portoghese era odiato, il barbuto e miope dottor Allen era temuto e il pallido, giovane studioso profondamente avversato. Nell'ultima settimana o due Ward era cambiato profondamente, abbandonando ogni pretesa di affabilità; nelle poche occasioni in cui si spingeva fuori casa parlava in rauchi sussurri che facevano accapponare la pelle. Questi erano i brandelli di informazioni che il dottor Willett e il padre di Charles Ward raccolsero nella zona: ne discussero a lungo facendo uso di tutte le loro capacità di deduzione, induzione e immaginazione costruttiva; poi tentarono di collegare i fatti accertati sul conto di Charles - compresa la lettera disperata che il dottore aveva finalmente mostrato al padre - con la scarsa documentazione disponibile su Joseph Curwen. Avrebbero dato chissà cosa per esaminare i documenti che Charles aveva scoperto, perché era chiaro che il segreto della follia del giovane risiedeva in ciò che aveva appreso sull'antico stregone e le sue imprese. 4
Ma non fu un'azione intrapresa dal signor Ward o dal dottor Willett a provocare i successivi sviluppi della vicenda. Il padre e il medico, respinti e confusi da un mistero troppo vago e intangibile per essere affrontato a viso aperto, avevano indugiato a lungo, mentre i biglietti scritti a macchina del giovane Ward si erano fatti sempre più rari. Venne il primo del mese con il solito accumulo di operazioni finanziarie: in diverse banche si verificarono episodi sconcertanti e gli impiegati cominciarono a telefonare gli uni agli altri, perché c'era qualcosa di strano. I funzionari che conoscevano personalmente Charles Ward si recarono al bungalow per chiedere come mai gli assegni presentati negli ultimi tempi avessero tutti l'aspetto di volgari contraffazioni, e come magra giustificazione si sentirono dire, nel solito bisbiglio, che in seguito a una paralisi della mano Ward non era in più grado di scrivere correttamente. Il giovane aggiunse che gli costava gran fatica mettere insieme anche poche parole: la prova era che doveva usare la macchina da scrivere anche per la corrispondenza personale, come quella indirizzata al padre e alla madre; i genitori lo avrebbero senz'altro confermato. Ciò che mise in imbarazzo gli investigatori non fu soltanto questa circostanza, che in sé non aveva nulla di straordinario o particolarmente sospetto, e neppure le voci che circolavano a Pawtuxet, alcune delle quali erano arrivate alle loro orecchie; ma il modo incerto e confuso in cui il giovane si esprimeva, e che implicava una perdita della memoria pressoché totale su tutta una serie di questioni finanziarie che fino a un paio di mesi prima aveva avuto sulla punta delle dita. C'era qualcosa che non andava: nonostante l'apparente coerenza e razionalità dei suoi discorsi, nessuna causa normale poteva spiegare un vuoto così totale su questioni tanto importanti. Inoltre, benché nessuno dei funzionari conoscesse Ward approfonditamente, non poterono fare a meno di osservare che il suo linguaggio e il suo comportamento erano decisamente cambiati. Avevano sentito dire che le antichità erano la sua passione, ma anche il più fanatico degli antiquari non usa gesti e parole obsolete nella vita quotidiana. Per farla breve, quella combinazione di voce rauca, mani tremanti, cattiva memoria e linguaggio alterato dovevano essere i sintomi di una malattia di notevole entità, e senza dubbio costituivano il fondamento delle voci che circolavano nella zona; per cui, dopo aver lasciato il bungalow, i funzionari stabilirono che si imponeva un colloquio con Ward padre. Il 6 marzo 1928 si tenne una lunga e grave riunione nell'ufficio del si-
gnor Ward, e alla fine, angosciato e sbigottito, questi convocò il dottor Willett in preda a un vivo senso d'impotenza e di rassegnazione. Willett esaminò la firma che Ward aveva posto sugli assegni e che appariva indubbiamente faticosa e stentata; poi la confrontò con quella che aveva trovato in fondo alla lettera disperata: certo il cambiamento era radicale e profondo, eppure nella nuova grafia c'era qualcosa di inquietante e familiare. Le lettere sembravano tracciate da una mano antica, e l'effetto bizzarro era accresciuto dal fatto che la grafia non pareva assolutamente quello del giovane. Era strano... dove diavolo l'aveva vista prima? In ogni caso non c'era dubbio che Charles fosse impazzito; ormai non era possibile nutrire illusioni, e non essendo probabile che riuscisse a occuparsi dei propri affari e a tenere i contatti col mondo estremo ancora per molto, bisognava fare qualcosa per farlo ricoverare e possibilmente curare. Fu allora che vennero convocati gli specialisti: i dottori Peck e Waite di Providence e il dottor Lyman di Boston, a cui il signor Ward e il dottor Willett esposero in ogni dettaglio i precedenti del caso; gli alienisti conferirono a lungo nello studio ormai in disuso del giovane paziente ed esaminarono i libri e le carte rimasti, per farsi un'idea più precisa delle sue inclinazioni mentali. Dopo aver esaminato il materiale ed aver letto la disperata lettera indirizzata a Willett, si trovarono tutti d'accordo nell'ammettere che gli studi di Charles Ward avrebbero squilibrato, o almeno alterato, qualsiasi intelletto normale, e provarono un forte desiderio di vedere i libri e i documenti più riservati; sapevano, tuttavia, che per soddisfare questa esigenza (ammesso che fosse possibile) avrebbero dovuto recarsi al bungalow. Quanto a Willett, dedicava al caso tutte le proprie energie e fu a quest'epoca che ottenne le dichiarazioni degli operai che avevano assistito al ritrovamento dei documenti di Curwen. Nello stesso periodo Willett rintracciò i giornali da cui Charles aveva strappato le pagine e fu in grado di ricostruire il contenuto dei pezzi mancanti. Giovedì 8 marzo i dottori Willett, Peck, Lyman e Waite, accompagnati dal signor Ward, fecero la tanto attesa visita al giovanotto. Non nascosero le loro intenzioni e interrogarono colui che ormai era diventato ufficialmente loro paziente con estrema accuratezza, e benché Charles si facesse attendere a lungo e fosse ancora impregnato di strani e sgradevoli effluvi di laboratorio, si mostrò tutt'altro che recalcitrante a parlare con i medici. Ammise francamente che la sua memoria ed il suo equilibrio avevano sofferto per l'eccessiva applicazione a studi difficilissimi. Non oppose resistenza quando fu suggerito che si trasferisse in altri quartieri e anzi sembrò
mostrare una comprensione e un'intelligenza per nulla danneggiate dalla perdita di memoria. La sua condotta avrebbe indotto i medici a tornare indietro senza aver raggiunto alcuna conclusione, ma la tendenza a esprimersi in modo antiquato e il fatto innegabile che le idee del giovane erano state rimpiazzate da concetti obsoleti ne facevano senz'altro una personalità alienata dalla vita normale. Del suo lavoro Charles non disse nulla più di quanto avesse già rivelato alla famiglia e al dottor Willett, mentre la lettera del mese prima venne liquidata come un prodotto dei suoi nervi scossi. Ward insisté che il misterioso bungalow non possedeva una biblioteca e un laboratorio segreti e ricorse a scuse inaccettabili per spiegare il fatto che la casa non fosse impregnata degli odori che aleggiavano su di lui. Quanto alle chiacchiere del vicinato, le attribuì a nient'altro che povera fantasia e curiosità frustrata. Per quanto riguardava il dottor Allen, aggiunse che non poteva rivelare dove si trovasse ma assicurò che l'uomo con la barba e gli occhiali sarebbe tornato a tempo debito. Al momento di licenziare l'impassibile servo portoghese che aveva resistito a tutte le domande, e di chiudere il bungalow che ancora nascondeva tanti segreti, Ward non mostrò alcun segno di nervosismo a parte la tendenza appena percepibile a mettersi in ascolto, come se dovesse cogliere un suono lontano. Per il resto sembrò animato da una stoica rassegnazione, come se quel trasferimento fosse un incidente da nulla e avrebbe causato meno difficoltà a tutti se effettuato pacificamente. Era chiaro che Charles confidava nel proprio intelletto - per nulla danneggiato dagli ultimi eventi - per sopperire all'imbarazzo provocato dalla perdita di memoria, di voce e della facoltà di scrivere, che insieme al suo comportamento eccentrico lo avevano gettato in quella situazione. Fu deciso che era meglio lasciare la madre all'oscuro di tutto e il signor Ward continuò a mandarle biglietti scritti a macchina che firmava a nome del figlio. Ward fu condotto nell'ospedale del dottor Waite, una tranquilla casa di cura situata nella pittoresca Conanicut Island, al centro della baia; qui venne sottoposto a una serie di esami scrupolosi e interrogato da tutti i medici che si erano occupati del caso. Fu allora che per la prima volta si notarono le alterazioni fisiche: metabolismo rallentato, pelle trasformata, reazioni nervose sproporzionate. Fra i medici che seguivano Charles il più turbato fu il dottor Willett, che lo aveva in cura da una vita e valutava in tutto il loro impatto le terribili manifestazioni della sua disorganizzazione fisica. Anche la familiare voglia d'oliva sul fianco era scomparsa, mentre sul petto appariva una gran chiazza scura, o cicatrice, che prima non c'era mai stata: Willett si domandò se il giovane avesse ricevuto, nel
corso di qualche misterioso incontro notturno, il cosiddetto "marchio della strega". Non poteva togliersi dalla mente il brano di un processo per stregoneria celebrato a Salem e che Charles gli aveva mostrato all'epoca in cui non si era ancora chiuso in un'estrema riservatezza. Il brano diceva: "Quella notte il Signor G.B. pose lo Marchio del Dimonio sopra Bridget S., Jonathan A., Simon O., Deliverance W., Joseph C., Susan P., Mehitable C., e Deborah B.". Il volto di Ward era diventato una maschera che lo disturbava profondamente, e alla fine Willett capì la ragione per cui era tanto sconvolto: sull'occhio destro c'era qualcosa che non aveva mai notato prima, una fossetta o piccola cicatrice esattamente identica a quella che il vecchio Joseph Curwen mostrava nel vecchio ritratto, a dimostrazione forse di un'orribile iniezione rituale cui entrambi si erano sottoposti nella loro carriera occulta. Per i medici Charles era un enigma; la posta indirizzata a lui o al dottor Allen, che il signor Ward si faceva recapitare a casa, veniva scrupolosamente esaminata in ospedale. Willett aveva predetto che con quel sistema non avrebbero scoperto molto, dato che le comunicazioni più importanti sarebbero state effettuate tramite un messaggero e non per posta, ma verso la fine di marzo arrivò da Praga una lettera indirizzata al dottor Allen che diede molto da pensare al medico e al signor Ward. Era scritta con grafia arcaica e contorta, e benché non fosse certo il prodotto di uno straniero che non conosceva l'inglese, si allontanava dalla lingua moderna almeno quanto il modo di parlare di Charles. Questo è il contenuto: Kleinstrasse 11, Altstadt, Praga, addì 11 febbraio 1928 Fratello in Almonsin-Metraton, ricevetti quest'oggi notizia di ciò che crebbe dai sali che vi avevo mandato. C'è stato un errore ed è chiaro che le lapidi devono essere state cambiate, per cui Barnabas mi portò esemplari errati. È spesso così, come certo comprenderete ricordando la Cosa che otteneste nel 1769 usando i materiali del camposanto di King's Chapell, ovvero ciò che H. ottenne nel 1690 lavorando le ceneri del Vecchio Cimitero, la qual cosa pose fine ai suoi esperimenti. Settantacinque anni or sono io stesso ottenni un orribile resultato in terra d'Egitto, da cui ricevetti la cicatrice che il ragazzo vide sul mio corpo nel 1924. Come vi dissi tempo fa, non evocate ciò che poi non pote-
te ricacciare, né dai Sali né dalle Sfere ulteriori; sempre tenete con voi le parole che servono a scacciarli, e non perdete tempo a farvi domande quando non sapete Chi avete convocato. Or che le lapidi son cambiate in nove camposanti su dieci, non sarete certo di ciò che avete riportato indietro fino a quando non comincerete a far domande. Quest'oggi ho avuto notizie da H., il quale ha problemi con l'esercito: certo non ha piacere che la Transilvania sia passata dall'Ungheria alla Romania e cambierebbe abitazione se il castello non fosse pieno di Quel che sappiamo. Ma certo ne ha scritto anche a voi. Nel mio prossimo plico ci sarà qualcosa che ho tratto da una tomba d'oriente, e che certo vi farà piacere. Voi non dimenticate quanto abbia bisogno di B.F., posto che riusciate a ottenermelo; conoscete G. di Filadelfia meglio di me e quindi vorrete forse resuscitare lui per primo, ma non sfruttatelo fino al punto di esaurirlo, poiché infine sarò io che dovrò parlargli. Yogg-Sothoth Neblod Zin Simon O. Al signor J.C., Providence Il signor Ward e il dottor Willett lessero sbalorditi quella nuova testimonianza di completa follia e solo per gradi compresero il vero significato della lettera. Dunque il capo, a Pawtuxet, non era più Charles Ward ma il misterioso dottor Allen... Questo spiegava le assurde allusioni e denunce fatte dal giovane nella disperata missiva al dottor Willett; ma allora, perché il corrispondente di Praga si rivolgeva all'uomo con la barba e gli occhiali chiamandolo "Signor J.C."? Non c'era da sbagliarsi sulla possibile spiegazione, eppure doveva esserci un limite a quella catena di mostruosità! Chi era "Simon O."? Il vecchio che Ward era andato a trovare a Praga quattro anni prima? Forse, ma nei secoli precedenti c'era stato un altro Simon O., e precisamente Simon Orne, alias Gedediah, nato a Salem, scomparso nel 1771 e la cui peculiare grafia il dottor Willett riconobbe, senz'ombra di dubbio, come identica a quella che aveva visto nelle copie fotostatiche delle formule di Orne che Charles gli aveva mostrato una volta. Quali orrori e misteri, quali nemici e violatori delle leggi di natura erano tornati dopo un secolo e mezzo per far tremare la vecchia città irta di guglie e campanili? Il signor Ward e il vecchio medico, che non sapevano cosa fare né cosa pensare, andarono a trovare Charles in clinica e lo interrogarono il più de-
licatamente possibile a proposito del dottor Allen, della visita a Praga e di ciò che aveva appreso sul conto di Simon o Jedediah Orne di Salem. A tutte queste domande il giovane si astenne dal rispondere in modo chiaro, anche se, usando la solita voce gutturale, ammise con educazione di aver scoperto che il dottor Allen possedeva la facoltà di mettersi in contatto spirituale con alcune anime del passato e che il suo corrispondente di Praga, posto che ne avesse uno, doveva essere dotato degli stessi poteri. Quando se ne andarono il signor Ward e il dottor Willett si resero conto con amarezza di essere stati indottrinati come il giovane desiderava, e che, senza rivelare nulla di vitale, l'infermo era riuscito a farsi rivelare il contenuto della lettera dall'estero. I dottori Peck, Waite e Lyman non sembravano disposti a dare molta importanza alla strana corrispondenza del giovane Ward o del suo compagno; conoscevano la tendenza degli eccentrici e dei monomaniaci a far gruppo e conclusero che Charles, o Allen, dovevano aver scoperto un loro simile in esilio: forse qualcuno che aveva visto la grafia di Orne e l'aveva imitata, nel tentativo di farsi passare per la reincarnazione dell'antico personaggio. Lo stesso Allen rientrava probabilmente in quella categoria e poteva aver persuaso il giovane a considerarlo un avatar del defunto Curwen. Episodi del genere erano ben noti, e con quella scusa i medici di tendenza conservatrice decisero di ignorare le crescenti preoccupazioni di Willett sull'attuale calligrafia di Charles Ward, che il dottore aveva studiato su esemplari ottenuti con vari sotterfugi e, dunque, certamente non truccati. Willett riteneva di aver finalmente scoperto perché la scrittura di Ward gli sembrasse così familiare: era abbastanza simile all'antica grafia di Joseph Curwen. Gli altri medici, tuttavia, attribuirono il fenomeno a una volontà imitativa del tutto normale in una mania come quella di Charles e rifiutarono di attribuirgli qualsiasi importanza, sia in senso positivo che negativo. Resosi conto che i colleghi non erano disposti ad abbandonare le loro prosaiche convinzioni, Willett consigliò il signor Ward di tenere per sé la lettera giunta da Rakus, in Transilvania, il 2 aprile e indirizzata al dottor Allen; lettera che pareva scritta in una grafia così somigliante a quella del cifrario Hutchinson da far esitare il medico e l'anziano signor Ward prima di rompere il sigillo, in preda a un timore reverenziale. Ecco il testo della lettera: Castel Ferenczy 7 marzo 1928
Caro C, recentemente una squadra di venti miliziani venne a interrogarmi per verificare le dicerie dei contadini; d'ora in poi debbo scavare più profondamente e lasciare che trapeli il meno possibile. I rumeni sono causa per me d'infinita persecuzione, zelanti e curiosi per natura e tutto il contrario de' magiari, che si possono comprare con un bicchier di vino e un piatto di minestra. Il mese scorso M. mi portò il sarcofago delle Cinque Sfingi, rinvenuto nell'acropoli proprio là dove Colui che avevo evocato disse che l'avremmo trovato. Quindi ebbi tre colloqui con Ciò che vi era inumato. Lo invierò direttamente a S.O., a Praga, e per suo mezzo a voi. Il soggetto è ostinato, epperò voi conoscete il sistema da adoprarsi con quelli come lui. Voi avete mostrato grande saggezza nel ricorrere a un minor numero di spiriti: tra l'altro, non vi era alcun bisogno di mantenere i Guardiani nella loro forma compiuta e permetter loro di nutrirsi divorando teste, giacché in caso di pericolo essi avrebbero lasciato troppe tracce; ma voi ben conoscete questa situazione. Ora vorrete trasferirvi e lavorare altrove, libero di uccidere se sarà necessario; ma spero che niuna Creatura comandi su di voi queste troppo onerose operazioni. Sono lieto di udire che i vostri commerci con Quelli-di-fuori sieno assai limitati, poiché trattasi di operazioni pericolosissime, e voi sapete che cosa succede quando si dimanda protezione a Uno che non è disposto a darne. Apprezzo moltissimo le forinole che mi inviaste affinché altri possa recitarle con successo, ma Borello ci insegna che esse funzionano solo a condizione di pronunciare le Parole giuste. Il ragazzo le adopra spesso? Mi spiace di apprendere che egli si è fatto ritroso, come temevo quando venne mio ospite in questa casa e vi rimase circa quindici mesi; ma sono certo che voi sappiate come trattarlo. Non potete comandargli adoperando la formula di Borello, poiché essa funziona soltanto su quelli che un'altra formula avrà ricomposto dai Sali essenziali, ma voi certo avete mani forti, un coltello e una pistola, e non è difficile scavar tombe, né bruciare i resti con gli acidi. O. dice che gli avete promesso B.F., ma è inteso che dopo debbo averlo io. B. vi giungerà presto, e possa egli rivelarvi ciò che bramate di sapere a proposito dell'Oscura cosa che si trova sotto Menfi. Usate tutta la vostra cautela quando eseguite le evocazioni, e fate attenzione al giovinotto. Fra circa un anno saremo pronti a convocare le Legioni del sottosuolo, e allora non vi sarà più limite a ciò che può essere nostro. Abbiate fiducia in ciò che vi dico, poiché conoscete O. e io mi occupo di codeste faccende da centocinquant'anni prima di voi.
Nephren-Ka nai Hadoth Edw. H. Al signor J. Curwen, Providence Se Willett e il signor Ward si astennero dal mostrare questa lettera agli alienisti, non desistettero però dall'agire personalmente. Nessun sofisma o dotta argomentazione poteva negare il fatto che il misterioso dottor Allen, l'uomo con la barba e gli occhiali di cui la disperata lettera di Charles aveva parlato nei termini d'una impareggiabile minaccia, fosse in assidua e temibile corrispondenza con due personaggi misteriosi che Ward aveva incontrato nei suoi viaggi, e che affermavano senza mezzi termini di essere la reincarnazione o comunque la sopravvivenza dei vecchi colleghi di Curwen a Salem; che lo stesso Allen si considerava la reincarnazione di Joseph Curwen e che progettava (poiché così lo consigliavano gli amici) di assassinare un "giovinotto" il quale non poteva essere altri che Charles Ward. Prendeva forma un complotto orrendo, e benché fosse impossibile stabilire chi l'avesse organizzato, lo scomparso dottor Allen sembrava in quel momento costituirne il centro. Di conseguenza, ringraziando il cielo che Charles fosse al sicuro in clinica, il signor Ward non perse tempo nell'affidare a un'agenzia di investigazioni il compito di scoprire tutto ciò che si poteva sul misterioso uomo con la barba: di dove era venuto, ciò che si sapeva di lui a Pawtuxet ed, eventualmente, dove si nascondesse ora. Dopo aver fornito agli agenti una copia delle chiavi del bungalow consegnate dallo stesso Charles, il signor Ward li esortò a esplorare la stanza vuota di Allen, che era stata identificata mentre il paziente faceva i bagagli prima d'essere trasferito in clinica. Compito degli investigatori era scoprire qualsiasi informazione sul conto dello scomparso, basandosi su eventuali indizi che si fosse lasciato dietro. Il signor Ward dettò queste istruzioni nell'ex biblioteca del figlio e quando finalmente se ne andarono i detective provarono un vivo senso di sollievo, perché in quel posto aleggiava un'indefinibile aura di malvagità. Forse erano suggestionati dalle voci che avevano raccolto sul vecchio negromante il cui ritratto ornava un tempo il fregio sul camino; forse era per motivi più oscuri e irrilevanti, ma una parte del loro animo avvertiva l'intangibile minaccia che emanava dalle reliquie di Curwen, e che a volte raggiungeva l'intensità di un'emanazione quasi materiale.
V. Incubo e cataclisma 1 Poco dopo seguì l'orribile esperienza che ha lasciato una traccia di terrore incancellabile nell'animo di Marinus Bicknell Willett, invecchiando di dieci anni un uomo la cui gioventù era già allora un ricordo. Il dottor Willett aveva conferito a lungo con il signor Ward, giungendo a una serie di conclusioni che gli alienisti avrebbero messo senz'altro in ridicolo. I due amici furono costretti ad ammettere che nel mondo prosperava un terribile movimento il cui collegamento con pratiche di negromanzia molto più antiche delle stregonerie di Salem non poteva esser messo in dubbio. C'erano almeno due esseri viventi - e forse un terzo al quale non osavano pensare che esercitavano un controllo assoluto sulle menti e le personalità di individui già attivi nel 1690, o anche prima; di questo fatto esistevano prove pressoché definitive, anche se contrastanti con tutte le leggi naturali conosciute. Dalla corrispondenza risultava abbastanza chiaro ciò che quegli orribili individui - e Charles Ward con loro - facevano o cercavano di fare, e ogni frammento venuto alla luce nel caso si accordava con il disegno generale. Depredavano tombe di tutte le epoche, senza risparmiare quelle degli uomini più saggi e più valorosi del mondo, nella speranza di recuperare dalle antiche ceneri qualche vestigio della coscienza e del sapere che un tempo li avevano animati. Un orrendo traffico prosperava tra quelle iene uscite da un incubo: ossa illustri venivano barattate con la calma e la freddezza di studenti che si scambiano libri di testo. Con l'aiuto delle informazioni che estorcevano alla polvere di secoli, i negromanti accumulavano un potere e una sapienza che andavano al di là di qualsiasi precedente esperienza umana, e che mai si era concentrata in un sol gruppo di individui. Avevano trovato il modo di mantenere in vita i loro cervelli nel corpo originario o in quelli altrui; con ogni evidenza avevano scoperto il modo di estrarre dai morti le conoscenze di cui andavano arricchendosi. Sembrava che vi fosse del vero in ciò che il mitico Borello aveva scritto sulla preparazione dei "sali essenziali" da cui poteva essere evocata l'ombra di un defunto in modo che vivesse di nuovo, e questo valeva anche per le spoglie più antiche. C'era una formula per evocare l'ombra e un'altra per rimandarla di dove era venuta; ed era ormai così perfezionata che si poteva insegnarla con successo. Ma nel-
le evocazioni bisognava essere cauti, perché le lapidi sulle vecchie tombe non sono sempre accurate. Willett e il signor Ward rabbrividirono nel passare da una conclusione all'altra. Le entità - presenze o voci di qualche sorta - potevano essere richiamate non solo dalla tomba ma da luoghi sconosciuti, processo nel quale bisognava usare la massima cautela. Indubbiamente Joseph Curwen aveva evocato creature proibite; quanto a Charles... che pensare di lui? Quali forze provenienti da "esterne sfere" si erano manifestate dai tempi di Joseph Curwen e avevano spinto la mente del giovane verso argomenti proibiti? Gli era stato detto di seguire certe direzioni e così aveva fatto; a Praga aveva parlato con un uomo che custodiva orrendi segreti e in Transilvania aveva soggiornato a lungo con un essere che abitava tra le montagne. Non c'era dubbio che Charles avesse finalmente trovato la tomba di Joseph Curwen. I ritagli di giornale e ciò che sua madre aveva sentito durante la notte erano fatti troppo significativi per non prenderli sul serio. In seguito Charles aveva evocato un'entità che era venuta a lui: ed ecco la voce tonante che si era sentita il venerdì santo e gli accenti diversi che erano risuonati nel laboratorio chiuso a chiave nell'attico. A che cosa somigliavano, rJella loro profonda e abissale risonanza? Non c'era una spaventosa affinità con la voce baritonale del temuto straniero, il dottor Allen? Sì, era questo che il signor Ward aveva capito con orrore nell'unico colloquio telefonico con quell'uomo, se d'un uomo si trattava! Quale maledetta coscienza, voce od ombra morbosa aveva risposto all'evocazione compiuta da Charles Ward dietro la porta sbarrata? Le voci che argomentavano fra loro ("Deve berlo rosso per tre mesi")... Gran Dio, quella frase non era stata pronunciata prima che dilagasse la piaga del vampirismo? Il saccheggio dell'antica tomba di Ezra Weeden, le urla sentite più tardi a Pawtuxet... A chi apparteneva la mente che aveva tramato quell'orribile vendetta e rintracciato il luogo, evitato per oltre un secolo, in cui erano avvenute le antiche nefandezze? Senza contare l'episodio del bungalow, lo straniero barbuto, le voci e il terrore. Né il padre né il medico riuscivano a trovare una spiegazione per la follia finale di Charles, ma erano sicuri che la mente di Joseph Curwen fosse tornata sulla terra e si stesse dedicando alle sue antiche, predilette nequizie. La possessione demoniaca era un fatto reale, o almeno una possibilità? Allen vi aveva certamente a che fare, e bisognava che i detective scoprissero assolutamente qualcosa sull'uomo la cui esistenza costituiva una tale minaccia per Charles. Nel frattempo, dato che sembrava accertata al di là di ogni dubbio l'esistenza di
un vasto sotterraneo sotto il bungalow, occorreva localizzarlo con esattezza. Willett e il signor Ward, consapevoli dell'atteggiamento scettico degli alienisti, decisero in un ultimo incontro di intraprendere un'esplorazione segreta e definitiva di quei luoghi: perciò stabilirono di incontrarsi al bungalow la mattina dopo con valigie, strumenti e accessori idonei a una ricerca di tipo archeologico e all'esplorazione del sottosuolo. La mattina del 6 aprile era limpida e i due esploratori si incontrarono per le dieci. Il signor Ward aveva la chiave, e dopo essere entrati nel bungalow fecero un primo sopralluogo dei locali. Dal disordine che regnava nella stanza del dottor Allen fu chiaro che i detective c'erano già stati, e i nuovi venuti sperarono che avessero trovato indizi utili. Naturalmente l'obbiettivo principale era il seminterrato e i due uomini scesero senza perdere altro tempo, ripetendo l'itinerario che avevano invano tentato alla presenza del giovane proprietario. Per un po' l'ambiente sembrò sfidare ogni possibilità di successo: il pavimento di terra battuta aveva un aspetto così solido e innocuo che il pensiero di un'apertura verso il sottosuolo sembrava addirittura assurdo. Willett rifletté che siccome la cantina del capanno era stata costruita, in origine, senza nessun sospetto di eventuali catacombe, il passaggio sotterraneo doveva essere opera di Ward e dei suoi colleghi, che in epoca moderna avevano tentato di individuare le antiche cripte di cui erano venuti a conoscenza con mezzi inauditi. Il dottore cercò di mettersi al posto di Charles e capire come un ricercatore moderno avrebbe iniziato il suo lavoro, ma da questo metodo non riuscì a trarre grande ispirazione. Poi decise di procedere per eliminazione ed esplorò tutta la superficie della cantina in verticale e in orizzontale, cercando di scoprire i segreti di ogni palmo di terra. Ben presto il cerchio delle indagini si restrinse e non rimase che un piccolo rettangolo di terreno davanti alle vasche da bagno che già in precedenza Willett aveva tentato inutilmente. Ora, riesaminando la piattaforma in ogni modo possibile ed esercitando il doppio dello sforzo, scoprì che esisteva una sommità girevole che scivolava su un perno. Sotto la piattaforma si trovava una superficie di cemento munita di una manopola in ferro, sulla quale il signor Ward si precipitò al colmo dell'eccitazione. Non fu difficile sollevare la botola e il vecchio genitore l'aveva quasi rimossa quando Willett notò lo strano aspetto dell'amico: barcollava come un ubriaco ciondolando la testa, e il medico si rese conto che dipendeva dalla folata d'aria fetida che saliva dal pozzo nero. In un attimo il dottor Willett aiutò il compagno a sdraiarsi sul pavimento
e lo fece riprendere spruzzandogli dell'acqua fredda sul viso; il signor Ward rispose debolmente, ma si vedeva che l'alito mefitico uscito dal sotterraneo lo aveva fatto star male sul serio. Deciso a non correre rischi, Willett si affrettò a uscire in Broad Street dove chiamò un taxi cui affidò il sofferente, nonostante le sue deboli proteste; poi, armato di torcia elettrica e con le narici protette da una fascia di garza sterilizzata, scese ancora una volta in cantina, per dare un'occhiata al sotterraneo appena scoperto. La zaffata maleodorante si era leggermente ridotta e Willett riuscì a mandare un raggio di luce in quell'abisso stigeo. Per circa tre metri e mezzo si trattava di un puro e semplice cilindro verticale dalle pareti di cemento e una scala di ferro per andare giù; più in basso la galleria giungeva a una rampa di antichi gradini di pietra che doveva risalire verso la superficie in qualche punto a sud-ovest dell'attuale edificio. 2 Willett ammette senza remore che per un attimo il ricordo delle antiche leggende su Joseph Curwen lo trattenne dal calarsi, solo, in quel buco maleodorante. Non poteva fare a meno di pensare a ciò che Luke Fenner aveva riferito di quella notte mostruosa, ma il dovere ebbe ben presto la meglio e il medico cominciò a scendere, portando con sé una grande valigia in cui avrebbe sistemato i documenti più importanti, ammesso che ce ne fossero. Lentamente, come si conveniva a un uomo della sua età, discese la scala di ferro e posò i piedi sui gradini scivolosi che si trovavano sotto di lui. La torcia rivelò che si trattava di una costruzione antica e sulle pareti stillanti Willett vide la patina verde dei secoli. I gradini precipitavano verso il basso non a spirale, ma descrivendo tre bruschi gomiti, ed erano così stretti che due uomini affiancati avrebbero potuto procedere con difficoltà. Willett ne contò circa trenta prima di sentire un debole rumore che gli tolse ogni desiderio di continuare a contare. Era un grido maledetto, uno di quei profondi e insidiosi oltraggi alla natura che non dovrebbero esistere affatto. Definirlo un lamento, un gemito di disperazione, un urlo d'angoscia insopprimibile o di carne torturata significherebbe tradirne la fondamentale ripugnanza e i toni lancinanti, capaci di annichilire l'anima. Era questo che cercava di sentire Ward il giorno in cui lo avevano internato? Certo era la cosa più orribile che Willett avesse mai udito; quando raggiunse il fondo delle scale e proiettò il raggio della torcia sulle immense pareti del corridoio, sormontate da volte ciclo-
piche e attraversato da innumerevoli archi neri, si rese conto che il lamento non proveniva da nessun punto in particolare. Il corridoio in cui si trovava era alto cinque metri e mezzo fino al punto centrale della volta e largo tre o quattro; il pavimento era fatto di grandi lastre squadrate e le pareti e il soffitto di mattoni intonacati. La lunghezza non era facilmente calcolabile, perché Willett poteva seguirlo solo fino a un certo punto, dopodiché il corridoio sprofondava nelle tenebre. Alcuni archi erano chiusi da porte coloniali a sei pannelli, mentre altri non ne avevano affatto. Sforzandosi di vincere il timore provocato dal lezzo e dal gemito incomprensibile, Willett cominciò a esplorare sistematicamente le grandi arcate: al di là di ognuna di esse trovò una stanza dal soffitto di pietra intagliata, di media grandezza e destinata apparentemente a un uso bizzarro. La maggior parte delle stanze aveva un camino e il tratto superiore delle canne fumarie doveva aver posto interessanti problemi di ingegneria. Willett non aveva mai visto in vita sua - né avrebbe visto in seguito - strumenti o frammenti di strumenti come quelli che si trovavano a ogni piè sospinto nella lunga teoria di stanze, seppelliti dalla polvere e dalle ragnatele di un secolo e mezzo e in alcuni casi, forse, distrutti dai componenti della famosa spedizione punitiva. Da moltissimo tempo la maggior parte delle camere non veniva calpestata da piedi umani, ma era lì che dovevano essersi svolti i primi esperimenti di Joseph Curwen, i più superati. Finalmente Willett giunse in una stanza di una certa modernità, o che almeno era stata occupata di recente: c'erano radiatori a olio, scaffali e tavolini, sedie e armadietti, per finire con una scrivania su cui erano ammucchiate pile di documenti di varie epoche, dalle più antiche a oggi. Qua e là si vedevano candelabri e lampade a olio, e avendo trovato una scatola di fiammiferi Willett accese tutte le lampade funzionanti. La luce più vivida rivelò che il locale era l'ex studio o biblioteca di Charles Ward: il medico aveva già visto gran parte dei libri, e anche la mobilia veniva dalla casa paterna in Prospect Street; qua e là Willett riconobbe mobili che ricordava benissimo, e il senso di familiarità divenne così forte che quasi dimenticò gli odori e il misterioso lamento, anche se entrambi erano più forti che ai piedi delle scale. Il suo primo dovere, come Willett aveva deciso da tempo, era trovare e portare via qualsiasi documento importante, specialmente quelli che Charles aveva trovato tempo addietro alle spalle del ritratto di Curwen in Olney Court. Mentre cercava il medico si rese conto che la scoperta finale avrebbe rivelato qualcosa di sorprendente: già ora vedeva numerosi fogli di carta su cui mani misteriose avevano
tracciato i segni più strani; ci sarebbero voluti mesi, forse anni per decifrare e mettere insieme tutto il materiale. Fra le altre cose trovò dei voluminosi pacchi di lettere con il timbro postale di Praga o Rakus, e in una grafia che era facilmente riconoscibile per quella di Orne e Hutchinson. Willett prese tutto e le unì agli altri documenti che avrebbe portato via con la valigia. Alla fine, in una cassapanca di mogano chiusa a chiave che proveniva da casa Ward, Willett trovò il grosso delle vecchie carte di Curwen e le riconobbe grazie all'occhiata che Charles, a malincuore, gli aveva permesso di dare alcuni anni prima. Il giovane, evidentemente, le aveva tenute insieme come le aveva trovate, perché la collezione comprendeva tutti i titoli ricordati dagli operai; l'unica eccezione era rappresentata dai documenti indirizzati a Orne e Hutchinson e dal cifrario con relativa chiave. Willett sistemò il tutto nella grande valigia e continuò le ricerche. Dato che la salute di Charles Ward era, per il momento, la cosa più importante, il medico si concentrò sui documenti recenti e nell'abbondanza di manoscritti notò una vera e propria stranezza. Si trattava di questo: pochissimi erano redatti nella scrittura normale di Charles e comunque nessuno risaliva a meno di due mesi prima. D'altra parte c'erano centinaia di simboli e formule, di annotazioni storiche e commenti filosofici redatti in una grafia che somigliava in tutto e per tutto all'antica scrittura di Joseph Curwen, benché fossero certo di epoca moderna. Era chiaro che nei progetti di Charles Ward rientrava una scrupolosa imitazione della grafia del mago, e che il giovane era riuscito nell'impresa con meravigliosa perfezione; non c'era traccia, invece, di un'eventuale terza mano, quella ad esempio del dottor Allen. Se era stato effettivamente il capo della combriccola, Allen doveva aver costretto il giovane Ward a fargli da scrivano. Nel materiale più recente una formula magica, o meglio un paio di formule, ricorrevano così spesso che il dottor Willett le aveva imparate a memoria prima di terminare la ricerca. Consisteva di due colonne parallele, quella di sinistra sormontata dal vecchio simbolo noto come "Testa del Drago" e usato negli almanacchi per indicare il punto di intersezione ascendente, quella di destra dal segno corrispondente della "Coda del Drago", per indicare il punto discendente. L'aspetto complessivo era quello che riportiamo più sotto, e quasi inconsciamente il dottore sentì che la seconda colonna non era altro che la prima scritta sillabicamente al contrario, con l'eccezione dei monosillabi conclusivi e dell'antico nome Yog-Sothoth, che Willett aveva imparato a riconoscere, in varie trascrizioni, da tutta una
serie di carte che rimanevano legate all'orribile caso. Le formule erano quelle che riportiamo alla lettera, come Willett può ampiamente testimoniare. Le sillabe della prima colonna, in particolare, risvegliarono nella sua mente spiacevoli ricordi che riuscì a definire meglio in seguito, quando ricostruì i terribili avvenimenti del venerdì santo dell'anno prima.
Così ossessive erano le formule, e tanto spesso Willett vi si imbatté, che prima di rendersene conto le ripeteva a memoria. Alla fine fu certo di essersi impadronito di tutti i documenti che potevano servirgli e decise di non perdere tempo con gli altri, ma di convincere gli alienisti più scettici a seguirlo in massa e a compiere un'esplorazione sistematica del sotterraneo. Bisognava trovare, tuttavia, il laboratorio nascosto: lasciata la valigia nella stanza illuminata, Willett uscì nel corridoio nero le cui volte echeggiavano incessantemente di un vago e terribile lamento. Le poche stanze che rimanevano erano abbandonate o riempite di casse marcite e minacciose bare di piombo, ma lo impressionarono profondamente perché denunciavano la vastità delle antiche operazioni di Joseph Curwen. Willett pensò agli schiavi e ai marinai scomparsi misteriosamente, alle tombe violate in ogni parte del mondo, a quello che dovevano aver visto i componenti della spedizione punitiva, e decise che era meglio non pensarci più. Una volta, alla sua destra, era apparsa una grande scala di pietra e Willett dedusse che doveva essere quella che portava a uno degli edifici esterni, forse il famoso rifugio di pietra con le finestre simili a feritoie; ma questo era plausibile solo nel caso che la scalinata percorsa da lui si fosse allontanata dal corpo centrale della fattoria. Improvvisamente le pareti del budello si allargarono, il puzzo e il lamento si fecero più forti. Willett si accorse di essere giunto in un grande spazio aperto, così imponente che la luce della torcia non bastava a illuminarne la larghezza; e mentre avanzava si imbatté in una serie di robuste colonne che reggevano gli archi della volta. Dopo un po' raggiunse altre colonne, disposte a cerchio come i monoliti di Stonehenge; al centro campeggiava un altare scolpito che poggiava su
una pedana formata da tre gradini. Le figure intagliate sull'altare erano estremamente bizzarre, e quando si avvicinò ad esaminarle con la torcia Willett provò un brivido di stupore. Non appena si rese conto di ciò che rappresentavano arretrò tremando e non si fermò a esaminare le chiazze scure che impregnavano la superficie dell'altare, e che a volte proseguivano sui fianchi in righe più sottili. Willett si diresse alla parete opposta e la seguì nel suo perimetro circolare, immenso, attraversato ogni tanto da una porta nera e crivellato da una miriade di cellette poco profonde. Si trattava di piccole prigioni munite di sbarre di ferro, ceppi per i polsi e le caviglie e robuste catene assicurate alla parete concava. Erano vuote, ma il terribile odore e l'indefinibile lamento persistevano, ora più intensi che mai, e a volte sembravano intervallati da una specie di passo scivoloso. 3 L'attenzione di Willett non poteva più essere distolta dal terribile odore e dal lamento inverosimile che l'accompagnava: nel grande salone circondato di colonne erano più forti e insopportabili che in qualsiasi altro luogo, e persino in quel mondo di oscurità che era già di per sé un abisso impregnato di misteri davano la sensazione di salire dalle profondità del sottosuolo. Prima di attraversare uno degli archi bui in cerca di un'eventuale scalinata che conducesse verso il basso, il medico proiettò il raggio della torcia sul pavimento di lastre di pietra. Erano piuttosto sconnesse, ma a intervalli irregolari si notava una lastra forata da minuscole aperture che non seguivano un modello preciso, e in un altro punto era abbandonata una lunga scala di corda. Fatto singolare, dalla scala sembrava emanare gran parte dell'odore spaventoso che permeava l'ambiente, e avvicinandosi a passi misurati Willett si rese conto che tanto il rumore quanto il lezzo diventavano più forti in prossimità delle lastre di pietra forate, come se si trattasse di rozze botole spalancate su più profonde regioni dell'orrore. Inginocchiatosi accanto a una di esse, il dottore tentò di sollevarla con le mani e scoprì che con grande difficoltà riusciva a sollevarla. Quando la toccò il lamento che veniva dal basso si fece più acuto, e a Willett occorse tutta la sua forza d'animo per continuare a muovere il lastrone. Il puzzo era insopportabile e al medico cominciò a girare la testa; finalmente depositò la lastra sul pavimento e proiettò la torcia in un metro quadrato di buio assoluto. Se si era aspettato di trovare una rampa che scendesse nell'abisso del completo abominio, Willett andò incontro a una delusione: stordito dal fe-
tóre e dal lamento disperato vide soltanto l'orlo di un pozzo cilindrico, bordato di mattoni, il cui diametro misurava forse un metro e mezzo ed era privo di qualunque scala o altro mezzo di discesa. Quando la luce rischiarò l'ambiente nascosto i gemiti si trasformarono in una serie di orribili singhiozzi, insieme ai quali si udì ancora una volta il suono di un passo cieco, viscido e privo di direzione. L'esploratore tremò, poco disposto a immaginare che specie di creatura si nascondesse nel pozzo, ma dopo un attimo raccolse il coraggio e decise di guardare oltre l'orlo irregolare per cercare di capire ciò che si trovava sotto di lui. Disteso ventre a terra, protese la torcia e per un attimo non vide che le pareti di mattoni scivolose, coperte dalla patina verdastra del tempo e che affondavano nell'oscurità quasi palpabile. Il pozzo viveva di un'angoscia e una furia senza pari, e Willett si accorse che qualcosa di scuro saltava goffamente in fondo alla strettoia, sette o otto metri sotto il pavimento su cui egli era disteso. La torcia tremò nella sua mano, ma il medico guardò di nuovo per scoprire che razza di creatura fosse quella che gemeva nel buio della tana innaturale. Una creatura che il giovane Ward aveva abbandonato alla fame da lunghi mesi, e cioè da quando Willett lo aveva portato via... Evidentemente era solo un rappresentante della più vasta popolazione dei pozzi, perché il pavimento della caverna era disseminato di botole traforate. A qualunque specie appartenessero, in uno spazio così angusto non potevano stare distese e dovevano essersi rannicchiate. Per lunghe, orribili settimane avevano tentato di scalare la prigione con le poche forze che restavano loro, lamentandosi e aspettando che arrivasse qualcuno... Marinus Bicknell Willett si pentì di aver dato una seconda occhiata: pur essendo un veterano della sala anatomica e un esperto chirurgo, dopo ciò che vide non fu mai più lo stesso. È difficile spiegare come un oggetto concreto e di precise dimensioni possa turbare così profondamente un uomo, o addirittura trasformarlo dopo appena uno sguardo; ma in certe figure vi è un potere simbolico e suggestivo che agisce in modo spaventóso sulla mente sensibile e le facoltà dell'immaginazione, perché suggerisce terribili collegamenti con forze cosmiche e oscure, realtà inaudite che si nascondono dietro le illusioni protettive della vista normale. Fu quello che apparve a Willett dopo la seconda occhiata, ed è certo che per alcuni secondi uscì di senno come qualsiasi paziente della clinica Waite. La mano, priva di tono muscolare e coordinazione nervosa, lasciò cadere la torcia elettrica, e un rumore di denti aguzzi e metallo stritolato tradirono la sua sorte nelle profondità del pozzo. Sul momento Willett non vi fece caso ma urlò, urlò an-
cora, a tal punto stravolto dal panico che nessuno dei suoi amici ne avrebbe riconósciuta la voce; e benché non riuscisse a mettersi in piedi, strisciando e rotolando su se stesso cercò disperatamente di allontanarsi dall'umido impiantito su cui si spalancavano i pozzi del Tartaro, da cui usciva un coro di ululati che riecheggiavano le sue urla di follia. Willett si graffiò le mani sulle lastre di pietra ruvide e non perfettamente allineate; molte volte batté la testa contro le colonne, ma continuò ad allontanarsi. Poi finalmente tornò in sé, immerso nelle tenebre impenetrabili e nel puzzo che le pervadeva, e la prima cosa che fece fu tapparsi le orecchie per non sentire il monotono uggiolìo a cui si erano ridotti i lamenti di prima. Willett era inzuppato di sudore e non poteva farsi luce; scosso e snervato da quel vagabondaggio nell'abisso, si sentiva schiacciare da un ricordo che non sarebbe mai riuscito a cancellare. Sotto di lui vivevano decine di creature, e da uno dei pozzi il tombino era stato rimosso. Willett sapeva che ciò che aveva visto non era in grado di scalare le pareti viscide, ma rabbrividì al pensiero che da qualche parte esistesse un appiglio. Non avrebbe mai saputo che cosa fosse la creatura: somigliava a uno degli esseri scolpiti sull'altare infernale, ma era viva. La natura non l'aveva certo creata in quella forma, perché era troppo visibilmente incompiuta. Le deficienze erano del tipo più sorprendente e le anormalità nelle proporzioni superavano ogni descrizione. Willett è disposto a dire soltanto che creature del genere rappresentavano, forse, le entità che Ward evocava da sali imperfetti, e che manteneva per propositi servili o ritualistici. Se un essere del genere non avesse avuto una certa importanza, la sua immagine non sarebbe stata scolpita sulla pietra maledetta. Non era la peggiore fra le cose raffigurate sull'altare, ma Willett non osò aprire gli altri pozzi. In quel momento la prima cosa ragionevole che gli venne in mente fu un banale paragrafo che ricordava di aver letto nelle vecchie carte di Curwen, e che aveva assimilato ormai da molto tempo: una frase usata da Simon o Jedediah Orne nella straordinaria lettera indirizzata al vecchio stregone e che era stata sequestrata: "Certo quello che H. resuscitò non fu che un animato Obbrobrio, perché poté impadronirsi solo parzialmente de la materia prima". Come a dar forza a una simile idea, invece che bandirla, una serie di spiacevoli ricordi assalirono il dottore: si trattava delle antiche voci sull'essere bruciato e contorto che era stato trovato nei campi una settimana dopo la spedizione contro Curwen. Una volta Charles Ward gli aveva riferito ciò che il vecchio Slocum diceva della carcassa: che non era del tutto umana ma neppure somigliava a uno qualsiasi degli animali che la gente di Pa-
wtuxet avesse visto o di cui avesse letto. Questi erano i pensieri che agitavano la mente di Willett, il quale, ancora riverso sul pavimento di pietra umida, si rotolava da una parte e dall'altra. Il medico cercò di scacciarli recitando fra sé il Padre Nostro, ma la preghiera degenerò in un guazzabuglio di libere associazioni degne della Terra desolata di Eliot, e alla fine si trasformò nella doppia formula che Willett aveva trovato nella biblioteca sotterranea di Ward e che ricorreva tanto spesso: "Y'ai'ng'ngah, Yog-Sothoth" e così di seguito fino all'enfasi finale su "Zhro". Questo processo associativo gli fu utile e dopo un certo tempo Willett riuscì a mettersi carponi, profondamente dispiaciuto per aver ceduto all'attacco di paura che gli aveva fatto perdere la torcia; quindi si guardò intorno, disperato, per individuare un punto di luce nell'atmosfera umida e nera come inchiostro che lo stringeva da ogni parte. Cercò di non pensare, ma aguzzò gli occhi in ogni direzione per cogliere un sia pur vago riflesso della luminaria che aveva lasciato in biblioteca. Dopo un poco pensò di aver individuato un lucore infinitamente lontano, e verso di esso strisciò con dolore e cautela, sulle mani e le ginocchia, nel fetore e tra i lamenti delle creature. Tastava continuamente il buio, per non urtare contro le innumerevoli colonne o precipitare nel pozzo abominevole che lui stesso aveva scoperchiato. Una volta le dita tremanti sfiorarono qualcosa che probabilmente erano i gradini dell'orribile altare, e Willett si ritrasse disgustato; un'altra volta tastò la lastra traforata che aveva rimosso e la sua cautela divenne quasi pietosa. Ma dopotutto non si imbatté nella temuta apertura, e dal pozzo non uscì nessuna presenza a sbarrargli la strada. La cosa imprigionata nel profondo non emetteva più lamenti e nemmeno si muoveva: evidentemente il tentativo di divorare la torcia elettrica non le aveva fatto bene. Ogni volta che le dita di Willett tastavano una botola forata, egli tremava; a volte il suo passaggio faceva aumentare i lamenti sotterranei, ma in genere non produceva alcun effetto perché si muoveva in silenzio. Più di una volta il lucore davanti a lui diminuì visibilmente e il medico si rese conto che le lampade e candele che aveva lasciato in biblioteca si stavano spegnendo una ad una. Il pensiero di perdersi nel buio assoluto, senza fiammiferi e in un mondo sotterraneo di labirinti spaventosi lo costrinse a mettersi in piedi e a correre, cosa che poteva fare con maggior tranquillità dopo aver superato il pozzo aperto; Willett sapeva benissimo che se la luce si fosse spenta del tutto la sua unica speranza di salvezza e di sopravvivenza sarebbe stata quella di un eventuale gruppo di ricerca inviato dal signor Ward, che dopo
un certo tempo si sarebbe preoccupato della sua assenza. Finalmente, tuttavia, il dottore lasciò il grande spazio aperto e imboccò il più stretto corridoio, individuando il bagliore che proveniva da una porta alla sua destra. In un attimo lo aveva raggiunto e ancora una volta si trovò nella biblioteca segreta del giovane Ward, tremante di sollievo e con gli occhi posati sulla fiamma residua dell'ultima lampada, quella che l'aveva portato alla salvezza. 4 In pochi secondi Willett riempì le lampade esauste usando la scorta di petrolio che aveva notato in precedenza, e quando la stanza fu illuminata di nuovo si guardò intorno per vedere se c'era una lanterna con cui continuare l'esplorazione. Benché sconvolto dall'orrore, la sua determinazione rimaneva il fatto più importante ed era fermanente deciso a rivoltare pietra su pietra pur di scoprire l'orrenda realtà che si nascondeva dietro la follia di Charles Ward. Non trovando una lanterna, decise di portare con sé la lampada più piccola; si riempì le tasche di candele e fiammiferi e prese una lattina di petrolio da un gallone: se avesse trovato, come sospettava, un laboratorio segreto oltre la terribile caverna dell'altare e i pozzi ricoperti dalle bòtole, quella riserva gli sarebbe stata utile. Attraversare di nuovo la caverna avrebbe richiesto la massima forza di volontà, ma sapeva che doveva essere fatto. Per fortuna né l'orribile altare né il pozzo scoperchiato si trovavano vicino alla vasta parete costellata di celle che abbracciava il salone, e le cui nere, misteriose porte ad arco dovevano costituire la meta della nuova ricerca. Willett tornò nel grande spiazzo irto di colonne e ammorbato dal puzzo e dai lamenti angosciosi delle creature; per precauzione schermò la lampada, in modo da non correre il rischio di vedere l'altare d'incubo o il pozzo scoperchiato accanto a cui giaceva la lastra di pietra. La maggior parte delle soglie nere conduceva semplicemente a piccole salette, alcune vuote e altre usate evidentemente come magazzini; in alcune di queste ultime Willett trovò gli oggetti più disparati. Una era piena di balle di stoffa marcita e coperta di polvere, e quando si accorse che si trattava di abiti usati un secolo e mezzo prima l'esploratore ebbe un brivido. In un'altra stanza trovò numerosi abiti moderni, come se qualcuno li avesse messi da parte per vestire un gran numero di persone, ma la cosa che lo colpì più sfavorevolmente fu la vista delle grandi vasche di rame che di tanto in tanto riempi-
vano le stanze. Erano coperte di sinistre incrostazioni, e a Willett piacquero anche meno dei bacili di piombo chiazzati da orrendi depositi e intorno ai quali aleggiavano odori ripugnanti, ben distinguibili dal puzzo complessivo del sotterraneo. Dopo aver compiuto metà del perimetro della caverna si imbatté in un corridoio simile a quello che aveva lasciato, e sul quale si aprivano diverse porte. Willett entrò per indagare e dopo aver esplorato tre stanze di grandezza media e dal contenuto non troppo interessante, arrivò a uno stanzone allungato pieno di tavoli da lavoro, contenitori, fornaci, strumenti moderni, qualche libro e interminabili scaffali nei quali erano allineate file e file di anfore di vetro e bottiglie. Non poteva essere che il famigerato laboratorio di Ward, ma anche, senza dubbio, del vecchio Joseph Curwen prima di lui. Dopo aver acceso tre lampade che trovò piene e già pronte, il dottor Willett esaminò il laboratorio e tutto ciò che conteneva con il massimo interesse; sugli scaffali c'era una certa abbondanza di reagenti, e Willett ne dedusse che il lavoro del giovane Ward aveva a che fare con qualche ramo della chimica organica. Ben poco si poteva dedurre dall'insieme delle attrezzature scientifiche, fra cui spiccava un terribile tavolo di dissezione, e nel complesso il laboratorio si rivelò una delusione. Fra i libri c'era una vecchia copia di Borello in caratteri gotici, ed era fantastico notare come Ward avesse sottolineato lo stesso brano che aveva turbato il signor Merritt alla fattoria Curwen più d'un secolo e mezzo prima. La copia più antica, naturalmente, doveva essere stata distrutta insieme alla biblioteca magica di Curwen durante la spedizione punitiva. Tre porte ad arco conducevano fuori del laboratorio, e il dottore le esaminò a turno. Due davano semplicemente in piccoli magazzini che Willett esplorò con cura: contenevano mucchi di casse da morto in vari stadi di degradazione, e le targhe apposte su un paio di esse lo fecero rabbrividire. Nei due magazzini era conservato molto vestiario e un certo numero di casse nuove e inchiodate, che il medico non si fermò a esaminare. Più interessanti, forse, erano alcuni oggetti che Willett identificò come reliquie del vecchio laboratorio Curwen: pur avendo subito la violenza degli uomini di Providence, in parte erano ancora riconoscibili come attrezzature chimiche del periodo georgiano. La terza porta conduceva a una stanza molto grande, le cui pareti erano completamente coperte di scaffali e al cui centro si trovava un tavolo con due lampade. Willett le accese e alla luce brillante che diffondevano esaminò le numerosissime scaffalature. Verso il soffitto ce n'erano alcune vuote, ma la maggior parte erano piene di piccoli contenitori piombati, dal-
l'aspetto bizzarro, che si dividevano in due tipi fondamentali: i primi alti e senza manici come il lekythos greco, o fiasca per l'olio; i secondi con un manico solo, dalle proporzioni simili a un'anfora di Falero. Tutti avevano coperchi di metallo ed erano coperti di simboli peculiari, impressi in rilievo. In un attimo il medico capì che i contenitori erano classificati con il massimo rigore: i lekythoi occupavano un lato della stanza contrassegnato da una grande iscrizione in legno su cui spiccava la parola "Custodes"; gli altri occupavano la seconda metà, sotto un'insegna che recava la parola "Materia". Ogni anfora, tranne alcune che si trovavano sugli scaffali più alti e che si rivelarono vuote, era contrassegnata da un'etichetta di cartone con un numero che evidentemente si riferiva a un catalogo; Willett decise che in seguito lo avrebbe cercato, ma per il momento era più interessato alla natura complessiva della collezione. Aprì a caso alcuni lekythoi e alcune anfore del tipo Falero, tanto per farsi un'idea generale. Il risultato fu sempre lo stesso: entrambi contenevano una piccola quantità della stessa sostanza, una polvere sottile e leggerissima, dal colore neutro e monotono che si ripeteva in mille sfumature. Solo ogni tanto la tinta cambiava un poco, ma non sembrava che questo influisse sul metodo di catalogazione e non c'era alcuna differenza fra il contenuto dei lekythoi e quello delle anfore. Una sostanza azzurrina piuttosto che grigia poteva trovarsi accanto a una biancastra e leggermente rosata, e il contenuto di una qualsiasi anfora sembrava intercambiabile con quello di un qualunque lekythos. La caratteristica peculiare delle polveri era la loro non-adesività. Willett poteva farle scorrere nella mano a coppa e quando le riversava nell'anfora scopriva che sul palmo non era rimasto un solo granello. Il significato delle due insegne lo lasciò interdetto, e Willett si chiese perché una simile collezione di prodotti chimici fosse rigidamente separata da quelli contenuti nelle polle di vetro del laboratorio vero e proprio. "Custodes,", "Materia": erano parole latine che significavano Guardiani e Sostanze... e in un lampo la memoria di Willett ricordò la prima volta in cui aveva letto la parola "Guardiani" in relazione a quello spaventoso mistero. Era stato, naturalmente, nell'ultima lettera indirizzata al dottor Allen e firmata Edward Hutchinson; la frase esatta era questa: "Non vi era alcun bisogno di mantenere i Guardiani nella loro forma compiuta o di permetter loro di nutrirsi divorando teste; giacché in caso di pericolo essi avrebbero comunque rivelato troppo; ma voi ben conoscete questa situazione". Cosa significava esattamente? Ma un momento, non c'era un altro riferimento a dei "guardiani" in questa faccenda, e che lui aveva dimenticato leggendo la
lettera di Hutchinson? All'epoca in cui non si era ancora chiuso nel segreto, Ward gli aveva parlato del diario di Eleazar Smith, nel quale erano annotate le osservazioni di Smith e Weeden alla fattoria Curwen; in quella spaventosa testimonianza vi era un passo tratto da una conversazione ch'era stato possibile udire prima che il vecchio mago decidesse di barricarsi nel sottosuolo. Smith e Weeden insistevano di aver sentito terribili colloqui fra Curwen, i suoi prigionieri e i guardiani che li sorvegliavano. A proposito di tali guardiani, Hutchinson o il suo avatar affermava che "divoravano" la testa di quei disgraziati, sicché il dottor Allen preferiva non tenerli nella loro forma compiuta. Ma allora, quale soluzione restava se non quella di ridurli ai "sali" in cui il mago e la sua congrega sapevano così ben trasformare corpi ed ossa umani? Ecco, dunque, cosa contenevano i lekythoi: il frutto di pratiche e riti proibiti. I guardiani erano tenuti in perfetta sottomissione, pronti ad essere evocati da un terribile incantesimo, a difesa del loro padrone o per interrogare chi non fosse disposto a collaborare spontaneamente... Al pensiero di ciò che aveva fatto scorrere nelle sue mani Willett tremò, e per un attimo provò l'impulso di fuggire in preda al panico, di allontanarsi da quella grotta di orrendi scaffali abitati da sentinelle mute e forse già in guardia. Poi Willett pensò ai "Materia", le sostanze che si trovavano nella miriade di anfore che occupavano la parete opposta. Anche quelle contenevano sali... Ma se non si trattava di Guardiani, allora che cos'erano? Dio! Era possibile che dinanzi a lui si trovassero le reliquie dei più grandi pensatori d'ogni tempo? Reliquie sottratte alla tomba da un gruppo di iene ambiziose, rapite ai luoghi in cui il mondo le credeva custodite e costrette a ubbidire alla volontà e ai capricci di una congrega di folli che cercavano di ottenere la conoscenza necessaria a compiere un'opera ancora più pazzesca, il cui effetto avrebbe influito, come il povero Charles aveva scritto nell'ultima lettera disperata, sulla civiltà, le leggi naturali e persino il destino del sistema solare e dell'universo? E Marinus Bicknell Willett aveva fatto scorrere le loro polveri fra le dita! All'improvviso il dottore notò una porticina all'estremità opposta della camera e si calmò quanto bastava per avvicinarsi ed osservare il rozzo emblema che vi era scolpito. Era solo un simbolo, ma lo riempì di un imprecisato terrore spirituale, perché una volta un suo amico particolarmente sensibile lo aveva disegnato su un pezzo di carta e gli aveva rivelato alcuni dei significati che gli vengono attribuiti nel regno del sonno. Era il segno di Koth, che i sognatori scorgono sulla porta di una certa torre nera che svetta
nel crepuscolo, e a Willett non era piaciuto ciò che Randolph Carter gli aveva svelato dei suoi poteri. Ma un attimo dopo dimenticò il segni, e nell'aria ammorbata dal lezzo riconobbe un nuovo, acre sentore. Era un odore animale, non quello di una sostanza chimica, e veniva con ogni evidenza dal locale oltre la porticina. Come se non bastasse, era l'odore che emanava dai vestiti di Charles Ward il giorno in cui i medici erano venuti a prenderlo, non c'era dubbio. Dunque era lì che il giovane era stato interrotto dall'arrivo del gruppo... Ma era stato più saggio del vecchio Curwen, perché non aveva opposto resistenza. Willett, coraggiosamente deciso a svelare ogni incubo e ogni prodigio del regno sotterraneo, afferrò la piccola lampada e varcò la soglia. Un'ondata di paura indefinibile lo aggredì dall'ombra, ma egli non cedette alle fantasticherie e non si abbandonò a inutili speculazioni. In quel luogo non c'era nulla che potesse fargli del male, o almeno nulla di vivo, e lui non avrebbe ceduto al terrore che aveva sopraffatto il suo paziente. La stanza oltre la porta era di dimensioni medie e non conteneva altri mobili che un tavolo, una sedia e due gruppi di macchine bizzarre con ruote e tenaglie; dopo un attimo Willett li riconobbe come strumenti medievali di tortura. Accanto alla porta stava una rastrelliera di terribili fruste, e più oltre alcuni scaffali su cui facevano mostra di sé file e file di coppe di piombo, vuote e montate su piedistalli, che nella forma ricordavano i kylikes greci. All'estremità opposta c'era un tavolo su cui erano appoggiati una potente lampada Argand, un taccuino, una matita e due lekythoi come quelli che si trovavano sugli scaffali esterni, sigillati e disposti a caso, come se qualcuno li avesse messi lì per breve tempo e comunque in fretta. Willett accese la lampada ed esaminò attentamente il taccuino per vedere gli appunti che Ward stava prendendo nel momento in cui l'avevano interrotto, ma non trovò nulla di più illuminante dei frammenti che seguono, scritti nella vecchia grafia di Curwen e che non gettavano alcuna luce sul mistero nel suo complesso: B. non morì. Fuggì per i cunicoli e trovò il Luogo subterraneo. Vidi il vecchio V. recitare il Sabaoth e appresi la Via. Levai Yog-Sothoth tre volte e lo congedai il Giorno seguente. F. cercò di cancellare la conoscenza di come levare Quelli-di-Fuori. Il chiarore della Argand illuminava fortemente la stanza e il medico vide che la parete di fronte alla porta, in mezzo ai due gruppi di strumenti di
tortura negli angoli, era coperta di pioli da cui pendeva una serie di camici informi, di colore bianco-giallastro e ridotti in uno stato penoso. Molto più interessanti erano le due pareti libere, entrambe coperte di simboli mistici e formule intagliate alla meglio nella pietra liscia e smussata. Anche il pavimento umido recava tracce di simboli magici, e non senza difficoltà Willett ricostruì il grande pentagramma che occupava il centro, con un gran cerchio di circa un metro di diametro in corrispondenza di ciascun angolo. In uno dei quattro cerchi, presso il quale una tunica giallastra era stata gettata con noncuranza sul pavimento, si trovava un kylyx concavo del tipo che Willett aveva visto sugli scaffali accanto alla rastrelliera delle fruste; appena al di là del perimetro c'era un'anfora di Falero presa dagli scaffali della stanza adiacente, e con il numero 118 trascritto sull'etichetta. L'anfora era aperta e si rivelò vuota, ma con un brivido l'esploratore si accorse che il kylix non lo era. Nel suo interno concavo, al sicuro da ogni pericolo di dispersione perché nella caverna non soffiava un alito di vento, si trovava un mucchietto di polvere secca, di color verde-opaco, vagamente fluorescente e che certo proveniva dall'anfora. Willett rifletté sui vari elementi della scena e quando ne ebbe intuito il significato tremò. Le fruste e gli strumenti di tortura... la polvere, o sali che fossero, tratta dall'anfora dei "Materia"... i due lekythoi prelevati dallo scaffale dei "Custodes", le tuniche, le formule sul muro, le note nel taccuino, le allusioni contenute nelle lettere e nelle leggende... le mille intuizioni, dubbi e supposizioni che avevano tormentato amici e parenti di Charles Ward... Bastò un'occhiata alla polvere verdastra contenuta nel kylix lasciato sul pavimento per stringere il dottore in una morsa d'angoscia. Con uno sforzo Willett riprese il controllo di sé e cominciò a studiare le formule incise sulle pareti. Le lettere macchiate e incrostate risalivano ai tempi di Joseph Curwen, e il testo sarebbe risultato più o meno familiare a chi avesse letto i trattati del negromante o si fosse immerso profondamente nella storia della magia. Una formula che il dottore riconobbe facilmente fu quella che la signora Ward aveva sentito cantare dal figlio il venerdì santo dell'anno prima, e che un esperto aveva riconosciuto per una terribile invocazione rivolta agli dèi segreti che dimorano oltre le sfere dell'universo. La trascrizione non era proprio quella che la signora Ward aveva buttato giù a memoria, e neppure corrispondeva esattamente alla versione che l'esperto aveva mostrato a Willett nelle pagine proibite di Eliphas Lévi; ma che si trattasse dello stesso incantesimo era indubbio, e parole come Sabaoth, Metraton, Almonsin e Zariatnatmik mandarono un brivido lungo la
schiena del ricercatore, che aveva sperimentato la presenza di quegli abominii cosmici appena sotto il velo della realtà. L'invocazione si trovava sulla parete di sinistra entrando nella stanza. Quella di destra non era coperta meno fittamente e Willett sentì il brivido che si prova quando si riconosce qualcosa di familiare, perché davanti a lui c'era la coppia di formule che così spesso tornavano negli appunti scoperti recentemente in biblioteca. In linea di massima si poteva dire che fossero identiche, con gli antichi simboli della "Testa di Drago" e della "Coda di Drago" che le sormontavano come negli appunti di Ward, ma l'ortografia era diversa rispetto alle versioni moderne: probabilmente il vecchio Curwen aveva un modo tutto suo di rendere certi suoni, o forse studi successivi avevano stabilito varianti più efficaci e perfezionate per recitare le invocazioni in questione. Il medico tentò di riconciliare la versione graffita sul muro con quella che gli tornava insistentemente alla memoria, ma fu un'impresa ardua. Dove la formula che lui aveva imparato cominciava con "Y'ai'ng'ngah, Yog-Sothoth", l'epigrafe che aveva sotto gli occhi recitava "Aye, engengah, Yogge-Sothotha", cosa che gli creava seri problemi nel sillabare la seconda parola. Per quanto il testo più recente fosse scolpito nella sua mente, la discrepanza lo disturbava e Willett cominciò a cantare la prima formula a voce alta, nello sforzo di far combaciare i suoni con le lettere che vedeva graffite. Nell'antica catacomba dei misfatti la voce suonava fantastica e minacciosa: una cantilena che da un lato salmodiava l'incantesimo sconosciuto e dall'altro imitava il lamento infernale e ossessivo che si alzava dai pozzi, e le cui cadenze inumane si levavano ritmicamente in distanza, attraverso il lezzo e le tenebre. YAI 'NG'NGAH, YOG-SOTHOTH H'EE-L'GEB F'AI THRODOG UAAAH! Ma come spiegare l'alito freddo che si era levato all'inizio del canto? Le lampade erano sul punto di spegnersi e il buio divenne così denso che le lettere sul muro quasi scomparvero alla vista. C'era fumo, e un odore penetrante coprì il lezzo dei pozzi lontani; un odore simile a quello che Willett aveva sentito poco prima, ma infinitamente più forte e pungente. Il medico
voltò le spalle alle iscrizioni per osservare la stanza con il suo arcano contenuto. Dal kylix che si trovava sul pavimento e in cui era raccolta la polvere fluorescente si alzava una nuvola di vapore nero-verdastro, di sorprendente spessore e opacità. Quella polvere... Gran Dio! Proveniva dagli scaffali delle "Materia"... che cosa stava facendo, a quale processo aveva dato inizio? La formula che aveva cantato, la prima della coppia, quella della Testa di Drago ascendente... Benedetto Salvatore, poteva essere...? Il medico si sentì vacillare e nella sua mente turbinarono i frammenti separati di tutto ciò che aveva visto, sentito o letto nello spaventoso caso che legava Joseph Curwen a Charles Dexter Ward. "E ancora vi ripeto, non evocate ciò che poi non potetericacciare, né dai Sali né dalle Sfere ulteriori; sempre tenete con voi le parole che servono a scacciarli, e non perdete tempo a farvi domande quando non sapete Chi avete convocato... Tre conversazioni con Ciò che era inumato lì dentro..." Bontà divina, cos'era la forma che si agitava nel fumo? 5 Marinus Bicknell Willett non spera che il suo racconto venga minimamente creduto, se non da alcuni amici portati alla simpatia; per questo non ha fatto alcun tentativo di parlarne al di là della cerchia più intima. Solo pochi, fra gli estranei, lo hanno mai sentito, e fra costoro la maggior parte sorride e osserva che il dottore sta invecchiando. Gli hanno consigliato di prendere una lunga vacanza e di evitare, in futuro, casi che abbiano a che fare con disturbi mentali; ma il signor Ward sa che il vecchio medico è il depositario di un'orribile verità. Non aveva visto lui stesso la disgustosa apertura nella cantina del bungalow? Non era stato proprio Willett a mandarlo a casa sconvolto, in preda a un malore, alle undici di quel fatale mattino? E a sera non aveva invano telefonato al dottore, e di nuovo il giorno dopo, finché a mezzogiorno del giorno seguente aveva deciso di andare personalmente in macchina al bungalow, dove aveva trovato il suo amico svenuto ma illeso in uno dei letti al piano superiore? Willett respirava a fatica e aveva aperto gli occhi, lentamente, solo quando il signor Ward gli aveva dato del brandy portato dalla macchina. Era rabbrividito e aveva urlato, piangendo: «Quella barba... quegli occhi... Dio, e tu chi sei?». Strana cosa da chiedere a un signore perfettamente rasato, elegante e dagli occhi azzurri che Willett conosceva da bambino. Nella luce brillante di mezzogiorno il bungalow non era cambiato in nul-
la dal mattino precedente; i vestiti di Willett non erano particolarmente in disordine, a parte qualche macchia e la presenza di qualche tratto liso sulle ginocchia. Solo l'odore acre e ormai piuttosto debole che emanava dall'amico ricordò al signor Ward quello che aveva sentito addosso al figlio il giorno in cui lo avevano portato in clinica. La torcia del dottore era scomparsa ma la valigia era in salvo, vuota come quando erano arrivati. Prima di cedere al desiderio di fabbricarsi una spiegazione, e con gran forza morale, Willett si trascinò in cantina e cercò il rettangolo che aveva rimosso davanti alle vasche. Non cedeva. Il medico andò nel punto in cui aveva lasciato la borsa degli attrezzi, prese uno scalpello e cominciò a forzarlo. Al di sotto era ancora visibile il cemento liscio, ma non c'era più traccia di botole o aperture. Nessuna buca si spalancò davanti agli occhi del signor Ward, che aveva seguito il dottore nello scantinato: sotto il rettangolo rimosso c'era soltanto una liscia superficie di cemento, ma niente pozzo e niente regno sotterraneo degli orrori; e di conseguenza niente biblioteca nascosta, niente carte di Curwen, niente abissi d'incubo da cui si levassero urla di mostri o fetori; niente laboratorio, scaffali, formule graffite sulle pareti. Niente... Il dottor Willett impallidì e strinse il braccio dell'uomo più giovane. «Ieri» chiese a bassa voce «tu hai visto che c'era? Hai sentito l'odore?» Quando il signor Ward, lui stesso inchiodato dal timore e dalla sorpresa, trovò la forza di annuire affermativamente, il medico uscì in un suono che era per metà un sospiro e metà un gemito, annuendo a sua volta. «Allora senti» cominciò. Per circa un'ora, nella stanza più soleggiata che trovarono al piano superiore, il medico intrattenne il padre trepidante con il racconto della sua terribile avventura. Arrivato al punto in cui una forma nero-verdastra si era materializzata dietro la cortina di vapori che usciva dal kylix non ci fu altro da dire, e del resto Willett era troppo stanco per domandarsi che cosa fosse avvenuto realmente. Entrambi scossero la testa e il signor Ward azzardò un suggerimento a bassa voce: «Credi che servirebbe a qualcosa scavare?». Il medico rimase in silenzio, perché sembrava addirittura fuori luogo che gli esseri umani passassero all'azione contro potenze che appartenevano alle sfere dell'ignoto, e che varcando l'abisso si erano installate con tanta prepotenza nel nostro mondo. Di nuovo il signor Ward chiese: «Dov'è andato a finire? Quell'essere ti ha portato qui e in qualche modo ha sigillato l'apertura». Willett lasciò di nuovo che il silenzio parlasse per lui. Ma non era ancora la fine del caso. Infilando la mano in tasca per prendere il fazzoletto, e prima d'alzarsi, Willett strinse le dita intorno a un pez-
zo di carta che prima non c'era, e che si era infilato tra le candele e i fiammiferi prelevati nel sotterraneo svanito. Era un pezzo di carta qualsiasi, ovviamente strappato dal taccuino che si trovava nella favolosa camera sotterranea, e la scrittura era il prodotto di una comunissima matita, senz'altro quella che si trovava accanto al taccuino. Il foglio era piegato senza cura, e a parte l'odore acre che lo impregnava come tutto ciò che si trovava nel sotterraneo, recava soltanto un breve messaggio. Il testo, tuttavia, aveva dello stupefacente: non era composto nel corsivo di un'età illuminata ma nell'elaborata grafia del medioevo, l'età oscura, e risultava quasi illeggibile agli uomini che l'avevano sotto gli occhi. Nonostante questo, era ricco di sfumature e combinazioni che rimandavano a qualcosa di vagamente familiare. Il mistero del breve messaggio scritto a matita indusse i due uomini, sconvolti, a prendere una decisione immediata: abbandonare la casa e chiedere all'autista di portarli prima in un tranquillo ristorante, poi alla John Hay Library, la biblioteca che sorge in cima alla collina. Il messaggio era questo:
In biblioteca non fu difficile trovare dei buoni manuali di paleografia, sui quali i due uomini si interrogarono finché, a sera, non fu acceso il grande lampadario. Infine trovarono ciò che occorreva: le lettere non erano un'invenzione fantastica, ma la scrittura normale di un periodo buio. In particolare si trattava dello spigoloso corsivo sassone dell'ottavo o nono secolo dell'era volgare, un tempo dimenticato in cui, sotto una mano superficiale di cristianesimo, antiche fedi e antichi riti proliferavano instancabilmente, e la pallida luna d'Inghilterra contemplava gli strani atti che a volte venivano compiuti fra le rovine romane di Caerleon ed Hexham, o presso le torri crollanti del vallo di Adriano. Il testo era redatto nel latino di quella barbara era: "Corvinus necandus est. Cadaver aq(ua) forti dissolvendum, nec aliq (ui)d retinendum. Tace ut potes". Una traduzione approssimativa era questa: "Curwen deve essere ucciso. Il cadavere deve essere dissolto nell'acido e niente deve esserne conservato. Mantieni il segreto più che puoi". Willett e il signor Ward erano muti e stupefatti. Si trovavano di fronte
all'ignoto e scoprirono che non esistevano emozioni adatte a esprimerlo, come invece avevano sempre creduto. In Willett, in particolare, la capacità di provare paura era quasi esaurita ed entrambi rimasero immobili e in silenzio finché la chiusura della biblioteca li costrinse ad uscire. Andarono in macchina a casa Ward, in Prospect Street, e rimasero a parlare tutta la notte senza giungere ad alcuna conclusione. Verso l'alba il medico riposò un poco, ma senza andare a casa; a mezzogiorno di domenica era ancora lì quando arrivò la telefonata dei detective incaricati di sorvegliare il dottor Allen. Il signor Ward, che passeggiava nervosamente in vestaglia, rispose alla chiamata personalmente e disse agli uomini di venire la mattina dopo, sul presto perché era ansioso di sentire il rapporto. Sia Willett che Ward erano lieti che questa parte del caso stesse assumendo una forma definita, perché qualunque fosse l'origine dello strano messaggio in caratteri medievali sembrava certo che il "Curwen" che doveva essere distrutto fosse l'uomo con la barba e gli occhiali. Charles lo aveva temuto e nella sua ultima lettera aveva affermato che bisognava ucciderlo e dissolverne il corpo nell'acido; Allen, inoltre, aveva ricevuto una serie di lettere dai maghi che agivano in Europa e indirizzate a lui sotto il nome di Curwen: certo si considerava un avatar del negromante scomparso. Ora, da una fonte nuova e sconosciuta, giungeva un messaggio secondo il quale "Curwen" doveva essere ucciso e dissolto nell'acido. Era un collegamento troppo importante per essere trascurato, e come se non bastasse Allen aveva progettato di uccidere Charles Ward sotto il consiglio dell'essere chiamato Hutchinson. Ovviamente la lettera che Willett e il signor Ward avevano intercettato non aveva mai raggiunto lo straniero con la barba, ma dal testo si deduceva che Allen aveva già fatto piani per liquidare il giovane se fosse diventato troppo "schizzinoso". Senza dubbio Allen doveva essere bloccato, e anche se non si fossero prese misure estreme bisognava confinarlo in un luogo da cui non potesse nuocere a Charles Ward. Quel pomeriggio, sperando contro ogni speranza di ricavare altre informazioni dall'unico che era in grado di fornirne, il padre e il medico scesero verso il porto e fecero visita al giovane Charles, in clinica. Con semplicità e in tono grave Willett informò il paziente di tutto ciò che aveva scoperto, notando come impallidisse ogni volta che un nuovo particolare lo rendeva certo dell'autenticità di quel che gli diceva. Il medico adoperò tutti gli artifici retorici di cui era capace e scrutò il volto di Charles per vedere come avrebbe reagito quando gli avesse parlato dei pozzi coperti e degli ibridi
senza nome che li abitavano. Ma Ward non fece una piega, e dopo una pausa Willett riprese, in tono indignato, che quelle creature morivano di fame; trattava il giovane con incredibile durezza, e tuttavia si vide rivolgere una risata sardonica che gli mise i brividi. Dopo aver abbandonato la finzione che il sotterraneo non esistesse affatto (una posizione ormai inutile), Charles sembrava aver trovato una vena comica nella faccenda e ridacchiava, divertito, fra sé. Poi sussurrò, con voce tanto più terribile per il tono bassissimo in cui si esprimeva: «Maledette, ma sì che mangiano. Eppure non ne hanno alcun bisogno, è questo il bello! Un mese senza cibo, dice? Davvero, signore, lei è un pio! Sa, fu proprio questo che perdette il vecchio Whipple: era un'anima piena di virtuose preoccupazioni! Ammazzarle, dice? Dannazione, Whipple era mezzo sordo per il rumore che veniva dall'Altrove e non vide o sentì quello che accadeva nei pozzi. Non lo immaginava neppure, che fossero lì dentro! Che il diavolo vi porti, quelle cose maledette si lamentano laggiù da quando Curwen fu liquidato centocinquant'anni fa!». Willett non poté ottenere dal giovane altro che questo, Atterrito, e ormai quasi convinto suo malgrado, continuò a raccontare la sua odissea nella speranza che un puro caso permettesse all'ascoltatore di uscire dal folle atteggiamento in cui s'era rifugiato. Guardando in faccia il giovane, il medico non poté fare a meno di provare una sorta di terrore per i cambiamenti che si erano verificati negli ultimi mesi. Era vero, il ragazzo aveva tratto dai cieli orrori senza nome. Quando Willett parlò della stanza con le formule e la polvere verdastra, Charles mostrò i primi segni di animazione: nel sentire ciò che il dottore aveva letto sul taccuino assunse un'espressione di dubbio e affermò con una certa noncuranza che si trattava di vecchi appunti, privi di significato per chiunque non fosse iniziato alla storia della magia. «Del resto» aggiunse «se lei avesse conosciuto le parole che evocano ciò che ho conservato nella coppa, ora non sarebbe qui a parlarne. Era il numero 118, e credo che se avesse letto il catalogo che conservo nell'altra camera le si sarebbe gelato il sangue. Neppure io l'ho mai evocato, ma volevo farlo il giorno che siete venuti a invitarmi qui.» Willett non nascose di aver recitato la formula e di aver visto un'apparizione nel fumo nero-verdastro; allora, per la prima volta, la paura apparve sul volto di Charles Ward. «Dunque è venuto e lei è qui vivo?» La voce fessa sembrò prima soffocarlo, poi sprofondare a un livello incomprensibile. Willett ebbe un lampo di ispirazione e credette di aver capito come stessero le cose. A memoria citò l'avvertimento contenuto nella lettera: «Il
numero 118, dici? Non dimenticare che le lapidi sono ormai cambiate in nove camposanti su dieci. Non si è mai sicuri, prima di averli interrogati!». Poi, senza preavviso, estrasse il messaggio in caratteri medievali e lo fece passare davanti agli occhi del paziente. Non avrebbe potuto sperare in un risultato più violento, perché Charles Ward svenne. Tutta la conversazione, naturalmente, si era svolta nella massima segretezza, in modo che gli alienisti della clinica non potessero accusare il padre e il medico di famiglia di incoraggiare il folle nelle sue illusioni. Il dottor Willett e il signor Ward raccolsero il giovane senza l'aiuto di inservienti e lo adagiarono sul lettino. Mentre si riprendeva il paziente mormorò più volte che aveva qualcosa da riferire con urgenza a Orne e Hutchinson, e quando sembrò che avesse ripreso totalmente coscienza il medico gli disse che almeno uno di quei personaggi era un suo terribile nemico e aveva consigliato al dottor Allen di assassinarlo. Questa rivelazione non ebbe alcun effetto, e già prima che venisse pronunciata il malato aveva assunto l'aspetto di un uomo braccato. Dopo le ultime parole Charles si chiuse in un completo mutismo e Willett e il signor Ward decisero di andarsene. Ancora una volta misero in guardia il giovane dal barbuto dottor Allen, ma il paziente replicò che ormai non c'era più nulla da temere e che non avrebbe potuto fargli del male nemmeno se avesse voluto. Ward accompagnò queste ultime parole con un sogghigno che per gli altri due fu doloroso; quanto alla possibilità che Charles potesse comunicare con la pericolosissima coppia in Europa, né il padre né il medico si preoccuparono eccessivamente: la direzione della clinica controllava tutta la posta in partenza, la censurava e non avrebbe inoltrato nessuna lettera fuori del comune. La vicenda di Orne e Hutchinson offre tuttavia un curioso strascico, ammesso che si trattasse effettivamente di loro; spinto da un vago presentimento che s'era fatto strada fra le mille orribili sensazioni di quel periodo, Willett prese accordi con un'agenzia internazionale di ritagli dalla stampa per essere informato su crimini notevoli o altri incidenti che potessero verificarsi a Praga e nella Transilvania orientale, e in capo a sei mesi ritenne di aver trovato, tra i numerosi articoli che gli venivano recapitati e che aveva tradotto, due pezzi molto interessanti. Uno riguardava la totale demolizione - di notte e nel più antico quartiere di Praga - di una casa privata il cui vecchio e malvagio inquilino, un certo Josef Nadek, era scomparso dopo aver vissuto da solo per più tempo di quanto la gente riuscisse a ricordare. L'altro articolo riguardava un'immane esplosione nei monti della
Transilvania a est di Rakus e la completa distruzione del temuto castel Ferenczy, durante la quale si ritenevano periti tutti gli occupanti. Il proprietario del castello, del resto, era così malvisto dai contadini e dai soldati della milizia che tra breve avrebbe dovuto recarsi a Bucarest per rispondere a una severa inchiesta. Naturalmente l'incidente aveva posto fine alla carriera del castellano, più lunga di quanto la memoria comune riuscisse a ricordare. Willett ritiene che la mano che aveva scritto il biglietto in caratteri medievali fosse in grado di brandire le armi più potenti, e che, mentre aspettava di liquidare Curwen in persona, avesse distrutto Orne e Hutchinson. Sul loro destino il medico preferisce, saggiamente, non fare supposizioni. 6 La mattina dopo il dottor Willett si affrettò a casa dei Ward per essere presente all'arrivo dei detective. Sentiva che la distruzione o l'imprigionamento di Allen (alias Curwen, se bisognava credere alle sue tacite pretese di reincarnazione) era un'impresa in cui bisognava riuscire a ogni costo, e mentre aspettavano l'arrivo degli uomini Willett espose questa convinzione al signor Ward. Stavolta si trovavano al piano terra, perché le parti superiori della casa venivano evitate a causa delle orribili e indefinite sensazioni che vi aleggiavano; sensazioni che i servitori più vecchi collegavano a una maledizione scatenata dall'antico ritratto di Curwen. Alle nove arrivarono i tre agenti e in poche parole fecero rapporto. Purtroppo non erano riusciti a rintracciare il misterioso Tony Gomes, e neppure avevano trovato la minima traccia sulla provenienza o l'attuale nascondiglio del dottor Allen; in compenso avevano raccolto una certa quantità di aneddoti e impressioni locali sull'elusivo forestiero. Secondo la gente di Pawtuxet Allen era un individuo decisamente anormale, e la convinzione generale era che la folta barba color sabbia fosse tinta o posticcia; questa opinione era stata provata dalla scoperta di una barba finta, insieme a un paio di occhiali scuri, nella sua stanza al bungalow. La voce del misterioso personaggio, come il signor Ward confermò in base all'unica conversazione telefonica che aveva avuto con Allen, possedeva una profondità e un timbro roco che non era facile dimenticare. Lo sguardo pareva maligno anche attraverso gli occhiali affumicati dalla montatura di corno. Un negoziante che aveva visto un campione della sua scrittura durante una trattativa la definì eccentrica e contorta; questo particolare fu confermato dalle
note scritte a matita, di non chiaro significato, che erano state trovate nella sua stanza e riconosciute dal negoziante. Quanto ai casi di vampirismo dell'estate precedente, la maggior parte della gente riteneva che il vero responsabile fosse Allen e non Ward. Per finire, i detective avevano ottenuto una serie di dichiarazioni dai funzionari che avevano perlustrato il bungalow dopo lo spiacevole incidente del furto al camion. I funzionari in questione non avevano alcun interesse a giudicare Allen una figura sinistra, ma avevano riconosciuto in lui la figura dominante del bizzarro terzetto. Il cottage era troppo immerso nell'ombra per veder chiaro, ma se avessero rivisto Allen l'avrebbero senz'altro riconosciuto: la barba aveva un aspetto strano e pensavano che sull'occhio destro, protetto dalla lente affumicata, ci fosse comunque una leggera cicatrice. I detective, come si è detto, avevano ispezionato la stanza dell'indiziato ma avevano trovato solo la barba finta, gli occhiali e alcune note scritte a matita in una grafia contorta. Willett osservò che la scrittura era identica a quella dei vecchi manoscritti di Curwen e dei recenti, voluminosi appunti del giovane Ward che aveva scoperto nelle catacombe. Man mano che le informazioni prendevano corpo il dottor Willett e il signor Ward provarono un brivido di paura crescente, universale; e nel seguire la vaga, assurda linea di pensiero che era nata simultaneamente nelle loro menti furono scossi da un tremito. La barba finta e gli occhiali... la grafia contorta di Curwen... il vecchio ritratto e la minuscola cicatrice... il giovane in clinica, trasformato e con un'identica cicatrice... La voce profonda e rauca al telefono: non era quella che il signor Ward aveva riconosciuto il giorno che suo figlio si era espresso per la prima volta in quel tono pietoso, a cui fingeva di essere costretto da una malattia? Chi aveva mai visto Charles e il dottor Allen insieme? Sì, i funzionari venuti a ispezionare il bungalow li avevano visti entrambi, ma poi? Non era stato subito dopo la scomparsa di Allen che Charles aveva manifestato le sue terribili paure e aveva preso l'abitudine di vivere sempre al bungalow? Curwen, Allen, Ward... in che modo abominevole si erano fuse due epoche e due personalità? La maledetta somiglianza fra Charles e l'uomo del quadro... l'uomo che guardava, guardava instancabilmente dalla tela e seguiva il ragazzo con gli occhi, in tutta la stanza... E perché sia Allen che Charles avevano imitato la grafia di Joseph Curwen anche quando erano soli, non certo sul chi vive? Quanto alle loro opere mostruose... il sotterraneo degli orrori che aveva fatto invecchiare il medico in una sola notte, i mostri affamati che urlavano nei pozzi, la formula agghiacciante che aveva provo-
cato un risultato incomprensibile, il testo in caratteri medievali trovato nella tasca di Willett, i documenti, le lettere e tutti i discorsi di tombe, "sali" e scoperte... Dove conduceva tutto questo? Alla fine il signor Ward fece la cosa più ragionevole, e, cercando di non pensare al motivo che lo guidava, consegnò ai detective un ritaglio di giornale che avrebbero dovuto mostrare ai negozianti di Pawtuxet, o almeno a quelli che conoscevano personalmente il dottor Allen. L'articolo era corredato da una fotografia del suo sfortunato figliolo, su cui il padre disegnò con l'inchiostro un paio di occhiali scuri e una barba nera, appuntita, simile a quella che gli agenti avevano trovato in camera di Allen. Per due ore il padre e il dottore aspettarono nella casa opprimente dove la paura e l'alito del passato si addensavano sempre più fitti, e nella biblioteca al piano superiore il pannello su cui una volta spiccava il quadro di Curwen sembrava beffarsi di tutto. Poi gli agenti tornarono: sì, la fotografia truccata era un passabile ritratto del dottor Allen. Il signor Ward impallidì e Willett si asciugò col fazzoletto la fronte imperlata di sudore. Allen, Ward, Curwen... diventava tutto troppo orribile per mantenere i nervi saldi. Cosa aveva evocato Charles Ward dall'abisso, e quale prezzo aveva dovuto pagare? Cosa era successo dall'inizio del dramma a oggi? Chi era Allen, l'essere che voleva uccidere Charles perché "troppo sensibile"? Perché la vittima destinata aveva aggiunto - nel poscritto a una lettera buttata giù in preda al terrore - che il corpo di Allen doveva essere disciolto nell'acido? E ancora: perché il messaggio in caratteri medievali, sulla cui origine nessuno osava fare ipotesi, sosteneva che "Curwen" doveva essere annientato nello stesso modo? Quando si era verificato il cambiamento, e quando era sopravvenuto l'ultimo stadio? Il giorno in cui aveva scritto la lettera disperata Charles era stato nervoso tutta la mattina, poi c'era stato un mutamento. Era uscito senza farsi vedere e con notevole audacia l'aveva fatta in barba agli uomini pagati per sorvegliarlo: era dunque quello il momento. No, impossibile... quando era tornato nello studio - la stanza in cui Willett e gli altri si trovavano adesso - aveva urlato di terrore. Che cosa aveva visto? O meglio, cosa aveva visto lui? E che pensare del simulacro che aveva fatto ritorno baldanzosamente in casa senza che nessuno l'avesse visto uscire? Non era l'ombra di un estraneo, un orrore che si era sostituito all'essere tremante di Charles Ward, il quale invece non era uscito affatto? E il maggiordomo, non aveva parlato di strani rumori? Willett suonò per chiamarlo e gli rivolse alcune domande a bassa voce. Certo, era stato un brutto affare. Si erano sentiti un grido, un gemito, un
suono strozzato e poi una specie di battito, di tonfo o cigolìo, o forse tutti e tre. No, il signor Charles non era più lo stesso quando era uscito senza dire una parola. Mentre parlava il maggiordomo rabbrividì e respirò l'aria pesante che veniva da una finestra aperta ai piani superiori. Il terrore era sceso sulla casa e solo i detective, presi dai loro problemi, non ne erano completamente prigionieri, ma anche loro sembravano inquieti. Lo sfondo del caso era ricco di elementi sinistri che non piacevano nemmeno a quegli uomini. Il dottor Willett rifletté profondamente e in fretta, e i suoi pensieri erano terribili. Ogni tanto, quando risolveva una nuova e spaventosa catena di dubbi dava in un borbottìo che anche gli altri potevano sentire. Poi il signor Ward segnalò che la riunione era finita e tutti, tranne il dottore, lasciarono la stanza. Era mezzogiorno, ma la casa ossessionata dai fantasmi sembrava avvolta dalle ombre della notte. Willett parlò seriamente al suo ospite, consigliandogli di lasciare a lui l'onere di indagini future; era facile prevedere che sarebbero seguiti fatti poco piacevoli e che un amico li avrebbe tollerati meglio di un parente. Come medico di famiglia Willett doveva avere mano libera e la prima cosa che chiese fu di trascorrere un po' di tempo, solo e indisturbato, nella biblioteca al piano superiore, dove intorno al vecchio fregio s'era addensata un'aura di paura più terribile di quando il ritratto di Joseph Curwen aveva dominato la stanza col suo sguardo obliquo. Il signor Ward, confuso dalle rivelazioni fantastiche e dalle pazzesche congetture che lo bersagliavano da ogni parte, non poté che accondiscendere; mezz'ora dopo il medico era chiuso a chiave nella stanza che tutti evitavano, in compagnia del fregio recuperato in Olney Court. Il padre, che dall'esterno sentiva qualche rumore, col passare del tempo riconobbe i tipici movimenti di chi è alla ricerca di qualcosa e si muove instancabilmente; quindi, da ultimo, uno scossone e un cigolìo, come la porta di una credenza che venisse spalancata. Seguì un grido soffocato, una specie di gemito strozzato e l'immediato richiudersi di ciò che era stato aperto. La chiave girò nella toppa un attimo dopo e Willett apparve in corridoio, pallido ed emaciato, chiedendo legna per il camino autentico che si trovava sulla parete sud della stanza. Il riscaldamento centrale non era sufficiente, e il caminetto elettrico non serviva granché. Il signor Ward, che desiderava ma non osava far domande, diede gli ordini del caso e un servitore portò dei robusti ceppi di pino, che sistemò dietro l'apposita grata del camino. L'aria soffocante della biblioteca lo fece tremare. Nel frattempo, Willett era andato nel laboratorio smantellato e aveva preso vari attrezzi non a-
sportati nel trasloco del luglio precedente. Si trovavano in un cesto coperto e il signor Ward non seppe mai di che cosa si trattasse. Poi il medico si chiuse ancora una volta in biblioteca, e dalle nuvole di fumo che scendevano dalla canna fumaria verso le finestre tutti seppero che aveva acceso il fuoco. Più tardi, dopo un gran rumore di giornali appallottolati, si sentirono di nuovo lo scossone e il cigolìo del mobile, seguiti da un tonfo che non piacque a nessuno degli ascoltatori. Quindi due grida soffocate, e immediatamente un rumore sgradevole di carta calpestata. Infine il fumo spinto in basso dal vento si fece nero e acre, e tutti desiderarono di non aver mai sentito quell'orribile miscuglio di esalazioni. Al signor Ward girava la testa e i servitori si aggrappavano gli uni agli altri per sopportare lo spettacolo dell'orrendo fumo nero. Dopo quello che sembrò un secolo i vapori si diradarono e dietro la porta chiusa fu possibile udire il suono quasi impercettibile di Willett che grattava, scopava e faceva altre operazioni minori. Finalmente, dopo aver richiuso lo sportello di una credenza, il medico fece la sua apparizione: triste, pallido, sparuto e con in mano il cesto coperto da un panno che aveva prelevato dal laboratorio nell'attico. Adesso la finestra dello studio era aperta, e nella stanza un tempo maledetta si riversava in abbondanza l'aria pura, sana, che andava a mescolarsi con un nuovo e strano odore di disinfettanti. L'antico fregio sul camino era ancora al suo posto, ma ormai sembrava privo dell'aura malefica e i pannelli bianchi avevano un aspetto inoffensivo e solenne, come se non avessero mai sopportato il ritratto di Joseph Curwen. Calava la sera, ma questa volta le ombre non contenevano terrori inspiegabili: solo una dolce malinconia. Di ciò che aveva fatto il dottore non avrebbe mai parlato. Al signor Ward disse: «Non posso rispondere a nessuna domanda, ma dirò che esistono diversi tipi di magia. Ho compiuto una grande purificazione, e gli abitanti di questa casa staranno meglio». 7 La "purificazione" era stata per Willett una prova quasi altrettanto snervante del vagabondaggio nei sotterranei: e quella sera, non appena giunto a casa sua, il vecchio medico crollò esausto. Per tre giorni rimase chiuso nella propria stanza, anche se i servitori mormorarono di averlo sentito uscire dopo la mezzanotte di mercoledì, quando la porta di casa si aprì e si chiuse con estrema discrezione. Per fortuna l'immaginazione dei domestici è limitata, o un articolo pubblicato il giovedì sull'"Evening Bulletin" avrebbe su-
scitato non pochi commenti. Il testo era: ANCORA IN AZIONE I PROFANATORI DI NORTH END Dopo un intervallo di dieci mesi dallo scandaloso vandalismo perpetrato nel lotto dei Weeden al North Burial Ground, questa mattina presto un visitatore inatteso è stato scorto nello stesso cimitero dal guardiano notturno, Robert Hart. Verso le due antimeridiane Hart ha guardato accidentalmente fuori del suo capanno e ha scorto il bagliore di una lanterna o torcia tascabile a non molta distanza, in direzione nordovest; aperta la porta, ha scorto la figura di un uomo con un badile, ben delineato sullo sfondo di una vicina lampada elettrica. Datosi immediatamente all'inseguimento, Hart ha visto lo sconosciuto dirigersi verso l'ingresso principale, guadagnare la strada e perdersi tra le ombre prima che fosse possibile avvicinarlo e catturarlo. Come il primo dei profanatori che hanno agito nell'ultimo anno, l'intruso non è riuscito a fare alcun danno. In una zona vacante del lotto Ward si notano segni di un leggero scavo in superficie, ma niente di lontanamente simile alle dimensioni di una tomba. Nessun'altra sepoltura è stata disturbata. Hart, che non è in grado di fornire un'esatta descrizione dell'intruso a parte il fatto che si trattava di un uomo piccolo, probabilmente con la barba, ritiene che i tre incidenti avvenuti nel cimitero siano della stessa matrice; la polizia del secondo distretto, tuttavia, non è d'accordo e sottolinea la natura più grave del secondo incidente, in cui un'antica bara è stata rimossa e la lapide disastrosamente danneggiata. Il primo incidente della serie, che si ritiene il tentativo fallito di seppellire un carico illecito, avvenne nel marzo dell'anno scorso ed è attribuito all'opera di contrabbandieri in cerca di un nascondiglio. Secondo il sergente Riley è possibile che anche questo nuovo tentativo sia dovuto alla stessa causa. Gli agenti del secondo distretto faranno ogni sforzo per catturare la banda di miscredenti responsabile delle ripetute violazioni. Il dottor Willett riposò per tutto il giovedì, cercando di riprendersi dalla prova che aveva superato o preparandosi a quella che lo attendeva. A sera scrisse al signor Ward una lettera che fu consegnata il mattino dopo, e che indusse lo stupefatto genitore a riflettere a lungo e profondamente. Il si-
gnor Ward non andava in ufficio dal lunedì precedente, il giorno delle inquietanti rivelazioni e della terribile cerimonia di "purificazione", cui era seguito per tutti uno shock; e nonostante il dolore che sembrava promettere e i nuovi misteri che evocava, la lettera del dottor Willett gli diede una certa pace. 10 Barnes St., Providence, R.I. 12 aprile 1928 Caro Theodore, credo di doverti dire una parola prima di fare ciò che farò domani. Sarà la conclusione della terribile avventura attraverso la quale siamo passati, poiché credo che nessuna opera di scavo potrà riportare alla luce il sotterraneo mostruoso di cui sappiamo, e sento che la tua mente non sarà tranquilla fino a quando non ti avrò chiarito in che senso questa è veramente la fine. Mi conosci da quando eri un bambino, perciò credo che non diffiderai di me se ti dico che alcuni particolari è meglio lasciarli nell'ombra e non insistere nel volerli chiarire. È senz'altro un bene che tu smetta di tormentarti sul caso di Charles, ed è fondamentale che a sua madre non riveli nulla più di quanto già sospetta. Quando domani verrò a trovarti Charles sarà fuggito dalla clinica, ed è tutto ciò che la gente dovrà sapere: era pazzo ed è fuggito. A sua madre parlerai con dolcezza e gradualmente della parte riguardante la follia: potrai farlo non appena smetterai di spedirle i biglietti a nome di Charles. Ti consiglio di raggiungerla ad Atlantic City e di concederti un periodo di riposo. Dio sa se dopo questo trauma ne hai bisogno, come del resto anch'io. Andrò a sud per un poco e cercherò di calmarmi, di riprendermi. Perciò non farmi domande quando verrò da te: può darsi che qualcosa vada storto, ma in tal caso te lo dirò e francamente non credo che avverrà. In quel momento non ci sarà niente di cui preoccuparsi, perché Charles sarà molto al sicuro. Fin d'ora è più al sicuro di quanto non immagini. Per ciò che riguarda Allen, chiunque o qualunque cosa sia, non devi temerlo: appartiene al passato come il quadro di Joseph Curwen, e quando suonerò alla tua porta potrai star certo che quella persona non esiste più. Né l'autore del messaggio medievale disturberà più te o i tuoi. Tuttavia devi farti forza contro la melanconia, e preparare tua moglie a
far lo stesso. Confesso che la fuga di Charles non significherà la sua restituzione a voi; tuo figlio è stato colpito da una malattia particolare, come ti sarai reso conto dai sottili cambiamenti fisici e mentali che sono avvenuti in lui, e non devi sperare di vederlo ancora. Abbi questa sola consolazione: non è mai stato un malvagio e neppure veramente un pazzo, ma solo un giovane curioso, studioso e assetato di conoscenza, il cui amore del mistero e del passato ne ha causato la rovina. Si è imbattuto in cose che non sono fatte per la conoscenza dei mortali e si è spinto indietro nel tempo come nessuno dovrebbe spingersi: qualcosa è uscito dal passato e lo ha sopraffatto. Ma ora viene il punto in cui devo chiederti di fidarti di me assolutamente, perché sul destino di Charles non vi sarà alcuna incertezza. Fra circa un anno, se ne sentirai il bisogno, potrai darti una logica spiegazione della sua fine: il ragazzo, infatti, sarà morto. Potrai mettere una lapide nel tuo lotto al North Burial Ground a tre metri e mezzo esatti da quella di tuo padre, in direzione ovest e rivolta dalla stessa parte: essa segnerà l'effettivo luogo di riposo di tuo figlio. Non devi assolutamente temere che la lapide ricopra un essere anormale o un sostituto; le ceneri nella tomba saranno quelle del sangue del tuo sangue, delle ossa delle tue ossa... Del vero Charles Dexter Ward, sulla cui anima hai vegliato dall'infanzia, l'autentico Charles con la voglia d'oliva sulla natica e senza il marchio della strega sul petto o la cicatrice sulla fronte. Il Charles che non ha mai fatto male a nessuno e che avrà pagato con la vita il suo essere stato "troppo sensibile". Questo è tutto. Charles fuggirà dalla clinica e fra un anno potrai erigere la sua lapide. Domani non farmi domande, ma credi che l'onore della tua vecchia famiglia rimarrà senza macchia come è sempre stato. Con la più profonda simpatia, e con esortazioni di forza, calma e rassegnazione, rimango come sempre il tuo amico Marinus B. Willett Così, la mattina di venerdì 13 aprile 1928 Marinus Bicknell Willett visitò la stanza di Charles Dexter Ward nella clinica del dottor Waite, sulla Conanicut Island. Il giovane, che pure non fece alcun tentativo di eludere il suo visitatore, era di umore tetro e non pareva incline a cominciare la conversazione che Willett ovviamente desiderava. La scoperta del sotterraneo da parte del medico e la terribile esperienza che aveva vissuto laggiù aveva creato, come è ovvio, una nuova fonte di imbarazzo, in modo che dopo un primo scambio di formalità piuttosto tese, entrambi esitarono visibilmente.
Poi si insinuò fra i due un nuovo elemento di tensione, perché sul volto del dottore, simile a una maschera, Ward lesse un terribile proposito che prima non aveva mai visto. Il paziente si ritirò in se stesso, consapevole che nel tempo trascorso dall'ultima visita c'era stato un cambiamento in virtù del quale il sollecito medico di famiglia aveva ceduto il posto a un vendicatore spietato e implacabile. Ward impallidì e il dottor Willett fu il primo a parlare. «Abbiamo scoperto altre cose» disse «e devo avvertirti francamente che questa è la resa dei conti.» «Hai scavato di nuovo e hai trovato qualche altro cucciolo affamato?» fu l'ironica risposta. Era evidente che il giovane voleva mostrarsi spavaldo fino all'ultimo. «No» aggiunse lentamente Willett «questa volta non c'è stato bisogno di scavare. Abbiamo mandato degli uomini a cercare il dottor Allen e nella sua stanza, al bungalow, hanno trovato la barba finta e gli occhiali.» «Ottimo» commentò l'ospite inquieto, sforzandosi di riuscire insultante e ironico nello stesso tempo. «Spero che ti stessero meglio della barba e gli occhiali che hai adesso!» «A te sarebbero stati bene senz'altro» fu la risposta calma e studiata. «Anzi, direi che questo è un fatto già provato.» Non appena Willett disse queste parole, sembrò che una nuvola oscurasse il sole; eppure, le ombre proiettate sul pavimento non cambiarono affatto. Ward azzardò: «Ed è per questo che parli di resa dei conti? E se un uomo avesse bisogno, di tanto in tanto, di recitare una parte?». «No» disse Willett gravemente «sbagli ancora. Non è affar mio se un uomo cerca di impersonarne due: a patto però che abbia il diritto di esistere, e che non abbia ucciso chi l'ha evocato dallo spazio.» Ward trasalì violentemente. «Ebbene, signore, che cosa avete scoperto e cosa volete da me?» Il medico lasciò passare qualche attimo prima di parlare, come se cercasse le parole per una risposta efficace. «Ho scoperto» intonò finalmente «qualcosa che avevi nascosto in un armadio, dietro un vecchio fregio che un tempo ospitava un quadro; ho bruciato e sappellito le ceneri di quella cosa, e ora si trova dove un giorno sorgerà la tomba di Charles Dexter Ward.» Il pazzo emise un suono strozzato e balzò dalla sedia: «Dannato, a chi l'hai detto? Nessuno crederà che fosse Charles, dopo
ben due mesi... e poi, io sono vivo. Cosa intendi fare?». Benché Willett fosse un uomo piccolo, calmò il paziente con un gesto che gli conferì una sorta di maestà regale. «Non l'ho detto a nessuno. Questo non è un caso comune, è follia liberata dalle pieghe del tempo, un orrore che proviene da oltre l'universo conosciuto. Non ci sono polizia, avvocati o tribunali, e tantomeno alienisti, che possano misurarsi con una forza del genere. Grazie a Dio in me è rimasta una scintilla d'immaginazione, quindi riesco a pensarci senza impazzire. Non puoi ingannarmi, Joseph Curwen, perché so che la tua maledetta magia è autentica! «So che hai tessuto l'incantesimo che tramavi da secoli e l'hai gettato sul tuo doppio e i tuoi discendenti; so in che modo hai attirato Charles nel passato e l'hai indotto a resuscitarti dalla tua detestabile tomba; so come egli ti nascondesse nel suo laboratorio, mentre tu studiavi il sapere moderno e di notte uscivi come un vampiro, e per finire so che in seguito hai adottato il travestimento della barba e degli occhiali perché nessuno si meravigliasse della vostra innaturale somiglianza. So che cosa decidesti quando egli si oppose al tuo mostruoso saccheggio delle tombe del mondo e a ciò che avevi progettato per dopo. So come hai fatto tutte queste cose. «Ti sei tolto la barba e gli occhiali e hai ingannato gli agenti che sorvegliavano la casa. Tutti pensarono che fosse Charles che entrava e usciva dopo che lo avesti strangolato e nascosto nell'armadio. Ma non hai tenuto conto che le vostre menti sono diverse; sei stato uno stupido, Curwen, a immaginare che la semplice identità fisica bastasse ai tuoi piani. Perché non hai pensato al modo di esprimersi, alla voce, alla grafia? Dopotutto, come vedi, non ha funzionato. Tu sai meglio di me chi o che cosa ha scritto il messaggio in caratteri medievali, ma t'avverto che non è stato scritto invano. Ci sono blasfemie, abominii che devono essere cancellati, e io credo che l'autore di quelle parole si occuperà di Orne e Hutchinson. Uno di quegli infami ti scrisse una volta di non evocare nessuna cosa che tu non possa rispedire di dov'è venuta. Sei stato sconfitto già una volta, forse proprio in questo modo, e può darsi che la tua magia ti perda ancora. Curwen, un uomo non può profanare la natura oltre certi limiti, e gli orrori che hai creato verranno a spazzarti via.» Ma qui il medico fu interrotto da un urlo convulso della creatura che gli stava davanti. Disperato, senza armi e sapendo che il ricorso alla violenza fisica avrebbe fatto accorrere una ventina di infermieri per dare man forte al dottore, Joseph Curwen era ricorso al suo unico e vecchio alleato, e con
la punta delle dita tracciò una serie di figure cabalistiche, mentre la voce profonda e risonante, ora non più nascosta dalla finta raucedine, tuonò le parole iniziali della terribile formula. PER ADONAI ELOIM, ADONAI JEHOVA, ADONAI SABAOTH, METRATON... Ma Willett fu più veloce di lui. Mentre i cani all'esterno cominciavano ad abbaiare e un vento gelido si alzava improvviso dalla baia, il dottore cominciò la solenne e misurata intonazione di ciò che fin dal primo momento si era proposto di recitare. Occhio per occhio, magia per magia, e che l'esito finale mostrasse come era stata imparata la lezione dell'abisso! Così, con voce chiara, Marinus Bicknell Willett cominciò la seconda delle due formule misteriose, la prima delle quali aveva risvegliato l'autore del messaggio in caratteri medievali; l'oscura invocazione il cui simbolo era la Coda di Drago, il segno discendente: OGTHROD AI'F GEB'L - EE'H YOG-SOTHOTH 'NGAH'NG AI'Y ZHRO! Quando la bocca di Willett pronunciò la prima frase, il paziente interruppe la sua. Incapace di parlare, il mostro fece alcuni movimenti disarticolati con le braccia, finché anch'esse si bloccarono. Quando venne pronunciato il nome spaventoso di Yog-Sothoth, cominciò l'orrenda trasformazione. Non fu semplicemente dissoluzione, ma piuttosto una trasformazione o ricapitolazione; Willett chiuse gli occhi per non svenire prima di aver pronunciato il resto dell'incantesimo. Ma non svenne, e quell'uomo venuto da secoli maledetti e padrone di segreti immondi non disgustò il mondo mai più. La follia sprigionata dalle pieghe del tempo si era placata, il caso di Charles Dexter Ward era chiuso. Aprendo gli occhi prima di uscire, tremante, dalla stanza dell'orrore, il dottor Willett si rese conto che ciò che aveva mandato a memoria aveva funzionato perfettamente. Proprio come aveva immaginato, non c'era stato bisogno di acidi: com'era accaduto un anno prima al quadro maledetto, Joseph Curwen giaceva sul pavimento, ridotto a un mucchietto di polvere
grigio-azzurrata. (The Case of Charles Dexter Ward, gennaio-marzo 1927) Il colore venuto dallo spazio "Ho appena scritto un nuovo racconto, uno studio d'atmosfera che le invierò non appena battuto a macchina. Si intitola The Colour Out of Space e racconta di un oggetto che cade dal cielo fra le colline a occidente di Arkham" (lettera a Clark Ashton Smith, 24 marzo 1927). "Ho finito un nuovo racconto che le manderò con la prossima lettera. A differenza del romanzo breve su Randolph Carter qui non ci sono pennellate poetiche: è una storia in gran parte realistica, ambientata tra le familiari colline 'a occidente di Arkham'. Un oggetto cade dal cielo diffondendo il terrore. La vicenda è raccontata da un vecchio quarant'anni dopo i fatti, e s'intitola The Colour Out of Space. È una cosa di media lunghezza, più o meno come Cthulhu" (lettera a Bernard Austin Dwyer, 26 marzo 1927). "Le accludo The Colour Out of Space, che potrà restituirmi quando vorrà. Probabilmente gli mancano unità e crescendo drammatico, ma d'altra parte va preso come uno studio d'ambiente e d'atmosfera più che come un "vero e proprio racconto" (a Clark Ashton Smith, 12 maggio 1927). Nonostante le pessimistiche valutazioni di Lovecraft, bisogna riconoscere che The Colour Out of Space (scritto immediatamente dopo The Case of Charles Dexter Ward) è uno dei suoi capolavori in assoluto. Non è difficile capire perché: qui non abbiamo un aggiornamento della famosa mitologia extraterrestre, ma il racconto è semplicemente uno dei più realistici, sapienti e controllati di Lovecraft, che si diffonde in un magistrale ritratto d'ambiente e nella credibile ricostruzione di una tragedia umana e naturale. Con le sue inesplicabili sventure, il minaccioso senso di ostilità che grava dal cielo, la solitudine maestosa e terrificante dell'ambiente, questo Colore che fa pensare ad Ambrose Bierce è un grande risultato narrativo non solo per Lovecraft (di cui rappresenta una personale elaborazione del libro di Giobbe) ma rimane, probabilmente, fra i più intensi racconti americani del periodo. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S.T. Joshi, che riproduce quello del manoscritto d'autore.
A occidente di Arkham le colline s'innalzano all'improvviso, tra valli e boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure: vi sono macchie strette e buie dove gli alberi si inerpicano in maniera fantastica e ruscelli che non hanno mai visto la luce del sole. Sui pendii più dolci sorgono antiche fattorie di pietra e tozzi cottage coperti di musco che meditano da secoli sui segreti del New England, al riparo di grandi costoni di roccia: si tratta, per la maggior parte, di costruzioni ormai disabitate, con grandi comignoli in rovina e i fianchi d'embrice pericolosamente gonfi sotto i tetti bassi a doppio spiovente. La gente che ci abitava è andata via, e ai forestieri quei posti non piacciono: ci hanno provato i franco-canadesi, gli italiani e i polacchi, ma come sono venuti così se ne sono andati. Il motivo non è qualcosa che si veda, si senta o che si possa toccare, ma anzi, qualcosa che si immagina soltanto, È una regione che non fa bene all'immaginazione, e di notte non procura sonni tranquilli. Dev'essere questo che tiene alla larga i forestieri, perché con loro il vecchio Ammi Pierce non ha mai aperto bocca su ciò che ricorda dei giorni terribili. Ammi, che da qualche anno non ha la testa del tutto a posto, è l'unico che ancora rimanga laggiù o che osi parlare dei giorni terribili, e se si azzarda a tanto è perché la sua casa è molto vicina ai campi aperti e alle arterie piene di traffico intorno ad Arkham. Una volta c'era una strada che attraversava le valli e le colline in linea retta, puntando dove ora si trova la landa folgorata, ma la gente ha smesso di usarla; perciò è stata preparata una nuova arteria, che gira intorno alla landa e piega molto a sud. Le tracce della via vecchia si notano ancora tra la vegetazione selvatica che riprende il sopravvento, e qualcuna resterà anche dopo che metà delle valli saranno inondate dalle acque del nuovo bacino. Allora i boschi oscuri verranno abbattuti, e la landa folgorata dormirà sotto acque azzurre la cui superficie specchierà il cielo increspandosi alla luce del sole. E i segreti di quei terribili giorni saranno tutt'uno con i segreti dell'abisso, tutt'uno con la sapienza occulta del vecchio oceano e i misteri della terra primitiva. Quando m'inoltrai tra valli e colline per un sopralluogo della zona, in vista del nuovo bacino, mi dissero che la regione era maledetta. Me lo dissero ad Arkham, e poiché è un'antica città ricca di leggende di stregoneria, pensai che il male a cui alludevano fosse uno degli spauracchi con cui le nonne avevano atterrito i bambini per secoli. Il nome "landa folgorata" mi sembrò strano e teatrale, e mi chiesi come fosse entrato nel folklore di quelle genti puritane. Poi vidi coi miei occhi quell'oscuro groviglio di
macchie e pendii che si stende verso occidente e smisi di farmi domande, tranne sull'antico mistero del luogo. Lo vidi di mattina, ma in quel posto le ombre sono eterne: gli alberi crescevano troppo addossati gli uni agli altri e i tronchi erano troppo grandi per un normale bosco del New England. Negli oscuri vialetti che li separavano c'era troppo silenzio, e il terreno era troppo morbido, per l'umidità del musco e l'accumulo di infiniti anni di corruzione. Negli spazi aperti, soprattutto lungo il tracciato della vecchia strada, si vedeva qualche piccola fattoria addossata ai fianchi delle colline: a volte con tutti gli edifici ancora in piedi, a volte solo uno o due, o addirittura un semplice comignolo e le fondamenta semi-allagate. Era il regno delle erbacce e della flora selvatica, e nel sottobosco correvano furtivi i più diversi animaletti; su tutto gravava un alone di inquietudine e d'oppressione, un tocco irreale e grottesco, come se un elemento fondamentale della prospettiva, o del gioco di luce, fosse sbagliato. Non mi stupì che i forestieri non volessero abitarci, perché non era una regione nella quale si potesse dormire volentieri. Somigliava troppo a un paesaggio di Salvator Rosa, a un'orribile incisione di un racconto del terrore. Ma nulla di tutto questo era pauroso come la vera e propria landa folgorata. Appena la vidi, in fondo a una valle spaziosa, capii che l'avevo di fronte: nessun altro nome avrebbe potuto adattarsi a un simile paesaggio, e nessun paesaggio avrebbe meglio meritato quel nome. Era come se un poeta avesse coniato la frase dopo aver visitato quella particolare regione. Nel vederla pensai che fosse il risultato di un incendio: ma com'era possibile che neanche un filo d'erba fosse ricresciuto sui cinque acri di grigia desolazione che si stendevano sotto il cielo come una cicatrice scavata dall'acido fra i boschi e i campi? Si trovava per lo più a nord dell'antico tracciato stradale, ma in minima parte debordava anche dall'altro lato. Nell'avvicinarmi sentii una strana riluttanza, e alla fine l'attraversai solo perché il mio lavoro mi costringeva a passarci e andare al di là. Per vasta che fosse, sulla distesa non c'era traccia di vegetazione: solo polvere grigia o ceneri che il vento sembrava incapace di disperdere nei dintorni. Gli alberi che la circondavano erano malati e contorti, e sull'orlo della landa si scorgevano parecchi tronchi morti o caduti e marcescenti. Affrettai il passo e alla mia destra vidi il cumulo di pietre e mattoni di un vecchio comignolo con le fondamenta di una casa: dalla nera apertura del pozzo abbandonato si alzavano vapori stagnanti che facevano strani scherzi alla luce del sole. Per contrasto, anche il lungo e oscuro pendio coperto di boschi che si stendeva ol-
tre mi parve il benvenuto, e cessai di stupirmi dei racconti terrorizzanti che si sussurravano ad Arkham. Nelle vicinanze non si scorgevano altre case o rovine: anche ai vecchi tempi il luogo doveva essere stato remoto e solitario. Al crepuscolo, temendo di ripassare nella landa minacciosa, scelsi la strada curva che si spinge a sud e preferii tornare in città per la via più tortuosa. Avrei desiderato che ci fosse qualche nuvola, perché nella mia anima s'era insinuato uno strano timore dei grandi cieli vuoti sopra di me. A sera chiesi ai vecchi di Arkham qualche notizia in più sulla landa folgorata, e che cosa si intendesse per "giorni terribili", una locuzione che non pochi borbottavano elusivamente. Non riuscii a ottenere risposte coerenti, a parte che il mistero era molto più recente di quanto avessi immaginato. Non era affatto un'antica leggenda, ma un avvenimento che risaliva alla gioventù dei testimoni; tutto era accaduto negli anni Ottanta, quando una famiglia della zona era scomparsa o rimasta uccisa. I narratori non sapevano essere più precisi, e siccome tutti mi raccomandarono di non far caso ai racconti pazzeschi del vecchio Ammi Pierce, la mattina dopo andai a trovarlo: avevo saputo che viveva da solo nell'antico cottage cadente dove gli alberi cominciavano ad addensarsi. Era un luogo paurosamente antico e aveva cominciato a essudare il vago odor di miasma che sprigiona dalle case troppo vecchie. Solo bussando ripetutamente riuscii a smuovere il vecchio, e quando ciabattò timidamente alla porta capii che non era affatto lieto di vedermi. Non era debole come mi ero aspettato, ma teneva gli occhi socchiusi in uno strano modo, e i vestiti bisunti e la barba bianca lo facevano sembrare estremamente scarno e povero. Ignorando il modo migliore per incitarlo a parlare, finsi di essere lì per lavoro: gli dissi che dovevo fare un sopralluogo e gli feci qualche vaga domanda sulla zona. Il vecchio si rivelò molto più lucido e istruito di quanto mi avessero dato a intendere, e in un attimo capì qual era il mio ruolo e il mio compito, proprio come i cittadini di Arkham. Ammi non era come gli altri contadini che avevo incontrato nella zona del futuro bacino: non protestò minimamente per i chilometri di boschi e terra di pastura che stavamo per inondare, anche se forse l'avrebbe fatto se la sua casa si fosse trovata nei limiti del lago artificiale. Al contrario, mostrò sollievo per il destino che attendeva le antiche valli oscure in cui aveva vagato tutta la vita. Era meglio che si trovassero sott'acqua: meglio, sì, dopo i giorni terribili. Dopo questo esordio la voce rauca di Ammi Pierce si abbassò, mentre il corpo si protendeva verso di me e l'indice della mano destra indicava qualcosa nell'aria, vibrando in modo impressionante.
Fu allora che appresi la storia, e mentre quella voce di vecchio tornava sussurrando agli avvenimenti del passato, mi scoprii più volte a tremare nonostante fossimo in estate. Spesso dovetti richiamarlo dalle sue divagazioni, correggere la terminologia scientifica che egli conosceva solo rozzamente, come chi ricorda a memoria i discorsi di persone più istruite, o colmare lacune dove il suo senso della logica e della continuità veniva meno. Quando ebbe finito mi resi conto del perché fosse andato "fuori di testa" o perché la gente di Arkham non amasse parlare della landa folgorata. Corsi al mio albergo prima del tramonto, perché non volevo che le stelle mi sorprendessero all'aperto, e il giorno dopo tornai a Boston per dimettermi. Non avrei mai potuto avventurarmi di nuovo in quell'oscuro groviglio di antichi boschi e colline; non avrei mai potuto affrontare di nuovo la landa folgorata, dove il pozzo abbandonato scendeva nelle viscere della terra accanto al rudere di pietra e mattoni. Il bacino verrà costruito tra poco, e i vecchi segreti della regione saranno al sicuro per sempre sotto molti metri cubi d'acqua; ma anche quando ciò sarà avvenuto non credo che mi piacerà visitare la zona di notte: almeno, non quando risplende il cielo stellato. Per niente al mondo, inoltre, berrei l'acqua che il nuovo bacino porterà ad Arkham. Tutto cominciò, disse il vecchio Ammi, con il meteorite. Prima di allora la regione non aveva conosciuto altre leggende che quelle ricamate intorno ai processi per stregoneria, e anche allora i boschi occidentali di quella parte dello Stato non avevano goduto di una fama paragonabile alle isolette nel corso del fiume Miskatonic, dove il diavolo teneva corte davanti a un bizzarro altare di pietra più antico degli indiani. Non erano, insomma, boschi infestati, e fino ai giorni del meteorite i loro suggestivi crepuscoli non furono mai ritenuti spaventosi. Poi, un giorno a mezzogiorno in cielo s'era addensata una nuvola bianca, nell'aria era risuonata una serie di scoppi e dalla valle in mezzo al bosco si era levata una colonna di fumo. Entro sera tutta Arkham aveva saputo del grande sasso piovuto dal cielo e conficcatosi nel terreno adiacente al pozzo della fattoria di Nahum Gardner; era quello l'edificio che sorgeva, solitario, nel punto dove un giorno sarebbe giunta la landa folgorata: la bella, bianca casetta di Nahum Gardner in mezzo a fertili giardini e frutteti. Nahum era venuto in città per dire alla gente del meteorite, e strada facendo si era fermato a casa di Ammi Pierce. A quell'epoca Ammi aveva quarant'anni, e gli avvenimenti bizzarri che seguirono si impressero profondamente nel suo cervello. Furono Ammi e sua moglie ad accompagnare
i tre professori della Miskatonic University che il mattino seguente si affrettarono sul posto per esaminare il visitatore sconosciuto degli spazi interstellari; e i professori si chiesero per quale ragione, il giorno prima, Nahum lo avesse definito così grande. Si era rimpicciolito, rispose il contadino indicando il cospicuo monticello di terra bruna e di erba bruciata vicino all'antico pozzo che sorgeva nel cortile della fattoria; ma gli scienziati risposero che le pietre non rimpiccioliscono. Il calore che emanava continuava a irradiare nella zona, e Nahum affermò che di notte emetteva un debole bagliore. I professori testarono il meteorite con un martello da geologo e scoprirono che era stranamente morbido: anzi, così morbido da essere quasi plastico. Il campione che prelevarono per un più attento esame all'università non fu scalfito dal blocco, ma quasi strappato; poi fu messo in un vecchio secchio preso nella cucina di Nahum, perché anche un così piccolo esemplare rifiutava di raffreddarsi. Nel viaggio di ritorno gli studiosi si fermarono a casa di Ammi per riposare, e quando la signora Pierce osservò che il frammento rimpiccioliva e che stava bruciando il fondo del secchio, rimasero alquanto perplessi. È vero, non era grande, ma forse ne avevano prelevato uno più piccolo di quanto pensassero. Il giorno seguente (si era nel giugno dell'82) gli scienziati tornarono sul posto in preda a una grande eccitazione. Passando davanti a casa di Ammi gli raccontarono lo straordinario comportamento del campione, e come fosse completamente scomparso quando lo avevano messo in un recipiente di vetro. Il recipiente era scomparso a sua volta, e i professori parlavano di una misteriosa affinità dell'oggetto con i composti del silicio. Nell'ordinato laboratorio dell'università l'esemplare aveva sorpreso tutti: non aveva reagito né prodotto fughe di gas quando lo avevano scaldato sul carbone, si era mostrato del tutto negativo al contatto col borace e certo non volatile a qualsiasi temperatura ottenibile dall'uomo, compresa quella del cannello ossidrico. Messo su un'incudine si era rivelato altamente malleabile e nel buio la sua luminosità era apparsa notevole. La proprietà che gli impediva di raffreddarsi aveva gettato tutta l'università in uno stato di profonda eccitazione, e quando, scaldato davanti a uno spettroscopio, aveva rivelato una serie di bande luminose diverse da qualsiasi colore dello spettro normale, si era parlato concitatatamente di nuovi elementi, bizzarre proprietà ottiche e altre cose che gli uomini di scienza perplessi tirano in ballo quando si trovano di fronte all'ignoto. Per caldo che fosse, l'oggetto fu testato in un crogiuolo con tutti i reagenti tradizionali. L'acqua non gli fece niente, l'acido cloridrico lo stesso.
L'acido nitrico e l'acqua ragia produssero uno sfrigolìo e qualche bollicina intorno all'oggetto torrido e invulnerabile. Ammi non ricordava bene tutti i particolari, ma riconobbe i nomi dei solventi quando glieli citai nel consueto ordine di impiego. C'erano ammoniaca e soda caustica, alcool ed etere, il nauseabondo solfuro di carbonio e una decina d'altri: ma benché il peso dell'oggetto diminuisse regolarmente col passar del tempo, e il frammento cominciasse a raffreddarsi un poco, non ci fu nessun cambiamento nei solventi e non si ebbe la minima prova che avessero attaccato la sostanza. Senza dubbio, tuttavia, si trattava di un metallo. Aveva proprietà magnetiche e dopo l'immersione nei solventi acidi sembrò di poter rilevare sul ferro meteorico deboli tracce delle configurazioni di Widmannstatten. Quando il raffreddamento fu aumentato in modo considerevole, l'esame venne ripetuto nel vetro: in un contenitore di questo materiale furono lasciate tutte le schegge in cui il frammento originario si era ridotto durante il lavoro. La mattina seguente schegge e contenitore erano scomparsi senza lasciare tracce, e solo una chiazza carbonizzata indicava il punto dello scaffale in cui erano stati messi. Tutto questo dissero ad Ammi gli scienziati, mentre facevano una pausa davanti alla sua porta, e ancora una volta egli li seguì nel posto in cui era precipitato il messaggero dal cielo; questa volta sua moglie non lo accompagnò. Ormai era evidente che l'oggetto era rimpicciolito, e persino i sobri professori non poterono dubitare di ciò che vedevano. Intorno al monticello sempre più piccolo che si era formato nei pressi del pozzo c'era uno spazio vuoto, tranne dove la terra aveva ceduto, e se il giorno prima il diametro dell'oggetto era stato di buoni due metri e mezzo, adesso non superava il metro e settanta. Il meteorite era ancora caldo e gli studiosi ne esaminarono la superficie con curiosità, mentre ne staccavano un altro e più largo frammento con martello e scalpello. Stavolta lo intaccarono profondamente, e nell'asportare la massa prelevata si accorsero che il nucleo dell'oggetto non era affatto omogeneo. Avevano scoperto ciò che sembrava il fianco di un globulo colorato, incassato profondamente nella materia esterna. Il colore, che somigliava ad alcune bande dello straordinario spettro della meteora, era quasi impossibile a descriversi, e solo per analogia gli studiosi lo definirono tale. Era fatto di una sostanza lucida che, percossa, faceva pensare a una certa fragilità e a un'eventuale concavità. Uno degli scienziati le diede un colpetto con il martello, e il globo si frantumò con un piccolo schioppo nervoso. Non ne uscì niente, e ogni traccia del rivestimento lucido scomparve dopo la mar-
tellata: al suo posto rimase uno spazio sferico e cavo del diametro di circa sette centimetri, e tutti pensarono che, a patto di frantumare il guscio esterno, ne sarebbero stati scoperti altri. Ma era inutile far congetture, e dopo un vano tentativo di trovare altri globuli scavando intorno, i ricercatori se ne andarono ancora una volta con l'esemplare che avevano asportato; il quale si rivelò, in laboratorio, altrettanto enigmatico del suo predecessore. A parte il fatto di essere praticamente elastico e di possedere calore, magnetismo e una leggera luminosità, a contatto degli acidi più potenti si raffreddava appena; rivelava uno spettro sconosciuto, evaporava a contatto dell'aria e attaccava i composti del silicio con risultati di reciproca distruzione, ma non presentava altre caratteristiche che permettessero di identificarlo. Al termine degli esami gli scienziati dell'università furono costretti ad ammettere che non erano in grado di classificarlo. Non apparteneva a questa terra, era un frammento del grande vuoto esterno e come tale dotato di proprietà esterne e obbediente a leggi sconosciute. Quella notte ci fu un violento temporale; il giorno dopo, recandosi alla fattoria di Nahum, gli scienziati andarono incontro a un'amara delusione. La pietra, che fino a ieri aveva rivelato proprietà magnetiche, doveva possedere bizzarre qualità elettriche, perché stando al racconto di Nahum aveva "attirato il fulmine" con singolare costanza. Per sei volte in un'ora il contadino aveva visto il lampo colpire il pozzo in cortile, e quando il temporale era finito non ne rimaneva che una voragine irregolare, mezzo strozzata dalla terra che aveva ceduto. Scavare non servì a niente, e gli scienziati presero atto che l'oggetto celeste era scomparso del tutto. La delusione fu completa: non restava che tornare in laboratorio ed esaminare di nuovo il frammento lasciato per precauzione in una scatola di piombo. Quell'unico reperto durò una settimana, alla fine della quale non si era appreso nulla di nuovo; una volta scomparso non lasciò dietro di sé alcun residuo e col tempo gli scienziati cominciarono quasi a dubitare di aver visto coi propri occhi quel misterioso vestigio delle insondabili profondità dello spazio: solitario, fantastico messaggero giunto da altri universi e da altri regni della materia, dell'energia e dell'essere. Com'è naturale, i giornali di Arkham parlarono a lungo dell'incidente e dell'interesse che aveva suscitato negli uomini dell'università, e inviarono i loro reporter alla fattoria di Nahum Gardner perché intervistassero lui e la sua famiglia. Almeno un quotidiano di Boston inviò un corrispondente, e Nahum diventò in breve una sorta di celebrità locale. Era un uomo magro e
cordiale sulla cinquantina, e viveva con la moglie e tre figli in una gradevole fattoria in mezzo alla valle; spesso andava a trovare Ammi e questi ricambiava le visite, come pure avveniva fra le rispettive mogli. Nei lunghi anni della loro amicizia, e anche dopo, la stima di Ammi Pierce per l'amico non era mai venuta meno. Nahum sembrava vagamente orgoglioso della notorietà acquisita dal suo podere, e nelle settimane seguenti parlò più volte del meteorite. Luglio e agosto furono mesi caldi, e Nahum lavorò sodo alla mietitura del campo di dieci acri che possedeva oltre il torrente di Chapman; e il suo carro incideva solchi profondi nei sentieri ombrosi che portavano laggiù. Il lavoro lo stancò più di altri anni, e si rese conto che l'età cominciava a farsi sentire. Poi venne il tempo della frutta e del raccolto. Pere e mele maturarono lentamente, e Nahum giurò che i suoi frutteti non avevano mai prosperato come quella volta. I frutti crescevano a dimensioni eccezionali, avevano un aspetto lustro e ce n'era in tale abbondanza che bisognò ordinare altri barili per i successivi raccolti. Ma ben presto arrivò la delusione: per magnifici e appetitosi che fossero a vedersi, nemmeno uno era commestibile. Nel buon sapore delle pere e delle mele si era insinuato un gusto amaro, malsano, tale che il più piccolo morso dava il disgusto. Lo stesso avvenne con i meloni e i pomodori, e Nahum vide con tristezza che il raccolto era perduto. Svelto nel collegare i vari fatti, affermò che il meteorite aveva avvelenato la terra e ringraziò il cielo che gran parte dei terreni che gli restavano sorgessero lungo la strada, sul pendio che saliva verso il colle. L'inverno venne presto e fu molto freddo. Ammi vide Nahum meno spesso del solito, ma si rese conto che appariva sempre più preoccupato. Anche il resto della famiglia s'era fatto taciturno, non andavano più in chiesa regolarmente e mancavano ai raduni della gente delle campagne. Non sembrava esserci motivo per tanta riservatezza o malinconia, benché tutta la famiglia confessasse di tanto in tanto un certo malessere e una vaga sensazione di inquietudine. Lo stesso Nahum fece la dichiarazione più concreta quando disse di essere preoccupato da certe impronte nella neve. Erano le solite impronte invernali degli scoiattoli rossi, dei conigli bianchi e di qualche volpe, ma lo stato d'animo del contadino era quello che era ed egli sostenne che nell'aspetto e nel succedersi delle orme c'era qualcosa di anormale. Non fu mai più preciso, ma lasciò intendere che non corrispondessero all'anatomia o alle abitudini di scoiattoli, conigli e volpi come le conosciamo. Ammi ascoltò questa confessione senza troppo interesse, fino alla sera in cui passò con il calesse davanti a casa di Nahum, proveniente da Clark's
Corners. C'era la luna e un coniglio si era fatto sulla strada, a balzi più lunghi di quelli che Ammi o il suo cavallo fossero abituati a vedere. Il cavallo, in particolare, aveva dato uno scarto improvviso, ed Ammi aveva dovuto fermarlo tirando bruscamente le redini. Da quella volta in poi Ammi ascoltò i racconti di Nahum con maggior rispetto, e si chiese perché i cani dei Gardner, al mattino, avessero un aspetto così spaurito e tremante. Si venne a sapere poi che avevano quasi perduto la voglia di abbaiare. In febbraio i ragazzi McGregor si calarono da Meadow Hill per andare a caccia di merli, e non lontano dalla fattoria Gardner abbatterono un esemplare molto strano. Le proporzioni del corpo parevano lievemente alterate, ma in modo strano e indescrivibile, mentre il muso aveva preso un'espressione che nessuno aveva mai visto in un merlo. I ragazzi erano spaventati sul serio, e immediatamente si liberarono dell'animale; in questo modo la gente delle campagne non poté contare che sui loro racconti grotteschi. Ormai era un fatto risaputo che vicino alla fattoria di Nahum i cavalli si innervosivano, e su questo prese forma rapidamente tutta una serie di racconti sussurrati a mezza voce. La gente assicurava che intorno a casa di Nahum la neve si sciogliesse più in fretta che altrove, e ai primi di marzo ci fu un'animata discussione nel magazzino di Potter a Clark's Corners. Quella mattina Stephen Rice era passato accanto alla casa dei Gardner e aveva notato che al di là della strada, dalla terra fangosa che lambiva il bosco, cominciavano a far capolino i cavolfiori. Non si erano mai viste cose simili, e brillavano di colori ch'era impossibile descrivere. Di forma mostruosa, emettevano un odore che colpì Stephen come niente prima di allora; anche il cavallo aveva dato uno scarto. Quel pomeriggio diverse persone andarono nella zona in calesse per vedere i cavoli abnormi. Tutti acconsentirono che vegetali del genere non avrebbero dovuto nascere in un mondo sano. Ci si ricordò con dovizia di particolari che l'autunno prima Nahum aveva raccolto frutti cattivi, e di bocca in bocca si diffuse la voce che la terra dei Gardner fosse avvelenata. Ovviamente era colpa del meteorite, e ricordando che gli uomini dell'università l'avevano giudicato tanto strano, alcuni contadini riferirono loro quello che era accaduto. Un giorno i professori fecero visita a Nahum Gardner, ma siccome non amavano i racconti sensazionali e le leggende delle campagne, da ciò che videro trassero solo conclusioni ortodosse. I vegetali erano certamente strani, ma tutti i cavolfiori sono più o meno strani per quanto riguarda la forma, il colore e l'odore; forse qualche elemento minerale del meteorite si
era infiltrato nel terreno, ma ben presto l'acqua lo avrebbe disciolto. Quanto alle impronte e ai cavalli spaventati, non erano che leggende campagnole a cui un fenomeno come quello dell'aerolito non poteva non dar luogo. Gli uomini di scienza non possono far niente quando si tira in ballo la superstizione, perché la gente di campagna dice e crede di tutto; così, per tutta la durata dei giorni terribili i professori se ne rimasero all'università, pieni di disprezzo. Solo uno, al quale un anno e mezzo dopo la polizia consegnò due fiale di polvere da sottopporre ad analisi, ricordò che il bizzarro colore dei cavolfiori gli aveva ricordato da vicino quello delle anomale bande di luce emesse dal frammento meteorico allo spettroscopio dell'università; colore che ricordava anche quello del fragile globo immerso nella pietra piovuta dagli spazi. I campioni di terreno sottoposti ad analisi mostrarono per un certo periodo le stesse bande, sebbene più tardi perdessero tale proprietà. Intorno alla fattoria di Nahum gli alberi fiorirono prematuramente, e di notte si agitavano al vento minaccioso. Il secondo figlio di Nahum, Thaddeus, un ragazzo di quindici anni, giurò che si agitassero anche quando non c'era vento, ma questo neppure le superstizioni locali potevano accettarlo. Era certo, però, che nell'aria ci fosse una certa inquietudine; l'intera famiglia Gardner prese l'abitudine di aguzzare le orecchie, benché non lo facessero per catturare un suono specifico. Anzi, quel drizzare le antenne avveniva in momenti in cui la coscienza sembrava ritirarsi. Disgraziatamente i momenti del genere si moltiplicarono di settimana in settimana, finché la gente del circondario cominciò a dire che "nella famiglia di Nahum c'era qualcosa che non andava". Quando si schiusero i primi fiori delle sassifraghe, fu osservato che avevano di nuovo uno strano colore: non come quello dei cavolfiori, ma certo affine e sconosciuto a chiunque lo vedesse. Nahum colse alcuni fiori e li portò ad Arkham, per mostrarli al direttore della "Gazette", ma quel personaggio si limitò a imbastirci un articolo umoristico dove le nere paure dei contadini venivano messe educatamente alla berlina. L'altro errore di Nahum fu quello di raccontare a uno stolido uomo di città il modo in cui le grandi, sproporzionate farfalle della zona si comportassero con le sassifraghe. Ad aprile nelle campagne si diffuse una specie di follia, e la gente cominciò a non usare più la strada che passava dalla fattoria di Nahum: fu questo, poco a poco, a portare al suo completo abbandono. Era colpa della vegetazione: gli alberi dei frutteti misero fiori dai colori straordinari e sul terreno pietroso del cortile e del pasturo adiacente crebbe un'erba bizzarra
che solo un botanico avrebbe potuto ricondurre alla flora abituale della regione. Nessun colore normale o conosciuto apparteneva più a quei fiori e a quegli alberi, tranne alcune chiazze di erba verde e una parte delle foglie; dappertutto si estendevano le folli, prismatiche varianti del colore malato e fondamentale che non aveva uguali fra quelli della terra. Innocui fiori di campo assunsero un aspetto minaccioso, comuni radici inquietavano al solo vederle nella loro perversione cromatica. Ammi e i Gardner pensarono che la maggior parte dei colori fossero accomunati da una sorta di straordinaria familiarità, e decisero che ricordavano quello del fragile globo all'interno della meteora. Nahum arò e seminò il campo da dieci acri e il lotto soprelevato, ma lasciò perdere quello che circondava la casa. Sapeva che sarebbe stato inutile, e sperò che gli strani frutti dell'estate portassero via tutto il veleno che ancora restava nella terra. Ormai era pronto a qualunque cosa e si era abituato alla sensazione che vicino a lui ci fosse qualcosa in attesa, qualcosa che bisognava cercare di sentire. Il fatto che i vicini evitassero la sua casa, naturalmente, influì su di lui, ma ancora di più influì sulla moglie. I ragazzi, che andavano a scuola tutti i giorni, se la cavarono meglio, anche se non poterono non essere colpiti dai pettegolezzi. Thaddeus, un giovane molto sensibile, fu quello che soffrì maggiormente. A maggio arrivarono gli insetti, e la fattoria di Nahum divenne un incubo di creature che ronzavano e strisciavano. La maggior parte degli insetti non erano normali né per quanto riguardava l'aspetto né i movimenti, e le loro abitudini notturne contraddicevano tutta l'esperienza precedente. I Gardner presero l'abitudine di guardare nella notte: guardare in ogni direzione, a caso, in cerca di qualcosa che non sapevano definire. Fu allora che si resero conto che Thaddeus aveva ragione per quanto riguardava gli alberi, e la signora Gardner fu la prossima a notare il fenomeno mentre teneva d'occhio i rami ipertrofici di un acero contro il cielo rischiarato dalla luna. I rami si muovevano certamente, ma vento non ce n'era: forse era la linfa. Ormai qualunque cosa crescesse dalla terra era straordinaria, eppure non furono i membri della famiglia Gardner a fare la scoperta successiva. L'eccessiva abitudine ai fenomeni misteriosi li aveva resi ottusi, ma ciò che essi non potevano vedere fu notato da un timido viaggiatore di commercio di Bolton, che una sera passava di là senza saper nulla delle leggende locali. Ciò che riferì ad Arkham meritò un breve paragrafo nella "Gazette", e fu lì che gli agricoltori, Nahum incluso, lo appresero per la prima volta. La notte era buia e le lampade per attirare gli insetti erano deboli, ma intorno a una certa fattoria in mezzo alla vallata - che in base al resoconto tutti iden-
tificarono per quella di Nahum - l'oscurità era meno profonda. Una vaga ma inconfondibile luminescenza pervadeva la vegetazione, l'erba, le foglie e i germogli, mentre a un dato momento un oggetto fosforescente e in movimento si era spostato in cortile vicino al granaio. Fino a quel momento l'erba non era stata contagiata dal cambiamento, e le vacche venivano pascolate tranquillamente nell'appezzamento vicino alla casa, ma verso la fine di maggio il latte cominciò a sapere di acido. Nahum, allora, spinse le vacche nei terreni sopraelevati, con il che il problema cessò. Non molto tempo dopo il cambiamento dell'erba e delle foglie fu visibile all'occhio. La verzura prese un colore grigiastro e manifestò una straordinaria fragilità. Ammi era ormai l'unica persona che visitasse la fattoria, ma anche quelle visite erano sempre più rare. Quando le scuole chiusero i Gardner si trovarono virtualmente isolati dal mondo, e a volte pregavano Ammi di fare qualche piccola commissione in città. Il deterioramento della famiglia era fisico e mentale, e quando si diffuse la notizia della follia della signora Gardner, nessuno se ne meravigliò. Avvenne in giugno, più o meno intorno all'anniversario dell'arrivo del meteorite, e la povera donna cominciò a urlare che nell'aria si vedevano cose impossibili da descrivere. In quei discorsi sconclusionati non c'era un solo sostantivo, ma solo verbi e pronomi. C'erano cose che si muovevano, cambiavano, fluttuavano; le orecchie erano stuzzicate da impulsi che non si potevano definire veramente suoni; c'era qualcosa che veniva portato via, o forse qualcosa da cui era prosciugata... qualcos'altro l'abbracciava, mentre non avrebbe dovuto... che qualcuno la mandasse via... nella notte niente era stabile, pareti e finestre si muovevano. Nahum non fece rinchiudere la moglie nel manicomio della contea, ma decise che fino a quando fosse stata innocua a sé e agli altri, l'avrebbe lasciata in giro per casa. Non fece nulla nemmeno quando l'espressione della signora cambiò, e solo quando i ragazzi cominciarono ad averne paura, e Thaddeus per poco non svenne alle smorfie che gli faceva, decise di confinarla in soffitta. Entro il mese di luglio la pazza aveva smesso di parlare e camminava a quattro zampe, e prima della fine del mese Nahum si fece l'idea pazzesca che nel buio fosse un poco luminosa, proprio come la vegetazione che circondava la casa. La fuga dei cavalli risale a poco tempo prima. Qualcosa li aveva spaventati nella notte, e i calci e i nitriti che risuonavano nella stalla erano stati terribili; nulla aveva potuto calmarli, e quando Nahum aveva aperto la porta della stalla si erano precipitati fuori come cervi spaventati. C'era voluta
una settimana per rintracciarli tutti e quattro, e una volta trovati si vide che erano ormai indomabili e inutilizzabili. Qualcosa, nel loro sistema nervoso, aveva ceduto, e per il loro stesso bene fu necessario abbatterli. Nahum si fece prestare il cavallo di Ammi per tagliare il fieno, ma vide che non osava avvicinarsi al granaio. La bestia scartava, recalcitrava e nitriva, e alla fine Nahum non poté fare altro che portarla in cortile mentre gli uomini usavano tutta la loro forza per trascinare il grosso carro abbastanza vicino al fienile, in modo che si riuscisse a fissarlo. Nel frattempo la vegetazione era diventata grigia e friabile. Anche i fiori dai colori stranissimi cominciavano a ingrigire, e la frutta nasceva grigia, nana e senza sapore. Aster e verghe d'oro misero fiori grigi e distorti, mentre nel giardino anteriore rose, zinnie e malvarose presero un aspetto così orrendo che Zenas, il maggiore dei figli di Nahum, dovette estirparli. Gli insetti macroscopici morirono all'incirca a quell'epoca, comprese le api che avevano abbandonato gli alveari e si erano dirette verso il bosco. Entro settembre la vegetazione prese a sbriciolarsi sempre più rapidamente in polvere grigiastra e Nahum temette che gli alberi morissero prima che la terra si liberasse del veleno. La moglie andava soggetta a terribili crisi isteriche nelle quali urlava a squarciagola: padre e figli erano in uno stato di continua tensione nervosa. Ormai evitavano la gente, e quando la scuola riaprì i ragazzi non ci andarono; Ammi, durante una delle rare visite, si rese conto per primo che l'acqua del pozzo non era più buona. Aveva un saporaccio che non si poteva definire guasto e neppure salato, ma consigliò all'amico di scavare un altro pozzo verso la collina, e di usare quello finché il terreno non fosse tornato normale. Nahum, tuttavia, ignorò il consiglio, perché ormai si era abituato alle cose più strane e sgradevoli. Tanto lui che i ragazzi continuarono a usare il pozzo avvelenato, bevendone l'acqua con la stessa incuranza e meccanicità con cui consumavano i pasti frugali e mal cucinati, e, durante il giorno inutile, svolgevano i loro compiti monotoni e ingrati. Nella famiglia si era insinuata una forma di stolida rassegnazione, come se si muovessero in un altro mondo e procedessero, fra due file di guardiani senza nome, verso un destino certo e familiare. Thaddeus impazzì a settembre dopo una visita al pozzo. Ci era andato con il secchio ed era tornato a mani vuote, urlando e agitando le braccia, e abbandonandosi ogni tanto a un lamento farneticante sui "colori che si muovevano laggiù". Due folli nella stessa famiglia sono una tragedia, ma Nahum l'affrontò con coraggio. Lasciò libero il ragazzo per una settimana,
finché cominciò a inciampare sempre più spesso e a farsi male; allora il padre lo rinchiuse in una stanza della soffitta di fronte a quella in cui teneva la madre, separata soltanto da un corridoio. Il modo in cui madre e figlio urlavano l'una all'altro, dietro le porte chiuse, si rivelò terribile soprattutto per il piccolo Merwin, che immaginava di sentirli parlare in un linguaggio non di questa terra. Merwin aveva cominciato a sviluppare un'immaginazione spaventosa, e la sua inquietudine peggiorò dopo la follia del fratello, che era stato il suo migliore compagno di giochi. Nello stesso periodo cominciò la moria del bestiame. I polli presero un colorito grigiastro e morirono rapidamente, presentando una carne che al taglio risultava secca e crepitante. I maiali ingrassarono in modo straordinario, poi subirono una serie di cambiamenti disgustosi che nessuno riuscì a spiegare; la carne era ovviamente immangiabile, e Nahum era alla fine delle sue risorse. Nessun veterinario rurale osava avvicinarsi alla fattoria, e quello comunale di Arkham si dichiarò assolutamente perplesso. I maiali erano diventati grigi e "friabili" tanto che cadevano a pezzi prima ancora di morire, mentre gli occhi e il muso subivano bizzarre alterazioni; la cosa era tanto più inesplicabile in quanto non erano stati nutriti con la verdura avvelenata. Poi fu la volta delle vacche: in alcune parti dell'animale, e a volte in tutto il corpo, si verificava un incomprensibile accartocciamento o compressione, e non era raro che la sindrome terminasse con atroci collassi o una vera e propria disintegrazione. Negli ultimi stadi (prima della morte che era l'inevitabile risultato) le vacche ingrigivano e perdevano scaglie come era successo ai maiali: di veleno non si poteva nemmeno lontanamente parlare, perché tutti i casi si erano verificati in una stalla autonoma e indisturbata. Né l'infezione poteva essere stata propagata dai morsi degli animali da preda, perché quale bestia sulla terra può attraversare una parete solida? Doveva trattarsi d'una malattia di altro tipo, anche se nessuno riusciva ad immaginare quale morbo potesse produrre effetti così disastrosi. Quando venne il tempo del raccolto nella fattoria non era rimasto un solo animale vivo, perché dopo la moria dei polli e del bestiame anche i cani erano fuggiti. Questi ultimi, in tutto tre, erano scomparsi una notte e nessuno li aveva più visti; i cinque gatti se n'erano andati qualche tempo prima, ma nessuno ci aveva fatto troppo caso perché anche i topi erano scomparsi, e solo la signora Gardner si prendeva cura dei graziosi felini. Il 19 ottobre, Nahum arrivò barcollando a casa di Ammi con orribili notizie. Nella sua stanza in soffitta il povero Thaddeus era morto, e la fine era arrivata in un modo che era meglio non approfondire. Nahum aveva scava-
to la tomba nel lotto preparato per la famiglia sul retro della fattoria, al riparo di una cancellata, riponendovi i resti che aveva trovato. Non poteva averlo ucciso qualcosa che arrivasse dall'esterno, perché la finestrella con le sbarre e la porta sprangata erano intatte: era lo stesso problema della stalla. Ammi e sua moglie consolarono lo sventurato come poterono, ma furono presi dai brividi. Il terrore si era attaccato alla famiglia Gardner e a tutto ciò che toccava, e la semplice presenza di uno di loro portava un alito di regioni innominate e innominabili. Ammi accompagnò Nahum a casa con la più grande riluttanza e fece quello che poté per calmare i singhiozzi isterici del piccolo Merwin. Zenas, invece, non aveva bisogno di essere calmato: ultimamente non faceva che guardare nel vuoto e obbedire a ciò che suo padre gli diceva; Ammi pensò che il suo destino fosse invidiabile. Di tanto in tanto alle urla di Merwin rispondevano debolmente quelle dell'attico, e allo sguardo interrogativo dell'amico Nahum rispose che sua moglie diventava sempre più debole. Verso sera Ammi riuscì ad andarsene, perché nemmeno l'amicizia avrebbe potuto convincerlo a restare alla fattoria quando la vegetazione cominciava a illuminarsi e i rami degli alberi si mettevano a danzare, ci fosse o no il vento. Era una vera fortuna che Ammi non avesse più che tanta fantasia; anche così la sua mente mostrava segni di cedimento, me se fosse stato in grado di riflettere e collegare tra loro i portenti che lo circondavano, sarebbe impazzito completamente. Si avviò a casa nel crepuscolo, con le urla della pazza e del bambino nervoso che gli risuonavano orribilmente nelle orecchie. Tre giorni dopo Nahum si presentò di primo mattino nella cucina di Ammi, e in assenza dell'ospite farfugliò un altro racconto disperato, mentre la signora Pierce lo scoltava attanagliata dalla paura. Stavolta si trattava del piccolo Merwin: era scomparso. La sera prima, sul tardi, era uscito con una lanterna e un secchio per l'acqua, ma non era più tornato. Per giorni era peggiorato sempre più, fin quasi al punto di perdere la ragione; urlava per ogni cosa, e anche quella sera, in cortile, c'era stato un urlo tremendo, ma prima che il padre potesse arrivare alla porta il ragazzo era scomparso. Non c'era la luce della lanterna che aveva preso con sé, non c'era più nessuna traccia. Lì per lì Nahum aveva pensato che secchio e lanterna fossero scomparsi, ma quando era spuntata l'alba e l'uomo si era ritirato dopo una ricerca durata tutta la notte nei boschi e nei campi, vicino al pozzo aveva trovato alcune strane cose. C'era una massa di ferro semifuso, schiacciata, che una volta era stata una lanterna, mentre accanto ad essa un recipiente curvo con due anelli di ferro contorto era ciò che restava di un secchio. E
questo era tutto. Nahum non sapeva che cosa pensare: la signora Pierce era muta, e quando Ammi tornò a casa e ascoltò la storia, non riuscì a fare ipotesi. Merwin era sparito: rivolgersi ai vicini non sarebbe servito a niente perché ormai tutti evitavano i Gardner. Inutile anche dirlo alla gente di città, perché ad Arkham ridevano di qualunque cosa. Prima se n'era andato Thad, adesso Mernie. Qualcosa si era infiltrato laggiù, aspettando di essere visto, sentito o udito. Nahum sentiva che se ne sarebbe andato presto, e chiese ad Ammi di badare a sua moglie e al figlio Zenas ammesso che gli sopravvivessero. Doveva essere il castigo per qualcosa che aveva fatto, anche se Nahum non riusciva a immaginare cosa, perché a quanto ne sapeva aveva sempre camminato sulla via retta del Signore. Per più di due settimane Ammi non rivide Nahum: poi, preoccupato per ciò che poteva essere successo, vinse le sue paure e decise di fare una visita alla fattoria dei Gardner. Dal gran comignolo non usciva fumo, e per un attimo il visitatore temette il peggio. L'aspetto della casa era terribile: erba grigia e vizza, foglie sul terreno, viticci che cadevano in friabile rovina dalle mura di arcaici abbaini, alberi nudi che artigliavano il cielo grigio di novembre con una tal studiata malvagità che Ammi non poté far a meno di pensare a un sottile cambiamento nella conformazione dei rami. Ma dopotutto Nahum era vivo. Era debole, e giaceva su un letto nella bassa cucina, perfettamente conscio e in grado di dare a Zenas gli ordini più semplici. La stanza era freddissima, e poiché Ammi tremava visibilmente l'ospite gridò a Zenas con voce roca di aggiungere altra legna. In realtà, la legna mancava del tutto: l'enorme camino era spento e vuoto, e il vento freddo che veniva giù dalla canna alzava una nuvola di fuliggine. Dopo un po' Nahum chiese all'amico se la legna aggiunta lo facesse sentire meglio, e allora Ammi si rese conto di ciò che era accaduto: anche la corda più robusta si era spezzata, e la mente del fattore disperato si era messa al riparo da altri dolori. Ponendogli una serie di domande discrete, Ammi non riuscì a farsi una chiara idea di dove fosse Zenas, che in realtà non si vedeva. Tutto ciò che il padre sapeva dire era: «È nel pozzo... adesso vive nel pozzo...». Poi nella mente di Ammi balenò il pensiero della moglie pazza, e cambiò la linea dell'interrogatorio. «Nabby? Ma come, se è là!» fu la risposta del povero Nahum, e Ammi capì che avrebbe dovuto cercare da solo. Lasciato l'innocuo farneticante sul lettuccio, prese le chiavi dal chiodo accanto alla porta e salì le scale cigolanti che portavano in soffitta. Lassù c'era una terribile aria di chiuso: un odore disgustoso e un silenzio totale gravavano da ogni
parte. Delle quattro porte che si presentarono ad Ammi una sola era sprangata, e qui egli provò le varie chiavi dell'anello. La terza si rivelò quella giusta, e dopo qualche tentativo Ammi aprì la bassa porta bianca. All'interno era piuttosto buio, perché la finestra era piccola e oscurata a metà dalle rozze sbarre di legno; sul pavimento di assi bianche Ammi non riuscì a vedere nulla. Il puzzo era insopportabile, e prima di avanzare ancora egli dovette rifugiarsi in un'altra stanza e riempirsi i polmoni d'aria respirabile. Quando rientrò vide qualcosa di scuro nell'angolo, e rendendosi conto di ciò che aveva davanti mandò un grido. Mentre gridava gli parve che una nuvola passeggera oscurasse la finestra, e un attimo dopo si sentì sfiorare da un'odiosa corrente d'aria. Strani colori danzavano davanti ai suoi occhi, e se l'orrore non lo avesse paralizzato avrebbe ripensato al globulo che era apparso nel meteorite quando il martello da geologo lo aveva frantumato, o all'assurda vegetazione che era cresciuta in primavera. Ma in quel momento Ammi pensò solo alla mostruosità che aveva davanti, e che fin troppo chiaramente aveva condiviso il fato del giovane Thaddeus e del bestiame. La cosa terribile era che l'orrore, benché continuasse a cadere in pezzi, fosse ancora in grado di muoversi lentamente e percettibilmente. Su quel particolare episodio Ammi non mi fornì altri particolari, ma è certo che nel suo racconto l'ombra nell'angolo e la creatura in movimento non appariranno più. Ci sono cose cui non si può nemmeno accennare, e del resto la legge punisce atti che a volte vengono commessi a scopo umanitario. Personalmente ne ricavai l'impressione che in soffitta, dopo la visita di Ammi, non rimanesse nessun essere vivente, e che lasciarvi una creatura ancora capace di muoversi sarebbe stato un gesto così mostruoso da condannare qualunque essere pensante all'eterno rimorso. Chiunque non fosse un semplice agricoltore sarebbe svenuto o impazzito, ma Ammi uscì dalla bassa porta perfettamente in sé, chiudendosi alle spalle il tremendo segreto. Adesso bisognava pensare a Nahum: doveva essere nutrito e accudito, ma soprattutto condotto in un luogo dove ci si potesse prendere cura di lui. Ammi aveva appena incominciato a scendere la scala buia, quando sentì un tonfo al piano inferiore. Gli parve di udire anche un grido strozzato, e ricordò nervosamente la nebbia appiccicosa che lo aveva sfiorato nella spaventosa soffitta. Quale presenza avevano risvegliato il suo urlo e l'improvvisa irruzione di sopra? Trattenuto da un vago terrore, udì altri rumori provenienti dal piano terra. Indubbiamente veniva trascinato qualcosa di pesante, e a questo si univa uno sgocciolio appiccicoso, tremendo, simile a
quello che potrebbe produrre una feroce e oscena varietà di suzione. Con i sensi esaltati fino alla febbre dal potere di suggestione che i rumori evocavano, Ammi pensò senza una precisa ragione a ciò che aveva visto in soffitta. Buon Dio, in quale sconosciuto regno degli incubi si era cacciato? Non osava andare avanti né indietro, ma rimase tremando sul gomito della scala di legno. Ogni più piccolo particolare della scena gli si era impresso nella mente: i rumori, il senso di paurosa aspettativa, il buio, i gradini ripidi e stretti... ma anche, cielo misericordioso, il debole e inconfondibile lucore del legno intorno a lui: gradini, pareti, corrimano e travi erano fosforescenti! Poi il cavallo di Ammi, rimasto all'esterno, fece un nitrito disperato che un attimo dopo fu seguito da un rumore di zoccoli al galoppo, segno inconfondibile di una fuga precipitosa. Ancora un momento e del cavallo con il calesse non si sentì più nulla: l'uomo terrorizzato sulla scala buia non poté fare altro che chiedersi cosa li avesse spinti alla fuga. Ma questo non era tutto; all'esterno era risuonato un altro rumore, come un tonfo in qualcosa di liquido (probabilmente acqua): doveva trattarsi del pozzo. Ammi aveva lasciato Hero, il cavallo, slegato nelle vicinanze, e forse una ruota del calesse aveva sfiorato il bordo del pozzo e mandato giù una pietra. E intanto quel maledetto legno continuava a luccicare come se fosse fosforescente. Dio, come era vecchia la fattoria! La maggior parte era stata costruita prima del 1670, e il tetto a doppio spiovente non più tardi del 1730. Al piano di sotto si udiva distintamente un rumore che pareva adesso quello di un debole grattare sul pavimento, e la mano di Ammi si serrò sul pesante bastone che aveva raccolto in soffitta per ogni evenienza. Facendo forza sui propri nervi, terminò la discesa e si incamminò coraggiosamente verso la cucina, ma non completò il tragitto perché quello che cercava non si trovava più là. Gli era venuto incontro, e in un certo senso era ancora vivo: Ammi non poteva dire se avesse strisciato o se fosse stato attratto da una forza esterna, ma ormai la morte lo aveva ghermito. Tutto era avvenuto nel giro di mezz'ora, ma il collasso, l'ingrigimento e la disgregazione erano già molto avanzati. Il corpo recava orribili segni di sbriciolamento, e i frammenti secchi venivano via a scaglie; Ammi non riuscì a toccarlo, ma guardò atterrito la distorta parodia di quello che era stato un volto. «Che cosa è stato, Nahum... che cosa è stato?» sussurrò, e le labbra gonfie ma spaccate dell'altro riuscirono a malapena a sillabare un'ultima risposta. «Niente... niente... il colore brucia... è freddo e umido, però brucia... viveva nel pozzo, l'ho visto... una specie di fumo, sì, come i fiori la primave-
ra scorsa... il pozzo di notte luccicava... Thad, Mernie e Zenas... tutto ciò che vive... quello gli succhia la vita... era nella pietra, deve essere venuto con la pietra... poi ha avvelenato tutta la terra... Non so cosa vuole... la cosa rotonda che gli scienziati dell'università hanno tirato fuori dalla pietra... e poi schiacciato... era dello stesso colore, lo stesso ti dico, come i fiori e le piante... dovevano essercene altri... come semi, semi... che sono cresciuti. L'ho visto per la prima volta questa settimana... si è nutrito di Zenas... era un ragazzo grande e grosso, pieno di vita... il colore ti entra nel cervello e poi ti brucia... nell'acqua del pozzo... Avevi ragione su quell'acqua maledetta... Zenas non è mai tornato dal pozzo, e non ha potuto allontanarsi... lui ti attira e tu sai che sta venendo, ma è inutile... L'ho visto altre volte, da quando Zenas è stato preso... Ammi, dov'è Nabby? la mia testa non è più a posto... non so più da quanto tempo non le porto da mangiare... prenderà anche lei se non stiamo attenti... il colore, voglio dire... a volte, di notte, mi pare che la faccia di Nabby sia già diventata di quella tinta... brucia, succhia... è venuto da un posto dove le cose non sono come qui... l'ha detto uno dei professori, e aveva ragione... guarda, Ammi, farà altri disastri... succhierà tutta la vita...» Ma questo fu tutto. L'essere che aveva parlato non poteva farlo più perché era completamente crollato su se stesso. Ammi stese sui resti una tovaglia da tavola a scacchi rossi e uscì all'aperto dalla porta sul retro. Risalì il declivio verso il pasturo di dieci acri e barcollò in direzione di casa seguendo la strada del nord nei boschi. Di passare accanto al pozzo da cui il cavallo era fuggito non se la sentiva: lo aveva guardato dalla finestra e si era accorto che dal bordo non era stata rimossa neppure una pietra. Questo significava che il calesse non aveva urtato proprio nulla, e quindi il tonfo nell'acqua era dovuto a qualcos'altro... qualcosa che si era tuffato nel pozzo dopo aver finito con il povero Nahum. Quando Ammi raggiunse casa, trovò che cavallo e calesse lo avevano preceduto e avevano gettato sua moglie in una crisi d'angoscia. Dopo averla rassicurata, ma senza dare spiegazioni, immediatamente partì per Arkham e avvertì le autorità che la famiglia Gardner non esisteva più. Ammi non si prodigò in dettagli, ma si limitò a raccontare la morte di Nahum e Nabby, visto che quella di Thaddeus era già nota; poi aggiunse che la causa sembrava la stessa misteriosa malattia che aveva ucciso il bestiame, e denunciò la scomparsa di Merwin e Zenas. Al distretto di polizia fecero molte domande, alla fine delle quali Ammi fu costretto a scortare tre agenti alla fattoria Gardner, e con loro il coroner, il medico legale e il veterinario
che aveva curato gli animali ammalati. Ad Ammi non fece certo piacere tornare sul luogo della tragedia, perché il pomeriggio era inoltrato e non gli garbava l'idea di trovarsi in un posto simile di notte; ma il fatto di essere con tanta gente gli dava qualche conforto. I sei funzionari partirono in un furgone a cavalli della polizia, mentre Ammi faceva strada con il calesse; verso le quattro del pomeriggio arrivarono alla fattoria del malanno. Benché i funzionari fossero abituati alle più orribili esperienze, nemmeno uno rimase indifferente a ciò che trovarono in soffitta e sotto la tovaglia da tavola sul pavimento a pianterreno. Era già terribile l'aspetto della fattoria in preda alla sua grigia desolazione, ma i due cadaveri sbriciolati superavano ogni limite. Nessuno poté guardarli a lungo e anche il medico legale ammise che c'era ben poco da esaminare; ovviamente, però, si potevano prelevare dei campioni per farli analizzare e a questo compito si dedicò con un certo zelo. Qui bisogna aggiungere che quando le due provette colme di ceneri vennero finalmente portate al laboratorio dell'università, accadde un altro fenomeno misterioso: sotto lo spettroscopio i due esemplari rivelarono una gamma di emissioni sconosciute, molte bande della quale erano identiche a quelle che il meteorite aveva rivelato l'anno prima. La proprietà di emettere un tale spettro svanì in un mese, e da quel momento la polvere si ridusse a un composto di fosfati e carbonati alcalini. Se avesse immaginato che intendevano passare all'azione subito, Ammi non avrebbe parlato del pozzo ai suoi accompagnatori. Era ormai quasi il tramonto e personalmente non vedeva l'ora di andarsene, ma non poté fare a meno di gettare un'occhiata nervosa all'orlo di pietra che sorgeva nel cortile; e quando un agente gliene chiese il perché, Ammi riconobbe che Nahum aveva temuto qualcosa che si annidava laggiù. Anzi, l'aveva temuto a tal punto che non aveva neppure osato cercarvi Merwin e Zenas, i figli scomparsi. Dato che non si poteva fare altro che svuotare il pozzo ed esplorarlo immediatamente, Ammi dovette aspettare tremando che secchio dopo secchio d'acqua putrida venisse tirata su e rovesciata sul terreno già intriso del cortile. Gli uomini annusarono il liquido con disgusto e alla fine il fetore insopportabile li costrinse a turarsi il naso. Il lavoro non richiese tanto tempo quanto avevano temuto, visto che l'acqua era straordinariamente bassa, e non c'è bisogno di descrivere in tutti i particolari ciò che trovarono. Basti dire che i resti di Merwin e Zenas erano almeno in parte sul fondo. Ciò che rimaneva faceva parte soprattutto dello scheletro: con loro, inoltre, c'erano un piccolo cervo e un grosso cane più o meno nello
stesso stato, e un certo numero di ossa d'animali più piccoli. La fanghiglia e il viscidume sul fondo avevano un aspetto inspiegabilmente poroso, ricco di bolle; un uomo si calò reggendosi agli appigli, e, munito di una lunga pertica, scoprì che poteva immergere l'asta di legno a qualunque profondità nel fango del fondale, senza incontrare ostacoli solidi. Era ormai il crepuscolo e dalla casa furono portate alcune lanterne; poi, accertato che dal pozzo non si poteva ricavare altro, gli uomini tornarono all'interno e si riunirono nell'antico soggiorno della fattoria, mentre la luce intermittente di una spettrale mezzaluna gettava un pallido manto sul deserto grigio dei campi. Il caso oltrepassava le capacità di comprensione dei convenuti, e non sembrava esservi alcun elemento noto che collegasse la strana sorte della vegetazione, la malattia sconosciuta che aveva colpito bestiame ed esseri umani e le morti inspiegabili di Merwin e Zenas nel pozzo avvelenato. Tutti avevano sentito, com'è ovvio, le dicerie dei contadini, ma non potevano credere che fosse accaduto qualcosa di veramente contrario alle leggi di natura. Senz'altro la meteora aveva avvelenato il terreno, ma la malattia di persone e animali che non avevano mangiato nulla di quanto era cresciuto nel suolo infetto era un'altra faccenda. La colpa era dell'acqua del pozzo? Probabile, per cui sarebbe stata una buona idea analizzarla; ma quale forma di follia poteva avere spinto i due ragazzi a gettarsi nel pozzo? Il gesto era molto simile in entrambi, e i resti mostravano che erano morti entrambi per l'orrendo morbo grigio. Perché intorno alla fattoria tutto era grigio e si sbriciolava? Il coroner, seduto accanto alla finestra che dava sul cortile, fu il primo a notare il bagliore che circondava il pozzo. Ormai era notte e l'orrendo territorio sembrava vagamente luminoso, molto più che per il semplice effetto del chiarore lunare; ma il bagliore del pozzo era qualcosa di definito e distinto, e si sprigionava dalla voragine nera come il raggio attutito di un faretto, riflettendosi nelle piccole pozze del terreno dove era stata rovesciata l'acqua. Il colore di questa nuova emanazione era bizzarro, e quando tutti gli uomini si furono riuniti vicino alla finestra Ammi trasalì: il raggio che esalava dalla corruzione del pozzo aveva una sfumatura che non gli era affatto sconosciuta. Aveva già visto quel colore, e tremava al pensiero di ciò che poteva rappresentare. Lo aveva visto due estati prima, nell'orrido e fragile globulo contenuto nell'aerolito; lo aveva visto nella folle vegetazione di primavera e aveva creduto di vederlo, per un attimo, quello stesso mattino, profilato contro la finestrella sbarrata della soffitta in cui erano apparse entità senza nome. Gli era lampeggiato davanti per un attimo,
quando una corrente di vapore umido e miasmico lo aveva sfiorato all'improvviso... e poi il povero Nahum era stato finito da qualcosa che aveva lo stesso colore. Prima di morire l'aveva detto: somigliava al globulo, alla sfumatura delle piante. Poi Ammi aveva sentito il cavallo darsi alla fuga e il tonfo nel pozzo... lo stesso pozzo che ora, di notte, vomitava un pallido raggio insidioso di quella tinta demoniaca. C'è da ammirare l'intelligenza di Ammi se anche in un momento come quello, e in preda alla tensione, egli si interrogasse su un problema strettamente scientifico. Non smetteva di meravigliarsi per aver avuto la stessa impressione quando aveva visto il vapore di giorno, profilato contro una finestra aperta sul cielo del mattino, e adesso che era un'esalazione notturna simile a nebbia fosforescente contro il paesaggio nero e incenerito. Non era giusto, era contro natura, e ripensò alle ultime parole dell'amico colpito: "È venuto da un posto dove le cose non sono come qui... l'ha detto uno dei professori...". I tre cavalli all'esterno, legati a un paio di arbusti rinsecchiti che sorgevano sul ciglio della strada, avevano cominciato a nitrire e scalciare furiosamente. Il guidatore del furgone della polizia si avviò alla porta per fare qualcosa, ma Ammi gli calò una mano tremante sulla spalla. «Non andare là fuori» sussurrò. «Questa faccenda è più grossa di noi. Nahum ha detto che nel pozzo c'è qualcosa che ti succhia la vita; ha detto che dev'essere cresciuto da quella specie di palla che stava dentro la meteora caduta a giugno dell'anno scorso. L'abbiamo vista tutti e lui ha detto che succhia e brucia, ed è proprio una nuvola di colore come quella che è adesso là fuori, anche se è debole e non riesco a capire che diavolo è. Nahum pensava che quella cosa mangia gli esseri viventi e così diventa forte. Diceva che l'aveva vista la scorsa settimana. Dev'essere venuta da molto lontano, nel cielo, come i professori dell'università hanno detto l'anno scorso della meteora. Da come è fatta e dalle cose che è capace di combinare, puoi ben dire che non è del mondo creato dal Signore. No, è venuta da più lontano.» Gli uomini rimasero indecisi davanti alla finestra, mentre la luce del pozzo si faceva più forte e i cavalli impazziti scalciavano e nitrivano per la disperazione. Fu un momento veramente terribile: il terrore che regnava nella casa maledetta, i quattro mostruosi resti umani alloggiati in un capanno lì vicino (i due che erano già in casa più i due ripescati dal pozzo), e il fascio di ignota e sacrilega iridescenza che dal pozzo si levava sul cortile. Ammi aveva trattenuto il guidatore del furgone per impulso, dimenticando ciò che aveva provato lui stesso dopo essere stato sfiorato dalla neb-
bia colorata che gli era apparsa in soffitta; ma probabilmente fu meglio così. Nessuno saprà mai che cosa si librasse quella notte davanti alla fattoria, e benché fino a quel momento l'entità dell'altrove non avesse aggredito nessun essere umano nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, non è possibile stabilire che cosa avrebbe fatto all'ultimo momento, considerato che la sua forza sembrava aumentata e che ben presto avrebbe mostrato nuovi e particolari segni d'intelligenza sullo sfondo del cielo avvolto dalle nuvole. Tutto a un tratto uno degli investigatori che si trovavano accanto alla finestra trasalì con un gemito. Gli altri lo guardarono, poi seguirono il suo sguardo puntato verso l'alto fin dove si era improvvisamente arrestato. Non c'era bisogno di parole: quello che le chiacchiere della gente di campagna avevano finora soltanto ipotizzato non si poteva più dubitare, ed è a causa di ciò che i membri del gruppo ammisero più tardi a fil di voce, che ad Arkham nessuno vuole più parlare dei giorni terribili. È necessario premettere che a quell'ora della sera non c'era vento; un alito di brezza si levò poco dopo, ma in quel momento tutto era assolutamente calmo. Persino le foglie delle siepi grigie e malate e la frangia sul tetto del furgone immobile della polizia non erano minimamente agitate; eppure, nel bel mezzo di quella calma innaturale, addirittura tangibile, i rami nudi degli alberi in cortile cominciarono a muoversi. Era una sorta di contorcimento morboso, spasmodico, come una danza di artigli animati dalle convulsioni dell'epilessia e che volessero afferrare le nuvole rischiarate dalla luna; artigli che graffiavano impotenti l'aria pestilenziale, agitati da una forza sconosciuta e senza corpo che si fosse alleata con gli orrori sotterranei che strisciavano e lottavano sotto le radici nere. Per diversi secondi nessuno respirò, poi una nuvola più oscura delle altre passò sulla luna e la sagoma dei rami-artiglio svanì per un attimo. Gli uomini gridarono all'unisono: un urlo strozzato dal timore, ma roco e quasi identico da tutte le gole. Il terrore, infatti, non era scomparso con la sagoma degli alberi, e in quel terribile momento di buio profondo gli osservatori videro una catena di scintille, formata da mille puntolini di debole e misteriosa fosforescenza, serpeggiare sulla cima degli alberi, formando su ciascun ramo una fiammella simile ai fuochi di sant'Elmo o a quelle che si posarono sulla testa degli apostoli il giorno della Pentecoste. Era una costellazione mostruosa di luce innaturale, e guizzava come uno sciame di lucciole nutrite da cadaveri che danzassero un'infernale sarabanda sopra una palude maledetta; ma il colore era quello dell'invasore senza nome che
Ammi aveva imparato a riconoscere e a temere. Nel frattempo il fascio di luce che si alzava dal pozzo era diventato sempre più intenso, e alla mente degli uomini raccolti intorno alla finestra trasmetteva un senso di fatalità e innaturalezza che di gran lunga superava qualsiasi immagine potesse essersi formata nelle loro fantasie coscienti. Il fascio non si limitava più a brillare, perché si riversava dal pozzo: e nel lasciarlo il flusso informe di colore senza nome pareva scorrere direttamente nel cielo. Il veterinario rabbrividì, dirigendosi verso la porta della fattoria per sbarrarla con un altro paletto. Anche Ammi tremava, e poiché la voce gli era venuta meno, quando volle attirare l'attenzione dei compagni sulla crescente luminosità degli alberi dovette limitarsi a indicare o a tirarli per la manica. I nitriti e lo scalpitio dei cavalli si erano fatti spaventosi, ma nessuno fra gli occupanti della vecchia casa avrebbe osato avventurarsi all'esterno, e in cambio di nessuna ricompensa. Nel giro di pochi secondi il lucore degli alberi aumentò, mentre i rami inquieti parevano tendere sempre più a una posizione verticale. Il legno della tramoggia che sovrastava il pozzo aveva cominciato a brillare, e dopo un pezzo un poliziotto indicò un gruppo di capanni e alveari, pure in legno, che si trovavano vicino al muro occidentale di pietra; anch'essi luccicavano, sebbene i veicoli con cui i visitatori avevano raggiunto la fattoria, e che erano legati lì vicino, sembrassero fino a quel momento immuni dal fenomeno. Dalla strada venne un'agitazione selvaggia, un rumore di zoccoli, e quando Ammi accese la lampada per vedere meglio, si resero conto che la coppia di cavalli grigi aveva spezzato la corda e si era data alla fuga con il furgone della polizia. Nel gruppo degli osservatori lo shock ebbe l'effetto di sciogliere le lingue, e gli uomini si scambiarono commenti imbarazzati. «Si diffonde su tutte le sostanze organiche che si trovano nei paraggi» borbottò il medico legale. Nessuno rispose, ma l'uomo che si era calato nel pozzo accennò alla possibilità che la sua lunga pertica avesse smosso qualcosa d'inimmaginabile. «Era spaventoso» aggiunse. «Non aveva fondo, solo una specie di fanghiglia, le bolle e la sensazione che qualcosa si nascondesse laggiù.» Di fuori, in strada, il cavallo di Ammi seguitava a scalciare e a nitrire disperatamente, e quasi soffocò le deboli parole del suo padrone, che cercava di organizzare riflessioni senza forma. «È venuto con quella pietra... è cresciuto laggiù, nutrendosi di cose vive che prima catturava... divorava tutto, mente e corpo... così è successo con Mernie, Zenas e Nabby... Nahum è stato l'ultimo, ma tutti hanno bevuto quell'acqua... quella cosa si è fortificata grazie a loro... è venuta da fuori, dove le cose non sono come qui... e a-
desso sta tornando a casa...» A questo punto, mentre la colonna di colori sconosciuti si irradiava con sempre maggiore intensità, cominciando a organizzarsi in forme fantastiche che in seguito ogni spettatore avrebbe descritto in modo diverso, il povero Hero (il cavallo legato a non molta distanza) fece un verso che nessuno aveva mai sentito prima. Tutti i presenti si tapparono le orecchie e Ammi si allontanò dalla finestra in preda alla nausea e all'orrore. Le parole non bastavano a descriverlo, ma quando Ammi guardò di nuovo la povera bestia, si accorse che giaceva inerte e rannicchiata sul terreno illuminato dalla luna, in mezzo alle tavole fatte a pezzi del calesse. Quella fu la fine di Hero, che venne seppellito il giorno dopo; per il momento, tuttavia, non c'era tempo di abbandonarsi alle tristezze, e in quell'istante un agente attirò l'attenzione del gruppo su qualcosa di terribile che accadeva nella stanza dove si trovavano gli uomini. Ora che la lampada era spenta, risultava chiaro che una debole fosforescenza aveva pervaso l'intero appartamento: brillava sul pavimento di assi e i resti di un tappeto di stoffa, irradiava lucore intorno al telaio delle finestre all'inglese, pervadeva gli angoli, illuminava la mensola e il fregio del camino, intaccava porte e mobilio. E a ogni minuto si rafforzava, finché fu chiaro che chi voleva salvare la pelle doveva abbandonare la casa. Ammi mostrò agli altri la porta sul retro e il sentiero che saliva fra i campi fino al pascolo da dieci acri. Gli uomini si incamminarono, barcollando come in sogno, e non osarono guardarsi indietro finché non ebbero raggiunto la sommità dell'elevazione. L'esistenza del sentiero era provvidenziale, perché non avrebbero avuto il coraggio di passare dal cortile anteriore o nelle vicinanze del pozzo. Era già terribile passare a pochi metri dalla stalla e dai capanni fosforescenti, dagli alberi lucenti del frutteto e i loro sinistri contorni; per fortuna i rami si torcevano in modo apprezzabile solo verso l'alto. La luna fu oscurata da alcune nuvole pesanti nel momento in cui attraversavano il ponte rustico sul ruscello di Chapman, e dal quel punto fino ai campi aperti dovettero brancolare come ciechi. Quando finalmenmte si voltarono a guardare la valle, e l'ormai lontana fattoria Gardner che sorgeva nel mezzo, videro uno spettacolo pauroso. La casa splendeva di un orrendo miscuglio di colori sconosciuti e così gli alberi, gli edifici e perfino l'erba e la vegetazione che non si era del tutto trasformata in friabile grigiore. I rami puntavano tutti al cielo, sormontati da terribili lingue di fiamma, mentre i bracci secondari di quell'incendio mostruoso si insinuavano fra le travi della casa, della stalla e dei capanni. Era
una scena degna di un quadro di Fusli, e su tutto regnava il tripudio di quella luce senza forma, arcobaleno estraneo e senza dimensioni di veleno misterioso che s'alzava dal pozzo. Si alzava e fremeva, lambiva, tastava, sondava, scintillava, ribolliva malefico nel suo cromatismo cosmico e irriconoscibile. Poi, improvvisamente, l'orribile colore scoccò verso il cielo in verticale, come un razzo o una meteora, senza lasciare alcuna traccia e scomparendo attraverso un'apertura bizzarra, stranamente regolare, che si vedeva fra le nuvole. I presenti non ebbero nemmeno il tempo di sorprendersi o gridare. Nessuno dei testimoni avrebbe potuto dimenticare la scena, e Ammi fissò senza capire le stelle del Cigno, fra cui Deneb splendeva più delle altre: lì il colore si era fuso con la Via Lattea. Ma un attimo dopo il suo sguardo fu riportato a terra da un crepitio che si udiva nella valle. Era proprio questo: un rumore di legno spezzato e crepitante, non un'esplosione come giurarono altri del gruppo. Eppure il risultato fu lo stesso, perché in un attimo febbrile, caleidoscopico, dalla fattoria condannata eruttò un ciclone di materia e scintille straordinarie; lo sguardo dei testimoni ne fu accecato per un momento, poi l'eruzione lanciò verso lo zenit una nuvola violenta di colori e detriti così fantastici che si respingevano a vicenda col nostro universo. Scintille e lembi di materia seguirono la grande anomalia scomparsa attraverso il foro che si era aperto tra le nuvole, e un attimo dopo scomparvero anch'essi. Al loro posto non c'erano che tenebre, fra le quali gli uomini non osavano tornare, e si era levato un vento che pareva soffiare in raffiche nere e gelide dallo spazio interstellare. Urlava e ululava, sferzando i campi e i boschi contorti con frenesia cosmica, finché il gruppo di attoniti spettatori si rese conto che era inutile aspettare che la luna mostrasse ciò che restava della casa di Nahum. Troppo spaventati anche per azzardare un'ipotesi, i sette uomini sconvolti si avviarono verso Arkham per la strada che piegava a settentrione. Ammi stava peggio degli altri e li pregò di accompagnarlo fino alla porta di casa invece di proseguire verso la città: non voleva attraversare da solo i boschi avvolti dalla notte e frustati dal vento oltre la strada principale. Ai compagni, infatti, era stato risparmiato uno shock che lui non aveva potuto fare a meno di provare, e che lo avrebbe schiacciato sotto un senso di tale terrore da impedirgli di parlarne per anni. Mentre gli altri testimoni avevano rivolto lo sguardo decisamente verso la strada, Ammi si era fermato un attimo a fissare la valle d'ombre e di desolazione in cui fino a poco prima sorgeva la fattoria dell'amico sfortunato. Da un punto lontano, in mezzo al-
la rovina, aveva visto qualcosa alzarsi debolmente, per poi affondare di nuovo nel posto da cui il grande orrore senza forma si era proiettato al cielo. Anche questo non era che un colore, ma non un colore della terra o degli spazi a noi noti; e siccome Ammi lo aveva riconosciuto, e sapeva che almeno un ultimo brandello si nascondeva ancora nel pozzo, da quel momento in poi non riuscì più a trovar pace. Ammi non è mai ritornato sul luogo della tragedia. È passato più di mezzo secolo da quando avvenne l'orrore, ma lui non c'è mai stato e sarà contento quando il nuovo bacino lo sommergerà. Sarò contento anch'io, perché non mi è piaciuto il modo in cui la luce del sole ha cambiato colore quando sono passato intorno alla bocca del pozzo. Spero che l'acqua sarà sempre profonda, ma anche così non la berrò; non credo neppure che tornerò ancora ad Arkham e nella regione che la circonda. Tre degli uomini che erano stati con Ammi tornarono la mattina dopo per vedere le rovine alla luce del sole, ma furono delusi perché non ce n'erano: tutto quel che restava erano i mattoni della canna fumaria, le pietre delle fondamenta, residui minerali e metallici qua e là e, naturalmente, il bordo del terribile pozzo. A parte il cavallo morto di Ammi, che gli uomini portarono via e seppellirono, e a parte il calesse che poco dopo gli restituirono, nel posto non c'era alcuna traccia di vita. Rimanevano soltanto cinque maledetti acri di polvere grigia, un deserto su cui mai più niente è cresciuto. Ancora oggi il deserto si stende sotto il cielo come una grande chiazza divorata dall'acido in mezzo ai boschi e ai campi, e i pochi che hanno osato awicinarvisi sfidando la paura dei racconti popolari l'hanno soprannominata "landa folgorata". I racconti popolari sono strani, e lo sarebbero anche di più se gli uomini di città e i chimici dell'università li prendessero abbastanza sul serio da analizzare l'acqua del pozzo in disuso o la polvere grigia che nessun vento sembra in grado di disperdere. I botanici, dal canto loro, dovrebbero studiare la flora anomala che cresce ai confini della chiazza, perché in tal modo potrebbero far luce sull'idea dei contadini secondo cui il fenomeno si va estendendo... poco a poco, magari solo di un paio di centimetri all'anno. La gente dice che a primavera il colore della vegetazione che cresce nelle vicinanze non è quello giusto, e che gli animali selvatici lasciano strane impronte nella neve leggera d'inverno. Sulla landa folgorata la neve non si accumula mai come nel resto della regione; i cavalli - o almeno i pochi che restano in quest'epoca di motorizzazione - si innervosiscono nella valle silenziosa, e intorno alla chiazza di polvere grigia i cacciatori non possono
fare affidamento sui propri cani. A quanto pare anche l'influsso psicologico è stato disastroso; dopo la scomparsa di Nahum parecchi agricoltori hanno perso la ragione, e immancabilmente non hanno trovato la forza di allontanarsi dalla zona. Le persone più volitive, al contrario, hanno finito tutte per andarsene, e solo gli stranieri hanno tentato di vivere nelle vecchie case cadenti, ma non ce l'hanno fatta: a volte vien fatto di chiedersi quale fondo di verità, che a noi sfugge, contengano le loro assurde storie di apparizioni e magia. Questa gente ha sempre riferito di fare sogni orribili, influenzati dal paesaggio grottesco; è certo che il semplice aspetto di quella nera regione sia sufficiente a provocare fantasie morbose. Nessun viaggiatore ha mai potuto sottrarsi al profondo senso d'estraneità che vi assale fra quei pendii scoscesi, e i pittori rabbrividiscono nel ritrarre i fitti boschi ammantati da un mistero che non è solo dell'occhio, ma dello spirito. A mia volta, sono incuriosito dalle sensazioni che ho provato nell'unica e lunga passeggiata fatta dopo che Ammi mi ebbe raccontato la storia. Al calare delle ombre desiderai che apparisse qualche nuvola, perché nella mia anima si era insinuato uno strano timore dei profondi vuoti celesti sopra di me. Non chiedetemi quale sia la mia opinione: non lo so e questo è tutto. A parte Ammi non c'erano altri da interrogare, perché la gente di Arkham non ama parlare dei giorni terribili; quanto ai tre professori che esaminarono l'aerolito e il globulo colorato che conteneva, sono morti. Devono esserci stati altri globuli, questa è l'unica cosa che mi sento di affermare. Uno si è nutrito con ciò che ha trovato ed è tornato di dove veniva, ma probabilmente un altro non ha fatto in tempo. Sono sicuro che è ancora in fondo al pozzo: ho visto con i miei occhi la luce del sole alterarsi, e proprio in corrispondenza della bocca. I contadini dicono che la malattia della terra si estende di un paio di centimetri all'anno, per cui forse anche adesso trova di che nutrirsi e crescere; ma quale sia il demone che si nascone laggiù, dev'essere trattenuto da qualcosa o si sarebbe diffuso molto più in fretta. È avvinto alle radici degli alberi che sembrano artigliare l'aria? Uno dei racconti più frequenti, ad Arkham, riguarda grosse querce che di notte rilucono e i cui rami si agitano come non dovrebbero. Che cosa sia, Dio solo lo sa. In termini di materia suppongo che la cosa descritta da Ammi sia un gas, ma obbediente a leggi che non sono quelle del nostro cosmo: non è il frutto dei pianeti o dei soli che splendono nei telescopi e sulle lastre fotografiche dei nostri osservatori. Non è un soffio dei cieli di cui i nostri astronomi misurano i moti e le dimensioni, e neppure di
quelli che giudicano troppo vasti per essere misurati. Era soltanto un colore venuto dallo spazio, messaggero spaventoso degli informi reami dell'infinito, al di là della natura che noi conosciamo; luoghi la cui semplice esistenza ci colpisce e ci paralizza con la visione dei neri golfi al di là del cosmo che si apre, improvvisa, di fronte ai nostri occhi terrorizzati. Non posso credere che Ammi mi abbia mentito consapevolmente, né credo che il suo racconto sia frutto di follia, come gli abitanti della città mi avevano fatto pensare. Qualcosa di terribile è sceso fra quelle valli e colline al seguito di una meteora, e qualcosa di terribile (anche se non so in che misura) vi rimane ancora. Sarò contento quando l'acqua inonderà tutto, e nel frattempo spero che ad Ammi non succeda niente. Ha visto troppo di quell'orribile faccenda, e ho già detto che la sua influenza psicologica è perniciosa. Perché non se n'è mai andato dalla regione? Con quanta chiarezza ricordava le parole di Nahum morente: «Non te ne puoi andare... ti attira... sai che qualcosa sta per prenderti e non ci puoi fare niente...». Ammi è davvero una brava persona: quando la squadra che costruirà il bacino si metterà al lavoro scriverò all'ingegnere capo e gli raccomanderò di vegliare sul vecchio. Sarebbe orribile pensare a lui come a una delle grigie, contorte, fragili mostruosità che non cessano di turbare i miei sogni. (The Colour out of Space, marzo 1927) L'antica gente dei monti (da una lettera a Donald Wandrei, 2 novembre 1927) The Very Old Folk non è un racconto vero e proprio, ma un sogno particolarmente elaborato che Lovecraft raccontò a Donald Wandrei in una lettera alla fine del 1927. Il sogno non fu mai incorporato in un racconto del suo autore, ma, com'è noto, Lovecraft permise a Long d'inserirlo in The Horror from the Hills, un romanzo breve noto anche in Italia. Una curiosità: lo stesso sogno è narrato in maniera leggermente diversa a Bernard Austin Dwyer in una lettera di quello stesso mese. Dopo aver creato due eccellenti storie come Il caso di Charles Dexter Ward e Il colore venuto dallo spazio, nel 1927 Lovecraft scrisse un solo altro racconto lungo: la collaborazione con Adolphe de Castro The Last Test (tradotto nella seconda parte di questo volume). A parte il "sogno romano" che qui presentiamo, il '27 ci riserva una sola sorpresa ancora: la gustosa Storia del Necronomicon.
La traduzione è stata condotta sul testo pubblicato in Marginalia, Arkham House, Sauk City 1944. Caro Melmoth, recentemente ho dato un'occhiata all'Eneide tradotta da James Rhodes, una versione che finora non avevo mai visto e che mi ha riportato col pensiero al tempo degli antichi romani. Quella di Rhodes è più fedele a Virgilio di qualsiasi altra traduzione da me letta, compresa quella inedita del mio defunto zio dr. Clark. La parentesi virgiliana, unita ai fantastici pensieri che sempre in me suscitano la vigilia di Ognissanti e i sabba di Halloween celebrati fra le colline, deve avermi ispirato, la notte di lunedì, un sogno di eccezionale forza e vividezza ambientato in epoca romana; un sogno così ricco d'orrore gigantesco e latente che un giorno me ne servirò senz'altro in uno dei miei racconti. I sogni di ambientazione romana non erano affatto rari durante la mia giovinezza: ricordo di essere stato al seguito del divino Cesare in tutta la Gallia e di notte assumevo la personalità del tribuno Milibo; ma è passato tanto tempo che questo m'ha impressionato con forza straordinaria. Nel sogno era l'ora d'un tramonto fiammeggiante, o comunque il tardo pomeriggio; mi trovavo nella città provinciale di Pompelo, nella Spagna Citeriore, ai piedi dei Pirenei. L'epoca doveva essere la tarda repubblica, perché la provincia era ancora governata da un proconsole del senato invece che da un legato pretorio come ai tempi degli imperatori, e il giorno era quello che precedeva le Calende di novembre. A nord della piccola città sorgeva una catena di monti color porpora e oro; il sole splendeva a occidente, mistico e rossigno, sulla rozza pietra nuova e sugli edifici in calcestruzzo del foro polveroso, mentre le pareti di legno del circo sorgevano a qualche distanza, verso est. Gruppi di cittadini e legionari affollavano le poche strade pavimentate e il foro: c'èrano coloni romani dalla fronte spaziosa, genti romanizzate del luogo con i capelli crespi e incroci dei due gruppi, tutti vestiti con toghe di lana a buon mercato. I legionari procedevano a gruppetti, coperti di elmi e mantelli pesanti, mentre alla folla si mescolavano membri delle tribù circostanti di vascones o baschi. In tutti si avvertiva un vago e indefinito disagio; io stesso ero sceso da una lettiga che i portatori illirici avevano accompagnato in fretta da Calagurris, un centro al di là dell'Ebro e in direzione sudovest. Nel sogno ero un questore provinciale di nome L. Celio Rufo ed ero stato convocato dal proconsole P. Scribonio Libone, giunto da Tarragona alcuni giorni prima. I soldati co-
stituivano la quinta coorte della Dodicesima Legione ed erano sotto il comando del tribuno militare Sesto Asellio. Da Calagurris, dove aveva sede il comando permanente, era arrivato anche il legato della regione, Curio Balbuzio. Causa del convegno era un orribile mistero che si annidava fra i monti: la gente della città era terrorizzata e aveva chiesto una coorte da Calagurris. Si era nel periodo più temuto dell'autunno, e le popolazioni barbare delle montagne si preparavano alle spaventose cerimonie di cui nei centri abitati arrivavano soltanto voci confuse. Quei selvaggi erano gli antichissimi abitanti delle zone più inaccessibili delle alture circostanti, e parlavano un linguaggio tribale che i vascones non riuscivano a capire. Li si vedeva raramente, ma alcune volte all'anno quell'antichissima gente mandava i suoi piccoli, gialli messaggeri dagli occhi a mandorla, che sembravano tutti sciiti, a commerciare coi mercanti di città; ovviamente si esprimevano a gesti, ma si sapeva che ogni primavera e ogni autunno sulle cime delle montagne il loro popolo organizzava riti infami, mentre le urla e i fuochi accesi sugli altari seminavano il terrore nei villaggi. Lo schema era sempre lo stesso: i riti avvenivano la notte prima delle Calende di maggio e quella prima delle Calende di novembre. Nei giorni immediatamente precedenti dai villaggi scomparivano diverse persone, di cui poi non si sapeva più nulla. C'erano voci secondo cui pastori e contadini della regione non fossero del tutto mal disposti verso l'antica gente, e la notte dei due orrendi sabba più d'una capanna dal tetto di paglia rimaneva regolarmente vuota. Quell'anno il terrore incombeva con particolare violenza, perché la gente sapeva che la collera dell'antico popolo minacciava Pompelo. Tre mesi prima cinque piccoli mercanti dagli occhi a mandorla erano scesi dalle montagne, e nel corso di una rissa scoppiata al mercato tre di essi erano rimasti uccisi. I due superstiti erano tornati ai loro monti senza una parola, e quell'autunno dai centri abitati non era scomparsa neppure un'anima. In questa singolare immunità la gente avvertiva una minaccia ancora peggiore: non era possibile che l'antica gente delle montagne rinunciasse alle vittime destinate al sabba; tutto andava troppo bene per essere normale, e gli abitanti della minuscola città avevano paura. Per molte notti un cupo risuonare di tamburi era giunto dalle montagne, finché l'edile Tiberio Anneo Stilpone (nelle cui vene scorreva un cinquanta per cento di sangue locale) aveva richiesto a Balbuzio, a Calagurris, una coorte che decimasse i membri del sabba durante la terribile notte. Balbuzio aveva inavvedutamente rifiutato, sulla base del fatto che le superstizio-
ni locali non avevano fondamento e che i disgustosi riti del popolo delle montagne non riguardavano i romani, a meno che i nostri stessi cittadini non fossero minacciati. Io tuttavia, che nel sogno ero intimo amico di Balbuzio, non ero d'accordo: sostenevo di aver studiato a fondo le nere, occulte credenze di quelle genti e le ritenevo capaci di rovesciare sulla città qualsiasi sciagura; dopotutto Pompelo era una colonia romana e conteneva un gran numero di nostri cittadini. La madre dell'edile, Elvia, era una romana pura, figlia di quell'Elvio Cinna che era arrivato con l'esercito di Scipione, e anche lei temeva per la sorte della comunità. Considerato tutto questo, avevo inviato uno schiavo - un greco piccolo e sottile di nome Antipater - al nostro proconsole, affidandogli alcune lettere. Scribonio aveva ascoltato la mia perorazione e ordinato a Balbuzio di inviare sul posto la quinta coorte, comandata da Asellio. L'ordine era di penetrare fra le montagne all'imbrunire, la sera delle Calende di novembre, e di reprimere con la massima forza gli eventuali riti orgiastici; i prigionieri, se ce ne fossero stati, dovevano essere condotti a Tarragona in attesa del giudizio del propretore. Balbuzio, tuttavia, aveva protestato e si era reso necessario un ulteriore scambio di corrispondenza. Avevo scritto al proconsole così estesamente che era rimasto affascinato dai miei argomenti e aveva deciso di svolgere un'inchiesta personale. Finalmente si era messo in marcia per Pompelo con i suoi attendenti e littori, e una volta giunto in città aveva sentito tali racconti da rimanere impressionato, addirittura turbato; quindi aveva fermamente ribadito il suo ordine di reprimere il sabba. Volendo conferire con qualcuno che avesse approfondito l'argomento, parlò con me ordinandomi di accompagnare la coorte di Asellio; Balbuzio, dal canto suo, ci aveva raggiunti per sconsigliarci calorosamente, convinto che una drastica azione militare avrebbe provocato una pericolosa inquietudine fra i vascones, sia quelli che appartenevano alle tribù selvagge che quelli inurbati. Dunque, ci trovavamo tutti nel mistico tramonto delle colline autunnali: il vecchio Scribonio Libone con la sua toga praetexta, illuminato dai raggi d'oro del sole che si riflettevano sulla testa calva e il volto rugoso e aquilino; Balbuzio con l'elmo e la corazza scintillanti, le labbra strette di chi dissente ma si sottomette alla forza maggiore, con appena un'ombra di barba azzurra sulle guance; il giovane Asellio con le insegne tirate a lucido e un ghigno di superiorità. E a parte questi dignitari, la folla curiosa dei cittadini, dei legionari, dei membri delle tribù, dei contadini, i littori, gli schiavi e gli attendenti. Per quanto mi riguarda, indossavo una toga comune e non avevo alcuna caratteristica di-
stintiva. Ovunque aleggiava l'orrore; la gente di città e delle campagne non osava quasi parlare ad alta voce e gli uomini della coorte di Libone, che si trovavano nella regione da circa una settimana, sembravano aver in parte assorbito quel terrore senza nome. Anche il vecchio Scribonio era molto serio, e le chiassose esclamazioni di noi ultimi arrivati avevano un che d'inappropriato, come chi si metta a gridare in un luogo di morte o nel tempio di una mistica divinità. Entrammo nel pretorio e tenemmo gravi consultazioni; Balbuzio avanzò le sue obiezioni che furono sostenute da Asellio, il quale disprezzava profondamente i nativi e allo stesso tempo non riteneva opportuno provocarli. I due soldati sostenevano che avremmo potuto difendere meglio la minoranza di coloni e nativi civilizzati con una tattica di resistenza passiva, anziché schierandoci apertamente contro una probabile maggioranza di selvaggi e contadini isolati, di cui avremmo dovuto reprimere i riti abominevoli. Da parte mia rinnovai la richiesta di azione, offrendomi di accompagnare la coorte se avesse deciso di intraprendere una spedizione. Sottolineai che i barbari vascones erano inaffidabili e turbolenti, e che qualunque politica attuassimo uno scontro con loro sarebbe stato, prima o poi, inevitabile; che in passato non si erano rivelati awersari temibili per le nostre legioni e che non sarebbe stato degno di rappresentanti del popolo romano tollerare che dei barbari interferissero con una condotta richiesta dalla giustizia e dal prestigio della repubblica. D'altra parte, aggiunsi, il successo nell'amministrazione di una provincia dipendeva principalmente dalla sicurezza e dalla buona volontà dell'elemento civilizzato, nelle cui mani riposava la macchina del commercio e della prosperità locale, e nelle cui vene scorreva una buona percentuale del nostro sangue italico. Erano costoro, per quanto numericamente limitati, l'elemento stabile sulla cui costanza potevamo fare affidamento e la cui cooperazione avrebbe saldamente legato la provincia alla volontà del senato e del popolo romano. Era quindi un dovere, oltre che un vantaggio, offrire loro la protezione dovuta a tutti i cittadini romani, anche se ciò costava (e qui lanciai un'occhiata sarcastica a Balbuzio e Asellio) qualche sforzo o un po' d'esercizio, e magari una breve interruzione delle partite a dadi e delle lotte di galli al campo di Calagurris. Che il pericolo per la città e gli abitanti di Pompelo fosse autentico, i miei studi non mi permettevano di dubitare. Avevo letto molti papiri raccolti in Siria, in Egitto e nelle misteriose città dell'Etruria e avevo parlato a lungo con il sanguinario sacerdote di Diana Aricina nel tempio che sorge
fra i boschi del lago Nemi. La notte del sabba potevano calarsi dalle montagne pericoli orrendi, calamità per cui non doveva esserci posto nelle terre abitate dal popolo romano. Consentire le orge che prevalevano durante quelle celebrazioni sarebbe equivalso a tradire i costumi dei nostri antenati, che sotto il console Postumio avevano messo a morte molti cittadini romani per la pratica dei baccanali: avvenimenti la cui memoria veniva perpetuata dal Senatus consultum de Bacchanalibus, scolpito sul bronzo e messo a disposizione di chiunque volesse leggerlo. Repressi in tempo, e prima che riuscissero nello scopo di evocare entità che il ferro di un pilum romano non sarebbe stato in grado di affrontare, i riti dei barbari non avrebbero rappresentato un difficile ostacolo anche per una sola coorte. Solo i partecipanti avrebbero dovuto essere arrestati: la tattica di lasciar liberi i semplici spettatori avrebbe ridotto considerevolmente il risentimento dei montanari. In poche parole, tanto i nostri princìpi che la nostra politica richiedevano un'azione drastica. Da parte mia non dubitavo che Publio Scribonio, tenendo chiare in mente la dignità e gli obblighi del popolo romano, avrebbe acconsentito al mio piano e inviato la coorte con il mio accompagnamento, nonostante le obiezioni di Balbuzio e Asellio; costoro, forse, le avrebbero ripetute e moltiplicate, ma in tal caso avrebbero parlato come provinciali e non più come romani. Il sole era ormai molto basso e l'intera città sembrava drappeggiata in un alone irreale, malevolo. Allora Publio Scribonio, il proconsole, manifestò la sua approvazione per le mie parole e mi assegnò alla coorte col grado provvisorio di centurio primipilus. Balbuzio e Asellio si piegarono, il primo con miglior grazia del secondo. Quando il crepuscolo d'autunno avvolse le montagne, un orribile e cadenzato battito di tamburi scese dalle alture, seguendo un ritmo spaventoso. Alcuni legionari si mostrarono spaventati, ma gli ordini dei superiori li riportarono nei ranghi e presto la coorte si avviò nel tratto di pianura che si stendeva a oriente del circo. Lo stesso Libone insisté per accompagnare i soldati insieme a Balbuzio, ma per trovare una guida disposta a indicarci la via da seguire sulle montagne furono necessarie grandi tribolazioni. Finalmente un giovanotto di nome Vercellio, figlio di puri genitori romani, accettò di accompagnarci almeno fino alle pendici della catena. Ci avviammo all'imbrunire, con un'esile falce di luna nuova che ondeggiava sui boschi alla nostra sinistra. Il fatto che ci inquietava era che il sabba si svolgesse comunque. Certo sui monti erano giunte voci della nostra spedizione, e nonostante la man-
canza di notizie sicure la faccenda non era meno inquietante: il suono dei tamburi continuava sinistro, come se i celebranti fossero indifferenti al fatto che l'esercito del popolo romano avanzasse su di loro. Il suono divenne più forte quando entrammo in una ripida gola fra due alture; i fianchi fittamente alberati ci chiudevano da una parte e dall'altra, e alla luce delle torce apparivano le forme di tronchi fantastici. I soldati erano tutti a piedi tranne Libone, Balbuzio, Asellio, due o tre centurioni e io stesso, ma alla fine il sentiero divenne così ripido e stretto che anche chi aveva i cavalli fu costretto ad abbandonarli. Una squadra di dieci uomini fu lasciata sul posto per sorvegliarli, anche se non era probabile che in una simile notte di terrore andassero in giro ladri di bestiame. Ogni tanto ci sembrava di scorgere nei boschi una figura acquattata, e dopo mezz'ora di quell'arrampicata le difficoltà del sentiero e la sua ristrettezza resero problematica l'avanzata di un corpo tanto nutrito (eravamo più di trecento uomini). All'improvviso, con nostro sconcerto, sentimmo un suono spaventoso che veniva dal basso: erano i cavalli che avevamo lasciato e che ora gridavano... No, non voglio dire che nitrissero, ma proprio che gridavano... A valle non c'era luce e non sentimmo voci di esseri umani: impossibile capire perché le bestie si comportassero così. Nello stesso momento sulle cime davanti a noi si accesero i fuochi, in modo che il terrore non ci seguiva soltanto ma ci precedeva. Quando cercammo il giovane Vercellio, la nostra guida, trovammo solo un mucchietto di membra disarticolate in una pozza di sangue. Impugnava ancora il gladio preso dalla cintura di D. Vinulano, un sub-centurione, e il volto era una tale maschera di terrore che anche i veterani più coraggiosi impallidirono. Si era ucciso quando i cavalli avevano gridato... in fondo era nato e vissuto nella regione, e conosceva i racconti che circolavano a proposito di quei monti. La luce delle torce cominciò ad impallidire e le grida dei legionari terrorizzati si mescolarono con quelle incessanti dei cavalli. L'aria si era fatta più fredda, certo più di quanto ci si possa aspettare all'inizio di novembre, ed era agitata da folate terribili che non potei fare a meno di attribuire al battito di ali gigantesche. La coorte era paralizzata, e mentre le torce impallidivano vidi quelle che mi sembravano ombre fantastiche giganteggiare nel cielo, delineate dalla spettrale luminosità della Via Lattea che correva attraverso Perseo, Cassiopea, Cefeo e il Cigno. Ma all'improvviso le stelle furono cancellate dal cielo: persino le splendide Deneb e Vega che si trovavano davanti a noi, la solitaria Altair e Fo-
maihaut alle nostre spalle. Quando le torce si furono spente definitivamente, sulla coorte paralizzata e in preda al terrore non brillarono che le orrende lingue di fiamma degli altari sui monti: fiamme rosse, infernali, che ora permettevano di intravvedere le sagome colossali e in movimento di mostri così estranei che mai prete frigio o indovino campano s'era azzardato a parlarne nei suoi racconti. E su tutto le urla notturne di uomini e cavalli che il demoniaco frastuono dei tamburi spingeva a vette sempre più disperate, mentre dai monti proibiti calava un vento gelido e dotato di una tremenda volontà, di una vitalità propria che gli permetteva di stringersi intorno a ogni uomo separatamente, finché la coorte fu sopraffatta dagli elementi e dal buio contro cui lottava invano, destinata a un fato simile a quello di Laocoonte e dei suoi figli. Solo il vecchio Scribonio Libone pareva rassegnato, e gridò alcune parole che sovrastarono il fragore generale, e che ancora echeggiano nelle mie orecchie. «Malitia vetus, malitia vetus est... venit... tandem venti...» A questo punto del sogno mi sono svegliato. È stato il più vivido che abbia fatto in anni, e certo attinge a profondità del subconscio che da tempo non venivano sfiorate, tanto da sembrare addirittura dimenticate. Sul destino della coorte non esistono dati storici, ma se non altro la città fu salvata, perché le enciclopedie ci dicono che Pompelo è sopravvissuta fino a oggi sotto il nome moderno di Pamplona... Tuo per la supremazia gotica G. Iulius Verus Maximinus (Pubblicato postumo con il titolo The Very Old Folk, che non è di Lovecraft; 2 novembre 1927.) Storia del Necronomicon In una lettera a Clark Ashton Smith del 27 novembre 1927, Lovecraft confessa: "No, quest'autunno non ho avuto la possibilità di scrivere altri racconti, ma ho preso appunti e schedato trame che mi serviranno per future mostruosità. In particolare ho messo insieme qualche notizia sul famoso e indicibile Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred! A quanto pare l'orrendo volume fu scritto da quest'autore di Sanaa, nello Yemen, vissuto intorno al 700 d.C. e spintosi in una serie di pellegrinaggi alle rovine di Babilonia, alle catacombe di Menfi e nelle immense distese solitarie dei deserti d'Arabia, il Raba el Khaliyeh, dove sosteneva di aver
trovato tracce di oggetti più antichi dell'uomo ed essersi iniziato al culto di Yog-Sothoth e Cthulhu. Il libro fu scritto nella vecchiaia di Abdul, quando abitava a Damasco, e il titolo originale è Al Azif. Come osserva Henley nelle note al Vathek, azif è il nome dato a quella bizzarra serie di rumori notturni (in realtà prodotti da insetti) che gli arabi ritengono essere il verso dei demoni". Ormai il Necronomicon esiste realmente: scaturito dalla fantasia di Lovecraft, questo celebre grimorio che ricorre in numerosi racconti e ha la poco simpatica facoltà di far impazzire i lettori inavveduti, è stato più volte pubblicato da editori specializzati nel fantastico e nell'occulto che hanno cercato di "ricostruire" il testo immaginato da HPL. In Italia l'editore Fanucci tradusse nel 1979 l'edizione inglese a cura di George Hay, che si diceva tradotta con il computer dalle carte dell'astrologo John Dee. In quell'occasione si scoprì che del Necronomicon esisteva una traduzione italiana fatta nel Cinquecento dal letterato ed esoterista rinascimentale Giulio Camillo Delminio... Che a noi risulti, è l'unica traduzione in una lingua volgare a tutt'oggi accreditata. Che ne avrebbe pensato HPL? La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S. T. Joshi e fornitoci in dattiloscritto. Titolo originale Al Azif: questa è la parola usata in arabo per indicare il rumore notturno prodotto da certi insetti, e che si crede sia anche il verso dei demoni. Il testo fu composto da Abdul Alhazred, poeta pazzo di Sanaa nello Yemen, forse fiorito all'epoca dei califfi Omiadi intorno al 700 d.C. Costui visitò le rovine di Babilonia e le segrete sotterranee di Menfi, dopodiché trascorse dieci anni nel grande deserto meridionale d'Arabia, il Roba el Khaliyeh o "Spazio Vuoto" degli antichi e il Dahna o Deserto Scarlatto degli arabi moderni, che lo ritengono protetto da spiriti maligni e abitato da mostri letali: coloro che sostengono di averlo attraversato ne raccontano meraviglie. Nei suoi ultimi anni Alhazred abitò a Damasco, dove il Necronomicon (Al Azif) fu scritto; sulla morte o scomparsa del poeta, avvenuta nel 738 d.C, si raccontano molte cose terribili e spesso contrastanti. Un biografo del sec. XII, Ebn Khallikan, riferisce che fu afferrato da un mostro invisibile nella piena luce del giorno e divorato davanti a un gran numero di testimoni agghiacciati. Sulla pazzia di Alhazred si è a lungo speculato. Sosteneva di aver visto la favolosa Irem, Città delle Colonne, e di aver trovato sotto le rovine di una sconosciuta metropoli del deserto i se-
greti e gli annali mostruosi di una razza più antica dell'umanità; non era di fede musulmana, ma adorava entità sconosciute che chiamava YogSothoth e Cthulhu. Nel 950 d.C. l'Azif, che aveva ottenuto una discreta e ufficiosa diffusione tra i filosofi del tempo, fu tradotto segretamente in greco da Teodoro Fileta di Costantinopoli, che gli attribuì il titolo di Necronomicon. Per un secolo circa il grimorio spinse alcuni sperimentatori a compiere terribili esperienze, finché venne bandito e fatto bruciare dal patriarca Michele. In seguito se ne è sentito parlare poco e segretamente, ma nel 1228 Olaus Wormius ne fece una traduzione in latino medievale che fu stampata due volte: una nel XV secolo in caratteri gotici (evidentemente in Germania) e l'altra nel XVII, probabilmente in Spagna. Entrambe le edizioni non hanno data né altri segni di identificazione, ed è possibile stabilire una collocazione geografico-temporale solo in base alle caratteristiche tipografiche interne. Tanto la versione greca che quella latina furono messe all'indice nel 1232 da papa Gregorio IX: evidentemente la tradizione del Wormius, avvenuta poco prima, aveva richiamato l'attenzione della Chiesa. L'originale arabo era da considerarsi perduto già ai tempi di Wormius, come da lui indicato nell'introduzione all'opera; quanto alla versione greca - che fu stampata in Italia fra il 1500 e il 1550 - nessun esemplare è stato più visto dopo l'incendio di una certa biblioteca privata a Salem, nel 1692. Una traduzione inglese effettuata dal dottor Dee non fu mai stampata ed esiste solo in frammenti recuperati dal manoscritto originale. Del testo latino esiste una copia (ed. sec. XV) nella sezione riservata del British Museum, mentre un'altra (sec. XVII) si trova nella Bibliothéque Nationale di Parigi. Altri esemplari del sec. XVII sono reperibili presso la Widener Library ad Harvard, nella biblioteca della Miskatonic University ad Arkham e in quella dell'università di Buenos Aires. È probabile che numerose altre copie esistano in segreto, e pare che un esemplare del sec. XV faccia parte della collezione di un famoso milionario americano. Una voce ancora più vaga attribuisce la conservazione di una copia del testo greco (XVI secolo) alla famiglia Pickman di Salem: ma se anche così fosse, è probabile che sia scomparsa con l'artista R.U. Pickman all'inizio del 1926. Il libro è rigorosamente vietato dalle autorità di molti paesi e da tutte le fedi organizzate. La sua lettura produce orribili conseguenze. Pare che voci riguardanti quest'opera (pressoché sconosciuta al grande pubblico) abbiano ispirato a R.W. Chambers l'idea centrale di uno fra i suoi primi libri, Il re in giallo.
(History of the Necronomicon, 1927) Ibid Ibid, forse scritto nel 1928, è uno "scherzo" inedito in Italia. La presente traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S.T. Joshi che ce lo ha gentilmente inviato in dattiloscritto. Appartiene alla vena eruditogoliardica di Lovecraft, che come dimostrano le sue lettere possedeva uno spiccato senso dell'umorismo. A qualcuno ricorderà il più compiuto e realistico Ex-Barone, pubblicato nel volume II di questa edizione. ("...come dice Ibid nelle sue famose Vite dei poeti". Dal tema di uno studente.) L'errata convinzione che Ibid sia l'autore delle Vite è tanto frequente, anche fra coloro che pretendono di possedere un certo grado di cultura, che val la pena di emendarla: dovrebbe esser noto a tutti che il responsabile di quell'opera è Cfr. Il capolavoro di Ibid, d'altro canto, è la famosa Op. Cit., in cui i molteplici e nascosti motivi dell'espressività greco-romana si cristallizzano una volta per tutte, e con tanto più ammirevole acutezza se si considera la data sorprendentemente tarda in cui il testo fu redatto. Secondo un'errata versione comunemente accettata nei libri moderni - prima del monumentale Geschichte der Ostrogothen in Italien di Von Schweinkopf Ibid sarebbe stato un visigoto dell'orda di Ataulfo in seguito romanizzato, e si sarebbe stabilito a Piacenza verso il 410 dell'era volgare. Non si potrà mai insistere troppo sul contrario perché Von Schweinkopf, e del resto, in seguito, Littlewit e Betenoir, hanno dimostrato con forza irrefutabile che la figura di questo intellettuale straordinariamente isolato è quella di un autentico romano (o almeno, autentico quanto ci si può aspettare da quell'epoca di degradazione e confusione razziale); di lui ben si potrebbe dire ciò che Gibbon disse di Boezio: "Sarebbe stato l'ultimo che Tullio o Catone avrebbero salutato come loro compatriota". E infatti, proprio come Boezio e quasi tutti gli uomini eminenti della sua epoca, Ibid apparteneva alla grande famiglia degli Anici e poteva far risalire la sua genealogia, con molta esattezza e soddisfazione, agli eroi della repubblica. Secondo Von Schweinkopf il suo nome completo - lungo e pomposo, secondo il costume di un'epoca che aveva perso la semplicità trionomastica della classica nomenclatura romana - sarebbe stato Caio Anicio Magno Furio Camillo Emi-
liano Cornelio Valerio Pompeo Giulio Ibido; anche se Littlewit respinge l'Emiliano e lo sostituisce con Claudio Decio Giuniano; mentre Betenoir si discosta totalmente dai colleghi, proponendo come effettivo nome del personaggio Magno Furio Camillo Aurelio Antonino Flavio Anicio Petronio Valentiniano Egido Ibido. L'eminente critico e biografo nacque nel 486, poco dopo la fine del dominio romano in Gallia ad opera di Clodoveo. Roma e Ravenna si contendono l'onore di avergli dato i natali, anche se è certo che egli ricevette l'educazione retorica e filosofica formale nelle scuole di Atene, la cui soppressione da parte di Teodosio un secolo prima è grossolanamente esagerata dai superficiali. Nel 512, sotto il regno benefico di Teodorico l'ostrogoto, lo troviamo a Roma come insegnante di retorica, mentre nel 516 sappiamo che gli venne affidato il consolato insieme a Pompilio Numanzio Bombasto Marcellino Deimortacci. Alla morte di Teodorico, nel 526, Ibid si ritirò dalla vita pubblica per comporre la sua celebre opera, il cui puro stile ciceroniano è un notevole caso di atavismo classico paragonabile ai versi di Claudio Claudiano, fiorito un secolo prima di lui; in seguito, tuttavia, il nostro intellettuale fu richiamato sulla scena pubblica come retore di corte di Teodato, nipote di Teodorico. Dopo l'usurpazione di Vitige Ibid cadde in disgrazia e per qualche tempo fu imprigionato, ma l'arrivo dell'esercito romano d'oriente al comando di Belisario ben presto gli restituì libertà e onori. Durante l'assedio di Roma servì coraggiosamente nell'esercito dei difensori, poi seguì le aquile di Belisario ad Alba, Porto e Centocelle. Dopo l'assedio franco di Milano, Ibid fu scelto per accompagnare il dotto vescovo Dazio in Grecia, e con lui si stabilì a Corinto nell'anno 539. Intorno al 541 si trasferì a Costantinopoli, dove ricevette tutte le testimonianze del favore imperiale sia da Giustiniano che da Giustino II. Gli imperatori Tiberio e Maurizio onorarono profusamente la sua vecchiaia e contribuirono in modo determinante alla sua immortalità: soprattutto Maurizio, il cui diletto principale consisteva nel rintracciare i propri antenati a Roma benché fosse nato ad Arabiscus, in Cappadocia. Fu Maurizio che, per il centounesimo compleanno del poeta, garantì l'adozione del suo libro come testo per le scuole dell'impero, un onore che si rivelò fatale per l'emotività del vecchio rettore, il quale morì serenamente nella sua casa presso la chiesa di Santa Sofia il sesto giorno prima delle Calende di settembre, nel 587 d.C. Aveva ben centodue anni. Nonostante le travagliate condizioni dell'Italia, i suoi resti furono portati a Ravenna per esservi seppelliti, ma la sepoltura poté avvenire soltanto nel
suburbio di Classe, dove le spoglie del poeta furono esumate e schernite dal duca longobardo di Spoleto, che portò il suo teschio al re Autario perché lo usasse come coppa. Il teschio di Ibid venne orgogliosamente tramandato di re in re per tutta la dinastia longobarda; alla conquista di Pavia da parte di Carlo Magno nel 774 il teschio venne sottratto al debole Desiderio e unito al bottino del conquistatore franco. Fu da questo calice, in effetti, che papa Leone somministrò l'unzione reale destinata a trasformare un eroe nomade nel primo Sacro Romano Imperatore. Carlo Magno portò il teschio di Ibid nella sua capitale di Aix, regalandolo poco dopo al suo maestro sassone, Alcuino; alla morte di questi, nell'804, la reliquia fu inviata alla famiglia che risiedeva in Inghilterra. Guglielmo il Conquistatore, trovatolo nella nicchia di un'abbazia dove la devota famiglia di Alcuino l'aveva lasciato (si riteneva che fosse addirittura il teschio di un santo che aveva miracolosamente sconfitto i longobardi con le sue preghiere), si prostrò dinanzi alla sua scheletrica vetustà; e persino i rozzi soldati di Cromwell, dopo aver distrutto l'abbazia di Ballylough, in Irlanda, nel 1650 (dove la reliquia era stata trasportata in segreto da un devoto cattolico nel 1539, quando Enrico VIII aveva chiuso i monasteri inglesi), si rifiutarono di usare violenza contro una testimonianza tanto venerabile. Se ne impadronì il soldato di ventura Baciapile Hopkins, che non molto tempo dopo lo barattò con un certo Requiemeterno Stubbs in cambio di una certa quantità di tabacco della Virginia. Quando Stubbs, giudicando che l'atmosfera della Restaurazione non fosse salutare a un giovanotto pio e squattrinato come il figlio Zerubbabel, e lo mandò a cercare fortuna in Nuova Inghilterra nell'anno di grazia 1661, gli consegnò il teschio di Sant'Ibid (o meglio di fratello Ibid, poiché aborriva tutto quanto sapeva di cattolicesimo) affinché lo conservasse come talismano. Arrivato a Salem Zerubbabel lo mise nella credenza accanto al camino, poiché aveva costruito per sé una modesta casa vicino al pozzo della città. Tuttavia la Restaurazione non aveva mancato di far sentire la propria influenza anche su di lui, ed essendosi dato al gioco d'azzardo perse il teschio con un certo Epenetus Dexter, un libero cittadino di Providence che si era spinto da quelle parti. La reliquia si trovava in casa Dexter - nella zona settentrionale di Providence, vicino a quella che oggi è l'intersezione di North Main Street e Olney Street - quando il 30 marzo 1676 si verificò l'incursione di Cannonchet, durante la guerra di re Filippo; l'astuto sachem, riconosciutala immediatamente come un oggetto di straordinaria dignità e antichità, la inviò
come simbolo d'alleanza a una fazione dei Pequot del Connecticut con cui stava negoziando. Il 4 aprile Cannonchet fu catturato dai coloni e subito dopo giustiziato, ma l'austero cranio di Ibid continuò le sue peregrinazioni. I Pequot, indeboliti da una guerra precedente, non poterono dare man forte alla tribù decimata dei Narragansett, e nel 1680 un commerciante di pelli olandese, Petrus van Schaack di Albany, si assicurò l'illustre reliquia per la modesta somma di due fiorini; tra l'altro ne aveva riconosciuto il valore dall'iscrizione semi-cancellata che ne ricopriva una parte, e che era vergata in minuscole longobarde. (Bisogna sapere, infatti, che la paleografia costituiva una delle discipline più apprezzate fra i mercanti di pellicce olandesi del XVII secolo.) Triste a dirsi, nel 1683 il teschio fu rubato a Van Shaack da un mercante francese, Jean Grenier, che nel suo zelo papista riconobbe i lineamenti di colui che fin da bambino gli era stato insegnato di pregare come Saint Ibide. Grenier, infiammato d'ira religiosa per aver trovato il sacro simbolo in possesso d'un protestante, una sera spaccò la testa di Van Shaack con un'ascia e fuggì al nord con il suo bottino. Ben presto, tuttavia, fu derubato e assassinato dall'avventuriero sanguemisto Michel Savard, che si impossessò del teschio - nonostante che l'ignoranza gli impedisse di riconoscerlo - e lo aggiuse a una collezione di materiale simile ma più recente. Alla sua morte, nel 1701, il fratello sanguemisto di Savard, Pierre, barattò la reliquia insieme ad altri oggetti con gli emissari delle Volpi Grigie, e una generazione più tardi un certo Charles de Langlade, fondatore del centro di scambi di Green Bay, nel Wisconsin, la trovò davanti alla tenda del capo indiano. De Langlade trattò il sacro oggetto con la venerazione che si conveniva, e infatti l'acquistò in cambio di una nutrita manciata di perle di vetro; ma alla morte del nuovo padrone il teschio passò ancora per molte mani. Fu scambiato nelle colonie in cima al lago Winnebago, fra le tribù del lago Mendota e infine, all'inizio del XIX secolo, passò a un certo Solomon Juneau, un francese che viveva presso la stazione commerciale di Milwaukee, sul fiume Menominee, praticamente sulle sponde del lago Michigan. Passato a Jacques Caboche, un altro colono, nel 1850, il prezioso cranio fu perduto nel corso di una partita a scacchi o a poker e finì nelle mani di un certo Hans Zimmerman, un nuovo venuto. Costui lo usò come calice da birra fino al giorno in cui, sotto i fumi dell'alcolica bevanda, lo mandò a ruzzolare lungo la scarpata che si apriva accanto al sentiero di casa; infilatosi nella tana di un cane della prateria, il venerando oggetto non poté esse-
re in alcun modo recuperato e a nulla valsero i tentativi di Zimmerman quando fu di nuovo lucido. Così, per intere generazioni, il cranio benedetto di Caio Anicio Magno Furio Camillo Emiliano Cornelio Valerio Pompeo Giulio Ibido, console di Roma, favorito degli imperatori e santo della Chiesa cattolica, rimase nascosto nel sottosuolo di una città che andava sviluppandosi rapidamente. In un primo momento fu adorato, con riti oscuri, dai ciechi animali del sottosuolo che in esso vedevano una divinità del mondo superno; ma cadde ben presto nell'oblio quando quelle semplici bestiole, capaci di costruire nient'altro che antiestetiche tane, soccombettero nel massacro organizzato dall'uomo ariano, nuovo conquistatore del continente. Vennero realizzate le fognature della città, che si limitarono a sfiorare la reliquia; furono costruite case - per l'esattezza 2303, forse qualcuna in più - finché, una notte fatale, avvenne un episodio della massima importanza. La natura è sempre astuta, e nella notte in questione si abbandonò a convulsioni degne di un'estasi mistica: simile alla schiuma della bevanda favorita nella regione, la terra schiacciò coloro che vivevano in alto e sollevò gli umili verso il cielo... Meraviglia! Nell'alba rosea gli abitanti di Milwaukee scoprirono che l'ex-prateria si era trasformata in un altipiano! Il terremoto era stato vasto ed esteso; i misteri del sottosuolo, nascosti per anni, vennero finalmente alla luce e in mezzo alla strada sventrata apparve, bianco e sereno, il santo, indifferente e dignitosissimo cranio del famoso Ibid! (Ibid, 1928?) L'orrore di Dunwich "Giugno 1928. A proposito, dopo più di un anno, ho cominciato un nuovo racconto. Si chiama The Dunwich Horror ed è così agghiacciante che forse Wright non avrà il coraggio di pubblicarlo. È ambientato nella valle superiore del Miskatonic, molto, molto a occidente di Arkham" (da una lettera a James F. Morton). "31 agosto 1928. Caro Klarkash-Ton, Gran sacerdote di Atlantide: saluti! Sono riuscito a rubare il tempo per un nuovo racconto, che attualmente è in possesso di Dwyer e a cui chiederò di mandarlo a te prima di restituirmelo. Sono 48 pagine, il che significa che Wright probabilmente lo considererà un 'racconto lungo'. Non gliel'ho ancora sottoposto, ma s'intitola The Dunwich Horror e appartiene al ciclo di Arkham. Il Necronomi-
con c'entra in qualche modo. Solo il cielo sa quando troverò il tempo di scrivere un'altra cosa mia, perché il lavoro di revisione mi occupa tutto il giorno..." (da una lettera a Clark Ashton Smith). Diviso tra i clienti e le lunghissime lettere, Lovecraft ormai scrive sempre più raramente: passeranno più di due anni prima che metta mano a The Whisperer in Darkness, il suo prossimo racconto. E se è vero che una parte delle "revisioni" sono virtualmente opera sua, ciò non toglie che l'impegno e l'originalità profusi nelle storie destinate a comparire sotto il suo nome si distacchino nettamente dalle collaborazioni. The Dunwich Horror è un tipico racconto del "ciclo di Cthulhu" e degli altri dèi cosmici, ma siccome questa definizione non è stata ancora collaudata Lovecraft si limita a definirlo "ciclo di Arkham". In una landa sperduta fra le colline del Massachusetts che ricorda, per arretratezza e superstizione, quella di Beyond the Wall of Sleep, Lovecraft dipinge un mondo contadino che pur nella sua ripugnanza stimola la sua immaginazione e mette in moto l'azione fantastica. Una donna albina e semideficiente dà alla luce un figlio, Wilbur, destinato a far da guardiano a qualcosa di più grande e misterioso che si agita nella soffitta di casa... La civiltà dei professori di Arkham si contrappone alle stregonerie dei Wheateley in un modello che riassume tutto il disgusto di Lovecraft per il caos morale, culturale e materiale da cui è assediata la vecchia civiltà puritana della Nuova Inghilterra; ma nel duello trapela il fascino del diabolico, del mostruoso che mai come in queste pagine calpesta uomini e cose con la furia di un flagello biblico. Dal racconto è stato tratto un mediocre film di Daniel Haller, Le vergini di Dunwich (The Dunwich Horror, 1970) che non mantiene quasi più nulla dell'intreccio lovecraftiano. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S.T. Joshi e che riproduce quello del manoscritto d'autore. "Gorgoni, idre, chimere, le terribili storie di Celeno e delle Arpie continuano a nprodursi in virtù della superstizione: eppure, le preesistono. Esse sono copie, modelli esemplari i cui archetipi sono in noi e sono eterni. Come potrebbe altrimenti impressionarci il racconto di fatti che, in perfetta coscienza, riconosciamo come falsi? Forse che siamo in grado di percepire direttamente il pericolo di queste creature, e temiamo che esse facciano del male al nostro corpo? Niente affatto! Questi terrori sono di più antica ori-
gine, risalgono oltre il corpo e senza il corpo sarebbero esistiti ugualmente... Che il genere di paura qui trattato sia puramente spirituale; che sia, in proporzione, tanto più forte quanto senza oggetto apparente sulla terra e che predomini nel periodo dell'infanzia innocente, sono problemi la cui soluzione consentirebbe maggior comprensione della nostra esistenza ante-mondana, e ci permetterebbe di gettare almeno uno sguardo nell'oscuro regno della pre-esistenza" Charles Lamb, Streghe e altri terrori notturni 1 Il viaggiatore che nel Massachusetts centro-settentrionale imbocchi il bivio sbagliato al raccordo del Picco d'Aylesbury, appena oltre Dean's Corners, si ritrova ben presto in una regione strana e solitaria. Il terreno sale, e le pareti di roccia fitte di rovi incombono sempre più sulla carreggiata della strada tortuosa e polverosa. Gli alberi dei boschi circostanti sembrano troppo grandi, e la sterpaglia, i pruni e le erbacce crescono con un rigoglio insolito per una regione abitata. Per contrasto, i pochi campi coltivati appaiono singolarmente brulli, mentre le fattorie sparse qua e là presentano un sorprendente e uniforme aspetto di decrepitezza, desolazione edecadenza. Senza sapere perché, si esita a chiedere informazioni alle figure solitarie e deformi che s'intravvedono talora sugli usci cadenti o sui pendii disseminati di rocce. Quelle figure sono tanto silenziose e furtive che destano una sensazione di vicinanza a cose proibite, con cui sarebbe meglio non aver nulla a che fare. Quando la strada s'inerpica su un'altura consentendo un colpo d'occhio sui monti che sovrastano i boschi, l'impressione di inspiegabile disagio si fa più intensa. Le cime sono troppo rotonde e simmetriche per suggerire quel senso di pace e di tranquillità tipico dei monti, e talvolta si delineano contro il cielo con particolare nitidezza i bizzarri cerchi di alte colonne di pietra che ne incoronano la sommità. Gole e precipizi di inquietante profondità scandiscono il percorso della strada, e i rozzi ponti di legno che li attraversano sembrano sempre tutt'altro che solidi. Quando la strada scende di nuovo, si vedono zone paludose che dispiacciono istintivamente e incutono paura, di sera, quando ciarlano invisibili caprimulghi e sciami abnormi di lucciole danzano al ritmo rauco, insistente, stridente del gracidio delle rane-toro. Il nastro sottile del Miskatonic superiore somiglia stranamente a un serpente che si torce ai piedi del-
le colline tondeggianti da cui nasce. Quando le colline si fanno più vicine, impressionano più i loro pendii boscosi che le sommità incoronate di pietra. Quei versanti appaiono così cupi e ripidi che si preferirebbe fossero più lontani, ma non c'è un'altra strada per evitarli. Attraversato un ponte coperto si scorge un piccolo villaggio raggomitolato fra l'ansa del fiume e la parete verticale di Round Mountain, e ci si meraviglia dell'agglomerato di tetti cadenti a doppia spiovenza, muta testimonianza d'un'architettura più antica di quella comune nella regione. Inquieta notare, a distanza ravvicinata, che la maggior parte delle case è deserta e in rovina, e che la chiesa dalle guglie crollate accoglie l'unico sciatto centro commerciale del paese. Si ha paura ad attraversare il tenebroso tunnel del ponte, eppure non si può farne a meno. Una volta dall'altra parte, è difficile non avvertire subito un sottile lezzo malsano nelle viuzze del villaggio, come di muffa e di sfacelo secolari. È sempre un sollievo allontanarsi da un posto simile: basta seguire la stradicciuola che costeggia le pendici delle alture e attraversa la successiva, piatta pianura, sino a ricongiungersi alla statale allo snodo di Aylesbury. In seguito, talvolta si viene a sapere d'esser passati per Dunwich. I forestieri si recano a Dunwich il meno possibile, e da quando vi sono accaduti certi fatti raccapriccianti tutti i cartelli stradali sono stati tolti. Il paesaggio, secondo un normale criterio estetico, è insolitamente bello; eppure non vi è afflusso di artisti né di turisti estivi. Due secoli fa, quando non si ironizzava sul culto delle streghe, l'adorazione di Satana e le presenze misteriose nei boschi, era comprensibile che sussistessero buoni motivi per evitare il posto. Nella nostra smaliziata era - poiché l'orrore di Dunwich del 1928 fu messo a tacere da coloro che avevano a cuore il benessere del villaggio e del mondo - la gente lo sfugge senza sapere perché. Forse un motivo - sebbene non sia valido per i forestieri non informati - è che gli abitanti del villaggio hanno raggiunto uno stadio di decadenza repellente, avendo percorso a ritroso i sentieri dell'evoluzione in maniera molto più accentuata dai nativi di altri sobborghi isolati del New England. Ormai formano una razza a sé stante, con ben definite stigmate di degenerazione e regressione. La media della loro intelligenza è penosamente bassa, mentre le cronache del paese pullulano di episodi di depravazione, incesto, assassinio, violenze e perversioni irriferibili. La vecchia nobiltà, rappresentata da due o tre famiglie di possidenti terrieri trasferitesi qui nel 1692 provenienti da Salem, si è mantenuta in qualche modo al di sopra del livello generale di decadenza, ma alcuni rami sono caduti tanto in basso, e si sono
confusi a tal punto con la sordida plebaglia, che ormai soltanto il loro nome testimonia la nobile origine che questa gente ha disonorato. Qualche Whateley o Bishop manda ancora i suoi rampolli ad Harvard e alla Miskatonic University, sebbene quei giovani ritornino raramente ai tetti cadenti ad abbaino sotto i quali sono nati. Nessuno, neppure chi è a conoscenza degli ultimi orrori, saprebbe dire con esattezza cosa non va a Dunwich; ma le vecchie leggende parlano di empi riti e di segrete riunioni d'indiani, durante le quali venivano evocate misteriose forme d'ombra dalle grandi colline a cupola, e venivano recitate barbare suppliche orgiastiche cui rispondevano sonori schianti e rimbombi da sotterra. Nel 1747 il reverendo Abijah Hoadley, appena giunto alla Chiesa Congregazionalista del Villaggio di Dunwich, tenne un memorabile sermone sulla vicina presenza di Satana e dei suoi accoliti, in cui disse tra l'altro: S'ha da ammettere che codeste Empietà d'un'infernale Schiera di Dèmoni sono Quistioni troppo universalmente note per essere negate; le Voci dannate di Azazel, di Buzrael e di Belial essendo state udite provenire di sotterra da innumeri Testimoni fededegni e ognor viventi. Io stesso, non più tardi di quindici Giorni addietro, cogliea un distinto ragionar de' Poteri maligni, nella collina dietro la mia Casa, laddove v'aveano Crepitii, Rimbombi, Lamentationi, Hurla et Sibili che niuna Cosa de la terra potea generare, per cui dovean di necessità sortire da quille infere Cavità che solo la Magia Nera puote discoprir e solo 'l Dimonio schiudere. Il signor Hoadley scomparve poco tempo dopo aver tenuto questo sermone; e il testo, stampato a Springfield, esiste ancora. Di anno in anno si continuò a parlare di rumori nelle colline, che ancor oggi sconcertano geologi ed esperti di geografia fisica. Altre leggende narrano di lezzi spaventosi nei pressi dei cerchi di pietra che incoronano le colline, e di presenze immateriali che fluttuano velocemente nell'aria e che potevano essere udite debolmente, a certe ore, in determinati punti nel fondo di forre profonde; altre ancora cercano di spiegare l'origine del Devil's Hop Yard, un pendio brullo e inaridito dove non cresce un albero, un cespuglio, né un filo d'erba. E, ancora, i nativi hanno un sacro terrore dei numerosi caprimulghi che intensificano il loro canto nelle calde notti estive. Si crede fermamente che questi uccelli psicopompi restino in attesa delle anime dei moribondi, e che modulino il loro miste-
rioso canto sul respiro affannoso della persona che sta lottando con la morte: se riescono ad acchiappare l'anima che vola via quando lascia il corpo, essi si allontanano istantaneamente con un verso che ricorda una risata demoniaca; se invece non ci riescono, si quietano gradatamente fino a diventare silenziosi per la delusione. Queste credenze sono, naturalmente, antiquate e ridicole; e del resto, provengono da tempi assai remoti. Perché Dunwich è terribilmente vecchio, molto più antico di qualunque altro villaggio nel raggio di trenta miglia. A sud del paese si possono ancora scorgere le pareti della cantina e il focolare della vecchia casa Bishop, costruita prima del 1700; mentre le rovine del mulino sulle cascate, costruito nel 1806, costituiscono l'esempio architettonico più moderno dell'intero sobborgo. Qui l'industria non attecchì, e lo sviluppo industriale del XIX secolo si dimostrò di breve durata. Ma più antichi di ogni altra cosa sono i grandi anelli di colonne di pietra rozzamente sbozzate sulla cima delle colline, che peraltro vengono generalmente attribuiti agli indiani piuttosto che ai colonizzatori. Depositi di teschi e ossa, rinvenuti all'interno di questi anelli e nei pressi del grande masso a forma di altare sulla sommità di Sentinel Hill, alimentano la credenza popolare che tali luoghi fossero un tempo cimiteri dei Pocumtuck, mentre molti etnologi, non rendendosi conto dell'assurdità della loro teoria, insistono nel ritenerle rovine caucasiche. 2 Fu nel territorio di Dunwich, in una grande fattoria parzialmente disabitata e costruita a ridosso del fianco d'un colle a quattro miglia dal villaggio e a un miglio e mezzo dall'abitazione più vicina, che Wilbur Whateley nacque alle 5 del mattino di domenica 2 febbraio 1913. Si ricorda la data perché era la festa della Candelora, ricorrenza che quelli di Dunwich celebrano stranamente sotto un altro nome; e perché erano risonati gli strani rumori sulle colline e tutti i cani della zona avevano abbaiato insistentemente durante l'intera notte. Meno degno di nota parve il fatto che la madre appartenesse al ramo decaduto dei Whateley; era una donna di trentacinque anni, albina e macilenta, poco attraente, che viveva con il vecchio padre quasi pazzo. Sul conto di quest'uomo, e all'epoca della sua giovinezza, erano circolate le più spaventose storie di stregoneria. Lavinia Whateley non era sposata, ma, secondo l'usanza della regione, non si diede pena di far riconoscere il figlio e lasciò che la gente del posto facesse le conget-
ture che voleva sulla paternità del bimbo, cosa che puntualmente accadde. Sembrava, al contrario, singolarmente fiera del pargolo dalla carnagione scura e dall'aspetto caprino che tanto contrastavano con il suo albinismo e i suoi occhi rosati, e fu udita borbottare curiose profezie sul portentoso futuro e gli insoliti poteri del figlio. Lavinia era tipo da dir simili cose, essendo una creatura solitaria, dedita a vagabondaggi sulle colline durante i temporali e che si sforzava di leggere i grandi volumi odorosi che suo padre aveva ereditato da due secoli di generazioni di Whateley. Quei libri, ormai, si sbriciolavano a causa dell'età e dei tarli. Non era mai andata a scuola, ma il vecchio Whateley l'aveva imbottita di farraginose e sconnesse nozioni ricavate da antiche tradizioni. La loro remota fattoria era sempre stata temuta per via della reputazione del vecchio, che si diceva fosse dedito alla magia nera; inoltre, l'inspiegabile morte violenta della signora Whateley, quando Lavinia aveva dodici anni, non aveva certo contribuito a rendere popolare il posto. Isolata fra misteriose influenze, Lavinia amava abbandonarsi a sogni sfrenati e selvaggi e si dedicava a singolari occupazioni; né le faccende domestiche le rubavano molto tempo, in una casa dove ogni regola d'ordine e di pulizia era scomparsa da lungo tempo. La notte in cui Wilbur nacque si udì un urlo terrificante, che sovrastò perfino i rumori sulle colline e l'abbaiare dei cani, ma, a quanto si sa, né un medico né una levatrice assistettero al parto. E i vicini non seppero nulla del bambino fino a una settimana dopo, quando il vecchio Whateley raggiunse con la slitta l'innevato villaggio di Dunwich e ne parlò confusamente con gli sfaccendati che stavano in permanenza nello spaccio di Osborn. Pareva che nel vecchio fosse sopravvenuto un cambiamento: un'ulteriore sfumatura sinistra nella sua mente annebbiata, che, sottilmente, lo trasformava da oggetto di paura in vittima della paura, anche se non era certo il tipo da lasciarsi turbare da comuni eventi familiari. Nonostante la paura, dimostrò anch'egli quella specie di orgoglio che in seguito apparve palese nella figlia, e molti di coloro che lo ascoltavano avrebbero ricordato, anni dopo, ciò che disse a proposito della paternità del bambino. «Non mi frega di ciò che pensa la gente. Se il moccioso di Lavinia somiglierà a suo padre, sarà tutto diverso da come ve l'immaginate. Non c'è mica solo la gente di queste parti... e poi, Lavinia ha letto e visto cose che neanche vi sognate. Suo marito è in gamba, è il migliore che si può trovare da questa parte dell'Aylesbury. Se sapeste quello che so io delle colline, non mi verreste a domandare perché non si sono sposati in una chiesa mi-
gliore e perché l'erede è nato com'è. Vi dico una cosa: un giorno sentirete il moccioso di Lavinia chiamare il nome di suo padre sulla Sentinel Hill!» Le uniche persone che videro Wilbur nel primo mese di vita furono il vecchio Zechariah Whateley, del ramo non decaduto, e la moglie illegittima di Earl Sawyer, Mamie Bishop. La visita di Mamie fu dettata francamente dalla curiosità, e ciò che disse in seguito fu in carattere con il suo spirito, ma Zechariah ci andò per consegnare due vacche Alderney che il vecchio Whateley aveva comperato da suo figlio Curtis. Ciò segnò l'inizio di una lunga serie di acquisti di bestiame, da parte della famiglia del piccolo Wilbur, che ebbe termine soltanto nel 1928, quando l'orrore di Dunwich venne e se ne andò. Eppure, pareva che la sgangherata stalla dei Whateley fosse sempre semivuota. Ci fu un periodo in cui la gente, spinta dalla curiosità, andava a nascondersi nei paraggi contando i capi che pascolavano precariamente sull'erto pendio della collina dove era abbarbicata la fattoria, e nessuno riuscì mai a vedere più di dieci o dodici anemici animali. Evidentemente qualche influsso nocivo, il cimurro provocato dal pascolo malsano o forse i funghi e i legni infetti della stalla, erano la causa di un'alta mortalità fra le bestie dei Whateley. Strane ferite o piaghe, che ricordavano vagamente delle incisioni, sembravano affliggere i capi visibili, e in un paio di occasioni, nei primi mesi, alcuni visitatori credettero di scorgere piaghe simili sulla gola del vecchio dalla grigia barba incolta e della sudicia albina dai capelli ricci. In primavera, Lavinia riprese le sue scorribande abituali sulle colline, stringendo fra le braccia sproporzionate il bambino dalla carnagione scura. La curiosità della gente per i Whateley andò scemando dopo che molti contadini ebbero visto il bimbo, e nessuno parve far caso alla rapidità con cui cresceva, quasi a vista d'occhio. In effetti lo sviluppo di Wilbur era fenomenale, perché, a soli tre mesi, aveva già raggiunto le dimensioni e una forza che solitamente non si riscontrano in bambini al di sotto di un anno. I gesti e perfino i primi tentativi di parlare rivelavano un controllo e una consapevolezza inusitati in un neonato, e nessuno si stupì veramente quando, a sette mesi, cominciò a camminare da solo con passi vacillanti che un altro mese bastò a rendere sicuri. Qualche tempo dopo - la vigilia d'Ognissanti - un grande bagliore fu visto a mezzanotte sulla sommità di Sentinel Hill, dove l'antica pietra simile a un altare si erge in mezzo al tumulo d'antiche ossa. E la gente dei dintorni fece un gran parlare quando Silas Bishop - del ramo non decaduto dei Bishop - disse di aver visto il bambino correre risolutamente su per la col-
lina, seguito dalla madre, circa un'ora prima che si notasse la vampata. Silas stava cercando una giovenca smarrita, ma quasi se ne dimenticò quando intravvide di sfuggita le due figure alla debole luce della lanterna. Correvano silenziose nel sottobosco, e all'esterrefatto osservatore parve che fossero completamente nude. In seguito non avrebbe potuto giurare che il bambino lo fosse, perché gli era sembrato che indossasse una specie di cintura a frange e un paio di brache corte o pantaloncini. Da allora Wilbur non fu mai visto, vivo e cosciente, senza un abbigliamento completo e vestiti perfettamente abbottonati, e anzi il disordine, o qualsiasi cosa minacciasse di scompigliargli gli abiti, sembrava riempirlo di furore e apprensione. E, a tale riguardo, il contrasto con la sciatteria della madre e del nonno fu sempre considerato rimarchevole, finché l'orrore del 1928 ne fornì una ragione più che valida. Il gennaio seguente non suscitò meraviglia il fatto che "il marmocchio scuro di Lavinia" cominciasse a parlare (aveva solo undici mesi). Il suo modo di esprimersi era alquanto stupefacente, sia perché privo del caratteristico accento della regione, sia perché rivelava una scioltezza e un'assoluta assenza di balbettii infantili di cui avrebbero potuto andar fieri bambini di tre o quattro anni. Il piccolo non era un chiacchierone, ma quando parlava si avvertiva la presenza di qualcosa d'indefinibile e di completamente estraneo a Dunwich e ai suoi abitanti. La stranezza non consisteva in ciò che diceva, né nei semplici vocaboli che usava, ma sembrava vagamente connessa all'intonazione o agli organi stessi della parola. Anche la precocità del volto era rimarchevole, perché, sebbene come la madre e il nonno praticamente non avesse mento, il naso forte già formato e l'espressione dei grandi occhi scuri, quasi latini, gli conferivano un'aria da persona adulta d'intelligenza quasi sovrumana. Era tuttavia bruttissimo, a dispetto della sua vivacità d'ingegno: c'era qualcosa di caprino e di bestiale nelle grosse labbra, nella pelle giallastra dai pori dilatati, nei capelli crespi e arruffati, nelle orecchie stranamente allungate. Ben presto fu guardato con sospetto e antipatia maggiori di quelli che circondavano la madre e il nonno, e tutte le supposizioni sul suo conto eran condite di allusioni ai trascorsi magici del vecchio Whateley, e alla volta in cui le colline avevano tremato quando egli aveva urlato il tremendo nome di Yog-Sothoth in mezzo a un cerchio di pietre, con un grande libro aperto davanti a sé. I cani detestavano il piccolo, che era sempre costretto a prendere misure difensive contro il loro abbaiare minaccioso.
3 Nel frattempo il vecchio Whateley continuava a comprare bestiame, ma la mandria era sempre stranamente sparuta. Quindi tagliò del legname per riparare le parti disabitate della fattoria, una casa spaziosa dal tetto aguzzo, il cui retro era completamente sepolto nel fianco roccioso della collina, e di cui tre stanze al pianterreno, meno in rovina delle altre, erano sempre state sufficienti per lui e la figlia. Dovevano esserci prodigiose riserve di energia nel vecchio per consentirgli di portare a termine una fatica tanto dura; e sebbene a volte farfugliasse cose demenziali, il suo lavoro sembrava il risultato di calcoli accurati. In realtà il vecchio aveva cominciato i lavori alla nascita di Wilbur, quando aveva improvvisamente riparato una baracca e l'aveva fornita di una nuova e robusta serratura. Adesso, rimettendo a posto il piano superiore e disabitato della casa, non si dimostrò artigiano meno abile. La sua follia si palesò soltanto nello sbarrare con assi di legno tutte le finestre della parte restaurata, sebbene molti sostenessero che era già una pazzia prendersi la briga di fare tanti lavori. Più logico fu, invece, che riparasse un'altra stanza al pianterreno per il nipotino, stanza che alcuni visitatori ebbero modo di vedere; nessuno, invece fu ammesso al piano superiore. Whateley ne rivestì le pareti con alte, solide scaffalature che riempì un poco alla volta e con il massimo ordine, sistemandovi gli antichi volumi fatiscenti e i libri squinternati che, ai suoi tempi, aveva ammassato alla rinfusa in vari angoli della casa. «Quante volte ho letto quésti libri», diceva, cercando di riattaccare una pagina stampata in caratteri gotici con una colla preparata sulla stufa rugginosa della cucina. «Ma il ragazzo saprà farne un uso migliore. Meglio che siano in ordine, perché saranno tutta la sua scienza.» A un anno e sette mesi - nel settembre del 1914 - lo sviluppo fisico e intellettuale di Wilbur era impressionante. Era già alto e grosso come un bambino di quattro anni, e parlava con una scioltezza e un'intelligenza incredibili. Correva libero per campi e colline, e accompagnava la madre in tutti i suoi vagabondaggi. A casa, studiava diligentemente le bizzarre illustrazioni e i diagrammi dei libri del nonno, mentre il vecchio Whateley lo istruiva e catechizzava per interi, lunghi pomeriggi. A quell'epoca i lavori di restauro della casa erano terminati, e quelli che la videro si chiesero perché i Whateley avessero trasformato una delle finestre del piano alto in una solida porta di assi. Era una finestra che dava sulla vicinissima collina, nella parte posteriore del timpano est a due spioventi; e nessuno riusciva a ca-
pire perché avessero costruito una pista o scivolo di legno davanti alla nuova porta dal pianterreno. Verso la fine dei lavori la gente notò che la vecchia baracca chiusa a chiave e senza finestre (quella riparata alla nascita di Wilbur) era stata nuovamente abbandonata. La porta adesso era sempre aperta, e quando un giorno Earl Sawyer vi entrò, dopo essere stato dal vecchio Whateley per una nuova consegna di bestiame, fu molto turbato dal singolare odore che avvertì: un fetore, dichiarò, come mai aveva sentito in tutta la sua vita salvo che nei pressi dei circoli di pietra indiani sulle colline, e che non poteva provenire da niente di sano o di questo mondo. Ma, dopo tutto, le case e le baracche di Dunwich non erano mai state un modello di purezza igienica. Nei mesi che seguirono non accadde nulla di particolare, o almeno nulla di cui la gente venisse al corrente, ad eccezione del fatto che tutti giuravano di aver notato un lento intensificarsi dei misteriosi rumori sulle colline. La vigilia di Calendimaggio del 1915, tremori e boati furono avvertiti persino dalla gente di Aylesbury, mentre la successiva vigilia d'Ognissanti si produssero rombi sotterranei stranamente sincronizzati con vampate di fuoco che si sprigionavano dalla cima di Sentinel Hill: erano "le stregonerie dei Whateley". Wilbur intanto continuava a crescere in maniera stupefacente, e quando compì quattro anni sembrava già un ragazzo di dieci. Ormai leggeva avidamente da solo ma parlava molto meno di prima. Era sempre assorto e taciturno, e per la prima volta la gente cominciò a notare un'espressione decisamente maligna sul suo volto caprino. A volte borbottava in un linguaggio incomprensibile e cantava misteriose cantilene che raggelavano chi le udiva, facendolo rabbrividire d'inspiegabile terrore. Tutti ormai s'erano accorti che i cani non lo potevano soffrire, ed egli era costretto a portare con sé una pistola per attraversare la campagna senza problemi. L'uso occasionale che faceva dell'arma non accrebbe la sua popolarità tra i proprietari di cani da guardia. I rari visitatori della casa trovavano spesso Lavinia sola, al pianterreno, mentre grida e passi bizzarri risuonavano al piano alto sbarrato con assi. Non diceva mai ciò che suo padre e il ragazzo combinassero di sopra, sebbene in un'occasione impallidisse e dimostrasse una paura violenta quando un pescivendolo ambulante in vena di scherzare cercò di aprire la porta sprangata che dava sulle scale. In seguito il pescivendolo raccontò agli sfaccendati dello spaccio di Dunwich che gli era sembrato di udire lo scalpitare di un cavallo al piano di sopra. Quei fannulloni rifletterono, pensando alla porta lontana dal suolo e allo
scivolo, nonché al bestiame che scompariva tanto in fretta. Poi rabbrividirono, al ricordo delle storie che risalivano alla lontana gioventù del vecchio Whateley e delle strane cose che si possono evocare dalla terra quando un torello viene sacrificato in determinati periodi dell'anno a certi barbari dèi. Da un certo tempo, inoltre, era stato notato che i cani avevano cominciato a detestare e a sfuggire la fattoria Whateley con la stessa intensità con cui odiavano la persona del giovane Wilbur. Nel 1917 scoppiò la guerra e il nobiluomo Sawyer Whateley, nella sua qualità di presidente della commissione di leva, ebbe il suo daffare a scovare un contingente di giovanotti di Dunwich da mandare anche soltanto in un campo di addestramento. Il Ministero, allarmato da simili segni di diffusa decadenza regionale, mandò a Dunwich diversi funzionari e medici specialisti per condurre un'inchiesta che forse i lettori dei giornali del New England ricordano ancora. E fu la pubblicità data a quest'inchiesta che mise i cronisti sulle tracce dei Whateley, inducendo il Boston Globe e l'Arkham Advertiser a stampare sensazionalistici articoli domenicali sulla precocità del giovane Wilbur, la magia nera del vecchio Whateley, gli scaffali ingombri di misteriosi libri, il secondo piano sbarrato dell'antica fattoria, l'arcana stranezza dell'intera regione e i rumori sulle colline. Wilbur aveva allora quattro anni e mezzo e pareva un ragazzo di quindici. Labbra e guance erano coperte da una ruvida peluria scura e la sua voce aveva cominciato a cambiare. Earl Sawyer guidò schiere di cronisti e fotografi alla fattoria Whateley, e richiamò la loro attenzione sull'intollerabile fetore che adesso sembrava provenire dalle stanze sbarrate del primo piano. Era, disse, identico al tanfo che emanava dalla baracca abbandonata quando finalmente il vecchio aveva terminato i lavori in casa, e assai simile al debole e quasi impercettibile lezzo che a volte gli era sembrato di avvertire sulle colline, nei pressi dei cerchi di pietra. Quelli di Dunwich lessero questi articoli quando furono pubblicati, e sogghignarono di alcune inesattezze. Si chiesero perché mai i giornalisti attribuissero tanta importanza al fatto che il vecchio Whateley pagasse il bestiame con antiche monete d'oro. Quanto ai Whateley, essi avevano ricevuto gli intrusi con malcelato fastidio, sebbene non avessero osato dare adito ad ulteriore pubblicità sbattendo loro la porta in faccia e rifiutando di farsi intervistare. 4
Nel corso dei dieci anni seguenti, la vita dei Whateley si confuse con quella di una malsana comunità avvezza alle loro stranezze e che aveva ormai fatto il callo ai loro riti di Calendimaggio e d'Ognissanti. Due volte all'anno i Whateley accendevano falò sulla cima di Sentinel Hill e in quelle occasioni i brontolii sulle alte colline si facevano molto più frequenti e marcati; ma in tutte le stagioni nella solitaria fattoria accadevano cose strane e spaventose. Col passar del tempo i visitatori ammisero che si udivano rumori anche al piano alto, che era sempre sbarrato, e questo persino quando tutta la famiglia si trovava di sotto. Qualcuno si chiese se le vacche e i buoi sacrificali venissero fatti morire alla svelta o lentamente. Si parlò di un reclamo alla Società per la Protezione degli Animali, ma poi non se ne fece più nulla, perché la gente di Dunwich non ha mai amato richiamare su di sé l'attenzione del mondo esterno. Verso il 1923, quando Wilbur era un ragazzo di dieci anni e la sua intelligenza, la voce, la statura, il volto barbuto, gli conferivano l'aspetto d'un uomo fatto, la vecchia casa subì una seconda ondata di ristrutturazioni. I lavori ebbero luogo soprattutto al primo piano sbarrato, e dal vecchio legname gettato via la gente dedusse che il giovane e il nonno avevano abbattuto tutti i tramezzi e rimosso perfino il pavimento della soffitta, lasciando così uno spazio interamente vuoto tra il pianterreno e il tetto a due falde spioventi. Demolirono il grande comignolo centrale e dotarono la stufa rugginosa d'un tubo di latta che usciva direttamente da una finestra. La primavera seguente il vecchio Whateley notò il numero sempre crescente di caprimulghi che uscivano dalla rada di Cold Spring per venire a cantare sotto la sua finestra, di notte. Parve attribuire molta importanza a questo fatto, e disse agli sfaccendati dello spaccio di Osborn che la sua ora era quasi giunta. «Ora cantano a tempo col mio respiro» disse «e credo che sono pronti a fregarmi l'anima. Sanno che sta per uscire e non vogliono perderla. Quando me ne sarò andato, ragazzi, saprete subito se l'hanno presa o no: se ci riescono continueranno a cantare e a ridere fino all'alba; se non ci riescono si calmeranno subito. A volte le anime e i caprimulghi litigano, eccome...» La notte del 1 agosto 1924, il dottor Houghton di Aylesbury fu chiamato d'urgenza da Wilbur Whateley, il quale aveva spronato nell'oscurità l'unico cavallo rimastogli ed era andato a telefonargli da Osborn. Il medico trovò il vecchio Whateley in condizioni molto gravi, vittima di un attacco cardiaco e con il respiro affannoso che faceva presagire la fine imminente. La sgraziata figlia albina e il nipote bizzarramente barbuto vegliavano accanto
al capezzale, mentre dal piano superiore e deserto proveniva un inquietante suono ritmico, ondeggiante, come di onde sulla sabbia. Tuttavia, il dottore fu turbato specialmente dallo schiamazzo che facevano all'esterno gli uccelli notturni: una legione di caprimulghi che gridavano il loro insistente e monotono richiamo in diabolica sintonia con gli affannosi rantoli del moribondo. Era misterioso e innaturale: davvero, pensò il dottor Houghton, come la regione in cui s'era inoltrato con tanta riluttanza in risposta a una chiamata urgente. Verso l'una il vecchio riprese conoscenza, e interruppe il suo ansimare per bisbigliare a fatica qualche parola al nipote. «Più spazio, Willy, più spazio, e presto. Tu cresci, ma quello cresce più svelto. Fra poco sarà pronto a servirti, ragazzo. Apri le porte a YogSothoth con la lunga cantilena che troverai a pagina 751 dell'edizione integrale, e poi, dai fuoco alla prigione. Il fuoco della terra non può bruciarlo, ora.» Evidentemente era impazzito del tutto. Dopo una pausa, durante la quale i caprimulghi adattarono il loro canto ossessivo al ritmo diverso del suo respiro, mentre di lontano giungevano indistinti brontolii dalle colline, il vecchio borbottò ancora qualche frase. «Nutrita regolarmente, Willy, e stai attento alla quantità: ma non farlo crescere troppo, per via dello spazio. Se butta giù la casa o esce prima di aver aperto le porte a Yog-Sothoth, è tutto finito, non servirà a niente. Solo quelli dell'altra parte possono moltiplicarlo e usarlo... Solo loro, gli Antichi che vogliono tornare indietro...» La frase si spense in un rantolo, e Lavinia urlò quando i caprimulghi adattarono un'altra volta il loro canto frenetico al nuovo ritmo di respiro del vecchio. Continuò così per più di un'ora, finché giunse il rantolo finale. Il dottor Houghton abbassò le palpebre raggrinzite sui grigi occhi sbarrati, mentre gli uccelli s'erano quasi completamente zittiti. Lavinia singhiozzava ma Wilbur si limitò a sogghignare, mentre riecheggiavano debolmente rumori lontani sulle colline. «Non l'hanno preso» borbottò con la sua grossa voce di basso. All'epoca, Wilbur era già uno studioso dalla prodigiosa erudizione, anche se in un solo campo, ed era conosciuto per corrispondenza da molti bibliotecari di città lontane dove si conservavano libri antichi, rari e proibiti. La gente dei dintorni, intanto, lo odiava e temeva sempre di più, per via della scomparsa di alcuni giovani di cui lo si sospettava vagamente; ma egli riuscì ad evitare ogni inchiesta perché incuteva paura, o forse grazie al-
la riserva di monete d'oro cui attingeva ancora, come aveva fatto suo nonno, per pagare il bestiame che acquistava in quantità crescenti. Wilbur aveva un aspetto eccezionalmente maturo per la sua età, e, pur avendo già raggiunto la normale statura di un adulto, tutto lasciava credere che l'avrebbe superata. Nel 1925, quando un erudito corrispondente della Miskatonic University andò un giorno a fargli visita, per ripartire pallido e perplesso, era alto quasi due metri. In tutti quegli anni Wilbur aveva sempre trattato la madre albina e deforme con crescente disprezzo, fino a proibirle di seguirlo sulle colline alla vigilia di Calendimaggio e d'Ognissanti; e nel 1926, l'infelice creatura si lamentò con Mamie Bishop d'aver paura di lui. «C'è in lui più di quanto ti possa dire, Mamie» le confidò «e forse più di quanto tu stessa sappia. Giuro davanti a Dio che non so che vuole o cosa cerca di fare.» Quella vigilia d'Ognissanti i rumori risonarono più forti che mai sulle colline, e come sempre il fuoco divampò su Sentinel Hill; ma la gente dei dintorni prestò più attenzione al ritmico canto di grandi stormi di caprimulghi che, nonostante l'autunno avanzato, s'erano innaturalmente raccolti attorno alla buia fattoria dei Whateley. Dopo mezzanotte le voci acute degli uccelli esplosero in una sorta di cachinno demoniaco che empì l'intera campagna, e non si chetò fino all'alba. Poi scomparvero, affrettandosi a volare nel sud dove avrebbero dovuto trovarsi già da un mese. Che cosa significasse, lo si capì soltanto qualche tempo dopo. Sembrava che non fosse morto nessuno nella zona, ma la povera Lavinia Whateley, l'albina deforme, non fu mai più vista in giro. Nell'estate del 1927 Wilbur riparò due baracche e cominciò a trasferirvi tutti i suoi libri e le sue cose. Poco dopo, Earl Sawyer riferì agli sfaccendati dello spaccio di Osborn che nella fattoria dei Whateley eran cominciati nuovi lavori. Wilbur stava sbarrando porte e finestre al pianoterra, e doveva aver tolto i restanti tramezzi, come aveva fatto di sopra quattro anni prima con il nonno. Viveva in una delle baracche, e Sawyer disse che gli era parso insolitamente preoccupato e nervoso. La gente in genere lo sospettava di non essere completamente estraneo alla scomparsa della madre, e ormai ben pochi osavano avventurarsi dalle sue parti. La sua statura aveva raggiunto i due metri e dieci centimetri, ma tutto lasciava credere che sarebbe cresciuto ancora. 5
L'inverno seguente portò un avvenimento straordinario: il primo viaggio di Wilbur fuori dal circondario di Dunwich. Aveva scritto inutilmente alla Widener Library di Harvard, alla Bibliothèque Nationale di Parigi, al Museo Britannico, all'Università di Buenos Aires, nonché alla Biblioteca della Miskatonic University di Arkham, per ottenere in prestito un libro di cui aveva disperato bisogno; così, alla fine, s'era deciso ad andare a consultare di persona - trasandato, sporco, barbuto e sapendo esprimersi soltanto nel suo rozzo dialetto - la copia custodita alla Miskatonic, il posto geograficamente più vicino. Alto quasi due metri e mezzo, con una valigia di cartone comprata allo spaccio di Osborn, quest'essere deforme, bruno e caprino, comparve un giorno ad Arkham cercando il temuto volume custodito sotto chiave nella biblioteca dell'università: l'abominevole Necronomicon del folle arabo Abdul Alhazred, nella versione latina di Olaus Wormius, stampato in Spagna nel XVII secolo. Wilbur non aveva mai visto una città prima d'allora, eppure non ebbe altro pensiero che rintracciare la sede dell'università, dove entrò difilato, senza far caso al grosso cane da guardia dalle bianche zanne che gli abbaiava con furia e un'ostilità innaturali, dando frenetici strattoni alla catena. Wilbur aveva con sé un inestimabile ma incompleto esemplare della versione inglese del dottor Dee, che il nonno gli aveva lasciato in eredità; e, dopo aver ottenuto il permesso di consultare la versione latina, cominciò subito a confrontare i due testi allo scopo di scoprire un certo passo che avrebbe dovuto trovarsi a pagina 751 del suo manoscritto, se questo fosse stato completo. E, per educazione, non poté esimersi dal parlarne al bibliotecario, quello stesso erudito Henry Armitage (laureato in Lettere alla Miskatonic, in Filosofia a Princeton, in Letteratura alla Johns Hopkins), che una volta gli aveva fatto visita alla fattoria, e che adesso lo importunava con le sue cortesi domande. Stava cercando, dovette ammetterlo, una specie di formula o incantesimo contenente lo spaventoso nome Yog-Sothoth, e lo sconcertava trovare discrepanze, ripetizioni e ambiguità che rendevano tutt'altro che facile l'individuazione del passo cercato. Mentre copiava la formula che infine aveva scelto, il dottor Armitage sbirciò involontariamente al di sopra delle sue spalle le pagine aperte; quella di sinistra, nella versione latina, conteneva terrificanti minacce alla pace e alla sanità del mondo. "Né si deve pensare" diceva il testo che Armitage tradusse mentalmente,
"che l'uomo sia il primo o l'ultimo dei padroni della Terra, né che questo banale impasto di carne e anima sia il solo a calcarne la polvere. Gli Antichi furono, gli Antichi sono, gli Antichi saranno. Non negli spazi che conosciamo, ma fra gli spazi, Essi trascorrono sereni, primevi e adimensionali e da noi non visti. Yog-Sothoth conosce la porta. Yog-Sothoth è la soglia. Yog-Sothoth è la chiave e il guardiano della soglia. Passato, presente, futuro coesistono in Yog-Sothoth. Egli sa dove gli Antichi irruppero in tempi remoti, e dove irromperanno un'altra volta. Egli sa dove Essi hanno calcato i campi della Terra e dove ancora li calcheranno, e perché nessuno può contemplarLi mentre camminano. Dal Loro odore possono gli uomini talvolta sapere che Essi sono vicini, ma il Loro sembiante nessun uomo conosce, eccetto che nelle fattezze di coloro che Essi hanno generato fra il genere umano; e di questi ultimi ve ne sono di molte sorte, assai diverse nell'aspetto: dalla più rassomigliante immagine dell'uomo, a quella invisibile forma priva di sostanza che è Loro. Trascorrono non visti e abominevoli in luoghi solitari ove le Parole sono state pronunziate e i riti urlati nelle Stagioni adatte. Le Loro voci mormorano nel vento, la Terra rimbomba della Loro consapevolezza. Essi piegano foreste e abbattono città, ma foreste e città non possono vedere la mano che le colpisce. Kadath nel deserto gelato Li ha conosciuti, e quale uomo conosce Kadath? Le gelide desolazioni del Sud e le inabissate isole dell'Oceano custodiscono pietre ove è inciso il Loro sigillo, ma chi mai ha contemplato le città gelate o le misteriose torri inghirlandate di alghe e di conchiglie? Il Grande Cthulhu è Loro cugino, eppure può scorgerLi a stento. Iä! Shub-Niggurath! Come un'abominazione voi Li conoscerete. La Loro mano è sulla vostra gola, e tuttavia non Li vedete; e la Loro dimora è la vostra stessa vigilata soglia. Yog-Sothoth è la chiave della soglia, ove le sfere s'incontrano. L'uomo regna oggi dove Essi regnarono un tempo; ma presto Essi regneranno dove l'uomo oggi regna. Dopo l'estate è inverno, e dopo l'inverno estate. Essi attendono, imperturbabili e potenti, perché qui Essi torneranno a regnare." Il dottor Armitage, associando ciò che stava leggendo con quel che aveva sentito dire di Dunwich e delle sue presenze conturbanti, di Wilbur Whateley e della tenebrosa, sinistra aura che lo circondava dal tempo della sua equivoca nascita fino a un sospetto di probabile matricidio, si sentì travolgere da un'ondata di terrore, tangibile come la fetida corrente d'aria fredda proveniente da una tomba. Quel gigante caprino, chino sui libri, che
gli stava davanti, sembrava progenie di un altro pianeta o di un'altra dimensione: qualcosa che era soltanto in parte umano e per il resto figlio dei neri abissi di essenza e d'esistenza che si dilatano, come titaniche fantasmagorie, di là dalle sfere di materia e d'energia, di spazio e di tempo. Poco dopo Wilbur alzò la testa e cominciò a parlare in quello strano modo risonante che faceva pensare ad organi della parola diversi da quelli umani. «Signor Armitage» disse «avevo pensato di portarmi a casa questo libro. Ci sono cose che devo provare, qui non ci sono le condizioni adatte. Sarebbe un peccato mortale se il nastro rosso me l'impedisse. Me lo lasci prendere, signor Armitage, giuro che nessuno se ne accorgerà. Non occorre dirlo, ma ci terrò molta cura. Non sono stato mica io a ridurre in questo stato la copia di Dee...» S'interruppe vedendo il fermo diniego sulla faccia del bibliotecario, e sui suoi lineamenti caprini si dipinse un'espressione furba. Armitage, che stava per dirgli di copiare tutte le pagine che voleva, pensò d'un tratto alle possibili conseguenze e si trattenne. Non intendeva assumersi la responsabilità di dare a un simile essere la chiave che schiude certe blasfeme sfere esterne. Whateley, capita al volo la situazione, ritenne più prudente non insistere. «Be', se la mette così... Forse a Harvard saranno meno pignoli.» E, senza aggiungere altro, si alzò e uscì dalla biblioteca, chinandosi davanti a ogni uscio. Armitage udì il selvaggio abbaiare del grosso cane da guardia e osservò dalla finestra la goffa andatura di Whateley, che procedeva a balzi, come un gorilla, attraverso il prato sottostante. Ripensò agli strani racconti che aveva udito, e gli tornarono in mente i vecchi articoli apparsi sui numeri domenicali dell'Advertiser e le leggende raccolte tra i contadini e gli abitanti di Dunwich l'unica volta che si era recato là. Cose invisibili e non di questo mondo - o almeno non del mondo tridimensionale - scorrazzavano, immonde e abominevoli, nelle strette, profonde valli del New England, e oscenamente s'annidavano sulle cime di monti e colline. Di questo era sicuro da tempo. Adesso credeva di avvertire vicinissima la presenza di quell'orrore strisciante, ne intravvedeva l'infernale avanzata nel tenebroso dominio dell'antico incubo, un tempo inerte. Chiuse a chiave il Necronomicon con un brivido di disgusto, ma nella stanza ancora stagnava un lezzo empio e inidentificabiìe. "Come un'abominazione voi Li conoscerete" ripeté fra sé e sé. Sì, era lo stesso tanfo che lo aveva fatto star male alla fattoria dei Whateley, meno di tre anni prima. Pensò ancora una volta a Wilbur,
caprino e sinistro, e sorrise ironicamente al ricordo delle voci che correvano al villaggio a proposito della sua paternità. «Altro che incesto!» borbottò a mezza voce. «Buon Dio, che sempliciotti! Mostrategli il gran dio Pan di Arthur Machen e quelli penseranno a un normale scandalo di Dunwich! Ma cosa... quale maledetto e informe orrore, scaturito o meno da questo mondo tridimensionale, fu il padre di Wilbur Whateley? Nato il giorno della Candelora, nove mesi dopo il Calendimaggio 1912, quando le chiacchiere sui bizzarri rumori sotterranei giunsero fino ad Arkham... Cosa camminava sulle colline quella notte di maggio? Quale orrore s'insinuò in questo mondo, in carne e sangue semi-umani, nel giorno della Croce?» Nelle settimane seguenti, il dottor Armitage cercò di raccogliere ogni possibile informazione su Wilbur Whateley e sulle presenze invisibili che infestavano Dunwich. Si mise in contatto con il dottor Houghton, di Aylesbury, che aveva assistito il vecchio Whateley nella sua ultima e fatale malattia, e gli dettero molto da pensare le ultime parole rivolte dal nonno al nipote, che il medico gli riferì. Fece un'altra puntata al villaggio di Dunwich, ma non scoprì nulla di nuovo; tuttavia un attento esame del Necronomicon, e soprattutto delle parti che Wilbur cercava avidamente, parve fornirgli nuovi e terribili indizi riguardo la natura, la tattica e le mire della misteriosa forza maligna che minacciava oscuramente questo pianeta. Le conversazioni scambiate con alcuni studiosi di antiche tradizioni a Boston, nonché una fitta corrispondenza con altri eruditi sparsi un po' dovunque, lo riempirono d'un allarme e uno sgomento che divenne ben presto vero e proprio panico. Con l'avvicinarsi dell'estate sentì ch'era necessario fare qualcosa, senza sapere bene cosa, per far fronte ai terrori in agguato nella valle del Miskatonic superiore e all'essere mostruoso noto agli uomini sotto il nome di Wilbur Whateley. 6 L'orrore di Dunwich giunse tra il 1° agosto e l'equinozio del 1928, e il dottor Armitage fu tra coloro che ne videro il mostruoso prologo con i propri occhi. Nel frattempo, aveva saputo del grottesco viaggio a Boston di Whateley, e dei suoi frenetici sforzi per ottenere in prestito il Necronomicon dalla Widener Library, o poterne copiare i brani. Ma i suoi tentativi erano stati vani, perché Armitage aveva inviato accorati appelli a tutti i bibliotecari che custodivano l'esecrato volume, mettendoli in guardia. Wilbur
s'era dimostrato estremamente nervoso a Cambridge: ansioso di procurarsi il libro e altrettanto ansioso di tornare a casa, come se temesse le conseguenze di un'assenza prolungata. Ai primi di agosto ebbe luogo l'episodio quasi previsto, e nelle ore piccole del giorno 3, il dottor Armitage fu svegliato di soprassalto dai selvaggi latrati del feroce cane da guardia nel campus del college. Ringhiava, guaiva, abbaiava, in un crescendo terribile, interrotto da pause spaventose e significative. Poi, da una gola che non era affatto quella del cane, esplose un urlo che svegliò metà degli abitanti di Arkham e che avrebbe infestato per sempre i loro sogni, un urlo che nessun essere di questo mondo, o del tutto umano, avrebbe mai potuto emettere. Armitage, infilandosi addosso qualcosa in fretta e furia, corse a perdifiato sul prato del college verso gli edifici universitari, e vide che altri lo avevano preceduto; poteva udire il campanello d'allarme che suonava ancora in biblioteca. Una finestra aperta sembrava una nera bocca spalancata sotto il chiaro di luna. L'intruso si trovava ormai dentro l'edificio, perché i latrati e le urla, che andavano affievolendosi in ringhi e lamenti soffocati, provenivano incontestabilmente dall'interno. L'istinto avvertì Armitage che quello che stava accadendo non era spettacolo per gente normale, così respinse con decisione la piccola folla di persone impaurite e assonnate, mentre faceva scattare la serratura della porta d'ingresso. Vide, tra gli altri, il professor Warren Rice e il dottor Francis Morgan, due uomini ai quali aveva confidato le sue congetture, e a questi fece cenno di seguirlo. Dall'interno non proveniva più alcun rumore, tranne il ringhio basso e continuo del cane; ma Armitage, con un improvviso sussulto, sentì che un alto coro di caprimulghi, tra i cespugli, intonava il diabolico e ritmico canto, come se stesse accompagnando gli ultimi respiri d'un moribondo. Nei locali ristagnava il lezzo spaventoso che il dottor Armitage conosceva bene, e i tre uomini attraversarono di corsa l'atrio diretti alla saletta di lettura della sezione genealogica, dalla quale sembrava provenire il basso mugolio del cane. Per un secondo nessuno osò accendere la luce, ma poi Armitage, chiamato a raccolta tutto il suo coraggio, fece scattare l'interruttore. Uno dei tre - non si sa bene chi - urlò alla vista della cosa che giaceva sul pavimento fra tavoli in disordine e sedie rovesciate. Il professor Rice afferma di aver perduto conoscenza per un istante, senza tuttavia barcollare né cadere. La cosa, distesa sul fianco e immersa in una pozza di icore verdegiallastro, denso come catrame, era lunga quasi due metri e settanta, e il
cane ne aveva ridotto a brandelli i vestiti e porzioni di pelle. Non era ancora morta, ma si contorceva spasmodicamente in silenzio, mentre il torace si alzava e si abbassava in mostruosa sintonia con il folle canto dei caprimulghi in attesa. Frammenti di cuoio delle scarpe e pezzi di vestiario erano sparsi tutt'intorno, e appena sotto la finestra un sacco di tela vuoto giaceva là dove evidentemente era stato gettato. Una rivoltella era caduta accanto al tavolo centrale, e più tardi si scoprì che una cartuccia difettosa aveva impedito all'arma di sparare. Tuttavia in quel momento fu la creatura a richiamare l'attenzione degli uomini. Sarebbe banale e parzialmente inesatto affermare che nessuna penna umana avrebbe potuto descriverla, ma si può dire senz'altro che non poteva essere percepita con chiarezza da nessuno le cui idee di grandezza e aspetto fisico fossero troppo strettamente legate alle forme di vita comuni su questo pianeta e a una prospettiva tridimensionale. Era parzialmente umana, senza dubbio, con mani e testa umane, e la faccia caprina e senza mento recava l'inconfondibile impronta dei Whateley. Ma il torso e la parte inferiore del corpo eran favolosamente difformi, e solo i vestiti molto larghi avevano consentito a simile trionfo teratologico di camminare impunemente sulla terra. Dalla vita in su era semi-antropomorfo, anche se il petto, su cui poggiavano ancora le zampe del cane che l'aveva dilaniato, era rivestito della pelle coriacea d'un coccodrillo o d'un alligatore. La schiena era chiazzata di giallo e di nero, e ricordava vagamente la pelle squamosa di certi serpenti. Ma dalla vita in giù era anche peggio, perché qui finiva ogni parvenza umana e cominciava l'incubo sfrenato. Era ricoperta di una folta pelliccia nera, e dall'addome si protendevano una ventina di lungi tentacoli flessibili, verdegrigiastri, dotati di ventose rosse. La loro disposizione era bizzarra, e sembrava seguire le simmetrie d'una geometria cosmica sconosciuta alla terra o al sistema solare. In ciascun fianco, affondato in una sorta di orbita rosea e ciliata, s'apriva quello che sembrava un occhio rudimentale, mentre al posto della coda pendeva una specie di proboscide o d'organo senziente formato da anelli purpurei, che aveva tutta l'aria di essere una bocca o una gola mal sviluppata. Gli arti inferiori, tranne che per la folta pelliccia nera, rammentavano vagamente le zampe posteriori dei giganteschi sauri preistorici, e terminavano in appendici, increspate di vene, che non erano zoccoli né artigli. Quando la cosa respirava, i tentacoli e l'organo al posto della coda cambiavano ritmicamente colore, probabilmente per cause circolatorie normali nella parte nonumana del suo corpo. Nei tentacoli la sfumatura verdastra si accentuava, mentre nella pseudo-coda gli
spazi fra gli anelli purpurei si tingevano d'un colore giallastro che si alternava a un bianco-grigiastro malaticcio. Di vero sangue non ce n'era: solo l'orrendo siero giallastro colava sul pavimento, allargandosi in una pozza viscosa che stranamente lo scoloriva. L'essere morente parve accorgersi della presenza dei tre uomini, perché cominciò a borbottare qualcosa senza alzare o voltare la testa. Il dottor Armitage non registrò per iscritto quei balbettii, ma afferma in confidenza che nulla fu pronunziato in inglese. Dapprima le sue parole non sembravano appartenere a nessuna lingua conosciuta, ma verso la fine risonarono alcune frasi sconnesse, con tutta evidenza passi dal Necronomicon, l'opera empia e mostruosa in cerca della quale la cosa era perita. Questi frammenti, come Armitage li ricorda, suonavano più o meno così: «N'gai, n'gha'ghaa, bugg-shoggog, y'hah; Yog-Sothoth, Yog-Sothoth...». Si persero nel nulla, mentre i caprimulghi stridevano in un ritmico crescendo d'attesa crudele. Poi la cosa smise di rantolare e il cane alzò il muso emettendo un lungo, lugubre ululato. Un cambiamento sopravvenne nel volto caprino e giallastro dell'essere disteso sul pavimento, e i grandi occhi neri divennero spaventosamente vitrei. Fuori della finestra, lo stridulo canto dei caprimulghi si placò all'improvviso e, sopra il mormorio della folla che s'era raccolta nei pressi, si udì un panico e frenetico frullar d'ali. Contro la luna si profilarono grandi nuvole di uccelli in fuga, terrorizzati da ciò che avevano atteso. Tutto a un tratto il cane sussultò, guaì spaventato e saltò freneticamente dalla finestra attraverso cui era entrato. Un grido si levò dalla folla, e il dottor Armitage urlò agli uomini fuori di non far entrare nessuno finché la polizia e il medico legale non fossero giunti sul posto. Ringraziò il cielo che le finestre fossero troppo alte perché qualcuno potesse sbirciare all'interno, e, per maggior sicurezza, tirò accuratamente le tende scure. Intanto erano arrivati due poliziotti e il dottor Morgan, andando loro incontro nell'atrio, li scongiurò di non entrare nella saletta satura di orrore finché non fosse giunto il medico legale e si fosse quindi potuta coprire la cosa distesa sul pavimento. Nel frattempo, orribili mutamenti avvenivano nella creatura. Non occorre descrivere il genere e il grado di contrazioni e disintegrazioni che ebbero luogo sotto gli occhi del dottor Armitage e del professor Rice; basti dire che, tranne la parvenza fornita da faccia e mani, l'elemento umano di Wilbur Whateley era stato minimo. Quando finalmente arrivò il medico legale,
trovò soltanto una viscida massa biancastra sul pavimento, mentre il lezzo abominevole era quasi scomparso. Whateley, evidentemente, non aveva mai avuto un teschio né uno scheletro stabili e permanenti. Per certi versi, doveva somigliare parecchio al padre sconosciuto. 7 Ma tutto questo non fu che il preludio dell'orrore di Dunwich. Funzionari sgomenti provvidero alle formalità di rito, i dettagli più raccapriccianti furono accuratamente tenuti nascosti alla stampa e al pubblico, e tanto a Dunwich quanto ad Aylesbury furono inviati uomini per fare un inventario delle proprietà e per mettersi in contatto con eventuali eredi del defunto Wilbur Whateley. Trovarono la campagna in grande fermento, sia per i crescenti rumori che venivano da sotto le colline a cupola, sia a causa dell'insopportabile fetore e degli insistenti suoni, simili a onde o a sciabordii, che provenivano incessantemente dalla grande rovina vuota ch'era diventata la fattoria dei Whateley. Earl Sawyer, che s'era occupato del cavallo e del bestiame durante l'assenza di Wilbur, era sull'orlo di un esaurimento nervoso. I funzionari trovarono pretesti per non entrare nella rumorosa casa sbarrata e si accontentarono di ispezionare le due baracche recentemente rimesse a nuovo dove il defunto aveva vissuto negli ultimi tempi. Tra l'altro, vi si recarono una volta soltanto. Inoltrarono un voluminoso rapporto al tribunale di Aylesbury, e si dice che liti per il possesso dell'eredità siano ancora in corso tra gli innumerevoli Whateley, decaduti e non, della valle del Miskatonic superiore. Un manoscritto interminabile, in caratteri misteriosi, vergato su un enorme libro-mastro e ritenuto una specie di diario a causa delle spaziature e delle variazioni d'inchiostro e di scrittura, costituì un formidabile rompicapo per coloro che lo trovarono nel vecchio comò che fungeva da scrittoio del defunto. Dopo una settimana di accese discussioni, fu inviato alla Miskatonic University, assieme alla raccolta di misteriosi libri appartenuti a Wilbur, perché venisse studiato e possibilmente tradotto; ma anche i migliori linguisti videro subito che era un'impresa disperata. Non fu invece trovata traccia dell'oro antico con cui Wilbur e il vecchio Whateley erano soliti pagare i loro acquisti. L'orrore si scatenò il 9 settembre, dopo il tramonto. I rumori sulle colline erano stati particolarmente forti durante la sera e i cani abbaiarono rabbiosamente tutta la notte. Le persone più mattiniere, il giorno 10, avvertirono
un singolare fetore nell'aria. Verso le sette Luther Brown, il garzone di George Corey che aveva la fattoria fra la rada di Cold Spring e il villaggio, tornò indietro di corsa, sconvolto dalla paura, dai pascoli di Ten-Acre Meadow dove aveva portato il bestiame. Era letteralmente fuori di sé, quando irruppe in cucina, mentre nel cortile le vacche, non meno terrorizzate di lui, scalpitavano e muggivano penosamente, dato che avevano seguito il ragazzo in preda al panico. Balbettando e respirando affannosamente, Luther cercò di raccontare alla signora Corey ciò che aveva visto. «Lassù, signora Corey, dall'altra parte del vallone, nel sentiero c'era qualcosa! Un tanfo da matti! E i cespugli e gli alberelli tutti spaccati e buttati da parte, come se ci fosse passato sopra una casa. E non è questo il peggio: le impronte nel sentiero, signora Corey! Grandi impronte, grandi come una botte... profonde come quelle di un elefante... solo che le zampe dovevano essere più di quattro! Ne ho guardata una prima di scappare e ho visto che era coperta di linee che partivano da un solo posto... Come se il terreno fosse stato calpestato da pinne o da piedi palmati, ma grandi, assai grandi! E la puzza era tremenda, come quella attorno alla casa del mago Whateley...» Gli mancò il fiato e ricominciò a tremare, pensando allo spavento che l'aveva fatto tornare a casa a rotta di collo. La signora Corey, non riuscendo a cavare altro dal ragazzo, cominciò a telefonare ai vicini, diffondendo in tal modo i preludi d'un panico che faceva presagire ben più grandi terrori. Quando sentì Sally Sawyer, governante di Seth Bishop, nella fattoria più vicina a quella dei Whateley, toccò a lei ascoltare anziché comunicare le cattive notizie. Pareva dunque che Chauncey, figlio di Sally, che soffriva d'insonnia, fosse stato sulla collina delle parti dei Whateley, e fosse scappato anche lui in preda al panico, dopo aver dato un'occhiata al luogo e al pascolo dove le vacche del signor Bishop erano rimaste per tutta la notte. «Sì, signora Corey» disse la voce tremante di Sally all'altro capo del filo «Chancey è appena tornato a dirmelo, quasi non riusciva a parlare tanta paura aveva, il disgraziato! Dice che la casa del vecchio Whateley è scoppiata, con le assi fatte a pezzi come se dentro ci fosse la dinamite. Solo il pavimento a pianterreno è rimasto intero, ma è coperto da una specie di fango che pare catrame. C'è una puzza tremenda, e anche la tavola e i pezzi dei mobili hanno ancora attaccato quell'odore. E nel cortile ci sono segni che fanno paura... grandi impronte tonde, più grandi della testa di un porco, attaccaticce come la roba nella casa scoppiata. Chancey dice che vanno
verso i prati, dove l'erba è tutta schizzata, e anche i muri della stalla sono crollati... Dove passa quella cosa, tutto viene giù! «E dice» continuò Sally «che quando ha cercato le vacche di Seth, con la paura che aveva, le ha trovate nel pascolo alto, vicino a Devil's Hop Yard, e erano in condizioni tremende. La metà erano spacciate e l'altra metà, quello che restava delle povere bestie, erano tutte senza sangue... qualcosa gliel'ha succhiato, e avevano piaghe come quelle sulle bestie dei Whateley quando è nato il marmocchio di Lavinia. Seth è uscito adesso per andare a controllare, anche se giurerei che non andrà troppo vicino alla casa del mago Whateley! Chancey non ha guardato bene dove parte la fascia di erba schizzata oltre il terreno a pascolo, ma gli pare verso il sentiero del vallone che scende al villaggio. «Glielo dico io, signora Corey: qua c'è in giro qualcosa che non dovrebbe esserci, e giurerei che dietro a tutta questa porcheria c'è Wilbur Whateley, lo scuro! Ma sì, ha avuto la fine che si meritava... Non era un uomo normale, e penso che lui e il vecchio Whateley, dentro la casa, hanno tirato su qualcosa che è ancora meno umano. Ci sono sempre state cose vive, intorno a Dunwich: vive ma non umane e non buone per l'umanità. «La scorsa notte la terra ha brontolato e verso mattina Chancey ha sentito i caprimulghi cantare forte nella rada di Cold Spring, e non ha chiuso occhio. Dopo gli è sembrato di sentire un altro rumore, più debole, dalle parti del mago Whateley, come legno spezzato. Sì, come se lontano aprissero una cassa di legno. Così, fra una cosa e l'altra, non ha dormito fino all'alba ma si è alzato presto lo stesso per andare a vedere quello che succedeva nel posto dei Whateley. Ha visto abbastanza, signora Corey, le dico solo questo! Non c'è niente di buono in questa storia, tutti gli uomini dovrebbero formare una squadra e agire. C'è qualcosa di spaventoso nei dintorni, e sento che sta arrivando la nostra ora. Ma Dio solo sa di che si tratta! «Il suo Luther ha visto dove portavano le impronte? No? Be', signora Corey, se erano sul sentiero del vallone e non vanno verso casa vostra, allora dovrebbero portare nella valle direttamente. Dico sempre che la rada di Cold Spring non è un posto buono e neanche sano. I caprimulghi e le lucciole, là, non si sono mai comportati come creature di Dio e sono loro, o così dicono, a comunicare strane cose mentre volano nell'aria; mettendosi nel posto giusto, tra le cascate a Bear's Den, chiunque li può sentire.» Verso mezzogiorno, più di tre quarti degli uomini e dei ragazzi di Dunwich si diressero in gruppo verso le strade e i campi compresi nella zona
fra le nuove rovine della fattoria Whateley e la rada di Cold Spring, esaminando con orrore le grandi, mostruose impronte, il bestiame mutilato di Bishop, i misteriosi resti ammorbati della fattoria e la vegetazione, sui campi e lungo i sentieri e le strade, pressata e stritolata. Qualsiasi cosa avesse fatto irruzione nel mondo, di sicuro era andata giù nella grande e sinistra forra; perché tutti gli alberi sul bordo erano stati schiantati e un enorme solco era stato scavato nel sottobosco che sovrastava la gola. Era come se una casa, trascinata da una valanga, fosse scivolata fra la fitta vegetazione del pendio quasi verticale. Dal fondo del vallone non proveniva alcun suono, ma soltanto un vago, indefinibile fetore; nessuna meraviglia, dunque, che gli uomini preferissero starsene al sicuro ai margini, discutendo sul da farsi, piuttosto che scendere di sotto e affrontare l'ignoto e ciclopico orrore nella sua tana. In un primo tempo, tre cani che gli uomini avevano portato con sé s'erano messi ad abbaiare furiosamente, ma giunti nei pressi della gola parvero intimoriti e riluttanti ad avvicinarsi. Qualcuno telefonò la notizia all'Aylesbury Transcript, ma il redattore, abituato alle mirabolanti storie di Dunwich, si limitò a pubblicare un trafiletto umoristico, subito ripreso dall'Associated Press. Quella sera tutti fecero ritorno alle loro case, e ogni abitazione e ogni stalla fu sbarrata il più solidamente possibile. Inutile dire che anche tutto il bestiame fu fatto rientrare. Verso le due del mattino, un tanfo mostruoso e il selvaggio abbaiare dei cani svegliarono la famiglia di Elmer Frye, che abitava vicino al bordo orientale del vallone, e tutti convennero di aver udito una specie di mormorio o di ovattato sciabordio provenire da qualche parte all'esterno. La signora Frye propose di telefonare ai vicini, ed Elmer stava per farlo, quando uno schianto di legno spezzato li fece sobbalzare. Pareva venisse dalla stalla, e fu seguito subito da raccapriccianti muggiti e scalpitii. I cani si accucciarono sbavando ai piedi dei padroni sgomenti. Frye accese una lanterna, per forza d'abitudine, ma sapeva che uscire nell'aia immersa nell'oscurità significava morire. I bambini e le donne di casa piagnucolarono, trattenendosi dal gridare, perché un oscuro, arcaico istinto di conservazione li avvertiva che le loro vite dipendevano dal silenzio. Alla fine, dalla stalla provenì soltanto un pietoso lamento, seguito da un grande fracasso di colpi, crolli e schianti. I Frye, stretti l'uno all'altro nel soggiorno, non osarono muoversi finché ogni rumore non si fu spento in lontananza, verso la rada di Cold Spring. Allora, fra i lugubri lamenti provenienti dalla stalla e il canto demoniaco dei caprimulghi nella forra, Selina Frye raggiunse vacillando il telefono e comunicò le tragiche nuove che
contrassegnavano l'inizio della seconda fase dell'orrore. Il giorno dopo l'intera campagna era in preda al panico, e gruppi d'uomini silenziosi e sgomenti andavano e venivano dal luogo dove s'era verificato l'orrendo episodio. Due titanici solchi di distruzione correvano dal vallone all'aia dei Frye, impronte mostruose punteggiavano i tratti di terreno privi di vegetazione, e una parte della vecchia stalla rossa era completamente crollata. Solo un quarto del bestiame poté essere ritrovato e identificato. Certi capi erano stati fatti a pezzi e quelli sopravvissuti dovettero essere abbattuti. Earl Sawyer suggerì di chiedere aiuto ad Aylesbury o ad Arkham, ma altri dissero che sarebbe stato inutile. Il vecchio Zebulon Whateley, di un ramo non del tutto decaduto, accennò ad alcune cose oscure e avanzò pazzesche proposte circa i rituali che bisognava tenere sulla sommità delle colline. Discendeva da una famiglia di solide tradizioni, e i suoi ricordi di canti entro i grandi cerchi di pietra non avevano nulla a che vedere con Wilbur e suo nonno. L'oscurità scese su quella contrada sgomenta e troppo passiva per organizzare una difesa vera e propria. Alcune famiglie tra loro imparentate decisero di trascorrere la notte sotto lo stesso tetto, vegliando insieme fino all'alba, ma, in generale, la gente si limitò a barricarsi nelle case come la notte prima, e alcuni presero l'inutile e irrisoria precauzione di caricare vecchi moschetti e di tenere i forconi a portata di mano. Tuttavia non successe nulla di particolare, salvo qualche rumore sulle colline; e quando fece giorno, molti sperarono che il nuovo orrore se ne fosse andato altrettanto improvvisamente di com'era venuto. Alcuni ardimentosi proposero addirittura una spedizione punitiva nel vallone, benché nessuno di essi osasse per primo dare l'esempio alla maggioranza riluttante. Al calar della notte, i contadini si barricarono un'altra volta in casa, sebbene meno famiglie si riunissero assieme. Il mattino dopo, i Frye e i Bishop riferirono che i cani erano stati molto inquieti per tutta la notte e che s'erano avvertiti rumori e tonfi in lontananza, mentre alcune persone mattiniere, uscite per un giro di controllo nei dintorni, notarono con raccapriccio una nuova serie di mostruose impronte nella strada che costeggiava Sentinel Hill. Come nei casi precedenti, in più punti la carreggiata era franata, fatto che indicava quanto fosse tremenda e prodigiosa la mole dell'invisibile orrore; la disposizione delle tracce sembrava denotare un duplice passaggio, come se la montagna mobile fosse venuta dalla rada di Cold Spring e vi fosse tornata per la stessa via. Alla base della collina, una fascia di circa nove metri di arbusti spianati saliva quasi a picco, e gli uomini
rimasero sbalorditi quando videro che l'enorme solco proseguiva anche nei punti a strapiombo, senza deviare. Di qualunque mostro si trattasse, era in grado di scalare un dirupo roccioso quasi perfettamente verticale; e quando questi coraggiosi raggiunsero la sommità della collina, seguendo sentieri più sicuri, videro che qui il solco terminava: o, piuttosto, incominciava. Ed era proprio il posto dove i Whateley erano soliti accendere i loro fuochi infernali e cantare demoniaci rituali accanto alla roccia a forma di altare, le vigilie di Calendimaggio e d'Ognissanti. Adesso quella pietra costituiva il centro esatto di un vasto spazio calpestato dall'orrore colossale, mentre sulla superficie leggermente concava s'era depositato uno spesso strato della medesima melma fetida e viscosa notata sul pavimento della fattoria Whateley quando l'abominio ne era esploso fuori, distruggendola. Gli uomini si guardarono scuotendo la testa e borbottando qualcosa sottovoce. Poi osservarono la collina sottostante. Con tutta evidenza, l'abominio era disceso a valle seguendo una via grosso modo uguale a quella percorsa per salire lassù. Far congetture non aveva senso. Ragione, logica, ogni punto di vista umano vacillavano di fronte all'ignoto. Forse solo il vecchio Zebulon, che non era con il gruppo, avrebbe potuto rendere giustizia alla situazione o suggerire una spiegazione plausibile. La notte di giovedì cominciò come le altre, ma finì molto peggio. I caprimulghi ammassati nel vallone avevano strillato con tanta insistenza che molti non erano riusciti a chiudere occhio, e verso le tre del mattino tutti i telefoni collegati al centralino cominciarono a trillare contemporaneamente. Coloro che alzarono il ricevitore, udirono una voce rotta dal panico urlare: «Aiuto! oh, mioddio!...», e a qualcuno sembrò che l'interruzione della voce fosse stata seguita dal rumore d'uno schianto. Poi più nulla. Nessuno osò muoversi, e fino al mattino seguente nessuno seppe da dove proveniva la chiamata. Adesso coloro che l'avevano ascoltata chiamarono a turno tutti quelli collegati al centralino e si scoprì che soltanto i Frye non rispondevano. Un'ora dopo si seppe la verità, quando un gruppo di uomini armati, radunatosi in fretta e furia, si diresse verso la fattoria dei Frye, al limitare del vallone. Fu orribile, ma non una sorpresa. Gli uomini trovarono altri solchi e orme mostruose, ma la fattoria non esisteva più. Era stata stritolata come un fragile guscio d'uovo, e tra le rovine non c'era nessuno, vivo o morto: soltanto fetore e una sostanza viscosa. La famiglia di Elmer Frye era stata cancellata da Dunwich. 8
Nel frattempo un altro aspetto dell'orrore, più silenzioso ma spiritualmente ancor più intenso, andava malignamente dispiegandosi dietro la porta chiusa in una stanza di Arkham dalle pareti coperte di libri. Il curioso manoscritto o diario di Wilbur Whateley, affidato alla Miskatonic University perché venisse tradotto, aveva provocato imbarazzo e perplessità tra gli specialisti di lingue antiche e moderne, perché gli stessi caratteri usati, nonostante una leggera somiglianza con l'arabo astruso della Mesopotamia, erano assolutamente sconosciuti alle varie autorità contattate. I linguisti giunsero alla conclusione che doveva trattarsi d'un alfabeto fittizio che sortiva gli stessi risultati d'un cifrario, sebbene nessuno dei soliti metodi di decifrazione crittografica fornisse qualche indizio utile, a prescindere dalla lingua che l'autore poteva aver usato (furono sperimentate quasi tutte quelle note). Gli antichi volumi trovati nelle baracche dove Whateley aveva vissuto i suoi ultimi giorni, sebbene estremamente interessanti e in parecchi casi densi di promesse per nuovi e terribili campi di ricerca per i filosofi e gli uomini di scienza, non furono di alcun aiuto sotto questo profilo. Uno di essi, un ponderoso tomo con chiusura di ferro, era scritto in un altro alfabeto sconosciuto, ma di genere diverso, e ricordava soprattutto il sanscrito. Alla fine, volumi e manoscritto furono affidati al dottor Armitage, sia per il suo particolare interesse nei confronti del caso Whateley, sia per le sue vaste cognizioni di glottologo e l'esperienza in fatto di formule magiche dell'antichità e del medioevo. Armitage si formò l'opinione che doveva trattarsi di un alfabeto usato in modo esoterico, come presso certi culti proibiti tramandati dai tempi antichi e che hanno ereditato consuetudini e tradizioni dai maghi del mondo saraceno. Quel problema, tuttavia, non era vitale, perché sarebbe stato inutile conoscere l'origine dei caratteri se, come sospettava, essi erano stati usati come scrittura cifrata in una lingua moderna. E riteneva anche che, data l'estensione del testo, lo scrivente ben difficilmente si sarebbe preso la briga di usare una lingua diversa dalla sua, tranne forse che per certe particolari formule magiche o incantesimi. Di conseguenza, cominciò a lavorare al manoscritto partendo dalla premessa che il grosso del testo fosse in inglese. Il dottor Armitage sapeva, visti i ripetuti fallimenti dei suoi colleghi, che l'enigma era profondo e complesso, e che quindi sarebbe stato perfettamente inutile cercare di risolverlo con i metodi usuali. Nell'ultima parte di agosto egli arricchì le sue già vaste cognizioni di crittografia attingendo a
tutte le risorse della sua biblioteca personale, e notte dopo notte sprofondò negli arcani della Polygraphia di Tritemio, del De Furtivis Literarum Notis di Giambattista Porta, del Traité de Chiffres del De Vigénère, della Cryptomenysis Patefacta del Falconer, dei trattati del XVIII secolo di Davys e di Thicknesse, e di alcune più recenti autorità quali Blair, von Marten, nonché del Kryptographik di Klüber. Alternava lo studio di questi volumi a estenuanti tentativi di venire a capo dello stesso manoscritto, e col passar del tempo si convinse di aver a che fare con uno di quei sistemi crittografici, tra i più ingegnosi ed elusivi, in cui diverse serie di lettere corrispondenti sono ordinate allo stesso modo della tavola pitagorica, e il messaggio è costruito con parole-chiave arbitrarie note solo agli iniziati. Le autorità più antiche, in ogni modo, gli furono più di aiuto di quelle moderne, e Armitage giunse alla conclusione che il codice del manoscritto doveva essere antichissimo, e indubbiamente tramandato attraverso molte generazioni di sperimentatori occulti. Più d'una volta gli parve d'essere a un passo dalla soluzione, ma sempre qualche ostacolo imprevisto lo riportava al punto di partenza. Infine, in settembre, l'oscurità si fece meno fitta. Certe serie di lettere, usate in determinate parti del manoscritto, emersero nitidamente e inequivocabilmente: risultò senza ombra di dubbio che il testo era davvero in inglese. La sera del due settembre crollò l'ultima barriera, e il dottor Armitage riuscì a leggere, per la prima volta, un intero brano delle cronache di Wilbur Whateley. Si trattava d'un diario, come tutti avevano supposto, ed era vergato in uno stile che rivelava in modo ovvio la mescolanza d'erudizione occulta e di mancanza di cultura generale dello strano essere che l'aveva scritto. Uno dei primi passi cifrati da Armitage - un'annotazione datata 26 novembre 1916 - si dimostrò molto inquietante, anzi stupefacente. Era stata scritta, gli venne fatto di pensare, da un bambino di tre anni e mezzo che aveva l'aspetto di un ragazzo di dodici o tredici anni. Oggi imparato l'Aklo per il Sabaoth, che non mi piace perché si ottiene risposta dalla collina e non dall'aria. Quello di sopra, più avanti di me di quanto pensassi, non sembra che abbia molto cervello umano. Sparato al collie Jack di Elam Huitchins quando si è fatto sotto per mordermi, e Elam dice che mi ucciderebbe se potesse. Non credo che lo farà. Ieri notte, il nonno mi ha fatto ripetere in continuazione la formula Dho, e io credo di aver visto la città interna ai 2 poli magnetici. Ci andrò quando la Terra sarà ripulita, se non riesco ad aprirmi prima un varco con la formula di Dho-
Hna quando l'avrò imparata. Quelli dell'aria mi hanno detto al Sabba che ci vorranno anni prima che possa ripulire la terra, e immagino che per allora il nonno sarà morto, così dovrò imparare tutti gli angoli dei piani e le formule tra l'Yr e il Nhhngr. Quelli di fuori mi aiuteranno, ma non possono prendere corpo senza sangue umano. Quello di sopra pare che abbia le caratteristiche adatte. Lo posso vedere un poco quando faccio il segno Voorish o ci soffio addosso la polvere di Ibn Ghazi, ed è vicino come loro la vigilia di Calendimaggio sulla Collina. L'altra faccia forse sparirà del tutto. Mi chiedo come sarò io quando la terra sarà stata ripulita e su di essa non ci saranno più terrestri. Quello che venne con l'Aklo del Sabaoth disse che potrei essere trasfigurato, essendoci in me molto materiale Esterno su cui lavorare. Il mattino trovò il dottor Armitage in un bagno di sudore freddo, in preda al terrore e a una frenetica concentrazione. Aveva passato la notte sul manoscritto, seduto al tavolo sotto la luce elettrica, voltando una pagina dopo l'altra con mani tremanti, via via che decifrava il criptico testo. Aveva telefonato in fretta alla moglie che non sarebbe rincasato, e quando lei gli portò la colazione da casa, toccò appena cibo. Continuò a leggere per tutto il giorno, di quando in quando, esasperato perché si rendeva necessaria una riapplicazione della complessa chiave. Assaggiò appena il pranzo e la cena che gli erano stati portati. Verso la metà della notte seguente, si assopì per un po' sulla sedia, per risvegliarsi di soprassalto da un viluppo d'incubi altrettanto orribili delle verità e delle minacce all'esistenza dell'uomo che egli aveva scoperto. Il mattino del 4 settembre, il professor Rice e il dottor Morgan insistettero per vederlo e se ne tornarono via tremanti e grigi come la cenere. Quella sera Armitage andò a letto, ma dormì solo a tratti. Il giorno seguente, mercoledì, si rimise al lavoro sul manoscritto, e cominciò a prendere molti appunti sia delle parti già decifrate sia di quelle che stava leggendo al momento. Nelle ore piccole di quella notte s'appisolò nella comoda poltrona dell'ufficio, ma prima dell'alba era nuovamente chino sul manoscritto. Poco prima di mezzogiorno, il suo medico, dottor Hartwell, passò a trovarlo e insistette perché si riposasse. Armitage non ne volle sapere, dichiarando che era di importanza vitale terminare la lettura del diario, e promettendogli una spiegazione a tempo debito. Quella sera, sul far del tramonto, egli finì l'accurato esame del terribile manoscritto e si accasciò esausto. La moglie, portandogli la cena, lo trovò
in condizioni semicomatose; tuttavia era in sé quanto bastava per dissuaderla, con un grido, dal posare gli occhi sugli appunti che aveva preso. Alzandosi a fatica, raccolse i fogli fitti di annotazioni e li chiuse in una grande busta che poi sigillò e infilò in una tasca della giacca. Gli era rimasta forza sufficiente per tornare a casa, ma vi giunse in uno stato tale che la moglie chiamò subito il dottor Hartwell. Quando questi lo mise a letto, egli riuscì a borbottare più volte soltanto: «In nome di Dio, cosa possiamo fare?». Il dottor Armitage dormì, ma il giorno dopo continuava a delirare. Non diede spiegazioni ad Hartwell, ma nei momenti di lucidità disse che doveva vedere assolutamente Rice e Morgan. I suoi vaneggiamenti erano impressionanti, specialmente quando supplicava in modo frenetico di distruggere qualcosa che era racchiuso in una fattoria sbarrata, o alludeva a un fantastico piano per l'annientamento del genere umano e l'estirpamento di ogni forma di vita animale e vegetale da parte d'una spaventosa, antica razza di esseri provenienti da un'altra dimensione. Urlava che il mondo era in pericolo, perché le Creature Antiche intendevano distruggerlo, precipitandolo fuori dal sistema solare e dal cosmo a noi conosciuto in un altro piano o fase di esistenza da cui era caduto incalcolabili ère prima. Altre volte implorava che gli fossero dati l'esecrato Necronomicon e la Daemonolatreia di Remigio, nei quali sembrava fiducioso di trovare qualche formula che scongiurasse il pericolo incombente. «Fermateli, fermateli!» gridava. «Quei Whateley volevano farli entrare, e il peggiore di tutti è rimasto! Dite a Rice e a Morgan che dobbiamo fare qualcosa... È un'impresa disperata, ma io so come preparare la polvere... Non è stato più nutrito dal 2 agosto, quando Wilbur ha incontrato qui la sua fine, e di questo passo...» Ma Armitage aveva un fisico robusto, nonostante i suoi settantatré anni, e un'altra notte di sonno lo rimise in sesto senza che gli venisse la febbre. Si svegliò tardi, venerdì, e del tutto lucido, sebbene oppresso da una sorda paura e da un tremendo senso di responsabilità. Sabato pomeriggio si sentì abbastanza in forze per andare in biblioteca e convocarvi Rice e Morgan; i tre uomini trascorsero quindi il resto della giornata e la sera lambiccandosi il cervello con pazzesche speculazioni e disperate discussioni. Strani e terribili volumi furono prelevati dagli scaffali traboccanti e da segreti ripostigli chiusi a chiave; formule e diagrammi furono ricopiati con fretta febbrile e in sconcertante abbondanza. Nei tre uomini non c'era ombra di scetticismo. Avevano visto il corpo di Wilbur Whateley sul pavimento d'una stan-
za di quello stesso edificio, e nessuno di loro si sentiva minimamente incline a considerare il diario come i vaneggiamenti di un pazzo. Si discusse sull'opportunità o meno d'avvisare la Polizia di Stato del Massachussetts, ma alla fine prevalse l'opinione contraria, dati i molti aspetti incredibili della storia per chi non fosse stato testimone di certi fatti, e questa opinione fu confermata durante le indagini successive. A tarda notte la riunione si sciolse senza che fosse stato messo a punto un piano definitivo, ma Armitage trascorse l'intera giornata di domenica confrontando formule e mescolando sostanze chimiche ottenute dal laboratorio dell'università. Più rifletteva sull'infernale diario, più era incline a dubitare dell'efficacia di qualsiasi agente materiale impiegato per distruggere l'entità che Wilbur Whateley s'era lasciato dietro, l'entità che minacciava la terra e che, senza che lui lo sapesse, si sarebbe scatenata di lì a poche ore per diventare appunto l'orrore di Dunwich. Il dottor Armitage trascorse il lunedì come la domenica, perché l'impresa cui si stava accingendo richiedeva un'infinità di ricerche e d'esperimenti. Ulteriori consultazioni del mostruoso diario lo costrinsero ad apportare delle modifiche al suo piano, ma lui sapeva che fino all'ultimo i risultati sarebbero stati incerti. Il giorno dopo, martedì, aveva abbozzato una linea d'azione abbastanza precisa che includeva un viaggio a Dunwich da effettuarsi entro una settimana. Poi, mercoledì, la situazione precipitò: relegato in un angolo dell'Arkham Advertiser, un ironico trafiletto dell'Associated Press raccontava quale mostro portentoso fosse stato generato a Dunwich dal whisky di contrabbando. Armitage, sbigottito, non poté che telefonare a Rice e a Morgan. Discussero fino a notte tarda, e trascorsero il giorno seguente in preparativi frenetici. Armitage sapeva che avrebbe dovuto interferire con forze temibili, ma si rendeva conto che non c'era altro modo di annullare l'interferenza ben più grande e maligna che qualcuno aveva sguinzagliato. 9 Venerdì mattina Armitage, Rice e Morgan partirono in automobile diretti a Dunwich, e arrivarono al villaggio verso l'una del pomeriggio. Era una bella giornata, ma perfino nella splendente luce del sole sulle misteriose colline a cupola e sulle forme ombrose e profonde della campagna sgomenta pareva aleggiare qualcosa di sinistro e portentoso. Qua e là, sulle scabre sommità, si poteva scorgere un desolato cerchio di massi stagliato
contro il cielo. Dall'atmosfera di terrore e silenzio che regnava allo spaccio di Osborn capirono che doveva essere successo qualcosa di orribile, e presto furono informati dell'annientamento di Elmer Frye e della sua famiglia. Per tutto il pomeriggio percorsero in automobile il circondario di Dunwich, interrogando la gente del posto sull'accaduto, e ispezionando essi stessi, con orrore crescente, i desolati resti della fattoria Frye, le tracce residue della sostanza viscosa che sembrava catrame, le blasfeme impronte nell'aia, gli armenti feriti di Seth Bishop e gli enormi solchi di vegetazione stritolata nei paraggi. La scia che saliva e scendeva da Sentinel Hill parve racchiudere agli occhi di Armitage un significato quasi catastrofico, ed egli contemplò a lungo il sinistro macigno, simile a un altare, sulla cima della collina. Alla fine, dopo aver saputo dell'arrivo di una squadra della Polizia di Stato, giunta da Aylesbury quel mattino in seguito alle prime notizie telefoniche sulla tragedia dei Frye, i tre uomini decisero di andare in cerca dei funzionari per raffrontare, se possibile, i rispettivi appunti. Più facile a dirsi che a farsi, perché non trovarono traccia dei poliziotti in nessun posto. Erano venuti in cinque in automobile, ma adesso la vettura, vuota, era parcheggiata vicino ai resti della fattoria nell'aia dei Frye. La gente dei paraggi (tutti avevano parlato con i poliziotti) sembrò dapprima perplessa quanto Armitage e i suoi colleghi. Poi il vecchio Sam Hutchins pensò a qualcosa e impallidì, dando di gomito a Fred Farr e indicando l'umida e profonda forra che s'apriva poco lontano. «Mioddio» balbettò «gliel'avevo detto di non andare nel vallone... Pensavo che con quelle impronte bene in vista nessuno avesse il fegato di scendere di sotto, e poi la puzza... Già, e senza contare i caprimulghi che strillano tutto il tempo nell'ombra...» I paesani rabbrividirono, come pure i tre forestieri, e tutti gli orecchi si tesero istintivamente e inconsciamente ad ascoltare. Armitage, adesso che s'era imbattuto nell'orrore e nelle sue nefaste opere, tremò sotto il peso della responsabilità cui sapeva di non potersi sottrarre. Presto sarebbe scesa la notte, ed era proprio allora che il colossale abominio avrebbe ripreso il suo goffo, rumoroso e soprannaturale cammino. Negotium perambulans in tenebris... Il vecchio bibliotecario ripeté mentalmente le formule che aveva memorizzato, e strinse convulsamente il foglio sul quale aveva scritto quella sostitutiva che non aveva avuto il tempo di mandare a memoria. Controllò che la torcia elettrica funzionasse perfettamente. Rice, dietro di lui, tirò fuori da una valigia uno spruzzatore metallico, del tipo di quelli
usati comunemente contro gli insetti, mentre Morgan toglieva dalla custodia il fucile da caccia grossa nel quale confidava, sebbene i suoi compagni lo avessero avvertito che nessun'arma materiale sarebbe servita a qualcosa in quella circostanza. Armitage, che aveva letto l'abnorme diario, sapeva dolorosamente che genere di manifestazione ci fosse da aspettarsi; ma non volle spaventare ulteriormente la gente di Dunwich, già sgomenta, con accenni intempestivi; sperava di poterne avere ragione senza che il mondo venisse a conoscenza dell'abominazione cui era sfuggito. Quando si addensarono le ombre della sera, i contadini cominciarono a far ritorno alle fattorie, ansiosi di barricarvisi, a dispetto della tragica evidenza che tutte le serrature e i catenacci di questo mondo non avrebbero potuto fermare una forza che, a suo piacimento, schiantava alberi e stritolava case. Scossero la testa quando seppero che i tre forestieri intendevano vigilare tutta la notte presso le rovine della fattoria Frye, così pericolosamente vicine al vallone, e quando se ne andarono nutrivano in cuor loro scarse speranze di rivederli. Quella notte si udirono cupi rimbombi sotto le colline, e i caprimulghi cantarono minacciosamente. Ogni tanto una raffica di vento, soffiando dalla rada di Cold Spring, portava una zaffata di fetore che rendeva ancora più opprimente l'afa notturna, e che le tre sentinelle avevano già sentito prima d'allora, quando avevano assistito all'agonia della cosa che per quindici anni s'era fatta passare per un essere umano. Ma l'orrore che intendevano affrontare non apparve. Qualsiasi cosa fosse in agguato nelle buie profondità del vallone, aspettava un'occasione più propizia, e Armitage disse ai suoi colleghi che sarebbe stato un suicidio cercare di stanarla nel buio. Albeggiò e i rumori notturni cessarono. Era una giornata grigia e uggiosa, piovigginava, e nuvole sempre più pesanti andavano addensandosi oltre le colline, a nord-ovest. Gli uomini venuti da Arkham erano indecisi sul da farsi. Cercarono riparo dalla pioggia sempre più insistente sotto una rimessa rimasta miracolosamente in piedi nell'aia dei Frye, e qui discussero se fosse più saggio aspettare o prendere l'iniziativa scendendo nella forra in cerca dell'abominevole preda senza nome. L'acquazzone crebbe d'intensità, e dai lontani orizzonti s'udirono i primi rimbombi del tuono. Il cielo risplendeva di lampi e una saetta biforcuta balenò nei paraggi, come se fosse caduta nella stessa forra maledetta. Le nubi avevano completamente oscurato il cielo e i tre uomini sperarono che il temporale fosse di breve durata e che tornasse presto il sereno. Ma era ancora molto buio quando, circa un'ora dopo, una confusa babele
di voci risuonò in fondo alla strada. Qualche istante dopo, scorsero una dozzina di uomini spaventati che correvano gridando e piangendo istericamente. Qualcuno, in testa al gruppo, cominciò a singhiozzare delle parole, e gli uomini d Arkham sobbalzarono violentemente quando i gemiti divennero frasi compiute. «Oh mio Dio, mio Dio» ansimò la voce «è uscito un'altra volta e in pieno giorno! È fuori, è fuori, ora sta muovendosi, e solo il Signore sa quando piomberà su tutti noi!» «Circa un'ora fa, Zeb Whateley ha sentito il telefono suonare. Era la signora Corey, moglie di George, che abita laggiù all'incrocio. Gli ha detto che il giovane Luther era fuori per radunare le vacche e metterle al riparo dopo il grande fulmine, quando ha visto tutti gli alberi piegarsi sull'imboccatura del vallone, dalla parte opposta a questa, e ha sentito una puzza tremenda: come quella che aveva sentito l'altro lunedì mattina, quando aveva trovato le impronte. Sempre secondo la signora Corey, Luther ha sentito come un rumore di onde, ma non era quello che fanno normalmente gli alberi e i cespugli piegati. Poi, a un tratto, gli alberi lungo la strada hanno cominciato a essere spinti da una parte e si è sentito un passo pesante, spaventoso, e il rumore di qualcosa che sguazzava nel fango. Sembrava così. Ma, badate, Luther non ha visto proprio niente, solo alberi e cespugli piegati. «Poi, dove il rio dei Bishop passa sotto la strada, il ragazzo ha sentito un tremendo cigolìo e una vibrazione del ponte, come se il legno cominciasse a rompersi o a spaccarsi. E per tutto il tempo non ha visto niente, solo alberi e cespugli che si piegavano. E quando il rumore di onde si è allontanato, spostandosi verso la strada, la fattoria del mago Whateley e Sentinel Hill, Luther ha avuto il fegato di andare fin dove aveva sentito i rumori e ha controllato il terreno. Era tutto fango e acqua: il cielo néro e la pioggia cancellano le tracce molto alla svelta. Ma, partendo dall'imboccatura del vallone, dove gli alberi erano stati smossi, c'erano impronte enormi, grandi come barili e sul tipo di quelle che aveva visto lunedì." «Ma non è quello il guaio; anzi, è solo il principio! Zeb aveva telefonato alla gente nel circondario e tutti lo ascoltavamo quando si è inserita una chiamata dalla casa di Seth Bishop. La serva di Seth, Sally, pensava che ormai fosse arrivata la sua ora e si è messa a gridare che vedeva gli alberi piegarsi lungo la strada e sentiva una specie di suono molle, come un elefante che calpestasse il sentiero vicino alla fattoria e andasse a sbatterci contro. Poi ha sentito un puzzo tremendo e il suo ragazzo, Chancey, si è
messo a gridare che era uguale a quello che aveva avvertito vicino alla fattoria Whateley il lunedì mattina. E i cani abbaiavano, pieni di paura... «A questo punto Sally ha gettato un urlo tremendo e ha detto che la baracca sul sentiero era crollata come se il temporale ci avesse soffiato sopra, solo che il vento non era tanto forte. Tutti stavano ad ascoltare, la gente al telefono aveva l'affanno per l'emozione. A un tratto Sally ha gridato di nuovo, dicendo che il recinto di legno dell'aia stava crollando, ma non riusciva a capire quale poteva essere la causa del disastro. Poi tutti quelli che ascoltavano al telefono hanno sentito Chancey e il vecchio Seth Bishop urlare, e anche Sally si è messa a gridare che qualcosa di gigantesco aveva colpito la casa. Non era una saetta o qualcosa del genere, ma un corpo grande e solido che continuava a picchiare contro la facciata, e ancora e ancora. Dalle finestre, però, non si vedeva niente. E dopo... e dopo...» Rughe di terrore solcavano i volti dei presenti, e Armitage, sconvolto com'era, ebbe la prontezza di spirito di invitare l'uomo a continuare. «Sally ha gridato forte: "Aiuto, la casa crolla! "... Al telefono abbiamo sentito uno schianto spaventevole e tutti che gridavano, come quando fu presa la fattoria di Elmer Frye. Solo che...» L'uomo tacque, sopraffatto dall'emozione, e un altro proseguì: «Questo è quanto. Dopo, al telefono... non un rumore, non un grido, più niente. Tutto muto. Siccome l'intera comunità aveva sentito, abbiamo tirato fuori le Ford e i carri e ci siamo riuniti alla fattoria Corey. C'erano tutti gli uomini disponibili, e insieme siamo venuti a vedere che intenzioni avevate voi forestieri. Ma io penso che questo è il giudizio del Signore per i nostri peccati, e che nessuno si può salvare». «Dobbiamo seguirlo, ragazzi.» Armitage si sforzò di dare alla propria voce un tono rassicurante. «Credo ci sia un modo di metterlo fuori combattimento. Voi, uomini, sapete che quei Whateley erano dei maghi... be', abbiamo a che fare con una cosa stregata e dobbiamo affrontarla con gli stessi sistemi. Ho visto il diario di Wilbur Whateley e ho letto qualcuno dei misteriori libri che era solito consultare; penso, quindi, di conoscere l'incantesimo giusto da recitare per distruggere quella cosa. Naturalmente, non posso esserne sicuro al cento per cento, ma possiamo sempre provarci. La cosa è invisibile - sapevo che lo sarebbe stata - ma in questo spruzzatore a getto lungo c'è una polvere che dovrebbe renderla visibile per un secondo. Più tardi la proveremo. Che una simile cosa viva è spaventoso, ma credete, non è tanto cattiva come sarebbe diventata se Wilbur fosse vissuto più a lungo. Non saprete mai cosa ha rischiato il mondo. Ora, abbiamo da com-
battere solo quest'unica cosa, perché non può moltiplicarsi. Può, tuttavia, nuocerci molto, e dunque non dobbiamo esitare a sbarazzarcene, liberando la comunità da essa.» Dopo una pausa, Armitage proseguì: «Dobbiamo seguirla, e la prima cosa da fare è recarsi sul posto che ha appena devastato. Qualcuno mi indichi il cammino; non conosco bene le vostre strade, ma immagino che vi sia una scorciatoia fra i campi. Che mi dite?» Gli uomini esitarono per qualche istante, poi Earl Sawyer parlò con voce roca, indicando con un dito nodoso un punto lontano sotto la pioggia. «Penso che la via più svelta per arrivare alla fattoria di Seth Bishop sia tagliare per il prato basso, laggiù, guadando il rio nel punto meno profondo e risalendo il campo falciato di Carriere e il terreno boschivo. Da lì si finisce sulla parte alta della strada, vicino alla fattoria di Seth o poco più avanti.» Armitage, Rice e Morgan s'incamminarono nella direzione indicata, e diversi contadini, quasi tutto il gruppo, li seguirono. Il cielo si stava schiarendo e pareva che il temporale dovesse allontanarsi. Quando Armitage, inavvertitamente, prese una direzione sbagliata, Joe Osborn lo avvertì e si mise risolutamente in testa alla comitiva. La gente stava ritrovando fiducia e coraggio, sebbene la penombra della collina boscosa e quasi a picco, verso la fine della scorciatoia, li costringesse a una specie di scalata fra antichi alberi grotteschi e mettesse a dura prova la loro buona volontà. Finalmente sbucarono su una strada fangosa e il sole uscì dalle nubi quasi nello stesso momento. Si trovavano un po' oltre la fattoria di Seth Bishop, ma gli alberi schiantati e le abominevoli impronte lasciavano capire cosa fosse passato di lì. Pochi minuti furono sufficienti per esaminare le rovine che trovarono subito dopo la curva della strada. Si era ripetuto il caso dei Frye, e non fu trovato niente di vivo o di morto fra le pareti crollate e le travi divelte ch'erano state la casa e la stalla dei Bishop. Nessuno volle fermarsi più del necessario sul posto, dove aleggiava un tanfo orribile e la fetida sostanza catramosa ne copriva le rovine, ma tutti, istintivamente, si volsero a osservare la mostruosa serie d'impronte che andavano in direzione della distrutta fattoria Whateley e verso gli erti pendii di Sentinel Hill, incoronata dal masso a forma di altare. Quando gli uomini passarono davanti ai resti della fattoria di Wilbur Whateley rabbrividirono e ancora una volta esitarono. Non era uno scherzo dare la caccia a una cosa grande come una casa e per di più invisibile, e che aveva la perversa malvagità d'un demone. Sulle pendici di Sentinel Hill le tracce si allontanavano dalla stra-
da, ed essi notarono un nuovo, enorme solco di vegetazione abbattuta e stritolata accanto alla vecchia scia che indicava il precedente tragitto del mostro su e giù per la collina. Armitage tirò fuori un potente binocolo e scrutò gli erti pendii della verde collina. Poi lo porse a Morgan che aveva la vista più acuta. Dopo aver guardato per qualche istante, Morgan gettò un grido e passò il binocolo a Earl Sawyer, indicandogli un certo tratto del pendio. Sawyer, goffo come tutti coloro che non sono avvezzi all'uso d'uno strumento ottico, trafficò un po', finché riuscì a mettere a fuoco le lenti con l'aiuto di Armitage. Quando vide bene, gridò più forte di Morgan. «Dio onnipontente, l'erba e i cespugli si muovono! Sta salendo lentamente... sta strisciando, è in cima, adesso... solo Dio sa a farci cosa!» Il panico si diffuse di nuovo fra gli astanti. Un conto era dare la caccia all'entità senza nome, un altro trovarla. D'accordo, le formule magiche potevano funzionare: ma in caso contrario, cos'avrebbero fatto? Voci esitanti cominciarono a interrogare Armitage riguardo a ciò che sapeva del mostro, e nessuna risposta parve soddisfarli. Gli uomini si sentivano troppo vicini ad aspetti della natura e dell'essere assolutamente proibiti e completamente al di fuori della comune esperienza della nostra specie. 10 Andò a finire che i tre uomini venuti da Arkham - l'anziano dottor Armitage dalla barba bianca, il tarchiato professor Rice con i capelli grigi e lo snello e giovanile dottor Morgan - s'inerpicarono da soli sulla ripida collina. Dopo aver pazientemente spiegato la messa a fuoco delle lenti e l'uso dello strumento, lasciarono il binocolo al gruppo di contadini spaventati che rimase sulla strada; e, mentre salivano, erano attentamente osservati da coloro che se ne servivano a turno. Era una china impervia, e Armitage dovette essere aiutato più d'una volta. Molto più sopra dello sparuto gruppetto che arrancava faticosamente, la grande scia ondeggiava piano, come se il suo infernale artefice strisciasse con la lentezza d'una lumaca. Ma era evidente che gli inseguitori stavano guadagnando terreno. Curtis Whateley - del ramo non decaduto - osservava con il binocolo quando i tre uomini sulla collina deviarono nettamente dalla scia che seguivano con circospezione. Comunicò alla gente assiepata intorno a lui che evidentemente stavano cercando di raggiungere un'altura secondaria che dominava il solco, molto più avanti rispetto al punto dove gli arbusti veni-
vano schiacciati in quel momento. Aveva ragione. E il gruppetto fu visto guadagnare il poggio poco dopo che l'invisibile abominio lo aveva oltrepassato. Poi Wesley Corey, che aveva strappato il binocolo a Curtis Whateley, gridò che Armitage stava mettendo a punto lo spruzzatore retto da Rice, e che di sicuro stava per succedere qualcosa. I contadini si agitarono inquieti, ricordando che lo spruzzatore avrebbe dovuto rendere visibile, per un attimo, il mostro sconosciuto. Due o tre uomini chiusero gli occhi, ma Curtis Whateley riprese il binocolo e ne aggiustò con precisione le lenti. Vide che Rice, dall'altura elevata alle spalle dell'entità, si era venuto a trovare in posizione ottimale per spruzzare la polvere portentosa. L'effetto fu stupefacente. Quelli senza binocolo intravvidero per un istante una nuvola grigia - una nuvola delle dimensioni di un edificio piuttosto grande - sulla sommità della collina. Curtis, che aveva il binocolo, lo lasciò cadere con un grido strozzato nel fango della strada, che era alto fino alle caviglie. Barcollò e sarebbe caduto a terra se altri due o tre non l'avessero sorretto prontamente. Per un po', non fece che gemere sommessamente: «Oh, oh, gran Dio... quella cosa, quella cosa...» Fu immediatamente tempestato di domande, e soltanto Henry Wheeler ebbe l'idea di raccogliere il binocolo e ripulirlo dal fango. Curtis non connetteva più e anche brevi risposte smozzicate sembravano troppo nelle sue condizioni. Farfugliava fuori di sé: «Più grande di una stalla... tutto fatto di funi attorcigliate... una cosa come un uovo di gallina, però enorme, con decine di gambe grosse come stantuffi che si ritirano fino a metà quando cammina... non ha nulla di solido... sembra fatto tutto di gelatina e di corde attorcigliate e attaccate una all'altra... e dappertutto ci sono grandi occhi sporgenti... e ha dieci, no, venti bocche o proboscidi che gli pendono dai lati e sono grosse come tubi di stufa e si muovono tutte, si aprono, si agitano... è tutto grigio con anelli color blu, o porpora... e mio Dio... quella faccia che ha in cima...» Quest'ultimo particolare, di qualunque cosa si trattasse, fu evidentemente troppo per il povero Curtis, che svenne prima di poter aggiungere altro. Fred Farr e Will Hutchins lo portarono sul ciglio della strada e lo adagiarono sull'erba bagnata. Henry Wheeler, tremando, puntò il binocolo sulla ripida collina. Egli distinse tre figurine che correvano a rotta di collo verso la cima della collina, alla massima velocità consentita dall'erto pendio. E null'altro. Poi tutti avvertirono uno strano suono fuori stagione nella forra
profonda alle loro spalle e nel sottobosco della Sentinel Hill. Era il canto stridulo di migliaia di caprimulghi, e in quel coro acuto aleggiava una nota maligna di attesa. Earl Sawyer prese il binocolo e riferì che le tre figure lontane erano ritte sul crinale più alto, allo stesso livello del masso a forma di altare, ma a notevole distanza da quest'ultimo. E disse che gli sembrava che uno dei tre alzasse le braccia sopra la testa e le riabbassasse ritmicamente, e proprio in quel mentre gli altri credettero di udire un debole suono, vagamente musicale, come se un canto accompagnasse quei gesti. Doveva essere uno spettacolo grottesco e solenne, l'immagine di quella fantastica sagoma profilata contro il cielo in cima alla collina solitaria, ma nessun osservatore era in vena di apprezzamente estetici. «Forse sta faccendo l'incantesimo» bisbigliò Wheeler riprendendosi il binocolo. I caprimulghi cantavano selvaggiamente e con ritmo curiosamente regolare, diverso da quello del rito. Improvvisamente la luce del sole sembrò impallidire senza che in cielo passasse una nube. Era un fenomeno molto singolare, e tutti lo notarono. Un sordo brontolìo salì dalle colline confondendosi stranamente con un rombo che proveniva dall'alto del cielo. Balenò un fulmine, e gli attoniti spettatori cercarono invano le avvisaglie del temporale, mentre la cantilena degli uomini di Arkham era adesso chiaramente udibile, e Wheeler vide con il binocolo che tutt'e tre alzavano ritmicamente le braccia nell'incantesimo. Da qualche lontana fattoria giunse un frenetico abbaiare di cani. Il mutamento sopravvenuto nella luce solare andò sempre più accentuandosi, e gli uomini di Dunwich guardarono stupiti l'orizzonte. Un'oscurità violetta, scaturita dal nulla, più che uno spettrale incupirsi dell'azzurro del cielo, si addensò sui sinistri brontolii delle colline. Il cielo fu illuminato da vividi lampi, più lucenti di prima, e i contadini credettero di vedere una specie di foschia tutt'intorno al masso-altare sulla cima distante. Nessuno, d'altra parte, usava il binocolo in quel momento. I caprimulghi continuavano a strillare con ritmo irregolare, e gli uomini di Dunwich cercarono di darsi vicendevolmente coraggio, avvertendo un'imponderabile minaccia nell'atmosfera catastrofica. Improvvisi giunsero i suoni profondi, fessi, cavernosi, che avrebbero infestato per sempre il ricordo dell'attonito gruppo di persone che li udì. Non scaturirono da gola umana, perché gli organi dell'uomo non possono produrre simili perversioni acustiche. Si sarebbe detto che salissero dall'inferno stesso, ma indubbiamente la fonte di quella cacofonia era proprio la pietra a forma d'altare sulla cima della collina. È quasi errato chiamarli
suoni, e il loro terrificante timbro ultrabasso parlava alle oscure sedi dell'inconscio e della paura, molto più ricettive dell'orecchio; e tuttavia somigliavano a una voce, in quanto, seppure oscuramente, si condensavano in parole semi-articolate. Erano suoni forti, potenti come i brontolii e i tuoni al di sopra dei quali riecheggiavano, eppure non provenivano da un essere visibile. E poiché l'immaginazione ne identificava l'ipotetica fonte nel mondo dell'invisibile, gli uomini assiepati ai piedi della collina si strinsero l'uno all'altro, e indietreggiarono come chi s'aspetti un colpo. «Ygnaiih... ygnaiih... thflthkh'ngha... Yog-Sothoth...» gracchiò l'abominevole vibrazione dallo spazio. «Y'bthnk... h'ehye-n'grkdl'lh...». La bestiale cacofonia s'affievolì, come se fosse in atto una tremenda lotta psichica. Henry Wheeler aguzzò la vista guardando col binocolo, ma vide soltanto tre grottesche figure umane stagliarsi sulla sommità della collina, che agitavano freneticamente le braccia in misteriosi gesti, come se l'incantesimo stesse giungendo a termine. Da quali oscuri vortici di terrore abissale, da quali insondate profondità di coscienza extra-cosmica e di tenebrosa ereditarietà latente, erano scaturiti quei suoni rauchi e tonanti, appena articolati? E in quell'istante, con rinnovata forza e coerenza, esplosero di nuovo in un crescendo delirante, totale, definitivo. «Eh-ya-ya-ya-yahaah... e'yayayayaaa... ngh'aaaaa... ngh'aaaa... h'yuh... h'yuh... AIUTO! AIUTO!... PP-PP-PP PADRE! PADRE! YOGSOTHOTH!...» Poi tutto tacque. I pallidi uomini sulla strada, ancora sconvolti da quelle sillabe indiscutibilmente in inglese che erano rotolate, tonando, dal terribile spazio nei pressi dell'impressionante masso-altare, non le avrebbero udite mai più. Tutti sobbalzarono violentemente allo scoppio terrificante che parve spaccare le colline, rimbombo assordante e catastrofico la cui sorgente, fosse in cielo o in terra, nessuno fu in grado di individuare. Un fulmine solitario saettò dallo zenit scarlatto scaricandosi sulla pietra-altare, e un'immensa ondata di forza invisibile e d'indescrivibile fetore si rovesciò dalla collina sulla campagna. Alberi, erba e arbusti furono spazzati con furia, e gli uomini sulle pendici del colle, terrorizzati e indeboliti dal lezzo mortale che quasi li asfissiò, furono scaraventati a terra. I cani ulularono in lontananza, l'erba e il verde fogliame avvizzirono assumendo una singolare colorazione giallogrigiastra, malata, e su campi e foreste caddero i corpi dei caprimulghi morti, a migliaia. Il fetore si dissipò rapidamente, ma la vegetazione non fu più la stessa. Ancor oggi c'è qualcosa di bizzarro e blasfemo nelle piante e negli arbusti
che crescono attorno e sopra la terribile collina. Curtis Whateley stava riprendendo i sensi quando gli uomini di Arkham scesero lentamente dalla ripida altura nella luce del giorno fattasi di nuovo limpida e tersa. Erano gravi e silenziosi, ma sembrava che in loro perdurasse il ricordo sconvolgente di cose ancor più orribili di quelle che avevano ridotto la gente di Dunwich in uno stato di prostrazione e paura. In risposta a un frenetico accavallarsi di domande, si limitarono a scuotere la testa e a riconfermare un unico fatto fondamentale. «La cosa è sparita per sempre» disse Armitage. «È stata scomposta in ciò che era in origine, e non potrà esistere mai più. Era una presenza impossibile in un mondo normale. Solo una piccolissima frazione di essa era vera materia, nel senso che noi diamo a questo termine. Era come suo padre, e gran parte di ciò di cui era fatta è tornata a lui, in qualche ignoto dominio o dimensione al di fuori dell'universo materiale; qualche oscuro abisso da cui solo i riti più blasfemi avevano potuto richiamarla un istante sulle colline.» Seguì un breve silenzio, durante il quale il povero Curtis Whateley riprese gradatamele i sensi, e gemendo si toccò la testa. Poi il ricordo gli tornò là dove era stato interrotto dallo svenimento, e l'orrore della visione che lo aveva prostrato lo devastò un'altra volta. «Oh, oh, mioddio, quella mezza faccia... quella mezza faccia in cima alla cosa... quella faccia con gli occhi rossi e i capelli da albino e ricci, e senza mento, come i Whateley... Era una specie di polipo, di millepiedi, di ragno messi insieme, ma in cima c'era una mezza faccia d'uomo, e somigliava al mago Whateley, solo che era grande metri e metri...» S'interruppe esausto, mentre gli altri lo fissavano con uno stupore che non aveva ancora avuto il tempo di trasformarsi in nuova paura. Soltanto il vecchio Zebulon Whateley, che ricordava frammentariamente certe vecchie cose e che fino ad allora era rimasto silenzioso, parlò a voce alta. «Quindici anni fa» bofonchiò «sentii il vecchio Whateley dire che un giorno avremmo sentito il figlio di Lavinia chiamare il nome di suo padre in cima a Sentinel Hill...» Ma Joe Osborn lo interruppe per chiedere ancora agli uomini di Arkham: «Ma cosa era, insomma, e come fece il giovane mago Whateley a chiamarla dal posto da dove è venuta?» Armitage rispose scegliendo con cura le parole. «Era... be', era soprattutto una forza che non appartiene al nostro spazio;
una forza che agisce, cresce e si modella in base a leggi diverse da quelle della nostra Natura. Non abbiamo nessun tornaconto a evocare simili cose dall'esterno, e solo persone molto malvagie e culti crudeli cercano di farlo. C'era qualcosa di questa forza nello stesso Wilbur Whateley: quanto bastava per farne un demonio e un mostro precoce, e a rendere la sua morte uno spettacolo terrificante. Io brucerò il suo maledetto diario, e se voialtri sarete saggi, farete saltare con la dinamite quella pietra-altare lassù, e abbatterete tutti i cerchi di pietre verticali sulle colline. Sono stati proprio quelli a richiamare gli esseri che tanto piacevano ai Whateley: esseri che stavano per entrare tangibilmente nel nostro mondo per spazzar via la razza umana e trascinare la terra in uno spazio senza nome per uno scopo senza nome. «Quanto alla cosa che abbiamo appena rimandato indietro, ebbene, i Whateley l'avevano allevata per assegnarle un ruolo spaventoso negli avvenimenti che stavano per succedere. Era cresciuta in fretta ed era diventata così grande per la stessa ragione per cui Wilbur era cresciuto tanto in fretta... Ma lo aveva superato perché in essa vi era una percentuale infinitamente maggiore di alienita. Ora, non chiedetevi come abbia fatto Wilbur a evocarla dall'aria. Lui non l'ha chiamata. Era suo fratello gemello, ma assomigliava al padre più di lui.» (The Dunwich Horror, estate 1928) Colui che sussurrava nelle tenebre The Whisperer in Darkness è stato attentamente analizzato da Fritz Leiber in due saggi, nei quali vengono messi in luce con chiarezza pregi e difetti di uno tra i maggiori racconti lovecraftiani. Perché maggiori? Evidentemente siamo a un punto cruciale nella sua evoluzione, quella in cui si afferma con sempre maggior chiarezza la tendenza a razionalizzare, a inscrivere in una sorta di paradossale storia naturale (o innaturale) i prodigi e le creature di cui va raccontando i misfatti. Possiamo immaginare la carriera di Lovecraft come una curva che inizia all'insegna del gotico e del soprannaturale (The Tomb, The Statement of Randolph Carter), prosegue con i racconti alla Poe (The Outsider, The Unnamable) e con le fantasie dunsaniane (The White Ship, Celephaïs, The Dream-Quest of Unknown Kadath) per giungere al culmine con un gruppo di storie mature in cui il tradizionale racconto del terrore si mescola a qualcosa di diverso, di profondamente originale. Questa
vetta è rappresentata da testi come The Call of Cthulhu, The Dunwich Horror, The Case of Charles Dexter Ward, The Colour Out of Space e più tardi The Shadow over Innsmouth. Sono racconti molto originali e molto ambigui, anche se non tutti riusciti alla stessa maniera sul piano dell'espressività. In essi il senso del mistero si fa quasi oltraggioso perché, resuscitati dal passato remoto o da formule cabalistiche contenute in grimorii segreti, i mostri di Lovecraft mantengono una fondamentale ambivalenza quanto alla loro origine e ai loro scopi. Devastano con una corpulenza quasi biblica; sconvolgono i nostri parametri di tempo e spazio; ci spalancano visioni terrificanti della posizione che occupiamo nel cosmo: ma non sono semplici "aliens" come quelli della fantascienza e neppure vecchi fantasmi. Sono un incrocio formidabile, grottesco, orribile. Sono l'ignoto nella sua accezione più terrificante. Ora, da un certo punto in poi (forse proprio da The Whisperer in Darkness), Lovecraft comincia ad allontanarsi da quella concezione, che ancora mescola il magico con il terrore del cosmo; è come se volesse ridurre al minimo l'elemento magico e privilegiare, diciamo così, quello fantascientifico. È un'evoluzione che riflette coerentemente il suo pensiero e l'evolversi dei suoi interessi filosofici, politici e sociali: il racconto del terrore diverrà anche, in lui, utopia del terrore, dystopia, perfino satira politica (come è già evidente in The Mound, tradotto in questo volume). I suoi famosissimi mostri tendono gradualmente a diventare "aliens", anche se non ci sembra che nessuno scrittore di fantascienza abbia mai inventato niente di simile. Col tempo apprenderemo i loro usi, costumi e gusti abominevoli; forse Cthulhu non è che il filosofo degenere di una razza di pensatori sovversivi... ci sarebbe abbondante motivo di crederlo, e romanzi brevi come At the Mountains of Madness e The Shadow Out of Time possono considerarsi ai confini con la fantascienza, anche se una fantascienza "nera" che nella realtà non si è mai sviluppata del tutto. Siamo a una svolta, come dicevamo: ma a quali nuove meraviglie, a quali spaventosi risultati tutto questo conduca è già evidente in The Whisperer in Darkness, tempestivo omaggio al pianeta Plutone (alias Yuggoth) se mai ve ne furono. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S. T. Joshi, che riproduce quello del manoscritto d'autore. 1
Sia ben chiaro: non fu una visione d'orrore quella che si parò alla fine davanti ai miei occhi. Tuttavia, affermare che le conclusioni cui sono giunto siano il frutto di un puro e semplice disturbo psichico, e che, come la goccia che fa traboccare il vaso, sia stato questo a farmi abbandonare a precipizio la solitaria fattoria di Akeley, a fuggire nel cuore della notte in una vecchia automobile e ad attraversare le nere colline del Vermont, significherebbe ignorare i dati tangibili dell'esperienza. Ammetto di non poter provare niente, pur avendo condiviso le informazioni di Akeley e avendo elaborato con lui determinate congetture: ho visto e udito molte cose, e l'impressione che ne ho ricevuto è stata estremamente vivida, ma ancora oggi non sono in grado di dimostrare che le terribili deduzioni da me tratte abbiano un fondamento. Quanto alla sparizione di Akeley, essa non prova granché. Nessuno ha rilevato qualcosa di sospetto nella casa, all'infuori di qualche traccia di pallottola all'esterno e all'interno: si potrebbe credere che Akeley fosse uscito a fare una passeggiata sulla collina e non fosse ritornato. Nessun indizio rivela che il padrone di casa abbia ricevuto un visitatore, né che quegli orribili cilindri siano stati collocati nel suo studio. Certo, Akeley ha sempre manifestato un terrore mortale per le scure colline attraversate da una miriade di ruscelli fra le quali è nato, ma nemmeno questo prova nulla, giacché tante persone sono soggette a paure morbose dello stesso tipo. Senza contare che, a giustificazione del suo bizzarro atteggiamento e delle paure che nutriva, si potrebbe invocare l'indole eccentrica dello scomparso. Per me, la faccenda incominciò con i grandi allagamenti che si produssero nel Vermont al principio di novembre del 1927. A quell'epoca insegnavo letteratura inglese alla Miskatonic University, ad Arkham, nel Massachusetts, ed ero appassionato del folclore della Nuova Inghilterra. Fra le storie che riempivano i giornali a proposito dell'inondazione, apparvero bizzarre notizie di creature sconosciute che erano state viste galleggiare sulle acque di alcuni fiumi in piena. I miei amici e colleghi dell'università s'impegnarono subito in gran discussioni sull'argomento, ricorrendo spesso a me per chiarimenti. Lusingato che si prendessero sul serio i miei studi sul folclore della regione, feci il possibile per ridimensionare alcuni racconti stravaganti ovviamente ispirati da vecchie superstizioni campagnole. Mi divertì molto vedere gente colta affermare che quelle voci avrebbero potuto benissimo essere basate su fatti reali più o meno deformati.
Le storie che vennero così sottoposte alla mia attenzione provenivano da ritagli di giornali; tuttavia una di esse era stata raccontata a voce a uno dei miei amici da sua madre, che abitando ad Handwick, nel Vermont, ne aveva poi scritto al figlio. Comunque le descrizioni concordavano su alcuni punti essenziali. Notai che le creature in questione erano state scoperte in tre punti: nel fiume Winooski, vicino a Montpelier; nel West River, a valle di Newfane, contea di Windham e nel fiume Passumpsic, a monte di Lyndonville, nella contea di Caledonia. Non mancavano cenni sparsi ad altri casi, ma a un'analisi più attenta pareva che si riducesse tutto a questi tre. Abitanti delle zone interessate dichiaravano di aver scorto organismi bizzarri nelle acque tumultuose che si scaricavano dalle colline solitarie; e la tendenza generale era di ricollegarli a un ciclo primitivo di leggende quasi dimenticate, che i vecchi riesumavano per l'occasione. Ciò che la gente credeva di aver visto, erano delle forme organiche diverse da quelle finora conosciute. Naturalmente numerosi corpi umani furono trascinati dalle acque in quel tragico periodo; ma chi descrisse gli esseri misteriosi pareva convinto che non si trattasse di uomini, malgrado certe rassomiglianze superficiali di dimensioni e di contorni. Non potevano nemmeno essere, secondo i testimoni, animali familiari agli abitanti del Vermont. Erano creature di un colore tendente al rosa, lunghe circa un metro e mezzo; il loro corpo, avvolto in un involucro da crostaceo, era dotato di un paio di grandi pinne o ali membranose dorsali, e di diversi gruppi di membra articolate; una specie di ellissoide ricoperto da una moltitudine di brevi antenne teneva il posto della testa. Era davvero significativo come le diverse descrizioni coincidessero nei punti essenziali, tuttavia non bisognava meravigliarsene troppo, poiché le vecchie leggende un tempo diffuse nel paese contenevano appunto immagini di questo genere e la fantasia dei testimoni poteva esserne stata impressionata. Conclusi che tali testimoni, boscaioli dallo spirito ingenuo, dovevano aver scorto i cadaveri gonfi e mutilati di uomini e di animali nelle acque turbinanti, e che i loro confusi ricordi di antiche tradizioni avessero dotato quei resti pietosi di attributi fantastici. Il vecchio folclore della regione, quasi dimenticato dalla generazione attuale, aveva un carattere molto particolare perché aveva subito l'influenza dei racconti indiani che l'avevano preceduto. Benché non avessi mai visitato il Vermont, lo conoscevo a fondo grazie alla rarissima monografia di Eli Davenport, che è particolarmente ricca di documenti di fonte orale forniti dagli abitanti della regione prima del 1839. I documenti coincidevano con
alcuni racconti che io stesso avevo udito dalla bocca di vecchi montanari del New Hampshire: gli uni e gli altri menzionavano una razza di esseri mostruosi che si nascondevano negli oscuri boschi sopra le colline meno accessibili, e in fondo alle valli dove passavano corsi d'acqua di misteriosa provenienza. Li si vedeva raramente, ma qualche prova della loro esistenza era stata scoperta da chi si era avventurato sui picchi più alti, o in gole scoscese che perfino i lupi evitavano. Strane impronte di piedi o di artigli erano state trovate sulla riva dei ruscelli o in tratti di terreno argilloso, come pure curiosi circoli di pietre, che, costruiti in mezzo a spiazzi di terreno dai quali l'erba era stata strappata, non sembravano né foggiati ad arte né posti lì dalla natura. Sul fianco delle colline c'erano, inoltre, caverne inesplorate il cui ingresso era chiuso con massi che non si trovavano lì accidentalmente: un gran numero di impronte conduceva verso la loro imboccatura e se ne allontanava (senza che si potesse dire, data la loro stranezza, quali fossero volte in un senso e quali nell'altro). Infine, ed era la cosa più paurosa, c'erano mostruose creature che i montanari di tanto in tanto intravedevano nella penombra di vallate lontane o nel cuore dei fitti boschi situati su pendii inaccessibili. L'orrore sarebbe stato meno inquietante se le varie descrizioni delle entità mostruose non fossero state così concordi. Allo stato dei fatti, le dicerie avevano numerosi punti in comune. Quegli esseri fantastici erano, appunto, una specie di enormi granchi rosati, muniti di parecchie paia di zampe e di due grandi ali membranose fissate a metà della schiena. A volte camminavano su tutte le zampe, a volte unicamente sul paio posteriore, utilizzando le altre per trasportare oggetti di natura indeterminata. Uno dei testimoni ne aveva osservato un giorno un gruppo compatto che attraversava a guado un corso d'acqua poco profondo: essi avanzavano a tre a tre, in file bene ordinate. Una sera ne era stato visto uno che prendeva il volo: dopo essersi lanciato dall'alto di una collina solitaria, era scomparso nel cielo sotto i raggi della luna piena. In linea di massima i mostri sembravano disposti a lasciare gli uomini in pace, ma si imputava loro la scomparsa di alcuni individui temerari che avevano costruito la propria casa troppo vicino a certe vallate o alla sommità di determinate montagne. Si finì per ammettere che in alcune località era imprudente stabilirsi, e questa convinzione persistette a lungo. La gente continuava a guardare, rabbrividendo, i picchi scoscesi, pur non ricordando che cosa ci fosse di vero nei racconti di gente sparita e di fattorie ridotte in
cenere. Ma se, stando alle primitive leggende, quelle creature non avevano molestato che i disturbatori dei loro rifugi, racconti più recenti parlavano della loro curiosità nei confronti dei semplici mortali e dei tentativi di stabilire avamposti segreti nel mondo degli uomini. Si parlava di strane impronte di artigli scoperte al mattino sotto le finestre delle fattorie e di sparizioni in luoghi anche molto lontani dalle regioni infestate. Si accennava a voci ronzanti simili a quella umana che facevano strane offerte ai viandanti ritardatari nelle strade solitarie e nei sentieri tra i boschi più fitti. Diversi bambini erano rimasti terrorizzati fino a perdere la ragione per ciò che avevano visto e sentito ai margini delle foreste dove abitavano. Infine, le ultime leggende (quelle che precedevano l'abbandono di determinate località vicine ai luoghi temuti) facevano allusioni inorridite ad abitanti di fattorie isolate che, in un determinato periodo della loro esistenza, avevano subito una ripugnante trasformazione mentale ed erano stati accusati di essersi venduti alle strane creature. In una contea del nord-est, dove c'era una casa di pena, sembra che verso il 1800 fosse invalsa la credenza che gli ergastolani fossero alleati o rappresentanti degli aborriti mostri. Per quanto concerne la natura di questi ultimi, le spiegazioni differivano. Generalmente venivano chiamati Quelli-di-Là oppure i Grandi Antichi, benché esistessero altre denominazioni puramente locali. I coloni puritani, considerandoli progenie del diavolo, ne facevano soggetto di speculazioni teologiche terrificanti. Coloro che avevano sangue celtico, in particolare gli irlandesi e gli scozzesi del New Hampshire e i loro discendenti stabilitisi nel Vermont in seguito alle concessioni di terreno ottenute dal governatore Wentworth, li ricollegavano vagamente al leggendario "piccolo popolo" delle torbiere e delle colline e li esorcizzavano con incantesimi approssimativi, tramandati di generazione in generazione. Ma erano gli indiani che professavano le teorie più fantastiche. Se le leggende delle diverse tribù presentavano alcune divergenze, esse erano unanimamente concordi su un punto: i mostri non appartenevano a questa terra. I miti dei Pennacook erano i più pittoreschi e i più coerenti. Insegnavano che Quelli-dalle-Ali-Nere venivano dall'Orsa Maggiore e possedevano nelle nostre montagne alcune miniere da cui estraevano un minerale che non potevano procurarsi su nessun altro mondo. Non risiedevano sulla Terra: vi mantenevano semplicemente degli avamposti e ritornavano sui loro pianeti trasportando grandi carichi. Non facevano del male agli uomini, salvo a quelli che si avvicinavano troppo o li spiavano. Gli animali li evitavano,
non perché loro li cacciassero, ma per un'avversione istintiva. Non potevano mangiar nulla di ciò che si trovava sulla Terra e dovevano portarsi il nutrimento dai loro pianeti. Non era prudente avventurarsi in prossimità di questi rifugi: parecchi cacciatori che s'erano spinti dalle loro parti non ne erano più tornati. E nemmeno era prudente ascoltare ciò che essi bisbigliavano la notte nella foresta, con voci da insetti che si sforzavano di imitare quelle umane. Conoscevano tutti i dialetti: quelli dei Pennacook, degli Uroni, delle Cinque Nazioni, ma non avevano una propria lingua. Per le cose loro s'intendevano con le mani, il cui colore mutava a seconda di ciò che volevano esprimere. Nel XIX secolo, naturalmente, a tali leggende - sia quelle della popolazione bianca, sia quelle della popolazione indigena dei pellerossa - si era smesso di credere davvero, salvo qualche improvviso rifiorire di miti atavici. La vita degli abitanti del Vermont era ritornata tranquilla, e, una volta che abitazioni e itinerari furono definiti secondo un piano preordinato, nella memoria collettiva sbiadì il ricordo delle paure e delle restrizioni che esse avevano determinato. Si può dire che il ricordo stesso si fosse dileguato. La maggior parte della gente sapeva solo che alcune zone montagnose erano considerate malsane, poco redditizie e, in generale, iellate, e che quindi più se ne stava lontani, meglio ci si trovava. Con l'andar del tempo la forza della consuetudine e la spinta dell'interesse economico identificarono in modo piuttosto netto certi luoghi, al punto che non ci fu alcuna ragione per andare altrove. Le colline maledette rimasero deserte più per caso che per intenzione. A parte qualche raro timore locale, solo alcuni nonagenari chini sul loro passato e qualche nonna innamorata del meraviglioso ricordavano la presenza di creature bizzarre sulle colline; ma quegli stessi vaneggiatori ammettevano che non c'era più nulla da temere ora che le strane creature si erano abituate alle case degli uomini, e a loro volta costoro non disturbavano più i loro rifugi. Avevo appreso tutto questo nel corso delle mie letture e grazie a certe storie udite da contadini del New Hampshire. Ecco perché, quando le voci che seguirono l'inondazione incominciarono a diffondersi, potei facilmente riportarne l'origine a quelle leggende. Mi sforzai di spiegarlo ai miei amici e mi divertii a sentire quegli spiriti polemici sostenere che le leggende, dunque, potevano racchiudere un elemento di verità. Le antiche leggende, insistevano, si assomigliavano in modo significativo e avevano un elevato grado di uniformità. Le colline del Vermont, praticamente inesplorate, suggerivano di non fare affermazioni categoriche su chi o che cosa potesse
annidarvisi. Nemmeno riuscii a convincerli quando spiegai loro che i motivi principali di quei miti si trovavano in tutto il mondo, e che erano determinati da fasi primitive di esperienza immaginativa, che conduceva sempre allo stesso tipo di illusione. Dimostrai invano che le superstizioni del Vermont differivano pochissimo, nella loro essenza, dalle leggende universali che tendono a personificare le forze della natura: da quelle leggende, cioè, che avevano riempito il mondo antico di fauni, satiri e driadi, che avevano fatto nascere i "kallikanzara" della Grecia moderna e avevano dotato l'Irlanda e il Galles delle loro terribili razze di piccoli trogloditi. Illustrai senza maggior successo un mito ancora più significativo, la credenza degli indigeni del Nepal nei terribili Mi-Go, ricordando pure, naturalmente, lo "yeti" nascosto tra i ghiacciai e le rupi sulle vette dell'Himalaya. I miei avversari ritorsero queste cose contro di me dichiarando che esse implicavano una base storica delle antiche leggende: cioè l'esistenza di una razza extraterrestre molto antica che era stata costretta a nascondersi dopo la venuta degli uomini, e che poteva benissimo essere sopravvissuta, in numero assai ridotto, fino a un tempo abbastanza recente se non fino al nostro. Più mi burlavo di quelle teorie, più i miei amici le sostenevano con accanimento; secondo loro, anche prescindendo dalle vecchie tradizioni, le voci recenti erano troppo chiare, coerenti e dettagliate, perché ci si potesse permettere di non tenerne conto. Due o tre fanatici arrivarono a trovare plausibili i racconti indiani che attribuivano agli esseri misteriosi un'origine ultraterrestre: a sostegno delle loro argomentazioni citavano le stravaganti opere di Charles Fort, secondo cui esseri provenienti da altri universi avrebbero spesso visitato il nostro pianeta. A mia volta, io li accusai di essere in realtà degli spiriti romantici, che si sforzavano di trasportare sul piano della vita reale la demonologia volgarizzata dai suggestivi racconti fantastici di Arthur Machen. 2 Date le circostanze, non c'è da sorprendersi che quella discussione diventasse di dominio pubblico sotto forma di lettere indirizzate all'Arkham Advertiser, alcune delle quali furono riportate su giornali delle zone del Vermont da cui provenivano le storie. Il Rutland Herald vi dedicò una mezza pagina, con i riassunti della corrispondenza fra i due partiti opposti. Il Brattleboro Reformer pubblicò integralmente una delle mie lunghe e-
sposizioni storico-mitologiche, seguita da commenti firmati "Il pennaiolo", che appoggiavano calorosamente le mie conclusioni scettiche. Nella primavera 1928 ero diventato celebre nello stato del Vermont, benché non vi avessi mai messo piede. In seguito arrivarono le lettere di Henry Akeley, che mi impressionarono fortemente e mi condussero per la prima e ultima volta della mia vita in quell'affascinante contrada di verdi colline e di ruscelli mormoranti. Quasi tutto ciò che so di Henry Wentworth Akeley l'ho appreso molto dopo la mia avventura nella fattoria solitaria, grazie a uno scambio di lettere coi suoi vicini e col suo unico figlio, che abita in California. Era l'ultimo rappresentante di una lunga stirpe di giuristi, di amministratori e di gentiluomini di campagna, e godeva di un'ottima reputazione. Differiva dai suoi avi nel senso che il suo spirito si era allontanato dagli interessi concreti per dedicarsi alla scienza pura: aveva fatto seri studi di matematica, di astronomia, di biologia, di antropologia e di folclore all'università del Vermont. Non avevo mai sentito parlare di lui prima, e, nella sua corrispondenza, egli non mi disse praticamente nulla di sé; tuttavia, capii immediatamente che quel recluso così poco attaccato alle cose del mondo era un uomo colto, intelligente ed energico. Malgrado la natura incredibile delle sue asserzioni, non potei fare a meno di prendere Akeley molto più sul serio degli altri avversari delle mie teorie. In primo luogo, egli era stato testimone di fatti reali che servivano di base alle sue singolari considerazioni; inoltre, da vero uomo di scienza, era disposto a sottoporre le sue conclusioni a qualsiasi specie di esperimento. Ben lontano dal lasciarsi trascinare da inclinazioni personali, si basava sempre su ciò che considerava una prova positiva. Naturalmente, mi resi conto in partenza che sbagliava, ma riconobbi che sbagliava intelligentemente. Non condivisi mai la convinzione di alcuni suoi amici, che attribuivano le sue idee e la paura che egli provava per le colline solitarie a pura e semplice demenza. Vidi bene che il mio corrispondente era un uomo notevole: ciò che raccontava era certamente originato da circostanze strane e meritevoli di una inchiesta, anche se lontane dalle cause fantastiche loro attribuite. In seguito mi spedì alcune prove materiali che misero questa storia su un piano diverso ed estremamente bizzarro. Ritengo sia utile trascrivere il più fedelmente possibile la prima lettera inviatami da Akeley per presentarsi. Il documento è una pietra miliare nella storia della mia stessa formazione intellettuale.
Questa lettera non è più in mio possesso, ma ho conservato nella memoria quasi tutte le parole di quel sinistro messaggio; e affermo di nuovo che il suo autore era una persona intelligente, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Ecco il testo che ricevetti, redatto nella grafia illeggibile, contratta, arcaica, di chi evita i contatti con il mondo e si dedica a una vita tranquilla, da studioso. R.F.D. N. 2 Townshend, Contea di Windham Vermont 5 maggio 1928 Al signor Albert N. Wilmarth 118, Saltonstall Street Arkham - Massachusetts Gentile Signore, ho letto col più vivo interesse, riportata nel Brattleboro Reformer del 23 aprile 1928, la sua lettera concernente le recenti storie di corpi galleggianti nei nostri fiumi in piena, come le curiose leggende con le quali esse sono in rapporto. È facile comprendere perché lei adotti un simile atteggiamento e perché Il pennaiolo, che firma la rubrica, sia d'accordo con lei: è quello di quasi tutte le persone colte del Vermont, e fu anche il mio al tempo della mia giovinezza (ho attualmente 57 anni), prima che certi studi mi conducessero a esplorare alcune colline del mio paese che nessuno visita mai. Fui spinto a intraprendere quegli studi dai bizzarri racconti dei fattori ignoranti - volesse il cielo che non l'avessi fatto! - ma posso dire, in tutta modestia, che l'antropologia e il folclore erano cose a me già familiari. Vi avevo consacrato parecchio tempo quando seguivo i corsi dell'università del Vermont, e conosco molto bene la maggior parte degli autori che fanno testo in materia: Tylor, Lubbock, Frazer, Quatrefages, Murray, Osborn, Keith, Boule, G. Elliot Smith, eccetera. Non ignoro che le storie di esseri misteriosi sono vecchie quanto l'umanità. Ho letto nel Rutland Herald le sue lettere e quelle dei suoi avversari, e credo di aver capito bene il punto di vista di entrambe le parti. Ora, tengo a dirle questo: temo fortemente che i suoi contraddittori siano più vicini di lei alla verità, benché la ragione sembri dalla sua parte. Infine, sono più vicini alla verità di quanto essi stessi non immaginino, poiché, na-
turalmente, quei signori avanzano delle semplici opinioni e non possono sapere ciò che io so. Se non conoscessi il problema più di loro, sarei uno dei suoi partigiani più accaniti. Come può constatare, faccio fatica a entrare in argomento, probabilmente perché ho paura di arrivarci. In breve, io possiedo la prova che degli esseri mostruosi vivono davvero nei boschi di certe colline dove nessuno si avventura. Non ho mai visto i corpi galleggianti sulla superficie dei fiumi, ma ho visto delle creature che vi assomigliano, in circostanze che non oso raccontare. Ho scoperto delle impronte di passi in luoghi deserti e recentemente, vicino alla mia casa (abito nella vecchia dimora dei miei avi, a sud del villaggio di Townshend, sul fianco della Montagna Nera), ho sentito delle voci sotto gli alberi, in zone che non mi azzarderei a segnare per iscritto. In una di queste località le voci si udivano così chiaramente, che ho potuto registrarle con un fonografo, provvisto di un dittafono e di un rullo di cera per prima registrazione. Cercherò di spedirle la registrazione così ottenuta. I vecchi del villaggio ai quali l'ho fatta sentire vi hanno riconosciuto - e sono rimasti paralizzati dal terrore - quella "voce ronzante" di cui parlavano le loro nonne (e che è pure nel libro di Davenport sulle leggende del Vermont). Ora, io so come la maggior parte della gente giudica un uomo che sente delle voci... Tuttavia, prima di trarre le sue conclusioni, ascolti la registrazione su rullo e faccia il confronto con storie che conosce anche lei. Se potrà fornirmi una spiegazione logica ne sarò felicissimo, ma ci deve essere qualcosa dietro. Ex nihilo nihil fit, lei capisce. Comunque, non le scrivo per intavolare una discussione ma per darle alcune informazioni che ritengo debbano interessare un uomo come lei. Gliele offro a titolo puramente privato. Pubblicamente, sottoscrivo le sue teorie, perché alcuni incidenti mi dimostrano che è meglio non saper troppo a questo proposito. Gli studi a cui mi dedico attualmente non sono noti a nessuno; mi guarderò dal dire qualsiasi cosa che possa attirare l'attenzione della gente e indurla a visitare i luoghi da me esplorati. È vero, terribilmente vero, che delle creature non appartenenti a questa Terra esercitano sull'umanità una sorveglianza costante, grazie ad alcune spie disseminate fra noi per raccogliere informazioni. Questo mi è stato confermato da un disgraziato, un essere umano che, se aveva il cervello a posto (come credo), era lui stesso una di quelle spie. In seguito si è ucciso; tuttavia, ho buon motivo di credere che abbia avuto numerosi successori. Capaci di vivere negli spazi interstellari e attraversarli in volo, quelle
creature vengono da un altro pianeta su ali possenti e tozze in grado di superare l'etere, ma così impacciate nel viaggio che si trovano in difficoltà nell'atmosfera terrestre. Gliene parlerò in seguito, se non cestinerà subito questa lettera come l'opera di un pazzo. Vengono qui per procurarsi determinati metalli nelle miniere che si trovano sotto le colline e scendono nelle viscere della terra: per giunta, credo di sapere da dove vengono. Non ci faranno alcun male se le lasceremo in pace; ma nessuno può dire che cosa capiterà se manifesteremo una curiosità eccessiva nei loro riguardi. Naturalmente, un esercito bene equipaggiato potrebbe annientare la loro colonia di minatori, ed è ciò che esse temono. Ma, in quel caso, ne verrebbero altre dallo spazio, in numero infinito. Sarebbe facile per loro impadronirsi della terra: non l'hanno mai fatto perché non ne avevano bisogno. Sono disposte a lasciar le cose come stanno, per evitar fastidi. Credo ora che abbiano intenzione di sbarazzarsi di me per ciò che ho scoperto. Nel bosco che circonda Round Hill, a est della mia fattoria, ho trovato una grossa pietra nera ricoperta di geroglifici sconosciuti; da quando me la sono portata a casa, tutto è cambiato. Se esse pensano che io sospetti troppe cose, o mi uccideranno oppure mi rapiranno da questa Terra per trasportarmi sul pianeta da cui provengono. Ogni tanto, rapiscono gente per tenersi al corrente di ciò che succede nel mondo degli uomini. Questo mi induce a esporle lo scopo secondario della presente lettera: pregarla di mettere subito fine alla discussione in corso invece di darle maggior pubblicità. Bisogna assolutamente distogliere l'attenzione della gente da quelle colline, tanto più adesso che gli agenti immobiliari stanno invadendo il Vermont per riempire le campagne di villette a buon mercato. Sarò molto felice di mantenere con lei rapporti epistolari. Cercherò di mandarle per pacco espresso, se sarà d'accordo, il rullo fonografico e la pietra nera (quest'ultima è così consumata che delle fotografie non direbbero niente). Dico "cercherò", in quanto sono convinto che quelle creature si interessino un po' troppo dei miei affari. In una fattoria vicina al villaggio c'è un individuo tetro e poco raccomandabile, un certo Brown, che dev'essere una delle loro spie. A poco a poco cercano di isolarmi dal mio mondo perché so troppe cose su di loro. Sono informate su tutte le mie azioni e i miei movimenti in modo stupefacente. Può anche darsi che lei non riceva mai questa lettera. Credo che se le cose peggioreranno sarò costretto ad abbandonare questo paese per trasferirmi da mio figlio, a San Diego in California; certo non mi sarà facile abbandonare il luogo in cui sono nato e dove la mia famiglia ha vissuto per
sei generazioni. D'altra parte, non so se oserò vendere la mia casa a qualcuno proprio adesso che essa ha sollecitato l'attenzione di quelle creature. Ho l'impressione che cerchino di riprendere la pietra nera e di distruggere il rullo, ma forse riuscirò a impedirglielo. Finora i miei cani le hanno tenute a bada, anche perché sono ancora molto poco numerose e si spostano maldestramente (quelle loro ali servono a poco nella nostra atmosfera, sebbene, inconcepibilmente, debbano essere il mezzo con cui arrivano dallo spazio). Sono sul punto di decifrare l'iscrizione di quella pietra; grazie ai suoi studi demonologia, forse potrà fornirmi lei gli elementi che mi mancano. Suppongo che non ignori gli spaventosi miti anteriori alla venuta degli uomini sulla Terra, i cicli di Yog-Sothoth e di Cthulhu menzionati nel Necronomicon. Ho avuto occasione di scorrere quest'opera, e mi pare che ce ne sia un esemplare nella biblioteca della vostra università. Per concludere, caro signore, penso che, in base alle nostre rispettive cognizioni, ognuno di noi possa essere utile all'altro. Non vorrei compromettere la sua sicurezza, e ritengo sia mio dovere avvertirla che il possesso del rullo e della pietra potrà esporla a certi rischi: ma lei non esiterebbe a correrli nell'interesse della scienza. Mi recherò in macchina a Newfane o a Brattleboro per inviarle il pacco, dato che il servizio postale di queste due località mi sembra più sicuro di quello di Townshend. Aggiungo che da qualche tempo vivo completamente solo poiché non posso più tenere dei domestici. Si rifiutano di restare a causa delle creature, che cercano di avvicinarsi all'abitazione durante la notte e fanno abbaiare i cani senza tregua. Sono contento di non essermi impegnato troppo in questa faccenda mentre era viva mia moglie: ne sarebbe certo impazzita. Nella speranza che non mi giudicherà troppo importuno e che deciderà di entrare in rapporti con me anziché gettare questa lettera nel cestino trattandomi da folle, la prego di gradire i miei migliori saluti. Henry W. Akeley P.S. Stamperò qualche copia di fotografie che, ritengo, mi aiuteranno a provare alcune delle osservazioni che le ho esposto. I vecchi di qui le trovano mostruosamente rassomiglianti. Gliele invierò subito, se le interessano. H.W.A. Sarebbe difficile esprimere ciò che provai nel leggere questo strano messaggio. Logicamente, avrei dovuto ridere molto più di simili stravaganze
che delle teorie relativamente moderate che fino a quel momento mi avevano divertito; invece, qualcosa nel tono della lettera di Akeley mi indusse a considerarla molto seriamente. Non che credessi nella razza misteriosa venuta dalle stelle di cui parlava il mio corrispondente; ma, dopo essere stato assalito sulle prime da gravi dubbi, mi convinsi che quell'uomo non era né un pazzo né un impostore: aveva certamente assistito a certi fenomeni anormali, anche se ne aveva dato una spiegazione troppo fantasiosa. Era impossibile, pensavo, che avesse ragione; tuttavia, quella faccenda meritava senz'altro un'inchiesta. Akeley, d'altra parte, si dimostrava eccessivamente inquieto; ma neanche questa sua inquietudine potevo pensare che fosse del tutto infondata. Si dimostrava molto preciso su parecchi punti e, dopo tutto, la sua storia coincideva in modo assai curioso con i miti e le leggende locali. Che avesse veramente sentito delle voci inquietanti sulle colline e avesse trovato la pietra nera di cui parlava, era senz'altro possibile, malgrado le conclusioni insensate a cui era giunto: conclusioni probabilmente suggerite dall'uomo che credeva di essere la spia dei mostri e che si era ucciso poco dopo. Senza dubbio, quell'individuo completamente pazzo possedeva una logica apparente che aveva indotto l'ingenuo Akeley (già predisposto alle chimere dai suoi studi di folclore) a prestar fede al suo racconto. Se il mio corrispondente non trovava personale di servizio, era semplicemente perché anche i suoi vicini avevano la convinzione che la sua casa fosse assediata durante la notte da creature soprannaturali. In quanto ai cani, dovevo ammettere che abbaiassero per un motivo qualsiasi. Non potevo nemmeno rifiutarmi di credere che avesse registrato il rullo al dittafono, come diceva. Anche questo poteva corrispondere a un dato reale: si trattava probabilmente di suoni animali che assomigliavano in maniera ingannevole a voci umane, o del linguaggio di un essere umano degenerato, caduto al livello dell'animale, che errava attraverso i boschi. Poi pensai alla pietra nera ricoperta di geroglifici: che cosa poteva significare? E cosa bisognava pensare delle fotografie "mostruosamente rassomiglianti" che il mio corrispondente si offriva di inviarmi? Rileggendo la lettera, ebbi l'impressione chiarissima che i miei avversari avessero carte migliori nel loro gioco di quanto non avessi creduto. Dopo tutto, su quelle remote colline esisteva forse una comunità di degenerati: e in tal caso la presenza di corpi dall'aspetto strano trascinati dai fiumi in piena sembrava verosimile. Era troppo presuntuoso supporre che le antiche leggende e i racconti più recenti fossero basati su questo elemento di real-
tà? Ma, proprio mentre questi dubbi mi assalivano, mi vergognai di pensare che erano stati suscitati da una missiva tanto stravagante come quella di Henry Akeley. Finalmente inviai a quest'ultimo una lettera in cui esprimevo un cordiale interesse, sollecitando maggiori dettagli. La sua risposta mi giunse a volta di corriere. La busta racchiudeva, come mi aveva promesso, parecchie fotografie che dovevano giustificare le sue asserzioni. Guardando le immagini che estraevo dalla busta, mi sentii invadere da un'autentica sensazione di paura; sebbene la maggior parte non fossero molto chiare, possedevano tutte un terribile potere di suggestione accentuato dal fatto che erano autentiche fotografie, vale a dire una prova tangibile degli oggetti rappresentati, il risultato di un procedimento di trasmissione impersonale esente da pregiudizi, da errori o da menzogne. Più le guardavo, più comprendevo che dopotutto avevo avuto ragione nel prendere sul serio Henry Akeley e il suo racconto. Esse provavano davvero che sulle colline del Vermont esistevano cose trascendenti le conoscenze o le credenze comuni. L'elemento più conclusivo e inquietante era un'orma che era stata vista in un tratto fangoso, colpito in pieno dal sole, su un altipiano deserto. Non era certamente cosa che si potesse contraffare facilmente, lo capii di primo acchito: il netto profilo dei ciottoli e dei fili d'erba inclusi nel campo visivo fornivano dati sicuri per valutare le proporzioni ed escludevano che potesse trattarsi di un fotomontaggio. Ho accennato all'orma di un piede, ma sarebbe più preciso parlare dell'impronta di una zampa. Devo limitarmi a dichiarare che ricordava nell'insieme una pinza di granchio, e c'era da rimanere indecisi per quanto riguardava la direzione. Non era molto profonda e neppure recente; le dimensioni erano quelle di un piede umano. Da una specie di cuscinetto centrale partivano in tutti i sensi altre pinze dentellate di cui non si poteva capire l'uso, se l'impronta era quella di un organo della locomozione. Un'altra fotografia meno chiara, perché scattata evidentemente all'ombra, rappresentava l'ingresso di una caverna, chiusa da un masso rotondeggiante. Sulla terra nuda che si estendeva davanti alla grotta si poteva notare una rete di impronte che, esaminate alla lente, risultavano identiche a quelle della foto precedente. Una terza immagine mostrava un cerchio di pietre in cima a una collina solitaria. Tutto intorno l'erba era appiattita o strappata, ma non distinsi alcuna impronta. Che si trattasse di località remota e isolata era evidente dalla fuga di cime montuose deserte - un vero e proprio mare di picchi disabitati - che si profilavano sullo sfondo perden-
dosi verso un orizzonte indistinto. C'era poi la fotografia della grossa pietra nera trovata nel bosco di Round Hill. Akeley, probabilmente, l'aveva fotografata sulla sua scrivania, perché si intravedevano file di libri e un busto di Milton. Da quanto si riusciva a capire, la cosa era stata presa di prospetto, in senso verticale. Vidi chiaramente una superficie ricurva di circa trenta centimetri per sessanta, ma non è possibile descriverla facilmente o dare un'idea della forma generale. Quali principi geometrici avessero ispirato il taglio della pietra, non ero assolutamente in grado di immaginare: ma era indubbio che la pietra fosse stata realizzata artificialmente e che quei criteri fossero estranei alla nostra esperienza; prima di allora non avevo mai visto niente che mi desse l'impressione di una tale estraneità al nostro universo. Non potei distinguere che alcuni dei geroglifici che la coprivano, ma due di essi mi turbarono profondamente. Certo, poteva anche trattarsi di un falso, poiché io non ero il solo ad aver letto il mostruoso Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred; malgrado ciò, rabbrividii riconoscendo alcuni ideogrammi che i miei studi mi avevano insegnato ad associare a entità empie e terrificanti, risalenti a epoche anteriori alla nascita della Terra e degli altri mondi del sistema solare, quando avevano conosciuto una specie di folle semi-esistenza. Delle altre cinque fotografie, tre rappresentavano paesaggi montagnosi o paludosi che sembravano nascondere, in modo indefinibile, le tracce di una vita segreta. La quarta mostrava un'impronta sul terreno, vicino alla casa di Akeley (il quale diceva di averla presa l'indomani di una notte in cui i cani avevano abbaiato più forte del solito). Era così sfocata che non si potevano trarne conclusioni precise, ma certo assomigliava all'impronta del pianoro deserto. Sull'ultima si vedeva la fattoria di Akeley, una graziosa casa bianca a due piani, vecchia di un secolo e mezzo e con un prato ben tenuto. Un viale fiancheggiato da bassi muriccioli conduceva all'ingresso, molto bello, e parecchi grossi cani erano sdraiati sul prato vicino a un uomo dal viso simpatico, con una corta barba grigia, che non poteva essere che il padrone di casa: a giudicare dal filo che aveva in mano doveva essersi fotografato da solo. Dopo aver esaminato a lungo le fotografie, passai alla voluminosa lettera che le accompagnava e ne fui così misteriosamente affascinato da non poterne staccare gli occhi finché non l'ebbi finita. Il mio corrispondente esponeva nei particolari ciò che aveva riassunto nella prima lettera. Mi sottoponeva lunghe trascrizioni di parole udite sotto gli alberi nel cuore della
notte, mi descriveva minuziosamente le mostruose forme rosee intraviste fra le macchie al crepuscolo e concludeva con un terrificante resoconto cosmico in cui adoperava a un tempo la sua profonda erudizione e le frasi stravaganti della sedicente spia dei mostri che si era ammazzata in un accesso di follia. Lessi nomi e parole che avevo già sentito altrove e che sapevo riferirsi ai misteri più orridi: Yuggoth, il Grande Cthulhu, Tsathoggua, Yog-Sothoth, R'lyeh, Nyarlathotep, Azathoth, Hastur, Yan, Leng, il lago di Hali, Bethmoora, il Segno Giallo, L'mur-Kathulos, Bran e il Magnum Innominandum; fui condotto in mondi estranei al nostro, di cui l'autore del Necronomicon aveva vagamente intuito l'esistenza; presi conoscenza degli abissi della vita originale, delle diverse correnti che ne derivano, e, finalmente, d'una mostruosa mescolanza che si era prodotta tra quelle correnti e un ulteriore abominio venuto dall'esterno. Sentivo la mia ragione vacillare. Fino a quel momento avevo tentato di negare tutto a suon di spiegazioni logiche, ma ormai cominciavo a credere ai prodigi più incredibili. Quel cumulo di prove mi schiacciava. L'atteggiamento freddo e scientifico di Akeley, così diverso da quello di un pazzo, di un fanatico o di un sognatore, produceva un effetto straordinario. Quand'ebbi finito di leggere la lettera, compresi le paure del mio corrispondente e mi sentii disposto a fare tutto il possibile per tener lontano la gente da quelle colline infestate. Ancora oggi, sebbene il tempo abbia attutito le mie impressioni e mi faccia dubitare della realtà della mia avventura, non oserei citare tutti i passi di quella terribile lettera. Sono contento che sia sparita insieme al rullo e alle fotografie; e mi rammarico, per le ragioni che esporrò in seguito, che sia stato scoperto un nuovo pianeta al di là di Nettuno. Da quel giorno rinunciai a discutere pubblicamente ogni ipotesi sugli incidenti del Vermont. Gli argomenti dei miei avversari rimasero senza risposta; poi, poco a poco, la controversia fu dimenticata. Durante i mesi di maggio e giugno mantenni una corrispondenza ininterrotta con Akeley. Ogni tanto, devo ricordarlo, una delle nostre lettere andava perduta, tanto che dovevamo tornare indietro e dedicarci a un lungo lavoro di copiatura. Il nostro scopo era di scambiarci le rispettive impressioni in materia di scienza mitologica per arrivare a collegare gli avvenimenti recenti all'insieme delle leggende primitive di tutto il mondo. Fra le altre cose, stabilimmo che i mostri studiati dal mio corrispondente e gli infernali Mi-Go del Nepal o il misterioso "yeti" dell'Himalaya, produ-
cevano un solo e identico genere di incubo. Si facevano strada ipotesi zoologiche affascinanti che avrei volentieri sottoposto al mio collega professor Dexter, se Akeley non mi avesse proibito di parlare con chiunque di tutta la faccenda. (Se oggi gli disubbidisco è perché ritengo di contribuire maggiormente alla sicurezza del pubblico lanciando un avvertimento solenne che mantenendo il silenzio: ho il dovere di tener lontani gli uomini dalle colline del Vermont e dei picchi himalayani che gli esploratori si ostinano a voler scalare.) Ciò a cui essenzialmente tendevamo, d'altra parte, era la decifrazione dei geroglifici rappresentati sull'infame pietra nera, che sembrava costituire un ponte di passaggio tra gli orrori del cosmo e il nostro mondo. 3 Ai primi di giugno ricevetti il rullo del dittafono. Akeley l'aveva spe dito da Brattleboro, poiché non si fidava dei servizi postali di Townshend. Da un po' di tempo aveva l'impressione di essere oggetto di una sorveglianza accresciuta, anche per il mancato recapito di alcune mie lettere. Parlava continuamente degli atti insidiosi di certi individui in cui vedeva le spie dei mostri segreti. I suoi sospetti si appuntavano particolarmente sul fattore Walter Brown: costui viveva solo in una casa in rovina al limitare dei boschi, ma lo si vedeva spesso capitare a Brattleboro, Bellows Falls, Newfane e South Londonderry, sebbene non si sapesse cosa veniva a farci. Akeley era convinto di aver riconosciuto un giorno la voce di Brown tra le "voci ronzanti" udite in un bosco; un'altra volta, aveva scoperto nei paraggi della casa del fattore l'impronta di una "chela" che lasciava immaginare molte cose, poiché si trovava vicina ad altre impronte, senz'altro di Brown. Dunque il rullo fu spedito da Brattleboro, dove Akeley si era recato con la sua vecchia Ford. In una lettera allegata mi confessava di avere ormai molta paura ad avventurarsi per le strade solitarie del Vermont; non osava nemmeno andare a far compere a Townshend, se non in pieno giorno; era estremamente pericoloso sapere troppo per chi non abitava molto lontano dalle colline misteriose. Presto sarebbe andato a raggiungere suo figlio in California, benché gli costasse molto abbandonare la dimora dei suoi antenati. Prima di mettere il rullo su un dittafono, chiesto in prestito all'amministrazione dell'università, rilessi attentamente tutte le spiegazioni contenute nelle diverse lettere di Akeley. Quella registrazione era stata ef-
fettuata verso l'una del mattino, il 1° maggio 1915, vicino all'ingresso chiuso di una caverna, nella zona in cui i dirupi occidentali della Montagna Nera scendono verso la palude di Lee. Quel luogo era stato sempre infestato da strane voci: appunto perché si aspettava dei risultati Akeley si era portato dietro il dittafono, il fonografo e il rullo. Le precedenti esperienze gli avevano insegnato che la vigilia del 1° maggio (l'orrenda notte del Sabba delle leggende demoniache d'Europa) sarebbe stato un giorno più propizio degli altri. Non fu deluso. Tuttavia c'è da notare che in quel luogo non udì mai più nulla. Le parole raccolte erano di carattere rituale (a differenza di quelle che aveva percepito varie volte nella foresta) e pronunciate da due voci. La prima era evidentemente una voce umana, che Akeley non aveva potuto identificare (non apparteneva a Brown, ma a un uomo colto e istruito); la seconda era invece quel "ronzio" maledetto che non aveva niente di umano, sebbene formasse parole inglesi perfettamente riconoscibili. La registrazione era lontana dall'essere perfetta: il rito aveva luogo sottoterra a una distanza notevole dall'apparecchio, e Akeley non aveva quindi raccolto che brani di frasi molto incoerenti. Mi aveva inviato, comunque, una trascrizione di tutta la scena, e io vi detti una scorsa prima di avviare l'apparecchio. Il testo era misterioso più che terrificante: ma la sua origine e le circostanze in cui era stato ottenuto gli conferivano un significato orrendo che nessuna parola avrebbe potuto esprimere. Lo riproduco qui sotto integralmente, così come lo ricordo; sono certo di conoscerlo a memoria poiché ne ho letto la trascrizione e ascoltato la registrazione un numero incredibile di volte. Non è cosa che si dimentichi facilmente! (Rumori confusi.) (Voce di uomo colto.) «...è il Signore delle Foreste fino a... e i doni degli uomini di Leng... dagli abissi della notte fino alle voragini dello spazio, e dalle voragini dello spazio agli abissi della notte, che risuonino per sempre le lodi del Grande Cthulhu, di Tsathoggua e di Colui-che-non-si-deve-nominare. Che risuonino per sempre le Loro lodi, e che sia concessa l'abbondanza al Capro Nero delle Foreste. Iä! Shub-Niggurath! Il Capro!» (Imitazione ronzante della voce umana.) «Iä! Shub-Niggurath! Il Capro Nero delle Foreste!» (Voce umana.)
«Ed è avvenuto che il Signore delle Foreste, essendo... sette e nove, in fondo alla scala d'onice... tributi portati a Quello dell'Abisso, Azathoth, a Colui del quale Tu ci hai insegnato le meraviglie... sulle ali della notte, al di là dello spazio, al di là del... a Quello di cui Yuggoth è l'ultimo nato, viaggiando solitario nell'etere nero al confine del...» (Voce ronzante.) «...anche fra gli uomini, e istruitevi sulle loro usanze, affinché Quello dell'Abisso possa sapere. A Nyarlathotep, il Potente Messaggero, tutto deve essere riferito. Ed Egli assumerà le sembianze dell'uomo, la maschera di cera e la veste che nasconde, ed Egli discenderà dal mondo dei Sette Soli per...» (Voce umana.) «(Nyarl) athotep, Grande Messaggero, tu che rechi Yuggoth attraverso il vuoto dello spazio, Padre di milioni di eletti, Cacciatore fra...» (Fine della registrazione.) Queste sono le parole che mi preparavo ad ascoltare quando avviai il dittafono. Fu con una paura mista a disgusto che udii lo sfregamento preliminare della punta, e quasi mi rallegrai che le prime frasi fossero pronunciate da una voce umana: una voce raffinata, il cui accento ricordava quello di Boston, e che non apparteneva certamente a un abitante delle colline del Vermont. Tendendo l'orecchio per udire meglio le parole appena percepibili, mi sembrò che corrispondessero con esattezza alla trascrizione di Akeley. La voce suadente dall'accento bostoniano proseguì la cantilena: «...Iä! Shub-Niggurath! Il Capro dai mille cuccioli!...». Poi "l'altra voce" risuonò, e ancora oggi rabbrividisco pensando all'effetto che produsse su di me, benché fossi stato preparato dalle lettere di Akeley. Le persone alle quali ho parlato di quel rullo dichiarano che si tratta d'impostura o di follia; ma se avessero potuto sentire anche loro le parole maledette, o leggere la corrispondenza di Akeley - soprattutto la seconda, enciclopedica lettera - sono sicuro che sarebbero di altra opinione. In fin dei conti, è un gran peccato che non abbia disobbedito al mio corrispondente e fatto ascoltare quel rullo ad altri; di più, è un gran peccato che tutte le sue lettere siano andate perdute. In quanto a me, trovai quella voce assolutamente sconvolgente. Seguiva da presso la voce umana, che faceva eco con le risposte rituali; e anche quella, per umana che fosse, mi sembrava giungere da inconcepibili inferni, da mostruosi abissi senza fondo. Sono passati ormai più di due anni da quando ho sentito per la prima volta la re-
gistrazione abominevole; ma, in questo stesso momento, mi sembra ancora di riudire il diabolico ronzio della seconda voce: «Iä! Shub-Niggurath! Il Nero Capro delle Foreste dai mille cuccioli!». La voce continua a risuonarmi nelle orecchie, eppure non sono ancora riuscito ad analizzarla al punto da farne una trascrizione grafica. Si sarebbe detto il ronzìo di un insetto gigantesco, modulato in modo da riprodurre un linguaggio articolato, e ho l'assoluta certezza che gli organi da cui proveniva non potevano somigliare minimamente agli organi dell'uomo, né a quelli di alcun mammifero. Il fenomeno presentava particolarità di timbro, di registro e di risonanza che lo ponevano completamente al di fuori della nostra sfera umana. Quando lo sentii per la prima volta, ne rimasi letteralmente inebetito e ascoltai il seguito della registrazione in uno stato di assoluto stupore. Poi, quando il disco finì a mezzo di una frase particolarmente chiara pronunciata dalla voce umana, rimasi sgomento, con gli occhi fissi nel vuoto; e questo per molto tempo ancora dopo che l'apparecchio si era fermato automaticamente. Non ho bisogno di aggiungere che ascoltai quella registrazione molte volte, e che scambiai numerose lettere con Akeley per tentare di giungere a un'analisi completa. Mi sembra inutile e inopportuno riferire qui tutte le nostre conclusioni. Mi limiterò a dire che ci trovammo d'accordo su un punto preciso: avevamo in nostro possesso un indizio che ci permetteva di ritrovare l'origine di alcune usanze particolarmente ripugnanti che caratterizzavano le più antiche e misteriose religioni dell'umanità. D'altra parte, ci sembrava evidente che esistesse da sempre un'alleanza fra creature incredibili e alcuni membri della comunità umana. Eravamo incapaci di immaginare l'estensione dei traffici odierni fra le due specie, e tantomeno di fare paragoni con il passato, ma anche nella migliore delle ipotesi c'era posto per una serie di considerazioni terrificanti. Pareva accertato che fra l'uomo e i misteri dell'infinito vi fossero relazioni ben determinate. Gli esseri empi che apparivano sulla Terra scendevano dal pauroso pianeta Yuggoth, al confine del sistema solare; ma quello non era che l'avamposto di una terrificante razza interstellare il cui luogo d'origine doveva trovarsi molto al di fuori della nostra galassia e forse al di fuori del nostro stesso cosmo. Continuammo la nostra discussione sulla pietra nera e sul modo migliore di spedirla ad Arkham (dato che Akeley giudicava imprudente da parte mia andare a trovarlo). Per le ragioni che ho detto, Akeley temeva di far seguire a quell'oggetto un itinerario normale. Finalmente, decise di portarla lui stesso a Bellows Falls per spedirla con il treno della linea Boston-Maine
via Keene, Winchendon e Fitchburg, benché così fosse costretto a prendere strade più deserte della strada maestra di Brattleboro. Affermava che, il giorno in cui aveva spedito il rullo, vicino all'ufficio postale di quest'ultima località aveva visto un individuo dalla faccia poco rassicurante che si era mostrato particolarmente desideroso di parlare con lui e che poi aveva preso il treno con cui il pacco era partito. Confessava di non essere stato tranquillo sulla sorte di quel primo plico finché non gliene avevo accusato ricevuta. Più o meno a quel tempo, durante la seconda settimana di luglio, una delle mie lettere andò smarrita, come appresi da un ansioso messaggio di Akeley. Da quel momento mi pregò di non scrivergli più a Townshend, ma di indirizzare tutto al fermo posta di Brattleboro dove si sarebbe recato spesso con la sua macchina o con la corriera di recente istituzione. Mi resi conto che la sua inquietudine cresceva di giorno in giorno, poiché mi raccontò con dovizia di particolari che i cani abbaiavano sempre più spesso nelle notti senza luna, e che a volte trovava impronte freschissime nel terreno fangoso del cortile dietro casa. Una volta mi parlò di un'intera fila di orme, allineate davanti a una schiera d'impronte canine, e mi inviò una sconvolgente fotografia a conferma di quanto diceva. L'aveva scattata l'indomani di una notte in cui i molossi avevano abbaiato senza interruzione. La mattina di mercoledì 18 giugno ricevetti un telegramma da Bellows Falls, nel quale Akeley mi informava che avrebbe spedito la pietra nera con i servizi della Boston-Maine, precisamente col treno n. 5508 in partenza da Bellows Falls alle 13,15, e che arriva a Boston alle 16,12. Calcolai che il pacco sarebbe stato ad Arkham l'indomani a mezzogiorno al più tardi, e, di conseguenza, rimasi a casa tutta la mattina del giovedì per riceverlo. Non vedendolo arrivare telefonai all'ufficio dei pacchi espresso, dove m'informarono che per me non c'era niente. In preda a una viva inquietudine, telefonai quindi all'ufficio della stazione Nord di Boston e non fui molto sorpreso quando mi dissero che non risultava alcuna spedizione al mio indirizzo. Il treno n. 5508 era arrivato il giorno prima con trentacinque minuti di ritardo, ma non trasportava casse o pacchi a mio nome. L'impiegato di servizio mi promise di fare un'indagine, e, alla fine della giornata, inviai ad Akeley una lettera esponendogli la situazione. Il pomeriggio dell'indomani ricevetti una telefonata dall'ufficio di Boston che mi informava del risultato delle ricerche. L'impiegato incaricato della sorveglianza dei pacchi sul treno n. 5508 si era ricordato di un incidente che forse poteva interessarmi: vale a dire una discussione con un
uomo magro, i capelli rossi, l'aspetto campagnolo, durante una fermata del convoglio a Keene (New Hampshire), verso l'una del pomeriggio. L'uomo sembrava molto preoccupato a proposito di un pesante pacco che diceva di aspettare, ma che non si trovava sul treno e non figurava sui registri della compagnia. Si era presentato sotto il nome di Stanley Adams; la sua voce stranamente monotona, cupa, "ronzante", aveva fatto uno strano effetto all'impiegato, che poi era stato preso da un invincibile torpore, e non poteva assolutamente ricordare la fine della conversazione. Quell'impiegato era un giovane degno della massima fiducia, con ottimi precedenti, da tempo in servizio presso la compagnia. Mi feci dare il suo nome e il suo indirizzo, e la sera stessa mi recai a Boston per interrogarlo. Era un giovane dal viso aperto e simpatico, ma non poté aggiungere niente alle precedenti dichiarazioni. Cosa strana, non era tanto certo di poter riconoscere il suo interlocutore. Resosi conto che non mi sarebbe stato di nessun aiuto, tornai ad Arkham dove passai il resto della notte a scrivere lettere ad Akeley, alla compagnia, al commissario di polizia e al capostazione di Keene. L'uomo dalla voce strana era certamente il perno di tutta la faccenda, e speravo che gli impiegati della stazione e dell'ufficio telegrafico di Keene se ne ricordassero abbastanza da poterlo riconoscere. Tutte le mie ricerche furono inutili, lo ammetto. Il sedicente Stanley Adams era stato visto nei paraggi della stazione di Keene nel primo pomeriggio del 18 giugno, e uno sfaccendato sembrava ricordarsi vagamente che trasportava un pesante pacco, ma nessuno lo conosceva e nessuno l'aveva più rivisto. Non era entrato nell'ufficio telegrafico, dove non avevano ricevuto alcun messaggio relativo alla presenza del pacco di Akeley a bordo del treno n. 5508. Naturalmente, Akeley mi aiutò a condurre l'inchiesta e si recò a Keene per interrogare le persone che abitavano vicino alla stazione. Tuttavia, assunse fin dal principio un atteggiamento molto più fatalista del mio. Considerando la perdita della pietra come l'inevitabile conseguenza degli avvenimenti precedenti, non espresse mai la minima speranza di ritrovarla. Mi parlò del potere ipnotico dei mostri delle colline e dei loro agenti; in una delle sue lettere mi lasciò capire che secondo lui la pietra non si trovava più su questa Terra. In quanto a me ero furioso, poiché intuivo che avevamo perduto il miglior strumento di indagine. Avrei rimuginato per molto tempo su quell'amara delusione, se i messaggi che ricevetti poco dopo non mi avessero rivelato un nuovo aspetto dell'orribile problema delle colline,
che accentrò immediatamente tutta la mia attenzione. 4 Nella prima di quelle lettere, i cui fogli erano coperti da una scrittura tremolante, Akeley mi informava che i mostri avevano incominciato ad aggredirlo con risolutezza nuova. Il 2 agosto, mentre si recava al villaggio in macchina, aveva trovato un tronco d'albero attraverso la carreggiata in un punto in cui questa attraversava un bosco molto fitto; i latrati spaventosi dei due molossi che lo accompagnavano nei suoi spostamenti gli avevano fatto immaginare quali creature dovessero nascondersi nei paraggi. Non osava pensare a ciò che sarebbe successo in assenza degli animali; ormai non si azzardava a uscire senza essere accompagnato da almeno due cani della sua fedele muta. Il 5 agosto, sempre sulla stessa strada, un colpo di fucile aveva sfiorato la sua macchina. L'indomani, i latrati dei cani gli avevano rivelato la presenza di altri mostri nel sottobosco. Il 15 agosto ricevetti una lettera terrificante che mi sconvolse e mi fece sperare che il mio amico si decidesse a ricorrere alla polizia. Nella notte dal 12 al 13, parecchi colpi d'arma da fuoco erano echeggiati nei paraggi della fattoria e l'indomani mattina tre molossi su dodici giacevano morti nel cortile. Sulla strada si vedevano migliaia di impronte di pinze mischiate a impronte di passi di Walter Brown. Akeley aveva telefonato a Brattleboro per farsi mandare degli altri cani, ma la comunicazione era stata troncata quasi subito. Recatosi in città con la macchina, aveva saputo che alcuni operai delle linee telefoniche avevano trovato il cavo principale tagliato nel punto in cui attraversava le colline deserte a nord di Newfane. Nel momento in cui mi scriveva Akeley si trovava all'ufficio postale di Brattleboro, e si preparava a ritornare alla fattoria con altri quattro cani e parecchi pacchi di cartucce per il suo fucile di grosso calibro. Da quel giorno, ogni pretesa di coraggio e freddezza scientifica mi abbandonò. Temevo che qualcosa di spaventoso accadesse ad Akeley nella fattoria solitaria, e non ero molto tranquillo neanche per me: la faccenda diventava grossa. Mi avrebbe travolto e schiacciato? Scrissi ad Akeley supplicandolo di sollecitare l'aiuto della polizia, aggiungendo che avrei agito io stesso nel caso in cui lui non si fosse mosso; gli offrii di recarmi personalmente nel Vermont e di aiutarlo a interessare le autorità competenti. Ricevetti in risposta il telegramma seguente, spedito da Bellows Falls:
Apprezzo suo atteggiamento ma impossibile far alcunché pregola astenersi qualsiasi azione che sarebbe nociva entrambi attenda spiegazioni Henry Akeley Ma le cose si complicavano. Infatti, dopo aver risposto al telegramma, ricevetti un biglietto di Akeley scritto con mano tremante, nel quale mi informava di non aver inviato quel messaggio né ricevuto la lettera alla quale tale messaggio intendeva replicare. Una rapida inchiesta a Bellows Falls lo aveva informato che il telegramma era stato presentato da un uomo coi capelli rossi e una strana voce ronzante: di più non si riuscì a sapere. L'impiegato gli mostrò il testo originale scarabocchiato a matita dal mittente: ma non poté identificarne la scrittura. C'era da notare che la firma era scritta in modo errato: A-K-E-L-Y anziché A-K-E-L-E-Y. Impossibile non formulare certe congetture, ma, pressato dagli avvenimenti, non indugiò a elaborarle. Il mio amico mi parlava della morte di altri cani, subito rimpiazzati da nuovi, e di fucilate che crepitavano sempre più spesso nelle notti senza luna. Nel cortile dietro la casa e sulla strada trovava regolarmente, fra le impronte di pinze, le impronte di passi di Brown e di almeno altri due uomini. Akeley riconosceva che il pericolo diventava sempre maggiore. Probabilmente sarebbe stato costretto a trasferirsi subito in California, anche se non riusciva a vendere la fattoria. Ciò nonostante, cercava di resistere ancora: poteva darsi che riuscisse a scoraggiare i suoi nemici, magari rinunciando definitivamente a ogni tentativo di scoprire i loro segreti. Gli scrissi a stretto giro di posta per rinnovargli l'offerta di andarlo a trovare e di aiutarlo a convincere le autorità del pericolo in cui si trovava. Nella sua risposta sembrò molto meno contrario a quell'idea che in passato; tuttavia preferiva rimanere solo il tempo necessario per sistemare i suoi affari e abituarsi al pensiero di abbandonare un luogo che amava. La gente vedeva molto malvolentieri i suoi studi e le sue ricerche, sicché trovava preferibile andarsene tranquillamente, invece di creare nel paese una certa agitazione e di passare per pazzo. Riconosceva di essere quasi allo stremo delle forze, ma preferiva ritirarsi degnamente, se era in grado di farlo. Questa lettera mi giunse il 28 agosto, e in quella seguente mi parlò di una diminuzione nel numero degli incidenti; tuttavia non si dimostrava molto ottimista: secondo lui, era il plenilunio a tenere lontani i mostri. Sperava che le notti seguenti non fossero nuvolose, e accennava alla possibilità di andare a stabilirsi a Brattleboro quando la luna avrebbe incominciato
a calare. Gli scrissi incoraggiandolo come meglio potei; ma il 5 settembre ricevetti un nuovo biglietto che si era incrociato col mio, e che dimostrava come ormai egli non fosse più in grado di dominare i suoi nervi. Data la sua importanza, e per quanto la memoria me lo consente, ritengo di doverlo riprodurre integralmente: Lunedì Mio caro Wilmarth, questo è un drammatico poscritto alla mia ultima lettera. Ieri sera il cielo era coperto e non c'era la più piccola traccia di chiarore lunare. Dopo mezzanotte qualcosa è caduto sul tetto della casa; i cani si sono lanciati urlando per le terrazze, e uno di essi è riuscito a passare sul tetto dal cornicione. Ne è seguita una lotta rabbiosa, durante la quale ho riconosciuto quel terrificante "ronzio". Poi ho avvertito un odore spaventoso. Quasi nello stesso momento alcune pallottole hanno infranto i vetri della finestra, sfiorandomi. Credo che il grosso delle forze dei mostri si sia avvicinato alla casa mentre i cani sorvegliavano il tetto. Ignoro ancora che cosa vi sia caduto, ma temo fortemente che le creature imparino a poco a poco a servirsi meglio delle loro ali. Dopo aver spento la lampada, ho cominciato a sparare dalle finestre in tutte le direzioni, mirando abbastanza alto per non colpire i cani, e questo ha messo fine allo scontro. L'indomani mattina, ho trovato nel cortile chiazze di sangue miste a grandi pozze di un liquido verdastro e appiccicoso dal quale emanava il peggior odore che io abbia mai sentito. C'erano delle tracce dello stesso liquido sul tetto. Cinque dei cani sono stati uccisi, e temo di averne abbattuto uno io stesso mirando troppo basso, dato che era colpito al dorso. Ora rimetterò i vetri alle finestre, poi andrò a Brattleboro per procurarmi degli altri cani, anche se là cominciano a credermi pazzo. Le scriverò ancora più tardi. Probabilmente sarò pronto per la partenza fra una decina di giorni, ma quest'idea mi rattrista infinitamente, nonostante tutto. In fretta... Akeley L'indomani, 6 settembre, mi giunse una seconda lettera. La scrittura quasi indecifrabile rivelava autentico terrore. Ne fui sconvolto al punto da non saper più che fare né che dire. Ecco il testo come lo ricordo:
Martedì Le nuvole non si sono dissipate, dunque sempre niente luna; d'altronde incomincia a decrescere. Avevo pensato di far installare l'elettricità e di far montare un riflettore, ma so troppo bene che i miei nemici taglierebbero i cavi ogni volta che provvedessi a farli riparare. Credo di diventar pazzo. Tutto ciò che le ho scritto è forse un sogno o il frutto della pazzia. Finora ho sopportato terribili prove, ma questa volta è troppo. Essi mi hanno parlato la notte scorsa... Mi hanno parlato con la loro infernale voce ronzante, e mi hanno detto delle cose che non oso ripetere! Li ho sentiti malgrado i latrati dei cani, e, in un momento in cui le parole sono state soffocate dal frastuono, una voce umana è venuta in loro aiuto. Si tenga fuori da questa faccenda, Wilmarth: è peggio di tutto ciò che abbiamo potuto immaginare. Ormai non mi permetteranno più di partire per la Caltfornia, perché vogliono condurmi vivo (o piuttosto in una forma che mi permetterà di considerarmi teoricamente e mentalmente vivo), fino a Yuggoth; e poi, forse, molto più lontano, oltre questa galassia, oltre l'ultimo cerchio dello spazio. Sono sicuro, del resto, che ormai riuscirebbero a raggiungermi dovunque andassi. Non volevo andare né dove loro intendevano portarmi così ho detto - né accettare le spaventose modalità di trasporto propostemi, ma temo che sia tutto inutile. La mia casa è così isolata che fra breve tempo verranno indifferentemente di giorno e di notte. Altri sei cani uccisi, e oggi, nel recarmi a Brattleboro, ho percepito delle costanti presenze nei tratti in cui la strada attraversa il bosco. Ho fatto male a spedirle il rullo e la pietra nera. È meglio distruggere il rullo prima che sia troppo tardi. Le scriverò qualcosa domani se sarò ancora qui. Se almeno riuscissi a portare i miei libri e le mie cose a Brattleboro e sistemarmi lì! Fuggirei a mani vuote, se ce la facessi, ma qualcosa dentro la mia mente mi trattiene. Posso sgattaiolare a Brattleboro, là sarei al sicuro, ma non mi sentirei meno prigioniero di quanto mi sembri di essere a casa mia. So che non riuscirei ad andare più lontano, neppure se, lasciando perdere tutto, cercassi di farlo. È orribile... rimanga fuori da quest'orrore. Suo Akeley La notte dopo aver ricevuto questo messaggio non dormii. Decisi tutta-
via di non scrivere nulla prima di aver ricevuto risposta alla mia ultima lettera, con la quale le ultime due che ho citato si erano incrociate. La risposta arrivò l'indomani: i fatti nuovi di cui parlava toglievano importanza alle questioni sollevate dalla mia lettera. Ecco ciò che ricordo di quelle righe scarabocchiate in gran fretta e costellate di macchie d'inchiostro: Mercoledì Ho ricevuto la sua, ma è inutile discutere oltre: sono completamente rassegnato. Mi stupisce di avere ancora abbastanza volontà per tenerli a distanza: sapendo, come so, che in ogni modo essi mi prenderanno. Ieri ho ricevuto da loro una lettera! Dattilografata, recante il timbro di Bellows Falls. Mi dicono ciò che vogliono fare di me... non posso ripeterlo. Stia attento a lei, Wilmarth! Distrugga quel rullo. Notti sempre nuvolose; la luna continua a decrescere. Se almeno avessi il coraggio di farmi aiutare... rischia di impegnare tutta la mia forza di volontà... ma chiunque fosse abbastanza audace da venire qui finirebbe con il ritenermi pazzo, a meno che non si riuscissero a produrre delle prove. Impossibile chiedere a qualcuno di venire senza fornire qualche spiegazione... non frequento nessuno... da anni è così. Ora... non ho quasi il coraggio di dirle il peggio, Wilmarth; si armi di coraggio anche lei, prima di continuare a leggere. Ne sarà scioccato. Tuttavia quanto le dirò è la verità. Ecco... ho visto e toccato una di quelle creature... Terribile! Naturalmente era morta, uccisa da un cane. L'ho trovata vicino al canile. Ho cercato di metterla al riparo nella legnaia, tornando per un momento alla sua idea di convincere del pericolo le autorità. Ma è evaporata in qualche ora, senza lasciare la minima traccia. (Le ricordo che tutti i corpi trasportati dai fiumi in piena "non sono stati visti che una sola volta: l'indomani dell'inondazione") Ed ecco la cosa più pazzesca: ho cercato di fotografare il cadavere per lei, ma, quando ho sviluppato la pellicola, essa non recava che l'immagine della legnaia. Di che cosa poteva essere fatto quel mostro? L'ho visto e toccato: era quindi composto di qualche materia. Quale? Era una specie di granchio gigante, con la testa composta di cerchi di materia vischiosa, sovrapposti in ordine descrescente in modo da formare una specie di cono, e muniti di corti tentacoli. Walter Brown è scomparso; non è stato più visto gironzolare per i villaggi com'era sua abitudine. Devo averlo colpito con una fucilata: sembra che quelle creature cerchino sempre di portar via i loro morti e i loro feriti.
Questo pomeriggio sono arrivato in città senza noie: ma so bene che, se i mostri allentano la loro sorveglianza, è perché sono sicuri di me. Le scrivo dall'ufficio postale di Brattleboro. Forse è una lettera di addio: nel caso che non ricevesse mie notizie entro una settimana, scriva a mio figlio: George Goodenough Akeley, 176 Pleasant Street, San Diego, California, ma non venga a Townshend. Se fra una settimana non avrà mie notizie, scriva al ragazzo e legga i giornali. Mi restano da giocare due carte... se avrò sufficiente determinazione. Ricorrere a gas velenosi (mi sono procurato i preparati chimici e possiedo maschere per me e i cani) e, se non funziona, parlarne allo sceriffo. Che mi chiudano pure in manicomio... sarà sempre meglio di quanto intendono farmi le altre creature. Forse riuscirei a convincerli a esaminare le orme intorno alla casa... sono incerte, ma le trovo ogni mattina. Non è da escludere che i poliziotti potrebbero sospettarmi di averle contraffatte. Sono tutti convinti che io sia un individuo strano. Devo adoperarmi per convincere un poliziotto a trascorrere qui una notte intera. Così vedrà con i suoi occhi. Non mi sorprenderebbe se le creature se ne stessero alla larga... sarebbe in sintonia con il loro carattere. Se cerco di telefonare di notte, tagliano i fili... secondo gli operai venuti a riattivarli, è molto strano. Potrebbero testimoniare a mio favore, a meno che non concludano che sono stato io a tagliarli. Da più di una settimana la linea è interrotta, ormai. Potrei cercare di ottenere la testimonianza di qualche rozzo boscaiolo, ma la gente non gli crederebbe mai. Ad ogni modo nessuno mette più piede a casa mia da molto tempo e, di conseguenza, tutti ignorano gli ultimi fatti. Né per amore né per forza si riuscirebbe a convincere uno qualsiasi di quei disgraziati contadini ad avvicinarsi a meno di un miglio da casa mia. Il portalettere, che li ha sentiti, mi prende in giro... Dio! Almeno avessi il coraggio di dirgli che è tutto vero! Cercherò di richiamare la sua attenzione sulle orme, ma di solito non arriva con la posta prima del pomeriggio e a quell'ora le impronte sono già scomparse. Se mai cercassi di conservarne una, sistemandovi sopra una scatola o un recipiente, penserebbe di sicuro che è uno scherzo o un falso. Magari non fossi diventato un eremita! Purtroppo, invece, è così, e la gente non viene più a trovarmi come un tempo. A nessuno, tranne che ai boscaioli, ho avuto il coraggio di mostrare la pietra nera, e le foto, e di far ascoltare il disco. Tutti direbbero che ho simulato tutta la storia e si limiterebbero a ridere. Peccato che nessun altro abbia visto la cosa stamattina
prima che si dileguasse! Non importa. Dopo quello che ho passato, il manicomio va bene al pari di qualsiasi altro posto. I medici mi aiuteranno a farmi decidere di lasciare la casa. Solo questo potrà salvarmi. Scriva a mio figlio George, se non avrà presto mie nuove. Addio! Distrugga quel rullo! Non si immischi in questa faccenda. Suo Akeley Questo messaggio mi sconvolse letteralmente. Non sapendo cosa fare, scarabocchiai qualche consiglio incoerente in una lettera raccomandata che spedii immediatamente. Mi ricordo di aver supplicato Akeley di andare subito a Brattleboro per mettersi sotto la protezione delle autorità. Dissi che l'avrei raggiunto in quella città portando con me il rullo e le fotografie allo scopo di convincere la polizia che lui era assolutamente sano di mente. In conclusione, dichiarai che era meglio mettere la gente in guardia contro il pericolo che la minacciava. Si osserverà che, anche in questa circostanza, prestai completamente fede alla storia di Akeley; tuttavia ritenevo che se non aveva potuto ottenere una fotografia del mostro era a causa di un suo errore e non di una inconcepibile anomalia della materia di cui il mostro stesso era fatto. 5 Fu il pomeriggio di sabato 8 settembre che mi giunse la curiosa lettera riportata qui di seguito, una lettera rassicurante e tranquilla, contenente un invito inaspettato, che segnava una prodigiosa tregua nel dramma delle colline solitarie. Ancora una volta citerò a memoria, sforzandomi, per ragioni particolari, di mantenere lo stile dell'originale. Recava il timbro di Bellows Falls ed era battuta a macchina da cima a fondo, compresa la firma: un'abitudine da dattilografi principianti. Per essere il lavoro di uno alle prime armi, il testo era molto accurato. Conclusi che Akeley doveva già aver usato la macchina... forse quando frequentava il college. Se da una parte, dunque, la lettera stessa mi procurò un sollievo considerevole, dall'altra lasciò in me un certo disagio. Il punto era questo: se Akeley era sano di mente quando subiva le angosce del terrore, lo era ancora adesso che pretendeva di essersene liberato? Che intendeva dire quando parlava di "allargamento delle relazioni"? Tutto questo
implicava un capovolgimento completo del suo atteggiamento, e non potevo che esserne sorpreso. Ma ecco il tenore di quel messaggio: Townshend, Vermont Giovedì 6 settembre 1928 Mio caro Wilmarth, sono molto felice di poterla rassicurare completamente a proposito delle sciocchezze che le ho scritto. Quando dico "sciocchezze", alludo ai miei terrori e non alle mie descrizioni di certi fenomeni. Questi fenomeni non potrebbero essere più reali e importanti: il mio errore è consistito nell'assumere di fronte ad essi un atteggiamento anormale. Credo di averla informata che i miei strani visitatori cercavano di comunicare con me. La notte scorsa, in risposta a certi segnali, ho lasciato entrare a casa mia uno dei loro messaggeri: mi affretto ad aggiungere che era un uomo. Egli mi ha messo al corrente di molte cose che né lei né io supponevamo e mi ha dimostrato con chiarezza come avessimo male interpretato lo scopo che perseguono Quelli-di-Fuori e la loro colonia segreta sul nostro mondo. A quanto sembra, le terribili leggende concernenti ciò che essi hanno offerto agli uomini e ciò che desiderano ottenere in cambio, derivano unicamente dall'interpretazione sbagliata di un linguaggio allegorico che è il prodotto di una cultura e di modi di pensare totalmente diversi dai nostri. Le mie congetture personali, lo confesso, sono andate molto lontano dalla verità, come quelle dei contadini illetterati e degli indiani. Ciò che giudicavo ignobile è in realtà ammirevole: la mia primitiva opinione costituisce semplicemente un esempio tipico dell'eterna tendenza dello spirito umano a de testare e a temere "ciò che differisce radicalmente dalle sue concezioni abituali". Adesso rimpiango il male che ho inflitto a questi esseri prodigiosi nel corso delle nostre battaglie notturne. Avessi acconsentito fin dal principio a intrattenermi con loro! Ma essi non mi serbano affatto rancore, dato che le loro emozioni non hanno niente in comune con le nostre. La sfortuna ha voluto che avessero come rappresentanti umani nel Vermont individui assai mediocri, fra cui il defunto Walter Brown, la cui condotta ha fatto sì che fossi esageratamente prevenuto nei loro riguardi. Infatti, essi non ci hanno mai causato alcun male di proposito; anzi, hanno ricevuto crudeli offese da alcuni di noi. Esiste una setta segreta di uomini malvagi (l'erudito che è in lei comprenderà facilmente che mi ricollego a Hastur e al Segno Giallo) il cui solo scopo è di catturarli e di ucciderli per conto di potenze
mostruose appartenenti ad altre dimensioni. È solo contro questi aggressori che sono dirette le rigorose misure difensive di Quelli-di-Fuori. (A tale proposito, ho saputo che le nostre lettere smarrite erano state rubate da emissari di quel culto malefico.) Quelli-di-Fuori non chiedono che di vivere in pace con gli uomini, coi quali desiderano intrattenere rapporti intellettuali sempre più profondi. È diventato assolutamente necessario stabilire queste relazioni, specie ora che le nuove invenzioni e le nuove teorie della fisica hanno talmente accresciuto il campo delle nostre conoscenze, che Quelli-di-Fuori non possono più mantenere il segreto sui loro avamposti terreni. Gli stranieri vogliono conoscere meglio l'umanità e desiderano che i maggiori scienziati del nostro mondo imparino a conoscerli meglio. Una volta stabilito questo scambio, tutti i pericoli spariranno e sarà possibile instaurare un modus viventi soddisfacente. È assolutamente ridicolo credere ch'essi possano tentare di "asservirci" o di "degradarci". Per contribuire all'allargamento delle loro relazioni con gli uomini, Quelli-di-Fuori hanno scelto me quale principale interprete sulla nostra terra, grazie alle profonde conoscenze che ho sul loro conto. La notte scorsa ho appreso fatti che aprono stupefacenti prospettive; altri mi saranno comunicati, a voce o per iscritto. Per il momento, non sarò chiamato a fare un viaggio "all'esterno", ma probabilmente io stesso desidererò intraprenderlo in seguito, utilizzando mezzi speciali e che trascendono ogni umana esperienza. La mia casa non sarà più assediata, i cani non avranno più ragione di stare in guardia. Niente più terrore per me; al contrario, uno sterminato campo di conoscenze precluse finora agli uomini. Quelli-di-Fuori sono forse le creature organiche più prodigiose che esistano nello spazio e nel tempo, o al di là dello spazio e del tempo: membri di una razza cosmica di cui tutte le altre forme viventi non sono che varianti degenerate. Hanno più del vegetale che dell'animale (se si possono applicare questi termini alla sostanza di cui sono composti). La loro struttura può apparire simile a quella dei funghi, ma la presenza nei loro corpi di una sostanza affine alla clorofilla, e di un curioso apparato nutritivo, li differenzia anche dai funghi. In realtà, la materia di cui sono fatti è per noi sconosciuta perché gli atomi di cui sono composti seguono un altro modello. È per questo che non possono essere fotografati su pellicole o lastre normali, benché i nostri occhi possano vederli. Tuttavia, dopo una serie di indagini preliminari, qualsiasi buon chimico potrebbe preparare un'emulsione fotografica in grado di
registrare la loro immagine. Questa razza è unica per la facoltà che ha di attraversare il vuoto interstellare conservando la propria forma corporale intatta: alcune varianti si possono ottenere solo dopo aver subito bizzarri trapianti chirurgici. Pochissimi della loro specie possiedono ie ali che caratterizzano la varietà dello stato del Vermont. La loro capacità intellettuale supera di molto quella di qualsiasi altra forma vivente; ma gli esemplari alati delle nostre colline non sono affatto i più progrediti, e la loro facoltà telepatica, per esempio, non è pienamente sviluppata. La loro residenza più vicina alla Terra è un pianeta non ancora scoperto del nostro sistema solare, situato oltre Nettuno. (Secondo le mie conclusioni, è quello che in certi scritti d'altri tempi porta il nome mistico di Yuggoth.) Esso sarà scoperto dai nostri, quando Quelli-di-Fuori lo desidereranno. Ma Yuggoth non è che un avamposto. La maggior parte di quegli esseri abita in abissi spazio-temporali del tutto inconcepibili per l'umanità. Ma a me, quando sarà il momento, il mistero di tali abissi sarà rivelato, come è già stato rivelato a poche decine di altri uomini dopo la comparsa della nostra razza sulla Terra. Probabilmente lei non crederà di primo acchito a ciò che le ho detto; ma, a poco a poco, apprezzerà nel suo giusto valore la formidabile occasione che mi viene offerta. Desidererei, d'altra parte, che ne approfittasse lei stesso, e a tale scopo vorrei farle altre rivelazioni che non posso affidare a questa lettera. Finora le ho proibito di venire da me. Adesso che ogni pericolo è passato, ho il piacere di abolire il divieto e di invitarla. Potrà venire a trovarmi prima dell'inizio del suo corso all'università? Ne sarei veramente felice. Se accetterà, non dimentichi di portare con lei il rullo e tutte le mie lettere, come materiale di consultazione: ne avremo bisogno per ricostruire integralmente questi straordinari avvenimenti. Potrebbe anche portare le fotografie che le ho inviato: nell'agitazione di questi ultimi tempi, credo di aver perduto le mie insieme ai negativi. Ma ho una quantità di fatti inestimabili da aggiungere a quella documentazione rudimentale, e una macchina assolutamente stupefacente a completamento di tali fatti. Non esiti a venire. Non sono più oggetto di alcuna sorveglianza, e qui non troverà più nulla di allarmante. Prenda il treno: la mia macchina la aspetterà alla stazione di Brattleboro. Si prepari a rimanere quanto più a lungo potrà e si aspetti lunghe discussioni su argomenti che superano l'immaginazione degli uomini. Beninteso, non ne parli ad anima viva.
Per venire a Brattleboro le consiglio di prendere il treno che parte da Boston alle 16,10 e arriva a Greenfield alle 19,35. Un altro treno lascia Greenfield alle 21,18 per arrivare a Brattleboro alle 22,10. Mi informi della data precisa e troverà la mia macchina alla stazione. Voglia scusarmi se ho battuto a macchina questa lettera, ma, come lei sa, la mia scrittura è sempre più incerta e non me la sento di scrivere lunghe lettere a mano. In attesa della sua risposta, e nella speranza di vederla arrivare presto col rullo e con tutte le mie lettere, nonché con le fotografie, la prego di credermi sinceramente suo Henry W. Akeley Non saprei descrivere esattamente le complesse emozioni che provai leggendo e rileggendo questa lettera inaspettata. Ho già detto che mi sentivo contemporaneamente sollevato e a disagio, ma questo non esprime le varie sfumature comprese fra questi due stati d'animo. In primo luogo, la nuova lettera differiva radicalmente da tutta la serie di missive colme di orrore che l'avevano preceduta; il passaggio da un terrore senza nome alla soddisfazione e all'esultanza era troppo brusco e imprevisto. Stentavo a credere che fossero bastate ventiquattr'ore per trasformare fino a quel punto l'atteggiamento dell'uomo che mi aveva inviato la lettera disperata di mercoledì, quali che fossero le rivelazioni rassicuranti ricevute nel corso di quella giornata. In certi momenti il contrasto fra le due fasi mi riempiva di una sensazione tale di irrealtà che mi chiedevo se quel remoto dramma giocato da forze soprannaturali non fosse stato tutto un sogno, un'allucinazione che riguardava esclusivamente me stesso. Il pensiero del rullo acuiva il mio sgomento. La lettera era così diversa da quanto mi sarei aspettato! Analizzando meglio la mia impressione di disagio, constatai che si fondava su due elementi distinti. Prima di tutto, ammettendo che il mio amico avesse sempre avuto e avesse tuttora il cervello a posto, il capovolgimento della situazione era incredibilmente rapido. Inoltre, il cambiamento nel modo di comportarsi e nel linguaggio di Akeley mi pareva decisamente anormale; tutta la sua personalità sembrava aver subito una insidiosa metamorfosi, un cambiamento così radicale che i due aspetti si sarebbero potuti a stento conciliare: ammesso, ovviamente, che fossero indice entrambi di equilibrio
mentale. La scelta delle parole era diversa e il mio mestiere di insegnante mi permetteva di scoprire una singolare variazione nel ritmo delle frasi. Indubbiamente la tempesta emotiva o la rivelazione che aveva prodotto un mutamento tanto radicale doveva essere stata di estrema violenza. Ciò nonostante, e su un altro piano, la lettera era caratteristica di Akeley: vi trovavo la stessa passione dell'infinito e quella stessa insaziabile curiosità di scienziato e studioso che ormai aveva contagiato anche me. Neppure per un istante - o, almeno, per non più di un istante - diedi credito all'idea di una personalità spuria o di una perfida sostituzione. Non ne attestava forse la sincerità il fatto che mi avesse invitato? Il desiderio di farmi toccare con mano la verità? Passai la notte del sabato a meditare sulle ombre e le meraviglie che quella lettera lasciava intravedere. Il mio cervello, stanco per la serie di mostruosi elementi che aveva dovuto analizzare durante i quattro mesi precedenti, si accinse ad assorbire il nuovo nutrimento e conobbe un secondo ciclo di dubbi e di certezze, simile a quello che aveva percorso all'inizio della prodigiosa avventura. Molto prima dell'alba, un'ardente curiosità e un vivissimo interesse incominciarono a prendere il posto della prima ondata di perplessità e di disagio. Sentii bruciare vivissima la passione dell'ignoto, e fui preso da una straordinaria impazienza di udire ciò che Akeley aveva da raccontarmi; ero affascinato dalla prospettiva di trascorrere parecchie serate in quella fattoria solitaria, assediata fino a pochi giorni prima da esseri soprannaturali, in compagnia di un uomo che aveva parlato con gli emissari di un altro mondo. Mi sentii accendere dall'entusiasmo di incontrare un interlocutore altrettanto curioso dell'ignoto. Ero contagiato dalla morbosa esperienza del trascendente. Scrollarsi di dosso i condizionamenti assurdi e logoranti del tempo, dello spazio, delle leggi naturali - essere in contatto con il vasto mondo esterno - avvicinarsi ai segreti oscuri, abissali dell'infinito, del limite estremo... non c'è dubbio: per tale esperienza merita rischiare la vita, l'anima, la mente! Akeley mi aveva rassicurato dicendo che non c'era più pericolo... mi aveva invitato ad andarlo a trovare invece di ammonirmi a stare lontano, come aveva sempre fatto prima. Provai un fremito al pensiero di quanto forse mi avrebbe raccontato e mi sentii paralizzato dall'affascinante prospettiva di trovarmi in quella fattoria solitaria e assediata, in compagnia di un uomo che aveva parlato con veri emissari venuti dallo spazio; di trovarmi lì con il terribile rullo e le molte lettere nelle quali Akeley aveva riassunto le sue precedenti conclusioni.
La domenica mattina mandai un telegramma a Akeley per informarlo che ci saremmo incontrati alla stazione di Brattleboro mercoledì 12 settembre, se quella data per lui andava bene. Tuttavia, non seguii il suo consiglio per quanto concerneva la scelta del treno. A dir la verità non avevo nessuna voglia di arrivare nella regione infestata del Vermont alle dieci di sera. Studiai perciò l'orario ferroviario e decisi diversamente. Prendendo il treno alle 8,07 sarei stato a Boston in tempo per prendere la coincidenza alle 9,25 e arrivare a Greenfield alle 12,22. Lì avrei preso un altro treno che arrivava a Brattleboro alle 13,08. Il primo pomeriggio mi sembrava molto più piacevole della notte per addentrarmi con Akeley nel cuore di quelle colline misteriose. Precisai nel telegramma l'orario scelto e la sera stessa ebbi la risposta: D'accordo sarò treno 13,08 mercoledì non dimentichi rullo lettere fotografie tenga sua destinazione segreta si aspetti sorprendenti rivelazioni Akeley All'arrivo di quell'immediata risposta al mio telegramma (che di conseguenza doveva essere stato trasmesso ad Akeley dall'ufficio postale di Townshend, a mezzo fattorino o per telefono), non ebbi più alcun dubbio, se qualche dubbio mi aveva sfiorato, sull'autenticità della lettera del mio amico. Dimenticai del tutto la prima impressione di disagio e quella notte dormii di un sonno profondo. 6 Il mercoledì mi misi in viaggio, portando con me il rullo inciso, le fotografie e tutte le lettere di Akeley. Aderendo al desiderio di quest'ultimo, inoltre, non avevo rivelato a nessuno il luogo della mia destinazione. Se il pensiero di instaurare un contatto mentale con entità aliene ed esterne appariva più che sorprendente a una persona come me, preparata e in un certo senso pronta all'eventualità, quale sarebbe stato l'effetto sulla massa della gente comune? Non saprei dire se prevalesse in me la paura o l'attesa febbrile dell'avventura, ma cambiai treno a Boston e incominciai il lungo tragitto verso l'ovest attraverso una zona che conoscevo poco. Waltham, Concord,
Ayer, Fitchburg, Gardner, Athol, si susseguirono rapidamente, poi il treno arrivò finalmente a Greenfield. Aveva qualche minuto di ritardo, ma l'espresso diretto al nord l'aveva aspettato e non mancai la coincidenza. Mentre il convoglio s'inoltrava in una regione che conoscevo bene attraverso le mie letture, ma che non avevo mai visitata, mi sentii invadere da una curiosa agitazione. Sapevo che penetravo in una regione della Nuova Inghilterra molto più primitiva delle zone industrializzate del sud e della costa dove avevo trascorso tutta la mia vita; una regione lontana dalla civiltà moderna, in cui non c'erano ciminiere di fabbriche né strade asfaltate, forestieri e cartelloni pubblicitari. Avrei conosciuto affascinanti sopravvivenze di quelle forme di vita regionale che affondano le radici direttamente nell'ambiente, tanto da potersi considerare suoi prodotti: forme di vita che alimentano il terreno dal quale scaturiscono di rigogliose e tenebrose credenze, leggende rare e meravigliose. Ogni tanto vedevo luccicare al sole le acque azzurre del Connecticut, che oltrepassammo dopo Northfield. Presto sorsero davanti a noi dalle colline verdeggianti e il controllore mi disse che eravamo nello Stato del Vermont. Mi avvertì di ritardare il mio orologio di un'ora, perché la gente del luogo si è sempre rifiutata di adottare l'ora estiva. Nell'adeguarmi al suo consiglio, pensai che con quello stesso gesto riportavo il calendario indietro di un secolo. Il treno costeggiava adesso un altro fiume. Sulla riva opposta, nel New Hampshire, vedevo avvicinarsi i ripidi pendii del Wantastiquet, sul quale circolano tante leggende. Sulla mia sinistra vedevo delle strade, sulla destra comparve un'isola verde nel mezzo della corrente. I passeggeri si alzarono e si diressero all'uscita; io li seguii. Poco più tardi, il treno si fermò a Brattleboro e io scesi insieme ad alcuni altri viaggiatori. Diedi un'occhiata alla fila di macchine in attesa e indugiai un attimo per individuare la Ford di Akeley, ma fui riconosciuto prima che fossi io a prendere l'iniziativa. Tuttavia la persona che veniva verso di me con la mano tesa, e che mi chiese in tono cortese se fossi proprio il signor Albert N. Wilmarth, di Arkham, non poteva essere il mio amico. Quel giovanotto gentile, con i sottili baffetti neri, vestito impeccabilmente, non assomigliava per nulla allo studioso dalla corta barba grigia di cui avevo visto la fotografia. La sua voce mi sembrò stranamente familiare, ma non seppi a chi attribuirla. Mentre lo esaminavo, mi spiegò che era un amico di Akeley e che era venuto da Townshend in sua vece, poiché per il momento il mio ospite non
poteva uscire a causa di un violento attacco di asma. In ogni caso, nulla sarebbe cambiato per quanto riguardava la mia visita e il mio soggiorno. Non riuscii a capire ciò che il signor Noyes (così si chiamava il giovanotto) sapesse delle ricerche di Akeley: il suo comportamento disinvolto me lo fece giudicare un profano. Fui un po' sorpreso che il mio ospite avesse trovato così facilmente un amico per sostituirlo, data la vita reclusa che aveva finora condotto; tuttavia questo non mi impedì di salire nella macchina che Noyes mi indicò con un gesto della mano. Non era la vecchia automobile che m'ero aspettato di vedere, ma una bella vettura di modello recente, con una targa di immatricolazione del Massachusetts. Doveva appartenere evidentemente alla mia guida. Conclusi che probabilmente si trattava di un visitatore di passaggio, venuto per l'estate nella regione di Townshend. Noyes prese posto accanto a me e mise subito in moto. Notai con piacere che sembrava voler mantenere il silenzio, giacché l'ansia di arrivare da Akeley mi toglieva ogni voglia di chiacchierare. La città mi parve molto simpatica sotto, il sole di settembre, e sonnecchiava come le vecchie città della Nuova Inghilterra rimaste nei ricordi della nostra infanzia. Il singolare profilo dei tetti, dei campanili, dei comignoli, dei muri di mattoni faceva vibrare corde profonde dell'anima e suscitava antiche emozioni. Mi sembrava di essere ai confini di una regione stregata dal susseguirsi ininterrotto delle generazioni; una regione dove si libravano strane presenze che lì erano cresciute e lì indugiavano perché mai nessuno era venuto a risvegliarle. Quando uscimmo da Brattleboro, la mia impressione cambiò: la contrada montagnosa, col suo ammasso di pendii granitici, sarebbe parsa sinistra anche a chi non avesse saputo ciò che sapevo io. Per un po' costeggiammo un largo corso d'acqua proveniente da nord, e rabbrividii quando il mio compagno mi disse che era il West River: ricordavo, infatti, che nelle sue acque era stato visto galleggiare uno dei mostri simili a granchi l'indomani dell'inondazione. A poco a poco il paese diventava più selvaggio e deserto. Vecchissimi ponti coperti scavalcavano torrenti dalle acque tumultuose in mezzo alle colline, e dalla strada ferrata in riva al fiume sembrava emanare una cupa desolazione. Nelle vallate più ampie si ergevano alte rupi scoscese dove il granito vergine formava un brusco contrasto col verde che vi si arrampicava. Tumultuosi ruscelli si inabissavano nelle gole portando con sé i segreti di mille cime inaccessibili. Sia a sinistra che a destra della strada una serie di viottoli si addentravano nel fitto di antiche foreste dove potevano rifu-
giarsi interi eserciti di demoni. Ricordai che, proprio su quella strada, Akeley era stato molestato da entità invisibili, e non mi sorpresi che potessero accadere cose simili. Il grazioso villaggio di Newfane, dove arrivammo in meno di un'ora, fu il nostro ultimo legame con il mondo che l'uomo può rivendicare come suo per diritto di conquista e di occupazione esclusiva. Dopo, rinunciammo alla tranquillità dell'immediato e del tangibile penetrando in un universo fantastico, irreale, dove lo stretto nastro della strada saliva, scendeva, serpeggiava come un essere vivo fra le cime deserte. A parte il brontolìo del motore e i rumori lontani provenienti dalle fattorie solitarie, non sentivo, a tratti, che un gorgoglìo di sorgenti nascoste nel cuore dei boschi. La vista delle colline tondeggianti mi mozzò letteralmente il fiato. I fianchi erano più erti e scoscesi di quanto avessi immaginato basandomi sulle descrizioni; il paesaggio non aveva nulla in comune con il mondo prosaico dell'esperienza quotidiana. I boschi fitti e impenetrabili che ricoprivano quelle balze remote davano l'impressione di ospitare presenze strane e inafferrabili; ebbi l'improvvisa e nettissima sensazione che i contorni stessi delle cime possedessero uno strano significato: si sarebbero detti geroglifici colossali lasciati da un'antica razza di titani, la cui gloria non viveva più che nella fantasia di qualche squilibrato. Tutte le leggende del passato, tutte le rivelazioni stupefacenti di Henry Akeley mi si affacciarono alla memoria, accrescendo i miei sinistri presentimenti. Lo scopo della mia visita e l'idea delle terrificanti rivelazioni che mi attendevano, mi diedero improvvisamente un'apprensione così viva da raffreddare parecchio il mio ardente desiderio di scoperte. Noyes dovette indovinare il mio turbamento, poiché, a mano a mano che la strada saliva e che la nostra andatura rallentava, i suoi rari commenti si fecero più frequenti e più lunghi. Mi parlò della straordinaria bellezza del paese e mostrò di essere al corrente degli studi di Akeley. Tuttavia, sembrava non avere idea del tipo di conoscenze a cui era giunto il suo amico. Dato il suo atteggiamento cordiale e disinvolto, quelle osservazioni avrebbero dovuto rassicurarmi: al contrario, mentre proseguivamo il cammino attraverso il deserto di colline boscose la mia inquietudine continuava a crescere. Mi sembrava a tratti che il mio compagno mi studiasse per capire ciò che sapevo dei mostruosi segreti della regione e, a ogni frase, il suono della sua voce mi dava una sconcertante senzazione di "già sentito". Benché fosse una voce educata e di timbro gradevole, non evocava in me ricordi piacevoli; anzi, la ricollegavo vagamente a incubi dimenticati. Se
avessi potuto addurre una qualsiasi scusa valida, credo che avrei rinunciato alla mia visita. Date le circostanze ero costretto a proseguire, e pensai che le spiegazioni scientifiche del mio ospite, appena fossi arrivato, avrebbero contribuito a farmi riacquistare la calma. Per di più, nel paesaggio lungo il quale salivamo e scendevamo senza tregua c'era un elemento di bellezza stranamente riposante, eterna. Il tempo si era smarrito nei labirinti che lasciavamo alle nostre spalle, intorno a noi i secoli passati irrompevano con un fascino inesprimibile tra i boschi vetusti, i prati verdeggianti variegati da fiori autunnali dai vividi colori e qualche capanna di boscaioli annidata ai piedi di rocce scoscese, ricoperte di rose canine. Perfino il sole aveva uno splendore soprannaturale. Non avevo mai visto niente di simile salvo che nelle magiche lontananze che fanno da sfondo a certi quadri dei maestri italiani. Artisti come Sodoma e Leonardo concepirono simili immensità, ma in una prospettiva distante, inquadrate dagli archi di un porticato rinascimentale. Noi invece ci facevamo strada, per così dire, nel cuore della composizione; e mi parve di scorgere nel suo contenuto magico un elemento che, innato dentro di me oppure acquisito, invano cercavo da sempre. Improvvisamente, dopo una brusca curva in cima a un ripido pendio, la macchina si fermò. Sulla sinistra, oltre un prato ben curato e circondato da pietre bianche che arrivava fino alla strada, si ergeva un'abitazione spaziosa, di una linea e un'eleganza poco comuni nella regione. Un po' indietro, sulla destra, c'erano granai, tettoie e un mulino a vento. Riconobbi subito la fattoria di Akeley come l'avevo vista in una delle fotografie e non mi sorpresi di leggere il nome del proprietario sulla cassetta delle lettere. A una certa distanza dietro la casa si stendeva un terreno umido dove erano piantati alberi ben distanziati l'uno dall'altro; più in là si scorgeva un'altura dai pendii boscosi e dalla cima frastagliata: la sommità della Montagna Nera. Noyes scese dalla macchina prendendo la mia valigia e mi pregò di attendere un momento mentre andava a informare l'amico del mio arrivo. Lui non avrebbe potuto fermarsi, perché un affare importante lo chiamava altrove. Mentre percorreva a passi rapidi il viale che conduceva all'ingresso della casa, scesi a mia volta per sgranchirmi subito le gambe. Mi trovavo sul teatro degli avvenimenti descritti da Akeley nelle sue lettere e la mia tensione nervosa aveva raggiunto il colmo. Notai distrattamente che non c'erano cani intorno alla casa. Akeley li aveva venduti dopo aver fatto la pace con Quelli-di-Fuori? Malgrado tutti i miei sforzi, non riuscivo a cre-
dere alla sincerità di una simile pace: ero lontano dal condividere la serena fiducia manifestata dal mio amico nella sua ultima lettera. Dopotutto Akeley era un uomo semplice, affatto privo di furberia: non poteva essere caduto in un sinistro tranello? Guidati da questi pensieri, i miei occhi si volsero verso la superficie polverosa della strada che aveva registrato testimonianze così orride. Benché la regione fosse molto poco frequentata, orme di ogni specie vi si accumulavano, incluse tracce di ruote di veicoli. Tentai, per pura curiosità, di definirne i contorni, sforzandomi di frenare le lugubri fantasticherie che mi ispirava quel luogo popolato di ricordi. C'era una sorda minaccia nel silenzio funereo, nel mormorio soffocato dei ruscelli lontani, nelle cime verdeggianti e nei precipizi tappezzati di alberi neri che chiudevano l'orizzonte. Un'immagine mi si parò all'improvviso alla coscienza facendo impallidire quelle vaghe minacce e quei voli della fantasia. Ho raccontato come in strada avessi sfogliato le foto con una sorta di languida curiosità, ma a un tratto la curiosità si trasformò in un'ondata di autentico terrore. Le tracce, per lo più confuse e sovrapposte, difficilmente avrebbero richiamato l'attenzione, ma il mio sguardo inquieto si soffermò su certi particolari nel punto dove il sentiero proveniente dalla casa confluisce sulla strada principale, e intuii senza ombra di dubbio, e senza lasciare margine alla speranza, il loro significato mostruoso. Non avevo studiato invano, e per ore, le fotografie delle impronte aliene inviatemi da Akeley. Troppo familiari erano i segni lasciati dalle orribili pinze, quel loro procedere ambiguo che preannunciava errore come non potrebbe fare nessuna creatura di questo pianeta. Nessuna possibilità di cullarmi in pietose illusioni. Davanti ai miei occhi c'erano, chiare e nette nell'evidenza dell'obiettività, tre orme risalenti a poco prima: spiccavano, ampie e inconfondibili, in mezzo alla massa delle altre impronte che venivano dalla casa di Akeley o vi andavano. Erano le tracce infernali degli esseri di Yuggoth. Ripresi il mio sangue freddo appena in tempo per soffocare un grido. Dopo tutto, cosa c'era di così sorprendente, se davo credito alla lettera di Akeley? Mi aveva detto di aver fatto la pace con quei mostri: non era forse naturale che alcuni di loro avessero visitato la sua casa? Tuttavia, il terrore permaneva. Come avrei potuto contemplare per la prima volta, senza esserne sconvolto, le impronte di esseri venuti dalle regioni più lontane dello spazio? Proprio in quel momento vidi Noyes uscire dalla casa e dirigersi verso di me a grandi passi. Dovevo mantenere un volto assolutamente im-
passibile; probabilmente quel giovanotto non sapeva nulla del vero scopo della mia visita, e Akeley poteva aver avuto le sue ragioni per tenerlo all'oscuro di tutto. Noyes mi informò che il suo vecchio amico era molto felice del mio arrivo e disposto a ricevermi subito. Tuttavia, la sua crisi di asma gli avrebbe impedito di essere sollecito e premuroso verso di me come avrebbe voluto. Per tutta la durata di quegli accessi - mi spiegò il giovanotto - Akeley non poteva far quasi nulla, parlava a bassa voce, si muoveva con molta difficoltà. I piedi e le caviglie gli si gonfiavano: doveva fasciarli come se avesse sofferto di gotta. Oggi si sentiva così debole che avrei dovuto provvedere io stesso alle mie necessità, ma non per questo era meno desideroso di parlarmi. L'avrei trovato nel suo studio, a sinistra dell'anticamera: la stanza con le tapparelle abbassate. Durante le crisi non poteva sopportare la luce, perché i suoi occhi erano estremamente sensibili. Mentre Noyes, dopo essersi congedato, si allontanava, io mi diressi lentamente verso la casa. La porta era socchiusa; tuttavia, prima di entrare, mi guardai intorno per cercar di scoprire perché, anche indipendentemente da ciò che sapevo, quella fattoria mi sembrasse così strana. I granai e le tettoie avevano un'aria del tutto normale; una grande rimessa aperta ospitava la vecchia Ford di Akeley. D'un tratto, capii la ragione della stranezza del luogo: il silenzio assoluto che vi regnava, la mancanza del sia pur minimo segno di vita. I cani potevano essere stati venduti: ma dov'erano gli animali da cortile di cui Akeley, a quanto m'aveva scritto, si occupava lui stesso? Se c'erano, erano singolarmente silenziosi. Senza indugiare oltre, spinsi risolutamente la porta e la richiusi dietro di me. Quel gesto mi costò un grande sforzo di volontà, e, una volta all'interno, provai per un attimo il desiderio di battere in ritirata precipitosamente. Non che l'anticamera avesse un aspetto sinistro: al contrario, ne ammirai le proporzioni e l'arredamento di ottimo gusto. Il mio desiderio di fuggire era dovuto a qualcosa d'indefinibile, forse era da attribuirsi all'odore curioso che impregnava l'aria, eppure sapevo bene che c'è sempre un certo odore di muffa nelle fattorie, anche in quelle meglio tenute. 7 Rifiutando di abbandonarmi ad allarmi irragionevoli, aprii la porta alla mia sinistra secondo le istruzioni di Noyes. Lo studio era buio, come mi
era stato detto. Nel momento in cui entrai, notai che l'odore strano diventava più forte e mi sembrò di udire nell'aria una specie di vibrazione. Per un attimo non distinsi nulla, poi un tossicchiare soffocato attrasse la mia attenzione verso una grande poltrona nell'angolo più buio e lontano della stanza. Scorsi nelle sue profondità le macchie chiare del viso e delle mani di un uomo. Mi affrettai verso di lui e riconobbi il mio ospite: avendo osservato la sua fotografia parecchie volte, non potevo sbagliarmi sull'identità di quel viso franco e aperto, dalla corta barba grigia. Nel momento in cui lo riconobbi provai comunque una fitta d'ansia: era evidente che mi trovavo in presenza di un malato grave. L'asma non era sufficiente a spiegare quell'espressione tesa, quegli occhi vitrei dallo sguardo fisso. D'altro canto, un'esperienza come quella che aveva vissuto non avrebbe spezzato la tempra anche di un uomo più giovane di quell'intrepido esploratore dell'ignoto? Mi resi conto che la sua terrificante avventura doveva averlo ridotto in un misero stato, e temetti che la sua strana e improvvisa liberazione fosse giunta troppo tardi per salvarlo da una grave e permanente depressione nervosa. C'era qualcosa di pietoso nelle sue mani magre e inerti, abbandonate mollemente sulle ginocchia. Indossava una veste da camera molto ampia e una sciarpa di lana gialla gli avvolgeva la testa e il collo. Mi accorsi che cercava di parlarmi, ma la sua voce era così bassa che la udii a malapena e i folti baffi grigi nascondevano i movimenti delle labbra. Qualcosa nel timbro mi turbò profondamente. Comunque, concentrando tutta la mia attenzione, riuscii a distinguere le sue parole. Aveva un accento particolarmente raffinato e la sua lingua era più scelta di quanto le lettere mi avessero lasciato immaginare. «Il signor Wilmarth, non è così? Mi scusi se resto seduto. Come Noyes le avrà detto, sono ridotto piuttosto male... Sì, sono molto malandato... Ma non ho potuto resistere al grande desiderio di vederla e parlarle. Ciò che le ho scritto nella mia ultima lettera non è nulla in confronto a ciò che debbo ancora dirle... e che le dirò domani, quando starò meglio... Non so come esprimere il piacere che provo nel vederla in persona, dopo la nostra lunga corrispondenza. Ha portato tutte le mie lettere, come pure il rullo e le fotografie, vero? Benissimo. Noyes ha messo la sua valigia in anticamera, come avrà visto... Per stasera, temo che sarà costretto a servirsi da solo. La sua camera è al primo piano, proprio sopra a questa. Il bagno è di fronte, sul pianerottolo. Una colazione fredda la aspetta nella stanza da pranzo: la porta che vede, alla sua destra. Domani sarò un ospite meno deplorevole,
spero... Ma adesso sono davvero troppo giù... Faccia come se fosse a casa sua. «Prima di salire, potrebbe mettere qui sulla tavola le lettere, le fotografie e il rullo. È qui nel mio studio che discuteremo: il dittafono è su quel tavolino all'altro capo della stanza...» «No» aggiunse, quando gli chiesi se potessi aiutarlo in qualche modo. «Non può fare nulla per me. È da molto che vado soggetto a queste crisi. Torni a trovarmi prima di sera, poi andrà a coricarsi quando vorrà. Io resterò a riposare qui: è probabile che mi addormenti, come mi succede spesso. Domattina, sarò in grado di esaminare con lei ciò che dobbiamo esaminare. Si rende conto, naturalmente, del carattere meraviglioso della nostra impresa. Davanti a noi e a pochi altri uomini di questo mondo si spalancano le immensità dello spazio, del tempo e della conoscenza ben al di là dei limiti concepiti dalla scienza e dalla filosofia. Lo sapeva che, contrariamente a quanto ha detto Einstein, esistono cose e forze in grado di viaggiare a una velocità superiore a quella della luce? Per ora voglio dirle soltanto che io mi preparo a viaggiare non solo nello spazio, come le ho scritto, ma nel tempo: a vedere e a toccare la Terra delle epoche passate e future... Non può immaginare quali vette Quelli-di-Fuori abbiano raggiunto nel campo scientifico. Non vi è nulla che non possano fare con lo spirito e il corpo degli organismi viventi. Conto di visitare altri pianeti, forse anche altre stelle e altre galassie. Prima di tutto andrò a Yuggoth, il mondo più vicino popolato da Quelli-di-Fuori. È un pianeta al limite del nostro sistema solare, ancora sconosciuto agli astronomi. Devo avergliene già parlato nelle mie lettere. A tempo debito quegli esseri ci trasmetteranno le loro correnti di pensiero e ci mostreranno tutto... oppure autorizzeranno uno degli alleati umani a fornire qualche indizio agli scienziati. «Ci sono grandissime città, su Yuggoth, immense torri a gradoni costruite in una varietà di pietra nera simile a quella che ho cercato di mandarle. La luce del sole vi arriva appena, ma Quelli-di-Fuori non hanno bisogno di luce. Possiedono sensi più acuti e i loro templi e le loro case sono sprovvisti di finestre. La luce li infastidisce: perché nel nero cosmo al di là dello spazio e del tempo da cui in origine sono arrivati essa non esiste. Il viaggio a Yuggoth farebbe impazzire un uomo debole... eppure io ci andrò. «I fiumi di pece nera che scorrono sotto ponti giganteschi costruiti da una razza estinta e dimenticata molto tempo prima che dai confini del nulla questi esseri raggiunsero Yuggoth, sono uno spettacolo tale che chiunque li vedesse e riuscisse a conservare la ragione per poter raccontare l'espe-
rienza diventerebbe un novello Dante o Poe. «Si ricordi: quel mondo tenebroso di giardini fungosi e città prive di finestre non è un posto orribile. Soltanto a noi sembra tale. Forse parve tale anche agli esseri che per primi esplorarono il pianeta, in età arcaica. Quelli-di-Fuori arrivarono sulla Terra prima che finisse l'epoca del grande Cthulhu e si ricordano della mostruosa città di R'lyeh, che allora non era sommersa... Essi conoscono aperture ignorate dagli uomini, ma che si trovano qui, nelle colline del Vermont, e che conducono a immensi universi brulicanti di vita: K'N-yan dalla luce blu, Yoth dalla luce rossa, N'Kai dove regnano le tenebre. È da N'Kai che è venuto il temibile Tsathoggua, il dio simile a un rospo ricordato nei Manoscritti pnakotici, nel Necronomicon e nel libro custodito dal gran sacerdote Klarkash-Ton... «Ma di questo parleremo ancora più tardi... Ora mi porti il rullo, le fotografie e le lettere, la prego, poi vada a ristorarsi. Stasera parleremo ancora un po'...» Uscii dalla stanza per eseguire le istruzioni del mio ospite. Tornai con gli oggetti desiderati, che deposi sul tavolo, e quindi salii in fretta la scala che conduceva alla mia camera. Le parole sussurratemi da Akeley mi avevano turbato profondamente perché era ancora vivido il ricordo delle impronte sulla strada. I suoi accenni a contatti con il mondo sconosciuto dove proliferavano quelle forme di vita - il proibito Yuggoth - mi spaventavano più di quanto ne fossi io stesso consapevole. La malattia di Akeley mi addolorava molto, ma confesso che il suo rauco sussurro mi ispirava avversione, non solo pietà. Se almeno non avesse mostrato tanto entusiasmo per Yuggoth e i suoi tenebrosi segreti! La mia camera era confortevole e non vi notai quell'odore curioso né mi sembrò di avvertire vibrazioni come nello studio. Dopo aver depositato la valigia tornai di sotto, entrai nello studio, salutai il mio ospite e passai nella stanza da pranzo che dava direttamente su una piccola cucina. Sul tavolo c'erano pane e carne fredda, del formaggio e una torta; un thermos con una tazza vicina indicava che non era stato dimenticato il tè. Mangiai di buon appetito. Poi riempii la tazza col liquido bollente, ma ne inghiottii una sola sorsata, perché trovai che aveva un gusto amarognolo e sgradevole. Durante tutto il pasto non smisi di pensare ad Akeley, solitario e silenzioso nella stanza attigua. A un certo punto andai a trovarlo per pregarlo di mangiare con me, ma lui mormorò che non poteva assumere cibo solido per tutta la durata della crisi. Prima di dormire, avrebbe bevuto un po' di latte: non poteva prendere altro.
Quando ebbi finito sparecchiai la tavola, lavai le stoviglie nell'acquaio della cucina e buttai via il tè. Poi tornai nello studio, avvicinai una poltrona all'angolo in cui si trovava il mio ospite e attesi che riprendesse a parlare. Le lettere, le fotografie e il rullo erano ancora sul tavolo, ma non li utilizzammo. Dopo un po', dimenticai tanto l'odore curioso quanto la vibrazione dell'aria. Ho già detto che nelle lettere di Akeley (soprattutto nella seconda) c'erano cose che non oso ripetere. Ciò vale, e in misura anche maggiore, per ciò che sentii quella sera, nello studio buio, tra le colline infestate. Non posso accennare nemmeno minimamente alla successione di orrori del cosmo che la voce sussurrante rivelò. Se il mio ospite conosceva fatti abbastanza terrificanti già prima di concludere il patto coi mostri, ciò che aveva appreso in seguito era insopportabile da un cervello normale. Anche allora mi rifiutai categoricamente di ammettere le sue teorie sulla natura dell'"infinito supremo", la contiguità delle dimensioni, la terrificante posizione del nostro cosmo spaziotemporale in una catena senza fine di atomi cosmici, comunicanti tra loro in modo da formare il super-cosmo infinito delle curve, degli angoli, dell'organizzazione elettronica materiale e semimateriale. Mai un uomo sano di mente si era tanto pericolosamente avvicinato ai misteri dell'entità originale; mai un cervello organico aveva sfiorato così da vicino l'annientamento totale del caos che trascende la forma, la forza e le simmetrie. Appresi da dove il grande Cthulhu era venuto per la prima volta, appresi il segreto nascosto dietro le nubi di detriti stellari e le nebulose globulari, e la terribile verità che nasconde l'immemorabile allegoria del Tao. La natura dei Doe mi fu chiaramente rivelata, così come l'essenza (se non l'origine) dei segugi di Tindalos. La leggenda di Yig, padre dei serpenti, cessò di essere un simbolo; fremetti di orrore ascoltando la descrizione del mostruoso caos nucleare al di là dello spazio, che il Necronomicon vela misericordiosamente sotto il nome di Azathoth. I segreti dei miti più agghiaccianti mi vennero rivelati in termini chiari, concreti, mille volte più detestabili delle oscure allusioni contenute nei testi magici dell'antichità e del medioevo. Arrivai all'inevitabile conclusione che i primi divulgatori di quei racconti maledetti dovevano essersi intrattenuti con Quelli-di-Fuori e forse avevano visitato i regni extra-cosmici, come si proponeva di fare Akeley. Il mio ospite mi parlò della pietra nera e del suo significato. Mi rallegrai di non averla mai ricevuta, poiché le mie congetture a proposito dei geroglifici erano state anche troppo caute! E adesso Akeley sembrava riconci-
liato con l'universo infernale che aveva scoperto. Non basta: desiderava scandagliare il mostruoso abisso fino in fondo. Mi chiesi con quali esseri avesse potuto parlare dopo l'ultima lettera, e se una parte di loro erano stati "umani" come il primo emissario... La mia tensione diventò intollerabile: cominciai a elaborare ogni specie di teoria sullo strano odore e sulle insidiose vibrazioni che persistevano nella stanza oscurata. Annottava. Ricordando certe lettere di Akeley, rabbrividii al pensiero che sarebbe stata una notte senza luna. Non mi piaceva affatto la posizione della fattoria ai piedi dell'enorme pendio boscoso che conduceva alla cima inviolata della Montagna Nera. Col permesso del mio ospite accesi una piccola lampada a petrolio, ne abbassai la fiamma e la posai su uno scaffale abbastanza lontano, vicino al busto di Milton. Tuttavia non tardai a rimpiangere la mia iniziativa, perché la debole luce dava un aspetto ancor più cadaverico al viso immobile e alle mani inerti del mio interlocutore, che sembrava quasi del tutto incapace di muoversi. Dopo quanto mi aveva esposto, non immaginavo proprio che cosa potesse riservarmi per l'indomani; ma, a un certo punto, mi fece capire che il prossimo tema di conversazione sarebbe stato il suo viaggio a Yuggoth e "la mia eventuale partecipazione a quel viaggio"...! Il sussulto di orrore che non potei reprimere quando mi propose di intraprendere con lui l'escursione cosmica dovette divertirlo molto, giacché scosse con forza la testa. In seguito mi spiegò in tono benevolo che gli esseri umani potevano compiere - e molte volte avevano compiuto - il tragitto all'apparenza impossibile attraverso il vuoto stellare. Tuttavia, "non erano i corpi completi quelli che si spostavano"; Quelli-di-Fuori avevano trovato il modo per ridurre al minimo il supporto materiale delle facoltà psichiche di un individuo, che potevano venire riattivate mediante il contatto con speciali strutture che si trovavano su ognuno dei mondi da essi abitati. Era altrettanto semplice, disse Akeley, che trasportare un rullo da un dittafono all'altro. Quanto all'operazione chirurgica di "riduzione del supporto materiale", essa non implicava nessun pericolo per l'individuo che vi veniva sottoposto, il quale ritrovava intatto il "supporto normale" al ritorno dal viaggio. Si trattava, aggiunse il mio ospite con terrificante freddezza, di un "semplice prelevamento di materia cerebrale", che veniva immessa in un piccolo contenitore cilindrico. Per la prima volta una delle mani inerti si sollevò lentamente per indicare un'alta scansia all'altra estremità della stanza. Vi si trovavano allineati in bell'ordine più di dodici cilindri di metallo opaco. Misuravano circa trenta
centimetri di altezza, e ciascuno aveva tre curiosi alveoli disposti in modo da formare un triangolo isoscele. Uno dei cilindri era collegato attraverso due alveoli a una coppia di apparecchi posti su un altro ripiano della scansia. Compresi immediatamente il loro significato, e rabbrividii come sotto l'effetto di uno shock violento. Poi vidi la mano indicare un angolo più vicino a me, dove erano disposti altri apparecchi simili a quelli connessi col cilindro. «Vede, Wilmarth» bisbigliò la voce «vi sono lì quattro specie di apparecchi; ogni specie rappresenta tre facoltà, il che fa dodici pezzi in tutto. Debbo avvertirla che i cilindri dello scaffale rinchiudono i cervelli di quattro differenti tipi di esseri: tre uomini, sei creature fungoidi che non possono attraversare lo spazio corporalmente, due abitanti di Nettuno e alcune entità originarie di un'altra galassia. Nel principale avamposto terrestre di Quelli-di-Fuori, all'interno della Round Hill, si trovano altri cilindri e altre macchine: i cilindri contengono cervelli extra-cosmici provvisti di sensi diversi da quelli che noi conosciamo, appartenenti ad alleati o esploratori venuti dalle regioni più remote dello "Spazio di fuori". Le macchine sono concepite in modo tale da fornire a chi ne usufruisce diversi tipi d'impressioni e sensazioni, e sono adattate alle facoltà di molte razze diverse. Round Hill, come la maggior parte degli avamposti di Quelli-di-Fuori, è un luogo senz'altro cosmopolita! A me, naturalmente, hanno prestato solo degli esemplari piuttosto comuni. «Prenda i primi tre apparecchi da sinistra, là nell'angolo, e li metta sulla tavola: il più grande, con due lenti anteriori, e i due più piccoli. Ecco. Adesso prenda il cilindro segnato B-67. Salga su quella sedia per arrivare allo scaffale. Cerchi di non sbagliare: prenda proprio il B-67. Badi a non urtare quel cilindro nuovo collegato ai due apparecchi sull'altro ripiano, e che porta il mio nome. Posi il B-67 sulla tavola, poi verifichi che l'ago del quadrante principale, in tutte e tre le macchine, sia all'estrema sinistra. «Adesso, colleghi il filo dell'apparecchio con le due lenti all'alveolo superiore del cilindro... così, benissimo! Colleghi ora il primo degli altri due apparecchi, quello con i tubi di vetro, all'alveolo di sinistra, e il secondo all'alveolo di destra... Ora sposti l'ago di tutti i quadranti all'estrema destra: prima l'apparecchio con le due lenti... poi gli altri... Perfetto! Ho il piacere di dirle che adesso siamo in presenza di un essere umano come lei e me. Domani le farò sentire qualche altro esemplare.» Ancora oggi non so dire perché eseguissi docilmente quegli ordini, e se pensassi che Akeley fosse pazzo. Dopo tutto ciò che avevo ascoltato, avrei
dovuto aspettarmi qualsiasi cosa; ma quella messa in scena era tanto in carattere con le divagazioni caratteristiche degli inventori usciti di senno da farmi nascere dei dubbi che neppure il discorso precedente aveva suscitato. Il sussurro faceva pensare a realtà che trascendevano i limiti della comprensione umana... eppure tutto quello a cui avevo assistito non apparteneva a regioni ancora più remote rispetto alla comune esperienza? Apparivano meno assurde soltanto perché erano sottratte alla possibilità di essere provate in modo concreto e tangibile. Mentre la mia mente si perdeva in quel caos, percepii un ronzio stridulo proveniente dagli apparecchi, seguito subito da un silenzio quasi assoluto. Cosa sarebbe successo? Avrei sentito una voce? E in tal caso che prova avrei avuto che non si trattasse, in sostanza, di un qualsiasi apparecchio fonografico? Quest'ultima prova, comunque, la ebbi subito: perché la voce che finalmente si udì mi apostrofò in modo da non lasciarmi dubitare che il suo possessore mi stesse osservando. Era una voce stridula, metallica, artificiale: incapace di inflessioni o di sfumature, pronunciava le parole con una lentezza e una precisione inesorabili. «Signor Wilmarth, prego, si rimetta a sedere... Ecco, sì... Non c'è ragione che si spaventi... Sono un essere umano esattamente come lei, ma il mio corpo è a più di cinque chilometri da qui, all'interno della Round Hill. Io sono qui con voi: il mio cervello è in questo cilindro, e io vedo, sento e parlo come voi. Fra una settimana accompagnerò Akeley nel suo primo viaggio, e sarei felicissimo se lei acconsentisse a unirsi a noi; la conosco di vista e di fama, e ho seguito molto da vicino la corrispondenza col nostro amico. Naturalmente, sono uno degli uomini che hanno concluso un patto d'alleanza con i nostri visitatori dello "spazio esterno", che ho incontrato per la prima volta sull'Himalaya. «Riuscirà a capire il senso della mia affermazione quando le dirò di essere stato su trentasette corpi celesti - pianeti, stelle buie, oggetti dello spazio che è impossibile definire con precisione - otto dei quali si trovano al di fuori della nostra galassia e due oltre i confini spaziotemporali del nostro cosmo spazio-temporale. Non ne ho riportato alcun danno. Il cervello mi è stato asportato dal corpo con tanta destrezza che sarebbe rozzo definire l'intervento una operazione chirurgica. Esistono metodi per estrarre il cervello in modo facile, quasi naturale; il corpo, finché ne è privo, non invecchia. Le facoltà del cervello sono potenzialmente immortali, e basta poco nutrimento fornito mediante il ricambio periodico del liquido conser-
vante. Per questo mi auguro di tutto cuore che lei accetterà di unirsi al signor Akeley per accompagnarmi. I nostri visitatori hanno un vivo desiderio di conoscere uomini di scienza come lei, e mostrare loro i grandi abissi che la maggior parte di noi ha dovuto accontentarsi di sognare. Il primo contatto con quelle creature può apparire strano, ma so che lei non se ne preoccuperà eccessivamente. Forse verrà anche Noyes, che credo conosca. Non è lui che l'ha condotta qui con la sua macchina? Sono anni che è dei nostri: suppongo che abbia riconosciuto la sua voce nel rullo di Akeley.» Sussultai così violentemente che la voce tacque per un momento, poi concluse: «Signor Wilmarth, è lei che deve decidere. Tuttavia, mi permetta di aggiungere che un uomo di scienza del suo calibro non dovrebbe perdere una simile occasione. Ed ora, buona notte. Riprenderemo questa conversazione domani. Riporti l'ago di tutti i quadranti a sinistra, non importa in quale ordine. Buona notte, Akeley. Allora, signor Wilmarth? Stacchi i fili». Obbedii meccanicamente, benché il mio cervello si rifiutasse di ammettere ciò che era avvenuto. La testa mi girava ancora quando udii Akeley chiedermi di lasciare tutti gli apparecchi sulla tavola. Senza fare il minimo commento sui discorsi che avevo ascoltato, si limitò ad aggiungere che potevo portare la lampada in camera mia, dal che conclusi che desiderava riposare da solo al buio. Era ora, infatti, che si riposasse un po', poiché i suoi discorsi del pomeriggio e della serata avrebbero esaurito anche un uomo robusto. Ancora del tutto intontito, augurai la buona notte al mio ospite e salii la scala con la lampada in mano, malgrado avessi con me una eccellente torcia elettrica. Giunto in camera mia provai un certo sollievo, se non altro per aver lasciato la torbida atmosfera dello studio, lo stranissimo odore e quella continua, misteriosa vibrazione. Ma presto sentii rinnovarsi il mio terrore, pensando al luogo in cui mi trovavo e alle forze che mi circondavano. La regione solitaria e selvaggia, il dirupo coperto di boschi neri che si ergeva dietro la casa, le impronte sulla strada, il malato che bisbigliava nelle tenebre, le macchine e i cilindri infernali, l'invito a subire un'inconcepibile operazione chirurgica per intraprendere un viaggio ancora più inconcepibile: tutto ciò si accavallava confusamente nel mio cervello con una violenza che indeboliva la mia volontà e la mia forza fisica. Il fatto che la mia guida, Noyes, fosse l'officiante umano del rito registrato sul rullo, mi sconvolgeva in modo particolare. D'altra parte, non ero meno turbato dal mio atteggiamento nei riguardi del mio ospite: durante il
nostro scambio di lettere avevo provato una simpatia istintiva per Akeley, ma adesso mi ispirava una vera repulsione. La sua malattia, anziché muovermi a pietà, mi faceva fremere di disgusto. Era rigido come un cadavere e la sua voce sussurrante aveva veramente qualcosa di disumano... Pensai che quel terribile sussurro era diverso da tutto ciò che avevo sentito in vita mia: malgrado la singolare immobilità delle labbra sotto i baffi grigi, esprimeva una forza e una vigoria notevoli per un asmatico. Avevo sentito bene il mio ospite quando mi trovavo all'altra estremità della stanza, e, a due riprese, mi era sembrato che la debolezza della sua voce fosse "voluta". In principio il suo timbro mi era parso inquietante, perché strano; ma adesso, a rifletterci, mi pareva che il mio disagio fosse dovuto a un'impressione di sinistra familiarità della quale non riuscivo assolutamente a determinare l'origine. Una cosa era certa: non avrei passato una seconda notte sotto quel tetto. La mia curiosità era ormai superata dal disgusto. Non rimaneva in me altro desiderio che di fuggire quel focolaio di mostruose presenze e di rivelazioni aberranti. Ne sapevo abbastanza, ormai. Deve esser vero che è possibile stabilire contatti cosmici con altre entità: ma non sono esperienze per un essere umano normale, nessun dubbio in merito. Empie influenze mi avvolgevano da ogni parte, sottoponendomi a una pressione soffocante. Avevo sonno, ma sapevo che non mi sarebbe riuscito di dormire neanche se avessi voluto. E naturalmente non volevo affatto. Spensi la lampada e mi gettai sul letto vestito, tenendo a portata di mano la torcia elettrica e la rivoltella che avevo con me. Nessun rumore veniva dal pianterreno, dove immaginavo che il mio ospite fosse seduto, rigido e inerte, nelle tenebre dello studio. Un orologio batté le ore da qualche parte, e quel suono normale mi riempì di un vago sentimento di gratitudine. Ma rese più pesante, quando cessò, l'assoluto silenzio che regnava nella fattoria e che sembrava dominare anche le campagne circostanti: come se non soltanto gli uomini, ma anche tutti gli animali avessero abbandonato la zona. All'infuori di un sinistro mormorio di acque lontane, il silenzio era assoluto... interplanetario. Chi poteva dire quale presenza malefica, intangibile, di origine stellare si librasse sopra la regione? Mi venne in mente, ricordando antiche leggende, che i cani e gli altri animali avevano sempre odiato Quelli-di-Fuori; pensai al possibile significato di quelle tracce sulla strada.
8 Non domandatemi se e per quanto tempo dormii, né quanta parte di ciò che segue tu un sogno. Se dicessi che mi svegliai a una data ora, che vidi e udii certe cose, mi rispondereste che in realtà non mi svegliai affatto; rispondereste che fu tutto un sogno fino al momento in cui mi precipitai fuori, raggiunsi barcollando la rimessa dov'era la vecchia Ford e iniziai una corsa pazza, cieca, attraverso le colline infestate, per arrivare finalmente, dopo aver corso due ore in un labirinto di foreste, a un villaggio che risultò essere Townshend. Naturalmente, potreste dare un'interpretazione diversa a tutto quello che ho raccontato: le fotografie, le impronte sulla strada, i cilindri, le macchine... Potreste insinuare che Henry Akeley si fosse messo d'accordo con un originale per architettare un imbroglio assurdo e complicato, che per esempio fece rubare lui stesso la cassa contenente la pietra nera, e che chiese a Noyes di incidere quel rullo al dittafono... Tuttavia, è strano che non si sia mai riusciti a identificare Noyes; che nessuno lo conoscesse nei villaggi vicini, mentre doveva esservi andato molto spesso. Mi dispiace di non ricordare il numero di targa della macchina... D'altra parte, è forse meglio che la mia memoria non l'abbia registrata. Perché, malgrado ciò che voi potrete dire, malgrado ciò che io stesso cerco di dirmi, vivo ormai nel terrore che forze spaventevoli si nascondano nelle colline inesplorate, e so che potrebbero raggiungermi attraverso le loro spie e i loro emissari del mondo degli uomini. Quando ebbi raccontato la mia incredibile storia allo sceriffo di Townshend, questi partì per la fattoria con una pattuglia di uomini armati; ma arrivando constatò che Henry Akeley non era più lì. La sua veste da camera, la sciarpa gialla, le bende, giacevano sul pavimento dello studio, vicino alla poltrona, e non si poté accertare se altri indumenti fossero spariti con lui. Non c'erano effettivamente cani, bestiame o volatili, e si vedevano fori di pallottole all'esterno come all'interno della casa. A parte questo, non si scoprì nulla di straordinario: niente cilindri, niente macchine, nessuno dei documenti che avevo portato nella mia valigia, niente odore strano né vibrazioni, nessuna impronta sulla strada. Rimasi un certo tempo a Brattleboro per condurre un'indagine presso tutte le persone che avevano conosciuto Akeley e potei concludere che la faccenda, almeno nella sua parte verificabile, non era il frutto di fantasticherie o di deliberate invenzioni da parte dello stesso Akeley. Tutti sapevano dei
suoi acquisti di cani e di munizioni; tutti sapevano che la sua linea telefonica era stata tagliata a più riprese. La maggior parte delle persone da me interrogate - compreso suo figlio in California - affermarono che gli accenni da lui fatti alle strane cose che accadevano nella zona, e specialmente nella sua fattoria, erano perfettamente coerenti. E sebbene non mancasse chi lo giudicava un po' matto e affermava senza esitazione che le cosiddette prove erano burle escogitate con perversa astuzia e forse perpetrate con l'aiuto di complici, potei accertare che i più vecchi abitanti del posto avevano preso molto sul serio i suoi racconti. Akeley aveva mostrato loro le fotografie e la pietra nera, e fatto ascoltare la registrazione sul rullo. Essi giurarono che le impronte e le voci ronzanti corrispondevano esattamente alle descrizioni delle leggende locali. Secondo loro, i rumori sospetti si erano moltiplicati nei dintorni della fattoria di Akeley in seguito alla sua scoperta della pietra. La Round Hill e la Montagna Nera, d'altra parte, avevano fama di essere infestate da tempo immemorabile, e non potei trovare nessuno che le avesse esplorate. Diversi abitanti della zona erano effettivamente scomparsi negli ultimi anni, e a questi s'era aggiunto recentemente Walter Brown, l'uomo menzionato nelle lettere di Akeley. Incontrai anche un vecchio fattore che assicurava di aver scorto un mostro nelle acque del West River, l'indomani dell'inondazione, ma il suo racconto era troppo incoerente perché potessi cavarne qualcosa di preciso. Partendo da Brattleboro giurai di non ritornare mai più nel Vermont, e sono sicuro che manterrò la mia decisione. Quelle colline selvagge sono l'avamposto di una terrificante razza cosmica, è certo: ne ho più che mai la sicurezza da quando, in conformità con le predizioni dei mostri, è stato scoperto un nuovo pianeta al di là di Nettuno. Gli astronomi l'hanno battezzato Plutone senza rendersi conto quanto gli si adatti quel nome! Sono profondamente convinto che altro non è che Yuggoth, e rabbrividisco chiedendomi perché, in base a quale piano, i mostri ne abbiano consentito la scoperta. Ma mi resta ancora da riferire - quale che sia il giudizio che se ne darà la fine di quella terribile notte nella fattoria di Akeley. Come ho detto, caddi senza accorgermene in un sonno agitato, popolato di visioni confuse in cui ritornavano senza tregua paesaggi mostruosi. Ancora oggi non so che cosa mi svegliò: sono comunque certo di essermi svegliato a un dato momento. Da principio mi parve di sentire scricchiolare l'impiantito del corridoio davanti alla mia porta, e mi sembrò che una mano maneggiasse
maldestramente la maniglia. Ma fu la vaga impressione di un attimo: le sensazioni veramente precise cominciarono con un rumore di voci che percepii nello studio sotto di me. Sembrava che ci fossero parecchi interlocutori, impegnati in una discussione molto vivace. Dopo aver ascoltato per qualche secondo, mi resi conto di essere sveglio del tutto, giacché il tipo di voci scacciava definitivamente ogni possibOità di sonno. I timbri erano molti e variati e, per me che avevo ascoltato l'orribile registrazione sul rullo, non poteva sussistere il minimo dubbio sulla natura di almeno due di esse: erano gli immondi ronzii usati da Quelli-diFuori per comunicare con gli uomini. Differivano rispetto all'altra per tono, ritmo e accento, ma avevano entrambe la stessa qualità disumana. La terza proveniva evidentemente da una macchina parlante collegata a uno dei cilindri: dopo ciò che avevo ascoltato poche ore prima non potevo sbagliarmi sulla natura di quella voce metallica, stridente, incapace di inflessioni o di sfumature. Per un attimo, non dubitai che l'intelligenza che emetteva i suoni fosse la stessa che mi aveva parlato qualche ora prima; poi mi dissi che qualsiasi cervello doveva esprimersi negli stessi toni, una volta collegato alla medesima macchina. Altre due voci, umane, prendevano parte al colloquio: una era una voce rozza, da contadino, l'altra era quella di Noyes. Sforzandomi di distinguere le parole, percepii nello studio una certa agitazione, come se la stanza fosse stata piena di gente che scalpicciava tutt'intorno. Ma era come se i nuovi venuti fossero calzati in modo strano, perché non riesco a definire il fruscio che facevano. Certo erano esseri consapevoli, ma il suono dei passi assomigliava a uno scalpiccio prodotto da una superficie larga e dura, come se si scontrassero superfici di corno e gomma rigida. Per usare un paragone concreto, sebbene non troppo preciso, pareva che sul pavimento di legno lucido strusciassero e scalpicciassero persone con i piedi calzati in larghi zoccoli di legno scheggiati. Non tardai a figurarmi l'aspetto e la natura delle entità che producevano quei rumori. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile afferrare appieno il senso dei discorsi. Parole isolate (fra cui il mio nome e quello di Akeley) arrivavano tuttavia al mio orecchio, soprattutto quando erano pronunciate dalla macchina parlante, ma non riuscivo a coglierne il senso in mancanza di un contesto coerente. Oggi mi rifiuto di formulare una teoria sulla base di tali dati; avevo la sensazione che quei suoni suggerissero, non rivelassero. Sotto di me si svolgeva un incontro terribile e anomalo, di questo ero certo, ma
di che cosa si discutesse non avrei saputo dire. Era strano: sebbene Akeley mi avesse rassicurato sulle intenzioni pacifiche di quegli esseri, mi sembrava di percepire una presenza malvagia, empia. A poco a poco potei cogliere delle intonazioni caratteristiche: per esempio, una delle voci ronzanti era piena di autorità; la voce meccanica, malgrado la sua regolarità artificiale, sembrava implorare umilmente; il tono di Noyes rivelava un vivo desiderio di conciliazione. Non udivo più il sussurro familiare di Akeley, ma mi rendevo conto che un simile suono non avrebbe potuto attraversare il pavimento della mia camera. Cercherò di mettere sulla carta alcune di quelle parole e alcuni dei suoni che mi giunsero, individuando per quanto possibile i differenti interlocutori. (La macchina parlante.) «...l'ho portato io stesso... rinviato le lettere e il rullo... fine di questo affare... ingannato... visto né inteso... forza impersonale... nuovo cilindro, gran Dio!...» (Prima voce ronzante.) «...tempo di mettere fine... piccolo e umano... Akeley... cervello... ha detto...» (Seconda voce ronzante.) «...Nyarlathotep... Wilmarth... il rullo e le lettere... menzogna penosa...» (Noyes.) «(parola o nome impronunciabile, forse N'gah-Kthun)... inoffensivo... in pace... due settimane... messa in scena... ve l'ho già detto...» (Prima voce ronzante.) «...nessuna ragione... progetto primitivo... Noyes può sorvegliare... Round Hill... nuovo cilindro... macchina di Noyes...» (Noyes.) «...parola mia... completamente a voi... qui... riposare...» (Parecchie voci pronunciavano contemporaneamente parole indecifrabili... Rumore di passi, compreso lo strano fracasso di ciabatte e zoccoli... Una specie di battito d'ali... Rumore di un motore avviato e di un'automobile che si allontana... Silenzio.) Ecco l'essenziale di ciò che udii, sdraiato sul letto nella fattoria infestata, fra le colline infernali, stringendo una rivoltella nella mano destra e una torcia elettrica nella sinistra. L'ho già detto, ero sveglissimo; ma una specie
di paralisi mi costrinse a rimanere immobile per parecchio tempo dopo che gli ultimi echi di quella conversazione si furono spenti. Sentivo il tic-tac della vecchia pendola al pianterreno, e, a un certo punto, riuscii a distinguere il russare di un dormiente: Akeley, supposi. Non sapevo assolutamente cosa pensare né cosa fare. Dopotutto quel colloquio non avrebbe dovuto sorprendermi, date le informazioni precedenti. Se Quelli-di-Fuori entravano liberamente nella fattoria, non dovevo stupirmi che il mio ospite avesse ricevuto, per quanto inaspettatamente, la visita di alcuni di loro... Eppure ciò che avevo udito mi aveva sconvolto, suscitando in me i più agghiaccianti sospetti. Il mio subcosciente doveva aver percepito una cosa che coscientemente non avevo ancora identificato. Ma quale parte Akeley aveva in tutta questa storia? Non era mio amico? Non avrebbe protestato se gli altri avessero tramato qualcosa contro di me? Il tranquillo russare che saliva dallo studio era senz'altro in contrasto con le mie paure. Ma non era possibile che il mio ospite fosse stato ingannato, e che fosse servito da esca per attirarmi sulle colline con le lettere, le fotografie e il rullo? Quei mostri avevano forse progettato di eliminarci entrambi perché ne sapevamo troppo? Pensai di nuovo al brusco cambiamento di situazione che pareva essersi verificato fra la penultima e l'ultima lettera di Akeley, e mi convinsi che quest'ultimo era stato ingannato. Pensai al gusto amarognolo del tè che avevo trovato nel termos, preparato probabilmente da Noyes, e che mi rallegrai di non aver bevuto. Era necessario che parlassi subito col mio ospite, per riportarlo alla ragione. I suoi visitatori l'avevano affascinato con le loro promesse di rivelazioni cosmiche, ma egli adesso doveva ascoltarmi e lasciare quei luoghi con me prima che fosse troppo tardi. Se poi non fossi riuscito a convincerlo, me ne sarei andato da solo. Mi avrebbe certamente permesso di prendere la sua Ford, che avrei lasciato in un garage a Brattleboro. Avevo notato che la porta della rimessa era aperta, e speravo che la vecchia vettura funzionasse. La mia passeggera antipatia per Akeley era scomparsa. Eravamo tutti e due nella stessa situazione: dovevamo sostenerci a vicenda. Mi dispiaceva svegliarlo, date le sue condizioni di salute, ma non potevo fare altrimenti. Mi era impossibile restare inattivo un momento di più. Mi stirai per riprendere il controllo dei muscoli e mi alzai senza far rumore. Presi la valigia e discesi la scala alla luce della lampada. La tenevo con la mano sinistra insieme alla valigia e stringevo la rivoltella nella mano destra, ma ero convinto che gli altri fossero andati via e che l'unico oc-
cupante della casa, oltre me, fosse Akeley. Arrivato in anticamera sentii russare più distintamente e constatai che il dormiente doveva trovarsi nella stanza alla mia sinistra, la sala in cui non ero ancora mai entrato. Alla mia destra si apriva lo studio immerso nelle tenebre. Spinsi la porta della sala e diressi il fascio luminoso della lampada in direzione di chi russava e infine lo proiettai sul viso del dormiente. Ma lo distolsi quasi subito, poi battei prudentemente in ritirata verso il corridoio, perché era Noyes, non Akeley, la persona che riposava sul divano. Non avrei saputo dire quale fosse la situazione reale: il buon senso mi consigliava di scoprire tutto il possibile prima di metter gli altri sull'avviso. Allora, dopo aver richiuso la porta della sala, entrai piano nello studio, dove mi aspettavo di trovare il mio ospite nella sua gran poltrona, sveglio o addormentato. Mentre avanzavo, il fascio della mia lampada si posò sulla tavola, illuminando uno dei cilindri infernali ancora collegato a due degli apparecchi che conoscevo: quello per vedere e quello per ascoltare; quello per parlare, invece, era staccato. Doveva trattarsi dell'"uomo ridotto" che avevo sentito partecipare alla conversazione, e per un momento ebbi la tentazione di innestare il terzo apparecchio per farlo parlare. Doveva essere consapevole della mia presenza; impossibile, infatti, che gli apparecchi sensori della vista e dell'udito non avessero captato il fascio di luce della torcia e il lieve scricchiolio del pavimento sotto i miei passi. Poi notai che il cilindro era quello col nome di Akeley, che avevo già visto sulla scansia e che il mio ospite mi aveva chiesto di non toccare. (Adesso non so se debba rammaricarmi della mia esitazione, o se debba invece rendere grazie al cielo di non aver ceduto a quell'impulso!) Dio solo sa quali misteri, quali dubbi orribili, quali problemi di identità sarebbero stati chiariti. Chissà? Forse è stato provvidenziale non farne nulla. Proiettai quindi la luce verso l'angolo in cui credevo di trovare Akeley, ma constatai con sorpresa che la poltrona era vuota. La vestaglia era stesa metà sulla poltrona, metà sul pavimento; vicino c'erano la sciarpa gialla e le bende che mi avevano fatto un così curioso effetto. Mentre mi domandavo dove potesse essere il mio ospite e perché avesse abbandonato i suoi indumenti da malato, mi accorsi di non sentire più nella stanza né odore né vibrazioni. Che cosa le aveva provocate? Mi colpì la curiosa costatazione che si producevano soltanto se Akeley era vicino. Fortissime dove se ne stava seduto, scomparivano ovunque tranne che nella stanza dove si trovava lui e subito fuori della soglia. Mi fermai facendo girare la torcia nello studio tenebroso, mentre mi lambiccavo il cervello nel tentativo di capire
la piega che avevano preso gli avvenimenti. Ah, perché non abbandonai la stanza senza far rumore, prima di rivolgere di nuovo la luce sulla poltrona vuota? Non lasciai la stanza senza rumore, ma con un urlo soffocato, e fu quello l'ultimo suono che udii nella sinistra fattoria ai piedi della montagna infestata, in quel covo di orrori cosmici circondato da nere colline. Non so per quale miracolo non lasciai cadere la valigia, la lampada e la rivoltella durante la mia fuga precipitosa. Riuscii ad andarmene da quella stanza e da quella casa senza fare altro rumore, a raggiungere sano e salvo insieme alle mie cose la vecchia Ford nel garage e ad avviarla verso la salvezza nella notte nera e senza stelle. La corsa fu un'esperienza da incubo, degna di essere descritta dalla penna di un Poe, di un Rimbaud o di essere tracciata dalla mano di Doré, ma alla fine arrivai a Townshend. Ecco tutto. Sono fortunato di non aver perso la ragione. Talvolta pavento quanto ci porteranno gli anni futuri, soprattutto da quando è stato scoperto il nuovo pianeta, Plutone. Prima di essere colto dal panico e dall'orrore, come ho detto, diressi di nuovo la luce della mia lampada sulla poltrona. Fu allora che notai per la prima volta, fra le pieghe dell'ampia vestaglia, tre oggetti che gli incaricati dell'inchiesta non trovarono durante la perquisizione dei luoghi. Non avevano, in se stessi, niente di particolarmente orribile, ma dalla loro presenza trassi una terrificante conclusione. Ancora oggi ho dei momenti di dubbio, dei momenti in cui mi sembra di poter sodalizzare con lo scetticismo di coloro che riducono la mia avventura a un sogno o a un'allucinazione. Quei tre oggetti, eseguiti con estrema abilità, erano provvisti di ingegnosi attacchi di metallo destinati a fissarli su strutture organiche circa le quali non oso formulare alcuna ipotesi. Vorrei credere anch'io di averli sognati, quegli oggetti di cera! Ma so che non è così. Gran Dio! L'essere che sussurrava nelle tenebre, circondato da un'aura di vibrazioni e quell'odore di muffa!... L'orrendo ronzìo... E durante tutto il tempo, all'interno del cilindro nuovo, sullo scaffale Akeley... Akeley, già "ridotto"!. Poiché, chiunque fosse l'essere mostruoso che m'aveva parlato dalla poltrona, quegli oggetti non erano altro che una riproduzione in cera delle mani e la faccia di Henry Wentworth Akeley. (The Whisperer in Darkness, 24 febbraio-26 settembre 1930)
Racconti scritti in collaborazione-Revisioni (1927-1930) L'ultimo esperimento (con Adolphe De Castro) The Last Test fu il primo racconto "revisionato" da Lovecraft per Adolphe De Castro, nom-de-plume di Gustav Adolf Danziger (1858-1959). Danziger era un dentista tedesco che nel 1886 si trasferì negli Stati Uniti, ne divenne cittadino e intraprese con successo la carriera diplomatica. Fu console americano a Madrid e venne presentato a Lovecraft da alcuni appassionati di letteratura fantastica. Danziger (o De Castro) reagì violentemente alle modifiche apportate da Lovecraft al suo racconto, e in una lettera a Frank Belknap Long l'autore di Providence non fa mistero di averlo riscritto da cima a fondo perché l'originale era "assolutamente esecrabile". Vane furono le proteste del diplomatico perché almeno una parte delle sue idee fossero reinserite nel testo. Una volta tanto è possibile rendersi conto con piena chiarezza dell'entità dell'intervento lovecraftiano: De Castro, infatti, aveva fatto pubblicare a sue spese la versione originale di The Last Test fin dal 1893, in un volumetto intitolato In the Confessional and the Following, di cui esistono ancora copie. Lo stesso discorso vale per The Electric Executioner, l'altra "revisione" per questo autore dilettante che viene ospitata nel presente volume. Il titolo immaginato da De Castro per The Last Test era A Sacrifice to Science, che Lovecraft aveva modificato nel più drammatico Clarendon's Last Test. Il titolo definitivo si deve, probabilmente, alla redazione di "Weird Tales", che pubblicò la versione riscritta da HPL nel numero di novembre 1928. In Something About Cast and Other Pieces (Arkham House, 1949), dove il racconto venne pubblicato per la prima volta tra altri scritti minori lovecraftiani, è riprodotta una gustosa illustrazione su cui val la pena soffermarsi un momento. A fronte della pag. 86, nel bel mezzo di The Last Test, vediamo uno di quei disegnini con cui Lovecraft amava abbellire gli angoli delle sue lettere, e sinistramente intitolato "Design for my gravestone" (Iscrizione per la mia tomba). La vignetta mostra un cimitero di notte, con tanto di luna calante, pipistrello che svolazza, gufo appollaiato su una lapide e qualcosa che sembra uno spettro aleggiante a mezz'aria. La lapide, in primo piano, è quella dello scrittore: in cima c'è un bel te-
schio con le tibie incrociate, ai lati due stemmini araldici e in mezzo la scritta: "Sacred to the Memory of Howard Phillips Lovecraft, Gent. of Providence in New-England, Who Departed This Life Jun. 15, 1928, ag'd 37 yrs. 10 Mo. - A Martyr to Revision". E cioè, naturalmente: Consacrato alla memoria di Howard Phillips Lovecraft, gentiluomo di Providence nella Nuova Inghilterra, che il 15 giugno 1928 lasciò questa vita all'età di 37 anni e dieci mesi, Martire delle revisioni. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S. T. Joshi, il quale avverte: "Dalle lettere di Lovecraft sembra di poter desumere che esistesse una terza revisione effettuata per De Castro, ma che oggi è andata perduta". 1 Pochi conoscono i risvolti del caso Clarendon o addirittura sono al corrente che esistono risvolti sconosciuti alla stampa. Fece grande scalpore a San Francisco nei giorni immediatamente precedenti l'incendio, sia per il panico e la minaccia che l'accompagnarono, sia perché vi era coinvolto il governatore dello Stato. Il governatore Dalton, si ricorderà, era il miglior amico di Clarendon, e più tardi ne sposò la sorella. Né Dalton né la sua signora hanno mai parlato di quella penosa faccenda, ma in qualche modo una ristretta cerchia di persone è venuta a conoscenza di come stavano davvero le cose. Ma proprio per questo, e perché gli anni trascorsi hanno steso una sorta di patina di indeterminazione e impersonalità sui protagonisti, vien fatto di esitare prima di scandagliare segreti all'epoca tanto gelosamente custoditi. Lo nomina del dottor Alfred Clarendon a direttore del Servizio sanitario del penitenziario di San Quentin nel 189... fu salutata con grande entusiasmo in tutta la California. San Francisco aveva infine l'onore di ospitare uno dei più grandi biologi e internisti dell'epoca, ed era facilmente prevedibile che famosi patologi si sarebbero precipitati sul posto da tutto il mondo per studiare i suoi metodi, profittare dei suoi consigli e delle sue ricerche, e imparare come venire a capo dei propri problemi. La California, quasi da un giorno all'altro, sarebbe diventata un centro di studi medici di rinomanza e influenza mondiali. Il governatore Dalton, ansioso di diffondere la notizia nel suo significato più profondo, fece in modo che la stampa pubblicasse ampi e autorevoli articoli sulla persona designata a ricoprire il nuovo incarico. Foto del dot-
tor Clarendon e della sua nuova casa nei paraggi dell'antica Goat Hill, notizie della sua carriera e degli innumerevoli riconoscimenti ricevuti, nonché delle sue scoperte scientifiche più importanti furono pubblicate dai più diffusi quotidiani della California. Il pubblico alla fine cominciò a provare una sorta di orgoglio riflesso per l'uomo i cui studi sulla piemia in India, sulla peste in Cina, e su una quantità di malattie affini ai quattro angoli della Terra avrebbero presto arricchito il mondo della medicina con la scoperta di un'antitossina di importanza rivoluzionaria: un'antitossina basica capace di combattere ogni forma febbrile alla radice che assicurava la sconfitta della febbre in tutte le sue manifestazioni. Dietro la nomina c'era un retroscena alquanto romantico costituito di un'antica amicizia giovanile, una lunga separazione e un drammatico ritrovarsi. Dieci anni prima James Dalton era stato amico della famiglia Clarendon a New York, anzi era qualcosa di più di un amico, dato che l'unica sorella del dottore, Georgina, era stata la ragazza del cuore della giovinezza di Dalton, e il dottore suo amico intimo e protetto ai tempi della scuola e dell'università. Il padre di Alfred e Georgina, un pescecane di Wall Street della vecchia schiatta spietata, aveva conosciuto bene il padre di Dalton, tanto bene che alla fine lo aveva rovinato spogliandolo di tutto ciò che possedeva, dopo un memorabile pomeriggio di battaglia in Borsa. Dalton Senior, disperando di riprendersi e desiderando far beneficiare il figlio unico e amato dell'indennità della propria assicurazione, s'era fatto saltare le cervella immediatamente; James, tuttavia, non aveva cercato rivalse di sorta. Per come vedeva lui la facenda, quelle erano le regole del gioco, e non intendeva fare del male al padre della ragazza che voleva sposare e del giovane scienziato di talento di cui era stato amico ed estimatore in tutti quegli anni di studio e di assidue frequentazioni. Si dedicò invece alla propria professione d'avvocato, creandosi una discreta posizione, e a tempo debito chiese al "vecchio Clarendon" la mano di Georgina. Il vecchio gli aveva opposto un netto e sonoro rifiuto, giurando che un azzeccagarbugli da strapazzo era indegno di diventare suo genero, e ne era seguita una scenata molto violenta. James, dopo aver detto, finalmente, al vecchio filibustiere quello che avrebbe dovuto dirgli tanto tempo prima, lasciò la casa e la città fuori di sé. Tempo un mese, si era già sistemato in California, intraprendendo la carriera che lo avrebbe portato al seggio di governatore dopo molte battaglie esistenziali e politiche. Il suo addio a Georgina e a Alfred era stato breve, e non aveva mai saputo cosa fosse successo dopo la scenata nella biblioteca di Clarendon. Soltanto per un
giorno, non era riuscito a sapere della morte per apoplessia di Clarendon, e in tal modo cambiò l'intero corso della sua carriera. Nei dieci anni che seguirono, non scrisse una sola volta a Georgina, ben sapendo quanto fosse devota al padre, e attese il giorno in cui ricchezza e posizione gli avrebbero consentito di rimuovere ogni ostacolo. Non si era mai fatto vivo neanche con Alfred, la cui quieta indifferenza nei confronti di affetto e venerazione era sempre apparsa indicativa della consapevolezza del proprio destino e dell'autosufficienza del genio. Egli credeva nei legami affettivi costanti e inalterabili e quindi, in quegli anni, lavorò e si fece strada pensando solo al futuro e non si sposò, assolutamente certo che anche Georgina lo stesse aspettando. La fiducia di Dalton non fu delusa. Chiedendosi forse perché mai non le giungesse neanche un messaggio, Georgina, concedendosi soltanto oniriche evasioni, attendeva; e inoltre, col passar del tempo, fu sempre più presa dalle nuove responsabilità connesse alla fama crescente del fratello. Maturando, Alfred non deluse le promesse della prima giovinezza, e quel ragazzo magro aveva salito con sicurezza i gradini della scienza, bruciando le tappe con vertiginosa rapidità. Snello e ascetico, con pince-nez cerchiati d'acciaio e una bruna barbetta a punta, a soli venticinque anni il dottor Alfred Clarendon era un'autorità, e a trenta una figura di spicco internazionale. Incurante delle cose materiali, con la classica trascuratezza del genio, faceva totale affidamento sulla sorella, che si occupava di tutto, e nell'intimo era grato che il ricordo di James l'avesse tenuta lontana da altri legami più vincolanti. Georgina mandava avanti la baracca, facendosi carico degli affari e della conduzione della casa dell'illustre batteriologo, ed era fiera dei progressi del fratello per sconfiggere definitivamente la febbre. Tollerava pazientemente le sue bizzarrie, placava le sue occasionali esplosioni di fanatismo scientifico, appianava gli screzi con gli amici provocati talvolta dal suo aperto disprezzo per tutto ciò che non fosse sincera dedizione alla verità e al progresso. Innegabilmente, Clarendon riusciva spesso antipatico alla gente normale; infatti non si stancava mai di svalutare lo spirito di abnegazione verso il singolo individuo in confronto a quello verso l'intera società, rampognando quegli intellettuali che confondevano vita privata e interessi personali con il perseguimento della scienza pura. I suoi nemici lo consideravano un pedante; ma gli estimatori, ammirati dello spirito appassionato che lo animava, quasi si vergognavano di coltivare interessi e aspirazioni al di fuori della sfera divina della pura conoscenza.
Il dottore viaggiava molto, e generalmente Georgina lo accompagnava negli spostamenti più brevi. In tre occasioni, tuttavia, aveva compiuto lunghi e solitari viaggi in luoghi misteriosi e remoti per studiare febbri esotiche e pestilenze semifavolose, perché egli sapeva che è dalle sconosciute terre dell'antica e criptica Asia che si diffondono gran parte delle malattie. Aveva fatto ritorno ogni volta con singolari souvenir che si aggiungevano alle stranezze della sua casa, tra cui il numero inutilmente sovrabbondante di domestici tibetani scovati da qualche parte nell'U-tsang hel corso di un'epidemia di cui il mondo mai sentì parlare, ma durante la quale Clarendon aveva scoperto e isolato il germe della febbre nera. Questi uomini, più alti della media dei tibetani ed evidentemente appartenenti a una razza poco o punto nota, erano d'una magrezza scheletrica che induceva più d'uno a chiedersi se il dottore li avesse scelti perché gli ricordavano i modelli anatomici degli anni d'università. Intabarrati nelle ampie tuniche di seta nera dei sacerdoti Bonpa che egli voleva indossassero, avevano un aspetto oltremodo grottesco; e si muovevano con gesti rigidi e silenziosi che accentuavano il loro sembiante fantastico, tanto che Georgina provava la bizzarra e inquietante sensazione d'essere precipitata in qualche pagina del Vathek o delle Mille e una notte. Ma il più strambo di tutti era il factotum, cui Clarendon si rivolgeva chiamandolo Surama, che si era portato a casa dopo una lunga permanenza nel Nordafrica, dove aveva studiato certe strane febbri intermittenti tra i misteriosi Tuareg del Sahara i quali, stando a una vecchia diceria archeologica, discendono dalla razza primordiale della perduta Atlantide. Surama, uomo di prodigiosa intelligenza e di erudizione similmente inesauribile, era, al pari dei domestici tibetani, d'una magrezza patologica: la nera pelle incartapecorita aderiva tanto alla testa calva e al viso glabro che ogni linea del cranio spiccava con spettrale risalto; l'effetto era accresciuto dai neri occhi ardenti, incassati tanto profondamente nelle orbite da lasciare scorgere solo le occhiaie vuote e scure. A differenza del dipendente ideale, a dispetto dei suoi lineamenti impassibili, egli sembrava non fare alcuno sforzo per dissimulare le proprie emozioni. Al contrario, aveva spesso un'aria insidiosamente ironica o divertita, talora accentuata da una profonda risata gutturale simile a quella di una gigantesca tartaruga che abbia appena fatto a pezzi e divorato un animale velloso e si trascinasse quindi verso il mare. Forse era di razza caucasica, sebbene fosse difficile dire a quale appartenesse di preciso. Certi amici di Clarendon pensavano che avesse l'aspetto di indù di alta casta, anche se si esprimeva senza accenti di sorta;
molti concordavano invece con Georgina, che lo detestava, quando diceva che la mummia di una faraone, se fosse tornata miracolosamente in vita, sarebbe stata la copia conforme di quello scheletro beffardo. Dalton, nel frattempo, assorbito dalle battaglie politiche della sua carriera e tagliato fuori dalla vita della costa orientale e anche a causa della particolare autarchia del vecchio West non aveva seguito la meteorica parabola ascendente del suo vecchio amico; d'altra parte Clarendon non aveva sentito parlare di una persona tanto lontana dall'amato mondo scientifico quanto il governatore. Ricchi e indipendenti, i Clarendon avevano vissuto per molti anni nel loro vecchio palazzo di Manhattan nella 19a Strada, i cui fantasmi non dovevano apprezzare molto le eccentricità di Surama e dei tibetani. Poi improvvisamente era sopravvenuto il grande cambiamento: il dottore decise di spostare la base delle sue ricerche mediche. Insieme alla sorella attraversarono il continente per stabilirsi a San Francisco e vivere in modo appartato nella cupa e vecchia villa dei Bannister che dominava la baia, nei pressi di Goat Hill, e trasferirono la bizzarra servitù in quella sconnessa reliquia dal tetto a mansarda. La casa era stata fatta costruire nella metà del periodo vittoriano da un arricchito dalla corsa all'oro, su un terreno con un alto recinto in una zona ancora periferica. Benché più soddisfatto che a New York, il dottor Clarendon fremeva per la mancanza di opportunità di sperimentare e verificare le sue teorie patologiche. Non essendo un uomo di mondo, non aveva mai pensto di servirsi della propria reputazione per procurarsi un incarico pubblico, sebbene andasse vieppiù convincendosi che soltanto la direzione del dipartimento medico di qualche istituto governativo o benefico - una prigione, un ospizio o un ospedale - gli avrebbe offerto la miglior opportunità di completare le sue ricerche e di effet tuare scoperte della massima utilità per l'umanità e la scienza. Poi, un pomeriggio, s'era imbattuto per puro caso in James Dalton, in Market Street, mentre il governatore stava uscendo dal Royal Hotel. Georgina era con lui, e l'istantaneo, reciproco riconoscersi aveva reso più romantico l'incontro. Essendo l'uno all'oscuro dei successi dell'altro, era quindi intercorsa una lunga serie di spiegazioni e di racconti, e Clarendon fu felice di apprendere che il suo amico di gioventù fosse diventato un uomo importante. Dalton e Georgina si osservarono a lungo, e sentirono che l'antica tenerezza non s'era mai spenta in tutti quegli anni di separazione. Rinacque l'amicizia d'un tempo che portò a frequenti visite e a uno
scambio sempre più intimo di confidenze. James Dalton venne a sapere che il suo vecchio protetto necessitava di un incarico pubblico e, fedele al suo ruolo dei giorni della scuola e dell'università, si diede da fare per accontentare il "piccolo Alf". Disponeva, è vero, di poteri di nomina molto ampi, ma i continui attacchi contro la legislatura lo costringevano a servirsene con la massima discrezione. Alla fine, tuttavia, dopo neanche tre mesi dacché s'erano ritrovati all'improvviso, si rese vacante la più importante carica medica pubblica dello Stato. Soppesando il pro e il contro attentamente, e consapevole che il prestigio e la reputazione dell'amico avrebbero avuto ragione di qualsiasi obiezione, il governatore si sentì finalmente libero di agire. Sbrigate le poche formalità di rito, l'otto novembre 189... il dottor Alfred Schuyler Clarendon divenne direttore medico del penitenziario statale della California, San Quentin. 2 Nel breve volgere di un mese, le speranze degli estimatori del dottor Clarendon furono ampiamente esaudite. Rapidi e profondi cambiamenti nei metodi di gestione portarono l'efficienza del servizio medico della prigione a un livello prima impensato; e anche se i suoi dipendenti erano un po' gelosi, furono costretti a riconoscere i magici risultati ottenuti sotto la direzione di un uomo veramente grande come il dottor Clarendon. Poi si presentò una circostanza in cui l'apprezzamento avrebbe potuto trasformarsi in devota gratitudine in seguito a una provvidenziale concomitanza dei fattori tempo, spazio, e degli uomini coinvolti; perché un mattino il dottor Jones andò dal suo nuovo direttore per annunciargli, con aria grave, la scoperta di un caso che egli credeva di poter identificare solo per quella febbre nera il cui germe Clarendon aveva scoperto e classificato. Il dottor Clarendon non si mostrò sorpreso e continuò a scrivere sul foglio che aveva davanti. «Lo so» disse col solito tono di voce. «Ho scoperto ieri quel caso. Mettete quell'uomo in isolamento, sebbene dubiti che la febbre sia contagiosa». Il dottor Jones, convinto invece che la malattia fosse contagiosa, fu lieto di quella misura prudenziale, e si affrettò ad eseguire l'ordine. Al suo ritorno, Clarendon si alzò per andarsene, dichiarando che avrebbe seguito di persona quel caso. Deluso perché non gli veniva offerta l'opportunità di studiare i metodi e le tecniche del grand'uomo, il giovane medico osservò
il principale che raggiungeva a grandi passi la corsia del reparto isolamento dove aveva fatto portare il paziente, mai così insoddisfatto del nuovo stato di cose dacché l'ammirazione aveva sostituito l'iniziale gelosia. Raggiunto il reparto, Clarendon si affrettò ad entrare nella stanza, dando un'occhiata al letto e quindi facendo qualche passo indietro per vedere fino a che punto si sarebbe spinta l'ovvia curiosità del dottor Jones. Solo quando notò che il corridoio era deserto, chiuse la porta e si volse ad esaminare il paziente. L'uomo, un galeotto reo di crimini particolarmente ripugnanti, sembrava in preda ai terribili spasimi dell'agonia. I lineamenti erano spaventosamente contratti, e le ginocchia alzate e rattrappite nella caratteristica positura di quel morbo. Clarendon lo esaminò attentamente: sollevò le palpebre chiuse, gli prese polso e temperatura, e infine fece sciogliere in un bicchier d'acqua una compressa, costringendo il malato a berlo. Poco dopo, l'intensità dell'accesso diminuì, perché il corpo si rilassò e il volto riassunse un'espressione normale, e il paziente cominciò a respirare più facilmente. Allora, massaggiandogli piano gli orecchi, il dottore gli fece aprire gli occhi. Erano vivi, perché roteavano da una parte all'altra, ancorché fosse spento in essi quel fuoco sottile che comunemente si ritiene l'immagine dell'anima. Clarendon sorrise, sentendo che il suo intervento aveva calmato il malato e avvertendo l'efficacia di una scienza onnipotente che lo rassicurava. Da tempo era a conoscenza di quel caso, e aveva strappato la vittima alla morte con un breve e tempestivo intervento. Ancora un'ora e quell'uomo sarebbe spirato eppure Jones aveva osservato i sintomi per diversi giorni prima di riconoscerli e, anche allora, non aveva saputo cosa fare. La vittoria dell'uomo sulle malattie, d'altra parte, è qualcosa di perfettibile. Clarendon, dopo aver assicurato agli infermieri dubbiosi che la febbre non era contagiosa, aveva fatto lavare e massaggiare il paziente con l'alcool prima di rimetterlo a letto. Ma il mattino seguente gli comunicarono che per quel caso non c'era più nulla da fare. L'uomo era morto poco dopo mezzanotte, devastato da un'atroce agonia, tra urla e contrazioni del volto tanto spaventose che a momenti i detenuti-infermieri s'erano lasciati prendere dal panico. Il dottore apprese la notizia con la calma abituale, quali che fossero i suoi sentimenti in quanto uomo di scienza, e diede disposizioni perché il cadavere venisse sepolto nella calce viva. Poi, con una filosofica alzata di spalle, fece il solito giro del penitenziario. Due giorni dopo, furono scoperti altri casi nella prigione. Tre uomini in una sola volta: ormai era evidente che era in corso un'epidemia di febbre
nera. Dopo aver sostenuto tanto fermamente la teoria che non fosse contagiosa, il prestigio di Clarendon subì un duro colpo. Fu inoltre ostacolato dal rifiuto dei detenuti-infermieri di occuparsi dei malati. Quelli non erano certo uomini disposti a sacrificarsi per il bene della scienza e dell'umanità, ma galeotti di buona condotta che si erano adattati a quel lavoro in vista dei privilegi che diversamente mai avrebbero potuto ottenere; ma se il prezzo diventava troppo alto, preferivano rinunciarvi. Il dottore tuttavia era ancora padrone della situazione. Dopo essersi consultato con il direttore del penitenziario e aver inviato un messaggio urgente al suo amico governatore, ottenne che ai detenuti disposti a farsi carico del pericoloso lavoro in infermeria venisse concessa una ricompensa in denaro e in riduzione della pena; con questo sistema riuscì a procurarsi un buon numero di volontari. Adesso era pronto ad agire, e niente poteva scuotere la sua ferma determinazione. Accoglieva i nuovi casi con un secco cenno del capo, e sembrava infaticabile mentre correva da un letto all'altro in quella vasta casa di pietra della tristezza e del male. Nel volgere di un'altra settimana si verificarono più di quaranta casi, e si rese necessario far venire infermieri dalla città. Clarendon tornava a casa molto raramente, dormendo spesso in una branda nell'appartamento del direttore, e non risparmiava se stesso, impegnandosi con la sua tipica abnegazione al servizio della medicina e dell'umanità. Poi si ebbero le prime avvisaglie della tempesta che stava per sconvolgere San Francisco. La notizia si sparse e la minaccia della febbre nera si diffuse in città come la nebbia che saliva dalla baia. I cronisti, formatisi alla scuola delle "notizie sensazionali soprattutto", scatenarono la propria fantasia senza alcun ritegno, ed esultarono tronfiamente quando riuscirono finalmente a scovare un caso da sbandierare, nel quartiere messicano, che il locale medico condotto - più avido di denaro che di verità o di salute pubblica - definì di febbre nera. Fu là goccia che fece traboccare il vaso. Frenetica al pensiero della morte silenziosa che strisciava fra di essa, la popolazione di San Francisco impazzì in massa, dando l'avvio a quello storico esodo di cui ben presto il Paese fu informato attraverso i cavi telegrafici sovraccarichi. Ferry e barche a remi, battelli a vapore e lance, treni e tranvai, biciclette e carrozze, furgoni da trasloco e carri da lavoro, furono presi d'assalto in un batter d'occhio. Sausalito e Tamalpais, che si trovavano nei pressi di San Quentin, furono evacuate all'istante, mentre i prezzi degli alloggi a Oakland, Berkeley, e Alameda salirono alle stelle. Sorsero tendopoli e villaggi improvvisati che
si allinerarono lungo le affollate provinciali in direzione sud, da Millbrae a San José. Molti si rifugiarono in casa d'amici a Sacramento, mentre le atterrite persone, costrette per varie ragioni a restare, potevano fare ben poco oltre che provvedere ai bisogni elementari di una città pressoché morta. Gli affari crollarono, eccezion fatta per i ciarlatani che offrivano "cure sicure" e "preventive" contro la minaccia della febbre. Da principio i saloon misero in vendita "drink medicati", ma si accorsero presto che la gente preferiva farsi imbrogliare da ciarlatani dall'aspetto più professionale. Lungo le strade insolitamente silenziose, le persone si studiavano reciprocamente il volto per individuare possibili sintomi della pestilenza, e i bottegai cominciarono a rifiutarsi di far entrare i clienti perché ciascuno di loro poteva diffondere il contagio. La macchina legale e giudiziaria cominciò a incepparsi e poi ad andare a pezzi, perché avvocati e impiegati della Contea soccombevano, uno ad uno, all'impulso di tagliare la corda. Perfino i medici, dimentichi del giuramento d'Ippocrate, disertarono in numero sempre più grande, molti di essi con la scusa di una vacanza fra i monti e i laghi a nord dello Stato. Scuole e college, teatri e caffè, ristoranti e saloon, chiusero i battenti, chi prima, chi dopo. Nel giro di una settimana, San Francisco era prostrata ed inerte: la distribuzione dell'acqua e dell'energia elettrica era stata dimezzata; i giornali uscivano in edizioni ultraridotte; tram e cavalli e funicolari costituivano una grottesca caricatura di trasporti. Fu allora che si toccò il fondo. Non poteva durare a lungo, perché il coraggio e lo spirito di osservazione non sono ancora scomparsi del tutto dal mondo, e ben presto l'inesistenza di qualsiasi epidemia di febbre nera, al di fuori della mura di San Quentin, divenne un fatto troppo ovvio per poterlo negare, nonostante fossero stati registrati alcuni casi indiscutibili e il tifo si fosse inequivocabilmente diffuso nelle malsane tendopoli periferiche. I direttori dei giornali e i rappresentanti della comunità si riunirono e quindi passarono all'azione, mettendo sotto pressione gli stessi cronisti che avevano speso tante energie per combinare quel guaio, ma indirizzando adesso la loro brama di "notizie sensazionali soprattutto" in azioni più costruttive. Furono pubblicati editoriali e notizie fittizie in cui si affermava che il dottor Clarendon teneva completamente sotto controllo la malattia, e che era assolutamente impossibile la sua propagazione al di fuori delle mura del penitenziario. L'insistenza e il diffondersi di simili notizie lentamente produssero gli effetti sperati, e poco per volta lo stillicidio di rientri in città divenne un torrente in piena. Uno dei primi sintomi del ritorno alla normalità fu lo scoppio d'una polemica giornalistica, del genero acrimonioso più
apprezzato, tesa a scaricare la responsabilità dell'accaduto, del panico e di tutto il resto, su spalle diverse, a seconda del punto di vista di coloro che vi intervennero. Il frettoloso rientro dei medici, corroborati dalle tempestive vacanze soprattutto nei loro sentimenti di gelosia, rese incandescente la polemica, perché essi cominciarono ad attaccare Clarendon, assicurando al pubblico che anche loro sarebbero stati capaci di tenere la malattia sotto controllo, e rampognandolo per non essere riuscito a impedire la sua diffusione all'interno di San Quentin. Clarendon, dichiaravano, era responsabile della morte di troppi pazienti. Anche un principiante sarebbe stato in grado di controllare il contagio della febbre; e se quello scienziato di grido non ne era stato capace, era perché, per motivi scientifici, aveva voluto studiare gli stadi finali della malattia, lasciando morire i pazienti anziché sommistrare le medicine adatte e salvare le vittime. Simile linea di condotta, insinuavano, forse era giustificabile nei confronti di galeotti assassini detenuti in un istituto di pena, non così a San Francisco, dove la vita era ancora un bene sacro e prezioso. E avanti di questo passo. I giornali erano ben lieti di pubblicare tutto ciò che i medici scrivevano, perché la virulenza della polemica, alla quale indubbiamente avrebbe preso parte anche il dottor Clarendon, alla fine contribuiva a far dimenticare il panico e a restituire fiducia alla gente. Ma Clarendon non rispose. Si limitò a sorridere, mentre il suo singolare collaboratore, Surama, indulgeva in cachinni da tartaruga. Adesso stava più spesso a casa, cosicché i giornalisti cominciarono ad assediare il cancello del grande muro che il medico aveva fatto costruire attorno alla sua casa, invece di infestare l'ufficio del direttore a San Quentin. Ma non cavarono un ragno dal buco, perché Surama costituiva una barriera insormontabile fra il dottore e il mondo esterno, anche quando i cronisti riuscivano a entrare nel parco della villa. Quelli che arrivavano fino all'ingresso e intravvedevano lo stravagante entourage di Clarendon, poi facevano del loro meglio per scrivere pezzi gonfiati su Surama e i bizzarri e scheletrici domestici tibetani. Esagerazioni, naturalmente, di cui abbondava ogni nuovo articolo, ma l'effetto di tutta quella pubblicità non voluta fu nettamente sfavorevole al grande medico. La maggior parte delle persone odia ciò che si stacca dalla normalità, e tanti che avrebbero scusato la mancanza di sensibilità o l'incompetenza condannavano invece il gusto grottesco che si palesava nel ghignante factotum e negli otto orientali vestiti di tuniche nere. Ai primi di gennaio, un giovane cronista dell'Observer particolarmente caparbio scavalcò il muro di mattoni alto quasi tre metri e cinto da un fos-
sato, sul retro della villa di Clarendon, e cominciò a osservare tutti i particolari che gli alberi celavano alla vista dal viale principale. Il giovanotto prese nota di tutto - il giardino delle rose, le voliere, le gabbie contenenti ogni specie di mammiferi, dalle scimmie ai porcellini d'India usati come cavie, la massiccia costruzione in legno del laboratorio nell'angolo nordovest del parco - e, oltre a ciò, esaminò ogni metro quadrato della proprietà. Stava bollendo in pentola un articolo sensazionale, e il cronista sarebbe sgusciato via inosservato non fosse stato che per i latrati di Dick, il gigantesco San Bernardo carissimo a Georgina, che richiamò l'attenzione di Surama, il quale non perse tempo: prese il giovane per la collottola prima ancora che potesse protestare, lo scrollò come un Terrier con una pantegana, e lo trascinò fra gli alberi fino al cancello principale. Le affannose spiegazioni e le tremanti richieste di incontrare il dottor Clarendon furono vane. Surama si limitò a sghignazzare e continuò a trascinare la sua vittima. D'un tratto l'azzimato e intraprendente giornalista cominciò a tremare di paura, augurandosi con tutto il cuore che quell'essere quasi sovrannaturale proferisse almeno una parola, se non altro per dimostrare che era fatto di carne e ossa e apparteneva a questo pianeta. Si sentì male, ed evitò accuratamente di guardare gli occhi che supponeva dovessero trovarsi al fondo di quelle nere occhiaie vuote. Poco dopo, udì il cigolìo del cancello che si apriva e si sentì scaraventare fuori senza tanti complimenti; qualche istante più tardi si risvegliò bruscamente alla realtà di questo mondo, atterrando nel fango del fossato che Clarendon aveva fatto scavare tutt'intorno al muro di cinta. La paura cedette il passo alla rabbia allorché udì chiudersi rumorosamente il pesante cancello, e si rialzò grondando acqua e melma per agitare minacciosamente i pugni verso la soglia proibita. Allora, quando si volse per andarsene, un suono soffocato si produsse alle sue spalle, e oltre una porticina aperta nel cancello intuì gli occhi infossati di Surama e udì un cachinno profondo e beffardo che gli gelò il sangue. Il giovanotto, convinto forse non a torto di essere stato trattato in maniera troppo rude, decise di vendicarsi di colui che riteneva responsabile di un simile affronto. Di conseguenza, preparò una falsa intervista al dottor Clarendon, fingendo di averla raccolta nel laboratorio, nel corso della quale indugiò nella descrizione dell'agonia di una dozzina di vittime della febbre nera, che la sua fantasia aveva disposto in file ordinate di giacigli. Il suo colpo da maestro fu la scena particolarmente melodrammatica in cui un malato implorava un sorso d'acqua, mentre il medico gli mostrava un bic-
chiere colmo del liquido scintillante appena fuori della sua portata, tentando di determinare con freddo distacco scientifico l'effetto emotivo di un simile tormento di Tantalo in un certo stadio della malattia. Questa trovata fu seguita da alcune righe di commenti insinuanti, ma apparentemente rispettosi sicché l'effetto fu doppiamente velenoso. Il dottor Clarendon, proseguiva, indubbiamente era lo scienziato più grande e onesto del mondo, ma la scienza si disinteressava del benessere individuale, e a nessuno piacerebbe che le sue peggiori malattie venissero prolungate e aggravate unicamente per soddisfare un ricercatore avido solo di dati astratti. La vita è troppo breve per simili cose. Nell'insieme, l'articolo era diabolicamente efficace, e riuscì a inorridire nove lettori su dieci, aizzandoli contro il dottor Clarendon e i suoi presunti metodi. Altri quotidiani si affrettarono a copiarne ed allargarne il contenuto, dilatando lo spunto iniziale, dando la stura a una serie di false interviste che toccavano tutta la gamma delle più fantasiose denigrazioni. Ma il dottore non si abbassò mai a rispondere. Non aveva tempo da perdere con gli idioti e i mentitori, e non gliene importava nulla della stima della plebaglia che disprezzava. Quando James Dalton telegrafò il suo rincrescimento, offrendogli aiuto, Clarendon rispose in modo quasi sgarbato. Non badava all'abbaiare dei cani, né si prese la briga di mettere loro la museruola. E non avrebbe espresso la sua gratitudine a chi avesse cacciato il naso in una storia assolutamente priva d'interesse. Sprezzante e silenzioso, egli continuò ad occuparsi del suo lavoro con tranquilla noncuranza. Ma il focherello acceso del giovane cronista era diventato un incendio. San Francisco fu travolta un'altra volta da una specie di follia collettiva, e la rabbia si mescolò alla paura. La capacità di giudicare imparzialmente era diventata un'arte perduta, e ancorché non avesse luogo un secondo esodo, s'instaurò il regno del vizio e della crudeltà scaturiti dalla disperazione, che inducevano a pensare a fenomeni simili ai tempi delle pestilenze medievali. Cresceva l'odio contro l'uomo che aveva scoperto il morbo e lottava per averne ragione, ma il pubblico delirante, dimentico dei grandi servigi che egli aveva reso alla causa della scienza, attizzava le fiamme del risentimento. E, nella sua cecità, sembrava odiare la figura del medico più della pestilenza che era giunta nella città solitamente ventosa e salubre. Poi il giovane giornalista, giuocando con l'incendio neroniano che aveva acceso, volle completare l'opera con un tocco conclusivo. Non avendo dimenticato il trattamento indegno subito per mano del cadaverico collaboratore del medico, redasse un articolo magistrale sulla casa e i domestici di
Clarendon, dando particolare rilievo soprattutto alla figura di Surama, il cui solo aspetto, dichiarava, era sufficiente a scatenare ogni sorta di febbre anche nella persona più sana. Si sforzò di far apparire ridicolo e terribile a un tempo quello sparuto personaggio ghignante, riuscendo forse meglio nel secondo intento, poiché un brivido d'orrore lo scuoteva ogni qual volta pensava a quanto si era trovato sgradevolmente vicino a quell'essere. Raccolse tutte le chiacchiere che poté sul conto di Surama, ricamò sull'empia vastità della sua presunta erudizione, e lasciò intendere vagamente che il dottor Clarendon lo aveva scovato in un regno blasfemo della segreta Africa antica d'eoni. Georgina, che invece seguiva con attenzione i giornali, si sentiva schiantata e ferita dagli attacchi contro il fratello, ma James Dalton, che andava spesso a farle visita, fece del suo meglio per consolare la donna che amava. Ed era sincero, perché non desiderava soltanto confortare lei, ma anche esprimere in qualche modo la venerazione che aveva sempre nutrito per il genio rivolto verso sublimi altezze ch'era stato il miglior amico della sua giovinezza. Disse a Georgina che la grandezza non è mai disgiunta dall'invidia, e le ricordò la lunga e triste lista di belle menti schiacciate da piedi volgari. Questi attacchi, sottolineò, costituivano la prova più certa dell'indiscussa grandezza di Alfred. «Ma fanno male lo stesso» obiettò «soprattutto perché capisco che Al ne soffre moltissimo, sebbene cerchi di non darlo a vedere.» Dalton le baciò la mano, come usava allora fra persone d'una certa levatura sociale. «E feriscono me mille volte di più, sapendo che fanno male a te e ad Alf. Ma non preoccuparti, Georgie, staremo vicini e supereremo ogni difficoltà!» E così accadde che Georgina cominciasse a fare sempre più affidamento sull'energico e forte governatore dalla mascella quadrata, che era stato la sua antica fiamma, confidandogli le proprie paure. Perché gli attacchi della stampa e l'epidemia non erano tutto. Anche in casa certe faccende non andavano per il meglio. Surama, imparzialmente crudele con uomini e animali, la riempiva di indicibile disgusto, e non poteva non pensare che in qualche modo costituisse una vaga, indefinibile minaccia anche per Alfred. Non le piacevano neanche i domestici tibetani, e trovava strano che Surama fosse capace di parlare con loro. Alfred non le aveva rivelato chi o cosa fosse Surama, ma, in un'occasione, le aveva spiegato, non senza esitazioni, che egli era un uomo molto più veccho di quanto si sarebbe potuto comu-
nemente pensare, e che possedeva la chiave di misteri e aveva vissuto esperienze tali da renderlo un collega insostituibile e prezioso per qualunque scienziato cercasse di strappare alla Natura i suoi segreti. Incoraggiato dalla confidenza e dall'inquietudine di Georgina, Dalton divenne un frequentatore ancora più assiduo di casa Clarendon, sebbene si fosse accorto che la sua presenza era mal tollerata da Surama. Lo scheletrico braccio destro di Alfred era solito studiarlo con aria indefinibile, osservandolo dagli abissi delle orbite spettrali, allorché lo faceva entrare in casa; e, spesso, dopo aver richiuso il cancello quando il governatore se ne andava, rideva chiocciamente, in modo tale da fargli venire i brividi. Nel frattempo il dottor Clarendon, apparentemente, si disinteressava di tutto salvo che del suo lavoro a San Quentin, che raggiungeva ogni giorno con la lancia accompagnato dal solo Surama, al timone, mentre lui leggeva o confrontava appunti. Dalton salutava con gioia quelle assenze regolari, perché gli offrivano continue opportunità di corteggiare Georgina. D'altra parte, quando si fermava più del solito, fino al ritorno di Alfred, questi lo salutava sempre affettuosamente, a dispetto dell'abituale riserbo. In breve, il fidanzamento di James e Georgina divenne una certezza, e i due aspettavano soltanto il momento più opportuno per parlarne con Alfred. Il governatore, uomo di natura appassionata e fedele, non si risparmiò cercando di agire nell'interesse del vecchio amico, per dimostrargli la continuità della sua lealtà. Stampa e burocrazia subirono la sua influenza, e fece in modo addirittura di interessare gli scienziati della costa orientale, molti dei quali raggiunsero la California per studiare l'epidemia e il vaccino febbrifugo che Clarendon aveva rapidamente isolato e stava perfezionando. Tuttavia, quei biologi e ricercatori non ottennero le informazioni desiderate, cosicché parecchi ripartirono con un'impressione estremamente sfavorevole. Anzi, non pochi stilarono articoli apertamente ostili a Clarendon, accusandolo di atteggiamento antiscientifico e di andare a caccia di gloria, e insinuarono che egli nascondeva le sue metodologie a causa d'una brama affatto professionale di vantaggi personali. Altri, fortunatamente, furono meno drastici nei loro giudizi, e scrissero entusiasticamente di Clarendon e del suo lavoro. Avevano visto i malati, apprezzando il modo meraviglioso in cui teneva sotto controllo la temuta malattia. Ritenevano più che giustificato il suo riserbo riguardo l'antitossina, in quanto la sua diffusione in una forma ancora imperfetta poteva fare più male che bene. La stessa figura di Clarendon, che parecchi di loro avevano già incontrato, li aveva enormemente impressionati, e non esitarono a
paragonarlo a Jenner, Lister, Koch, Pasteur, Metchnikoff, e a tutti coloro che avevano consacrato la propria vita al servizio della patologia e dell'umanità. Dalton si preoccupava di mettere da parte per Alfred quelle riviste che parlavano bene del suo protetto, e gliele portava personalmente, per avere la scusa di vedere Georgina. A parte un sorriso sprezzante, non sortirono altro effetto su Clarendon, che generalmente le gettava a Surama, il cui inquietante cachinno, mentre le scorreva, faceva da pendant all'ironia del medico. Un lunedì sera, ai primi di febbraio, Dalton si recò dai Clarendon fermamente intenzionato a chiedere la mano di Georgina. Fu lei stessa a farlo entrare, e mentre passeggiavano verso la villa, egli si fermò ad accarezzare il grosso cane che era accorso festosamente posandogli le zampe sul petto. Era Dick, il prediletto Sanbernardo di Georgina, e Dalton fu felice di essersi guadagnato l'affetto di una creatura che significava tanto per lei. Dick, contento ed eccitato, fece fare al governatore una mezza giravolta su se stesso sotto il peso del suo corpo poderoso mentre abbaiava piano; poi schizzò via fra gli alberi, in direzione del laboratòrio. Ma non scomparve, e poco dopo si fermò, volgendosi a guardare, e abbaiando piano un'altra volta come se volesse che Dalton lo seguisse. Georgina, abituata ad accontentare ogni capriccio del suo enorme cucciolone, fece cenno a James di andare a vedere cosa volesse, ed entrambi lo seguirono lentamente mentre trotterellava allegramente verso la parte posteriore del parco dove il tetto del laboratorio si profilava contro le stelle sopra il grande muro di mattoni. Dai contorni delle finestre dalle tende tirate filtrava luce, e così seppero che Alfred e Surama stavano lavorando. Improvvisamente, dall'interno giunse un suono debole e sommesso, come il grido di un bambino, un richiamo lamentoso: "Mamma! Mamma!"; Dick abbaiò. James e Georgina trasalirono allarmati. Poi Georgina sorrise, ricordando i pappagalli che Clarendon teneva in laboratorio per i suoi esperimenti, e accarezzò la testa di Dick per perdonarlo di aver ingannato lei e Dalton o per consolarlo di essersi lui stesso ingannato. Mentre camminavano lentamente verso la casa, Dalton le disse di aver deciso di parlare ad Alfred quella sera del fidanzamento, e Georgina non ebbe nulla da obiettare. Sapeva che il fratello non avrebbe certo apprezzato la perdita di una compagna, nonché di un'amministratrice, fedele, ma riteneva che, proprio per l'affetto che le portava, non avrebbe ostacolato la di lei felicità.
Più tardi, quella sera, Clarendon entrò in casa con passo elastico e un'aria meno lugubre del solito. Dalton, interpretando il suo buon umore come un ottimo auspicio, si fece coraggio mentre il medico gli stringeva calorosamente la mano, con un gioviale «Ah, Jimmy, tutto bene con la politica?» Diede un'occhiata a Georgina, che si allontanò con una scusa, mentre i due uomini si sedevano cominciando a chiacchierare. Per gradi, mentre rievocavano ricordi di gioventù, Dalton spostò la conversazione verso l'argomento che più gli stava a cuore. Finché, da ultimo, sbottò con la domanda decisiva senza tanti giri di parole. «Alf, voglio sposare Georgina. Abbiamo la tua benedizione?» Studiando il vecchio amico, in attesa d'una risposta, Dalton vide un'ombra passare sul suo volto. I neri occhi lampeggiarono per poi quietarsi in una calma forzata. Dunque la scienza o l'egoismo erano all'opera, dopo tutto! «Stai chiedendo l'impossibile, James. Georgina non è più la ragazzina di anni fa. Adesso occupa un posto ben preciso al servizio della verità e dell'umanità, e quel posto è qui. Ha deciso di consacrare la sua vita al mio lavoro... alla conduzione della casa, lasciandomi libero di dedicarmi ad esso totalmente... e non c'è posto per diserzioni o capricci di sorta.» Dalton aspettava che finisse il suo fervorino. Il solito, incorreggibile fanatismo: l'umanità contro il singolo individuo; e adesso il dottore avrebbe permesso che rovinasse anche la vita della sorella! Poi azzardò una risposta. «Senti, Alf, intendi dire che proprio Georgina è così indispensabile al tuo lavoro che devi farne una schiava e una martire? Via, cerca di ragionare! Si fosse trattato di Surama o di qualcun altro, insostituibile per poter effettuare i tuoi esperimenti, sarebbe diverso. Ma, dopo tutto, Georgina ti fa da governante. Ha promesso di diventare mia moglie e dice di amarmi. Che diritto hai di impedirle di vivere la sua vita? Che diritto...» «Ce l'ho e basta, James!» Il volto di Clarendon era pallido e tirato. «E inoltre, che abbia o meno il diritto di governare la mia famiglia, non è cosa che riguardi un estraneo.» «Un estraneo.. come puoi chiamare così un uomo che...» Dalton sentì la propria voce spezzarsi mentre quella fredda del medico lo interrompeva un'altra volta. «Un estraneo alla mia famiglia e, d'ora in poi, un estraneo alla mia casa. Dalton, la tu presunzione ha passato il segno! Buonasera, governatore!» E Clarendon uscì a grandi passi dalla stanza senza porgergli la mano.
Dalton era incerto sul da farsi quando entrò Georgina. Dall'espressione del suo volto, capì che aveva già parlato col fratello, e Dalton le strinse le mani appassionatamente. «Be', Georgie, adesso cosa dici? Temo si tratti di scegliere fra Alf e me. Sai quello che provo... sai quello che ho provato anni fa... allora avevo tuo padre contro. Questa volta, qual è la tua risposta?» Tacque mentre lei rispondeva lentamente: «James, caro, credi che io ti ami?» Egli annuì e le strinse più forte le mani, aspettando. «Allora, se mi ami davvero, aspetterai un altro po'. Non pensare ai modi bruschi di Al: dobbiamo compatirlo. Adesso non posso spiegarti tutto, ma sai quanto sia preoccupata... per via della tensione del suo lavoro, degli attacchi della stampa, delle occhiate a dei cachinni di Surama, quell'essere disgustoso! Temo che Alf crolli d'un tratto... è molto più stressato di quanto potrebbe immaginare chi non appartiene alla famiglia. Lo so io, che ho vegliato su di lui per tutta la vita. Sta cambiando... si piega lentamente sotto il peso del suo fardello... e allora vuol apparire ancora più duro, per nasconderlo. Capisci quel che voglio dire, no, caro?» Tacque e Dalton fece cenno di sì, portandosi al petto una mano della fidanzata. Poi Georgina finì il suo discorso. «Allora, promettimi di aver pazienza, caro. Devo stargli vicina, devo, devo!» Dalton non disse nulla per un po', ma chinò la testa in una specie di rassegnato inchino. Non aveva mai pensato che Georgina possedesse un simile spirito di carità e di abnegazione, anzi, non aveva mai creduto che qualcuno ne fosse dotato a tal punto. Di fronte a tanta lealtà e a tanto affetto, gli era impossibile insistere. Scambiarono brevi, tristi parole di commiato; e James, i cui occhi azzurri eran velati di lagrime, quasi non vide lo sparuto braccio destro di Clarendon che gli apriva il cancello. Ma quando sbatté alle sue spalle, udì il terribile cachinno che aveva imparato a riconoscere, e seppe che Surama era lì... Surama, che Georgina aveva definito il genio malefico del fratello. Andandosene con passi decisi, Dalton divisò di stare all'erta e di passare all'azione al primo segno di guai. 3 Nel frattempo a San Francisco, dove l'epidemia era sempre l'argomento
del giorno, cresceva l'odio per Clarendon. I casi di peste nera, al di fuori delle mura del penitenziario, erano pochissimi, per la verità, e quasi interamente limitati ai bassifondi messicani, dove l'assoluta mancanza di igiene faceva prosperare malattie d'ogni sorta; ma i politicanti e la gente non avevano bisogno d'altro per confermare gli attacchi dei nemici del dottore. Vedendo che Dalton non recedeva di un passo nel difendere Clarendon, i malcontenti, i fanatici della medicina e i loro tirapiedi, rivolsero la loro attenzione alla legislazione dello Stato; con grande astuzia, raccolsero in un'unica alleanza gli anticlarendonisti e i vecchi nemici del governatore, e si prepararono a varare una legge, con una maggioranza a prova di veto, che trasferiva il potere di nomina dei responsabili di istituzioni minori dal capo dell'esecutivo, nella fattispecie il governatore, ai vari enti e commissioni competenti. Non ci fu lobbista più attivo, nel battersi per la nuova legge, dello stesso aiuto di Clarendon, il dottor Jones. Geloso, fin dal principio, del suo superiore, adesso coglieva l'opportunità di volgere le cose a proprio vantaggio; e fu grato al fato della circostanza - cui già doveva la sua attuale posizione - di essere parente del presidente del consiglio d'amministrazione del carcere. Se la nuova legge passava, questo avrebbe significato l'immediato allontanamento di Clarendon e la propria nomina al posto dello scienziato; così, attento soltanto al suo interesse, brigava per ottenerla. Jones era esattamente agli antipodi di Clarendon: un intrallazzatore nato e un opportunista leccapiedi che badava prima ai propri interessi e poi a quelli della scienza. Essendo povero, bramava incarichi lucrosi, a differenza dello scienziato ricco e indipendente cui cercava di far le scarpe. Perciò, con una astuzia e una perseveranza degne d'un ratto, si dava da fare per preparare la caduta del grande biologo, e un bel giorno i suoi meschini sforzi furono ricompensati dalla notizia che la legge era stata approvata. D'ora in poi, il governatore non avrebbe più avuto potere di effettuare nomine nelle varie istituzioni dello Stato, e la direzione medica di San Quentin era a disposizione del consiglio d'amministrazione del carcere. Clarendon era, stranamente, all'oscuro di tutto quel maneggio legislativo. Totalmente assorbito dalle cure dell'amministrazione e della ricerca, non si era accorto del tradimento di "quell'asino di Jones", né dei pettegolezzi del carcere. Non aveva mai letto giornali in vita sua, e vietando a Dalton di frequentare casa sua, si era completamente tagliato fuori dal mondo. Con l'ingenuità della persona appartata, non aveva mai pensato che la sua posizione fosse in pericolo. Fidando sulla lealtà di Dalton, superiore
anche alle offese più grandi, come aveva dimostrato la sua linea di condotta con il vecchio Clarendon, che aveva costretto suo padre al suicidio dopo averlo distrutto finanziariamente, non gli era mai passato per l'anticamera del cervello il pensiero che il governatore potesse licenziarlo. E l'ignoranza di faccende politiche del medico era tale che non avrebbe certo potuto prevedere un così brusco spostamento del potere in fatto di nomine. Ragion per cui, si limitò a sorridere soddisfatto quando Dalton partì per Sacramento, certo che il suo posto a San Quentin, e quello della sorella in casa, fossero entrambi al riparo da ogni seccatura. Era abituato ad ottenere tutto ciò che voleva, e pensava di avere sempre la fortuna dalla propria parte. Durante la prima settimana di marzo, qualche giorno dopo l'entrata in vigore della nuova legge, il presidente del consiglio di amministrazione del carcere effettuò una visita a San Quentin. Clarendon non era in sede, ma il dottor Jones fu felice di mostrare all'illustre ospite - che inoltre era suo zio - la grande infermeria, che includeva il reparto-isolamento reso celebre dalla stampa e dalla paura. All'epoca, ormai convertito alla teoria di Clarendon secondo cui la febbre non era contagiosa, Jones, sorridendo, assicurò allo zio che non c'era nulla di cui avere paura, e lo incoraggiò a far visita ai malati, tra i quali uno scheletro spettrale, che una volta era stato un possente e vigoroso gigante, e ora, insinuò subdolamente, stava morendo lentamente e atrocemente perché Clarendon non gli somministrava la medicina adatta. «Intendi dire» gridò il presidente «che il dottor Clarendon rifiuta di dare a quest'uomo quello di cui ha bisogno, sapendo che potrebbe salvargli la vita?» «Proprio così!» esclamò il dottor Jones, zittendosi quando la porta si aprì e lo stesso Clarendon apparve sulla soglia. Clarendon rivolse un freddo saluto a Jones con un cenno del capo e diede un'occhiata di disapprovazione al visitatore che non conosceva. «Dottor Jones, avevo detto che codesto paziente non doveva venire disturbato. E avete dimenticato che non sono ammessi visitatori, salvo che non abbiano un permesso speciale?» Ma il presidente lo interruppe prima che il nipote potesse fare le presentazioni. «Scusate, dottor Clarendon, mi par d'aver inteso che rifiutate di somministrre a quest'uomo la medicina che potrebbe salvarlo...». Clarendon lo squadrò freddamente e replicò con voce dura: «La vostra è una domanda impertinente, signore. Qui sono io il re-
sponsabile e non sono ammessi visitatori. Vi prego di lasciare immediatamente questa stanza.» Il presidente, solleticato nel suo segreto senso melodrammatico, rispose con una punta d'alterigia e di pomposità di troppo. «Vi sbagliate, signore! Io, e non voi, sono il responsabile. State parlando con il presidente del consiglio di amministrazione del carcere. Debbo dirvi, inoltre, che reputo la vostra attività una minaccia alla salute dei detenuti, e debbo chiedervi di rassegnare le vostre dimissioni. Da adesso il dottor Jones si farà carico del vostro ufficio, e se intendete trattenervi fino al licenziamento ufficiale prenderete ordini da lui.» Era il grande momento di Wilfred Jones. La vita non gli aveva mai concesso una simile gratificazione, ed è inutile serbargli rancore. Dopo tutto, egli non era un malvagio ma un meschino, e si limitava a obbedire al codice dei meschini che impone di badare in primo luogo ai propri interessi, costi quello che costi. Clarendon, immobile, osservava l'altro, come se si trovasse al cospetto d'un pazzo, finché l'espressione di trionfo sul volto del dottor Jones lo convinse che era stato tramato un complotto a suo danno. Quando infine si decise a rispondere, lo fece con glaciale cortesia. «Non dubito che siate quel che dite di essere, signore. Ma, per fortuna, la mia nomina è stata decretata dal governatore dello Stato, e pertanto solo lui può revocarla.» Il presidente e suo nipote lo fissarono stupiti, non rendendosi conto fino a qual punto potesse giungere l'ignoranza delle cose del mondo. Poi il vecchio, comprendendo la situazione, addolcì il tono. «Ove avessi appurato che i rapporti sul vostro conto erano ingiusti» concluse «avrei aspettato ad agire; ma il caso di questo disgraziato e i vostri modi arroganti non mi lasciano altra scelta. Stando così le cose...» Ma il dottor Clarendon lo interruppe con voce tagliente come un rasoio. «Stando così le cose, allo stato io sono ancora il direttore in carica, e vi chiedo di andarvene immediatamente!» Il presidente arrossì ed esplose. «Dite, signore, con chi credete di parlare? Vi farò sbattere fuori... dannata la vostra impertinenza!» Ebbe appena il tempo di finire la frase. Trasformato dall'insulto in una scatenata dinamo d'odio, il sottile scienziato si lanciò in avanti a pugni stretti in un impeto di forza sovrannaturale di cui nessuno lo avrebbe reputato capace. E se la sua forza era sovrannaturale, la precisione con cui centrò il bersaglio non lo fu da meno; infatti, neanche un campione del ring
avrebbe potuto far meglio. Ambedue gli uomini - il presidente e il dottor Jones - furono colpiti da altrettanti, precisi diretti: uno in faccia, e l'altro al mento. Crollarono come alberi abbattuti, e giacquero immoti e svenuti sul pavimento, mentre Clarendon, ritrovato l'usuale autocontrollo, prese bastone e cappello, e andò a raggiungere Surama nella lancia. Soltanto quando si fu seduto nell'imbarcazione che partiva, diede libero sfogo all'ira devastante che lo ardeva. E allora, con il visto stravolto, invocò terrificanti maledizioni dalle stelle e dagli abissi di là delle stelle, tanto che anche Surama rabbrividì, fece un antico gesto che nessun libro di storia riporta, e dimenticò perfino la sua risata beffarda. 4 Georgina lenì la pena del fratello come meglio poté. Era tornato a casa mentalmente e fisicamente sfinito e si era sdraiato sul divano della biblioteca; e in quella cupa stanza, poco a poco, la fedele sorella era venuta a conoscenza della novità quasi incredibile. Cercò di confortarlo con sollecita tenerezza e di fargli capire come gli attacchi, le persecuzioni, persino il licenziamento costituissero un indiretto e grande riconoscimento della sua grandezza. Clarendon si sforzava di coltivare l'indifferenza che lei gli consigliava, e probabilmente ci sarebbe riuscito se fosse stata in ballo soltanto la sua dignità. Ma veder sfumare quella grande opportunità scientifica era più di quanto potesse sopportare, e, sospirando, andò ripetendole che altri tre mesi di lavoro nel carcere forse gli avrebbero consentito di mettere a punto definitivamente il vaccino che avrebbe relegato la febbre tra i cattivi ricordi del passato. Allora Georgina cercò di fargli coraggio in altro modo, e gli disse che sicuramente la direzione del penitenziario lo avrebbe fatto chiamare se l'epidemia non fosse cessata, o se, al contrario, fosse continuata con maggior virulenza. Parole vane, e Clarendon rispose con brevi frasi amare e spezzate, il cui tono dimostrava anche troppo chiaramente quanto fosse disperato e risentito. «Cessare? Aggravarsi? Oh, finirà di sicuro! Almeno credono che sia cessata. Pensano sempre quello che vogliono, qualunque cosa accada! Occhi ignoranti nulla vedono, e i pasticcioni non saranno mai in grado di fare un lavoro serio. La scienza non si disvela a simile gente. E hanno il coraggio di chiamarsi medici! Basta che pensi all'incarico assegnato a quell'asino di Jones!»
S'interruppe con una smorfia, e proruppe in un cachinno demoniaco che fece rabbrividire Georgina. I giorni seguenti furono molto tetri a villa Clarendon. Una profonda, insanabile depressione, s'era impadronita della mente solitamente infaticabile del dottore; e avrebbe addirittura rifiutato di nutrirsi se Georgina non lo avesse costretto a farlo. Il grosso quaderno degli appunti andava coprendosi di polvere, e la piccola siringa d'oro del siero febbrifugo - un'ingegnosa invenzione di Clarendon, dotata d'un minuscolo serbatoio fissato a un anello d'oro e d'un meccanismo che funzionava a pressione - giaceva inutilizzata nel piccolo astuccio di pelle sullo stesso tavolo della biblioteca. L'energia, l'ambizione, la passione profuse nello studio e nella ricerca sembravano essersi spente in lui; si disinteressava perfino del laboratorio, dove centinaia di colture di germi nelle loro provette lo attendevano. Le innumerevoli cavie, vivaci e ben nutrite, giuocavano nel primo sole primaverile, e, passeggiando nel roseto non lontana dalle gabbie, Georgina avvertiva tutt'intorno un incongruo senso di felicità. Sapeva, infatti, quanto tragicamente fugace fosse quella gioia di vivere, perché l'avvio di un nuovo lavoro del fratello avrebbe trasformato quelle bestiole in martiri involontari immolati sull'altare della scienza. Rendendosi conto di tutto ciò, considerava l'inazione del fratello una sorta di compensazione, e lo incoraggiava a riposarsi ancora, perché ne aveva disperato bisogno. Gli otto domestici tibetani si muovevano silenziosi, impeccabilmente efficienti, come sempre; e Georgina badava che l'ordinato trantran della casa non avesse a risentire dell'inattività del padrone. In vestaglia, ciabattante, dimentico di studi e smodate ambizioni, Clarendon, in preda all'apatia, era contento che Georgina lo trattasse come un bambino. Ricambiava le sue cure materne con uno spento e triste sorriso, conformandosi scrupolosamente ai suoi ordini e consigli. Una vaga, assorta letizia si stese su quel languido periodo, e l'unica nota stonata era costituita da Surama. Era davvero deprimente e spesso spiava con occhi lugubri e risentiti la solare serenità del volto di Georgina. La sua sola felicità era stata il trambusto degli esperimenti e adesso gli mancava l'amata consuetudine di ghermire gli animali condannati con gli adunchi artigli, portarli in laboratorio, e osservarli malignamente ridacchiando mentre entravano in coma con gli occhi sbarrati cerchiati di sangue, la bocca schiumante, e la lingua gonfia penzoloni. Era quasi disperato alla vista di quelle bestiole spensierate nelle gabbie, e si recava di frequente da Clarendon chiedendogli se aveva ordini per lui.
Trovando il dottore apatico e svogliato, se ne andava brontolando tra i denti, lanciando bieche occhiate tutt'intorno. Allora raggiungeva con passi felici il suo alloggio, nella cantina della villa, da cui saliva spesso un basso e smorzato salmodiare di stranezza blasfema e di sgradevoli suggestioni rituali. Tutto ciò stressava i nervi di Georgina, anche se non quanto la continua apatia del fratello. Il suo protrarsi la allarmava, e gradatamente perdette quell'aria allegra che aveva provocato la stizza di Surama. Essa stessa versata nell'arte medica, trovava le condizioni del dottore molto insoddisfacenti da un punto di vista psichiatrico, e adesso paventava quell'inazione come in precedenza lo zelo fanatico e il troppo studio. Quella perdurante ipocondria stava per trasformare un uomo dalla mente brillante in un innocuo imbecille? Poi, verso la fine di maggio, sopravvenne un brusco cambiamento. Georgina ne ricordò sempre ogni particolare, anche il più insignificante, come la cassetta recapitata a Surama il giorno prima, con il timbro postale di Algeri, ed esalante un odore sgradevolissimo; o il violento e improvviso temporale, assolutamente raro in California, che si scatenò quella notte, mentre Surama, dietro la porta sbarrata del seminterrato, cantava i suoi rituali con voce insolitamente alta e potente. Era un giorno soleggiato, ed era stata in giardino a raccogliere fiori per la sala da pranzo. Rientrando in casa, vide il fratello in biblioteca, vestito e seduto al tavolo, che, alternativamente, consultava gli appunti del grosso quaderno, e altri ne prendeva, con tratti di penna svelti e decisi. Era attento e in forma, agile nei movimenti, quando, di tanto in tanto, voltava una pagina o allungava un braccio per prendere un libro all'estremità del grande tavolo. Compiaciuta e sollevata, Georgina si affrettò a sistemare i fiori in sala da pranzo; ma quando tornò in biblioteca vide che suo fratello se n'era andato. Sapeva, naturalmente, che doveva essersi rimesso al lavoro in laboratorio, e si rallegrò al pensiero che la sua mente era tornata quella di una volta. Rendendosi conto che sarebbe stato inutile aspettarlo per il pranzo, mangiò da sola, e tenne in caldo qualcosa, nell'eventualità che rientrasse all'improvviso. Ma non lo fece. Clarendon stava recuperando il tempo perduto, e si trovava ancora nel solido edificio di legno dove aveva installato il suo laboratorio privato quando Georgina uscì a fare quattro passi nel roseto. Mentre camminava tra i cespugli in fiore, scorse Surama che prendeva
alcune cavie. Desiderava vederlo il meno possibile, perché la faceva sempre rabbrividire; ma proprio quel timore le aguzzava occhi e orecchi al punto che, immancabilmente, s'accorgeva subito se si trovava nei paraggi. Surama non portava mai il cappello nel parco, e la testa completamene calva accentuava il suo orribile aspetto di scheletro. E adesso udì un sommesso cachinno mentre egli afferrava una scimmietta, togliendola da una gabbia addossata al grande muro di cinta, e la portava in laboratorio, stringendole i fianchi pelosi con lunghe dita scheletriche tanto crudelmente da farla strillare d'atterrita angoscia. Quella vista fece star male Georgina, mettendo termine alla sua passeggiata. Provava un moto di ribellione al pensiero dell'ascendente che quell'essere esercitava su suo fratello, e pensò amaramente che i due, padrone e servitore, s'erano ormai scambiati i rispettivi ruoli. Scese la notte senza che Clarendon fosse rientrato, e Georgina concluse che doveva essere impegnato in uno di quegli interminabili esperimenti che gli facevano perdere il senso del tempo. Odiava doversi ritirare per la notte senza aver potuto scambiare quattro chiacchiere con lui riguardo l'inaspettata guarigione; ma, infine, sentendo che sarebbe stato inutile aspettare, gli scrisse un biglietto affettuoso e lo lasciò davanti al posto dove sedeva solitamente al tavolo della biblioteca; quindi andò a letto. Non si era ancora addormentata quando udì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi. Dopo tutto, non aveva passato la notte in laboratorio! Volendo che il fratello facesse un pasto decente prima di coricarsi, si infilò una vestaglia, e cominciò a scendere la scala, diretta in biblioteca, ma si fermò quando sentì delle voci provenire dalla porta sottostante socchiusa. Clarendon e Surama stavano parlando; allora aspettò che quest'ultimo si allontanasse. Ma Surama non sembrava intenzionato ad andarsene; e inoltre il tono acceso della discussione faceva presumere che non si sarebbe conclusa tanto presto. Sebbene non fosse stata sua intenzione origliare, Georgina colse qualche frase di quella strana conversazione, e intuì un alcunché di sinistro che la spaventò moltissimo, ancorché non capisse bene di cosa si trattasse. La voce del fratello, tesa, tagliente, catturava tutta la sua attenzione con inquietante intensità. «E in ogni modo» stava dicendo «non abbiamo abbastanza animali per un altro giorno, e sai quanto sia difficile procurarsene una buona scorta senza preavviso. Mi sembra stupido sprecare i nostri sforzi su simile robaccia, quando, dandoci un po' più da fare, potremmo procurarci esemplari
umani.» Georgina si sentì nauseata al pensiero delle possibili implicazioni che quelle parole sottintendevano, e si aggrappò all'attaccapanni dell'atrio per non cadere. Surama stava rispondendo con quella voce bassa e cavernosa che sembrava riecheggiare il male di mille secoli e di mille pianeti. «Calma, calma... hai la fretta e l'impazienza di un bambino! Sei troppo precipitoso! Se tu fossi vissuto a lungo come me, tanto che un'intera vita sembra un'ora soltanto, non ti scalderesti così per un giorno, una settimana o un mese! Lavori troppo in fretta. Nelle gabbie ci sono esemplari per almeno un'altra settimana se soltanto lavorassi meno freneticamente. Potresti anche cominciare con il materiale più vecchio, se tu fossi sicuro di non esagerare». «Non preoccuparti della mia fretta!» rispose seccamente Clarendon. «Ho i miei metodi. Non voglio adoperare il nostro materiale se non è indispensabile, li preferisco come sono. E tu faresti meglio a stare attento... sai che quei cani hanno il coltello.» Si udì il cachinno di Surama. «Non preoccuparti. Anche quei bruti mangiano, no? Bene, posso procurartene uno ogni volta che ne hai bisogno. Ma vacci piano... tolto il ragazzo che s'è andato, ne sono rimasti solo otto, e adesso che hai perduto San Quentin sarà molto difficile ottenerne altri all'ingrosso. Ti suggerirei di cominciare da Tsanpo... è quello che ti serve meno, e...» Georgina non volle ascoltare altro. Tralvolta da una paura terribile suscitata dai pensieri che quelle parole avevano stimolato, stava per perdere i sensi dove si trovava, e soltanto con grande sforzo riuscì a salire le scale, raggiungendo la sua stanza. Cosa stava progettando quel mostro maligno di Surama? Quali abonimevoli fatti si nascondevano dietro quelle criptiche frasi? Dove stava trascinando suo fratello? Mille immagini minacciosamente tenebrose le danzavano davanti agli occhi, e si lasciò cadere sul letto disperando di poter dormire. Un pensiero, su tutti, si stagliava nella sua mente con terrificante nitidezza, e quasi esplose in un urlo mentre si imponeva al suo cervello con rinnovata intensità. A quel punto la Natura, più benigna di quanto s'aspettasse, finalmente intervenne: Georgina chiuse gli occhi, svenendo, e giacque come morta fino al mattino seguente; nessun nuovo incubo venne ad aggiungersi a quello provocato da ciò che aveva udito. La luce del mattino portò un allentamento della tensione. Quel che succede di notte, quando si è stanchi, spesso viene avvertito dalla coscienza in
forma distorta, e Georgina rifletté che il suo cervello doveva aver trasformato in orrori frammenti di una normale conversazione medica. Supporre suo fratello - unico figlio maschio della soave Frances Schuyler Clarendon - reo di sacrifici bestiali nel nome della scienza, avrebbe significato perpetrare un'ingiustizia a danno del proprio sangue, e decise di non farne parola, perché Alfred non ridicolizzasse le sue fantastiche congetture. Quando si accomodò al tavolo della prima colazione, vide che Clarendon era già uscito, e le dispiacque che, per la seconda volta, le fosse sfuggita l'opportunità di congratularsi con lui per la ripresa degli studi e degli esperimenti. Fece colazione tranquillamente, servita da Margarita, la vecchia cuoca messicana sorda come una campana; poi lesse il giornale del mattino. Si sedette quindi a ricamare davanti alla finestra del salotto che dava sul parco, su cui era sceso un profondo silenzio: allora notò che tutte le gabbie degli animali erano state vuotate, fino all'ultima bestiola. La scienza aveva ottenuto il suo ennesimo sacrificio, e la fossa di calce viva accoglieva quanto restava di quelle piccole creature una volta graziose e piene di vita. Quel macello l'aveva sempre addolorata, ma non aveva mai protestato con il fratello, perché sapeva che lo faceva per il bene dell'umanità. Essere la sorella d'uno scienziato, andava ripetendosi, era come esserlo d'un soldato, che uccide per salvare i concittadini dai nemici. Dopo aver pranzato, Georgina tornò a sedersi al solito posto davanti alla finestra, ed era occupata con il suo lavoro di cucito da qualche tempo, quando un colpo di pistola esploso in giardino la fece sobbalzare allarmata. Laggiù, poco discosto dal laboratorio, vide la sagoma spettrale di Surama, con un revolver in pugno, il volto di teschio contratto in una strana espressione, che guardava ridendo una figura accovacciata, vestita di seta nera, con un lungo pugnale tibetano. Era il domestico Tsanpo, e, riconoscendone il volto deformato da una smorfia di paura, Georgina ripensò con orrore a quello che aveva udito durante la notte. Il sole lampeggiò sulla lama pulita e improvvisamente il revolver di Surama fece fuoco un'altra volta. Il pugnale schizzò via dalla mano del mongolo, e Surama osservò con bramosia la sua vittima tremante e stupefatta. Allora Tsanpo, guardando in fretta la mano illesa e il coltello caduto, spiccò un agile salto, cercando di raggiungere di corsa la casa, sottraendosi al furtivo inseguimento dell'altro. Surama, tuttavia, era troppo svelto per lui, e con un unico, grande balzo gli fu sopra, afferrandolo per le spalle e quasi stritolandolo. Per qualche istante il tibetano cercò di opporre resistenza, ma Surama lo sollevò di peso per la collottola, come un animale, e
lo trascinò nel laboratorio. Georgina ne udì la risata gorgogliante e capì che lo stava schernendo nella sua lingua, mentre il volto giallo della preda si contraeva per la paura. Comprendendo d'un tratto, contro la sua stessa volontà, quello che stava succedendo, fu sopraffatta dall'orrore, e perse i sensi per la seconda volta in ventiquattr'ore. Quando tornò in sé, la luce dorata del tardo pomeriggio inondava la stanza. Mentre raccoglieva il cestino da lavoro, e quello che conteneva sparso sul pavimento, Georgina era in preda allo sbigottimento del dubbio; ma alla fine si convinse che la scena cui aveva assistito era stata anche troppo vera. I suoi peggiori timori, dunque, stavano diventando realtà. Nulla, nell'intera esperienza della sua vita, poteva soccorrerla in quel momento, suggerendole il da farsi; anche per questo era vagamente grata che suo fratello non fosse stato presente. Doveva assolutamente parlargli, ma non ora. Adesso non era in condizioni di parlare con nessuno. E, pensando con un brivido ai fatti abominevoli che avevano luogo dietro le finestre sbarrate del laboratorio, si infilò nel letto, tremando, accingendosi a trascorrere una interminabile notte insomme. Il mattino seguente, alzandosi con le ossa rotte, Georgina vide il dottore per la prima volta dacché era guarito. Si agitava indaffarato, andando avanti e indietro dalla casa al laboratorio, disinteressandosi di tutto fuorché del suo lavoro. Non era certo il momento più opportuno per affrontare il temuto colloquio chiarificatore, e Clarendon, preso dai suoi pensieri, non si accorse neanche dell'aspetto sconvolto della sorella e dei suoi modi esitanti. Quella sera sentì che egli si trovava in biblioteca, parlando da solo, fatto alquanto inusuale per lui, e Georgina capì che era sottoposto a una grande tensione che poteva culminare in una nuova crisi di ipocondria. Entrò nel locale e cercò di calmarlo, senza affrontare argomenti impegnativi, e lo convinse a bere una tazza di brodo corroborante. Infine, gli chiese gentilmente cosa lo preoccupasse tanto, e attese ansiosa una risposta, nella speranza di sentirsi dire che il modo in cui Surama aveva trattato il povero tibetano lo aveva sconvolto e indignato. C'era una nota di impazienza nella voce di Clarendon, quando le rispose. «Cosa mi preoccupa? Buon Dio, Georgina, cosa non mi preoccupa? Guarda le gabbie e non dovrai farmi altre domande! Ripulite, vuote, non mi è rimasto un solo, dannato esemplare; e intanto, in laboratorio, tutta una fila di provette con colture batteriche in incubazione, e tra le più importanti, attendono vanamente di servire a qualcosa di buono! Un lavoro di giorni buttato via... l'intero programma in ritardo... basta e avanza per ammattire!
Come potrò combinare qualcosa se non riesco a scovare soggetti decenti?» Georgina gli accarezzò la fronte. «Penso dovresti riposare un po', Alfred, caro.» Egli si scostò bruscamente. «Riposare? Questa è buona! Dannatamente buona! Cos'altro ho fatto se non riposare e vegetare e fissare il vuoto negli ultimi cinquanta, cento o mille anni? E non appena sono riuscito a scuotermi di dosso quell'apatia, resto senza materiale... e a questo punto mi viene detto di scivolare di nuovo in una torbida imbecillità! Dio! E, nel frattempo, con tutta probabilità, qualche abile ladro è all'opera sui miei dati, preparandosi a precedermi, arrogandosi il merito del mio stesso lavoro! Perderò per una lunghezza... arriverà per primo al traguardo qualche idiota che ha gli esemplari adatti, proprio quando, in un'altra settimana, disponendo di mezzi appena appena adeguati la vittoria sarebbe stata mia!» La sua voce si alzò querula, percorsa da un fremito quasi isterico che non piacque affatto a Georgina. Rispose dolcemente, ma non tanto da lasciargli capire che lo stava trattando come uno psicopatico. «Ma ti stai uccidendo con tutte queste preoccupazioni e la tensione nervosa che ne consegue. E se muori, come potrai continuare il tuo lavoro?» Clarendon rispose con un sorriso più simile a un ghigno. «Suppongo che una settimana o un mese - tutto il tempo che mi occorre - non mi condurranno alla fossa; e poi, portato a termine il mio lavoro, non ha molta importanza quello che sarà di me. Bisogna servire la scienza... la scienza... e la severa causa dell'umana conoscenza. Io sono come le scimmie, gli uccelli, e le cavie che uso... solo una rotellina nell'ingranaggio, che funziona nell'interesse di tutta la macchina nel suo complesso. Dovevano essere uccisi... forse anch'io lo sarò... e allora? La causa che serviamo è la più degna, merita ogni sacrificio.» Georgina si lasciò sfuggire un sospiro. Per un attimo si chiese se, dopo tutto, quell'incessante massacro servisse davvero a qualcosa. «Ma sei veramente convinto che la tua scoperta sarà tanto utile all'umanità da giustificare simili sacrifici?» Gli occhi di Clarendon brillarono di una luce pericolosa. «L'umanità! Cosa diavolo è l'umanità! La scienza! Imbecilli. Solo individui, ancora e poi ancora! L'umanità è fatta per i predicatori, per cui significa soltanto ciechi creduloni; è fatta per la rapacità dei ricchi, per cui significa denaro; è fatta peri politicanti, per cui significa potere collettivo da usare a proprio vantaggio! Cos'è l'umanità? Niente! Grazie a Dio questa
rozza illusione non è durata! Ciò che un uomo maturo adora davvero è la verità... la conoscenza... la scienza... la luce... strappare il velo e dissipare le ombre! C'è morte nei nostri riti, la scienza è il nostro Moloc! Dobbiamo uccidere... sezionare... distruggere... tutto per amore della scoperta... il culto della luce ineffabile. La dea Scienza lo pretende. Sperimentiamo un veleno dubbio uccidendo. Come potremmo fare, diversamente? Non è possibile pensare al singolo individuo... solo alla scienza... è necessario conoscere gli effetti.» La sua voce si spense in un sussurro, era esausto, e Georgina fu scossa da un brivido. «Ma tutto ciò è orribile, Al! Non dovresti dire, e neanche pensare, simili cose!» Clarendon ridacchiò beffardo, suscitando bizzarre e disgustose associazioni d'idee nella mente della sorella. «Orribile! Ritieni che quello che dico sia orribile? Dovresti sentire Surama! Ti assicuro che gli antichi sacerdoti di Atlantide conoscevano cose tali da farti morire di paura se ne sentissi parlare. La scienza era scienza anche centomila anni fa, quando i nostri antenati erravano per l'Asia, simili a mute scimmie! Ne sanno qualcosa nelle terre dello Hoggar... se ne parla nelle regioni ancor più interne del Tibet... e una volta ho sentito un vecchio, in Cina, che invocava Yog-Sothoth...» Sbiancò in volto e tracciò uno strano segno nell'aria con l'indice teso. Georgina era davvero allarmata, ma si calmò un po' quando il fratello cominciò a parlare in forma meno fantastica. «Sì, sarà orribile ma è anche stupendo. La ricerca della conoscenza, voglio dire. Certamente, nulla concede al sentimentalismo. Del resto, anche la Natura non uccide sistematicamente, continuamente, e soltanto gli idioti inorridiscono di questa incessante lotta per la vita? Uccidere è necessario. È la gloria della scienza. Impariamo qualcosa anche da ciò, e non possiamo sacrificare la conoscenza ai sentimenti. Sai come gridano i sentimentali contro la vaccinazione! Hanno paura che uccida il bambino. E con ciò? Come potremmo, diversamente, scoprire l'incubazione e lo sviluppo della malattia? In quanto sorella di uno scienziato potresti far di meglio che cianciare di sentimenti. Dovresti cercare di aiutarmi nel mio lavoro anziché crearmi problemi!» «Ma, Al» protestò Georgina «non intendo assolutamente intralciare il tuo lavoro! Ti ho sempre aiutato come meglio potevo. Non avendo la tua preparazione, forse non ho potuto far molto; ma almeno sono fiera di te -
fiera in quanto sorella, e fiera per il prestigio della famiglia - e ho sempre fatto del mio meglio per spianarti la strada. Molte volte tu stesso me ne hai dato atto.» Clarendon la studiava intento. «Sì» disse bruscamente, alzandosi e uscendo dalla stanza. «Hai ragione. Hai sempre cercato di fare del tuo meglio. Forse avrai l'opportunità di essermi ancora utile.» Georgina, vedendolo uscire dall'ingresso principale, lo seguì in giardino. Un po' più lontano una luce brillava tra gli alberi, e quando furono più vicini videro Surama con una lanterna chino su qualcosa di grosso steso a terra. Clarendon grugnì qualcosa; ma quando Georgina capì di chi si trattasse, gettò un grido. Era Dick, l'enorme Sanbernardo; giaceva immobile con gli occhi arrossati e la lingua fuori. «Sta male, Al!» esclamò. «Fai qualcosa per lui, presto!» Il dottore diece un'occhiata a Surama, che borbottò qualcosa in una lingua che Georgina non conosceva. «Portalo in laboratorio» ordinò Clarendon. «Ho paura che Dick abbia contratto la febbre». Surama sollevò il cane come aveva fatto con il povero Tsanpo il giorno prima, e lo trascinò in silenzio nell'edificio adiacente al muro di cinta. Questa volta non proruppe in cachinni, ma guardò Clarendon con vera preoccupazione. E a Georgina sembrò che Surama chiedesse al dottore di salvare il suo animale prediletto. Tuttavia Clarendon non fece un gesto per seguirlo; rimase immobile per un po', e quindi s'incamminò lentamente verso la casa. Georgina, sbalordita davanti a tanta durezza, scongiurò piangendo il fratello di fare qualcosa per Dick, ma inutilmente. Disinteressandosi completamente delle sue preghiere, andò direttamente in biblioteca e cominciò a leggere un vecchio e grosso libro già aperto sul tavolo. Gli posò una mano sulle spalle, ma Clarendon non disse una parola e non girò neanche la testa. Continuò a leggere imperterrito, e allora Georgina, sbirciando incuriosita sopra la sua spalla, si domandò in quale misterioso alfabeto era scritto quel volume dalla rilegatura d'ottone. Un quarto d'ora più tardi, sedendo sola nella penombra del grande salotto, Georgina prese una decisione. Qualcosa non andava per il verso giusto - ma cosa, di preciso, e fino a qual punto, non aveva il coraggio di immaginarlo - ed era tempo di chiedere l'aiuto di una persona più forte. Naturalmente stava pensando a James. Era forte e capace, e l'amore che le por-
tava le avrebbe suggerito la cosa più giusta da fare. Lui conosceva Alf da una vita e avrebbe capito. Sebbene avesse aspettato troppo a lungo, Georgina era risoluta ad agire. Dall'atrio vide che la luce in biblioteca era ancora accesa; con il cuore gonfio di tristezza, indossò un cappellino e uscì senza far rumore. Oltre il parco vietato a tutti, c'erano solo pochi passi per raggiungere Jackson Street. Georgina ebbe la fortuna di trovare una carrozza libera che la condusse all'ufficio telegrafico della Western Union. Scrisse in fretta un messaggio per James Dalton, a Sacramento, implorandolo di tornare immediatamente a San Francisco per una faccenda della massima importanza per tutti loro. 5 Dalton fu sconcertato dall'improvviso telegramma di Georgina. Non aveva più avuto notizie dei Clarendon da quella burrascosa sera di febbraio in cui Alfred gli aveva intimato di non mettere più piede in casa sua. Dalton, per parte sua, si era ben guardato dal rifarsi vivo, anche quando avrebbe desiderato comunicare al medico la propria solidarietà dopo il brusco licenziamento. Aveva combattuto duramente per far fallire il piano dei politicanti e conservare il diritto di effettuare le nomine, ed era stato amaramente dispiaciuto di assistere al defenestramento di un uomo che, a dispetto degli screzi recenti, rappresentava ancora ai suoi occhi l'ideale supremo dello scienziato di genio. Adesso, di fronte a quell'accorata richiesta di aiuto, non poteva immaginare cosa fosse successo. Sapeva tuttavia che Georgina non era donna da lasciarsi prendere dall'isteria o da invocare soccorso per futili motivi; ragion per cui non perse tempo e prese l'"Overland" che partiva da Sacramento un'ora dopo. Non appena giunse a San Francisco, andò al suo club e inviò una persona di fiducia da Georgina, perché la avvertisse che il governatore si trovava in città ed era a sua disposizione. Nel frattempo, a casa Clarendon non s'erano verificati fatti nuovi, sebbene il dottore si fosse chiuso in un impenetrabile silenzio, rifiutandosi di dare notizie delle condizioni di Dick. Le ombre del male sembravano addensarsi, simili alla bonacca prima della tempesta. Georgina fu enormemente sollevata nel ricevere il messaggio di Dalton, sentendosi rassicurata dalla sua vicinanza. Gli mandò a dire che l'avrebbe fatto chiamare quando ne avesse avuto bisogno. Nonostante la tensione crescente, parve manifestarsi qualche fievole elemento compensatore, e Georgina alla fine Capì che era
dovuto alla scomparsa degli snelli tibetani, i cui modi ambigui e furtivi e l'inquietante aspetto esotico l'avevano sempre infastidita. Erano svaniti all'improvviso; e la vecchia Margarita, che sembrava essere l'unica domestica rimasta in quella casa, le disse che stavano aiutando il loro padrone e Surama nel laboratorio. La mattina dopo - era il 28 maggio, giorno che sarebbe stato memorabile - il cielo era cupo e coperto, e Georgina avvertì la tempesta che si avvicinava. Non aveva neanche visto il fratello, ma sapeva che stava lavorando duramente in laboratorio, a dispetto della mancanza di esemplari che egli aveva deplorato. Si chiese cosa ne fosse stato del povero Tsanpo, e se l'avessero sottoposto a qualche micidiale inoculazione; ma dovette confessare a se stessa che era molto più preoccupata per Dick. Ardeva dal desiderio di sapere se Surama aveva fatto qualcosa per il fedele cane, vista la strana indifferenza del padrone. L'apparente sollecitudine di Surama la notte in cui Dick era stato colto dalla febbre l'aveva molto colpita, inducendola a considerarlo, per la. prima volta dacché conosceva il detestabile braccio destro del fratello, con un sentimento simile all'affetto. Adesso, col trascorrere delle ore, scoprì di pensare sempre più a Dick; finché i suoi nervi ipertesi, di fronte a quel particolare che costituiva una sorta di simbolico riepilogo dell'orrore sospeso sulla casa, non furono più in grado di sopportare oltre quell'angoscia. Fino ad allora si era sempre scrupolosamente conformata al categorico divieto di Alfred di non avvicinarsi mai al laboratorio e tanto meno di entrarvi, disturbandolo mentre lavorava; e tuttavia, inoltrandosi il fatidico pomeriggio, la determinazione di Georgina di infrangere quel divieto divenne sempre più forte. Finalmente, chiamato a raccolta tutto il suo coraggio, attraversò con aria decisa il parco ed entrò nel vestibolo dell'edificio proibito, fermamente intenzionata di scoprire cosa ne fosse stato del cane o di conoscere il perché della segretezza del fratello. La porta interna, come sempre, era chiusa a chiave; ma udì delle voci concitate discutere animatamente oltre l'uscio sbarrato. Poiché il suo bussare non otteneva risposta, afferrò la maniglia scuotendola con tutta la sua forza per produrre il maggior baccano possibile, ma le voci continuarono a discutere imperterrite. Naturalmente, appartenevano a Surama e a suo fratello, e, mentre se ne stava lì, cercando di richiamare la loro attenzione, non poté non cogliere dei frammenti di quella conversazione. Per la seconda volta il fato la costringeva ad origliare, e quello che udì pareva fatto apposta per sconvolgere nuovamente il suo equilibrio mentale e il sistema
nervoso oltre ogni limite. Alfred e Surama stavano discutendo con violenza crescente, e il tenore di quei discorsi bastava a suscitare terrori selvaggi e a confermare i suoi sospetti più terribili. Georgina rabbrividì quando la voce del fratello crebbe fino a un tono altissimo, fanatico. «Tu, maledetto... tu sei proprio il più adatto a predicare moderazione, a parlare di sconfitta! Chi ha dato inizio a tutto ciò, d'altra parte? Io non avevo la più pallida idea dei tuoi dannati dèi-diavoli e del mondo degli Antichi! Io non avevo mai pensato in vita mia ai tuoi stramaledetti spazi di là dalle stelle e a quel tuo caos strisciante, Nyarlathotep! Ero un comunissimo scienziato, dannazione a te, finché non sono stato tanto sciocco da tirarti fuori dalle tue cripte, te e i tuoi diabolici segreti d'Atlantide. Tu mi hai istigato, e adesso vuoi tagliarmi fuori! Ti ciondoli in giro senza far niente e mi dici di andarci piano, invece di uscire e procurarmi il materiale. Lo sai bene, maledetto, che non so come trattare simili cose, mentre tu ne eri già pratico prima che si formasse la Terra. È degno di te, dannato cadavere ambulante, cominciare qualcosa che non vuoi o non puoi finire!» Georgina udì il maligno cachinno di Surama. «Sei pazzo, Clarendon. Questa è l'unica ragione per cui ti permetto di dire simili spropositi invece di spedirti all'inferno in tre minuti. Quando è troppo, è troppo, e tu hai già avuto per le mani materiale più che bastante per un novizio del tuo livello. E, in ogni modo, non aspettarti più niente da me! Adesso sei soltanto un maniaco... che cosa folle e assurda sacrificare anche il cane della tua povera sorella, quanto avresti potuto benissimo risparmiarlo! Non puoi più guardare nessun essere vivente senza desiderare di conficcargli in corpo quella tua siringa d'oro. No... Dick doveva finire nello stesso posto dov'è finito il ragazzo messicano... Tsanpo e gli altri sette... dove sono finiti tutti gli animali! Che alunno! Non sei più spassoso... hai perso il controllo. Volevi controllare le cose, e sono le cose a controllare te. Ho chiuso con te, Clarendon. Avevo pensato tu avessi stoffa, ma non è così. È tempo che provi con qualcun altro. Ho paura che dovrai andartene!» Il dottore urlò una risposta in cui si mescolavano paura e parossismo. «Bada a te...! Vi sono poteri che si oppongono efficacemente ai tuoi... Non sono andato fino in Cina per niente, e ci sono cose nell'Azif di Alhazred sconosciute all'antica Atlantide! Entrambi abbiamo avuto a che fare con cose pericolose, ma non pensare di conoscere tutte le mie risorse. Che mi dici della Nemesi di Fuoco? Nello Yemen ho avuto modo di parlare con un vecchio che era uscito vivo dal Deserto Scarlatto... aveva visto I-
rem, dalle mille colonne, e partecipato ai rituali nei templi sotterranei di Nug e di Yeb... Iä! Shub-Niggurath!» Il beffardo e chioccio cachinno di Surama sovrastò la voce in falsetto di Clarendon. «Taci, idiota! Pensi che le tue grottesche sciocchezze mi impressionino? Parole e formule... parole e formule... che significato possono avere per chi ne domina la sostanza? Adesso ci troviamo in una dimensione materiale, soggetta alle leggi della materia. Tu hai la tua febbre, io il mio revolver. Non avrai altri esemplari e io non prenderò febbri di sorta finché fra noi due ci sarà questo revolver!» Questo fu tutto ciò che Georgina poté udire. Sentì che stava per svenire, e uscì vacillando dal vestibolo in cerca d'aria pulita sotto il cielo nuvoloso. Si rese conto che era giunto il momento critico, alla fine, e che doveva chiedere aiuto immediatamente se voleva strappare la vita del fratello a ignoti abissi di follia e di mistero. Chiamando a raccolta tutta l'energia che le era rimasta, barcollando raggiunse la casa ed entrò subito in biblioteca, dove scarabocchiò un conciso e frenetico messaggio, dandolo a Margarita perché lo recapitasse immediatamente a James Dalton. Quando l'anziana domestica se ne fu andata, Georgina riuscì a stento a raggiungere il divano lasciandovisi cadere semisvenuta. Giacque lì per un tempo che le sembrò interminabile, consapevole soltanto della fantastica discesa del crepuscolo che allungava le ombre nella grande stanza tetra popolata di mille visioni da incubo che trascorrevano spettrali nella sua mente torturata. Il crepuscolo si cangiò in oscurità e l'allucinante fantasmagoria continuava. Poi un passo deciso risonò nell'ingresso, e Georgina udì qualcuno che entrava nella stanza buia, armeggiando con una scatola di fiammiferi. Il suo cuore smise quasi di battere, mentre, con un sibilo, si accendevano le fiammelle sui beccucci delle lampade a gas; ma poi vide che il nuovo arrivato era suo fratello. Indicibilmente sollevata constatando che era ancora vivo, si lasciò sfuggire un lungo, tremulo e profondo sospiro, e scivolò infine in un pietoso oblio. Al suono di quel sospiro, Clarendon si volse allarmato verso il divano, e rimase sconvolto vedendo la figura pallida e immobile della sorella. Il suo volto pareva quello di una morta, e ne fu tremendamente scosso; corse accanto al divano, e si inginocchiò, rendendosi conto cosa avrebbe significato per lui la dipartita di Georgina. L'inesausta ricerca della verità lo aveva disabituato ormai da molto tempo all'esercizio della professione, e aveva perduto quella prontezza di riflessi del medico che presta le prime cure nei
casi di pronto soccorso; sicché si limitò a chiamarla per nome, massaggiandole meccanicamente i polsi in preda all'ansia e alla paura. Poi gli venne in mente l'acqua, e corse in salotto a prenderne una caraffa. Brancicando nell'oscurità che sembrava popolata di vaghi terrori, perse un po' di tempo cercandola; ma alla fine trovò la caraffa, afferrandola con mani tremanti, e si affrettò a spruzzare il volto di Georgina con il liquido freddo. Sistema rozzo ma efficace: la donna, infatti, si agitò, sospirò una seconda volta e finalmente spalancò gli occhi. «Sei viva!» gridò, sfregando la guancia contro quella della sorella, che gli accarezzò il capo con un gesto materno. Era quasi contenta di aver perso i sensi, perché quel fatto sembrava aver cancellato lo strano Alfred degli ultimi tempi, riportando alla luce l'antica personalità del fratello. Si tirò su a sedere e, parlando con lentezza, cercò di rassicurarlo. «Va tutto bene, Al. Mi basta un bicchier d'acqua. È un peccato sprecarla così... inoltre mi hai inzuppato il vestito. Ti sembra il modo di comportati se tua sorella si distende per schiacciare un sonnellino? Non credere stia male, non ho tempo per simili sciocchezze!» Capì, dallo sguardo di Alfred, che le sue parole tranquille e prosaiche avevano sortito l'effetto voluto. La paura del fratello svanì in un istante, e sul suo volto apparve un'espressione indefinita, vagamente assorta, come se stesse considerando qualche imprevista e meravigliosa possibilità. Mentre osservava l'alternarsi di sfumature astute e compiaciute nei lineamenti di Clarendon, si pentì di averlo rassicurato, rendendosi conto che non era stato molto saggio, e prima che egli parlasse scoprì di rabbrividire senza sapere perché. Il suo acuto istinto clinico le diceva che il momento di lucidità era passato, e che egli era tornato lo scienziato spietatamente fanatico di sempre. V'era qualcosa di morboso nel modo in cui aveva socchiuso gli occhi quando lei gli aveva detto che stava bene. Cosa stava almanaccando? A quali mostruosi estremi lo stava spingendo il suo ardente zelo scientifico? Aveva un qualche particolare significato, agli occhi di Alfred, la purezza del suo sangue e le sue perfette condizioni fisiche? Ma quei pensieri inquietanti dileguarono in un attimo, e fu con ingenua spontaneità che porse il polso al fratello, che ne controllò le pulsazioni con dita sicure. «Hai qualche linea di febbre, Georgie» le disse con voce volutamente neutra, mentre la guardava negli occhi con aria professionale. «Sciocchezze, sto benone!» rispose. «Si direbbe che vai cercando malati di febbre per amor di vanità, volendo esibire la tua scoperta! Sarebbe poetico se tu potessi darne la dimostrazione definitiva curando la tua stessa so-
rella!» Clarendon sussultò violentemente con espressione colpevole. Lei dunque sospettava? Aveva forse borbottato qualcosa a voce troppo alta? La studiò con attenzione e capì che Georgina non aveva la più pallida idea delle sue vere intenzioni. Gli sorrise dolcemente, accarezzandogli la mano. Allora Clarendon tirò fuori dal taschino del gilè un piccolo astuccio di cuoio, ne tolse la siringa d'oro, e cominciò a toccarla pensoso, spingendo avanti e indietro lo stantuffo nel cilindro vuoto. «Mi domando» soggiunse con tono innocente e soave «se vuoi davvero aiutare la scienza... qualcosa di questo genere... se ce ne fosse bisogno. Saresti capace di sacrificare te stessa alla causa della medicina, sorta di novella figlia di Jefte, sapendo che ciò significherebbe lo splendido coronamento del mio lavoro?» Georgina, cogliendo lo strano e inequivocabile scintillio negli occhi del fratello, si rese conto che i suoi peggiori timori stavano diventando realtà. Non poteva fare altro che cercare di tenerlo calmo a tutti ì costi, e pregare che Margarita avesse trovato James Dalton al suo club. «Mi sembri affaticato, Al caro» disse quietamente. «Perché non prendi un po' di morfina e cerchi di dormire? Ti farebbe un gran bene.» Egli replicò con una specie di astuta accondiscendenza. «Sì, sono veramente stanco, e tu pure. Entrambi abbiamo bisogno di un buon sonno. La morfina è quel che ci vuole... aspetta un attimo, vado a riempire la siringa, poi ne prenderemo una dose tutt'e due». Uscì silenziosamente dalla stanza, stringendo la siringa. Georgina si guardò intorno in preda alla disperazione, con gli orecchi tesi a cogliere ogni più piccolo rumore che indicasse l'arrivo del soccorso sperato. Le parve di udire Margarita nella cucina del seminterrato, e si alzò dal divano per suonare il campanello, bramando sapere se il suo messaggio era giunto a destinazione. L'anziana domestica comparve poco dopo, e dichiarò di aver lasciato il biglietto al club qualche ora prima. Il governatore Dalton non c'era, ma il portiere aveva promesso di farglielo avere al suo rientro. Margarita ridiscese ciabattando la scala, ma Clarendon non era ricomparso. Cosa stava combinando? Aveva sentito sbattere la porta d'ingresso, quindi capì che doveva aver raggiunto il laboratorio. S'era forse scordato del suo truce proposito perché ormai la sua mente vacillava come quella d'un pazzo? Georgina era sempre più tesa e stravolta, e fu costretta a serrare forte le mascelle per non mettersi a urlare. Finalmente la tensione intollerabile fu rotta dal suono del campanello
che squillò contemporaneamente nella casa e in laboratorio. Udì i passi felpati di Surama sulla ghiaia del viale, quando uscì dal laboratorio per andare ad aprire il cancello; e poi, con un sospiro di sollievo quasi isterico, le giunse agli orecchi la voce ferma e decisa di Dalton che parlava con il sinistro factotum. Si alzò e quansi correndo gli andò incontro quando la sua alta figura comparve sull'uscio della biblioteca; per qualche istante non fu pronunciata una parola, mentre Dalton le baciava la mano con quel suo gesto fuori moda e quasi cavalieresco. Solo allora l'angoscia di Georgina si sfogò in un torrente di affannose spiegazioni, raccontandogli tutto quel che era successo, che aveva visto e sentito, paventato e sospettato. Dalton l'ascoltò gravemente e con comprensione; e l'iniziale stupore cedette il passo gradatamente a sbalordimento, rincrescimento e fermezza. Il messaggio, finito nelle mani di un portiere distratto, gli era stato consegnato in ritardo, e, per una singolare coincidenza, l'aveva ricevuto proprio mentre stava discutendo accaloratamente dello stesso Clarendon. Un altro socio del club, il dottor MacNeil, aveva portato una rivista medica contenente un articolo studiato apposta per provocare il devoto scienziato, e Dalton gli aveva appena domandato la rivista per conservarla quando gli era stato recapitato il biglietto. Rinunciando a mettere a parte il dottor MacNeil della sua opinione su Alfred, aveva chiesto immediatamente a un cameriere di portargli cappello e bastone, e, senza perdere tempo, aveva raggiunto villa Clarendon in carrozza. Gli era parso che Surama s'allarmasse, riconoscendolo; sebbeme sogghignasse come sempre, incamminandosi verso il laboratorio. Dalton avrebbe ricordato per tutta la vita il caratteristico cachinno di Surama in quella notte fatale, perché non avrebbe rivisto mai più quell'essere. Mentre scompariva nel vestibolo del laboratorio, la sua risata profonda e gorgogliante parve confondersi con i sordi brontolii del tuono che squassava il lontano orizzonte. Quando Dalton ebbe ascoltato tutto ciò che Georgina doveva dirgli e venne a sapere che Alfred poteva comparire da un momento all'altro con una siringa piena di morfina, decise che era meglio parlare a quattr'occhi con il dottore. Disse a Georgina di ritirarsi in camera sua ad attendere gli sviluppi della situazione, ed egli cominciò a misurare a lunghi passi la biblioteca, osservando gli scaffali, e aspettando di udire lo scalpiccio del passo nervoso di Clarendon sul vialetto che conduceva al laboratorio. Sebbene le lampade a gas fossero accese, gli angoli della cupa stanza erano immersi nell'oscurità, e più Dalton osservava i titoli della raccolta di libri
dell'amico, meno gli piacevano. Quella non era la comune biblioteca di un normale medico, biologo o uomo di cultura. C'erano troppi volumi di soggetto dubbio e poco ortodosso: tenebrose speculazioni e proibiti rituali medievali, arcani esotici in alfabeti alieni noti e sconosciuti. Anche il grosso quaderno degli appunti sul tavolo aveva qualcosa di malsano. La calligrafia rivelava un temperamento nevrotico, e il tono delle note era tutt'altro che rassicurante. Clarendon riconobbe lunghi passi quasi illeggibili in greco antico, e allorché attinse al proprio bagaglio di nozioni linguistiche per tradurli ebbe un moto di stizza, e desiderò di aver penato con più coscienza su Senofonte e Omero ai tempi dell'università. C'era qualcosa di malsano... di spaventosamente malsano..., e il governatore si lasciò cadere sulla seggiola accanto al tavolo, mentre esaminava sempre più attentamente il barbaro greco del medico. Poi udì un rumore, sorprendentemente vicino, e sussultò nervosamente quando una mano gli si posò all'improvviso sulla spalla. «Posso chiedere la ragione di questa intrusione? Avresti dovuto dire a Surama il motivo della tua visita.» Clarendon, in piedi accanto alla sedia, lo fissava freddamente, stringendo la piccola siringa d'oro. Sembrava molto tranquillo e in sé, e per un istante Dalton pensò che Georgina avesse esagerato le condizioni del suo stato di salute mentale. E inoltre, dato il suo greco arrugginito, come poteva essere assolutamente sicuro del tenore di quegli appunti? Il governatore decise di andare coi piedi di piombo nel corso di quel colloquio, e fu grato alla sua buona stella per avergli fornito un eccellente pretesto, che custodiva nella tasca della giacca. Era freddo e sicuro quando si alzò per rispondere. «Immagino tu non gradisca parlare di certi argomenti in presenza di un subordinato, ma ho pensato che dovevi vedere subito questo articolo.» Tirò fuori di tasca la rivista datagli dal dottor MacNeil e la porse a Clarendon. «A pagina 542... vedi il titolo? "La febbre nera debellata da un nuovo siero." È del dottor Miller di Filadelfia e... dice di aver trovato prima di te la cura adatta. Ne stavano discutendo al mio club, e Mac-Nail giudicava molto convincenti le argomentazioni di questo medico. Essendo avvocato, io non potevo certo pretendere di trinciare giudizi. Ma, in ogni modo, ho pensato che non dovevi perdere l'opportunità di esaminare adesso l'articolo, poiché è appena stato pubblicato. Naturalmente, se sei occupato, tolgo subito il disturbo...»
Clarendon tagliò corto bruscamente. «Devo fare un'iniezione a mia sorella - non sta troppo bene - e dopo darò un'occhiata a ciò che ha da dire quel medicastro. Conosco Miller - un dannato plagiario e un incompetente - anche se dubito abbia tanto cervello da copiare i miei metodi basandosi sul poco che ha potuto vedere quando è venuto a San Quentin.» Dalton ebbe un'improvvisa premonizione e sentì che Georgina non doveva farsi praticare quell'iniezione. C'era qualcosa di torbido in quella faccenda. A quanto lei gli aveva detto, Alfred s'era dilungato troppo nel prepararlo, molto più di quanto occorresse per far sciogliere una compressa di morfina. Decise di trattenere Clarendon con un pretesto, per guadagnar tempo e tentare di capire le sue intenzioni. «Mi spiace che Georgina non si senta bene. Sei sicuro che l'inizione le gioverà? Non le farà male?» Clarendon sobbalzò, dimostrando che l'osservazione aveva colto nel segno. «Farle male?» gridò. «Non dire sciocchezze! Sai che Georgina deve godere di ottima salute - deve essere in forma perfetta, direi - per rendersi utile alla causa della scienza, come è dovere di un Clarendon. Lei, almeno, è contenta di essere mia sorella, in questo senso. Ritiene che nessun sacrificio sia troppo grande, quando si tratta di suo fratello. È una vestale della verità e della scienza, come io ne sono il sacerdote.» Tacque, respirando affannosamente, negli occhi una luce selvaggia. Dalton capì d'essere riuscito, momentaneamente, a distrarlo dal suo proposito. «Ma voglio proprio vedere cos'ha da dire quel dannato medicastro» continuò, riprendendo fiato. «Se crede che la sua retorica pseudoscientifica possa gabellare un vero medico, è ancora più idiota di quanto supponessi!» Clarendon sfogliò nervosamente la rivista, cercando la pagina indicatagli dal governatore, e quando la trovò cominciò a leggere, continuando a stringere la siringa. Dalton si domandava come stessero davvero le cose. MacNeil gli aveva assicurato che l'autore dell'articolo era un grande patologo e che, a prescindere da eventuali errori in esso contenuti, l'uomo che lo aveva scritto era uno scienziato competente, preparato, la cui onestà e sincerità erano fuori discussione. Osservando Clarendon mentre leggeva, Dalton vide che il suo volto pallido, incorniciato dalla barba, sbiancava. I grandi occhi lampeggiavano e le pagine crocchiavano nella presa convulsa delle lunghe dita sottili. L'alta fronte, bianca come l'avorio, era madida di sudore, dove l'attacatura dei
capelli cominciava a diradarsi, e qualche istante dopo il medico si lasciò cadere stravolto sulla sedia lasciata libera dal visitatore. Poi gettò un grido selvaggio, come una belva in trappola, e barcollando in avanti spazzò via dal tavolo con le braccia protese libri e carte, prima che la sua coscienza si appannasse come la fiammella d'una candela spenta dal vento. Dalton si precipitò ad aiutare l'amico e lo risollevò contro lo schienale della sedia. Notando la caraffa sul pavimento, accanto al divano, l'agguantò, spruzzando quindi il volto contratto; i grandi occhi si aprirono lentamente. Erano gli occhi di una persona lucida, adesso, profondi, tristi, e inequivocabilmente specchio d'un ritrovato equilibrio mentale. Dalton provò un senso di sgomento in presenza di una tragedia di cui mai avrebbe potuto sperare di sondare l'intera portata e profondità. La mano sinistra di Clarendon stringeva ancora la siringa d'oro; egli trasse un profondo respiro, e un brivido lungo lo scosse. Allora aprì le dita e l'oggetto scintillante rotolò sul palmo della sua mano. Poi riprese a parlare, molto lentamente, con l'indicibile malinconia della disperazione più completa. «Grazie, Jimmy, adesso mi sento meglio. Ma c'è ancora molto da fare. Mi hai domandato poco fa se questa dose di morfina avrebbe fatto male a Georgie. Posso assicurarti di no.» Girò una piccola vite della siringa e mise un dito sullo stantuffo, e nello stesso tempo si tirò la pelle del collo con due dita della mano sinistra. Dalton balzò in piedi, allarmato, gettando un grido, mentre Clarendon, con un repentino movimento della mano destra, si iniettava l'intero contenuto del cilindro sotto la pelle tesa. «Mio Dio, Alf, cosa hai fatto?» Clarendon sorrise dolcemente - il suo era un sorriso pacato e rassegnato, ben diverso dal sogghigno beffardo delle ultime settimane. «Dovresti averlo capito, Jimmy, se non s'è spenta la brillante intelligenza che ha fatto di te un governatore. Dovresti esserti fatto un'idea abbastanza precisa, leggendo i miei appunti, tanto da sapere che non mi resta altra scelta. Con i voti che prendevi in greco alla Columbia, suppongo non debba esserti sfuggito nulla. Per parte mia, posso dirti soltanto che è tutto vero. «James, mi sono sempre assunto le mie responsabilità, ma ritengo doveroso tu sappia che è stato Surama a trascinarmi in tutta questa storia. Non saprei dirti chi o che cosa sia, dato che io stesso non lo so bene, e quello che so non è roba per gente con la testa a posto; ma ti dirò che non lo con-
sidero un essere umano, nel senso più pieno del termine, e che non ho capito bene se sia vivo, almeno in base a ciò che noi intendiamo per vita. «Penserai che sto dicendo sciocchezze. Vorrei fosse così, ma tutta questa disgustosa faccenda è spaventosamente vera. Quando ho cominciato il mio lavoro, l'ho fatto con intenzioni oneste e disinteressate: volevo liberare il mondo dalla febbre. Ci ho provato e ho fallito... e ringrazio Dio perché m'è rimasta la sincerità di ammetterlo. Non lasciarti ingannare dalle mie vecchie tirate retoriche sulla scienza, Jimmy... non ho scoperto nessuna antitossina, anzi non sono mai stato neanche lontanamente sulle tracce d'una simile scoperta! «Non fare quella faccia, amico mio! Un vecchio politicante come te ne deve aver viste di tutti i colori. Ti assicuro che non ho mai neppure cominciato ad occuparmi di una cura della febbre. Ma è vero che le mie ricerche mi hanno condotto in strani posti, dove, per mia sfortuna, ho avuto modo di ascoltare storie ancora più strane. James, se mai vorrai bene a qualcuno, digli di tenersi alla larga da certi antichi luoghi appartati della Terra.. Quegli angoli apparentemente tranquilli sono pericolosi... vi sono tramandate cose che non possono fare bene alle persone sane e normali. Ho conferito troppo con vecchi sacerdoti e mistici, ed ho cominciato a sperare di ottenere con sistemi occulti quello che non mi riusciva con mezzi normali. «Non posso spiegarti meglio cosa intendo dire perché, in tal caso, sarei altrettanto maligno di quei vecchi preti che hanno cagionato la mia rovina. Tutto ciò che posso dirti è che, dopo quello che ho imparato, tremo al pensiero del mondo e di quello che potrebbe succedergli, per non parlare di quello che ha già subito. Il mondo è dannatamente antico, James, e interi capitoli della sua vicenda si sono aperti e conclusi prima degli inizi della nostra vita organica e delle ère geologiche ad essa connesse. Pensarci è terribile: interi cicli di evoluizone dimenticati, e con essi creature, razze, scienze e malattie... tutto ciò è trascorso e scomparso ancor prima che l'ameba primordiale cominciasse a nuotare nei mari tropicali, come ci insegna la geologia. «Ho detto "scomparso", ma non mi sono espresso con proprietà: sarebbe stato meglio fosse davvero totalmente "scomparso". Ma non è precisamente così. In certi posti si sono conservate - non saprei proprio dirti come determinate tradizioni, e talune forme di vita arcaiche hanno sfidato gli eoni in luoghi nascosti. C'erano culti, sai, orde di sacerdoti malvagi in terre oggi sommerse dagli oceani... e Atlantide ne fu la culla. Quello era un posto tremendo. Se il cielo è pietoso, quell'orrore non rispunterà mai più dal-
l'abisso. «Ma possedeva molte colonie, e una di queste non sprofondò nell'oceano; e se entri nelle buone grazie di qualche prete Tuareg, in Africa, questi potrà raccontarti cose spaventose, a tale riguardo... storie affini ai sussurri dei folli lama e dei bizzarri conducenti di yak nei segreti altopiani dell'Asia. Avevo ascoltato tutto ciò quando scoprii la cosa che mutò il corso della mia vita. Non saprai mai ciò che fosse... ma aveva a che fare con qualcuno o con qualcosa che discendeva da un tempo abominevolmente lontano, e che poteva essere riportato in vita, o a una parvenza di vita, mediante pratiche che non erano molto chiare neanche all'uomo che me ne parlò. «Ora, James, a dispetto di ciò che ti ho confessato circa la febbre, sai che non sono un cattivo medico. Ho studiato a fondo la medicina e duramente, tanto che forse ne so più di chiunque altro, se laggiù, nello Hoggar, ho fatto qualcosa che nessun prete era mai stato capace di fare. Mi condussero bendato in un posto che era rimasto ermeticamente chiuso per generazioni... e ne sortii con Surama. «Coraggio, James! So cosa vorresti dirmi. Come fa a sapere tutto quello che sa?... perché parla inglese... o qualunque altra lingua... senza nessun accento particolare?... perché accettò di venire con me... e tutto il resto? Non posso spiegarti ogni cosa, ma ti dirò che egli assimila idee, immagini e impressioni mediante qualcosa che non corrisponde propriamente al nostro cervello e ai nostri sensi. Mi serviva per le mie ricerche scientifiche. Mi insegnò molte cose, mi schiuse nuove prospettive. Da lui appresi ad adorare blasfemi e antichi dèi, e mi indicò la strada verso una meta terrificante, cui non oso neanche accennare. Non insistere, Jimmy, è per il tuo bene, per il bene e l'incolumità del mondo intero! «Quella creatura è al di là di ogni limite. È in combutta con le stelle e con tutte le forze della Natura. Non credere ch'io sia ancora fuori di me, James... ti giuro che non è così! Ho visto troppo per dubitare. Egli mi insegnò nuovi piaceri che erano forme del suo culto paleogeno, e il più grande di tutti era la febbre nera. «Dio, James! Non hai ancora capito come stanno le cose? Pensi ancora che la febbre nera si sia diffusa dal Tibet e che io l'abbia scoperta laggiù? Usa il cervello, amico! Guarda qui l'articolo di Miller! Ha scoperto un'antitossina basica che sconfiggerà la febbre entro cinquant'anni, quando altri impareranno come modificarla per renderla efficace contro ogni forma di febbre. Ha infranto il sogno della mia giovinezza, ha fatto ciò che io avrei dato la vita per poter fare, ha mandato all'aria tutti i miei piani! Ti stupisce
che il suo articolo mi abbia fatto perdere le staffe? Ti meraviglia che mi abbia scosso dalla mia follia riportandomi ai vecchi sogni di gioventù? Troppo tardi! Troppo tardi! Ma non per salvare altri! «Ma forse sto divagando, vecchio mio. Sai... l'iniezione. Ti ho chieso se avevi capito come stavano le cose, riguardo la febbre nera. Ma come potevi? Miller non dichiara di aver curato sette casi con il suo siero? Questione di diagnosi, James. Il fatto è che lui crede che si tratti di febbre nera. Lo leggo fra le righe. Qui, vecchio mio, a pagina 551, c'è la chiave di tutta la faccenda. Dagli un'altra occhiata. «Vedi? I casi di febbre della costa del Pacifico non reagiscono al suo siero, con grande sconcerto del dottor Miller. Anzi, non sembravano neanche rientrare nella casistica delle febbri note. Perché quelli erano i miei casi! I veri casi di febbre nera! E non esiste un'antitossina sulla faccia della Terra in grado di curarla! «Come lo so? Perché la febbre nera non è di questa Terra! Viene da un altro luogo, James... e soltanto Surama sa da dove, perché è stato lui a portarla qui. L'ha portata e l'ha diffusa! Ecco il segreto, James! Ecco perché volevo quella nomina... ecco ciò che ho fatto... ho propagato la febbre il cui virus tenevo in questa siringa d'oro e nella siringa ad anello, ancor più letale, che vedi al mio dito indice! La scienza! Una scusa! Volevo uccidere, uccidere, e ancora uccidere. Una semplice pressione del dito, e inoculavo la febbre nera. Volevo vedere esseri viventi fremere e contorcersi, urlare, sbavando. Ecco perché ho conficcato questo maledetto ago in ogni creatura vivente. Animali, delinquenti, bambini, domestici... e poi sarebbe toccato a...» La voce di Clarendon si spezzò, e si abbandonò esausto sullo schienale della sedia. «Questo... questo... era la mia vita, James. Surama l'ha ridotta così... lui mi ha insegnato, inducendomi a continuare finché non ho più potuto fermarmi. Allora... allora è stato troppo perfino per lui. Ha cercato di fermarmi. Pensa... lui che cerca di fermare me! Ma adesso ho trovato l'ultimo soggetto. È il mio ultimo esperimento. Un ottimo soggetto, James. Sono sano... dannatamente sano. E che diabolica ironia... adesso la pazzia se ne è andata, così non sarà divertente assistere alla mia stessa agonia! Non... è possibile...» Un violento brivido scosse Clarendon, e Dalton, sebbene inorridito, lo compianse. Non sapeva quanto fosse puro delirio e quanto spaventosamente vero nel racconto di Alfred; ma, in ogni caso, sentiva che il medico era
una vittima piuttosto che un criminale, e, soprattutto, un amico d'infanzia e il fratello di Georgina. Come in un caleidoscopio rivide immagini dei vecchi tempi. "Il piccolo Alf", il cortile a Phillips Exter, il piazzale della Columbia, la baruffa con Tom Cortland quando aveva salvato Al da un pestaggio... Aiutò Clarendon a distendersi sul divano e gli chiese dolcemente cosa potesse fare. Nulla. Alfred ormai riusciva soltanto a bisbigliare, ma gli chiese scusa di averlo offeso, e affidò la sorella alle cure dell'amico. «Tu... tu la farai felice» sussurrò. «Lo merita. Martire... di un mito! Confortala tu, James. Non... farle sapere... più di quanto sia necessario!» La sua voce si spense in un rantolo, e scivolò nell'incoscienza. Dalton suonò il campanello, ma Margarita si era già ritirata per la notte, così chiamò Georgina dalle scale. Le discese con passo sicuro, ma era pallidissima. Il grido di Alfred l'aveva profondamente turbata, ma aveva fiducia in James. Ne ebbe ancora quando lui le indicò la figura priva di sensi distesa sul divano e le consigliò di tornare in camera sua e di restarci, qualunque cosa potesse sentire. Non voleva che lei assistesse alla scena spaventosa del prossimo delirio del fratello, ma le permise di dare un bacio d'addio ad Alfred che giaceva calmo e immobile, come il ragazzo delicato che era stato un tempo. E Georgina lo lasciò così - il bizzarro genio lunatico che leggeva nelle stelle e che tanto a lungo aveva accudito con materne premure, e si allontanò serbando di lui un'immagine dolcissima. Dalton, invece, avrebbe ricordato fino alla morte un'immagine ben più terribile. Poco dopo, infatti, lo scienziato cadde in delirio, e nelle ore più buie della notte il governatore lottò con tutta la sua enorme forza per frenare le contorsioni frenetiche del folle in agonia. Mai ripeterà ciò che udì bisbigliare da quelle labbra nere e gonfie. Da allora non è più stato lo stesso, e sa che chi ascolta simili cose non può restare quello di prima. Perciò, per il bene del mondo, non osa parlare, e ringrazia Iddio che la sua ignoranza, in quanto uomo di legge, di certi argomenti gli abbia impedito una piena comprensione di quelle rivelazioni enigmatiche e sconnesse. Sul far dell'alba, Clarendon tornò improvvisamente lucido e cominciò a parlare con voce ferma. «James, non ti ho ancora detto cosa dev'essere fatto... Cancella i miei appunti in greco e fai avere il mio quaderno al dottor Miller, unitamente a tutte le altre annotazioni che troverai nello schedario. Oggi è lui la maggior autorità vivente... il suo articolo lo dimostra. Quel tuo amico, al club, aveva ragione.
«Ma tutto ciò che contiene il laboratorio deve venire distrutto. Ogni cosa, senza eccezione, morta o viva... o altrimenti. Nelle provette sugli scaffali ci sono tutte le pestilenze dell'inferno. Brucia... brucia tutto. Se si salva qualcosa, Surama spargerà la morte nera sul mondo. E soprattutto brucia Surama! Quel... quella cosa... non deve respirare l'aria pura della terra. Adesso sai... quel che ti ho detto... sai perché un simile essere non deve continuare a contaminare questo mondo. Non sarà un delitto... Surama non è umano... se sei sempre generoso come un tempo, James, non occorre insista. Ricorda il vecchio versetto... "Tu non lascerai che una strega viva"... o qualcosa di simile. «Brucialo, James! Non lasciare che sogghigni ancora dei patimenti della carne! Ti dico: brucialo!... la Nemesi di Fuoco è la sola cosa che possa distruggerlo, James, se non riesci a sorprenderlo nel sonno e a piantargli un paletto nel cuore... Uccidilo... estirpalo... libera il mondo da quel primordiale abominio che io ho risvegliato dal suo sonno plurimillenario...» Clarendon si era sollevato, appoggiandosi al gomito, e verso la fine la sua voce divenne un grido penetrante. Lo sforzo era stato troppo grande e all'improvviso scivolò nuovamente in un coma profondo e sereno. Dalton, che non temeva la febbre, perché sapeva che non era contagiosa, compose le braccia e le gambe di Alfred sul divano e ne coprì la gracile figura con un leggero tappeto afgano. Dopo tutto, gran parte di quel che aveva detto non poteva essere frutto del delirio? Forse il vecchio dottor MacNail avrebbe potuto curarlo. Il governatore lottò per restare sveglio, passeggiando nervosamente su e giù nella stanza, ma anch'egli aveva preteso troppo dal proprio fisico. Bastò un istante di riposo sulla seggiola accanto al tavolo per aver ragione del suo fermo proposito, e s'addormentò quasi subito. Lo svegliò una forte luce che gli colpiva gli occhi, e per un attimo pensò che albeggiasse. Ma non era così, e mentre si strofinava gli occhi gonfi, vide che il laboratorio nel parco era in fiamme e ardeva furiosamente nel più bell'incendio che avesse mai visto. Forse si trattava della Nemesi di Fuoco invocata da Clarendon, e Dalton pensò che l'incendio era troppo intenso per essere stato provocato da normali combustibili, quali il legno di pino o di quercia. Gettò uno sguardo allarmato in direzione del divano, ma Alfred era scomparso. Si alzò per andare a chiamare Georgina, ma la incontrò nel corridoio, risvegliata da quelle fiamme insolitamente vivide. «Il laboratorio va a fuoco!» gridò. «Come sta Al?» «È sparito... sparito mentre dormivo!» rispose Dalton, allungando un braccio per sorreggere Georgina che stava per svenire.
La riaccompagnò in camera sua, promettendole di mettersi subito a cercare Alfred, ma Georgina scosse la testa lentamente, mentre le fiamme gettavano bagliori fantastici attraverso la finestra del pianerottolo. «Dev'essere morto, James... Non avrebbe potuto continuare a vivere sapendo quello che sapeva. L'ho sentito discutere animatamente con Surama, e ho capito che stavano succedendo cose spaventose. È mio fratello, ma... è meglio così.» La sua voce si spense in un bisbiglio. Improvvisamente, dalla finestra aperta, giunse il suono di un odioso cachinno, e le fiamme, divampando con sempre maggior intensità, assunsero inquietanti formi ciclopiche di creature d'incubo. James e Georgina si fermarono esitanti, e si affacciarono ansimando alla finestra del pianerottolo. In quell'istante un fulmine si scatenò dal cielo, colpendo in pieno il centro dell'edificio fiammeggiante. La risata agghiacciata morì, sostituita da un ululato infernale che sembrava prorompere da mille ghoul e lupi mannari torturati. Si spense in lontananza in echi riverberanti, e lentamente le fiamme riassunsero un aspetto normale. James e Georgina rimasero immobili alla finestra, aspettando finché la colonna di fuoco si ridusse a un cumulo di braci ardenti. Erano contenti che, sorgendo la casa all'estrema periferia, quasi in aperta campagna, non fossero accorsi i pompieri, e che l'alto muro di cinta impedisse ogni vista ai curiosi. Quel che era accaduto non era spettacolo per gente normale: vi erano implicati troppi arcani dell'universo. Nell'alba livida, James parlò dolcemente a Georgina, che si limitò ad appoggiargli la testa sul petto, singhiozzando. «Cara, credo che abbia pagato i suoi sbagli. Deve essere stato lui ad appiccare il fuoco, mentre io dormivo. Mi disse che bisognava bruciare tutto... il laboratorio e ogni altra cosa, incluso Surama. Era l'unico modo per salvare il mondo dagli orrori senza nome che aveva scatenato. Perciò ha fatto quello che riteneva il suo dovere. «Era un grand'uomo, Georgie, non dimentichiamocene. Dovremo essere sempre fieri di lui, perché il suo scopo originario era di rendersi utile all'umanità, ed è stato titanico anche nel peccato. Un giorno ti dirò di più. Ciò che ha fatto, nel bene e nel male, non era mai stato tentato da nessun altro, prima di lui. È stato il primo e l'ultimo a strappare certi veli, e non è secondo neanche ad Apollonio di Tiana. Ma è meglio non parlarne. Dobbiamo ricordare soltanto il piccolo Alf che ci era caro... il ragazzino che voleva dominare la medicina e debellare la febbre.»
Nel pomeriggio, i pompieri esaminarono i resti del laboratorio e trovarono due scheletri anneriti, soltanto due... grazie alla fossa di calce viva che non pensarono certo di sondare. Uno era d'un uomo; quanto all'altro, esso è tuttora oggetto di accese discussioni fra i biologi della costa occidentale. Non era propriamente uno scheletro di scimmia o di sauro, ma suggeriva inquietanti ipotesi di linee evolutive di cui la paleontologia non ha trovato altre tracce. Il cranio carbonizzato, molto stranamente, era molto umano e ricordava quello di Surama; ma il rimanente scheletro era al di là di ogni congettura. Soltanto abiti estremamente ben tagliati e fatti su misura avevano potuto farlo sembrare il corpo di un uomo. Le ossa umane erano di Clarendon. Non vi fu dubbio alcuno, al riguardo, e tutto il mondo continua a rimpiangere la prematura dipartita del più grande medico dell'epoca, il batteriologo il cui siero polivalente contro la febbre avrebbe oscurato l'antitossina del dottor Miller, se fosse vissuto abbastanza da perfezionarlo. E si pensa, infatti, che gran parte del successivo successo di Miller sia dovuto alle annotazioni lasciategli dalla sfortunata vittima dell'incendio. Delle invidie e rivalità del passato, nulla sopravvisse; e perfino il dottor Wilfred Jones è stato sentito vantarsi di aver collaborato con l'eminente scienziato scomparso. James Dalton e la moglie Georgina hanno sempre mantenuto un riserbo dettato dalla discrezione e dal dolore. Pubblicarono certe annotazioni quale omaggio alla memoria del grand'uomo, eppure mai confermarono o smentirono l'opinione pubblica e i rari accenni a misteriosi prodigi di cui bisbigliarono alcuni ricercatori. Fu impercettibilmente e molto lentamente che trapelarono quei risvolti del caso Clarendon di cui parlavamo poc'anzi. Con tutta probabilità Dalton accennò qualcosa al dottor MacNeil, e quel brav'uomo non aveva segreti per suo figlio. I Dalton, per il resto, hanno condotto un'esistenza molto felice: i terrori del passato sono stati pressoché dimenticati, e il loro grande e reciproco affetto ha quasi rinnovato il mondo in cui vivono. Eppure vi sono cose che li inquietano stranamente... dettagli che altri non noterebbero neanche. Non sopportano le persone magre o dalla voce troppo profonda, e Georgina impallidisce quanto sente una risata gutturale. Il senatore Dalton nutre un autentico odio per l'occultismo, i viaggi, le siringhe, e alfabeti sconosciuti ch'è impossibile decifrare, e certuni lo rimproverano ancora di aver distrutto con cura scrupolosa la vasta biblioteca del dottore. MacNeil, peraltro, sembrò capire. Era un uomo semplice, e disse una preghiera mentre gli ultimi, misteriosi volumi di Alfred Clarendon si tra-
sformavano in cenere. E chiunque avesse scorso quei libri, comprendendoli, sarebbe stato felice di quella preghiera. (The Last Test, 1927) La maledizione di Yig (con Zealia Brown Bishop) Zealia Brown Reed Bishop era un'aspirante scrittrice sui trent'anni, vedova, che cercava di sfondare nel campo delle riviste popolari. Fornì a Lovecraft lo spunto per tre racconti, e tuttavia si trattava di materiale così esiguo che l'autore di Providence dovette provvedere non solo alla stesura materiale delle storie, ma anche a inventarne lo sfondo mitologico e fantastico. A buon diritto The Curse of Yig, The Mound e Medusa's Coil (tutti ospitati nel presente volume) si possono considerare racconti di Lovecraft al 100%, tanto è vero che egli stesso li raccomandava agli amici invitandoli a non farsi ingannare dal nome dell'autrice. In particolare, per The Curse of Yig Lovecraft disponeva di scarsissimi elementi: una coppia di pionieri, il terrore dei serpenti e l'orribile morte di uno dei due che il veleno dei rettili gonfiava fino al punto da farlo scoppiare. L'invenzione del dio-serpente, l'atmosfera, le motivazioni dei personaggi e la scrittura sono tutta opera del nostro. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S. T. Joshi. Nel 1925 andai in Oklahoma per studiare alcune tradizioni che riguardano i serpenti, e ne riportai un tale spavento che mi basterà per il resto della vita. Ammetto che si tratta di un atteggiamento assurdo, perché esistono spiegazioni razionali per tutto ciò che ho visto e udito, ma ne sono ugualmente schiavo. Fosse solo per le antiche leggende, oggi non sarei così scosso; il mio lavoro di etnologo specializzato nelle culture degli indiani d'America mi ha abituato a ogni sorta di racconti fantastici, e so che anche fra i bianchi la gente semplice è in grado di battere qualunque pellerossa, quando si tratta d'inventare superstizioni. Tuttavia, non posso dimenticare ciò che ho visto con i miei occhi nell'ospedale psichiatrico di Guthrie. Andai all'ospedale perché alcuni tra i più vecchi coloni della regione mi avevano detto che avrei trovato qualcosa di molto interessante, e del resto né gli indiani né i bianchi accettavano di darmi informazioni sulle leggende del dio-serpente di cui mi stavo occupando. Nella regione erano arrivati
di recente molti cercatori di fortuna attratti dal boom petrolifero, ma com'è ovvio non sapevano nulla di vecchie tradizioni; mentre i pellerossa e i vecchi pionieri, quando accettavano di parlare, erano visibilmente spaventati. Non più di cinque o sei persone accennarono al manicomio, e anch'esse a bassa voce, con circospezione. Nonostante questa reticenza venni a sapere che il dottor McNeill era in grado di mostrarmi una prova tremenda e dirmi tutto ciò che volevo sapere. Mi avrebbe spiegato perché Yig, il padre semiumano dei serpenti, sia un essere temuto in tutto l'Oklahoma centrale, al punto che si preferisce non parlarne affatto; e perché i vecchi coloni rabbrividiscano al pensiero delle orge segrete celebrate dagli indiani, quando certi particolari giorni e notti dell'autunno vengono trasformati in orribili ricorrenze, sottolineate dal battito incessante dei tamburi. Per tutte queste ragioni mi recai a Guthrie come un segugio che sente di essere sulla pista buona: da anni raccoglievo informazioni sull'evolversi del culto del serpente fra gli indiani. Da certe sfumature dei vecchi miti e persino da alcuni ritrovamenti archeologici avevo intuito che la figura del grande Quetzalcoatl - benigna divinità ofidica degli antichi abitatori del Messico - era stata ricavata da un più antico e oscuro prototipo. Negli ultimi mesi ero quasi riuscito a dimostrare la mia teoria con una serie di ricerche compiute dal Guatemala alle pianure dell'Oklahoma, ma al tutto mancava la certezza finale, perché a nord del confine il culto del serpente era sepolto sotto innumerevoli strati di paura e reticenza. Ora sembrava che fossi sulle tracce di una nuova e abbondante fonte d'informazioni, e arrivato all'ospedale psichiatrico chiesi del direttore con un'ansia che non cercai di nascondere. Il dottor McNeill era un uomo di età piuttosto avanzata, piccolo e rasato con cura, e dai modi e dal linguaggio che usava mi resi conto che era una persona molto colta, anche al di là della sua professione. Serio e dubbioso quando gli manifestai per la prima volta il mio scopo, si fece sempre più riflessivo ed esaminò con estrema cura le mie credenziali, fra cui la lettera di presentazione che un vecchio e cortese ex-agente del Territorio Indiano mi aveva fornito. «Quindi lei si interessa alla leggenda di Yig, eh?» osservò pensieroso il dottore. «So che molti etnologi locali hanno tentato di metterla in relazione con il culto di Quetzalcoatl, ma credo che nessuno di loro sia riuscito a collegare così bene i passaggi intermedi. Lei ha fatto un lavoro stupendo per un uomo così giovane, e certo merita tutte le informazioni che potrò darle. «Non credo che il vecchio maggiore Moore o gli altri con cui ha parlato
le abbiano detto che cosa ho qui. Preferiscono non discuterne, e del resto neppure io. È una cosa tragica e orribile, ma questo è tutto: mi rifiuto di credere che ci sia di mezzo il soprannaturale. Dopo che glielo avrò mostrato le racconterò la storia che sta dietro a questa faccenda: una brutta storia, e molto triste, ma la magia non c'entra. Dimostra soltanto il potere che la credulità esercita su certa gente... Ammetto che a volte io stesso provo un brivido dello spirito, ma quando splende la luce del giorno mi rendo conto che è tutta colpa dei nervi. Ahimè, non sono più un giovanotto! «Per venire al punto, ciò che voglio mostrarle è quella che si potrebbe definire una vittima della maledizione di Yig: una vittima viva, in carne e ossa. La maggior parte delle infermiere non hanno neppure il permesso di vederla, anche se ovviamente sanno che c'è. Per nutrire la persona in questione, per fare le pulizie nella stanza in cui vive abbiamo due uomini fidati: un tempo erano tre, ma il povero Steven è morto qualche anno fa. Suppongo che presto dovremo sostituire anche gli altri, già vecchi anche loro, perché quella creatura non invecchia e non cambia, mentre noialtri poveracci non possiamo durare in eterno. Forse in futuro l'etica ci consentirà di liberare misericordiosamente quell'essere sventurato, ma per il momento non si possono fare previsioni. «Quando ha attraversato il vialetto d'ingresso, ha visto la grande finestra del seminterrato nell'ala est? È lì che lo teniamo. Ora l'accompagnerò personalmente, non c'è bisogno che lei faccia commenti. Si limiti a guardare dalla finestrella ricavata nella porta e ringrazi il cielo che la stanza è in penombra. Dopo che avrà visto le racconterò la storia, o almeno quello che sono riuscito a mettere insieme.» Scendemmo tranquillamente al piano di sotto, e mentre attraversavamo i corridoi deserti del seminterrato non scambiammo una sola parola; poi il dottor McNeill aprì una porta d'acciaio dipinta in grigio, ma era solo una specie di anticamera che conduceva a un altro breve tratto di corridoio. Finalmente si fermò davanti a una porta contrassegnata dalla sigla B 116, aprì una finestrella d'osservazione da cui poteva guardare solo mettendosi in punta di piedi, e picchiò diverse volte sul metallo dipinto per risvegliare l'occupante, chiunque fosse. Dalla finestrella aleggiò immediatamente un debole puzzo, e a me sembrò che il picchiare sulla porta provocasse una risposta in toni bassi, sibilanti. Finalmente il dottore mi fece segno di sostituirlo al punto d'osservazione, cosa che feci con un tremito immotivato ma crescente. La finestra con le sbarre che si trovava al capo opposto della stanza, praticamente al
livello del suolo, permetteva il filtrare di ben poca luce; dovetti scrutare quella tana maleodorante per diversi secondi prima di individuare la creatura che si contorceva sul pavimento coperto di paglia, emettendo di tanto in tanto un sibilo debole e inutile. Poi il contorno della figura avvolta dalle ombre cominciò a precisarsi, e mi resi conto che la creatura strisciante aveva una vaga somiglianza con un corpo umano appiattito sul ventre, del quale si serviva per spingersi avanti. Afferrai la maniglia della porta e cercai di sostenermi, poiché sentivo che stavo per svenire. Il tronco in movimento aveva dimensioni quasi umane ed era completamente nudo. Del tutto privo di peli, presentava una schiena squamata che nella luce fioca e irreale pareva ancora più sfuggente. La pelle, piuttosto bruna, presentava una quantità di macchie intorno alle spalle, e la testa era bizzarramente appiattita. Quando la sollevò, sibilando nella mia direzione, vidi che i piccoli occhi neri simili a perle erano senz'altro quelli di un uomo, ma non potei reggerli a lungo. Si erano fissati nei miei con orribile insistenza e chiusi la finestrella con un gemito, lasciando che la creatura continuasse a strisciare nella paglia che copriva il pavimento, nella debolissima luce della sua tana e lontana dai miei occhi. Devo aver barcollato, perché vidi che il dottore mi reggeva cortesemente per un braccio e infine mi accompagnò di sopra. Ogni tanto sussurravo: «Per l'amor di Dio, che cos'è?». Il dottor McNeill mi raccontò la storia nel suo ufficio privato, dove potei accomodarmi su un'ottima poltrona di fronte a lui. Il rosso e l'oro del tramonto fecero posto al viola del crepuscolo, ma io continuavo a sedere immobile, senza parole, davanti al mio interlocutore. Trasalivo a ogni squillo del telefono e a ogni ronzio del citofono interno, mentre avrei maledetto le infermiere e gli altri dipendenti dell'ospedale che ogni tanto bussavano alla porta e chiedevano la presenza del dottore, sia pure per poco, nelle altre stanze della direzione. Venne la notte e fui ben lieto che il mio ospite accendesse tutte le luci: benché fossi uno scienziato, il mio zelo di ricercatore era stato travolto da una paura violenta come quella che può provare un ragazzino al quale raccontino storie di streghe intorno al focolare. Sembra che Yig, il dio-serpente adorato dalle tribù delle pianure centrali, sia l'archetipo da cui gli indios meridionali avrebbero tratto le figure di Quetzalcoatl o Kukulcan; che si tratti di un demone bizzarro, semiantropomorfo e dalla natura quanto mai arbitraria e capricciosa. Non del tutto malvagio, di solito è ben disposto verso coloro che onorano lui e i suoi figli, i serpenti; ma in autunno diventa particolarmente vorace e deve
essere scacciato per mezzo di riti appropriati. Per questo i tamburi dei Pawnee, dei Wichita e dei Caddo suonavano incessantemente, e per settimane, nei mesi di agosto, settembre e ottobre; per la stessa ragione gli stregoni delle tribù facevano strani rumori con i sonagli e fischiavano curiosi motivi, come poi avrebbero fatto gli aztechi e i maya. La caratteristica principale di Yig è l'instancabile devozione ai suoi figli: un attaccamento spinto a tal punto che i pellerossa temevano di difendersi dai velenosissimi serpenti a sonagli da cui la regione era infestata. Racconti spaventosi e clandestini parlavano della vendetta del dio-serpente sui mortali che osavano sfidarlo o recavano danno alla famiglia dei rettili; la vendetta preferita consisteva nel trasformare la vittima, dopo opportune torture, in un serpente maculato. Ai vecchi tempi del Territorio Indiano, continuò il dottore, non c'era tanta segretezza sul conto di Yig. Le tribù delle pianure, meno prudenti di quelle nomadi del deserto o dei pueblo, parlavano con una certa libertà delle loro leggende e delle cerimonie che si celebravano in autunno; e attraverso i primi agenti del Corpo Indiano quelle tradizioni si diffusero in tutte le regioni abitate da coloni bianchi. La grande paura arrivò nell'89, ai tempi della corsa per l'accaparramento dei territori vergini; incidenti straordinari erano stati riferiti da più parti, e le voci sembravano provate da prove inoppugnabili, tremende. Gli indiani sostenevano che i bianchi non sapevano come comportarsi con Yig, e dopo gli eventi in questione i coloni impararono ad accettare questa teoria come un dato di fatto. Nell'Oklahoma centrale nessun uomo rosso o bianco, e che non fosse un novellino, si sarebbe lasciato indurre a dire una parola sul dio-serpente, a parte vaghe allusioni; eppure, come il dottore sottolineò con enfasi quasi superflua, la creatura orrenda che avevamo sotto i nostri occhi nasceva da una pietosa tragedia umana, non certo dalla stregoneria. Si trattava di una vicenda molto crudele e concreta, anche nell'ultima fase che aveva acceso tante controversie. Il dottor McNeill fece una pausa e si schiarì la gola prima di raccontare quella particolare tragedia; dal canto mio sentivo l'irresistibile aspettativa che si prova a teatro quando sta per alzarsi il sipario. La faccenda cominciò quando un certo Walker Davis e sua moglie Audrey lasciarono l'Arkansas per stabilirsi nelle nuove terre appena aperte alla colonizzazione; era la primavera del 1889, e il culmine del dramma si sarebbe verificato nella regione dei Wichita, a nord del fiume omonimo, in quella che oggi si chiama Caddo County. Da quelle parti sorge un paesetto di nome Binger e ora c'è
la ferrovia, ma per il resto le cose sono cambiate in maniera meno drastica che in altre zone dello stato. Ci sono ancora ranch e fattorie che costituiscono la principale risorsa della regione, e i grandi campi petroliferi non si estendono fin laggiù. Walker e Audrey venivano dalla contea di Franklin, nei monti Ozark, e affrontarono il viaggio con un carro coperto, due muli, un vecchio e inutile cane di nome Wolf e le loro masserizie. Tipici montanari, giovani e forse un po' più ambiziosi della media, cercavano un tipo di vita che desse frutti sostanziosi in cambio del duro lavoro; in Arkansas, purtroppo, non era stato così. Sia il marito che la moglie erano snelli e con le ossa dure: l'uomo alto, gli occhi grigi e i capelli color sabbia; la donna bassa e piuttosto scura di pelle, con i capelli neri e lisci che suggerivano una piccola percentuale di sangue indiano. Ben poco li distingueva dalle migliaia di pionieri come loro che in quegli anni si riversavano nelle nuove terre, e solo un particolare era degno di nota: il terrore quasi incontrollabile che Walker nutriva per i serpenti. Alcuni sostenevano che dipendesse da uno shock subito dalla madre prima ancora che Walker nascesse; altri lo attribuivano a un'oscura profezia sulla sua morte con cui una vecchia squaw aveva cercato di terrorizzarlo da bambino. Quale ne fosse la causa, l'effetto era decisamente sinistro: nel complesso Walker si poteva definire un uomo coraggioso, ma la semplice menzione di un serpente era capace di farlo impallidire o addirittura svenire, mentre la vista di un esemplare anche piccolissimo produceva uno shock che sconfinava, a volte, in crisi epilettiche. I Davis partirono all'inizio dell'anno, sperando di essere nella nuova terra per la semina di primavera. Il viaggio fu lento, perché in Arkansas le strade erano cattive e nel territorio indiano c'erano lunghe catene di monti e ampie distese selvagge, rossicce, dove le strade non esistevano affatto. Più la terra si faceva pianeggiante, più essi sentivano la profonda differenza con le montagne in cui erano nati, cosa che li depresse più di quanto si rendessero conto; per fortuna i funzionari delle agenzie indiane erano molto cordiali, e la maggior parte dei pellerossa che vivevano nella regione sembravano ben disposti e civili. Ogni tanto marito e moglie incontravano un pioniere come loro, con cui scambiavano semplici convenevoli o espressioni di amichevole rivalità. In quella stagione dell'anno non ci sono mai molti serpenti e Walker non soffrì della sua particolare fobia. Nelle prime tappe del viaggio, inoltre, non aveva sentito nessuna leggenda indiana che lo turbasse: le tribù trasfe-
rite dal sudest non condividono le fantastiche credenze dei loro vicini occidentali. Il destino volle che fosse un bianco di Okmulgee, nella contea di Creek, a indottrinare i Davis sui rudimenti della leggenda di Yig; leggenda che ebbe su Walker un effetto affascinante e che lo spinse a chiedere tutte le informazioni possibili. Non passò molto tempo prima che il fascino si tramutasse in vero e proprio terrore. Di notte, quando si accampavano per dormire, Walker prendeva le più straordinarie precauzioni e allontanava da sé qualsiasi esemplare di vegetazione; inoltre, quando era possibile, evitava le zone rocciose. Qualsiasi cespuglio, qualunque fenditura nelle grandi lastre di roccia simili a tavole di pietra gli sembrava il nascondiglio ideale per i malefici serpenti; mentre ogni figura umana che non fosse facilmente identificabile per un colono o un immigrante arrivato col treno gli ricordava quella del dioserpente, finché la vicinanza non dimostrava il contrario. Per fortuna il viaggio non riservò loro altri incontri e i nervi di Walker non dovettero subire scosse. Mentre si avvicinavano alla regione dei Kickatoo, i Davis scoprirono che era sempre più difficile evitare di accamparsi nei pressi di qualche formazione rocciosa, e alla fine non fu assolutamente possibile. Il povero Walker fu ridotto al puerile espediente di intonare i vecchi incantesimi antiserpente che aveva imparato da ragazzo. Per due o tre volte un serpente fu visto davvero, il che non lo aiutò a mantenere la calma. La ventiduesima sera di viaggio un vento feroce li obbligò, per proteggere i muli, ad accamparsi nel punto più coperto del circondario: Audrey convinse il marito ad approfittare di una parete rocciosa che svettava ad altezza non comune sul letto prosciugato di un ex-affluente del Canadian River. Walker non gradì affatto la sistemazione, ma per una volta decise di cedere e sia pur di malavoglia guidò gli animali verso il costone protettivo, che con il carro sarebbe stato irraggiungibile per le asperità del terreno. Audrey, che intanto esaminava i massi intorno al carro, notò che il vecchio e debole cane annusava in terra più del solito. Afferrò un fucile, seguì il fido animale e alla fine ringraziò il cielo di aver fatto la scoperta in assenza di Walker. Perché, comodamente annidato nel piccolo spazio fra due massi, c'era qualcosa che suo marito non avrebbe gradito affatto. Apparentemente era un solo oggetto attorcigliato, ma in realtà doveva esser formato da tre o quattro creature distinte che si contorcevano pigramente: non poteva esser altro che una nidiata di giovani serpenti a sonagli.
Nell'ansia di risparmiare a Walker un ennesimo shock, Audrey non esitò ad agire, ma impugnò il fucile per la canna e con il calcio colpì ripetutamente i rettili. Anche a lei facevano ribrezzo, ma non si trattava di paura vera e propria. Finalmente vide che il suo compito era terminato e pulì l'arma nella sabbia rossa e secca, poi nell'erba che cresceva tutto intorno. Audrey si disse che doveva coprire il nido prima che Walker tornasse dal punto in cui aveva legato i muli, ma il vecchio Wolf - malconcia reliquia di un incrocio fra cane pastore e coyote - era scomparso, e la poveretta ebbe paura che fosse andato a chiamare il padrone. I passi che risuonarono qualche secondo dopo le rivelarono che i suoi timori erano giustificati. Ancora un attimo e Walker vide ciò che c'era da vedere. Audrey cercò di afferrarlo per un braccio, temendo che potesse perdere i sensi, ma il marito barcollò appena. Il volto esangue aveva uno sguardo di terrore assoluto, ma poco a poco si trasformò in un'espressione che mescolava il timore con l'ira. Walker si rivolse alla moglie con voce rotta e carica di rimprovero: «Perdio, Aud, dovevi proprio farlo? Non hai sentito cosa ci hanno raccontato su quel demone dei serpenti, Yig? Avresti dovuto dirmelo, ce ne saremmo andati e basta. Non lo sai che si arrabbia se uno fa del male ai suoi figli? Perché credi che gli indiani ballano e picchiano sui tamburi tutto l'autunno? Te lo dico io, questa è terra maledetta, e ogni anima con cui abbiamo scambiato una parola ci ha detto lo stesso. Il padrone qui è Yig, e ogni autunno viene a prendere le sue vittime e a trasformarle in serpenti. Aud, oltre il Canadian River non c'è un indiano che ammazzerebbe un serpente per tutto l'oro del mondo! «Dio sa quello che hai fatto, distruggendo un'intera nidiata dei figli di Yig. Ti prenderà sicuro, una volta o l'altra, a meno che io non ti compri un incantesimo dai vecchi stregono indiani. Ti prenderà, Aud, com'è vero che c'è Dio nel cielo... Uscirà dalla notte e ti trasformerà in un serpente che striscia!» Per il resto del viaggio Walker si astenne da ulteriori rimproveri e profezie dettate dalla paura. Attraversarono il Canadian River presso Newcastle e poco dopo incontrarono i primi veri indiani delle pianure: erano un gruppo di Wichita, con le coperte sulle spalle e un capo che sotto l'influsso del whiskey parlava volentieri. In cambio d'una bottiglia da un quarto di quello scioglilingua, il capo insegnò a Walker un lunghissimo incantesimo protettivo contro Yig. Alla fine della settimana i Davis raggiunsero il luogo che avevano scelto per vivere, nel territorio dei Wichita, e si affrettarono a
tracciare i confini del loro appezzamento; poi, prima ancora di costruirsi una capanna, effettuarono la semina primaverile. La regione era piatta, sferzata da venti terribili e con poca vegetazione naturale, ma una volta coltivata prometteva abbondanza e fertilità. Il suolo era fatto principalmente di arenaria rossa e sbriciolata, con uno spuntone di granito ogni tanto per variare il paesaggio; qua e là una vasta estensione di roccia piatta rivestiva la superficie della terra come se fosse un rivestimento fatto dall'uomo. Non sembrava esserci posto per i serpenti e per i loro nascondigli, così Audrey riuscì a convincere il marito a costruire la capanna di una sola stanza su una grande, liscia estensione di roccia nuda. Con un pavimento del genere e un buon caminetto si poteva sfidare anche il tempo più umido, e del resto risultò che l'umidità non era uno dei maggiori problemi della regione. Marito e moglie trasportarono la legna sul carro coperto, prelevandola in una fascia di boschi che sorgeva a molti chilometri di distanza, verso i monti Wichita. Con l'aiuto di altri coloni, il più vicino dei quali abitava a quasi due chilometri da loro, Walker costruì la capanna dall'ampio comignolo e un rozzo granaio; a sua volta aiutò i vicini in lavori simili, finché tra i nuovi abitanti della regione si crearono saldi vincoli d'amicizia. La più vicina città che meritasse quel nome era El Reno, oltre cinquanta chilometri a nordest lungo i binari della ferrovia; non fa meraviglia, quindi, che nel giro di poche settimane i coloni di una regione così isolata si fossero profondamente uniti gli uni agli altri, nonostante le distanze che li separavano. Gli indiani, alcuni dei quali avevano cominciato a sistemarsi nei ranch, erano per la maggior parte innocui, anche se diventavano turbolenti sotto l'effetto dell'alcool che riuscivano a procurarsi in barba alle restrizioni governative. Fra tutti i vicini, quelli che i Davis trovarono particolarmente affettuosi e simpatici furono Joe e Sally Compton, che come loro venivano dall'Arkansas. Sally è ancora viva ed è conosciuta oggi come Nonna Compton; suo figlio Clyde, all'epoca un neonato, è diventato uno degli uomini più in vista dello stato. Sally e Audrey si facevano visita spesso, perché le loro capanne non distavano più di tre chilometri e nei lunghi pomeriggi di primavera e d'estate si scambiavano racconti del vecchio Arkansas e pettegolezzi sul nuovo paese. Sally provava una profonda comprensione per la fobia di Walker, ma più che alleviare aggravò il nervosismo di Audrey, la quale a stento sopportava le continue preghiere e profezie del marito sulla maledizione di Yig. Sally era una miniera di terribili aneddoti sui serpenti, e riuscì a sconvolgere
l'amica con il suo innegabile capolavoro: la storia di un uomo nella contea di Scott che, morso contemporaneamente da un'orda di serpenti a sonagli, si era gonfiato così orribilmente, per effetto del veleno, da scoppiare con un botto. Inutile dire che Audrey non riferì questo aneddoto al marito e implorò i Compton di non accennarvi mai durante le feste della comunità. Va a credito di Joe e Sally il fatto che rispettassero questa preghiera con la più assoluta fedeltà. Walker piantò il granturco all'inizio della stagione e a metà dell'estate impiegò utilmente il suo tempo facendo buon raccolto dell'erba spontanea della regione. Con l'aiuto di Joe Compton scavò un pozzo che assicurava una moderata fornitura di acqua purissima, benché per il futuro progettasse di costruirne uno artesiano. Non dovette affrontare spiacevoli incontri con i serpenti, e fece in modo che la sua terra risultasse il più possibile inospitale per i visitatori striscianti. Ogni tanto si recava nel villaggio principale dei Wichita, costituito da un ammasso di capanne coniche col tetto di paglia, e si fermava a parlare con vecchi e sciamani del dio-serpente e del modo per evitarne la collera. In cambio del whiskey gli venivano regolarmente forniti incantesimi propiziatori, ma la maggior parte delle informazioni non erano affatto rassicuranti. Yig era un dio potente ma non era buona medicina; non dimenticava i torti e in autunno i suoi figli si scatenavano affamati; Yig stesso, in quel periodo, era intrattabile e affamato. Al momento del raccolto tutte le tribù preparavano la medicina contro Yig. Walker ricevette del granturco propiziatorio e danzò, nel costume adatto, al suono dei fischi, delle nacchere e dei tamburi indiani. Il suono dei tamburi serviva a tener lontano Yig e a invocare l'aiuto di Tirawa, i cui figli sono gli uomini come i serpenti sono figli di Yig. Non era bene che la squaw di Walker Davis avesse ammazzato i figli di Yig: al raccolto del granturco Devis doveva recitare gli incantesimi molte volte; Yig è Yig. Yig è un gran dio. Al momento del raccolto Walker era riuscito a trasformare sua moglie in un ammasso di nervi. Le preghiere e gli incantesimi presi a prestito dagli indiani erano per lei una tortura insopportabile, e quando, in autunno, cominciarono i riti delle tribù, il lontano battere dei tamburi aggiunse a tutto un sinistro sfondo musicale. Era terribile sentire quel ritmo ovattato che il vento diffondeva sulle pianure rosse. Perché non si fermava mai? Giorno e notte, settimana dopo settimana non faceva altro che ripetersi senza fine, eterno come i venti rossi su cui viaggiava. Audrey lo detestava più di suo marito, che in esso vedeva un elemento di protezione. E con la convinzio-
ne di erigere una barriera intangibile contro il male, Walker raccolse il granturco e preparò la capanna e la stalla per l'inverno che si annunciava. L'autunno fu insolitamente caldo, e a parte le necessità della loro rudimentale cucina, i Davis non usarono eccessivamente il camino di pietra che Walker aveva costruito con tanta cura. A volte le innaturali nuvole di polvere rossa e calda mettevano a dura prova i nervi dei coloni, ma i più colpiti furono senza dubbio Audrey e Walker. La maledizione dei serpenti pesava su di loro come una spada di Damocle e il lugubre, infinito ritmo dei tamburi indiani formava una combinazione micidiale che qualsiasi evento appena fuori del comune rendeva assolutamente insopportabile. Nonostante la tensione, e specialmente dopo il raccolto, nelle casette dei coloni si tennero parecchie feste: in questo modo sopravvivevano gli strani riti della fertilità che sono antichi quanto la stessa agricoltura. Lafayette Smith, che veniva dal Missouri meridionale e aveva una capanna a poco meno di cinque chilometri da quella di Walker, era un violinista più che passabile e la sua musica aiutava i celebranti a dimenticare il rullio dei tamburi in lontananza. Poi si avvicinò Hallowe'en e i coloni organizzarono un'altra festa; naturalmente non lo sapevano, ma quella ricorrenza derivava da un rito più antico dell'agricoltura stessa, il temuto sabba delle streghe delle razze primordiali pre-ariane che per innumerevoli secoli si era perpetuato nell'oscurità dei boschi segreti, e che sotto la maschera attuale di burla e divertimento rimandava a vecchissime paure. Hallowe'en sarebbe caduta di giovedì e i vicini accettarono l'invito dei Davis di partecipare alla prima festa in casa loro. Il 31 ottobre il tepore innaturale dell'autunno s'interruppe. Il mattino fu grigio e plumbeo e a mezzogiorno i venti incessanti che frustavano la regione si trasformarono in una forza scatenata. La gente rabbrividiva perché non era preparata al freddo e il vecchio cane di Walker Davis, Wolf, si trascinò stancamente nella capanna per sistemarsi davanti al caminetto. I tamburi lontani continuavano a rullare e i coloni bianchi erano decisi a celebrare la ricorrenza come si erano prefissi. I primi carri arrivarono alla capanna di Walker fin dalle quattro del pomeriggio e a sera, dopo una memorabile grigliata, il violino di Lafayette Smith invitò la numerosa compagnia a scatenarsi nelle danze che si svolgevano nell'unica e affollatissima stanza. I più giovani se la spassarono come consiglia l'occasione e di tanto in tanto, quando il violino di Lafayette prendeva una nota troppo stridula, il vecchio Wolf mandava un ululato che faceva rabbrividire i convenuti, cosa che non era mai capitata prima. Per la maggior parte del tempo, tuttavia, il
vecchio cane si limitò a dormire mentre gli uomini si divertivano: era finita, per lui, l'età degli impulsi attivi e ormai viveva soprattutto di sogni. Tom e Jennie Rigby avevano portato con sé il collie Zeke, ma i due animali non fraternizzarono. Sembrava che Zeke fosse a disagio e per tutta la sera andò in giro ad annusare. Audrey e Walker formavano una coppia perfetta e Nonna Compton si diverte ancora a ricordare l'impressione che le fecero quella sera, ballando senza stancarsi mai. Per il momento tutte le preoccupazioni sembravano dimenticate e Walker, rasato e pettinato alla perfezione, mostrava una straordinaria vitalità. Alle dieci erano tutti stanchissimi e gli ospiti cominciarono a congedarsi, stringendosi la mano e ringraziando per la bellissima serata. Mentre si avviavano al loro carro Tom e Jennie sentirono che Zeke abbaiava ripetutamente, ma pensarono che fosse per il dispiacere di tornare a casa; Audrey, tuttavia, fece l'ipotesi che i tamburi lontani lo infastidissero, perché dopo l'allegria della festa quel brontolio in lontananza era pauroso. La notte era fredda e pungente e per la prima volta Walker mise nel camino uno dei ciocchi più grossi, circondandolo di ceneri perché bruciasse fino al mattino. Il vecchio Wolf si trascinò davanti al bagliore della fiamma e si abbandonò alla solita sonnolenza. Audrey e Walker, troppo stanchi per pensare a incantesimi e maledizioni, si buttarono sul duro letto di pino e si addormentarono prima che la sveglia economica sul camino avesse ticchettato per tre minuti. In lontananza, il ritmico pulsare dei tamburi continuava a diffondersi nel vento freddo della notte. A questo punto il dottor McNeill fece una pausa e si tolse gli occhiali, come se il fatto di vedere il mondo reale in modo sbiadito gli permettesse di avere più chiara la visione del passato. «Lei capirà» disse «che ho avuto non poche difficoltà a stabilire ciò che avvenne dopo che gli ospiti della festa se ne furono andati. Tuttavia ci ho provato, e per diverso tempo.» Dopo un attimo di silenzio riprese il racconto. Audrey fece un terribile sogno di Yig, che le apparve nelle vesti di Satana com'era raffigurato nelle incisioni da poco prezzo a cui era abituata. Al culmine dell'incubo si svegliò all'improvviso e scoprì che Walker era sveglio a sua volta e seduto in mezzo al letto. Pareva intento ad ascoltare qualcosa, e quando fece per domandargli ciò che l'aveva svegliato, le sussurrò di stare zitta. «Taci, Aud!» mormorò a fior di labbra. «Non lo senti? C'è qualcosa che
canta, ronza e si muove, là fuori. Credi che siano soltanto i grilli?» Certo, nella capanna si udiva distintamente il suono che Walker aveva descritto. Audrey cercò di capire cosa fosse e fu colpita da un elemento che era al tempo stesso orribile e familiare, ma che si manteneva oltre il confine immediato della memoria. Come sfondo, simile a un pensiero catastrofico, il rullare monotono dei tamburi si riversava incessante sulla pianura notturna, dove intanto si era alzata una mezzaluna velata dalle nuvole. «Walker, tu pensi che... che sia la maledizione di Yig?» Lo sentì tremare. «No, moglie, non credo che lui venga così. Ha l'aspetto di un uomo, a meno che tu non lo guardi da vicino, così ha detto il capo Aquila Grigia. Questi devono essere insetti che cercano riparo dal freddo... Non grilli, credo, ma qualcosa che gli assomiglia. Meglio ammazzarli prima che ci invadano la casa... E magari sono capaci di arrivare fino alla credenza.» Si alzò, cercò la lanterna che teneva a portata di mano e agitò la scatola di fiammiferi che teneva appesa a un chiodo. Audrey rimase seduta in mezzo al letto e osservò la fiamma dello zolfanello che si trasformava nel bagliore diffuso della lampada. Poi, quando i loro occhi ebbero messo a fuoco la stanza cacciarono un urlo simultaneo che fece tremare le travi. Il pavimento di pietra, rischiarato alla luce della lanterna, era coperto da una massa di serpenti a sonagli maculati, un esercito che strisciava verso il fuoco e i cui componenti alzarono all'unisono la testa disgustosa per spaventare l'uomo già atterrito che aveva fatto luce. Audrey li vide per una attimo soltanto: i rettili erano di ogni dimensione, in tale quantità che non era possibile contarli e a quanto pareva di molte specie diverse; ma nell'attimo in cui li fissò, due o tre di essi sollevarono la testa per colpire Walker. No, Audrey non svenne: fu Walker che cadde sul pavimento e provocò lo spegnersi della lanterna. La stanza piombò nel buio assoluto. Il marito non urlò una seconda volta, la paura lo aveva paralizzato: cadde come colpito da una freccia silenziosa e scoccata da un arco inumano. Audrey ebbe la sensazione che il mondo intero le girasse intorno in modo fantastico, confondendosi con l'incubo da cui s'era appena svegliata. Qualsiasi movimento volontario era impossibile, poiché la forza di decidere l'aveva abbandonata come il senso di realtà. Si abbandonò inerte sul cuscino, sperando di svegliarsi presto. Per qualche tempo non riuscì a capacitarsi di quello che era avvenuto; poi, poco a poco, il sospetto di essere
già sveglia si affacciò alla sua mente e Audrey fu afferrata da un miscuglio di panico e dolore che più volte la spinse a urlare, nonostante la terribile inibizione di tutti i muscoli che la rendeva muta. Walker era morto e lei non aveva potuto aiutarlo. Era morto per i morsi dei serpenti, proprio come aveva detto la vecchia strega quando era un ragazzo. Il povero Wolf non gli era stato di nessun aiuto, anzi, probabilmente, non si era nemmeno ripreso dallo stupore della vecchiaia in cui era sprofondato. Ora quelle orribili creature sarebbero venute da lei, strisciando nel buio sempre più vicine... Forse in quello stesso momento si attorcigliavano intorno ai piedi del letto e cominciavano a riversarsi sulla ruvida coperta di lana. Audrey si infilò meccanicamente sotto le coperte, scossa dai brividi. Era senza dubbio la maledizione di Yig: aveva mandato i suoi figli mostruosi la notte di Ognissanti e il primo a morire era stato Walker. Perché? Era innocente, dopotutto... Perché non venire direttamente da lei, l'assassina dei piccoli serpi indifesi? A un tratto ricordò che la maledizione non consisteva nella morte, secondo gli indiani. Il dio non l'avrebbe uccisa, solo trasformata in un serpente maculato. Mostruoso! Sarebbe diventata una delle creature che aveva intravisto sul pavimento, le creature che Yig aveva mandato da lei per reclutarla nell'esercito dei rettili. Audrey cercò di sussurrare l'incantesimo che Walker le aveva insegnato, ma scoprì che non riusciva a emettere alcun suono. Il ticchettio della sveglia era chiaro, nonostante l'ossessivo rullio dei tamburi lontani. I serpenti non arrivavano mai... Si divertivano a giocare coi suoi nervi? Di tanto in tanto le sembrava che qualcosa premesse insidiosamente sulle coperte, ma ogni volta scoprì che si trattava delle contrazioni automatiche dei suoi muscoli, tesi fino allo spasimo. L'orologio continuava a ticchettare nel buio, e poco a poco i pensieri di Audrey presero un'altra direzione. I serpenti non potevano metterci tanto tempo! Questo significava che non erano messaggeri di Yig, ma normali serpenti a sonagli che vivevano sotto la roccia ed erano stati attratti dal fuoco. Di conseguenza, non erano lì per lei e forse si erano saziati con il povero Walker. Ma dov'erano? Andati via? Raccolti intorno al fuoco? Ancora intenti a strisciare sul cadavere della vittima? L'orologio ticchettava e i tamburi in lontananza continuavano a rullare. Al pensiero che il corpo di suo marito giaceva abbandonato nel buio, Audrey provò un brivido d'orrore fisico. Ripensò alla storia di Sally Com-
pton e all'uomo della contea di Scott: anche lui era stato morso da molti serpenti contemporaneamente, e cosa gli era successo? Il veleno aveva corrotto la carne e gonfiato il corpo, finché alla fine il cadavere era scoppiato... Proprio così, scoppiato con un botto nauseante. Anche a Walker stava per succedere una cosa del genere? Audrey si rese conto di aver aguzzato le orecchie istintivamente, come tesa a percepire qualcosa di così terribile che non riusciva a dargli un nome. L'orologio continuò a ticchettare, come un beffardo e ironico contraltare ai tamburi lontani portati dal vento. Audrey avrebbe voluto che fosse un orologio a pendolo, in modo da poter sapere quanto a lungo durava l'orribile veglia. Maledì la propria forza d'animo, che le aveva impedito di svenire, e si chiese in che modo, una volta spuntata l'alba, sarebbe uscita dall'incubo. Forse sarebbe passato un vicino, senza dubbio qualcuno sarebbe venuto a salutare... Ma l'avrebbero trovata ancora sana di mente? E in quel momento, era sana? Morbosamente attenta al più piccolo rumore, Audrey si rese conto all'improvviso di qualcosa che doveva accertare con tutta la sua forza di volontà, e che altrimenti le sarebbe parso incredibile; ma una volta avutane la certezza non seppe se rallegrarsi o temere il peggio. Il rullio lontano dei tamburi era cessato. L'avevano fatta impazzire, è vero, ma Walker non li aveva sempre considerati come un baluardo contro il male assoluto che veniva da oltre l'universo? Che cosa le aveva detto, a mezza voce, dopo aver parlato con Aquila Grigia e gli stregoni Wichita? Audrey si rese conto che il nuovo silenzio non le garbava affatto. C'era qualcosa di sinistro, e il ticchettio dell'orologio risaltava in modo anormale. Finalmente capace di muoversi, si tolse le coperte dal volto e scrutò il buio verso la finestra. Dopo il tramonto della luna c'era stata una schiarita, perché il vano quadrato risaltava perfettamente con lo sfondo delle stelle. Poi, senza alcun preavviso, le arrivò quel suono orribile e pazzesco... Lo scoppio soffocato della pelle spaccata e del veleno che si liberava nel buio. Dio! La storia di Sally... L'orribile puzzo... L'insopportabile, atroce silenzio! Era troppo: l'inibizione che la rendeva muta si spezzò e nella notte oscura risuonarono, altissime, le urla incontenebili di Audrey e del suo terrore. Ma lo shock non le fece perdere i sensi. Volesse il cielo che fosse stato così! Pur in preda a una crisi isterica, Audrey continuò a vedere la finestra punteggiata di stelle e a sentire il ticchettio funesto dell'orologio, che ormai la riempiva di paura. Ma non c'era un altro rumore? E il quadrato della fi-
nestra, era perfettamente quadrato? Audrey non riusciva più a fidarsi dei sensi e a distinguere la realtà dalle allucinazioni. No, la finestra non era un quadrato perfetto. C'era qualcosa che si agitava sul bordo inferiore. Il ticchettio dell'orologio non era l'unico suono della stanza e al di là di ogni dubbio si udiva un respiro pesante che non apparteneva a Audrey e non era quello del povero Wolf. Di solito il cane dormiva in silenzio, e il rumore sibilante che i suoi polmoni facevano da sveglio era inconfondibile. In quel momento, sullo sfondo delle stelle, Audrey vide la sagoma nera e diabolica di un essere vagamente antropomorfo, la cui testa immensa e le spalle possenti oscillavano verso di lei. «Aaaah! Aaaah! Vai via, via, diavolo dei serpenti! Vattene via, Yig! Non volevo ammazzarli, avevo paura che spaventassero mio marito. No, Yig, non farlo! Non volevo far del male ai tuoi figli... Non avvicinarti, non mi trasformare in un serpente maculato!» Ma la testa informe e le spalle dell'intruso continuarono a protendersi verso il letto, in silenzio. I fili della ragione si spezzarono in un colpo solo, e nel giro di un secondo quella che una volta era stata Audrey si trasformò da bambina impaurita in pazza furiosa. Sapeva dov'era l'ascia, appesa a uno dei chiodi vicino alla lanterna. Facile raggiungerla, poteva trovarla anche al buio. In men che non si dica la impugnò con tutte e due le mani e scivolò ai piedi del letto, decisa a colpire la creatura dalla testa e le spalle mostruose che si avvicinava ad ogni secondo. Se qualcuno avesse potuto vederla, l'espressione della sua faccia sarebbe stata agghiacciante. «Prendi questo, tu! E questo, e questo, e questo!» Ora rideva come una pazza, e le risate si fecero più acute quando vide, oltre la finestra, che la luce delle stelle cedeva al fioco e profetico pallore dell'alba. Il dottor McNeill si asciugò il sudore dalla fronte e rimise gli occhiali. Aspettai che riprendesse il racconto, ma poiché stava in silenzio azzardai una domanda. «È sopravvissuta? Qualcuno l'ha trovata? Il mistero è stato spiegato?» Il dottore si schiarì la gola. «Sì, in un certo senso è sopravvissuta. Tutto è stato spiegato, le avevo detto che la stregoneria non c'entra. In questo caso l'orrore è molto crudele, materiale e pietoso.» Era stata Sally Compton a fare la scoperta. Si era recata alla capanna dei Davis il pomeriggio seguente, per commentare la festa con Audrey, ma
avvicinandosi non aveva visto fumo dal comignolo. Questo le era sembrato strano, perché anche se nella regione era tornato un certo tepore, a quell'ora l'amica cucinava sempre qualcosa. I muli chiusi nella stalla nitrivano per la fame, e il vecchio Wolf non era sdraiato a prendere il sole accanto alla porta come faceva di solito. Nel complesso, a Sally non era piaciuto l'aspetto del luogo ed era andata a bussare con una certa apprensione. Non ricevendo risposta, aspettò qualche tempo prima di tentare la rozza porta di tronchi spaccati. Non sembrava chiusa con il lucchetto e cautamente la spinse verso l'interno. Quando vide lo spettacolo offerto dall'unica stanza barcollò, e con un gemito si aggrappò allo stipite per non cadere. Appena aperta la porta aveva sentito un odore tremendo, ma non era stato questo a stordirla: piuttosto ciò che aveva visto. Nella capanna erano successe cose atroci, e sul pavimento tre oggetti assurdi sfidavano il terrore e la comprensione della testimone. Accanto al camino, dove il fuoco era ormai spento, Sally vide i resti del cane: sulla pelle che a tratti rimaneva a nudo la vecchiaia e la rogna avevano lasciato una serie di chiazze rosse, ma la carcassa era gonfia per effetto del veleno dei serpenti. Doveva averlo colpito un esercito di rettili. A destra della porta c'era il cadavere di un uomo mutilato a colpi d'ascia: al momento della morte indossava una camicia da notte e in una mano stringeva ancora una lanterna andata in frantumi. Sul corpo dell'uomo, tuttavia, non c'era neppure un morso di serpente. L'ascia insanguinata era a qualche passo da lui, abbandonata senza cura. Sul pavimento una creatura disgustosa, dagli occhi vacui e che un tempo era stata una donna, strisciava sul ventre; ormai non era che una muta e folle caricatura di se stessa. Non faceva che sibilare, sibilare senza tregua. A questo punto tanto io che il dottore ci asciugammo il sudore freddo dalla fronte. Da una fiasca che teneva sulla scrivania McNeill versò un liquido e bevve un bicchierino, poi me ne porse un altro. Con voce tremante, e con una certa stupidità, aggiunsi soltanto: «Quindi Walker era solo svenuto, la prima volta... Le urla devono averlo svegliato e l'ascia ha fatto il resto...». «Sì.» Il dottor McNeill parlava a bassa voce. «Eppure, in un certo senso, sono stati i serpenti a ucciderlo. La paura lo ha giocato in due modi: facendolo svenire e soprattutto spingendolo a terrorizzare la moglie con le storie del dio-serpente. È stato per questo che lei lo ha ucciso: ha creduto di vedere un demone.»
Riflettei un momento. «Tornando a Audrey... dopotutto la maledizione di Yig ha colpito nel modo più appropriato. Immagino che l'orrore dei serpenti avesse messo radici profonde in lei.» «Sì. In un primo momento aveva degli intervalli di lucidità, ma poi si sono progressivamente ridotti. I capelli le sono diventati bianchi fino alla radice, poi hanno cominciato a cadere. La pelle si è coperta di macchie, e quando è morta...» Lo interruppi, trasalendo. «Morta? Ma allora... l'essere che abbiamo visto laggiù che cos'era?» McNeill rispose gravemente: «Quell'essere, come dice lei, è nato da Audrey sei mesi dopo. Ce n'erano altri, e due erano anche peggio... Questo è l'unico sopravvissuto». (The Curse of Yig, 1928) Il boia elettrico (con Adolphe De Castro) The Electric Executioner si intitolava, nella versione originale di De Castro, The Automatic Executioner. La storia fu completamente riscritta da Lovecraft, che cercò di inserirvi qualche frammento del suo mondo mitologico. Non è una delle "revisioni" migliori, e mostra con fin troppa chiarezza la povertà dello spunto d'origine. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da S.T. Joshi, che riproduce quello della prima edizione su "Weird Tales" (agosto 1930). Per essere un uomo che non ha mai corso il rischio della pena capitale, provo un terrore esagerato della sedia elettrica persino come argomento di conversazione; anzi, penso che mi faccia accapponare la pelle più che all'imputato il quale rischia la vita. Il motivo è che quel particolare strumento di morte mi fa venire alla mente un fatto di quarant'anni fa: un avvenimento piuttosto strano che mi ha portato faccia a faccia con l'ignoto. Nel 1889 facevo l'investigatore per conto della compagnia mineraria Tlaxcala di San Francisco, che sfruttava diverse piccole miniere d'argento e rame nelle montagne di San Mateo, in Messico. Alla miniera numero tre, il cui vice sovrintendente era un individuo piuttosto ambiguo e sgarbato di nome Arthur Feldon, c'erano dei problemi: il 6 agosto la compagnia rice-
vette un telegramma in cui si diceva che Feldon era fuggito portando con sé i registri di magazzino e altri documenti e pratiche riservate; come se non bastasse, aveva lasciato nella peggior confusione la situazione amministrativa e finanziaria. Per la compagnia fu un brutto colpo e nel tardo pomeriggio il presidente McComb mi chiamò nel suo ufficio per ordinarmi di ritrovare le carte ad ogni costo: come ben sapeva, c'erano gravi ammanchi. Non avevo mai visto Feldon e le fotografie a disposizione non erano delle migliori: per di più il mio matrimonio era fissato per il giovedì della settimana seguente, quindi fra nove giorni. È comprensibile che non avessi nessuna voglia di essere spedito in Messico per una caccia all'uomo che poteva durare chissà quanto, ma l'urgenza era tale che McComb si sentì nel pieno diritto di affidarmi l'incarico. Dal canto mio decisi che per rimanere alla compagnia dovevo obbedire senza troppe proteste. Sarei partito quella sera, usando il vagone privato del presidente fino a Città del Messico, dopodiché avrei preso una ferrovia a scartamento ridotto per le miniere. Jackson, sovrintendente della numero tre, mi avrebbe dato tutti i particolari e ogni indizio disponibile al mio arrivo; poi sarebbe cominciata la ricerca nelle montagne, lungo la costa o nel labirinto di Città del Messico, secondo i casi. Partii con la ferma decisione di risolvere il problema - e risolverlo con successo - il più velocemente possibile, e per compensare la mia amarezza immaginai un veloce ritorno con i documenti e il prigioniero: questo avrebbe trasformato il mio matrimonio in un vero e proprio trionfo. Dopo aver informato la mia famiglia, la mia fidanzata e gli amici, mi preparai rapidamente per il viaggio e incontrai il presidente McComb alle otto di sera, presso lo scalo della Southern Pacific. Da lui ricevetti un plico di istruzioni scritte e un libretto di assegni, dopodiché partii nel suo vagone, che era stato agganciato al transcontinentale delle otto e quindici diretto a est. Nel viaggio non accadde nulla di particolare, e dopo una buona notte di sonno mi godetti il lusso del vagone privato che mi era stato assegnato così premurosamente. Lessi le istruzioni con cura e feci piani per la cattura di Feldon e il recupero dei documenti. Conoscevo abbastanza bene la zona di Tlaxcala, senz'altro meglio dell'uomo scomparso: questo mi dava un certo vantaggio nelle ricerche, a meno che non fosse già partito col treno. Leggendo le informazioni venni a sapere che Feldon aveva dato parecchi grattacapi al sovrintendente Jackson: si comportava come se avesse qual-
cosa da nascondere e lavorava nel laboratorio della compagnia, senza dar spiegazioni, alle ore più strane. Si sospettava che fosse implicato in furti di minerale con l'aiuto di un capo messicano e alcuni peones; ma benché i nativi fossero stati licenziati, non c'erano prove sufficienti per fare un passo decisivo verso il misterioso funzionario. Anzi, nonostante i suoi modi furtivi, nel comportamento di Feldon c'era più tracotanza che sensi di colpa. Camminava a testa alta e parlava come se fosse la compagnia a turlupinare lui invece del contrario. La sospettosità dei colleghi, scriveva Jackson nel suo rapporto, aveva irritato Feldon sempre più, finché era scomparso con tutti i documenti dell'ufficio. Non era possibile fare ipotesi sul luogo in cui si trovava, anche se l'ultimo telegramma di Jackson suggeriva le impervie alture della Sierra de Malinche, la formidabile montagna ricca di miti che vista sullo sfondo del cielo ricorda un corpo inerte, e dalle cui pendici erano giunti i messicani implicati nei furti. A El Paso, dove arrivammo alle due della notte successiva alla partenza, il mio vagone privato fu staccato dal treno transcontinentale e collegato a una locomotiva che avevamo ordinato via telegrafo, col compito di portarci a sud verso Città del Messico. Continuai a sonnecchiare fino all'alba e lo spuntar del giorno illuminò il paesaggio piatto e desertico del Chihuahua. Gli addetti al treno mi dissero che l'arrivo a Città del Messico era previsto a mezzogiorno di venerdì, ma ben presto cominciammo ad accumulare una serie di ritardi e perdemmo ore preziose. Il treno si fermava di frequente sui binari morti che fiancheggiavano la linea a una sola rotaia, mentre di tanto in tanto un surriscaldamento della fornace o altre difficoltà tecniche compromettevano ancor più il programma di viaggio. A Torreòn avevamo già sei ore di ritardo, ed erano quasi le otto di venerdì - ben dodici ore indietro rispetto alla tabella di marcia - quando il macchinista accettò di aumentare la velocità nel tentativo di recuperare un poco. I miei nervi erano provati al massimo ma non potevo far altro che passeggiare su e giù nel vagone, come un disperato. Alla lunga scoprii che l'aumento di velocità era stato ottenuto a un prezzo altissimo, perché nel mio stesso vagone si notavano i sintomi del surriscaldamento, e dopo un'attesa insopportabile gli addetti al treno decisero che bisognava rallentare e far controllare la vettura alla prima stazione dotata di un'officina, la città industriale di Querétaro. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e per poco non mi misi a pestare i piedi come un bambino. Più di una volta mi sorpresi a spingere i braccioli della mia poltrona, nel tentativo d'incoraggiare il treno a non procedere a passo di lumaca.
Erano quasi le dieci di sera quando ci trascinammo a Querétaro, dove trascorsi un'ora inquieta sul marciapiede della stazione mentre il mio vagone veniva sganciato ed esaminato da una decina di meccanici del luogo. Finalmente mi comunicarono che il lavoro superava le loro capacità, e che il locomotore aveva bisogno di parti di ricambio che si potevano ottenere solo a Città del Messico. Tutto congiurava contro di me, e stringendo i denti pensai a Feldon che si allontanava sempre più: magari nel facile nascondiglio di Vera Cruz con il suo porto pieno di traffici, o a Città del Messico, da cui partono treni per tutte le destinazioni. Quanto a me, i ritardi mi inchiodavano dov'ero e diminuivano le mie probabilità di successo. Inoltre, sapevo per triste esperienza quale fosse l'efficienza di quella gente. Il meglio che potevo fare, come presto scoprii, era prendere il normale espresso della notte che proveniva da Aguas Calientes e faceva una sosta di cinque minuti a Querétaro. Sarebbe arrivato all'una di notte, ammesso che fosse in orario, ed era atteso a Città del Messico alle cinque del mattino di sabato. Quando acquistai il biglietto feci un'altra scoperta: il treno era composto di vetture a scompartimenti chiusi, alla maniera europea, invece dei lunghi vagoni americani con file parallele di due poltrone. Gli scompartimenti chiusi erano molto popolari ai tempi delle prime ferrovie messicane, anche perché le vecchie linee erano state realizzate in gran parte da società europee; nel 1889 il corridoio del Messico centrale ne utilizzava ancora un certo numero, sia pure per i viaggi più brevi. Di solito preferisco le vetture americane, perché detesto avere una persona di fronte; ma per una volta fui lieto di poter contare su un treno all'europea. A quell'ora di notte avevo buone possibilità di godermi lo scompartimento da solo, e nelle mie condizioni di stanchezza, nervosismo e ipersensibilità consideravo la solitudine una benedizione, senza parlare delle poltrone imbottite, con braccioli e cuscini per appoggiare la testa, che occupavano la vettura in tutta la sua ampiezza. Acquistai un biglietto di prima classe, riscattai la valigia dal vagone privato che avevano abbandonato su un binario morto e spedii un telegramma al presidente McComb e a Jackson per raccontare l'accaduto; poi mi sistemai nella stazione per aspettare l'espresso notturno, usando tutta la pazienza di cui i miei nervi tesi mi permettevano di disporre. Per un miracolo il treno era in ritardo solo di mezz'ora, ma anche così la veglia solitaria nella stazione aveva praticamente esaurito la mia capacità di sopportazione. Il capotreno, indicandomi lo scompartimento, disse che pensavano di recuperare il ritardo e di arrivare alla capitale in orario; io mi
allungai comodamente sulla poltrona accanto al finestrino, pronto a godermi un tranquillo viaggio di tre ore e mezzo. La luce che pioveva dalla lampada a petrolio era piacevolmente fioca e mi chiesi se sarei riuscito a schiacciare un pisolino (di cui avevo senz'altro bisogno) nonostante l'ansia e la tensione che mi pervadevano. Finché il treno si mise in movimento ebbi l'impressione di essere solo, cosa di cui ero francamente felice. Tornai con i pensieri all'incarico che mi aspettava e cominciai a dondolare la testa, seguendo il ritmo della lunga teoria di vagoni. Ma ad un tratto mi resi conto di non essere l'unico occupante dello scompartimento. Nell'angolo diagonalmente opposto a me, e rannicchiato su se stesso in modo che la faccia risultava invisibile, c'era un uomo di corporatura insolita, che la debole luce non mi aveva rivelato fino a quel momento. Sul sedile accanto a lui c'era una grande valigia, malconcia e straripante, che l'uomo, pur essendo addormentato, stringeva con una mano stranamente affusolata. Quando la locomotiva fischiava a una curva o a uno scambio, il dormiente trasaliva e con uno scatto passava a una sorta di semiveglia: alzava la testa, guardingo, e rivelava un volto piacevole, con la barba, dall'aspetto senz'altro anglosassone e gli occhi neri e lucenti. Quando mi vide si svegliò del tutto, lanciandomi un'assurda occhiata ostile che mi lasciò stupefatto. Senza dubbio, pensai, soffriva della mia presenza perché aveva sperato di avere lo scompartimento tutto per sé; a mia volta non ero meno deluso di trovare una compagnia così poco congeniale nella vettura fiocamente illuminata. Il meglio che potessi fare era accettare la situazione con cortesia, e infatti mi scusai per la mia intrusione. L'altro sembrava americano, e pensai che ci saremmo sentiti più a nostro agio dopo uno scambio di convenevoli. In seguito, ci saremmo tranquillamente ignorati per il resto del viaggio. Con mia sorpresa lo straniero non rispose affatto alle mie scuse e continuò a fissarmi aggressivamente, quasi volesse soppesarmi; e quando, imbarazzato, gli offrii un sigaro, rifiutò senz'altro con un brusco gesto laterale della mano libera. L'altra mano continuava a stringere la grande valigia sciupata, e tutta la persona sembrava irradiare una specie di aura maligna. Dopo un pezzo rivolse la faccia al finestrino, anche se nel buio totale non c'era niente da vedere. Era strano, sembrava che fissasse qualcosa con grande intensità: qualcosa che solo lui riusciva a vedere oltre il vetro. Decisi di lasciarlo ai suoi pensieri e alle sue manie senza disturbarlo ancora e mi sprofondai nella poltrona, abbassai la falda del cappello sugli occhi e cercai di addormentarmi come desideravo.
Non dovevo aver dormito molto, e nemmeno profondamente, quando i miei occhi si aprirono come in risposta a una forza esterna. Li chiusi di nuovo deciso a riposare, ma non ci fu niente da fare. Qualcosa d'indefinibile mi teneva sveglio: alzai la testa e mi guardai intorno, per vedere se nello scompartimento fiocamente illuminato mancasse qualcosa. Sembrava tutto normale, ma notai che lo sconosciuto nell'angolo opposto mi fissava con intenzione... Sì, con intenzione, ma senza alcuna traccia di cordialità e buona disposizione; non c'era affatto da illudersi che avesse modificato l'atteggiamento scontroso di prima. Stavolta non tentai di conversare con lui, ma ripresi la posizione in cui speravo di addormentarmi; tenevo gli occhi appena aperti, pronto a cedere al sonno ma anche deciso a osservare il mio compagno da sotto la falda del cappello. Mentre il treno avanzava nella notte, notai che l'espressione dell'uomo che mi fissava aveva subito una graduale ma sicura metamorfosi. Credendo che fossi addormentato, e soddisfatto di questo, permetteva alle sue emozioni di manifestarsi, anche se non si trattava affatto di sentimenti rassicuranti. Odio, paura, orgoglio e fanatismo si succedevano sulla curva delle labbra e agli angoli dei suoi occhi; lo sguardo esprimeva una cupidigia allarmante, addirittura un che di feroce. Mi resi conto all'improvviso che quell'uomo era pazzo, e un pazzo pericoloso. Mentirei se dicessi di non aver avuto paura, perché ora sapevo come stavano le cose. Sudato da capo a piedi, trovavo molto difficile continuare la finzione del passeggero che cerca di appisolarsi. La vita, soprattutto in un momento come quello, aveva per me molte attrattive, e il pensiero di trovarmi di fronte a un maniaco omicida - forse armato, certo foltissimo - era avvilente. In un eventuale scontro il mio svantaggio era palese: l'uomo si poteva definire un gigante e per di più nella migliore forma atletica, mentre io sono sempre stato un tipo fragile e in quel momento ero lacerato dall'ansia, dall'insonnia e dalla tensione nervosa. Era indubbiamente un momento nero, e riconoscendo la furia assassina che brillava negli occhi dello sconosciuto sentii di essere vicino a un'orribile fine. Rividi gli avvenimenti del passato proprio come l'annegato che nell'attimo fatale ripercorre tutta un'esistenza. Naturalmente avevo la pistola nella tasca della giacca, ma qualsiasi movimento per estrarla mi avrebbe tradito. Inoltre, anche ammesso che ce la facessi, non si poteva dire che effetto avrebbe avuto sul maniaco. Anche se gli avessi sparato una o due volte, poteva darsi che gli restasse abbastanza forza per strapparmi l'arma e fare di me quello che voleva; o, supponendo
che fosse armato anche lui, avrebbe potuto spararmi o accoltellarmi senza nemmeno prendersi la briga di togliermi la pistola. Un uomo normale può essere indotto alla ragione da un'arma puntata su di lui, ma la completa indifferenza di un pazzo per quelle che saranno le conseguenze gli dà una forza e una capacità di aggressione che finché durano hanno un che di sovrumano. A quei tempi non si era ancora sentito parlare di Freud, ma il buonsenso mi permetteva di comprendere perfettamente la pericolosità di una persona priva delle normali inibizioni. Che lo sconosciuto nell'angolo stesse meditando un piano omicida, non si poteva più dubitare: lo rivelavano gli occhi ardenti e i muscoli contratti della faccia. Poco dopo cominciò a respirare irregolarmente, ansimando, e il petto si sollevava sempre più per l'eccitazione. La resa dei conti era vicina, e cercai disperatamente di pensare alla cosa migliore da fare. Continuando a far finta di dormire, feci scivolare lentamente la mano destra verso la tasca in cui tenevo la pistola; nel frattempo continuavo a tenere d'occhio il pazzo, per capire se si rendesse conto dei miei movimenti. Purtroppo fu proprio così, e prima che avessi il tempo di leggerglielo in faccia, mi scoprì. Con un balzo così agile e brusco da sembrare incredibile in un uomo della sua stazza, mi fu addosso impedendomi di capire con esattezza quello che stava accadendo; torreggiava su di me come un orco delle favole, e con una mano mi tenne stretto mentre con l'altra mi impediva di toccare la pistola. Fu lui stesso ad estrarla, dopodiché se la mise in tasca e mi lasciò con un gesto di disprezzo, ben sapendo che la sua superiorità fisica mi rendeva del tutto impotente. Si elevò in tutta la sua altezza e sfiorò con la testa il tetto dello scompartimento, poi mi guardò con occhi la cui rabbia si era rapidamente trasformata in un'espressione di disprezzo e aspettativa feroce. Non mi mossi, e dopo un attimo l'uomo riprese il suo posto di fronte a me; con un sorriso tremendo aprì la valigia rigonfia ed estrasse un oggetto piuttosto strano: una grossa gabbia di filo semi-flessibile, intrecciata in un modo che ricordava la maschera di un giocatore di baseball ma la cui forma complessiva era piuttosto simile a uno scafandro da palombaro. In cima all'attrezzo spiccava un cordoncino la cui estremità opposta restava nella valigia. Lo sconosciuto trattava l'oggetto con una sorta di affetto, cullandolo in grembo mentre mi guardava con malizia. Poi, con un movimento quasi felino della lingua, si leccò le labbra baffute. Fu in quel momento, per la prima volta, che parlò: aveva una voce profonda, piacevole e persino educata che rivelava l'uomo di cultura e che contrastava in modo straordinario con i rozzi abiti di velluto e l'aspetto trasandato.
«Lei è fortunato, signore. Sarà il primo soggetto su cui lo proverò. Passerà alla storia come la cavia di un'invenzione straordinaria: grandi implicazioni sociali, capisce; quanto a me, risplenderò come un faro. Per la verità risplendo già adesso, ma nessuno lo sa. Ora lei saprà. Ho già fatto l'esperimento sui porcellini d'India, qualche gatto e persino dei burros... Proprio così, ha funzionato addirittura su uno di quegli asini.» Fece una pausa, mentre il volto barbuto si contraeva all'improvviso, in sincronia con un vigoroso movimento rotatorio della testa. Era come se volesse liberarsi di un ostacolo fastidioso, perché il gesto fu seguito da un'espressione più chiara, o forse sottile, che nascondeva la follia dietro uno sguardo attento e composto in cui la tensione era appena intuibile. Notai immediatamente la differenza e cercai di vedere se mi riuscisse di incanalare i suoi pensieri in una direzione meno pericolosa. «Sembra che lei abbia un apparecchio meraviglioso, da quello che vedo. Come l'ha inventato?» Lo sconosciuto annuì. «Semplice logica, caro signore. Ho tenuto presenti le esigenze del nostro tempo e ho agito di conseguenza. Avrebbero potuto farlo anche altri, a patto di avere menti lucide come la mia: voglio dire, menti capaci di instancabile concentrazione. Mi sono reso conto della sua necessità e ho fatto ricorso a tutta la mia forza di volontà. Ho capito che bisogna eliminare gli abitanti della terra prima del ritorno di Quetzalcoatl; inoltre, mi sono reso conto che la cosa deve essere fatta con una certa eleganza. Detesto i massacri e l'impiccagione è un sistema orribile. Come lei sa, la corte dello stato di New York ha deciso l'anno scorso di giustiziare i condannati con una macchina elettrica... Tuttavia, il progetto che hanno in mente è primitivo come il "razzo" di Stephenson o il primo motore elettrico di Davenport. Io conosco un sistema migliore e l'ho detto alle autorità, ma non mi hanno ascoltato. Dio, che pazzi! Come se non sapessi tutto quello che c'è da sapere sugli uomini, la morte e l'elettricità... Ho studiato a fondo il problema, da ragazzo e da uomo... Sono un ingegnere, un tecnico, ma sono stato anche soldato di ventura...» Si appoggiò allo schienale e socchiuse gli occhi. «Ero nell'esercito di Massimiliano, più di venti anni fa. Volevano darmi un titolo nobiliare, poi quei maledetti porci l'hanno ammazzato e io ho dovuto andarmene a casa. Ma sono tornato... avanti e indietro, avanti e indietro. Vivo a Rochester, nello Stato di New York...» Nei suoi occhi brillò un lampo d'astuzia e si fece avanti, sfiorandomi un
ginocchio con le dita della mano affusolata. «Come dicevo, sono tornato e mi sono spinto più avanti di loro. Odio le faccette brune di quelli che vivono in questo paese, ma i messicani veri mi piacciono! Una contraddizione? Mi ascolti, giovanotto, non crederà che il Messico sia veramente un paese latino? Dio, se conoscesse le tribù che conosco io! Quelle antiche, che vivono sulle montagne... Anahuac, Tenochtitlan...» La sua voce cambiò, intonando un salmo impressionante ma non privo di una certa melodia. «Iä! Huitzilopotchli! Nahuatlacatl! Sette, sette, sette... Xochimilca, Chalca, Tepaneca, Acolhua, Tlahuica, Tlascalteca, Azteca!... Iä! Iä! Sono stato alle sette caverne di Chicomoztoc, ma nessuno lo saprà mai! Lo dico a lei perché tanto non lo ripeterà a nessuno...» Si calmò e riprese il tono di una normale conversazione. «La sorprenderebbe ciò che si racconta nelle montagne. Huitzilopotchli sta per tornare, di questo non può esserci dubbio. Ogni peone a sud di Città del Messico potrà confermarlo. Personalmente non intendo immischiarmi, ma come le ho detto ho fatto la spola con gli Stati Uniti per diverse volte e intendevo donare alla società il mio boia elettrico quando la maledetta corte di Albany ha scelto l'altro sistema. È una burla, signore, una burla! La sedia del nonno... seduti accanto al fuoco... Hawthorne...» L'uomo aveva cominciato a ridere, ma non era che una macabra parodia del buonumore. «Lo sa, signore, mi piacerebbe essere il primo a sedere sulla loro dannata sedia e a sentire le scariche di corrente! Devono essere così insignificanti che non farebbero saltare nemmeno una rana! E si aspettano di far fuori degli assassini, con quella... Sarebbe la giusta pena, secondo loro! Ma vede, giovanotto, io ho capito l'inutilità, anzi, l'assurda illogicità di uccidere solo pochi criminali alla volta. Tutti sono assassini: c'è chi uccide un'idea, chi ruba invenzioni altrui... Anche la mia hanno rubato, a furia di spiare, spiare, spiare...» L'uomo tossì e rimase in silenzio per qualche secondo. Ne approfittai per tentare di calmarlo. «Sono sicuro che la sua invenzione sia la migliore di tutte, e forse alla fine decideranno di adottarla.» Ma la mia tattica non si rivelò giusta, perché il pazzo reagì con estrema irritazione. «Così dice lei, eh? Evviva le dolci, tiepide, inutili speranze! In realtà non
gliene frega niente... ma presto vedrà! Perché, dannazione, tutto il buono che c'è in quella loro sedia elettrica lo hanno rubato a me. Lo spirito di Nezahualbilli me lo ha rivelato sulla montagna sacra. Mi spiavano, mi spiavano, mi spiavano...» Tossì di nuovo, poi fece uno di quei suoi gesti curiosi, in cui scuotendo la testa cambiava l'espressione del viso. La cosa sembrò calmarlo per un momento. «L'unica cosa che manca alla mia invenzione è una prova sperimentale. Voglio dire... Guardi. Il filo collegato alla calotta, insomma alla parte superiore dell'apparecchio, è flessibile e si adatta facilmente. Il fermaglio al collo serve bene al suo scopo ma non soffoca il soggetto. Gli elettrodi toccano la fronte e la base del cervelietto: tutto quello che occorre. Una volta intrappolata la testa, che altro serve? Quegli sciocchi, ad Albany, hanno progettato una specie di poltrona intarsiata, come se dovessero prendere tutto il corpo. Idioti! Non sanno che è inutile sparare a un uomo in mezzo al petto se già gli sono saltate le cervella? Ho visto molta gente morire in battaglia, so di che cosa parlo. Per non parlare dei loro circuiti ad alto voltaggio, le dinamo e tutto il resto. Perché si rifiutano di vedere quello che ho fatto con la mia batteria a ricarica? Nessuno mi dà ascolto, nessuno sa niente, solo io ho il segreto... Ecco perché Quetzalcoatl, Huitzilopotchli ed io domineremo il mondo da soli... Loro ed io, se decido di tenerli con me. Ma devo sperimentare la mia macchina su un soggetto umano, una cavia... e sa chi ho scelto per primo?» Cercai di scherzarci sopra, ma passai rapidamente a un'amichevole serietà per paura che se la prendesse. Pensare velocemente, e usare le parole adatte poteva ancora salvarmi. «Be', conosco un sacco di soggetti ideali fra i politici di San Francisco. È da lì che vengo. Meritano davvero il suo trattamento, e sarei lieto di aiutarla! A parte gli scherzi, credo di poter fare davvero qualcosa per lei. Ho una certa influenza a Sacramento, e se tornerà negli Stati Uniti con me, dopo che avrò sbrigato un affaruccio qui in Messico, farò di tutto perché le diano ascolto.» Mi rispose in modo urbano e controllato. «No, non posso tornare indietro. L'ho giurato quando i criminali di Albany hanno rifiutato la mia invenzione e mi hanno messo le spie alle calcagna per rubare il mio segreto. Ma ho bisogno di soggetti americani: la gente di qui è già con un piede nella fossa, sarebbe troppo facile. Quanto agli indios, i veri figli del serpente piumato, sono sacri e intoccabili, tranne
come vittime sacrificali... ma questo è un altro discorso, perché bisogna ucciderli secondo il rituale. Devo procurarmi soggetti americani senza tornare indietro, ed essere la prima cavia del mio esperimento sarà un grande onore. Sa chi ho scelto?» Cercai disperatamente di temporeggiare. «Oh, se il problema è tutto qui le troverò una decina di esemplari di prima qualità appena arrivati a Città del Messico. Conosco un posto dove ci sono un sacco di minatori, e nessuno si accorgerebbe della loro mancanza per giorni.» Ma il pazzo mi interruppe con un gesto imperioso e quasi regale. «Adesso basta, abbiamo scherzato abbastanza. Si alzi e resti in piedi come un uomo. È lei il soggetto che ho scelto, e nell'altro mondo mi ringrazierà per questo onore proprio come la vittima del sacrificio ringrazia il sacerdote che l'ha spedita nel regno dell'eterna gloria. È un principio nuovissimo, nessuno ha mai pensato a una batteria come quella costruita da me; neanche in mill'anni riuscirebbero a duplicarla! Sapeva che gli atomi non sono ciò che sembrano? Sciocchi! Magari fra un secolo qualche stupido potrebbe anche avere un barlume della mia idea, se permettessi al mondo di sopravvivere!» Quando mi fui alzato per obbedire ai suoi ordini, il pazzo estrasse dalla valigia dell'altro filo e si mise in piedi accanto a me: teneva il casco elettrico con tutte e due le mani e me lo porgeva. Sul volto abbronzato e barbuto si era disegnata un'espressione esaltata. Per un attimo mi ricordò un mistagogo, uno ierofante ellenico, ed era letteralmente raggiante. «A te, giovinezza, noi libiamo! Vino cosmico, nettare degli spazi stellati... Lino, Iacco, Ialmeno, Zagreo, Dioniso, Ati, Ilas... Nati da Apollo e uccisi dai segugi di Argo... frutti di Samatea, figli del sole... Evoë! Evoë!» Si era messo a salmodiare di nuovo, e stavolta la sua mente sembrava tornata ai ricordi mitologici di scuola. In piedi com'ero, notai la vicinanza del campanello d'allarme e mi chiesi se potevo raggiungerlo fingendo di rispondere al cerimoniale. Valeva la pena tentare, e dopo aver gridato a mia volta "Evoë'!" spinsi le braccia in avanti e poi in alto, sempre in direzione del pazzo e in modo da simulare un rito. Speravo di poter dare uno strattone alla corda del campanello prima che se ne accorgesse. Ma fu tutto inutile: si accorse delle mie intenzioni e diresse la mano verso la tasca destra della giacca, dove aveva infilato la mia pistola. Non erano necessarie parole, e per un attimo rimanemmo entrambi immobili come statue. Poi lui disse, senza scomporsi: «Faccia presto».
La mia mente si mise di nuovo al lavoro, cercando una via di scampo più in fretta che poteva. Sui treni messicani, come sapevo, le porte esterne del vagone non avevano chiusura di sicurezza, ma se avessi cercato di aprirne una e di saltare dal treno, il mio compagno avrebbe potuto facilmente impedirmelo. Inoltre, la velocità era tale che un successo sarebbe stato fatale come un fallimento. L'unica cosa da fare era guadagnar tempo. Buona parte delle tre ore e mezzo di viaggio era già trascorsa, e una volta arrivati a Città del Messico la polizia ferroviaria mi avrebbe salvato. Potevo tentare due strade diverse. Se l'avessi convinto a non mettermi subito l'elmetto avrei guadagnato parecchio tempo: non pensavo che l'aggeggio fosse veramente mortale, ma conoscendo i pazzi potevo immaginare quello che sarebbe avvenuto se non avesse funzionato. Alla delusione si sarebbe unito un folle risentimento per la mia responsabilità nel cattivo esito della prova, e come risultato una rabbia omicida si sarebbe scatenata su di me. Era questo il motivo per cui l'esperimento doveva essere rimandato il più a lungo possibile, ma esisteva una seconda opportunità. Giocando d'astuzia avrei potuto inventare una convincente spiegazione per il fallimento dell'apparecchio; questo avrebbe attratto la sua attenzione e forse lo avrebbe indotto a tentare di rimediare, con un guadagno di tempo più o meno lungo. Mi chiesi fin dove arrivasse la sua credulità e se mi convenisse recitare in anticipo una profezia di fallimento, che dopo il cattivo esito della prova mi avrebbe trasformato, ai suoi occhi, in un veggente o addirittura in un dio. Avevo un'infarinatura di mitologia messicana e pensavo ne valesse la pena, ma decisi che avrei tentato prima altri sistemi, lasciando che la profezia venisse come un'improvvisa rivelazione. Mi avrebbe risparmiato davvero, se fossi riuscito a spacciarmi per un profeta o una divinità? Potevo "passare" per Quetzalcoatl o Huitzilopotchli? Avrei fatto qualunque cosa pur di rimandare il momento decisivo fino alle cinque, ora dell'arrivo a Città del Messico. La mia prima mossa fu il vecchio trucco del condannato che vuol fare testamento. Mentre il maniaco mi ripeteva di affrettarmi, gli parlai della mia famiglia e del matrimonio al quale mi stavo preparando, dopodiché gli chiesi la cortesia di poter lasciare un messaggio nel quale disponevo del mio denaro e dei miei effetti. Se mi avesse prestato un pezzo di carta e promesso di spedire la lettera che avrei scritto, sarei morto più volentieri, e comunque con maggiore tranquillità. Dopo averci pensato su il pazzo accettò la mia richiesta e pescò un taccuino nella valigia, porgendomelo solennemente. Mi rimisi a sedere e presi una matita, spezzandone delibera-
tamente la punta per perdere altro tempo. L'uomo ne cercò una sua, e dopo avermela data prese la matita rotta e cominciò ad appuntirla con un grande coltello dal manico di corno che teneva sotto la giacca, infilato nella cintura. Era chiaro che rompere anche questa non mi sarebbe servito a molto. Oggi non ricordo più quello che scrissi, ma in gran parte doveva trattarsi di sciocchezze, forse brani letterari che avevo imparato a memoria e a cui ripensai in quel momento, perché non c'era altro che mi venisse in mente. Feci in modo che la mia grafia risultasse illegibile, anche se di primo acchito conservava l'aspetto di un autentico messaggio. Ero sicuro che prima di cominciare l'esperimento il pazzo avrebbe voluto vedere la mia lettera, e sapevo come avrebbe reagito alla vista di un imbroglio palese. Era un rischio tremendo, e ad ogni secondo che passava maledivo la lentezza del treno. Cosa avrei fatto, dopo? Stavo pensando a una formula con cui concludere il testamento quando mi colpì una nuova idea. Terminai le mie volontà con uno svolazzo e porsi al maniaco i fogli che avevo riempito, che egli infilò senza nessuna attenzione nella tasca sinistra della giacca. Era venuto il momento di ricordargli i miei amici influenti a Sacramento, e dirgli quanto si sarebbero interessati alla sua scoperta. «Non vuole una lettera di presentazione per quelle persone?» chiesi. «Potrei fare una descrizione particolareggiata e un disegno della sua macchina, in modo da assicurarle la più cordiale attenzione. Sa, è gente che può renderla famosa... Sono certo che adotteranno il suo metodo in tutta la California, specialmente se ne sentiranno parlare da uno come me che conoscono e di cui si fidano.» Mi ero imbarcato su questa strada nella speranza che le sue velleità di inventore frustrato gli facessero dimenticare per il momento il lato religioso e per così dire azteco della sua mania. Appena se ne fosse ricordato, del resto, io sarei passato al trucco della "rivelazione" o "profezia". Il piano funzionò perché i suoi occhi brillarono di soddisfazione, ma mi ordinò bruscamente di far presto. Pescò altri oggetti dalla valigia, fra cui una strana congerie di fili e celle di vetro ai quali il cavo che partiva dal casco era collegato; il gesto fu accompagnato da un diluvio di considerazioni tecniche che non riuscii a seguire, ma che sembravano abbastanza plausibili e sensate. Finsi di scrivere tutto quello che diceva, domandandomi se il misterioso apparato fosse davvero una batteria. Avrei ricevuto una scossa, quando avesse sistemato la calotta? Una cosa era certa: l'uomo parlava come qualcuno che di elettricità se ne intendeva. Descrivere la sua invenzione era un compito che gli riusciva congeniale, e mi resi conto che non
era più impaziente come prima. Prima che avesse finito dal finestrino cominciarono a brillare il grigio e il rosso dell'alba, e finalmente sentii che avevo una concreta speranza di cavarmela. Ma anche lui vide l'alba, e questo lo mise in uno stato di grande agitazione. Sapeva che il treno sarebbe arrivato a Città del Messico alle cinque, e a meno che non riuscissi a stimolarlo con qualche idea appetitosa sarebbe passato velocemente all'esecuzione. Si alzò con aria decisa, sistemò la batteria sul sedile accanto alla valigia aperta e in quel momento gli ricordai che non avevo fatto lo schizzo dell'apparecchio, cosa invece della massima importanza. Gli chiesi, perciò, di tenere il casco fra le mani in modo che potessi disegnarlo vicino alla batteria. Anche questa volta acconsentì, rimettendosi a sedere; ma le raccomandazioni a far presto si moltiplicarono. Dopo un secondo mi interruppi per chiedergli un'informazione: volevo sapere come andava sistemata la vittima dell'esecuzione, e in che modo si poteva ovviare alla sua resistenza. «Ma certo» rispose. «Il criminale viene legato saldamente. Non importa quanto agiti la testa, il casco aderisce alla perfezione e quando passa la corrente diventa ancora più stretto. L'interruttore va spostato gradualmente... eccolo, vede, è molto preciso e c'è un reostato.» Oltre i finestrini la luce dell'alba ci mostrava gruppi di case sempre più frequenti, segno del nostro avvicinamento alla capitale; ebbi allora una nuova idea per ritardare l'esperimento. «Per la verità» dissi «dovrei disegnare il casco quando è in posizione, vale a dire su una testa umana. Non basta che lo faccia vedere insieme alla batteria. Potrebbe metterselo un attimo e farmi da modello? Non solo i funzionali del governo, ma i giornali vorranno una documentazione completa: e mi creda, a quelli non basta mai.» Per caso avevo imboccato una strada più promettente di quanto osassi sperare: a sentirmi parlare di stampa gli occhi del pazzo si spalancarono come piattini. «I giornali? Ma certo... maledetti loro, lei può fare in modo che mi ascoltino! Finora non hanno fatto che ridermi dietro, rifiutandosi di stampare una sola parola. Avanti, faccia presto! Non abbiamo un attimo da perdere!» Si era infilato il casco e osservava con grande curiosità la mia matita. L'intrico dei fili gli dava un aspetto comico, grottesco, tantopiù che se ne stava seduto con le mani tremanti per il nervosismo. «Maledizione, adesso sì che pubblicheranno i miei diagrammi! Se lei
sbaglia correggerò personalmente lo schizzo... in queste cose bisogna essere accurati a ogni costo. La polizia la troverà quando io mi sarò già allontanato... potranno testimoniare loro stessi che funziona. La Associated Press mi dedicherà un comunicato, poi ho la sua lettera di presentazione... Fama immortale... In fretta, le dico! In fretta, maledizione!» Il treno filava sulle rotaie in condizioni non proprio ideali a causa dei grandi svincoli vicino alla città, e ondeggiavamo continuamente. Con questa scusa spezzai la punta della seconda matita, ma ovviamente il pazzo mi diede quella a cui l'aveva rifatta poco prima. Le mie risorse erano quasi finite e mi resi conto che non avrei potuto sottrarmi all'esperimento. Era solo questione di secondi. Mancava un buon quarto d'ora all'ingresso in stazione, perciò tentai la carta religiosa e decisi di formulare la divina profezia. Mettendo insieme quel po' che sapevo di mitologia azteca e nahuan, salmodiai un canto misterioso e gettai da parte carta e matita. «Iä! Iä! Tloquenahuaque, tu che sei Tutto in Te Stesso! E anche tu, Ipalnemoan, in virtù del Quale viviamo! Io sento, sento! Io vedo, vedo! Salve, o Aquila che porti il Serpente! Un messaggio, un messaggio! Huitzilopotchli, nel mio animo echeggia il tuo tuono.» Il pazzo mi fissò incredulo attraverso la maschera bizzarra che gli copriva il volto, mostrando una sorpresa e una perplessità che ben presto si trasformarono in allarme. Per un attimo non riuscì a far funzionare il cervello, poi sembrò che i suoi pensieri prendessero un'altra direzione. Alzò le mani e cominciò a cantare, quasi in sogno: «Micltanteuctli, o grande signore, dammi un segno! Un segno dal profondo della tua grotta oscura! Iä! Tonatiuh-Metztli! Cthulhutl! Comanda e io obbedirò!». In quella straordinaria litania c'era una parola che riconobbi, e che fece vibrare una corda profonda nella mia memoria. Strano, perché non ricorre in nessun testo di mitologia amerinda, ma più d'una volta l'avevo sentita mormorare fra i peones superstiziosi che lavoravano per la mia ditta, nelle miniere di Tlaxcala. Sembrava che facesse parte di credenze antichissime e segrete, perché si basava su preghiere che non trovavano riscontro nelle religioni conosciute e appartenevano all'ignoto come il culto stesso. Il pazzo, evidentemente, aveva passato molto tempo fra i peones e gli indiani delle colline, proprio come aveva detto: trattandosi di rituali non scritti, era impossibile che li avesse trovati in qualche libro. Rendendomi conto dell'importanza che attribuiva a quel linguaggio doppiamente ermetico, decisi di colpirlo nel suo punto debole e dargli la risposta - per quanto insensata -
che avevo sentito fra i nativi. «Ya-R'lyeh! Ya-R'lyeh!» urlai. «Cthulhutl fhtaghn! Niguratl-Yig! YogSototl...» Non mi diede il tempo di finire. Preso da un attacco di mania religiosa provocato dalla mia appropriata invocazione, che neppure a livello inconscio si sarebbe atteso, il pazzo si buttò in ginocchio sul pavimento del vagone, piegando ripetutamente la testa chiusa nel casco e girandola verso destra e verso sinistra. A ogni scatto la sua devozione raggiungeva un nuovo vertice di parossismo, finché dalle labbra schiumanti colsi ripetutamente la formula "uccidi, uccidi, uccidi". Capii di aver voluto strafare, e che la mia risposta aveva scatenato una vera e propria follia omicida: adesso mi avrebbe ammazzato prima che il treno entrasse in stazione. Man mano che gli scatti del folle aumentavano d'intensità, il cavo che collegava il casco elettrico alla batteria si era attorcigliato sempre più. Ora, in un delirio totale, il pazzo descriveva con la testa una serie di circoli completi: in questo modo il cavo gli passò intorno al collo e l'estremità collegata alla batteria cominciò a tendersi. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto quando fosse accaduto l'inevitabile e la batteria posata sul sedile sarebbe finita a terra, fracassandosi. A questo punto avvenne il cataclisma. La batteria, che le contorsioni del folle avevano già portato sull'orlo del sedile, cadde come mi aspettavo ma non fu danneggiata in modo irreparabile. Anzi, come mi resi conto in un attimo, l'urto vero e proprio fu subito dal reostato e l'interruttore scattò a piena potenza. La cosa meravigliosa è che la corrente c'era davvero: l'invenzione non era soltanto il sogno di un pazzo. Ci fu un lampo azzurro, accecante, e l'urlo più orribile di quel viaggio maledetto, seguito dall'odore nauseante della carne bruciata. Era più di quanto i miei nervi già logori potessero sopportare e immediatamente svenni. Quando un agente della polizia ferroviaria mi fece risvegliare, a Città del Messico, scoprii che sul marciapiede della stazione si era raccolta una folla. Lanciai un urlo involontario che incuriosì e meravigliò le facce che premevano intorno al mio scompartimento, e fui contento quando il poliziotto allontanò tutti con un grido, lasciando passare solo il medico azzimato che aveva tentato di farsi strada fino a me. Il fatto che gridassi non aveva in sé nulla di strano, ma non era per l'orribile spettacolo che mi aspettavo di vedere in terra; anzi, direi che il mio terrore dipendesse da qualcosa che non c'era: sul pavimento infatti non vi erano tracce del mor-
to. Il poliziotto mi confermò che non c'era stato neppure quando aveva aperto la porta, trovandomi svenuto all'interno. Nessun altro aveva acquistato biglietti per quello scompartimento, e infatti ero l'unico occupante. Io e la mia valigia, nient'altro. Ero stato solo per tutto il viaggio da Querétaro. Alle mie domande angosciose e insistenti il poliziotto, il dottore e i semplici spettatori si toccarono la fronte con un dito, in un gesto eloquente. Si era trattato di un sogno o ero pazzo? Ricordai la mia ansia, i nervi tesi e rabbrividii. Ringraziai l'agente e il dottore, mi liberai dei curiosi e barcollando raggiunsi un taxi che mi portò al Fonda Nacional; di là spedii un telegramma a Jackson e dormii tutta la mattina, nella speranza di riprendere il controllo su me stesso. Mi feci svegliare all'una del pomeriggio, in tempo per prendere il treno a scartamento ridotto che portava nella zona delle miniere. Mi alzai, ma c'era un telegramma di Jackson sotto la porta: quella mattina Feldon era stato trovato nelle montagne, morto, e la notizia era stata comunicata alla ditta verso le dieci. I documenti erano al sicuro e l'ufficio di San Francisco era stato avvertito. Il viaggio, la terribile prova e il vero e proprio incubo di quella notte non erano serviti a niente! Sapendo che McComb avrebbe preteso un rapporto personale nonostante la piega che avevano preso gli eventi, spedii un altro telegramma e presi il treno a scartamento ridotto. Quattro ore dopo fui depositato, con le ossa rotte e i muscoli a pezzi, nella stazione della miniera numero tre, dove Jackson mi aspettava per darmi il benvenuto. Era così preso dalle sue faccende che non notò il mio aspetto ancora scosso e malandato. Il racconto del sovrintendente fu breve, e me lo riferì mentre mi guidava alla capanna dove avevano sistemato il corpo di Feldon, tra le alture sopra l'arrastre. Feldon era sempre stato un tipo strano, dal carattere cupo, e da quando era stato assunto un anno prima questo era stato ben chiaro. Lavorava a un'invenzione segreta e si lamentava di essere spiato; d'altra parte aveva rapporti ambigui e fin troppo camerateschi con la mano d'opera di colore. Conosceva il lavoro, il paese e la gente, questo è certo, e spesso si spingeva nelle colline dove vivevano i peones. Laggiù prendeva parte ad alcuni dei loro vecchi riti pagani. A volte faceva allusioni a misteriosi segreti e straordinarie potenze, ma altrettanto spesso vantava la sua abilità meccanica. Negli ultimi tempi la sua personalità era andata deteriorandosi: era diventato assurdamente sospettoso dei colleghi e non c'era dubbio che avesse emulato i suoi amici nativi nei furti di minerale, perché ormai di denaro non ne aveva più. Per una ragione o per l'altra gli occorrevano
grandi somme, e riceveva continuamente grossi pacchi da laboratori e fabbriche di Città del Messico o degli Stati Uniti. Per quanto riguarda il furto dei documenti, doveva essere stato un assurdo gesto di ribellione contro lo "spionaggio" che temeva di subire. Era matto come un cavallo, nessuno ne dubitava, perché aveva attraversato il paese fino a una caverna inaccessibile sulle pendici della proibitiva Sierra de Malinche, dove non vivono bianchi, e aveva fatto cose straordinarie. La caverna, che nessuno avrebbe mai trovato se non vi fosse accaduta la tragedia, era piena di orrendi idoli aztechi e di altari, questi ultimi coperti di ossa carbonizzate e di vittime più recendi ma di dubbia natura. I nativi non erano disposti a parlare, anzi giuravano di non sapere niente, ma era facile capire che la caverna rappresentava per loro un vecchio punto d'incontro, e che Feldon ne aveva imitato in tutto le pratiche. I ricercatori l'avevano trovata grazie ai canti e all'urlo finale. Era successo verso le cinque del mattino, e dopo essersi accampato tutta la notte il gruppo si era preparato a tornare alle miniere a mani vuote. Poi qualcuno aveva sentito in lontananza un debole rullare di tamburi e s'era reso conto che in un punto imprecisato della montagna a forma di cadavere era cominciato uno degli orribili rituali amerindi. Nella litania ricorrevano i vecchi nomi - Mictlanteuctli, Tonatuhmetzli, Cthulhutl, Ya-R'lyeh e tutti gli altri - ma la cosa strana era che ad esso si mescolavano parole inglesi: e in inglese autentico, non la lingua corrotta dei mezzosangue. Guidati dai canti, gli uomini si erano diretti verso il punto da cui provenivano e avevano scalato il fianco della montagna coperto di vegetazione selvaggia. Era una cosa terribile, peggiore di qualsiasi litania che avessero udito prima. Sembrava che nell'aria ci fosse del fumo, e ovunque si diffondeva un odore acre, nauseabondo. A un tratto si erano imbattuti nell'ingresso della caverna, mimetizzato da fronde di mesquite da cui uscivano nuvole di fumo pestilenziale. L'interno era illuminato, e la luce tremante delle candele che i partecipanti dovevano aver cambiato meno di mezz'ora prima rischiarava gli orrendi altari e le immagini grottesche. Sul pavimento cosparso di ghiaia si trovava la cosa allucinante che aveva fatto indietreggiare gli uomini della compagnia: era Feldon, la testa ridotta a un ammasso di carne bruciata da uno strano apparecchio che qualcuno gli aveva applicato al cranio. Si trattava di una specie di gabbia metallica collegata a una batteria male in arnese, e che sembrava caduta da uno degli altari vicini. Quando gli uomini l'avevano vista si erano scambiati occhiate perplesse, ripensando al "boia elettrico" della cui in-
venzione Feldon si era sempre vantato: oggetto che a suo dire era stato respinto da tutti quelli a cui l'aveva sottoposto, ma che poi avevano tentato di rubargli e copiargli. I documenti erano al sicuro nella cartella di Feldon, che giaceva accanto al corpo ed era aperta; un'ora dopo la colonna di cercatori era ripartita per la miniera numero tre con il suo macabro fardello adagiato su una barella improvvisata. Questo è tutto, ma bastò a farmi impallidire quando Jackson mi guidò alla capanna oltre l'arrastre dove si trovava il corpo. L'immaginazione non mi mancava e sapevo fin troppo bene che la tragedia che mi era stata riferita aveva un risvolto soprannaturale le cui radici affondavano nell'incubo. Sapevo ciò che avrei visto dietro la porta socchiusa intorno alla quale si affollavano i minatori curiosi, e quando fui davanti al grande corpo in abiti di velluto, alle mani stranamente delicate, ai ciuffi di barba bruciacchiata e alla macchina infernale, non battei ciglio: la batteria era lievemente danneggiata e la calotta che poggiava sul cranio era annerita dalla cosa carbonizzata che conteneva. La grande valigia rigonfia non mi sorprese e arretrai alla vista di due sole cose: i fogli di carta ripiegati che sporgevano dalla tasca sinistra e l'aspetto della tasca destra, rigonfia come se fino a poco prima avesse contenuto qualcosa. Approfittando di un momento in cui nessuno guardava, allungai una mano e presi i fogli fin troppo familiari; quindi li appallottolai, senza avere il coraggio di dare un'occhiata alla scrittura. Adesso, in un certo senso, mi spiace che il terrore mi abbia indotto a bruciarli quella notte stessa, senza osare guardarli. Eppure, avrebbero potuto provare o negare il mio dubbio... dubbio che, comunque, avrei potuto risolvere chiedendo notizie della pistola che il coroner aveva recuperato dalla tasca destra. In realtà, non ebbi mai il coraggio di chiedere nulla: infatti, dopo la notte sul treno la mia pistola era scomparsa. Anche alla mia matita qualcuno aveva rifatto la punta in modo rozzo e grossolano, molto diverso dal mio metodo abituale (del resto l'avevo temperata non più tardi di venerdì pomeriggio, con il temperamatite che si trovava nel vagone del presidente McComb). Alla fine, dunque, tornai a casa in preda a mille interrogativi, e forse è un bene che sia andata così. Il vagone privato era stato riparato e partii senza ostacoli da Querétaro, ma il mio più grande sollievo fu quando attraversai il Rio Grande e rientrai a El Paso, negli Stati Uniti. Il venerdì successivo ero a San Francisco e il matrimonio che era stato rinviato si celebrò la settimana seguente. Per quanto riguarda ciò che accadde realmente quella notte... come ho
detto, non oso fare ipotesi. Quell'uomo, Feldon, era sicuramente pazzo, ma alla sua follia personale aveva mescolato per buona misura una manciata di stregonerie azteche più antiche della storia, e che nessuno avrebbe il diritto di conoscere. Era un inventore geniale, non lo si può negare: quella batteria era proprio ciò che Feldon prometteva. In seguito appresi che negli anni precedenti era stato messo al bando e ridicolizzato dalla stampa, dal pubblico e in genere dai centri di potere. Per alcuni uomini la delusione è sopportabile solo fino a un certo punto; in ogni caso, influenze di natura più impalpabile si erano messe all'opera. Fra parentesi, era stato effettivamente un soldato agli ordini di Massimiliano. Quando racconto la mia storia, molti mi danno del bugiardo senza mezzi termini; altri ricorrono alla psicopatologia (Dio sa se ero coi nervi a pezzi) e altri ancora parlano di una sorta di "proiezione astrale". Certo il mio desiderio di catturare Feldon ebbe l'effetto di concentrare su di lui tutti i miei pensieri, e non è escluso che la magia india gli permettesse di captarli a distanza. Era stato il pazzo a trasferirsi nella carrozza ferroviaria o ero stato io nella montagna a forma di cadavere? Che cosa sarebbe accaduto, se non avessi ritardato il suo piano? Non so, lo confesso, e non sono sicuro di volerlo sapere. Da allora non sono più tornato in Messico, e, come ho detto all'inizio, non mi piace sentir parlare della sedia elettrica. (The Electric Executioner, 1929?) K'n-yan (con Zealia Brown Bishop) The Mound è ritenuto da molti appassionati il capolavoro del Lovecraft "revisore": un racconto che, pur partendo da un'esile idea fornita dalla cliente Zealia Brown Bishop, si trasforma in una lunga storia del genere "miti di Cthulhu" e ci trasporta in un mondo alieno per mezzo di un tipico espediente lovecraftiano: un manoscritto del passato. Le avventure di Panfilo de Zamacona e la mostruosa utopia di Xinaian non rappresentano, forse, una vetta del Lovecraft artista, ma costituiscono una svolta interessante nella mitologia da lui inventata e contengono un pizzico di perversa satira sociale, etica e perfino politica. Peccato che, a differenza di quanto avviene in Charles Dexter Ward, il manoscritto di Zamacona ci venga riassunto da un lettore moderno: non sarebbe stato male, da un punto di vista narrativo, inserirne congrui passaggi "tradotti"
direttamente dall'originale spagnolo. Per la cronaca, diremo che la signora Bishop aveva fornito a Lovecraft la seguente traccia: c'è una collinetta dove appaiono due strani fantasmi, uno di giorno e uno di notte. Il fantasma notturno è quello di una squaw decapitata... Partendo da così poco il nostro autore immagina un intero romanzo d'avventure nel sottosuolo e si consente non poche frecciate verso la banalità delle ghost stories convenzionali. Ci auguriamo che serva di lezione a tutti. Una nota particolare merita il testo: secondo alcune indiscrezioni Frank Belknap Long avrebbe contribuito alla stesura di The Mound, ma S.T. Joshi e altri ricercatori hanno potuto dimostrare che la cosa è priva di fondamento. Long, che all'epoca fungeva da agente letterario della signora Bishop, si limitò a "tagliare" il lunghissimo racconto nel tentativo di piazzarlo sul mercato dei pulp magazines. Fallito ogni tentativo, il dattiloscritto originale venne restaurato e rimase così fino alla morte di Lovecraft. All'epoca della pubblicazione su "Weird Tales" (novembre 1940) e presso l'Arkham House (in Beyond the Wall of Sleep, 1943, e The Horror in the Museum and Other Revisions, 1970) il testo fu di nuovo abbreviato e "radicalmente rivisto" da August Derleth, stando almeno alle ricerche di S.T. Joshi. La prima pubblicazione integrale di questo racconto è avvenuta nella seconda edizione riveduta di The Horror in the Museum (Arkham House, 1989) ed è su di essa che si basa la nostra traduzione. Il testo, stabilito da S.T. Joshi, riproduce quello del dattiloscritto preparato da Frank Belknap Long per conto di Lovecraft e della sua cliente, signora Bishop. 1 È da pochi anni che l'opinione pubblica ha smesso di considerare il West come un mondo nuovo, pregiudizio che aveva potuto affermarsi perché la nostra civiltà vi ha messo radici solo di recente. Oggi, tuttavia, gli esploratori scavano sotto la superficie e portano alla luce testimonianze di insediamenti umani molto antichi, sviluppatisi e tramontati fra quei monti e pianure in età preistorica. Raramente ci soffermiamo a pensare che esistono villaggi Pueblo vecchi di duemilacinquecento anni, né ci fa trasalire la scoperta di una cultura messicana che risale a diciassettemila o diciottomila anni prima di Cristo. Eppure ci giungono voci di reperti ancora più antichi: ad esempio, uomini primitivi contemporanei di specie animali estinte,
e noti solo attraverso pochi frammenti d'osso e manufatti. Basterebbe questo a privare di ogni giustificazione l'idea dell'ovest come "regione vergine". Gli europei hanno più sviluppato di noi il senso che permette di cogliere l'estrema antichità delle civiltà che si sono succedute sul continente, spesso lasciando testimonianze sepolte; non più tardi di due anni fa uno scrittore inglese definì l'Arizona "una regione lunare, a suo modo piacevole ma dura e antica... una terra solitaria, del passato remoto". Per quanto mi riguarda sono consapevole della stupefacente e quasi terribile antichità dell'ovest, anzi potrei dare dei punti a qualsiasi europeo. La cosa è legata a un fatto che accadde nel 1928 e che mi piacerebbe liquidare come il frutto di un'allucinazione, ma che ha lasciato nella mia coscienza un tale spavento da non consentirmi di liberarmene facilmente. Accadde in Oklahoma, dove il mio lavoro di etnologo specializzato in culture indiane mi porta spesso e dove già in passato mi ero imbattuto in avvenimenti sconcertanti, diabolici. Non voglio essere frainteso: l'Oklahoma è molto più che una semplice terra di frontiera affidata all'awenturosità dei pionieri e delle agenzie di sviluppo; è una terra di antichissime tribù, custodi di memorie ancestrali, e quando i tamburi battono senza posa sulle cupe pianure d'autunno l'animo degli uomini avverte una pericolosa affinità con i segreti appena sussurrati del mondo primitivo. Personalmente sono un bianco e vengo dalla costa orientale, ma anche se non mi fa piacere ammetterlo i riti di Yig, padre dei serpenti, mi danno i brividi al solo pensarci. Ho visto e sentito troppe cose per permettermi di essere scettico. Lo stesso vale per l'incidente del 1928: vorrei riderne, ma non posso. Mi ero spinto in Oklahoma per ricostruire uno dei molti racconti soprannaturali che circolavano fra i coloni bianchi ma che trovavano negli indiani dei seguaci altrettanto fedeli e che, ne ero sicuro, in ultima analisi derivavano proprio da fonte indiana. Queste storie di fantasmi raccontate nei grandi spazi hanno caratteristiche particolari: quando le riferiscono i bianchi suonano piatte e banali, ma qualcosa le collega infallibilmente alle fasi più ricche e oscure della mitologia primitiva. Centro di tutti i racconti erano gli immensi "tumuli" solitari e dall'aspetto artificiale che sorgevano nella parte occidentale dello stato; e tutti trattavano di apparizioni straordinarie per aspetto e comportamento. La più comune e forse la più antica di queste storie ebbe una certa risonanza nel 1892, quando un funzionario governativo di nome John Willis si inoltrò nella regione dei tumuli inseguendo una banda di ladri di cavalli e ne uscì raccontando una storia fantastica di cavalli che di notte volavano
nell'aria fra grandi eserciti di fantasmi invisibili; di battaglie che facevano tremare l'aria, rumor di zoccoli e piedi umani; di colpi e tonfi d'ogni specie, del cozzare di metallo su metallo, del grido strozzato dei guerrieri e della rovina di corpi umani ed equini. Tutto questo sì era verificato al chiaro di luna, e sia il funzionario che il suo cavallo ne erano stati spaventati. I rumori si erano protratti per un'ora ogni volta: vividi ma sommessi, come se arrivassero da lontano e fossero portati dal vento, mentre gli eserciti in battaglia erano sempre rimasti invisibili. In seguito Willis apprese che il luogo dove si erano manifestati i suoni era notoriamente maledetto, e sia i coloni che gli indiani lo evitavano di proposito. Molti avevano visto, o intravisto, cavalieri armati che lottavano in cielo e ne avevano fornito una descrizione vaga e ambigua. I coloni giuravano che la cavalleria fantasma fosse formata da indiani, pur se non appartenenti ad alcuna tribù conosciuta e dotati di armi e costumi straordinari. Persino i cavalli, secondo quei vaghi testimoni, non erano forse autentici cavalli. Gli indiani, d'altra parte, non consideravano i fantasmi come loro connazionali. Li chiamavano semplicemente "quelli", "la vecchia gente" o "gli abitanti del sottosuolo", e sembrava che li venerassero o li temessero troppo per parlarne. Nessun etnologo era riuscito a ottenere una descrizione specifica di tali creature, anche perché sembrava che nessun testimone le avesse viste con chiarezza. Dai fenomeni che si verificavano nella regione gli indiani avevano ricavato qualche detto proverbiale: "Uomini molto vecchi avere spirito grande; chi non molto vecchio, non molto grande. Uomini più vecchi del tempo avere spirito così forte che essere quasi carne; gli antichi e gli spiriti degli antichi essere tutt'uno, stessa cosa". Naturalmente per un etnologo non c'era niente di nuovo: fra gli indiani Pueblo e quelli delle pianure esistono molte leggende di città nascoste e ricche di tesori, nonché di razze sotterranee; sono queste tradizioni che spinsero Coronado, secoli fa, nella vana ricerca della favolosa Quivira. Ciò che portò me nell'Oklahoma occidentale era tuttavia più definito e tangibile: un racconto locale e ben preciso che, sebbene molto antico, risultava sconosciuto all'etnologia ufficiale e al tempo stesso conteneva una chiara descrizione dei fantasmi di cui parlava. Un brivido supplementare è aggiunto dal fatto che la storia proveniva dalla lontana città di Binger, nella contea di Caddo, luogo che da tempo conoscevo come il teatro di un avvenimento orribile, e in parte inspiegabile, connesso con il mito del serpente. Preso nella sua forma esteriore il racconto era molto semplice e ingenuo, centrato com'era intorno a una modesta elevazione a forma di tumulo soli-
tario che sorgeva nella pianura a circa mezzo chilometro dalla cittadina; alcuni ritenevano che il tumulo, o collina che fosse, avesse origine naturale; ma secondo altri era la necropoli o il sacro altare di alcune tribù preistoriche. Gli abitanti della cittadina affermavano che la gobba in mezzo alla prateria fosse sorvegliata da due indiani-fantasma che si alternavano nel loro compito: un vecchio che passeggiava sulla cima del tumulo dall'alba al tramonto, incurante del clima, e che si allontanava solo per pochi momenti; e una squaw che lo sostituiva di notte, munita di una torcia dalla fiamma azzurra che splendeva fino al mattino. Quando la luna era piena la strana figura della squaw poteva esser vista con una certa chiarezza, e oltre metà degli abitanti della cittadina concordavano nel dire che l'apparizione fosse senza testa. Le opinioni divergevano sui motivi e la natura spettrale dei due esseri. Secondo alcuni l'uomo non era affatto un fantasma, ma un indiano vivo che aveva ucciso e decapitato la squaw per portarle via un tesoro e poi l'aveva sepolta nel tumulo. Secondo questa teoria l'uomo camminava sulla cima in preda al rimorso, vincolato dallo spirito della vittima che dopo il tramonto prendeva forma visibile. Altre teorie, più coerenti nella credenza soprannaturale, ritenevano che sia l'uomo che la donna fossero fantasmi, e che il vecchio avesse ucciso la squaw e si fosse suicidato in un remoto passato. Queste e altre varianti minori avevano avuto corso fin dall'inizio della colonizzazione del territorio Wichita, nel 1889. Mi fu detto che a conferma delle leggende esisteva un gran numero di fenomeni straordinari, e che ognuno avrebbe potuto osservarli da solo. Non molte storie di fantasmi offrono l'opportunità di un riscontro così facile e aperto, ed ero ansioso di vedere quali meraviglie si nascondessero in quell'oscura cittadina dimenticata dagli uomini e del tutto alienata dalla luce implacabile della conoscenza scientifica. Così alla fine dell'estate 1928 presi il treno per Binger, e mentre i vagoni sferragliavano, esitanti, sul binario unico che ci portava in una regione sempre più solitaria, cominciai a riflettere su quegli arcani misteri. Binger è un modesto cumulo di case di legno e negozi, in mezzo a una regione piatta e ventosa spazzata da nuvole di polvere rossa. A parte gli indiani della vicina riserva, gli abitanti sono appena cinquecento e la loro occupazione principale è l'agricoltura. La terra è abbastanza fertile, ma il boom del petrolio non ha raggiunto questa parte dello stato. Il treno arrivò al crepuscolo ed io mi sentii perduto e a disagio: quando il convoglio si allontanò verso sud, senza di me, mi sembrò di esser tagliato fuori da tutto
ciò che è sano, normale e quotidiano. Il marciapiede della stazione era pieno di sfaccendati dall'aspetto curioso, e quando domandai dell'uomo per il quale mi era stata fornita una lettera di presentazione si prodigarono nel darmi informazioni. Fui guidato in una normalissima strada di paese la cui superficie irregolare era rossa come la terra sabbiosa della regione, e finalmente fui lasciato davanti alla porta del mio ospite. L'autore della lettera di presentazione aveva avuto una buona idea, perché il signor Compton era un uomo di grande intelligenza e responsabilità, mentre sua madre (che viveva con lui ed era nota familiarmente come "Nonna Compton"), apparteneva alla prima generazione di pionieri ed era una miniera di aneddoti e folclore. Quella sera i Compton riassunsero per me le principali leggende della cittadina, dimostrandomi che il caso al quale m'interessavo era uno dei più straordinari e importanti. A quanto pare gli abitanti di Binger consideravano i fantasmi una realtà di fatto; due generazioni di uomini erano nati e cresciuti all'ombra del misterioso tumulo solitario e delle due inquietanti figure che lo sorvegliavano. Le vicinanze della collina erano comprensibilmente temute ed evitate, e come risultato in quarant'anni di colonizzazione la cittadina e le vicine fattorie non si erano estese in quella direzione; nonostante questo, alcuni avventurosi avevano visitato il luogo maledetto a più riprese. Una parte di essi riferivano che intorno all'aborrita elevazione non c'erano fantasmi: la sentinella solitaria era sparita prima che raggiungessero il punto dell'avvistamento, e dopo aver risalito il fianco scosceso della collina gli esploratori avevano potuto esaminare la cima in tutta tranquillità. Ma una volta arrivati sulla vetta appiattita non avevano trovato che un incolto groviglio di erbacce: impossibile stabilire dove, si fosse nascosto il misterioso indiano. Probabilmente era sceso lungo il fianco opposto ed era riuscito a fuggire nella pianura senza che lo vedessero, eppure nel raggio di qualche chilometro non c'era nessun conveniente nascondiglio. Non sembrava che nel gigantesco tumulo vi fosse un'apertura, e questa conclusione fu raggiunta dopo una meticolosa esplorazione della vegetazione che ne copriva i fianchi. In alcuni casi gli esploratori più sensibili avevano affermato di percepire una presenza invisibile e soffocante, ma senza riuscire ad essere più precisi. Era come se, cercando di avanzare in una certa direzione, l'aria si facesse più resistente. È inutile precisare che queste ricerche si erano svolte di giorno, perché niente al mondo avrebbe potuto indurre un uomo bianco o rosso ad avvicinarsi alla sinistra elevazione dopo il tramonto, e certo gli indiani non osavano andarci neppure in
piena luce. Ma il terrore della collina maledetta non era nato dai racconti di questi esploratori equilibrati e scrupolosi: anzi, se tutto si fosse limitato alle loro esperienze il fenomeno non avrebbe raggiunto le proporzioni che assunse nel folclore locale. Il fatto sinistro è che altri cercatori d'avventura, meno fortunati, non erano più tornati indietro o avevano riportato strane menomazioni nella mente e nel corpo. Il primo caso sfortunato si era verificato nel 1891, quando un giovane di nome Heaton si era diretto verso la collina armato di vanga per vedere quali segreti riuscisse a portare alla luce. Dagli indiani aveva sentito storie bizzarre, e aveva riso del racconto di un giovanotto che sosteneva di essersi spinto fino al tumulo e di non aver trovato nulla. Mentre l'altro compiva il suo viaggio Heaton aveva osservato la collina con un cannocchiale, e quando l'esploratore si era avvicinato al luogo degli avvistamenti l'osservatore a distanza si era accorto che la sentinella indiana scompariva nella cima del tumulo, come se ci fosse stata una botola e sotto di essa una scala. L'altro giovane non aveva potuto vedere in che modo l'indiano sparisse, ma quando era arrivato in cima non ne aveva trovato traccia. Quando Heaton partì per la propria spedizione decise di andare a fondo della cosa, e gli osservatori rimasti in paese lo videro esplorare palmo a palmo la vegetazione che copriva la sommità. Poi il giovane scomparve e non lo si rivide che dopo lunghe ore, al crepuscolo, quando la torcia della squaw decapitata cominciò a diffondere la sua luce spettrale sul tumulo lontano. Circa due ore dopo il tramonto Heaton entrò barcollando in paese, privo della vanga e altre cose che gli appartenevano, per lanciarsi in un monologo isterico e sconnesso. Urlò di abissi spaventosi, mostri, sculture e statue terribili, catturatori inumani e grottesche torture: anomalie così fantastiche e improbabili che non era facile neppure ricordarle. «Antichi, antichi, antichi!» mormorava ripetendosi. «Gran Dio, essi sono più antichi della terra e sono giunti da altri luoghi... Possono leggerti nel pensiero e farti fare quello che vogliono... Sono mezzo uomini e mezzo spiriti, sì, non c'è un confine preciso... Si dissolvono, riprendono forma, ma sono indefinibili... eppure noi discendiamo da loro, siamo i figli di Tulu... laggiù tutto è d'oro... animali mostruosi, esseri semiumani, schiavi morti... follia... Iä! Shub-Niggurath! Quell'uomo bianco... mio Dio, che cosa gli hanno fatto!» Per otto anni Heaton fu l'idiota del villaggio, dopodiché morì in un attacco epilettico. Dopo la sua tremenda avventura si verificarono altri due
casi di follia e otto di sparizione totale, sempre in relazione alla misteriosa collina. Subito dopo il ritorno di Heaton, tre uomini disperati e decisi a tutto si erano avventurati insieme sulla cima; erano armati fino ai denti e avevano con sé badili e picconi. Alcuni osservatori rimasti in paese videro il fantasma dell'indiano dissolversi non appena gli esploratori furono abbastanza vicini, poi videro gli uomini arrampicarsi sulla cima dell'elevazione e cominciare a rovistare fra i cespugli. Di colpo i tre scomparvero nel nulla e nessuno li rivide più, ma un osservatore dotato di un potente cannocchiale credette di vedere strane forme intorno ai tre sventurati, forse trascinati con la forza nel sottosuolo; purtroppo questo resoconto non è mai stato provato. Solo quando gli incidenti del 1891 furono dimenticati qualcuno osò tentare nuove esplorazioni. Poi, verso il 1910, un uomo troppo giovane per ricordare le terribili esperienze dei suoi predecessori compì una spedizione verso il luogo maledetto e non trovò nulla. Entro il 1915 le paure più assurde e le fantastiche dicerie del '91 si erano ridotte a una serie di banali racconti di fantasmi, come ne sopravvivono ancora ai giorni nostri; questa, almeno, era la situazione tra la popolazione bianca. Nella vicina riserva, tuttavia, i vecchi indiani la pensavano diversamente e restavano attaccati alle tradizioni di un tempo. Più o meno a quell'epoca si manifestò una seconda ondata di curiosità nei confronti della collina, con relative spedizioni esplorative: numerosi avventurieri visitarono la zona e tornarono sani e salvi. Una coppia di viaggiatori provenienti dall'est, in particolare, si recò in cima al cumulo con vanghe e altra attrezzatura; si trattava di archeologi che lavoravano per una piccola università e avevano compiuto una serie di ricerche fra gli indiani. In paese nessuno seguì la spedizione, ma è un fatto che i due non tornarono indietro. Il gruppo incaricato delle ricerche - del quale faceva parte anche il mio ospite, Clyde Compton - non trovò tuttavia niente di straordinario. Il viaggio successivo fu quello del vecchio capitano Lawton, un duro pioniere che era stato fra i primi ad avventurarsi nella regione nel 1889, ma che poi non vi era più tornato. Ricordava la collina e il fascino che aveva esercitato su di lui per anni, ed essendo ormai in pensione aveva deciso di cercare la soluzione del vecchio enigma. La lunga familiarità con i miti indiani gli aveva permesso di formarsi un quadro molto più fantastico di quello dipinto dai semplici abitanti del paese, e nel fare i preparativi si era assicurato che non gli mancasse nulla per un'estesa serie di scavi. Lawton aveva risalito la collina il mattino dell'11 maggio 1916, mentre almeno una ventina di persone - in paese e nella pianura circostante - lo tenevano d'oc-
chio con il cannocchiale. Il capitano scomparve all'improvviso, mentre tagliava la vegetazione selvatica con un falcetto. I testimoni poterono dire soltanto che un attimo prima Lawton era sulla collina, l'attimo dopo era svanito nel nulla. Per più d'una settimana a Binger nessuno ne seppe più niente; poi, nel cuore della notte, un essere irriconoscibile si trascinò nel centro della borgata. Ancora oggi si discute animatamente intorno alla sua identità. L'individuo affermò di essere (o di essere stato) il capitano Lawton, anche se appariva decisamente più giovane del vecchio che si era arrampicato sulla collina. Pareva che avesse perso almeno quarant'anni: i capelli erano neri come il carbone e il volto, pur stravolto da un terrore senza nome, non era attraversato nemmeno da una ruga. A Nonna Compton ricordava in modo straordinario l'aspetto del capitano nell'89. Aveva i piedi troncati di netto alle caviglie e i moncherini erano guariti in modo addirittura meraviglioso, se l'uomo era effettivamente quello che una settimana prima si era avviato verso la collina con le proprie gambe. Il mutilato ripeteva cose incomprensibili, in particolare il nome "George Lawton, George E. Lawton", come cercando di rassicurarsi sulla propria identità. Per il resto, come Nonna Compton osservò prontamente, le cose di cui farfugliava somigliavano alle allucinazioni del povero Heaton nel '91, anche se c'era qualche piccola differenza. «La luce azzurra, la luce azzurra!» borbottava il mutilato. «È sempre laggiù, più antica di qualunque essere vivente, più dei dinosauri... Sempre la stessa, solo più debole... non muoiono mai, quelli... stanno sottoterra e meditano, meditano... Lo stesso popolo, parte uomini e parte gas... E i morti che camminano, i morti che fanno i lavori pesanti... Oh, e quelle bestie, unicorni semiumani... Case e città d'oro più antiche del tempo, molto di più... Sono venuti dalle stelle: il grande Tulu, Azathoth, Nyarlathotep... Aspettano, aspettano...» Il disgraziato morì prima dell'alba. Naturalmente fu aperta un'inchiesta e gli indiani della riserva vennero messi sotto torchio, ma non sapevano niente e non poterono aggiungere altro. Solo Aquila Grigia, un vecchio capo Wichita che aveva più di cento anni e affrontava con spirito diverso certe paure, si degnò di brontolare qualche consiglio. «Voi bianchi lasciare in pace quelli del sottosuolo. Essi non buoni: popolo del sottosuolo molto antico, tutti essere antichi. Yig, grande padre dei serpenti, vivere laggiù; Yig essere Yig. Tirawa, grande padre di uomini, vivere là; Tirawa essere Tirawa. Nessuno morire, nessuno invecchiare. Es-
si come l'aria, vivere e aspettare. Una volta essi vivere in superficie e combattere: costruire grande tepee di terra, portare oro in abbondanza. Essi avere moltissimo oro. In seguito essi andare via, costruire nuovi rifugi. Noi e voi essere loro discendenti, finché venire grandi acque. Tutto allora cambiare. Essi non più venire fuori, non più permettere a nessuno di entrare. Se entrare, non più uscire. Voi lasciare essi in pace, non avere cattiva medicina. Uomo rosso sapere, uomo rosso non essere catturato. Bianchi troppo curiosi, non tornare più indietro. Stare lontani da piccole colline, loro non buone. Aquila Grigia dice questo.» Se Joe Norton e Rance Wheelock avessero apprezzato i consigli del vecchio capo, probabilmente oggi sarebbero ancora fra noi: invece non se ne curarono affatto. Erano uomini colti e materialisti, non temevano nulla in cielo e sulla terra; la loro teoria era che un gruppo di banditi indiani avesse costruito un rifugio segreto nella collina. Erano già stati sul posto in precedenza, ma ora ci tornarono con l'intenzione di vendicare il vecchio capitano Lawton e qualcuno li sentì vantarsi che l'avrebbero fatto a costo di buttare giù la collina. Clyde Compton li tenne d'occhio con un potente binocolo e li vide aggirarsi intorno alla base della sinistra elevazione: evidentemente volevano esplorare il territorio palmo a palmo. Scomparvero dietro la curva del tumulo e il tempo passò senza che apparissero di nuovo; da quel momento in poi, nessuno li vide più. La collina tornò ad essere il centro di storie agghiaccianti, e solo la preoccupazione suscitata dalla Grande Guerra impedì che il terrore dilagasse oltre i confini di Binger e del suo folclore. Dal 1916 al 1919 il sito non fu più esplorato, e probabilmente sarebbe continuato così per molto tempo ancora; ma la spericolatezza dei giovani reduci dalla Francia fece in modo che le cose andassero ditersamente. Dal 1919 al 1920 si registrò una vera e propria valanga di spedizioni alla collina, tutte ad opera di giovani veterani induriti dalla guerra; ma la febbre dell'avventura calò notevolmente quando gli esploratori tornarono alla base illesi e sprezzanti dei pretesi misteri del luogo. Nel 1920 -tanto è corta la memoria umana - il tumulo e le sue leggende erano diventati quasi una barzelletta. La blanda storia della squaw assassinata soppiantò le tradizioni più oscure e la gente non parlò d'altro; proprio a quell'epoca, tuttavia, due giovanotti inquieti - i poco fantasiosi e incalliti fratelli Clay - decisero di trovare il corpo della squaw decapitata e il tesoro a causa del quale il vecchio indiano doveva averla uccisa. Un pomeriggio di settembre si avviarono verso la loro meta: è il periodo
dell'anno in cui i tamburi indiani diffondono il loro battito incessante sulla piatta regione di terre rosse. Nessuno li vide allontanarsi e i genitori non si preoccuparono prima che fossero trascorse diverse ore. Solo allora si diffuse l'allarme e un gruppo di ricerca partì verso la collina, senza riuscire a far luce nell'impenetrabile barriera di silenzio e di misteri. Dopo un certo tempo, tuttavia, uno dei fratelli fece ritorno: era Ed, il maggiore, con i capelli e la barba biondi diventati bianchi per diversi centimetri, come quelli di un albino. Sulla fronte aveva una bizzarra cicatrice, come un geroglifico impresso a fuoco. Tre mesi dopo essere scomparso insieme al fratello Walker, rientrò in casa furtivamente, di notte. Portava addosso solo una coperta a strani disegni, che gettò nel fuoco non appena ebbe indossato i propri abiti. Raccontò ai genitori che lui e Walker erano stati catturati da indiani sconosciuti, né Wichita né Caddo, e che erano stati tenuti prigionieri in una zona imprecisata a occidente. Walker era morto sotto le torture, ma Ed, sia pure a caro prezzo, era riuscito a fuggire; l'esperienza era stata terribile e in quel momento non riusciva a parlarne. Aveva bisogno di riposare, e comunque non sarebbe servito a niente dare l'allarme e cercare di rintracciare gli indiani, sia pure per dargli una lezione. Non erano del tipo che si può catturare o punire, e anzi per il bene di Binger - per il bene del mondo intero - era meglio non inseguirli nel rifugio segreto. La verità è che non erano esattamente indiani, ma questo punto lo avrebbe chiarito più tardi; per ora doveva riposare. Ed aggiunse che sarebbe stato preferibile non allarmare la cittadinanza con la notizia del suo ritorno, e che per il momento si sarebbe ritirato al piano di sopra perché aveva bisogno di dormire. Prima di incamminarsi per la scala scricchiolante che portava alla sua stanza, Ed prese una matita e un taccuino dal tavolo del soggiorno e una pistola automatica che suo padre teneva in un cassetto della scrivania. Tre ore più tardi risuonò lo sparo: Ed Clay si era piantato una pallottola nella tempia, e aveva la pistola ancora stretta nella mano sinistra; sul comodino traballante, accanto al letto, c'era un foglio con un messaggio sommario. A giudicare dal mozzicone di matita che gli era rimasto e dalla gran quantità di carta incenerita nella stufa, sembrava chiaro che in un primo momento avesse scritto molto di più, ma che avesse finalmente deciso di non rivelare ciò che sapeva, a parte qualche vaga allusione. Il frammento superstite non era che un assurdo avvertimento vergato in una grafia distorta, il vaneggiamento di un cervello messo a dura prova dalle fatiche e tuttavia sorprendente per un uomo che era sempre stato attaccato
ai fatti concreti della realtà. Il testo era il seguente: Per l'amore di Dio non vi avvicinate più alla collina, fa parte di un mondo infernale e così antico che non vi posso dire. Walker e io ci siamo stati e quelli ci hanno portato dentro. Possono trasformarti come vogliono e anche farti invecchiare, però il mondo esterno è impotente e la gente come noi non sa niente di quello che possono fare questi mostri. Fatto sta che vivono in eterno e sanno restare giovani quanto vogliono. Non si può dire se sono veramente uomini o spettri, ma quello che fanno è indescrivibile e l'apertura che si è aperta davanti a noi non è che uno degli ingressi. Chi può dire quant'è grande il loro regno? Dopo quello che ho visto non voglio vivere un giorno di più, vi assicuro che la guerra in Francia non era niente a confronto di questo. La gente non deve avvicinarsi alla collina, assolutamente. Dovevate vedere il povero Walker com'era ridotto alla fine... Vostro Ed Clay Quando venne eseguita l'autopsia si scoprì che tutti gli organi del giovane Clay erano stati spostati da sinistra a destra, come se frugandogli nel corpo lo avessero rivoltato come un guanto. Nessuno era in grado di dire se certe anomalie fossero state una caratteristica del giovane anche in passato, ma in seguito i verbali dell'esercito permisero di appurare che nel maggio 1919, quando era stato congedato, risultava perfettamente normale. Che ci fosse qualche irregolarità già in passato, e che una metamorfosi senza precedenti ma tutto sommato naturale avesse avuto luogo in quegli anni, è una questione ancora aperta; la stessa incertezza circonda il mistero del geroglifico sulla fronte. La disgrazia dei fratelli Clay segnò la fine delle esplorazioni sulla collina. Negli otto anni trascorsi da allora nessuno si è neppure avvicinato alla misteriosa elevazione, e ben pochi hanno osato anche solo puntarvi un cannocchiale. Di tanto in tanto la gente continua a gettare un'occhiata nervosa verso quello che sembra un tumulo smisurato e che s'innalza all'improvviso dal terreno pianeggiante, stagliandosi nel cielo occidentale; qualcuno rabbrividisce ancora al pensiero del puntolino nero che si può avvistare di giorno verso la sommità, come un guardiano che esegue il proprio dovere, o alla vista del bagliore fantasmagorico che appare la notte; nel complesso, tuttavia, la faccenda è accettata come un mistero che è meglio non cercar di risolvere, e di comune accordo gli abitanti del borgo evitano
l'argomento. Dopotutto non ci vuol molto a ignorare la collina, e in una regione di spazi illimitati come quella la vita della comunità può svolgersi lungo piste meglio battute. La zona del paese che guarda l'elevazione è rimasta addirittura senza strade, come se si trattasse di un deserto o una palude, e a testimonianza della banalità dell'immaginazione umana i racconti con cui bambini e stranieri vengono tenuti lontani dalla collina si sono ridotti ancora una volta alla trita leggenda dell'indiano assassino e della squaw sua vittima, con relativi fantasmi. Solo le tribù della riserva e i vecchi riflessivi come Nonna Compton ricordano gli accenni a visioni sacrileghe, al senso di minaccia cosmica che era possibile avvertire dietro i deliri di coloro ch'erano tornati dalla collina trasformati e distrutti. Si era fatto tardi e Nonna Compton era andata a letto da un pezzo quando Clyde finì di raccontarmi tutto questo. Non sapevo cosa pensare, ma mi ribellavo a qualsiasi idea che fosse in conflitto con il mio sano materialismo. Quale malefica influenza aveva spinto alla follia, alla fuga e alla morte i numerosi esploratori del tumulo? Benché impressionato ero deciso ad andare avanti nelle mie indagini, non certo a desistere. Bisognava che andassi a fondo della faccenda, come certo avrei fatto se avessi mantenuto i nervi saldi e una ferma determinazione. Compton intuì quali fossero le mie intenzioni e scosse la testa, preoccupato. Quindi mi invitò a seguirlo fuori di casa. Ci allontanammo dalla casa di legno, spingendoci lungo la tranquilla strada laterale, che in realtà era piuttosto un viottolo, e passeggiando sotto la pallida luna d'agosto giungemmo in una zona dove le case cominciavano a diradarsi. Nel cielo pendeva bassa la mezzaluna, che non eclissava molte stelle: a ovest riconobbi lo splendore di Altair e di Vega, in mezzo la fascia scintillante della Via Lattea. Il punto che Compton mi indicò si trovava al centro di quella vasta distesa di terra e cielo. A un tratto vidi una scintilla che non era una stella, un lucore azzurro che si muoveva sullo sfondo della Via Lattea vicino all'orizzonte, e che aveva qualcosa di infinitamente più sinistro e inquietante degli oggetti celesti. Ancora un momento e fu chiaro che il bagliore azzurro veniva dalla cima di un'elevazione lontana, persa nella pianura sconfinata e appena rischiarata dalle stelle. Allora mi volsi a Compton per fargli una domanda. «Sì» rispose «quella è la luce fantasma, e davanti a lei è la misteriosa collina. Non c'è notte, da quando viviamo qui, che non l'abbiamo vista; naturalmente a Binger non c'è anima che sarebbe disposta ad andarci. È una brutta faccenda, giovanotto, e se in lei c'è un granello di saggezza abban-
donerà tutto. Meglio spostare altrove le sue ricerche, gli indiani hanno anche altre leggende. La terremo occupata lo stesso, può starne certo!» 2 Da parte mia non ero disposto a ricevere consigli, e sebbene Compton mi assegnasse una stanza piacevole, non riuscii a chiudere occhio nell'attesa che arrivasse il mattino: volevo assolutamente vedere il fantasma che appariva di giorno e interrogare gli indiani della riserva. Era mia intenzione indagare sulla faccenda con calma e in maniera approfondita, accumulando tutte le informazioni disponibili presso i bianchi o gli indiani; solo in un secondo momento avrei cominciato le indagini archeologiche. Mi alzai e mi vestii all'alba, scendendo al piano di sotto non appena sentii qualcuno muoversi. Compton alimentava il fuoco della cucina, mentre sua madre era occupata in dispensa. Quando mi vide annuì e dopo un attimo mi invitò nella splendida luce del sole. Sapevo dove eravamo diretti, e procedendo sul viottolo di campagna aguzzai gli occhi a occidente, oltre la grande distesa della pianura. Il tumulo era quasi all'orizzonte, lontano e davvero bizzarro nel suo aspetto di monumento quasi artificiale. Calcolai che fosse alto da cento a centoventi metri, e che nell'estensione maggiore, da nord a sud, il diametro dovesse essere di poco inferiore. Sul lato minore, da est a ovest, non era altrettanto ampio, o almeno così disse Compton. Secondo lui la forma complessiva era lievemente ellittica. Come sapevo, il mio ospite era stato parecchie volte sulla collina e ne era tornato sano e salvo. Osservai il contorno dell'elevazione, ritagliato contro il cielo intensamente azzurro, e cercai di seguirne le irregolarità minori; tutto a un tratto fui colpito dalla sensazione che qualcosa si muovesse, proprio su in cima. Il cuore mi batté forte e afferrai il potente binocolo che Compton mi offriva tranquillamente. Lo misi rapidamente a fuoco e in un primo momento vidi solo un groviglio di vegetazione sull'orlo del tumulo lontano; poi qualcosa avanzò nel campo visivo. Era senz'altro una figura umana e mi resi conto immediatamente di avere davanti a me lo "spettro dell'indiano", quello che appariva di giorno. Non mi meravigliai che l'avessero definito così, perché l'individuo alto, magro, vestito di scuro e con i capelli neri somigliava a un indiano come una goccia d'acqua, e questo vale anche per il volto rugoso, color del rame e privo di espressione ma dal fiero naso aquilino. Tuttavia il mio occhio di etnolo-
go mi rivelò che non apparteneva a una delle tribù che la storia ci ha insegnato a conoscere, ma a un ceppo razziale parallelo e a un gruppo culturale completamente diverso. Gli indiani moderni sono brachicefali, ossia con la testa tonda, e non è possibile trovare crani dolicocefali (o allungati) se non fra i resti degli antichi Pueblo, che risalgono anche a più di duemilacinquecento anni fa. Nonostante questo la testa dell'uomo che avevo di fronte era del tipo oblungo, e in modo così evidente che me ne resi conto anche da lontano e attraverso un mezzo indiretto come il binocolo. Il motivo ornamentale della tunica apparteneva a una tradizione del tutto staccata da quelle che abbiamo imparato a conoscere fra i nativi del sudovest: al fianco portava una spada corta o un'altra arma simile, insieme ad altri strumenti decorati secondo un gusto del tutto sconosciuto. Lo seguii con il binocolo per diversi minuti, mentre passeggiava avanti e indietro sulla cima della collina; notai l'elasticità del suo passo e la degnanza con cui atteggiava la testa: nacque in me la convinzione, forte e insistente, che chiunque fosse quell'uomo non era certo un selvaggio. Era il prodotto di una civiltà raffinata, mi dissi istintivamente, anche se ignoravo quale. Dopo un poco scomparve dietro l'orlo della collina, come se fosse disceso sul versante opposto e che non potevamo vedere. Abbassai il binocolo in preda a sensazioni contrastanti; Compton mi diede un'occhiata interrogativa e mi limitai ad annuire, senza sbilanciarmi. «Che gliene pare?» chiese il mio ospite. «A Binger questo spettacolo si ripete ogni giorno.» A mezzogiorno ero alla riserva indiana, immerso in una conversazione con il vecchio Aquila Grigia (che, per qualche miracolo, era ancora vivo: calcolai che non dovesse avere meno di centoquaranta o centocinquant'anni). Era un personaggio strano e impressionante: un capo fiero e indomito che aveva guidato il suo popolo fin dai tempi dei fuorilegge e dei mercanti di pelli con le casacche a frange; un uomo che aveva avuto a che fare con gli ufficiali francesi ai tempi dei cappelli a tricorno e dei pantaloni fermati al ginocchio. Fui lieto di osservare che, a causa della mia deferenza nei suoi confronti, il vecchio capo mi apprezzava. Purtroppo, quando apprese il motivo della mia visita questa benevolenza si trasformò in resistenza passiva, e tutto ciò che ottenni fu una serie di avvertimenti contro la ricerca che dovevo intraprendere. «Tu uomo buono, non andare su collina. Cattiva medicina. Molti diavoli essere là sotto, tu portarli alla luce se scavare. Niente scavi niente pericolo. Se scavare, tu non tornare indietro. Lo stesso quando io essere ragazzo, lo stesso quando mio padre e suo padre essere ragazzi; di giorno guardiano
maschio sorvegliare collina, di notte squaw senza testa. È così da molto tempo, tre, quattro volte la vita di Aquila Grigia e due volte dal tempo dei francesi; è così da quando arrivare primi bianchi con camicie di ferro e attraversare il fiume dove tramonta il sole. Da molto tempo nessuno andare su piccole colline o entrare in aperture segrete in valli profonde. In tempi molto antichi essi non nascondersi, ma vivere all'esterno e costruire villaggi. Essi accumulare moltissimo oro, io e te discendere dagli antichi. Poi arrivare grandi acque, tutto cambiare: da allora nessuno più uscire, nessuno entrare nei loro rifugi. Se tu entrare, non uscire più. Essi non morire, non diventare vecchi come Aquila Grigia con solchi nel volto e neve sulla testa. Essi come l'aria, parte uomo e parte spirito. Cattiva medicina. A volte, di notte, uscire spirito di mezzo uomo e mezzo cavallo, e combattere dove gli uomini combattere un tempo. Tu non andare in quei posti, non buono. Tu uomo capace, lasciare in pace gli antichi.» Fu tutto quello che potei apprendere dal vecchio capo, e gli altri indiani non dissero nemmeno una parola. Se io ero imbarazzato, Aquila Grigia lo era molto di più e compresi che provava autentico dispiacere al pensiero che intendessi invadere una regione da lui tanto temuta. Al momento di lasciare la riserva mi fermò per un ultimo e cerimonioso addio, durante il quale cercò di estorcermi la promessa di abbandonare le mie ricerche. Quando vide che non era possibile, trasse timidamente da una sacca di camoscio un oggetto che mi porse in tutta solennità. Si trattava di un disco di metallo, consumato ma molto ben conservato, del diametro di circa cinque centimetri; era bizzarramente decorato, perforato e appeso a un laccio di cuoio. «Tu non prometti, Aquila Grigia non sa cosa accadere te. Ma forse questa buona medicina. Mio padre dare me, a lui suo padre, e a lui suo padre fino ai tempi di Tirawa, progenitore di tutti gli uomini. Mio padre sempre dire: alla larga dagli antichi, alla larga da piccole colline e valli perforate da caverne, ma se gli antichi uscire a prenderti, tu mostrare questa medicina. Essi conoscere, essi fabbricare disco in tempi remoti. Essi guardare e forse non fare te cattiva medicina. Chi può dire, meglio stare alla larga. Essi non buoni, nessuno sapere.» Mentre parlava Aquila Grigia mi appese il talismano al collo e mi resi conto che si trattava di un oggetto bizzarro. Più lo guardavo e più mi stupivo: non solo per il materiale di cui era fatto (un metallo sconosciuto e pesante, scuro ma lucido e riccamente maculato); ma anche perché ciò che restava della decorazione sembrava il frutto di un'arte squisita, a me del
tutto ignota. Una faccia, per quanto potevo vedere, recava un motivo finissimo a forma di serpente, mentre sull'altra era dipinto una specie di polipo o altro mostro tentacolato. C'erano anche altri geroglifici, ma di un genere che nessun archeologo avrebbe potuto identificare o semplicemente collocare su un ipotetico sfondo culturale. Dopo qualche tempo, con il permesso di Aquila Grigia, feci esaminare il disco da un gruppo di storici, antropologi, geologi e chimici dai quali ottenni soltanto esclamazioni di meraviglia. L'oggetto sfidava qualsiasi analisi e classificazione. Il chimico lo definì una malgama di elementi metallici sconosciuti e peso atomico elevato, mentre un geologo suggerì che la sostanza doveva essere di origine meteorica, probabilmente piovuta dagli spazi interstellari. Non sono affatto certo che sia stato il talismano a salvarmi la vita, la ragione o la semplice esistenza come essere umano, ma Aquila Grigia è sicuro che sia andata proprio così; adesso l'oggetto è di nuovo in suo possesso e mi chiedo se non abbia qualche misteriosa relazione con la sua età incredibile. I suoi padri, che lo possedettero come lui, vissero tutti più di un secolo e alla fine morirono in battaglia. È possibile che Aquila Grigia, tenuto al riparo da incidenti, viva per l'eternità? Ma qui sto anticipando la mia storia. Quando tornai in paese cercai di apprendere tutto ciò che potevo sulla collina e le sue leggende, ma mi imbattei in una serie di voci contrastanti e a volte in vere e proprie forme di ostilità. Era commovente notare la sollecitudine della gente per quanto riguardava la mia salvezza, ma avevo deciso di ignorare completamente le loro assurde rimostranze. Mostrai il talismano di Aquila Grigia, ma nessuno ne aveva sentito parlare o aveva visto qualcosa che gli somigliasse lontanamente. Tutti furono d'accordo nell'affermare che non si trattava di un oggetto fabbricato dagli indiani e immaginammo che gli antenati del vecchio capo l'avessero avuto da qualche commerciante. Quando si resero conto che non potevano dissuadermi dal compiere il viaggio, i cittadini di Binger accettarono a malincuore di aiutarmi nei preparativi. Poiché sapevo che tipo di lavoro mi aspettava, avevo già con me la maggior parte degli attrezzi necessari: un machete e un falcetto per tagliare la vegetazione e aiutarmi a scavare, torce elettriche per eventuali esplorazioni sotterranee, corda, binocolo da campo, un metro, un microscopio e l'essenziale in caso di emergenza. Insomma, tutto quanto poteva essere comodamente sistemato in una borsa capace. A questo equipaggiamento aggiunsi solo il grosso revolver che lo sceriffo mi obbligò a tenere con me e un piccone e un badile, con i quali il lavoro sarebbe andato avanti più
speditamente. Mi assicurai alla spalla, con un pezzo di corda, gli attrezzi più ingombranti: sapevo di non poter contare su nessun aiutante o esploratore volontario. Gli abitanti della cittadina mi avrebbero seguito con tutti i binocoli e cannocchiali a disposizione, su questo non avevo dubbi; ma neanche un'anima avrebbe osato avventurarsi sulla pianura deserta, verso l'elevazione solitaria. Avevo deciso di partire la mattina seguente, di buon'ora, e per il resto del giorno fui trattato con il timore e il rispetto colmo di compassione che la gente riserva a un uomo il quale andrà incontro a sicura rovina. Il mattino successivo era nuvoloso, anche se per il momento non minacciava pioggia e tutti gli abitanti del borgo si raccolsero per vedermi partire alla volta della collina. I binocoli avevano già inquadrato il misterioso guardiano che sorvegliava la sommità del tumulo, e io decisi di tenerlo d'occhio per tutto il tragitto. All'ultimo momento fui oppresso da un senso di vago timore, e piombai in un misto di incertezza e superstizione: estrassi il talismano e me lo feci ciondolare sul petto bene in vista, come a mettere in guardia eventuali fantasmi o creature. Salutati Compton e sua madre, mi avviai a passo svelto nonostante la borsa che reggevo con la mano sinistra e il fardello del piccone e della vanga sulle spalle; con la destra tenevo il binocolo da campo e di tanto in tanto inquadravo il silenzioso guardiano. Man mano che mi avvicinavo alla collina lo vidi sempre più distintamente, e su quel volto glabro e segnato dalle rughe immaginai di poter individuare un'espressione di infinita malvagità e decadenza. Fui sorpreso nel constatare che la custodia d'oro scintillante in cui teneva le armi era decorata con simboli molto simili a quelli del talismano sconosciuto. L'abbigliamento e gli oggetti del misterioso individuo erano di fattura squisita e denunciavano una cultura superiore. Poi, all'improvviso, lo vidi avviarsi sul pendio opposto della collina e sparire alla vista. Quando raggiunsi il luogo, circa dieci minuti dopo la partenza, ormai non c'era più nessuno. Non c'è bisogno di raccontare come trascorsi la prima parte della giornata: è sufficiente dire che esplorai il colle in tutti i sensi, presi misure e cercai di esaminare il sito da diversi punti di vista. Il cosiddetto tumulo era l'unica elevazione di rilievo sull'immensa distesa pianeggiante: non potei dubitare per un attimo che fosse proprio ciò che si diceva, e cioè un tumulo artificiale. Mi aveva impressionato profondamente quando mi ero avvicinato, e nella forma assolutamente regolare c'era qualcosa di minaccioso. I fianchi scoscesi avevano un aspetto vergine, senza alcun segno dell'opera
dell'uomo o di eventuali ingressi. Non c'erano sentieri che conducessero alla cima, e col mio fardello non fu facile arrampicarsi lungo il pendio. Una volta raggiunta la sommità scoprii che si trattava di un altopiano ellittico, più o meno orizzontale, le cui dimensioni erano di circa novanta metri per quindici; completamente coperto d'erba selvatica e vegetazione intricata, questo cocuzzolo non sembrava offrire nessuna opportunità al guardiano che apparentemente lo perlustrava a passo veloce. La scoperta fu un vero shock, perché mostrava senza ombra di dubbio che il "vecchio indiano", per quanto realistico, non era altro che un'allucinazione collettiva. Mi guardai intorno con notevole stupore e angoscia, e quando vidi alle mie spalle le case del paese e la massa di puntini neri che erano gli abitanti di Binger, provai un vivo desiderio di tornare indietro. Puntai il binocolo in direzione delle case e vidi che a loro volta i paesani mi studiavano attentamente; per rassicurarli agitai il cappello nell'aria con un'allegria che ero lungi dal provare. Poi mi misi al lavoro e depositai piccone, vanga e borsa a mano; da quest'ultima presi il machete e cominciai a tagliare la vegetazione selvatica. Era un compito sfibrante, e ogni tanto un refolo insidioso mi faceva vacillare, come animato dalla precisa volontà di ostacolarmi; allora un brivido di paura mi scendeva per la schiena. A volte mi sembrava che una forza solo parzialmente tangibile mi trattenesse dal lavoro: come se l'aria davanti a me si facesse più densa, o come se mani invisibili mi tenessero per i polsi. Mi stancavo senza ottenere risultati apprezzabili, ma nonostante questo continuavo a lavorare. Nel pomeriggio mi resi conto che verso l'estremità settentrionale del tumulo, nella terra affollata di radici, c'era una leggera depressione o conca. Probabilmente non significava niente, ma quando avessi deciso di scavare mi sarebbe convenuto cominciare da lì. Ne presi nota mentalmente e nello stesso momento notai un'altra cosa strana: in un punto a circa sette metri dalla conca il talismano indiano che portavo al collo cominciò a comportarsi in modo bizzarro. Ogni volta che mi chinavo le oscillazioni del disco subivano un'alterazione e l'oggetto sembrava attratto verso il basso, come se nel terreno ci fosse una forza magnetica. La cosa mi colpì profondamente, e dopo un poco decisi di fare alcuni scavi preliminari senza rimandare oltre. Nel rimestare la terra con il falcetto mi stupii nel constatare che lo strato rosso tipico di tutta la regione era anche il più sottile. La maggior parte della zona era composta di terriccio sabbioso, color del rame, ma sulla collina trovai un curioso strato nero ad appena trenta centimetri di profondità.
Era il tipo di terreno che'si trova nelle valli più strane e profonde dell'ovest e del sud, e probabilmente era stato trasportato in tempi preistorici da luoghi lontani, quando il tumulo era stato eretto. Mi inginocchiai e continuai a scavare mentre il laccio di cuoio che avevo intorno al collo tirava sempre di più, come se una forza nascosta nella terra attraesse irresistibilmente il talismano di metallo. Poi i miei attrezzi colpirono una superficie dura e mi chiesi se mi fossi imbattuto in uno strato roccioso. Grattai con il falcetto, ma mi resi conto che non era così: con sorpresa e febbrile interesse riportai alla luce un oggetto pesante, di forma cilindrica, incrostato di fango. Era lungo circa trentacinque centimetri e aveva un diametro di dieci; il talismano si incollò letteralmente alla sua superficie. Man mano che lo liberavo dalle incrostazioni di terra, il mio stupore e la mia tensione aumentarono, perché nel ripulirlo vennero alla luce degli straordinari bassorilievi. Il cilindro, comprese le estremità, era coperto di figure e geroglifici, e con crescente eccitazione vidi che si trattava delle stesse raffigurazioni sconosciute che ornavano il talismano di Aquila Grigia e gli oggetti di metallo portati dal misterioso guardiano. Io stesso li avevo visti con chiarezza attraverso il binocolo. Mi sedetti e continuai a pulire il cilindro magnetico sul velluto resistente dei miei pantaloni sportivi; mi resi conto che era fatto dello stesso metallo pesante, lucido e sconosciuto del talismano, e che questa era senza dubbio la causa dell'attrazione. Fregi e rilievi erano terribili e straordinari: mostri sconosciuti, simboli carichi di un'aura malvagia eppure lavorati con mano squisita. Da principio non riuscii a capire quale fosse l'uso dell'oggetto, ma poi notai una fessura vicino a un'estremità. Tentai ansiosamente di aprirlo e scoprii che bastava svitare l'estremità in questione. Il coperchio cedette con difficoltà, ma alla fine venne via liberando un curioso odore aromatico. Il contenuto era un voluminoso rotolo di quella che sembrava carta ingiallita, su cui era vergato un testo in caratteri verdolini; per un attimo provai la suprema emozione (o l'esaltante fantasticheria) di aver trovato la chiave ai misteri di un mondo più antico dell'uomo e di abissi che risalgono a prima del tempo. Ma quasi subito, srotolando uno dei fogli, mi resi conto che il manoscritto era in spagnolo: lo spagnolo formale e pomposo di un'epoca remota. Alla luce dorata del tramonto lessi il titolo e il primo paragrafo, cercando di decifrare lo stile contorto e non troppo rispettoso della punteggiatura del mio autore scomparso. Di che specie di reliquia si trattava? Quale scoperta avevo fatto? Le prime parole mi precipitarono in uno stato di eccitazione e curiosità assolute, perché in-
vece di sconsigliarmi dal continuare le ricerche confermavano, nel modo più stupefacente, la necessità di portare a termine proprio ciò che mi ero proposto. Il rotolo ingiallito e coperto d'inchiostro verde cominciava con un'audace presentazione dell'autore e l'appello, disperato anche se cerimonioso, rivolto al lettore affinché credesse nelle fantastiche rivelazioni che sarebbero seguite: RELACION DE PANFILO DE ZAMACONA Y NUÑEZ, HIDALGO DE LOARCA EN ASTURIAS, TOCANTE AL MUNDO SOTERRANEO DE XINAIAN, A.D. MDXLV En el nombre de la santìsima Trinidad, Padre, Hijo, y Espìritu-Santo, tres personas distintas y un solo. Dios verdadero, y de la santìsima Virgen nuestra Señora, YO, PANFILO DE ZAMACONA, HIJO DE PEDRO GUZMAN Y ZAMACONA, HIDALGO, Y DE LA DONA YNES ALVARADO Y NUÑEZ, DE LUARCA EN ASTURIAS, juro para que todo que deco està verdadero como sacramento... Mi soffermai a riflettere sul portentoso significato di ciò che stavo leggendo: "Relazione di Panfilo de Zamacona y Nuñez, cavaliere di Luarca nelle Asturie, a proposito del mondo sotterraneo di Xinaian, A.D. 1545". Ce n'era quanto bastava per saturare l'immaginazione di qualsiasi persona normale. Un mondo sotterraneo, la vecchia idea che si affacciava in tutti i racconti indiani e di quelli che erano tornati dalla collina. Ma la data, 1545, che cosa significava? Nel 1540 Coronado e i suoi si erano spinti a nord, dal Messico, verso le grandi pianure, ma non erano tornati indietro nel 1542? Esaminai ancora una volta l'inizio del manoscritto, e quasi subito lessi il nome Francisco Vasquez de Coronado. Dunque l'autore della relazione aveva fatto parte della spedizione di Coronado... ma che cosa faceva in una regione desolata come questa tre anni dopo che il resto degli uomini era tornato indietro? Dovevo continuare nella lettura, perché mi bastò un'altra occhiata per vedere che la prima parte del manoscritto conteneva soltanto un riassunto della marcia di Coronado verso il nord, e che non differiva in alcun punto essenziale dai resoconti storici. Solo il sopraggiungere della sera mi impedì di esaminare gli altri fogli del manoscritto e leggere la relazione seduta stante; nell'impazienza della scoperta avevo persino dimenticato la paura che l'arrivo della notte in un
luogo tanto sinistro mi avrebbe normalmente provocato. Altri, tuttavia, non avevano dimenticato le minacce della collina, perché sentii un richiamo lontano che certo veniva dagli abitanti del paese, raccolti ai confini dell'abitato per attirare la mia attenzione. Risposi all'ansiosa invocazione, riposi il manoscritto nello strano cilindro e notai che il talismano vi era ancora attaccato; dovetti staccarlo a viva forza, e, raccolti i miei attrezzi, mi preparai ad andare. Lasciai piccone e badile per il lavoro che mi aspettava l'indomani, presi la borsa e mi avviai giù per il fianco ripido della collina, finché in un quarto d'ora fui in paese e mostrai la mia curiosa scoperta. Mentre calava l'oscurità guardai il tumulo che avevo lasciato da pochi minuti, e vidi che già risplendeva il bagliore azzurro della torcia impugnata dal fantasma della squaw. Resistere alla tentazione di tuffarmi immediatamente nel manoscritto spagnolo fu un'impresa ardua, ma sapevo di aver bisogno di tempo e tranquillità per dedicarmi a una buona traduzione. Per questo rimandai il lavoro alle ore più calme della notte. Alla gente del paese promisi un chiaro resoconto delle mie scoperte per il mattino seguente; a tutti diedi ampia opportunità di esaminare il bizzarro e misterioso cilindro, quindi tornai a casa in compagnia di Clyde Compton e appena possibile salii in camera mia per dedicarmi alla traduzione. Il mio ospite e sua madre erano ansiosi di ascoltare il mio racconto, ma pensai fosse meglio aspettare che io stesso avessi assorbito il testo dell'antico spagnolo; allora avrei potuto riassumerlo concisamente e con maggiore esattezza. Aprii la borsa sotto l'unica lampadina elettrica, presi il cilindro e osservai di nuovo l'immediato fenomeno magnetico che attirava il talismano alla superficie scolpita. I bizzarri ornamenti scintillavano malefici sul metallo lucido e sconosciuto, e non potei fare a meno di rabbrividire quando osservai le figure blasfeme, abnormi che ghignavano verso di me da quello squisito prodotto d'artigianato. Vorrei tanto averlo fotografato, anche se forse è meglio che le cose siano andate così. Di una cosa sono veramente lieto, ed è che in quella circostanza non riuscii a identificare il mostro con la testa di polipo che dominava, seduto, la maggior parte del bizzarro cilindro, e che il manoscritto chiamava "Tulu". Recentemente, tuttavia, ho associato la figura del mostro e le leggende riferite da Zamacona con quelle - da poco venute alla luce - del mostruoso e dimenticato Cthulhu, una creatura filtrata dalle stelle quando la terra era giovane e solo parzialmente formata. Mi fossi reso conto del legame fin dal primo momento, non credo che sarei riuscito a restare tutta la notte in compagnia del cilindro. Il se-
condo disegno rappresentava un serpente semi-antropomorfo, che riconobbi prontamente come un prototipo di Yig, Quetzalcoatl e Kukulcan. Prima di aprire il cilindro ne sperimentai i poteri magnetici su metalli diversi dall'amuleto di Aquila Grigia, ma scoprii che non si attraevano. Dunque, non era comune magnetismo quello che univa il grottesco frammento di mondi sconosciuti al suo simile. Finalmente presi il manoscritto e cominciai la traduzione, preparandone un riassunto in inglese; ogni tanto rimpiangevo la mancanza di un dizionario spagnolo, perché c'erano parole o costruzioni arcaiche particolarmente oscure. Man mano che approfondivo lo studio della relazione, aumentava la straordinaria sensazione di essere proiettato quattro secoli nel passato: la stessa epoca in cui i miei antenati, gentiluomini del Somerset e del Devon sotto Enrico VIII, avevano costruito la dimora di famiglia, senza immaginare l'avventura che avrebbe condotto un giorno i loro discendenti in Virginia e nel Nuovo Mondo. Eppure, il nuovo mondo era intriso di misteri ancestrali proprio come quelli su cui stavo cercando di fare luce. La sensazione di essere scagliato indietro nel tempo era aumentata dal fatto, di cui mi rendevo conto istintivamente, che lo spagnolo e io ci trovavamo di fronte allo stesso problema: un enigma così antico, malsano e abissale che i pochi secoli trascorsi dall'epoca di Zamacona erano, al confronto, una nullità. Mi era bastata un'occhiata al mostruoso ed enigmatico cilindro per rendermi conto del vertiginoso abisso di tempo che separava la storia dell'umanità dai misteri antidiluviani che esso rappresentava. Dinanzi a un abisso simile, Panfilo de Zamacona e io potevamo considerarci contemporanei. E lo stesso potrei dire di Aristotele, o addirittura di Cheope... 3 Della sua giovinezza a Luarca, un piccolo e tranquillo porto nel golfo di Biscaglia, Zamacona parlava poco. Figlio cadetto e animato da un carattere irrequieto, si era avventurato in nuova Spagna nel 1532, quando aveva solo vent'anni. Sensibile e ricco di immaginazione, aveva ascoltato con enorme interesse i vaghi racconti di città ricchissime e mondi sconosciuti che si trovavano al nord. In particolare, lo aveva colpito il racconto del frate francescano Marcos de Niza, che nel 1539 era tornato da un viaggio di cui diceva meraviglie: argomento principale era il regno di Cibola, dalle grandi città murate e case di pietra che sorgevano su ampie terrazze. Avendo appreso che Coronado intendeva preparare una spedizione alla ricerca di
quelle meraviglie (e delle altre, ancora più grandi, che si diceva abbondassero nella terra dei bufali) il giovane Zamacona si unì al gruppo dei trecento prescelti e partì per il nord nel 1540. La storia della spedizione è nota: Cibola si rivelò nient'altro che lo squallido villaggio pueblo di Zuni e de Niza fu mandato in Messico, in disgrazia, per le sue troppo fantasiose esagerazioni. È noto come Coronado avvistasse per primo il Grand Canyon e come a Cicuyé, sul fiume Pecos, udisse dalle labbra di un indiano chiamato El Turco la storia della ricca e misteriosa terra di Quivira, nel lontano nordest, dove abbondavano oro, argento e bufali, e dove scorreva un fiume ampio due leghe. Zamacona raccontava concisamente la sosta a Tiguex, sul Pecos, dove la spedizione si accampò per l'inverno, e della partenza per il nord in aprile; purtroppo la guida indiana si rivelò un traditore e gli spagnoli si persero in una regione popolata di cani della prateria, specchi d'acqua salati e ferocissime tribù di cacciatori di bisonti. Quando Coronado congedò il grosso dei suoi uomini e si preparò alla marcia finale di quarantadue giorni con un drappello piccolo e selezionato, Zamacona riuscì a far parte di quel gruppo scelto. La relazione descriveva il fertile paese e le improvvise gole in cui gli alberi si vedevano soltanto avvicinandosi all'orlo; in quei giorni gli uomini vivevano di una dieta basata esclusivamente sulla carne di bufalo. Finalmente la spedizione raggiunse la sua meta, la presunta e deludente terra di Quivira che abbondava solo di villaggi dalle capanne d'erba, fiumi e ruscelli, buon terreno nero e prugne, noci, vigne e frutti selvatici, nonché di indiani esperti nell'uso del rame e nella coltivazione del mais. La relazione dedicava appena un cenno all'esecuzione di El Turco, la falsa guida indiana, ma dedicava ampio spazio all'erezione della croce, voluta da Coronado, sulla sponda di un grande fiume nell'autunno 1541; sulla croce era posta l'iscrizione: "Fin qui si spinse il grande generale Francisco Vasquez de Coronado". La presunta Quivira si trova al quarantesimo parallelo di latitudine nord e recentemente un archeologo di New York, il dottor Hodge, l'ha identificata con il tratto compreso fra le contee di Barton e Rice, nel Kansas, dove scorre il fiume Arkansas. È la vecchia patria dei Wichita, prima che i Sioux li spingessero a sud in quello che adesso è l'Oklahoma, e in alcuni villaggi di capanne d'erba sono stati fatti scavi in cerca di manufatti. Coronado esplorò la regione sistematicamente, attratto dalle insistenti leggende di città d'oro e mondi occulti che gli indiani non smettevano di divulgare. Le tribù del nord sembravano più riluttanti a parlare delle città nascoste
che non quelle del Messico, ma al tempo stesso sembrava che ne sapessero molto di più. Il condottiero spagnolo, tuttavia, era esasperato dalla loro reticenza e dopo tante ricerche infruttuose aveva preso a comportarsi crudelmente con chiunque gli riferisse quel genere di storie. Zamacona, più paziente di Coronado, giudicava i racconti particolarmente interessanti e imparò la lingua locale quanto bastava a tenere lunghe conversazioni con un giovane guerriero che si chiamava Bufalo Infuriato, e che, guidato unicamente dalla propria curiosità, si era spinto in luoghi che nessuno dei suoi compagni avrebbe osato esplorare. Fu Bufalo Infuriato a dire a Zamacona delle misteriose porte di pietra, delle soglie e delle imboccature di caverne che si spalancavano in fondo ai profondissimi burroni boscosi che gli spagnoli avevano già notato nella marcia verso il nord. L'indiano aggiunse che tali aperture erano per lo più nascoste dalla vegetazione, e per secoli e secoli nessun essere umano aveva osato mettervi piede. Chi si fosse azzardato a penetrare in quelle caverne non sarebbe più uscito, e nei pochi casi in cui qualcuno ci aveva provato ed era tornato vivo, era impazzito o aveva subito orrende mutilazioni. Ma si trattava pur sempre di leggende, perché non si sapeva con certezza di nessuno che si fosse spinto più in là di una brevissima distanza all'interno dei cunicoli sotterranei e nemmeno gli uomini più vecchi ricordavano eccezioni. Bufalo Infuriato si era spinto probabilmente più lontano di chiunque altro e aveva visto quanto bastava per mettere a tacere tanto la sua curiosità che la cupidigia d'oro. Oltre l'apertura nella quale si era inoltrato c'era un lungo corridoio che correva verso l'alto e poi verso il basso in modo assolutamente insensato, come se girasse in circolo. Le pareti erano coperte di sculture mostruose che raffiguravano mostri e orrori sconosciuti all'uomo. Finalmente, dopo parecchi chilometri di deviazioni e discese, era apparso un terribile bagliore azzurro, e il corridoio era sboccato in uno strabiliante mondo sotterraneo. L'indiano non era disposto a dire di più, ma aveva visto qualcosa che lo aveva indotto a tornare in fretta. Le città d'oro, aggiunse, dovevano essere in quelle profondità, e forse un uomo bianco con la magia della canna tonante poteva riuscire ad arrivarci. Bufalo Infuriato si era rifiutato di dire quel che sapeva a Coronado, il grande comandante: egli, infatti, non aveva più pazienza per i racconti degli indiani. Quanto a Zamacona, gli avrebbe mostrato la strada se il bianco avesse abbandonato il gruppo e accettato lui come guida. In ogno caso, Bufalo Infuriato non avrebbe messo piede nella caverna con l'uomo bianco: lì dentro c'era cattiva medicina.
Il luogo distava cinque giorni di marcia in direzione sud, vicino alla regione dei grandi tumuli. Questi ultimi, a loro volta, sembravano collegati al malefico mondo sotterraneo ed erano probabilmente antichi passaggi che un tempo mettevano in comunicazione con il sottosuolo, ma che poi erano stati chiusi; era risaputo, infatti, che gli Antichi un tempo avevano posseduto colonie in superficie e commerciato con gli uomini in ogni luogo, comprese le terre che si erano inabissate sotto le grandi acque. Ma dopo il diluvio gli Antichi si erano rifugiati nel sottosuolo e avevano rifiutato di commerciare con la gente di superficie. Gli scampati al flagello avevano raccontato agli Antichi che la collera degli dèi della terra si era abbattuta sull'uomo e che nessuno avrebbe potuto sopravvivere in superficie a meno che non fosse a sua volta un demone, in combutta con gli dèi del male. Era questa la ragione per cui gli abitanti del sottosuolo evitavano come la peste la gente di superficie, e a chi si avventurava nel loro regno riservavano un trattamento orribile. Un tempo le aperture che immettevano nel regno sotterraneo erano sorvegliate da sentinelle, ma dopo tanto tempo non ce n'era più bisogno. Non erano molti quelli che amavano parlare degli Antichi nascosti nell'abisso, e le leggende che li riguardavano sarebbero svanite dalla memoria se non fosse per certi particolari inquietanti che ogni tanto le ricordavano. A quanto pareva, l'infinita antichità di quelle creature le aveva rese affini ad esseri di puro spirito, e i loro fantasmi erano particolarmente vividi e frequenti. Non c'era da meravigliarsi che la regione dei grandi tumuli fosse turbata da grandi battaglie notturne combattute da eserciti di spettri: erano una replica di quelle avvenute realmente nei giorni precedenti la chiusura delle soglie. Gli Antichi stessi erano quasi-fantasmi e si diceva che non invecchiassero più e non potessero riprodursi, ma languissero eternamente in uno stato a metà fra la carne e lo spirito. La trasformazione tuttavia non era completa, perché avevano bisogno di respirare: e proprio la necessità di assicurarsi l'aria aveva sconsigliato la chiusura delle caverne in fondo alle gole più profonde, come invece era stato fatto con i tumuli che sorgevano in pianura. Tali aperture, aggiunse Bufalo Infuriato, erano state ricavate con ogni probabilità da spaccature naturali della terra. Si mormorava che gli antichi fossero scesi dalle stelle quando il mondo era giovane e avessero eretto le città d'oro nel sottosuolo, perché a quell'epoca la superficie non era adatta alla vita. Essi erano gli antenati di tutti gli uomini, ma nessuno poteva immaginare da quale stella - o quale regione dello spazio al di là delle stelle - fossero venuti. Le città nascoste erano ancora piene d'oro e
d'argento, ma era meglio che gli uomini le lasciassero indisturbate, a meno di non essere protetti da una grande magia. Gli Antichi avevano bestie in cui scorreva una piccola percentuale di sangue umano; essi le cavalcavano e le adoperavano per altri scopi. Secondo alcuni racconti gli animali erano carnivori e come i loro padroni preferivano la carne umana: in questo modo, benché gli antichi stessi non generassero, potevano contare su una specie di schiavi semiumani che servivano a nutrire la popolazione e gli altri animali. Le bestie, raccolte nel modo più strano, erano affiancate da una seconda classe di schiavi, i morti rianimati. Gli Antichi sapevano come trasformare un cadavere in un docile automa capace di lavorare all'infinito e di eseguire qualsiasi compito sotto comando telepatico. Bufalo Infuriato disse che la gente di laggiù aveva imparato a esprimersi per mezzo del pensiero; che il linguaggio parlato veniva giudicato rozzo e inutile salvo nelle cerimonie religiose e nell'espressione dei sentimenti, e che tutto questo si era compiuto nel corso di millenni di studi e scoperte. Il popolo del sottosuolo adorava Yig, il grande padre dei serpenti, e Tulu, il mostro dalla testa di polipo che l'aveva condotto sulla terra dall'originaria dimora fra le stelle; entrambi gli orribili dèi venivano onorati con sacrifici umani officiati nel modo più bizzarro, ma che Bufalo Infuriato preferì non descrivere. Il racconto dell'indiano lasciò Zamacona a bocca aperta, e in men che non si dica accettò di farsi guidare alla misteriosa soglia che si apriva in fondo alla gola. Dal manoscritto era evidente che non credeva negli strani poteri attribuiti dalla leggenda al popolo sotterraneo, e del resto l'esperienza della spedizione aveva insegnato ai conquistatori di dubitare dei miti primitivi di terre sconosciute; tuttavia egli sentiva che dietro quei corridoi scavati nella roccia dovevano nascondersi segreti meravigliosi e la possibilità di eccitanti avventure. In un primo momento Zamacona pensò di convincere Bufalo Infuriato a riferire la storia a Coronado, magari promettendogli di difenderlo contro le drastiche misure che il generale potesse adottare per rabbia o scetticismo; ma poi decise che tentare l'avventura da solo fosse il miglior partito. Senza l'aiuto dei compatrioti non avrebbe dovuto dividere ciò che avesse trovato e forse sarebbe diventato un celebre scopritore, o il possessore di ricchezze favolose. Il successo lo avrebbe trasformato in un eroe più grande dello stesso Coronado, forse nell'uomo più grande di Nuova Spagna, compreso il potente viceré Don Antonio de Mendoza. Il 7 ottobre 1541, verso la mezzanotte, Zamacona uscì furtivamente dal
campo spagnolo vicino al villaggio di capanne d'erba e incontrò Bufalo Infuriato per il lungo viaggio a sud. Poiché voleva tenersi il più possibile leggero, non aveva indossato l'elmo pesante né la corazza. Il manoscritto diceva molto poco sui particolari del viaggio, ma l'arrivo di Zamacona alla grande gola è registrato il 13 ottobre. Non ci volle molto a discendere il ripido fianco del burrone, in buona parte coperto da alberi; e sebbene l'indiano non riuscisse subito a trovare la soglia di pietra nascosta dalla vegetazione (anche perché il fondo del burrone era immerso nella penombra), finalmente l'ingresso fu individuato. Era piuttosto piccola per potersi definire una porta vera e propria, ma la cornice era ricavata da un pezzo unico di arenaria su cui si intravvedevano i segni di rilievi in gran parte cancellati e ormai indecifrabili. L'altezza della soglia era di circa due metri e mezzo e la larghezza di circa un metro e mezzo. Nello stipite c'erano dei fori che facevano pensare a un sistema di cardini, ma ormai qualsiasi traccia di un'eventuale porta o cancello era scomparsa. Alla vista della nera apertura Bufalo Infuriato si era mostrato molto impaurito e aveva abbandonato in tutta fretta il pacco dei rifornimenti. A Zamacona aveva dato un arsenale di torce da bruciare e altre cose necessarie, e senza dubbio lo aveva guidato con la massima onestà; ma ormai rifiutava di accompagnarlo anche di un altro metro. Lo spagnolo lo ricompensò con le cianfrusaglie che si usavano in queste occasioni e gli fece promettere di tornare nella regione entro un mese: avrebbero fatto insieme la via del ritorno, diretti ai villaggi Pueblo che si trovavano al sud. Come punto d'incontro scelsero uno spuntone di roccia che sorgeva nella pianura, e quello che fosse arrivato prima doveva accamparsi nei paraggi in attesa dell'altro. Nel manoscritto Zamacona esprimeva la speranza che l'indiano mantenesse la promessa dell'appuntamento e lo aspettasse quanto era necessario: da solo, infatti, non avrebbe potuto trovare la strada del ritorno. Fino all'ultimo Bufalo Infuriato cercò di dissuaderlo dall'avventurarsi nelle tenebre, ma vedendo che tutto era inutile lo salutò stoicamente. Prima di accendere una delle torce e di entrare nell'ingresso della caverna con il suo pesante fardello, lo spagnolo seguì la scarna figura dell'indiano che si arrampicava in tutta fretta e con un certo sollievo oltre il crinale della gola, in mezzo agli alberi. Scompariva con lui l'ultimo legame fra Panfilo de Zamacona e il mondo esterno; e ancora non sapeva che non avrebbe più rivisto un essere umano nel senso comune del termine. Varcando la soglia portentosa che gli stava davanti, Zamacona non ebbe alcun presentimento del male, sebbene fin da subito si rendesse conto di
essere circondato da un'atmosfera arcana e malsana. Il corridoio, di poco più alto e più largo dell'imboccatura, si snodava per parecchi metri come un tunnel rettilineo di fattura gigantesca, con il pavimento fatto di lastre consunte e le pareti e il soffitto, in blocchi di granito e arenaria, scolpiti in modo grottesco. A giudicare dalla descrizione di Zamacona i rilievi dovevano essere veramente terribili, e in gran parte raffiguravano la mostruosa mitologia di Yig e Tulu. Erano diversi da qualunque forma d'arte che egli avesse mai visto, anche se l'archittettura delle civiltà messicane, aggiungeva, era ciò che vi si avvicinava di più. Dopo un poco il tunnel prendeva a scendere bruscamente, e su entrambi i lati apparivano spuntoni naturali di roccia. Qui il corridoio sembrava artificiale solo in parte e le decorazioni si limitavano a una lastra ogni tanto, con i più terrificanti bassorilievi. Dopo una discesa ripidissima, che metteva l'esploratore in serio pericolo di scivolare e andar giù a slavina, la galleria sembrava incerta sulla direzione in cui procedere e quanto mai variabile nei contorni. A volte si stringeva come un cunicolo, mentre il soffitto si abbassava al punto che era necessario chinarsi o addirittura strisciare; a volte si allargava fino alle dimensioni di una caverna o successione di caverne. Era palese che in quel tratto del percorso sotterraneo ben poca ingegneria umana s'era resa necessaria, anche se ogni tanto un bassorilievo sulla parete, un simbolo ideografico o un corridoio laterale murato ricordavano a Zamacona che egli si trovava nell'antichissimo accesso a un mondo incredibile e primordiale, ma pur sempre popolato da esseri viventi. Per tre giorni, stando ai suoi calcoli, Panfilo de Zamacona continuò nel tragitto che a volte procedeva in discesa, a volte in salita e in qualche occasione si perdeva in immemorabili meandri, ma la cui direzione generale era verso il basso, in un'oscura regione di notte primeva. Di tanto in tanto gli pareva di sentire un essere furtivo delle tenebre che sgattaiolava intorno a lui o agitava le ali, e una volta intravvide una grande creatura pallida che lo fece tremare da capo a piedi. La qualità dell'aria era per lo più tollerabile, anche se non mancavano zone ammorbate da odori nauseanti e una grande caverna irta di stalattiti e stalagmiti era immersa in una deprimente umidità. All'epoca delle prime esplorazioni di Bufalo Infuriato la caverna si era rivelata un ostacolo quasi insormontabile, perché millenni di depositi geologici avevano eretto una foresta di colonne artificiali che sbarrava la via al regno degli abissi. L'indiano, tuttavia, era riuscito ad aprirsi un varco e Zamacona non trovò seri ostacoli. Fu un conforto sapere che un altro abitante del mondo esterno si era spinto prima di lui in quelle profondità, e le
scrupolose descrizioni della guida eliminavano l'aspetto più sgradevole della sorpresa e dell'imprevisto. Inoltre, l'intima conoscenza delle gallerie aveva permesso a Bufalo Infuriato di calcolare l'esatto numero di torce che sarebbero state necessarie all'esploratore, che non correva alcun rischio di perdersi nelle tenebre. Zamacona si accampò due volte e accese il fuoco, ma la ventilazione naturale dei pozzi disperse il fumo in modo soddisfacente. Alla fine di quello che gli sembrò il terzo giorno (ma la cronologia dell'awenturiero non merita la fiducia cieca che egli sembra disposto ad accordarle), Zamacona arrivò alla fantastica discesa e alla non meno impegnativa risalita che Bufalo Infuriato aveva descritto come ultimo tratto del tunnel. Come era già accaduto in passato, si vedevano di tanto in tanto i segni dell'opera umana e più volte la ripidità del percorso fu agevolata da una scalinata o almeno qualche rozzo gradino ricavato nella pietra. Alla luce della torcia apparivano sempre più frequenti le mostruose sculture sulle pareti, e alla fine la fiamma di resina si fuse con un bagliore più generale e attenuato. Zamacona si trovava ormai ad affrontare l'ultima scalinata in discesa. Alla fine del corrispondente percorso in salita si presentò un tratto di corridoio pianeggiante ricavato artificialmente da neri blocchi di basalto e che menava dritto dinanzi a lui. Non c'era più bisogno della torcia perché l'aria risplendeva di un diffuso bagliore azzurro, quasi elettrico, che tremolava come l'aurora boreale. Si trattava della misteriosa illuminazione del mondo sotterraneo che l'indiano aveva più volte descritto, e in un attimo Zamacona si ritrovò fuori del tunnel, sul fianco roccioso di una collina che si innalzava davanti a lui fino a confondersi con l'impenetrabile azzurro del cielo o di quel che teneva il posto del cielo, e ripiombava sul versante opposto in una pianura avvolta da una nebbia azzurrognola. Finalmente era giunto nel mondo sconosciuto, e dal manoscritto risulta chiaro che Zamacona contemplò quel paesaggio vago e indefinito con lo stesso orgoglio del compatriota Balboa quando aveva avvistato l'Oceano Pacifico dall'indimenticabile vetta di Darien. Era questo il punto oltre il quale Bufalo Infuriato non aveva osato spingersi, vinto dal terrore di qualcosa che aveva descritto solo vagamente, e per accenni, come una mandria di bestie feroci, né bufali né cavalli ma simili alle creature che gli spiriti dei tumuli cavalcavano di notte. Zamacona, tuttavia, non era uomo da lasciarsi impressionare da certe sciocchezze. Invece che dalla paura si sentì impossessare da uno straordinario senso di trionfo, perché aveva sufficiente immaginazione per apprezzare l'importanza della sua meta: un mondo
inspiegabile e sotterraneo nel quale si trovava da solo, ignoto a qualsiasi uomo bianco. Il fianco della grande collina che sorgeva davanti a lui e precipitava sul versante opposto era di un grigio scuro, roccioso, senza vegetazione e probabilmente di origine basaltica; l'aspetto d'insieme della montagna era ultraterreno, tanto che l'esploratore si sentiva come un intruso su un altro pianeta. La vasta pianura che si stendeva in distanza, varie centinaia di metri più sotto, non presentava tratti caratteristici, e del resto era velata da una nebbia azzurra e ribollente. Ma non furono il monte, la pianura o le nebbie a infondere nell'avventuriero il senso di un mistero supremo e di un'enorme meraviglia: fu il cielo azzurro, luminoso e inquieto. Che cosa tenesse il posto del cielo laggiù, entro il guscio del mondo, l'esploratore non sapeva dirlo, anche se in un paio d'occasioni aveva visto le misteriose luci dei cieli nordici. Zamacona concluse che il bagliore dell'abisso fosse qualcosa di vagamente simile all'aurora boreale: un punto di vista che noi moderni possiamo accettare con altrettanta disinvoltura, ipotizzando magari la presenza collaterale di fenomeni radioattivi. Alle spalle di Zamacona l'imboccatura del tunnel che aveva traversato si apriva come un nero sbadiglio ed era contornata da una soglia di pietra molto simile a quella in cui era entrato dal mondo esterno, tranne per il particolare che sembrava fatta di basalto grigio-nerastro invece d'arenaria. Le orribili sculture non mancavano, ma erano in buono stato e forse corrispondevano a quelle che sul portale esterno erano state erose dalle intemperie. Nel regno sotterraneo l'assenza di fenomeni atmosferici garantiva un clima asciutto e temperato: lo spagnolo aveva già cominciato a notare la deliziosa stabilità primaverile che contraddistingue il clima delle regioni interne settentrionali. Anche qui le indentature nella pietra sembravano denunciare la presenza di cardini da tempo scomparsi, ma di porte o cancelli non restava l'ombra. Sedutosi a riflettere e a riposare, Zamacona alleggerì il pacco delle provviste togliendo il cibo e le torce che dovevano servirgli nel viaggio di ritorno. Nascose questo materiale nei pressi dell'apertura, sotto un monticello formato in fretta con i detriti rocciosi che si trovavano tutto intorno. A questo punto, rimesso in spalla lo zaino alleggerito, cominciò la discesa verso la lontana pianura, preparandosi a invadere una regione che nessun essere vivente aveva esplorato da più di un secolo, in cui nessun uomo bianco si era mai avventurato e dalla quale, se bisogna dar credito alle leggende, nessuna creatura vivente era mai tornata sana di mente.
Zamacona affrontò a grandi passi l'interminabile e ripida discesa, ostacolato a volte dai frammenti di roccia o dall'eccessiva ripidità del pendio. La lontananza della pianura avvolta nella nebbia doveva essere enorme, perché in molte ore di cammino non ebbe l'impressione di essersi avvicinato affatto. Alle sue spalle si innalzava come sempre la grande collina che svettava nell'azzurro corrusco del cielo. Il silenzio era totale e i suoi passi, unitamente alle pietre che ogni tanto faceva rotolare, gli risuonavano alle orecchie con stupefacente chiarezza. Poi, verso l'ora che a lui sembrò mezzogiorno, Zamacona individuò per la prima volta le impronte anormali che gli riportarono alla mente i terribili racconti di Bufalo Infuriato, la sua fuga precipitosa e il terrore da cui non si era più ripreso. La natura rocciosa del suolo non offriva molte opportunità al formarsi di impronte, ma un tratto pianeggiante aveva favorito l'accumularsi dei detriti su una specie di costone, sicché una distesa di terreno abbastanza larga era rimasta assolutamente nuda. Qui spiccavano le impronte inquietanti scoperte da Zamacona, in una confusione che faceva pensare a una mandria che vagasse senza meta. C'è da rimpiangere che egli non le abbia descritte in modo più particolareggiato, ma tutto il manoscritto è pervaso da un senso di terrore latente che predomina sull'osservazione accurata. Ciò che terrorizzava lo spagnolo è intuibile da successive allusioni a proposito di animali mai visti, quando si riferisce alle impronte come a forme che "non sono di zoccoli, mani, piedi e neppure esattamente zampe, e non appaiono grandi abbastanza da giustificare il timore per questo loro aspetto". Non era facile stabilire da quanto tempo quelle particolari creature fossero passate di lì, e neppure il perché. Siccome non c'era vegetazione era escluso che fossero venute a pascolare, ma se si trattava di animali carnivori può darsi che si fossero spinte a caccia di bestie più piccole, le cui tracce erano state cancellate da quelle degli aggressori. Guardando il monte che gli svettava alle spalle Zamacona credette di distinguere le tracce di una lunga strada serpeggiante che una volta doveva aver portato dall'imbocco del tunnel fino alla pianura. Solo abbracciando il panorama nell'insieme si riusciva a scorgere quell'antica arteria, perché un precipizio di frammenti rocciosi l'aveva da tempo seppellita; ma l'avventuriero sentì con certezza che la strada esisteva. Probabilmente non si era trattato di una via pavimentata in piena regola, e del resto l'imboccatura del piccolo tunnel non doveva essere una delle principali arterie di comunicazione col mondo esterno. Scegliendo un percorso in linea retta Zamacona aveva evitato le lungaggini dell'antica strada, ma un paio di volte doveva
averla incrociata; ora l'aveva ben presente e cercò di individuare il percorso che conduceva verso il basso, finché fu quasi certo di esserci riuscito. Decise che appena l'avesse incrociata di nuovo ne avrebbe osservato la superficie, e ammesso di continuare a distinguerla si sarebbe provato a seguirla. Lo spagnolo riprese il viaggio e dopo qualche tempo arrivò a quella che sembrava una curva deU'antico tracciato. C'erano i segni di una sorta di gradoni, e sia pure in modo primitivo le asperità della roccia erano state livellate: ma non abbastanza perché valesse la pena seguirne il percorso. Mentre frugava il terreno con la punta della spada l'esploratore scoprì un oggetto che splendeva nell'eterna luce azzurra del giorno e con un brivido vide che si trattava di una moneta, o piuttosto una medaglia ricavata da un metallo sconosciuto, lucido e scuro, con orribili incisioni su entrambe le facce. Era un oggetto completamente estraneo alla cultura di Zamacona e a qualsiasi altra civiltà nota, e dalla descrizione contenuta nel manoscritto non dubito che si tratti di un duplicato del talismano regalatomi da Aquila Grigia circa quattro secoli dopo. Zamacona lo esaminò a lungo e con curiosità, poi se lo infilò in tasca e riprese la marcia; quando si accampò di nuovo, secondo i suoi calcoli nel mondo esterno doveva essere sera. Il giorno seguente Zamacona si alzò presto e ricominciò la discesa in quel mondo eternamente azzurro di nebbia, desolazione e silenzio soprannaturale. Man mano che avanzava cominciò a distinguere alcuni oggetti della pianura: alberi, cespugli, massi e un fiumicello che compariva sulla destra e curvava a sinistra più avanti. Il fiume era attraversato da un ponte che si trovava in corrispondenza del sentiero della montagna, e con molta cura l'esploratore riuscì a rintracciare la linea della strada al di là di esso: un'arteria che attraversava la pianura in linea retta. Alla fine Zamacona credette di aver individuato alcune città che sorgevano lungo il rettilineo, città le cui propaggini si allungavano verso il fiume e a volte lo attraversavano. In questi casi non mancavano le tracce di antichi ponti, a volte in rovina e a volte in buono stato. Zamacona si trovava in una distesa d'erba non troppo compatta, ma si accorse che sotto di lui la vegetazione si faceva sempre più folta. Ormai era facile individuare la strada, perché la superficie di pietra non consentiva la crescita dell'erba come il terreno nerastro. I frammenti di roccia erano meno frequenti, e a paragone del nuovo ambiente la parete del monte che gli stava alle spalle sembrava particolarmente squallida e pericolosa. Nel corso della giornata l'esploratore vide una massa confusa che si spo-
stava sulla pianura, in lontananza. Dopo essersi imbattuto per la prima volta nelle misteriose impronte di animali, Zamacona non ne aveva viste altre: ma nelle creature che si spostavano ai suoi piedi nella distesa pianeggiante c'era qualcosa che lo disturbò profondamente. Solo una mandria di animali al pascolo poteva muoversi in quel modo, e dopo aver visto le impronte Zamacona non aveva alcun desiderio di incontrare gli esseri che le avevano lasciate. Per fortuna la mandria non si trovava in prossimità della strada e la curiosità dell'avventuriero, mista alla cupidigia dei tesori sconosciuti, ebbero la meglio. D'altra parte, come si potevano trarre conclusioni sensate da una serie di impronte confuse e dai racconti distorti dal panico di un indiano ignorante? Aguzzando gli occhi per cercare di distinguere i particolari della mandria, Zamacona scoprì alcune cose interessanti. Una era che alcune zone delle città sotto di lui, ormai inconfondibili, mandavano un vivo bagliore nella nebbia azzurrata; un'altra era che, al di fuori delle città, altre strutture lucenti e più isolate sembravano punteggiare la pianura e i lati della strada. Queste costruzioni isolate erano racchiuse fra masse consistenti di vegetazione, e quelle più lontane dalla strada erano collegate all'arteria principale da stradine minori. Dalle città e dagli edifici non si alzava fumo e non c'erano altri segni di vita. Finalmente Zamacona si rese conto che la pianura non era infinita, benché la nebbia azzurra che l'avvolgeva gli avesse dato quest'impressione. In lontananza si vedeva ora una catena di basse colline, e il fiume puntava verso un'apertura in mezzo ad esse. Era tutto molto chiaro, specialmente il luccichio delle guglie nelle città; Zamacona piantò il secondo accampamento nell'interminabile giorno azzurro. Poco dopo notò un volo d'uccelli che si libravano molto in alto, e di cui non fu semplice stabilire la natura. Il pomeriggio seguente (in tutto il manoscritto si fa riferimento ai termini in uso nel mondo normale) Zamacona giunse sulla pianura silenziosa e attraversò il fiume pigro e quasi immoto su un ponte di basalto nero piuttosto ben conservato. L'acqua era limpida e conteneva grandi pesci dall'aspetto molto strano; la strada era pavimentata e assediata dalle erbacce e altra vegetazione selvatica, ma lungo il percorso si alternavano piccole colonne coperte di simboli misteriosi. La pianura erbosa si stendeva da ogni parte, con un gruppo di alberi o di cespugli qua e là, intervallati a loro volta da fiori azzurri e sconosciuti che coprivano in modo irregolare tutta l'estensione. Di tanto in tanto un fremito nell'erba indicava la presenza di serpenti. Dopo molte ore il viaggiatore raggiunse un boschetto di antichi e
bizzarri sempreverdi che, come sapeva grazie alle osservazioni fatte dall'alto, racchiudeva uno degli edifici isolati e splendenti. In mezzo alla fitta vegetazione Zamacona vide gli orribili pilastri scolpiti di una soglia che conduceva a un sentiero collaterale; al di là di un tratto lastricato e in parte invaso dal musco, il viottolo procedeva tra grandi alberi e una serie di basse colonne monolitiche. Una siepe di piante spinose costituiva l'ultimo baluardo prima di penetrare nella zona interna. Finalmente Zamacona riuscì a distinguere, nella penombra verde, l'antichissima facciata in rovina dell'edificio: un tempio, senza dubbio. Era ornato da una serie di mostruosi bassorilievi che ritraevano creature, oggetti e cerimonie che non avevano posto su questo o qualsiasi altro mondo normale. Nelle allusioni che riguardano i bassorilievi Zamacona si trincera, per la prima volta, dietro una reticenza in parte dovuta al terrore e in parte a scrupoli religiosi che guasta il valore informativo del manoscritto; non possiamo fare a meno di rimpiangere che i suoi pensieri e sentimenti fossero completamente imbevuti dello zelo cattolico della Spagna rinascimentale. La porta del tempio era spalancata e l'interno, senza finestre, era immerso nel buio assoluto. Vincendo la repulsione che gli ispiravano le sculture alle pareti, Zamacona prese la pietra e l'acciarino, accese una torcia di resina e, fattosi strada in mezzo ai viticci, varcò la portentosa soglia. Per un attimo fu quasi intontito dallo spettacolo: ma ciò che gli soffocò persino un grido di sorpresa non furono la polvere e le ragnatele che coprivano ogni cosa da ère immemorabili, le creature alate che svolazzavano sotto la volta, le orrende sculture alle pareti, le forme fantastiche dei cento bacili e bracieri, il sinistro altare piramidale dal vertice cavo o il mostruoso idolo dalla testa di polipo che riluceva su un piedistallo coperto di geroglifici e sembrava fatto interamente di un ignoto metallo oscuro. No, non fu un particolare sinistro come questi, ma la constatazione che tranne la polvere, le ragnatele, le creature alate e l'idolo colossale dagli occhi di smeraldo, tutto ciò che poteva vedere nel tempio era d'oro puro e massiccio. Il manoscritto fu redatto dopo che Zamacona ebbe fatta la scoperta che l'oro è il metallo più comune di quel mondo sotterraneo e che esso ne contiene innumerevoli giacimenti; ma l'autore non riesce a trattenere una straordinaria eccitazione al pensiero di aver finalmente provato la fonte di tutte le leggende indiane sulle città auree. Per un poco l'avventuriero fu incapace di osservare con distacco i particolari di ciò che lo circondava, ma alla fine questa facoltà gli fu restituita da una specie di strattone che gli pareva di sentire Bella tasca del giustacuore. Zamacona si rese conto che il disco
di metallo trovato sulla montagna era fortemente attratto dall'enorme idolo che troneggiava sul piedistallo: l'idolo con la testa di polipo e gli occhi di smeraldo che, egli comprese in quel momento, era fatto dello stesso metallo sconosciuto. Zamacona avrebbe appreso in seguito che la misteriosa sostanza magnetica (estranea al mondo sotterraneo come lo è a quello di superficie) è il metallo più prezioso dell'abisso azzurro. Nessuno sa cosa sia e dove la natura lo abbia originariamente prodotto, ma la piccola quantità che si trova sul nostro pianeta venne dalle stelle con il popolo degli Antichi, quando il grande Tulu - il dio dalla testa di polipo - li guidò per la prima volta sulla terra. Ormai la sola fonte conosciuta di questo metallo è costituita da una serie di artifatti realizzati in epoche lontanissime, fra cui una moltitudine di idoli giganteschi. Non è possibile classificarlo o analizzarlo, e persino il magnetismo si esercita esclusivamente su altri oggetti della stessa sostanza. Era il più importante metallo cerimoniale del popolo nascosto e il suo uso era soggetto a regole ben precise, in modo che le proprietà megnetiche non potessero causare inconvenienti. In un unico periodo della loro storia i cosiddetti Antichi avevano posseduto monete tradizionali, ottenute da una lega debolmente magnetica di ferro, oro, argento, rame, zinco e il metallo sconosciuto. Le riflessioni di Zamacona sull'idolo misterioso e sul magnetismo che emanava furono disturbate da un rombo ben definito in avvicinamento. Per la prima volta da quando si trovava nel mondo del silenzio, l'avventuriero fu colto dal panico. Non c'era da sbagliarsi sulla natura del rumore: era una mandria di animali alla carica. Ricordando il terrore dell'indiano, le impronte mostruose e la massa da lui intravista in lontananza, lo spagnolo tremò al pensiero di quello che avrebbe potuto capitargli. Non si fermò a riflettere sulla posizione in cui si trovava o sul significato di quell'attacco improvviso, ma reagì in base a un'elementare esigenza di autoprotezione. Le mandrie di animali infuriate non si danno pena di stanare le loro vittime all'interno di templi oscuri, e se si fosse trovato nel mondo che gli era familiare Zamacona non avrebbe provato la minima preoccupazione, confidando nella protezione dell'edificio; in fondo era un tempio massiccio e per giunta protetto dalla boscaglia. In questo caso, tuttavia, il terrore si impadronì della sua anima ed egli si guardò intorno alla disperata ricerca di un mezzo di salvezza. Poiché all'interno del tempio rivestito d'oro non sembrava esserci rifugio, Zamacona pensò di approfittare della porta da tanto tempo in disuso e che ancora si reggeva sui vecchissimi cardini, accostata a una parete inter-
na. Terriccio, muschio e altra vegetazione erano penetrati dall'esterno nell'apertura, e l'awenturiero dovette aprirsi un sentiero con la spada, ma finalmente raggiunse la grande porta d'oro. Incalzato dal rombo della mandria che si avvicinava, compì questo lavoro in men che non si dica; quando finalmente sfiorò la porta il rumore di zoccoli si era fatto più forte e minaccioso, e per un attimo il terrore di Zamacona raggiunse il culmine. Le speranze di riuscire a chiudere l'antichissimo portale sembravano minime, ma un cigolio di cardini annunciò che la forza del giovane aveva avuto la meglio e Zamacona si diede a tirare e spingere la porta freneticamente. Il successo arrivò all'ultimo momento, fra il boato di zoccoli invisibili: il grande portale d'oro si richiuse, lasciando Zamacona nel buio a parte l'unica torcia che aveva incuneato fra i supporti d'un tripode. C'era anche un paletto, e l'esploratore terrorizzato ringraziò i santi che funzionasse ancora. Solo i rumori che venivano dall'esterno gli permisero di ricostruire ciò che avvenne poi: dopo essersi avvicinata al tempio la mandria si divise, come se il boschetto di sempreverdi avesse costretto gli animali a diminuire la velocità e a disperdersi. Nonostante questo le creature continuavano ad avanzare, e fu presto evidente che si erano aperte un varco fra gli alberi e stavano circondando il sacrario dalle orrende pareti scolpite. A Zamacona sembrò che nell'avanzare dell'orda ci fosse un accanimento che era di per sé la cosa più allarmante e repulsiva, per non parlare dei suoni soffocati che si udivano anche attraverso le mura di pietra e il grande portale d'oro. Una volta quest'ultimo tremò violentemente, come per un impatto terribile, ma per fortuna resisté. Poi, dopo quello che sembrò un intervallo interminabile, lo spagnolo sentì che i passi si allontanavano e comprese che i visitatori sconosciuti avevano deciso di lasciarlo. Dal momento che la mandria non sembrava numerosa, probabilmente sarebbe stato sufficiente restare al riparo mezz'ora o anche meno, ma Zamacona preferì non correre rischi. Aprì il pacco delle provviste e preparò l'accampamento sul pavimento d'oro del tempio, con il grande portale che lo divideva da eventuali aggressori; e alla fine piombò in un sonno molto più tranquillo di quello che avrebbe potuto concedersi all'esterno, sulla gran pianura illuminata d'azzurro. Non lo turbò nemmeno la statua del grande Tulu, il dio dalla testa di polipo che ghignava su di lui coi grandi occhi verdemare, scolpito in un metallo sconosciuto e acquattato nelle tenebre su un piedistallo coperto di geroglifici mostruosi. Immerso nel buio per la prima volta da quando aveva lasciato il tunnel, Zamacona dormì a lungo e profondamente; e così recuperò il sonno che
aveva perso nei primi due accampamenti, quando l'intenso chiarore del cielo lo aveva tenuto sveglio nonostante la sua fatica. E mentre Zamacona dormiva il sonno del giusto, altri e misteriosi esseri viventi coprirono una più che ragguardevole distanza. È un bene che l'esploratore riposasse a lungo, perché nel successivo periodo di veglia lo aspettavano molte avventure straordinarie. 4 Ciò che finalmente svegliò Zamacona fu un improvviso bussare alla porta, un rumore che si fece strada nei suoi sogni e lo riportò alla realtà non appena ebbe capito di cosa si trattasse. Non potevano esserci dubbi: un essere umano batteva sul portale del tempio con fare deciso e perentorio; l'oggetto di cui si serviva era di metallo, e chi lo usava lo faceva in perfetta coscienza e volontà. L'esploratore si mise in piedi e una raffica di parole risuonò insieme ai colpi. Qualcuno gridava, con voce non del tutto priva di accenti musicali, una frase che il manoscritto trascrive così: «Oxi, oxi, giathcan ycà relex». Sicuro che i visitatori fossero uomini e non certo demoni, e riflettendo che non avevano alcun motivo per considerarlo un nemico, Zamacona decise di affrontarli apertamente e subito; quindi tirò l'antico paletto e la porta d'oro cigolò sotto la spinta di coloro che si trovavano all'esterno. Zamacona si trovò davanti a un gruppo di venti individui il cui aspetto sembrava studiato apposta per non mettergli paura. Erano indiani, anche se le tuniche leganti che indossavano, i gioielli preziosi e le spade non somigliavano a nulla che avesse visto fra le tribù del mondo esterno. Anche la fisionomia presentava sottili differenze con il classico tipo indio. Era evidente che non avevano un atteggiamento irresponsabile e ostile: invece di minacciarlo si limitarono a studiarlo con attenzione, come se si aspettassero che i loro occhi, incontrandosi, potessero dar luogo a una specie di comunicazione. Più lo guardavano, più l'esploratore aveva l'impressione di conoscerli meglio e intuire il segreto della loro missione; dopo la prima frase gridata all'esterno del tempio nessuno aveva più parlato, ma Zamacona si rese conto di aver assorbito un certo numero di informazioni. I visitatori erano arrivati dalla grande città che sorgeva oltre la catena di basse colline, avevano fatto il viaggio sul dorso di certi animali ed erano venuti fin là perché la presenza dello straniero era stata segnalata da altri animali; non erano sicuri di chi fosse o di dove fosse arrivato, ma sapevano che in
qualche modo lo straniero era legato al mondo esterno, una sfera che gli abitanti dell'abisso ricordavano vagamente e a volte visitavano nei sogni più curiosi. Come tutto questo potesse venir detto, a occhiate, da due o tre capi, Zamacona non era in grado di capirlo; ma lo apprese un momento dopo. L'esploratore cercò di rivolgersi ai nuovi venuti nel dialetto wichita che aveva imparato da Bufalo Infuriato, e quando vide che il tentativo era fallito riprovò in azteco, spagnolo, francese, nelle altre lingue romanze, con un po' di greco abborracciato, in galiziano, portoghese e nel dialetto delle sue native Asturie, per quanto la memoria gli consentiva. Ma neppure questo sfoggio di erudizione linguistica - tutto il suo bagaglio di poliglotta - suscitò una qualsiasi risposta. Poco dopo, quando si interruppe perplesso, uno dei visitatori prese a parlargli in una lingua sconosciuta e tuttavia affascinante che lo spagnolo ebbe non poca difficoltà a trascrivere sulla carta. Resosi conto che lo straniero non lo capiva, colui che aveva preso la parola indicò i propri occhi, la fronte e di nuovo gli occhi, come se volesse ordinargli di osservarlo e ricevere ciò che si apprestava a trasmettere. Zamacona obbedì e in poco tempo si trovò in possesso di un certo numero di informazioni. Al giorno d'oggi, egli apprese, i suoi visitatori non conversavano più a parole ma attraverso la proiezione di fasci di pensieri; tuttavia possedevano un linguaggio vocale che sopravviveva ancora nella forma scritta e serviva nelle occasioni cerimoniali, come tutte quelle in cui un forte sentimento richiedeva espressione spontanea. Per capirli bastava che lo spagnolo concentrasse la sua attenzione sugli occhi, e per rispondere era sufficiente che evocasse un'immagine mentale di quello che voleva dire; lo sguardo avrebbe comunicato l'immagine agli altri. Quando il telepate si interruppe, invitandolo a una risposta, Zamacona cercò di seguire l'esempio ricevuto dagli sconosciuti, ma senza troppo successo: per questo annuì e cercò di descrivere se stesso e lo scopo del suo viaggio con il linguaggio dei segni. Indicò verso l'alto, per significare il mondo esterno, poi chiuse gli occhi e imitò i gesti di una talpa che scava. Aprì gli occhi di nuovo e indicò il basso, per far capire che aveva percorso il ripido fianco della montagna. Tanto per dar forza alla sua mimica, ogni tanto mescolava ai gesti una parola o due: una volta, per esempio, indicò se stesso e il gruppo dei visitatori dicendo "un hombre", quindi indicò la propria persona e pronunciò attentamente il suo nome, Panfilo de Zamacona. Alla fine della strana conversazione le due parti erano riuscite a scambiarsi un buon numero di informaziomi. Zamacona aveva appreso come
proiettare i suoi pensieri e contemporaneamente si era impadronito di alcune parole dell'antico linguaggio della regione. A loro volta, i visitatori avevano assorbito i rudimenti di un elementare vocabolario spagnolo. Il linguaggio orale di quelle genti non somigliava a niente che l'esploratore avesse lontanamente conosciuto, sebbene a volte gli paresse di cogliere un legame debolissimo con la lingua azteca: in tal caso quest'ultima rappresentava uno stadio estremamente corrotto del vecchio idioma, oppure si era limitato a prenderne in prestito alcune parole. Il mondo sotterraneo, come fu detto a Zamacona, aveva un nome che negli antichi manoscritti suonava all'incirca come "Xinaian", ma che, stando a ulteriori spiegazioni dell'esploratore e ad alcune osservazioni critiche da lui fatte in proposito, sarebbe meglio trascrivere in inglese con un diverso criterio fonetico: K'nyan. Non sorprende che quella prima conversazione non andasse oltre i più semplici rudimenti, e tuttavia si trattava di cose importanti. Zamacona apprese che la gente di K'n-yan era antichissima e veniva da una regione dello spazio molto lontana da questo pianeta, ma le cui condizioni fisiche somigliano a quelle terrestri. Tutto ciò, naturalmente, apparteneva ormai alla leggenda, e non era facile stabilire quanta verità vi fosse e quali fondamenti avesse il culto della creatura con la testa di polipo chiamata Tulu, che secondo la tradizione avrebbe guidato il popolo di K'n-yan nel viaggio interstellare e che essi tuttora adoravano per ragioni estetiche. Ovviamente quegli uomini sapevano del mondo esterno, anzi rappresentavano il ceppo originario che lo aveva popolato quando la crosta del pianeta era diventata abitabile. Tra un'era glaciale e l'altra avevano dato origine a numerose e splendide civiltà di superficie: in particolar modo quella fiorita al polo sud presso il monte Kadath. In un'epoca lontanissima del passato gran parte del mondo esterno era sprofondato nelle acque dell'oceano, di modo che solo pochi superstiti avevano potuto recarsi a K'n-yan per portare notizie. La catastrofe era stata provocata certamente dalla collera dei demoni dello spazio, ostili tanto all'umanità che ai suoi dèi: si tramandava, infatti, di un diluvio ancora più antico che aveva sommerso gli dèi stessi, compreso il grande Tulu, tuttora imprigionato nelle cripte oceaniche della metropoli semicosmica di Relex, nella quale sognava. Né l'uomo né gli schiavi dei demoni dello spazio potevano vivere a lungo sulla superficie terrestre: questa era l'opinione comune, e quindi tutti gli esseri che dimoravano sulla crosta del pianeta dovevano essere malvagi. Per questo erano cessati i commerci con le terre del
sole e del cielo stellato; le vie d'accesso a K'n-yan (almeno quelle di cui ci si rammentava l'esistenza) erano state bloccate o sorvegliate attentamente, e qualunque intruso era stato trattato alla stregua di una spia pericolosa o d'un nemico. Ma tutto questo accadeva moltissimo tempo fa. Con il passare delle ère i visitatori che si spingevano a K'n-yan erano sempre più pochi, e finalmente le sentinelle che guardavano gli accessi al sottosuolo erano state eliminate. La massa della popolazione aveva dimenticato l'esistenza del mondo esterno, salvo nei miti, in alcune forme di memoria ancestrale e nei sogni più bizzarri; tuttavia le persone colte non avevano mai smesso di tener presenti i fatti essenziali. Gli ultimi visitatori di cui si sapeva ufficialmente qualcosa - e che erano arrivati secoli addietro - non erano stati trattati come spie dei demoni, anche perché la fede nelle vecchie leggende si era pressoché esaurita. Ovviamente erano stati interrogati a fondo per ottenere informazioni sulle favolose terre di superficie: a K'n-yan la curiosità scientifica era sempre viva e i miti, i sogni, i ricordi e i frammenti storici che parlavano del mondo superiore non avevano smesso di affascinare gli studiosi, al punto di far desiderare a qualcuno d'intraprendere una spedizione esterna che poi non si era trovato il coraggio di realizzare. L'unica richiesta che veniva fatta ai visitatori era che si astenessero dal tornare indietro a informare i loro concittadini dell'esistenza di K'n-yan; poiché, dopotutto, non si poteva esser certi delle intenzioni degli esterni. Oro e argento rappresentavano un ghiotto boccone per chi viveva in superficie, ed eventuali intrusi avrebbero potuto rivelarsi molto pericolosi. Coloro che avevano obbedito all'ordine avevano vissuto bene anche se brevemente, cosa di cui il popolo sotterraneo si meravigliava. Ad essi era stato chiesto tutto ciò che sapevano sul mondo da cui venivano, ma tutto sommato si trattava di informazioni di poco conto. In genere i resoconti erano così frammentari e in conflitto l'uno con l'altro che non era facile decidere a cosa si poteva credere e di cosa si doveva dubitare. Gli abitanti di K'n-yan avrebbero voluto saperne di più, e quindi in un certo senso si auguravano di avere altri visitatori. Quanto a coloro che avevano cercato di scappare... non c'era che da rimpiangerne la sorte. Zamacona era il benvenuto, tantopiù che sembrava un uomo d'alto rango e molto meglio informato sul mondo esterno dei precedenti visitatori. Sarebbe stato una preziosa fonte d'informazioni, e il popolo di K'n-yan sperava che non gli dispiacesse troppo restare laggiù per sempre. A sua volta Zamacona apprese molte cosa sul mondo di K'n-yan, e per
essere solo il primo colloquio lo lasciò quasi senza fiato. Seppe, per esempio, che da qualche migliaio di anni fenomeni come la vecchiaia e la morte erano stati sconfitti; gli uomini non si indebolivano col passare degli anni e non morivano se non di morte violenta o di propria volontà. Con opportuni accorgimenti si poteva restare eternamente giovani e diventare immortali; l'unica ragione per cui alcuni di loro si permettevano di invecchiare era che ne apprezzavano il senso, poiché in quel mondo regnavano stagnazione e routine. Tuttavia, quando lo desideravano potevano tornare giovani. Nascite non ce n'erano più, tranne per scopi scientifici, dato che l'incremento demografico era giudicato del tutto inutile da una razza che padroneggiava la natura e qualsiasi forma di vita organica rivale. Parecchi, tuttavia, dopo un certo tempo preferivano morire; infatti, nonostante l'ingegnosità con cui venivano inventati sempre nuovi piaceri, il fardello della coscienza diventava semplicemente insopportabile per le anime più sensibili, soprattutto quelle in cui il tempo e l'esaurimento avevano azzerato gli istinti fondamentali e le emozioni legate all'autoconservazione. I membri dell'ambasceria avevano da cinquecento a mille e cinquecento anni e alcuni di essi avevano incontrato nel passato altri visitatori della superficie, anche se il tempo ne aveva cancellato il ricordo. Spesso tali visitatori avevano tentato di ottenere la longevità del popolo sotterraneo, ma vi erano riusciti solo in minima parte; ciò si doveva alle differenze evoluzionistiche subentrate nel milione o milioni d'anni trascorsi da quando i due ceppi si erano separati. Queste differenze risaltavano in modo anche più sbalorditivo in un altro particolare, più strano della meravigliosa immortalità. Si trattava dell'abilità, comune a tutto il popolo di K'n-yan, di regolare con la forza della volontà l'equilibrio fra materia ed energia astratta, anche per quel che riguardava i corpi di esseri viventi. In altre parole, e seguendo tecniche opportune, un uomo colto di K'n-yan poteva smaterializzarsi o rimaterializzarsi a piacere, e con uno sforzo maggiore e l'impiego di tecniche più sofisticate poteva fare lo stesso a qualunque oggetto gli piacesse. La materia solida veniva ridotta in particelle libere che potevano essere ricombinate senza danno. Se Zamacona non avesse aperto la porta ai visitatori, avrebbe avuto le prove di questa facoltà in modo molto più sconcertante, perché solo la fatica e la noia insita nel processo avevano impedito ai venti uomini di attraversare la porta d'oro senza neppure prendersi la briga di bussare. Era un'arte molto più antica della vita eterna ed entro certi limiti poteva essere insegnata a qualsiasi persona intelligente, ma mai completamente. Nelle infinite ère del passato il mondo esterno aveva conosciuto numerose leg-
gende su questa facoltà, ma ormai sopravvivevano soltanto nelle tradizioni occulte e nei racconti soprannaturali. Gli uomini di K'n-yan avevano sempre trovato divertenti i primitivi e imperfetti racconti di spiriti che raccontavano gli intrusi provenienti dalla superficie. Nella vita pratica il principio della smaterializzazione godeva di parecchie applicazioni industriali, ma in genere veniva trascurato per mancanza di un incentivo abbastanza forte a indurne l'uso. L'applicazione principale riguardava il sonno, quando per provare un'eccitazione maggiore i sognatori esperti ricorrevano a questa tecnica per rafforzare la vividezza delle visioni notturne. Con l'aiuto della smaterializzazione alcuni sognatori si erano potuti spingere, in forma semicorporea, in uno straordinario e nebuloso paese di tumuli, valli profonde e luce variabile che secondo alcune teorie rappresentava il dimenticato mondo esterno. Vi si avventuravano sul dorso di animali addomesticati, e poiché di questi tempi la pace regnava sovrana, in sogno rivivevano le antiche e gloriose battaglie degli antenati. Secondo alcuni filosofi, in questi casi i corpi semi-materiali dei sognatori si mescolavano effettivamente con i residui del tutto immateriali lasciati da quei lontanissimi avi. Il popolo di K'n-yan viveva nella grande e superba città di Tsath, oltre le colline. Nel passato erano divisi in parecchie razze sparse ovunque nel mondo sotterraneo, che si spingeva fino ad abissi incalcolabili e che oltre alla regione di luce azzurra ne comprendeva un'altra chiamata Yoth, immersa in un perpetuo bagliore scarlatto, dove gli archeologi avevano trovato resti di una razza ancora più antica e inumana. Nel corso del tempo, tuttavia, gli uomini di Tsath avevano sconfitto e ridotto in schiavitù le altre razze, costringendole ad accoppiarsi con una specie di animali cornuti e quadrupedi che provenivano dalla regione rossa. Quelle fiere possedevano inclinazioni straordinarie, solo in parte umane: e benché fossero il frutto di chissà quali esperimenti biologici, per il resto dovevano essere i discendenti degeneri degli esseri sconosciuti di cui s'erano trovati i resti. Con il passare di ère innumerevoli, nuove scoperte e applicazioni meccaniche avevano reso la vita estremamente più semplice; la popolazione s'era concentrata a Tsath e il resto di K'n-yan era rimasto quasi completamente deserto. Vivere in un luogo solo era molto più facile, e d'altra parte non c'era alcun bisogno di favorire un eccessivo sviluppo della popolazione. Molti degli antichi apparecchi meccanici erano ancora in funzione, ma altri erano stati abbandonati quando si era constatato che non davano più piacere, o che non erano più necessari ad una razza poco numerosa e dotata di forza
mentale capace di governare una moltitudine di apparati industriali, organismi inferiori e semiumani. La categoria degli schiavi, estremamente composita, era formata dagli antichi nemici sconfitti, dagli intrusi venuti dall'esterno, dai corpi dei morti rianimati grazie a uno straordinario uso del galvanismo e dai membri inferiori della razza dominante di Tsath. Grazie alla selezione e all'evoluzione sociale la classe dirigente aveva fatto immensi progressi: la nazione aveva attraversato un'epoca di democrazia industriale e idealista in cui venivano offerte a tutti uguali possibilità, e che, permettendo ai più intelligenti di salire al potere, aveva tratto dalle masse le menti migliori e i caratteri più forti. L'industria era diventata molto semplice, poiché a parte la necessità di produrre i beni fondamentali e garantire la soddisfazione dei bisogni irrinunciabili, veniva ritenuta fondamentalmente inutile. La crescente meccanizzazione urbana, modellata su criteri semplici e standardizzati che richiedevano un minimo di manutenzione, assicurava ogni genere di comodità fisica; altri bisogni essenziali vanivano soddisfatti dall'agricoltura praticata con sistemi scientifici e dall'allevamento del bestiame. I lunghi viaggi erano caduti in disuso e la gente era tornata a servirsi delle bestie da soma cornute e semiumane; questo sistema veniva giudicato di gran lunga preferibile alla necessità di fabbricare macchine per il trasporto in oro, argento e acciaio come quelle che una volta avevano solcato terra, acque e aria. Zamacona riusciva a stento a capacitarsi che macchine del genere esistessero al di fuori dei sogni, ma gli fu detto che nei musei avrebbe potuto osservarne lui stesso alcuni esemplari. Recandosi nella valle di Do-Hna, distante un giorno di marcia, avrebbe potuto esaminare le reliquie di altre magiche apparecchiature, perché era quella la zona in cui la razza sotterranea si era diffusa all'epoca in cui lo sviluppo demografico aveva raggiunto il culmine. Al contrario, le città e i templi della pianura in cui si trovavano ora risalivano a un periodo molto più antico, e durante la supremazia degli uomini di Tsath erano serviti soprattutto come luoghi di culto e di antica devozione. Quanto alla forma di governo, Tsath si poteva definire una specie di stato comunista o semi-anarchico; l'ordine quotidiano delle cose era stabilito dalla consuetudine più che dalla legge. Tutto questo era reso possibile dall'antichissima esperienza e dal paralizzante ennui di cui era vittima la razza; in effetti le sue esigenze e i suoi bisogni erano limitati alle necessità fisiche fondamentali e alla ricerca di nuove sensazioni. Un'abitudine millenaria alla tolleranza, non ancora minacciata da un qualunque tipo di reazione, aveva abolito ogni illusione di valori e di principi e a nessuno sa-
rebbe venuto in mente di cercare qualcosa che non fosse contemplato nell'aderenza alla tradizione. Fare in modo che la ricerca del piacere non danneggiasse in alcun modo questa comunità massificata: ecco l'obbiettivo principale. L'organizzazione familiare era scomparsa da tempo e le distinzioni civili e sociali fra i sessi erano cadute. La vita quotidiana era organizzata come un rituale: le principali occupazioni erano i giochi, il consumo di droghe, la tortura degli schiavi, il sogno a occhi aperti, orge gastronomiche ed emotive, esercizi religiosi, esperimenti bizzarri, discussioni artistiche e filosofiche e altre cose del genere. La proprietà, che riguardava principalmente terre, schiavi, animali, l'amministrazione delle imprese civiche e le quantità più o meno ingenti del metallo-Tulu (che, dotato dei suoi speciali poteri magnetici, un tempo aveva rappresentato la moneta standard universale), era distribuita in modo complesso e in buona parte ugualmente divisa fra tutti gli uomini liberi. La povertà era sconosciuta e il lavoro consisteva solo in una serie di compiti amministrativi imposti dal complesso sistema di prove e selezioni. Per Zamacona era difficile descrivere condizioni così diverse da quelle che aveva conosciuto nella sua esperienza, e nei punti che riguardano la politica e l'amministrazione il manoscritto si rivela particolarmente confuso. Nella città di Tsath l'arte e il pensiero avevano raggiunto vette altissime, ma ormai languivano nella decadenza. Per di più, il dominio delle macchine aveva tarpato lo sviluppo di un normale spirito estetico sostituendolo con un'arida tradizione geometrica che risultava fatale a ogni espressione sincera. In poco tempo si era trovato il modo di ovviare al problema, ma un marchio indelebile era rimasto in tutti i settori dell'arte e dell'artigianato; in questo modo, e a parte le opere di carattere religioso - esse stesse quanto mai convenzionali - in tutti gli altri campi c'era ben poca profondità di sentimento. Forse per questo la riproduzione arcaicizzante di opere del passato aveva incontrato il favore del pubblico. La letteratura era di tipo esasperatamente soggettivo e analitico, fino al punto da riuscire totalmente incomprensibile a Zamacona. La scienza si era sviluppata in profondità e occupava tutti i campi dello scibile, con l'unica eccezione dell'astronomia. Negli ultimi tempi, tuttavia, il processo di decadimento si era accentuato anche in quelle discipline, perché la gente riteneva sempre più inutile affaticare la propria mente con i problemi posti dagli astrusi particolari e dalle mille ramificazioni del sapere scientifico. Sembrava ragionevole abbandonare le speculazioni profonde e limitare la filosofia alle forme più convenzionali. La tecnologia, ovviamente, poteva essere conservata con un sem-
plice sforzo di routine. La storia era sempre più trascurata, anche se nelle biblioteche esistevano ampie e documentate cronache del passato; per fortuna era ancora ritenuto un argomento interessante, e non pochi si sarebbero rallegrati delle nuove conoscenze portate da Zamacona. In generale, tuttavia, la tendenza moderna era verso il sentire piuttosto che il pensare, ed erano più apprezzati gli inventori di nuovi svaghi che i custodi dei fatti del passato o coloro che indagavano i misteri dell'universo. La religione era l'interesse principale di Tsath, anche se pochi credevano effettivamente nel soprannaturale. Ciò che la gente desiderava era l'esaltazione estetica ed emotiva procurata dal misticismo e dai riti sensuali che formavano l'ossatura di una fede antica e pittoresca. I templi del grande Tulu, uno spirito dell'armonia cosmica simboleggiato nell'antichità come il dio dalla testa di polipo che aveva guidato gli uomini fra le stelle, erano gli edifici più ricchi ed elaborati di K'n-yan, mentre gli altari segreti di Yig, il principio vitale che prendeva forma nel padre dei serpenti, erano quasi altrettanto sfarzosi e sorprendenti. Con il tempo Zamacona apprese i particolari delle orge e dei sacrifici connessi a questa religione, ma per motivi religiosi si mostra riluttante a descriverceli. Lui stesso evitò di partecipare a qualunque rituale, tranne quelli che scambiò per corruzioni della sua stessa fede. Inoltre, a ogni opportunità che gli si presentava cercò di convertire il popolo del sottosuolo alla religione della Croce che gli spagnoli speravano di rendere universale. Nell'attuale religione di Tsath un posto di primo piano spettava al rinnovato e pressoché genuino culto del raro metallo di Tulu, elemento sacro che non si trovava in natura ma che con il suo colore scuro e lucido e le peculiari facoltà magnetiche aveva da sempre accompagnato la storia degli uomini, sia sotto forma di idoli che di altri oggetti sacri. Fin dai tempi più remoti la sola vista del prezioso metallo in forma pura aveva suscitato rispetto, mentre gli archivi sacri e le preghiere erano contenuti in cilindri ricavati dal purissimo metallo. Al giorno d'oggi il tramonto della scienza e in genere delle facoltà razionali aveva offuscato le facoltà critiche della razza, e i suoi membri avevano ricominciato a tessere intorno al prezioso metallo la ragnatela di superstizioni che erano esistite nei tempi antichi. Un'altra funzione della religione era quella di regolare il calendario, nato in un periodo in cui il tempo e la velocità erano considerati elementi fondamentali nella vita emotiva della comunità. I periodi di veglia e sonno, di volta in volta prolungati, accorciati o invertiti come dettavano l'umore e la convenienza, corrispondevano più o meno ai giorni e alle notti del mondo
esterno ed erano scanditi dai battiti della coda del grande Yig, il serpènte; Zamacona, per esperienza personale, riferisce che a suo giudizio essi erano lunghi almeno il doppio. L'anno veniva calcolato in base alla muta della pelle di Yig e corrispondeva a circa un anno e mezzo del mondo esterno. All'epoca in cui redasse il manoscritto Zamacona pensava di avere imparato perfettamente il calendario di K'n-yan, per cui non esita a datarlo 1545; tuttavia alcuni particolari del documento ci permettono di dubitare che tale cronologia sia del tutto esatta. Man mano che il portavoce di Tsath continuava a dargli informazioni, Zamacona sentì crescere la repulsione e l'allarme: non tanto per quello che gli veniva detto o per lo straordinario sistema di comunicazione telepatica, né per l'implicita asserzione che non sarebbe potuto tornare al mondo da cui veniva; la verità è che lo spagnolo avrebbe preferito non essere mai sceso in quel regno di magie, anormalità e decadenza. Egli sapeva, tuttavia, che la politica migliore consisteva nel mostrarsi amichevole e d'accordo con tutto quello che gli sconosciuti proponevano e di fornire loro le informazioni che cercavano. Essi, d'altra parte, furono affascinati dalle notizie sul mondo esterno che sia pure a fatica Zamacona riuscì a fornire. Erano le prime notizie sul mondo di fuori che giungessero dai tempi in cui gli ultimi superstiti di Atlantide e Lemuria avevano cercato rifugio nel sottosuolo, migliaia di secoli addietro; i visitatori successivi, infatti, appartenevano a ristretti gruppi locali che sapevano ben poco del mondo nella sua totalità: maya, toltechi, aztechi nell'ipotesi migliore, e per il resto membri delle tribù ignoranti delle pianure. Zamacona era il primo europeo che vedessero, e il fatto che si trattasse di un giovane educato e brillante ne faceva un emissario molto più interessante. Il gruppo di sconosciuti fu estremamente interessato da tutto ciò che disse, o che cercò di comunicare a gesti; era evidente che la sua venuta avrebbe riacceso l'interesse di Tsath nel campo della storia e della geografia. La sola cosa che sembrava dispiacere agli ambasciatori era che altri avventurieri, anch'essi curiosi e dotati di spirito d'iniziativa, individuassero gli accessi incustoditi al mondo di K'n-yan. Zamacona parlò ai suoi ospiti della scoperta della Florida e della Nuova Spagna, ribadendo il concetto che gran parte del mondo era in preda a uno straordinario fervore di esplorazioni geografiche. Spagnoli, portoghesi, francesi e inglesi solcavano i mari e prima o poi il Messico e la Florida avrebbero formato un unico grande impero coloniale; allora sarebbe stato difficile tenere lontani da K'n-yan gli abitanti del mondo esterno, sempre a caccia dei tesori di cui
favoleggiavano le leggende. Bufalo Infuriato sapeva del viaggio intrapreso da Zamacona e forse, se non lo avesse incontrato al luogo fissato per l'appuntamento, ne avrebbe parlato a Coronado o addirittura al grande viceré... Sui volti degli ascoltatori si dipinse l'allarme, poiché la segretezza e la sicurezza di K'n-yan erano minacciate; Zamacona apprese dalle loro menti che d'ora in poi tutti i punti d'accesso non bloccati sarebbero stati sorvegliati da sentinelle. 5 La lunga conversazione fra Zamacona e i suoi ospiti ebbe luogo nella penombra verdeazzurra del boschetto davanti al tempio. Una parte degli uomini si distesero sul musco e le erbacce che fiancheggiavano il viottolo semi-sommerso; altri, fra cui lo spagnolo e il portavoce del gruppo di Tsath, sedettero sulle colonne spezzate che qua e là fiancheggiavano l'accesso al tempio. Il colloquio durò più o meno un giorno terrestre, perché più volte Zamacona ebbe fame e si rifornì all'abbondante riserva di provviste che aveva con sé; dal canto loro gli uomini di Tsath andarono a prendere il cibo sulla via maestra, dove avevano lasciato gli animali con cui erano giunti al tempio. Alla fine il capogruppo concluse la discussione e fece capire che era arrivato il momento di mettersi in viaggio alla volta della città. La carovana disponeva di parecchi animali in soprannumero, e Zamacona avrebbe potuto cavalcarne uno. La prospettiva di montare una delle minacciose e ibride creature di cui si sospettavano orrende abitudini alimentari non sembrò gradita all'esploratore, tanto più che era bastata la vista di una di esse a terrorizzare Bufalo Infuriato. Ma nei cosiddetti animali c'era un'altra cosa che turbava profondamente Zamacona: l'intelligenza quasi sovrannaturale che aveva permesso ad alcuni esemplari della mandria avvicinatasi al tempio il giorno prima di spingersi fino a Tsath per denunciare la presenza dello straniero, determinando l'attuale spedizione. Ma Zamacona non era un vigliacco e seguì coraggiosamente i suoi ospiti verso la strada principale. Lì, oltre le fronde, si trovavano gli animali. Alla vista delle creature che l'aspettavano al di là delle colonne coperte di viticci, tuttavia, non riuscì a trattenere un grido di terrore. Non c'era da meravigliarsi che il curioso indiano fosse scappato in preda al panico, e una volta raggiunta la strada lo spagnolo dovette chiudere gli occhi, sentendo che la ragione vacillava. Purtroppo, la solita reticenza religiosa gli impedisce di descrivere diffusamente le mostruose entità e tutto ciò che ci
rimane sono una serie di vaghe allusioni alle grandi, flaccide creature che sembra avessero il dorso coperto di pelliccia e un corno rudimentale al centro della fronte, e che nelle facce dal naso piatto e le labbra sporgenti rivelavano un'inconfondibile traccia di sangue umano o comunque antropoide. Zamacona dichiara nel manoscritto, ma in un passo successivo, che erano i più terribili esseri viventi che avesse mai visto a K'n-yan o nel mondo esterno. Il terrore che ispiravano non dipendeva da un qualsiasi tratto caratteristico, o almeno non era facile dire da quale: il vero problema è che non erano del tutto naturali. Gli ospiti notarono il timore di Zamacona e si affrettarono a rassicurarlo per quanto era possibile, spiegando che gli animali (chiamati gyaa-yothn) erano certo strani, ma del tutto innocui. La carne di cui si nutrivano non apparteneva a esseri intelligenti della specie dominante, ma a una speciale razza di schiavi che in gran parte era scivolata sotto il livello dell'umanità e che costituiva la principale risorsa di carne a K'n-yan. I carnivori - o meglio i loro antenati - erano stati scoperti allo stato brado fra le ciclopiche rovine del mondo deserto e perennemente illuminato di rosso che era Yoth, situato sotto la superficie di K'n-yan. In parte erano senz'altro umani, di questo non si poteva dubitare, ma gli scienziati non erano riusciti a stabilire se fossero i discendenti delle entità scomparse che avevano vissuto e regnato fra quelle strane rovine. La prova principale a favore di questa ipotesi era il fatto, ben noto, che gli abitanti scomparsi di Yoth erano stati quadrupedi; i pochi manoscritti e le opere d'arte trovate nelle catacombe di Zin, sotto la più grande città in rovina di Yoth, non permettevano di dubitarne, ma grazie agli stessi reperti era stato possibile scoprire che gli esseri di Yoth conoscevano l'arte di creare artificialmente la vita e nel corso della loro storia avevano progettato e distrutto innumerevoli razze di animali da trasporto, tutte studiate con la massima efficienza; non contenti avevano creato ogni specie di forma vivente, anche la più grottesca, al solo scopo di divertirsi e procurarsi nuove sensazioni nel lungo periodo della decadenza. Gli esseri di Yoth appartenevano senza dubbio alla classe dei rettili, e molti fisiologi di Tsath concordavano nel sostenere che i gyaa-yothn trovati fra le rovine avevano una forte affinità coi rettili, anche se poi erano stati incrociati con gli schiavi mammiferi di K'n-yan. Il coraggio e l'ardore del cavaliere spagnolo, un uomo capace di affrontare da solo un universo sconosciuto, è testimoniato dalla fermezza con cui montò uno dei mostruosi animali e lo guidò in testa alla colonna, vicino al capo dell'ambasceria; quest'ultimo, di nome Gll'-Hthaa-Ynn, era
stato l'informatore più attivo durante il precedente scambio di informazioni. Cavalcare uno di quegli animali non era una faccenda piacevole, ma se non altro il sedile era comodo e l'andatura del goffo gyaa-yoth era sorprendentemente pacifica e regolare. Non era necessaria la sella e non sembrava che l'animale avesse bisogno di redini. La carovana procedeva a passo spedito, fermandosi ogni tanto accanto alle rovine di templi o città abbandonate nei confronti delle quali Zamacona mostrava una certa curiosità, e che Gll'-Hthaa-Ynn gli illustrava volentieri. La più grande di queste città si chiamava B'graa ed era uno splendore d'oro lavorato: Zamacona ne ammirò l'architettura barocca con il massimo interesse. Gli edifici erano il più delle volte alti e affusolati, con i tetti che culminavano in una miriade di pinnacoli. Le strade erano strette, curve e specialmente pittoresche quando si arrampicavano su un'altura, ma Gll'-Hthaa-Ynn spiegò che in seguito le città di K'n-yan erano diventate molto più spaziose e regolari. Gli antichi borghi della pianura mostravano tracce di mura livellate, segno dei giorni lontani in cui erano state conquistate una a una dall'ormai prosciolto esercito di Tsath. Lungo la strada si imbatterono in un edificio che Gll'-Hthaa-Ynn indicò di propria iniziativa, anche se per visitarlo la carovana dovette avventurarsi per oltre un chilometro e mezzo su un sentiero laterale invaso dalla vegetazione selvatica. Si trattava di un semplice tempio di basalto nero, un ammasso di blocchi squadrati senza un solo rilievo, e con al centro un piedestallo d'onice sul quale non appoggiava un bel niente. La cosa notevole era la storia del tempio, che si rifaceva a un mondo tanto antico e favoloso che a paragone persino il misterioso Yoth diventava un paese del passato più recente. Era stato costruito a imitazione dei templi descritti nelle catacombe di Zin per ospitare il terribile idolo nero a forma di rospo trovato nel mondo illuminato di rosso, e che i documenti di Yoth chiamavano Tsathoggua. Si trattava di una divinità potente e adorata universalmente; dopo che il popolo di K'n-yan l'ebbe adottata aveva dato il nome alla città che in seguito sarebbe divenuta una delle più importanti nella regione. Le leggende di Yoth dicevano che Tsathoggua proveniva da un misterioso regno occulto sotto la superficie del mondo rosso, un paese sprofondato nella tenebra e abitato da esseri che non avendo mai luce avevano sviluppato altri sensi; costoro avevano dato vita a grandi civiltà e adorato potenti dèi prima ancora che nascessero i rettili quadrupedi di Yoth. Molte erano le effigi di Tsathoggua scoperte a Yoth, e si diceva che tutte provenissero dal regno nero; secondo gli archeologi yothiani esse avrebbero raffigurato la razza
del mondo occulto, ormai estinta da ère incalcolabili. Gli archeologi avevano esplorato con molto zelo il mondo sotterraneo di N'kay (come veniva descritto nei documenti yothiani), e certi corridoi di pietra o cunicoli scavati nel sottosuolo avevano provocato la massima eccitazione. Quando il popolo di K'n-yan aveva scoperto il mondo della luce rossa e decifrato i relativi documenti, il culto di Tsathoggua era penetrato nella sua civiltà e le immagini dell'orribile rospo erano state portate nel paese della luce azzurra; allo scopo di sistemarle dignitosamente, numerosi templi di basalto ottenuto nelle miniere di Yoth erano stati eretti ovunque, proprio come quello che Zamacona vedeva adesso. La nuova religione era fiorita fino al punto da rivaleggiare con i culti nazionali di Yig e Tulu, finché una branca del popolo di K'n-yan l'aveva portata nel mondo esterno; qui gli idoli più piccoli erano stati custoditi in un tempio di Olthoe, nella regione di Lomar, in prossimità del polo nord. Si raccontava che il culto del diorospo fosse sopravvissuto, nel mondo esterno, anche dopo che la grande glaciazione e l'invasione dei pelosi gnophkeh ebbero distrutto Lomar. Ma di questo, a K'n-yan, si sapeva veramente poco. Nel mondo della luce azzurra il culto del rospo era finito all'improvviso, anche se il nome di Tsath gli sarebbe sopravvissuto. Ciò che mise fine alla venerazione di Tsathoggua fu la parziale esplorazione del nero paese di N'kai, sotto il mondo rosso di Yoth. Secondo i manoscritti yothiani a N'kai non avrebbero dovuto esserci forme di vita superstiti, ma nelle ère infinite trascorse dai giorni di Yoth e l'arrivo degli uomini sulla terra, doveva essere accaduto qualcosa che forse non era del tutto estraneo alla fine di Yoth stesso. Con ogni probabilità si era trattato di un terremoto, in seguito al quale le catacombe del mondo senza luce che gli archeologi yothiani avevano giudicato impenetrabili si erano all'improvviso spalancate; o forse si era trattato di una spaventosa liberazione di energia e di elettroni, qualcosa che le menti dei vertebrati non potevano nemmeno immaginare. In ogni modo, quando gli uomini di K'n-yan si erano calati nei neri abissi di N'kai armati di torce a energia atomica, avevano trovato degli esseri viventi... creature che strisciavano nei corridoi di pietra e adoravano le immagini d'onice e basalto di Tsathoggua. Ma c'era di peggio: ammassi senza forma di fango nero e viscido erano in grado di modellarsi, almeno temporaneamente, in esseri meglio definiti per perseguire i loro scopi. Gli esploratori di K'n-yan non si erano soffermati più del necessario, ma quelli che erano fuggiti vivi avevano sigillato il corridoio che conduceva dal mondo rosso di Yoth negli abissi impenetrabili dell'orrore.
Tutte le immagini di Tsathoggua erano state annientate con i disintegratori e il culto era scomparso per sempre. Incalcolabili millenni dopo, quando le paure più ingenue erano state superate e la curiosità scientifica aveva preso il loro posto, il popolo di K'nyan aveva ricordato le leggende di Tsathoggua e N'kai, e una spedizione debitamente equipaggiata e armata era scesa a Yoth per cercare l'ingresso bloccato dell'abisso, e vedere cosa si agitasse ancora là sotto. Ma la porta non era mai stata trovata, né allora né negli innumerevoli secoli successivi. Al giorno d'oggi c'era chi dubitava che l'abisso fosse mai esistito, ma i pochi studiosi che erano in grado di decifrare i manoscritti yothiani ritenevano che le prove addotte nei documenti fossero sufficienti, anche se gli annali della stessa K'n-yan dove si raccontava la terribile spedizione nel regno della notte erano piuttosto incerti e problematici. Una parte dei culti più tardi si sforzava di eliminare qualsiasi ricordo dell'esistenza di N'kai, e chiunque lo menzionasse era considerato un peccatore; tuttavia, ai tempi in cui Zamacona arrivò a K'n-yan queste misure non avevano ancora raggiunto la massima severità. Quando la carovana tornò sulla via maestra e si avvicinò alla bassa catena di montagne, Zamacona si rese conto che il fiume era molto vicino e scorreva alla sua sinistra. Poco dopo, mentre la pianura cedeva il posto alle pendici della catena, il fiume imboccava una profonda gola e attraversava le montagne, mentre la strada continuava molto più in alto e non lontana dall'orlo del burrone. Fu a questo punto che una pioggia leggera prese a cadere; Zamacona osservò le gocce e gli spruzzi che ogni tanto lo colpivano e alzò gli occhi verso la volta azzurra, ma senza notare alcuna diminuzione nel misterioso bagliore. Gll'-Hthaa-Ynn gli disse che la condensazione e i fenomeni di precipitazione del vapor acqueo non erano affatto insoliti, e tuttavia non offuscavano lo splendore della radiazione celeste. In realtà sulle pianure di K'n-yan aleggiava una nebbiolina perenne che compensava la totale assenza di vere e proprie nuvole. L'altezza del passo su cui si trovavano permise a Zamacona di voltarsi e cogliere l'antica pianura in prospettiva, proprio come aveva fatto durante la prima discesa. Dal manoscritto risulta che ne apprezzasse la misteriosa bellezza e gli spiacesse abbandonarla; Gll'-Hthaa-Ynn dovette esortarlo a spronare la cavalcatura più in fretta. Guardando davanti a sé l'esploratore si accorse che erano quasi arrivati in cima: il sentiero coperto di erbacce puntava sempre più in alto e terminava contro uno sfondo di pura luce azzurra. Una scena impressionante: a destra la ripida parete verde della montagna, a
sinistra la gola in fondo a cui scorreva il fiume e al di là di essa un altro monte; davanti la turbolenta atmosfera azzurra in cui la strada in salita pareva dissolversi. Quando arrivarono sulla vetta il mondo di Tsath si spalancò dinanzi a loro in una vista stupenda. Zamacona trattenne il fiato: il panorama non era più deserto, ma anzi s'era trasformato in un brulicare di insediamenti e attività umane più stupefacente di qualsiasi paesaggio che gli tornasse alla memoria. Non aveva mai visto e neppure immaginato niente di simile; il fianco in discesa della montagna era cosparso di piccole fattorie e qua e là da un tempio, ma al di là di esso l'enorme pianura sembrava una scacchiera coperta di alberi piantati dall'uomo, irrigata da piccoli canali tratti dal fiume e solcata da ampie, geometriche strade fatte d'oro o blocchi di basalto. Gli edifici sparsi e i raggruppamenti di case che sorgevano ovunque erano collegati da grandi cavi d'argento che solcavano l'aria o da pilastri d'oro, anche se ogni tanto s'intravvedevano file di pilastri in rovina senza cavi. Gli edifici erano quasi tutti bassi; nei campi si notavano segni di movimento e attività agricole, e in qualche caso Zamacona vide che i contadini effettuavano l'aratura con l'aiuto dei ripugnanti quadrupedi semiumani. Ma la cosa più impressionante era la fantastica visione di guglie e pinnacoli che s'innalzavano sulla pianura e brillavano come fiori diafani nella corrusca atmosfera azzurra. In un primo momento Zamacona pensò che si trattasse di una montagna completamente coperta di case e di templi, come alcune delle pittoresche città abbarbicate sui monti della nativa Spagna; ma una seconda occhiata gli dimostrò che non si trattava di questo. Era una città della pianura, ma irta di tali e tante torri che svettavano fino al cielo da ricordare l'aspetto complessivo d'una montagna. Sulla città era sospeso un bizzarro alone grigiastro, attraverso il quale la luce azzurra si faceva strada brillando di mille nuove sfumature che rimbalzavano dai minareti d'oro. Con un'occhiata a Gll'-Hthaa-Ynn Zamacona capì che era quella la mostruosa, gigantesca e onnipotente metropoli di Tsath. Quando la strada piegò verso il basso, puntando alla pianura, Zamacona provò un curioso senso di disagio e incombente maleficio. Non gli piaceva la sua cavalcatura né il mondo che l'aveva generata, e l'atmosfera che gravava sulla lontana Tsath non gli garbava affatto. La carovana si inoltrò tra le fattorie e l'esploratore poté osservare gli esseri che lavoravano nei campi: le loro proporzioni e i loro movimenti mettevano i brividi, e così le mutilazioni che la maggior parte di essi recava. Anche il modo in cui alcune di queste creature venivano raggruppate e spinte nei recinti, come capi di
bestiame, era disgustoso; e lo stesso vale per la maniera in cui pascolavano l'erba alta. Gll'-Hthaa-Ynn spiegò che quegli esseri appartenevano alla classe degli schiavi e che il loro lavoro era controllato dal padrone della fattoria, che al mattino impartiva a ciascuno istruzioni ipnotiche e indicava i compiti che dovevano svolgere. Erano macchine semi-coscienti, e come tali la loro efficienza poteva considerarsi perfetta. Gli esemplari sospinti nei recinti appartenevano a un tipo inferiore e servivano da bestie. Una volta raggiunta la pianura Zamacona vide le fattorie più grandi e notò che quasi tutto il lavoro veniva svolto dai ripugnanti e cornuti gyaayothn. Osservò pure gli umanoidi che lavoravano nei campi, e notando che i loro movimenti erano più automatici degli altri provò un vago senso di terrore e di disgusto. Questi ultimi, spiegò Gll'-Hthaa-Ynn, erano i cosiddetti y'm-bhi, corpi di trapassati che erano stati rianimati scientificamente per scopi industriali, e venivano tenuti in movimento dall'energia atomica o dalla forza del pensiero. Gli schiavi non godevano dell'immortalità che era propria ai liberi cittadini di Tsath, sicché con il tempo il numero dei y'm-bhi era diventato sempre più grande. Si potevano considerare come cani fedeli, ma non altrettanto pronti ai comandi ipnotici come gli schiavi vivi. Zamacona fu impressionato da quelli che mostravano i segni di orrende mutilazioni: alcuni erano senza testa, altri avevano subito singolari e capricciose sottrazioni, distorsioni, spostamenti d'organi in varie parti del corpo. Lo spagnolo non riusciva a spiegarsene il motivo, ma Gll'-HthaaYnn chiarì che in questi casi gli schiavi erano serviti al pubblico divertimento in una o l'altra delle grandi arene. Gli uomini di Tsath, conoscitori delle più delicate sensazioni, avevano un continuo bisogno di novità e di stimoli per i loro sensi intorpiditi. Zamacona, che pure non era un tipo facilmente impressionabile, non fu colpito favorevolmente da ciò che vide e udì. Più si avvicinavano alla metropoli e più appariva orribile nella sua mostruosa vastità, inconcepibile altezza. Gll'-Hthaa-Ynn spiegò che i quartieri superiori delle grandi torri non erano più usati e molte erano state abbattute per evitare il fastidio della manutenzione. La pianura che si stendeva intorno all'originaria area urbana era coperta di abitazioni nuove e più piccole, preferite in molti casi alle vecchie torri. Da quell'enorme massa di pietra e oro si levava il ronzio monotono delle più varie attività, mentre carovane e lunge teorie di carri entravano e uscivano continuamente dalla città, riempiendo le strade pavimentate d'oro o di pietra. Molte volte Gll'-Hthaa-Ynn si fermò per indicare a Zamacona edifici di
particolare interesse, come i templi di Yig, Tulu, Nug, Yeb e dell'Innominando; la strada ne era fiancheggiata a intervalli irregolari, e ogni tempio era circondato da un boschetto com'era nell'uso di K'n-yan. A differenza di quelli che si trovavano sulla pianura deserta oltre le montagne, i templi di Tsath erano tuttora in uso e folti gruppi di fedeli a cavallo delle bizzarre creature entravano o uscivano dai portali. Gll'-Hthaa-Ynn guidò Zamacona in ciascun santuario e lo spagnolo assisté con un misto di fascino e repulsione ai riti vagamente orgiastici. Quelle che lo turbarono maggiormente furono le cerimonie di Nug e Yeb: per questa ragione il manoscritto non ne contiene alcuna traccia. Più avanti si imbatterono in un tempio di Tsathoggua ormai convertito in santuario di Shub-Niggurath, Grande Madre e sposa dell'Innominando. Questa divinità era una specie di Astarte sofisticata, e il suo culto colpì il buon cattolico come particolarmente disgustoso. Ciò che gli piacque meno furono i versi che i celebranti emettevano al culmine dell'esaltazione: le urla inarticolate di una razza che aveva smesso di usare il linguaggio vocale se non per scopi straordinari. Vicino ai densi quartieri periferici di Tsath e all'ombra delle torri spaventose, Gll'-Hthaa-Ynn indicò un mostruoso edificio circolare davanti al quale si affollavano moltissime persone. Era uno dei molti anfiteatri in cui la stanca popolazione di K'n-yan cercava sfogo nei più bizzarri sport emotivi. La guida voleva fermarsi e accompagnare Zamacona all'interno del palazzo circolare, ma ricordando i corpi mutilati che aveva visto nei campi lo spagnolo si rifiutò energicamente. Fu la prima e amichevole divergenza in fatto di divertimenti, e col tempo la popolazione di Tsath si convinse che il suo ospite aveva gusti molto strani e limitati. Tsath era una ragnatela di strade antiche e misteriose, e nonostante un senso crescente d'orrore e straniamento Zamacona fu affascinato da quell'atmosfera di mistero e meraviglia cosmica. Il gigantismo delle torri supreme, il mostruoso brulicare di vita nelle strade sfarzose, le bizzarre sculture sulle porte e le finestre, gli scorci straordinari che si coglievano oltre il parapetto delle piazze panoramiche e i gradoni delle terrazze gigantesche, l'onnipresente alone grigio che premeva come un secondo cielo sulle strade profonde come gole: tutto contribuiva a fargli provare un senso di aspettativa avventurosa che in passato non aveva mai conosciuto. Zamacona fu portato al cospetto del consiglio direttivo che si riuniva in un palazzo d'oro e rame protetto da un grande giardino ricco di fontane, e per qualche tempo fu sottoposto a un interrogatorio amichevole ma serrato che ebbe luogo in una sala con il soffitto a volta e affrescata da arabeschi vertiginosi. L'e-
sploratore si rese conto che da lui ci si aspettava molto, soprattutto per quanto riguardava le informazioni storiche sul mondo di superficie; in cambio gli sarebbero stati rivelati i misteri di K'n-yan. L'unica e inflessibile condizione era che non tornasse più nel mondo del sole e delle stelle, a quella Spagna che era la sua patria. Fu stabilito un programma quotidiano in cui il tempo veniva giudiziosamente suddiviso fra numerosi tipi di attività. Bisognava incontrare uomini di cultura in diversi luoghi e prendere lezioni nelle infinite branche del sapere di Tsath; erano ugualmente previsti periodi di tempo libero in cui Zamacona avrebbe potuto dedicarsi alle ricerche che preferiva, e le biblioteche sacre e profane di K'n-yan gli si sarebbero spalancate non appena avesse raggiunto la completa padronanza del linguaggio scritto. Avrebbe frequentato le cerimonie sacre e gli spettacoli, tranne quando lui stesso preferisse astenersi, e gran parte del tempo sarebbe stata riservata alla ricerca intelligente del piacere e della soddifazione emotiva che erano lo scopo e il nucleo della vita quotidiana. Il consiglio gli avrebbe assegnato una casa nei dintorni o un appartamento in città, e poco a poco lo avrebbero iniziato alle pratiche delle cellule affettive, gruppi sociali che a K'n-yan sostituivano la famiglia e di cui facevano parte molte nobildonne della più grande bellezza e della più squisita sensibilità artistica. Per muoversi Zamacona avrebbe avuto a disposizione un certo numero di gyaa-yothn; dieci schiavi vivi, senza mutilazioni, lo avrebbero aiutato nella conduzione della casa e protetto dai ladri, dai sadici e dai fanatici religiosi nei luoghi pubblici. L'esploratore doveva imparare l'uso di un certo numero di macchinari, ma Gll'-Hthaa-Ynn gli avrebbe insegnato subito l'indispensabile. Dopo aver scelto l'appartamento in città invece che una villa periferica, Zamacona fu congedato dal consiglio con gran cortesia e molte cerimonie; quindi fu condotto per strade sfavillanti a un edificio ornato di ricche sculture che somigliava al fianco di una montagna ed era alto settanta o ottanta piani. I preparativi per l'arrivo erano già stati fatti e nel grande appartamento dai soffitti a volta, a pianterreno, gli schiavi stavano sistemando tendaggi e mobilia. C'erano mobiletti laccati e scolpiti, divani di seta e velluto, cuscini disseminati sul pavimento e numerosissimi scaffali di legno scuro suddivisi in un grandissimo numero di caselle nelle quali erano sistemati cilindri metallici che contenevano i manoscritti da leggere subito: edizioni standard dei classici di cui erano dotati tutti gli appartamenti urbani. In ogni stanza c'era una scrivania con grandi pile di carta tipopergamena e scodelle del pigmento verde usato come inchiostro; accanto a
ogni calamaio era sistemata una serie graduata di pennellini per scrittura e altri curiosi esempi di cancelleria. Gli strumenti per scrivere meccanici erano piazzati su grandi tripodi d'oro lavorato, mentre su tutto splendeva la luce azzurra dei globi d'energia fissati al soffitto. Le finestre non mancavano, ma al piano terra di luce ne arrivava ben poca e la loro utilità, da questo punto di vista, era ridotta. In altre stanze c'erano elaborati apparecchi da bagno, mentre la cucina si poteva ben definire un labirinto di ritrovati tecnici. A Zamacona fu spiegato che i generi alimentari venivano portati attraverso una rete di gallerie sotterranee da cui era sottesa tutta la città, e che un tempo avevano ospitato un curioso mezzo di trasporto meccanico. Sempre nel sottosuolo c'era una stalla per gli animali, e a Zamacona sarebbe stato indicato come trovare il più vicino accesso dai quartieri sotterranei alla strada. Prima che l'ispezione fosse terminata arrivò il gruppo di schiavi affidati permanentemente all'esploratore, e poco dopo vennero a trovarlo cinque o sei uomini liberi e nobildonne che appartenevano alla sua futura cellula affettiva; costoro gli avrebbero fatto compagnia per parecchi giorni, aiutandolo nella sua istruzione e nel divertimento. Quando se ne fossero andati, un altro gruppo avrebbe preso il loro posto e così a rotazione, fino a completare la cellula che consisteva di una cinquantina di individui. 6 Per quattro anni Panfilo de Zamacona y Nuñez fu assorbito dalla vita della sinistra città di Tsath, nell'azzurro mondo sotterraneo di K'n-yan. Non tutto ciò che apprese, vide o fece è detto con chiarezza nel manoscritto: quando si dedicò alle sue memorie, scritte nella lingua madre, fu assalito a più riprese da una sorta d'imbarazzo morale che gli impedì di rivelare tutto. Molte delle cose che vedeva gli ispiravano repulsione, altre rifiutava decisamente di farle, vederle o mangiarle; e quando lo riteneva necessario si purgava dei suoi peccati recitando il rosario. Zamacona esplorò tutto il mondo di K'n-yan, comprese le città automatizzate e deserte del periodo centrale che sorgevano nella verdeggiante pianura di Nith; una volta si avventurò persino nel mondo rosso di Yoth, per ammirarne le gigantesche rovine. Assisté a prodigi di creatività e ingegneria che lo lasciarono senza fiato; fu testimone di metamorfosi, smaterializzazioni, materializzazioni e rianimazioni umane che più volte lo indussero a farsi il segno della croce. La sua stessa capacità di stupirsi fu messa alla prova; ogni nuovo giorno gli portava una pletora di meraviglie.
Ma più a lungo rimaneva a K'n-yan e più desiderava andarsene, perché la vita di quella gente era basata su motivazioni che evidentemente sfuggivano alla sua comprensione. Man mano che procedeva nella conoscenza della storia locale cominciò a capire meglio le ragioni dei suoi ospiti: ma questo non fece che aumentare il suo disgusto. Aveva la sensazione che gli abitanti di Tsath fossero non solo una razza perduta, ma pericolosa in primo luogo per se stessa; impazzivano per combattere la monotonia e cercare qualcosa di nuovo, e questo rischiava di precipitarli in un abisso di totale disintegrazione: certo d'orrore. La sua visita, come ormai Zamacona percepiva con chiarezza, aveva accelerato questa corsa all'inquietudine, e non solo perché aveva introdotto nuovi timori di invasione dall'esterno, ma perché in molti aveva stimolato il desiderio di riprendere a viaggiare e di conoscere il mondo esterno da lui descritto. Con il passare del tempo l'esploratore notò una sempre più accentuata tendenza a ricorrere alla smaterializzazione come forma di divertimento: appartamenti e arene di Tsath diventarono il teatro di un vero e proprio sabba a base di trasformazioni, inversioni di età, esperimenti mortali e proiezioni. Con l'aumento della noia e dell'irrequietezza, la crudeltà, i sentimenti morbosi e il desiderio di ribellione contro tutte le cose guadagnavano terreno. Si moltiplicavano le perversioni, le più strane forme di sadismo, l'ignoranza e la superstizione, il desiderio di sfuggire la vita fisica e di disintegrarsi nelle particelle elementari, riducendosi quasi a spettri. Tutti gli sforzi di Zamacona per abbandonare la città furono inutili. La persuasione non servì a niente, come mostrarono ripetuti tentativi, e solo il maturo disincanto delle classi superiori le trattenne, in un primo momento, dal risentirsi per la manifesta volontà dell'ospite di andar via. Nell'anno che secondo i suoi calcoli corrispondeva al 1543, Zamacona mise in atto un vero e proprio tentativo di fuga attraverso la galleria per la quale era entrato a K'n-yan, ma dopo uno stanco vagabondaggio nella pianura deserta si rese conto che il tunnel era sorvegliato, e le forze che lo presidiavano lo scoraggiarono dal compiere altri tentativi in quella direzione. Per sostenere la speranza e mantenere nel cuore l'immagine del mondo natio, egli cominciò a stendere il manoscritto che raccontava le sue avventure e provò un immenso piacere nelle amate parole della lingua di Spagna, nei caratteri familiari dell'alfabeto latino. In un modo o nell'altro, fantasticava, avrebbe fatto arrivare il manoscritto alla superficie, e per renderlo convincente agli occhi dei suoi compatrioti decise di racchiuderlo in uno dei cilindri di metallo-Tulu usati negli archivi sacri. La sostanza magnetica e sconosciuta
avrebbe confermato la storia incredibile che doveva raccontare. Ma a dispetto di tutte le speranze non aveva molta fiducia di riuscire a stabilire un contatto con la superficie; ogni accesso conosciuto era sorvegliato da forze o persone a cui era meglio non opporsi. Il suo tentativo di fuga non rendeva le cose più facili, e Zamacona percepiva intorno a sé una crescente ostilità per il mondo che rappresentava. Sperava che nessun altro europeo si intrufolasse in quei sotterranei, poiché era possibile che successivi visitatori non venissero accolti benevolmente. Per quanto lo riguardava, Zamacona sapeva di essere stato un'importantissima fonte di informazioni, e come tale aveva ricevuto un trattamento privilegiato; altri, ritenuti meno necessari, rischiavano di cavarsela molto meno bene. Si domandò persino cosa sarebbe stato di lui una volta che i sapienti di Tsath avessero deciso che ormai non poteva fornire altre informazioni; per difendersi da questa minaccia cominciò a parlare con sempre maggior prudenza delle abitudini terrestri, insinuando ogni volta che poteva l'impressione che le sue parole nascondessero più vaste conoscenze. Uno degli argomenti che mettevano costantemente in pericolo la posizione di Zamacona a Tsath era la sua curiosità sull'abisso estremo, N'kai, che si apriva sotto il rosso Yoth e la cui esistenza veniva sempre più ostinatamente negata dai culti dominanti di K'n-yan. Quando aveva esplorato Yoth Zamacona aveva inutilmente cercato l'ingresso bloccato al mondo senza luce, e in seguito aveva sperimentato le arti della smaterializzazione e della proiezione nella speranza di penetrare con la mente negli abissi insondabili dagli occhi. Pur non essendo mai diventato un esperto in queste pratiche, era riuscito a procurarsi una serie di sogni meravigliosi e mostruosi nei quali riteneva di aver cristallizzato almeno qualche frammento di un'efficace proiezione nel mondo di N'kai. Quando li aveva raccontati ai capi del culto di Yig e di Tulu i sogni avevano suscitato scalpore e timore, e alcuni amici gli avevano consigliato di tenerli segreti anziché vantarsene. Col tempo le visioni di questo tipo si fecero più frequenti e ossessive: vi apparivano cose che Zamacona non osava riferire nel manoscritto, ma di cui ammette di aver preparato un rapporto speciale per alcuni sapienti di Tsath. Che Zamacona si mostri tanto reticente e che abbia riservato buona parte dei suoi argomenti a una serie di manoscritti secondari può essere considerata una sfortuna, ma anche, da un certo punto di vista, una forma di misericordia. Il documento principale in nostro possesso ci permette solo di speculare sui particolari dei costumi, del pensiero, del linguaggio e della
storia di K'n-yan, ed è con l'immaginazione che dobbiamo formarci un quadro coerente della vita quotidiana a Tsath e del suo aspetto effettivo. Ci lasciano perplessi anche le motivazioni della sua gente; la straordinaria passività e il pacifismo a tutti i costi, la paura quasi isterica del mondo esterno nonostante le scoperte in fatto di energia atomica e smaterializzazione che li avrebbero resi invincibili se si fossero presi la briga di organizzare un esercito come ai vecchi tempi. È evidente che la decadenza di K'n-yan era molto avanzata e che la sua gente reagiva con apatia e isterismo alla vita standardizzata, dominata dalle tabelle di marcia e dall'insana precisione delle macchine che si era affermata nel periodo centrale della sua storia. I costumi grotteschi o ripugnanti e le modalità di pensiero e sentimento di quella gente si possono far risalire alla stessa causa, e durante le sue ricerche storiche Zamacona scoprì che in ère lontanissime K'n-yan aveva condiviso ideali molto simili a quelli del mondo classico e rinascimentale sulla superficie. Non solo, ma aveva posseduto un'arte e un carattere nazionale ricchi di tutto ciò che gli europei considerano degno, nobile e gentile. Più Zamacona studiava e più il suo futuro gli appariva incerto, perché si rendeva conto che la disintegrazione morale e intellettuale da cui era circondato era un processo che affondava le radici nel profondo della nazione e accelerava rapidamente. Persino durante la sua permanenza i segni di decadimento si moltiplicarono; il razionalismo degenerava in forme sempre più fanatiche di superstizione orgiastica, centro delle quali era il culto del metallo-Tulu e delle sue proprietà magnetiche; la tolleranza cedeva gradualmente il posto all'odio che nasceva da motivi isterici e che si accentrava in modo particolare sul mondo esterno, di cui i sapienti avevano appreso tanti particolari grazie a lui. A volte temeva che il popolo di Tsath uscisse dalla secolare apatia di cui era prigioniero e si lanciasse sul mondo di superficie come un'orda di ratti disperati, conquistandolo grazie alle superiori conoscenze scientifiche di cui ancora manteneva il controllo. Per il momento, tuttavia, quella gente si limitava a combattere la noia e il senso di vuoto in altri modi: non c'era più limite agli orrori di cui era capace per sfogare la propria emotività, né alla follia dei passatempi contro natura ai quali si dedicava. Le arene della città dovevano essere luoghi maledetti, impensabili: Zamacona non vi si accostava mai e non osava immaginare quello che sarebbero diventate fra un secolo o anche solo un decennio. In quei giorni il devoto spagnolo si segnava e recitava il rosario più spesso del solito.
Nell'anno 1545 (secondo i suoi calcoli) Zamacona intraprese quella che possiamo considerare l'ultima serie di tentativi per abbandonare K'n-yan. L'opportunità venne da una fonte inaspettata: una donna della sua cellula affettiva che provava per lui una bizzarra infatuazione personale, dovuta al ricordo ancestrale di un'epoca in cui anche a Tsath si celebravano matrimoni singoli. Sulla donna in questione, una nobile di moderata bellezza e normale intelligenza chiamata T'la-yub, Zamacona acquistò un ascendente straordinario e riuscì a convincerla ad aiutarlo nella fuga, a patto ovviamente che lei potesse seguirlo. Negli avvenimenti che seguirono il caso giocò un ruolo determinante, perché T'la-yub veniva da un'antichissima famiglia di guardiani delle soglie i quali tramandavano oralmente i segreti della loro professione, e all'epoca in cui la maggior parte degli sbocchi verso il mondo esterno erano stati chiusi, e la massa della popolazione non ne conservava più il ricordo, essi conoscevano l'esistenza di almeno una porta che dava all'esterno. Si trattava di un cunicolo che sboccava alla sommità di un tumulo isolato, in mezzo alle pianure della superficie, e che non era mai stato bloccato o sorvegliato. La donna spiegò che gli antichi guardiani delle soglie non erano militari o guardiani, e che il loro censo era quello di cerimonieri e proprietari terrieri: una sorta di baroni feudali la cui classe si era formata prima della chiusura delle relazioni con la superficie. La famiglia di T'la-yub contava così pochi membri che al tempo della chiusura delle soglie era stata dimenticata e aveva potuto tramandare l'esistenza della propria come una sorta di segreto familiare: era un motivo di orgoglio, il ricordo di antichi fasti che esorcizzava il senso di povertà e decadenza da cui quella gente era stata afflitta in epoca recente. Zamacona, che lavorava febbrilmente al suo manoscritto perché acquistasse forma definitiva prima di intraprendere un viaggio tanto rischioso, decise di portare con sé cinque animali carichi di lingotti d'oro, il tipo che veniva usato per le piccole decorazioni: nel mondo da cui veniva era più che sufficiente a farne un uomo potentissimo. Nei quattro anni in cui era vissuto a Tsath si era in certo senso abituato alla vista dei mostruosi gyaayothn, per cui la prospettiva di servirsi di quelle creature non lo allarmava; ma appena avesse raggiunto il mondo esterno li avrebbe uccisi e sepolti, e quindi avrebbe nascosto il tesoro; sapeva benissimo che la vista di uno di quegli obbrobri avrebbe fatto impazzire gli indiani. Più tardi avrebbe organizzato una spedizione per il trasporto dell'oro in Messico; probabilmente avrebbe permesso a T'la-yub di dividere le sue fortune, perché come donna non era affatto disprezzabile, ma avrebbe fatto in modo che si stabilisse fra
gli indiani delle pianure. Zamacona non era certo ansioso di conservare un legame vivente con il mondo di Tsath. Per moglie, naturalmente, avrebbe scelto una dama di Spagna o alla peggio una principessa indiana della superficie: comunque una donna sul cui passato non gravassero misteri. Per il momento T'la-yub doveva fargli da guida; quanto al manoscritto l'avrebbe portato sulla sua persona, chiuso in un cilindro del sacro e magnetico metallo-Tulu. La spedizione viene descritta in un'appendice che Zamacona compose in seguito, con una mano che mostra tutti i segni della tensione nervosa. Lo spagnolo e la sua compagna partirono con tutte le precauzioni durante uno dei periodi di riposo, e per quanto era possibile utilizzarono i corridoi debolmente illuminati che si stendevano sotto la città. Zamacona e T'la-yub, travestiti da schiavi, carichi di provviste e seguiti da cinque mostruosi animali con relativo carico, furono scambiati senz'altro per comuni lavoratori; finché fu possibile rimasero nelle gallerie sotterranee, percorrendo il lungo e poco frequentato corridoio che un tempo ospitava i mezzi di trasporto meccanici diretti al sobborgo di L'thaa. Emersero al livello superiore tra le rovine di L'thaa è di lì continuarono alla massima velocità possibile sul piano deserto e azzurro di Nith, verso la catena di basse colline chiamate Grh-yan. Lì, in mezzo alla fitta vegetazione, T'la-yub localizzò il leggendario ingresso al tunnel dimenticato: solo una volta l'aveva visto in passato, secoli addietro, quando suo padre l'aveva condotta a visitare quel monumento dell'orgoglio familiare. Non fu facile guidare gli animali carichi attraverso la vegetazione selvatica e i detriti che ostruivano il passaggio, e uno di essi manifestò una riluttanza che avrebbe avuto tragiche conseguenze: allontanatosi dal gruppo, tornò al trotto verso la città con il carico d'oro e tutto il resto. Avanzare in quel budello alla luce delle torce azzurrine fu un incubo: la galleria saliva, scendeva, procedeva dritta per un pezzo e poi ricominciava a salire, umidissima e non più solcata da piedi umani fin dall'epoca del diluvio che aveva inghiottito l'Atlantide. Una volta, per passare al di là di un punto completamente ostruito dall'attività geologica, T'la-yub dovette praticare la spaventosa arte della smaterializzazione su se stessa, su Zamacona e le bestie stracariche. Per lo spagnolo fu un'esperienza terribile, poiché sebbene avesse più volte assistito alla smaterializzazione di altri e lui stesso ne avesse sperimentato l'efficacia nelle proiezioni oniriche, non si era mai sottoposto al trattamento completo. Per fortuna T'la-yub conosceva molto bene le arti di K'n-yan e compì la doppia metamorfosi con perfetto
successo. Ripresero l'orribile avanzata nel budello sotterraneo, fra caverne irte di stalattiti che potevano ben definirsi cripte dell'orrore ornate di sculture mostruose che ghignavano a ogni angolo; la marcia, interrotta da brevi periodi di riposo, continuò per un periodo che Zamacona valuta intorno ai tre giorni, ma che in realtà dovette essere più breve. Finalmente arrivarono in un corridoio molto stretto dove le pareti naturali o solo lievemente modellate cedevano il posto a una costruzione tutta artificiale e ornata di terribili bassorilievi. Dopo circa un chilometro e mezzo di ripida salita le pareti del corridoio terminavano in un paio di grandi alcove, una per ciascun lato, in cui stavano acquattate le mostruose statue di Yig e Tulu, incrostate dai secoli e con gli occhi fissi l'una sull'altra come ai tempi in cui la terra si era formata. Qui il corridoio sfociava in una prodigiosa camera circolare dal soffitto a volta e creata dall'uomo; le pareti erano coperte interamente di orribili sculture e all'estremità più lontana si scorgeva il piede di una scalinata. Dai racconti di famiglia T'la-yub sapeva che ormai dovevano essere vicini alla superficie terrestre, anche se non era in grado di dire quanto. In quel punto il gruppo si accampò per quello che doveva essere l'ultimo periodo di riposo nel regno sotterraneo. Qualche ora dopo, tuttavia, un clamore di metallo e il passo di bestie mostruose svegliò Zamacona e la sua compagna. Nello stretto corridoio sorvegliato dalle immagini di Yig e Tulu si diffuse un bagliore azzurrastro, e in un attimo la verità fu evidente. Come appresero in seguito, l'allarme era scattato a Tsath non appena si era visto tornare il gyaa-yoth ribelle, che come si ricorderà aveva abbandonato il gruppo all'ingresso del tunnel ostruito da erbacce e detriti; immediatamente un gruppo di inseguitori si era messo sulle tracce dei fuggiaschi per fermarli. Ogni resistenza sarebbe stata inutile e i due disgraziati non ci provarono nemmeno. I dodici cavalieri che li avevano raggiunti si mostrarono studiatamente gentili, e il viaggio di ritorno cominciò senza lo scambio di una parola o d'un messaggio telepatico. Fu un'esperienza paurosa e deprimente, e quando raggiunsero la strozzatura che li obbligava a smaterializzarsi la cosa fu doppiamente penosa, perché nei prigionieri era scomparsa la speranza che li aveva sostenuti nel viaggio di andata. Zamacona sentì che i suoi catturatori parlavano dell'imminente disintegrazione dei detriti che ostruivano la galleria mediante un fascio d'intense radiazioni: d'ora in poi bisognava che anche quella porta fosse sorvegliata da sentinelle. La politica era sempre quella di non per-
mettere agli abitanti dell'esterno di introdursi nei corridoi sotterranei, perché se fossero riusciti a tornare di dove venivano senza aver ricevuto una lezione avrebbero intuito che il mondo del sottosuolo era vastissimo e magari sarebbero tornati in forze. Come tutti gli altri accessi a K'n-yan, anche questo doveva essere sorvegliato in permanenza; e non solo il corridoio interno, ma anche la porta che dava sul mondo di superficie. Le sentinelle venivano scelte fra gli schiavi (i morti-vivi y'm-bhi) o nella classe degli uomini liberi caduti in disgrazia. Se le pianure americane fossero state invase da migliaia di europei, come aveva predetto lo spagnolo, ogni porta sarebbe diventatata una potenziale fonte di pericolo e doveva essere sorvegliata fino a quando i tecnocrati di Tsath avessero avuto voglia di studiare un congegno che cancellasse ogni traccia delle vie d'accesso, come era avvenuto per la maggior parte delle soglie in tempi più vigorosi. Zamacona e T'la-yub vennero processati al cospetto di tre gn'agn della corte suprema, nel palazzo d'oro e rame che sorgeva oltre il parco delle fontane; allo spagnolo fu concessa la libertà in cambio delle importantissime informazioni sul mondo esterno che poteva ancora fornire. Gli fu ordinato di tornare ai suoi appartamenti e alla cellula affettiva cui apparteneva, di continuare la vita come sempre e d'incontrare gli scienziati di Tsath secondo il programma che conosceva. Fino a quando fosse rimasto a K'nyan e si fosse comportato civilmente, i giudici non avrebbero posto alcuna limitazione alla sua libertà personale; tuttavia gli fu lasciato intendere che una simile benevolenza non si sarebbe ripetuta in caso di un nuovo tentativo di fuga. Zamacona ebbe l'impressione che nelle ultime parole del supremo gn'ag ci fosse una sfumatura di ironia: gli animali gli sarebbero stati restituiti, compreso quello che si era ribellato. Il destino di T'la-yub fu meno felice. Poiché non c'era motivo di tenerla in vita e l'antica discendenza nobiliare rendeva il suo tradimento molto più grave di quello di Zamacona, fu ordinato che venisse mandata nell'arena per servire ai bizzarri divertimenti dei suoi concittadini; in seguito, in forma mutilata e solo in parte materiale, sarebbe stata adibita alla funzione di y'm-bhi o morto-animato, col compito di sorvegliare il passaggio la cui esistenza aveva tradito. Ben presto Zamacona apprese, non senza una fitta di dolore che non si era aspettato di provare per lei, che la povera T'la-yub era uscita dall'arena senza testa, storpiata ed era stata posta a guardia del tumulo sulla cima del quale sfociava la galleria sotterranea. Gli fu detto che il suo compito era di pattugliare la collina durante la notte e di allontanare gli eventuali intrusi con una torcia, facendo rapporto di tanto in
tanto a una piccola guarnigione composta di dodici schiavi morti e sei vivi, ma parzialmente smaterializzati, che si trovavano nella grande sala circolare. In questo modo, se il bagliore della torcia non fosse bastato a fermare gli intrusi le sentinelle lo avrebbero saputo. Zamacona apprese che T'layub si alternava con un guardiano diurno, un uomo libero e vivo che aveva scelto quell'incarico per espiare le sue colpe contro lo stato. Zamacona sapeva da tempo che la maggior parte delle sentinelle Venivano reclutate fra gli uomini liberi caduti in disgrazia. Lo spagnolo fu informato, anche se indirettamente, che se avesse tentato di fuggire di nuovo lo avrebbero condannato a fare la sentinella nella forma di schiavo defunto e rianimato, e dopo un trattamento nell'arena anche più pittoresco di quello che si diceva fosse toccato a T'la-yub. Gli venne fatto capire che lui - o una parte di lui - sarebbe stato rianimato per sorvegliare una sezione interna del corridoio, ben in vista della comunità, in modo che il suo corpo storpiato fungesse da memento a chi si illudeva di poter tradire lo stato. D'altra parte, aggiunsero gli informatori, non era verosimile che Zamacona andasse incontro a un simile destino: se fosse rimasto a K'n-yan senza tentare la fuga avrebbe continuato a godere del suo stato di uomo libero, privilegiato e rispettato. Alla lunga, tuttavia, Panfilo de Zamacona cominciò a corteggiare la sorte terribile che gli si prospettava. È vero, non pensava di andare effettivamente incontro a una morte così orrenda, ma l'ultima parte del manoscritto - composta in condizioni di grande nervosismo - dimostra che era pronto a fronteggiare anche quell'eventualità. Ciò che alimentava le sue speranze di poter fuggire da K'n-yan impunemente era la padronanza sempre più completa della smaterializzazione. Zamacona l'aveva studiata per anni e nelle due occasioni in cui vi era stato sottoposto aveva imparato molto; ora sentiva di poterla usare con maggior efficacia e in maniera indipendente. Il manoscritto registra numerosi esperimenti condotti con successo nel suo appartamento e riflette la speranza, da parte di Zamacona, di poter assumere presto una forma semimateriale e ottenere la completa invisibilità, prolungando tale condizione finché lo avesse ritenuto necessario. Una volta raggiunto quello stadio, ragionava, la strada per la libertà gli era spalancata. Ovviamente non avrebbe potuto portare con sé ricchezze favolose, ma la speranza della fuga era sufficiente. Si sarebbe smaterializzato e avrebbe portato il manoscritto nel cilindro di metallo-Tulu, benché questo rappresentasse uno sforzo ulteriore; ma il diario e la prova della sua veridicità dovevano raggiungere a tutti i costi il mondo esterno. Ormai co-
nosceva la via da seguire e se avesse potuto percorrerla in condizioni di immaterialità non vedeva come gli abitanti di K'n-yan o le loro forze potessero trattenerlo. L'unico problema reale era legato alla necessità di mantenere la sua condizione di "fantasma" per lungo tempo: come aveva imparato durante gli esperimenti si trattava di un esercizio rischioso, e tuttavia un avventuriero come lui aveva messo più volte a repentaglio la vita e corso rischi peggiori. Zamacona era un gentiluomo dell'antica Spagna, figlio di una razza che sapeva affrontare l'ignoto e che aveva gettato le fondamenta di una nuova civiltà in metà del Nuovo Mondo. Dopo aver preso l'estrema decisione per molte notti Zamacona pregò san Panfilo e altri santi protettori, recitando devotamente il rosario. L'ultima annotazione del manoscritto, che verso la fine prendeva sempre più la forma di un diario, era una semplice frase: "Es más tarde de lo que pensaba: tengo que marcharme..." ("È più tardi di quanto pensassi: devo andare"). Dopodiché possiamo abbandonarci soltanto alle nostre ipotesi, suffragate dalle prove che la presenza del manoscritto sembra volerci indicare. 7 Quando alzai gli occhi dal manoscritto di Zamacona e dalle note che avevo preso leggendo, il sole era già alto. La lampadina elettrica era ancora accesa, ma questi aspetti del mondo reale (del mondo moderno che ci circonda) erano lontani dalla mia mente turbinante. Sapevo di trovarmi nella mia stanza, a Binger, in casa di Clyde Compton... ma quali visioni mostruose mi si erano rivelate? Il racconto era una burla o il diario di un pazzo? E nel caso si trattasse di una burla, era stata ideata nel sedicesimo secolo o ai giorni nostri? Ai miei occhi non del tutto profani il manoscritto sembrava genuino, e nemmeno osavo pensare al problema posto dallo strano cilindro metallico. Ma c'era di più: il racconto forniva una perfetta spiegazione dei fenomeni che avvenivano sulla collina, anche se si trattava di una spiegazione mostruosa. Le azioni paradossali e apparentemente prive di significato dei fantasmi diurni e notturni, i bizzarri casi di follia e le sparizioni che si succedevano da anni: tutto sembrava tremendamente plausibile, orribilmente coerente... a patto di accettare l'inaudito. Doveva trattarsi di una burla straordinaria messa a punto da qualcuno che conosceva alla perfezione le leggende della collina. Nel resoconto dell'incredibile mondo sotterraneo, che pure veniva presentato come un mondo di orrore e decaden-
za, si poteva scorgere addirittura un pizzico di satira sociale; ma certo, era l'astuta presa in giro di un cinico erudito, un po' come le croci di piombo piantate da un burlone in Nuovo Messico e da lui stesso "ritrovate" come la reliquia di una colonia europea risalente al medioevo. Sceso a colazione non sapevo che cosa dire a Compton e sua madre, né ai curiosi che avevano già cominciato ad arrivare. Ancora stordito, tagliai il nodo gordiano riassumendo i punti centrali delle mie note e borbottando qualcosa sul fatto che il documento doveva essere un'astuta e ingegnosa frode perpetrata da un precedente esploratore della collina; convinzione con la quale tutti sembrarono d'accordo quando rivelai l'assunto del manoscritto. È strano notare che tutti i presenti - e del resto tutti gli abitanti di Binger, quando la discussione fu loro riferita - apparissero sollevati all'idea che qualcuno fosse in vena di fare scherzi su un argomento del genere. Per un po' dimenticammo che la storia recente e documentata della collina offriva misteri non meno facilmente risolvibili di quelli contenuti nel manoscritto. Paure e dubbi si affacciarono di nuovo quando tentai di reclutare una squadra di volontari per esplorare il tumulo con me. Volevo un gruppo numeroso e disposto a scavare sotto le mie direttive, ma l'idea di recarsi in quel luogo spiacevole non sorrideva affatto agli abitanti di Binger, proprio come era accaduto il giorno prima. Io stesso, guardando la collina e scorgendo il puntino in movimento che sapevo essere la sentinella diurna, provai un senso di orrore crescente e a dispetto del mio scetticismo scoprii che le atrocità narrate nel manoscritto mi avevano suggestionato, dando un nuovo e mostruoso significato a tutto ciò che aveva a che fare con quel luogo. Mi mancava assolutamente il coraggio di scrutare il puntino in movimento col binocolo e feci piuttosto una delle bravate di cui a volte siamo capaci negli incubi, quando, sapendo di sognare, ci tuffiamo alla disperata nell'abbraccio di terrori sempre più tremendi purché la cosa finisca presto. Vanga e piccone si trovavano già sulla vetta, così dovetti prendere solo la borsa che conteneva gli attrezzi minori. Al suo interno misi il cilindro e ciò che conteneva, con la vaga sensazione che avrei potuto trovare qualche particolare degno di essere verificato con l'aiuto del testo spagnolo. Persino una burla poteva essere basata su una o più caratteristiche reali della collina, scoperte magari da un precedente esploratore, e del resto il metallo magnetico era più che strano. Il misterioso talismano di Aquila Grigia pendeva ancora al mio collo, assicurato da un laccio di cuoio. Camminando verso l'elevazione evitai di guardarla troppo attentamente,
ma quando la raggiusi non c'era nessuno. Ripetendo la scalata del giorno prima fui turbato dal pensiero di ciò che poteva trovarsi nelle vicinanze se, per miracolo, anche una minima parte del manoscritto era vera. In tal caso, non potei fare a meno di riflettere, l'ipotetico Zamacona doveva aver appena raggiunto il mondo di superficie quando era stato colpito da una calamità: per esempio, un'involontaria rimaterializzazione. In tal caso le sentinelle che si trovavano di guardia all'esterno dovevano averlo catturato; forse era caduto nelle mani dell'uomo che espiava le sue colpe montando la guardia sulla collina, o forse - ironia della sorte - in quelle della stessa T'layub, colei che lo aveva aiutato all'epoca del primo tentativo di fuga. Nella lotta che era seguita il cilindro che conteneva il manoscritto poteva essere caduto sulla cima della collina, e lì era rimasto per circa quattro secoli, ignorato da tutti e gradualmente sepolto. Mentre mi avvicinavo alla sommità ripetei a me stesso che non bisognava abbandonarsi a pensieri così stravaganti; eppure se nel racconto c'era effettivamente qualcosa di vero il destino a cui Zamacona era andato incontro doveva essere mostruoso... L'arena, le mutilazioni, un orribile incarico in un punto imprecisato della galleria umida e incrostata dai secoli, in qualità di schiavo morto e rianimato... Magari solo un frammento di cadavere utilizzato come un automa per far la guardia al mondo sotterraneo... Ma in cima mi aspettava una sorpresa che sgomberò la mia mente dei pensieri morbosi in cui mi crogiolavo: sul cocuzzolo allungato della collina la mia vanga e il piccone non c'erano più. Era un mistero inspiegabile, perché la gente di Binger preferiva tenersi alla larga da quel posto... Sempre ammesso che non fingessero, e che i burloni del villaggio non mi avessero preceduto ridendo alle mie spalle... Puntai il binocolo sulla folla che si era assiepata al limitare del paese, ma non sembrava proprio che si preparassero a una scena comica; a meno che tutta la faccenda non fosse uno scherzo colossale architettato dagli abitanti di Binger e dagli indiani della riserva: le leggende, il manoscritto, il cilindro e tutto il resto. Ripensai alla sentinella che avevo visto in lontananza e a come fosse improvvisamente scomparsa; ripensai al comportamento di Aquila Grigia, ai discorsi e all'espressione di Compton e sua madre, all'indiscutibile spavento della popolazione di Binger. No, non sembrava affatto uno scherzo. La paura e il mistero che la suscitava erano reali, anche se dovevo ammettere che c'erano uno o due buffoni i quali mi avevano preceduto e rubato gli attrezzi che avevo lasciato. Per il resto tutto era come lo ricordavo: la vegetazione tagliata dal
machete, la leggera depressione simile a una conca verso l'estremità settentrionale, il fosso che avevo scavato col mio coltello per estrarre il cilindro rivelato dall'effetto magnetico. Decisi che tornare a Binger per procurarmi un'altra pala e un altro piccone sarebbe equivalso a dare una soddisfazione agli ignoti buffoni e mi ripromisi di portare avanti il mio programma come meglio potevo, limitandomi a usare il machete e il coltello militare che avevo nella borsa; così, dopo averli estratti, mi misi al lavoro e cominciai a scavare nella conca che secondo me doveva costituire il sito di un precedente ingresso alla collina. Mentre procedevo ebbi l'impressione, già provata il giorno precedente, che un vento improvviso si levasse contro di me: questa volta la sensazione era più forte e faceva pensare con più insistenza all'opera di mani invisibili e informi che cercassero di fermare le mie; e l'effetto aumentava man mano che scavavo nel terreno rosso irto di radici e mi spingevo verso lo strato nero sottostante. Il talismano che portavo al collo si agitava stranamente, ma non per effetto del vento; non tirava in una sola direzione, come quando era stato attratto dal cilindro sepolto, ma da più parti, in un modo per il quale non riuscivo a trovare nessuna spiegazione. Poi, all'improvviso, la terra nera e solcata di radici precipitò verso il basso, con un rumore minaccioso, e sentii un debole fruscio di materiale che cedeva a grande profondità. Il vento contrario, le forze misteriose o "mani" che fossero sembravano diretti da una volontà che si trovava proprio nel punto dell'avvallamento, e quando mi tirai indietro per paura di una frana mi aiutarono, spingendomi. Mi chinai sul bordo della conca e cominciai a tranciare l'intrico di radici putrefatte con il machete, ma le forze si misero di nuovo all'opera contro di me. Per fortuna non erano abbastanza potenti da ostacolare il mio lavoro. Più radici tagliavo, più crescevano le proporzioni della frana sotterranea. Il buco si fece più profondo nella parte centrale e mi accorsi che la terra sprofondava in una vasta cavità sottostante; una volta tagliate le radici che l'avevano tenuta insieme, sarebbe rimasta un'apertura piuttosto ampia. Sotto il sole del mattino vidi spalancarsi una via d'accesso larga almeno un metro, dalla quale si scorgeva la cima di una scala di pietra su cui la terra stava ancora franando. Le mie ricerche erano approdate a qualcosa, finalmente! Con una gioia che per un attimo mi fece dimenticare la paura, riposi machete e coltello nella borsa, presi la potente torcia elettrica e mi preparai per una trionfante, solitaria e spericolata invasione del mondo favoloso che avevo scoperto. I primi gradini furono i più insidiosi, in parte a causa della terra che li
aveva coperti e in parte perché si era levato un vento freddo, proveniente dalle profondità della terra e che sembrava spingermi verso l'alto. Il talismano che portavo al collo ondeggiava furiosamente e cominciai a rimpiagere il rettangolo di luce solare che si allontanava sopra di me. La torcia elettrica mostrava pareti umide, chiazzate d'acqua e incrostate di sali; si trattava in realtà di grandi blocchi di basalto, e di tanto in tanto, sotto le incrostazioni e i depositi secolari, mi parve di scorgere qualche traccia di bassorilievi. Strinsi la borsa con forza e mi confortai al pensiero della grossa pistola datami dallo sceriffo, che portavo nella tasca destra della giacca. Dopo un po' il budello cominciò a piegare da una parte e dall'altra, ma sui gradini non c'era più traccia di detriti. Le sculture alle pareti non erano facilmente distinguibili, ma con un brivido mi accorsi che alcune di quelle grottesche figure somigliavano ai mostruosi rilievi del cilindro. I venti e le altre forze del sottosuolo continuarono a soffiare contro di me, come entità maligne, e dopo aver superato un paio di curve ebbi la sensazione che la mia torcia illuminasse delle figure sottili, trasparenti, che in qualche modo ricordavano la sentinella in cima al tumulo, la stessa che avevo osservato col binocolo. Preoccupato da questo stadio di confusione visiva, mi fermai un attimo e cercai di riprendermi. Non dovevo permettere che i nervi mi tradissero all'inizio di un'impresa che si annunciava senz'altro difficile, ma che avrebbe costituito la più importante scoperta archeologica della mia carriera. Meglio sarebbe stato, tuttavia, che non mi fossi fermato proprio in quel posto, perché la mia attenzione si concentrò su qualcosa di profondamente inquietante. Si trattava di un piccolo oggetto appoggiato alla parete su uno dei gradini sottostanti, ma per la mia ragione fu un duro colpo e cominciai a tessere le più allarmanti ipotesi. Che l'apertura sopra di me fosse rimasta chiusa per molte generazioni, e che fosse impenetrabile a qualsiasi creatura materiale, era un fatto evidente: lo dimostrava l'intrico di radici e il grande accumulo di terreno. Tuttavia l'oggetto che vedevo non era vecchio di generazioni. Si trattava di una torcia elettrica molto simile a quella che avevo con me: una torcia frantumata e coperta di incrostazioni dovute all'umidità della catacomba, ma a parte questo inconfondibile. Scesi i pochi gradini che ci separavano e la raccolsi, sfregandola sulla mia giacca per liberarla dalle incrostazioni. Su una fascia di nichel erano incisi un nome e un indirizzo che riconobbi subito, trasalendo: "Jas. C. Williams, 17 Trowbridge St., Cambridge, Mass.". Dunque apparteneva a uno dei due giovani professori che erano scomparsi il 28 giugno 1915: erano passati solo tredici anni,
eppure io ero penetrato in un'apertura chiusa da secoli! Com'era possibile che la torcia fosse arrivata fin lì? Esisteva un altro ingresso o c'era qualcosa di vero nella folle idea della smaterializzazione e rimaterializzazione? Ripresi a scendere, in preda ai dubbi e all'orrore. Avrebbe mai avuto fine, il mistero? Le sculture alle pareti si facevano più distinte e parevano narrare una storia coerente che mi gettò nel panico: ero in grado di riconoscere diversi episodi che corrispondevano a quelli narrati nel manoscritto spagnolo. Per la prima volta mi chiesi se facessi bene a scendere da solo in un posto del genere, e mi domandai se non fosse più saggio tornare all'aperto prima di imbattermi in qualcosa che avrebbe potuto farmi impazzire. Ma l'esitazione non durò a lungo, perché vengo dalla Virginia e il sangue dei miei antenati, combattenti e uomini d'azione, protestava violentemente contro l'idea di voltare le spalle al pericolo, noto o ignoto che fosse. La mia discesa divenne più veloce invece che più lenta, e smisi di guardare le terribili sculture e i rilievi che mi avevano turbato. A un tratto scorsi un'arcata e mi resi conto che la lunghissima scala era terminata. In un attimo l'orrore mi riprese più violento di prima, perché oltre l'arco si apriva un'immensa sala dal soffitto a volta che mi pareva fin troppo familiare: era l'ambiente descritto in ogni particolare da Zamacona. Sì, non potevano esserci dubbi, e ciò che vidi all'estremità opposta della sala mi diede la certezza. Si trattava di una seconda apertura ad arco al di là della quale cominciava un lungo e stretto corridoio, fiancheggiato da due nicchie contrapposte, nelle quali troneggiavano due statue gigantesche che mi pareva di conoscere. Laggiù, nel buio, l'immondo Yig e l'orribile Tulu sedevano nell'eternità, scambiandosi occhiate feroci come avevano fatto fin dall'alba della razza umana. Da questo momento in poi non pretendo di essere creduto: so bene che le mie parole e ciò che ritengo di aver visto è troppo incredibile, troppo mostruoso e contrario a ogni legge di natura per far parte della realtà oggettiva e dell'esperienza umana. La mia torcia proiettava un raggio potente, ma che ovviamente non poteva illuminare una sala così gigantesca; per questo cominciai a esplorarla palmo a palmo, seguendo le pareti. Con orrore mi resi conto che l'ambiente non era vuoto, ma anzi ingombro di arredi straordinari, utensili e involti voluminosi che tradivano la presenza recente di molti individui. Non si trattava di reliquie incrostate dai secoli, ma di oggetti di forma bizzarra e provviste dall'aspetto utile e quotidiano. Quando la luce della torcia li illuminava, tuttavia, i contorni degli oggetti diventavano più confusi, finché non fui più in grado di dire se appartenessero al
regno della materia o dello spirito. I venti sconosciuti avevano continuato a soffiare con maggior furia, e le mani invisibili mi pizzicavano rabbiosamente, cercando di strapparmi l'antico talismano. Idee straordinarie si affacciarono alla mia mente: pensai al manoscritto e a ciò che diceva della sala in cui mi trovavo, un centro di sorveglianza custodito da dodici schiavi morti - i cosiddetti y'm-bhi - e sei uomini liberi ma parzialmente smaterializzati. Questo, almeno, avveniva nel 1545, trecentottantatré anni fa... Che cos'era accaduto da allora? Zamacona aveva predetto cambiamenti, un'insidiosa dissoluzione di quella società... Pensava che la smaterializzazione avrebbe preso piede sempre più e che gli abitanti del sottosuolo sarebbero diventati deboli, sempre più deboli... Forse ciò che li teneva lontani da me era il talismano, il sacro metalloTulu che cercavano debolmente di strapparmi in modo da potermi fare quello che avevano fatto ai miei predecessori... A un tratto mi resi conto che tutte le mie ipotesi erano fondate sul manoscritto di Zamacona, come se vi prestassi una fede assoluta; e invece non dovevo, bisognava che riprendessi il controllo di me... Eppure, dannazione, ogni volta che cercavo di riprendere il controllo appariva qualcosa che mandava in frantumi la mia decisione. Stavolta, proprio mentre cercavo di ignorare gli oggetti accatastati intorno a me e di respingerli nell'oscurità, la luce della torcia portò ai miei occhi due cose di natura molto diversa; due frammenti del mondo sano e reale, che tuttavia fecero vacillare la mia ragione più di tutto ciò che avevo visto. Sapevo che cos'erano e sapevo che non avrebbero dovuto mai trovarsi laggiù. Si trattava del mio piccone e della pala, l'uno accanto all'altra, ordinatamente appoggiati alla parete istoriata dell'orrenda cripta. Dio del cielo, e io che avevo sospettato i buontemponi di Binger! Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Da quel momento in poi la suggestione provocata dal manoscritto di Zamacona mi ebbe completamente in suo potere e vidi con questi occhi le forme semi-trasparenti delle creature che mi spingevano e mi tiravano: orrende creature del passato remoto a cui s'attaccava ancora qualcosa di umano... Alcune erano normali, altre morbosamente e perversamente incomplete... per non parlare di altre entità, i mostri quadrupedi dalla faccia di scimmia e il grande corno... Eppure, in quell'inferno nelle viscere della terra non si sentiva il più piccolo suono. Poi, all'improvviso, un passo strascicato, qualcosa che avanzava frusciando; un rumore sordo, sempre più vicino, che tradiva senza dubbio un essere materiale quanto lo erano il piccone e la vanga. Un essere affatto
diverso dalle ombre che mi circondavano, ma ugualmente lontano da ogni forma di vita conosciuta sulla superficie della terra. La mia immaginazione sconvolta cercò di prepararmi alla creatura che si avvicinava, ma non riuscì a mettere a fuoco nessuna immagine adeguata. Riuscii a dirmi soltanto più volte: "Appartiene a quest'inferno, ma è ancora materiale". Il passo si fece più vicino, e dall'andatura meccanica dedussi che la cosa delle tenebre era morta, non viva. Poi... Dio, la vidi alla piena luce della torcia, vidi la sentinella che bloccava lo stretto corridoio fra gli idoli d'incubo del serpente Yig e della piovra Tulu... Lasciate che raccolga le mie forze prima di tentare di descrivere ciò che apparve; lasciate che spieghi perché abbandonai la torcia, la borsa e fuggii a mani vuote nella tenebra assoluta, in preda a un'incoscienza benedetta che non si dissipò fino a quando il sole e le grida lontane degli abitanti del paese non mi risvegliarono sulla cima della collina maledetta. Tremavo da capo a piedi e tuttora non so quale forza mi abbia riportato in superficie; so soltanto che gli osservatori, a Binger, mi videro riemergere tre ore dopo che ero scomparso; poi videro che barcollavo e stramazzavo al suolo come se mi avesse colpito una pallottola. Nessuno osava avventurarsi sulla collina per venirmi in aiuto, ma sapevano che dovevo trovarmi in brutte condizioni e cercarono di farmi rinvenire come potevano, gridando e sparando in aria con le pistole. Alla fine funzionò, e quando rinvenni mi lasciai quasi precipitare dalla collina, tanta era l'ansia di allontanarmi dall'apertura che ancora si spalancava davanti a me. La torcia, gli attrezzi e la borsa col manoscritto erano rimasti laggiù, ma è fin troppo facile comprendere perché né io né nessun altro sia mai andato a recuperarli. Quando ebbi attraversato la pianura a passo incerto, e fui arrivato al villaggio, non osai dire a nessuno ciò che avevo visto. Borbottai qualcosa a proposito di statue, sculture, serpenti e nervi scossi, e svenni di nuovo solo quando qualcuno mi informò che la sentinella fantasma era riapparsa proprio nel momento in cui mi avviavo verso la città. Abbandonai Binger quella sera stessa e non ci sono più tornato, anche se mi dicono che i fantasmi continuano a manifestarsi come al solito. Tuttavia ho deciso di dire qui quello che non osai dire alla gente di Binger in quel terribile pomeriggio d'agosto. Non so da che parte cominciare, e se pensate che la mia reticenza sia inspiegabile ricordatevi che un conto è immaginare qualcosa di orribile, un altro è vederla. Io l'ho vista. Ricorderete come all'inizio di questa storia abbia citato il caso di un giovanotto di
nome Heaton, che esplorò la collina un giorno del 1891 e tornò quella sera stessa trasformato nell'idiota del villaggio; ricorderete che per otto anni non fece che balbettare di un orrore senza nome, e che alla fine morì in un attacco epilettico. Una delle cose che ripeteva più spesso era: «Quell'uomo bianco... Dio mio, che cosa gli hanno fatto!». Bene, io ho visto ciò che vide Heaton e per giunta dopo aver letto il manoscritto, per cui ne conoscevo la storia. Questo peggiora la situazione, perché so ciò che significa, ciò che ancora si nasconde, aspetta e ribolle là sotto. Ho detto che la creatura si era avvicinata con passo meccanico e si era fermata, proprio come deve fare una sentinella, tra le statue mostruose di Yig e Tulu. Naturale, inevitabile: in fondo era una sentinella. Scontava così la sua punizione, e credo che fosse morta; le mancavano testa, braccia, la parte inferiore delle gambe e altri attributi dell'essere umano. Sì, perché una volta era stato umano e perdipiù bianco. Ovviamente, se il manoscritto diceva il vero come credo, lo sventurato era stato mandato nell'arena per il divertimento pubblico e solo in un secondo momento la sua vita era stata spenta e sostituita dagli impulsi automatici controllati dall'esterno. Sul petto bianco e leggermente villoso erano state incise o marchiate alcune lettere; non mi ero soffermato a indagare, ma avevo fatto in tempo a notare che si trattava di un incerto e tremante messaggio in spagnolo; la lingua era usata in maniera goffa, come avrebbe potuto fare uno straniero animato da una feroce ironia ma a cui fosse estraneo sia l'idioma in sé che l'alfabeto in cui era scritto. La frase sul petto diceva: "Secuestrado a la voluntad de Xinaián en el cuerpo decapitado de Tlayúb": "Rinchiuso per volontà di K'nyan nel cadavere senza testa di T'la-yub". (The Mound, dicembre 1929-inizio 1930) L'abbraccio di Medusa (con Zealia Brown Bishop) Medusa's Coil fu scritto da Lovecraft a partire da una succinta trama fornitagli dalla signora Bishop, la stessa cliente per la quale aveva già composto The Curse of Yig e The Mound. Non è ritenuta una delle revisioni più riuscite, soprattutto a causa del finale, ma vorremmo salvarne due pagine secondo noi molto belle: il tratteggio dell'artista Frank Marsh, la cui sensibilità decadente è delineata con efficacia, e la descrizione dell'orrendo quadro da lui dipinto, che rappresenta la metropoli d'incubo di
R'lyeh. Va osservato che fino a poco tempo fa il racconto era noto soltanto nella versione condensata da August Derleth, il quale lo aveva sottoposto allo stesso trattamento di The Mound. La prima edizione integrale, che qui proponiamo, è apparsa nel 1989 nell'edizione corretta di The Horror in the Museum and Other Revisions (v. Bibliografia). La traduzione si basa sul testo stabilito da S. T. Joshi, che riproduce quello del dattiloscritto preparato da Frank Belknap Long. 1 Il viaggio verso Cape Girardeau mi aveva condotto attraverso luoghi poco familiari, e nella luce incerta e dorata del tardo pomeriggio mi resi conto che se volevo raggiungere la città prima di notte avrei dovuto chiedere informazioni. Non volevo rischiare di girare a vuoto nelle desolate pianure del Missouri meridionale dopo il tramonto, perché le strade erano in cattive condizioni e nella macchina scoperta il freddo di novembre si faceva piuttosto pungente. Nuvole nere si ammassavano all'orizzonte, e fra le lunghe ombre bluastre che solcavano i campi piatti e scuri cercai di individuare una casa dove poter ottenere le indicazioni di cui avevo bisogno. Il paese era solitario e deserto, ma finalmente, in mezzo a un gruppo di alberi e vicino al fiumiciattolo che scorreva alla mia destra, apparve il tetto di un'abitazione: distava buoni ottocento metri dalla strada, e per raggiungerla avrei dovuto imboccare un vialetto o un sentiero. Poiché non c'erano altre costruzioni, decisi di tentare lì la fortuna e notai con piacere che fra i cespugli a lato della strada appariva finalmente un portale di pietra scolpito, parzialmente in rovina, coperto di viticci secchi e soffocato di vegetazione selvatica: ecco perché da lontano non ero riuscito a scorgere il sentiero. Mi resi conto che era impossibile attraversarlo con la macchina, quindi parcheggiai accanto al portale (dove un sempreverde avrebbe protetto la mia vettura in caso di pioggia) e m'incamminai a piedi verso la casa. Non era una passeggiata da poco. Percorrendo il sentiero assediato dalle erbacce e sempre più scuro nella luce del crepuscolo, ebbi uno sgradevole presagio dovuto forse all'atmosfera di decadenza che aleggiava intorno al portale di pietra e al vialetto esterno. Dalle sculture che avevo visto sulle antiche colonne dedussi che un tempo la proprietà era stata una dimora signorile, ed era evidente che il viale era stato fiancheggiato da due file orgogliose di tigli: ma in parte erano morti e in parte non si distinguevano più tra gli arbusti selvatici che in-
vadevano tutto. Man mano che procedevo, lappe e rami s'aggrappavano ai miei vestiti e cominciai a chiedermi se dopotutto la casa fosse abitata. Non stavo facendo tanta fatica per nulla? Per un attimo fui tentato di tornare indietro e cercare una qualsiasi fattoria lungo la strada, ma uno scorcio della casa che sorgeva davanti a me destò la mia curiosità e risvegliò il mio spirito avventuroso. C'era qualcosa di affascinante in quel decrepito mucchio di legno circondato dagli alberi, perché rivelava la grazia e l'amore per lo spazio di un'età perduta, ma anche le caratteristiche di un ambiente tipicamente meridionale. Era la classica villa signorile in mezzo alla piantagione, tutta in legno e in uno stile che risaliva all'inizio del diciannovesimo secolo. La casa aveva due piani e un attico, e le colonne del porticato ionico giungevano fino all'attico, sorreggendo un timpano triangolare. Lo stato di decadenza era estremo, lampante: una delle grandi colonne era marcita e caduta sul terreno, mentre la veranda o "piazza" superiore inclinava pericolosamente in avanti. Tutto faceva credere che un tempo altri edifici fossero sorti intorno a quello principale. Salii con un certo nervosismo gli ampi gradini di pietra del loggiato e mi trovai davanti alla porta d'ingresso lavorata e sormontata da un'elegante lunetta; feci l'atto di accendere una sigaretta, ma rinunciai quando mi resi conto che intorno a me tutto era estremamente secco e infiammabile. Benché convinto che la casa fosse disabitata, esitavo a disturbarne la quiete picchiando con le mani: c'era un batacchio di ferro arrugginito e quando riuscii a muoverlo diedi uno o due colpi discreti, che ugualmente fecero tremare l'edificio da cima a fondo. Non ci fu risposta; usai di nuovo quell'arnese ingombrante e interruppi il silenzio innaturale e la solitudine che circondavano la casa, certo di aver richiamato l'attenzione di qualsiasi eventuale occupante. Da qualche parte, nelle vicinanze del fiume, sentii la nota malinconica di una colomba, ma il rumore dell'acqua si udiva appena. Come in sogno afferrai l'antico chiavistello e tentai la grande porta a sei pannelli. Non era chiusa a chiave, come mi accorsi dopo un attimo: e benché non scivolasse facilmente sui cardini, riuscii ad aprirla con un cigolio e mi trovai in una grande sala d'ingresso avvolta dalle ombre. Mi pentii immediatamente di averlo fatto: non che dal polveroso ambiente in stile Impero si levasse un esercito di fantasmi, ma in un attimo mi resi conto che la casa non era disabitata. La grande scalinata curva cigolò e
sentii il passo esitante di qualcuno che scendeva. Per un attimo la grande finestra palladiana sul pianerottolo inquadrò una figura alta e curva. Superai un primo momento di terrore e quando la figura discese l'ultima rampa mi preparai a incontrare l'ospite di cui avevo invaso l'intimità. Lo vidi frugarsi in tasca nella semioscurità, alla ricerca di un fiammifero; poi accese una piccola lampada a kerosene che si trovava sul tavolino traballante ai piedi delle scale. La debole luce della lampada rivelò la figura curva di un uomo alto ed emaciato, disordinato nel vestire e mal rasato, ma con il portamento e l'espressione di un gentiluomo. Non aspettai che parlasse per primo, ma immediatamente giustificai la mia presenza. «Mi perdonerà se entro in casa sua in questo modo, ma dopo aver bussato diverse volte ho pensato che la villa fosse disabitata. Ho bisogno di informazioni sulla strada per Cape Girardeau... Voglio dire, la più breve. Avevo intenzione di arrivarci prima che facesse buio, ma ora, naturalmente...» L'altro rispose appena mi fui interrotto, nel tono forbito che mi ero aspettato e con accento meridionale come la casa in cui abitava. «È lei che deve scusarmi per non aver risposto subito. Vivo in modo ritirato e non sono abituato alle visite. In un primo momento ho pensato che fosse soltanto un curioso, ma quando ha bussato di nuovo ho deciso che naturalmente dovevo scendere. Purtroppo mi muovo lentamente: soffro di nevrite, un caso molto doloroso. «Quanto al suo obbiettivo, e cioè raggiungere la città prima di notte, è chiaro che non può farlo. Immagino che lei venga dal portale di pietra: la strada che sta seguendo non è la migliore né la più breve. Deve prendere la prima a sinistra, dopo l'arco: c'è una sola strada vera e propria. Non tenga conto delle tre o quattro carrettiere che troverà prima, la via giusta è quella al cui imbocco cresce un grosso salice. Non può sbagliare. Al terzo incrocio giri a destra, poi...» Dubbioso per quelle complicate indicazioni, che a un forestiero come me confondevano le idee, non potei fare a meno di interromperlo. «Per favore, aspetti un momento. Non credo di riuscire a seguire le sue indicazioni al buio, senza mai essere stato nella regione e solo con l'aiuto dei fari. Inoltre sta per scoppiare un temporale e la mia è una macchina scoperta. Credo che mi troverei in una brutta situazione se cercassi di arrivare a Cape Girardeau stasera. Anzi, credo che sarebbe meglio non provarci affatto. Non mi piace imporre la mia presenza, davvero, ma date le cir-
costanze non potrebbe ospitarmi per la notte? Non mi serviranno cibo o altre comodità. Mi permetta di dormire in un angolo fino all'alba e sarò a posto. Lascerò la macchina dov'è, un po' di umidità non può farle male.» Sentita la mia richiesta, l'uomo perse l'espressione originaria di calma e rassegnazione e mi fissò con curiosità. «Dormire... qui?» Sembrava talmente stupito che dovetti ripetermi. «Ma certo, perché no? Le assicuro che non sarò di alcun fastidio, e d'altra parte non posso far altro. Sono un forestiero, le strade al buio sono un labirinto e scommetto che fra meno di un'ora pioverà a dirotto...» Stavolta fu il mio ospite a interrompermi, e con una voce profonda e musicale nella quale avvertivo una strana intonazione. «Un forestiero, certo, altrimenti non penserebbe di dormire qui. Non le sarebbe mai saltato in mente di venirci. La gente evita questi luoghi, ormai.» Tacque, e il mio desiderio di restare fu accresciuto mille volte dal senso di mistero suscitato da quelle poche parole. Nella casa c'era sicuramente qualcosa di straordinario, e l'onnipresente odore di muffa copriva per me cento segreti. Ancora una volta notai l'estrema decrepitezza di tutto ciò che mi circondava; anche alla luce della piccola lampada non se ne poteva dubitare. Provai un senso di gelo e vidi con dispiacere che non sembrava esserci riscaldamento; ma la mia curiosità era così grande che ormai desideravo solo restare e sapere qualcosa di più sul conto del recluso e della sua dimora fatiscente. «Sia come sia» risposi. «Non m'importa di quello che fanno gli altri, io ho bisogno di un posto dove passare la notte. Inoltre, se alla gente non piace questa casa forse è solo perché è un po' male in arnese. Immagino che ci vorrebbe una fortuna per rimetterla a nuovo, ma se la spesa è eccessiva perché non cerca un alloggio più piccolo? Perché ostinarsi a rimanere qui, con tutte le difficoltà e i disagi che comporta?» L'uomo non parve offeso, ma mi rispose seriamente. «Lei può rimanere, se lo desidera: non penso che possa accaderle niente di male personalmente. Ma secondo alcuni ci sono... degli influssi poco piacevoli, in questa casa. Quanto a me rimango perché devo. Considero mio dovere salvaguardare qualcosa che si trova qui, e che in un certo senso mi trattiene. Vorrei avere il denaro, la salute e l'ambizione necessaria a prendermi cura della villa e dei terreni come si conviene.» La mia curiosità era giunta al massimo ed ero pronto a credere al mio
ospite sulla parola; quando mi fece segno di seguirlo andai con lui al piano di sopra. Era molto buio, e il battito sordo delle gocce mi disse che la pioggia era cominciata. Sarei stato contento di qualunque rifugio, ma questo era particolarmente gradito per l'alone di mistero che avvolgeva la casa e il proprietario. Per un inguaribile amante del fantastico come me, non si poteva desiderare posto migliore. 2 Il mio ospite mi guidò in una stanza d'angolo al primo piano che pareva meno malconcia del resto della casa; qui depose la piccola lampada e ne accese una più grande. A giudicare dalla pulizia della camera, dal suo contenuto e dai libri allineati alle pareti, era evidente che il vecchio signore era effettivamente un gentiluomo colto ed educato: senz'altro un eremita e un eccentrico, ma uno che difendeva i suoi valori e aveva degli interessi intellettuali. Mi fece segno di accomodarmi su una sedia e io avviai la conversazione su argomenti di carattere generale, scoprendo con piacere che il mio interlocutore non era un uomo taciturno. Anzi, gli faceva piacere parlare con qualcuno e non tentò di sviare il discorso da argomenti più personali. Appresi che si chiamava Antoine de Russy e discendeva da un'antica, nota e distinta famiglia di piantatori della Louisiana. Suo nonno, un figlio cadetto, era emigrato nel Missouri meridionale più di un secolo prima e aveva costruito la nuova dimora con lo sfarzo a cui erano abituati i suoi antenati; così era sorta la grande magione ornata di colonne che il fondatore aveva circondato di tutti gli accessori necessari a una grande piantagione. C'era stata un'epoca in cui le capanne che sorgevano nella parte posteriore della proprietà - su un tratto pianeggiante ora sommerso dal fiume - avevano ospitato fino a duecento schiavi negri; sentirli cantare, ridere e suonare il banjo di notte equivaleva a cogliere il fascino di una civiltà e un ordine sociale purtroppo estinti. Davanti alla casa, dove sorgevano grandi querce simili a guardiani e tigli imponenti, un tempo si estendeva un prato che somigliava a un immenso tappeto verde, innaffiato e tenuto con la massima cura e attraversato da vialetti pavimentati in pietra e fiancheggiati dai fiori. La proprietà si chiamava Riverside, e ai suoi tempi era stara ridente e piacevole; il mio ospite ricordava ancora l'epoca in cui non erano del tutto scomparse le tracce del periodo migliore. La pioggia si era fatta violenta, e grandi scrosci d'acqua si riversavano
sul tetto malsicuro, le pareti e le finestre, mentre da mille pertugi e fessure qualche goccia filtrava anche all'interno. Tracce di bagnato coprivano il pavimento nei punti più impensati, e all'esterno le imposte marcite che a malapena si reggevano sui cardini sbattevano al vento. Nulla di tutto ciò mi preoccupava, nemmeno il pensiero della mia macchina sotto gli alberi, perché sentivo che il mio ospite stava per raccontarmi una storia memorabile. Invogliato ad abbandonarsi ai ricordi, fece il gesto di accompagnarmi in camera da letto, ma poi ricominciò a parlare dei giorni migliori. Presto avrei saputo come mai vivesse da solo in un posto del genere, e perché i vicini avessero un'opinione tanto sgradevole della casa. La voce del mio ospite era musicale, e in breve il racconto giunse a un punto che non mi avrebbe più permesso di appisolarmi. «Sì, Riverside fu costruita nel 1816 e mio padre nacque qui nel 1828. Se fosse vivo avrebbe più di cent'anni, ma morì giovane... così giovane che appena mi ricordo di lui. Fu nel '64... venne ucciso in guerra, perché era tornato nella terra dei suoi padri per arruolarsi nel Settimo Fanteria della Louisiana. Mio nonno era troppo vecchio per fare la guerra, ma visse fino a novantacinque anni e aiutò mia madre a crescermi. Devo tutto a loro e mi hanno allevato nel migliore dei modi. Abbiamo sempre avuto forti tradizioni e un alto concetto dell'onore; mio nonno, in particolare, ha fatto in modo che io crescessi come tutti i de Russy dai tempi delle crociate. Dopo la guerra non fummo travolti dal disastro economico e riuscimmo a cavarcela bene. Io sono andato a scuola in Louisiana e poi a Princeton; in seguito sono riuscito ad amministrare la piantagione con profitto... anche se ora vede come si è ridotta. «Mia madre morì quando avevo vent'anni e mio nonno due anni dopo. Da allora in poi sono stato piuttosto solo e nell'85 ho sposato una lontana cugina di New Orleans. Se fosse sopravvissuta le cose sarebbero andate diversamente, invece morì dando alla luce mio figlio Denis. Mi rimase soltanto lui e non cercai di sposarmi ancora; dedicai tutto il mio tempo al ragazzo, che mi somigliava e aveva i caratteri tipici dei de Russy: alto e piuttosto bruno, magro e con il temperamento di un diavolo. Lo educai come mio nonno aveva educato me, ma nelle questioni d'onore non aveva bisogno di nessun incitamento. Non ho mai visto uno spirito nobile come il suo e ho dovuto tenerlo con la forza per evitare che a undici anni scappasse di casa per dare il suo contributo nella guerra spagnola! Un giovanotto romantico e ribelle, pieno di sentimenti che probabilmente lei definirebbe antiquati... E le assicuro che non era facile tenerlo lontano dalle ragazze ne-
gre! Lo mandai alla stessa scuola che avevo frequentato io, poi a Princeton. Si diplomò nel 1909. «Decise di studiare medicina e frequentò per un anno la Medical School di Harvard, poi lo prese la smania di ravvivare le tradizioni francesi di famiglia e mi convinse a mandarlo alla Sorbona. Lo accontentai con orgoglio, anche se sapevo che una volta partito lui sarei rimasto solo. Volesse il cielo che non l'avessi fatto! Ritenevo che fosse abbastanza maturo per cavarsela a Parigi; aveva una stanza in Rue St. Jacques, vicino all'università e nel Quartiere Latino, ma stando alle sue lettere e a quello che dicevano gli amici non faceva lega con i perdigiorno. Frequentava soprattutto i compatrioti, studenti e artisti seri che davano più importanza al proprio lavoro che alle mode stravaganti e bislacche. «Ma ovviamente c'erano parecchi individui che vivevano sulla linea di demarcazione che separa gli studi seri dalle tentazioni del diavolo: insomma esteti, decadenti, conosce il tipo. Cercatori di sensazioni nuove, un po' alla Baudelaire. Com'è naturale Denis frequentò un certo numero di questi individui e si fece un'idea del loro stile di vita. C'erano ogni sorta di circoli e culti esoterici: pseudo-adorazione del diavolo, pseudo-messe nere e altre cose del genere. Dubito che gli nuocessero, e penso che in un paio d'anni dimenticò quasi tutto ciò che aveva visto. Ma a scuola Denis aveva preso a frequentare un giovanotto che era più versato degli altri in queste faccende arcane; era figlio di un uomo che io stesso conoscevo e si chiamava Frank Marsh. Veniva da New Orleans ed era un seguace di Lafcadio Hearn, Gauguin e Van Gogh, insomma il classico prodotto dei ruggenti anni Novanta. Poveraccio, aveva anche del talento. «A Parigi Marsh fu il primo amico di Denis e quindi si vedevano spesso; ne approfittavano per parlare dei vecchi tempi all'accademia di St. Clair e altre cose ancora. Mio figlio mi scrisse parecchio sul conto dell'amico e non trovai nulla di strano nel fatto che Marsh facesse parte di una setta esoterica. A quanto ne sapevo si trattava di un culto magico derivato da antiche credenze cartaginesi ed egiziane, e furoreggiava fra gli scapigliati della riva sinistra. Pure e semplici assurdità che pretendevano di attingere alle arcaiche fonti di sapienza di perdute civiltà africane: la grande Zimbabwe e le morte città di Atlantide nella regione di Hoggar, in mezzo al deserto del Sahara; assurdità, come ho detto, imperniate su uno strano feticismo dei serpenti e dei capelli umani. A quell'epoca mi sembravano pure e semplici fandonie, ma Denis diceva che secondo Marsh la leggenda della capigliatura serpentina di Medusa nascondeva misteriose verità, e così il
mito tolemaico di Berenice che aveva offerto i suoi capelli per salvare lo sposo-fratello, e di cui rimane un'eco nella costellazione della Chioma di Berenice. «Non credo che Denis si lasciasse impressionare eccessivamente da queste eccentricità, almeno fino alla notte in cui Marsh organizzò nel suo appartamento un rito più bizzarro del solito e mio figlio conobbe la sacerdotessa del culto. Per la maggior parte gli adepti erano giovanotti, ma il capo della setta era una giovane donna che si faceva chiamare "Tanit-Iside", pur non facendo mistero che il suo vero nome (o meglio, per dirla con le sue parole, il nome della sua più recente incarnazione) fosse Marceline Bedard. Affermava di essere figlia morganatica del marchese di Chameaux e prima di adottare il nome d'arte con cui era nota nel circolo, certo più redditizio, era stata pittrice e modella per gli amici pittori, o almeno così si diceva. Secondo alcuni aveva vissuto per un certo periodo nelle Indie Occidentali, credo nella Martinica; ma era piuttosto reticente su tutto ciò che la riguardava personalmente. Si dava grandi arie di austerità e santità, ma era solo il tocco finale della sua posa: non credo che gli studenti più smaliziati la prendessero troppo sul serio. «Denis, tuttavia, non era smaliziato e mi scrisse un'ode di dieci pagine sulla dea che aveva appena scoperto. Se avessi immaginato quanto era vulnerabile avrei preso provvedimenti, ma non pensavo che un'infatuazione da ragazzi potesse avere grande significato. Mi sentivo assurdamente sicuro che il vivo senso dell'onore di Denis e l'orgoglio familiare lo avrebbero tenuto alla larga dalle peggiori complicazioni. «Col passare del tempo, tuttavia, le sue lettere cominciarono a inquietarmi. Parlava sempre più di Marceline e sempre meno degli amici e cominciò a criticare il modo "crudele e fanatico" con cui essi rifiutavano di presentarla alle rispettive madri e sorelle. Penso che Denis non le facesse domande imbarazzanti sul passato e non ho dubbi che la signorina gli riempisse la testa di favole romantiche che riguardavano le sue origini e le divine rivelazioni che aveva ricevuto, ma anche il modo in cui la gente diffidava di lei. Alla lunga mi resi conto che Denis aveva virtualmente rinunciato agli amici e passava la maggior parte del tempo con la seducente sacerdotessa. Dietro richiesta della ragazza evitò di far sapere ai conoscenti che si vedevano tanto spesso, quindi nessuno fece il minimo tentativo di dividerli. «Lei dovette pensare che fossimo ricchissimi: Denis aveva l'aspetto di un gentiluomo e un certo tipo di persone crede che tutti gli americani di
buona nascita siano milionari. Comunque, Marceline ritenne che quella fosse l'occasione d'oro per sposare un ottimo partito. Quando, spinto dall'inquietudine, mandai a mio figlio tutta una serie di consigli, ormai era troppo tardi: il mio ragazzo l'aveva sposata con tutti i crismi e scrisse che aveva intenzione di abbandonare gli studi per condurre sua moglie a Riverside. Aggiunse che per Marceline era un gran sacrificio rinunciare alla guida della setta magica, ma che d'ora in poi si sarebbe limitata a vivere da gentildonna di campagna, futura signora di Riverside e madre dei suoi figli. «Ebbene, signore, la presi nel miglior modo possibile. Mi rendevo conto che gli europei più sofisticati hanno valori diversi da quelli di noi americani, ma non avevo nulla contro quella donna. Probabilmente era una ciarlatana, ma perché supporre di peggio? In quel momento cercai di essere il più delicato possibile per rispetto verso il mio ragazzo. Per un uomo di buon senso non c'era altro da fare: Denis doveva condurre la sua vita in piena responsabilità e sua moglie doveva imparare a conformarsi ai valori della famiglia. Bisognava darle una possibilità, forse non avrebbe recato danno alla nostra casa come qualcuno temeva. Per tutte queste ragioni non feci obiezioni e non posi alcuna condizione; la cosa era fatta ed ero pronto ad abbracciare mio figlio, da chiunque fosse accompagnato. «Arrivarono qui tre settimane dopo il telegramma che annunciava il matrimonio. Marceline era bella, inutile negarlo, e potevo capire che il ragazzo se ne fosse infatuato. Sembrava una persona di buona nascita e sono tuttora convinto che in lei scorresse una parte di sangue nobile. L'età che dimostrava non era di molto superiore ai vent'anni; di altezza media, piuttosto magra, negli atteggiamenti del corpo e nei movimenti dimostrava la grazia d'una tigre. La carnagione era olivastra ma di tono scuro, come avorio antico; gli occhi erano grandi e neri. Aveva lineamenti minuti, regolari in modo classico, benché un po' troppo sfuggenti per i miei gusti. I capelli erano neri come giaietto, i più neri che abbia visto in vita mia. «Non c'era da meravigliarsi che fossero diventati uno dei punti centrali del culto di Marceline: con una chioma simile l'idea doveva essserle nata spontaneamente. Raccolti all'insù come una torre la facevano sembrare una principessa orientale dipinta da Aubrey Beardsley; quando li scioglieva le arrivavano sotto le ginocchia e brillavano come se possedessero una vitalità propria, misteriosa. Anche se le lettere di mio figlio non mi avessero dato l'imbeccata, avrei pensato senz'altro a Medusa o a Berenice: bastava la vista di quei capelli per suggerire l'idea.
«A volte mi pareva di vederli muovere, come per sistemarsi in nuovi intrecci o disegni, ma probabilmente era un'illusione. Marceline li pettinava di continuo e credo che li nutrisse con una lozione speciale. Una volta immaginai - fu uno scherzo della fantasia - che più che una capigliatura si trattasse di un animale che aveva bisogno di una dieta particolare. Sciocchezze, naturalmente, ma che non contribuirono a bendispormi verso mia nuora e la sua acconciatura. «Non posso negare che la detestassi, nonostante i miei sforzi in senso contrario. All'epoca non riuscivo ad immaginare quale fosse in problema, ma c'era: qualcosa in lei mi ripugnava profondamente e cedevo a fantasie macabre o morbose ogni volta che pensavo a qualcosa che la riguardava. La carnagione evocava pensieri di Babilonia, Atlantide e Lemuria, i terribili imperi dimenticati che un giorno avevano dominato il mondo; gli occhi mi facevano pensare a quelli di una creatura sacrilega della foresta o di una dea animalesca troppo antica per poter essere del tutto umana. I capelli - quella massa densa, esotica, supernutrita e nera come l'inchiostro - mi dava i brividi come se fosse un pitone scuro. Non c'è dubbio che mia nuora si rendesse conto dei sentimenti che provavo per lei, e come io cercavo di nasconderli così lei tentava di nascondere che ne era consapevole. «Quanto all'infatuazione di mio figlio, non accennava a diminuire. La covava letteralmente con gli occhi e spingeva le piccole galanterie di ogni giorno a estremi imbarazzanti. Lei gli restituiva la cortesia, anche se mi rendevo conto che rispondere all'entusiasmo e alle stravaganze del marito le costava uno sforzo di volontà. Fra l'altro, credo che fosse amareggiata dalla scoperta che non eravamo ricchi come pensava. «Le assicuro che non era una situazione piacevole. Mi rendevo conto che si preparava qualche brutta sorpresa; Denis era ipnotizzato dal suo amore immaturo, e quando si rese conto che Marceline mi dava fastidio cominciò a staccarsi da me. La cosa andò avanti per mesi e capii che stavo perdendo il mio unico figliolo, il ragazzo che per venticinque anni aveva costituito il centro di tutti i miei atti e pensieri. Confesso che mi sentivo piuttosto amareggiato, e quale padre non lo sarebbe stato? Tuttavia non potevo fare niente. «Nei primi tempi Marceline sembrò comportarsi come una buona moglie e i nostri amici l'accolsero senza troppe domande e senza sospetti. Io non potevo fare a meno di inquietarmi al pensiero di ciò che gli amici di Denis a Parigi avrebbero scritto a casa dopo che la notizia del matrimonio si fosse diffusa. Nonostante la segretezza di cui la donna si circondava, la
notizia non poteva restare nascosta per sempre; tra l'altro Denis aveva scritto personalmente agli amici più intimi, rivelando l'accaduto non appena si erano stabiliti a Riverside. «Presi l'abitudine di ritirarmi a lungo nella mia stanza, trincerandomi dietro la mia salute malconcia. Fu a quell'epoca che cominciai a soffrire violentemente di nevrite, e questo rese più che comprensibile il mio bisogno di riposo. Denis non sembrò preoccuparsi troppo e del resto non mostrava eccessivo interesse per la mia persona, i miei affari e le mie abitudini; anzi si comportava con un distacco che mi feriva. Cominciai a soffrire d'insonnia e trascorsi molte notti in bianco cercando di mettere a fuoco quello che non andava: soprattutto perché mia nuora mi fosse così antipatica e m'incutesse paura. Non era certo per il suo passato di occultista, visto che ormai se lo era lasciato alle spalle e non ne parlava; aveva abbandonato anche la pittura, benché un tempo si fosse dedicata all'arte. «È strano, ma gli unici che condividevano il mio nervosismo erano i servitori. I negri che frequentavano la casa trattavano mia nuora con estrema diffidenza e in poche settimane la maggior parte dei domestici si licenziarono; solo quelli che erano particolarmente affezionati alla famiglia rimasero con noi. Il comportamento di questi fedelissimi - il vecchio Scipione e sua moglie Sarah, la cuoca Dalila e la figlia di Scipione, Mary - era civile per quanto possibile, ma era chiaro che la nuova padrona di casa si era conquistata soltanto la loro obbedienza, non il loro cuore. La servitù cercava di restare nell'ala distaccata della casa per quanto era possibile. McCabe, il nostro autista bianco, si mostrava insolentemente attratto dalla padrona e quindi non le era ostile; l'altra eccezione era rappresentata da una vecchia zulù che si diceva fosse arrivata dall'Africa più di cent'anni prima, e che era stata una specie di capo della comunità nera. Ora viveva in una piccola capanna come una pensionante fissa della famiglia. Si chiamava Sofonisba e quando Marceline le si avvicinava le dimostrava la massima devozione: una volta la vidi baciare il terreno dove la padrona aveva camminato. I negri sono bestie superstiziose, e mi chiesi se Marceline avesse usato le sue fandonie magiche per vincere l'evidente diffidenza della servitù.» 3 «Bene, le cose andarono così per circa un anno. Poi, nell'estate 1916, cominciarono a verificarsi strani fenomeni. Verso la metà di giugno Denis
ricevette una lettera del vecchio amico Frank Marsh che gli confessava di aver avuto un esaurimento nervoso e di desiderare un periodo di riposo in campagna. La lettera veniva da New Orleans, perché quando aveva cominciato a sentirsi male Marsh aveva lasciato Parigi ed era tornato a casa; era chiaro che sperava di essere invitato a casa nostra, anche se il tutto era espresso con molto tatto. Com'è ovvio Marsh sapeva che Marceline era da noi e chiese gentilmente sue notizie. Denis apprese con dispiacere i suoi problemi e invitò l'amico a raggiungerci per un soggiorno indeterminato. «All'arrivo di Marsh fui sorpreso di notare quanto fosse cambiato negli ultimi anni. Era un uomo piccolino, fragile, con gli occhi azzurri e il mento sfuggente; a tutto questo si aggiungevano gli effetti dell'alcool e non so cos'altro, ma è un fatto che aveva le palpebre gonfie, le narici dilatate e solchi pesanti intorno alla bocca. Penso che avesse preso molto sul serio le sue pose da artista decadente e avesse deciso di somigliare per quanto poteva ai suoi Rimbaud, Baudelaire e Lautréamont. E tuttavia era un ottimo conversatore, perché come tutti i decadenti era sensibilissimo al colore, alle atmosfere e ai nomi delle cose. Era vivo nel senso più pieno e ammirevole del termine, arricchito dai ricordi di esperienze che avevano spinto la sua coscienza nelle regioni più incerte e oscure dell'esistenza, tra sentimenti che la maggior parte di noi sfiorano senza nemmeno accorgersi che esistano. Povero diavolo, se almeno suo padre fosse vissuto più a lungo e avesse potuto assisterlo! C'era del talento, in quel ragazzo. «Fui lieto della visita, perché sentivo che avrebbe ristabilito un'atmosfera normale in casa nostra, e sulle prime fu proprio ciò che avvenne. Come ho detto, Marsh era un ottimo compagno e uno degli artisti più profondi e sinceri che abbia conosciuto in vita mia; credo che niente gli importasse più della percezione ed espressione della bellezza. Quando vedeva un oggetto squisito o era intento lui stesso a crearne uno, gli occhi si dilatavano fino a quando le iridi chiare parevano scomparire, e nel volto debole, delicato, bianchissimo, rimanevano soltanto i profondi pozzi neri delle pupille: abissi che si spalancavano su mondi arcani che nessuno di noi riusciva a indovinare. «Quando arrivò a casa nostra, tuttavia, queste facoltà si erano alquanto smorzate: come disse a Denis, qualcosa lo aveva prosciugato. La sua carriera di artista del bizzarro - una sorta di nuovo Fusli, Goya, Sime o Clark Ashton Smith - era cominciata in modo promettente, ma poi si era inaridita. Il mondo quotidiano che lo circondava non conteneva più nulla che egli considerasse bello, o almeno di quella bellezza poetica e suggestiva che
era in grado di accendere le sue facoltà creative. Si era trovato spesso ad attraversare momenti del genere - succede a tutti i decadenti - ma questa volta non riusciva a scoprire nessuna sensazione nuova, strana e outré che alimentasse un'illusione di fresca bellezza o almeno di avventurosa, eccitante aspettativa. Era come un Durtal o un des Esseintes arrivato al punto più opaco della sua bizzarra parabola. «Quando Marsh arrivò Marceline non era in casa. Non era mai stata entusiasta della sua venuta e aveva deciso di non rifiutare un invito di alcuni amici di St. Louis che proprio in quel momento richiedevano altrove la sua presenza e quella di Denis. Mio figlio, naturalmente, era rimasto per accogliere l'amico, ma Marceline si era allontanata da sola. Era la prima volta che si separavano e speravo che l'intervallo avrebbe aiutato mio figlio a uscire dallo stato ipnotico di cui era schiavo e che lo faceva comportare come uno sciocco. Marceline non mostrava alcuna fretta di tornare a casa, anzi ebbi la sensazione che volesse prolungare la sua assenza quanto più a lungo era possibile. Denis sopportò la cosa meglio di quanto ci si sarebbe aspettati da un marito così dipendente, e durante le conversazioni in cui tentava di risollevare l'amico mi sembrò tornato il ragazzo di sempre. «Ma era proprio il pittore a mostrare segni di impazienza per il ritorno di mia nuora: forse pensava che la sua strana bellezza, o le credenze magiche che facevano parte del culto di cui si era occupata potessero aiutarlo a ritrovare interesse nelle cose, a dargli nuovo impulso verso la creazione artistica. Ero assolutamente certo che non ci fossero motivi più sordidi, perché conoscevo il carattere di Marsh. Nonostante le sue debolezze era un gentiluomo, ed era stato un sollievo apprendere che voleva venire da noi; il fatto che accettasse l'ospitalità di Denis dimostrava che non c'erano ragioni morali che glielo impedissero. «Quando finalmente Marceline tornò a casa, mi resi conto che Marsh non stava più nella pelle. Non tentò di indurla a parlare delle strane pratiche a cui aveva rinunciato, ma non riuscì a nascondere la forte ammirazione che provava per lei e che lo costringeva a tenerle gli occhi addosso ogni volta che era presente; occhi che, per la prima volta dopo il suo arrivo, erano di nuovo dilatati in modo anormale. Marceline sembrava a disagio sotto questo attento esame e niente affatto compiaciuta; questa, almeno, fu la mia impressione all'inizio, perché in pochi giorni l'imbarazzo svanì del tutto e i due riuscirono a trovare un punto d'incontro sulla base della più cordiale e misteriosa congenialità. Quando Marsh credeva che nessuno li guardasse la osservava attentamente, e mi chiesi fino a che punto le miste-
riose grazie di mia nuora risvegliassero in lui l'artista invece dell'uomo puro e semplice. «Com'è naturale, Denis mostrò una certa irritazione per la piega che avevano preso gli avvenimenti, ma si consolava al pensiero che il suo ospite era un uomo d'onore e che, accomunati dagli stessi interessi estetici e occulti, Marceline e Marsh avevano da discutere molte cose che individui più prosaici non avrebbero potuto affrontare con loro. Denis non provava invidia per la moglie e l'amico, ma rimpiangeva che la sua immaginazione fosse troppo limitata e convenzionale per permettergli di partecipare ai discorsi di Marsh e Marceline. In quei giorni vedevo mio figlio più spesso del solito: con la moglie quasi sempre occupata Denis si ricordò di avere un padre, e un padre pronto ad aiutarlo in qualunque dilemma o difficoltà. «Ci incontravamo spesso sulla veranda e guardavamo Marsh e Marceline che percorrevano a cavallo il viale d'ingresso o giocavano a tennis nel cortile che si stendeva a sud della casa. Parlavano soprattutto in francese, lingua che Marsh, benché non avesse più di un quarto di sangue gallico nelle vene, padroneggiava meglio di Denis e me. L'inglese di Marceline, sempre corretto da un punto di vista grammaticale, migliorava rapidamente nell'accento, ma era evidente che le faceva piacere tornare alla lingua madre. Dovevamo convenire che formavano una coppia ben affiatata, ma mio figlio stringeva i denti e mostrava segni d'ansia; nonostante questo rimase un ospite ideale per Marsh e un marito premurosissimo per Marceline. «Tutto questo accadeva di solito nel pomeriggio, perché Marceline si alzava tardi, faceva colazione a letto e aveva bisogno di moltissimo tempo per prepararsi. Non ho mai conosciuto una persona così coperta di cosmetici, lozioni per capelli, unguenti e altri prodotti di bellezza. «Durante le ore del mattino Denis e Marsh erano liberi di frequentarsi e scambiarsi le confidenze che tenevano viva la loro amicizia nonostante la tensione che nasceva dalla gelosia. «Bene, fu proprio durante una di quelle chiacchierate mattutine sul terrazzo che Marsh avanzò la proposta destinata a far precipitare le cose. Io era stato a letto per un attacco di dolori, ma ero riuscito a trascinarmi al piano inferiore e a sdraiarmi sul divano del salotto, davanti alla grande finestra. Denis e Marsh erano fuori, a qualche metro da me, e non potei fare a meno di sentire quello che dicevano. Parlavano d'arte e dei capricciosi, imprevedibili elementi dell'ambiente da cui l'artista ha bisogno di essere stimolato per produrre la sua opera, quando a un tratto Marsh passò dal terreno astratto all'esempio pratico che doveva aver avuto in mente fin dall'i-
nizio. «"Immagino" disse "che nessuno sia in grado di stabilire quali elementi contenuti in un certo scenario o in determinati oggetti li trasformino, per alcuni individui, in stimoli estetici. Dev'essere qualcosa che ha a che fare con il retroterra emotivo di ciascuno di noi, con la riserva di associazioni psicologiche che abbiamo accumulato nel tempo, perché non esistono due persone che abbiano lo stesso tipo di sensibilità, la stessa facoltà di reazione estetica. Noi decadenti siamo artisti per cui tutto ciò che è ordinario ha smesso di avere il benché minimo significato emotivo o fantastico, ma anche all'interno del nostro gruppo non ci sono due individui che rispondano nello stesso modo ai fenomeni fuori dell'ordinario. Prendi me, per esempio..." «Fece una pausa e poi riprese: «"So di poterti dire certe cose, Denny, perché hai un intelletto miracolosamente vergine: limpido, acuto, diretto, obbiettivo e tutto il resto. Non mi fraintenderai come potrebbe accadere a un uomo troppo prezioso e contorto." «Fece un'altra pausa. «"Vedi, credo di aver scoperto ciò che può rimettere all'opera la mia immaginazione. Ne avevo una mezza idea fin da quando ero a Parigi, ma adesso ne sono certo. Si tratta di Marceline, mio caro: il suo volto, i suoi capelli, la catena di misteriose associazioni che evocano in me. Non è soltanto la sua bellezza esteriore, e Dio sa che non le manca: è qualcosa di speciale, di molto individuale e che non posso spiegare con chiarezza. Ti confesso che negli ultimi giorni ho provato sensazioni così acute che credo di poter superare me stesso; sento che se riuscirò a procurarmi tela e colori nel momento in cui il suo viso e i suoi capelli mi accendono la fantasia, potrò creare il capolavoro. C'è qualcosa di fatale, di ultraterrestre in lei: qualcosa che mi riporta all'essere vago e antico che Marceline rappresenta. Non so quanto ti abbia parlato di questo aspetto di lei, ma posso assicurarti che è predominante. Tua moglie è legata in modo straordinario all'ignoto..." «Ci fu un lungo silenzio: un brusco cambiamento d'espressione in Denis doveva aver interrotto l'ospite. Io fui preso del tutto in contropiede, perché non mi ero aspettato niente di così esplicito e mi chiesi che cosa pensasse mio figlio. Il cuore mi batteva violentemente e tesi le orecchie senza vergognarmi del fatto che ascoltavo i loro colloqui con intenzione. Finalmente Marsh riprese:
«"Capisco che sei geloso, mi rendo conto che un discorso come il mio deve farti questo effetto; posso giurarti, comunque, che non ne hai motivo." «Denis non rispose e Marsh continuò: «"Ad essere franco, non potrei mai innamorarmi di Marceline e neppure essere suo amico nel senso più stretto del termine. Maledizione, mi sento un ipocrita per averle parlato come ho fatto, e per giorni. Le cose stanno semplicemente così: una parte di lei mi affascina in modo strano, fantastico, addirittura terrificante... Proprio come un'altra parte tiene in scacco te, sebbene in modo più normale. Vedo qualcosa in lei, o, per essere più precisi da un punto di vista psicologico, vedo qualcosa attraverso e oltre lei; qualcosa di cui tu non ti accorgi affatto. Chiamalo come vuoi, ma per me evoca una folla d'ombre che salgono da abissi perduti, finché mi prende il desiderio di dipingere cose incredibili, i cui contorni scompaiono nel momento stesso in cui cerco di farmene un'idea precisa. Non fraintendermi, Denny, tua moglie è un essere meraviglioso: un epicentro di forze cosmiche che ha tutto il diritto di essere definito divino, semmai esiste su questa terra qualcosa del genere!" «A questo punto mi sembrò che la situazione si chiarisse un poco, perché nonostante la loro franchezza gli apprezzamenti di Marsh appartenevano alla sfera dell'astratto e del bizzarro e le lusinghe con cui lodava Marceline inorgoglivano un marito come Denis, sempre fiero della sua compagna. Anche Marsh si rese conto del cambiamento, perché quando ricominciò a parlare nelle sue parole c'era più fiducia. «"Devo farle un ritratto, Denny, devo dipingere quei capelli... Non te ne pentirai. C'è qualcosa che va al di là della materia nei suoi capelli; non è soltanto questione di bellezza." «Tacque e mi domandai quali fossero i pensieri di mio figlio, ma avrei fatto meglio a chiedermi quali fossero i miei. L'interesse di Marsh per mia nuora era davvero quello di un artista, o se ne era infatuato come Denis? Quando studiavano insieme avevo pensato che Marsh invidiasse il mio ragazzo e forse ora la cosa si ripeteva. D'altra parte, quando parlava di ispirazione artistica sembrava più che sincero; più ci pensavo, più ero disposto a prendere le cose per quel che sembravano. Anche Denis dovette fare il mio ragionamento, perché sebbene non riuscissi a cogliere la risposta a bassa voce che diede all'amico, dall'effetto che produsse si capiva che era stata affermativa. «Sentii distintamente che i due amici si davano una pacca sulla spalla e
Marsh concluse con parole di gratitudine che a lungo ricorderò. «"È magnifico, Denny: come ti ho detto, non te ne pentirai. In un certo senso lo faccio quasi per te. Sarai un altro uomo quando vedrai il quadro, ti farò tornare quello che eri una volta: consideralo un mezzo per svegliarti o per salvarti... Ma è ovvio che adesso non puoi capire ciò che intendo. Ricordati la nostra amicizia e non pensare un solo momento che io non sia il tuo fedele compagno!" «Mi alzai, perplesso, e li vidi allontanarsi sul prato, fumando insieme e tenendosi a braccetto. Cosa aveva voluto dire Marsh con la sua strana e misteriosa rassicurazione? Più le mie paure si calmavano in un senso, più venivano risvegliate nell'altro. In qualunque modo lo considerassi, era un affare spiacevole. «Le cose procedettero. Denis attrezzò all'amico una stanza con lucernario in soffitta e Marsh ordinò tutto ciò che gli occorreva per dipingere. Eravamo eccitati dai preparativi e per quanto mi riguardava ero lieto che la tensione dei giorni precedenti si fosse attenuata. Le sedute cominciarono e tutti le prendemmo molto sul serio, perché capivamo che Marsh le considerava un avvenimento artistico di grande importanza. Denny ed io ci aggiravamo per casa in punta di piedi, come se ci trovassimo in un santuario: per quanto riguarda Marsh il paragone non aveva nulla di inappropriato. «La reazione di Marceline, me ne accorsi subito, fu piuttosto diversa. A prescindere dai sentimenti del pittore, i suoi erano dolorosamente palesi. In ogni modo tradiva un'aperta e banale infatuazione per l'artista, e ogni volta che poteva respingere le affettuosità di Denis lo faceva senz'altro. È strano, ma mi resi conto della situazione meglio di mio figlio e cercai un sistema per risparmiargli il dolore fino a quando avessimo trovato il modo di risolvere la questione. Era inutile farlo soffrire, se potevo evitarlo. «Alla fine decisi che Denis doveva allontanarsi finché fosse durata quell'incresciosa situazione. Ero perfettamente in grado di vegliare su mia nuora e presto o tardi Marsh avrebbe finito il quadro e ci avrebbe lasciati. Ancora una volta riflettei che l'onorabilità del nostro ospite non faceva temere sviluppi peggiori. Quando la faccenda si fosse sgonfiata e Marceline avesse dimenticato la sua nuova infatuazione, Denis avrebbe ripreso il suo posto accanto a lei. «Scrissi una lunga lettera al mio agente finanziario a New York e feci in modo che mio figlio venisse chiamato laggiù per affari. Organizzai le cose in modo che l'agente richiedesse la presenza di un membro della famiglia
sulla costa orientale, e poiché ero malato non si poteva pensare che partissi io. Fu deciso che Denis sarebbe andato a New York e si sarebbe occupato degli affari per tutto il tempo che avrei ritenuto necessario. «Il piano funzionò perfettamente e mio figlio partì senza il minimo sospetto; Marceline e Marsh lo accompagnarono in macchina a Cape Girardeau, dove prese il treno del pomeriggio per St. Louis. Mia nuora e il mio ospite tornarono verso sera, e mentre McCabe guidava la macchina in garage li sentii chiacchierare sul terrazzo: si erano sistemati sulle stesse poltrone dove Marsh e Denis avevano parlato alcuni giorni prima, quando avevo ascoltato la loro conversazione. Parlavano del ritratto e io ero deciso a non farmi sfuggire una parola: andai in salotto e mi sistemai sul divano vicino alla grande finestra. «In un primo momento non sentii niente, ma presto ci fu il rumore di una sedia spostata e poi un sospiro improvviso, brevissimo, seguito da un'esclamazione dolorosa di Marceline. Finalmente colsi la voce di Marsh che parlava in tono formale ma con una punta di tensione. «"Mi piacerebbe lavorare stasera, se non sei troppo stanca." «Marceline rispose nello stesso tono offeso della battuta precedente. Continuava a parlare in inglese, come aveva fatto fino a quel momento. «"Oh, Frank, è solo a questo che pensi? Lavoro e sempre lavoro! Non possiamo goderci questa luna meravigliosa?" «Egli rispose con impazienza, e sotto l'entusiasmo artistico avvertii una nota di disprezzo. «"Luna meravigliosa! Buon Dio, che razza di sentimentalismo. Sei un'intellettuale e usi le più trite espressioni dei romanzi popolari! Hai l'arte davanti a te e pensi alla luna, che del resto è a buon mercato come le luci del varietà. Ma forse il motivo è un altro: il chiaro di luna ti fa pensare alle danze rituali intorno alle colonne di pietra di Auteiul... Al diavolo, quegli imbecilli ti guardavano con la bocca aperta! Ma no, immagino che di questo non ti occupi più; addio magia di Atlantide, addio riti della chioma di serpenti: non fanno al caso di madame de Russy! Io sono l'unico che ricorda le antiche creature... le creature che si materializzavano nei templi di Tanit e urlavano sui bastioni di Zimbabwe, ma non mi farò ingannare da questi sogni. Sto cercando di esprimerli nel mio quadro, ed è lì che smaschererò l'essere portentoso, racchiudendo in una sola figura i segreti di settantacinquemila anni..." «Marceline lo interruppe con una voce in cui si mescolavano emozioni contrastanti.
«"Sei tu che fai il romantico da quattro soldi, adesso. Sai benissimo che è meglio lasciare in pace gli Antichi. Voi tutti dovreste stare molto attenti se cantassi le vecchie preghiere o cercassi di evocare ciò che dorme a Yuggoth, Zimbabwe e R'lyeh. Ti facevo più prudente. «"Invece non hai un grammo di logica. Pretendi che mi interessi al tuo preziosissimo quadro e non mi fai neppure vedere quello che stai facendo. Sempre quel telo nero per coprirlo! È un mio ritratto, credo che non avrebbe nessuna importanza se lo vedessi..." «Stavolta fu Marsh a interromperla, con uno strano accento di durezza e tensione. «"No, non ora. Lo vedrai a suo tempo. Dici che è il tuo ritratto, ed è vero, ma c'è dell'altro. Se sapessi non saresti così impaziente. Povero Denis, che vergogna!" «Le parole del nostro ospite si erano quasi trasformate in un grido e provai una stretta alla gola. Cosa voleva dire Marsh? All'improvviso mi resi conto che si era interrotto e stava rientrando in casa, solo. Sentii la porta d'ingresso che sbatteva e i suoi passi su per le scale. Sulla terrazza Marceline respirava pesantemente, infuriata. Mi allontanai con la morte nel cuore, convinto che bisognava risolvere gravi problemi prima di permettere a Denis di tornare a casa. «Da quella sera in poi la tensione, in famiglia, fu ancora più intensa. Marceline viveva per i complimenti e l'adulazione, e le parole brutali di Marsh le avevano aperto una ferita che il suo temperamento non riusciva a sopportare. Vivere con lei s'era fatto impossibile, perché una volta partito il povero Denis non aveva più frenato la sua insolenza. Quando non trovava nessuno con cui litigare in casa si recava alla capanna di Sofonisba, e a volte parlava per ore con la vecchia zulù. Zia Sofia, come la chiamavamo per brevità, era la sola persona che perseverasse nell'abietta devozione per mia nuora, e una volta che cercai di ascoltare la loro conversazione sentii che Marceline sussurrava di "antichi segreti" e dello "sconosciuto Kadath", mentre la negra si cullava incessantemente sulla sedia a dondolo e ogni tanto dava in un verso inarticolato di devozione e ammirazione. «Ma niente poteva distruggere la servile infatuazione che Marceline provava per Marsh. A volte gli parlava con amarezza e risentimento, ma obbediva con sempre maggior rispetto ai suoi desideri. Per lui era una manna, poiché riusciva a farla posare tutte le volte che sentiva il desiderio di dipingere. L'artista tentava di mostrare una certa gratitudine per la buona volontà della modella, ma dietro la sua gentilezza mi parve di percepire
una sfumatura di disprezzo, persino di ripugnanza. Da parte mia, odiavo Marceline con tutto il cuore: in un momento come quello era inutile mascherare i miei sentimenti con espressioni più tenui e limitarmi a dire che non mi piaceva. Di una cosa ero contento: che Denis non fosse a casa. Le sue lettere, per quanto non frequenti come avrei desiderato, mostravano qualche segno di stanchezza e di preoccupazione. «Dopo la metà di agosto capii dai commenti di Marsh che il ritratto era quasi finito. Il pittore aveva un atteggiamento sempre più beffardo, mentre la prospettiva di vedere l'opera finita solleticava la vanità di Marceline e migliorava il suo umore. Un giorno Marsh annunciò che il quadro sarebbe stato pronto fra una settimana e ricordo che Marceline si illuminò tutta, benché non mi risparmiasse un'occhiata velenosa. Ebbi l'impressione che i capelli raccolti sulla nuca fremessero, stringendosi intorno alla sua testa. «"Devo essere la prima a vederlo!" saltò su. Poi, con un sorriso all'indirizzo di Marsh, aggiunse: "E se non mi piace lo farò a pezzi!". «Nel risponderle Marsh assunse un'espressione curiosissima. «"Non voglio influenzare il tuo gusto, Marceline, ma ti giuro che sarà magnifico! Non è per trarne credito, l'arte si giustifica da sé, ma era una cosa che andava fatta. Aspetta e vedrai." «Nei giorni seguenti provai un vivo senso di disagio, come se la fine del ritratto potesse scatenare una catastrofe invece che darci sollievo. Denis non mi aveva più scritto e il mio agente a New York mi fece sapere che stava pensando di rientrare. Mi chiesi come sarebbe andata a finire, e certo gli elementi in gioco erano contrastanti: Marsh e Marceline, Denis e io... Quali reazioni avremmo innescato l'uno verso l'altro? Quando le mie paure si facevano opprimenti cercavo di attribuirle alla malattia di cui soffrivo, ma questa spiegazione non mi ha mai soddisfatto completamente.» 4 La faccenda esplose un giovedì, il 26 di agosto. Mi ero svegliato alla solita ora e avevo fatto colazione, ma non stavo bene a causa del mal di schiena. Ultimamente mi aveva dato i tormenti e quando diventava insopportabile dovevo ricorrere agli oppiacei; a pianterreno non c'era nessuno tranne i domestici, benché sentissi Marceline che si muoveva nella sua stanza. Marsh dormiva nell'attico, vicino allo studio in cui lavorava, e ultimamente aveva preso l'abitudine di fare così tardi che non lo si vedeva quasi mai prima di mezzogiorno. Verso le dieci il dolore si fece fortissimo
e dovetti prendere una doppia dose del mio calmante, dopodiché mi sdraiai sul divano in salotto. L'ultima cosa che sentii prima di addormentarmi fu Marceline che passeggiava al piano di sopra. Povera disgraziata, se solo avessi saputo! Probabilmente passeggiava davanti allo specchio e si ammirava, era tipico di lei. Vanitosa da capo a piedi, abituata a godere della sua stessa bellezza come dei piccoli lussi che Denis poteva concederle. «Mi svegliai che era quasi il tramonto, e le lunghe ombre che scivolavano intorno alla finestra rischiarata dalla luce d'oro mi dissero che avevo dormito molto. Sembrava che in casa non ci fosse nessuno e su tutto regnava un silenzio innaturale. Solo in lontananza mi parve di sentire qualcuno che si lamentava, disperatamente e interrompendosi ogni tanto, con un tono che aveva qualcosa di familiare ma che non riuscivo a identificare. Non credo alla premonizione, ma fin dal momento in cui aprii gli occhi provai un senso di disagio che si può ben definire paura. Avevo sognato, e i sogni erano stati anche più inquietanti di quelli che avevo avuto nelle settimane precedenti: questa volta era diverso, sembravano misteriosamente collegati a una realtà nera e ripugnante. Intorno a me aleggiava un'aria ammorbante, e in seguito riflettei che durante il sonno i rumori del mondo esterno dovevano essersi infiltrati nella mia mente drogata. Per fortuna il dolore era quasi scomparso e potei alzarmi e camminare senza difficoltà. «Mi resi subito conto che qualcosa non andava. Probabilmente Marsh e Marceline erano fuori a cavallo, ma almeno in cucina avrebbe dovuto esserci qualcuno che preparasse il pranzo. Invece, tutto era silenzio a parte il pianto o lamento lontano, e quando tirai il cordone del campanello per chiamare Scipione non rispose nessuno. Poi, dando un'occhiata verso l'alto, mi accorsi della macchia che si allargava sul soffitto: la vivida macchia rossa che filtrava dal pavimento della stanza di Marceline. «In un attimo dimenticai la schiena indolenzita e mi precipitai al piano di sopra, pronto al peggio. Mentre lottavo con la porta gonfia d'umidità della camera silenziosa, tutte le ipotesi plausibili sfrecciarono nella mia mente; ma la cosa più orribile era la sensazione che fossimo giunti a uno scioglimento inevitabile e che tutto, in qualche modo, fosse fatalmente preordinato. Da troppo tempo sapevo che si preparava qualcosa di orrendo, che un maleficio profondo e universale si era abbattuto sulla mia casa e che il risultato poteva essere solo sangue e tragedia. «Finalmente la porta cedette ed entrai barcollando nella stanza di Marceline, ombreggiata dai rami dei grandi alberi che sfioravano la finestra. Per un attimo fui respinto dall'odore debole ma tremendo che immediatamente
mi arrivò alle narici; poi, accesa la luce elettrica, diedi un'occhiata intorno e vidi l'orrore sul tappeto giallo e azzurro. «Giaceva con la faccia riversa in una gran pozza di sangue scuro e raggrumato, e in mezzo alla schiena nuda spiccava l'impronta sanguinosa di un piede calzato. C'era sangue dappertutto: sulle pareti, i mobili e il pavimento. A quella vista le ginocchia mi tremarono, presi una sedia e riposai un attimo. Il cadavere rivoltante era stato un essere umano, benché sulle prime non fosse facile capirlo: completamente nudo, aveva i capelli strappati dalla testa in modo feroce. Si trattava di una chioma corvina, e mi resi conto che doveva essere quella di Marceline. L'impronta di scarpa sulla schiena rendeva la scena ancora più orrenda: non riuscivo a immaginare l'allucinante tragedia che si era svolta in quella stanza mentre io dormivo al piano di sotto. Quando alzai una mano per asciugarmi il sudore dalla fronte mi accorsi che le dita erano appiccicose di sangue: tremando mi resi conto che veniva probabilmente dalla maniglia della porta, chiusa dall'assassino quando se ne era andato. Sembrava che avesse portato la sua arma con sé, perché accanto al cadavere non c'era nessuno strumento di morte. «Osservando il pavimento vidi una scia di impronte sanguinose come quella lasciata sul cadavere, e che si allontanavano dalla scena del massacro dirigendosi alla porta. Un'altra striscia di sangue era meno facilmente spiegabile: si trattava di una linea continua, piuttosto ampia, come quella che potrebbe lasciare il passaggio d'un grosso serpente. In un primo momento conclusi che doveva trattarsi di qualcosa che l'assassino aveva trascinato con sé; poi, notando che alcune impronte sembravano impresse su di essa, dovetti convincermi che c'era già quando l'assassino si era allontanato. Ma quale essere strisciante si trovava nella stanza con l'assassino e la sua vittima? In che modo aveva potuto allontanarsi prima dell'omicida, e appena il delitto era stato compiuto? Non avevo finito di pormi queste domande che di nuovo riecheggiò il lamento in lontananza. «Finalmente riuscii a scuotermi dall'orrore e mi alzai, cercando di seguire le impronte. Non riuscivo a immaginare chi fosse l'assassino e l'assenza dei domestici era inspiegabile. Pensai che avrei dovuto recarmi nell'appartamento di Marsh, al piano di sopra, e non avevo finito di formulare il mio proposito che la traccia di sangue mi guidò in quella direzione. Era lui l'assassino? Era impazzito per la tensione che gli procurava l'assurda situazione con Marceline? «Nel corridoio dell'attico la traccia diventava più debole e le impronte scomparivano, o meglio si confondevano con il tappeto scuro. Tuttavia po-
tevo ancora distinguere il percorso dell'entità che era entrata per prima, da sola: dirigeva verso la porta chiusa dello studio di Marsh e spariva sotto di essa, esattamente al centro. Questo dimostrava che vi era entrata in un momento in cui la porta era aperta. «Sconvolto, tentai la maniglia e scoprii che la stanza non era chiusa a chiave. Aprii e mi fermai nella luce sempre più debole del lato nord della casa, pronto a nuovi terrori. Sul pavimento c'era senz'altro qualcosa di umano, e allungai la mano verso l'interruttore del lampadario. «Quando la luce elettrica illuminò l'ambiente fui costretto a distogliere lo sguardo dall'orrore che vi stava rannicchiato: era Marsh, povero diavolo. Incredulo spostai gli occhi sull'essere vivente che mi fissava dalla porta della camera da letto del pittore. Era scarmigliato, con occhi da folle, incrostato di sangue secco; impugnava un terribile machete, un oggetto ornamentale che tenevamo appeso alla parete dello studio. Persino in quel momento spaventoso, e nonostante che lo facessi lontano mille miglia, riconobbi l'assassino: era il mio ragazzo, Denis, o meglio il folle relitto di quello che un giorno era stato Denis. «Vedendomi il disgraziato sembrò riacquistare un barlume di lucidità mentale, o almeno di memoria. Si mise in piedi e cominciò a scuotere la testa, come se volesse liberarsi da un giogo che lo condizionava. Non riuscii a dire una parola, ma mossi le labbra nello sforzo di ritrovare la voce. Per un attimo i miei occhi tornarono al corpo accartocciato sul pavimento di fronte al cavalletto coperto: il corpo verso cui conduceva la traccia rossa e che sembrava stretto fra le spire di qualcosa di scuro, forse una corda. Mio figlio si accorse che guardavo il cadavere e questo produsse un effetto imprevisto su di lui; cominciò a borbottare qualcosa con un filo di voce, e dopo le prime battute riuscii a seguire quello che diceva. «"Ho dovuto distruggerla perché era il diavolo... La grande sacerdotessa, il culmine di tutti i mali... La figlia dell'abisso, come Marsh ben sapeva. Aveva cercato di avvertirmi, povero vecchio Frank... No, non l'ho ucciso io, anche se ero pronto a farlo, prima di rendermi conto di come stavano le cose. Invece sono andato di sotto e ho ammazzato lei. Poi quei maledetti capelli..." «Ascoltavo in preda all'orrore; Denis tossì, fece una pausa e riprese: «"Tu non potevi sapere, ma le sue lettere si facevano sempre più strane e ho capito che era innamorata di Marsh. Poi smise di scrivermi, mentre lui non ne parlava affatto. Ho capito che qualcosa non andava e ho pensato di tornare indietro per scoprire la verità. Non potevo dirtelo, ti saresti tradito.
Io dovevo sorprenderli. Sono arrivato a mezzogiorno, con un taxi, e subito ho mandato via la servitù; dei braccianti non mi sono preoccupato, tanto le loro capanne sono lontane. Ho detto a McCabe di comprarmi certe cose a Cape Girardeau e di non tornare fino a domani. Ho convinto i negri a prendere la macchina vecchia e ho detto a Mary di portarli a Bend Village per una gita; ho inventato che andavamo fuori anche noi e che non avremmo avuto bisogno d'aiuto. Li ho consigliati di dormire dalla cugina di zio Scipione, quella che tiene la locanda per i negri." «I discorsi di Denis erano sempre più incoerenti e tesi le orecchie per afferrare le parole. Mi parve di sentire ancora il terribile lamento in distanza, ma per il momento la cosa più importante era il racconto di mio figlio. «"Ho visto che dormivi in salotto e mi sono augurato che non ti svegliassi. Poi sono andato di sopra, in silenzio, per sorprendere Marsh e quella donna!" «Il ragazzo rabbrividì, perché non osava pronunciare il nome di Marceline. Quando il lamento lontano si ripeté, i suoi occhi si dilatarono simultaneamente: c'era qualcosa di familiare, in quel verso, e la sensazione si faceva sempre più forte. «"Lei non era in camera sua, così sono andato nello studio. La porta era chiusa, ma dentro ho sentito le loro voci. Non ho bussato, mi sono precipitato nello studio di Marsh e l'ho trovata che posava per il quadro. Nuda, con i maledetti capelli che l'avviluppavano e tutta tenera verso il suo pittore. Il cavalletto era girato quasi completamente dall'altra parte, per cui non sono riuscito a vedere il ritratto, ma quando loro hanno visto me sono impalliditi e Marsh ha fatto cadere il pennello. Ero furioso e gli ho detto che doveva mostrarmi il quadro, ma in lui stava tornando la calma. Ha risposto che non era finito e che mancavano uno o due giorni. Io... l'avrei visto allora. Nemmeno lei l'aveva visto ancora. «"Non mi sono lasciato convincere. Ho fatto un passo verso di lui e Marsh ha coperto la tela con un drappo di velluto, per non farmela vedere. Era pronto a battersi piuttosto che permettermelo, ma quella... lei... Si è fatta avanti e ha preso le mie parti. Ha detto che dovevamo vedere il quadro. Frank era eccitatissimo e quando ho cercato di strappare il drappo mi ha dato un pugno. Io gliene ho dato un altro e ho creduto di averlo sistemato. Poi, per poco non sono svenuto anch'io alle urla di quella... creatura. Aveva scoperto il quadro e aveva visto il dipinto di Marsh. Mi sono girato di scatto, ma ormai stava correndo come una pazza fuori della stanza... E finalmente anch'io ho visto il ritratto."
«A questo punto gli occhi del ragazzo lampeggiarono di nuovo, e per un attimo pensai che volesse avventarsi su di me con il machete, ma dopo un breve silenzio si riprese almeno in parte. «"Dio, quell'immagine! Non guardarla mai. Tienila coperta con il drappo e bruciala, poi butta le ceneri nel fiume. Marsh sapeva e voleva avvertirmi. Sapeva cos'era... qual era veramente la natura di quella donna, o pantera, o gorgone, o lamia, comunque tu voglia chiamarla. Frank aveva cercato di mettermi in guardia fin da quando l'avevo incontrata nel suo studio parigino, ma le parole non bastavano. Io pensavo che fossero calunnie, non credevo alle voci orribili che circolavano sul suo conto... Mi aveva soggiogato a tal punto che non riuscivo a vedere la verità... Ma il quadro ha catturato i suoi segreti e li ha rappresentati sullo sfondo adatto. Uno sfondo mostruoso... «"Frank è un grande artista e quella tela è il più grande capolavoro dell'umanità dai tempi di Rembrandt! È un crimine distruggerlo, ma sarebbe un crimine più grande permettergli di esistere... Proprio come sarebbe stato peccato mortale permettere a quella... diavolessa di vivere ancora. Appena ho visto il quadro ho capito ciò che era e il suo ruolo nei tremendi segreti che si tramandano dai giorni di Cthulhu e dei Grandi Antichi... Segreti che furono quasi cancellati dalla terra quanto Atlantide sprofondò tra le onde, ma che continuano a serpeggiare in certe tradizioni nascoste, in certi miti e riti esclusivi che si celebrano nel cuore della notte. Vedi, non era una ciarlatana: sarei stato contento che lo fosse, invece era proprio quello che diceva. Era l'antica, orribile ombra a cui i filosofi non hanno mai osato dare un nome... l'essere di cui il Necronomicon fa solo cenno, ed è simboleggiato dai colossi dell'isola di Pasqua. «"Pensava che nessuno di noi riuscisse a vedere la verità, che la facciata posticcia avrebbe retto finché tutti avessimo perso la nostra anima immortale. In un certo senso aveva ragione, alla fine mi avrebbe preso; si limitava ad aspettare. Invece Frank, il povero Frank... Oh, è stato troppo per me. Lui sapeva tutto e l'ha rappresentata. Non mi stupisce che quando lei ha visto il quadro si sia messa a urlare: non era finito, ma Dio sa se c'era abbastanza. «"Allora ho capito che dovevo ucciderla; eliminare lei e tutto ciò che aveva a che fare con lei. Era una macchia che la vita normale non poteva tollerare, e c'era qualcos'altro... ma ti verrà risparmiato se brucerai il quadro senza guardarlo. Ho staccato il machete dal muro e sono andato di sotto, lasciando Frank ancora stordito. Mi ero accorto che respirava e ho rin-
graziato il cielo di non averlo ammazzato. «"L'ho trovata in camera sua, di fronte allo specchio, che raccogliava i maledetti capelli. Si è rivoltata come una bestia feroce, ha cominciato a vomitare il suo odio per Marsh. Il fatto che lo amasse, e io sapevo che era così, rendeva le cose ancora peggiori. Per un attimo non sono riuscito a muovermi e c'è mancato poco che mi affascinasse: poi ho pensato al quadro e l'incantesimo si è rotto. Se n'è accorta dalla mia espressione e deve aver visto il machete... Non ho mai visto nulla di più simile a una belva della giungla: è balzata verso di me con le unghie in fuori come una tigre, ma io sono stato più svelto. Ho alzato il machete ed è finita. " «Denis fu costretto a interrompersi e vidi il sudore che gli bagnava la fronte insieme al sangue. Tuttavia, riprese un attimo dopo: «"Ho detto che era tutto finito, ma in realtà una parte dell'incubo era appena cominciata. Sentivo di aver combattuto contro le legioni di Satana e ho schiacciato col piede la cosa che avevo ucciso. Ma in quel momento la mostruosa treccia di capelli neri ha cominciato ad agitarsi e contorcersi per conto proprio. «"Avrei dovuto saperlo, i vecchi racconti dicono tutto. Quei capelli maledetti hanno una vita autonoma e non basta uccidere la creatura che li porta. Sapevo che avrei dovuto bruciarli, così ho cercato di staccarli con il machete. È stato un lavoro del diavolo, erano resistenti come il ferro, ma alla fine ce l'ho fatta. Il modo in cui la treccia si contorceva e si dibatteva fra le mie mani era disgustoso. «"Avevo quasi reciso lo scalpo quando ho sentito un terribile lamento sul retro della casa. Sai a che cosa mi riferisco, ogni tanto riecheggia ancora. Non so cosa sia, ma ha senz'altro a che fare con questa maledetta faccenda. A volte mi dico che dovrei riconoscerlo, eppure non riesco a vederci chiaro. La prima volta mi ha scosso i nervi e nella paura ho fatto cadere la treccia. Ma mi aspettava uno spavento ancora più grande, perché in un attimo la treccia si è avventata su di me, colpendomi ferocemente con un'estremità che somigliava a una testa grottesca. L'ho colpita con il machete e si è allontanata, ma mentre riprendevo fiato ho visto che si muoveva come un grosso serpente nero. Per alcuni secondi sono rimasto paralizzato, ma quando quella cosa mostruosa è uscita dalla porta ho raccolto il coraggio e sono riuscito a inseguirla, barcollando. Ho seguito la lunga traccia sanguinosa e ho visto che portava di sopra. Sono arrivato fin qui, e il cielo mi maledica se non l'ho vista avventarsi sul povero Marsh come un serpente a sonagli inferocito, proprio come si era avventata su di
me, e stringerlo nelle sue spire come un pitone. Marsh aveva cominciato a riprendersi, ma la serpe è riuscita a immobilizzarlo prima che potesse mettersi in piedi. Sapevo che in lei c'era tutto l'odio di quella donna e io non avevo il potere di soffocarla. Ci ho provato, ma era troppo forte per me. Anche il machete non serviva a niente, non potevo usarlo con la dovuta energia per paura di fare del male a Frank. E così ho visto quelle spire mostruose che stringevano... Ho visto Frank schiacciato davanti ai miei occhi, e nel frattempo da un punto imprecisato nei campi continuava a salire l'orribile lamento. «"Questo è tutto. Ho rimesso il drappo di velluto sul quadro e spero che nessuno lo alzerà più. Bisogna bruciarlo. Non sono riuscito ad allentare le spire che stringono il corpo del povero Frank: gli stanno attaccate come una sanguisuga e ormai non si muovono. È come se la serpe provasse un affetto perverso per l'uomo che ha stritolato: gli sta aggrappata, se lo abbraccia. Dovrai bruciare anche il povero Frank insieme a lei, ma per l'amor di Dio assicurati che sia ridotto in cenere. E anche il quadro, devi distruggerli entrambi. Ne va della salvezza del mondo." «Denis avrebbe continuato a parlare, ma i lamenti che venivano da lontano ci interruppero. Finalmente capimmo di che si trattava, perché una folata di vento portò alcune inconfondibili parole. Avremmo potuto arrivarci anche prima, visto che litanie del genere si erano già sentite in passato e nello stesso punto. Era la vecchia Sofonisba, la strega zulù che si era affezionata a Marceline e che urlava disperatamente nella sua capanna, come a coronare l'orribile tragedia. Una parte di ciò che gridava riuscivamo a capirlo, e intuimmo che un oscuro e primitivo legame univa la selvaggia a quell'altra erede di misteri scomparsi, la donna che mio figlio aveva appena ucciso. Le parole della strega tradivano la sua familiarità con tradizioni demoniache antichissime. «"Iä! Iä! Shub-Niggurath! Ya-R'lyeh! N'gagi n'bulu bwana n'lolo! Ah, ah, povera missy Tank, povera missy Iside! Padron Clulu, sorgi dalle acque e difendi i tuoi figli... Lei morta! Lei morta! I capelli sono senza signora, padron Clulu. La vecchia Sofia lo sa, la vecchia Sofia ha visto la pietra nera che viene da Zimbabwe, nell'antica Africa. Sofia ha ballato al chiaro di luna intorno alla pietra del coccodrillo di N'bangus, ma poi l'hanno presa e venduta alla gente delle navi! Tanit non c'è più e nemmeno Iside... Non più signora della medicina che tiene acceso il fuoco nella grande casa di pietra! Ah, oh! N'gagi n'bulu bwana n'iolo! Iä! Shub-Niggurath! La vecchia Sofia sa tutto!"
«Il lamento non finì qui, ma non riuscii a prestarvi più attenzione. L'espressione sul viso di mio figlio dimostrava che quelle parole sconnesse gli avevano ricordato qualcosa di spaventoso e le dita contratte sul machete non facevano presagire niente di buono. Sapevo che era disperato e balzai verso di lui per disarmarlo, ammesso che fosse possibile. «Ma era troppo tardi, e un vecchio con la schiena a pezzi non vale gran che come avversario. La lotta fu terribile, ma nel giro di pochi secondi Denis si era tolto la vita. Non sono certo che non tentasse di uccidere anche me, perché le sue ultime parole, negli spasimi dell'agonia, furono che bisognava distruggere chiunque fosse stato in contatto con Marceline, o per legami di sangue o per matrimonio.» 5 «Ancora oggi mi stupisco di non essere impazzito in quel momento, o nelle ore terribili che seguirono. Davanti a me c'era il cadavere di mio figlio, l'unico affetto della mia vita, e a nemmeno quattro metri di distanza, ai piedi del cavalletto coperto, giaceva il suo migliore amico. Un'orrenda massa nera avviluppava il suo corpo, e al piano di sotto c'era il cadavere calvo di un mostro sul conto del quale ero pronto a credere qualsiasi cosa. Ero troppo sconvolto per giudicare razionalmente la storia dei capelli, e anche se non lo fossi stato le urla terribili di zia Sofia sarebbero bastate a risolvere ogni dubbio. «Avrei dovuto fare proprio come il povero Denis mi suggeriva: bruciare il quadro e la treccia che stringeva il corpo di Frank senza perdere tempo; ma ero troppo scosso per seguire quei buoni consigli. Credo di essermi fermato accanto al corpo del mio ragazzo e di aver detto un sacco di sciocchezze, ma poi ricordai che era quasi notte e che la mattina dopo sarebbe tornata la servitù. Era evidente che una tragedia come quella non si poteva spiegare, sapevo che avrei dovuto inventare una storia. «La treccia intorno al cadavere di Marsh era una cosa terribile. La toccai con la punta di una spada che avevo preso dal muro ed ebbi la sensazione che la stretta intorno al morto aumentasse. Non osavo toccarla, e guardandola notai una serie di particolari terrbili. Una cosa, in particolare, mi fece trasalire: non dirò di che si tratta, ma spiegava almeno in parte il bisogno di nutrire i capelli con gli strani unguenti che usava Marceline. Finalmente decisi di seppellire i tre cadaveri in cantina e di coprirli con la calce che avevamo in magazzino. Fu una notte di lavoro infernale. Scavai tre tombe,
quella di mio figlio lontana dalle altre due perché non volevo che fosse vicino al corpo della donna e neppure ai capelli. Mi dispiacque di non poter liberare Marsh dall'abbraccio dell'orribile serpe, ma portarli tutti e tre in cantina fu già un'impresa estenuante. Per facilitarmi il compito avvolsi la donna e il povero Frank in due coperte, che trascinai giù un poco alla volta. Fatto questo andai nel magazzino a prendere la calce. La forza deve avermela data il Signore, perché non solo riuscii a trasportarne due barili in cantina, ma riempii le tre tombe senza perder tempo. «Diluii una parte della calce e me ne servii per imbiancare il soffitto macchiato di sangue, operazione per cui dovetti adoperare una scala. Bruciai quasi tutto ciò che si trovava nella stanza di Marceline, strofinai le pareti, il pavimento e la pesante mobilia. Lavai anche lo studio di Marsh, eliminando la traccia di sangue e le impronte che portavano lassù. La vecchia Sofonisba continuava a lamentarsi nella sua capanna con un'energia che solo il diavolo poteva darle. D'altra parte lo aveva sempre fatto, e per questo i negri della piantagione non si allarmarono in modo particolare. Chiusi la porta dello studio e portai la chiave nella mia stanza, poi bruciai nel camino i miei vestiti macchiati di sangue. All'alba la casa aveva un aspetto quasi normale, almeno per un osservatore casuale. Non avevo toccato il cavalletto coperto dal drappo di velluto, ma a questo avrei pensato dopo. «Quando arrivò la servitù dissi che i tre ragazzi erano andati a St. Louis; nessuno dei braccianti aveva visto o sentito niente e i lamenti della vecchia Sofonisba si erano interrotti al sorgere del sole. Per quanto la riguardava rimase muta come una sfinge, e non lasciò trapelare una parola di ciò che ribolliva nel suo cervello di strega. «In seguito dissi che Denis, Marsh e Marceline erano andati a Parigi e incaricai una discreta agenzia di spedirmi lettere da laggiù: lettere che io stesso avevo scritto, alterando la mia grafia. Dovetti mentire e trincerarmi nella reticenza persino con gli amici, e ora so che la gente mi sospetta di aver nascosto qualcosa. Durante la guerra feci in modo che si venisse a sapere della morte di Marsh e Denis, e in seguito dissi che Marceline si era ritirata in convento. Per fortuna Marsh era orfano e i suoi modi eccentrici gli avevano alienato le simpatie dei parenti in Louisiana. Se avessi avuto il buon senso di bruciare il quadro, vendere la piantagione e rinunciare alla mia vita qui, che oltre tutto mi aveva stancato e disgustato, tutto sarebbe andato molto meglio. Può vedere da sé a cosa mi ha portato la mia ostinatezza. Raccolti sempre meno abbondanti, braccianti licenziati uno a uno, la
casa che cade a pezzi e io stesso ridotto a un eremita su cui la gente delle campagne si diverte a costruire favole. Non troverà nessuno disposto a venire qui dopo il tramonto, né a nessun'altra ora. Non c'è voluto molto a capire che lei fosse uno straniero. «Perché rimango qui? Non glielo so dire: mi sento legato a qualcosa di insano, di irreale; forse non sarebbe andata così se non avessi guardato il quadro. Avrei dovuto fare come aveva detto il povero Denis, e giuro che la mia intenzione era quella, ma una settimana dopo la tragedia andai nello studio chiuso a chiave e scoprii la tela... Questo, naturalmente, ha cambiato tutto. «No, è inutile che le dica ciò che vidi. In un certo senso può constatare da sé, anche se il tempo e l'umidità hanno danneggiato i colori e la tela. Non credo che dargli un'occhiata le farà del male... per me era diverso, io sapevo esattamente che cosa significava. «Denis aveva ragione, era il più grande capolavoro della pittura dai tempi di Rembrandt, anche se non era ancora finito. Me ne resi conto immediatamente: il povero Marsh era riuscito a esprimere appieno la sua filosofia decadente. È stato nell'arte quello che Baudelaire fu nella poesia, e Marceline è la chiave che ha permesso al suo genio di esprimersi. «Quando tolsi il drappo il quadro mi colpì immediatamente, o forse dovrei dire che mi stordì. In un primo momento rimasi disorientato, perché non era soltanto un ritratto. Marsh era stato sincero quando aveva detto che non intendeva dipingere solo Marceline, ma ciò che vedeva in lei e oltre di lei. Naturalmente la sua figura c'era, e in un certo senso formava la chiave di volta del dipinto, ma era solo un elemento di una composizione più vasta. Era nuda, a parte l'orrenda ragnatela dei capelli che l'avvolgevano; se ne stava un po' seduta, un po' abbandonata su una specie di panca o divano i cui fregi erano estranei a qualsiasi tradizione conosciuta. In mano teneva una coppa dalla forma mostruosa da cui traboccava un liquido di un colore mai visto, e che ancora oggi non sono riuscito a identificare. Non riesco a immaginare dove Marsh si fosse procurato il pigmento. «La donna e il divano si trovavano in primo piano, sulla sinistra della scena più fantastica che abbia visto in vita mia. Qualcosa faceva pensare che la visione fosse un'emanazione della mente di Marceline, ma altri elementi lasciavano supporre esattamente il contrario: che lei fosse un'immagine malefica o un'allucinazione evocata dallo sfondo. «Non so dirle nemmeno se fosse un interno o una scena all'aperto, se quelle volte gigantesche fossero viste da dentro o da fuori; non so se erano
di pietra o piuttosto orribili escrescenze fungoidi: la geometria di quegli edifici è folle, angoli acuti e ottusi si mescolano a piacere. «E le forme d'incubo che fluttuano in quell'eterno crepuscolo dei demoni! I mostri che strisciano, ghignano, celebrano il sabba di cui la donna è senz'altro la gran sacerdotessa... Gli animali neri e pelosi che non sono esattamente capri, la belva con la testa di coccodrillo, tre zampe e una fila di tentacoli sul dorso... Gli egipani dal naso camuso che eseguono una danza maledetta già dai sacerdoti dell'antico Egitto! «Ma la scena non rappresentava l'Egitto, era più antica: persino più antica di Atlantide, della favolosa Mu e di Lemuria, il continente leggendario. Era la sorgente di tutti gli orrori del mondo, ed era fin troppo evidente che Marceline ne era parte integrante. Penso che quel luogo fosse l'immemorabile città di R'lyeh, non costruita da creature del nostro pianeta... il segreto di cui Marsh e Denis parlavano a volte a bassa voce. C'è qualcosa nel quadro che fa pensare a una scena subacquea, benché tutte le creature respirino normalmente. «Bene, non potei far altro che guardarlo e rabbrividire, perché Marceline mi fissava malignamente con gli occhi mostruosi e dilatati che le aveva dato il pittore. Non era soltanto un'impressione, Marsh aveva colto una parte della sua orribile vitalità e l'aveva trasferita nei suoi tratti e nei suoi colori: lei guardava, pensava, odiava come se non fosse seppellita in cantina sotto la calce. Ma la cosa peggiore fu quando i capelli simili a serpenti, quell'orribile chioma degna di Ecate si staccò dalla superficie del quadro e avanzò verso di me! «Fu allora che conobbi l'orrore finale e mi resi conto di essere non solo un custode, ma anche un prigioniero. Quello era l'essere da cui avevano tratto origine le antiche leggende di Medusa e delle gorgoni; la mia volontà, già scossa, era stata catturata e trasformata definitivamente in pietra. Non sarei mai stato al sicuro dai capelli simili a serpenti, quelli che si agitavano nel quadro e quelli che avevo seppellito sotto la calce vicino alle botti di vino. Troppo tardi ricordai le storie che avevo udito sui capelli dei morti: sono virtualmente indistruttibili, anche per secoli. «Da allora la mia vita non è stata che orrore e schiavitù, e la paura di ciò che si nascondeva in cantina cominciò presto a diffondersi. In capo a un mese i negri raccontavano storie misteriose sul serpente nero che strisciava intorno alle botti dopo il tramonto: qualunque cosa fosse, dopo un po' sembrava dirigersi verso un punto che distava circa tre metri dal deposito del vino. Alla lunga dovetti spostare le botti in un'altra parte della cantina,
perché non c'era un sol negro disposto ad avvicinarsi al punto dove appariva il serpente. «Poi i braccianti cominciarono a parlare del rettile scuro che ogni notte si avvicinava alla capanna di Sofonisba, dopo la mezzanotte. Uno di essi mi mostrò le tracce della creatura, e non molto tempo dopo scoprii che zia Sofia aveva preso l'abitudine di visitare le cantine di casa mia, borbottando per ore nel punto al quale nessuno degli altri negri osava avvicinarsi. Fui contento quando la vecchia strega morì; credo fermamente che fosse la sacerdotessa di un antico e terribile culto dell'Africa e deve aver avuto quasi centocinquant'anni. «A volte ho l'impressione di sentire qualcosa che si aggira per casa, di notte. Un rumore sulle scale, dove le assi sono sconnesse, o magari una leggera pressione contro la porta della mia stanza, in modo che il lucchetto cigoli. Dormo sempre con la porta chiusa, è ovvio. A volte, al mattino, avverto nel corridoio un malsano odore di muffa e mi accorgo che sulla polvere del pavimento è apparsa una traccia che sembra lasciata da una corda. So che devo far la guardia ai capelli raffigurati nel quadro, perché se dovesse andare distrutto le entità che si nascondono in questa casa scatenerebbero una terribile vendetta. Non oso cercare scampo nella morte, perché vita e morte sono la stessa cosa per chi è dominato dagli esseri di R'lyeh. Sono certo che qualcuno o qualcosa punirebbe la mia negligenza. Le spire di Medusa si sono impadronite di me, e così sarà per sempre. Non cerchi mai di immischiarsi nell'occulto e nei supremi orrori dell'esistenza, giovanotto, se tiene alla sua anima immortale.» 6 Quando il vecchio finì il racconto mi accorsi che la piccola lampada si era prosciugata e la più grande era quasi vuota. Doveva essere quasi l'alba ed ebbi l'impressione che il temporale fosse passato. Il racconto mi aveva assorto e stupito, e quasi temevo di guardare la porta nel timore che una forza innominabile la spingesse dall'esterno. Era difficile stabilire quale fosse il mio sentimento predominante: orrore puro e semplice, incredulità o una sorta di morbosa e fantastica curiosità. Non riuscivo a parlare e dovetti aspettare che fosse il mio ospite a rompere l'incantesimo. «Vuole vedere... il quadro?» Parlava con voce bassa ed esitante e mi resi conto che era in preda a un'ansia terribile. La curiosità ebbe la meglio sulle altre emozioni e annuii.
Il mio ospite si alzò, accese una candela che era sul tavolo accanto e aprì la porta, tenendo la fiamma davanti a lui. «Venga con me, è di sopra.» Non era piacevole attraversare di nuovo quei corridoi polverosi, ma i miei scrupoli furono vinti dal fascino del mistero. Le tavole scricchiolavano sotto i nostri piedi e una volta fui scosso da un brivido, perché nella polvere ai piedi della scala mi era parso di vedere la traccia di qualcosa che somigliava a una corda. I gradini che portavano verso l'attico erano incerti e rumorosi, e mancavano parecchie assi. In un certo senso fui lieto di dover badare a dove mettevo i piedi, perché questo mi evitava di guardarmi intorno. Il corridoio dell'ultimo piano era immerso in un buio impenetrabile, in un tappeto di polvere spesso qualche centimetro e festonato di ragnatele; c'era solo un tratto relativamente sgombero, ed era quello che conduceva a una porta in fondo al corridoio, sulla sinistra. Notai un tappeto quasi marcito che un tempo doveva essere stato folto, e pensai ai piedi che l'avevano calpestato in anni ormai lontani... ma anche alla cosa che non aveva piedi. Il vecchio mi fece strada verso la porta sul fondo e armeggiò per qualche secondo con il chiavistello arrugginito. A pochi passi dal quadro mi sentii invadere da un profondo senso di terrore, ma ormai non osavo ritirarmi. Ancora un attimo e il mio ospite mi fece entrare nello studio abbandonato. La luce proiettata dalla candela era debole, ma bastava a illuminare gli elementi fondamentali dell'ambiente. Notai il soffitto basso e inclinato, l'imponente abbaino ingrandito, le curiosità e i trofei appesi alle pareti e soprattutto il gran cavalletto che occupava il centro della stanza, coperto da un drappo. De Russy si diresse verso il quadro, tolse la copertura e mi fece segno di avvicinarmi. Dovetti chiamare a raccolta tutto il mio coraggio per obbedirgli, anche perché mi ero accorto che alla vista del quadro scoperto la mia guida aveva sbarrato gli occhi. Ma ancora una volta la curiosità ebbe la meglio e girai intorno al quadro, mettendomi nella stessa posizione di de Russy. Allora, alla luce tremolante della candela, vidi quella cosa maledetta. Non svenni, anche se nessun lettore potrà immaginare lo sforzo che feci per evitarlo. Urlai, ma mi interruppi quando vidi lo sguardo terrorizzato del vecchio. Come avevo temuto la tela era incrostata e distorta dall'umidità e dall'abbandono, ma questo non toglieva nulla alla mostruosa ricostruzione d'una scena di puro orrore cosmico, la cui atmosfera diabolica era suggerita tanto dal soggetto che dalle sue perverse geometrie.
Era proprio come aveva detto il vecchio, un inferno di volte e colonne fra le quali si celebravano sabba e messe nere; non riuscivo assolutamente a immaginare cosa il pittore avrebbe potuto aggiungervi se avesse avuto il tempo di finirlo. La rovina non aveva fatto che aumentare l'orrore del suo malvagio simbolismo e delle cose terribili che la scena evocava; e le parti più colpite dal passare del tempo corrispondevano esattamente a quelle che in natura (o meglio, nella parodia della natura che trionfava in quel mondo extra-cosmico) vanno incontro davvero a corruzione e disintegrazione. Ovviamente l'orrore più grande era Marceline, e quando vidi la figura gonfia e cadaverica immaginai che la creatura dipinta sulla tela avesse un occulto legame con il corpo che il vecchio aveva sepolto in cantina, sotto la calce. Forse proprio la calce aveva conservato il cadavere invece di distruggerlo... ma come avrebbe potuto conservare gli occhi neri e maligni che mi fissavano e si facevano beffa di me da quell'inferno dipinto? C'era un altro particolare che non potei fare a meno di notare: qualcosa che riguardava la donna del quadro e che de Russy non era riuscito a esprimere a parole, ma che spiegava il desiderio di Denis di uccidere chiunque fosse stato a contatto con lei. Impossibile dire se Marsh se ne fosse reso conto o il suo genio avesse colto anche quell'aspetto inconsciamente; certo Denis e suo padre non se n'erano accorti fino a quando avevano visto il quadro. Si trattava dei capelli neri, l'orrore più grande: i capelli che coprivano il corpo in decomposizione ma che non sembravano assolutamente toccati dalla corruzione. Tutto quello che avevo sentito sul loro conto era provato. Non aveva nulla di umano quella cascata oleosa, sinuosa, appena increspata di serpenti color della notte. Ogni ricciolo, ogni ciocca proclamava la sua vita blasfema e indipendente e la sensazione di infinite teste di serpente, alle estremità, era troppo accentuata per potersi definire illusoria o accidentale. L'orrenda visione mi teneva prigioniero come una calamita. Nessuno poteva aiutarmi e ripensai allo sguardo della gorgone, capace di trasformare in pietra tutti gli uomini. In quel momento mi accorsi che qualcosa stava cambiando: il ghigno della donna mi parve alterato, la mascella decomposta si abbassò e le labbra spesse, simili a quelle di una bestia, scoprirono una fila di zanne gialle e appuntite. Le pupille degli occhi diabolici si dilatarono, gli occhi stessi parvero uscire dalle orbite. E i capelli, i maledetti capelli cominciarono ad agitarsi e frusciare percettibilmente, mentre le teste di serpente puntavano de Russy e vibravano, pronte a colpire!
Persi completamente la ragione, e prima di rendermi conto di quel che facevo estrassi la pistola automatica e sparai dodici proiettili d'acciaio nell'orrenda tela. Andò immediatamente in pezzi, e la stessa sorte toccò alla cornice che sporgeva dal cavalletto e che si infranse sul pavimento coperto di polvere. Ma se un orrore era annientato, un altro sorgeva alle mie spalle nella forma del vecchio de Russy: le sue urla per la perdita del quadro erano quasi altrettanto orribili del dipinto in sé. Il vecchio gridò con voce strozzata: «Dio, l'hai distrutto!»; poi mi afferrò il braccio con forza disperata e mi trascinò fuori della stanza, giù per le scale. Nel panico aveva fatto cadere la candela, ma l'alba era vicina e dalle finestre coperte di polvere filtrava una debole luce grigia. Inciampai e rischiai di cadere più volte, ma la mia guida non si fermò un momento. «Corra!» gridò. «Corra se tiene alla vita! Non sa che ha fatto! Non le avevo detto tutto, c'erano cose che dovevo fare... il quadro parlava e me le diceva. Dovevo curarlo, preservarlo... adesso succederà il peggio. Lei e i suoi capelli usciranno dalla tomba, per fare Dio sa cosa! «Corra, le dico! Andiamo via di qui finché c'è tempo. Ha una macchina, ha detto: mi porti a Cape Girardeau con lei. Può darsi che sia capace di seguirmi ovunque, ma almeno la farò correre un poco. Andiamo, si sbrighi!» Arrivati a pianterreno sentii un lento e bizzarro rumore che proveniva dal retro della casa: come un passo strascicato seguito dal rumore di una porta che si chiudeva. In un primo momento de Russy non se ne era accorto, ma quando la porta sbatté lanciò l'urlo più orribile che sia mai uscito da una gola umana. «Dio, gran Dio, era la porta della cantina... Sta arrivando!» Io lottavo con il paletto arrugginito della porta d'ingresso e i cardini che cedevano a fatica. Ero in preda a un panico assoluto, proprio come il mio ospite, perché sentivo il tonfo sordo di qualcosa che strisciava nelle stanze della casa maledetta. La pioggia della notte aveva gonfiato il legno della porta, che resisteva anche più tenacemente della sera prima. Da qualche parte un'asse cigolò sotto la cosa che camminava verso di noi, e questo spense l'ultimo barlume di sanità del vecchio. Con un urlo da animale infuriato abbandonò la stretta con cui mi teneva avvinto e si precipitò sulla destra, in una stanza che secondo me doveva essere il salotto. Un attimo dopo, proprio mentre spalancavo la porta d'ingresso e mi precipitavo all'esterno, sentii un fragore di vetri rotti e mi resi conto che era saltato dalla finestra. Abbandonai il portico fatiscente e mi lanciai disperatamente sul lungo viale coperto di erbacce; alle mie spalle risuonava il passo ca-
denzato di qualcosa che non era più vivo e che non seguiva me, ma si trascinava sul pavimento polveroso del salotto. Solo due volte mi girai indietro mentre affrontavo i rovi e le lappe che soffocavano il vialetto abbandonato, e mi lasciavo alle spalle i tigli morti e le querce grottesche che si stagliavano nel nuvoloso mattino di novembre. La prima volta fu perché avevo sentito un odore penetrante: ripensai alla candela che de Russy aveva fatto cadere nello studio del pittore, ma ormai ero vicino alla strada e da quel punto leggermente elevato distinguevo bene il tetto della casa sugli alberi che la circondavano. Proprio come mi ero aspettato, spesse nuvole di fumo uscivano dagli abbaini e salivano verso il cielo plumbeo. Ringraziai le potenze del creato perché una maledizione antichissima stava per essere purgata dal fuoco e cancellata dalla faccia della terra. Ma un attimo dopo, lanciando una seconda occhiata alle mie spalle, vidi altre due cose e il sollievo che avevo provato in un primo momento scomparve cedendo il posto a uno spavento dal quale non mi riprenderò mai più. Ho detto che mi trovavo nella parte alta del viale, da cui era visibile la maggior parte della piantagione dietro di me. Il panorama non comprendeva soltanto la casa e gli alberi, ma una parte del pianoro abbandonato e semiallagato dal fiume e un buon tratto del viale che curvava verso la villa, lo stesso che stavo attraversando a perdifiato. Sia nel piano che sul viale vidi, o credetti di vedere, qualcosa che mi piacerebbe ardentemente poter negare. Quel che mi aveva indotto a girarmi la seconda volta era stato un grido lontano: nel farlo mi apparve qualcosa che correva sul tratto paludoso alle spalle della casa. A quella distanza le figure umane sono molto piccole, ma nonostante la confusione del movimento pensai che fossero almeno due: un inseguitore e un inseguito. Quest'ultimo, vestito di scuro, fu raggiunto e afferrato dalla creatura calva e nuda che gli stava alle calcagna, e portato violentemente verso la casa in fiamme. Non saprò mai come sia andata a finire, perché uno spettacolo a me più vicino cancellò quello che avveniva sullo sfondo: era un misterioso movimento dei cespugli in un punto non molto lontano dal viale deserto. Non c'era possibilità di sbagliarsi, le foglie e le erbacce si agitavano in un modo che non si poteva attribuire al vento, ma come se un grande, velocissimo serpente si fosse lanciato al mio inseguimento, protetto dalla vegetazione. Non potei reggere oltre. Mi lanciai a corsa pazza verso l'arco di pietra,
incurante dei rami che mi graffiavano e strappavano i vestiti; poi saltai nella macchina scoperta che avevo lasciato sotto il sempreverde. Era ancora bagnata e piuttosto malconcia, ma il motore funzionava e non ebbi difficoltà ad avviarlo. Seguii la strada senza pensare; non desideravo altro che allontanarmi da quella spaventosa regione d'incubi e demoni, e farlo il più presto possibile. Cinque o sei chilometri dopo un contadino mi fece segno con la mano: era una persona gentile, di mezza età e a quanto pare di notevole intelligenza. Approfittai dell'occasione per rallentare e chiedere indicazioni, anche se sapevo che il mio aspetto doveva essere abbastanza strano. L'uomo mi indicò la strada per Cape Girardeau e mi chiese come mai fossi in giro tanto presto e in quello stato. Pensai che la cosa migliore fosse dire il minimo indispensabile e raccontai che, sorpreso dal temporale della notte, avevo chiesto asilo in una casa nei paraggi e mi ero perso cercando di ritrovare la macchina. «Una casa, eh? Mi domando quale. Non ce ne sono fino a quella di Jim Ferris oltre Barker's Creek, ma di qui saranno almeno trenta chilometri.» Trasalii, chiedendomi che razza di mistero fosse quello. Dissi al mio informatore che probabilmente aveva dimenticato la vecchia casa padronale in mezzo alla piantagione, il cui arco d'ingresso si trovava non molto più indietro. «È strano che un forestiero come voi ne sappia qualcosa! Forse abitate da queste parti già da un po', ma ad ogni modo la casa di cui parlate non esiste più. È bruciata cinque o sei anni fa, si raccontano storie strane.» Rabbrividii. «Perché certo vi riferite a Riverside, la gran villa del vecchio de Russy. Da quelle parti sono successe cose molto strane, quindici o vent'anni fa. Il figlio del padrone aveva sposato una straniera e la gente pensava che fosse un tipo strano. Non piaceva, ma del resto il marito se la portò via presto. Qualche tempo dopo il vecchio fece sapere che il figlio era morto in guerra, ma i negri della piantagione la pensavano diversamente. Alla fine venne fuori che il vecchio si era preso una cotta per la ragazza e aveva ammazzato sia il figlio che lei. Dicevano che il posto era infestato da un serpente nero, ma non so davvero cosa può significare. «Poi, cinque o sei anni fa, il vecchio scompare e la casa brucia: qualcuno dice che lui è rimasto dentro ed è andato a fuoco con tutto il resto. Era una mattina proprio come questa, dopo una notte di pioggia; la gente sentì urla terribili in mezzo a i campi, ed era proprio il vecchio de Russy. I curiosi si
fermarono e videro che la casa se ne andava letteralmente in fumo: era tutta di legno, e pioggia o non pioggia ci fu poco da fare. Nessuno ha più visto il vecchio, ma ogni tanto mormorano di un fantasma che sembra un serpente nero e che va in giro nella proprietà. «Be', che ne dite? A quanto pare conoscete il posto. Avete mai sentito parlare dei de Russy? Chissà cosa aveva, la moglie del giovane Denis. Alla gente venivano i brividi solo a vederla, insomma era odiosa anche se non si riusciva a capire perché.» Cercavo di pensare, ma era quasi impossibile. La casa era bruciata anni fa? Ma se le cose stavano così, dove e in che condizioni avevo passato la notte? E come mai sapevo quel che sapevo, a proposito della tragedia? Mentre riflettevo vidi un capello sulla manica della mia giacca: il corto capello grigio di un vecchio. Ripresi a guidare senza rispondere alle domande del mio interlocutore, ma prima di andarmene feci un commento sulle voci esagerate che calunniavano il vecchio piantatore, già così provato dalla sorte. Sottolineai (come se ne avessi la certezza da racconti degni di fede, magari fatti da amici) che se nella tragedia di Riverside c'era qualcuno da biasimare si trattava della donna, Marceline. Non era abituata al modo di vivere del Missouri, conclusi, ed era un peccato che Denis l'avesse sposata. Non aggiunsi altro perché ero sicuro che i de Russy, orgogliosi dell'onore del casato e uomini di sensibilità squisita, non avrebbero voluto che aggiungessi altro. Avevano già sofferto abbastanza e non c'era alcun bisogno che i pettegolezzi della gente di campagna infangassero un nome antico e senza macchia, trascinato nell'abisso suo malgrado da un demone infernale, da una gorgone di età maledette. Non era giusto, del resto, che i vicini venissero a sapere l'altro orribile particolare della vicenda, quello che il mio ospite non era riuscito a dirmi a parole; l'orrore che doveva aver appreso, proprio come me, dai particolari del capolavoro perduto di Frank Marsh. Sarebbe stato terribile se quella gente avesse saputo che la signora di Riverside - la maledetta gorgone o lamia dalla chioma serpentina, che ancor oggi stringeva come un vampiro lo scheletro dell'artista in una tomba riempita di calce sotto le fondamenta della casa bruciata - apparteneva, sia pur in modo non evidente, alla razza dei primitivi abitanti di Zimbabwe. Non c'era da stupirsi che avesse legato così bene con la vecchia strega, Sofonisba: perché, anche se solo in parte, Marceline era una negra.
(Medusa's Coil, 1929)
Riproduzione del monumento commemorativo dedicato a Lovecraft dalla città di Providence, dalla Brown University e da un gruppo di appassionati che si è fatto promotore dell'iniziativa. I versi sono di Lovecraft, dai "Fungi from Yuggoth". Inaugurazione: 20 agosto 1990, nel giardino della John Hay Library. Appendice saggistica In questa appendice offriamo due interventi che ci permettono di inquadrare meglio il materiale del presente volume e dei precedenti usciti nella stessa serie. Il primo, di S.T. Joshi, affronta il delicato problema delle "revisioni" di Lovecraft e ci permette di capire quanta parte di questo tipo di racconti sia dovuto alla sua penna e quanto al contributo dei rispettivi collaboratori. Il secondo, di Eileen McNamara e dello stesso Joshi, ci rivela
qualche curioso retroscena sull'origine di The Case of Charles Dexter Ward. Come il lettore noterà, nessuno dei due saggi è del tipo "dogmatico" che siamo abituati a ricevere dai critici che lavorano lontani dai testi originali e dalle fonti dell'autore; al contrario, il testo di Joshi deve tutto a scrupolose consultazioni di manoscritti custoditi alla John Hay Library, mentre la collaborazione Joshi/McNamara è stata resa possibile da ricerche effettuate a Providence presso la famiglia Mauran, che conosceva quella di Lovecraft. Entrambi i testi sono stati pubblicati in America dalla Necronomicon Press, cui dedichiamo in questo volume una speciale sezione della bibliografia; infatti, è a questa piccola casa editrice fondata e gestita da appassionati che si deve il nuovo corso della critica lovecraftiana negli ultimi quindici anni. Un'ultima avvertenza tecnica; nei testi vengono frequentemente adoperate alcune abbreviazioni, di cui ecco la chiave: SL = Selected Letters (l'epistolario di Lovecraft nell'edizione Arkham House). Il numero romano indica il volume. HM = The Horror in the Museum and Other Revisions (il volume della Arkham House che contiene tutti i racconti scritti da Lovecraft in collaborazione o per conto terzi). Per i riferimenti bibliografici completi, v. Bibliografia. Le "revisioni" di Lovecraft: fino a che punto sono opero sua? di S.T. Joshi Una delle poche affermazioni acute di August Derleth è quella che riguarda le migliori revisioni di Lovecraft, là dove dice che "sono abbastanza buone da reggere il confronto con i suoi racconti originali; del resto è naturale, visto che Lovecraft ha scritto quasi tutto ciò che in esse vi è di interessante" (HM, p. XIII). È effettivamente così, e in molti casi anziché parlare di "revisioni" sarebbe meglio ammettere che quei racconti furono semplicemente scritti da un "negro". Nondimeno, l'unico testo ufficialmente composto da Lovecraft per conto terzi è "Under the Pyramids", commissionatogli dal mago Houdini; gli altri sono basati, almeno nominalmente, su prime stesure o soggetti forniti dai presunti autori. Stando così le cose, non possiamo permetterci di affermare categoricamente che le revisioni/collaborazioni di Lovecraft siano tutta opera sua, e a volte nemmeno che
lo siano in misura preponderante. Nei pochi casi in cui sono sopravvissuti i manoscritti originali osserviamo che la natura degli interventi di Lovecraft varia profondamente da un autore all'altro, mentre dove non esistono manoscritti (cioè nella maggior parte dei casi, quando è impossibile stabilire da quale nucleo originario Lovecraft sia partito) questa conclusione è suffragata dalle sue lettere o da fattori di evidenza interna, per quanto pericoloso sia affidarsi a quest'ultimo criterio. Cercheremo di stabilire qui, con precisione, in che misura Lovecraft sia responsabile dei racconti che vengono di volta in volta definiti "revisioni" o collaborazioni: obbiettivo non solo importante in se stesso, ma vitale se si vogliono adoperare questi testi per gettare nuova luce sull'opera lovecraftiana e per abbracciare il lavoro e il pensiero dello scrittore in uno sguardo unitario. Cercheremo di procedere in ordine cronologico, anche se a volte sarà opportuno prendere in esame tutti i racconti rivisti per un determinato cliente. Le collaborazioni con Winifred V. Jackson (Nel volume I della presente edizione) Dalla corrispondenza di Lovecraft è abbastanza evidente che quasi tutta la stesura e gran parte delle idee di "The Green Meadow" (1918 o 1919) e "The Crawling Chaos" (1921) siano opera sua. Egli osserva che "(la signorina Jackson) non possiede un'effettiva abilità narrativa e può sfruttare le sue idee solo in collaborazione con chi è dotato di questa tecnica" (SL I, p. 136). Lovecraft stesso ci informa che "il paragrafo iniziale di 'The Green Meadow' è ricavato da un mio sogno" (SL I, p. 116). Quest'osservazione non si riferisce, ovviamente, alla nota introduttiva del racconto (la quale, benché firmata E.N.B. - L.T., jr., cioè Elizabeth Neville Berkeley e Lewis Theobald jr., pseudonimi dei due autori, è sicuramente dovuta a Lovecraft; cfr. SL I, p. 136: "Ho ... scritto io stesso la nota pseudo-realistica che apre la storia"), ma al primo paragrafo della narrazione vera e propria. Lo stile del racconto è lovecraftiano, anche se pare che alla fine vi siano incorporate alcune idee della signorina Jackson. A proposito di "The Crawling Chaos" Lovecraft osserva di aver "preso il titolo... dal mio frammento 'Nyarlathotep' (oggi ripudiato) perché mi piaceva il suono di quest'espressione". Se ne deduce che il racconto è posteriore al poem in prose "Nyarlathotep" (dicembre 1920), benché Lovecraft
accenni al progetto di questa collaborazione fin dal maggio 1920 (SL I, p. 116). È quasi certo che "The Crawling Chaos", come il suo predecessore, sia stato scritto interamente da Lovecraft partendo da alcuni sogni più o meno simili fatti dalla Jackson e da lui stesso (ma ritengo che Lovecraft, parlandone nella corrispondenza, abbia esagerato quest'affinità onirica). È opinione pressoché generale che i due testi siano fra i peggiori di Lovecraft e fra le revisioni meno riuscite. "Poetry and the Gods" (con Anna Helen Crofts) (Nel volume I della presente edizione) Il racconto fu pubblicato una sola volta durante la vita di Lovecraft ("The United Amateur", settembre 1920) a firma Anna Helen Crofts e Henry Paget-Lowe. Il fatto che miss Crofts venga citata prima non significa necessariamente che il suo contributo sia stato maggiore, dato che Lovecraft - per un fatto di cortesia - avrebbe comunque anteposto il nome del collaboratore al suo, e tanto più quello di una collaboratrice. Non sono riuscito a scoprire granché sul conto di miss Crofts, a parte il fatto che è stata una persona reale (qualcuno pensava che dietro questo nome si nascondesse W.V. Jackson o un altro personaggio) e che si trattava di un'aspirante scrittrice di Boston, forse legata al gruppo di dilettanti di quella città guidati dalla Jackson. Il nome della Crofts, peraltro, non è citato in nessuna lettera di Lovecraft che io abbia potuto esaminare. La maggior parte del racconto è certo opera del nostro, come testimoniano i continui riferimenti mitologici; ma si può immaginare che i versi liberi inclusi nel testo siano opera di Miss Crofts perché Lovecraft ha sempre detestato questa forma poetica, la condanna nel corso della narrazione e l'unica circostanza nota in cui se ne sia servito è il pezzo parodistico "Waste Paper", dove mette alla berlina il modernismo di Eliot. Nella biografia dello scrittore De Camp osserva che "la prosa del racconto ha un timbro femminile insolito per Lovecraft"; probabilmente l'impressione è suggerita dal fatto che il personaggio principale è una donna (e può essere stato questo il contributo decisivo della Crofts, o il nucleo di partenza che poi Lovecraft ha ampliato). Per parte mia non trovo che lo stile di "Poetry and the Gods" sia più "femminile" di quello degli altri racconti dunsaniani.
Le revisioni per Sonia Greene (Nel volume I della presente edizione) Lovecraft non parla mai esplicitamente del lavoro fatto per la futura moglie, ma Sonia H. Greene (poi signora Davis) è meno reticente. Nell'articolo dedicato al suo rapporto con lo scrittore osserva che l'idea di "The Horror at Martin's Beach" (1922) nacque durante una gita insieme a Magnolia, nel Massachusetts. L'avvenimento risale probabilmente al giugno 1922 (cfr. SL I, p. 85). La signora ricorda di essersi "messa a sedere e di aver scritto l'abbozzo del racconto, mentre (Lovecraft) in seguito lo revisionò e corresse". È la procedura di numerose revisioni secondarie, quelle in cui Lovecraft lavorava su un manoscritto compiuto dell'altro autore; si può supporre che nel racconto sia rimasta una certa quantità della prosa originaria di Sonia. "Four O'Clock" è un caso completamente diverso. La signora scrive che il racconto fu composto da lei dietro suggerimento di Lovecraft, ed è probabile che non contenga né interventi né idee del nostro. Alcune frasi sembrano dovute a Lovecraft e una volta la parola burden (nel senso di messaggio o notizia) è usata in modo tipicamente lovecraftiano (vedi "The Cats", 1925: "Yelling the burden of Pluto's red rune"). È quindi probabile che Lovecraft abbia dato qualche rifinitura al racconto, ma il contenuto gli è estraneo e non appartiene al corpus della sua opera. Le revisioni per C.M. Eddy (Nel volume II della presente edizione) Fino a qualche tempo fa non molti sapevano che Lovecraft revisionò almeno quattro racconti per C.M. Eddy jr. (una sua vecchia conoscenza di Providence). Il primo sembra il giustamente dimenticato "Ashes", pubblicato su "Weird Tales" nel marzo 1924. Se Lovecraft stesso non avesse riferito (SL I, p. 257) di aver rivisto questo lavoro, nessuno avrebbe sospettato che ci fosse la sua mano. Si tratta con tutta probabilità della prima collaborazione con Eddy e quella in cui il nostro è intervenuto di meno. Purtroppo i ritocchi devono essersi limitati al minimo, forse all'aggiunta di qualche capoverso. È un racconto mediocre, affrettato e con un elemento erotico che per gli standard del 1923 dev'essere sembrato addirittura pornografico. "The Ghost-Eater" (1923) sembra più tipicamente lovecraftiano (la scena d'apertura ricorda "The Picture in the House", 1920) ma il dialogo finale
e la trama ingenua e convenzionale sono probabilmente opera di Eddy. "The Loved Dead", la più soddisfacente collaborazione tra i due, contiene numerosi spunti lovecraftiani; è probabile, tuttavia, che Lovecraft si limitasse ad aggiungere del materiale o a correggere un manoscritto già esistente di Eddy (che era, o cercava di essere, uno scrittore indipendente). A volte lo stile ricorda quello di "The Hound" (1922), ma anche questo può essere dovuto a Eddy che aveva letto il racconto dell'amico in manoscritto (cfr. SL I, pp. 254,292). La menzione del Flegetonte (uno dei cinque fiumi dell'Ade) tradisce senz'altro la mano di Lovecraft, il quale aveva annotato il nome nel suo taccuino, il cosiddetto "commonplace book", e se ne era servito in "The Other Gods" (1921). "Deaf, Dumb and Blind" (1924) è probabilmente un altro racconto la cui idea (espressa con una certa vaghezza e nebulosità) si deve a Eddy, ma la cui scrittura - specialmente nella parte che riguarda il diario del mutilato è opera di Lovecraft. Il diario contiene riferimenti a "Ocypetian fumes, Cabirian orgies, soul-sickening Saturnalia" a cui Eddy probabilmente non avrebbe mai pensato. Conclusione: i racconti, almeno per quanto riguarda concezione e trama, devono ritenersi opera di C.M. Eddy; forse Lovecraft ha aggiunto qualche particolare, ma vista la brevità dei testi non dev'essersi trattato di gran cosa; è probabile, invece, che egli correggesse o scrivesse buona parte della stesura finale. In ogni caso il suo contributo non dev'essere di molto superiore al 50%. "Under the Pyramids" (per conto di Harry Houdini) (Nel volume II della presente edizione) Come abbiamo visto è il solo racconto scritto da Lovecraft in veste di "negro" ufficiale, ma Houdini fornì almeno una parte della trama (SL I, pp. 312-313) e quindi la stesura non dev'essere avvenuta in maniera troppo diversa da quella di altre revisioni. È inutile dire che lo sviluppo della vicenda e la scrittura sono opera di Lovecraft, e con la sola eccezione di "The Mound" questo è il racconto che più di ogni altro meriterebbe di essere annoverato fra le sue opere autonome. Ma la genesi della storia gli è estranea: difficilmente Lovecraft avrebbe scritto un racconto così complesso trasferendolo in Egitto, e men che meno avrebbe fatto di Houdini il suo protagonista. Questi due fatti ci costringono a separarla - magari di un capello - dalla narrativa originale del nostro.
"Two Black Bottles" (con Wilfred B. Talman) (Nel volume II della presente edizione) La revisione di questo racconto ha una storia piuttosto spiacevole e complicata, perché sembra che Talman si risentisse dei drastici interventi effettuati da Lovecraft sul proprio manoscritto. La cosa è ricordata sia dallo scrittore (SL II, pp. 61-62) che dal suo cliente, il quale vi accenna brevemente nell'articolo "Il Lovecraft normale". Recentemente Talman ha dichiarato a Dirk W. Mosig che per chiudere la questione Lovecraft si limitò a fornire soltanto il dialogo in dialetto, ma questa affermazione è sospetta: non solo perché alcuni paragrafi sembrano effettivamente opera di Lovecraft (come del resto accennato in SL II, p. 61), ma perché i dialoghi hanno ben poco in comune con il vernacolo di altre storie lovecraftiane (pur tenendo conto che l'azione si svolge nello stato di New York e non nel New England). La mia ipotesi è che Talman abbia eliminato gran parte dei suggerimenti e delle correzioni di Lovecraft e abbia restaurato la sua versione originale. In un racconto come questo, dunque, non più del 30% sembra dovuto alla mano del nostro autore. Le revisioni per Adolphe de Castro (Nel presente volume) È possibile stabilire con certezza il grado in cui Lovecraft è intervenuto nei racconti di Adolphe de Castro "The Last Test" e "The Electrical Executioner", che a quanto ci consta costituiscono le sole revisioni esistenti per questo cliente: infatti, le versioni originali di de Castro sono pubblicate in una raccolta intitolata In the Confessional and the Following (apparsa sotto il nome di Gustav Adolf Danziger presso la Western Authors' Publishing Association, New York e San Francisco, maggio 1893). I due testi ci permettono di chiarire il metodo seguito da Lovecraft nel "revisionare" racconti che, pur appartenendo al genere horror, non lo interessavano eccessivamente. Dopo averne letta la versione originale, lo scrittore osserva che la narrativa di De Castro "è abominevole" (SL II, p. 207) e confessa di aver trascorso un mese intero (probabilmente alla fine del 1927) per rimettere in sesto un racconto che de Castro aveva intitolato originariamente "A Sacrifice to Science" e che Lovecraft ribattezzò "Clarendon's Last Test". (Il titolo con cui apparve su "Weird Tales", "The Last
Test", è forse opera del direttore della rivista, Farnsworth Wright.) In conclusione, Lovecraft riscrisse i racconti di de Castro: il testo è opera sua da cima a fondo, ma la trama fornita dal cliente è stata mantenuta e così qualche particolare minore. In "Clarendon's Last Test" Lovecraft rispetta l'ambientazione californiana (de Castro aveva vissuto a lungo sulla Costa occidentale), i personaggi - benché i nomi siano stati a volte cambiati - e la trama principale. Ma oltre ad aver eliminato un certo Mort, personaggio alquanto sbiadito che nell'originale faceva da assistente del dottor Clarendon ("dottor Clinton" in de Castro) e aver inserito al suo posto il malvagio mago di Atlantide, Surama, Lovecraft ha reso più credibili ed efficaci tutti gli attori della vicenda. Sia questo racconto che "The Electric Executioner" contengono scherzosi riferimenti a Cthulhu, Yog-Sothoth eccetera: nella noia del lavoro di riscrittura Lovecraft dev'essersene servito per alleggerirsi un po'. "Clarendon's Last Test" è lungo il cinquanta per cento più dell'originale, benché Lovecraft avesse dichiarato (SL II, p. 207) che la monotonia e la banalità della vecchia versione lo avevano "fatto quasi scoppiare". Il racconto riscritto da Lovecraft contiene una certa dose di monotonia e prolissità proprie, ma è pur sempre un gran miglioramento rispetto a de Castro. Cambiamenti meno drastici si notano in "The Electrical Executioner" ("The Automatic Executioner" in de Castro) e anche in questo caso la trama è seguita fedelmente. Può essere divertente sapere che nel tratteggiare il personaggio dell'inventore pazzo, Feldon, Lovecraft si è ispirato alla figura di un individuo altrettanto eccentrico (ma molto meno pericoloso) da lui incontrato nel 1929 durante un viaggio in treno da New York a Washington. A parte questo la trama delle due versioni è identica, compresa la scombinata conclusione e la menzione dei "corpi astrali". Sia le esclamazioni azteche che i riferimenti alle creature mitiche di sua invenzione, ovviamente, sono opera di Lovecraft. Nel novembre 1930 lo scrittore osserva di aver "fatto accettare... tre racconti del vecchio Dolph" (SL III, p. 204). Ma quale può essere il terzo? Su "Weird Tales" de Castro pubblicò soltanto "The Last Test" e "The Electrical Executioner" e non risulta che altre opere siano apparse altrove. Sembra che ci troviamo in presenza di una "revisione" perduta. È probabile che il racconto, pur accettato da "Weird Tales" o da qualche altra rivista, non sia mai stato pubblicato (o meglio, ripubblicato) e quindi sia andato perso. Non ritengo probabile che Lovecraft abbia cercato di far pubblicare un racconto di de Castro senza correggerlo: la sua opinione era che nelle sto-
rie di questo cliente "non vi fosse neppure l'ombra del fantastico autentico" (SL V, p. 208). Altrove afferma di aver revisionato "diversi racconti di de Castro" (SL V, p. 44): è evidente che con "diversi" si riferisce a più di due. Le revisioni per Zealia Bishop (Nel presente volume) Sotto tutti i punti di vista i tre racconti firmati da Zealia Bishop ("The Curse of Yig", 1928; "The Mound", 1929-30; "Medusa's Coil", 1930) sono fra i risultati migliori delle revisioni o collaborazioni lovecraftiane, e tranne il confuso "Medusa's Coil" reggono il paragone con i suoi racconti originali. È logico aspettarsi, dunque, che essi siano in gran parte frutto del nostro autore. Così è, infatti: nella corrispondenza Lovecraft ha lasciato ampia testimonianza del proprio coinvolgimento in "The Curse of Yig" (vedi in particolare SL II, pp. 232-33). Basterà citare il passo seguente: "A proposito, se vuoi leggere un racconto che è praticamente mio dai un'occhiata a 'The Curse of Yig'... Puoi considerarlo quasi una composizione originale, perché tutto ciò che avevo a disposizione era lo spunto in cui veniva descritta una coppia di pionieri, l'uccisione del marito ad opera dei serpenti e il fatto che il cadavere scoppiava nel buio, provocando la follia della moglie. Il resto, dalla trama alle motivazioni dei personaggi, è opera mia. Ho inventato il dio-serpente, la maledizione, il prologo e l'epilogo, la questione dell'identità del cadavere e la conclusione con le sue mostruose implicazioni" (SL III, pp. 29-30). Sembra che Lovecraft fosse orgoglioso del racconto: addirittura più che dei suoi lavori originali. "The Mound" è un caso altrettanto chiaro. Come ho mostrato nel mio articolo "Who Wrote 'The Mound'?" la trama fornita dalla signora Bishop era più o meno questa (cito le parole di R.H. Barlow): "Dalle mie parti c'è un tumulo indiano che si dice infestato da un fantasma senza testa. A volte sembra una donna". Il lavoro è ben riuscito, e per vastità di portata e ricchezza complessiva si può paragonare ai racconti lunghi scritti da Lovecraft in proprio. Ci piacerebbe pensare che "Medusa's Coil" debba qualcosa di più alla signora Bishop, perché l'assurda pletora di avvenimenti soprannaturali di cui è infarcito rende impossibile condurlo a un insieme coerente; ma sembra che la cliente abbia avuto altrettanto poco a che fare con questo che con gli altri racconti. (Si può immaginare che abbia fornito lo spunto della trama, imperniata su una Medusa dei nostri giorni, ma probabilmente que-
sto è tutto.) Il risultato è dei più insoddisfacenti, almeno fra i racconti di una certa lunghezza. Nella corrispondenza di Lovecraft non se ne parla quasi mai, ma un possibile riferimento a "Medusa's Coil" è contenuto in una lettera a Clark Ashton Smith: "...Uno dei miei lavori di revisione mi sta facendo fare pratica nell'arte di congegnare trame fantastiche". Tuttavia la data ipotetica della lettera (agosto 1930) non corrisponde ai tempi di scrittura del racconto, perché altrove Lovecraft osserva di aver fatto "la maggior parte del lavoro a Richmond, durante uno dei miei viaggi, quando me ne andavo un pomeriggio dopo l'altro in Maymont Park", ed è noto che la visita a quella città risale al maggio 1930. Comunque, se fu Lovecraft a "congegnare" la trama di "Medusa's Coil" lo fece stranamente male e forse se ne rese conto. Nel 1934 disse del racconto (ancora inedito). "Non è un granché... io stesso non ci spenderei un centesimo". È da notare che sia "The Mound" che "Medusa's Coil" furono profondamente modificati da August Derleth, il quale, trovati i manoscritti inediti dopo la morte dello scrittore, decise di "sveltirli" per il mercato dei pulp magazines. I testi integrali appaiono nell'edizione corretta di HM, e in Italia per la prima volta in questo volume. Racconti scruti in collaborazione con Henry S. Whitehead ("The Trap" uscirà in questa edizione) Due sono le storie dovute alla collaborazione fra Lovecraft e Henry S. Whitehead, "The Trap" e "Bothon", ma è mia opinione che nei due casi il contributo del nostro sia sostanzialmente diverso. A proposito di "The Trap" Lovecraft scrisse a Barlow che la parte centrale del racconto (cioè quella in cui il ragazzo entra nella dimensione aliena del mondo dello specchio) era dovuta a lui; personalmente ho sostenuto che tre quarti del racconto siano opera di Lovecraft, quindi non solo il centro ma tutta la parte finale. È abbastanza strano che Whitehead, un autore bravo e affermato, consentisse la pubblicazione di un racconto che gli doveva così poco sotto il proprio nome: ma probabilmente fu Lovecraft a rifiutare il binomio. Che Lovecraft abbia collaborato a "Bothon" (uscito nella raccolta di Whitehead West India Lights) è stato dimostrato da William Fuiwiler, il quale ha osservato che gli accenni di Lovecraft a un racconto intitolato "The Bruise" si riferivano a questa collaborazione con Whitehead. Ma se Fuiwiler è convinto che l'ultima parte del racconto (quella che riguarda
Mu) sia stata scritta effettivamente da Lovecraft, personalmente ritengo sulla base di semplice evidenza interna - che questa storia non contenga neppure un rigo di prosa lovecraftiana. È verosimile che Lovecraft abbia aiutato il collega a ideare il racconto di Mu (basterebbero a confermarlo certi nomi di luogo che sono tipici del nostro), ma non riesco a convincermi che vi abbia posto mano materialmente. Quanto ai riferimenti contenuti nell'epistolario, non devono farci supporre niente più di questo: Lovecraft fornì al collega un riassunto del racconto di Mu, ma Whitehead lo elaborò autonomamente. C'è un passo (SL IV, p. 37) in cui Lovecraft osserva che una prima versione del racconto, in cui Mu non c'entrava ancora per nulla, era stata respinta da "Strange Tales"; quindi afferma di aver "proposto e architettato" lui stesso il nuovo finale. Che abbia scritto oppure no una parte della storia, è chiaro che Lovecraft ha contribuito a svilupparne la trama e "Bothon" si può legittimamente definire una collaborazione. "Through the Gates of the Silver Key" (con E. Hoffmann Price) (Uscirà in questa edizione) Ecco una collaborazione in cui non è facile distinguere l'intervento dei rispettivi autori. Il dattiloscritto originale di Price, che si intitolava "The Lord of Illusion" e si proponeva come un seguito di "The Silver Key", è tuttora conservato alla John Hay Library. È un racconto di ventidue cartelle e ci è di grande aiuto per ricostruire la genesi della successiva collaborazione, ma proprio grazie ad esso possiamo osservare che Lovecraft è riuscito a mantenere, nella stesura definitiva, una parte molto più consistente del linguaggio e delle idee di Price di quanto quest'ultimo ci avesse fatto intendere. A differenza che in altri casi Lovecraft non si è limitato a fare aggiunte o correzioni sul testo di Price, ma ha riscritto il racconto daccapo, a matita: la scena iniziale a New Orleans è ampiamente rielaborata da lui. Ricevuta la stesura a matita di Lovecraft, Price la batté a macchina: a parte i numerosi errori di trascrizione, c'è da segnalare che modificò volontariamente alcuni brani del racconto (in particolare le citazioni dal Necronomicon). Nell'inviare questa nuova versione al collega Price non trascurò di aggiungere alcune note in margine ed esprimere dubbi sull'appropriatezza di certe parole o frasi usate da Lovecraft, proprio come questi aveva fatto con "Lord of Illusions". Probabilmente Lovecraft modificò i passi in
questione e chiese a Price di preparare il dattiloscritto definitivo da inviare alle riviste. Questo dattiloscritto è andato perduto, ma nella versione pubblicata su "Weird Tales" (luglio 1934) appaiono con chiarezza alcuni passi modificati o ritoccati dalla mano di Lovecraft. In conclusione: sebbene il linguaggio del racconto sia in gran parte lovecraftiano, le idee sono in ugual misura di Price. Il racconto costituisce quindi un'autentica collaborazione. Le revisioni per Hazel Heald (Usciranno in questa edizione) Dei cinque racconti di Hazel Heald rivisti da Lovecraft, solo uno ci lascia in dubbio sulla parte avuta dallo scrittore: "The Man of Stone" (1932), evidentemente il primo che gli venisse sottoposto. Di nessuno sopravvivono i manoscritti e i riferimenti contenuti nell'epistolario sono pochi. Non ho trovato nessun accenno a "The Man of Stone" nella corrispondenza di Lovecraft, ma un commento della signora Heald può essere illuminante: "Lovecraft mi aiutò in questo racconto nella stessa misura che negli altri, riscrivendone interi paragrafi". La prima parte della dichiarazione è sospetta, ma la seconda ci permette di dedurre due cose: che la Heald preparò da sola una prima stesura e che Lovecraft si limitò a fare correzioni e aggiunte su questa base. L'unica cosa di cui possiamo esser certi è che il diario di "Dan il pazzo" sia opera di Lovecraft, visto che contiene numerosi riferimenti al Libro di Eibon, R'lyeh, Shub-Niggurath ecc. C'è persino una frase ("Devono pensare che sono cieco, sordo e muto!") che forse si riferisce, ironicamente, alle revisioni per C.M. Eddy di dieci anni prima. Per quanto riguarda le successive collaborazioni ritengo che la signora si limitasse a fornire semplici riassunti della trama, e alcuni di questi racconti si possono considerare alla stregua di opere originali del nostro. Lo ammette lo stesso Lovecraft riferendosi a "The Horror in the Museum" (1933), definito "un racconto che ho scritto 'da negro' per una cliente la quale mi aveva fornito una trama così povera che ho finito per scartarla quasi del tutto... È praticamente un'opera mia" (SL IV, p. 229). La cosa è tanto più divertente se ci soffermiamo sulla reazione di un lettore di "Weird Tales": "Nemmeno Lovecraft, credo... avrebbe potuto scrivere una scena più fantastica di quella in cui la creatura extra-dimensionale balza verso il protagonista". "Winged Death" (1933 o 1934) non è altrettanto efficace, forse perché
non aggiunge nulla al ciclo mitico lovecraftiano (come invece avviene per altre revisioni): è la semplice storia di un assassino che paga il suo misfatto, e Lovecraft ammette che "non è una cosa entusiasmante... Comunque è mia al 90-95%" (SL IV, p. 403). Di nuovo vien da pensare che la signora Heald avesse fornito soltanto la trama. "Out of the Aeons" (1933 o 1934) è probabilmente il migliore del gruppo e può essere tranquillamente affiancato ai racconti originali di Lovecraft. Non c?è dubbio che egli ne sia autore al cento per cento, e possediamo un'esplicita dichiarazione di paternità: "Altro che se ci ho messo mano... Io l'ho scritto, quel racconto!... Ma è assurdo dedicarsi a lavori così complessi quando con la stessa fatica potrei scrivere una cosa mia. È l'ultima collaborazione del genere che farò" (SL V, p. 130). È persino difficile immaginare lo spunto che la signora Heald possa aver fornito per una storia come questa: certo non è sua l'idea di un racconto-nel-racconto sull'antica Mu, ma è probabile che avesse qualche vaga idea su una mummia che prende vita in un museo. "The Horror in the Burying Ground" (1933/34/35) è un racconto minore ma piacevole, e ancora una volta idee e composizione devono tutto a Lovecraft. Il dialetto parlato negli angoli sperduti del New England ricorda quello di "The Dunwich Horror", come pure l'inizio del racconto. ("Quando la statale per Rutland è chiusa, il viaggiatore è costretto a prendere la strada di Stillwater che passa per Swamp Hollow"; efr. "The Dunwich Horror": "Il viaggiatore che nel Massachusetts centro-settentrionale imbocchi il bivio sbagliato al raccordo del Picco d'Aylesbury, appena oltre Dean's Corner, si ritrova ben presto in una regione strana e solitaria".) Forse l'idea di partenza della Heald era quella dello strano liquido per imbalsamare usato dal becchino del villaggio, ma con ogni probabilità il suo contributo si ferma qui. Le revisioni per Duane W. Rimel (Usciranno in questa edizione) Sono venute alla luce solo di recente, e la loro scoperta si deve a una stretta collaborazione fra Will Murray, Robert M. Price e me. Sembra che la prima di queste collaborazioni sia costituita da una serie di sonetti, Dreams of Yith. Nella copia rilegata di "The Fantasy Fan" appartenuta a R.H. Barlow è inserito un foglio che presenta due versioni del primo componimento: una, evidentemente, è quella originale di Rimel, l'altra è la versione
corretta. Tutte e due sono scritte da Lovecraft di suo pugno. Una lettera di Lovecraft a Rimel del 13 maggio 1934 fa pensare che anche altri sonetti di questo ciclo siano stati "revisionati": "La sua nuova serie di versi è molto interessante, e sia Barlow che io abbiamo esaminato il campione che ci ha inviato con la massima attenzione e con sincero apprezzamento... Per il momento non mi è possibile farle un resoconto dettagliato, ma le invierò la versione primitiva corredata di note, più una versione definitiva" (lettera inedita, cust. John Hay Library). La stessa comunicazione contiene un riferimento a un racconto di Rimel: "Ho letto con interesse il suo 'The Tree on the Hill' e penso che catturi davvero l'essenza del soprannaturale. Mi è piaciuto molto, nonostante una certa farraginosità e caduta di tono nell'ultima parte. Ho fatto qualche correzione che forse troverà utile e ho cercato di rafforzare il finale". Da questo si evince che Lovecraft riscrisse completamente la fine del racconto (la parte III) e corresse le precedenti; personalmente, tuttavia, non sono disposto a credere con Robert M. Price che Lovecraft abbia riscritto anche la parte II, benché la citazione dalle mitiche Cronache di Nath sia uscita ovviamente dalla penna del nostro. Alcuni mesi dopo Lovecraft annuncia di aver rivisto un altro racconto di Rimel, che questi aveva intitolato "The Sorcery of Alfred": "Lieto di ricevere il suo nuovo racconto, che in un certo senso mi ricorda Dunsany. Glielo restituisco con qualche cambiamento che penso servirà... Mi sono preso la libertà di cambiare il nome del protagonista, perché il comune nome inglese 'Alfred' mal si accorda con l'ambientazione favolosa... Spero che 'Aphlar' le sembri un degno sostituto". "The Sorcery of Aphlar" è decisamente minore, ma ha il sapore delle prime fantasie dunsaniane di Lovecraft. Esiste almeno un altro racconto di Rimel rivisto da Lovecraft: "The Disinterment", pubblicato su "Weird Tales" nel gennaio 1937. Lovecraft non ci ha lasciato nessuna dichiarazione sul ruolo da lui avuto in questa nuova collaborazione, ma Rimel ha confessato personalmente a Robert M. Price che il racconto fu ritoccato. La mia ipotesi è che "The Disinterment" sia stato scritto interamente da Lovecraft, perché lo stile e il ritmo sono tipicamente suoi: Rimel non avrebbe potuto imitare così bene la prosa dell'altro. Curiosamente, proprio come accade per il corpus di de Castro pare che esista una "revisione perduta" di Rimel. Nel cosiddetto "Diario di morte" che Lovecraft tenne negli ultimi giorni della sua esistenza, il 28 gennaio
1937 annota brevemente: "Fine revisione Rimel"'. Di quale racconto poteva trattarsi? Non "The Disinterment", visto che era appena uscito su "Weird Tales", né "The Metal Chamber" ("Weird Tales", marzo 1939) perché si tratta di una storia che non ha nulla di lovecraftiano nello stile o nell'argomento. I racconti di Rimel apparivano sulle riviste amatoriali del periodo, testate relativamente oscure come "The Fantasy Fan", "Polaris", "Unusual Stories": è probabile, quindi, che future ricerche portino alla luce un nuovo racconto da aggiungere alla serie delle revisioni lovecraftiane. Le collaborazioni con Robert H. Barlow (Usciranno in questa edizione) La stesura originale di "The Battle That Ended the Century" di Barlow (1934) sopravvive in dattiloscritto: Lovecraft si è limitato a fare alcune correzioni e aggiunte a penna. L'idea centrale è di Barlow e bisogna ammettere che alcuni dei passi più divertenti sono suoi; Lovecraft, tuttavia, ha inventato i nomignoli buffi (Frank Chimesleep Short per Frank Belknap Long) che Barlow ha lasciato immutati. Fu una svista, forse, a far sì che Lovecraft non inventasse un soprannome anche per Otis Adelbert Kline: in seguito cercò di ovviare facendo notare l'errore ai suoi corrispondenti e proponendo "Oatmeal Addlepate Crime". In questo racconto, dunque, il contributo di Lovecraft non supera il 30-40%. Anche in "'Till A' the Seas" (1935) Lovecraft si è limitato a correggere o aggiungere qualcosa sul dattiloscritto di Barlow (una pagina del quale è riprodotta in facsimile in HM, ed. 1989). Le correzioni sono molto pesanti all'inizio, diminuiscono nella parte centrale e si fanno di nuovo intense alla fine, dove troviamo un lungo inserto di Lovecraft sull'insignificanza cosmica del genere umano. In questo racconto il contributo di Lovecraft può essere valutato intorno al 50%. In "Collapsing Cosmoses" (1935) Lovecraft e Barlow composero più o meno un paragrafo a testa, avvicendandosi. Tutto sommato Barlow ha scritto qualcosa in più del suo collega e alcune delle battute più felici sono sue. Ecco un'eccezione alla regola secondo cui Lovecraft avrebbe scritto la parte migliore delle varie revisioni e collaborazioni! Ho dichiarato in passato che Lovecraft avrebbe scritto "The Night Ocean" (1936) da cima a fondo, ma ricerche successive mi hanno costretto a ritrattare quest'affermazione. L'indizio più importante viene da una lettera inedita di Lovecraft a Hyman Bradofsky del 4 novembre 1936, la stessa
che anni fa permise a Dirk W. Mosig di scoprire il nesso fra il nostro autore e quel particolare racconto: "Mi dispiace che 'The Night Ocean' sia così confuso. Barlow le ha mandato solo la stesura iniziale da me corretta? Pensavo che avrebbe preparato un nuovo dattiloscritto, perché in alcuni punti ho fatto il testo letteralmente a pezzi". Questo passo rivela che Lovecraft lavorò su una stesura di Barlow e riscrisse il racconto solo "in alcuni punti". Ma ho raggiunto le mie conclusioni anche per via indiretta, grazie all'esame di un precedente racconto di Barlow ("A Dim-Remembered Story", pubblicato su "The Califomian" nell'estate 1936). Il racconto rivela un tale miglioramento rispetto ai primi e crudi sforzi narrativi dell'autore che bisogna riconoscergli di aver fatto passi da gigante; inoltre, non contiene nessuna traccia di intervento lovecraftiano (Lovecraft lo lodò moltissimo, cosa che non avrebbe fatto se ne fosse stato in parte responsabile). "A Dim-Remembered Story" rivela senz'altro l'influenza di Lovecraft, come risulta dall'ingegnosa utilizzazione del distico misterioso "Non è morto ciò che in eterno può attendere...", e che serve da epigrafe ai quattro capitoli del racconto; tuttavia sostengo che Lovecraft non ebbe niente a che fare con l'ideazione e la stesura di questo testo. Ancora: in una lettera a Duane Rimel Lovecraft scrive che "The Night Ocean" era "uno dei racconti fantastici più squisiti che avesse letto"; se ne avesse scritto una parte sostanziale la lode sarebbe stata fuori luogo. Bisogna riconoscere a Barlow, quindi, un ruolo fondamentale nella brillante concezione di "The Night Ocean", e penso che i due autori vi abbiano contribuito in uguale misura. È impossibile attribuire con esattezza all'uno o all'altro le finissime similitudini, le metafore e i tocchi poetici, l'amara satira, la sommessa e affascinante atmosfera generale del racconto; anzi, riesce difficile credere che un brano così perfetto possa essere il risultato di una collaborazione. Ci si può solo chiedere che narratore sarebbe diventato Barlow se avesse continuato a produrre lavori di questo calibro. "The Challenge from Beyond" Non ci sarebbe bisogno di soffermarsi su questo racconto a più mani: lo includiamo nel nostro discorso solo per completezza. Lovecraft, ovviamente, scrisse soltanto il capitolo a lui assegnato e dovette usare i personaggi e gli ambienti dei due episodi che precedevano il suo. Le complicazioni connesse all'attribuzione delle varie parti nella sequenza narrativa di
questa round-robin-story non ci riguardano, e rimandiamo il lettore a SL V, pp. 199 sgg. "The Diary of Alonzo Typer" (con William Lumley) (Uscirà in questa edizione) Lovecraft vi allude come a una collaborazione ("...la simpatia che provo per il vecchio Bill Lumley mi ha indotto a violare il divieto anticollaborazioni che mi ero imposto e gli ho sistemato un racconto"); ma noi ci troviamo in una posizione unica per giudicare la natura di questo nuovo sforzo in comune. Infatti, come nel caso di "Through the Gates of the Silver Key", sono giunti fino a noi sia la versione originale di Lumley (manoscritta: il titolo è suo) che il testo di Lovecraft, pure manoscritto: ed è un completo rifacimento del racconto. Entrambi i documenti sono conservati alla John Hay Library. La stesura originaria di Lumley è il tentativo confuso, sgrammaticato, incoerente e involontariamente umoristico di scrivere un racconto. Bisogna supporre che Lovecraft provasse compassione per la totale incompetenza dell'altro, ma nonostante questo la versione corretta mantiene un certo numero di espressioni dell'autore originario; inoltre, l'intreccio-base è di Lumley (un uomo arriva a una casa abbandonata dove si imbatte in misteriosi orrori). L'allusione a Yian-Ho è di Lumley, che probabilmente la trasse da "Through the Gates of the Silver Key"; anche il Libro delle Cose Nascoste e i Sette Segni Perduti del Terrore sono frutto dell'amico di Lovecraft, che si dilettava di occultismo. Lo scrittore di Providence ha aggiunto la "Nota del curatore" che precede la narrazione vera e propria, la parte che riguarda Adriaen Sleght e Claes van der Heyl e - purtroppo - il finale grottesco in cui Alonzo Typer continua ad aggiornare il suo diario mentre un'entità senza nome lo porta via. "In the Walls of Eryx" (con Kenneth Sterling) (Uscirà in questa edizione) A parte le versioni pubblicate, di questo racconto è giunto fino a noi un dattiloscritto che ritengo preparato da Sterling, perché i caratteri della macchina da scrivere non sono di tipo familiare; oltre all'originale ne pos-
sediamo alcune copie-carbone. Dirk W. Mosig, che a suo tempo aveva intervistato Sterling, mi ha riferito che l'idea del labirinto invisibile era sua, ma che lo sviluppo della trama, e forse la stesura materiale del racconto, si dovevano a Lovecraft. In casi del genere la certezza è difficile, tanto più che abbiamo pochissimi racconti di Sterling da usare come metro di paragone. L'idea piuttosto convenzionale dell'ambiente venusiano è forse di Sterling; alcuni giochi di parole (farnoth flies = Farnsworth Wright) possono essere attribuiti a entrambi, perché non è probabile che Lovecraft li inserisse nel racconto senza l'approvazione dell'altro. Sterling abitò per qualche tempo a Providence ed è probabile che i due autori discutessero a voce i particolari del racconto, proprio come era accaduto con Barlow nel caso di "The Battle That Ended the Century" e "Collapsing Cosmoses". Per concludere dobbiamo fare alcune osservazioni generali sulle cosiddette revisioni di Lovecraft. Abbiamo osservato che il ruolo dei diversi clienti o collaboratori varia profondamente: ma quasi sempre la genesi, il nucleo e l'idea del racconto non appartengono a Lovecraft. Il collaboratore forniva, se non altro, lo spunto iniziale che poi veniva elaborato dal nostro autore (benché, come abbiamo visto, da un suggerimento di poche parole potesse nascere un romanzo breve di settanta pagine: è il caso di "The Mound"). In molti casi - soprattutto nelle revisioni dei primi anni, ma anche in racconti tardi come "The Diary of Alonzo Typer" e forse "The Night Ocean" il collaboratore forniva una prima stesura, non importa di quale livello qualitativo; in questi casi Lovecraft correggeva direttamente sul manoscritto o riscriveva il racconto (sia pur mantenendo qualche passo dell'originale). Non è raro che la versione definitiva contenga un'alta percentuale del testo originario: per questo la riuscita dei racconti più brillanti non va attribuita indiscriminatamente a Lovecraft. In numerosi casi il titolo, l'ambientazione, i personaggi e altri dettagli formali sono opera dal collaboratore, benché quasi sempre lo sviluppo della trama e il tratteggio delle figure siano di Lovecraft. L'ambientazione è spesso lontana da quella dei racconti lovecraftiani, e si spiega con l'origine esterna dell'idea-base. Tutti e due i racconti di de Castro (e forse anche il terzo, quello perduto) sono ambientati in California o nel Messico, regioni ben note a de Castro stesso ma non a Lovecraft. Entrambi si svolgono negli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso perché le versioni originali erano ambientate in quel periodo. Sull'ambientazione dei racconti di Zealia Bishop Lovecraft scrive alla cliente: "Per tratteggiare l'atmosfera e il colore dei luoghi ho dovuto affidarmi alle risposte che lei ha fornito al mio questionario, oltre ad alcune descrizioni dell'Oklahoma che ho letto nei libri. Spero sinceramente di non aver fatto grossolani errori" (SL II, p. 232). È ovvio che Lovecraft, in un racconto scritto in proprio, avrebbe scelto un ambiente che gli fosse familiare per diretta esperienza (il New England) o che avesse approfondito in seguito a opportune ricerche (l'Antartide, l'Inghilterra). Stando così le cose, solo l'immaginazione può dirci chi abbia inventato le immaginarie città del New England che si trovano nei racconti di C.M. Eddy, poiché tutti e due gli autori erano nati a Providence e a quel tempo è probabile che Eddy conoscesse meglio di Lovecraft gli stati della Nuova Inghilterra (è noto che più volte lo accompagnò in località che Lovecraft non aveva mai visitato). In "The Diary of Alonzo Typer", al contrario, l'ambientazione nello stato di New York non deve nulla a Lumley, che pure abitava a Buffalo: tutte le informazioni geografiche ed etnografiche si devono a Lovecraft, che alla fine degli anni Venti aveva intrapreso una serie di ricerche sulla storia dello stato di New York (suggeritegli, almeno per quel che riguarda il periodo olandese, da Wilfred B. Talman). Un'altra distinzione importante tra le revisioni e i racconti scritti da Lovecraft in proprio è la relativa trascuratezza stilistica delle prime. I manoscritti in nostro possesso ci permettono di stabilire che nelle revisioni Lovecraft è stato molto meno scrupoloso nella scelta dei vocaboli, nella costruzione e nell'esecuzione generale dei racconti; questo discorso vale anche per le storie da lui riscritte interamente, partendo magari da un semplice abbozzo. È da qui che derivano le debolezze tematiche di "Medusa's Coil", certe goffaggini nella struttura di "The Mound", le faticose e pretenziose "note del curatore" premesse a "The Green Meadow" e "The Diary of Alonzo Typer", l'occasionale sciattezza o colloquialità del linguaggio che troviamo anche nelle revisioni più riuscite. Non possiamo certo biasimarlo, perché le revisioni (non le collaborazioni ufficiali) erano destinate a uscire sotto il nome di un altro autore, e, per quanto Lovecraft potesse divertirsi a scriverne alcune, in definitiva costituivano un lavoro fatto per guadagnare qualcosa. Ma anche sotto questo aspetto le revisioni gli fruttarono introiti trascurabili, almeno rispetto alla sua produzione originale. Per "The Curse of Yig" Lovecraft chiese alla signora Bishop la somma di diciassette dollari e cinquanta (SL II, p. 233),
quando un racconto della stessa lunghezza, pubblicato su "Weird Tales", gli avrebbe fruttato almeno novanta dollari. Insomma, non c'era un grande incentivo a dedicare tutte le energie a questo genere di lavoro. Dobbiamo ammirare Lovecraft, in definitiva, non solo per la generosità dimostrata verso i suoi clienti, ma per le energie profuse nelle revisioni più complesse, alcune delle quali sono diventate racconti fantastici originali o addirittura brillanti. E brillanti è un aggettivo che le migliori meritano senz'altro; "Under the Pyramids", "The Curse of Yig", "The Mound", "Out of the Aeons", "The Night Ocean" si possono paragonare ai migliori lavori originali di Lovecraft, mentre alcune delle revisioni più tarde sviluppano in modo sostanziale il ciclo mitico da lui inventato. A volte questi racconti vengono sottovalutati persino dagli specialisti, ma se si tien conto che i singoli collaboratori hanno offerto un contributo estremamente eterogeneo, anche i puristi non potranno che leggerli con piacere e trarne profitto. Le revisioni lovecraftiane costituiscono un corpus narrativo unico: non conosciamo nessun altro scrittore che si sia dedicato a questo genere di attività. È come tale che dobbiamo apprezzarlo. (Lovecraft's Revisions: How Much of Them Did He Write? Una prima versione di questo studio è apparsa nel 1983 sul n. 11 della rivisti "Crypt of Cthulhu"; la nostra traduzione si basa sulla versione riveduta dall'autore e apparsa in S.T. Joshi, Selected Papers on Lovecraft Necronomicon Press, West Warwick, R.I., 1989. Copyright © S.T Joshi). Chi fu il vero Charles Dexter Ward? di M. Eileen McNamara e S.T. Joshi Nessuno può negare che The Case of Charles Dexter Ward sia un romanzo fortemente autobiografico: la celebrazione di Providence e del New England riecheggia quella di The Dream-Quest of Unknown Kadath (1926-27), ed è significativo che i due romanzi siano stati scritti al rientro di Lovecraft a Providence dopo due anni infelici trascorsi a New York. Anche Charles Dexter Ward, nel tornare a Providence dopo alcuni anni passati all'estero e in luoghi misteriosi, prova un senso di profonda commozione: questa parte del romanzo riflette fedelmente lo stato d'animo dello scrittore che si ristabilisce nella città natale dopo l'"esilio newyorchese". Possiamo ben dire, insomma, che Ward è Lovecraft: ma nel momento in
cui facciamo quest'identificazione vengono alla luce alcuni particolari discordanti. Per esempio: è Marinus Bicknell Willett, non Ward, che abita all'indirizzo di Barnes Street n. 10, cioè lo stesso di Lovecraft. Ward e la sua famiglia vivono poco più distante, oltre l'angolo, nella cosidetta villa Halsey al 140 di Prospect Street (che nel romanzo, per una ragione non chiara, diventa il n. 100). Insomma, negli ultimi tempi sono emersi alcuni fatti che ci permettono di essere più precisi sulla genesi del personaggio Ward e alcune delle sue caratteristiche. Come abbiamo detto, all'epoca in cui scrisse The Case of Charles Dexter Ward Lovecraft viveva a pochi passi da villa Halsey e affermava di poterla vedere da una finestra di casa: oggi abbiamo ragione di credere che un giovane abitante della villa sia servito, in gran parte, come modello di Ward. Villa Halsey era vuota da diversi anni quando William Lippitt Mauran e sua moglie Marie Louise Lewis Mauran la comprarono nel 1908. William Mauran è l'uomo che, insieme a George Eastman della Eastman Kodak, brevettò il processo di riproduzione fotostatica (e qui abbiamo un primo, vago collegamento con il romanzo di Lovecraft, dove si fa più volte menzione della "copia fotostatica del cifrario Hutchinson"). Nel 1910 i Mauran ebbero un figlio che ricevette lo stesso nome del padre, William Lippitt Mauran. Affettuosamente chiamato Bill, era un ragazzo cagionevole come lo era stato Lovecraft e trascorse i primi quattordici anni della sua vita come un invalido; da piccolo una governante lo portava fuori in passeggino. Confrontiamo queste notizie con un brano all'inizio del romanzo: Lì era nato, e dal magnifico porticato classico che si apriva sulla facciata di mattoni a doppia campata la balia l'aveva fatto uscire per le sue prime escursioni in passeggino... Poi l'aveva condotto per la sonnolenta Congdon Street, un po' più in basso sul ripido fianco della collina, dove le case del versante orientale sorgono su alte terrazze. Lì le costruzioni di legno erano più antiche, perché la città si era arrampicata, espandendosi, su quel lato della collina. Nelle passeggiate con la la balia Charles aveva assorbito un po' del colore dell'antico villaggio coloniale; lei aveva l'abitudine di fermarsi sulle panchine della Prospect Terrace per fare quattro chiacchiere con i poliziotti, e uno dei primi ricordi del bambino era il gran mare di tetti velati dalla bruma, cupole, campanili e le remote colline d'occidente che un pomeriggio d'inverno
gli erano apparse dalla gran terrazza col parapetto: tutto mistico e azzurro sullo sfondo di un tramonto eccezionale tinto di rossi, oro, porpora e bizzarre sfumature di verde. Il brano è un'affascinante fusione di elementi autobiografici e particolari della vita di Bill Mauran, che lo scrittore aveva sott'occhio. Lovecraft fu mai accompagnato a spasso da una balia? Non ne abbiamo notizia, ma sappiamo che sua madre lo portava fuori abbastanza spesso. In secondo luogo, anche ammesso che questa esperienza gli fosse capitata, difficilmente sarebbe stato condotto nella "sonnolenta Congdon Street", così lontana dalla sua casa natale (al 454 di Angell Street). Il particolare delle gite in carrozzina, dunque, dev'essere venuto in mente a Lovecraft dopo aver visto il giovane Mauran a villa Halsey. Terzo: è vero che Lovecraft rimase fortemente impressionato dalla visione di un tramonto eccezionale, ma questo avvenimento non si verificò a Providence bensì ad Auburndale, Massachusetts, dove la famiglia Lovecraft abitò per qualche tempo quando Howard era bambino. Teniamo presente questo brano di una lettera del 1930: Da circa quarant'anni i miei sogni sono stimolati da uno strano sentimento di aspettativa avventurosa che è legato al paesaggio, all'architettura e alle bellezze del cielo. Mi vedo ancora, bambino di due anni e mezzo, sul ponte della ferrovia di Auburndale, nel Massachusetts, intento a guardare oltre il centro commerciale della città che si stendeva ai miei piedi e a sentire l'imminenza di un evento meraviglioso che non sapevo esprimere e neppure concepire del tutto. Non c'è mai stata una sola ora della mia vita in cui sensazioni simili siano state assenti (SL III, p. 100). Altri particolari confortano la teoria che Bill Mauran sia stato, almeno in parte, il modello di Charles Dexter Ward. Quest'ultimo è descritto come "alto, magro e biondo": Mauran era magro e biondo ma non alto, Lovecraft era alto e magro ma solo da bambino fu veramente biondo. A causa della forzata reclusione Mauran fu oggetto delle più svariate dicerie, proprio come il nostro autore da piccolo; inoltre, come Lovecraft sapeva, le cameriere irlandesi pensavano che villa Halsey fosse infestata. Dopo essere guarito dalla malattia Mauran si recò spesso al Butler Hospital per farsi visitare: è appena il caso di ricordare che alla fine del romanzo Joseph Curwen, il quale ormai si fa passare per Ward, viene rinchiuso nella stessa istituzio-
ne. Ed è logico, perché il Butler è l'unico ospedale psichiatrico della zona (tutti e due i genitori di Lovecraft morirono fra le sue mura). Durante l'adolescenza di Mauran il suo amico più caro fu un ragazzo di nome Tillinghast: ci chiediamo se questo non abbia influenzato Lovecraft al momento di trovare un cognome alla moglie di Joseph Curwen, Eliza, figlia del capitano Dutee Tillinghast. I lettori più attenti osserveranno che un personaggio di nome Crawford Tillinghast era già presente in un vecchio racconto di Lovecraft, "From Beyond" (1920), ma ciò che non molti sanno è che nel manoscritto originale Lovecraft aveva chiamato il suo protagonista Henry Annesley, e che il nome fu cambiato solo in vista della pubblicazione su "The Fantasy Fan" nel giugno 1934, anni dopo la stesura di Charles Dexter Ward. I Tillinghast che figurano nel romanzo, dunque, sono i primi personaggi lovecraftiani con questo nome. All'epoca in cui Lovecraft scrisse il romanzo Bill Mauran aveva diciassette anni. La sua famiglia ritiene improbabile che il ragazzo e lo scrittore si siano conosciuti - Mauran era un timido e non rivolgeva la parola a nessuno durante le solitarie passeggiate in città - ma, sempre a giudizio dei parenti, Bill avrebbe potuto difficilmente sfuggire all'attenzione di Lovecraft. In ogni caso, la vicenda di Mauran ebbe una conclusione più felice che non quella di Ward: il giovane vinse le sue infermità e diventò un ottimo medico. Ma il particolare più interessante, quello che dimostra forse in maniera definitiva il fatto che Lovecraft conoscesse Mauran e pensasse a lui quando scrisse il romanzo, riguarda la fattoria di Pawtuxet. Usata prima da Curwen e poi da Charles Dexter Ward, questa costruzione ha un ruolo determinante nel racconto. Ecco la prima volta in cui viene citata: Sulla via di Pawtuxet aveva una fattoria in cui generalmente viveva d'estate; lì lo vedevano correre alle ore più strane del giorno e della notte. Non esiste nessuna via di Pawtuxet nei dintorni di Providence: comunque, non più. Cosa più importante, viene da chiedersi perché Lovecraft abbia scelto proprio quella zona per situarvi la sua minacciosa abitazione. Certo era necessario un angolo remoto e poco frequentato, ma perché Pawtuxet? Il fatto è che i Mauran avevano una fattoria laggiù. Costruita in epoca coloniale e nota con il nome di fattoria Lippitt, si stagliava imponente sul fiume Pawtuxet; la zia di Mauran, Julia Lippitt, era un'attivista sociale e spesso invitava alla fattoria le donne della regione. Può darsi che
Lovecraft sia venuto a sapere della sua esistenza tramite le proprie zie, Lillian D. Clark e Annie E. Phillips Gamwell. Le famiglie Phillips e Mauran si conoscevano fin dall'epoca coloniale, quando vivevano entrambe a Warren (Rhode Island). Un Mauran aveva sposato molti anni prima una Bicknell, e questo potrebbe spiegare l'origine del secondo nome di Marinus Bicknell Willett; gli altri due, invece, sono presi a prestito da un individuo che nel 1917 aveva donato del materiale alla Rhode Island Historical Society, cosa che Lovecraft apprese nel 1925. Il materiale era stato "consegnato da sua figlia, signora Marinus Willett Gardner". La famiglia Mauran ci fornisce un'altra preziosa informazione sullo sfondo di Charles Dexter Ward. Nella parte del romanzo ambientata in epoca coloniale si fa menzione della goletta Fortaleza di Barcellona guidata dal comandante Manuel Arruda, la quale contiene un carico abbastanza straordinario. Nella realtà Manuel Arruda non era il capitano di un bastimento ma un fruttivendolo ambulante ben noto nella zona di College Hill, dove si recava ogni giorno. Le famiglie che all'epoca vivevano nel quartiere sono praticamente certe che Lovecraft, il quale abitava al n. 10 di Barnes Street, lo abbia conosciuto. In che modo questi particolari ci permettono di capire meglio il romanzo? Negli ultimi anni gli esperti hanno scoperto che racconti come "The Dunwich Horror" e "The Whisperer in Darkness" contengono numerose informazioni tratte dall'esperienza personale di Lovecraft e dai suoi viaggi. In alcuni casi questi particolari - vedi l'esempio di Manuel Arruda sono inseriti nel racconto con una punta d'ironia, ma nel procedimento vi è un lato più serio. Lovecraft ha affermato più volte di considerarsi, come scrittore di narrativa, un realista della prosa il cui scopo consiste nell'ottenere una determinata atmosfera attraverso la lenta e pedestre accumulazione di minuziosi particolari uniti a un'oscura verisimiglianza scientifica. Quello che produco dev'essere il minaccioso risultato di una terribile e letterale serietà di un approccio quasi pedantesco. Nei miei racconti migliori non c'è mai un'atmosfera "d'arte", ma al contrario un che d'impersonale, di non-ammiccante: insomma, le qualità di un minuzioso reportage. Ho bisogno di visualizzare un oggetto o una scena con assoluta chiarezza prima di poterne parlare; poi lo descrivo come un entomologo descriverebbe un insetto (SL III, p. 96).
Tutto ciò rende chiaro come i particolari del mondo reale - il mondo di Providence, con la sua gente e la sua topografia - fossero di estrema importanza per Lovecraft, e anzi fossero necessari a liberare la sua immaginazione. Il miracolo sta nella sua capacità di trasformare i fatti di ogni giorno in una terribile ragnatela di fantasie cosmiche: fantasie tanto più inquietanti in quanto fondate su un'incontrovertibile realtà. (Who Was the Real Charles Dexter Ward?, in "Lovecraft Studies" n. 19/20, Necronomicon Press, autunno 1989. Copyright (E) M. Eileen McNamara e S.T. Joshi). Appendici bibliogrofiche RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI DEI RACCONTI CONTENUTI NEL PRESENTE VOLUME Come nei precedenti volumi, indichiamo di seguito: 1. la data di composizione di ciascun racconto; 2. la prima apparizione su periodico amatoriale; 3. la prima pubblicazione professionale; 4. la più recente collocazione nelle edizioni originali. THE CASE OF CHARLES DEXTER WARD 1. Gennaio/1 marzo 1927 2. 3. "Weird Tales", in due puntate, a partire dal maggio 1941. Si tratta di una versione non integrale. 4. In At the Mountains of Madness, quinta edizione corretta a cura di S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, 1984. THE COLOUR OUT OF SPACE 1. Marzo 1927 2. 3. "Amazing Stories", settembre 1927 4. In The Dunwich Horror and Others, ottava edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin, 1982. THE VERY OLD FOLK 1. 2 novembre 1927
2. "Scienti-Snaps" vol. 3 n. 3, estate 1940 3. In Marginalia a cura di August Derleth e Donald Wandrei, Arkham House, Sauk City, Wisconsin, 1944. 4. THE LAST TEST (con Adolphe de Castro) 1. 1927 2. 3. "Weird Tales", novembre 1928 4. In The Horror in the Museum and Other Revisions, terza edizione corretta a cura di S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1989. HISTORY OF THE NECRONOMICON 1. 1927 2. Come A History of the Necronomicon, edizione commemorativa limitata: The Rebel Press, Oakman, Alabama, 1938. 3. In Beyond the Wall of Sleep a cura di August Derleth e Donald Wandrei, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1943. 4. Come History of the Necronomicon, a cura di S.T. Joshi e Marc Michaud, Necronomicon Press, West Warwick, Rhode Island, 1977. Rist. 1978 e 1984. THE CURSE OF YIG (con Zealia Bishop) 1. 1928 2. 3. "Weird Tales", novembre 1929 4. In The Horror in the Museum and Other Revisions, terza edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1989. IBID 1. 1928? 2. 3. In Beyond the Wall of Sleep a cura di August Derleth e Donald Wandrei, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1943. 4. In H.P. Lovecraft, Uncollected Prose and Poems vol. II, a cura di Marc Michaud e S.T. Joshi, Necronomicon Press, West Warwick, Rhode Island 1980.
THE DUNWICH HORROR 1. Estate 1928 2. 3. "Weird Tales", aprile 1929 4. In The Dunwich Horror and Others, ottava edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1982. THE ELECTRIC EXECUTIONER (con Adolphe de Castro) 1. 1929? 2. 3. "Weird Tales", agosto 1930 4. In The Horror in the Museum and Other Revisions, terza edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1989. THE MOUND (con Zealia Bishop) 1. Dicembre 1929/inizio 1930 2. 3. "Weird Tales", novembre 1940. Questa e tutte le edizioni successive fino al 1989 sono abbreviate. La prima edizione integrale si trova in 4. The Horror in the Museum and Other Revisions, terza edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1989. MEDUSA'S COIL 1. Maggio 1930 2. 3. "Weird Tales", gennaio 1939. Questa e tutte le edizioni successive sono abbreviate. La prima edizione integrale si trova in 4. The Horror in the Museum and Other Revisions, terza edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1989. THE WHISPERER IN DARKNESS 1. 24 febbraio/26 settembre 1930 2. 3. "Weird Tales", agosto 1931 4. In The Dunwich Horror and Others, ottava edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City, Wisconsin 1982. Bibliografia generale
Benché possa sembrare vano compendiare una bibliografia lovecraftiana in poche pagine, quando esistono ormai interi volumi dedicati all'argomento, non ci è sembrato inutile indicare i titoli fondamentali di questa vasta letteratura, facendoli seguire da un breve commento. Il lettore desideroso di approfondire la materia viene rinviato a due testi: in italiano il "Castoro" Lovecraft di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco (La Nuova Italia, Firenze 1979), con l'avvertenza che la sua vasta bibliografia è anteriore alla pubblicazione degli ultimi studi di S.T. Joshi e Kenneth Faig; e in inglese il completissimo H.P. Lovecraft and Lovecraft Criticism: An Annotated Bibliography a cura di S.T. Joshi (Kent State University, Kent, Ohio, 1981), di cui è uscito un Supplement 1980-1984 a cura dello stesso Joshi e L.D. Blackmore (Necronomicon Press, West Warwick, Rhode Island 1985). a) Narrativa 1. Edizioni originali The Shadow Over Innsmouth, William Crawford, 1936. Stampato privatamente, questo breve romanzo è l'unica opera di Lovecraft che abbia visto la luce in veste di libro durante la sua vita (conclusasi, come è noto, il 15 marzo 1937). The Outsider and Others a cura di August Derleth e Donald Wandrei, Arkham House, Sauk City 1939, pp. 553, $ 5,00. È la prima raccolta rilegata della narrativa lovecraftiana, con copertina di Virgil Finlay. Oggi è un raro pezzo per bibliofili. Beyond the Wall of Sleep a cura di August Derleth e Donald Wandrei, Arkham House, Sauk City 1943, pp. XXIV + 459, $ 5,00. Secondo volume-omnibus dedicato a HPL dalla Arkham, la casa editrice fondata per diffondere la sua narrativa. Contiene i racconti non inclusi in The Outsider, una selezione di quelli scritti in collaborazione o per conto terzi, una scelta di poesie e un pezzo autobiografico dello stesso Lovecraft. Inoltre il testo del taccuino di appunti dello scrittore, il cosiddetto Commonplace Book, la "History and Chronology of the Necronomicon" e un saggio di W. Paul Cook. Marginalia a cura di August Derleth e Donald Wandrei, Arkham House, Sauk City 1944, pp. 377, $ 3,00. Il volume che avrebbe dovuto completare
il panorama della narrativa loyecraftiana, con un'abbondante aggiunta di materiale saggistico. È diviso in sei sezioni: Ghost-writing, Revisioni, Saggi, Racconti giovanili, Frammenti, Ricordi e testimonianze (lasciate dagli amici sul conto di Lovecraft). Numerose e belle fotografie, prefazione di Derleth e Wandrei. The Weird Shadow Over Innsmouth and Other Stories of the Supernatural, Bartholomew House, New York 1944, pp. 190,25 e. Edizione che contiene cinque racconti, tra cui The Shadow Over Innsmouth. The Dunwich Horror and Other Weird Tales, Armed Services Editions n. 730, 1945, pp. 384. Edizione per l'Esercito americano che contiene 12 racconti di Lovecraft e un'introduzione di August Derleth. Best Supernatural Stories of H.P. Lovecraft, World Publishing Co., Cleveland 1945, pp. 307. Due diverse edizioni, una su carta migliore a un dollaro e una su carta "pulp" a 49 c. Si può considerare la prima edizione paperback di Lovecraft. The Lurker at the Threshold, Arkham House, Sauk City 1945, pp. 196, $ 2,50. Romanzo scritto da August Derleth in base a spunti lovecraftiani. Di limitato interesse, se non per capire come già in quegli anni Derleth stesse virtualmente impossessandosi del mondo creativo del suo ispiratore. Something About Cats and Other Pieces, a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1949, pp. 310, $ 3,00. Importante antologia che segna la ripresa dell'attività lovecraftiana della Arkham (dopo Marginalia del 1944). È divisa in cinque sezioni, quattro delle quali contengono materiale di HPL (Revisioni, Saggi, Appunti di scrittura, Poesia), mentre l'ultima offre una serie di Testimonianze sull'autore. Oltre a completare la pubblicazione dei racconti scritti da Lovecraft per conto terzi o in collaborazione (le famose "revisioni"), il volume offre alcune tra le più importanti testimonianze sullo scrittore: quella della moglie Sonia (Lovecraft as I Knew Him) e di Fritz Leiber (A Literary Copernicus). The Survivor and Others, Arkham House, Sauk City 1957. Antologia di racconti scritti da August Derleth in base a spunti lovecraftiani. Eufemisticamente battezzate "collaborazioni postume", queste storie devono tutto all'infaticabile editore del Wisconsin e poco o niente a HPL. The Shuttered Room and Other Pieces a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1959, pp. 313, $ 5,00. Contiene un'introduzione e due racconti di Derleth (definiti "collaborazioni postume"), cinque racconti giovanili di HPL, Poetry and the Gods, una scelta di saggi, una nuova edizione del Commonplace Book annotata da Derleth, la ristampa di alcuni
noti racconti (Dagon, The Outsider, ecc.) e una serie di omaggi alla figura dell'autore ad opera di noti colleghi. Dreams and Fancies a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1962, pp. 174, $ 3,50. Contiene alcuni estratti dall'imponente epistolario di Lovecraft (che la Arkham House avrebbe cominciato a pubblicare nel 1965), una poesia (Night Gaunts) e alcuni racconti già apparsi nelle antologie precedenti, perlopiù centrati sul tema del sogno. Conclude il volume il romanzo breve The Shadow Out of Time. The Dunwich Horror and Others a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1963, pp. XX + 421, $ 5,00. At the Mountains of Madness and Other Novels a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1964, pp. XI + 432, $ 6,50. Dagon and Other Macabre Tales a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1965, pp. 424, $ 6,50. Esaurite ormai da tempo le vecchie edizioni (tirate, peraltro, in un numero di copie che raramente raggiungeva le 2.000), Derleth pensò di ripubblicare la narrativa di Lovecraft in tre volumi che d'ora in poi ne rappresentassero l'edizione standard. I migliori testi brevi furono raccolti in Dunwich, i racconti più lunghi e i romanzi in At the Mountains of Madness e la narrativa dei primi anni in Dagon. A questa sistemazione sfuggirono, rispetto alle precedenti edizioni Arkham, quasi tutti i racconti scritti da Lovecraft in collaborazione o per conto terzi e i quattro raccontini giovanili The Little Glass Botile, The Secret Cave, The Mystery of the Graveyard e The Mysterious Ship. Anche i saggi di HPL rimasero nel cassetto, come le testimonianze dei colleghi che avevano arricchito i primi volumi dell'Arkham House. Nondimeno, è da questa edizione "uniforme" che sono partite molte traduzioni straniere (tra cui, in parte, quelle italiane) e che sono stati tratti i primi tascabili a grande diffusione. Dopo la morte di Derleth, avvenuta nel 1971, la sorte stessa dell'Arkham House sembrava in forse. A risollevarne le sorti pensò James Turner, intelligente ed appassionato direttore editoriale che ha continuato con sapienza l'opera del suo predecessore. Oggi la Arkham è più solida che mai e continua a pubblicare, accanto alle opere dei maestri del passato, il meglio della narrativa fantastica contemporanea. I tre volumi dell'edizione uniforme di Lovecraft vengono costantemente ristampati da allora. The Dark Brotherhood and Other Pieces a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1966, pp. 321, $ 5,00. Antologia miscellanea che contiene un racconto di Derleth & Lovecraft (The Dark Brotherhood) ap-
partenente al ciclo delle cosiddette "collaborazioni postume"; alcune poesie di HPL, qualche saggio (sul giornalismo amatoriale e la poesia), una scelta di versi, la ristampa di alcuni racconti scritti in collaborazione da Lovecraft e C.M. Eddy, un articolo di HPL ed Eddy sulla superstizione e per finire alcuni interventi dei più fedeli estimatori di Lovecraft. Tra questi si segnalano il bell'articolo di Fritz Leiber Through Hyperspace With Brown Jenkin e il racconto dello stesso autore To Arkham and the Stars. Tales of the Cthulhu Mythos a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1969. Un solo racconto di Lovecraft (The Call of Cthulhu) è presente in questo volume, che raccoglie il meglio dei suoi epigoni e continuatori. The Horror in the Museum and Other Revisions a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1970, pp. 383, $ 7,50. Volume che raccoglie le cosiddette "revisioni" di Lovecraft, cioè i racconti scritti per conto terzi o comunque in collaborazione. Completa il quadro fornito dai tre volumi dell'edizione uniforme. The Watchers Out of Time and Others di August Derleth e H.P. Lovecraft, Arkham House, Sauk City 1974. Volume che raccoglie tutte le "collaborazioni postume" tra HPL e Derleth, con l'eccezione del romanzo The Lurker at the Threshold. In sostanza, racconti di August Derleth ispirati a idee o atmosfere lovecraftiane. The Dunwich Horror and Others a cura di August Derleth. Settima edizione corretta da S.T. Joshi, introduzione di Robert Biodi; Arkham House, Sauk City 1982, pp. XXVI + 434, $ 15,95. At the Mountains of Madness and Other Novels a cura di August Derleth. Quinta edizione corretta da S.T. Joshi, introduzione di James Turner; Arkham House, Sauk City 1984, pp. XVII + 458, $ 16,95. Dagon and Other Macabre Tales a cura di August Derleth. Quinta edizione corretta da S.T. Joshi, introduzione di T.E.D. Klein; Arkham House, Sauk City 1986, pp. LE + 448, $ 18,95. Le precedenti edizioni di Lovecraft avevano riprodotto i testi così come pubblicati da "Weird Tales" o dalle altre pubblicazioni professionali dove i suoi racconti erano apparsi negli anni. Dirk Mosig prima e il giovane S.T. Joshi poi si sono accorti, confrontando le edizioni dell'Arkham House con i manoscritti dell'autore conservati presso la Brown University, a Providence, che le lezioni accettate da Derleth erano spesso inesatte o manchevoli, e che si trattava in molti casi di versioni passate al setaccio dell'editing di varie redazioni. D'accordo con James Turner, perciò, S.T. Joshi ha condotto un lungo lavoro sui mano-
scritti originali di Lovecraft ed ha dato alle stampe la prima edizione corretta della sua opera. La presente traduzione è basata appunto su tale versione. Juvenilia 1897-1905 a cura di S.T. Joshi, Necronomicon Press, West Warwick 1984. Volumetto che riunisce i primissimi racconti di HPL. The Horror in the Museum and Other Revisions a cura di August Derleth, terza edizione corretta da S.T. Joshi, Arkham House, Sauk City 1989. Come già i tre volumi dell'edizione uniforme, anche questo - dedicato a collaborazioni e revisioni di HPL - è stato interamente ricomposto. I testi sono quelli preparati da S.T. Joshi in base ai manoscritti dell'autore o alle prime pubblicazioni su riviste amatoriali, generalmente più fedeli delle successive ristampe su pubblicazioni professionistiche. Grazie a quest'operazione critica, oggi tutta la narrativa di Lovecraft è disponibile nella versione concepita dall'autore. 2. Edizioni economiche A partire dal dopoguerra, sia in America che in Inghilterra si sono avute numerose edizioni tascabili dei racconti di Lovecraft. I testi corrispondono a quelli della Arkham House, ma risistemati spesso con criteri autonomi. Citiamo le principali case editrici e i rispettivi titoli: America. / Avon Books: The Lurking Fear and Other Stories, New York 1947, pp. 223, 25 c. (Poi ristampato come Cry, Horror!, 1958, 35 c.) / Lancer Books: The Dunwich Horror and Others, New York 1963, pp. 158, 50 c.; The Colour Out of Space, New York 1964, pp. 222, 50 c. / Bailamme Books: The Survivor and Others, New York 1962, pp. 143, 35 c.; The Dream-Quest of Unknown Kadath a cura di Lin Carter, New York 1970, pp. 242, 95 c.; The Tomb and Other Tales, New.York 1970, pp. 190, 95 c. Settima ristampa 1982; The Doom that Came to Sarnath a cura di Lin Carter, New York 1971, pp. 230, 95 c.; The Case of Charles Dexter Ward, New York 1971, pp. 128, 95 c. Altri titoli in edizione Ballantine: At the Mountains of Madness and Other Tales of Terror, New York 1982 (settima ristampa); The Lurking Fear, New York 1982 (settima ristampa), The Horror in the Museum and Other Revisions, The Shuttered Room and Other Tales of Horror (in collab. con August Derleth), The Lurker at the Threshold (in collab. con August Derleth), Tales of the Cthulhu Mythos (in 2 voll.); The Best of H.P. Lovecraft a cura di Robert Bloch, New York 1982.
Inghilterra. / Panther Books: The Haunter of the Dark, Frogmore, St. Albans 1963, pp. 256, 35 p.; The Lurking Fear and Other Stories, Frogmore, St. Albans 1964, pp. 208,35 p.; At the Mountains of Madness and Other Novels of Terror, Frogmore, St. Albans 1968, pp. 304, 40 p.; Dagon and Other Macabre Tales, Frogmore, St. Albans 1969, pp. 224, 35 p.; The Tomb and Other Tales, Frogmore, St. Albans 1969, pp. 192,40 p. Sempre in edizione Panther il romanzo The Case of Charles Dexter Ward, le collaborazioni con August Derleth The Shuttered Room e The Lurker at the Threshold e l'antologia The Horror in the Museum and Other Revisions (divisa in due volumi. La seconda parte si intitola The Horror in the Burying Ground). La più recente edizione inglese della narrativa di Lovecraft è costituita da tre grossi omnibus tascabili della Grafton (Londra): At the Mountains of Madness, Dagon and Other Macabre Tales e The Haunter of the Dark, ciascuno a 2,95 sterline. Pur essendo una raccolta quasi completa e particolarmente accessibile, va detto che i testi sono quelli delle classiche edizioni Arkham-Gollancz-Panther e quindi non tengono conto delle correzioni apportate nell'ultima ed. americana da S.T. Joshi. 3. Edizioni italiane Colui che sussurrava nel buio a cura di Carlo Frutterò, in "Urania" n. 310, Mondadori, Milano 16 giugno 1963, pp. 152, lire 150. Fascicolo che contiene tre racconti (Colui che sussurrava nel buio, Il modello di Pickman, Il colore venuto dal cielo) nelle traduzioni di Roberto Mauro e Sarah Cantoni. Impressionante mostro alato disegnato in copertina da Karel Thole. Le montagne della follia, Sugar, Milano 1966, pp. 322. Traduzioni di Giovanni De Luca. Volume che riproduce metà dell'antologia At the Mountains of Madness (Arkham House, v.). L'altra metà apparirà l'anno successivo col titolo La casa delle streghe (v.). Eliminata la prefazione di August Derleth; alcune traduzioni lasciano particolarmente a desiderare (Il caso di Charles Dexter Ward). I mostri all'angolo della strada a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, Mondadori, Milano 1966, pp. 446, lire 4.000. La prima, ampia scelta del meglio di Lovecraft con una stupenda copertina di Karel Thole che si è voluto riprodurre in questa edizione. Brillante saggio in apertura dei due curatori, tra le migliori pagine dedicate a HPL nel nostro paese. Frutterò & Lucentini sottoposero alcuni racconti a un editing piuttosto personale, fa-
cendo sunteggiare, tagliare o modificare dai traduttori determinati passi: era una politica del tutto abituale quando si operava su un autore "popolare" e in seguito i due curatori difesero la necessità di quest'operazione quando si trattò di ristampare l'antologia in edizione tascabile. La casa delle streghe, Sugar, Milano 1967, pp. 340, lire 2.000. Traduzioni di Giovanni De Luca. Seconda parte dell'antologia At the Mountains of Madness (v.), con bella copertina tratta da "Creepy". Opere complete, Sugar, Milano 1973, pp. 942, lire 6.500. L'editore che già aveva conteso a Mondadori il primato della presentazione di Lovecraft nel nostro paese decise di riunirne tutti i racconti in uri volume-mammuth che da allora, nel bene e nel male, ha fatto storia. L'operazione consisté nel ristampare le tre antologie già apparse (Le montagne della follia, La casa delle streghe e I mostri all'angolo della strada su licenza Mondadori) e nell'affidare la traduzione dei testi ancora inediti ad un nuovo collaboratore. Il risultato - che pure, per i lettori, sembrava costituire una specie di "bonanza" - fu mediocre per la qualità delle traduzioni, la mancata verifica di quelle già esistenti e per tutta una serie di errori, fra cui l'inesatta datazione (e quindi disposizione) del materiale. Inoltre, dal volume restavano esclusi il racconto Attraverso le porte della chiave d'argento (fatto inspiegabile, visto che lo stesso Sugar lo aveva pubblicato qualche anno prima ne La casa delle streghe) e tutti quelli che Lovecraft aveva scritto in collaborazione con altri autori. Nonostante queste pecche il libro ha avuto vita lunga e salutare, contribuendo a suo modo alla popolarità di Lovecraft nel nostro paese. Riproposto nel 1978 e 1983 con piccoli restauri al testo apportati da chi scrive: in sostanza, però, si tratta di ristampe ricavate dai vecchi impianti tipografici. I miti di Cthulhu a cura di August Derleth, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Fanucci, Roma 1975, pp. 488, lire 5.500. Traduzioni di Alfredo Pollini e Sebastiano Fusco. De Turris e Fusco modificarono l'impianto dell'antologia originale, Tales of the Cthulhu Mythos (v.), escludendo due testi fin troppo noti e organizzando il resto del materiale in ordine cronologico; inoltre aggiunsero una parte introduttiva con racconti che si potevano considerare, paradossalmente, antesignani dell'opera di Lovecraft e una conclusiva con tre inediti di HPL. Per ricchezza di materiale, acume delle notazioni in margine ai racconti e rigore bibliografico, il libro è tra i più interessanti dedicati in Italia al mondo di Lovecraft. Nelle Spire di Medusa a cura di August Derleth, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Fanucci, Roma 1976, pp. 274, lire 3.800. Traduzioni di
Roberta Rambelli. Sfida dall'infinito a cura di August Derleth, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Fanucci, Roma 1976, pp. 338, lire 4.200. Traduzioni di Roberta Rambelli. Adattamento e ampliamento, in due volumi, dell'antologia The Horror in the Museum and Other Revisions (Arkham House, v.): uscivano per la prima volta in Italia tutte le revisioni e collaborazioni letterarie di Lovecraft, cioè una parte consistente della sua opera. Il secondo volume era completato da un racconto appena ritrovato in prima edizione mondiale e da una serie di saggi sull'uomo Lovecraft tratti dai primi volumi dell'Arkham House. Il guardiano della soglia di H.P. Lovecraft e August Derleth, Fanucci, Roma 1977, pp. 236, lire 4.500. Traduzione di Alfredo Pollini. Si tratta del romanzo di Derleth The Lurker at the Threshold, ispirato ad alcune idee di HPL. Copertina di Karel Thole che ritrae un panciuto Cthulhu; consueta appendice di saggi e testimonianze sui due autori. La lampada di Alhazred di H.P. Lovecraft e August Derleth, Fanucci, Roma 1977, pp. 286, lire 4.500. Traduzione (di Roberta Rambelli) dell'antologia di Derleth The Watchers Out of Time and Others (v.), con una serie di racconti ispirati al mondo del maestro di Providence. Bella copertina visionaria di Thole. Tutto Lovecraft a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Roma 1987, in corso di pubblicazione. Vasta operazione tuttora in fieri (sono previsti oltre una dozzina di volumi) che ripresenta la narrativa di HPL divisa per argomenti, una selezione del suo epistolario e un contorno di saggi italiani e stranieri. Sarà possibile darne un giudizio soltanto ad opera compiuta. Di gran parte del materiale manca, purtroppo, l'indicazione delle fonti. I miti dell'orrore a cura di Giuseppe Lippi, Omnibus del Fantastico, Mondadori, Milano 1990. Edizioni tascabili italiane: La casa delle streghe e Le montagne della follia, Pocket Longanesi, Milano 1974; I mostri all'angolo della strada a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, Oscar Mondadori, Milano 1980-1989; Colui che sussurrava nel buio, Classici Fantascienza n. 70, Mondadori, Milano 1983 (ristampa di "Urania" n. 310, v.). b) Poesia
Collected Poems a cura di August Derleth, Arkham House, Sauk City 1964, pp. 134, $ 4,00. Sovraccoperta e illustrazioni di Frank Utpatel. La poesia di Lovecraft gode di una certa fama tra i lettori angloamericani e spesso riflette le atmosfere fantastiche dei racconti. A volte è palesemente ricalcata su modelli arcaici, in genere settecenteschi. Fungi from Yuggoth and Other Poems, Ballantine Books, New York 1971, pp. 142, 95 e. Ristampa del precedente identica all'originale, incluse le illustrazioni di Frank Utpatel. La copertina dell'ed. Ballantine è di Gervasio Gallardo, autore di alcune tra le migliori tavole fantastiche degli anni Settanta. A Winter Wish and Other Poems a cura di Tom Collins, Whispers Press, Brown Mills 1977. Fungi from Yuggoth, Necronomicon Press, West Warwick 1982, 16 pp. (seconda edizione). I famosi sonetti fantastici di Lovecraft. The Illustrated Fungi from Yuggoth, Dream House, Madison 1983. Edizione illustrata (da Robert Kellough) dei celebri sonetti. c) Epistolario Selected Letters vol. I,1911-1924. Arkham House, Sauk City 1965, pp. 364, $ 8,50. Selected Letters vol. II, 1925-1929. Arkham House, Sauk City 1968, pp. 360, $ 8,50. Selected Letters vol. III, 1929-1931. Arkham House, Sauk City 1971, pp. 452, $ 10,00. Selected Letters vol. IV, 1932-1934. Arkham House, Sauk City 1976, pp. 426, $ 12,50. Selected Letters vol. V, 1934-1937. Arkham House, Sauk City 1977, pp. 436, $ 12,50. Uncollected Letters, Necronomicon Press, West Warwick 1986. Il vasto corpus della corrispondenza lovecraftiana è indispensabile per comprendere gusti, attitudini e riflessioni di un uomo dagli interessi più vasti di quanto la sua narrativa lasci sospettare. d) Studi sull'autore 1. In lingua inglese
August Derleth, HPL: A Memoir, Ben Abramson, New York 1945. Saggio biografico dell'editore di Lovecraft, il titolare della Arkham House. Alfred Galpin, "Memories of a Friendship", in The Shuttered Room and Other Pieces di Lovecraft-Derleth, Arkham House, Sauk City 1959. Lin Carter, Lovecraft: A Look Behind the Cthulhu Mythos, Ballantine, New York 1973. Agile guida biografica con qualche accenno ai principali temi dell'opera. Willis Conover, Lovecraft at Last, Carrollton-Clark, Arlington 1975. Splendida edizione che riproduce il carteggio di Conover con Lovecraft. L. Sprague De Camp, Lovecraft, A Biography, Doubleday, Garden City 1975 e Ballantine, New York 1976. La più esauriente biografia lovecraftiana a tutt'oggi pubblicata; nei suoi giudizi De Camp è ponderato, ma ciò che in ultima analisi gli sfugge è la personalità essenzialmente artistica, anti-commerciale e ribelle di HPL. Frank Belknap Long, HPL, Dreamer on the Nightside, Arkham House, Sauk City 1975. Bel volume in cui Long, scrittore lui stesso e amico di Lovecraft in gioventù, ne traccia un appassionato e leggibilissimo ricordo. Darrell Schweitzer, a cura di: Essays Lovecraftian, T-K Graphics, Baltimora 1976. Volumetto che raccoglie alcuni dei più celebri saggi e articoli su HPL. Barton St. Armand, The Roots of Horror in the Fiction of H.P. Lovecraft, Dragon Press, Elizabethtown, 1977. Approfondito esame accademico delle radici della narrativa orrorifica di Lovecraft. Paul Shreffler, The Lovecraft Companion, Greenwood Press, Greenwood 1977. S.T. Joshi, a cura di: H.P. Lovecraft, Four Decades of Criticism, Ohio University Press, Athens ,1980. Vasta rassegna di saggi critici apparsi negli ultimi quarant'anni, comprese le celebri "stroncature" di Edmund Wilson. S.T. Joshi, Lovecraft, Starmont House, Mercer Island, 1983. Donald R. Burleson, H.P. Lovecraft: A Critical Study, Greenwood Press, Greenwood, 1983. Peter Cannon, H.P. Lovecraft, Twayne's United States Authors Series n. 549. Twayne Publishers, Boston 1989. Esauriente studio sulla vita e l'opera dell'autore in una nota collana di biografie letterarie. S.T. Joshi, H.P. Lovecraft: The Decline of the West, Starmont House, Mercer Island, Washington 1980.
2. In lingua francese François Truchaud, a cura di: Lovecraft, Cahiers de l'Herne, Parigi 1969. Grande volume di contributi americani e francesi sull'opera di Lovecraft, con illustrazioni e alcuni inediti dello scrittore. Ancora oggi esemplare. Maurice Lévy, Lovecraft ou du fantastique, Ed. 10/18, Parigi 1973. 3. In lingua italiana Carlo Pagetti, "L'universo impazzito di H.P. Lovecraft", in Studi Americani vol. XIII, Roma 1967. Pionieristico articolo accademico sul mondo e le invenzioni di HPL. Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, "Guida alla lettura di Lovecraft" in appendice al volume Sfida dall'infinito, Fanucci, Roma 1976. Il più chiaro e autorevole contributo su Lovecraft in forma breve. Claudio De Nardi, "Alla ricerca della chiave d'argento", in LovecraftDerleth, Il guardiano della soglia, Roma 1977. Giuseppe Lippi, "Il triplice fascino di H.P. Lovecraft" in LovecraftDerleth, Il guardiano della soglia, cit. Gillo Dorfles, "Racconti dell'orrore all'esame di letteratura", in "Corriere della sera", Milano, 29 giugno 1977. In occasione del quarantennale della scomparsa, un breve resoconto del convegno tenuto a Trieste sulla figura di Lovecraft. Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Lovecraft, La Nuova Italia, Firenze 1979. L'unico saggio ad ampio respiro pubblicato in Italia sul sognatore di Providence. Claudio De Nardi, a cura di: Vita privata di H.P. Lovecraft, Reverdito, Trento 1987. Eccellente raccolta di articoli biografici e saggi: particolarmente notevoli le testimonianze dell'amico W. Paul Cook, della moglie Sonia e di Fritz Leiber. Il miglior volume su Lovecraft oggi in commercio in Italia. e) Bibliografie Mark Owings e Jack Chalker, The Revised H.P. Lovecraft Bibliography, Mirage Press, Baltimora 1973. S.T. Joshi, H.P. Lovecraft and Lovecraft Criticism: An Annotated Bibli-
ography, Kent State University Press, Kent, 1981. S.T. Joshi e L.D. Blackmore, H.P. Lovecraft and Lovecraft Criticism: An Annotated Bibliography, aggiornamento 1980-1984. Necronomicon Press, West Warwick 1985. Sono le più famose e complete bibliografie lovecraftiane: monumentale quella di Joshi. f) Case editrici specializzate Conviene fornire due soli indirizzi, quello della Arkham House e della Necronomicon Press oggi diretta da Marc Michaud e S.T. Joshi. Arkham House Publishers, Inc., P.O. Box 546, Sauk City, Wisconsin 53583 (USA). Necronomicon Press, 101 Lockwood Street, West Warwick, RI 02893 (USA). Ad ambedue conviene chiedere il catalogo. g) Le edizioni Necronomicon Press Fondata nel 1976 da Paul e Marc Michaud e diretta per circa quindici anni da Marc Michaud e S.T. Joshi, la Necronomicon Press è oggi, forse, la più seria impresa editoriale dedicata alla pubblicazione critica delle opere di Lovecraft e degli studi lovecraftiani. Il merito della piccola casa editrice di West Warwick (una località nei dintorni di Providence) è stato quello di diffondere le ricerche di una scuola di appassionati e di specialisti formatasi grosso modo nell'ultimo decennio, e che ha dedicato notevoli energie a una serie di ricerche condotte direttamente sui documenti originali e le fonti. Questa procedura, normale per qualunque indagine letteraria ma forse inedita nel campo del fantastico, ha permesso di gettare le basi di quella che potremmo definire l'attuale filologia lovecraftiana. È di questo che dobbiamo esserle soprattutto grati. Ci è sembrato giusto, quindi, dedicare una sezione particolare di questa bibliografia alle edizioni Necronomicon, scegliendo dal suo vasto catalogo i titoli di più urgente interesse anche per il lettore italiano. Dopo il successo dei testi dedicati a Lovecraft, del resto, la casa ha esteso il suo raggio d'azione e ora copre tutto l'arco della narrativa soprannaturale fra le due guerre, con ottime pubblicazioni rivolte allo studio di autori come Robert E. Howard e Clark Ashton Smith. L'indirizzo della casa editrice, a cui si possono ordinare tutti i titoli disponibili, è il seguente: Necronomicon Press, 101 Lockwood Street, West Warwick, Rhode Island 02893 (USA).
1. Opere di Lovecraft Accanto al titolo segue, fra parentesi, la data di pubblicazione. 1. H.P. Lovecraft, First Writings in the "Pawtuxet Valley Gleaner", 1906. Introduzione di Ramsey Campbell (1976, seconda ed. 1986). I primi testi pubblicati da HPL su questo periodico. 2. H.P. Lovecraft, The "Conservative", tutte le annate 1915-1923. Introduzione di Frank Belknap Long (1976, rist. 1977). Riproduzione della celebre rivista redatta in proprio da Lovecraft. 3. H.P. Lovecraft, Writings in "The United Amateur" 1915-1925. Introduzione di T.E.D. Klein (1976). Scritti di HPL sull'organo ufficiale della United Amateur Press Association. 4. H.P. Lovecraft, "The Providence Amateur"', I, 1 (1976). Testi di Lovecraft apparsi sull'omonimo periodico. 5. H.P. Lovecraft, History of the Necronomicon (1977, rist. 1978 e 1984). 6. H.P. Lovecraft, "The Philosopher", I, 1 (1977). Testi di Lovecraft apparsi sull'omonimo periodico. 7. H.P. Lovecraft, "The Californian" 1934-1938. Introduzione di Hyman Bradofsky e Dirk W. Mosig (1977). Testi di Lovecraft apparsi su questa nota rivista amatoriale pubblicata da Bradofsky. 8. H.P. Lovecraft, "The Providence Amateur", I,2 (1977). Il secondo numero di questo periodico amatoriale. 9. H.P. Lovecraft, "The Amateur Correspondent" (1977). Scritti di Lovecraft apparsi sull'omonimo periodico amatoriale. 10. H.P. Lovecraft, "The Rainbow" I, 1 (1977). Scritti di Lovecraft apparsi sull'omonimo periodico amatoriale. 11. H.P. Lovecraft, TheLurking Fear (1977). Edizione illustrata da Clark Ashton Smith. Facsimile dell'edizione apparsa su "Home Brew". 12. H.P. Lovecraft, Fungi from Yuggoth (1977, rist. 1982 e 1985). La famosa raccolta di sonetti fantastici. 13. H.P. Lovecraft, The Cats of Ulthar (1977). Cominciano ad apparire le prime edizioni "critiche" dei racconti di Lovecraft, frutto delle ricerche svolte da Michaud, Joshi e i suoi colleghi alla John Hay Library di Providence, dove sono custodite le carte dello scrittore. Appariranno in seguito The Colour Out of Space, The Night Ocean, Herbert West e altri testi.
14. H.P. Lovecraft e altri, "Fanciful Tales of Time and Space". Introduzione di Don A. Wollheim (1977). Riproduzione di questa rivista amatoriale redatta da Wollheim, cui Lovecraft collaborò. 15. H.P. Lovecraft, Writings in "The Tryout" (1977). Scritti di Lovecraft apparsi sull'omonimo periodico amatoriale. 16. H.P. Lovecraft, Uncollected Prose and Poetry I (1978). 17. H.P. Lovecraft, Uncollected Prose and Poetry II (1980) 18. H.P. Lovecraft, Uncollected Prose and Poetry III (ottobre 1982). In queste tre antologie Marc Michaud e S.T. Joshi hanno pubblicato un'ampia scelta di materiale raro e miscellaneo. 19. H.P. Lovecraft in "The Eyrie" (1979). Le lettere di Lovecraft ospitate nell'omonima rubrica di "Weird Tales". 20. H.P. Lovecraft, Juvenilia 1897-1905 (1984). S.T. Joshi ha raccolto in questo volumetto racconti, poesie e disegni di un Lovecraft giovanissimo. 21. H.P. Lovecraft, Clark Ashton Smith, Forrest J. Ackerman e altri, "The Boiling Point" (1985). Polemiche e dibattiti tra appassionati di narrativa fantastica ospitati nell'omonima rubrica di "The Fantasy Fan". 22. H.P. Lovecraft, In Defence of "Dagon" a cura di S.T. Joshi (1985). Noto saggio teorico in cui Lovecraft difende uno dei suoi racconti e illustra la sua poetica dell'orrore. 23. H.P. Lovecraft, Uncollected Letters a cura di S.T. Joshi (1986). Nonostante siano già stati pubblicati cinque volumi delle lettere di Lovecraft (Arkham House), da anni Joshi sta studiando e catalogando quelle inedite. È un'operazione importante, perché è ormai accertato che nell'edizione standard dell'epistolario i curatori August Derleth e Donald Wandrei hanno compiuto numerosi errori di trascrizione e datazione, senza contare l'"editing" e i tagli cui hanno sottoposto gran parte del materiale. Joshi sta tentando di arrivare a una versione più corretta anche dell'epistolario e attualmente lavora a un grosso volume che raccoglierà la corrispondenza fra H.P. Lovecraft e August Derleth. 24. H.P. Lovecraft, Commonplace Book a cura di David E. Schultz (1987). Il "commonplace book" di uno scrittore è quello che noi chiameremmo taccuino o quaderno d'appunti. Lovecraft ne tenne uno fino al 1934, e questa è la prima versione integrale, non adulterata e commentata. In due fascicoli: il primo dedicato a un'introduzione generale e al testo, il secondo al commento. 25. H.P. Lovecraft e Sonia H. Greene, European Glimpses a cura di S.T.
Joshi (1988). Resoconto di un viaggio in Europa fatto dall'ex-moglie di Lovecraft nel 1932 e da lui completamente riscritto. 26. H.P. Lovecraft, Letters to Henry Kuttner a cura di David E. Schultz e S.T. Joshi (1990). Edizione integrale delle lettere inviate al collega Kuttner, alcune delle quali inedite. Confrontare la versione condensata offerta nell'edizione Arkham House, che oltretutto ne presenta soltanto una parte. 2. Studi su Lovecraft 1. W. Paul Cook, In Memoriam Howard Phillips Lovecraft (1977). Ristampa anastatica di questo famoso testo biografico del 1941, che tratteggia l'amicizia fra Cook e Lovecraft. Se ne trova un'ottima traduzione italiana in Vita privata di H.P. Lovecraft a cura di Claudio De Nardi (Reverdito, Trento 1987). 2. "The Lovecraft Collector" (1977). Ristampa in volume unico dei tre numeri di questo periodico pubblicato nel 1949 da Ray H. Zorn. 3. Kenneth W. Faig jr., H.P. Lovecraft: His Life, His Work (1979). Si tratta della dettagliata cronologia della vita di Lovecraft da noi premessa a quest'edizione con i titoli Cronologia di H.P. Lovecraft e Fortuna di Lovecraft. 4. S.T. Joshi, An Index to the Selected Letters (1980). Scrupoloso indice dei cinque volumi di lettere editi dall'Arkham House. 5. S.T. Joshi e Mare Michaud, a cura di: Lovecraft's Library: A Catalogue (1980). Minuzioso catalogo della biblioteca privata di Lovecraft. 6. J. Vernon Shea, H.P. Lovecraft, the House and the Shadows (1982). 7. August Derleth, Some Notes on H.P. Lovecraft (1982). 8. Sonia H. Greene, The Private Life of H.P. Lovecraft, con un'introduzione di S.T. Joshi (1985). Prima edizione integrale di questo testo autobiografico in cui la moglie di Lovecraft ricorda il loro rapporto di affetto e collaborazione. Traduzione italiana in Vita privata di H.P. Lovecraft a cura di Claudio De Nardi (Reverdito, Trento 1987). 9. S.T. Joshi e L.D. Blackmore, a cura di: H.P. Lovecraft and Lovecraft Criticism: An Annotated Bibliography. Supplement 1980-84 (1985). Aggiornamento della monumentale bibliografia di Joshi pubblicata nel 1981 (v. sopra). 10. Peter Cannon, The Chronology Out of Time: Dates in the Fiction of H.P. Lovecraft (1986). Questa cronologia interna della narrativa di Lovecraft è stata da noi tradotta nel vol. II della presente edizione con il titolo
Una cronologia al di là del tempo. 11. The H.P. Lovecraft Memorial Plaque (1990). Breve cronistoria del primo monumento pubblico dedicato a Lovecraft dalla città di Providence, in occasione del centenario della nascita. Con i discorsi pronunciati all'inaugurazione, il 20 agosto 1990. 12. The H.P. Lovecraft Centennial Conference Proceedings (1991). Atti del convegno svoltosi alla Brown University per il centenario dello scrittore (17-20 agosto 1990). 3. Riviste Due volte all'anno (in primavera e in autunno) la Necronomicon Press pubblica la rivista "Lovecraft Studies" diretta da S.T. Joshi. Le altre riviste edite da Marc Michaud sono: "Studies in Weird Fiction", dedicata in generale alla letteratura fantastica ma con particolare enfasi sul periodo 19001940; "The Dark Eidolon" (ex-"Klarkash-ton") diretta da Steve Behrends e dedicata a Clark Ashton Smith; e "The Dark Man" diretta da Rusty Burke per lo studio di Robert E. Howard. FINE