© 1978, Gius. Laterza & Figli
Illuminato Peri
Nella « Collezione Storica » prima edizione 1978 Nella « Biblioteca Univ...
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© 1978, Gius. Laterza & Figli
Illuminato Peri
Nella « Collezione Storica » prima edizione 1978 Nella « Biblioteca Universale Laterza » prima edizione 1990
UOMINI CITTÀ E CAMPAGNE IN SICILIA DALL' XI AL XIII SECOLO
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Editori Laterza I990
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I L'EREDITA MUSULMANA TIPI E DISTRIBUZIONE DEGLI ABITATI Per i geografi degli anni dell'emirato, musulmani di religione e arabi di lingua, la Sicilia era provincia della periferia islamica. Su di essa riportarono abitualmente notizie schematiche e stereotipe, talora attinte dalla descrittiva dell'antichità e con indulgenza ai tratti di colore. L'arrivo di viaggiatori-diaristi da paesi musulmani fu pure eccezionale; e la permanenza fu breve e limitata a pochi luoghi. Cronisti e rogatari di documenti degli anni della conquista e dell'insediamento dei normanni, per parte loro, sembrano prediligere il racconto e il ricordo di distruzioni: città e campagne, edifici e povere abitazioni ricorrono quasi esclusivamente per i danni e le rovine che subirono. Pure, dall'insieme di queste fonti, musulmane e cristiane, risalta che, per le misure e con la sensibilità dell'epoca, la Sicilia, almeno in talune parti e in alcuni aspetti, era oggetto di ammirazione, e risulta anche se non un quadro coerente, uno schizzo della distribuzione in essa della residenza umana. Nella Sicilia musulmana c'era una sola .città « famosa e popolosa » (come scrisse, ripetendo il giudizio allora corrente il geografo al-Muqaddasi — il Gerosolimitano —, che ultimò la sua opera intorno al 977). Essa era tale, però, che il paragone con Bagdad fra le città di levante e Cordova fra quelle di occidente non appariva enfatico. Questa città fu Palermo, che i musulmani scelsero e mantennero capitale dell'isola e che, per l'autonomia in cui si resse, comportò una propria organizzazione amministrativa, finanziaria e militare. Essa per altro acquistò e consolidò, durante l'emirato, funzioni del più vasto respiro in un ampio circuito economico.
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1. I Normanni. Rilancio e contraddizioni
Al suo rilancio concorsero, immediatamente, le difficoltà nelle quali si trovarono le città della Sicilia orientale (Siracusa in primo luogo, Catania, Taormina, Messina, ecc.) per lungo tempo travagliate e logorate dalla penosa resistenza alla penetrazione islamica. Quando, poi, si arresero o vennero a patti, queste città si trovarono dinanzi a difficoltà che risalivano oltre l'ambiente isolano. La rotta verso Bisanzio, privilegiata quando l'isola gravitava sull'impero d'oriente, era pressoché interdetta, e, se non impedite, erano quanto meno ridotte e spesso ardue le occasioni di scambio con le regioni sud-orientali della penisola. Lo Stretto era diventato frontiera. Palermo, piazza privilegiata dei movimenti fra l'Africa in espansione demografica ed economica e l'orgogliosa provincia musulmana di Sicilia, assolse pure la funzione di porto di convergenza al centro del Mediterraneo e emporio di larghi scambi — larghi se non sul piano quantitativo, per qualità e valore venale — fra i paesi musulmani d'Africa, di Spagna e di levante e quelli cristiani di occidente. Nella duplice funzione di centro amministrativo e militare e di porto-emporio, si inserì la stimolazione delle attività artigianali (andarono allora rinomate le vesti follate di Sicilia) e della produzione agricola. Allo slancio edilizio (nel 937-938 fu dato inizio alla costruzione della al-Halisah, « la Eletta », residenza degli emiri, che raccolse gli uffici e le abitazioni dei musulmani di condizione economica più elevata) si uni la crescita dell'arsenale, unico nell'isola. A quel rigoglio pare abbiano contribuito risorse minerarie valorizzate, sfruttate e esaurite negli anni della dominazione islamica'. Se operatori locali erano largamente partecipi al mercato di esportazione, per altro nella città se ne trovavano, e in congruo numero, cristiani non siciliani: napoletani, amalfitani soprattutto (e la loro presenza colpi Ibn Hawqal, un mercante diarista di Bagdad, la cui opera fu portata a termine nel 977). Uno dei quartieri più popolosi della città, quello del porto, prese nome dagli schiavoni (Harat as-Sagalibah, il Seralcadio dei documenti in latino di epoca posteriore). Nel secolo XI incominciarono a frequentare il porto siciliano i pisani (alcuni che stavano in città per mercanteggiare prestarono incisivo aiuto a Roberto il Guiscardo nel 1071, nella conquista). Pellegrini dall'occidente, particolarmente numerosi quelli provenienti dall'Andalusia, facevano sosta abituale in Palermo nel viaggio verso la Mecca (a distanza di un secolo dalla fine della dominazione musulmana, questa
I. L'eredità musulmana. Gli abitati
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rotta era segnalata, quale preferita, da un altro mercante-diaristapellegrino, Ibn Giobayr). Se Palermo fu il gioiello che i normanni raccolsero dalla dominazione musulmana pure, nel secolo circa che intercorse dal passaggio di Ibn Hawgal alla caduta dell'emirato, erano progredite Siracusa e Catania; mentre sulla costiera di mezzogiorno a ponente era proseguita la crescita di Mazara e di Agrigento. Queste due ultime città, superando travagli provocati da turbolenze all'interno e difficoltà che derivavano dal complicarsi dei rapporti con i califfi o i loro rappresentanti, erano cresciute sulla cresta degli scambi aperti e continui con il Magrib: scambi non costituiti da generi particolariinente pregiati e dall'elevato valore commerciale (manufatti di lusso, aromi, spezie), ma dai prodotti necessari alla nutrizione e alla conservazione e al condimento dei cibi (cereali, sale). Agrigento emergeva quale porto di esportazione del salgemma estratto dalle miniere dell'interno ed era al centro della fascia costiera (Sciacca e Licata restavano modeste ai due lati) verso la quale confluivano le eccedenze dell'altipiano cerealicolo centro-meridionale. In misura certo meno appariscente e congrua, assolveva il ruolo e la funzione che sulla costiera di tramontana teneva Palermo, con la corona di Termini a levante e di Partinico (rinomata per le leguminose e il colorante vegetale) e Carini (vantata per la frutta secca) a ponente. Queste condizioni, specchiate negli elenchi di al-Mugaddasì, trovarono riscontro nella scelta delle sedi vescovili dopo la conquista normanna. Che furono, a parte Troina (« prima sedes », abitata da cristiani di rito greco, che dopo la breve e instabile fase dell'insediamento lasciò posto a Messina) Palermo, Agrigento, Mazara, Siracusa e Catania. Erano tutte città sulla costa (ad Agrigento l'abitato era arroccato a 3 miglia di strada dall'approdo che era già trasferito nella insenatura, ove poi è cresciuto il comune di Porto Empedocle), porti e mercati di importazione e di esportazione in varia misura frequentati e vivaci. Per il resto la lista delle « città » compilata da al-Muqaddasi era piuttosto scarna: Lentini (che la navigabilità del fiume omonimo consentiva noverare tra i porti), Aci, Taormina (anche qui, sottostante alla rocca era l'approdo) sulla costiera di levante, Termini (il piccolo porto era allo sbocco del Salso), Carini, Trapani (le saline non erano ancora in funzione; i traffici con l'Andalusia tendevano ad accen-
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1. I Normanni. Rilancio e contraddizioni
trarsi nell'emporio palermitano, e quelli con l'Africa facevano capo alle città sulla costiera meridionale). Gli abitati maggiori, quando non stavano sul mare ; gravitavano sulla costiera; al mare erano legati da un fiume navigabile almeno dalle imbarcazioni adibite al normale cabotaggio e per gran parte delle stagioni: era il caso, sulla costiera di mezzogiorno, di Scicli e di Butera dall'ampio territorio (comprendeva i luoghi dell'antica Gela, ove sotto Federico II si sviluppò Eraclea). L'eccedenza della produzione dell'interno, quando c'era, trovava sbocco e valorizzazione nei mercati cittadini e nei porti; e il paesaggio prendeva colore e vivacità accosto al mare per i favori del clima e della configurazione altimetrica (quasi dappertutto, a ridosso della fascia costiera, si snodano bassi e altipiani) e per la disponibilità di risorse idriche, allo stato di natura o disciplinate. Oltre la cultura a cereali per cui alle città era agevole alimentarsi della produzione del territorio proprio, si snodavano lungo la costiera gli agrumeti, gli orti, i frutteti al cui ampliamento e miglioramento qualitativo valsero le esperienze che i musulmani trasferivano dall'oriente e dal Magrib su un suolo e con clima propizi. All'interno invece le aridocolture rompevano i tratti boschivi e i vasti spazi vuoti e gli ortaggi trovavano posto a sponda dei corsi d'acqua. La parte dei fiumi nel paesaggio e nell'economia siciliana d'epoca musulmana era eminente: per gli approdi che stavano allo sbocco (anche a Palermo, ove il porto era nell'insenatura dei due fiumi, Kemonia e Papireto, che attraversavano l'abitato; mentre l'Oreto lambiva i sobborghi meglio dotati) magari inoltrandosi per un tratto all'interno (era il caso del fiume di Mazara), per la navigabilità che taluni serbavano per alcune miglia, per la pescosità che in molti era ancora elevata. Lungo i bordi dei fiumi si snodavano in ampia misura i frutteti e gli orti (anche a Palermo, e non solo lungo l'Oreto), ché i pozzi, le senie, là dove ne era possibile la escavazione, non erano né continui né con frequenza e dimensioni da poter servire alla irrigazione. La perforazione, comunque, era meno disagevole, e le falde erano più di ff use nei tratti costieri che non sul duro terreno dell'interno. D'altro lato, mentre la cisterna di acqua piovana aveva aspetti igienici ambigui e riservava incertezze nelle annate secche, l'utilizzazione di sorgenti per l'approvvigionamento idrico non era nelle abitudini e anzi costituiva eccezione (al-Mu-
I. L'eredità musulmana. Gli abitati
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qaddasi faceva oggetto di ricordo e di ammirazione Aci ove la popolazione beveva acqua corrente). Da qui l'abituale vicinanza dei maggiori centri abitati ai fiumi e alle fiumare. L'azione dispersiva, quando non distruttiva, delle piene improvvise e impetuose, le irregolarità proprie delle fiumare non avevano, nella Sicilia di epoca musulmana, la frequenza né l'ampiezza che hanno attualmente nel paesaggio siciliano. Ciò perché il bosco restava diffuso su vaste superfici, malgrado l'esportazione di legname d'alto fusto verso il Magrib per sopperire alla richiesta che veniva, fin dal secolo VIII, dagli arsenali e dalle città costruite (prima, al-Mandiyah) o ingrandite in quella fase di nuovi insediamenti e di inurbamento. Il bosco, particolarmente intenso sull'Etna, sulle Caronie, nella fascia da Piazza verso Ragusa, ma pure consistente in altre vaste chiazze, se toglieva spazio all'agricoltura e lo riduceva alla pastorizia, rimaneva a regolare il regime idrico a preservare i corsi d'acqua e a limitarne la stagnazione ai bordi. Non c'è memoria di grosse paludi neppure nelle piane, in quella stessa fra Siracusa, Lentini e Catania: Godrano, « i paludi », è toponimo che compare alla metà del secolo XII in Edrisi, e rispecchia una condizione d'eccezione. Il bosco contribuiva sostanziosamente ad assicurare condizioni ecologiche confacenti all'uomo. Le residenze all'interno dell'isola erano piuttosto ridotte nel numero, e comunque non davano luogo ad abitati nelle dimensioni delle migliaia di persone. Caltanissetta (il classico Nissa si era combinato con l'arabo gal`at) era casale modesto; Caltagirone prendeva nome dal cinghiale che predilige la montagna deserta d'uomini; Enna ebbe ruolo di primo piano nelle vicende che decisero le sorti della Sicilia, per la positura al centro dell'isola in sito eminente sulle strade di collegamento; Noto fu al proscenio nei primi anni appresso la conquista, quando Siracusa presentava larghe le ferite, di rovina e di spopolamento, poi il rigoglio di grosso abitato rimase legato alla fertilità dei campi e all'estensione del territorio che giungeva al mare (dal quale la cittadina distava appena 8 miglia); Paternò nella zona etnea, Geraci, Petralia, Caltavuturo, Qal`at as-Sirat - Collesano, Polizzi nelle Madonie fino ai territori di Caltanissetta e Enna; Corleone, Giato, Belice, Calatafimi sul versante di ponente erano abitati modesti per numero di residenti e per dimensioni. Si distinguevano non agevolmente da castelli e rocche presidiati da contin-
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1. I Normanni. Rilancio e contraddizioni
genti armati o da discendenti da non cospicui gruppi familiari o tribali nei cui pressi si stendevano abitati modici con i quali dividevano il nome e nel cui territorio rientravano rahl o menzil (casalia nella terminologia romanza) nei quali risiedevano poche famiglie. Quale che, poi, fosse il numero di insieme dei casali (magari alcune centinaia, quanti possono registrarsi nei documenti di epoca normanna, quando si erano sviluppate ed erano in corso consistenti immigrazioni e nuovi insediamenti) nulla autorizza né l'ipotesi di una densità di popolazione sviluppata sia pure moderatamente, né quella di un paesaggio movimentato da un reticolo di minuti stabilimenti rurali. La distribuzione della residenza umana tra fascia costiera e interno sotto i musulmani non subi larghe e sostanziose innovazioni, dacché avanti erano state costantemente privilegiate le pianure accosto alla marina e nelle fasce collinari e montane dell'interno gli insediamenti erano stati comparativamente ridotti e sporadici: che era risposta e adeguamento alle condizioni del clima e del suolo, che valsero finché non emersero nuove urgenze e proposte dallo sviluppo demografico interno o da sollecitazioni dall'esterno. Un validissimo archeologo e studioso della storia della Sicilia antica, Biagio Pace, osservava che lo storico, il quale sprovvisto di documenti avesse voluto affidare la verifica della presenza musulmana in Sicilia ai monumenti, avrebbe finito con il porla in dubbio, tanto esigui e perfino incerti sono i resti. Particole in deterioramento del castello della Favara di Maredolce e di quello della Cannita, tratti nel complesso di S. Giovanni degli Eremiti sono quanto rimane in Palermo e nei dintorni. Nelle altre città non si trovano neppure queste labili testimonianze, anche se in diversi posti esistono edifici vantati quali opera dei « saraceni », ma che nessun carattere hanno dell'architettura dell'epoca. Unico monumento conservato sia pure parzialmente, che risale agli anni dell'emirato, sono i bagni di Cefalà Diana: omaggio a un'abitudine che non inventarono certo i musulmani né fu da loro importata nell'isola; ma che essi mantennero in vigore e praticarono, magari inserendovi una nota rituale in ossequio al precetto coranico. Il tempo stende sulle opere degli uomini il velo della dimenticanza oltre che il peso della distruzione. Ma non sono scomparse del pari, dalle fondamenta, in Sicilia le tracce delle abitazioni e dei locali di uso pubblico e religioso di altre
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dominazioni. Che la smania e il bisogno di adattare e la rabbia iconoclasta di uomini di religione diversa bastino a motivare queste distruzioni dalle radici è dubbio che stenta a trasformarsi in convinzione il culto cristiano si è sostituito al pagano, né di quest'ultimo c'è stato ritorno, e i templi sono rimasti, nell'avvicendarsi di domini e di dominatori di religione diversa, e gli scavi hanno messo in luce edifici e quartieri e centri abitati anteriori alla conquista islamica. Non è neppure razionale supporre, e non è confortato dai fatti, che la rabbia del cristiano si sia abbattuta sugli edifici dei musulmani, con perfida abilità nel riconoscerli, e ne abbia demolito fino le fondamenta impegnandosi e logorandosi in una fatica senza lode e senza compenso. Certo, le distruzioni non mancarono già durante la guerra di conquista dei normanni, che fu logorante, e fu anzi proprio di logoramento, e durò 31 anni; e tattica abituale fu una sorta di cassia, con rapide puntate aggressive, la distruzione di colti, il taglieggiamento, la cattura di prigionieri e la adduzione di essi in schiavitù, e solo eccezionalmente e risolutivamente l'attacco frontale o l'assedio. Ma proprio questo logoramento gravava sugli uomini e sui beni mobili (sui colti, sul bestiame) più che sulle pietre degli edifici. Le spade normanne per quanto affilate e pesanti non valevano a rompere le pietre; e non sembra che i normanni abbiano prediletto distruggere le città occupate con il fuoco, che era accanimento da tempo in desuetudine e dal quale comunque le pietre almeno non sarebbero state distrutte né gli edifici sradicati dalle basi. I guasti ci furono; e probabilmente le avvenute rovine di « splendidi palazzi » non rappresentano, nei diplomi di fondazione di alcuni vescovadi, reminiscenze esuberanti o concessioni retoriche, e neppure costituiscono tardivi inserti di discutibile originalità o tanto meno formule ripetute senza preoccupazione di aggancio alla realtà. Certo distruzioni non mancarono, nella conquista e nel passaggio della dominazione nel secolo XI; e altre si sono aggiunte nel tempo, ultima la demolizione dei resti del castello a mare di Palermo. Ma la scomparsa pressoché totale dell'architettura residenziale e monumentale di epoca musulmana in Sicilia resta ancora a livello di enigma di Sfinge: arduo e a portata di mano, vago ma pure palpabile. $ certo che al-Hâlisah, la « Eletta », fu costruita: la vide e ne scrisse Ibn Hawgal nel secolo X; la descrissero e ne ripetettero le origini nel secolo XII Edrisi, Ibn Giobayr e l'autore della Epistola a Pietro
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tesoriere che era cristiano e che scriveva in latino. Un quartiere Calsa esiste tuttora; ma le reminiscenze musulmane sembrano ridotte al nome (salvo a esercitare capacità intuitive e comparative su costumanze e abitudini: un esercizio dal quale non pare tragga vera utilità la conoscenza storica). Un'architettura, allora, che è caduta pietra dopo pietra; e pietra dopo pietra è stata riadoperata? architettura effimera, perché fragile nella consistenza? Alle domande può assegnarsi posto di topoi retorici. E c'è da aggiungere: la stessa cittadina della Hâlisah fu elevata, così d'urgenza, con la pietra, o i musulmani che venivano dal Magrib, non adoperarono piuttosto il legno, come lo avevano usato (e attingendo in larga misura dai boschi di Sicilia) nel costruire la città e la stessa capitale prescelta? 2 L'uso del legname — è noto — era largo anche nell'occidente cristiano, in quell'epoca, e ad esso vanno addebitate rapide distruzioni da incendi e attribuite pronte ricostruzioni. E se non si vuole affermare che ai musulmani di Sicilia mancarono gusto o tempo, mezzi e puntigliosità per costruire edifici destinati a durare quanto il bronzo, non si può neppure trascurare che la grande stagione dell'architettura in terra d'Africa, matrice e punto di riferimento politico e culturale della Sicilia islamica, fu posteriore all'emirato e coeva al dominio normanno sull'isola, o posteriore. Il problema, che sussiste per gli edifici di culto e destinati alle maggiori incombenze pubbliche, si risolve piuttosto agevolmente per le abitazioni d'uso corrente e nel paesaggio rurale. E si scioglie astraendo dal quadro di maniera relativo al modo e al tenore di vita che i musulmani avrebbero raggiunto in quell'epoca in Sicilia e nell'Africa prospiciente3 . Nella realtà scevra di enfasi, i magribini (berberi originari, o di provenienza orientale che fossero) trapiantarono nell'isola usi ed esigenze del proprio paese che, talora, non mancarono di analogie con quelli praticati nella campagna siciliana o nelle parti delle città (e non erano esigue) che vivevano con le risorse e ai livelli dell'ambiente agricolo. Da qui l'espansione delle abitazioni trogloditiche. L'ambiente rurale siciliano d'epoca musulmana rivela segni vistosi di questo trapianto che, se probabilmente non mancava di agganci, non si esaurì certamente con il venir meno del governo islamico. In alcuni casi i toponimi riflettono condizioni di fatto verificabili: Gardntah (Grotte) vicino ad Agrigento, che ricorre nelle cronache della conquista normanna, buon
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casale al tempo di Edrisi; Gurfa (proprio di residenze trogloditiche, del Nord-Africa), casale e dal secolo XIII fattoria dell'ordine dei teutonici. E ancora: Pantalica, o Pentarga, che ha conservato, ancor dopo il terremoto del 1693 e il trasferimento della popolazione nell'odierna Spaccaforno-Ispica, la suggestiva fisionomia di abitato trogloditico durato dalla preistoria ai níusulmani passando per Bisanzio. Ma le testimonianze concrete di residenze in grotte sono di ff use anche là dove non hanno la vistosità esemplare di questi casi: come sopra Collesano non discosto dai resti dell'abitato inesplorato che con ogni probabilità è da identificare con Qal`at as-Sirat, « la rocca della strada », distrutta per volontà di Ruggero II, a quel che ne scrisse Edrisi. Ad Agrigento, da Michele Amari battezzata capitale dei berberi trapiantati in Sicilia, alla fine del secolo scorso fu descritto un vasto quartiere trogloditico che faceva parte del rabato (sobborgo), in contrada Balatizzo, lungo l'asse dalla rocca verso il porto medievale. L'esplorazione compiuta da uno studioso, dotato di passione e di qualità naturali più che di esperienza metodologica, diede la preferenza a un periodo preistorico: proposta smentita da Paolo Orsi, che sostenne l'uso delle abitazioni trogloditiche in epoca bizantina e sotto i musulmani, con il risultato di spegnere gli entusiasmi e le iniziative di indagine. Le grotte, incavate nel tufo arenario, sono scomparse dopo che la zona è stata trasformata in grossa cava di materiale, nella seconda metà del nostro secolo. La grotta non fu né la più effimera né la più fragile tra le abitazioni usate da quegli uomini, che magari ne apprezzavano le capacità di riparo dal freddo in inverno, dal caldo in estate, per cui ancora intorno al 1930 le popolazioni dell'Africa del nord erano restie ad abbandonarle in cambio delle case o ff erte con lusinghiera larghezza dalle società petrolifere. Da Edrisi a Ibn Halden la più attenta descrittiva geografica e storica in lingua araba ripete la inclinazione al trogloditismo da parte dei berberi, e tra essi delle tribù Kutâmah che componevano larga parte della immigrazione in terra di Sicilia. Abitazione di più vasta diffusione nell'agro (ma fino a quali livelli, e in che differivano modi e mezzi di vita, nella campagna e in città?), che era possibile elevare dappertutto, anche là dove non c'era tufo arenario e non c'era pietra calcarea da scavare e dove non esistevano cavità naturali, era la capanna-pagliaio, che, pur con varianti nella forma
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e nelle dimensioni, talora in risposta a differenti esigenze ambientali, era piuttosto vicina ai grubi magribini, secondo una tipologia d'insieme che ha avuto diffusione nell'area mediterranea per largo spazio di tempo. Il pagliaio non richiedeva scavo in profondità per le fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti, « in secco », senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi, con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricati « a pietre e calce » (ad lapides et cakes), anche nelle città erano e sarebbero rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare. E, del corso del tempo e dei tempi dell'esistenza avevano nozione diversa dalla nostra quegli uomini che l'esposizione ai rigori, la fatica prolungata e l'assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e al viatico verso l'esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle generazioni 4 .
II IL MARE, I FIUMI, I PORTI, LE CITTÀ L'occupazione della Sicilia da parte dei normanni si vestì dell'insegna della crociata, del recupero di terre che erano dominate dagli infedeli. Fu quale capo della riconquista cristiana che il conte Ruggero pretese e ottenne dal papa Urbano II le funzioni di legato apostolico; e con questa funzione egli sovrintese alla riorganizzazione della chiesa in Sicilia. Nella scelta delle prime sedi vescovili criterio ispiratore fu l'aggancio con le città: criterio non nuovo, e che oggi fa, di quelle designazioni ai fini ecclesiali, indicazioni dalla più larga validità j. Ci fu una deroga, dettata da esigenze di fatto e subito superata: Troina scelta quando l'insediamento nell'isola era incompiuto e incerto. E Troina cedette presto il ruolo prestigioso a Messina, quando questa si sollevò dall'angustia di abitato di confine. Quello di Troina rimase per lungo tempo caso non ripetuto di sede vescovile discosta dal mare. Le città che i normanni trovarono, sia pure, alcune, provate dalla guerra 2 e che ospitarono i vescovi, erano situate sulla costa: Palermo, Mazara, Agrigento nella parte occidentale, Siracusa e Catania in quella orientale. La vita della Sicilia gravitava verso il mare. I normanni lo sentirono, e assecondarono l'inclinazione anche dopo i primi anni dalla conquista e nella organizzazione ecclesiale, che non era scevra da implicazioni amministrative, politiche ed economiche. Lungo la costiera furono scelte le due altre sedi vescovili alla cui creazione contribuirono, assieme alla devozione dei prìncipi, motivi pratici interni all'organizzazione ecclesiale e politico-religiosa (l'azione missionaria combaciava con le esigenze della latinizzazione di territori a base etnico-religiosa islamica o cristiano-greca). Questi vescovadi, di Patti e di Cefalù, smembrarono la diocesi ,
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di Messina, abnorme nella estensione dallo Stretto al Salso lungo la costiera di tramontana, fino ad Aci a mezzogiorno, all'interno cpmprensiva dei Peloritani, delle Caronie, dei Nebrodi e delle Madonie toccando la zona etnea e addentrandosi fino a poche miglia da Castrogiovanni. Né Patti, scelta da Ruggero I dopo il labile tentativo di far capo al monastero di S. Bartolomeo nella inospitale Lipari, né Cefalù promossa da Ruggero II erano città, e malgrado gli incentivi che non mancarono e i vantaggi che offriva la presenza del vescovado non raggiunsero i livelli di città. La loro ubicazione era comunque accosto al mare; e la scelta si conformava e marcava la linea di inclinazione. A questa tendenza fece eccezione l'arcivescovado di Monreale voluto, nella tarda età normanna, da Guglielmo II. Gli inizi di questo arcivescovado, del cui titolo fu insignito l'abate del monastero di S. Maria legato al nuovo e grandioso duomo, furono sostanzialmente anomali; e non solo perché la sede diocesana non era in una città, ma vicina a un casale (Bulcar) a poca distanza da Palermo. Alla fondazione della chiesa e del monastero, alla dotazione e alla elevazione a dignità arcivescovile concorsero la religiosità di un re infelice minato nella salute e forse nelle capacità virili (Guglielmo, che i suoi sudditi fecero presto a chiamare « buono »), rivalità e velleità tra il clero variamente influente sulla corte di Palermo e sulla curia di Roma, le sollecitazioni alla trasformazione della base etnico-religiosa pervicacemente musulmana dei vasti territori che furono diocesi e signoria feudale dell'abatearcivescovo. Questi stimoli ebbero ragione di una pratica che non era solo siciliana (la combinazione vescovato-città) e di una condizione che nell'isola era allora corollario (la collocazione nella fascia costiera). Al di là delle scelte e del ruolo nell'organizzazione monastica ed ecclesiale, notevoli sollecitazioni investirono gli abitati a mare: Trapani, Marsala nei luoghi di Lilibeo risollevata sotto il conte Ruggero il quale « cinsela di un muro, talch'essa riebbe popolazione, mercati e botteghe », Sciacca e Licata che crebbero dalle dimensioni di casali. Fu una fascia di porti prospicienti l'Africa, la cui attività sotto i normanni non fu più legata a periodi o congiunture d'eccezione o esclusivamente agli scambi col continente di rimpetto. Procedette in relazione alla utilizzazione di risorse minerarie (notevole ancora il salgemma, prezioso quale condimento e per la conservazione degli alimenti, carne o pescato
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che fossero) e alla ricchezza di derrate (frutta secche, cacio, carni salate, pesce, specie tonnina) e particolarmente di cereali. Ma la richiesta, oltre che dall'Africa del nord le cui risorse agricole erano rimaste disfa tte dai guasti e dalle desolazioni inferte dalle tribù nomadi che su essa avevano gettato i Fatimiti, fu abituale da parte delle città dell'Italia centrale e settentrionale, nelle quali la crescita demografica creava urgenze di approvvigionamento. Queste condizioni ruppero il nesso fra export e periodi di emergenza (il circolo siccità-carestia), diedero luogo a un mercato più vasto e continuativo, e crearono spazi vantaggiosi a materie prime o fferte dalla pastorizia (pellame, cuoi) e a prodotti del suolo (cotone, coloranti) le cui culture in Sicilia sono in seguito regredite per incuria, per la concorrenza di paesi allora defilati dal mercato e a seguito di mutazioni climatiche ed ecologiche. Non fu, questa, situazione ristretta ai porti del versante di mezzogiorno e della punta sud-occidentale. Alla dilatazione del mercato, alla richiesta più larga e non aleatoria dall'esterno e da parte di qualche città siciliana in espansione (a Messina retroterra e adiacenze non assicuravano l'autosufficienza alimentare) corrispose un'offerta congrua. La crescita delle città-porto (o sia pure, a scanso di enfasi, di abitati con porto) se investi la fascia costiera nell'insieme, ebbe incidenza e corrispondenza all'interno dell'isola. Qui il dissodamento fu largo, e, favorito dalle immigrazioni, l'incremento demografico andò oltre la misura naturale e normale dei periodi di pace, di assenza di epidemie e di migliorate condizioni economiche e ambientali. Se ancora il baricentro della vita siciliana si mantenne verso il mare, una volta di più la vicenda dell'isola è comprensibile allo storico e al lettore di storia solo se essa è considerata nel contesto dello scacchiere più ampio (dei tre continenti che gravitavano verso il Mediterraneo). Quello aperto dalla conquista degli Altavilla resta, anzi, in questo senso, periodo fra i più suggestivi, per la presenza della Sicilia all'esterno come per la dinamica interna. Se la « città » della Sicilia per antonomasia rimaneva, sotto gli Altavilla, Palermo, Messina spiccava, più che per le dimensioni, per il ruolo e la fisionomia che assumeva. Messina era, per certi aspetti (e non sempre allettanti) « più moderna » in quella stagione declinante del Medioevo. Noverata tra le città verisimilmente per ripetizione da cronografie dell'antichità, essa era
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realisticamente definita « piccolo paese » dal geografo Yâqút, il quale ne scrisse nel secolo XII compilando però su fonti che risalivano all'epoca della dominazione musulmana. Anche nella cronachistica cristiana della conquista non mancano contraddizioni. In Goffredo Malaterra si legge « portui (...) populosa civitas », mentre Amato di Montecassino scrisse che all'arrivo dei normanni « la cité estoit vacante des homes li quel y estoit avant ». Entrambi i cronisti attribuivano al Guiscardo la elevazione di nuove fortificazioni e l'insediamento di uomini a presidio 3 . Fosse, comunque, al momento del passaggio dei normanni « populosa » o « vacante des homes », per Messina la conquista degli Altavilla segnò l'avvio di una fase nuova. Rilanciata « quasi claves insulae » al passaggio fra la Sicilia e la Calabria che rientravano in un unico organismo politico-amministrativo (già a livello di contea, prima che avvenisse l'unificazione dei possedimenti degli Altavilla e la proclamazione del regno), le sponde del faro non segnarono più un confine ove i risiedenti stavano sul piano di guerra o quanto meno della sorveglianza e gli scambi erano di incerta continuità se non sporadici o di contrabbando. A pochi anni da ll a conquista, le crociate, gli insediamenti militari e quelli commerciali in oriente e nell'Africa del nord, la presenza di mercati dell'Italia peninsulare e di Provenza conferirono al porto messinese, av an ti che posizione concorrenziale con Palermo quale mercato di incontro e di scambio, condizione di approdo intermedio lungo il percorso preferito per la brevità dalle navi che trasportavano merci e pellegrini tra l'oriente e l'occidente del Mediterraneo. Di Messina Edrisi, alla metà del secolo XII, vantava i mercati, il numero degli acquirenti e la varia provenienza di essi, la facilità delle compravendite e pure la accessibilità del porto e la speditezza che la positura consentiva nel carico e nello scarico. Allora già i genovesi tenevano un fondaco e avevano ottenuto l'insediamento di un loro console, gli amalfitani erano amministrati da un proprio magister, ai fiorentini era intestata una rua; i veneziani fruivano di tariffe doganali vantaggiose (che nel 1175 furono ancora ridotte). Per parte sua, la dinastia continuava ad esercitare un'azione di sostegno nei confronti di una città che probabilmente di aiuto aveva bisogno meno di altre, ma in favore della quale si combinavano le pressioni della popolazione e le sollecitazioni dall'esterno di comuni e di privati interessati agli scambi, all'approdo e al transito (i genovesi, che si
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distinguevano per solerzia e largo interessamento, chiesero e ottennero nel 1156 di pagare solo il 3% sul venduto e non dare « nichil » se non vendevano: e fu, questa, clausola distintiva della posizione di « nazione preferita »). Gli aspetti — sporcizia, confusione, male presenze che si mescolavano alla fervida operosità — che Ibn Hawgal aveva coloritamente evidenziato nella Palermo della seconda metà del secolo X, si ritrovano nelle descrizioni della Messina del secolo XII. L'ebreo Beniamino di Tudela fu colpito dal numero di cristiani di passaggio verso la Terrasanta (e non è qui luogo ripetere la fisionomia di queste folle). Ibn Giobayr si compiaceva nel ritrarre certe contraddizioni (« Piena di sudiciume e di fetore, schiva e inospitale: pure ha mercati ricchi e frequentati; ha copia di quanto si possa desiderare per gli ozi della vita »), e confermava le annotazioni di Edrisi sulla agibilità dell'approdo (« Mirabilissimo poi il suo tra tutti i porti di mare; perché non è sì grosso legno che non possa avvicinare da toccar quasi la terra; e vi si passa mettendo soltanto un'asse, su la quale salgono i facchini co' pesi in spalla. Né s'adoprano barche per caricare e scaricare le navi, se non quando sorgano all'ancora a poca distanza »). Ibn Giobayr rilevava pure le difficoltà che si incontravano a dare ricetto alla popolazione in aumento e a nutrirla. E a mettere in evidenza gli aspetti deteriori il Falcando descriveva l'espansione caotica: « questa città racchiuse le sue mura mettendo insieme stranieri: pirati, predoni, pressocché ogni genia di uomini esperta d'ogni scelleratezza che non aborriva da delitto di sorta e nulla riteneva illecito, sì che ladri, pirati, parassiti e procacciatori, e implicati in tutti gli altri crimini vi si radunavano, e dopo aver passato il giorno in gozzoviglie, trascorrevano le notti intiere a lanciar dadi ». Messina non era agevolata solo dalla positura e dalle ottime condizioni di approdo. Già negli anni di Edrisi l'arsenale di Palermo era venuto meno o era in decomposizione. Attorno alla capitale le miniere di ferro erano esaurite o comunque la produzione era irrilevante; e il legname adatto per fusto e impermeabilità doveva giungere dopo percorso non breve che gravava sul costo e sulle disponibilità. A metà del secolo XII l'industria cantieristica era concentrata nel triangolo S. Marco-Messina-Mascali, epicentro la seconda, cui facevano capo costruzione e riparazione della flotta regia e del grosso naviglio. Sulle alture sopra Messina erano in sfruttamento miniere di ferro che consentivano
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addirittura una sia pur modica esportazione. Convergeva inoltre su quel triangolo il legname dei boschi di Randazzo e dell'Etna, delle Caronie, di Nicosia. Da Mascali partiva, oltre al legname, la pece, necessaria all'armamento e alla manutenzione del naviglio e che per altro era sovrabbondante pure nella Calabria a fronte di Messina. Se la presenza del materiale essenziale costituiva la base per il trasferimento e il consolidamento del maggiore cantiere e della base della flotta della contea e poi del regno, la presenza di metalli presso la città e il giacimento di oro in sfruttamento nei pressi della non lontana Taormina segnavano la scelta di Messina per la zecca. A parte l'edilizia che non riusciva agevolmente ad adeguarsi ai ritmi dell'inurbamento, Messina si trovò a contrastare con le difficoltà dell'approvvigionamento. Erano difficoltà allora comuni anche alle città che si sviluppavano, accosto e a distanza dal mare, nell'Italia centro-settentrionale e dalle quali vennero al regno, e all'isola particolarmente, stimoli a intensificare la produzione e scambi vantaggiosi. Nello stretto ambito cittadino Messina non aveva spazio per le colture cerealicole; i dintorni erano scabri e duri. Nel retroterra, e soprattutto in prossimità delle fiumare, nei tratti meno impervi, si intensificarono iniziative di ripopolamento e dissodamento che però non valsero a colmare le deficienze. Messina dovette attingere alle campagne di Catania, di Siracusa, di Lentini e a quelle, meno vicine ma di più larga offerta, che gravitavano su Termini e Cefalù fino a Palermo e sulla costiera di mezzogiorno. L'incubo delle carestie non si defilò mai dalla città. Il prezzo elevato dei cereali, nelle annate magre, quando la richiesta si allargava affannosamente ai centri di produzione e ai mercati di Puglia e di Principato (vedremo, con il tempo, anche di Provenza), gravava sulla città e incideva sugli equilibri di una condizione economica, di per sé non esente da instabilità. Questa situazione di Messina non ebbe riscontro nella Sicilia sotto i normanni, più che per le non lievi difficoltà ad ospitare i nuovi abitanti, per quelle dell'approvvigionamento. Trapani, che durante il secolo XIII nella crescita sull'onda degli scambi intensificati con le Baleari e con la Catalogna e dello sviluppo delle saline a mare si avvalse del ripopolamento di Monte San Giuliano-Erice e della valorizzazione del territorio contiguo, mantenne nel XII dimensioni edilizie e demografiche limitate. Il porto
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(dal quale Ibn Giobayr riprese il viaggio di ritorno verso l'Andalusia) ebbe una certa frequenza da parte del naviglio di cristiani in transito verso Tunisi per l'agibilità della rotta in tutte le stagioni e perché l'abbondanza consentiva l'acquisto di derrate a prezzi vantaggiosi. La « strabocchevole quantità di pesce » (particolarmente praticata era la pesca del tonno) e la salina in attività ricordate da Edrisi, il corallo che al-Muqaddasi aveva noverato tra le curiosità e che impressionò Beniamino di Tudela, completavano il disegno di quella che oseremmo definire, mettendo insieme linguaggio dei nostri giorni e misure dell'epoca, una cittadina solerte. Trapani, negli anni di avanzato dominio normanno, non si elevava (o semmai si elevava di corte lunghezze e nell'ambiente di insieme) oltre i livelli di Marsala ristorata sotto il conte Ruggero e di Sciacca che nei primi anni dopo la conquista accolse la popolazione di Caltabellotta abbandonata, entrambe ricordate da Edrisi per il buon numero di abitanti e vantate per l'abbondanza di derrate esportate, in un traffico che muoveva abitualmente verso l'Africa del nord, fino a Tripoli di Barberia. La memoria di un certo grado di agiatezza e di disponibilità di queste cittadine è affidata a qualche accenno nelle fonti letterarie e a un certo numero di edifici religiosi, e a qualcuno civile, superstiti di una stagione fortunata almeno a paragone di quelle che seguirono. Le derrate che vi erano commerciate in larga misura venivano dai territori propri e da una vasta fascia che, nella carenza di documenti, i toponimi e non labili indizi (data e modalità della conquista araba e poi di quella normanna, prossimità e contatti con l'Africa, immigrazioni larghe in epoca musulmana e limitate sotto i normanni) fanno considerare fra le meno superficialmente toccate dalla riconquista cristiana: Salemi (« luogo di delizia »), Calatafimi, Partanna, Alcamo ove Ibn Giobayr rimase colpito dalle manifatture e dalla popolazione totalmente maomettana e che aveva approdo non lontano dall'abitato e frequentato negli scambi con i porti maggiori. Al di là, nell'interno, era la zona collinare, dura e poco ferace, ove dal secolo XVI la urgenza di cereali e di lavoro richiamò gli uomini (vi sorsero Gibellina, Salaparuta, ecc.) e ne sostenne la fatica. Quando scriveva Edrisi, Mazara si presentava la « città » più ricca e attraente entro la diocesi di cui ospitava il vescovo (e nella quale rientravano Marsala e Trapani con il contorno di
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abitati minori). Non c'è, nella descrizione di Edrisi, accenno alle distruzioni lamentate nel diploma di fondazione del vescovado: « Aduna in sé quante bellezze non aduna altro soggiorno; ha mura alte e forti; palagi ben acconci e puliti; vie larghe, stradoni, mercati zeppi di merci e di manifatture, bellissimi bagni, spaziose botteghe, orti e giardini con elette piantagioni. Da tutte le parti vengono [mercanti e viaggiatori] a Mazara; e n'esportano la roba che abbonda ne' [suoi mercati] ». C'è sl da tenere in conto l'enfasi fantasiosa (al limite, quasi il gusto dell'iperbole) di cui il principe geografo si compiaceva; ma, fatte le tare opportune, rimane la testimonianza di un'operosa vitalità. Conosciamo pure, da altre fonti, quel che cercavano e trovavano in Mazara, oltre i mercanti che operavano negli scambi con l'Africa, quelli dell'Italia centro-settentrionale: cotone, pelli, frumento. Nel 1156 i genovesi, allora anche in Mazara gli operatori più vivaci e intraprendenti, si fecero accordare condizioni di favore nell'esportazione; e i pisani dal canto loro, nel 1172, ritennero di tagliar corto con la concorrenza facendosi promettere da Federico I il dominio sulla città ove si fosse realizzata la spedizione in Sicilia (che poi non ebbe luogo). Anche se il Mazaro continuava ad offrire ricetto naturale particolarmente accogliente, il ruolo del porto negli anni della monarchia normanna tendeva al ridimensionamento, innanzi tutto per il decentramento degli scambi attraverso lo sviluppo di altri approdi (Sciacca, Marsala, Trapani) che, se rappresentava fatto progressivo per l'economia siciliana nel suo insieme, comportava la riduzione della fascia di territorio i cui prodotti e consumi convergevano nel porto e nel mercato mazarese. La richiesta e la promessa di concessioni e di vantaggi a mercanti forestieri, le voci di esportazione segnate nei privilegi (cereali, materie prime grezze o semilavorate) danno una sensazione di angoscia: vi cogliamo come il preannuncio della disgrazia, o almeno il segno di una sofferenza in maturazione. Gli operatori erano in larga numero stranieri, la richiesta era di generi non lavorati il cui prezzo era remunerativo forse anche in confronto al prodotto finito (per arrivare al quale erano da aggiungere intermediazioni, e bisognava superare difficoltà e costi vari); ma la baldanza dei comuni marinari denunciava una situazione a livelli di allarme. Sono preoccupazioni che oggi magari trovano conforto e suggerimento nell'esperienza e nella conoscenza di
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quel che avvenne quando la richiesta del grezzo cedette e i lucri maggiori vennero dalle manifatture e i capitali si riversarono dalla città a condizionare la campagna e dalla mercanzia e dalla organizzazione manifatturiera a dominare sull'agricoltura e sulla pastorizia. Comunque, in quella congiuntura, anche per i mazaresi valeva il « carpe diem » di una stagione favorevole. Quando incombeva apprensione di un avvenire incerto per le proprie persone e gli affetti, per gli interessi e le costumanze, essa non veniva da assilli economici: sorgeva e cresceva quando i mercanti, i contadini e i pastori, nella fascia occidentale persistentemente musulmani nella larga maggioranza, scrutavano gli umori, sempre meno rassicuranti dalla seconda metà del secolo XII, dei cristiani consolidatisi ed ormai preminenti per appoggi e graduale crescenza nel rapporto numerico. Senza scavare negli stati d'animo o guardare a quello che nel secolo XII era « futuro » e che noi possiamo osservare con la chiarezza con cui si scorgono le cose passate quando non facciano velo la distruzione o l'ambiguità delle memorie, il secolo normanno fu di dinamismo per le città-porto: anche per quelle sulla costiera di mezzogiorno. Ché, se fu rotto il cordone ombelicale con l'Africa attraverso il quale avevano tratto nutrimento e motivo di crescita per oltre due secoli durante l'emirato, esse si giovarono delle richieste dilatate da parte di una clientela più larga, alla quale offrirono lo zucchero (esportato da Girgenti), il cotone (che si produceva lungo l'ampia fascia da Mazara a Scicli), il salgemma (che continuò a gravitare su Girgenti, ed ebbe sbocco marginale a Licata), i cereali, le pelli e il cuoio (che venivano anche dall'entroterra, e particolarmente dall'altipiano che è stato chiamato cerealico-centrale), e ancora il pesce dei corsi d'acqua (dal Salso a Licata) e quello di mare, particolarmente il tonno (la cui pesca era più larga e con ampio margine per l'esportazione in conserva lungo la costiera da Marsala a Trapani, e da qui a tramontana sino a Castellammare). Rimaneva ai livelli e nel novero delle città sulla costiera di mezzogiorno Girgenti, di cui il conte Ruggero si preoccupò di riattare la cinta muraria (lasciandone fuori l'ampio sobborgo, il rabato), e della quale la riconquista fece riemergere, sulla collina dell'acropoli, ove si era sviluppata la città medievale (S. Maria dei Greci), e nella valle (S. Nicola, S. Gregorio, poi S. Biagio) templi che furono adattati al culto cristiano; mentre nella zona sottostante si svolgeva l'operosa atti-
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vità del porto. A Girgenti possono anzi cogliersi in dimensioni abbastanza evidenti peculiari caratteri e dinamica dell'edilizia e della presenza umana. Entro la cerchia delle mura fu in alto il castello, cui si affiancarono vescovado e cattedrale (non perché il primo ebbe signoria sulla città, ma per motivi di sicurezza) e si ebbero le residenze della borghesia, del clero, di qualche feudatario inurbato. Fuori le mura stava il rabato, con le abitazioni scavate nella roccia, popolato da quelli che documenti del secolo XIII definiscono « villani civitatenses », i quali vivevano nell'ambito cittadino, con risorse provenienti nella più larga misura dall'agro. In basso, a un miglio e mezzo dalla cinta muraria, il porto, con larghi legami con l'abitato (operatori e mano d'opera risiedevano nel borgo e nel rabato) e con una propria fisionomia. Le città della Sicilia orientale ebbero turbata la loro vicenda, in epoca normanna, dalla sola grande calamità naturale che colpi l'isola in quei cento e più anni: il terremoto del febbraio 1169. Ne fu risparmiata proprio Messina, che dai movimenti tellurici ha ricevuto nel tempo più gravi sofferenze e distruzioni. L'epicentro, a stare alla descrizione del Falcando il quale facilmente ripeteva le notizie giunte a corte, fu a Piedimonte dell'Etna (o, quanto meno, così si ritenne). Rimasero distrutte Catania « a fundamentis », come ne scrisse Romualdo Salernitano (« ne fu sconvolta tanto da non rimanere in piedi neppure una casa » coloriva il Falcando, il quale aggiungeva che i morti erano stati 15.000, e tra essi il vescovo e la gran parte dei monaci dell'abazia di S. Agata), Siracusa e Lentini 4 Non erano perdite facili a colmarsi, anche per la concorrenza di Messina nel richiamare e assorbire le immigrazioni e i movimenti interni. Intorno al 1191 l'autore dell'Epistola a Pietro tesoriere lamentava la inopia civium e la paucitas bellatorum delle due sedi vescovili, e Lentini fu certo ridimensionata per lungo tempo e non ci è dato conoscere se e in quale misura il terremoto contribul al dissesto ecologico per cui venne meno la navigabilità del fiume e la cittadina perse l'immediato contatto col mare. Al di là di questo episodio, e della fascia che ne fu colpita, rimase costante la nota di prosperità nella larga e sollecitata richiesta di prodotti, e mentre si diffondevano le merci finite d'occidente insieme alle spezie e ai generi pregiati di oriente, si allargavano esigenze meno elementari e si manifestava un modo di vita, più disteso. Le condi,
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zioni climatiche ed ecologiche non presentavano deterioramenti appariscenti e incisivi sia pure in ambiti limitati. La navigabilità dei fiumi era ancora larga, e numerosi restavano i porti attivi e frequentati situati alle foci o all'interno: a Palermo, a Mazara tra le città, a Licata, a Scicli, sulle . marine di Ragusa e di Butera, e a Termini gli insabbiamenti e gli interramenti procedevano insidiosi ma lenti. A Palermo, nella descrizione della Epistola a Pietro tesoriere, è la Terrachina (Terrapiena) che nel nome riflette l'interramento che era in dilatazione, ancor se dovevano passare tre secoli perché si rivelasse la insufficienza della Cala, l'insenatura ove confluivano e si versavano a mare il Kemonia e il Papireto, e si desse luogo alla costruzione del porto in muratura. Lentini di lì a non molto sarebbe apparsa quasi discosta dal mare. Scicli, Butera e Ragusa avrebbero perso l'approdo. I boschi erano ancora, nell'insieme, vasti e numerosi; ma l'arsenale di Palermo era in crisi e cedeva alla concorrenza resa agevole dalle difficoltà che esistevano nella capitale per il rifornimento a costi congrui del legname che era la materia prima essenziale (a meno che non si vogliano accusare gli Altavilla, e quanti collaboravano alla gestione, di un'insipienza che in nessun altro campo manifestarono uguale, e i privati — regnicoli e stranieri — di incapacità di far valere le loro facili ragioni). Cosa andava maturando nelle condizioni climatiche, nel regime delle acque, e sulle alture? Che la messa a cultura di territori vergini, il riversarsi di attività sulle fiumare e alle sponde dei fiumi, la vicinanza degli uomini e dei loro animali ai boschi (chiamati a fornire legname per le imbarcazioni e per le costruzioni di abitazioni e ancora legna per ardere e ghiande, e offerti al morso distruttore del bestiame) compivano un'erosione destinata a manifestarsi nel lungo tempo? Ancora una volta, al di là dell'enfasi e dell'euforia, lo storico avverte il disagio e la perplessità: malinconia consueta di chi rilegge nelle vicende degli uomini che furono e scova nel passato che non può offrire altro che cenere; o malinconia particolare e propria dinanzi a questi momenti e alle vicende di questo paese sulla quale incida la conoscenza di quanto è avvenuto appresso? Che a questa giovinezza rinnovata, e contrastata, e ambigua senza dubbio, della terra di Sicilia sotto i normanni non si accompagnino rughe antiche e cellule in disfacimento: invecchiamento particolarmente rattristante non per intimi segni di irreversibilità, ma perché siamo
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noi consapevoli e partecipi che quella drammatica e regressiva era linea di tendenza ad oggi irreversa? Lo struggimento di qualcosa di remoto più che il tempo di per sé consenta e di effimero nell'intimo delle strutture architettoniche imponenti e della ornamentazione fastosa si sovrappone anche nella contemplazione dei grandi monumenti della Sicilia normanna, quando questa non rimanga fine a se stessa, e l'attenzione si volga verso l'ambiente e gli uomini di cui essi restano documenti. I più suggestivi e i più noti monumenti fanno capo a Palermo e datano dagli anni di Ruggero II. Anni di grandissimo rilievo nella vicenda dell'Italia meridionale e della Sicilia, per la costituzione e il consolidamento del regno, attraverso il quale la dominazione normanna al centro del Mediterraneo, che già con la conquista aveva rotto equilibri e stimolato tendenze dinamiche di ampio respiro, si assestò in dimensioni territoriali imponenti e, grazie anche alla organizzazione che la privilegiava, dilatò i suoi interessi politici e militari nei tre continenti. Anni che ebbero particolare incidenza su Palermo, che, dopo essere stata centro di un emirato attivo e solerte di per sé e nelle intermediazioni e però periferico entro il contesto amministrativo e militare islamico, e aver recuperato tra la fine del secolo XI e i primi del XII posizione eminente entro la contea siculo-calabra, diventò capitale del regno con i vantaggi di questa condizione e senza regresso o rinuncia nei settori della produzione e degli scambi. Parte non esigua delle disponibilità del regno conversero sulla città, per la presenza degli uffici amministrativi, giudiziari e finanziari (che si sviluppavano nella linea di tendenza, insolita fino allora e per i tempi della centralizzazione e della verifica e del controllo delle competenze locali), e del vasto e vario ambiente dei partecipi degli uffici e della corte e di quanti ambivano entrarne nel giro. La favorevole condizione di Palermo ebbe sotto Ruggero II la prospezione esterna più cospicua a Cefalù: il duomo imponente e sobrio nella mole di chiesa-castello, ricco e composto nella iconografia scevra di compiacenze ornamentali nella dominante figura del Cristo Pantocrator (la più nobile e viva tra quelle create da artisti che operarono in terra di Sicilia, la prima anche in ordine di tempo nella triade nobile completata dalla cappella del palazzo regio e dal duomo di Monreale), fu frutto del sentimento religioso del sovrano, della sua gratitudine verso la divinità e del bisogno di ingraziarsela. Il progetto del-
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l'opera fu sollecitato da Ruggero e dalla corte, gli artefici e le maestranze più qualificate verisimilmente vennero essi pure da Palermo. In questa città se il castello a mare, l'antico (vetus) come lo definivano anche i cronisti del secolo, elevato per volontà del Guiscardo e di Ruggero I su quello esistente durante l'emirato, ebbe alle origini, e serbò finché la agibilità lo consenti, funzioni di difesa e di vigilanza in un impianto mediocre, il nuovo, attorno al quale si sviluppò il palazzo reale, crebbe negli anni di Ruggero II con altre dimensioni e con fasto (nélle stanze regie, nella stessa cappella l'iconografia cede alla compiacenza dell'ornamentazione; l'oro non è solo, né tanto, colore). La grande architettura civile e pubblica (oltre il palazzo regio, la Zisa, la Cuba, le Cube minori, lo Scibene...) e la religiosa entro la città e nei dintorni di essa (la cappella di palazzo, S. Giovanni degli Eremiti, S. Giovanni dei Lebrosi, S. Maria dell'Ammiraglio, S. Cataldo, la Cattedrale, la Magione, S. Spirito) sino a Monreale (il Duomo, il monastero e il chiostro) ove il sentimento religioso di Guglielmo II rivaleggiò con il compiacimento del grandioso e del fastoso del nonno, questa architettura non parla solo il linguaggio dell'arte: ostenta a distanza di secoli le disponibilità di mezzi che la corte riversava sulla città scelta a capitale, richiamando e mantenendovi architetti artigiani e maestranze. Ma non la sola dovizia della dinastia volle manifestarsi e specchiarsi nell'architettura residenziale e ecclesiale: concorsero largamente grandi ufficiali e nobili famiglie che non sempre per nascita e interessi potevano considerarsi siciliani dell'isola. Giorgio di Antiochia, l'ammiraglio per antonomasia, al quale si attribuisce la organizzazione della flotta di Ruggero II che egli comandò per tempo riportando vittorie clamorose e infine, come suole succedere, in imprese non al tutto gloriose, diede il nome, oltre che a un ponte sull'Oreto, alla cappella arricchita da sfavillanti mosaici, vicina al monastero fatto edificare dai Martorana e prossima alla chiesa di S. Cataldo. In questa, al di là del superficiale e immediato riferimento a influenze musulmane, si è rilevato il richiamo a un tipo architettonico diffuso in Puglia. Esso sarebbe stato riproposto per il richiamo di progettisti e forse di maestranze ad opera del presunto despota nel regno sotto Guglielmo I, Maione da Bari, al quale se ne deve la promozione. Alla munificenza di Matteo di Aiello, che di Maione è parso il continuatore negli ultimi anni e nel dramma della dinastia, si dovettero l'austera
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chiesa e il monastero della SS. Trinità divenuti sotto Enrico VI magione dei teutonici. All'arcivescovo Gualtiero Offamill si devono più ampie strutture della cattedrale, la edificazione della chiesa di S. Spirito (quella nel suburbio dalla quale circa un secolo appresso parti la fiamma dei Vespri), il solatiuna dello Scibene, sotto Guglielmo II. Fuori della capitale e delle adiacenze di essa, nei territori e negli abitati lungo la costiera e all'interno, la promozione e la dotazione spettarono episodicamente alla corte, più spesso ai feudatari del luogo, a volte concorse allo sviluppo la solerzia del clero 5. Espressioni, allora, i grandiosi e i doviziosi edifici di epoca normanna, e proprio quelli che continuano ad arricchire Palermo e la sua fascia (Monreale, Cefalù), di una società sperequata? Di un modo di governare nei quale la munificenza levava spazio agli interventi di interesse comune? monumenti costruiti sulla fatica delle plebi, quasi nuove piramidi sollevate a glorificazione di pochissimi sulla pena dei moltissimi? Al di là di ogni concessione all'enfasi la risposta, se dovesse dipendere dalle misure e dalla sensibilità di questi nostri anni, sarebbe aggressiva. Ma in questa chiave quanto poco del passato si salverebbe! e dovremmo noi pure rassegnarci alla reprensione delle generazioni che guarderanno, acqua passata, alle nostre tribolazioni e a lle nostre ambizioni, a quelle stesse meno insane e sia pur sorrette da buona volontà. Quei monumenti rispecchiano sensibilità, concezione, maniera di vita che erano volte verso il sollievo in terra, ma guardavano al cielo per chiedere venia o per averne grazia, per farlo compartecipe del successo o per invocarne la persistenza nell'aiuto, per lenire la pena che si temeva soffrissero nell'aldilà persone care che non erano più tra i vivi, per esserne preservati nell'ora del proprio giudizio. E magari si dedicava un monumento alla divinità e alla santità con la intenzione non espressa, forse inconfessa anche nell'intimo, di elevarne uno a se stessi. Mentre nell'anima degli umili e dei semplici l'omaggio quanto più era grandioso tanto più sembrava dovesse essere accetto al dio e al santo e renderli propizi alla supplica che si elevava. Ma, oltre i non indifferenti risvolti religiosi, l'elevazione di questi edifici ebbe posto sul piano economico e sociale. La munificenza della corte, e quella delle gerarchie ecclesiastiche, della grossa feudalità, dei grandi ufficiali (la coincidenza di più di una quali-
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fica in una persona era frequente; e da parte di chi aveva raggiunto gradi elevati a corte l'accesso alla feudalità era premio e in concreto via al grosso possesso fondiario e a un potere non mediato anche se locale) alimentavano artisti e artigiani, maestranze e mano d'opera direttamente impegnati nei lavori, o addetti a quelli sussidiari e ai servizi. I lavori per altro richiedevano tempo, ancor se i monumenti siciliani si distinguono da quelli coevi, o anche posteriori dell'Italia centro-settentrionale e del centro Eu ropa perché le strutture architettoniche, e le iconografie e le stesse ornamentazioni furono portate avanti e in genere completate nel corso di qualche decennio (le eccezioni di rilievo sono poche). Sì che quella rigogliosa attività edilizia fu conchzione perché la ricchezza, sia pure di pochi, creasse per alcuni agiatezza e per molti occasione di lavoro non mortificato da remunerazione indegna. Non fu surrettizio, come non è asintomatico, che la magnificenza degli esterni e lo sfarzo degli interni nella capitale e nell'ambito di essa non ebbero analogie strette né ripetizioni congrue in altre città di Sicilia ancor se sedi vescovili e infeudate al vescovo (quale Catania, concessa al monastero di S. Agata all'atto della elevazione a dignità vescovile, ove il duomo, a struttura di castello, risulta da adattamenti e ampliamenti sovrapposti sull'impianto fatto gettare dal primo vescovo e abate) 6 Anzi il ritorno ai templi del paganesimo, riattandoli alla meglio, e talora in parte indirizzando la scelta verso quelli che la precedente trasformazione in chiesa, pur dopo l'abbandono durante la dominazione musulmana, era valsa a conservare in condizioni meno deteriorate, avvenne sotto la spinta dell'urgenza e all'insegna della parsimonia, senza entusiasmo e senza predilezione per l'antichità verso la quale non pare esistesse nostalgia né tanto meno ammirazione. Fu il caso di Siracusa, la città che nel secolo XII (già nel 1100, poi nel 1140, e ancora e soprattutto nel 1169) ebbe .
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terremoto, fu condizionata e menomata. La cattedrale qui fu allogata nel tempio di Atena, che era già stato adattato nel secolo VII e che si era conservato in stato da consentire una sistemazione piuttosto agevole e di non forte costo, e la fondazione religiosa dotata più largamente (S. Lucia fuori le mura) pare abbia avuto sede in edificio che risaliva ad epoca bizantina. Il ritorno al tempio, a superare le difficoltà e i costi di edifici
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costruiti ex novo, si coglie più nettamente a Girgenti. Fuori le mura fu riattato il c.d. oratorio di Falaride (le absidi ora sono distrutte, ma si scorgono nella incisione di Houel, del secolo XVIII), trasferendovi il culto che si era forse conservato nella vicina chiesetta rupestre con scene del Pescatore risalenti ad epoca bizantina. Sempre nella valle, fuori le mura rinforzate da Ruggero I — a quel che ne scrisse Malaterra —, il tempio F, comunemente chiamato della Concordia, accolse il monastero dedicato a S. Gregorio (il vescovo girgentino al quale si attribuiva il precedente adattamento), e la cella ne fu la chiesa. All'interno della cinta muraria, la cella di altro tempio ( secondo alcuni dedicato ad Atena) fu trasformata in chiesa di rito greco (S. Maria dei Greci). Anche qui la cattedrale si è allargata in epoca posteriore: la parte costruita sotto il primo vescovo di epoca normanna, S. Gerlando, è la cappella di S. Bartolomeo nella torre di levante detta dell'orologio; più tardi il vescovo Gualtiero (1127-1141) elevò la torre di ponente facendo portar su « lapides magnos de civitate veteri » (e ne è venuta la falsa ipotesi della chiesa edificata sulle basi di un tempio); la costruzione delle navate fu iniziata nel secolo XIII. Edifici pubblici e abitazioni di privati costruiti in epoca normanna rimangono in altre città. Ma ancor se qualcuno fu suggestivo per i tempi (si ricordi il palazzo di Messina « bianco come colomba » quale apparve a Ibn Giobayr), i superstiti non ripropongono la imponenza e la cura di quelli di Palermo. Relegata tra le favole la seriorità, o sia pure l'appartenenza agli anni dei normanni, del maniero di Caccamo nelle dimensioni di oggi, i castelli della zona etnea (S. Anastasia, Adernò, Paternò) che son quelli (soprattutto il terzo) che nelle pur congrue trasformazioni hanno perso meno le caratteristiche originarie, danno netta la sensazione delle risposte schiette a esigenze pratiche, di difesa e di controllo, poco o nulla concedendo al conforto e al compiacimento estetico. Invero Palermo restava ancora, quando Messina cresceva nella vistosa ambiguità di velleità e di sperequazioni, l'« unica grande » fra le città di Sicilia. E non solo — l'abbiamo già detto — perché dal 1131 fu capitale di un regno che comprendeva Amalfi e Napoli, le Puglie e la Longobardia meridionale con i richiami e i consumi che questo ruolo comportava; ma anche perché il porto capace di ampia accoglienza nella insenatura ove confluivano a mare il Kemonia e il Papireto era frequentato più che non
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fosse dianzi ed era piazza commerciale agevole e doviziosa entro il sistema di scambi dilatato ad allacciare tutto il Mediterraneo, privilegiata anche quale tappa intermedia nella rotta fra scali di oriente e di occidente, del nord e del sud, per la vantaggiosa offerta di rifornimenti nella dovizia di prodotti del territorio e di quelli che arrivavano via terra dagli approdi minori. Gli scambi e i consumi alimentarono un diffuso e vario ceto « borghese », di fatto diversificato dalle differenti occupazioni e dalle diverse condizioni economiche: artigiani, mercanti sulla piazza e nell'esportazione. Ma se tra i primi i più erano ancora musulmani, questi erano numerosi pure tra i secondi, sì che le minacce che si addensavano su di essi e le sopraffazioni di cui furono oggetto sia pure episodicamente (in modo aperto e grave, sotto Guglielmo I, dopo l'uccisione dell'ammiraglio Maione) costituirono pericoli incombenti sull'ancor vitale apparato socio-economico; mentre altra incognita per l'avvenire era rappresentata dalla dilatata partecipazione, soprattutto nell'export, di operatori forestieri all'isola, e addirittura non regnicoli. Come compensazione, e negli spazi creati dall'intensificazione delle attività, valevano le presenze nuove, per inurbamento dall'agro o per immigrazione, o magari per adduzione attaverso vie che non erano le più rette (si ricordino gli addetti all'« opificio serico » di corte, che pare siano stati condotti prigionieri dalla spedizione in Grecia, sotto Ruggero II). Se per la Palermo degli emiri viene incontro la colorita narrazione di Ibn Hawqal, della città del secolo XII restano vivaci esposizioni che la colgono lungo la dorsale dello sviluppo persistente e nei segni, o negli accenni, di crisi: sono le descrizioni e le impressioni del principe geografo Edrisi, del diarista andaluso Ibn Giobayr, dell'ebreo Beniamino di Tudela, e infine dell'anonimo autore della Epistola a Pietro tesoriere della chiesa di Palermo. Sotto Ruggero II, Edrisi riprendendo in larghi tratti la partizione di Ibn Hawqal, descriveva la città divisa in due: il qasr, con la cattedrale (che era stata moschea e che fu demolita quasi del tutto quando l'arcivescovo Gualtiero Offamill sotto Guglielmo II volle intraprendere la costruzione di un'altra che fosse adeguata alla dignità della sede) e il palazzo reale, e il burg circondato da mura « pieno di fondachi, case, botteghe » e che comprendeva pure « molti giardini, bellissimi villini e canali d'acqua dolce ».
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Negli anni di Guglielmo II nell'inverno del 1184-1185 Ibn Giobayr, giunto in Sicilia con la conoscenza delle maggiori città musulmane di oriente e di occidente, scriveva di Palermo con meraviglia e ammirazione: « (...) aduna in sé i due pregi: comodità e magnificenza. [Troverai qui] ogni cosa che tu bramar possa; buona e bella: [vi potrai soddisfare ad] ogni desiderio della vita, sia maturo o sia verde. [Città] antica ed elegante, splendida e graziosa, ti sorge innanzi con sembianza tentatrice: superbisce tra le sue piazze e le sue pianure, che son tutte un giardino. Spaziosa ne' chiassuoli [non ché] nelle strade maggiori; abbaglia la vista con la rara venustà nell'aspetto (...) Stupenda città somigliante a Cordova per l'architettura: i suoi edifizi son tutti di pietra kiddân tagliata: un limpido fiume la spartisce; quattro fonti erompono da' suoi lati (...) I palazzi del re accerchiano la gola della città come i monili il collo di donna dal petto ricolmo: sì che il principe [senza uscir mai] da siti ameni e luoghi di diletto, passa dall'uno e dall'altro de' giardini e degli anfiteatri di Palermo. Quante [delizie] egli si ha (...) E quanti monasteri de' dintorni appartengono a lui, che n'ha adornati di edifizi (...) ». Tra gli edifici destinati al culto cristiano, Ibn Giobayr ammirò particolarmente la chiesa dell'ammiraglio Giorgio, che visitò contemplandone i mosaici (la visita non era invece consentita al palazzo reale, né alle stanze né alla cappella). La chiesa si stagliava allora nel paesaggio dagli ampi spazi vuoti, che mettevano in evidenza imponenza e venustà; sì che Beniamino di Tudela non temeva abuso dell'iperbole quando si abbandonava: « non c'è esempio pari a quello di questa città ». Mentre il regno normanno declinava (o quando il destino di esso si era appena compiuto, se, come suole, i vaticini sono realistici quando sono fittizi, e il senno è del poi), l'autore della Epistola descriveva Palermo con l'animo di chi rievochi un paradiso perduto. Di più, se la sensibilità era tesa, lo scrittore era uomo dall'esperienza raffinata, sia o no da identificare con l'autore della Historia di Sicilia, e sia questi latino nativo del regno o transalpino, o sia greco e magari Eugenio, ammiraglio e poeta tra i più raffinati, da ll a grande e sofferta esperienza nell'alterna fortuna. Lo scrittore aveva piena e diretta conoscenza della città e dei suoi « castelli » (il nuovo ove risiedeva la famiglia reale non gli era noto solo dall'esterno, ma egli aveva pratica della corte e della officina ove le tele erano lavorate ad arte). Nella descrizione della
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Epistola il palazzo regio è baricentro della città, divisa in tre parti. Tra la mediana (che era quella eminente per gli edifici) e il porto stava il vico degli Amalfitani « ricco di abbondanza di merci, nel quale vengono esposti ai compratori abiti di colore e di prezzo diverso tanto di seta che tessuti di lana francesi ». L'Epistola insisteva sulla conca attorno a Palermo, ricca di vigneti, di orti, di frutteti, di agrumeti ad arance e lumie, di noci e di ulivi, di datteri e di cannamele. Le culture dopo Termini e la Trabia (che Edrisi aveva vantato per la pasta) si infittivano rigogliose man mano che si procedeva verso la capitale, ma non si addentravano in essa. Altrove, nella sensibilità che derivava dall'abitudine, gli spazi occupati all'interno dagli alberi e dagli orti erano in quegli anni addirittura vanto delle città'.
III LA TERRA: IL CASTELLO, IL BORGO, I CASALI C'è un termine con il quale i contemporanei designarono il tretto a nistratiuo—non senza efficace rispondenza semantica: terra. Esso fu di uso pressoché generale, applicato anche alle città; e semmai una certa riottosità. a farvi ricorso sussistette per Palermo (solo piuttosto tardi si estese a Messina), per la quale abitualmente si insistette sulla civitas (di rado, molto di rado urbs) e sui territorium di essa. La terra comprendeva centro abitato e territorio fosse una città o cittadina, o quello che taluni scrittori in latino continuavano a chiamare oppidum, o con meno enfasi castrum, non sempre con cura di accertare quanto meno l'esistenza della recinsione muraria. In concreto il termine « romanzo » si prestò a raccogliere e compendiare la varia terminologia che degli abitati, e del loro distretto, veniva dal trilinguismo perdurante, e dalle differenze all'interno dei singoli gruppi etnicoreligiosi. Nell'ambito della terra (le magne divise) c'era il tenimento proprio dell'abitato maggiore che dava il nome, e si articolavano i nuclei residenziali minuti (casalia; rabl, menzil per gli arabi) con le divise loro proprie. Al centro della terra, era il castello, (castrum, esso pure) e/ò il borgo spesso murato (burgium, burg) che accoglieva gli organi e di amministrazione e di governo, di vigilanza e di difesa. A Palermo il palazzo reale si identificò con il « castello nuovo », che nel periodo normanno costituì il punto di riferimento e baricentro della vita politica. Là dove città furono date in feudo ai vescovi-abati (Catania, Patti, Cefalù) le strutture del monastero si confecero a lle esigenze che si ritenevano proprie della signoria. Questa fisionomia trovò ripetizione per altro là dove monasteri ebbero dignità vescovile ma non dominio su città (Monreale fu il solo caso) o ebbero domini su
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terre o parti di esse senza essere centro diocesano (e i casi furono numerosi). Non si trattò sempre di costruzioni nuove né di risposte a esigenze immediate, anche se da parte degli Altavilla e del loro seguito non mancò, già durante la campagna di conquista, di manifestarsi il bisogno di premunirsi dinanzi agli uomini di religione diversa. Nella elevazione dei castelli, per altro, non si diede luogo a una tipologia propria dell'isola. Furono adottate forme già largamente praticate. E neppure i castelli di cui non è dato attribuire ai normanni la elevazione sembrano rispondere a una tipologia locale. La descrizione fatta da Edrisi del castello di al-Madarîg (« i gradini », nei luoghi di Castellammare del Golfo), — il fossato attorno, il ponte levatoio — potrebbe apparire modellata su una maniera che si ripeteva entro e fuori il più vasto ambiente feudale. Non sempre né ovunque, poi, la corte nei terreni che conservava in demanio o feudatari laici e ecclesiastici potevano concedersi la costruzione di veri e propri castelli. C'era la torre, allora, residenza del signore o del rappresentante della dinastia o del vassallo. I castelli della zona etnea (Paternò, Adernò, S. Anastasia) che, pur con i rifacimenti larghi nel 1300 — rimangono i più vicini al tipo normanno, si presentano quali torri neppur grosse. Si verificava anche che per numero di persone accolte all'interno, o nelle immediate adiacenze, il castello diventasse punto di aggregazione, di avvio di un abitato in formazione e forse questa era la condizione — di partenza, di arrivo o in fieri di larga parte di quei castelli che Edrisi diceva « simili a casali » o « simili a rocche ». Di Ibn Giobayr è la descrizione del qasr Sa`d, vicino Palermo, che risaliva alla dominazione islamica ed era popolato in quell'inverno tra il 1184 e il 1185 da musulmani: « (...) è chiuso con una salda porta di ferro: dentro [le mura] sono abituri, case e palagi in fila; sicché si può chiamare soggiorno fornito di tutti i comodi. Nella sommità [ si ammira] una moschea delle più splendide del mondo; bislunga, con antri allungati (...) Le corre dinanzi una larga strada che gira intorno la sommità del castello [gag]: al basso è un pozzo d'acqua dolce». Per destinazione o più spesso nello sviluppo dell'abitato, il castello finiva talora inserito nel contesto in positura centrale o eminente. Restava la predilezione per le alture che avevano protetto o ancora proteggevano dai miasmi dei ristagni e dalle paludi, che, sia pure senza drammaticità, non erano estranee al—
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l'ambiente siciliano (nella descrizione di Edrisi le acque di Cefalà creavano vasti stagni; e il torrente Rigano si versava nel Salso « fiume di Termini » nel luogo detto 'al Gidràn = Godrano « le paludi »); e nei pressi di Palermo era Marsà at-tin = porto del fango, oggi Mondello. La presenza umana si articolava nei casali. Estensione e popolosità ne erano vari, ma in ogni modo entro dimensioni non grosse. A Zaffaria presso Messina nel 1176, a Mesepe presso Paternò nel 1196 si ritenevano bastanti rispettivamente 4 e 6 uomini per dar corso alla costituzione di un casale; in territorio di Corleone c'erano nel 1178 casali con 3 e 4 villani I 6 villani iscritti nelle platee e gli 8 coloni stranieri che diedero corso alla bonifica e alla creazione di un casale nel luogo di Ain Allien presso Termini costituivano buon punto di partenza. Casali con 100 capi di famiglia nei fatti non se ne incontrano. Il numero di 100 villani (e cioè intorno alle 350-400 persone) che si ripete nei diplomi di costituzione e di datazione dei vescovati di Mazara (il casale Bezir) e di Agrigento (Catta) si rifà a una consuetudine importata dalla Normandia, e non ha corrispondenza con il numero effettivo dei residenti nei casali: era una licentia populandi, la concessione che nel casale potessero trovare ospitalità fino a 100 capifamiglia nella condizione di villani; e gli studiosi che hanno dato credito al numero in sé hanno versato lacrime su abitati dei quali hanno presunto la scomparsa, o sono andati alla ricerca di residenze-fantasma, irreperibili perché i connotati non erano i loro. Semmai l'eventualità del riscontro nei fatti c'è per i 100 musulmani di cui fu dotata la chiesa di Messina nel territorio di Oliveri « gran castello » e pure casale con mercato, bagno e numerose case a quel che ne diceva Edrisi, in una fascia che ebbe fisionomia e vicende particolari durante la contea per il tentativo di raccogliervi, attorno al castello e nel territorio contiguo (che poi nel 1142 fu dato al vescovo di Patti), i musulmani della parte nord-orientale dell'isola. La concessione a ll a chiesa di Palermo, nel 1086, del casale Gallo (approdo prossimo alla città, entro la fascia particolarmente popolata e ricca di culture pregiate) con 94 villani risulta da un documento di autenticità molto dubbia, ed è contestabile, anche sulla scorta della conferma, da parte di Federico II, nel 1211, ove manca il numero dei villani. I 75 villani (e 20 loro figli) donati nel 1095 alla stessa chiesa di S. Maria di Palermo erano distribuiti in 3 distretti dell'in-
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temo (Giato, Corleone, Limina); come del resto stavano in 3 casali i 150 villani che Tancredi ante di Siracusa diede in dotazione (a stare a un diploma esso pure di contestata autenticità) al vescovato della città r. Il vescovo-abate di Lipari-Patt, tra il 1131 e il 1148, volle curare il censimento dei suoi sudisti (il suo capitale umano): il documento che ne venne fuori, ri[ettendo la situazione entro la diocesi-signoria che si estendeva ungo la fascia costiera e per tratto dell'entroterra contiguo, cosituisce campione di largo interesse. « Apud Nasa » (cioè nella netà della terra di Naso appartenente al vescovo; ché l'altra nbtà era infeudata a Gualtiero de Garrexio, e cioè di Garessio, M'origine piemontese), i villani erano 102. Edrisi, pressappoco in iuegli anni, esaltava il castello di Naso, a 2 miglia dal mare, e lodava i terreni coltivati, le acque abbondanti, i giardini, i cori d'acqua sulle cui rive erano impiantati mulini Non si trattava dei residenti entro un casale, ma di metà degli abitanti di una terra (esclusi pochi feudatari, se ce n'erano nella parte vescovile e il loro seguito), nella maggior parte cristiani greci, sottoposi a tributo in natura (in tutto 260 salme di frumento, per una nedia individuale di poco superiore alle 2 salme e mezza). Nei cv,ali attorno a Patti, a Fitalia i villani erano 61 e quelli di Pania 69 (insieme, 130, davano 321 tari, 15 salme di frumento e 50 di orzo); in Librizzi erano 59 greci che dovevano 256 tarì (f)rse a seguito di permuta con le angarie personali ancora molto ;ravose dopo la riduzione concordata nel 1187 con l'abate Amlxogio). Erano aggiunti a parte 53 saraceni, dei quali non era specificata la residenza che potrebbe anche essere stata nelle pertinen . proprie di Patti. Non ci è consentita alcuna ipotesi, comungre, sulla proporzione fra i censiti e gli uomini latine lingue chi si erano stabiliti in « castro Pactes » sollecitati da concessioni ,llettanti per i tempi, col solo impegno del servizio militare « abscue pretio », e che nei cognomi patronimici dichiaravano provenielze abbastanza varie (Genova e Ferrara, Amalfi e Potenza...). Alcuni decenni appresso, la foidazione e la elevazione a dignità di arcivescovado del monastero di S. Maria Nuova di Monreale davano luogo alla costituzi>ne della più estesa signoria ecclesiastica della Sicilia sotto i normanni. Se il vescovo-abate di Lipari-Patti ebbe, negli anni delle contea, diocesi e feudo sui territori della costiera e dell'entroterra prossimo, l'arcivescovo di
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Monreale li ebbe, dall'ultimo re normanno, nell'interno: più che opposte situazioni-limite, condizioni congiuntamente esemplari 2+ La distribuzione delle residenze entro la diocesi-feudo è espressa in alcuni elenchi rilasciati a S. Maria Nuova dagli uffici amministrativi: nel 1178 la platea degli uomini di Corleone e di Calatrasi; nel 1182 la giarida nella traduzione dall'arabo in latino delle divise delle terre di Giato, Corleone, Battalaro e Calatrasi; nel 1183 la platea degli uomini stabilitisi nel territorio del monastero ai quali era concesso rimanervi in deroga all'editto che ingiungeva la restituzione degli uomini che avevano abbandonato le terre del demanio. Dall'elenco del 1178 sappiamo che regolarmente residenti in Corleone, fra arabi e cristiani (questi in tutto 53) erano 336 capifamiglia, contro 437 distribuiti nei casali della terra. In ordine di popolosità questi erano: Buchunene (88), Cabiana (78), Gialeso (62, inclusi gli uomini di Raia, definito da Edrisi trenta anni dianzi « nobile casale e bellissimo ed eletto soggiorno, con ubertosi campi da seminare e terreni' ottimi e benedetti »), Suk Almara (34), Castana (42), Burlie (19) e infine Busemag (4) e Tanèperi (3 soltanto). Completavano il numero 8 uomini segnati « già di Riccardo » e 90 dei quali non era indicata l'esatta residenza. Le famiglie stabilite entro la terra di Calatrasi erano complessivamente 425. Nel documento del 1182 sono descritte le grandi divise di Giato, Battalaro, Calatrasi e Corleone inclusi i tenimenta di Gialeso, Petra de Zineth, Fettasini, e dell'ospedale di S. Agnese. In quest'ultimo, di complessive 80 salme, nel 1183 furono inventariati ed ebbero licenza di continuare a risiedervi 6 villani non iscritti e un mahallah (e cioè « uomo del paese », burgensis in diritto), risultandone una media di 11 salme e mezza di terreno a famiglia. Le notizie più particolareggiate e interessanti, della giarida del 1182, concernono Giato. Questa era stata duramente provata nella conquista: a dar credito a Malaterra (e sarebbe credulità) avanti vi avrebbero abitato 12.000 famiglie. I vasti vuoti che indubbiamente si crearono, non furono compensati dalle immigrazioni (documentate dalla platea del 1183). Negli anni di Edrisi, avanti l'infeudazione a S. Maria Nuova, nel castello si custodivano quelli che in altro clima si sono chiamati « prigionieri politici » e che il principe geografo, con aderenza ai propri tempi, diceva « che incorrono nella collera del re ». Il castello, sempre a detta di Edrisi, « alto di sito, forte oltre ogni credere » aveva terri-
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torio vastissimo e fertile seppure privo di giacque correnti e di fiumi, che si estendeva a confinare con quelli di Cefalà, Corleone Calatrasi e Calatafimi. Il territorio era suddiviso tra i casali: Maganùge che disponeva di 1100 salme di terreni seminativi, cui erano da aggiungere 30 non lavorativi e 40 del cassie Cumeyt appartenenti agli uomini di Giato (sì che in numero di 70 i villani di Maganùge risultano avere avuto a disposizione in media per famiglia 16 salme e 1/4 di terreno seminativo, quota che è suscettibile di riduzione a 16 salme aggiungendo il mahallah che nel documento del 1183 risulta ospitato nel territoirio), Dukki (vi scorreva un corso d'acqua « ubi mollificatur linum >»), Beluìn (1200 salme, di cui 300 non lavorative), Buferera con Rahl Almaie (5700 salme di cui 500 in territorio di Corleone e 200 in territorio di Cefalà), Magagi (1260 salme, delle quali 3010 a pascolo), Summino (7000 salme, in parte delle quali era in atto una controversia, e 200 erano a pascolo), Malvito (5000) salme, di cui 600 a pascolo; su 40 salme seminative esisteva controversia con gli uomini di Corleone), Corubnisc Superiore (90)0 salme), Rahl Alkilài (900 salme delle quali 400 a pascolo), Corubnisc Inferiore (1000 salme), Rahl Alutà (240 salme), And:alusin (250 salme, compresa la parte boschiva), Menzil Zarcùn (900 salme seminative), le terre di regio demanio che erano « nelle parti e in mano degli uomini di Bunefàt.» (600 salme, di curi 200 da pascolo), Rahl ibn Barca (120 salme in parte lavorative), Lacamùca (1000 salme, delle quali 400 da pascolo e 20 riservate agli uomini alla dipendenza dell'amministrazione regia e in più 800 nelle vicinanze di Desisa), Rahl Algiadìd (150 salme, compresa una porzione di bosco), Rahl Amrùn (seminativi per 52 paricle di buoi, 10 paricle non coltivabili), Rahl Albucàl, R.ahl Algalìt, Mirto (897 salme coltivabili, 273 non coltivabili; nel territorio uomini di Partinico tenevano 15 salme di seminativo), Rahl Albalàt (250 salme), Rahl Almùd (200 salme seminative), :Rahl Alsikàk (300 salme), Desisa, Menzil Zamùr Menzil Cresti,, Menzil Abdallah, Gar Scioaib, Rahl Bigeno, Giurf Bukerìm, Ralnl ibn Sahl, Menzil Abderrahmàn, Alcumàit, Giatina, Algàr, Ramde, Rahl Algeùz, Alakbàt. In territorio di Giato erano pure ]le terre lavorative assegnate « per ordine del re » al monastero di S. Nicola de Churchuro: intorno alle 4 paricle « che sono alla seminatura 120 salme ». ,
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III. La terra: il castello, il borgo, i casali
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Nella platea del 1183 sono in tutto 729 nomi di immigrati ai quali era concessa la permanenza in deroga alle norme e agli editti vigenti (569 nella condizione di villani affidati: 160 in quella di borgesi). Non tutti appartenevano alle quattro terre della diocesi-feudo di S. Maria Nuova (17 erano nel casale di Ternis, in territorio di Sciacca). 20 affidati erano nella terra di Calatrasi (si ricordi, nella platea del 1178 erano segnati 425 nomi), 16 in Battalaro e casali, 26 in terra di Corleone (si aggiungono ai 773 elencati nel 1178). Il maggior numero si riferisce a Giato autentica terra da ripopolare, ed entro i singoli casali a Desisa (32 villani e 23 borgesi) e a Malvito (rispettivamente 32 e 6). Ma la mancanza di una platea della terra di Giato analoga a quella del 1178 relativa a Corleone e a Calatrasi, e la difficoltà della esatta localizzazione dei casali e del riscontro tra la giarida del 1182 e la platea del 1183 frustrano il tentativo di un quadro analitico e preciso. Lasciando per il momento ogni considerazione e ogni deduzione sul numero degli abitanti, i documenti di Patti e di Monreale evidenziano sfaccettature e aspetti dinamici del paesaggio e della distribuzione delle residenze. Già tra le terre finitime di Corleone e di Giato si avvertono analogie ma si notano pure differenze. Qualità e consistenza della dinamica entro la popolazione si rivelano diverse. Le condizioni di partenza potrebbero costituire di per sé spiegazione, sia pure non del tutto esauriente perché altre soluzioni non erano precluse (nel secolo successivo Corleone crescerà sull'onda di una consistente corrente di immigrazioni). Tratto comune è la distribuzione delle terre in una serie di casali. Questi però, già nel numero degli abitanti rivelano caratteristiche e dimensioni di masserie più o meno ampie, e solo pochi di agglomerati che raramente raggiungevano le 250300 persone, sulla scorta di una media familiare di 3,50 individui. Questa condizione è costante per altro nei territori dell'abate-vescovo di S. Bartolomeo. A Patti la immigrazione sollecitata dal vescovo si era riversata « in castro ». E questo vale a spiegare come la situazione nei due comprensori — di Patti e di Monreale — alla distanza di circa mezzo secolo (quanto intercorre fra l'elenco fatto compilare dall'abate-vescovo di S. Bartolomeo e quelli rilasciati all'abate-arcivescovo di S. Maria) rivela concordanze vaste e persistenti. Emergono pure, a prima vista,
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la diversa ampiezza dei territori fra i due feudi diocesi e la densità di popolazione e l'utilizzazione del suolo differenti sulla fascia costiera e all'interno. L'assegnazione delle terre di Giato, di Corleone e di Calatrasi all'arcivescovato appena eretto, voleva segnare — come circa tre quarti di secolo avanti quelle di Patti e dei dintorni al vescovo di nuova elezione — una spinta nella trasformazione della base religiosa e civile. Ma al di fuori delle questioni religiose e politico-religiose, si può escludere che la corte che promosse la costituzione del feudo-archidiocesi e i monaci che lo ricevettero, non abbiano nutrito l'aspettativa che quei territori, ove popolati e dissodati, dessero la ricca produzione che offrivano i terreni sulla costiera e, in fasce non ristrette, altri dell'interno? In fondo, se gli infedeli da convertire non erano pochi, il suolo recuperabile era molto vasto. -
IV TERRE DELLA COSTIERA E TERRE DELL'INTERNO
Se Palermo era la « città » di Sicilia, i suoi dintorni ne erano considerati il giardino. Che lo fossero, ne era sicuro l'anonimo autore della Epistola a Pietro; individuo dotato di gusto e di straordinaria capacità di godere delle cose belle, ben altro che uomo di provincia e di esperienza ristretta, anche nella sua tarda ammirazione per un mondo di cui temeva il crollo, o che vedeva già declinare. Il suo canto-descrizione della città e dei dintorni quando è denso di nostalgia è pervaso dal timore del tramonto irreparabile. E la Palermo che egli si angosciava stesse per scomparire, con il declino del mondo che la dinastia degli Altavilla aveva significato, era per i tempi estremamente bella. L'araboandaluso Ibn Giobayr, altro uomo di larga esperienza, seppur non raffinato quanto l'autore dell'Epistola si come non aduso alla vita di corte, mostrava ammirazione e stupore, alla vista e nella descrizione non solo degli immediati dintorni della capitale, dal castello alla Cannita ove dormi la notte avanti all'arrivo fino alle porte, ma di tutto il tratto appresso Termini. Né poi, lasciata la città, gli venne meno il compiacimento lungo la strada che, attraverso Alcamo, lo portò a Trapani. Era, questa fascia costiera, l'eredità più sontuosa, nei colori del paesaggio e nella ubertà di un terreno sfruttato con continuità e perizia, che dall'emirato era passata al regno normanno, attraverso la « tolleranza » che qui fu accorto adeguamento a una condizione etnico-religiosa che era vantaggioso anche ai conquistatori non turbare. Cinisi, Carini, Alcamo, Calatubo dalle pregiate pietre molari, Mirâga, Al-Hammah (Calatameth), Al-Madârig si mantennero fino al declino della dinastia normanna terre feraci e, per le misure correnti, popolose. Il dubbio che qualcuna fosse destinata a scomparire e non
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poche a decadere, a non lungo termine non era proponibile quando ne scriveva Edrisi, avanti cioè che certi atteggiamenti di Ruggero II allarmassero i più apprensivi. Forse non lo era neppure per Ibn Giobayr e per qualche suo interlocutore piuttosto allarmato (il loro era timore per le sorti dell'islamismo, non degli abitati a prevalente popolazione maomettana in terra di Sicilia). Questa fascia, prospera e ancora poco scalfita dall'attacco del feudo e del clero, della latinità e della cattolicità, serbava una propria fisionomia, nel paesaggio come nelle risorse, rispetto a quella di sud-ovest, o a altre che, con un certo loro modo di sussistere, erano lungo la costiera: il triangolo Noto-SiracusaLentini, il tratto da Catania a Taormina attraverso Aci, movimentato a Mascali e Calatabiano dallo sfruttamento del legname (che consentiva produzione di pece e la vita di una darsena) in un ambiente in cui anche il mare finiva dominato e condizionato dall'Etna e dalle risorse che offrivano i suoi boschi. Certo, nella costiera di tramontana, il paesaggio si immiseriva dopo Cefalù andando verso Messina, angusto nella successione di scoscendimenti, e finché non sovrastavano i boschi (a Caronia, a San Marco, ove l'abitato sorto attorno al castello fatto costruire dal Guiscardo nel 1061 « pour la defension de li Chrestiens », ebbe prosperità per la coltivazione della viola mammola, l'allevamento del baco da seta, la frequentazione della darsena). Si distingueva, semmai, Milazzo, buon porto, con larga pesca del tonno, in una piana fertile anche di cotone e lino. Per scelta, che non viene agevole spiegare neppure con la vicinanza a Lipari (anche Milazzo non era discosta), sede vescovile fu qui Patti, che si volle ripopolare con uomini « di lingua latina » (una propaggine coerente fu la colonia da cui crebbe Santa Lucia e altra fu più tardi quella cresciuta attorno al monastero di S. Maria della Noara, o della Nugara, da dove è venuta quella che per disattenzione è stata ribattezzata Novara di Sicilia). Più accosto al mare, lungo la costiera che raggiunto lo stretto piegava a mezzogiorno, sotto lo stimolo precipuo della richiesta di derrate che avanzava da Messina, nella fascia ove il Val Demone serbava più netti i caratteri premusulmani e Cristo aveva parlato e continuava a parlare nella lingua dei greci, non c'era sforzo, né c'era linea di tendenza verso la conservazione. C'era bensì una dinamica volenterosa, ancor se non di rado asfittica, che ebbe manifestazione nell'attacco alle fiumare, e cioè nell'impegno a popolare e sfruttare quanto
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più largamente gli spazi e le possibilità che offrivano gli irrequieti rivoli avanti di esaurirsi nel mare. L'attacco alle fiumare si sviluppò nei territori di Castroreale promotori i basiliani di S. Maria di Gala, a Monforte da parte dei monaci di S. Anna e di S. Nicolò, attorno al casale Sicaminò nei pressi della stessa fiumara di Monforte concesso da Ruggero I a Gualtiero Gavarretta (del quale l'abitato ha conservato il nome). Si di ffuse pure nella fascia orientale: il prete Scolaro fondò e dotò un monastero dedicato al Salvatore, a Zaffaria l'arcivescovo di Messina nel 1176 affidò la messa a cultura a quattro uomini venuti di Calabria, fra i torrenti Lardaria e Mili la propulsione venne dall'abazia di S. Maria, e sempre ad opera delle fondazioni religiose che vi si insediarono fu avviata la valorizzazione sulla fiumara di Itala o Gitala, su quella di Fiumedinnisi, fino ad Agrò ove emerse il monastero dedicato ai SS. Pietro e Paolo. Rimangono legati a questo attacco alle fiumare monumenti fra i più suggestivi dell'epoca normanna, sorti dagli anni della contea (oltre quello di Forza d'Agrò, i monasteri di Mili e di Itala) che fanno ancora paesaggio quando il paesaggio addirittura non dominano. La loro crescita non dipese tanto da pie elargizioni: fu il risultato del dinamismo fattivo che investi il territorio. Il terreno fu qui destinato in cospicua misura alle culture irrigue, e se attorno ai monasteri e ai casali non crebbero abitati popolosi (che sarebbe stato al di là delle intenzioni, e contro ragione) si delineò la fila di solerti nuclei residenziali che, infittita nel tempo, ha caratterizzato questa parte della Sicilia. Le nuove presenze, del resto, furono piuttosto qualitative che quantitative, lungo la doppia fascia, quella che guardava a tramontana e l'altra a levante, della Sicilia nord-orientale, nel triangolo Caronia-Messina-Taormina con eccezione proprio di Messina e degli uomini « di lingua latina » di Patti. La colonia di S. Lucia e quella della Noara o Nugara si stabilirono piuttosto all'interno. Non era neppure sulla costiera il grosso del territorio di S. Filadelfo (S. Fratello) ove, accanto alla popolazione greca raccolta attorno al monastero durato sotto la dominazione musulmana si stabili una colonia gallo-italica, che non fu tra le più numerose, ma le cui impronte rimasero incisive sul dialetto d'uso corrente fino al 1922, quando il terremoto provocò il trasferimento dell'abitato e degli abitanti nel luogo di Acquedolci. Né ebbe successo l'iniziativa di Ruggero I di distribuire tra Mili e
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S. Marco, attorno al castello di Focerò che doveva valere alla sorveglianza, 500 famiglie di musulmani. Alla morte del gran conte vi fecero capo i feudatari in rivolta contro la contessavedova; e sotto Ruggero II (a quel che si apprende da una letterarelazione scritta fra il 1130 e il 1140) il castello fu distrutto e ï superstiti furono spartiti fra Sicilia (Oliven , San Pietro sopra Patti) e Calabria'. In questi episodi ebbero a soffrire i territori del feudo diocesi di S. Bartolomeo (Patti e Naso, e i casali di Panagia, Fitalia, Librizzi). L'iniziativa del conte Ruggero — di raccogliere un grosso numero di musulmani — non fu linea di tendenza ripetuta, né del resto facilmente perseguibile e promettente. Non era agevole sorvegliarli, nel grosso numero. A giustificazione, può addursi che l'intenzione e la maggiore preoccupazione era stata probabilmente di natura economica: lo sfruttamento di una delle fasce accosto al mare meglio dotate di risorse e meno fornite di forza di lavoro entro la Sicilia orientale. La tendenza, perseverantemente seguita dal consolidamento al tramonto della dominazione normanna, a creare spazi all'agricoltura attraverso la dilatazione dell'insediamento umano trovò esplicitazione razionale e più larga nell'interno. C'era una interrelazione fra città e campagna, fra costiera e interno. La vitalità delle città era in larga misura legata agli scambi; le città dovevano stare nelle grandi vie, che per l'isola erano quelle del mare. Pure, perché la presenza nelle grandi vie avesse luogo (e in taluni casi per la sua sussistenza stessa) la città in Sicilia era strettamente legata alla campagna, dato che le voci in esportazione rimanevano i prodotti dell'agricoltura e della pastorizia. E questi nella quantità non potevano venire se non dall'interno. La dilatazione dell'insediamento umano nell'interno non si svolse nei modi della corsa, dell'aggressione confusa. Non ci furono tentativi di fissare le residenze in territori sprovvisti di acqua, o difficilmente praticabili e lavorabili per scoscendimenti, tremuli per frane o addirittura per sismi. La messa a coltura non si allargò al patrimonio boschivo, ius conservato in demanio dal principe o trasferito ai feudatari perché lo conservassero nel loro demanio semmai concedendone l'uso, anche se i boschi non potevano non soffrire per lo sfruttamentc da parte degli uomini che per abuso o per concessione fruivano del legnatico, del pascolo, del ghiandatico, e che di legno avevano bisogno per urgenze immediate tra le quali era la costruzione delle abitazioni.
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Il feudo-diocesi di S. Maria Nuova, che dalle vicinanze di Palermo si allargava alle adiacenze di Girgenti e di Mazara, nel nono decennio del secolo XII presentava alcuni tratti comuni nelle terre che lo costituivano: la ridotta penetrazione di feudatari e di fondazioni religiose, l'assenza di immigrazioni in colonie, l'apertura a immigrazioni e movimenti interni sparsi, che non apparivano validi neppure a colmare i vuoti allargati dalle vicende della conquista normanna. Per altro non ci fu il tempo perché intenzioni e eventuali iniziative valide a incidere sul paesaggio e sull'economia potessero dispiegarsi, avanti le « perturbazioni » che proprio in quelle contrade la fine di Guglielmo II e della dinastia provocò più gravi. Analoghe situazioni si ritrovano nel resto del Val di Mazara, mitigate da condizioni più propizie del suolo, del clima, delle acque, dal contesto economico più disteso, dalla eredità dell'epoca musulmana più congrua e meno incrinata. Probabilmente sulle nostre conoscenze, e sulle nostre valutazioni stesse, pesa il particolare silenzio che viene dalla carenza di fonti documentarie (quello di Mazara è vescovado che si distingue, negativamente, perché non ha conservato, o quanto meno non ha mai mostrato, atti di epoca normanna). A quest'assenza di documenti vescovili corrisponde il numero comparativamente esiguo di presenze e di insediamenti di feudatari e soprattutto dei monasteri il cui zelo di testimoniare le proprie vicende e provare e preservare i loro privilegi e i loro iura offre prezioso aiuto allo storico. Oltre le terre il cui tenimento si allargava verso la costiera di tramontana, o alle adiacenze, e che disponevano di approdo (Partinico rinomata per i coloranti, Cinisi, Carini dalle molte frutta, Alcamo), e che si distinguevano per prodotti agricoli e per le manifatture, continuarono la loro esistenza senza altre scosse dopo quella della conquista Calatafimi e Salemi, Qasr ibn Manknd (nei luoghi di Partanna) di cui Edrisi vantava i « moltissimi giardini » e i terreni seminativi e il Rahl al-Mar`ah (« Casale della donna ») rinomato per il burro e per il formaggio. Qui, anzi, forse le nuove presenze furono soprattutto di musulmani esuli dalla Sicilia orientale per sfuggire alla prepotenza e alle aggressioni dei lombardi sotto Guglielmo I. Non furono nella sostanza diverse le vicende nell'entroterra agrigentino: Grotte « grosso canale e luogo popolato » con albereti e seminativi, Commici (Comitini?) ove era un « ospedale » il quale aveva borghesi e molte terre e due mulini, al-Minsâr
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(la « sega »; nei luoghi di Castrofilippo) fra terreni scoscesi ma coltivati, e Sutera tra le montagne « casale industre e frequentato » a detta di Edrisi, fino ai castelli di Mussaro e di Platano. Le presenze di monaci e di feudatari e le immigrazioni qui furono difficili e ristrette, forse nei limiti del necessario per un certo controllo sulla popolazione persistentemente musulmana, il timore della quale nei primi anni della conquista aveva costretto il vescovo Gerlando a costruire « episcopium et turrim » presso il castello, e le cui turbolenze si spinsero, nella confusione dopo la morte di Guglielmo II, alla cattura del vescovo Ursone. Analoghe furono le vicende dei centri maggiori. Nel territorio di Naro la chiesa palermitana ebbe tre casali contigui per la munificenza di un Hammudita ufficialmente convertito (si chiamò Ruggero, dopo il battesimo) senza che per altro né essa né altre istituzioni ecclesiali presenti con esercizio di poteri spirituali e con possessi territoriali (la chiesa vescovile, il monastero di S. Gregorio di Agrigento) riuscissero in una penetrazione incisiva. Caltanissetta che appartenne ad Adelicia che preferì il titolo di Golisano e di Adernò e dalla quale passò a Bartolomeo di Montescaglioso che in Sicilia predilesse Noto, non subi né evoluzione né trasformazioni ingenti 2 . Colpisce semmai negli abitati maggiori la « industriosità » che Edrisi tornava a vantare, e che non pare si possa intendere riferita e limitata alle miniere di salgemma. Attitudini coltivate dalla gente islamica di Sicilia (cui pure Ibn Giobayr dava merito di tenere la grande parte delle manifatture in Palermo)? o pure condizione che risaltava al paragone con le abitudini di lavoro dei nuovi venuti (quelli che si stabilivano nei casali e nei borghi, e i latini soprattutto): gente, per lo più, che aveva lasciato i campi, e voleva trovare sostentamento in condizioni meno mortificanti su un suolo che lusingava perché più fertile e più propizio? Sulla strada che univa Agrigento a Palermo questi tratti si presentavano meno marcati a Castronovo e a Cammarata, ove la gente dei monasteri e dei feudatari si affiancava alla piccola e operosa borghesia di campagna. Qui avevano signoria i de Milia, forse suffeudatari dei Bonello. I quali Bonello avranno avuto le loro colpe (e Matteo, lo sposo promesso della figlia dell'ammiraglio Maione che egli uccise di coltello in una grigia notte palermitana, ebbe quelle capitali dell'ipocrisia e della ingratitudine, e le altre non meno gravi della superbia della condizione nobile
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e della ambizione che lo sospinsero alla rovina e alla morte giovane) ma furono promotori nelle loro terre di Sicilia di un'efficace dinamica economica e demografica, sulla costiera a Carini (legata a S. Bartolomeo di Lipari e Patti attraverso fondazioni religiose dipendenti dall'abbazia vescovile), nell'interno a Prizzi (ove affidarono l'insegna della latinità cristiana al monastero di S.Michelarngo),Vi(chelFandovrtgli oppida Lombardorum), a Caccamo (i cui borghesi latini, a detta sempre del Falcando, rimpiansero le condizioni in cui erano avanti la condanna di Matteo e la revocazione dei suoi feudi e la concessione della terra a un feudatario francese), a Mistretta. Non fu questa, comunque, di Vicari e Caccamo, con i casali che rientravano nei tenimenti di esse, la fascia ove si verificò più intensa la trasformazione ecologica e demografica. Le Madonie, fino a Mistretta, costituirono intercapedine, ove presente e passato si incontravano e si saldavano. La vicenda di Qal`at as-Sirat - Golisano, fatta distruggere da Ruggero II e risorta attorno alla chiesa di S. Pietro sotto la signoria di Adelicia nipote del re, esemplare di recupero, potrebbe essere indicativa di un dinamismo che non ebbe però, comunque, realizzazione sullo sviluppo di centri residenziali consistenti. Tranne per Golisano, anche qui il quadro risulta velato per il dominio musulmano da carenza di fonti ai confini dell'assenza e per quello normanno dalla esiguità di testimonianze che non siano le notizie dei cronisti della conquista al punto di partenza, la descrizione di Edrisi sulla metà del secolo, e un ristretto numero di documenti conservati da istituzioni ecclesiali. Nel comprensorio madonita, che sfuocava ai due lati a Sclafani e Mistretta (abitati le cui origini risalivano al di là della dominazione musulmana), stavano Isnello (al-Hisnar l'Asino; Rocca Asini) Gratteri, le Petralie (Inferiore e Superiore), Geraci, Polizzi, Caltavuturo, oltre Qal'at as-Siràt mentre nella penombra della modestia erano Magarah e, non lontano dalle rovine dell'antica Imachara, Gankah forse accenno di Gangi, sviluppatasi attorno al monastero benedettino di S. Maria, e Ruqqah basili dalla quale sembra si sia arrivati attraverso il casale Fisavola e Ipsigro all'odierna Castelbuono. Era un ampio comprensorio ove alla continuità dell'onomastica, musulmana e premusulmana, rimane legata quella del ruolo nel contesto dell'ambiente siciliano. È, questo, discorso che può estendersi a Castrogiovanni, in posizione eminente al centro dell'isola sulle strade più battute ,
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che le conferiva importanza quale mercato e sul piano militare. Là dove le Madonie si legano con i Nebrodi le trasformazioni furono più estese, investirono le radici. Ne fu tocca Troina, durante la sede in Sicilia di un vescovado, e non si sottrasse la modesta Centuripe. Sul versante meridionale dell'Etna Adernò, Paternò, S. Anastasia, nella parte sud-orientale Butera, Ragusa, Modica, Noto e Galati ebbero nella consistenza dell'impianto le basi di una continuità con fisionomia largamente innovata. Buccheri e Baccarato che fecero parte della contea aleramica, Buscemi (forse Essina del diploma di costituzione del vescovado siracusano), in una esistenza perseverantemente modesta non furono estranee al processo per cui a nuove presenze umane corrispondevano modificazioni ecologiche progressive. San Filippo (al punto di avvio vi aveva posto rilevante il monastero di Agira, tra i primi e tra i più solidi dell'ordine di S. Basilio), Maniace nei luoghi dell'odierna Broute, negli anni di Guglielmo I erano ormai oppida Lombardorum, come li definiva lo pseudo Falcando. Sperlinga, Nicosia, Capizzi, ancor se non sorsero ex novo, iniziarono una fase di vita rinnovata, con respiro più lato. Di Piazza, dalle vicende tormentate, e soprattutto Aidone, Mazzarino (non noverata ancora da Edrisi), Grassuliato, Pietraperzia (Pierre percée), non esistono neppure riscontri onomastici certi avanti lo sviluppo sotto i normanni. Di Caltagirone, ricordata dai geografi di epoca islamica, la tradizione si compiacque attribuire la fondazione ai genovesi che ivi avrebbero combattuto e, con l'aiuto di S. Giorgio, debellato i musulmani. Ma se è estremamente dubbia questa operazione di guerra, e ardua la riduzione della leggenda nei limiti della veridicità, resta che la « università » di quegli uomini doveva il trasporto di legname alla darsena di Mascali in corrispettivo dei territori di Iudica e di Fantasima sfruttati a cultura. Il più vivace abitato della zona etnea diventò Randazzo, pure borgo di lombardi obbligati, al pari che quelli di Nicosia, Aidone, S. Lucia e Caltagirone, al trasporto di legname e al servizio di marineria, e per il resto esenti da qualsiasi onere personale (molestia e angaria): nella condizione, cioè, che sembra rivendicassero gli oppidani latini di Caccamo, che marineria però non prestavano né fornivano legname. Era il servizio mediocre in corrispettivo di un beneficio nella casistica d'epoca mediocre esso pure (non nobile, non servile). Furono questi oppidani, questi latini che in Sicilia acquistarono
IV. Terre della costiera e terre dell'interno
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qualifica e ambizione di medio-ceto, di borghesi, gli attori del processo di trasformazione del quale protagonisti per appariscenza furono dinastia, feudatari e clero e, modesti ma efficaci coristi, villani della diversa gradazione. Le innovazioni più larghe, quelle profonde, avvennero per allora, oltre e forse più che nelle città, all'interno e nella Sicilia orientale, quella prevalentemente greca per rito religioso, per linguaggio e per diffuse consuetudini. E furono trasformazioni etniche, religiose, linguistiche, ampiamente civili cioè e furono anche demografiche, economiche ed ecologiche. E ne sviluppò, insieme alla accentuata interrelazione fra progresso della città e sviluppo della campagna, una distribuzione differente anche negli aspetti quantitativi della residenza umana fra la costa e l'interno 3.
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AB TT A TT „,trJ,._)VI E RESIDENZE ABBANDONATE Ai di ers* li e?l e graduati con essi, c'era un tenore di vita in avanzamento pe}' la disponibilità dei generi essenziali, per l'espandersi dei conforti. A leggere il Libro di Edrisi, che ripeteva notizie veri fi cate a, metà del secolo XII in molte terre anche del"interno es: step aro bagni, mercati frequentati, abitazioni accogile? ti. T
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1. I Normanni. Rilancio e contraddizioni
detiene il potere, augurabile magari, ma che non pare abbia riscontri sia pure infrequenti. L'isola fu pure costantemente preservata da carestie e da epidemie (quella che toccò Palermo nel 1106 non sembra avere avuto larga diffusione)'; e la sola grave calamità naturale (il terremoto del 1169) colpì immaginazione e sensibilità dei contemporanei, anche perché essi erano disabituati alle grandi disgrazie collettive. In queste condizioni, anche a tenere in conto che la media durata della esistenza umana era piuttosto bassa per la esposizione alle intemperie e la scarsa difesa da esse, per la mortalità nel parto e per quella infantile, la supposizione di un incremento annuo naturale nell'ordine dello 0,25% non è certo ottimistica. Questa ipotesi, che nei cento anni comporta un aumento di più di un quarto (del 283 0%0), risulta però sensibilmente al di sotto della realtà, per l'impulso che alla crescita demografica venne dalle immigrazioni, che andarono ben oltre la compensazione delle occasioni regressive (si pensi che secondo il Falcando i lombardi di Capizzi, Maniace, Vicari, Randazzo, Nicosia ove il tributo di marineria era di 296 uomini, ascendevano sotto Guglielmo II a oltre 20.000; quando, per lo stesso, i morti nel terremoto a Catania furono 15.000). Il fatto che alla crescita demografica si unì il miglioramento delle abitazioni (le difficoltà di alloggio in Messina rientravano nella tipologia di uno sviluppo intenso e non regolabile) e dei conforti di insieme, è specchio della distribuzione della residenza umana più fitta e nel complesso più organica. Che fu aspetto, senza discussione, positivo e progressivo della Sicilia sotto i normanni. In questo quadro, nel secolo XII, non c'erano condizioni che dessero luogo ad abitati abbandonati oltre quelli che risultavano da una storia già lunga e sofferta. Gli uomini non andavano in cerca dei passato sepolto da secoli, per contemplarlo o meditare su di esso. Le rovine di Selinunte (« gli Idoli »), i templi di Agrigento e quelli di Siracusa, si presentavano alla sensibilità di Edrisi memorie che nobilitavano quei luoghi e la Sicilia, ma gli uomini nel loro impegno e per i bisogni della esistenza non disdegnarono servirsi di quei resti, recuperandoli magari all'uso nell'adattamento in chiese, o traendone materiale di costruzione (si ricordi il vescovo di Agrigento che « fecit trahi lapides de civitate ueteri » per l'ampliamento della cattedrale) 2. L'attenzione di Edrisi appare acuta, comunque e per gli abitati abbandonati ab antiquo (quale era ancora Erice) e per quelli che lo erano di
V. Abitati nuovi e residenze abbandonate
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recente, come per gli altri che erano stati rilanciati (quale Marsala). Gli abitati di recente abbandono non erano neppure nel numero che ci si potrebbe aspettare in un paese uscito da una campagna logorante durata circa trenta anni. E, per altro, località delle quali Edrisi segnava l'abbandono di lì a non molto risorsero (Caltabellotta, la cui popolazione era stata trasferita, e il territorio incorporato a quello di Sciacca, nei primi anni dopo la conquista normanna); e altre che avevano subito la distruzione erano già state ricostruite in luogo vicino. Era, quest'ultimo, il caso di Qal`at as-Sirât (la rocca della strada), quella che nei documenti latini era chiamata Golisano (e oggi è Collesano) e che al-Muqaddasi segnava fra le « città ». Edrisi ci fa sapere che la rocca era su un monte pressoché inaccessibile e che Ruggero II ne ordinò la distruzione e ne fece trasferire gli abitanti in nuovo sito. Si è pensato trattarsi di un episodio dei contrasti nella famiglia di Ruggero, e nel caso fra il conte, poi re, e il cognato conte Rainolfo. Fatto è che, ancor dopo morto Ruggero, Adelicia, nipote del re, aiutò la crescita del borgo e fu larga verso la chiesa di S. Pietro: ed è di Golisano la sottoscrizione, nel 1140, del « magistri burgensis » (manco a dirlo, si chiamava Bartolomeo) il cui figlio (« Robertus de Golisano filius quondam bartholomei magistri ») nel 1183 si fece prete (e per l'occasione offrì alcuni terreni, che aveva in allodio, alla chiesa) 3. Fuori della notizia di Edrisi, chiarificatrice in parte e comunque orientativa su quegli avvenimenti, qualche analogia con quelle di Qal`at as-Sirât - Golisano presentano le vicende di Piazza °. La cittadinanza non figura nel diploma di fondazione della diocesi di Catania, risorta come era o almeno sviluppata per immigrazioni dall'Italia centro-settentrionale, al seguito degli Aleramici, stretti congiunti della contessa Adelasia. I resti e il ricordo di un abitato, del quale quello esistente ripeteva il nome ma non occupava il sito, esistevano alla metà del 1100; tanto che il conte Simone, signori del luogo, concedeva al monastero di S. Andrea dell'ordine del S. Sepolcro « Placeam quoque veterem cum toto plano Aymerici » (e non pare che in questo documento — uno dei pochi degli Aleramici di Sicilia su cui non pesano sospetti di falso — « Placea » non sia toponimo e cioè che non indichi la città antica omonima a quella esistente, ma il mercato vecchio). Piazza negli anni in cui scriveva Edrisi aveva un « mercato molto
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1. 1 Normanni. Rilancio e contraddizioni
frequentato », un « mercato a giorno fisso » o meglio, secondo l'interpretazione che Fleischer preferì (e propose anche per Naro) accoglieva una « fiera solenne ». Nella repressione dei torbidi che fecero seguito all'uccisione dell'ammiraglio Maione da Bari, Piazza fu distrutta completamente, a quel che ne scrisse Romualdo Salernitano, quasi (penitus) rovinata a dar credito al Falcando. I danni furono certo gravi, ma il recupero fu agevolato dalla distribuzione della popolazione nei casali, dalla larga disponibilità di legname nel posto e dalla operosità della popolazione che non subì molte perdite e forse ebbe nuovi acquisti. I movimenti della feudalità contro Maione, a quel che, ne scrisse il Falcando, partirono da Butera. Nella rocca si insediò Bartolomeo che aveva titolo dal non lontano castello di Garsiliato o Grassuliato (del casale Edrisi vantava i seminativi e l'ubertà del suolo). Bartolomeo si arrese, dopo che ebbe assicurata la vita (e in effetti andò in esilio). Nei movimenti del 1161 vi si stabilì Ruggero Sclavo, figlio del conte Simone, e da Butera iniziò l'aggressione ai musulmani Guglielmo I ordinò allora la distruzione della città. Butera si riprese, ma cedette la preminenza, in questa fascia di sud-est, proprio a Piazza. Nella Sicilia occidentale, tra le terre noverate nel diploma di fondazione del vescovado di Agrigento compare Calataczarut (in qualche trascrizione Calatcerath). Forse è da identificarsi con Qal`at-Tariq (« rocca della via »), della quale in Edrisi si trova solo un accenno (era a 9 miglia da Corleone). Lo scarso posto nella descrizione edrisiana per una rocca che era stata tra i distretti noverati in un diploma costitutivo di diocesi è di per sé indizio di decadimento e di declassamento. Di essa, comunque, non si ritrova traccia: non ricorre nel diploma costitutivo dell'arcivescovado di Monreale, e neppure nelle giaride e nelle platee rilasciate tra il 1178 e il 1183. A non voler sollevare dubbi, non nuovi, sul diploma costitutivo della diocesi girgentina e sulla traditio di esso, sarebbe da chiedersi se nel documento non fu inserita una terra, se non abbandonata, in perenzione, la cui condizione di fatto non ebbe pronto e adeguato riscontro negli uffici amministrativi e finanziari. Si trattava, comunque, di una fascia di territorio tutt'altro che privilegiata, nella quale il recupero, dopo i danni sofferti nella campagna di conquista, si mantenne lento e modesto alquanto. Nella giarida del 1182, nel corso della descrizione dei confini,
V. Abitati nuovi e residenze abbandonate
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è ricordato al di là del fiume di Calatrasi il casale Belice « quod desertum est ». Belice si trova in al-Muqaddasi, noverato tra i castelli, ed è pure segnato nel documento costitutivo della diocesi di Agrigento. Edrisi, per parte sua, lo dice « forte ed elevato castello e ben munito fortilizio » e scrive che il territorio era alberato ma scarso di seminativi. Che ci sia già in questa ultima osservazione la prognosi dell'abbandono del casale? che, deserto o comunque emarginato il fortilizio, era avviato l'abbandono del casale carente, se non del tutto privo, di terreni seminativi? Nello stesso documento Belice è l'abitato più appariscente tra quelli abbandonati. In territorio di Corleone la giarida segna le « rovine deserte della vecchia (veteris) Briaca » in quel di Battalaro gli « edifici diruti di Heretelgalfe » e gli « edifici diruti che sono sotto il castello di Entella », entro le divise di Giato « il casale Palamiz che è vuoto », ai confini di Calatrasi e pure nelle divise di Giato « le case dirute ove era il casale di Pagano de Gorgia ». I vuoti non erano solo in questa fascia travagliata. Nel 1188 gli ufficiali incaricati di descrivere le divise di Vicari e del casale Harsa che apparteneva alla chiesa di Cefalù cominciarono dal casale Sankegi « che era distrutto » 5. Erano guasti antichi e nuovi; e c'era soprattutto aderenza a quanto di effimero stava nelle residenze rurali. Le abitazioni permanevano fragili nella campagna; e, a parte tutto, il terreno si stancava nello sfruttamento prolungato. Né mancavano, nella vita d'ogni giorno, occasioni e incidenti, se non per obliterare l'affetto al luogo ove si era nati e si erano avute le porzioni di gioia e di dolore, per spostare quello della propria fatica. Né sparsi casali deserti in territori particolarmente provati, né altri su terreni sterili o isteriliti, e neppure castelli abbandonati quando si riteneva che più non avessero una funzione da assolvere, rientravano in una linea di tendenza. Potrebbero anche e meglio significare scelte coerenti e rifiuti motivati.
VI AGI E DISAGI ANTICHI E NUOVI Edrisi nella descrizione della Sicilia volse l'attenzione a segnare le distanze itinerarie, da abitato ad abitato. Non è facile, oggi, e non dovette esserlo neppure nel secolo XII, una netta demarcazione fra la parte spettante al desiderio di conoscenza e quella destinata a finalità pratiche nell'opera che fu promossa e la cui esecuzione fu stimolata e aiutata dal re personalmente. Per altro la descrizione del regno e della Sicilia, nel contesto dei paesi dei diversi « climi » (nelle intenzioni, una « geografia universale »), fu oggetto di cura e di attenzione particolare e fu frutto di conoscenze dirette e di informazioni immediate e verificate. È certo che pure per le comunicazioni il Libro edrisiano costituì, e resta, punto di riferimento sostanzioso ed efficace: uno sguardo di insieme e un orientamento perspicuo, sì da autorizzare la tesi che, in quel che attenga alla viabilità e alle comunicazioni, fosse perspicuo lo scopo pratico. La descrizione delle coste è, così, minuta, attenta, quasi particolareggiata. Oltre i porti, sono segnati gli approdi e non mancano accenni all'accessibilità e alla navigabilità: i livelli del Libro sono, qui, quelli di un « portulano » non mediocre. Nella economia della Sicilia, se i porti rappresentavano grosse arterie, gli approdi, ancor mediocri, costituivano un denso insieme venoso. Vi poggiavano le terre nel cui tenimento essi stavano, e più di una volta vi gravitavano quelle del prossimo entroterra: ne erano gli intermediari negli scambi diretti ai mercati e ai porti maggiori, per i consumi interni e per l'esportazione. La fruizione della via di mare era in ogni modo vantaggiosa: nei confronti di quella sui muli, sul cavallo (o a piedi), il viaggio in barca affaticava meno, richiedeva minor tempo ed era meno costoso. La fitta
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rete di approdi agibili leniva l'apprensione per il mare grosso e per le intemperie; la continuata propinquità di essi era conforto. Nel dicembre del 1184 l'arabo andaluso Ibn Giobayr, subito naufragio nei pressi di Messina, fece di necessità virtù per visitare la parte settentrionale della Sicilia e descrivere paesaggio e incontri, permanenza e viaggio. Da Messina egli e i suoi compagni intrapresero il viaggio la notte di martedì 18 dicembre, in barca; il mercoledì al tramonto approdarono a Cefalù. Ripartiti su altra barca alla mezzanotte, sul far dell'aurora giunsero a Termini. La marea li trattenne qui il giorno successivo. Non se ne avvilirono, compiacendosi piuttosto di avere compiuto in due giorni un viaggio che, a quel che fu loro detto, a volte richiedeva da venti a trenta giorni, e continuarono per Palermo a piedi. Lasciata Termini la mattina del 21, fecero sosta al Qasr Sa`d, appena a una parasanga (metri 5762) da Palermo, e vi trascorsero la notte entro la moschea. La mattina del 22 raggiunsero Palermo. Lasciarono la capitale il mattino del 28 per Trapani, ove contavano raggiungere le imbarcazioni di cui era prevista la partenza per la Spagna. Trascorsa la notte del 28 ad Alcamo, il pomeriggio del 29 furono a Trapani. I modi e i tempi del viaggio di Ibn Giobayr furono di un trasferimento proceduto senza seri intoppi; e la costiera da Cefalù a Trapani, quella che egli percorse a piedi, era privilegiata per la viabilità in piano. E, lasciata la barca, gli toccò muoversi col mezzo più antico, che è rimasto pure il più faticoso. Certo, si viaggiava solo per necessità. Lo svago del viandante non era concepibile: né in Sicilia, né altrove. I pellegrini non avevano agio di trasformare il debito di religione in svago; i mercanti cercavano semmai distrazione a compensare durante le soste la fatica e le preoccupazioni del viaggio. I diaristi che nel secolo XII passarono dall'isola non erano tali per mestiere (che del resto non esisteva e non avrebbe dato pane), né giravano per vaghezza di conoscere nuovi paesi: erano mercanti e pellegrini (anzi mercanti pellegrini). I fondachi, gli ospizi (ammessa la possibilità di distinguere gli uni dagli altri) si trovavano nelle città di mare e nei mercati più frequentati; Edrisi ne menzionava a Palermo, a Catania, a Siracusa, a Marsala, e poi a Taormina (era sulla strada da Messina a Catania e Siracusa, e vi finiva la grande arteria che aveva centro Castrogiovanni). Non ne fece cenno per Castronovo, che era punto nodale della « magna via », da Palermo ad Agrigento: antica strada essa pure, che attraversando l'interno colle-
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gava città su sponde opposte, e probabilmente non ce n'erano, perché i fondachi non erano destinati tanto ai comodi dei viaggiatori, quanto alla conservazione delle merci e gli uomini trovavano vario modo di arrangiarsi. Non ci sembra affidarsi alla fantasia, attribuire i fondachi però a Girgenti, a Mazara, a Trapani. In questa città, comunque, Ibn Giobayr e i suoi compagni alloggiarono in una casa che presero in affitto. Il diarista non precisò dove pernottarono ad Alcamo. Forse dormirono in una moschea, come avevano fatto, e con soddisfazione, a Qasr Sa`d, avanti l'arrivo a Palermo, ché chiese, moschee e sinagoghe offrivano abituale ospizio e protezione al viandante. A Termini la comitiva rimase a dormire nella barca, che lasciò quando la prosecuzione del viaggio sul mare apparve impossibile. Segni pure della tendenza a un tenore di vita meno squallido erano i bagni. Edrisi ne dava vanto alle città, e a Termini, Cefalù, San Marco, Oliveri, Marsala, e ancora a Butera e Carini, e ad Adernò. Ma non c'era impegno, in lui, a farne menzione, tanto che non scrisse neppure di Cefalà (i cui bagni sono l'unico edificio di epoca musulmana arrivato fino a noi in stato che ne consenta la datazione), né di Sclafani (che era favorita dalle acque termali). Le preoccupazioni igienico-religiose che avevano favorito la conservazione e la diffusione dei bagni sotto gli arabi, nel mutato clima religioso lasciarono spesso posto ad intenzioni esclusivamente igieniche, o si trasformarono in altre igienico-lucrative. Nel casale Catta, il vescovato di Girgenti che lo ricevette in dotazione, « aveva mercato tutti i mercoledì con i redditi pertinenti » e bagno per tutta la zona'. Il mercato settimanale rappresentava il modo di inserire nello scambio anche le residenze minori: di portare agli abitanti quanto rispondeva ai loro bisogni e di trarne quanto essi potevano offrire. Esso era ai livelli più bassi della scala che faceva capo alle cittàporto-mercato, ma comunque significava l'inserimento in un giro, fosse pure modico. Vi si praticasse il baratto, o la compravendita avvenisse in moneta, il fatto saliente era questa circolazione che escludeva autarchie di villaggio, pur se il casale di piccola e modica dimensione consolidava la fisionomia di residenza di contadini (ne sarebbe discesa, nell'ordine giuridico, la identificazione, nell'insieme non discrepante dalla realtà, del villano con colui « qui in villis [et casalibus] habitat », fino al basso aforisma « rustica progenies semper villana fuit ») 2. La fiera era occasione per
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l'uomo della campagna di uscire dâl'isolamento, di mettere in circolazione i prodotti del suo lavoro, di ricevere i manufatti necessari, di farsi a propria volta consunatore. Era pure l3 che l'artigiano della terra (se non producela già per commissione, per sua utilità o perché costretto da abtuale povertà o da urgenze eccezionali) offriva i suoi manufatti all'acquirente al minuto e al mercante che li immetteva in un gin, che poteva essere ristretto a lle terre e ai çasali contigui come prteva arrivare al grosso mercato di città e alle piazze di esportxione. I riferimenti alle sedi di mercat in Edrisi, se abituali per i porti maggiori e mediani e per gli alitati forniti di buoni approdi entro il territorio, per l'interno non erano motivati dalla presunzione che fossero esclusivamente pesenti in quelle località, ma dalla frequentazione e dal ruolo che essi tenevano nell'economia locale e che si riversava in quella generale dell'isola: Castrogiovanni, privilegiata nel sistema delle comunicazioni dalla positura alla confluenza delle grandi strade che andavano a concludere nelle maggiori città portuali (la vi; che finiva a Termini nella costiera di tramontana verso Palerno, quella che sboccava sulla costiera di levante nei pressi di Taomina biforcandosi verso Messina e verso Catania, l'altra che attaverso Piazza e la zona degli insediamenti lombardo-aleramici prtava a Sircusa e Lentini, quella che terminava a Girgenti maggior porto sulla costiera di mezzogiorno) con una rete di aggaici e di diramazioni discretamente agevole, Randazzo e Adernò ni versanti dell'Etna, Petralia nelle Madonie, Naro nella zona ceealicola e del salgemma del centro-sud, Piazza, Noto nella Sicili sud-orientale e centro-orientale, Alcamo nel lato occidentale... La grande occasione degli starmi erano le fiere, le maggiori « solenni » anche per la ricorrenza [elle festività e la coincidenza con i periodi di produzione. Edrisi rz ricordava a Naro e a Piazza; ed erano scelte, sia pure fondate. Se rare e incerte erano le lusinhe che i frequentatori, anche artigiani e contadini, si aspettavan. nei luoghi di mercato, e se in ogni modo doveva aiutarli l'attittdine ad arrangiarsi alla meno peggio; c'era per loro un conforto de era più largo per l'abitudine di viaggiare di notte dopo che la bottega era chiusa o quando la fiera si era conclusa: lo stato di sicurezza del paese. Non esisteva il feudatario predone, le colettività erano dissuase dalla omertà attraverso la responsabilità ollettiva dei crimini commessi
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entro il territorio di esse, non c'era banditismo alimentato da sedizioni e dissidenze stabili. Dagli anni del consolidamento della contea fino alla morte di Guglielmo II fu costante l'ordine che garantiva cose e persone: che non è il maggiore dei beni, ma giiale bene si apprezza quando manchi e dalla assenza vengano insicurezza e danni 3. Cessata, da tempo, la navigabilità interna, i corsi d'acqua rimanevano essenziali alla conservazione del paesaggio, alla sussistenza, agli agi e a lenire i disagi. La scarsezza, lamentata a Calatafimi, la mancanza nel territorio di Giato erano condizioni limitative e frustranti; quando erano particolarmente frequenti, sia pure non ampi, Edrisi ne mostrava, attraverso il compiacimento, l'importanza (a Brucato e Cefalù, a Oliveti e Milazzo, a Castrogiovanni e Pietraperzia, ad Adernò e Cerami, a Golisano, a Mascali... ). Essi condizionavano le presenze e stimolavano gli insediamenti, necessari come erano al funzionamento dei mulini, alla follatura della lana, al lavaggio del lino, all'igiene delle persone e delle cose, alla irrigazione degli ortaggi, delle frutta, dei vigneti nelle stagioni aride, all'alimentazione degli uomini e degli animali. L'acqua sorgente di Aci, i pozzi d'acqua dolce scavati nelle pertinenze delle case e le sorgenti degli immediati dintorni di Marsala erano oggetto di ammirazione. Non c'era, d'altra parte, impegno ' nella disciplina e nella conduzione con nuovi acquedotti, e appariva scemato anche quello nella costruzione di canali per irrigazione. L'economia siciliana permaneva preminentemente agricola e pastorale nelle risorse fondamentali, nelle eccedenze destinate all'export, nella distribuzione delle occupazioni, senza sostanziose eccezioni qualitative per difetto di propulsione e di dilatazione delle manifatture, e perché la pratica mercantile rimaneva a livelli che non creavano né questione né condizioni di riciclaggio dei lucri. Nella campagna, però, accanto alle trasformazioni per nuovi insediamenti e per gli spazi bonificati, non si realizzavano congrue innovazioni nei sistemi di cultura. Gli immigrati non avevano da trapiantare modi e generi di coltivazione particolarmente efficaci: la preoccupazione di essi fu piuttosto imparare che non insegnare, adattarsi alle abitudini del paese, alle esigenze del suolo e del clima, che non applicare un patrimonio di esperienze valido nel trapianto. Ai vari livelli — feudatari e clero regolare, borgesi e villani affidati — essi non portavano esperienze e neppure velleità: preferivano, soprattutto proprio i latini, la coltivazione deI
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grano, i maggesi, l'utilizzazione dei boschi, nei modi arcaici e pur validi per tutti i terreni e con tutti i climi. Non furono, le immigrazioni dal continente e quelle dall'Italia centro-settentrionale, né le stesse presenze normanne (ai livelli più alti della scala giuridico-sociale, tra i laici e nel clero) occasioni alla diffusione di nuovi strumenti; non penetrò una più ampia utilizzazione del suolo attraverso rotazioni diverse; i tardi buoi a coppia o in 4 guidati da un agricoltore (un altro seguiva a spargere la semente) continuarono a trascinar l'aratro pesante, ancor se la presenza di un tipo equino particolarmente solido in territorio di coloni galloitalici (San Fratello) può essere suggestivo riferimento a un trapianto sia pure ridotto e locale. Comunque, in quel secolo XII, questa stasi, questo immedesimarsi degli uomini e delle loro abitudini antiche nel solido ambiente dell'agro siciliano non costituivano fatto regressivo. Piuttosto, da lla pastorizia venivano pellami e cuoio per il fabbisogno e per le esportazioni, il burro era sul desco dei meno poveri, il cacio era su quello di tutti ed elaborato diventava la « cassata » (che per gradi di sofisticazione avrebbe costituito il piatto dolce e forte della mensa siciliana) ed entrambi erano esportati (ed esportato, tra le derrate, era in certa misura e non solo per richiesta di monaci che ne fruivano per una astinenza non penosa, il pesce e cioè la tonnina sott'olio e più spesso salata). Gli agrumeti là dove le disponibilità idriche lo consentivano, i frutteti (fichi, mandorle, noci si conservavano e si esportavano secchi), i vigneti davano vivacità al paesaggio e conforto agli uomini. Il miele non mancava e in qualche terra abbondava. Gli oliveti si allargavano grazie a una mentalità che cercava, oltre gli immediati, utili che andassero al di là della propria generazione (« coltivai innumerevoli viti, fichi e ulivi » f aceva dire al vescovo Angerio l'autore dell'epitaffio sepolcrale; la chiesa di Siracusa dava merito a Riccardo Palmer della piantagione di un vasto oliveto, e quella di Agrigento al vescovo Gualtiero del vigneto presso la città) 4 . Lo zucchero (alla fine della dinastia l'autore della Epistola a Pietro si compiaceva descriverne la lavorazione), il lino (ne andava rinomata la piana di Milazzo), il cotone (ne era particolarmente dotata la assolata costiera di mezzogiorno), il gelso (la seta di S. Marco) erano culture di gran pregio in epoca in cui la « ricchezza delle nazioni » restava preminentemente costituita dalle produzioni e dalla resa del suolo.
VII « POPULO DOTATA TRILINGUI » Nel 1060, quando ebbe inizio la campagna che portò alla conquista normanna, l'islamizzazione della Sicilia era larga. La religione di Cristo non era scomparsa dall'isola, ma il ruolo dei cristiani era ancora più ridotto che il loro numero. I cronisti musulmani non assegnavano ad essi parte nelle vicende degli ultimi decenni di dominazione maomettana. Scrivevano di « siciliani » e di « africani », ma la partizione era interna ai musulmani, quali che ne fossero la natura e il motivo (orientamenti e riferimenti politici, simbiosi o persistente estraneazione dall'ambiente). Neppure, i normanni durante la conquista ricavarono dai cristiani superstiti apporto valido: si giovarono piuttosto dei contrasti interni fra i maomettani, sfruttandoli, fin da principio, al punto di metter piede nell'isola nella qualità di alleati di uno dei capi locali che ambivano il predominio o cercavano di non essere sopraffatti da altri. Ne trovarono, semmai, le accoglienze riservate, in tempi diversi, anche nella provata Sicilia, ai conquistatori, se non altro propiziarseli, o per sfogo di risentimento verso il regime caduto, o sull'onda di un entusiasmo effimero. Pure, in quei territori — a Troina, a Geraci nelle Madonie — ove le persistenze cristiane erano le più larghe, né i normanni stiedero a loro agio, né le attese delle popolazioni, se mai ce n'erano state, furono soddisfatte: l'ostentata offerta di collaborazione deviò presto nella sollevazione dinanzi all'incombere di nuova disgrazia o al panico di essa. L'apologeta ufficiale di Ruggero I , Goffredo Malaterra, insiste a dichiarare che quei cristiani erano greci « infidissimum genus ». Giudizi gratuiti o meno, comprensibili o risibili se propri ed esclusivi del monaco cronista e apologeta, ma che acquistano significato quando li si riconosca valu-
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tazioni per prevenzione o per particolare esperienza e fondamenta del comportamento del protagonista di quegli eventi, Ruggero divenuto a seguito della conquista conte di Calabria e di Sicilia, e del suo seguito in fluente. Il quale Ruggero — e vale avvertirlo, perché rimane in contrario una iconografia ricca di suggestioni — non era, come non lo era il di lui maggiore fratello né lo erano i consanguinei e i compagni meno privilegiati, uomo d'arme e d'avventure cui le vicende imposero l'esercizio di governo: lo accompagnavano (e li accompagnavano) invece doti scaltrite dall'abitudine al potere da parte dei loro ascendenti. Era in loro il sangue, ed era l'esperienza riflessa dagli uomini che avevano tenuto e tenevano la Normandia francese, quelli che, proprio negli stessi anni nei quali era avviata la campagna di Sicilia, muovevano alla conquista dell'Inghilterra. Si che non sfuggirono loro le opportunità offerte dalla comune fede religiosa, nel senso della utilizzazione nella misura dei propri bisogni e dei propri interessi. Se la perfidia risiedeva nella furbizia ipocrita e di scarso impegno leale, a quella dei greci materiata di timorosità si combinò e si impose l'altra dei normanni congiunta con la violenza. Si che i conquistatori cercarono l'accostamento e utilizzarono il richiamo al Messia comune se e in quanto serviva a ridurre il proprio isolamento, a procurare strumenti di governo e soprattutto dell'amministrazione di cui, effettivamente, non disponevano di esperienza adeguata. E d'altro lato, nell'isola i normanni trovarono situazioni nuove. I greci che nel mezzogiorno della penisola erano parte diversificata della popolazione cristiana e, laici e clero, erano presenti ai vari livelli, sociali economici culturali, in Sicilia costituivano e esaurivano la frazione cristiana, però con ruolo e in dimensioni estremamente modici. Michele Amari, al quale va la vera gloria di avere dato alla storia dei musulmani di Sicilia solide fondamenta, delineò le grandi linee della composizione etnico-religiosa quale risultava alla caduta della dominazione musulmana, nella tripartizione: Val di Mazara (che comprendeva Palermo e Agrigento) quasi completamente islamizzata, Val di Noto (fascia di sud-est) ampiamente islamizzata, Val Demone (nord-est) rimasta prevalentemente cristiana. L'analisi particolareggiata conferma queste grandi linee. Il discorso, per altro, va allargato. E non può essere indice
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di valutazione l'ampiezza di ciascuna delle tre fasce, segnate con approssimazione piuttosto larga dai due corsi del Salso (il meridionale e il settentrionale) e da ponente a levante, dal Dittaino e dal Simeto, mentre in nessuna terra delle tre valli, negli anni dell'insediamento dei normanni, erano assenti i musulmani. La popolazione della città all'avvento dei normanni era quasi esclusivamente formata da maomettani. Unica fra le città a serbare un vescovo cristiano era Palermo. Malaterra ci fa conoscere il nome (Nicodemo) di questo vescovo che officiava in una piccola chiesa, e ne dà un giudizio caustico, che va preso con le riserve che impongono la poca stima che il cronista nutriva e ostentava in confronto dei greci e la diversa considerazione del timore e della prudenza che avevano l'apologeta di Ruggero il conquistatore e il pastore di un gregge minacciato: Nicodemo era « timidus et natione graecus ». Roberto il Guiscardo, che guidò la conquista di Palermo, trovò opportuno declassarlo. Ad Agrigento, a stare al Libellus de successione pontificum Agrigenti il cui autore nel secolo XIII si muoveva non senza circospezione sulla scorta dei documenti conservati nel vescovado, il primo presule di elezione normanna, Gerlando, borgognone, si costruì l'episcopato e la torre in vicinanza del castello « per il timore degli innumerevoli saraceni che allora abitavano la città ». La restituzione al culto cristiano del tempio F che la tradizione voleva trasformato in chiesa dal vescovo Gregorio, al quale fu dedicato e al quale fecero capo i cristiani greci, avvenne nel secolo XII. Più tardo ancora fu l'adattamento di S. Maria dei Greci, mentre attestazioni del culto cristiano in tempo prenormanno erano in contrada S. Nicola, nella chiesetta rupestre con scene del Pescatore di fattura tardo-bizantina, cui fece seguito, dopo la conquista normanna, l'adattamento del c.d. oratorio di Falaride. Non meno larga era la islamizzazione a Mazara e nella diocesi: a Trapani, ad Alcamo (abitata solo da musulmani, a quel che ne senti e ripetette alla fine del 1184 Ibn Giobayr). A Siracusa, le vicende stesse della conquista furono occasione alla trasformazione de ll a fisionomia etnico-religiosa della città cui la dominazione bizantina aveva restituito, e quella musulmana sottratto, la funzione di scalo nel raccordo con l'oriente del Mediterraneo. A Catania e nella vicina Aci le platee rilasciate al primo vescovo, Angerio, brettone proveniente dalla abbazia benedettina di S. Eufemia in Calabria, attestano la perspicua presenza di musulmani. Quelli
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che mancano, anche qui, sono i segni de lla partecipazione cristiana. Pure negli abitati di mediocre importanza la presenza musulmana era congrua. A Termini fino agli ultimi anni della dominazione normanna i musulmani avevano un borgo loro; a Cefalù il vescovo, al quale la cittadina fu concessa da Ruggero II, tenne largo numero di « villani civitatenses » (che era la condizione degli iscritti nelle platee, perché saraceni); a Patti si dovette largheggiare in concessioni per dare un'impronta di cristianità confacente alla sede di vescovato. Pure a Messina, che sotto i musulmani non fu città, e tornò ad esserlo sotto i normanni, si cominciò ex novo. E parallelamente allo sviluppo della città si svolse l'attacco alle fiumare, protagonisti i monaci della regola di S. Basilio, sollecitati e sorretti da Ruggero I e che ebbero in Sicilia il loro momento magico quando Ruggero II raccolse le fondazioni dell'isola nell'archimandrato dandone titolo e autorità all'egumeno del monastero del Salvatore in Lingua Phari. Ma anche in questa fascia, della Sicilia nord-orientale, meno intaccata nel culto cristiano, e ove sotto i normanni il concorso e il sostegno di nuovi venuti fu agevolato dalla propinquità immediata, le infiltrazioni musulmane erano state numerose. Tanto che nei documenti di epoca normanna maomettani compaiono dappertutto: nell'agro particolarmente a livello di villani, che non era condizione che si potesse riportare agli anni di governo islamico, segno come era di inferiorità sul piano religioso e sociale tanto che il conte Ruggero fece raccogliere a Focerò 500 famiglie di musulmani, che non era numero irrisorio (e la notizia non viene da fonti narrative, poco inclini per solito alla verifica delle cifre e molto propense ad attribuire ad esse qualità pressoché emblematiche, ma da una relazione abbastanza informata seppure tendenziosa), mentre S. Marco fu ripopolata da greci di Calabria. Fascia ove la presenza di cristiani (seppure di cristiani di rito greco) rimaneva ancor più larga che nei Peloritani, era quella delle Madonie e dei Nebrodi: da un lato verso Troina, a comprendere Cerami, Capizzi, Agira (nel territorio si trovava l'unico monastero, di rito greco, che si presume anteriore all'avvento dei normanni) fino a Centuripe a sfociare verso Adernò, Paternò e S. Anastasia, dall'altro, dall'intercapedine di Mistretta, a Geraci e alle Petralie, scendendo a Polizzi, Golisano, Gratteri, Isnello fino a Caltavuturo e Sclafani. Erano terre defilate, durante la
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dominazione musulmana dai larghi scambi e dai grossi impatti. Qui, pure, sia nel comprensorio dei Nebrodi che in quello madonita, la penetrazione musulmana resta attestata all'onomastica dei centri abitati maggiori (Caltavuturo), dalla onomastica minore ricavabile dai documenti di epoca normanna e postnormanna, da liste di uomini con nomi arabi, da narrazione di fatti e ricordi e riferimenti a luoghi di culto (la presunta moschea di Petralia Superiore, cittadina ove, nel racconto di Malaterra, musulmani e cristiani discussero insieme la condotta da adottare ner confronti dei normanni che procedevano alla conquista). Che a livello locale questi cristiani avessero incidenza, che gestissero la minuta amministrazione corrente, o che vi concorressero, non è magari da discutere; che al culto fosse legata la presunzione della preservazione di una tradizione culturale, magari ridotta ai livelli della mediocre lettura e della scrittura per l'uso corrente, non è neppure da porsi seriamente in dubbio. Si può discutere, perché effettivamente è incerto, se i greci, i quali nel secolo XII rogavano atti per conto dei signori di Mistretta, fossero nativi dell'isola o non piuttosto immigrati di Calabria o discendenti da immigrati al seguito dei Bonello cui l'abitato era stato infeudato, e se nativi dell'isola erano i greci che tenevano la cancelleria comitale ad Adernò che apparteneva ad Adelicia nipote di re Ruggero o a Paternò e Cerami nel Comprensorio aleramico. Discorso, proprio a questo punto, che immette in altro più complesso: della utilizzazione che di cristiani, antichi e nuovi residenti, fecero gli Altavilla e l'aristocrazia del feudo e le istituzioni ecclesiali e monastiche penetrate e conso li date al seguito di essi; delle condizioni e delle prospettive che la conquista normanna aprì per i cristiani di rito e di lingua greca e di rito e di lingua latina, dell'inserimento di transalpini e, soprattutto, di italiani della penisola (anche greci per professione religiosa e costumi) nella vita dell'isola, ai livelli di base, e come forza di eccitazione e di spinta al ridimensionamento de lle condizioni etniche, religiose e linguistiche. La islamizzazione della Sicilia, dunque, nei 200 o 250 anni che durò la dominazione musulmana (di luogo in luogo, secondo le date della conquista maomettana e della normanna), ancor se profonda e incisiva sulla composizione etnica e sulla caratterizzazione dei costumi, non portò alla trasformazione integrale, alla base. 1l genocidio non era di moda, nei secoli IX e X; non lo era
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stato da parte de lle genti germaniche che avevano stabilito, e mantenevano il loro dominio nell'occidente, e non lo era neppure dalle popolazioni slave che si riversavano nell'oriente d'Europa. L'islamismo nella fase espansiva in cui la conquista della Sicilia si inserì quale episodio tardo (sì che non riuscì ad assumere funzione efficace di testa di ponte, verso la penisola italiana), cresceva sull'onda dell'assimilazione delle popolazioni assoggettate e convertite. La sovrapposizione, se si realizzava, avveniva ai livelli più elevati del potere; l'imposizione, là dove persisteva, si sostanziava nel tributo dei discendenti dei vinti, nelle esenzioni e nei vantaggi degli eredi dei vincitori. Era avvenuto così pressoché dappertutto ove l'islamismo si era espanso, avanti che in Sicilia. E non che la Persia, o la Siria, o l'Egitto, o l'Africa nord-occidentale fossero più esposte per fragilità o per scarsa consistenza di patrimonio culturale o di fisionomia nazionale: tanto è vero che molta parte dell'uno e dell'altra, nel lungo tempo, sarebbero riemersi rivelando parziale o addirittura apparente il livellamento entro la comunità islamica, e mostrando pure che il cristianesimo dei paesi della costiera africana che ne erano stati portatori in Sicilia era rimasto gracile perché non si era espanso oltre ambienti di buona sensibilità etico-culturale ma vulnerabilissimi in quanto ristretti. Indubbiamente in Sicilia la islamizzazione ebbe vari colori, quanto variegata era la gamma di origine e di sostrati culturali non del tutto superati o equiparati nei protagonisti venuti all'atto della conquista o appresso di essa: orientali di varia provenienza, fra i quali non mancavano gli originari dell'Arabia e però soprattutto magribini, e fra questi preminenti i berberi, tra gli ultimi guadagnati alla religione di Maometto avanti il passaggio in Sicilia ma anche fra i più zelanti e i più animosi nei secoli IX e X. Michele Amari evidenziò la varietà delle stirpi trapiantate in Sici lia attraverso nomi di persone e di luogo in fonti del periodo normanno. A lle deduzioni sulle caratteristiche etniche-culturali, però, non vanno congiunte possibilità analoghe di avanzare ipotesi sul numero, neppure per instaurare una proporzione fra gli abitatori ab antiquo e nuovi venuti, e entro i primi fra caduti nell'islamismo e rimasti nella religione cristiana (e quanti fra questi fossero di rito e di lingua greca, o di rito e di lingua latina, o magari di rito greco e di linguaggio latino). Al di fuori dei numeri c'è che il Magrib, per quanto in fase espansiva sul piano demo-
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grafico, mentre realizzava all'interno una cospicua urbanizzazione non poteva operare in Sicilia un travaso di tale consistenza da sommergere alle fondamenta il tessuto demografico esistente. È estremamente improbabile che i musulmani nuovi venuti siano stati in quantità soverchiante rispetto agli uomini che già vivevano nel paese. È credibile piuttosto che i musulmani siano divenuti maggioranza numerica per assimilazione attraverso la conversione. Nella natura dell'uomo sono, caratterizzanti molto di raro, presenti forse meno infrequentemente che nòn si sia portati a credere, tratti di coraggio morale; ma c'è pure la debolezza. L'uomo si è illuso che la divinità abbia bisogno delle sue preghiere, e che le domandi, quando è la sua fragilità a richiedere il ricorso a un protettore benevolo. La potenza divina per una mente rozza ha specchio nella forza fortunata dei suoi adepti. Il dio dei conquistatori dà prova di sé attraverso le azioni dei suoi fedeli. Né erano queste le sole ragioni che l'islamismo portava anche in Sici li a, né forse le più efficaci al proselitismo. In quei secoli, anche fuori la sfera islamica, erano frequenti le conversioni in massa: talora neppure da parte dei vinti, ma, come avveniva per gli slavi ed era avvenuto fra i germani, da parte dei vincitori, e non dietro la paziente opera missionaria, ma a seguito di un editto del sovrano. Il principio che i sudditi seguano la religione del principe è diventato discutibile quando ha perso prestigio l'altro principio, della sovranità. Questo vale per la Sici li a già nella misura della tenuità e superficialità della pratica del cristianesimo non penetrato nelle masse al punto che esse restassero ferme nella fede che dopo Cristo il messaggio non era stato portato da Maometto, e non ritenessero che la forza fosse prova della rivelazione. A livello meno primitivo e meno ingenuo, c'era pure la debolezza di natura che rende inclini a confondersi con i più forti, magari dopo lo scoraggiamento che segue all'insuccesso de lle resistenze. E d'altro lato le inibizioni del culto, il ricambio arduo entro il clero, la inclinazione verso attività ormai proibite o difficoltose nella diversità di religione rendevano più numerose le conversioni quanto minore era il sostegno di convinzioni radicate. Così, i normanni si trovarono ad operare in un paese nel quale la popolazione era per la grande parte maomettana; in cui la milizia, il potere politico, la gestione amministrativa, le leve economiche erano in mano a musulmani; l'arabo, lingua del corano, era quella dei riti pubblici e solenni,
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ed era il veicolo di comunicazione delle scuole giuridiche, delle cognizioni scientifiche, della manifestazione dei sentimenti, della narrazione dei fatti, in forme e modi in cui ormai una particolare e variegata genuinità di scelta si combinava ad eredità vistose del patrimonio culturale greco-romano e orientale. Per Roberto il Guiscardo e per il fratello Ruggero, che rimase ad amministrare il successo e a sciogliere i nodi di esso, si presentava l'alternativa: o stare, dominatori e succubi insieme, tra uomini con i quali si rimaneva estranei e non comunicanti, ovvero cercare di creare condizioni di convivenza. La scelta più congrua all'interesse era forse la seconda; e furono del resto i fatti e la concreta assidua osservazione che guidarono gli Altavilla e il loro seguito, di normanni e di immedesimati con i normanni, ancor se abili guerrieri, e adusi al comando, ma inadatti e inesperti alle cure dell'amministrazione di un paese. Se anche a loro la soluzione del genocidio non apparve tra le tentazioni, non ci fu neppure la prospettiva della violenza continuata. L'indifferenza di quei tempi poteva spingersi ai ladroneggi di cui ai normanni si era fatto carico abituale già quando operavano nel mezzogiorno, a eccessi immediati durante gli scontri o magari alla depredazione e allo stupro nell'eccitazione che seguiva ai combattimenti, ma non fino alla fredda follia sanguinaria. Ne venne quella che taluni storici hanno chiamato tolleranza, e che, poggiata sulla forza, fu accostamento accorto, valido a rendere soporose le inclinazioni a reagire e a utilizzare gli infedeli ai fini del dominio proprio. L'accostamento immediato ai cristiani già residenti nell'isola fu aderente a queste situazioni e coerente con questi indirizzi. Ci fu un limite, pure, che frustrò eventuali lusinghe e prospettive di vantaggio dei più, e proprio fra i cristiani. L'accortezza normanna si muoveva nel giro del vantaggio proprio dei conquistatori; le strutture del paese, le usanze delle conquiste erano accettate dagli Altavilla e dal seguito di essi in quanto aderenti al vantaggio proprio. La assoggettazione degli uomini di religione diversa, in paese di conquista, al testatico, alla gisia come dicevano ripetendo i musulmani, fu espansa ai maomettani, ma fu anche conservata nei confronti dei cristiani che vi erano sottoposti. Con empirismo, materiato di senso pratico e di aderenza alle situazioni, i normanni tesero la mano per lo scambio e chiamarono alla collaborazione quanti erano particolarmente utili. Ma
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non era, questa, la via alla soluzione. E lo stato normanno scelse e trovò il suo supporto nelle immigrazioni. Alla qualità e al numero di esse si dovette il consolidamento della contea che fu base del regno e, in altro e più vasto campo, la reversione della inclinazione e della fisionomia civile nel senso cristiano e occidentale (i contemporanei avrebbero preferito « latino »).
VIII GRUPPI DI POTERE E UOMINI DI SERVIZIO Abbiamo cercato cogliere la presenza attiva dei greci nella trasformazione avviata fm dal secolo XI della fascia di nord-est, epicentro Messina. Il ripopolamento di questa città, la erezione del castello di San Marco, l'attacco alle fiumare ebbero attori corali cristiani di rito e di lingua greca provenienti dalla Calabria. Al di là dello Stretto, a partire dal secolo IX, si era sviluppata larga la caratterizzazione in senso greco: sembra che cospicua parte abbiano avuto gli emigrati dalla Sicilia per sfuggire all'aggressione musulmana. Non era, comunque, la voce dell'antica madre a richiamare; questa sorta di sollecitazione sembra riservata piuttosto agli eroi eponimi, e dalla Calabria giungevano in Sicilia altro genere di personaggi: clero regolare, letterati, per quel che servivano a redigere documenti e a scrivere lettere, individui capaci di tenere conti e amministrare aziende e soprattutto agricoltori. L'invito veniva dalla prospettiva di trovare spazio più ampio e condizioni migliori, per i religiosi anche dalla convinzione di assolvere la missione di restituire il paese e gli abitanti alla cristianità. E non c'è un metro per verificare ampiezza e calore di questa vocazione, che certo si espletò con maggiore convinzione di quel che si possa rappresentare attribuendo a quelle generazioni stimoli e interessi esclusivamente o precipuamente di indole economica, con inframmettenza, semmai, della sete di potere. Erano uomini che pretendevano o accettavano, secondo le parti, il pagamento della decima come diritto-dovere e molti erano convinti che i peccati cui portava la fragile natura dovevano essere compensati con opere e offerte sonanti. Ancora l'uomo colto non si era addestrato a dimostrare « che Dio non
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fusse » e l'uomo rozzo non aveva fatto rinuncia alla contrizione quale contrappeso alla violenza che egli praticava. Fuori di Messina, che cresceva città, la cui aria dava a chi vi si inseriva l'euforia della libertà, e di San Marco (ma qui l'iniziativa fu del duca Roberto), promotori del richiamo di greci furono feudatari e fondazioni religiose. Non molti i feudatari, identificabili in genere con appartenenti alle famiglie che aggiunsero benefici feudali in Sicilia ai patrimoni e ai feudi che già tenevano nel mezzogiorno della penisola e che limitarono in genere l'utilizzazione dei correligionari greci a livello di scrivani, notai, contabili (i Bonello a Mistretta, Adelicia ad Adernò e Golisano). A tale utilizzazione fecero ricorso anche gli Aleramici, che della immigrazione latina furono i principali stimolatori (non è possibile, d'altra parte escludere — si è accennato — che i greci, rogatari e testimoni di atti stipulati in Paternò e Butera, nella stessa Adernò e a Mistretta, fossero originari dell'isola). Parte cospicua ebbero famiglie che univano possesso di feudi e partecipazione ai commerci: quali i Graffeo, fra i primi a passare di Calabria in Sicilia, a Messina; e dei loro fu Scolaro che, cresciuto a Messina, accumulò beni in diverse parti dell'isola e in Calabria e nel 1099 ottenne da Ruggero i territori di Fragalà e di Ferla, di cui dotò il monastero di S. Filippo il Grande ove concluse i suoi giorni e al quale destinò le sue sostanze 1 ; o i Martorana, dei quali una donna, Elisa, costituì nel 1193 un monastero femminile al quale nell'uso comune è rimasto legato il cognome della famiglia 2 . Ma il ruolo sostanzioso fu assolto dai monasteri dell'ordine di S. Basilio, che negli anni di Ruggero I si svilupparono quasi esclusivamente nella fascia di nord-est, e che continuarono a crescere durante la reggenza della contessa Adelasia (Matteo Bonello fondò e dotò S. Anastasia di Mistretta), e ricevettero particolare impulso da Ruggero II il quale, tra il 1130 e il 1134, promosse più di venti fondazioni dell'ordine e offrì ad esse punto di riferimento nel monastero del Salvatore in Lingua Phari, il cui egumeno eb be titolo di archimandrita, e negli anni successivi — con la elevazione di S. Cosma Gonata a Petralia, S. Gregorio ad Agrigento, S. Maria delle Giummare a Sciacca — stimolò l'espansione fuori la fascia nord-orientale. Si combinarono, nella incentivazione, intenzioni politiche (certamente congrue negli Altavilla) e attenzioni economiche, ancor se la destinazione fu preminentemente religiosa e per molti esclusiva-
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mente religiosa. (La morte, che l'uomo moderno sente talora in dimensioni estetiche o quale motivo di staccata meditazione, a quelle generazioni era visivamente presente nel suo orrore, nei tormenti che la accompagnano, nel disfacimento della carne, e a questo orrore esse cercavano impegnato conforto nella religione). Anche l'incentivazione alla bonifica e al ripopolamento, da parte dei basiliani, ebbe, per altro, ristretti limiti territoriali e cronologici. Dopo la morte di Ruggero II i monasteri di nuova costituzione furono ben pochi (S. Anna a Messina, S. Maria nella fiumara di Bordonaro, S. Nicola presso Paternò, S. Andrea di Bebene a Palermo), mentre alcuni entravano in decadimento. Anche le chiese di rito greco non ebbero diffusione fuori della striscia attorno Messina. Nessuno può dare più di quel che ha; e né la Calabria, né i territori dell'Italia meridionale, ove era professato il rito greco, costituivano grosso serbatoio di riserve umane. L'onda non spingeva, neppure, avanti la barca della grecità: Bisanzio costituiva sempre meno, nella Sicilia non vicina, riferimento politico e religioso; semmai era minaccia alla ducea prima, al regno appresso, per la partita aperta a seguito dell'acquisto da parte degli Altavilla delle province conservate dall'impero in Ita li a; e Bisanzio fu un miraggio alle più elevate ambizioni dagli anni in cui il Guiscardo vide (forse precocemente) i segni che l'impero era più forte nel prestigio che nella realtà, a quelli in cui il secondo Guglielmo scorse più lucidamente, senza però trarne frutto, la debolezza che di lì a non molto si sarebbe rivelata con il dirottamento della crociata e la caduta di Costantinopoli. La ricostituzione della base umana in Sicilia non fu portata avanti né dai greci, né per mezzo dei greci; per i quali anzi già verso il tramonto della dinastia normanna si delineava l'appiattimento delle caratteristiche culturali e consuetudinarie insieme alla più vasta comunicazione con i cristiani dell'altro rito: la prospettiva cioè dell'assimilazione entro la cristianità latina. Assimilazione non difficile, dal momento che non esistevano divergenti punti di riferimento ideologico e nessuna ragione pratica, e dai latini separavano solo consuetudini particolari e preservabili e una li ngua che andava riducendosi nell'ordine del fatto letterario e dell'uso liturgico. Analogie, e soprattutto sincronia, con il contributo alla tra-
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sformazione di base si incontrano nell'apporto dei greci all'organizzazione della contea e poi degli uffici centrali del regno 3. Si è discusso sulle fonti dell'ordinamento amministrativo de lla Sicili a sotto i normanni; che è discorso solo in certa misura e per certi aspetti comune con quello relativo alle persone che lo tennero: su un piano elevato, almeno da quando Rosario Gregorio, che visse in anni nei quali l'Inghilterra esercitava su molti siciliani il fascino di un esempio al presente, scrisse che l'ordinamento dell'isola ricalcò quello instaurato in Inghilterra dalla conquista da parte di altri normanni, e dopo che Michele Amari propose la tesi della continuità con la gestione musulmana. Ma l'influenza dei normanni di Inghilterra non si esercitò né c'erano le condizioni per esercitarsi negli anni di Ruggero I; né ai musulmani appena assoggettati un principe non sprovveduto avrebbe affidato il governo. Il maggiore aiuto a Ruggero I e alla contessa Adelasia e per un certo tempo ed entro certi limiti anche a Ruggero II venne proprio da greci di Calabria, e al vertice, anche da greci di oriente che ebbero prestigiosi oneri e godettero proficui onori. Già nel 1083 ricorre, in un documento, un greco di Calabria, Nicolò, nell'ufficio prestigioso di ostiario che tenne sin quasi alla fine del secolo; e Nicolò fu pure protonotaro, protospataro e camerario. Nel 1093 la verifica delle antiche e la compilazione de ll e nuove giaride e delle platee (avvio alla normalizzazione dell'apparato fiscale e amministrativo) furono affidate ad un altro greco di Calabria, il notaio Giovanni. Nello stesso anno la carica più elevata in Palermo, quella di emiro-ammiraglio, che era stata assegnata in primo tempo a un normanno di nome Pietro, fu assunta da Cristoforo, o Cristodulo, al quale non furono lesinati titoli e riconoscimenti (fu il primo « ammiraglio degli ammiragli » ed ebbe la qualifica di « protonobilissimo »). Presenze ristrette al vertice degli uffici e della milizia, e che però acquistano valore quando si tenga conto della esiguità di informazioni, che non siano su episodi di guerra, per gli anni de ll a conquista e del consolidamento. Più tardi, la flotta siciliana, la cui prima organizzazione pare si debba al protonobilissimo Cristoforo, fu guidata da Giorgio, l'ammiraglio per antonomasia (a Palermo restano la chiesa dell'ammiraglio, che entusiasmò Ibn Giobayr, il ponte dell'ammiraglio, e a Giorgio sembra si riferisse il toponimo Misilmeri — il casale dell'ammiraglio » — che egli aveva ricevuto dal re e
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nei cui confini donò, nel 1134, un casale e 10 villani alla chiesa da lui elevata). Il cognome toponimico, l'Antiocheno, indica l'origine non regnicola di Giorgio. Il suo, per altro, non è caso isolato di forestieri che ebbero accoglienze e incarichi, presentatisi in Sicilia con le credenziali dell'esperienza e della carriera. La serie degli ammiragli continuò con greci, ormai sicilianizzati, della discendenza di Giorgio (il figlio Nicola, il nipote Eugenio), e regnicoli del continente (Maione da Bari, Enrico Aristippo, e dopo di essi Riccardo da Fondi, Margarito da Brindisi). Ma con i secondi si era su un altro piano. La contea si era dilatata in regno; gli approcci si erano allargati, mentre i musulmani delle nuove generazioni si erano assuefatti e le loro irrequietezze, se c'erano, dipendevano da timore del peggio. Negli uffici, e anche nello stretto ambiente di corte, si avvicendavano, o resistevano, latini di varia provenienza e formazione; mentre alcuni musulmani si muovevano nello sfarzo de lla reggia, tra l'euforia che quella fosse la corte loro, e che quello fosse il re di tutti quanti risiedevano entro il suo regno, e la apprensione che fortuna e vita propria fossero legate al filo tenue della protezione non disinteressata del sovrano e della incerta tolleranza di uomini di altra religione inclini a scorgere e a deprecare, negli incarichi affidati a « pagani », la strana condizione degli « imi che comandano ai potenti ». Durante la reggenza della vedova di Guglielmo I, Margherita di Navarra, la « somma dei poteri » (la cancelleria, l'arcivescovado di Palermo, e secondo i maligni e i molto bene informati che non mancavano neppure allora, i favori della regina, sua cugina) andarono a Stefano di Perche. Il quale concluse l'avventura siciliana imbarcandosi a Mazara, dopo la fuga da Palermo: episodio che diede occasione al Falcando per caustiche osservazioni sul carattere degli uomini e di quelli che vivevano in Sicilia in particolare, e sull'ambiente delle corti e di quella di Palermo in ispecie. In quei dl, l'arcivescovo di Salerno, Romualdo, che contemporaneamente allo stesso Falcando (ma su posizioni diverse) fu diarista vivace, girava per la corte, occupandosi di politica e curando la salute fisica della famiglia regnante (e secondo certe insinuazioni, puntualmente recepite dall'altro cronista, aiutando col veleno il lungo viaggio di re Guglielmo I). Dopo gli avvenimenti di cui furono protagonisti due personaggi quali l'ammiraglio Maio-
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ne e il cancelliere Stefano, mentre nello sfondo stava il magister camerarius, il gaito Iohar (il titolo « gaito » era conservato o attribuito per considerazione delll'ascendenza o della posizione .personale), si costituì una triade di potere: l'inglese (amico, si diceva, di Tommaso Becket) Riccardo Palmer eletto di Siracusa, il notaio Matteo d'Aiello, il gaito Pietro (il quale, a detta del solito Falcando, « come tutti gli eunuchi di palazzo era cristiano solo di nome e di abito, ma saraceno nell'animo »). Pure la fortuna del gaito Pietro, legata alle fragili fila dei favori del sovrano e insidiata dall'invidia, « che delle corti è vizio » (e che tanto più malizioso e agevole esercizio poteva avere contro il saraceno), si concluse con l'imbarco in un porto, che fu quello di Palermo, dal quale Pietro partì simulando di recarsi nel palazzo che si era appena fatto costruire nel quartiere che prendeva nome dal Kemonia, uno dei due corsi d'acqua che attraversavano la capitale e alle cui foci era il porto ". Consiglio e stimolo alla fuga gaito Pietro doveva avere dalla esperienza di un altro musulmano di rango, Filippo di al-Mandiyah. Il quale, nato in Sicilia o trasferitovisi con l'avallo del battesimo, successe a Giorgio di Antiochia nel comando della flotta Ammiraglio del regno, Filippo espugnò Bona; e però si disse che aveva lasciato che molti tra gli uomini « dotti e virtuosi » della città si allontanassero con la famiglia e, quel che era peggio, con gli averi. Al ritorno — è il racconto di Ibn al-Atir portatore, nel secolo XIII, delle voci dell'annalistica musulmana più scaltrita — Filippo trovò una situazione calda. Si diceva che « egli e tutti i pagi fossero occultamente musulmani »; ci fu chi testimoniò che « Filippo non digiunava e che era musulmano ». Processato da una corte composta da prelati e da feudatari, fu mandato al rogo nel mese di ramadan. La vicenda si ritrova in un passo, per altro probabilmente interpolato, del Chronicon di Romualdo, ove si accenna alle accuse: « odiava i cristiani, prediligeva i pagani, entrava di mala voglia in chiesa, più di frequente visitava le sinagoghe dei seguaci del maligno ». La disgrazia di Filippo, secondo il racconto di Ibn al-Atir, seminò lo sgomento fra i musulmani: fu il segno dell'inversione di tendenza da parte di Ruggero II, fino ad allora incline al compromesso umiliante per chi doveva tollerarlo e che per tempo è passato quale esempio di tolleranza. Più agevolmente, alla disgrazia di Filippo concorsero gli attacchi alla persona dell'ammiraglio e l'ostilità diffusa ,
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in vari ambienti contro i gruppi di potere e di servizio che si erano creati nei maggiori uffici 5 . Il ruolo dei musulmani, alla metà del secolo XII, era largo e sembrava che la loro presenza a corte e negli uffici (la qualità di « pagi » era bivalente) dovesse allargarsi e diventare insurrogabile. In quel giuoco più o meno scaltro, più o meno subdolo, per il quale la dinastia si serviva degli uomini; e individui, ceti e ambienti tentavano di penetrare nei congegni e di avvalersene, i musulmani erano i più deboli e i più scoperti. In questa situazione non può sorprendere l'ascesa di personaggi dotati, e tanto meno possono destare meraviglia il rapido consumarsi di fortune precoci, l'esaurirsi nella disgrazia di altre in apparenza né gracili né effimere. Alla morte di Guglielmo II nel regno non era maturato, comunque, un ceto dirigente indigeno, latino e cristiano, adeguato alla gestione degli uffici l'efficienza dei quali fu vanto dei regni normanni, anche di quello di Sicilia. Certo, non mancavano difficoltà in questo senso; e gli indirizzi della dinastia non erano stati incoraggianti; e non senza motivo, magari, e non senza accortezza, per non divenirne succubi, ove la burocrazia si costituisse in ceto, o fosse o diventasse portatrice degli interessi di una classe. La penetrazione al vertice era ambizione e pretesa particolare della feudalità e della gerarchia ecclesiastica, che tenevano istituzionalmente la delega del potere su vaste porzioni del territorio, con propri spazi operativi. Ma se per la parte ecclesiastica la monarchia aveva il vantaggio che le cariche nel clero, « gens aeterna in qua nemo nascitur », si esaurivano con chi le otteneva e il conferimento ritornava al re, la feudalità era ceppo in cui ramo continuava ramo. Accettare la offerta e la rivendicazione dell'onore-onere della collaborazione da parte della feudalità fu errore che gli Altavilla non commisero: malgrado le pressioni, e ancor se le carriere più fortunate e le più appariscenti finirono bruciate, avanti che dal perduto favore dei sovrani sia pur deboli (che non venne meno né a Maione da Bari né a Stefano di Perche), dalla aggressività della feudalità che pretendeva al ruolo di collaterale della dinastia, e nelle gelosie non distingueva tra cristiani e musulmani Certo le relazioni fra dinastia e feudalità di Sicilia erano per natura meno tese e meno arcigne, fuori delle apparenze, che non nella penisola, ove i normanni si erano dovuti accomodare con signorie preesistite dalle
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velleità non spente, e gli scambi sottobanco con Bisanzio, con Roma (poli di risorgente preoccupazione per il regno) continuavano a svolgersi facilitati dalla limitrofità. Ma se preconcettualmente meno aspri, questi rapporti non erano meno ambigui. L'invidia è fra eguali e fra vicini, e non rispetta i consanguinei. Avanti che la regalità degli Altavilla trovasse riconoscimento nel titolo, Ruggero I, la vedova, il figlio e successore, avevano saggiato la difficoltà delle relazioni con i compagni e congiunti, « fideles » per antonomasia e per rituale e supporto naturale del potere in Sicilia. Alla morte di Ruggero I, che aveva mezzi e modi di fare valere il suo ruolo, la contessa Adelasia ebbe a contrastare duramente con il baronaggio nascente: la accusavano di una relazione semiadulterina con il cugino Roberto, figlio del duca di Borgogna, che ella chiamò al suo fianco (e poi dissero, e Oderico Vitale raccolse la diceria, lo fece avvelenare). La strage dei terrari, richiamata nel documento nel quale sono riferiti i disordini che ripetutamente ebbero epicentro nel territorio di Focerò, fu la conclusione di un impatto cui non mancarono le drammatiche tinte della violenza. Adelasia trovò sostegno nella famiglia di origine, la aleramica, alla quale non erano mancati favori, né vennero meno compensi: il fratello Enrico espanse le basi della maggiore signoria feudale di Sicilia, che ebbe i centri più grossi a Paternò e Butera; e queste basi consolidò portando e richiamando popolazione, che fu operazione duratura e incisiva. Altro personaggio in cui Adelasia ripose fiducia e in cui trovò sostegno fu Roberto Avanel, dal quale discese la contea dei due rami di Adernò e Golisano. A distanza di tempo la creazione di due grossi feudi in Sicilia, opportuna nelle condizioni in cui si era trovata la contessa-vedova, rivelò i risvolti di pericolosità. Le rovine di Qal`at as-Sirat, fatta distruggere da Ruggero II, rimasero forse penosa mostra dell'urto fra feudatario e sovrano; pure gli Aleramici di Sicilia furono succubi dello scontro fra corte e feudalità, manifestatosi nella polemica contro Maione da Bari ed esploso dopo che l'ammiraglio rimase vittima del pugnale (era facile distinguere tra il nobile pugnale e il coltello plebeo?) di Matteo Bonello 6. Ruggero I, e la vedova, quando furono larghi, lo furono verso stretti consanguinei: era atteggiamento accorto per il breve tempo. I legami del sangue si diluivano; crescevano gelosie, rivalità,
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ambiguità fra la reverenza e la concorrenza. Non era, questa, angoscia solo degli Altavilla di Sicilia: i quali, semmai, si mossero con circospezione e abilità, utilizzando le offerte concorrenti, fino a quelle dei musulmani, e anche sul piano militare, che era quello (per i legami tra feudo e milizia) nel quale il concorso dell'aristocrazia nuova sarebbe dovuto essere insostituibile, o il meno sostituito. Elia Cartomi, musulmano convertito d'avanguardia, fu il primo a comparire al comando di mercenari saraceni ai quali la conversione non era richiesta; il gran conte si servì ancora di soldati musulmani all'assedio di Cosenza e contro Guglielmo di Grantismenil, e nelle campagne del 1096 e del 1098 il numero di questi soldati, fu cospicuo, se fonti meridionali — l'esagera zione, seppure di rito, aveva significazione — scrivevano di 20.000 uomini portati all'assedio di Amalfi. Adelasia, tolta di Sicilia con le nozze a Baldovino di Gerusalemme, fu accompagnata da frombolieri saraceni, che per lo sposo in angustia dovettero essere parte apprezzabile della dote recata dalla vedova avanzata negli anni e molto chiacchierata. Ruggero II, chiamato a raccogliere l'eredità della ducea, fu contestato da Falcone di Benevento « rex Sarracenorum », con precipua allusione ai mercenari musulmani, con i quali rinforzava e sostituiva i contigenti di provenienza feudale. Sotto Guglielmo I (il re, che a quel che scrisse Falcando, partendo per reprimere la rivolta dei feudatari nel mezzogiorno, affidò la difesa della capitale a un gaito, di nome Martino), truppe musulmane parteciparono all'assedio di Piazza: solo che, venute a contrasto con quelle cristiane, furono sottratte allo sterminio dall'intervento urgente del re. L'arcivescovo di Tessalonica, Eustazio, per parte sua, insistette sugli eccessi dei musulmani partecipi della spedizione in Grecia negli anni di Guglielmo II e delle stragi compiute nella sua città L'atteggiamento psicologico e pratico degli Altavilla della linea di Ruggero I nell'isola, cuore e pupilla del loro dominio, nei confronti delle istituzioni feudali e della feudalità come insieme di persone, si può cogliere nella distribuzione dei feudi. Essi se crearono e allargarono tutto un reticolo di feudi, limitarono potenza e valide ambizioni dei feudatari, evitando costantemente la concessione di città a laici 8 La infeudazione, da parte di Ruggero I, di Noto e di Siracusa ebbe beneficiario un figliuolo e fu caso singolo. L'unica signoria su città, Catania, fu data ad un vescovo; Patti, e Cefalù (già -
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infeudata quando era ai livelli di un mediocre borgo a sponda di mare) elevate a sedi dei vescovi che le ricevettero in feudo, furono « città » soprattutto per il prestigio di questa scelta. Dopo Ruggero I e dopo la contessa Adelasia, la corte fu cauta anche nella creazione di grossi complessi feudali in Sicilia, mentre qualcuno dei già esistenti, dopo essere cresciuto per aggregazione da matrimoni, compiva il suo destino, succube della rivalità con la monarchia. Sotto Guglielmo II fu costituita la diocesi-feudo dell'abate-arcivescovo di S. Maria Nuova di Monreale. Se alla vasta estensione non corrispondevano il numero dei residenti e le culture, la missione politico-religiosa dei monaci si prospettava più impegnativa che allettante, e comunque si trattava, ancora, di feudo ecclesiastico, la designazione del cui titolare ritornava, ad ogni successione, alla corte. Legato da scelte accorte, il clero siciliano risultò tra gli strumenti di potere meno indocili. E, per altro, non venne meno alla funzione, che fu economica e politica, e di conversione dei tratti fisionomici dell'isola in senso cattolico: funzione che, per quanto accomodanti e scettici, gli Altavilla non potevano non auspicare, anche perché in questa trasformazione risiedeva il consolidamento del proprio dominio. E proprio in questo senso monarchia, clero e feudalità si ricomponevano, e, per quanto erano vigili della stabilità della propria egemonia, convergevano nell'azione di base. Potremmo assumere due casi paradigmatici: gli Aleramici, il vescovo di Patti. Ma fu tutto il reticolo feudale e monastico, doppio e convergente in questo fine, a fungere da veicolo della trasformazione di base; senza che, però, si esaurissero in essi promozione e azione. Vi furono comunità di nuovi immigrati, entro e fuori l'ambito monastico e feudale; tenuti insieme dai benefici di cui godevano e dal servizio cui erano obbligati in corrispettivo (Randazzo, Santa Lucia, Caltagirone, Nicosia, Aidone...). Su scala anche numericamente meno cospicua, senza — per ora — velleità di penetrare direttamente negli uffici e nel giro di corte, ma con perspicua incidenza, stavano pure gli insediamenti che si erano andati creando nelle città portuali: pisani e genovesi a Messina, veneziani e genovesi a Palermo, a quel che emerge dai documenti e da qualche monumento superstite. Gente che lavorava per sé e per lucrare; che non tendeva a restare inserita nel contesto isolano e che coerentemente preferiva lasciare
VIII. Gruppi di potere e uomini di servizio
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la gestione del paese a chi vi era nato o vi aveva eletto residenza, ancor se chiedeva, e otteneva, propri consoli e autonomi spazi giurisdizionali e vantaggi nei commerci 9 . La dinastia normanna non arrivò a comporre le diverse esperienze né a ridurre in unità la popolazione del regno o all'interno stesso dell'isola. Non vi giunse attraverso la riduzione delle differenze con i greci che assopì, ma non cancellò né sciolse, e la compressione dei musulmani, che nel penultimo decennio del secolo XII era nella linea di tendenza di fatto; e non ci arrivò neppure suscitando in tutti, cristiani e musulmani, nuovi e antichi abitatori, sia pure in funzione difensiva, il senso dei perspicui comuni interessi se non quello dell'appartenenza a una stessa « nazione » (che era quanto l'autore della Epistola a Pietro auspicava avvenisse o lamentava non fosse avvenuto). All'interno delle città, nei borghi maggiori, là dove era possibile e consentito, visconti, baiuli, gaiti, non amministravano la totalità dei residenti, ma l'universitas degli uomini di un gruppo religioso; e se vaste trasformazioni si erano già verificate, negli ultimi anni di Guglielmo II si ricostituì la trama della « tolleranza », sorta di equilibrio ambiguo che nulla risolveva e tutto lasciava in vischiosa stabilità. Il mercante pellegrino andaluso Ibn Giobayr coglieva e specchiava nel diario scritto il dicembre del 1184 la fragilità di questa trama intricata. Egli passava da una città (Messina) ove la presenza musulmana era impercettibile, ad altra (Palermo) ove i musulmani rimanevano numerosi e influenti, ad altra infine (Trapani) ove poté partecipare ai riti solenni della sua religione. E toccò pure terre, ove i due gruppi erano spartiti in borghi diversi (Termini) o altre ove il borgo era al tutto occupato da musulmani (Alcamo), dormì in moschee (Qasr 'Sad) e pure nel partire avverti la sensazione a lui penosa che per l'islamismo in Sicilia si stesse ripetendo la vicenda di Creta, ove fatto dopo fatto, giorno dopo giorno, non era rimasto alcun fedele di Allah. A dargli questo senso di pena valsero gli sfoghi di un personaggio, il cui arrivo, per la nobiltà della famiglia e il prestigio personale, aveva suscitato commozione fra i musulmani di Trapani, ultima tappa e porto di imbarco di Ibn Giobayr nel viaggio in Sicilia: il gaito Abu al-Qâsim ibn Hammed. Il quale era entrato nell'ambiente di corte, e si era ritirato con la mortificazione del servizio male ripagato; e ritornato nei favori con importanti f accende di governo, vi si era impegnato nella desolante sensazione
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— insisteva Ibn Giobayr — che la sua fosse « l'opera propria dello schiavo cui sian tolte libertà e sostanze ». Ed era uomo, Abn al-Qâsim, che alla dovizia dei beni sparsi nell'isola combinava la partecipazione, con ruolo prestigioso, al più vasto giro dei commerci nel Mediterraneo io IX DIVERSI PER RAZZA, DIVERSI PER CASTA Era questa, della Sicilia normanna, nell'insieme società indefinita fino all'ambiguità poggiante su un concetto di progressione gerarchica e pur sfaccettata in condizioni di fatto diverse dagli schemi promossi e dai gradi accettati in diritto: società istituzionalmente concepita rigida e ordinata, con larga aderenza alle costumanze del feudo e a formule maturate in Normandia o in vigore nella penisola italiana, e pur di fatto pervasa da intenso dinamismo per irrequietezza interna e per sollecitazioni dall'esterno. In questo contesto, gli uomini della religione soccombente ebbero collocazione nel gradino più basso della condizione giuridica, con sostanziosi riflessi di natura fiscale, e senza, però, che ci fosse coincidenza con la reale posizione economica, né con il ruolo e le responsabilità tenuti dai singoli nei vari settori e ai diversi livelli. Per quel che concerne la condizione giuridica e fiscale dei vinti, niente di inventato, certo, da parte degli Altavilla. Ripetizione, semmai adattamento, di costumaze e di norme da tempo correnti nell'occidente cristiano, e praticate dai musulmani nei paesi e nei confronti delle popolazioni da essi assoggettate. Alla differenza di religione, di etnia, corrispondeva differente collocazione nella scala sociale. Non fu questione solo dei musulmani, ma anche degli ebrei; con la differenza, piuttosto, che la relegazione dei primi in condizione di inferiorità fu conseguenza della sconfitta militare mentre per i secondi la dominazione normanna continuò uno status preesistente. L'inferiorità, che consisteva di fatto nel tributo (la gisia: termine che il fisco normanno prelevò dall'amministrazione finanziaria dell'epoca islamica), si esplicava nella condizione di villano a ragione di persona, che non era im,
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portazione dalla Normandia, o comunque da Oltralpe, in quanto già largamente corrente nel mezzogiorno d'Italia (ß61.6 oL, che nel greco di quegli anni si leggeva « villani »). I sarraceni erano accomunati in questa condizione, ancor se era differente la quantità del tributo, e vari erano il ruolo e la posizione che occupavano come singoli e comunità. Per quel che ne scriveva Edrisi, e a quel che risultava a Ibn Giobayr, i musulmani di Palermo si sentivano e stavano in condizione di privilegio rispetto a quelli delle altre città. E lo erano, magari, per la tenuità del tributo, e ron perché ne fossero tutti esenti; e perché quando gli animi non erano eccitati e la corte vigilava, essi non subivano molestie. Anzi (Ibn Giobayr ne insuperbiva) le donne cristiane ambivano imitare la eleganza delle musulmane, e gli uomini apprezzavano qualità e operosità dei maomettani nella mercanzia e nell'artigianato. Dall'altro lato, anche i gaiti che rappresentavano e amministravano le comunità islamiche, e quelli che occupavano cariche fra le più elevate e onerose, del regno, e i « pagi » che vivevano a corte e quelli che vi erano ammessi, erano servi curie. Di più, per fare carriera, per completare il salto di qualifica, il musulmano era spesso costretto a simulare la conversione se la grazia non era propizia ad illuminarlo. L'accusa avanzata contro Filippo di al-Mandiyah, per quanto pretestuosa, non era priva di fondamento. Il diario di Ibn Giobayr è specchio dell'ambiguità di quegli uomini, pronti a confidare la pena di essere costretti a simulare l'appartenenza ad altra religione, qualcuno avveduto fino a prevedere che la parvenza era destinata a diventare abiura. Il Falcando, quando ripeteva che pagi e gaiti simulavano, tutti quanti, la conversione, aveva il maggiore torto nel gusto di una prosa vivace e compiacentemente maliziosa, e nel non volere considerare che la regola trova conferma nell'eccezione. Questa condizione di inferiorità di fatto, che richiama, agevolmente, gli aldi nei reami barbarici e i dimmi sotto dominazione musulmana, rende chiara la concessione di agareni, di sarraceni. I quali non venivano dati come schiavi per farne trastullo, ma ne era ceduta la prestazione che era tributo sostanzioso ancor quando non era angaria che obbligava di persona. I 75 agareni concessi nel 1095 alla chiesa di S. Maria di Palermo davano ogni anno ciascuno 2 moggia di frumento e 2 di orzo e 20 tarì in due rate semestrali; e può darsi sia questo il punto al di sotto e al di sopra del quale stavano la
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« felicità » o la « infelicità » della condizione fiscale dei musulmani'. Al di fuori del tributo, e dei rapporti con cristiani, le comunità musulmane — se e quando avevano modo di esistere — si mantenevano in non ristretta autonomia. Le leges scritte e le norme consuetudinarie, nella pratica dei conquistatori normanni, rimanevano all'interno quelle proprie di ciascun gruppo. Fece salvo espressamente questo principio, con le eccezioni, rare, della interferenza di norme di dettato regio, il prologo delle assise di Ruggero II; e il passo del privilegio del vescovo di Catania del 1168, che stabiliva che latini, greci, saraceni e giudei vivessero nella città ciascuno secondo la propria legge non risultava da tolleranza inconsueta e abnorme 2 . Il rispetto, però, si arrestava entro la comunità etnico-religiosa; la via della prevaricazione, o almeno della prevalenza, restava aperta quando venivano a confronto uomini di diversa religione, fossero pure greci, e fossero soprattutto musulmani e giudei. I quali ultimi non erano né sparuti né isolati, e non mancavano c)i organizzazione interna, o di mezzi economici, e di un certo spazio operativo, ancor se antica saggezza di esperienze tristi li convincesse alla cautela di una discrezione ai limiti della mimetizzazione. Rimane ipotesi la persistente ma episodica intermediazione da essi esercitata tra le piazze siciliane e quelle del Mediterraneo, di oriente e di occidente; è certo che essi nelle città erano agenti e produttori di cultura, o quanto meno ne erano recettivi e continuatori, se mantenevano (di sicuro almeno a Palermo) circoli letterari aperti anche a correligionari e stranieri. Beniamino di Tudela che fu in Sicilia tra il 1171 e il 1173, e che non era propenso a improvvisazioni e ad approssimazioni, scrisse che nella capitale risiedevano circa 1500 ebrei e in Messina ne erano 200. Di quelli di Palermo sappiamo che pagavano la gisia all'abate, poi vescovo, di S. Bartolomeo, per concessione che risaliva a Sichelgaita moglie del duca Roberto (il quale, nella spartizione della città avvenuta all'indomani della conquista, mantenne il diretto dominio di metà di essa) e ad Adelasia consorte del primo Ruggero: concessione che includeva la gisia dei giudei di Termini. Condizione abituale, questa, tanto che in alcune città e grossi abitati (Girgenti, Sciacca, Licata nel versante di mezzogiorno) la gisia Iudeorum figura nel secolo XIII tra gli iura vetera e in altra città, Siracusa, già nel XII, l'amministrazione della università ebraica era data in balia 3.
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La differenza tra vincitori e vinti, tra etnia dei primi o dei secondi, propria della Sicilia, si risolse nel regno in quella tra appartenenti al culto di Cristo e infedeli: e in queste dimensioni, con una sua logica, si ripetette, in occasioni e con paradigmi vari e ricorrenti, an che in sede legislativa. Era aberrante, per questa logica, che un infedele potesse disporre della persona del cristiano. « Il giudeo e il pagano — stabiliva l'assise XII del cod. vat. — non osi né vendere né comprare un servo cristiano, né lo tenga ad alcun titolo, sia pure in pegno; che se lo osi i suoi averi siano confiscati ed egli diventi servo della curia. E se per nefanda presunzione o convinzione lo farà circoncidere o farà rinnegare la fede sia punito con la pena capitale ». Che era risposta su un punto di partenza diverso, ma coincidente nei criteri ispiratori ad altra assise, la VI, che limitava una prerogativa ecclesiastica (il confugium ad ecclesiam) per rispetto al diritto di proprietà. « Se uno schiavo o colono o servo de ll a gleba si sottrarrà al padrone, o dopo aver rubato si rifugerà in luoghi sacri, sarà consegnato al padrone con le cose che abbia portato via, perché subisca pena in proporzione alla qualità del reato commesso, o, dopo intercessione, sia restituito alla pietà e alla grazia. A nessuno in vero si deve sottrarre il suo diritto » 4 Il commercio degli schiavi si svolgeva in quegli anni senza che esso costituisse peccato e vergogna, e neppure reato, solo che lo schiavo venduto non fosse stato sottratto al padrone, e che non fosse cristiano e venduto a non cristiani; e tanto meno erano colpa l'acquisto o la detenzione di schiavi. (Il prete Scolaro nel suo testamento dichiarava di averne comprati). Vigeva ancora lo ius naufragii, e Ibn Giobayr ringraziava Allah della presenza a Messina di Guglielmo II, la cui pietà lo aveva sottratto, insieme ai compagni, alla schiavitù riservata ai naufraghi. Michele Amari, nel terzo volume della Storia dei musulmani di Sicilia, volle provare, attraverso una documentazione in parte patente in altra controversa, l'esistenza della schiavitù nella Sicilia dei normanni. Non ci affaticheremmo, oggi, a mostrarne la liceità, né le presenze sporadiche, accettata e praticata, come sappiamo, rimase la schiavitù ancora per secoli. Può piuttosto interessarci, nella vicenda propria dell'isola, la diffusione che la schiavitù ebbe, fossero gli schiavi impiegati nei lavori dell'agro e in città, o destinati al lavoro domestico. Le attestazioni fragili ed episodiche sembrano specchiare una condizione per allora né nuova .
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né esclusiva dell'isola. L'impiego di schiavi in campagna non rientrava nella logica e neppure nella convenienza economica: il piccolo proprietario, dove esisteva, difficilmente avrebbe potuto trovare nello schiavo conforto e aiuto che compensassero la spesa d'acquisto e di mantenimento. La grossa proprietà si immedesimava con il feudo; o comunque la linea di tendenza era per la gestione con mezzi e mentalità propri del feudo, o che nel sistema di esso si inserivano. Il colonato, le angarie nella parte dominica, erano accettati e inerenti. Ma, quando gli schiavi trovavano acquisto e accoglienza in casa o nell'agro, qual era il rapporto che si instaurava? quale, in concreto, il trattamento e quale la protezione di cui beneficiavano che non venisse dal generico interesse del proprietario a preservare il proprio patrimonio, e dai dettati non meno vaghi della pietà? Anche qui il silenzio della legislazione (che partì dalle assise di Ariano, sotto Ruggero II), lasciò spazio alle consuetudini e ai comportamenti che vigevano nel regno, nel rispetto della varietas degli usi e nella inettitudine a tentare uno sforzo unitario o la disciplina di essi. C'erano queste consuetudini, che per altro non sembra fossero sollecitanti dell'intervento della mano pubblica. C'era pure la speranza dell'affrancazione (il Falcando ricorda i numerosi schiavi liberati dalla regina madre all'ascesa di Guglielmo II al regno), e c'era l'incubo di dover rendere conto degli atti di cattiveria e la confidenza di ottenere compenso delle opere di bontà, tanto più intensi quanto più vicina immineva la morte (tra i frammenti rimasti, è il testamento di un chioggioto stabilito a Palermo che nel 1186 affrancava la sua schiava di nome Aguglia assegnandole 20 tarì e « omnes arnesios quos habet pro usu suo ») 5. Nei secoli XI e XII non sembra, in Sicilia, riservato largo spazio né alla schiavitù né al lavoro salariato, almeno nella campagna; e luogo di predilezione per l'impiego dello schiavo era l'agro. Certo, la documentazione della quale disponiamo potrebbe essere distorsiva. Mancano, dell'isola, registri notarili; i testamenti e gli atti sparsi sono pure molto pochi. I documenti fruibili risalgono a fondazioni religiose, che li conservarono ad attestazione dei propri diritti: la compravendita di schiavi non rientrava in questo quadro. Certo, la realtà di fatto sfuggiva, per altro verso, ai diaframmi nei quali si ritenne distribuire le persone dai normanni (e più vistosamente quando Federico II cercò di attivare l'ordinamento disciplinandone i tratti salienti e gli aspetti
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comunque rilevanti): uno schema nel quale, restando fuori gli schiavi, le persone erano distribuite nelle grandi linee di una classe subalterna (per la quale il termine più usato fu, tra le popolazioni cristiane, « villani », ßr? vot), di una mediana (« burgenses », (wvQyiaLoi e di una casta nobile. La realtà era più varia, la società era più differenziata; e la rigida divisione in classi, con riflessi e coincidenze nelle etnie, stentava a rientrare nella pratica per quel che di surrettizio essa conteneva. Mancavano allora in Sicilia, o almeno difettavano di spazio, organi rappresentativi di interessi professionali. Sporadici accenni a magistri (a Golisano, a Troina), ammesso pure che si tratti non di maestri d'arte ma di individui che avevano grado e funzione rappresentativa entro la comunità dei borghesi, non erano funzionali anticipazioni di organizzazioni di mestiere; sì come non esistette una controparte organizzata di prestatori d'opera. Ma questi prestatori d'opera certamente non erano assenti, soprattutto nelle città ancor se la diffusione non trova conforto nella documentazione; e non possiamo affidarci se non a congetture per dare risposta al dubbio se in certe minute prestazioni (il trasporto di materiale, il carico e scarico di battelli) accanto al lavoratore per mercede, o in vece di esso, era fatto ricorso allo schiavo. E mentre per le incombenze pubbliche, le ricorrenti e le più pesanti, c'erano le angarie, nelle città le esenzioni che risalivano talune facilmente ai primi anni della dominazione normanna (riconosciute, più tardi, in diritto consuetudinario almeno a Palermo) creavano spazi per le prestazioni a mercede. E se in Sicilia non si verificò uno sviluppo adeguato e omogeneo delle manifatture, esse neppure furono in regresso (se non per quanto vi incidettero le difficoltà in cui si trovarono dal settimo decennio del 1100, episodicamente, i musulmani). L'artigianato non si restrinse nella stretta misura del lavoro individuale e del sopperimento ai modici consumi domestici. Tra le pieghe della documentazione serbata ad altri fini che quelli dello storico, compare, in un privilegio del 1157, la disposizione che i buoni borghesi di Cefalù dovevano esimersi dal corrispondere il vitto ai tessitori senza per questo aumentare la mercede. Se si trattava di tessitori saltuari o di mestiere, stipendiati per lungo tempo e per produzione destinata al mercato, o non piuttosto di salariati per sopperire ai bisogni della famiglia o delle istituzioni il documento non dice; e non era, questa, preoccupazione dei concedente e dei beneficiari, in quanto la disposi),
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zione era valida in ogni circostanza. E quando in una terra mediocre della diocesi di Cefalù, Caltavuturo, in un documento del 1176 si trova la sottoscrizione di un follanus, è la traccia di una operosità che, venendo incontro a un'esigenza essenziale, proprio per la mancanza di concentrazione e di organizzazione si esplicava in larga misura per capillari, da parte di lavoranti in proprio e di salariati. Mentre, su altro livello, l'« opificio serico » funzionava a corte con personale che, agli inizi, era stato catturato durante le spedizioni in Grecia, sotto Ruggero II, e condotto in Sicilia in stato di servitù 6. La tripartizione « villani, borghesi, nobili » rimaneva lacunosa e inadeguata in Sicilia, ancor più che per difetto di rappresentare aspetti del lavoro e addetti ad esso, per la insufficiente connessione, soprattutto in città, fra condizione giuridica e posizione economica della gran parte della popolazione che era costituita da giudei e da musulmani. La immedesimazione di questi ai livelli più bassi — del servaggio alla curia, del villanaggio a ragione di persona — pur quando avevano conservato patrimoni cospicui anche per beni fondiari (è il caso di Ruggero Hammed, che poteva permettersi il dono di 3 casali alla chiesa)' o quando occupavano le cariche più elevate (i gaiti maestri camerarii, custodi di palazzo...), o praticavano con largo profitto l'artigianato e la mercatura — questa immedesimazione escludeva coincidenza e conciliazione fra condizione giuridica ed effettiva condizione sociale, Un assetto differenziato nei termini proposti non poteva noir essere sottoposto a scosse e incertezze continue. Anche la tolle ranza dei dinasti normanni, per quel che significava attenzione nel difendere le persone e i beni dei sudditi di religione diversa dalla loro, contrastava con quanto di arduo e di ambiguo stava nella pretesa separazione fra condizione personale e impegno (onore-onere) nell'amministrazione. Se l'ordinamento della contea, e quindi della monarchia siciliana, non fu fragile, anzi per i tempi risultò robusto, lo si dovette in larga misura alla coincidenza fra condizione giuridico-fiscale e collocazione economica e sociale delle persone nella campagna, e al ruolo che la campagna manteneva. Perché nell'agro la condizione del musulmano non fu lesa solo sul piano fiscale e su quello giuridico: egli fu ridotto di fatto nella condizione di villano, quale fu il termine prevalentemente adoperato in Sicilia, si scrivesse in latino o in greco. Se e quando il musulmano conservò
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o ricevette del terreno, non lo ebbe a titolo di allodio ma in uso, per concessione e con impegno di servizio; mentre le persone, se non lo erano già, furono immedesimate con il suolo, entro il demanio del principe o del vassallo. Nelle grandi linee, fu estesa ai musulmani la condizione in cui avanti si trovavano le popolazioni cristiane dell'agro: condizione che aveva larghe analogie con il villanage di Francia e d'Oltremanica, e attraverso esso trovava ascendenza con il colonato e la servitù de ll a gleba (termini che non ignorò neppure la legislazione normanna con alternanza o iterazione che non dà adito a difficoltà interpretativa o ad improprietà concettuale). Il grosso lavoro, intrapreso da Ruggero I e costantemente rinnovato dai successori, di censire uomini e territori, fu atto preliminare alla organizzazione amministrativa e finanziaria; e fu l'operazione attraverso la quale trovò attuazione l'indirizzo normativo dell a riduzione e del mantenimento dei musulmani in condizione di inferiorità giuridica, nella città e nella campagna (e sono esemplari documenti giunti a noi, le platee degli agareni e dei giudei di Catania, e quelle di Aci). Il villanaggio improprio — a ragione di persona (ratione personarum) — comportante l'iscrizione nelle platee (ascripticii, svSóyQagpot), fu condizione dei pagani (musulmani, ebrei), non riscattabile se non per esplicito e pubblico atto di affrancazione; quello in senso proprio, legato al godimento della terra, ma pure con vincolo della iscrizione (e perciò sempre ratione personarum), fu la condizione de lle persone che vivevano nell'agro al momento della conquista, e dei loro figli ed eredi (ché la condizione si trasmetteva dal padre ai figli; ed era villano anche il figlio dell'ascripticio diventato prete); sì che saraceni e giudei erano concessi, trasferiti e iscritti in quanto ta li , e i greci nativi finivano con l'essere censiti e scambiati, sempre a livello di principato e di feudo, in quanto villani. Il rapporto villanale si espanse in epoca normanna (che fu quella in cui praticamente se ne svolse e concluse la fase ascendente) per effetto di immigrazioni e di taluni « affidamenti ». Solo che in questi casi in genere si ebbe una sorta di pattuizione, sia pure espressa in forma di atto unilaterale, di privilegio rilasciato in favore di quanti erano stabiliti o sarebbero venuti nel luogo: un patto che impegnava le due parti anche in avvenire. Ne venne un villanaggio, si oserebbe dire, sfumato, di uomini non iscritti nelle platee (inscripticii), che mantenevano la condizione villanale
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finché stavano nel terreno (tenimentum), e prestavano il servizio in corrispettivo del beneficio che avevano ricevuto (respectu tenimentorum vel alii beneficii). Distinzione ostica, questa entro il villanaggio, ratione personarum e ratione tenimenti, più che per una certa asprezza della coscienza giuridica ai livelli medi, perché il fatto giuridico conseguiva dalla situazione in evoluzione. Tanto che fu necessario un rescriptum esplicativo dell'assise ruggeriana relativa all'accesso al sacerdozio da parte di villani de lle due condizioni 8. I villani, respectu tenimenti, in un contesto nel quale anche ai borghesi non era concesso trasferire la residenza, dal territorio demaniale al territorio infeudato, o pure da uno ad altro signore, rappresentavano, per la disponibilità al trasferimento che veniva da ll a non iscrizione nelle platee, elemento discretamente dinamico; ancor se, una volta insediati nella terra, trovato in essa il sostentamento, istituiti con essa vincoli di affetto, il legame tendeva a stabilizzarsi. E restava, l'attaccamento, pur quando non mancavano contrasti con il signore, nella richiesta di migliori condizioni per continuare, essi stessi e i propri figli, a vivere e morire in quel suolo. Le offerte e le prospettive riservate agli hospites e agli affidati, sotto le comuni insegne del villanaggio, non erano di luogo in luogo identiche, e tanto meno ripetevano quelle cui le popolazioni delle campagne erano state sottoposte a seguito della conquista, e sotto le quali erano state trasferite, a laici o ad ecclesiastici, all'atto della infeudazione. Gli abati di S. Bartolomeo sollecitavano a stabilirsi in Patti « homines latine lingue > ai quali offrivano lo stato di borghesi quale si conveniva alla etnia egemone e condizioni, se non d'oro, invoglianti. A Lipari essi concedevano pure la vendibilità del terreno dopo tre anni dalla permanenza e solo che si fosse corrisposta la decima (ma il suolo duro e arido vanificò l'offerta insolita). E però gli stessi abati contrastarono duramente con gli abitanti di Librizzi, che erano greci. E nel 1117 cedettero una prima volta riducendo le angarie di ciascuno di quegli uomini a una settimana al mese e aggiungendo di accettarne l'offerta (!), che essi, grati, avevano fatto di 40 giornate di lavoro alla semina con aratri propri, 1 alla mietitura, 3 nelle vigne o in altre culture. Le giornate del contadino sono molto brevi o molto lunghe; la sua esistenza è alterna di pause di lavoro e di grosse fatiche. Per questo poteva essergli più agevole offrire la giornata che non .
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i frutti della propria porzione di terreno o il ricavato in moneta dei prodotti del proprio campo. Ma la stagione dei lavori coincideva sui fondi del villano e sui fondi del signore. Non doveva essere facile agli uomini di Librizzi mandare avanti il proprio campo e dare il debito del servaggio. Le contestazioni si rinnovarono; la qualità della prestazione cambiò: in un elenco-memoriale fatto compilare dal vescovo tra il 1131 e il 1148, i villani, in numero di 59, dovevano solidalmente 256 tari. Insieme, furono elencati gli altri villani dei casali del vescovo. Le prestazioni ormai erano in natura o in moneta: i 102 uomini di Naso dovevano 260 salme di frumento (in media poco più di 2 tari e mezzo a famiglia), i 61 di Fitalia e i 69 di Panagia dovevano insieme 331 tarì, 50 salme di frumento e 50 di orzo (media, 2 tari e 16 grana e mezzo; orzo e frumento, poco più di 3 tumoli). La conversione degli oneri personali in prestazioni reali, e quella in moneta dei tributi in natura non avvennero contemporaneamente nei territori del vescovo. In altro casale, a Sinagra, vi si addivenne solo nel 1249. All'uopo fu fatta una stima, per cui una salma di frumento alla misura generale di Sicilia fu valutata 5 tari, una di orzo 2 (più di frequente, troviamo l'orzo apprezzato la metà del grano), una giornata di semina con buoi 7 grana e un terzo (una salma di grano corrispondeva dunque a più di 13 diete e mezzo con buoi propri); le diete semplici, fossero a prestarle villani o borghesi, un tarì le 10 (50 per una salma di grano). Ancora nel 1319 gli uomini del casale Zappardino erano richiamati alla prestazione della charisia, consistente in 9 diete in 3 riprese e nel trasporto di legna 2 volte l'anno 9 . I villani di altro vescovo, quello di Cefalù, a stare a un memoriale travasato nel Rollus rubeus compilato quando ormai « dei villani della chiesa non si aveva nessuno sia pur modico ricordo », dovevano ciascuno da 4 a 13 tari e 24 diete 10 . Nel 1142, o nel 1157, il conte Simone degli Aleramici concedeva alla chiesa di Troina 10 villani con le famiglie e insieme buoi, casa, vigne, fondi e le prestazioni da essi dovute nella misura complessiva di 200 tari, 45 moggia di frumento e altrettanto di orzo e in più il famulatum. Diverse erano pure, di luogo in luogo, di occasione in occasione, le condizioni di nuovo villanaggio. Due diete al mese, una gallina a Pasqua e una a Natale furono nel 1100 le prestazioni stabilite per quanti venissero ad abitate nel monastero di Mandanici; 24 diete alla mietitura, 12 per paio di buoi alla semina, 2 galline in
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ciascuna delle grandi feste, la decima delle capre e dei buoi, un « circulum pro vegetibus » in quello di S. Maria di Mili. Nel 1196 il pactum fra il monastero di S. Maria di Valle Josaphat e il piccolo gruppo di uomini che intraprendevano la bonifica e la costruzione di un casale nel luogo detto Mesepe presso Paternò stabiliva che a ciascuna famiglia si desse il posto per una casa, 8 salme di terreno lavorativo, e in solido tre parti di una chiusa di vigne (di cui dovevano la metà dei frutti), un oliveto e un mandorleto. L'angaria consisteva in una giornata la settimana, 12 giorni spartiti tra parasporo semina mietitura e maggese, oltre le salutes a Pasqua e Natale. Nelle giornate di lavoro l'abate — aggiungeva il documento — era tenuto a corrispondere « duos cuplos panis », e da marzo ad agosto due e mezzo, forse perché le giornate erano più lunghe e la durata delle diete andava dall'alba al tramonto, e durante il parasporo « vinum et coquinatum cum pane ». Ai terreni che davano luogo al rapporto di villanaggio potevano aggiungersene altri, ed era lecito effettuare permute. NeI 1176 gli uomini che si erano stabiliti nel casale di Zaffaria nella fascia presso Messina, chiesero altre terre incolte, per seminarle e per pascolarvi le pecore. L'arcivescovo aderì alla richiesta e concesse il terreno libere et perpetue, a patto che quanti seminavano dessero alla chiesa totam cohoperturam del frumento, orzo, fave, ceci, li no e di qualsiasi altro seme: e cioè la quantità pari al seminato, che era la misura diventata consuetudinaria del terraggio 11. Nel secolo XII, comunque, né le affittanze, né altra forma di affidamento o di conduzione a tempo determinato entrarono nell'uso: si come ai margini fu la contrattazione del lavora e il salariato. Rapporto usuale rimase il villanaggio: sollecitato, più ancora che accettato a tutti i livelli, ma con una propria attitudine ad adeguarsi alle circostanze, nelle revisioni che venivano compiute; nella progressiva diminuzione dei pesi riscontrabili degli ascripticii e nei rapporti di nuovo conio. Dinamica che era della società e non tanto dell'istituto villanale, il quale di per sé tendeva piuttosto ad esaurirsi: per la convergenza della spinta verso rapporti sostitutivi e della regressione, comparativa e numerica, dell'elemento musulmano e di quello greco, che intaccava il fondamento psicologico e etico-normativo della inferiorità giuridico-sociale. .
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Quando, a seguito della confisca dei feudi di Matteo Bonello, Caccamo fu data al francese Giovanni di Lavardino, il nuovo signore entrò in contrasto con i latini che si erano stabiliti in quella terra al seguito prima di Goffredo de Sageio poi dei Bonello stessi, e che sul piano religioso avevano punto di riferimento nel monastero benedettino di S. Maria sottoposto all'abazia di S. Bartolomeo di Lipari e Patti. Questi latini — racconta il Falcando — « pretendendo la libertà dei cittadini e dei borghesi (oppidanorum) di Sicilia, dicevano di non dovere alcuna prestazione, né alcuna esazione, ma di tanto in tanto, quando qualche necessità urgeva, servire per quanto fossero disposti spontaneamente e di libera volontà; invece i saraceni e i greci, essi soltanto detti villani, erano costretti a pagare redditi e provvigioni annuali » 12 . Quella che qui è meno improbabile è l'alterigia dei borghesi di Caccamo nel rivendicare i vantaggi della appartenenza all'etnia prevalente; ché, ancor se i Bonello potevano essere stati larghi e particolarmente condiscendenti verso quei correligionari, le richieste non avevano riscontro negli usi entro l'isola, malgrado le differenze privilegiate di cui i latini effettivamente godevano. Non c'erano queste immunità neppure nella capitale, ove l'esenzione dalle angarie e dalle parangarie (i servitia personalia) si evince dalle consuetudini scritte e riconosciute abbastanza più tardi, quando era dissolto il contrasto di fondo tra cristiani e musulmani, con le implicazioni e le differenziazioni che ad esso conseguirono. Col privilegio del 1160 i messinesi ricevettero sgravi e facilitazioni nei commerci: furono sollevati dalla imposizione di comprare contro voglia « schiavi e schiave, panni o altre cose della curia » e furono esentati dalla angaria « de equitaturis » (e cioè di approntare cavalcature), ma dovevano prestare il servizio militare. Il privilegio ai catanesi del 1168, quello notissimo per la disposizione che « latini, greci, giudei, e saraceni ciascuno sia giudicato secondo la propria legge » contiene un certo numero di sgravi, e ripete la esenzione dall'angaria della equitatura. Tutto ciò a prescindere da ll a gisia, che i non cristiani continuavano a pagare! Fuori dallo stretto ambito delle città, stavano le situazioni di altri oppida al centro di immigrazioni latine. Ruggero II, il quale intendeva conferire una spinta allo sviluppo di Cefalù, su un impianto umano accresciuto e rinnovato, latine lingue, assegnò una serie di facilitazioni: non andare in esercito né in ,
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mare né in terra, non pagar nulla in entrata e in uscita, portare legna per le case e derrate per uso familiare senza pagare dazi, e ancora trasferire liberamente case e terre colte e incolte solo concedendo alla chiesa diritto di prelazione, e anche non essere tenuti in prigionia se potevano dare cauzione e sempre che non fossero rei di fellonia, tradimento, omicidio. Il privilegio fu confermato, sembra, nel 1157 dal vescovo, al quale intanto la città era passata, e che aggiunse altre agevolazioni: stabilì che i cefaludesi potessero rinnovare il bue invecchiato senza pagare tassa ed esimersi dal dare il vitto ai tessitori senza per questo aumentarne il salario, fissò il dazio del pane ai forni nella misura di 1 su 30, proibì la caccia nelle vigne dei borghesi, concesse ai carbonai di far legname nei boschi demaniali, diede diritto di macina nei mulini della Roccella. Nel 1133 l'abate-vescovo di Patti, un'altra cittadina per la quale era stato opportuno motivare la scelta a sede diocesana, concedeva, agli uomini latine lingue che venissero ad abitare in castro, la piena proprietà di quanto era ad essi assegnato (rimaneva comunque al vescovosignore il diritto di prelazione); e però questi uomini, si impegnavano a prestare servizio militare absque precio. Sempre in territorio di S. Bartolomeo, i lombardi che vennero a popolare S. Lucia furono esentati dalle angarie e dall'adiutorio (che in fondo era quanto sembrava al Falcando fossero disposti a offrire i latini di Caccamo, riservandone però i modi e le occasioni alla eventualità della propria buona disposizione), ebbero pure libertà di erbaggio per le loro pecore, e furono dichiarati « liberi et sine molestia, sicut Lombardi Randacii ». E però dovevano, quei di S. Lucia, al pari dei lombardi di Randazzo, il servizio di marineria, del quale era garante il vescovo, e che consisteva nei 20 uomini di cui, solo nel 1177, re Guglielmo sgravò il prelato. Altra e solida colonia, Caltagirone, acquistò in comune (universitas hominum) da re Ruggero due casali, impegnandosi alla corresponsione di 40.000 tari. Nella difficoltà di scontare l'obbligazione, quegli uomini ne ottennero nel 1160 la commutazione in 15.000 tari in tre rate e il servizio di 250 marinai. Altri lombardi, quelli di Nicosia, ricevettero terreni in solido — come universitas — e si accordarono con il buon re Guglielmo per il servizio di marineria di 296 uomini e il trasporto di legname alla darsena di Mascali. Gli uomini di Aidone, per contro, ebbero commutata la marineria con la prestazione di 200 onze l'anno
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(6000 tari), che sotto Federico II e sotto Carlo I fu aumentata, ridotta e diminuita ancora per l'incapacità dimostrata, o subentrata, a soddisfarla (e da parte di Carlo I anche per le benemerenze acquistate quando l'abitato subì danni dai partigiani di Corradino). Pure ,in territorio appartenuto agli Aleramici, la marineria dovevano certo quei di Paternò, che dopo la commutazione in moneta fruirono di una riduzione da parte della regina, imperatrice Costanza. Non erano esenzioni, quali pretendevano gli abitanti il borgo di Caccamo o nella misura delle pretese che ad essi attribuiva il Falcando; ma non veniva neppure alcuna mortificazione da queste prestazioni. In quella società, mentre resistevano a livello locale e generale imposizioni e tassazioni che esulavano dalla condizione giuridica delle persone e talora dalla etnia e dalla religione di esse, al bene ricevuto, al beneficio corrispondeva un'obbligazione, il servizio. Ai due po li stavano quello nobile del feudatario e lo ignobile del villano. I latini che venivano a stabilirsi nell'isola, senza entrare nel giro di un'aristocrazia che aveva costituito i suoi quadri e tendeva a serrare le fila, uomini di discendenza non nobile secondo i canoni dell'epoca, provenienti dai campi o dalle città che vivevano di agricoltura e attratti i più nei borghi dall'economia in larga prevalenza agricola, questi latini rivendicavano (e da una certa compiacente sensibilità non era difficile ottenere) non tanto e non sempre le esenzioni più cospicue quanto uno stato mediano: che se non era del nobile, non era del servo, e dava se non l'euforia del comando, il gusto di una temperata dose di libertà che si esplicava nell'assenza di legami e di dipendenze, che non fossero quelli di ciascun suddito, e di tutti i sudditi, al principe (o a chi il principe delegava o trasferiva, in toto o in parte, il potere). Questa libertà aveva, come ogni libertà, i suoi risvolti, e le sue fondamenta economiche nel bene di sussistenza: il fondo, la casa, che erano tenuti « iure proprietario », abbandonabili e commerciabili con disponibilità semmai soggetta a tenui restrizioni. Era, questa, condizione dei « borghesi o altri uomini delle città » che la monarchia si preoccupava difendere anche nel caso di morte ab intestato, quando, con l'assise 37 del cod. cass., si stabiliva che, ove del morto rimanessero figli o ascendenti in linea o collaterali, essi succedevano per due terzi e un terzo era
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erogato « pro anima » del defunto, e che solo in caso di assenza di eredi i due terzi erano destinati alla corte. Erano le basi del burgensato di Sicilia, le cui connotazioni erano segnate, in quei secoli XI e XII, dalle prevenzioni e dal distacco aggressivo verso gli uomini dai quali dividevano differenza e prevenzione di religione e di etnia ma che più si accostavano per abitudini e per attitudini al tipo del borghese che si presentava protagonista su altre scene di Italia e di Europa: classe che il tempo avrebbe rivelato gracile e pur resistente, immedesimata nell'ambiente e coerente con esso, ma che nasceva in ritardo, anacronistica dalle origini. Proprietari coltivatori, o proprietari e contemporaneamente artigiani; proprietari « uomini d'ogni mestiere e di ogni professione »; imprenditori e mercanti mediocri con poche eccezioni, orgogliosi di un lavoro che fosse, seppure non molto fruttuoso, indipendente; di rado, molto di rado, titolari di cospicue fortune fondiarie (ché il latifondo solo eccezionalmente non si immedesimava con il feudo); ambiziosi, i più fortunati, già allora di passare la frontiera che separava dalla nobiltà, il cui valico il legislatore normanno interdiceva severamente, con l'assise XIX del cod, vat. (31 del cod. cass.), De nova militia, lasciando l'ipotesi del superamento alla volontà del sovrano, dalla quale discendeva la legge e ne dipendeva la applicazione 13 Al vertice dell'organizzazione della Sicilia normanna stavano le « persone nobili ». E la nobiltà dipendeva dal feudo; e i tre gradi della gerarchia entro l'aristocrazia (milite, barone, conte) riflettevano la dignità e la collocazione entro il quadro feudale. Fu, questo, innesto di cui non è incerta la pertinenza ai normanni. E non che si voglia negare la preesistenza di inclinazioni e di situazioni che si inserirono e si immedesimarono nel regime del feudo, o che magari lo prepararono e lo accompagnarono. Ma feudo e feudatari, così come si stabilirono in Sicilia, ebbero iniziatori e promotori i normanni e i loro compagni, e furono improntati, nei principi e nelle linee di tendenza, alle esperienze e alle propensioni di essi, avanti l'impatto con le condizioni del paese e con vicende che non potevano non incidere (ma su cui essi pure non mancarono di ripercussioni). Situazione propria della Sicilia, questa, tra i territori d'Italia che rientrarono nella domi-
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nazione normanna, perché nel continente una feudalità di religione cristiana e secondo la tipologia occidentale, o con larghe affinità, già esisteva, e con essa i normanni ebbero a patteggiare e a contrastare avanti di affermare la egemonia a livello ducale, e con Ruggero II a livello regale. In Sicilia l'aristocrazia del feudo fu di nuovo insediamento, almeno ai gradi più elevati. Non che fosse composta da provenienti dai ceti inferiori; ché si trattava piuttosto, anche ai medi livelli, di uomini che sotto cielo diverso recuperavano una signoria che in patria traversie, o la condizione di cadetto, o pure il numero largo di consanguinei, avevano impedito di raccogliere adeguata alle necessità e alle ambizioni proprie. Feudo e feudalesimo si presentarono in Sicilia, con gli Altavilla, quale stato psicologico, fatto di ambizioni, di inclinazioni e di attese, e come modo di intendere e di regolare i rapporti personali e sociali; e rappresentarono un condizionamento in sede di governo e di amministrazione e nei settori economici. Le tappe della propria fortuna, gli Altavilla e il ramo siciliano di Ruggero I le vollero e le ebbero segnate all'insegna dei gradi, dei rituali, delle costumanze feudali: dalla investitura della contea dipendente dalla ducea di Puglia, fino a quella del regno di Sicilia da parte del papa. Le aspettative dei compagni d'arme, e di quelli che seguirono a consolidamento della conquista, ebbero esaudimento nella dilatazione del reticolo feudale, nella sua espansione capillare. La dinastia trovò allora sostegno, più che su una classe (la borghesia, quella che altrove era in crescita, nell'isola era formata da israeliti e da musulmani), nell'apparato burocratico. Da qui — abbiamo detto — la rivalità non latente, gli odi tremendi, l'aggressività contro i perfidi greci, contro gli infidi agareni, e personalizzandosi contro Maione e contro il notaio Matteo, verso Filippo di al-Mandiyah, verso il gaito Pietro e nei confronti di Stefano di Perche e di Romualdo di Salerno: strumenti di difesa e di potere della monarchia, bersagli di chi riteneva il potere spettanza propria e se ne considerava defraudato. Comunque, agli inizi, il feudo fu premio e impegno, modo e mezzo di gestire e governare ai livelli locali. Alla occupazione si accompagnò l'operazione che con felice espressione Rosario Gregorio definì « lotteria feudale ». Il duca Roberto aggiunse la gran parte dell'isola alla contea del fratello Ruggero, che già teneva la Calabria; e questi diede corso alla distribuzione privilegiando i figli che la fortuna non accompagnò: Giordano ebbe Siracusa;
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Goffredo, Ragusa. Il documento con cui nel 1094 il gran conte e un nutrito gruppo di feudatari, che si compiacevano sfoggiare cognomi di battaglia (Malaspataro, Testadasino) che non incontrano certo i nostri gusti consolidatisi nell'impatto con altro genere di asperità e di difficoltà che non le loro, dotarono l'abazia di S. Bartolomeo, assunta a segnacolo di cristianità nel senso e nel rito latino, presenta parte non congrua della feudalità che usciva dalla « lotteria » e che si dilatò sì che in epoca normanna a un certo punto non era facile trovare un abitato mediocre che non fosse infeudato a un laico o a una fondazione ecclesiale 14 Si diffuse, in misura comparativamente larga, il baronaggio, punto mediano nella scala delle persone nobili. Perché le contee nell'isola furono poche e, affidate a familiari e affini di Ruggero I, finirono distrutte dal destino avverso ai beneficiari e dallo scontro dei loro successori con la dinastia. Gli spazi lasciati all'allodio, e con esso al burgisato, risultarono dalla ridotta diffusione del minor grado feudale: quello del milite. Il vassallaggio del barone non fu largo; la inibizione dell'accesso alla « militia » di chi non discendesse « de militare genere » costituì remora e frenò tentazioni e tendenze ad allargare le fila. La assise De nova militia non era soltanto ostativa nei confronti di inclinazioni dei feudatari a crearsi un vassallaggio più largo, e credibilmente più ligio. Affermando il principio della spettanza dell'onere della milizia a chi ne avesse titolo per « prosapia », valeva a ribadire atteggiamento e linea di comportamento nei confronti delle etnie subalterne. In linea giuridica, il musulmano villano a ragione di persona non poteva essere nobile; e il nobile era tale perché feudatario. Diversamente, si sarebbe andati fuori la logica del sistema. Ma neppure il regime feudale della Sicilia normanna mancò di adattamenti per suggestioni o deviamenti e si ebbero situazioni più o meno dis torte e distorsive della condizione feudale. Quando i normanni occuparono la prima volta Catania ne lasciarono a capo Ibn at-Tumnah, dal quale erano stati chiamati nell'isola e avevano avuto facilitato l'ingresso. Con un diploma del 1142, Ruggero figlio del re Ruggero ritirava al monastero di S. Cosma Gonata quanto ad esso aveva abusivamente concesso il gaito Maimun al tempo che « aveva governo su Petralia ». Ruggero Hammed nel 1141 diede alla chiesa palermitana tre congiunti casali in territorio ai confini di Licata e Naro, consenziente il re dal quale dichiarava averli ricevuti. Leone .
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Africano, il quale però non era molto attento e neppure congruamente informato, scrisse di un feudo donato a un nobile musulmano: pare trattarsi del geografo Edrisi. Lasciamo stare precisazioni facili, ma senza crismi di certezza: che Ibn at-Tumnah fu lasciato a governare Catania, finché non si ribellò e soccombette, ma non ne fu investito; che il comando di Maimun non implicava assolutamente la infeudazione di Petralia. È certo che né essi due, né Ruggero Hammúd (quei casali, facilmente, gli erano stati restituiti, o rappresentavano restituzione parziale di quanto aveva perduto e il compenso della fedeltà nel servizio del normanno), né Edrisi (libero ospite, che godeva dei favori del re), rientrarono nella aristocrazia ufficiale, decorati « cingulo militari » e onorati con titoli propri alla nobiltà del feudo. Che è, poi, quanto si riscontra con i greci: fossero Scolaro e i Graffeo di famiglie oriunde di Calabria, ricchi di beni anche in Sicilia, o l'ammiraglio Giorgio originario di oriente, il quale ricevette da Ruggero II Misilmeri (e nel 1143 dotò la chiesa che aveva fondato in Palermo di due villani e di un casale nel territorio), essi non ebbero nell'isola titoli di nobiltà feudale. L'ammiraglio Cristodulo fu onorato dell'appellativo « protonobilissimo »: che ad personam era magari di più, ma si risolveva in espediente per scavalcare prevenzioni e costumanze 15 . Il beneficio sine servitio — fosse donazione, fosse di fatto restituzione — o con un corrispettivo che non era quello nobile, militare era deviazione del feudo. Ma la percezione, la sensibilità acuta delle differenze di indole religiosa ed etnica era più acre e restia ad adattarsi che non le istituzioni, sia pure questa del feudo che in Sicilia fu connaturata con i normanni e con il recupero alla cristianità occidentale. La non esuberante dilatazione del reticolo feudale nel grado minore, a livello di milite, valse, per altro, ad assicurare condizioni economiche di vantaggio a quanti erano partecipi della nuova aristocrazia. E non fu danno per i soggetti, i quali non ebbero a contrastare con domini la cui sussistenza fosse affidata alle prestazioni reali e personali di pochi. I feudatari poveri con due o tre villani, dei quali rilevavano e lamentavano la diffusione i reintegratores in carica nel 1248-49, non esistevano allora. La rendita — base del feudo integro (di un milite) era di 20 onze, quale rimase per tempo; ma per quanto lenta per la moneta di conto, la svalutazione incideva con l'assommarsi dei
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decenni. La valutazione della rendita in 20 onze era affidata a criteri molto lati: risentiva dei luoghi, delle circostanze, delle pressioni. Lasciamo qualsiasi tentativo di accogliere come paradigma la situazione nell'Italia meridionale, quale palesa il Catalogus baronum (di cui purtroppo non esiste equivalente in Sicilia); e non affidiamoci neppure all'investitura del 1144, inserta in un documento di Federico II, in favore di Diotisalvi, il quale ricevette 50 villani e facoltà di accogliere extraneos purché non appartenenti a terre di regio demanio o iscritti in platee di signori e il casale Pilatta in terra di Sumeri, in Calabria, per il servizio di un mese sempre in Calabria con l'obbligo di continuarlo, a spese della curia, ove necessario, e di prestarlo eventualmente e sempre a carico della curia altrove. La consistenza del feudo si mantenne congrua sotto i normanni. Brucato nella fertile pianura oltre il Salso, fra Termini e Cefalù (dotata di « un mercato, [varie] industrie, acque » e « non pochi molini ed orti, giardini, vaste masserie ed ottime terre da seminato », a quel che ne scriveva Edrisi), nel 1157 quando Guglielmo I la concesse alla chiesa di Palermo, era feudo di 6 militi. La terra di Calatrasi era stata data ai Malconvenant come feudo di 12 militi Invitato al servizio nella repressione di torbidi a Messina, Giovanni del fu Goffredo Malconvenant mandò solo 3 militi. La punizione ebbe sapore di ironia, piuttosto pesante per quel barone. Calatrasi fu revocata al fisco e a Giovanni furono dati in excambio i casali Lacamuca (o Chabuca) in distretto di Giato e Cellario (o Chillaro) in quello di Sciacca, feudi rispettivamente di 2 e un milite. Nella platea rilasciata al vescovo di Monreale nel 1178 erano segnati 373 capifamiglia e 52 ammogliati figli propri o dei fratelli. Accettati per buoni questi numeri che indubbiamente non peccavano per eccesso (nel diploma del 1183 si trovano 20 immigrati), si ha un rapporto di 31 villani a milite a non considerare gli ammogliati, di 35 e mezzo (35,410) includendoli. A livello di prestazione dei 75 agareni e dei loro 20 figli capifamiglia, che nel 1095 erano ceduti a S. Maria di Palermo, e a considerare il frumento e l'orzo intorno ai 7 tarì e mezzo e 3 tari e 15 grana rispettivamente al moggio, sarebbero occorsi 18 di quei soggetti per dare il reddito del feudo di un milite. Il rapporto più basso (1: 7,5 circa), e sempre su questa base, si ricava dalla misura delle prestazioni (in tarì e in orzo
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e frumento) dei 16 uomini dati nel 1157 dal conte Simone alla chiesa di Troina; ed è insolito. Ben oltre si va con le prestazioni che risultano da altre pattuizioni e da privilegi posteriori ai primi decenni del secolo XII. È il caso dei casali di S. Bartolomeo, quale risulta dall'elencomemoriale fatto redigere fra il 1131 e il 1148. I 59 villani di Librizzi dovevano in solido quasi la metà del reddito calcolato per il feudo di un milite (20 onze, 600 tari): in 59, tari 256. Sulla base della obbligazione allora concordata (tari 4, grana 10) sarebbero occorsi 138 villani per la rendita di un feudo. A Naso, nella parte del vescovo (102 uomini, 260 salme di frumento), si arriverebbe al rapporto: 1 milite• 47 1/4 villani al prezzo putativo di 5 tari la salma di grano, che era corrente sul mercato nel 1249 quando avvenne il concordato con gli uomini di Sinagra, ma esoso per il quarto decennio del secolo XII, e al rapporto 1: 67,49 con il prezzo di tari 3 e mezzo. Per Fitalia e Panagia (130 uomini, in solido dovevano 331 tari, 50 salme di frumento e 50 di orzo) si arriva con i medesimi apprezzamenti di Naso, rispettivamente, a 1: 97, e 1: 127 16. Ma c'è da chiedersi: l'elevato rapporto (sulla scorta della valutazione del reddito di un feudo integro in 20 onze) era sempre segno che al mantenimento concorreva un alto numero di persone?, o non piuttosto (e la risposta non è dubbia in casi quali i territori cennati di S. Bartolomeo) lo svilimento della prestazione è indice di ristrettezze emergenti e in dilatazione. Era la strada, o almeno una de lle strade (c'era anche la proliferazione e ci sarebbe stata l'aggressività della corte), che portavano all'impoverimento della minuta feudalità quale si trovarono a rilevare, e lamentare, i reintegratores nel 1247-48? Colpisce in questa aristocrazia del feudo la rigida permanenza entro i ranghi, ancor quando se ne profilavano le difficoltà, e dinanzi a diverse attrattive. Non esistono segni di trapasso entro le fila di una borghesia affine a quella che cominciava le prove nelle botteghe e nelle piazze di Genova e di Pisa, di Firenze e di Milano E non ci furono neppure predilezione e travaso largo nel clero regolare o secolare. Che agli inizi il clero, e soprattutto la gerarchia fossero oriundi di Francia (Normandia e Borgogna in particolare) e greci e latini del mezzogiorno d'Italia e particolarmente della Calabria, era pressoché ovvio per
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un paese di recente conquista e nel quale il grosso della popolazione era di religione diversa da quella dei dominatori, sl che vasto era lo spazio all'azione missionaria. Ma quando la gerarchia ecclesiastica, dei monasteri e dei vescovadi, di rito latino e di rito greco, continuava ostinatamente ad essere chiamata da fuori l'isola (ed erano i conti, poi i re ad eleggere i vescovi, in virtù della legazia apostolica, e sui monasteri si stendevano il patronato e lo ius collationis della monarchia o dei fondatori), allora era segno che quella del feudo rimaneva in Sicilia nobiltà d'arme e di terra non impegnata nella gestione degli uffici e meno propensa a ritirarsi nel chiostro e nel sacerdozio, ancor se il ritiro non significava distacco dagli affetti e dai gusti terreni e rinuncia al potere. Perché la gerarchia ecclesiastica, svincolata da preoccupazioni di discendenza, una volta nominata, dipendeva dal sovrano per quel tanto — molto o poco secondo le occasioni e i temperamenti — che ad essa poteva essere utile la predilezione e per quel tanto che discendeva dal timore che un'eccessiva indipendenza ne provocasse la co llera. E molti monasteri e i vescovadi esercitavano, attraverso il beneficio ( solo qualche volta gravato di servizio, che era quello militare solo in quanto i religiosi si facevano mediatori di quello che i vassalli laici, insediati già o che si sarebbero stabiliti nel territorio, dovevano alla corte), un potere che talora (a Monreale attraverso la assegnazione all'arcivescovo della funzione di giustiziere, e cioè della carica in cui si combinavano le più elevate responsabilità amministrative e giudiziarie) arrivava ai reati di sangue riservati alla giustizia del sovrano Ma se non costituiva attrazione sulla feudalità il potere del vescovo, dell'abate, dell'egumeno, neppure la temperata dignità del monaco e del prete pare abbia attratto la burgisia che ne sarebbe dovuta essere naturale serbatoio. Anche perché tra la gerarchia, riservata ai privilegiati per nobiltà di famiglia entro un circolo che non era né solo né esclusivamente regnicolo e il clero minuto, al quale era agevole l'accesso, era un abisso di prestigio e di modo di vita. Se in alto stava un potere che eccitava solo pochi, e al quale comunque la nobiltà di Sicilia non aveva abituale accesso e neppure lo pretendeva, in basso era un'esistenza fatta di sacrifici continuati e di riconoscimenti minuti almeno vita durante. Per questa via le porte del clero furono aperte ai
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più umili e alle classi subalterne: ai villani, anche ascrittizi, solo che i loro signori lo concedessero, e anche senza l'assenso quando il vescovo li richiedesse e garantisse che si trattava di persone idonee 'R. L'ottica del legislatore non era strettamente siciliana, e i vuoti entro il basso clero, che ne motivavano l'intervento, esistevano anche nel continente dove però non si combinavano, con pari frequenza, differenze di casta e differenze di religione e di razza.
X LA SITUAZIONE DEMOGRAFICA CONDIZIONI LOCALI E IPOTESI D'INSIEME A chi si chieda quanti furono i residenti nell'isola, o sia pure in alcune località, la documentazione della quale è possibile disporre risulta immediatamente frustrante, e non solo per una rappresentazione dinamica, ma anche ferma a uno scorcio di anni, o ad una circostanza. Per Palermo stessa non abbiamo neppure un punto di partenza discretamente rassicurante. Nella descrizione della città, e della propria permanenza in essa, Ibn Hawgal, allo scorcio del secolo X, diede alcuni numeri: vi erano — scrisse — più di 300 maestri di scuola; nel Cassaro, ove erano quasi tutte, si trovavano 150 botteghe di venditori di carne; le moschee erano 500; in una di esse, quella dei beccai, Ibn Hawgal stesso avrebbe contato (moltiplicando il numero delle fila per quello delle persone in ciascuna fila) 7000 presenti. Ma riandare a quanti allievi avessero mediamente questi maestri (avvertiva Ibn Hawgal che molti si davano all'insegnamento, o fingevano di praticarlo per sfuggire al servizio militare), e quanta parte della popolazione li frequentasse è al di fuori delle nostre possibilità, salvo a tentare accostamenti, paragoni, ipotesi che nulla hanno di concreto. E accettate pure le 150 botteghe di carni, ci si trova dinanzi a difficoltà non meno ardue a voler ipotizzare il numero dei clienti. Certo le 7000 persone che Ibn Hawgal contò nella moschea non erano solo beccai e loro familiari, perché a non mancarne nemmeno uno di questi, dal momento che le beccherie erano 150, la composizione media della famiglia risulterebbe di oltre 46 individui. Né i frequentatori di ciascuna delle 500 moschee possono considerarsi intorno ai 7000, per cui, esclusi gli intrasportabili, gli infedeli e i poco fedeli, si arriverebbe ai 350 mila
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X. La situazione demografica
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abitanti (e cioè la metà dei 700.000 opinabili sulla scorta dell'inconsistente rapporto 1: 100 fra i presunti 7000 familiari dei beccai e la popolazione tutta); Ibn Hawgal stesso ricordava la superbia dei palermitani, i quali volevano ciascuno la propria moschea riservata ai familiari e alla clientela. Anche la moschea principale della al-Hâlisah, era « piccola », seppure frequentata. Tanto minore fondamento potrebbe avere una ipotesi basata sul perimetro urbano, quando non sono determinabili gli spazi destinati ad accessori (orto, pozzo, cortile), quelli vuoti, e persino la tipologia residenziale. Negli anni di dominazione normanna abbiamo solo un numero accreditato e di per sé verisimile: tra il 1171 e il 1173, quando passò dalla città Beniamino di Tudela, abitavano in Palermo 1500 ebrei. Ma quanta parte della popolazione di Palermo rappresentavano in quell'anno le 1500 persone appartenenti a un gruppo religioso di minoranza, la cui esistenza, avanti l'occupazione normanna, nella descrizione di Ibn Hawgal, restava legata al toponimo Hârat al-Yahad (quartiere dei giudei), che corrisponderebbe alla Iudaica o ludecca dei tempi normanni, quartiere che sotto Federico II era in crisi (tanto che la sinagoga andava in rovina)? A Catania, a stare alle platee compilate nel 1095 e ripetute nel 1145, le 25 famiglie di giudei costituivano il 2,656% delle famiglie di non cristiani iscritti nei ruoli. Ma è evidente (erano anni e condizioni profondamente diversi) la illiceità di usare questa proporzione fra giudei e popolazione di insieme per la Palermo del 1171-1173 (si arriverebbe a 56.460 abitanti). È comunque proprio su Catania che si può condurre un discorso meno vago, meno reticente. Le stesse platee del 1095, giunte nella rinnovazione compiuta in seguito e a norma dell'editto regio del 1145, presentano una popolazione soggetta al vescovo di 941 famiglie tra giudei (25, il 2,656%), negri (23, il 2,444%) e musulmani, che assumendo come composizione media familiare (incluse le 208 famiglie di cui era capo una vedova, che erano il 22,104%) 3,5 persone, ammonta a 3293 abitanti (2823 abbassandolo a 3). Da queste platee, accettabili nei loro limiti senza soverchie riserve, si passa a una cifra di fonte narrativa. Ci fa sapere il Falcando che nel 1169 il terremoto distrusse la città dalle fondamenta; non rimase in piedi casa, persero la vita il vescovo e i monaci di S. Agata e i morti furono 15.000.
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Il numero delle vittime nei terremoti è rimasto ipotetico in epoche e in condizioni ben più attente ai numeri come quantità precisata e non adoperati come indizi o segni. Ma qui il numero vuole essere prova dell'asserto che « nessuna persona quasi rimase superstite », sì da risaltarne che negli ambienti della corte e dell'amministrazione, in cui il Falcando era addentro, la popolazione di Catania nel 1169 si faceva ascendere a 15.000 persone (o poco più). Nei 74 anni dal 1095 al 1169, calcolando un tasso di incremento annuo del 10% (tasso elevato anche per periodi di intenso sviluppo, non contrastato da eventi negativi), si arriva a 6880 abitanti. Gli altri 8000 rappresenterebbero il risultato di un computo e di una dinamica in cui, ai cristiani non iscritti nei ruoli in quanto cristiani (nel 1095 il 10%, il 20% della popolazione totale?), si erano assommati immigrati di provenienza e costumanze diverse. Della finitima Aci abbiamo la platea degli agareni rilasciata al vescovo nello stesso anno 1095, all'atto in cui gli fu concessa la cittadina. I capi famiglia sono 398 (fra cui 53 vedove): è un dato isolato e può semmai stimolare a riflessione il fatto che nel 1961 la popolazione dei comuni fra essi finitimi il cui nome comincia con Aci (Acireale, Acicastello...) sommava a 57.476 abitanti'. Altra platea giunta nella rinnovazione compiuta nel 1145 ripeteva i nomi di 188 villani capifamiglia di Cefalù, che tredici anni prima erano stati inclusi in quella rilasciata al vescovo al quale la cittadina era stata data; e in più 37 di altre terre, che erano stati oggetto di uno scambio compiuto successivamente. Nel codice fatto compilare dal vescovo Tommaso di Butera nel secolo XIV, il Rollus rubeus, si dicono riportati « originalia villanorum nomina », secondo la donazione di re Ruggero; sono però in tutto 82, e non tanto per questo, ma perché vi è segnata la prestazione da ciascuno dovuta « a kalendis augusti secunde indictionis », si è ritenuto trattarsi di una conferma, con adattamenti, sotto Federico II (propriamente nel 1244) in adempimento alla costituzione Nihil minus promulgata nell'ottobre 1243. All'elenco, nel Rollus rubeus, fa seguito l'accenno ai villani « civitatensibus », i quali « fuerunt tria milia octuaginta octo » e dai quali la chiesa ricavava il doppio: sempre che il numero dell'elenco sia riferibile ai capifamiglia, come era nella pratica, e che per villani civitatenses si intendessero quelli residenti entro la civitas, si arrive-
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rebbe ad oltre 13.000 persone (13.328 considerando la composizione media di 3,5; 15.232 considerandola di 4 individui) 2. Ma i dubbi sono diversi: il copista si riferiva ad un atto proprio di epoca fridericiana? Si trovò a disagio, disorientato, dinanzi a documenti che, se di epoca normanna, erano in lingua greca o araba, come era nell'uso degli uffici finanziari? E allora, hanno piuttosto credibilità le platee dei villani greci e saraceni rilasciate al vescovo nel 1132 e quelle del 1145, ove i nomi sono quasi tutti saraceni, e che includono rispettivamente 784-658 persone: porzione della popolazione di una civitas che era già stata infeudata a un laico libere, ed entro la quale non esiguo era il clero e il seguito di esso, e c'erano burgenses destinatari di privilegi nel quadro delle sollecitazioni di nuove presenze di lingua romanza? Sul piano di un computo non articolato per dinamica, ma quantitativamente esauriente, hanno validità le platee, più di una volta già richiamate, del territorio intorno a Patti. Nella metà di Naso appartenente al vescovo (102 capifamiglia), in Fitalia (61), Panagia (69), Librizzi (59) stavano, nella prima metà del secolo XII, quando fu compilato l'elenco, complessivamente 291 famiglie cristiane, greche ai nomi, e con loro 53 di saraceni: 344 in tutto, per un numero di persone computabile da 1204 a 1376 2 . Non c'è qui da fare eccezioni e aggiunte rilevanti trattandosi di abitanti in villaggi nei quali la villanale era condizione consueta e comune. Oggi non compare tra le frazioni e i comuni Panagia (non sembra si tratti dell'isola di Panarea). Librizzi secondo i dati aggiornati del censimento ufficiale del 1961, contava 2814 abitanti (773 nel capoluogo), Naso 7380 (2160 nel capoluogo), San Salvatore di Fitalia 3257 (1288 nel capoluogo): e in quei territori, nella fascia costiera, si trovano Capo d'Orlando con 8551 abitanti (3050 nel capoluogo) e Gioiosa Marea con 6906 (1867 nel capoluogo). Non vogliamo indulgere a comparazioni, e tanto meno affidare una qualsiasi validità al rapporto tra passato remoto (456 capif amiglia per 1596-1824 abitanti assegnando altri 103 villani alla parte di Naso infeudata dai Garessio; 1900 con ipotesi larga, comprensiva di clero e seguito del feudatario), e passato molto prossimo (29.908: dal 1548% al 1874%). Anche nella campagna, i numeri disponibili pongono dinanzi a una realtà che non ha risvolti. Le quantità di oggi sono diverse: si attagliano a tipi e
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mezzi di insediamento nel terreno e di utilizzazione del suolo profondamente mutati. Analogo a quello di Patti'è il discorso che ripropone e accompagna la lettura delle platee rilasciate all'arcivescovo di Monreale tra il 1178 e il 1183. Nel documento del 1178 figurano in Corleone e distretto 773 capifamiglia (332 nel capoluogo, tolti i 4 del vicino casale di Ruggero e compresi i 4 figli del gaito); nel 1183 fu concessa la permanenza in Corleone a 26 villani e a 78 fra villani e borghesi nei casali. Si arriva, cioè, a 877 f amiglie, delle quali 358 in Corleone. Non sono dati completi, ma, compresi feudatari e non iscritti, nella terra tutta di Corleone, risiedevano poco più di 1000 famiglie. Nella sola Corleone, secondo il censimento del 1961, erano 14.682 abitanti (14.185 nel capoluogo). Calatrasi contava 425 famiglie, cui nel 1183 furono aggiunte altre 20 di villani. Il territorio era feudo di 12 militi, ma — abbiamo visto — i Malconvenant, quando ne furono richiesti, nel 1162 ne approntarono appena 3. Per Giato non val tanto ricordare le 13.000 famiglie che avrebbero abitato nel territorio al momento della conquista: gli immigrati, dei quali fu giustificata la permanenza nei distretti dell'arcivescovado, furono in tutto (i capifamiglia) 729 (569 villani, 160 borghesi)§. Sfugge ad ogni valutazione relativa all'accettabilità del calcolo quantitativo, ma proprio accostato a queste cifre relative ai territori dell'arcivescovado, rivela l'ampiezza della rilatinizzazione, il numero (20.000) dei lombardi che, a detta del Falcando, si sareb. bero mossi, durante il cancellierato di Stefano di Perche, da Maniace, Vicari, Randazzo, Nicosia, Capizzi 5 . Non è nemmeno possibile, per altro, risalire a computi confortanti per la popolazione di questi e di altri abitati largamente investiti da immigrazioni (Caltagirone, Santa Lucia, Aidone) attraverso il servizio di marineria, che non era strettamente legato e proporzionato al numero di insieme degli abitanti nella terra, e neppure a quello della universitas di latini che ne rispondeva. Comunque, a considerare che al servizio, nella misura massima stabilita, dovessero partecipare tutti gli idonei, si arriverebbe a un numero intorno ai 1000 componenti, per le colonie più consistenti. Se nulla esclude, nel tempo o in qualche tempo, una distribuzione del servizio meno pesante (fino a 1/6 degli idonei, e cioè, considerandoli quali capifamiglia 1/24 del totale), si potrebbe arrivare fino a 6000 residenti e In questa oscillazione per incertezza e .
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indefinitezza (cui non soccorrono notizie né antecedenti né seguenti in non lungo prosieguo) non ci sembra vi siano neppure cifre da proporre quali ipotesi. Dal discorso, cosparso di incertezze e di perplessità, emergono comunque alcuni elementi: semicifre che contrastano con le opinioni a lungo coltivate di una popolosità di insieme intensa, di città e borghi largamente abitati. La popolazione di Palermo, capitale del regno, anche negli anni intorno al 1170, che furono tra i più felici della città, difficilmente andò oltre i 100.000 abitanti, che è numero al di sotto delle proposte correnti e compiacenti, ma largamente sufficiente allora a distinguerla tra le città dell'occidente cristiano. Catania — s'è detto — non andò oltre i 15.000 abitanti, o vi andò di poco, avanti il terremoto. Siracusa avanti lo stesso cataclisma, Mazara, Girgenti, non ebbero incremento da punti di partenza che erano ai livelli medi del secolo XI. Messina — si è ripetuto — partì quasi dal nulla e crebbe quanto le difficoltà di approvvigionamento e di ricetto permisero. Non si è in difetto a ritenere che, anche negli anni avanti il terremoto, le altre città nell'insieme non toccarono, o toccarono appena, il numero di abitanti proponibile per la sola Palermo. Gli altri abitati di maggior respiro, anche con pretese di città (Trapani ancora racchiusa nel lembo di terra prossimo al porto, Cefalù e Patti, sedi di vescovadi per ferma volontà del sovrano) Caltagirone, Randazzo, Castrogiovanni, Piazza e Butera, dopo essere cresciute e prima di essere distrutte (e a distanza dalla distruzione), ebbero popolazione, nei momenti migliori, fra i 2000 e i 10.000 abitanti. Le 130 terre contate da Edrisi, tra più popolate e meno popolate, difficilmente, molto difficilmente, superarono in media i 2500-3000 abitanti. Che è computo medio eccedente le cifre meno discutibili come attendibilità (quelle del vescovado di Patti e dell'arcivescovado di Monreale) ma che non si possono ritenere paradigmatiche, in quanto si riferivano a territori tra i meno investiti da bonifica e da ripopolamento dai quali veniva linfa e sangue. Si arriverebbe, pertanto, a un tetto di 200.000-250.000 abitanti nei territori di Palermo e delle altre città, di 325.000390.000 risiedenti nelle altre terre, fra borghi e casali: in tutto, cioè, non al di là di 640.000 abitanti. Che rimane proposta da guardare con riserve e con cautele ampie; e che si sforza di aderire
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a lle condizioni dei tempi e dei luoghi e alle testimonianze scarse e, seppure non volutamente, reticenti. Il numero è misura della realtà. L'ipotesi numerica resta, nel caso, tentativo di dare dimensione alla somma di poche cognizioni, di alcuni indizi e di molte impressioni.
XI « TEMPORIBUS TURBATIONUM »
Nel febbraio del 1198 papa Innocenzo III, scrivendo al vescovo di Sutri e all'abate di S. Anastasio, dava un'interpretazione degli avvenimenti seguiti, in Sicilia, alla morte di Guglielmo II 1 . Gli eventi gli apparivano manifestazioni della misericordia divina che « accelera la pena temporale nei confronti di coloro ai quali è dovuta eterna vendetta ». « Quando infatti — significava —il popolo di Sicilia e gli altri dello stesso regno, effeminati dall'agio e dissoluti per la eccessiva pace, inorgogliti dalle ricchezze loro, si davano con lascivia alle voluttà del corpo, sali in alto la loro puzza e furono consegnati per la quantità dei loro peccati nelle mani dei persecutori. Fino ad ora contro di essi, e lo diciamo con dolore, arse il furore nemico, sì che alcuni condannati a turpe morte esalavano le anime con tribolazione di cuore e di corpo, alcuni deformi per la mutilazione di membra son fatti abiezione della plebe e ludibrio delle popolazioni; i maggiori di loro legati con catene ai piedi e i nobili con arnesi di ferro prigionieri ed esuli si macerano nel paese dei teutoni (Teutonia), mentre i restanti vedono le loro eredità passate a stranieri e le loro cose soggette ad estranei ». Punizioni già tanto gravi, che la sorte di quei reprobi finiva con il muovere a compassione il pontefice (ora che gli sembrava che il Signore dovesse considerarsi, ex parte, placato) in favore della vedova e del figlio e delle figlie di Tancredi, l'antagonista defunto di Enrico VI, e gli faceva sollecitare la liberazione dalla prigionia in Germania e minacciare la scomunica e l'interdetto ove la supplica non trovasse accoglienza. A seguire la linea di interpretazione del papa, la tragedia di Sicilia non era conclusa; la pena di quelle popolazioni, colpevoli di avere goduto della felicità terrena e di essersene compiaciute,
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non era stata intieramente scontata; la vendetta divina non lasciava posto alla commiserazione dei superstiti. Per tempo ancora, avanti che rimanesse il mito di generazioni soddisfatte e che si perdesse la nozione del numero degli anni trascorsi, quella del « buon Guglielmo » sarebbe stata la stagione felice del regno e dell'isola di Sicilia: paradiso forse per colpa degli uomini forse per fatalità avversa comunque perduto. In termini concreti, e senza ricorso a riferimenti evangelici o biblici che allora, a meno che non venissero dal vertice della chiesa, facilmente potevano apparire blasfemi e ereticizzanti, degli anni di Guglielmo si sarebbero rievocate con nostalgia e rimpianto la pace, la tranquillità interna, la pacatezza del fisco. Il mito della Sicilia dei normanni, della sua laboriosa prosperità, del suo buon governo, nasceva già all'indomani del tramonto del loro dominio: vuoi dagli spettri di una visione di apocalisse e di ultimo giorno, vuoi nella pacata aspirazione a recuperare un modo di vivere che rendesse accetti i giorni dell'esistenza. È nella natura degli uomini rimpiangere le « cose che potevano essere e non sono state », e non meno consono nella miseria il rifugiarsi « nei tempi felici ». Si è tentati di interpretare in questa chiave la nostalgia delle generazioni che nel secolo XIII rimpiansero a vagheggiarono gli anni e il governo di re Guglielmo « di buona memoria », e la rievocazione suggestiva e talora appassionata che nella storiografia è stata riservata all'età dei normanni: stagione perduta e non ripetuta. In sé la realtà non mediocre di quegli anni non meritava né la condanna per l'eccessiva compiacenza e del lusso e della lussuria, né l'esaltazione di uno Stato nel quale fosse gloria del principe la felicità dei sudditi. Quel re « di buona memoria » non era stato uomo che avesse gusto e pratica della lascivia o pure compiacenza della potenza di sovrano. Chi lo conobbe, e chi ebbe sentore del suo modo di vivere e di sentire ne ha lasciato altro tratto. Assillato dal problema minuto ma non mediocre di avere una compagna che ne svegliasse i sensi e gli desse figli ed eredi, stiede a vagheggiare la sposa greca e sperò in quella inglese: forse la prima, di cui rimase vana l'attesa, nell'illusione di un miracolo di eros che venisse dall'oriente, e nell'altra, con la quale visse, illudendosi nell'incontro del sangue comune. E nel dramma dell'uomo si combinavano, le ambizioni del monarca e i suoi atti; fosse la guerra contro il basileus per acquistare territori e titolo, magari lasciando
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il regno siciliano 2 ; fosse la elevazione del monastero benedettino dell'arcivescovado di Monreale. Ma non è tanto nel calice delle sofferenze dei singoli che a noi interessa guardare. Lasciamo le schiave greche affascinanti o meno, giovani o nel declino degli anni, che filavano con l'artificio del loro paese e nelle quali non papa Innocenzo, ma qualche musulmano con la sensibilità e la fantasia del suo ceppo vedeva le donne, tutte o parte, dell'harem del re del quale sulla sponda opposta la pia cronachistica si sarebbe compiaciuta riferire che mai egli si accostò per sesso alla legittima consorte senza aver prima recitato la preghiera. Lasciamo le difficoltà, i travagli degli uomini (pagi musulmani e cristiani, feudatari e ufficiali) che in quella corte servirono con alterna fortuna: secondo la grazia del re e lo spazio che la religione, l'etnia, lo stato sociale loro consentivano. All'indomani della morte di Guglielmo II, un anonimo che non poche comunanze stilistiche e lessicali inducono a identificare con il Falcando e che certi tratti e le evidenti traslazioni dal greco in latino e il procedimento espositivo segnalano aduso alla lingua greca (forse l'ammiraglio Eugenio, noto per le alterne vicende nel giro di corte e per l'opera poetica), questo anonimo scorgeva tra gli ostacoli alla valida difesa del regno contro Enrico il tedesco, al di là delle simpatie e delle antipatie pericolose, dei sentimenti e dei risentimenti, delle variegate ambizioni e delle repulsioni personali, il « dissenso » fra regnicoli dell'isola e del continente, fra cristiani e musulmani. Sia stata la lettera scritta proprio in quegli anni e rimasta sostanzialmente immutata post facta, sia componimento posteriore al trapasso dai normanni agli Svevi interessa qui come le contraddizioni, i contrasti non sanati fossero palesi agli attori e ai succubi di quegli avvenimenti (almeno i più sensibili e accorti). Le differenze fra Sicilia e continente nei 60 anni trascorsi dai successi e dalla incoronazione di Ruggero II alla morte di Guglielmo II non erano state colmate. Non si trattava tanto di gelosie, di velleità, di rivendicazioni o di orgoglio per la sedes regni. Al fondo c'era la diversa composizione, per origine, per inclinazioni, per mentalità preesistenti, nell'isola e nella penisola entro la feudalità, che era classe di potere effettivo a livello periferico e ambiva condizionare quello centrale. Diversità di caratteri e di inclinazioni che sussistevano, semmai esasperate (nella penisola non c'era il problema musulmano) nei ceti medi implicati nell'amministrazione ai diversi gradi, e lare
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gamente partecipi nella vita economica. Pure la gerarchia ecclesiastica aveva tra Sicilia e continente agganci e, all'occasione, motivi di orientamento divergente. E perché la capitale e i centri vicini accoglievano gli uomini del clero che riuscivano a distinguersi o ad essere presentati quali più iigi e più utili alla dinastia, e perché l'esercizio della Apostolica Legatia dava ai monarchi, ai quali spettava l'elezione e il conferimento, il controllo delle diocesi siciliane. Diffidenze e distacco tra parte insulare e parte -peninsulare del regno, se erano complicati da umori e da interessi di persone, erano eccitati da ingerenze e da apprensioni dall'esterno, ancor se non nuove, esasperate implicazioni varie: dall'imperatore d'occidente, dal papato romano vigile e diffidente fino all'intransigenza nei confronti degli Staufen, dai comuni dell'Italia centro-settentrionale che sapevano non chiusa la partita sulle loro autonomie, dalla Francia o dall'Inghilterra non sorde ai timori di una condizione di egemonia effettiva accompagnata dalla professione di funzioni universali, dall'impero d'oriente che la consapevolezza della propria fragilità rendeva cauto e attento, e dai reami iberici ove lievitavano spinte commerciali pronte ad accompagnarsi all'interessamento politico. Contrasti interni e stimoli esterni si combinarono a mettere in discussione il piano predisposto per la successione di Guglielmo II: la trasmissione a Costanza zit del re, e cioè in pratica la assunzione del potere da parte del giovane sposo Enrico e di fatto l'unione fra impero e regno di Sicilia. Tancredi, bastardo di Ruggero zio di Guglielmo II e conte di Lecce, messo avanti e incoronato sulla presunzione della continuità dinastica, per 4 anni impedì a Enrico VI di insediarsi nel regno. Morto Tancredi (febbraio 1194), attorno alla vedova e ai figli minori si allargarono i vuoti cl e sogliono farsi attorno alle parti che si profilano perdenti. E mentre Enrico riusciva ad annodare le fila di preziose alleanze (Genova approntò la flotta necessaria alla campagna in un paese che si distendeva sul mare), molti si ricordarono del sangue dei re normanni che scorreva nelle vene di Costanza imperatrice. Il Natale del 1194 Enrico entrava in Palermo. Alla vedova di Tancredi, Sibilla, e ai figli toccarono prigionia, esilio, la tarda commiserazione del pontefice. Avanti la proclamazione di Tancredi a re, la notizia della morte di Guglielmo II e il vuoto di potere che si verificò fecero esplodere il
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u dissenso » fra cristiani e saraceni. Si rinnovarono le eccitazioni per cui nella crisi degli anni di Guglielmo I a Palermo i cristiani si erano gettati sulle botteghe e sui magazzini dei saraceni e nella parte orientale dell'isola i lombardi avevano fatto strage di musulmani. Questa volta, se i più tiepidi parvero rassicurati dalla elezione di Tancredi, la maggioranza dei musulmani non fu acquietata né con una rinnovata, ancor se più fragile, imposizione di convivenza né con la repressione. Se parte dei musulmani fuggiti si convinsero a rientrare in Palermo, i territori dell'archidiocesi di Monreale e quelli del vescovado di Girgenti — di fatto l'ampia fascia del Val di Mazara dalle porte di Palermo ai dintorni di Agrigento — rimasero fuori ogni controllo e ogni disciplina che non fosse quella dei gaiti musulmani. Non mancarono, da allora, contatti e scambi dei musulmani in rivolta con quelli di Africa nella speranza del recupero all'Islam; e non furono assenti avventurieri cristiani che profittarono delle circostanze lucrando col commercio di armi o altri che posti al bando per gravi reati trovarono rifugio e cercarono spazio tra i rivoltosi. La pacificazione e il ritorno alla normalità non vennero neppure dall'avvento di Enrico VI e dalle prove di spietato rigore che il sovrano diede, a punizione e ad ammonimento, già nella prima e breve presenza in Sicilia, quando fece giustiziare alcuni fra i sostenitori più vivaci di Tancredi e altri, orrendamente mutilati, trasferì prigionieri in Germania. I due anni circa di reggenza di Costanza non valsero a ridare tranquillità, turbato come era il regno, anche a livello di feudalità e di gruppi di potere, dal contrasto fra i nativi (specie i superstiti della aristocrazia normanna di ceppo e di origine), che trovarono punte di riferimento e lusinga di sollievo nella regina, e i tedeschi che Enrico aveva lasciato o mandava nel paese. La rivolta del maggio-giugno 1197, quando l'imperatore appena tornato nel regno fu sul punto di esser preso prigioniero e la regina Costanza fu sospettata di essere connivente se non proprio l'organizzatrice, diede luogo a repressioni efferate che, avanti di essere interpretate quali segni della collera divina nei confronti della lunga rilassatezza dei siciliani furono presentate e deprecate dal pontefice quali manifestazioni di furore inumano e impietoso. Fu quella veramente la eliminazione della feudalità siciliana, legata per l'origine e per sentimenti al regno normanno; ma non
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mancarono di essere colpiti gli uomini dell'amministrazione. Alla repressione non segui la riorganizzazione. Nel settembre dello stesso anno 1197 Enrico VI chiudeva la sua non lunga esistenza, in Sicilia. Costanza assunse la reggenza per il figlio Federico che ella aveva dato alla luce meno di quattro anni avanti sulla piazza di Iesi nel tentativo, risultato controproducente, di dissipare maldicenze e sospetti per la imprevista gravidanza, assicurando almeno che a partorire era lei. Ella, che doveva destreggiarsi fra siciliani e tedeschi quando già la reggenza di una donna si sapeva, per esperienza recente e locale, sollecitazione alle irrequietezze, sopravvisse poco più di un anno. Nel clima di apprensioni, di incertezze, di turbolenza insieme, ancora una volta i musulmani abbandonarono la capitale, per timore, credibilmente, più che per gusto di rivolta. Costanza aveva lasciato la tutela del figlio al papa. Ragioni storiche e di diritto (il regno era considerato feudo della chiesa, per le concessioni che risalivano al Guiscardo e a Ruggero II) si combinavano a motivi pratici e attuali: il piccolo Federico doveva essere difeso, nelle intenzioni della regina siciliana di nascita e normanna di sangue e soprattutto nei confronti dei tedeschi. E in quel 1199 che seguì la morte di Costanza, proprio Marcovaldo di Anweiler e Dipoldo di Vohburg, fra i più fedeli al loro sovrano ma anche fra i più irrequieti tra quanti erano scesi al suo seguito, tentarono di impadronirsi della capitale e cercarono l'alleanza con i saraceni mobilitati nelle alture dei dintorni di Palermo. Ebbero pure il concorso di un Ottone di Lariano e di Guglielmo Grasso da Genova venuto al seguito di Enrico e gíà onorato della carica di ammiraglio e di un nutrito contingente di pisani (si scrisse in numero di 500). Turbolenze, squilibri, carenza di potere che, ancor dopo la morte dell'irrequieto Marcovaldo (1202) accompagnarono la minorità di Federico II, conclusa nel 1208, piuttosto precocemente, a 14 anni, non molto appresso la liberazione della « custodia » nella quale si trovò ad esser tenuto da parte di un altro degli uomini venuti al seguito di Enrico, Guglielmo Capparono; sul quale questa volta, nell'incrociarsi e combinarsi di atteggiamenti e di posizioni non insolite in tempi di confusione e di perturbazione, aveva svolto opera di persuasione Dipoldo di Vohburg rappacificatosi con la chiesa e con le ragioni ufficiali del giovanissimo re. L'uscita di minorità
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da parte di Federico coincise peraltro con la recrudescenza delle aggressioni dei musulmani. Al di là dei fatti più appariscenti, la grave e lunga « perturbazione » risulta da avvenimenti di ogni giorno, da quei fatti di cronaca la cui somma e la cui intensità danno il clima della storia. Nella cronologia del vescovado di Girgenti compilata poco dopo la metà del secolo XIII, si legge che Urso (o Ursone), vescovo dal 1191, fu « preso dai saraceni e incarcerato nel castello di Guastanella e fu riscattato per 5000 tari ». Probabilmente il compilatore aveva presente un documento del giugno 1250: le testimonianze addotte in una inquisitio sulla chiesa di S. Maria di Rifesi compiuta dai reintegratori sopra il demanio dei feudi e i beni delle chiese nominati da Manfredi. Un primo teste, Bartolomeo di Agrigento, dichiarava di aver visto un atto avanti che fosse andato perduto « nel tempo delle guerre in cui dominò Ursone vescovo di Agrigento per tre volte fu destituito ed allontanato dalla chiesa di Agrigento: la prima da parte dell'imperatore Enrico perché si diceva che era figlio del re Tancredi [ rispettosamente, ma non troppo, nel Libellus Ursone è detto ` sconosciuto alla chiesa, della corte di re Tancredi ' ] ; la seconda dal conte Guglielmo Capparono che allora era signore di Agrigento, perché il detto vescovo non gli voleva prestare giuramento di fedeltà; la terza al tempo del signore nostro imperatore Federico di veneranda memoria fu preso dai saraceni e detenuto nel castello di Guastanella per 14 mesi. E così nel tempo sopra detto la chiesa agrigentina fu spogliata tanto dei privilegi che dei suoi beni, e i saraceni tenevano anche la chiesa, il campanile e le case della chiesa, espulsi e scacciatine tutti i chierici e i cristiani, tanto che nessun cristiano osava andare alla chiesa a battezzare ». La deposizione testimoniale continuava: « So pure che durante le guerre in diversi tempi, dagli anni del re Guglielmo fino ai felici tempi del signor nostro re Manfredi, né il vescovo di Agrigento, né alcun nunzio poterono andare sicuri sino alla detta chiesa di S. Maria ». Un altro teste, Simone di Traina, ricordava le guerre nei valli di Mazara e di Agrigento, per le quali nessuno usciva dalle località di residenza neppure per andare a coltivare campi e vigne « per il timore dei saraceni ed anche dei cristiani ». Altro teste, il prete Salamone, « disse che dopo la morte di re Guglielmo vide il vescovo Ursone scacciato dalla chiesa soffrire persecuzioni
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militari e la chiesa presa dai saraceni e dalla moglie del conte Bernardino in litigio con il medesimo vescovo e spogliata del suo tesoro » 3 . La confusione, la guerriglia nel territorio dell'arcivescovado di Monreale ebbero rappresentazione in alcuni atti di Innocenzo III, tutore di Federico. Nel novembre del 1199 in una lettera indirizzata « ai nobili uomini, conti, baroni, cittadini e a tutti i residenti in Sicilia » il papa premetteva alla comunicazione dell'invio di un « numeroso esercito » comandato dal cardinale del titolo di San Lorenzo in Lucina legato della Sede apostolica accompagnato dai vescovi di Taranto e di Napoli, la narrazione dei fatti che avevano motivato l'intervento e le ultime notizie di Marcovaldo accusato di congiurare non contro il regno di Sicilia, ma contro quasi tutto il popolo crisiano. Marcovaldo, trascinando Dipoldo e il fratello e i di lui fautori, aveva voluto rinnovare « l'eccidio di tutto il regno » (e questa era occasione al pontefice per ricordare le stragi e le distruzioni degli anni di Enrico). Il papa allora aveva scomunicato Marcovaldo e insieme Dipoldo, Ottone di Lariano, Guglielmo Grasso (« pirata, predone, rapinatore, non già ladruncolo di mare ma ladrone ») e i loro fautori e seguaci, e aveva sottoposto ad interdetto ogni terra in cui avesse preso stanza alcuno di essi. Di più Marcovaldo si era alleato con alcuni saraceni e — scriveva il pontefice — « già ne arrossò le fauci di sangue e le donne cristiane catturate a forza espose alla loro voglia ». Non mancava da parte del papa un rilievo che era consiglio di comportamento prudente. « Per quanto vogliamo che i saraceni rimangano in fedeltà del re, e vogliamo rispettarli e mantenere e accrescere le loro buone consuetudini, tuttavia non vogliamo né dobbiamo sopportare che essi macchinino con Marcovaido la rovina del regno ». Comunque, dal momento che Marcovaldo non potendo prevalere con i cristiani cercava di opprimere i cristiani per mezzo dei saraceni, il papa concedeva a quanti muovevano contro di questi il perdono dei peccati che spettava a chi andava in difesa della Terrasanta (e voleva chiarire che non era una decisione arbitraria, questa: « attraverso la Sicilia più facilmente si può dare aiuto alla Terrasanta; e — che non avvenga! — se essa dovesse cadere in potere dei saraceni, non rimarrebbe più speranza di recupero della provincia gerosolimitana »). E la minaccia di pesante intervento il papa rivolgeva ai saraceni di Sicilia in un appello a loro rivolto, in cui il ritratto
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del « turpe » Marcovaldo si combinava al ricordo dei « benefici » che essi avevano ricevuto dai re di Sicilia e della « mansuetudine » della chiesa cattolica. Marcovaldo e i suoi fautori, fra eui un certo numero di pisani, furono sconfitti alcuni mesi appresso, nell'estate del 1200; e a farne il resoconto al pontefice fu questa volta l'ar civescovo di Napoli. Papa Innocenzo continuò a ritenere il nemico più temibile, nelle parti del regno di Sicilia, Marcovaldo; e con lui rifiutava ogni eventualità di accordo, mentre insisteva nell'alternanza di minacce e di lusinghe nei confronti dei musulmani. L'arcivescovo di Monreale faceva pervenire lamentele sul comportamento dei suoi monaci al papa. Questo dava ascolto all'abate-arcivescovo, e in una lettera minacciava i monaci di scomunica se non avessero chiesto scusa e non avessero fatto atto di riparazione di tutti gli eccessi. I monaci dei territori di Monreale, Giato e Calatrasi — a stare alle accuse che Innocenzo recepiva — ribellatisi tenevano questi castelli, e « vivevano in lussuria ». Di più: avevano giurato una prima volta al « cancelliere » (Gualtiero di Pagliara dei conti di Manoppello vescovo di Troia, personaggio fra i più interessanti, e ripetutamente in primo piano finché la sua intraprendenza non urtò contro la matura volontà di Federico II e la duttilità più non gli valse), la seconda a Marcovaldo « di dannata memoria », e la terza a Guglielmo Capparono, e contro il giuramento prestato avevano rivelato un segreto che doveva essere custodito con ogni cautela (e da qui sembravano al papa provenire tutti i mali perpetrati da Marcovaldo a Palermo e quelli ricaduti sulla Sicilia). Ancora, trafugato il tesoro della chiesa, quei bravi monaci avevano assediato il vescovo per un mese e più, senza successo, e poi avevano portato dalla loro parte per danaro Guglielmo Capparono, che avevano eccitato a prendere, tormentare e mutilare gli uomini dell'arcivescovo e a farne andare esuli amici e consanguinei, corrompendolo con l'offerta alla moglie di coppe di argento e dalmatica de bulla del valore di più di mille tarì (queste mogli avevano un loro posto, con la smania e la cupidigia di lucro: a Monreale come ad Agrigento). Avevano poi i monaci, l'anno avanti, fatto prendere presso Messina e torturare i nunzi dell'arcivescovo che si recavano dal papa. Anche, « con cupidigia rapacissima », avevano convertito in loro proprietà contro la regola di S. Benedetto le dipendenze, non riservando nulla all'arcivescovo o lasciandogli ben poco dei 10.000 tarì dei redditi annui
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della mensa. Ma non bastava tutto questo: gli ineffabili monaci, a quel che il papa ripeteva, avevano svuotato il sepolcro del precedente arcivescovo e ne avevano sottratto gli indumenti. Solo nel 1206 il papa poteva compiacersi con l'alcade e i gaiti di Entella, Platano, Giato e Celso, e cioè delle rocche ove maggiori erano state le irrequietezze, e con tutti gli altri nell'isola, perché non erano più receduti dalla fedeltà al giovane re, e invitarli (ne era sempre il caso) a perseverare assicurando che ne avrebbero ricevuto premio. Ma ancora nel 1208, quando fu riconosciuta a Federico la maggiore età, i saraceni erano in rivolta; e il primo documento in ordine di tempo, tra quelli a noi pervenuti, sugli interventi del re nei confronti dei musulmani del territorio di Monreale è la licenza data dall'arcivescovo Caro di prendere, ovunque fossero, quelli che rifiutavano di ottemperare alle obbligazioni cui erano tenuti. Documento cui stanno accanto ordini di revocazione di villani e di borghesi e che quanti avevano beni nel territorio, ovunque fossero, anche in Palermo, giurassero fedeltà al vescovo « come fanno i borghesi che abitano presso Monreale »: un periodo di accostamento e di buone relazioni tra imperatore e arcivescovo non senza il concorso dell'interesse comune alla sottomissione dei musulmani 4. La sottomissione che non venne allora, e non seguì neppure prontamente il ritorno nel regno di Federico, cresciuto di anni e di esperienza nel riacquisto della Germania, e da poco coronato imperatore, non fu risultato immediato della politica di riassetto dello Stato che trovò espressione nella costituzione De resignandis privilegiis (maggio 1221). Seguì invece lo scontro con i musulmani del Val di Mazara (giugno 1221); e l'anno dopo (1222-1223) la campagna che portò all'espugnazione di Giato e alla cattura e all'impiccagione di « Mirabetto », e fra gli altri, di alcuni saraceni non regnicoli e di due avventurieri, il genovese Guglielmo Porco e il marsigliese Ugo Fer avverso i quali fu per lungo tempo ripetuta l'accusa infamante di avere venduto ai musulmani d'Africa schiavi cristiani; e seguì, nel 1223 il richiamo dei musulmani, con la minaccia e con la forza, « ai luoghi più bassi e alle pianure » (come Federico si compiaceva comunicare, in luglio, al vescovo di Hildesheim) 5 e la prima deportazione in massa fuori dell'isola, in Puglia. La spina musulmana non fu allora tolta; e Federico ebbe a soffrirne fino agli ultimi anni della sua esistenza; e Giato e Entella rimasero al centro della resistenza continuata e
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della aggressività ripetuta. Nel 1224 forze regie attaccarono Malta; nell'aprile del 1225 l'imperatore — a stare alla Chronica di Riccardo di San Germano — convocò i baroni e i militi per combattere i saraceni in Sicilia. Nel 1229, al rientro dalla crociata, Federico mandò di nuovo ad attaccare i musulmani che controllavano i territori di Giato e di Entella. Né si verificò lo scontro, né si arrivò a soluzione concordata. L'imperatore tentava le diverse vie: promesse e inviti a lasciare i territori montani, deportazioni nel continente, arruolamento nell'esercito. Nel '43 le ostilità si riaccesero. L'atteggiamento di Federico fu persistentemente condizionato dai suoi impegni, nell'oscillazione tra l'affermazione dell'egemonia imperiale e l'assillo di sopravvivenza. Nel marzo del '46 Federico fu messo a conoscenza della congiura che aveva tra i promotori Tebaldo Francesco, Andrea Cicala capitano del regno, Pandolfo di Fasanella, Guglielmo di San Severino, Giacomo de Morra, personaggi che « avevano tenuto i primi posti nella curia imperiale », e che, scriveva non senza enfasi maestro Terrisio, nell'occasione portavoce della corte, « il signore imperatore aveva portato su come figli e dal fondo della povertà li aveva innalzati tanto in alto e di tanto affetto li aveva circondati che nessun segreto del principe era loro chiuso, e ad essi egli affidava i più elevati affari del regno come a propri figli e, quel che è di più, li aveva scelti custodi della propria vita e nel grembo di essi aveva posto il proprio capo » 6. Oberto Fallamonaca, musulmano convertito almeno ufficialmente, il quale da anni teneva cariche di alta responsabilità soprattutto nel settore finanziario, e che era stato più di una volta inviato ambasciatore in paesi musulmani, era rimosso, nel 1246, dall'ufficio di maestro camerario nella Sicilia citra Salsum, e usciva dalle scene egli pure '. Più tardi, nel 1249, anche Pier delle Vigne, il dotto giurista e primo artefice dell'imponente opera legislativa consigliere fra i più ascoltati da Federico, finiva vittima dei propri intrighi o della « invidia » che « della corte è vizio », comunque dell'atmosfera di sospetto, della diffidenza che alimentavano nell'imperatore la delusione e l'esperienza che anche i più fidati in apparenza potessero intessere trame all'interno e mantenere collegamenti con i suoi molti e potenti nemici esterni $. L'attacco ai territori e alle rocche occupate dai musulmani avvenne in questo clima. O che le forze regie ottennero rapidi vantaggi che sembrarono decisivi, o che ritenesse utile ostentare sicurezza e vantare successi, nel luglio
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del '46 l'imperatore annunciava ad Alfonso, primogenito del re di Castiglia, che i musulmani, i quali in ribellione « erano saliti alle montagne », avevano fatto sottomissione ed erano scesi in pianura e che il figlio Corrado aveva ottenuto una forte vittoria sul margravio di Turingia. Ma nell'agosto l'imperatore rivolgeva ai saraceni l'invito ultimativo a scendere dalle montagne in pianura entro il mese; nel novembre scriveva, questa volta a Ezzelino da Romano, che, costretti i musulmani a lasciare le alture, non aveva più motivo di differire il ritorno nell'Italia settentrionale 9. Se nella Sicilia al di là del Salso il travaglio continuo, e più duro, fu costituito dall'impatto con musulmani, nella orientale confusione e perturbazioni furono allo stato cronico durante la minorità e nei primi anni di regno di Federico, con episodiche riprese acute negli anni successivi. Disgregazione amministrativa, intemperanza, velleità, riottosità vengono anche qui messi in risalto, oltre e più che dalla cronistica attenta e sensibile ai fatti macroscopici e clamorosi, da episodi sintomatici. Il vescovado e la città di Catania attraversarono peripezie solo in parte legate alla partecipazione agli eventi più drammatici. Nel 1195 il vescovo, coinvolto nella congiura contro Enrico, fu deportato in Germania; e l'abitato pare abbia subito danni consistenti 1p. Nel marzo del 1213 la reggente Costanza, moglie di Federico, con il figlio Enrico, nel confermare al vescovo il castello di Calatabiano acquistato per 15.000 tari, ricordava le vessazioni che la chiesa e i borghesi di essa avevano sofferto prima da parte del conte Pagano e poi del conte Gualtiero de Parisio, il quale ultimo era stato spogliato dei beni e dei possedimenti, fra i quali era proprio Calatabiano, per avere osato prendere le armi contro il re. Si aggiungeva che il castello era passato al conte Arnaldo, il quale voleva venderlo e intanto ostacolava la prestazione del servizio dovuto 11. L'« aggressione » non era avvenuta lungo tempo avanti, se nel 1209 Federico, da poco dichiarato maggiorenne, concedeva ai templari di Messina in marzo il casale Murra in territorio di San Filippo e in agosto il mulino « de Salinis » presso Paternò e altri beni, entrambe le volte a richiesta del conte Pagano 12 Erano ancora gli anni in cui Siracusa era tenuta, a dispetto di molti e particolarmente della monarchia, prima dai pisani poi da Alamanno da Costa, che si dichiarava conte della città per il comune di Genova.
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Nella Sicilia orientale nel 1232-33 si manifestò, non meno aspra che nelle montagne dell'ultra Salsum, la resistenza ai tentativi di restaurazione e di instaurazione di un governo efficiente da parte della monarchia dalle tendenze spiccatamente accentratrici, e di sistemi fiscali e di controllo coerenti con queste inclinazioni. Baricentro e protagonista infelice Messina, si ribellarono numerose terre. Protagonisti e attori della rivolta messinese furono puniti con durezza che ricordò le efferatezze e le repressioni di Enrico VI; Troina, Montalbano, Centorbi, Capizzi furono distrutte. Agli abitanti delle due ultime località fu ingiunto il trasferimento a Palermo: decisione intesa forse a disperderli entro il largo contesto cittadino, e più facilmente (andarono a popolare la rua che prese nome delle due terre) volta a colmare nella capitale i vuoti lasciati dall'esodo dei musulmani. Non mancarono, nelle irrequietezze striscianti, accanto alle proteste per le esosità che si lamentavano da parte del fisco, le stimolazioni dei vari e potenti nemici esterni. Nel marzo del 1240 Federico invitava il giustiziere della Sici li a citra a indagare se effettivamente Vinito di Palagonia era stato colpevole quando « la terra di Lentini giurò al papa » e se « nella presente discordia » dava in « ingiurie » contro di lui, l'imperatore. Se le accuse fossero risultate vere, Vinito doveva essere cacciato dal regno, i beni ne sarebbero dovuti essere confiscati, e si sarebbe dovuto procedere contro i congiunti u Allo storico si impone distinguere fra le norme e le disposizioni e la esecuzione che ne fu fatta, se mai lo fu. Perché le norme rappresentavano indirizzi e intenzioni e non sempre ebbero la applicazione, e talora non valsero neppure a frenare inclinazioni in contrario. La grande pace che Federico avrebbe voluto dare al regno e all'isola, la volontà di restaurare l'ordine espressa nelle costituzioni del '20, del '21, del '31 e in quelle che seguirono mano a mano, non trovarono applicazione, né costante né cospicua, e più spesso eccitarono renitenze. Con cautela ancora maggiore occorre leggere le professioni che emergono dai documenti della corte sveva. Sarebbe quanto meno ingenuo lasciarsi prendere dalle espressioni di affetto per il paese, di sollecitudine per gli abitanti. Magari, alle volte, non si trattava di manifestazioni; c'era però la sollecitudine sincera di chi aveva raccolto dagli avi siciliani l'esempio di una certa cura dei propri sudditi. Ma a questa attenzione per i « soggetti », fossero siciliani o regni-
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coli del continente, italiani o tedeschi, Federico, dagli anni in cui, raggiunta la maggiore età, lasciò l'isola per procedere al recupero della eredità di parte paterna, sovrappose la convinzione del diritto-dovere della restauratio imperii con le implicazioni che comportava. Federico portò, quanto mai altri, elevato il nome della Sicilia della quale aveva titolo di re, in tutta Europa, ma dalla Sicilia egli fu lontano, dopo i 14 anni, anche fisicamente. Le sue presenze nell'isola furono pressoché episodiche, legate per solito alla necessità di rimettere ordine. Palermo vide poco la corte, e durante la reggenza di Costanza sede preferita fu Messina. Federico, continuativamente impegnato nelle guerre dell'impero, finì con il creare una sorta di corte mobile che, quando nel regno, si fermò più di frequente fuori la Sicilia 14 Contemporanei ai provvedimenti legislativi si svilupparono, fino e oltre il 1231, l'anno delle costituzioni di Melfi, quelli fiscali: ne vennero le tasse nuove, la invadente presenza e poi il monopolio della curia nei commerci e nelle produzioni di prima necessità e di più larga resa 15 . Con il passare degli anni le collette diventarono più frequenti, perché la corte era sempre più indebitata, ed era sempre maggiore il bisogno di somme per pagare i debiti e gli interessi che gravavano sui mutui contratti fuori del regno, e perché la guerra restava dura e su più di un fronte, dalla Germania all'Italia; e le minacce erano gravi e le apprensioni molte, e ormai la guerra non pagava più la guerra. Mali avanti mediocri diventarono perniciosi: la pirateria si allargava, le coste e la navigazione erano insicure, e c'era timore che lo diventassero sempre più per la fragilità delle alleanze e per la pesantezza dei dissensi con le città che disponevano di flotte potenti, e questo timore imponeva grosse spese per la flotta e per la difesa delle coste. Si profilavano nuove minacce e vicine: Federico stesso ebbe a manifestare apprensioni per l'avanzata dei tartari in occidente. Gli anni di Enrico VI, della minorità di Federico, l'irrequieta vicenda dell'imperatore, segnano la frattura di una condizione di temperato impegno all'esterno, di quiete imposta all'interno, della abituale compenetrazione che almeno sotto certi aspetti, e con angolazioni discutibili, si era manifestata tra i normanni e il paese che essi avevano conquistato e del quale non avevano tardato a sentirsi naturali figli oltre che legittimi signori. L'equilibrio e la tranquillità, l'ordine, rotti alla morte di Guglielmo II,
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non furto.),) recuperati dalla pur solida e volitiva azione del sovrano. Là „',visione che Federico aveva del potere segnava, è vero, supeia1 ento netto della pratica meramente autocratica e ».n della correzione strettamente patrimoniale e strumentale dello Stato. I. (ut il potere era nobilitato da convinzioni alle quali era fina0.zz4ta l'azione. Ma queste finalità erano estranee al regno di. Sici1i , „^^l quale finiva con il rientrare tra i mezzi al fine. La rottura pur contraddittoria compenetrazione fra paese e dinastia ,- 4izzata sotto i normanni tanto meno fu sanata alla morte ci :e ."imperatore. Ancora una volta l'erede del regno era giovanis$ii o) e per di più era lontano, nella Germania degli antenati, e ,: ; le ambizioni, le opposizioni interne ormai fittamente si combir_i'ano e si intersecavano con i grandi e gravi problemi che investivano l'assetto tutto dell'Europa e del Mediterraneo. Maa^Ffi:li, figlio naturale di Fedèrico, non poteva, nella qualità di bai.,'P..'10 del successore legittimo Corrado IV, rinunciare alle incli?^.aziòri, agli impegni, alle posizioni di prestigio, che si identif!.r_avanò c on gli Staufen. Il disegno di chiudersi nel regno, e il regno `l?i -;;Aere in se stesso, ignorando e scavalcando i diritti di Corrado, -, äppur facilmente realizzabile per la presenza di milizie tedesche cl,e Bertoldo di Hohenburg guidava magari con certa disinvolta ''uttilità, se si confaceva alla personale ambizione di Manfredi; peraltro non sembra sia stato scortato dalle conce- l?e zioni poltio-ideologiche e dalle velleità universalistiche del padre, trovò osta ! f:lo nella diffidenza della curia romana e nella spinta degli i.nt r'P dsi che, al livello generale e in quelli locali, convergevano vris Roma e verso gli Svevi di Sicilia. L'atmosfera incerta per eccitarle delle controparti esterne, e soprattutto del papato se*n.pre s a ,gestivo sul piano etico e religioso e attivo e potente anche per i'I richiamo cui il clero cattolico di qualsiasi paese non poteva ria nere al tutto sordo e per la vivacità propagandistica che manifercavano ordini giovani (mendicanti, predicatori), tenne il regno üŸ gtato di confusione. La Sicilia, in particolare, fu defilata dall'óhita di Manfredi, per il vicariato che Pietro Ruffo esercitare senza intermediazioni in nome di Cordichiarava rado TV é !i;he in secondo tempo cercò di mantenere per conto del papa-ï: defezione del Ruffo confermò di fatto l'abbandono della. Siciljoli e di Palermo quali centri del regno e sede della corte. Essa. pure assorbì entro l'isola le spinte di insubordinazione e di ' +tolleranza perdurate nel regno nei due anni e mezzo
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(gennaio del '52 - maggio del '54) che Corrado trascorse al recupero dell'eredità siciliana in una solerzia stimolata dall'urgenza di ritornare in Germania. Insofferenze e disagio comunque trovarono esplicitazione, nell'isola, in contrasti e rivalità degenerati in scontri fra città (la scelta di Messina a sede del vicariato esacerbava i palermitani che trovavano alleanza a Patti e Caltagirone, ma urtavano contro i cefaludesi più vicini). Contrasti che, anche se non erano frutto di trame del- Ruffo (« divide... » ), per qualche tempo lo aiutarono a mantenersi in sella. Poi, mentre il papa toglieva credito al vicario, inviando come legato in Sicilia il suo cappellano Ruffino di Piacenza, le diffidenze e le ostilità contro il Ruffo (pure quelle che trovavano riferimento nell'eredità siculo-sveva e in Manfredi che aveva ripreso le fila, malgrado il baliato fosse stato affidato da Corrado a Bertoldo di Hohenburg, e che a conclusione di una avventurosa marcia era stato accolto nel novembre 1254 a Lucera ove era depositato il tesoro del regno) coagularono in aperta ribellione. Questa, partita da Palermo, si allargò a macchia, investendo Polizzi e Nicosia, Mistretta e Castrogiovanni, Vizzini e Lentini, e nella costa Patti e Eraclea. Pietro Ruffo, sconfitto e abbandonato anche dai messinesi che lo avevano largamente sorretto, nell'ottobre del '65 lasciò l'isola. Palermo fu ripresa dopo che le truppe comandate da Enrico Abate sconfissero il vicario Ruffino (aprile 1256); Messina, ove nell'ottobre del '55 era stato nominato un podestà, il romano Iacopo da Ponte, cedette per esaurimento; all'interno rimasero alcuni focolai (Castrogiovanni, Piazza, Aidone si diedero a Federico Lancia nel settembre) attaccati, più che alle ragioni della chiesa, a certe linee di tendenza che trovavano espressione, sia pure indefinita, nelle amministrazioni municipali di cui il legato pontificio aveva stimolato la costituzione. Il recupero della Sicilia non segnò — è noto — la fine delle perturbationes che continuarono sfaccettate, episodiche e in fronti staccati, ancor se non erano assenti riferimenti comuni. La città imperiale di Aquila fu recuperata nel febbraio del '58. Nell'agosto Manfredi ritenne maturo il tempo per il grande passo: la incoronazione a re del regno che intanto il papa offriva a congiunti dei re d'Inghilterra e di Francia come cosa di propria spettanza. Irrimediabilmente ricondotto per queste vie all'eredità sveva e agli interessi che in Italia erano ad essa legati, Manfredi non riuscì a riprendere il nesso della tradizione normanna. Lo
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stato solido e organizzato, in rapporto ai tempi, capace se non di sanare, di imbrigliare inclinazioni e istanze divergenti, se non dispensatore di benessere neppure ostile esattore, guidato quasi continuativamente con vigile senso della realtà: questo il patrimonio del regno normanno che gli Svevi avevano professato dilatare, ma che, utilizzandolo per finalità e indirizzandolo verso mete che non si discerneva se erano volte più al passato non ripetibile che al futuro che si annunciava in , altro senso, avevano dilapidato. Le strutture del regno sotto gli epigoni svevi erano sempre quelle create dai normanni rinvigorite dal senso dello Stato affermato da un ambiente curiale ricco di cultura giuridica. Quei 7 anni in cui Manfredi « usurpò » il titolo di re furono di drammatico crepuscolo. Staccato dal paese reale, Manfredi resisteva per la sussistenza di talune impalcature, isolato com'era nei confronti della borghesia che, a prescindere dalla parte legata alla curia e agli uffici, non si era neppure riconosciuta nel suo padre e imperatore, e per la sussistenza della feudalità: quella antica e indifferente finché e perché mancavano alternative e quella tedesca mortificata e priva di riferimento dopo le ambiguità e la scomparsa tragica degli Hohenburg e pure aliena dall'immedesimarsi con un principe che usurpando il regno non aveva certo dato prova, né dava affidamento, di essere attaccato alle radici tedesche e" imperiali. Ancora, qui, episodi pittoreschi di cronaca hanno sapore di segni: in Sicilia, nel 1260, la rivolta isolata del tedesco Gobbano con l'uccisione di Federico Maletta fra i più validi esponenti della feudalità legata a Manfredi da parentela e affinità di inclinazioni; la sollevazione, nel 1261, attorno a uno strano personaggio che diceva di essere l'imperatore Federico II, mai morto, il quale nel marzo del '62 finì sulla forca a Messina; i flagellanti che diffondevano l'attesa e l'incubo dell'ultimo giorno; la duplice leggenda di Federico, il figlio della monaca e il figlio della vecchia, il figlio del beccaio e del demonio da un lato, il restaurator mundi dall'altro 16 La cronaca lascia alla storia la sensazione che, al di là dei terrori apocalittici, dell'attesa di straordinarie novità, fosse larga la insoddisfazione e netto il senso di provvisorietà e di caducità del regno. La discesa di Carlo d'Angiò, il fratello di Luigi IX di Francia, sollecitato e convinto dal pontefice, ruppe la fragile trama di forze in sé mediocri e che si paralizzavano a vicenda, di deboli equilibri pronti a sciogliersi come a ricomporsi,
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su cui poggiava il regno del figlio naturale di Federico. Bastò una breve campagna, e bastò un giorno di battaglia sui campi di Benevento a segnare, nel febbraio del 1266, la fine del re e il tramonto della dinastia sveva in Sicilia. Il Gtniscardo, i due Ruggero, avevano creato la loro fortuna e costituito il regno con tante virtù: fra queste la pazienza, l'accortezza nell'attesa del tempo opportuno. Ma forse Manfredi avvertiva che la ricerca del momento giusto era venuta da una forza svanita e non recuperabile da lui, fatta di adesione alle circostanze e di fiducia. Mentre la morte è una volontà di vivere perduta o piegata.
XII TERRE IN DECLINO E LUOGHI RIPOPOLATI I guasti « al tempo dell'invasione », per le « perversità dei tempi », per la « guerra », per la « passata perturbazione », per la « strage delle guerre », ricorrono nei documenti': testimonianze preterintenzionali, esenti da ogni grado, neppure il minore, di sofisticazione comune alle fonti narrative e ad atti che si sappia già destinati a costruire la trama della storia. Dietro queste evocazioni, si profilano le rocche vuote, e i territori pressoché deserti di Giato, di Calatrasi, di Entella, Platano, Battalaro... Gran parte dei borghi dell'arcivescovo-abate di S. Maria Nuova e di quelli contigui delle diocesi di Agrigento é di Mazara scomparvero dal novero degli abitati. La sorte fu condivisa dalla costellazione di casali di varie dimensioni nei q oli era già distribuita una popolazione che negli anni dei due Gugli lmo era in fase di crescenza e perché i musulmani vi cere van .riparo fiduciosi di trovare ospitalità e lavoro rispettato e perché ei cristiani era sollecitata la presenza. Dei distretti feudo dell'arcivescovado, nel declino degli Svevi, si era sottratta al decadimento Corleone, avvantaggiata dalla positura moderatamente collinare, dalla solerzia e dalla crescita dei cristiani già negli anni dopo I ii 1178, e dall'afflusso, negli avanzati anni di Federico, di una cospicua corrente di immigrazione 2. Il vasto territorio di Tiato rimase secolo XV scoperto o quasi di abitati e di culture finché nel non fu aperto ai greco-albanesi in cerca di nuova patr a. L' ampia fascia collinare che si dipartiva dai bordi di Pâr-inic , Alcamo, Castellammare del Golfo, Calatafimi, Salemi a guârc re verso mezzogiorno e dall'entroterra di Sciacca e Agrigento verso tramontana, aspettò per tornare ad essere popolata ancora più a lungo: la ()
colonizzazione interna dell'avanzato secolo XVI; ed anche qui nelle
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perturbazioni del sec. XIII, oltre gli abitati che davano nome alle terre, furono colpiti i casali, tagliando il tessuto di minute residenze che valeva ad avvicinare la campagna all'uomo e a legare più strettamente l'uomo alla campagna. Il travaglio non fu ristretto all'interno e ai piccoli e medi insediamenti. Ad Agrigento e a Mazara la decadenza, già lamentata dall'autore della Epistola a Pietro tesoriere, non ebbe riparo. Per entrambe le città la funzione dei porti fu ampiamente dimensionata pur se il Mazaro risultava uno degli approdi più sicuri e ampi; e se sul porto di Girgenti continuavano a gravitare Naro, Racalmuto, Bivona, Caltanissetta, Pietraperzia, gli abitati e i territori i cui prodotti, ancora in un documento del terzo decennio del secolo XV, i girgentini riconoscevano fonte di svanita operosità e perduto mezzo di sostentamento 3 . Le due città non furono nemmeno fra quelle designate dalla corte ad accogliere fondaci o case per le merci destinate all'esportazione. Palermo stessa mostrava segni crescenti di regresso. Gli esodi continuati dei musulmani costituirono emorragia aperta. Nella vasta striscia di periferia dalla porta di Termini verso e oltre la chiesa e l'ospedale di S. Giovanni dei Lebrosi, arricchita dalle acque dello Habes (l'Oreto) e dalle sorgenti del Gabriele, non c'erano più le abitazioni che erano parse circondare la capitale « come monile il collo di bella donna ». Dall'abbandono cercarono di sollevare questa fascia i frati dell'ordine teutonico, cui erano passati il monastero e la chiesa della Santissima Trinità, opera di pietà di Matteo d'Aiello, e che ebbero l'ospedale di S. Giovanni. Essi svilupparono qui una organica azione di ridistribuzione del terreno e di miglioramento delle colture con impianti di vigne attraverso contratti ad partem e soprattutto con cessioni in enfiteusi. Anche nel Seralcadio, il quartiere più vasto e che era stato il più popoloso, i vuoti erano grossi; molte abitazioni andavano in rovina. Nel 1239 i saraceni dei casali erano sollecitati a trasferirvi lo incolatum e stabilirvi le residenze, e quelli che vi risiedevano erano stimolati a migliorare le abitazioni. I risultati furono largamente al di sotto dello sperato. La questione saracena non era chiusa; e non erano molti fra i musulmani a ritenere che il trasferimento, o sia pure la prolungata permanenza, in città, fossero garanzia per i beni, senza pericolo per l'esistenza loro. Dopo gli scontri e la repressione del '46, in Palermo ci fu addirittura un ufficiale incaricato, per specifico
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mandato dell'imperatore, di assegnare le case abbandonate del Seralcadio. Questi, Gualtiero di Fisavola, qualcuna sicuramente la distribuì e ci fu chi ne prese a censo, e non dalla corte soltanto, nel Seralcadio, nel quartiere Galca e nello stesso Cassaro (e negli atti si parlava di casalina, rispecchiando più che un tipo di abitazione, la condizione di avvenuto deperimento). Si ritenne pure di colmare i vuoti imponendo il trasferimento a Palermo agli abitanti di Centorbi e di Capizzi colpevoli della rivolta del '33. Questi effettivamente lasciarono le loro terre, ma molti non ottemperarono all'ingiunzione (« se cum suis familiis per partes alias contulerunt »); e nel '39 l'imperatore su richiesta del giustiziere della Sicilia ultra mandava patenti in tutta l'isola perché gli uomini già residenti nei due abitati fossero costretti a recarsi a Palermo e i renitenti fossero puniti. Nel febbraio dell'anno successivo l'ordine fu rinnovato al giustiziere della Sicilia citra, nella cui giurisdizione si trovavano Centorbi e Capizzi. Anche se l'adempimento non fu né pronto né pieno, il trasferimento valse a dare nome nuovo, Albergaria Centurbii et Capicii, al quartiere a levante del Cassaro accosto il torrente Kemonia. Le porte di Palermo furono aperte pure agli ebrei forestieri, attendendone anche apporti in settori particolarmente qualificati, e attraverso l'alternativa di inviti e di resistenze, di accoglienza e di repulsione, di favori e di costrizioni, quale era del resto frequente da parte di Federico e del suo ambiente. Questi giudei del Garbo nuovi insediati in Palermo e in difficoltà con gli altri residenti ab antiquo (a quel che nel febbraio del '40 risultava a Federico, che si trovava in Sarzana, dalla relazione di Oberto Fallamonaca secreto nella capitale) avevano avanzato un certo numero di richieste. Alcune non sgradite all'imperatore, il quale non addiveniva a che fossero locati ad essi casalini, per costruirvi case, nel Cassaro vecchio, ma consentiva a che ne ricevessero idonei in altre parti della città 4 Non c'erano comunque le condizioni per colmare le falle aperte, nel tessuto demografico e in quello edilizio, dai guasti della rottura della convivenza fra cristiani e saraceni; mentre veniva meno alla città la presenza della corte, con le frequenze, i consumi, le iniziative che essa portava. Era venuta meno anche la fastosa architettura pubblica e privata, civile e religiosa, che pure sul piano economico e su quello sociale aveva avuto ampia collocazione. Palermo non fu più città fedelissima; il risentimento e .
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il malcontento trovarono manifestazione in ripetuti episodi di intolleranza, anche se non si ebbe la rivolta clamorosa. Dalla morte di Manfredi al Vespro, nell'accentuato deterioramento sotto la nuova dinastia, trascorsero appena 16 anni La Sicilia occidentale, ultra Salsum, secondo la ripartizione nei due giustizierati invalsa sotto gli Svevi, pur fra tante difficoltà, fruì di una condizione di vantaggio persistente: dai suoi porti l'esportazione di cereali continuava a svolgersi, senza difficoltà o segni di recessione. Palermo, da tempo sede di fondaci e di case, e poi Licata, Sciacca, Trapani con una casa ciascuno erano tra i porti designati all'esportazione nel 1231, con tutta credibilità, data l'attenzione che si rivolgeva al settore, con aderenza alle condizioni e alle esigenze di fatto. Nella Sicilia orientale erano Messina con 4 fondaci, Siracusa con 2, Maremorto con uno. E però Messina non aveva parte nell'esportazione di cereali, se non per quanto era richiesto dal naviglio in transita a costi superiori a quelli correnti nelle altre piazze nel persistere di problemi dell'approvvigionamento proprio della città; e nel giustizierato citra nel '40 i porti dai quali era concessa l'esportazione di vettovaglie erano Milazzo e Augusta 5 . In questo quadro avveniva il graduato decollo di Trapani (che quando scriveva Edrisi e quando vi passò Ibn Giobayr impressionava per la sottile suggestiva lingua sul mare nella quale si manteneva). Ad essa nel 1199 furono estese le esenzioni e le riduzioni negli scambi che privilegiavano Messina. Al di là della posizione complessivamente felice, Trapani si avvantaggiò allora perché defilata dalle perturbationes che investivano Agrigento, Mazara e Sciacca e non risparmiavano la stessa Palermo. La riduzione al comune denominatore latino qui, veramente, avveniva nella maniera di Creta, come era stato temuto da Ibn Giobayr: fatto dopo fatto, per allontanamento e per osmosi. La città, per altro, nei travagliati anni '40 accolse novi habitatores i quali, secondo quanto era stato riferito all'imperatore che dava incarico di indagare a Oberto Fallamonaca, erano costretti dal notaio assegnato all'ufficio del baiulo a versargli per ogni scrittura di concessione di terra 2 augustali in più dello spettante 6 . In questi anni attorno a Trapani fertile territorio ebbe Monte S. Giuliano. Ricostruita nei luoghi di Erice e ripopolata nel corso del '200 Monte S. Giuliano, polmone agricolo di Trapani, contava (a quel che si desume dagli atti rogati dal notaio Giovanni Maiorana) una comunità ebraica
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abbastanza attiva e una maggioranza di cristiani che, almeno da quel che possono rivelare i cognomi, era il risultato di una immigrazione interna molto varia (Trapani, Calatafimi, Alcamo, e poi Agrigento, Catania, Calascibetta, Golisano, Melilli, Geraci, Lipari, Lentini, Modica, Aidone, Mistretta, Sciacca, Caltavuturo, Giarratana, Piazza, Cammarata, Mineo, Sutera, Fisavola, Commicini, Polizzi, Castiglione, Caltagirone, e addirittura Augusta e Terranova) e di altra pur larga dall'esterno dell'isola (da Napoli, Salerno, Cosenza nei limiti del regno avanti il Vespro; e poi Tosco, Pisano, Lombardo a parte i numerosi Catalano e un certo numero di cognomi dell'area catalana che però è agevole fare risalire, i più, ad anni dopo il 1282, quando « l'amara povertà » spingeva in maggior numero e con facilità in Sicilia)'. Nelle perturbationes che si ebbero nella Sicilia orientale, ci furono abitati colpiti abbastanza duramente: « distrutti » alcuni, nel linguaggio abituale nella cronistica, che in fondo era aderente, solo che la ricostruzione era agevolata dalla rudimentale essenzialità delle residenze degli abitati ad economia accentuatamente agricola. Fu il caso, nel '33, di Montalbano e Troina, oltre che di Capizzi e di Centorbi 8. Il linguaggio dei documenti è meno indulgente alle iperboli, soprattutto fuori dai preamboli descrittivi o esplicativi. Un atto di Manfredi ricordava, nel riprendere in grazia quegli uomini, gli eccessi compiuti dai caltagironesi « nella distruzione del castello della stessa terra e nella presa e nella detenzione degli animali della masseria della curia » 9 Si era agli episodi conclusivi delle turbolenze del '55-56 che furono tra le più vistose in quei tempi. La questione saracena nella Sicilia orientale era già in via di risoluzione intorno al 1160: per l'attacco degli immigrati latini, dei lombardi, e le stragi, la fuga, la mortificazione del camuffamento e della conversione per terrore da parte dei musulmani. Non era mancato allora l'energico intervento della corte: forse tardivo (chi sa, volutamente, almeno da alcuni), comunque duro come si imponeva da parte di un governo geloso nella tutela dell'ordine e modicamente distratto da preoccupazioni all'esterno. Proprio allora, per punizione, fu distrutta Piazza. Nel 1234 Federico la sceglieva quale sede di parlamento provinciale: privilegio al quale non potevano non fare riscontro condizioni di fatto adeguate e incoraggianti: segno questo della facilità di recupero e di dinamismo, che non erano né propri né esclusivi di Piazza. .
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Anche perché nessun documento, e nessun elemento vanno in soccorso della notizia, entrata e ripetuta nella tradizione erudita, di una colonia gallo-italica passata in Sicilia e stabilitasi a Piazza, sotto Federico II, guidata da Oberto Mostacciolo di nobile origine piacentina (e il cognome risulta estraneo all'araldica della città emiliana) di qua del Salso erano la maggior parte delle terre di Sicilia che nel marzo del 1240 Federico invitò a mandare ambasciatori al parlamento di Foggia: Catania, Siracusa, Messina, Augusta sul mare, Lentini e poi Castrogiovanni, Nicosia, Piazza, Caltagirone (nella Sicilia ultra l'invito fu rivolto solo a Palermo e a Trapani) 11 . Anche nelle misure che valsero per l'occasione potrebbero esserci stati errori (magari per le indulgenze e le debolezze di chi comanda che chi subisce suole definire ingiustizie); ma se perplessità possono sussistere per Agrigento e Mazara, a parte Polizzi non è facile trovare altri abitati dell'interno della Sicilia occidentale che possano stare su un piano competitivo con quelli della parte orientale i cui rappresentanti furono convocati a Foggia. La disponibilità e le risorse complessive della Sicilia citra, quando vi erano incluse Cefalù e il co rn -prensoimadt,cnserl'imupo,ne valutazioni stesse del fisco, se in una colletta, forse del 1248, per complessive 114.900 onze nel regno, delle 23.000 imposte alla Sicilia la parte citra Salsum ne doveva corrispondere 18.000 (il 78,26%), quella ultra 5000 (il 21,74%) 12. Le città sul mare della Sicilia orientale, pur se episodicamente teatro di confusione, non furono gravemente colpite nel tessuto demografico ed edilizio. Catania forse ebbe guasti, ma di non arduo recupero, a seguito dei moti del 1232. Per il resto i contrasti ripetuti fra l'imperatore e il vescovado, cui spettava la signoria della città, semmai poterono essere di disturbo ai catanesi, ma non valsero a condizionare né tanto meno a determinarne i comportamenti. La costruzione del castello Ursino, segno dell'importanza che Federico attribuì alla difesa e al controllo della città, non poté neppure mancare di positivi effetti sulla occupazione e, richiamando e attirando le maestranze, sui consumi e sugli scambi t 3 . La costruzione anche a Siracusa (quello intitolato a Maniace) e ad Augusta di castelli che richiesero largo impiego di mano d'opera e di materiale fu di indubbio rilievo; anche se non è agevole e forse nemmeno possibile seguire sposta-
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menti e verificare la composizione sia della mano d'opera impe. gnata direttamente sia degli addetti alle forniture e ai servizi'. Che i borghesi di Siracusa chiedessero, nel 1240, la concessione di terre spoglie « in prato magno » e che la ottenessero al censo annuo di 500 tarì e della decima del mosto in esse prodotto, può dimostrare l'esistenza di ampi spazi vuoti entro la città antica. Ma per Siracusa non era questione di spazi occupati né di numero di abitanti, tanto meno a confronto della città antica. Nel secolo XIII si trattava piuttosto di risalire la china, dopo i danni del terremoto del 1169. Le turbolenze fra stranieri, nel dominio che per alcuni anni vi esercitò Alamanno da Costa « per il comune di Genova », sono magari segni delle difficoltà attraversate e dell'attrazione non venuta meno da parte della città che non di ulteriore decadenza. Semmai questi fatti danno consistenza alle ombre sulla esistenza di una borghesia di stampo non locale (di una borghesia cioè, non di un burgisato), quando nel 1231 si stabiliva la costituzione in Siracusa di 2 fondaci (ne avevano di più, abbiamo visto, solo Palermo e Messina; alle altre città fu attribuito o un fondaco o una casa); e nel 1261 i genovesi ripetevano il particolare interessamento alla città, pattuendo e ricevendo da Manfredi suolo per logge' a Siracusa e ad Augusta, oltre la conferma di quelle che tenevano a Messina ls Una borghesia che non si fece né egemonizzare né assorbire anche in loco dalla concorrenza di mercanti forestieri semmai è il sale di Messina (e, in fondo, nella Sicilia di allora solo di Messina). Lo sviluppo della città continuava ad alimentarsi degli approdi abituali, dei rifornimenti richiesti, degli scambi che vi avevano luogo e occasione. Ormai dotata di attrezzature, la via più agevole alle crociate era anche la strada più facile e più battuta del commercio con il levante. La continuata presenza dell'arsenale diventato il maggiore di Sicilia e quello frequentato dalla flotta regia, mentre erano in crisi o in decozione le darsene in funzione in epoca normanna (il triangolo S. MarcoMessina-Mascali), la presenza dell'ammiragliato, della zecca più importante del regno e dei maggiori uffici della Sicilia citra (giustiziere, secreto, maestro portulano, ecc.) costituivano le varie angolazioni del dinamismo e dell'aggressiva vivacità di una città in crescita non ancora arrestata. L'architettura religiosa di quegli anni, diffusa e quasi concentrata in Messina (S. Maria degli Alemanni e S. Francesco nella città, S. Maria della Valle nei dintorni) rispec-
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chia, essa pure, la fase espansiva, e magari lo spostamento di risorse e di disponibilità da Palermo verso lo Stretto 16. Pure nella costiera della Sicilia orientale si svilupparono i 2 insediamenti più robusti dell'epoca sveva: Augusta nei luoghi di un antico stabilimento megarese, Eraclea-Terranova in quelli di Gela. I moventi della promozione di questi, come di altre iniziative già nelle intenzioni meno ampie e pretenziose (quale la costruzione di 2 abitati: uno fra Licata e Agrigento, l'altro fra Agrigento e Sciacca) si inserirono entro una linea nella quale anche orientamenti e provvedimenti finanziari, e interventi nell'economia, erano condizionati da ragioni diplomatiche e militari, o comunque sacrificati a queste 17. Si trattava di colmare vuoti, nell'apparato difensivo e nelle presenze umane, lungo la fascia che andava da Siracusa a Capo Passero, e da qui lungo la costiera prospiciente l'Africa. Vuoti che valeva a rendere più larghi anche il distacco dal mare di borghi (Lentini, Butera, Scicli) che per larga parte del secolo XII (almeno fino agli anni di Ruggero II e di Edrisi) si erano giovati della navigabilità dei tratti di fiume avanti lo sbocco a mare. Entro questo quadro alle habitationes tra Licata e Agrigento e tra Agrigento e Sciacca non era assegnata una specifica funzione marinara e commerciale. Una sollecitudine in tal senso non esistette neppure nella promozione di Eraclea. Qui furono gli uomini stabilitivisi a richiedere nel 1239 la costruzione di una plagia « perché le barche potessero approdare ». Federico acconsentì ritenendo per parte sua che gli utili che ne sarebbero venuti al fisco avrebbero compensato agevolmente i 1000 tarì richiesti (il valore commerciale di 150-200 salme di grano): la sistemazione dell'approdo era sollecitata in funzione dell'estrazione dei cereali e in quell'anno alla corte andavano per terraggio corrisposte dagli uomini di Terranova 6000 salme di frumento. E non era solo qui che lo spazio maggiore, anche sul piano occupazionale, andava all'agricoltura. Nel 1231 l'imperatore, volendo « ampliare di bene in meglio la terra di Augusta, da [lui] fondata e chiamata col [suo] nome » confermava agli abitanti le terre che avevano ricevuto dal giustiziere Riccardo di Montefuscolo; per farvi « coltivazioni, vigne, abitazioni e opportunità loro »; ed erano numerosi ancora nel '40 i residenti in Augusta i quali mantenevano in territorio di Catania case e vigne e ottenevano licenza di recarvisi « in tempo certo e competente » purché man-
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tenessero famiglia e stabile dimora in Augusta. Comunque, se la promozione fu dettata da preminenti preoccupazioni militari e se gli spazi occupazionali maggiori rimasero legati all'agricoltura, le favorevoli condizioni del porto crearono agevoli opportunità di scambi cui diedero credito la corte che vi stabilì una casafondaco e operatori non sprovveduti dell'Italia centro-settentrionale che prontamente frequentarono porto e mercato e vi si insediarono. La crescita di Augusta e quella di Eraclea rappresentarono pure per la rapidità (a Monte S. Giuliano-Erice il moto diventò veloce dopo il Vespro), episodi isolati negli anni degli Svevi, e particolari anche nel contesto della immigrazione che partì dalla conquista normanna. Tra le città Messina e più pacatamente Trapani, tra gli abitati dell'interno Castrogiovanni, Piazza, Corleone, Polizzi non interruppero sotto gli Svevi lo sviluppo demografico ed economico, magari in termini quantitativi non inferiori o addirittura superiori a quelli dei due abitati rifondati. L'esito fortunato di queste iniziative di popolamento risultò, peraltro, da scelte felici e da atteggiamenti e procedimenti adeguati, fra essi compresa una dose di tolleranza. E potrebbe far meraviglia, a conoscere la rigidità dell'amministrazione fridericiana e la sete e la urgenza di denaro che essa aveva in quegli anni, il tono blando della disposizione data nel 1239 al secreto della Sicilia citra di interessarsi dei seminati, campi e mulini e « scadenze » di Augusta, che alcuni si spartivano, e nulla ne arrivava alla curia 18.
XIII IMMIGRAZIONI E MOVIMENTI INTERNI Ad Eraclea come ad Augusta la base della popolazione fu costruita da regnicoli, anzi da siciliani (e in Augusta con larga partecipazione di catanesi). In Monte S. Giuliano, abbiamo visto, i patronimici siciliani erano in maggioranza. Analoga situazione è verificabile negli altri abitati ove crescita o compensazioni non furono dovuti solo al processo naturale di eccedenza dei nati sui morti. Se nelle città portuali le Amalfitanie non erano più vici abitati da amalfitani, ma strade, quartieri di commercio e veneziani, genovesi e pisani tenevano logge e avevano chiese proprie, a far credito ai cognomi, restavano o venivano numerosi lombardi, toscani e catalani, anche negli abitati dell'interno. L'epoca delle immigrazioni si era però sostanzialmente esaurita con la fine del secolo XII, anche se non mancavano assestamenti né qualche movimento consistente. Di iniziativa di dissodamento con la costituzione di casali e attraverso il richiamo di forestieri si avevano ormai solo claudicanti episodi. Nel 1196 il monastero di S. Maria di Valle Josaphat formulava « pactum et conventiones » con un ristretto gruppo di uomini passati dalla Calabria in Sicilia a costituire un casale nel luogo di Mesepe in territorio di Paternò. Le condizioni furono dettate secondo la tipologia del villanaggio. Nel 1220 l'arcivescovo di Messina dava facoltà ad altro esiguo gruppo di calabresi di riedificare il casale di Lardaria e assegnava a ciascuno, per costruirvi abitazione, un pezzo di terreno della misura di canne 6 X 6, dietro impegno al pagamento di un tari l'anno e al riconoscimento della giurisdizione del baiulo da lui nominato'. Le alacri iniziative delle fondazioni religiose, delle quali è rimasta congrua documentazione, e quelle parallele attribuibili a
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laici non si ripetevano né si rinnovavano. Strumenti e modalità, per quel che ancora restava di spazio, erano del resto superati. Il rapporto di villanaggio, nel cui segno erano state avviate larga parte delle iniziative di popolamento e di dissodamento sotto i normanni, non aveva più attrattiva, e offerte più vantaggiose, anche sul piano giuridico-sociale, quali le enfiteusi, valevano più entro il regno e nei limiti dell'isola, e addirittura quali sollecitazioni in loco, che non a richiamare immigrazioni. La legislazione di epoca sveva non riflette indirizzo coerente e pienamente consapevole delle funzioni che le immigrazioni avevano avuto e potevano ancora avere in un paese che continuava a presentare vuoti da colmare e spazio per forze di lavoro da accogliere con vantaggio sul piano economico e su quello politico. Una constitutio nova (e cioè tra quelle che non sono arrivate anche con testo in greco) appare volta a risolvere talune perplessità che erano emerse sulla opportunità di accettare forestieri nel regno. E restano atti nei quali stranieri, dopo il periodo rituale di residenza nel regno e l'adempimento dei doveri inerenti, erano accettati quali « regnicoli » ed erano considerati dall'imperatore « quale uno dei borghesi fedeli nostri [del re] » e talvolta ricevevano contemporanea licenza di prendere moglie 2 . Questa procedura, che per il fatto stesso che richiedeva un documento regio non poteva essere né agevole né pronta, ed era senz'altro per molti lunga e gravosa da indurre alla rinuncia, coincideva pure con la preclusione stabilita da una constitutio ricordata da Riccardo di San Germano al 1233, che evocava strane preoccupazioni di corruptela e fantasiose esperienze e concludeva con una pena di straordinaria gravità: la confisca di tutti i beni. L'ordinanza, nella quale al di là dei motivi dichiarati, stava il timore che gli alienigeni potessero farsi portatori di tendenze e concezioni discrepanti dagli indirizzi e dai modi di governo invalsi nel regno (e non solo nel campo religioso e ecclesiale), ebbe applicazione per anni, se nel 1240 Federico disponeva con lettera al giustiziere della Sicilia citra di dar licenza di prendere moglie agli exteri che da tempo pagavano dazi e collette ed erano rimasti vedovi e a quelli che per un decennio si erano comportati quali cives. Che era, poi, questo, un modo di rispettare la norma, ancor se di fatto ne esulava attraverso una sorta di licenza impersonale e generalizzata. Non furono, comunque, tanto le disposizioni inibitive, quali
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che siano stati la coerenza, la interdipendenza e i motivi che le provocarono e quali e di quanta durata ne sia stata l'applicazione, a condizionare e fin quasi ad arrestare le correnti di immigrazione che negli anni degli Altavilla avevano avuto favorevoli ripercussioni in economia e in ruolo determinante nella trasformazione della fisionomia etnica, religiosa e linguistica del paese. Nelle regioni dell'Italia centrale e settentrionale, dalle quali erano mossi larga parte dei trasferiti, era maturato un assestamento sociale e istituzionale che allontanava gli stimoli alle emigrazioni. Il miraggio di una ricca pascua era defilato, a livello di uomini inseribili in un ambiente, quale il siciliano, di cui risorsa e attività preminente restava l'agricoltura. Voce corrente, del resto, non era più che la Sicilia fosse meta ricca e allettante. Le condizioni o ff erte e offeribili, secondo una linea di tendenza e norme volte alla preservazione di strutture altrove largamente contestate o comunque fatiscenti, non erano sollecitanti. Le perturbationes e l'insicurezza, la pesantezza fiscale e nei modi di governo, non costituivano neppure esse attrattive. La Sicilia non era retta dall'anticristo né dal figlio del demonio e della monaca sconsacrata (come andavano ripetendo numerosi chierici), ma era vero che essa non offriva più lusinga di pace e di benessere, e che vi erano uomini che, « fatti poveri e atterriti dalle gravezze » 3 , abbandonavano la loro residenza. Operatori commerciali e marittimi potevano trovare vantaggioso l'inserimento nelle piazze siciliane, soprattutto quando erano protetti dalle buone relazioni fra il regno e la loro città, e avvantaggiati da trattati in vigore. Al di là di questo inserimento, che esulava dalla immedesimazione nel regno, insediamenti a titolo individuale potevano trovare stimolo nelle varie occasioni e nei travagli dell'esistenza: spirito di avventura, ricerca di una fortuna non raggiungibile nel vicino, urgenza per cui la straniera diventava « terra franca » 4 . I patronimici che si rifanno a regioni e città fuori del regno non vennero meno in epoca sveva: numerosi (quanti Lombardo!) eranoptidsc amgrti,nocav le presenze nuove (quanti già i Catalano!), che però non facevano massa. Messa da parte la colonia che avrebbe alimentato Piazza che sarebbe venuta da Piacenza (e c'era se non il frutto della fantasia, quello del compiacimento delle etimologie facilone nella assonanza fra Placea e Placentia), è attestato un solo
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cospicuo caso di immigrazione in gruppo dall'Italia centro-settentrionale 5. Con privilegio dato in Brescia nel novembre del 1237 Federico attestava, a tutela di Ottone di Camerano milite e degli eredi e degli hominum Lombardorum, che Ottone gli aveva dichiarato che egli e non pochi uomini delle parti di Lombardia per le sventure delle guerre e per la insopportabilità delle oppressioni cui erano sottoposti si sarebbero trasferiti in Sicilia e vi avrebbero fissato residenza se avessero ricevuto dall'imperatore beneplacito e assegnazione di un posto sicuro per stabilirvisi con le famiglie, gli animali, le masserie. L'imperatore aveva concesso il luogo chiamato Scopello in Val di Mazara. Ma poiché questo non era risultato sufficiente né adatto, aveva assegnato la terra di Corleone (che faceva parte del demanio, si chiariva) perché quegli uomini vi abitassero, e aveva pure accordato che tutti quegli uomini di Corleone potessero tagliar legna vive per costruirne abitazioni nei boschi della curia della stessa terra e in quelli adiacenti e legna morte per far fuoco e altre necessità, senza nulla dare alla corte. In altro documento dato in Cremona nel febbraio del 1249 Federico ricordava la concessione del luogo di Scopello e la permuta con la terra di Corleone. Aggiungeva che, avendo poi stabilito che la terra « oltremodo ricca, popolata e munita e adatta a resistere a attacchi nemici » tornasse al demanio, aveva concesso al nobile milite Bonifacio di Camerano figlio di Ottone e agli eredi in perpetuo il casale e il castello di Militello ritornati al demanio per decesso « di quelli di Lentino » con la clausola « quanto in demanio in demanio e quanto in servizio in servizio » e con l'obbligo del servizio di un cavaliere armato per ogni 20 onze di reddito (come era nelle consuetudini del regno). Al di là dei dubbi sull'autenticità di questo documento (ma, anche il primo, del 1237, è proprio non impugnabile? e ci sono documenti che suffraghino usi civici a non destare sospetti?) non ci fu dirottamento della migrazione. Nel marzo del 1243 due residenti in Corleone, probabili immigrati da recente, Nicolò da Spoleto e Benedetto Toscano, ottenevano dal frate precettore delle case dei teutonici due salti d'acqua per costruire mulini, nei pressi del casale Haiar Zineth. Nel marzo del 1261 i due fratelli Corrado e Bonifacio di Camerano figli di Ottone « abitanti di Corleone », inserendosi nel giro di attività e di lucri stimolati dal ripopolamento, riceve-
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vano dalla stessa precettoria una gualchiera che già aveva tenuto a censo Giacomo di Camerano; e con altro atto ricevevano, pure a censo e dalla precëttoria, insieme a tre consoci (tra cui Giacomo figlio di Guglielmo mulinaio che sembra dovesse portarvi l'esperienza tecnica) un corso d'acqua che veniva dalla Favara (il toponimo arabo « sorgente » era, ed è rimasto, largamente diffuso nell'isola) per farvi altro mulino. La immigrazione e le operazioni relative non si esaurirono nel più breve tempo. Nel 1264 il nobile uomo Corrado di Camerano, designato « pro parte Curie » a distribuire agli uomini che venivano ad abitare in Corleone, i casalini per farvi le case assegnava in perpetuo « nomine et causa habitacionis » pezzi di terra proporzionati alle esigenze di lavoro 6. Quei lombardi non erano gli unici ad abitare entro la terra di Corleone, « oltre che ferace già populata » (come si legge nell'atto del '64); e il dialetto locale, pur manifestando ricezioni non indifferenti, non ha avuto la netta impronta gallo-italica mantenuta fin quasi ai giorni nostri dalle parlate di alcuni abitati, e soprattutto dalle frazioni isolate di essi, nei quali la presenza degli immigrati fu soverchiante e divenne caratterizzante. Ma la crescita di Corleone, il dinamismo della terra, le vicende accentuatamente diverse rispetto a quelle dei territori contermini già feudo di S. Maria Nuova di Monreale, e il ruolo tenuto nelle vicende della seconda metà del secolo dipesero decisamente da questa che, quale ne sia stata la composizione (se esclusivamente di italiani del centro-nord, o con partecipazione di regnicoli) fu ultima nella serie di consistenti immigrazioni in Sicilia di uomini di linguaggio romanzo, aperta dalla conquista normanna. L'utilità che, per il paese e per il regno, si attendeva dalle immigrazioni, faceva superare alla corte sveva anche certe preoccupazioni correnti nei confronti degli ebrei. In questa prospettiva si collocarono l'ospitalità ai giudei che arrivavano a Palermo provenienti dal Garbo, l'accoglimento di talune loro richieste, la opportunità dichiarata di non costringere quelli che erano andati ad abitare in altre parti della Sicilia a trasferirsi in Palermo « affinché per caso ad altri che stiano per venire non sia tolta materia di recarsi nel regno nostro ». Questi, dei lombardi di Corleone e degli ebrei che venivano dall'occidente arabo, rimasero episodi pressoché isolati, e solo il primo fu incisivo sulla composizione demografica e nell'ordine
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quantitativo sia pure a livello locale. Per il resto, la mobilità là dove sussisteva, i tentativi di colmare vuoti antichi e quelli creati dalla rottura dell'incerto equilibrio con i musulmani e da qualche sommossa rimasero affidati a movimenti interni. Messina, magari, continuò a richiamare prestatori d'opera ormai soprattutto dal mezzogiorno della penisola e particolarmente dalla Calabria ove la povertà rendeva le popolazioni meno legate al suolo. Pressoché dappertutto la onomastica dei documenti del tempo presenta cognomi che richiamano terre di Sicilia in numero largamente superiore degli abitati del mezzogiorno e di città e regioni fuori del regno. Possono esistere perplessità che questi cognomi riflettessero costantemente la nostalgia, l'affetto non smesso per la terra d'origine, e denunciassero la provenienza, dal momento che il cognome era abituale e necessario per il nuovo venuto e il riferimento a una località era pressoché alternativa d'obbligo con il mestiere (per chi lo aveva), e con il nome del padre (per chi lo conosceva, o se lo inventava); e il dubbio sulla sincerità dei toponimici cresce a considerare che per non pochi il trasferimento era motivato dall'urgenza di sottrarsi alla giu stizia o alla prepotenza, che non rendeva né opportuno né utile denunciare la provenienza. I nati musulmani, e magari ancora musulmani che cercavano di confondersi fra i cristiani o fra israeliti, quelli che malgrado gli espliciti divieti rientravano in Sicilia', gli uomini di Centorbi e di Capizzi che disattendevano l'ingiunzione di trasferirsi in Palermo, i rivoltosi e i « traditori » cui scottava la` terra natia, quelli che lasciavano la residenza in terra di demanio regio o erano già iscritti in ruoli di signori, tutti costoro (ed erano i più fra i partecipi alla trasmigrazione interna) se optavano per il cognome toponimico (come facevano in molti), avevano da sceglierselo. La rigidità che si voleva imporre all'ordinamento sociale, la mancata percezione della impossibilità di mantenere certe condizioni, l'accentuazione delle imposizioni fiscali, l'impossibilità di sopperirvi per la pesantezza di esse o nelle difficoltà di annate magre e di congiunture negative, e d'altro lato la distribuzione di case, di terreni a condizioni di particolare vantaggio e senza la mortificazione della dipendenza a ragione del tenimentum ricevuto, le esenzioni promesse e correnti — tutto questo rientrava nella varia gamma degli stimoli agli spostamenti all'interno del paese, magari in trasgressione ad antichi editti e alle norme di
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legge che li riproponevano ancor quando, sedate le perturbationes e riacquistato vigore il potere regio, il pericolo di punizioni era effettivo, se pur nelle difficoltà della verifica con i sistemi e i mezzi di quei secoli, e perché chi guadagnava uomini si sforzava di non perderli. Se a Messina continuò particolarmente larga la immigrazione di mano d'opera dalla Calabria (e presenze di questa provenienza si ebbero anche nell'agro e nelle terre vicine), la pur modesta crescita di Trapani e il dissodamento e il ripopolamento avviato di Monte S. Giuliano e la rinascita di Eraclea e quella di Augusta (con i 1000 abitanti dei quali 200 toscani, che aveva quando Carlo d'Angiò mandò Guglielmo Stendardo ad assediarla, a quel che ne scrisse Saba Malaspina), e cioè i più vistosi fenomeni di dinamica espansiva in sede demografica, discesero precipuamente da movimenti interni addirittura all'isola 8. Così come, per altro verso, da spinte endogene e vicende interne sortirono i casi più vistosi di regressione: i vuoti a Palermo, a Mazara, ad Agrigento, l'abbandono o il semi-abbandono di larga parte della fascia colli. nare del Val di Mazara.
XIV PRESUNZIONI DEL FISCO E SITUAZIONI DI FATTO
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I « novi habitatores » di Trapani che ricevevano suolo e case, quelli di Siracusa che richiedevano terreni in « prato magno », i giudei del Garbo che andavano a piantar vigne alla Zisa accosto al palazzo regio e ne domandavano alla Favara vicino ad altri solacia ai quali il sovrano si mostrava particolarmente attaccato, cercavano ciascuno a suo modo di sfruttare una congiuntura che rendeva disponibile spazi avanti intoccati. Le città avevano bisogno di uomini e le sollecitazioni singole si combinavano a costituire linea di tendenza. A parte le vicende dei musulmani attestati nei territori dell'interno, e poi dispersi o esiliati, c'era il deflusso dai casali verso i borghi, dai casali e dai borghi verso le città. Che all'interno di queste non solo tra le pertinenze abituali delle case rientrasse l'orto, ma che — a Palermo, come a Siracusa, a Catania — ci fosse spazio per vigneti e addirittura per la cultura di cereali, non scoraggiava certo gente abituata a vivere nell'agro e di agricoltura. Semmai, marcava la fisionomia persistentemente agricola dell'economia e della società siciliane; e valeva a mantenere pressoché intatte le disponibilità per i consumi interni e per l'esportazione di derrate'. La alacrità e la fattività di iniziative di ripopolamento venne comunque meno, nel secolo XIII, e qualche episodio, sia pur cospicuo e suggestivo, risalta non perché paradigmatico ma in quanto eccezione alla generale inclinazione. Il fenomeno è percepibile, ma non è quantificabile e neppure è definibile al di là dei tratti più larghi. Perché, malgrado le fonti documentarie siano nell'insieme più numerose e per certi aspetti più congrue, per gli anni degli Svevi si avverte
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il difetto di quei dati che, per quanto parziali ed esigui, sono disponibili per il secolo precedente. Non si ripete il vantaggio di una descrizione, approssimativa magari e stereotipa o enfatica ma aderente, quale è la parte del Libro edrisiano pertinente all'isola, e non soccorrono nemmeno diffusi elenchi di abitati, talora con le assegnazioni e le imposizioni relative a ciascuno, quali esistono degli anni di Carlo I d'Angiò e di quelli successivi al Vespro. Dati ufficiali, e controllati per allora, si hanno di Malta e di Gozo. Si tratta della risposta della curia alle lettere e ai capitoli trasmessi da Gilberto Abate, preposto alle due isole allo scorcio del regno e della vita di Federico II. Nel 1224 Federico aveva inviato una spedizione contro Malta. Fonti annalistiche attribuirono ad essa lo scopo di sterminare i musulmani, ai quali poi subentrarono gli abitanti della ribelle Celano di Puglia traslocati nell'isola. La relazione di Gilberto Abate, i cui punti sono riportati nel documento, dà un quadro abbastanza circostanziato seppure non privo di qualche incertezza e incongruenza. I proventi annuali dell'amministrazione regia (della doana) sommavano a 10.901 tarì a Malta e 3781 a Gozo: complessivamente 14.682 tari (nel documento si trova 14.681), pari a 489 onze e 12 tarì. Nell'elenco particolareggiato si trovano gli Tura dei villani della curia: 2516 tarì in Malta, 584 in Gozo. I terreni della curia regia destinati all'agricoltura consistevano in 40 paricle in Malta e 15 in Gozo, e ad essi accudivano un numero quasi pari (54) di schiavi gerbini; in entrambe le isole inoltre i villani corrispondevano 1/4 delle derrate da essi prodotte. Dai quaderni dell'amministrazione di Paolino di Malta risultava che erano corrisposti annualmente per vitto e stipendio dei 150 servienti (era il personale subalterno) nei 3 castelli delle isole, compresi 25 marinai, 11.000 tari (in media,. cioè, 73 tari e 10 grana). Sotto Gilberto Abate, nell'anno cui si riferisce la relazione, provvedevano alla custodia 220 servienti, 70 dei quali tenevano con sé la moglie. Alle dipendenze erano pure 5 panettieri, 4 curatoli dei campi, 10 pastori di pecore e di capre, 2 di giumenti, 3 di asini, e schiavi in 3 scaglioni (di 60, di 12 e di 54). Gilberto Abate aveva significato pure che in Malta erano 407 famiglie di cristiani, 681 di saraceni, 25 di ebrei, e in Gozo 203 di cristiani, 155 di saraceni, 8 di giudei. La gisia dei villani della curia (2516 tarì in Malta, 584 in Gozo),
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se questi si identificavano con i saraceni e i giudei, era, pertanto, nella media in entrambe le isole di 3 tarì e 11 grana a fuoco. La situazione di Malta ove la popolazione viveva — si ripete nel documento — « con consuetudini e leggi diverse che gli altri uomini di Sicilia » e la guarnigione era motivatamente numerosa, era particolare un po' in tutto e semmai presentava analogie con Pantelleria, ove la base etnico-religiosa musulmana era toccata solo molto in superficie. Sì che i dati della relazione di Gilberto ripresi dalla curia non possono essere assunti quali paradigmi di situazioni più estese. Comunque, con riserve e con cautela, i numeri di Malta possono servire come punto di riferimento e di aggancio con altri affini Nel 1239 la gisia corrisposta dai giudei di Palermo era di 400 tarì (e sarebbe cresciuta se attraverso le immigrazioni, fossero aumentati i sottoposti). Sulla scorta del tributo medio di Malta e Gozo le famiglie di ebrei palermitani risulterebbero 112, e le persone, con una media di 4 a famiglia, 448: meno della metà, cioè, delle 1000 che abitavano nella capitale circa 80 anni avanti, quando vi soggiornò Beniamino di Tudela. Più che a un discorso concluso in sé, questi numeri conducono però, a una serie di domande: che la media composizione delle famiglie fosse particolarmente elevata, fra i giudei di Palermo? che a Malta anche i cristiani, in largo numero trapiantati a forza specie da Celano, fossero nella condizione villanale? (e allora la media della gisia scenderebbe più in basso, intorno a tari 2 1/4 e le famiglie ebree di Palermo con questo parametro salirebbero a 178)? che la gisia degli ebrei palermitani fosse estremamente lieve, inferiore al livello dei 2 tari, al di sotto del quale però il fisco riteneva addirittura non convenienti e inopportune le esazioni? o non piuttosto (e questa a noi sembra la ipotesi meno remota) quei 400 tari rispecchiano il decadimento della comunità giudaica palermitana, tale che l'antica sinagoga era lasciata in rovina? Z Nel tentativo di dare rappresentazione numerica alla popolazione si è tentato il ricorso alle collette: la imposizione che sarebbe dovuta essere eccezionale e che dal quarto decennio del duecento diventò pressoché abituale, tanto che Federico per il bene dell'anima che stava lasciando il suo corpo e per la sua memoria raccomandò in punto di morte che essa fosse riportata alle occasioni e alla misura degli anni del buon re Guglielmo (ma le circostanze, e soprattutto gli uomini che sono quelli che le vivono
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e le stimolano, non lo assecondarono). L'ammontare della colletta non risulta fisso, e le differenze di anno in anno sono tali da escludere che ci fosse una imposizione media stabile per famiglia. La quantità era determinata più ancora che dal computo magari approssimativo delle disponibilità, dalle urgenze della curia assillata da debiti e dagli interessi che gravavano su di essi e bisognosa di mezzi per fronteggiare gli impegni militari continuati, e al più la corte aveva dei parametri delle presunte capacità contributive per giustizierato (parametri che furono tenuti presenti e di cui si tentò la revisione sotto Carlo I). La colletta e l'adohamentum disposti in Lodi nel gennaio 1238 ammontavano complessivamente nel riepilogo del documento a 100.000 onze (dagli addendi la somma risulta 102.000 onze), delle quali alla Sicilia tutta competeva versarne 20.000. Nel dicembre 1239 fu disposto, da Pisa, che la colletta ripetesse quella dell'anno precedente. La colletta imposta tra il novembre e il dicembre 1241 ammontava a 60.800 onze, di cui 12.200 (il 20,06%) gravavano sulla Sicilia. Con la colletta fissata nel maggio 1248, l'imposizione raggiunse 130.000 onze (fu la più alta di quegli anni); e la Sicilia fu chiamata a contribuire per 23.000 onze (il 17,69%), delle quali 18.000 (13,84%) erano dovute dal giustizierato citra e 5000 (3,84%) da quello ultra (la diocesi di Cefalù con il comprensorio madonita era inclusa nella citra). Nella enciclica con cui si dava comunicazione dell'imposizione della colletta, c'erano disposizioni di carattere organizzativo e contabile e suggerimenti e inviti che intendevano ostentare equità. Le formalità fissate nel 1238, e che avrebbero dovuto essere conservate, contemplavano la convocazione in Foggia dei giustizieri, ai quali veniva comunicata « la volontà » dell'imperatore e che dovevano prestare giuramento di distribuire l'imposta e di esigerla con fedeltà, senza odio o amore, vantaggio o timore. Essi giuravano di imporla alle singole città con le formalità che erano esposte. E cioè chiamare quattro o due dei migliori e più fedeli della città o del castello, e in conformità alla testimonianza e alla indicazione di essi convocare tutti i commestabili e impositores di collette dal tempo della coronazione di Federico, e fra i collettori nominare due meliores per vicinanza o comestabulia che sotto giuramento indicassero i più ricchi entro il territorio di provenienza. Dopo che era stabilita la quota dei più agiati, l'imposizione era estesa per gradi fino ad arrivare agli esenti per povertà. La
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tassazione minima non doveva essere inferiore ai 2 tari. Non erano consentite eccezioni, neppure in favore degli impositores e degli ufficiali della corte; i baroni, i militi, i chierici che tenevano beni patrimoniali, erano tenuti a contribuire si che i militi dovevano separatamente 1'adoamento per i beni feudali e la colletta per quelli patrimoniali. Nel novembre del 1239 l'imperatore si congratulava con Ruggero de Amicis giustiziere della Sicilia al di là del Salso per il modo in cui era stata imposta ed esatta la colletta: « si che i poveri non sentirono i gravami e i ricchi pagarono nella misura dovuta ». Ma nel gennaio del '41 una circolare rimproverava « la consueta nequizia degli impositori e dei collettori ». Con la colletta imposta in novembre-dicembre 1248 si cercò semplificare il congegno troppo complesso, sotto la spinta dell'urgenza di procedere all'esazione. Punto di partenza rimanevano i quaterni delle collette precedenti; alcuni uomini « de fidelioribus et melioribus civitatis aut loci » eleggevano diciores e meliores di ciascuna terra che tenevano beni burgensatici e insieme ai capitani e giustizieri tassavano i prelati e gli stessi « più ricchi scelti » considerati lo stato della terra e la possibilità dei medesimi, elegge• vano dopo di questi i diciores e meliores che erano tassati nello stesso modo, e la tassazione di tutti gli altri era demandata al giustiziere « in maniera che quella dei prelati e dei chierici e dei predetti più ricchi di primo e di secondo grado e dei rimanenti tutti non vada oltre la quantità di colletta imposta alla terra » 3 . Che un mandato imperiale si preoccupasse di esonerare vedove o pupilli rientra fra certi residui cavallereschi ed entro una particolare, non lata, dimensione della pietà ", ma non aiuta certo chi voglia trarre elementi per la numerazione della popolazione da questa imposizione distribuita in modi complicati che tenevano in modica considerazione criteri equitativi sicuri e che comunque mettevano a dura tentazione i diciores di primo e di secondo grado di tassare con moderazione se stessi e scaricare il grosso del peso sui « rimanenti tutti ». Semmai, un invito sollecitante alla discussione sul numero degli abitanti viene da una delle disposizioni che accompagnavano la colletta del 1238: che la contribuzione minima, da imporre e da esigere, non fosse inferiore ai 2 tarì d'oro. Ne viene che, siccome la colletta nel regno assommava in quell'anno a onze 100.000 (ovvero 102.000), il numero dei capifamiglia contribuenti, per certezza della curia
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che non osiamo contraddire, non avrebbe potuto essere superiore nel regno a 1.500.000 (o 1.530.000); e nella Sicilia che doveva 20.000 onze (pari a 600.000 tarì) non superiore a 300.000 famiglie: e cioè con una composizione media di 3,5-4 persone a f amiglia, la popolazione non poteva andare oltre 1.050.000-1.200.000 persone. Già queste presunzioni sono sufficienti a relegare fra le iperboli, cifre corse per lungo tempo. Sono, però, anche questi numeri in eccesso. Potrebbe valere non questo computo delle famiglie nell'assunto che tutte fossero ai livelli minimi per contribuire, ma la conoscenza della contribuzione media. E a questo punto, la barca torna a muoversi nel mare delle nebbie, guidata dall'incerto timone delle ipotesi. Con una media di 4 tari (non elevata; perché il doppio del minimo imponibile, ancor se significava, ai prezzi correnti, da mezza a una salma di frumento secondo i luoghi e le annate) si avrebbero 750.000 (ovvero 765.000) appartenenti a famiglie di contribuenti nel regno, e in Sicilia 150.000, cioè da 525.000 a 600.000 persone. A scontare gli « esentati » e gli « scusati » (molto pochi se dovevano contribuire anche gli ufficiali dei diversi gradi e gli addetti alla ripartizione e alla esazione della colletta, e chierici e feudatari erano obbligati in proporzione ai loro beni patrimoniali) e i poveri (la cui condizione per l'esonero doveva risultare a chi non aveva interesse ad esentarli, in una società tra le cui pecche non figurava la mancanza di lavoro), stimando tutti i contribuenti il 90% della popolazione totale, risulterebbero, nel 1238, da 583.000 a 666.000 abitanti. Ci si ritroverebbe, cioè, nell'ambito dei numeri-ipotesi che ricorrono nei nostri tentativi di quantificazione della popolazione siciliana dall'avanzato periodo normanno alla vigilia del Vespro, con il conforto, in più, dell'impressione d'insieme e di una diffusa semeiotica che, dopo la crescita sotto i normanni, la situazione demografica sia stata nel complesso stagnante, seppure non si sia registrata una flessione cospicua (e nel 1238 si era proprio negli anni in cui, ridotte ad episodi le immigrazioni, l'impatto con i musulmani, dal quale erano venute le più larghe falle per emigrazioni, oltre che per le uccisioni e per le deportazioni, non si era neppure esaurito). Sappiamo, però, che non è consentito compiacersi di queste illazioni né indulgere alle lusinghe di esse, sia pure nella suggestione che analoghe impressioni e medesime ipotesi-calcolo stavano allora nelle presunzioni del fisco.
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Entro questo quadro, frammentarie notizie sulla imposizione a singole città, possono valere molto poco. Che nel 1239 e nel 1240 la imposizione fosse per quella terra di 300 onze, ci dice, in sé, soltanto che Paternò partecipava per 1'1,5% della colletta assegnata all'isola, per lo 0,3% dell'ammontare complessivo nel regno. Mentre, sotto l'ipotesi dei 600.000 abitanti in Sicilia o della media contributiva di 4 tari, si arriva a 9000 abitanti 5. L'ammontare della colletta del 1248-1249, il più elevato nell'insieme e per la Sicilia, riflette l'aggravarsi della crisi delle finanze regie. Le preoccupazioni della curia erano unilaterali e esclusive. La colletta aumentava mentre le difficoltà del paese erano evidenziate dalle riduzioni alle quali era necessità sottoporre altre contribuzioni dovute dalle comunità. Si guardi alla marineria. A parte la inclinazione a trasformare l'onere personale in tributo in moneta, secondo una linea di tendenza in Sicilia piuttosto diffusa, riduzioni erano rese necessarie in risposta a istanze largamente motivate. Già Enrico VI ridusse il servizio degli uomini di Nicosia da 296 quale era sotto Guglielmo II a 156 marinai. Federico II nel 1209 confermò la riduzione e aggiunse l'esonero dal trasporto di legname alla darsena di Mascali. Potrebbe supporsi una certa condiscendenza, una ricompensa; e c'era in questo senso il vistoso precedente del servizio degli uomini di Caltagirone ridotto, da Guglielmo I, da 250 a 150 marinai; ma altro uomo era quel re e soprattutto diversi erano allora indirizzi e bisogni della corte. Nel 1220, dopo l'incoronazione, gli uomini di Aidone ottennero « con mandato » di Federico la riduzione dell'onere della marineria, già convertito in moneta, da 300 a 200 onze. Nel 1242 Oberto Fallamonaca, secreto di Sicilia, pretendeva la differenza di tutte le annate, dal '20 in poi. La « benignità » di Federico si esercitò prendendo atto che gli uomini erano pressoché nell'impossibilità di corrispondere subito tutta la somma, e dando ordine di esigerla entro breve tempo e tenendo conto delle possibilità degli aidonesi 6. Da atti dettati dalle sole urgenze delle finanze in dissesto, e dagli impegni della guerra senza pause non è lecito tentare di trarre deduzioni aderenti alle condizioni demografiche (e anche economiche) delle quali non erano né specchio né eco. Tra il 1245 e il 1246 si consumò il dramma dei musulmani di Sicilia. Ai danni subiti dal paese, alla forza lavoro perduta, la curia regia
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non dava adeguata attenzione agli effetti fiscali. Anche se la repressione eliminava perturbazioni croniche in alcune zone, e che tendevano a cronicizzarsi in altre e a spostarsi, il danno risultava consistente. L'economia e la capacità contributiva erano intaccate, anche se nei fatti molti di quei saraceni si erano magari disabituati alle tasse e ai tributi. Al di là del fatto fiscale, e al di fuori delle varie incidenze, resta comunque da chiedersi l'entità dell'emorragia, quale realmente fu, sul piano demografico. In mancanza di elementi quantitativi attendibili offerti da documenti, ci si è soffermati su qualche numero di fonti narrative. Giovanni Villani scriveva di 20.000 musulmani e Riccardo di San Germano di 10.000 reclutati a Lucera nell'esercito di Federico II nel 1237. Michele Amari comprese il valore emblematico di certi numeri, ma non cedette alla tentazione di valersi di essi, e diede credito a Riccardo di San Germano e patente di « autorevole attestato » a quel suo numero. Ne dedusse che in quell'anno, quando non erano esaurite le deportazioni né erano spenti i focolai di aggressiva resistenza, a Lucera sarebbero stati « un 50 o 60.000 coloni ». Numero sproporzionato, questo, secondo Pietro Egidi, alle possibilità ricettive di un territorio almeno per la metà incolto su cui nel 1911 vivevano 16.000 persone, e presumere la possibilità di ospitarne il doppio era quanto meno audace. Ma non è questa la via: a parte che non conosciamo quale fu l'estensione del territorio di Lucera dei saraceni (è oltremodo insolito però che non si siano verificati larghi frazionamenti, dal secolo XIII), quei musulmani non erano obbligati a un regime autarchico, né futuro esclusivamente dediti alla agricoltura. Già sotto Federico II, e nel tempo di M anfredi, militarono per mercede in numero che, se non sarà stato dei 20.000 come scriveva enfaticamente Villani e magari neppure di 10.000 in una occasione e in un solo contingente, era consistente per i tempi; e fra i saraceni ce n'erano che si dedicavano alla pastorizia (e le pecore che davano valevano a rimpinguare le masserie demaniali, tra le quali erano spartite), e c'erano « maestri intarsiatori, carpentieri, maestri che fanno armi, custodi di cammelli e di leopardi » che producevano in esubero ai bisogni della colonia, e c'erano mercanti che giravano per la penisola fino all'estrema punta della Calabria (e si sospettava e temeva che cedessero alla tentazione di ritornare in Sicilia). Pur nella improponibilità dei numeri, anche nei termini più riduttivi, è certo
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che le deportazioni, sommate a lle perdite negli scontri e per i disagi e agli esodi verso i paesi musulmani non molto lontani, costituirono per la demografia dell'isola salasso capace di vanificare, o almeno di ridurre fortemente, le spinte naturali — di per sé forse affievolite — e quelle delle emigrazioni, ormai ridotte per certo a forme episodiche e circoscritte. SI che, malgrado le persistenti sollecitazioni del mercato ancora in espansione, i territori non dissodati, e quelli deserti di abitanti o poco abitati a lla metà del secolo XIII nell'insieme risultavano allargati rispetto alla fine del XII. Nella più vasta misura proprio dal prolungato e drammatico confronto fra i musulmani e la corte, consegui, per altro, la rottura dell'assetto, labile e provvisorio nella realtà quanto attento e accorto negli adattamenti occasionali, lasciato da Gugliermo II; e il trauma fu stimolo a un dinamismo, ambiguo magari nelle direzioni e nello svolgimento, che investi, e innovò, condizione delle persone e rapporti sociali'.
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L'UNITA DI RELIGIONE E DI LINGUAGGIO La morte di Guglielmo II trovava la popolazione siciliana ancora partita in 3-4 linguaggi e in 3-4 culti religiosi. Le proporzioni tra essi non erano, certo, sul piano numerico e nella incisività, quelle degli anni che immediatamente seguirono la conquista normanna. Ma la risoluta rottura della convivenza fra cristiani e musulmani appena ceduta la vigilanza rivelò che questa convivenza poggiava sulle dubbie basi del timore del potere. Mise pure in evidenza nei musulmani persistenti capacità di resistenza e perfino aggressività, e la possibilità per parte loro di non ardui collegamenti con i correligionari dell'Africa, mentre si prestavano alla strumentalizzazione da parte dei cristiani quando, dietro la assicurazione della sussistenza e il soddisfacimento di personali ambizioni offrivano collaborazione nella amministrazione, nell'esercito e come prestatori di lavoro. Nella minorità di Federico la lunga carenza di potere, la stimolazione al disordine delle parti che se ne contendevano l'esercizio, la instabilità, le aggressioni reciproche volsero le divergenze di fondo verso l'intolleranza esplicita. Per Federico, ben più che per i monarchi normanni, la tolleranza del più forte aveva senso e luogo solo che ad essa corrispondesse la sottomissione del debole. Da parte di molti musulmani questa ci fu, pur nella consapevolezza estrema che essa significava dedizione come individui e assimilazione come gruppo. Per altri il rifiuto di sottostare passivamente alla mortificazione della condizione di « servi della curia » (e di servi che non avevano molto da confidare nella predilezione del padrone) e della rinunzia alla religione in cui credevano, si manifestò nella fuga per chi riusciva a guadagnare un porto di mare e vi trovava un legno disponibile, o nel rifugio
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nelle zone collinari ove si sapevano accesi i focolai di resistenza dei correligionari. La soluzione fu la deportazione a Lucera prima, la mano cautamente tesa ai deportati a offrire sostegno e a utilizzarli poi. Sull'altro versante, di quelli che non avevano preso le armi o che riuscirono a sfuggire, la perturbatio provocò pure la dispersione e la confusione nelle città e nelle terre ove restava spazio a chi offriva le sue braccia. Le sollecitazioni in questo senso erano talora esplicite, pur nell'ambiguità del contrasto con norme e linee di tendenze ufficiali divergenti. A Palermo anche i musulmani dei casali furono per tempo invitati a stabilirsi nel Seralcadio, svuotatosi per l'esodo di quelli che già vi risiedevano. C'erano terre il cui sviluppo era rimasto contratto, abitati nuovi bisognosi di linfa; e le persistenti inclinazioni alla espansione e al miglioramento de lle culture erano con frequenza scoraggiate o frustrate di fatto dalla inadeguatezza delle presenze umane. Le immigrazioni dall'estero venivano meno e la crescita interna era turbata; mentre la congiuntura si manteneva propizia all'agricoltura e quindi alla valorizzazione di quelle che erano allora le condizioni di vantaggio dei suolo e del clima siciliano. In queste condizioni, il musulmano che andava a vivere fra cristiani abiurava alla moschea: se per marito e moglie si trattava il più delle volte di finzione, di rinuncia forzata che si trascinava il rimpianto, per i figli rappresentava l'inserimento nel gregge di Cristo dato che gli uomini non erano abituati a fare a meno di Dio. Non si trattava di tempi lunghi, la misura era in proporzione alla durata dell'esistenza umana o all'età del concepimento; e il batter di ciglia che si suol dire la vita dell'uomo era allora più rapido che non sia oggi. All'osmosi non sussistevano più ostacoli di ordine linguistico, dal momento che il linguaggio del gruppo egemone era entrato nell'uso comune, tanto che nel dicembre del 1233 Federico dava al papa assicurazioni tranquillizzanti a proposito dell'invio a Lucera di frati predicatori per convertire i saraceni: parecchi erano già passati al cristianesimo, e poi i più « capiscono l'idioma italico » 1 . Méntre attraverso fughe, deportazioni e movimenti interni si compiva la scomparsa dell'islamismo dalla Sicilia, con eccezione di qualche minuto gruppo destinato alla sommersione silenziosa, si riduceva anche la partizione, moderatamente salda e rigida in partenza, fra cristiani greci e latini. La tradizione che aveva fondamento nella lingua dei riti non avrebbe resistito che breve
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tempo senza il supporto culturale, durato finché le costumanze degli autoctoni si incontravano con quelle degli immigrati (immigrazione di ritorno, secondo alcuni) dal mezzogiorno d'Italia. La diffidenza reciproca fra cristiani latini e greci, specchiata dai giudizi e dal tono della descrizione di alcuni avvenimenti da parte di Malaterra, biografo di Ruggero I con crisma di ufficialità, tese a placarsi col tempo. Il colloquio a livello locale non era arduo, né più ostico era quello con il potere, nel secolo XIII, negli anni in cui la debolezza dell'impero d'oriente e addirittura l'occupazione latina di Costantinopoli valevano a bandire ogni apprensione che la grecità potesse costituire richiamo a legami con l'esterno, e la persistenza dello scisma aperto da Michele Cerulario continuava ad approfondire il solco fra greci di oriente e greci del regno. L'archimandrato basiliano, che sotto gli Altavilla aveva assolto di per sé e, attraverso i monasteri, un'azione politica e religiosa, e insieme economica e sociale, non ritrovò più né stimolazioni esterne né una propria funzione aggregatrice. Federico II mai lo sostenne; e anzi il monastero del Salvatore in Lingua Phari fu tra quelli menomati e spogliati dall'imperatore nel quarto decennio del secolo 2 Ma né le vicende delle fondazioni dell'ordine né soprattutto le sorti del rito greco dipesero precipuamente dal mancato aiuto della corte di cui contemporaneamente non godettero neppure il monacato e il clero secolare latino. Semmai i monaci dell'ordine di S. Basilio non riuscirono ad operare, nelle circostanze deteriorate, il rilancio e neppure ad assicurare il ricambio nel clero che era condizione per la persistenza del culto. All'indomani della caduta de ll a dinastia sveva monasteri basiliani passavano ad ordini latini, anche in Messina. L'uso del greco come lingua di cultura e dei riti andò, comunque, cedendo gradatamente. Fu collasso lento, non legato all'esaurimento di una generazione, ma all'affievolimento da generazione a generazione; tanto che nei primi del secolo XV la sorta di censimento compiuta dai precettori delle decime mostrava resistenze nelle città (non insignificanti a Palermo) e persistenze larghe negli abitati minori entro l'arco consueto che aveva baricentro a Messina 3 . Taluni usi e norme nei secoli XII e XIII esclusivi dei gruppi greci (il regime di beni fra coniugi, la protimesi...) rimasero nelle consuetudini di numerosi municipi. Sotto gli Svevi, comunque, i greci sempre meno costituirono intacco sostanzioso del tessuto sociale e culturale o crea.
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rono problemi politici o di ordine interno. Lo scontro endemico e impegnativo con i musulmani, la continuata diffidenza e la tornante ostilità con i tedeschi, la pratica del linguaggio romanzo diventata comune si sovrapponevano sempre più largamente alle prevenzioni, ai risentimenti, a certe differenze di costume che per altro, in forme e dimensioni varie, resistevano da luogo a luogo indipendentemente dal linguaggio e dalla religione. Tanto meno rappresentavano occasione e motivo di difficoltà gli ebrei. Vivevano nel regno di Sicilia, in Sicilia, ma ne erano considerati partecipi in scala ridotta, né essi davano segno di aspirare ad alcuna promozione. Nel numero che avevano, nello spazio che tenevano, nella mimesi che riuscivano a realizzare, non costituivano certo assilli né ancora richiamo di appetiti. Raccoglievano prevenzioni e risentimenti antichissimi, non ne mobilitavano di nuovi e particolari. Su un'ottica che non era né esclusivamente né precipuamente rivolta all'isola, ostilità e aggressività trovarono esplicazione nei primi atti legislativi di Federico II, quando impose agli ebrei vesti e segni che li distinguessero. Si può dubitare che sia durata nel tempo la volontà di applicare queste disposizioni; né possiamo misurare in quanto certe prevenzioni rimasero operanti (si ricordi il mancato accoglimento della richiesta degli ebrei del Garbo di metter casa nel Cassaro a Palermo). Né il corpus del 1231 né le disposizioni legislative successive le ripetettero nei contenuti e nella aggressività. La const. I 6 proibiva l'usura quale che fosse il tasso di interesse, e assegnava alla giurisdizione ecclesiastica le controversie in merito. La proibizione non trovava applicazione agli ebrei, per i quali non esistevano difficoltà di carattere religioso. L'interesse massimo consentito era il 10% annuo: meta rimasta nel luogo comune a segnare i confini tra la liceità e l'abuso, ma ben lontana dalla pratica, e dai tassi che lo stesso Federico fu costretto a corrispondere agli stranieri creditori della curia. La estraneità al gregge di Cristo poneva, comunque, gli ebrei almeno in questo in posizione di vantaggio: perché potevano dare in prestito a luce aperta (semmai abbassando le luci a riguardo del tasso di interesse) e avevano minore occasione dei cristiani al ricorso a contratti simulati. Valeva a dare altro spazio agli israeliti la loro qualificazione in alcuni campi. Le tintorie, dove c'erano, erano di consueta loro spettanza; quando su esse si estese il monopolio della curia, ne divennero i gabelloti; ma già avanti
XV. L'unità di religione e di linguaggio
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ebrei e tincta andavano insieme per antonomasia, e gisia dei giudei e ius tincte erano magari ceduti congiuntamente a fondazioni religiose cristiane. Mercanti, piccoli banchieri o usurai che ci si compiaccia definirli, artigiani, ma anche agricoltori dotati, gli israeliti di Sicilia. Quelli venuti dall'Africa occidentale nel 1239 presero in locazione il dattereto alla Favara; altri ricevettero dalla corte terreni a condizione che coltivassero alcana e indaco « e altri semi che crescono nel Garbo e non si sono ancora visti crescere nelle parti di Sicilia ». Questi ebrei nuovi in Palermo costituivano comunità separata dalla preesistente in città (e questo fu l'avviso espresso dall'imperatore), che ottenne di eleggere un proprio « maestro », ma non di costruire una nuova sinagoga (il parere della corte fu al riguardo, che, piuttosto, riattivassero quella lasciata in abbandono). L'immigrazione valse a ricomporre una certa presenza di israeliti, ma di non larga consistenza numerica — abbiamo già accennato — se la gisia dei giudei in quell'anno era elevata a 400 tari in virtù dei nuovi arrivi (e con l'augurio che altri ne venissero). In fondo l'esiguità della presenza agevolava la convivenza-tolleranza fra gli ebrei e il resto degli abitanti. Anche quando erano nel numero dei residenti di un piccolo casale tra una popolazione moderatamente congrua (si ricordino le 8 famiglie di Malta), gli ebrei, pagando la gisia, riuscivano a vivere anche se non sempre a prosperare, fra uomini dai quali si sentivano estranei e in una terra in cui condividevano di essere ospiti perché non era quella promessa. Ed era, oltre che per il numero, per questo atteggiamento di distacco, con molta rassegnazione e senza provocazione, che essi non creavano problemi di convivenza: l'ipotesi e la via della soluzione delle differenze, nella creazione di una nazione siciliana, nel quadro del regno o semplicemente in quello dell'isola, ne prescindeva in assoluto 4 Non erano comunque, solo, certe ulcere aperte, o, quando chiuse, sanguinanti ancora, ad ostare all'esistenza di una « nazione » siciliana, sia pure nei limiti dell'isola. L'unità religiosa e del linguaggio rappresentava condizione imprescindibile per la commistione del sangue e delle abitudini, ed essa poteva apparire realizzata avanti la morte di Federico II; ma perché non fosse solo apparenza era necessario l'avvicendarsi di generazioni, il venir meno di quelle che avevano militato su sponde opposte con inclinazioni e affetti diversi e il crescere di altre; e in Sicilia ci .
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vollero un'altra conquista e il Vespro che, staccando dalla parte peninsulare energicamente e sull'onda di motivi intensamente sofferti, diedero meno superficiale il sentimento della partecipazione a una comunità di sangue e di interessi. Da parte degli Svevi, nella concezione e nell'azione di potere, emersero attenzione e cura di correggere e eliminare le differenze che si prestavano a confusione e a stimolare perturbazioni. Né tra le popolazioni, ai vari livelli, nel groviglio di repulsioni inveterate o occasionali, inclinazioni e sensibilità si spinsero oltre.
XVI ORDINAMENTO GIURIDICO E CONDIZIONI DI FATTO 1. Feudi e feudatari
Dalla constitutio De resignandis privilegiis, che fu il primo atto legislativo di grosso impegno al ritorno nel regno dopo l'incoronazione ad imperatore, al corpus del 1231, agli editti e agli scambi con i reintegratores e inquisitores da parte di Federico e dei successori risalta un indirizzo costante e coerente di restaurazione e di preservazione dell'assetto sociale. Il disegno sul piano giuridico fu lineare: un ordinamento in estensione verticale, dal villanaggio nelle forme ratione persone e ratione tenimenti, attraverso la condizione di borghese, alla nobiltà del feudo con i suoi gradi; in basso, fuori di scena, la schiavitù. Era il quadro tracciato sotto la dominazione normanna con larga aderenza ai moduli feudali e alle esigenze e alla mentalità che accompagnarono conquista e insediamento. Entro questa cornice stanno le captazioni da assise normanne particolarmente nel terzo libro delle constitutiones che disciplinò il regime del feudo e i rapporti tra feudalità e monarchia e la condizione delle persone. A Ruggero fu ricondotta la const. III 2 De vasallis non ordinandis che proibiva l'accesso al presbiterato ove mancasse l'assenso dei loro signori, agli ascrittizi, e la III 3 De his qui debent accedere ad ordinem clericatus (per la quale sussiste pure il dubbio di ascendenza a uno dei Guglielmo) che ne era interpretativa esplicitando il limite di applicazione ai villani ratione persone mentre agli altri consentiva libertà di accesso « dopo aver tuttavia restituito quel che tenevano dai loro signori nelle mani loro ». Pure di ascendenza normanna era la const. III 59 De nova militia che
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stabiliva la decadenza dalla milizia e cioè dai quadri feudali, per chiunque ne fosse entrato a far parte « se non ebbe ascendenza da stirpe di milite ». Al disposto della assise il legislatore svevo fece seguire (const. III 60 De h o nore militari judicis et notarii) la inibizione dell'accesso all'honor ;militaris ove non si fosse de genere militum se non per licenza regia, aggiungendo che non era consentito di essere creati giudici o notai a uomini di vile condizione (« villano o angarario e del pari i figli dei chierici, gli spurii o in qualsiasi modo naturali »). La sistematicità della riformulazione motiva l'avocazione al periodo svevo di alcune constitutiones (III 5 De revocatione Jfeudorum et rerum feudalium; III 6 De revocandis transeuntibus ad' alienam habitationem; III 7 De hominibus demanii affidatis non tenendis) nelle quali pure furono travasati e trovarono interpretazione editti e norme e comportamenti vigenti sotto i normannii, e la const. I 47 De servando indemnitate comitibus, baronibus et militibus che confermava il giudizio tra pari entro la nobiltai e ne disciplinava la procedura. Al di là della sistemazione delle norme e delle consuetudini impostate sotto i normanni, al legislatore svevo, scortato da acuto senso del ruolo e del potere della monarchia, si deve la puntigliosa diversificazione di prerogative e di responsabilità secondo le classi di appartenenza, non senza un certo spirito equitativo là dove alla qualità più prestigiosa faceva, corrispondere pena più pesante . ma sempre entro il quadro di luna società strutturata in rigidi schemi. La pena contemplata nella const. III 10 De illicita portatione armorum discendeva, cosa, dalle 5 onze del conte, alle 4 del barone, 3 del milite, 2 del borghese, 1 del rustico. Nella const. 176 De fide nobilium et ignobilium super declaratione debiti facienda la credibilità era in proporzione alla casta: alla dichiarazione del conte si dava credito fino a 100 onze, fino a 50 a quella del barone, del semplice milite fino a 25, fino a una libbra d'oro al « borghese di buona opinione e ricco », a tutti gli altri fino a 3 onze. Nella const. II 3 De forbannitis et foriudicatis il premio per chi avesse preso un conte ffiorbannito o forgiudicato era di 100 onze, scendeva a 50 se si trattava di barone, 25 di milite, 12 di borghese, 6 di rustico. L'organigramma di una società spartita, in diritto, in classi cui corrispondevano onori, oneri, responsabilità e credibilità, continuità di un mentalità che ora è facile definire medievale-feudale, non ispirò solo ed episodicamente il legislatore: fu punto fermo ,
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della concezione e delle tendenze di politica interna di epoca sveva e di Federico in particolare che ad essa diede impronta e ne fu protagonista per il più lungo tempo. Nella realtà questa scala, organica ma inerte, che nelle intenzioni voleva chiudere ciascun uomo nello steccato della classe di appartenenza, fu messa a dura prova in tutti i gradi, e sostanziosamente fu inoperante e sottoposta a martellante scardinamento. Forse in poche altre occasioni l'ordinamento legislativo fini con il risultare tanto astratto dalla realtà, che fu fluida e pieghevole quanto esso l'avrebbe pretesa rigida e tesa. La contraddizione per cui la feudalità rappresentava insieme casta privilegiata e ceto rivale e tendenzialmente antagonista della monarchia e le implicazioni che ne discendevano non erano nuove in Sicilia né esclusive del regno. Le misure in cui esse si ripropose dipesero, però, largamente dalle vicende e dalla personalità dei sovrani di casa sveva; e il risultato fu che, fatta salva la posizione di prestigio e di privilegio sul piano giuridico e nelle formule, la feudalità fu mortificata nel ruolo e nelle condizioni economiche. Le eccezioni a livello personale (soprattutto sotto Manfredi che senti o fu costretto a sentire particolarmente vivaci i legami del sangue e delle affinità), queste eccezioni finirono con il far risaltare la generale linea di tendenza. Proprio in Sicilia, ove la feudalità era, se non normanna di sangue, di impianto normanno, già le resistenze, poi le ribellioni contro Enrico furono più accese; e le repressioni — esili, eliminazioni, confische — furono più risolute e più larghe. I grossi complessi feudali, quelli che avevano resistito all'impatto con la monarchia che non era mancato neppure in epoca normanna ai livelli più velleitari, ne rimasero soccombenti. Di quella che era stata la contea degli Aleramici, la parte di Paternò fu assegnata, probabilmente da Enrico VI, a Bartolomeo de Lucy imparentato con gli Altavilla e chiamato durante la reggenza di Costanza e nella minorità di Federico a posti di rilievo nel governo del regno, e ritornò al fisco alla sua morte (1200). L'altra parte, di Butera, fu data a Pagano de Parisio conte di Avellino, che la perdette nel 1213 quando, insieme con il fratello, prese le parti di Gualtiero di Pagliara. Pure per breve tempo il titolo di conte fu portato da Berardo de Ocra che avanti sembra avesse tenuto Butera quale suffeudatario dei Parisio VI non ebbe tempo di ricostituire nell'isola un tessuto
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di feudatari ligi di sangue tedesco. E, dopo la morte sua e quella di Costanza, dalla erosione del demanio regio, dalla abituale insolvenza del servizio e degli oneri fiscali, che furono lamento e scopo primo e dichiarato della restaurazione perseguita da Federico, non venne fuori un cospicuo accrescimento della parte feudale nella presenza politica e in quella economica. Ambiziosi, prepotenti e pur contraddittori protagonisti furono, semmai, i tedeschi che contrastarono con Costanza, furono duramente impegnati dal pontefice, messi fuori di scena avanti che Federico compisse i 14 anni. Sotto di questi, fortuna e crescita di personaggi e di famiglie di rango feudale trapiantate in Sicilia furono episodiche e non durature. Fu questo il caso dei Cicala di Alife che raccolsero nell'isola la contea di Golisano: Paolo ai primi del secolo era nel giro di corte magister comestabulus; Andrea, capitano del regno, fu tra gli interpreti più autorevoli degli indirizzi della corte finché, nel 1246, non fu coinvolto nella congiura che l'imperatore disilluso puni ferocemente 2. Quando, sotto Manfredi, la feudalità, o almeno certa feudalità, ebbe più largo spazio 3 il baricentro della vita politica del regno si era più decisamente spostato nella parte peninsulare e le nuove infeudazioni e gli accrescimenti ebbero luogo in cospicua misura in terraferma. Chi — sembra — ebbe più larga fetta in Sicilia, fu Federico Maletta conte di Vizzini, figlio di Manfredi conte di Mineo - e di Frequente, apprezzato verseggiatore, grande camerario del regno; il quale Manfredi nel 1262 diede in sposa la nipote Isabella, figlia di Federico, a Federico di Pagliara e le assegnò con atto rogato in Termoli la dote di 1000 onze, per la quale lo sposo diede a suo volta ipoteca su tutti i suoi beni ". Ricchezza e angustie, però, andavano insieme: e non avvenne solo in questo matrimonio della nipote di uno fra gli uomini ai quali le necessità e le incertezze della dinastia davano al momento ricchezza e potere e più tardi furono motiva di travagli. Dopo Federico II, ma per breve spazio e tra grosse difficoltà e tra le nubi che si avvicendavano e la tempesta che si annunciava, si allargavano le maglie del controllo che la dinastia, non appena ne aveva avuto possibilità, aveva stabilito sulla feudalità, e di cui fu esplicitazione esemplare l'ingerenza pretesa dal sovrano in sede di successione e di matrimonio. La const. III 24 De successione nobilium in feudis stabili che alla morte del conte e del barone i figli e i nipoti non osassero ricevere giuramento dai loro ,
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uomini « se non prima avuta licenza e mandato di ricevere licenza dalla nostra (del re) eccellenza, come è costume ». Se la norma legislativa dichiaratamente ripeteva una costumanza, la sanzione prevista era pesante: confisca della baronia o del feudo e di tutti i beni mobili e immobili. La const. III 25 De morte baronis nuncianda imperatori fece obbligo che, dopo la morte di un barone o conte che aveva, da conte o da altro barone, feudo o baronia iscritta nei quaterniones della doana regia, fosse data comunicazione alla corte da parte del concedente dichiarando quanto il defunto teneva da lui e trasmettendo anche un elenco dettagliato dei beni mobili lasciati. La conferma della investitura agli eredi dipendeva dall'assenso del sovrano. Erano norme già nel costume, come ripeteva il legislatore, ma norme, pure, la cui applicazione o desuetudine segnavano una frontiera fra il potere e il controllo del sovrano e l'autonomia e l'ambizione dei feudatari. Altro confine che in alcune parti del regno aveva ceduto per il sovrapporsi di una consuetudine diversa, e che invece la legislazione fridericiana ripropose, fu l'autorizzazione preventiva al matrimonio del feudatario. La const. III 23 De uxore non ducenda sine permissione curie stabili « che nessun conte, barone, milite o nessun altro che teneva baronie, castelli, feudi (in capite) da noi (dal re) o da altri che si trovino iscritti nei quaderni della nostra (regia) doana, osi senza nostro (del re) permesso, prendere moglie, maritare figlie, sorelle, nipoti (o chiunque altre), che essi possano o debbano maritare, o sposare figli con mobili e immobili senza che osti a questa legge la consuetudine che si dice abbia avuto vigore in alcune parti del regno ». Una disposizione analoga aveva suscitato forte malcontento sotto Guglielmo I, contribuendo alla mala nomea di quel re, e non pare che avesse avuto applicazione. Federico rincarò la dose estendendola nei confronti di quanti tenevano feudi non quaternati e soprattutto esigendone l'applicazione, favorito in questo dal declino della feudalità. Nel febbraio del 1240 la corte prendeva atto dei capitoli del giustiziere della Sicilia citra Salsum, il quale scriveva che in esecuzione del mandato regio aveva cercato i feudatari, e aveva raccolto nella sua giurisdizione 20 militi « in congruo apparato di armi e di cavalli », e che dai rimanenti feudatari faceva approntare 40 militi « decentemente equipaggiati in armi e in cavalli » e raccoglieva la sovvenzione tra loro « secondo le capacità dei
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feudi ». Nell'aprile dello stesso anno 1240 Federico dava mandato ai giustizieri di fare presentare entro il 1° giugno in Capua un certo numero di militi bene armati (241 in tutto): 60 di essi nel giustizierato della Sicilia citra (il conto torna con il precedente documento), 15 in quella ultra Salso (e cioè nell'isola il 31,12%: il 24,90% nella parte orientale, il 6,22% nella occidentale); e poi 10 in Calabria, 15 in Val di Crati, 40 in Basilicata, 30 in Terra di Otranto, 6 in Terra di Bari, 5 in Capitanata, 60 in Terra di Lavoro 5. Non che si voglia assumere questa occasione a campione della presenza di insieme e della distribuzione della feudalità entro il regno, ma il numero degli arruolati è pur segno del deperimento della feudalità, di quella media e minore almeno. Il limone, quali che fossero i bisogni e i desideri di spremerlo, in quel 1240 dava succo esiguo! Se era, entro certi limiti, risposta agli indirizzi di controllo, di compressione messi in atto da Federico, questa condizione profilava il collasso del sistema politico sociale, la preservazione del quale ispirava e orientava la legislazione. Tra il 1247 e il 1248 la corte dovette rendersi conto che il feudo era investito da un processo di avanzata disgregazione e di impoverimento. Occasione a prenderne atto era offerta dalle difficoltà che incontravano gli ufficiali che avrebbero dovuto, nei giustizierati, reintegrare i feudi, e che denunciavano situazioni impreviste sulle quali mancavano di informazioni e di disposizioni, complicate anche dall'assenza dei feudatari in larga parte in servitio. I reintegratori in Sicilia, Guglielmo di Tocco e Giacomo di Accia, segnalavano l'esistenza in Taormina, Randazzo e altrove, e particolarmente in Val di Milazzo, di feudi detti « sita ad collum » per cui i feudatari erano tenuti alla custodia marittima con cavallo, scudo, panciera, giubbotto, casco e lancia per 3 mesi a loro spese. Segnalavano pure l'esistenza di « feudatari poveri » che tenevano feudi di 2, di 3, fino a 10 villani e, malgrado i loro non fossero feudi di militi, pagavano lo adohamentum in proporzione del servizio alla curia; e chiedevano se dovevano interessarsene. La risposta della corte fu negativa con una motivazione (« dal momento che questi feudi non sono militari ») che rimane indicativa della finalità precipua della missione dei reintegratori. A Lentini e Siracusa i due ufficiali trovarono terre vuote e sterili, ma demanie feudorum, che erano state date a piantar vigne con contratti fra feudatari e borghesi. All'incertezza manifestata dai reintegratores
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la corte rispose che se locati ad annuo censo, i terreni dovevano essere riportati « ad ius et proprietatem feudi », mentre non erano da revocare se dati « ad una certa parte dei frutti ». Si trovarono pure, i reintegratori, dinanzi a castelli o terre che appartenevano a contee ricevute dalla curia, senza per altro poter sapere attraverso le indagini condotte di quanti feudi consistessero. E c'erano feudi, « come si dice dai più vecchi », limitati da confini sicuri, e i possessori avevano case e vigne fuori questi confini (al quesito se avesse luogo la presunzione che « qualunque cosa ha il feudatario sia del feudo », la risposta della corte fu negativa: « anzi il contrario con ragione molto evidente »). L'erosione delle strutture del feudo e, a guardare addentro, il dinamismo che la procurava, risultava dai dubbi che i reintegratori trovarono addirittura sulla consistenza del feudo, e sui motivi per i quali sarebbe venuto meno ogni riferimento. « Avete scritto anche che vi viene materia di dubbio, in quanto si dice che i feudi di Sicilia furono stabiliti in 30 pariclate di terra nella misura di 30 salme a pariclata, e però non è provato perché ne manca memoria tra i contemporanei, e poiché si dice che i villani furono saraceni e dato che essi sono morti o scacciati di Sicilia il demanio del feudo non può essere distinto; e in tal caso siccome il feudatario tiene tutto il feudo in suo demanio, ritenete che tutto sia demanio e che i feudi di essi in qualsiasi modo alienati siano da revocare, quantunque — come dite — numerosi esperti dissentano da voi su questo punto » (la conclusione della corte fu di presumere « che sia stato tutto demanio, se non si provi il contrario ») 6. La crisi del feudo, a questo punto e in queste dimensioni, non era certo più propria ed esclusiva della feudalità; combinata com'era con la condizione dei borghesi e strettamente e assiduamente con la villanale. In effetti, nell'isola, ove feudo e feudalità avevano avuto impianto e assunto fisionomia con la conquista normanna, e che continuava ad essere ufficialmente sedes regni, l'aristocrazia di ceppo feudale negli ultimi anni di Federico II non aveva più nemmeno ruolo e funzione quali, seppure in via complementare, aveva tenuto sul piano economico e su quello demografico (con la partecipazione alla promozione di bonifiche e di immigrazioni) e su quello po li tico e culturale (nella stimolazione della trasformazione della situazione etnico-religiosa). Se la condotta della dinastia normanna era stata ambigua, tra la comprensione secon-
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dando le affinità e i legami di origine e di costume e di sangue e perché i principi erano psicologicamente propensi a riconoscere certe posizioni e certi privilegi dei fedeli di antico e di nuovo acquisto, e la compressione per gelosia, per sospetto o per necessità dinanzi a pretese esuberanti, e se la monarchia fu tendenzialmente distesa verso quanti non la intralciavano e dura contro chi manifestava pretensioni aggressive; sotto Federico II, emarginati ritegni e suggestioni affettive, i feudatari in quanto ceto non esercitarono funzioni né ebbero incidenza larga. Il dispotismo si appoggiò sulla burocrazia marcando decisamente l'indirizzo già portato avanti dai normanni per opportunità e per necessità di far ricorso ad esperienze più mature di quelle prevalentemente militari dei loro commilitoni e fedeli e poi dei figli e discendenti di essi. L'ordinamento ricostituito nel regno da Federico poggiò sulla continuità e sul rinnovamento e l'allargamento di un ambiente di ufficiali dai livelli di abilità e di sensibilità elevati per l'epoca. Ambiente colto, quando non raffinato, meno velleitario, meno irrequieto, e, ancor se non raccolto e tranquillizzante in ogni occasione e in ogni persona (si ricordino le trame scoperte o sospettate, punite con crudele durezza tra il 1246 e il 1250), tale che assicurò, nel continuato estenuante impegno militare, il funzionamento dell'apparato amministrativo e finanziario e la sopravvivenza e la persistente fama di vigoria del regno. A questo ceto di burocrati Manfredi sovrappose al vertice quelli che riteneva dovessero essere a lui più fidi per parentela e per affinità: i Lancia (famiglia della madre), gli Anglona (suoi zii), i Filangieri: uomini che venivano dal feudo e i cui feudi crebbero. Ma a parte che essi non ebbero né i beni né i maggiori interessi nell'isola (e del resto morto Federico lo spostamento del baricentro fuori di Sicilia si allargò), l'effimera permanenza nel ruolo non valse a costituire una dirigenza politicoburocratica di natura aristocratico-feudale; e questa esperienza degli spazi di potere che le difficoltà della monarchia aprivano all'ambizione della nobiltà del feudo si inserì e si esaurì nella convulsa conclusione della vicenda degli Staufen nel mezzogiorno d'Italia.
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2. Vicende di chierici e vicende delle chiese Le vicende, contrastate, della feudalità e quelle di singoli feudatari avevano radici e sviluppo nell'ambito del regno, se non proprio nel più stretto giro siciliano Avvantaggiati o vittime, volenterosi o refrattari, ceto e persone risentivano degli avvenimenti che si verificavano nel più vasto scenario ove erano protagonisti, e spesso antagonisti, papa e imperatore, sovrani e cittàstato; ma la fortuna dell'uno e delle altre era ostinatamente locale, dell'isola e del regno. Nasceva di solito in questi e in questi si esauriva. Al di fuori non rappresentava né motivo né problema; poteva solo essere occasionale aggancio. Diversa era la condizione del clero: soprattutto nella gerarchia. Difficilmente, molto difficilmente, esso poteva sottrarsi alla scelta che era imposta dal contrasto risorto e continuato tra impero e papato, che attraverso l'unione delle due corone prima e la eredità della tradizione sveva poi, diventò fra monarchia di Sicilia e curia di Roma. Segui una via propria e di eccezione un personaggio quale Ermanno di Salza, fondatore di fatto e gran maestro dell'ordine teutonico, il quale riuscì a porsi al di fuori di queste difficoltà, o almeno a emarginarle, perseguendo campi di azione nei quali interessi, politici ed etici, dell'impero e del papato si combinavano e che esulavano dai temi delle relazioni reciproche e della egemonia temuta. Ermanno, e con lui l'ordine teutonico, furono interpreti e promotori di presenze operose e con originalità di atteggiamenti: strumenti dell'espansione del germanesimo e pure del cattolicesimo, riuscirono a serbare, verso gli Staufen e verso i pontefici, la distaccata deferenza e non ebbero a temere collere improvvise come non cercarono particolari lusinghe e vantaggi personali nel giro della corte e degli uffici. Che non è il caso delle altre personalità che furono presenti e influenti, magari con il concorso del grado nella gerarchia ecclesiastica (e per più di uno in essa e entro la nobiltà feudale), ma a titolo e con interessi strettamente individuali e difficilmente con la scorta di convinzioni che accompagnassero le proprie scelte. Non senza aderenza, tra questi ecclesiastici alla corte sveva è più facile trovare accorti diplomatici che politici aperti'. Non è altrettanto agevole rifare le tracce di una linea po li -
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tica, quanto è facile arguire il bisogno di essere presente e in primo piano, in colui che anche per Innocenzo III era il cancelliere per antonomasia: Gualtiero di Pagliara dei conti di Manoppello vescovo di Troia alla discesa di Enrico VI dal quale ricevette la carica prestigiosa di cancelliere, considerato traditore e poi recuperato da Costanza tanto da essere designato fra i reggenti nella minorità di Federico, scomunicato per essersi accordato con Marcovaldo quando era passato nel regno Gualtiero di Brienne marito della figlia maggiore di re Tancredi al quale il papa aveva promesso la contea di Lecce e che sembrava destinato a scavalcarlo quale arbitro nel regno, ritornato in primo piano nella reggenza con il favore di Innocenzo III, solo al vertice seppure mai incontrastato dopo la morte di Marcovaldo e l'arresto da lui stesso ordinato di Dipoldo di Vohburg, allontanato dal cancellierato nel 1210 da Federico II il quale gli rimproverava di avere tollerato e provocato la dispersione del demanio (e il papa ne prese indignato le difese) e relegato nel vescovado di Catania ma di lì a non molto recuperato, uscito definitivamente dal giro di corte nel 1221. Senza oscillazioni e traumi apparenti si svolse la vicenda di Berardo di Castacca, nella costante aderenza alla linea fridericiana, con la pacata inclinazione a fare, quando possibile, da mediatore con il papato. Di famiglie dell'aristocrazia pugliese, arcivescovo di Bari poi di Messina, Berardo nel 1212 segui Federico in Germania e con lui rimase fino al 1215, quando l'imperatore lo inviò legato al concilio lateranense. Fu durante questa permanenza in Germania nel 1213 che Berardo fu promosso all'arcivescovado di Palermo con l'entusiasta adesione del pontefice. Berardo rimase costantemente nel giro di corte finché visse l'imperatore, preferendo la vicinanza diretta e pur gradendo gli incarichi di delicata diplomazia: nel 1227 in missione al Cairo nella ricerca della via più conveniente al recupero di Terrasanta, nel 1230 con Ermanno di Salza nei negoziati con il papa seguiti allo scontro dopo il precipitoso ritorno di Federico, ambasciatore al papa nel 1238, nel 1243 e nel 1245, dopo aver preso parte al concilio generale di Lione quale legato pontificio, ripetendo in queste occasioni l'offerta di conciliazione senza però deflettere dal sostenere le ragioni dell'imperatore (e per questo coinvolto nella scomunica papale). Che Berardo avesse tempo di occuparsi della sua prestigiosa archidiocesi solo dopo la morte di Federico,
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quando ottuagenario le ambizioni terrene non potevano riservare né aspettative né lusinghe, non fa meraviglia. Fino allora nei confronti del suo gregge Berardo poteva semmai avere un merito, che non era poi di pietà: aveva preservato la sua chiesa dall'aggressività che la corte trasferiva, nelle divergenze con Roma, sul clero meno docile. La frizione fra sovrani di Sicilia e pontefici non fu immediata conseguenza della discesa di Enrico VI nel regno. Ci vollero la caduta della cauta attesa che la linea politica avviata da Federico I — di unione fra regno e impero, di recupero nell'Italia settentrionale — non si ripetesse, e la riprova a Roma della inconciliabilità fra interessi pontifici e presenza degli Svevi in Italia, e alla corte siciliana i sospetti e le prove di trame interne e di indocilità suscitate o sorrette dalla curia pontificia. Le difficoltà in cui venne a trovarsi Ursone vescovo di Agrigento furono sotto Enrico del tutto personali (si diceva che fosse figlio di Tancredi al quale certamente egli, ignotus alla chiesa di Agrigento, doveva il vescovado), mentre l'ascesa di Gualtiero di Pagliara può essere stata favorita dalla presunzione che egli potesse servire a smussare talune punte con la curia romana, che non era assolutamente interesse di Enrico tenere acute, quando la conquista del regno era molto precaria e la situazione in Germania e nell'Italia settentrionale era lungi dall'essere tranquilla. Costanza, poi, era schiettamente credente: chi sa, tra tanti travagli, con il rimpianto di un « dolce chiostro » e di un abito di monaca che non aveva indossato. Alla morte di Costanza la tutela assegnata a Innocenzo aprì prospettive ai livelli politici al papa e al clero, quello locale e quello di Roma, e però di fatto nelle lunghe perturbationes furono duramente intaccate le dotazioni dei vescovadi del Val di Mazara e fu sconvolta l'organizzazione portata avanti nelle diocesi. Nei primi anni di regno l'atteggiamento di Federico nei confronti del clero fu conciliante e in alcuni casi amichevole. Non può essere considerato sintomatico l'allontanamento temporaneo di Gualtiero di Pagliara seppure non è improbabile che abbia concorso il desiderio di liberarsi di un uomo che intratteneva con Roma relazioni al di fuori della stretta e aperta rappresentanza del re. Federico si mostrava contemporaneamente piuttosto sollecito verso l'arcivescovado di Palermo: nel gennaio del 1211 concedeva all'arcivescovo eletto « nell'intenzione che la chiesa, la più nobile del regno, fosse
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pure la più ricca » tutti i giudei che abitavano o che sarebbero venuti ad abitare nella città e « totam tinctam »; nell'aprile gli confermava la decima delle tonnare, e nell'ottobre gli rilasciava conferma dei beni e dei privilegi che essa aveva o vantava elencandoli partitamente; nel 1215 concedeva il castello di Caccamo, e nel dicembre del '16 altri 3 casali dichiarando particolare gratitudine all'arcivescovo Berardo. Nel marzo del 1211 la pietas regia si volse anche all'arcivescovado di Messina e al suo presule, che allora era Berardo, confermandone partitamente possessi e privilegi. Nell'assenza di Federico, la reggente Costanza d'Aragona nel marzo del 1213 si preoccupava di compensare la chiesa di Catania delle vessazioni che essa aveva subito ad opera dei « traditori » de Parisio, del conte Gualtiero e poi del conte Pagano, con la concessione del castello di Calatabiano appositamente recuperato. Nel 1215 il prelievo dei 2 sarcofagi destinati da Federico a ll a sepoltura del padre e alla propria quando sarebbe venuta l'ora, valse alla chiesa di Cefalù il feudo « de Cultura seu de Cuttura ». Federico si mostrava pure, con privilegi di conferma e ripetute disposizioni tutelative, preoccupato del recupero dei beni e della tranquillità dell'arcivescovado di Monreale; e in questo, come nelle diocesi di Agrigento e di Mazara, ragioni della corte, della chiesa locale e di tutta la chiesa, coincidevano nella peculiare questione del controllo dei musulmani. In questa inclinazione Federico, nel luglio, faceva un grosso passo assicurando al pontefice che le elezioni dei prelati di lì innanzi si sarebbero svolte liberamente e nel rispetto dei canoni e che non si sarebbe ripetuta la consuetudine praticata dai re predecessori di entrare in possesso dei beni delle chiese vacanti 8. Ma il discorso non continuò su questo piano, della restaurazione del clero nei grossi patrimoni feudali e nelle prerogative acquistate in epoca normanna, e di un più disteso rapporto anche verso Roma. Mentre si invelenivano le relazioni fra Federico, imperatore oltre che re, e il papato disilluso nelle aspettative di gratitudine e di ricompensa (« a te provvide la madre chiesa, tali benefici ti recò da fanciullo e da adulto », si sfogava Onorio III nel 1226) e timoroso dinanzi alla ripresa della linea politica volta all'egemonia attraverso la saldatura fra Germania, Italia settentrionale e regno di Sicilia, la gerarchia ecclesiale siciliana si trovava dinanzi alla duplice difficoltà di una scelta che si faceva indeclinabile e del comportamento nei confronti del despota
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non disposto a indulgere a concessioni che non fossero coincidenti con i suoi piani. Onorio III rimproverava all'ingrato pupillo della chiesa di ripristinare quello che ora egli, Federico, affermava essere diritto della monarchia di Sicilia nelle elezioni dei prelati, dimentico di quel che ne aveva scritto la madre e che aveva riaffermato egli stesso. Scendendo ai fatti, Onorio lamentava che il vescovo di Taranto, il quale « poco avanti era ritenuto quasi un sol cuore e una sola anima con il principe » all'improvviso fosse stato considerato « traditore e ladro e detrattore del sangle proprio, e fosse stato punito e la pena aveva preceduto il giidizio e l'esecuzione non aveva atteso la difesa ». E ricordava il vescovo di Catania, e cioè Gualtiero di Pagliara, passato titolare di quella chiesa « della cui prodigalità dici che fu corroso tutto il regno » (« E se per lui la mercede avesse dovuto corrispondere ai travagli, se i frutti ai servizii, se il premio ai meri .i , altro per certo dovrebbe ricevere di quel che gli vien dato; e no ignori quel che la tua Magnificenza promise in suo favore a Feentino, e quello che ai nostri fratelli promise in San German< »). Poi passava al vescovo di Cefalù « contro il quale dici che I sangue degli uccisi chiama a noi dalla terra, né la vita né la sloliazione è celata sotto nube ». Federico — accusava il papa — aveva aggredito la chiesa in ogni grado: « scosse le colorn e della chiesa, e cioè i prelati, il rigore della tua oppressione atterrisce i chierici di grado e di ordine inferiore » 9. lo scontro fra regno-impero e papato muoveva entro il clero perplessità e diffidenze, Federico per parte sua era svincolato la abituali riguardi. Nel 1231, con le leggi pubblicate in Meli l'amministrazione delle sedi vacanti fu regolata come fatto di eslusiva pertinenza della monarchia, sia pure ostentando preoccupatone di evitare « che le cose della chiesa fossero sminuite ». Più he della successione nelle sedi vacanti, e non solo per le more e per eventuali inceppi che potevano venire tra l'elezione e la ccrsacrazione, Federico si dimostrava preoccupato dell'amministrzione dei beni di esse: che era mezzo per dare aiuto alle stame finanze del regno ßl marzo 1239 tra i motivi della scomunica e dell'anatema di ppa Gregorio IX contro Federico era « che non permette che , cune chiese cattedrali e altre vacanti nel regno siano ricostituie »; e il pontefice elencava 20 vescovadi vacanti e fra essi in Siilia Cefalù e Catania e 2 monasteri (quello di Venosa e
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pure la più ricca » tutti i giudei che abitavano o che sarebbero venuti ad abitare nella città e « totam tinctam »; nell'aprile gli confermava la decima delle tonnare, e nell'ottobre gli rilasciava conferma dei beni e dei privilegi che essa aveva o vantava elencandoli partitamente; nel 1215 concedeva il castello di Caccamo, e nel dicembre del '16 altri 3 casali dichiarando particolare gratitudine all'arcivescovo Berardo. Nel marzo del 1211 la pietas regia si volse anche all'arcivescovado di Messina e al suo presule, che allora era Berardo, confermandone partitamente possessi e privilegi. Nell'assenza di Federico, la reggente Costanza d'Aragona nel marzo del 1213 si preoccupava di compensare la chiesa di Catania delle vessazioni che essa aveva subito ad opera dei « traditori » de Parisio, del conte Gualtiero e poi del conte Pagano, con la concessione del castello di Calatabiano appositamente recuperato. Nel 1215 il prelievo dei 2 sarcofagi destinati da Federico alla sepoltura del padre e alla propria quando sarebbe venuta l'ora, valse alla chiesa di Cefalù il feudo « de Cultura seu de Cuttura ». Federico si mostrava pure, con privilegi di conferma e ripetute disposizioni tutelative, preoccupato del recupero dei beni e della tranquillità dell'arcivescovado di Monreale; e in questo, come nelle diocesi di Agrigento e di Mazara, ragioni della corte, della chiesa locale e di tutta la chiesa, coincidevano nella peculiare questione del controllo dei musulmani. In questa inclinazione Federico, nel luglio, faceva un grosso passo assicurando al pontefice che le elezioni dei prelati di li innanzi si sarebbero svolte liberamente e nel rispetto dei canoni e che non si sarebbe ripetuta la consuetudine praticata dai re predecessori di entrare in possesso dei beni delle chiese vacanti 8 Ma il discorso non continuò su questo piano, della restaurazione del clero nei grossi patrimoni feudali e nelle prerogative acquistate in epoca normanna, e di un più disteso rapporto anche verso Roma. Mentre si invelenivano le relazioni fra Federico, imperatore oltre che re, e il papato disilluso nelle aspettative di gratitudine e di ricompensa (« a te provvide la madre chiesa, tali benefici ti recò da fanciullo e da adulto », si sfogava Onorio III nel 1226) e timoroso dinanzi alla ripresa della linea politica volta all'egemonia attraverso la saldatura fra Germania, Italia settentrionale e regno di Sicilia, la gerarchia ecclesiale siciliana si trovava dinanzi alla duplice difficoltà di una scelta che si faceva indeclinabile e del comportamento nei confronti del despota .
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non disposto a indulgere a concessioni che non fossero coincidenti con i suoi piani. Onorio III rimproverava all'ingrato pupillo della chiesa di ripristinare quello che ora egli, Federico, affermava essere diritto della monarchia di Sicilia nelle elezioni dei prelati, dimentico di quel che ne aveva scritto la madre e che aveva riaffermato egli stesso. Scendendo ai fatti, Onorio lamentava che il vescovo di Taranto, il quale « poco avanti era ritenuto quasi un sol cuore e una sola anima con il principe » all'improvviso fosse stato considerato « traditore e ladro e detrattore del sangue proprio, e fosse stato punito e la pena aveva preceduto il giudizio e l'esecuzione non aveva atteso la difesa ». E ricordava il vescovo di Catania, e cioè Gualtiero di Pagliara, passato titolare di quella chiesa « della cui prodigalità dici che fu corroso tutto il regno » (« E se per lui la mercede avesse dovuto corrispondere ai travagli, se i frutti ai servizii, se il premio ai meriti, altro per certo dovrebbe ricevere di quel che gli vien dato; e non ignori quel che la tua Magnificenza promise in suo favore a Ferentino, e quello che ai nostri fratelli promise in San Germano »). Poi passava al vescovo di Cefalù « contro il quale dici che il sangue degli uccisi chiama a noi dalla terra, né la vita né la spoliazione è celata sotto nube ». Federico — accusava il papa — aveva aggredito la chiesa in ogni grado: « scosse le colonne della chiesa, e cioè i prelati, il rigore della tua oppressione atterrisce i chierici di grado e di ordine inferiore » 9. Se lo scontro fra regno-impero e papato muoveva entro il clero perplessità e diffidenze, Federico per parte sua era svincolato da abituali riguardi. Nel 1231, con le leggi pubblicate in Melfi, l'amministrazione delle sedi vacanti fu regolata come fatto di esclusiva pertinenza della monarchia, sia pure ostentando preoccupazione di evitare « che le cose della chiesa fossero sminuite ». Più che della successione nelle sedi vacanti, e non solo per le more e per eventuali inceppi che potevano venire tra l'elezione e la consacrazione, Federico si dimostrava preoccupato dell'amministrazione dei beni di esse: che era mezzo per dare aiuto a ll e stanche finanze del regno 10 Nel marzo 1239 tra i motivi della scomunica e dell'anatema di papa Gregorio IX contro Federico era « che non permette che alcune chiese cattedrali e altre vacanti nel regno siano ricostituite »; e il pontefice elencava 20 vescovadi vacanti e fra essi in Sicilia Cefalù e Catania e 2 monasteri (quello di Venosa e
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in Sicilia il basiliano del Salvatore in Lingua Phari) e scomunicava l'imperatore perché, di più, aveva spogliato dei beni monasteri e cattedrali (Monreale, Cefalù, Catania e fuori Sicilia Squillace) e numerose chiese. C'erano pure tra i motivi le taglie e le imposte pretese dalle fondazioni religiose, la mancata restituzione dei beni ai templari e agli ospedalieri, la imposizione ai prelati e agli abati cistercensi e di altri ordini di un tributo mensile per la costruzione di castelli " Non mancavano al papa motivi per caricare le tinte e la drammatizzazione non era fuori il costume della curia romana. Ma, al di là di ogni esagerazione, in quegli anni il clero siciliano non solo non era casta di potere, ma era in serie difficoltà: e non tanto per l'incidenza delle tassazioni, che colpivano chiese e chierici non più e non meno che feudatari e private persone, ma ancora per la dispersione e la difficoltà di conduzione del patrimonio a seguito delle fughe, delle ribellioni dei soggetti e della crisi del villanaggio. Che non erano, anche questi, danni propri delle chiese e dei monasteri, ma furono aggravati in più casi dalla particolare aggressività della corte che si esercitò su quei monasteri (Catania, Cefalù, Monreale) che con la dignità di sede e capo di diocesi avevano avuto larga signoria sul territorio; mentre la compressione dell'archimandrato del Salvatore di Messina significava la messa in crisi del punto di riferimento delle fondazioni basiliane e ulteriore scoraggiamento ad eventuali intenzioni di rilancio dei basiliani nell'isola. L'ostilità di Federico colpiva ancora gli ordini cavallereschi in espansione, dei templari e degli ospedalieri, che pure, nei primi anni del regno, avevano beneficiato della sua favorevole inclinazione. E si allargava ai nuovi ordini, particolarmente attivi nel proselitismo: nel 1240 Federico dispose addirittura che i minori e i predicatori fossero allontanati dal regno. L'ingiunzione non fu applicata con tutto il suo rigore, ma non mancarono fatti particolari piuttosto gravi; e già prima, nel dicembre del 1239, Federico del resto dava disposizione al giustiziere della Sicilia e al secreto di Palermo che i frati minori, che avevano lasciato la chiesa di S. Giorgio che era di collazione regia, non potessero né riattare né costruire ex novo case nella città lz. Le punizioni e le aggressive ritorsioni di Federico non erano né in questa né in altre occasioni mosse da irreligiosità e tanto meno da religiosità e da moralità diverse da quelle allora cor-
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renti; sui due ordini gravava il sospetto che, strettamente ligi alla curia romana, non limitassero la loro opera entro la sfera religiosa (che, poi, nella sensibilità e nella pratica dell'epoca non era considerata autonoma dalla politica). Manfredi, il quale pure ne ripeté le misure suscitando analoga irritazione in Roma 13, scusava più tardi Federico assicurando che aveva dovuto agire contro voglia. Era spregiudicatezza piuttosto tesa, ma non inedita neppure nei confini di Sicilia, e ad essa non può certo attribuirsi il carisma di « modernità »; e perché l'epoca moderna (come si suol dire) non può andare fiera, o vergognosa, di una pratica di stretto utilitarismo e di strumentalizzazione della sfera più seria dell'esistenza non materiale e perché neppure Federico sfuggì, e tanto meno quando senti approssimarsi la crudelissima sorella morte, alle preoccupazioni per l'aldilà e alla pratica di atti di carità che valessero ad ottenere perdono dei peccati o riduzione dell'espiazione 14. Ed entro questo quadro si collocano i fastidi non sofferti e i vantaggi talora goduti da chiese, quali la palermitana, che beneficiarono della prolungata presenza a corte del loro presule e da un ordine, il teutonico, che rimase vicino all'imperatore e non suscitò apprensioni di infedeltà o di ambiguità. E c'è piuttosto da chiedersi se anche nella disseminazione di dipendenze entro l'isola (a Messina, Agrigento, nei territori di Corleone, Polizzi, Vicari, Capizzi, Castronovo) l'operosità dei frati teutonici non sia stata assecondata nel calcolo che essi costituivano punti di riferimento e di eventuale sostegno da privilegiare anche nei confronti del clero locale, da parte di Federico che siciliano era e si sentiva ma non è agevole precisare in quanta parte, e nel resto era tedesco, sì che nel regno poteva considerare particolarmente vicini i « teutoni » e in « Alemagna » i « siciliani »! Per altro, quei frati della magione di Palermo, a livello di precettore e di capitolo, rimasero per allora « teutonici » e perché seguivano la regola dell'ordine e per sangue, mantenendosi estranei al processo di aggancio del clero al territorio. Questo aggancio, del resto, coinvolse in misura molto limitata, oltre i personaggi più vicini alla corte e al giro di potere (da Gualtiero di Pagliara a Berardo che furono regnicoli del continente e amministrarono di fatto diocesi siciliane solo nella vecchiaia o nella magra fortuna) 15, la gerarchia ecclesiale, anche per la persistente scarsa inclinazione dell'aristocrazia feudale dell'isola a riversarsi nel sacerdozio e negli ordini monastici.
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3. Borghesia e burgisato Nello schema della legislazione di epoca sveva tra la persona nobile per dignità del feudo e la condizione villanale stava il burgensis. Era la partizione degli anni dei normanni che a loro volta non ne furono inventori, ma la ripetettero in quel trapianto e adattamento di istituti e di forme che talora poté anche essere felice e in ogni modo andò incontro alla esigenza, così vivace seppure non originale in quei secoli, di riconoscere e dividere gruppi e persone per scomparti e per gradi. E ancora in epoca sveva la qualifica burgensis assommava una fascia di situazioni e di condizioni di fatto piuttosto variegata, per la differenza in cui, di luogo in luogo, la condizione di sudditi poneva in ordine agli obblighi e alle prestazioni verso il fisco e gli ufficiali regi, ovvero verso il dominus loci o il suo rappresentante se la terra nella quale risiedevano era infeudata, e sul piano dei diritti per la misura e le modalità della partecipazione alla gestione locale. Partecipazione in ogni modo estremamente moderata, perché gli Svevi non furono assolutamente indulgenti entro il regno verso le forme di autogoverno locale di cui si presentavano antagonisti impegnati nel più vasto scacchiere. Non è solo questa diversa, e contratta, misura di partecipazione alla gestione a dare figura alla borghesia siciliana e ad ostare alla attribuzione ad essa, o magari a frazioni di essa, di connotazioni coincidenti con quelli del populus attore e addirittura protagonista in alcune regioni dell'Italia centro-settentrionale e dell'Europa centrale. La carenza di potere nella minorità di Federico II non bastò a dare spazio ad autonomie locali, verso le quali in quegli anni non mancò un certo, sia pure episodico, incoraggiamento dai legati pontifici ai quali andava una dose di iniziativa formale e di potere effettivo. A parte la brevità del tempo e i fermenti rimasti confusi (che di per sé non sono ragioni né elusive né conclusive) ostava la fragilità propria del ceto che avrebbe dovuto realizzarle. La borghesia, in senso non meramente giuridico né sotto l'aspetto strettamente quantitativo, ma come classe con connotati e inclinazioni definiti o in avanzata maturazione, era uscita gracile dalla dominazione normanna e si trovò ad operare sotto la nuova dinastia in condizioni che, quando non furono frustranti, non la sorressero di certo. La monarchia
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non le fu assolutamente amica, anche se amica non fu alla feudalità e nemmeno ai ceti più umili. Lo scontro nel quale gli Svevi consumarono fortune e vite proprie e risorse del paese non fu tanto contro rivali e ribelli entro il regno: incisivi sul piano locale, contrasti e problemi quali la convivenza rotta con i musulmani assumevano dimensione minuscola a paragone con l'urto continuato sul doppio fronte papato-comuni, mentre non furono identificati interessi che determinassero convergenza di obiettivi fra dinastia e ceto medio. I normanni, che non avevano avuto in questa direzione né stimoli né frustrazioni di più vasta natura politica e tanto meno ideologica, avevano giostrato sul movimento commerciale che era la linfa che dava alimento alla crescita della borghesia in quel secolo XII, attenti piuttosto che il fisco regio ricavasse adeguati vantaggi con le tratte di esportazione e incuranti se degli utili fossero o meno partecipi operatori locali. Se una sensibilità può presumersi fu semmai verso i produttori agricoli: tra i quali, nell'ordine dei tempi, largo posto spettava alla aristocrazia del feudo, laica ed ecclesiastica. Le concessioni di condizioni privilegiate negli scambi e di esenzioni rientravano nell'intreccio corrente fra ragioni finanziarie e ragioni politiche. Rimasero queste, in epoca sveva, le linee nelle quali si mossero le clausole commerciali dei trattati con paesi stranieri. Enrico VI, nella necessità di avere il concorso di una flotta adeguata a sostenere l'invasione di un paese dallo sviluppo costiero estremamente esteso, fu particolarmente largo di promesse verso i genovesi, e fu nei confronti loro altrettanto duro quando, a conquista avvenuta, ne chiesero l'adempimento. I genovesi si rifecero con spregiudicatezza negli anni delle « perturbazioni », trasformando Siracusa e Malta in basi del comune. Nel 1200 ottennero larghe esenzioni nell'esportazione dei cereali, e con un ritorno indietro Federico II ripeteva nel 1230 ai suoi ufficiali le clausole del privilegio di Guglielmo II come ancora in vigore. Nell'intersecarsi di rapporti politici e commerciali, si arrivò pure nel 1238 alla proibizione da parte di Federico di fornire vettovaglie ai genovesi ribelli all'impero. Nel giro alterno, sotto Manfredi furono confermati antichi e nuovi vantaggi: le tasse doganali che dovevano a norma del privilegio di Guglielmo II furono ridotte di un terzo, essi ebbero facoltà di conservare le logge o di acquistare il terreno adatto a Gaeta, Napoli, Siponto
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e in Sicilia ad Augusta, Siracusa e Messina, e di tenere nelle città consoli che avessero giurisdizione anche sui crimini salvo l'omicidio e ottennero la fornitura di 10.000 salme di frumento per l'approvvigionamento della loro città. Fra i vantaggi di cui godettero i pisani, quando stavano in buone relazioni con la monarchia, era quello della libertà di commerciare, che nel 1221 Federico confermò nella scala più larga. Anche i veneziani, interessati particolarmente ma non esclusivamente ai mercati di Puglia, avevano il loro privilegio degli anni del buon Guglielmo Nel 1232 questo fu allargato, sempre distinguendo fra la parte continentale del regno e l'insulare (ove essi dovevano un'onza a nave in sosta per affari, indistintamente), con particolari condizioni per le piazze di Messina e di Palermo nelle quali erano sottoposti a tasse solo per l'esportazione di gemme lavorate ed ermellini. Erano condizioni valide quando i rapporti erano buoni; pronte ad essere cancellate quando questi si deterioravano e ad essere corrette in meglio se miglioravano. Nell'ottobre del 1239 i veneziani erano esplicitamente esclusi dall'esportazione di derrate e di bestiame dal regno, sia pure pagando tasse in misura normale; nel gennaio del '40, in momento di scarsezza di cereali, mercanti pisani avevano licenza di esportare dai porti di Palermo e di Trapani 1200 salme di frumento « ovunque tranne a Venezia ». Nel 1257, comunque, il privilegio ai veneziani fu rinnovato da Manfredi con alcuni chiarimenti relativi al commercio del grano, al quale rimanevano particolarmente interessati, per quella città, i porti di Puglia; fu pure confermata la « consuetudine » che risaliva agli anni di Guglielmo II per cui gli uomini del regno non potevano recare a Venezia merci acquistate « a Iadra citra nec ab Ancona citra », e il sale e il cotone prodotti nel regno non potevano essere portati da regnicoli da Idra fino a Venezia. Per le merci non prodotte nel regno e trasportate da regnicoli, questi pagavano quanto gli « amici della città. Altra via per il conseguimento di vantaggi e di sgravi fiscali, sia pure a titolo individuale, fu aperta dall'indebitamento della corte, e se ne giovarono operatori di diversi paesi ai quali a scomputo dei debiti era accordata la libera estrazione di vettovaglie. Come suole succedere, si cominciò per necessità e si continuava per vizio. Nel 1239 alcuni mercanti provenzali furono autorizzati ad estrarre vettovaglie a saldo di 1230 onze (il redvedito annuo presunto di oltre 61 feudi integri!) de lle quali ave-
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vano ricevuto solo 100, per la fornitura alla corte di una grande scodella di onice e di altre gioie 1e. Sarebbe eccesso di indulgenza mercantilistica far colpa al governo svevo di questi privilegi che in gran parte furono conferme e che non rappresentarono novità né costituirono esempio. Si potrebbe rimproverare piuttosto la mancata richiesta, perdurante essa pure, di reciprocità. Ché anche nel documento del 1257 con Venezia, che ha una certa traccia di trattato, fu netta la sproporzione fra il modo e la misura con cui il governo veneto si dimostrava impegnato a tutela dei propri mercanti e quelli con i quali la corte siciliana portava avanti le ragioni dei regnicoli che operavano nei porti dell'Adriatico. Per queste vie, i mercanti del regno non avevano da sperare, a Pisa o a Genova, o in altri porti del Mediterraneo cristiano, condizioni di vantaggio, e neppure a Venezia quelle di « nazione più favorita ». Ma se la corte sveva, come già quella normanna, non si preoccupò tanto di aprire e di assicurare spazi e stabili vantaggi ai mercanti siciliani, quale intraprendenza questi usarono per aprirsene loro stessi e per sensibilizzare e stimolare la corte? O che piuttosto, salvo le eccezioni che competono in ogni caso, essi furono confusi da svantaggi di partenza e dalle difficoltà di condizioni mobili e in via di complicazione? Il traffico marittimo sulle lunghe rotte esigeva capacità di organizzazione, capitali e sostegno alle spalle per i rischi che gli andavano legati. Non c'era più spazio per la singola nave, né per operatori sganciati da intese. La concorrenza senza rispetto, la guerra di corsa e la pirateria tra esse non distinguibili facilmente, mentre suggerivano la quotizzazione dei rischi e dei lucri, rendevano necessaria la navigazione per convoglio. Sul campo interno della Sicilia la documentazione delle condizioni attinenti è frammentaria e indiziaria. In Sicilia non rimangono, di tutta l'epoca sveva, registri notarili (le fonti, cioè, che hanno consentito una visione meno approssimativa e meno sciatta del commercio di talune città del settentrione d'Italia). Il registro di corte del 1239-1240 e stralci di registri di altri anni offrono riferimenti e agganci proficui per quel che concerne partecipazione e interessi della curia, ma per quel che riguarda la presenza dei singoli operatori (e, nella somma, di un ceto di operatori) non vanno oltre i suggerimenti e le indicazioni episodiche. • In Sicilia, nel passaggio di dominazione dai musulmani ai cristiani, era
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venuta meno (l'esodo era agevole, ovvio anzi) la flotta capace di tenere il mare alto; e la ricostruzione era stata avviata dalla dinastia, tenendo in particolare considerazione le esigenze militari, sì che l'impiego commerciale era subordinato o derivato. Gli Svevi, per parte loro, con un'ottica che superava l'ambito dell'isola, ma prescindeva pure da quello del regno, non deviarono da questo indirizzo. La consapevolezza e l'esperienza della necessità di disporre nelle basi del regno di una solida flotta in proprio che svincolasse dalla soggezione di patteggiamenti e dipendenze di fatto li impegnarono continuamente, da Enrico VI a Manfredi, nella attivazione del naviglio in funzione di difesa e di offesa e, quando era disponibile, nell'impiego commerciale L'organizzazione cantieristica di epoca musulmana nel secolo XIII fu definitivamente superata. Le darsene minori continuarono a lavorare quasi esclusivamente per le imbarcazioni da pesca e da cabotaggio sulle brevi distanze e per quelle di esiguo tonnellaggio; l'unico arsenale attrezzato e idoneo alla costruzione e alla riattazione delle navi maggiori divenne in Sicilia Messina, e vi fece capo la flotta regia (e anche il comando di essa stiede nella città). Della carenza entro il regno di alti quadri preparati, cui i normanni avevano cercato di ovviare ricorrendo ad uomini che vantavano esperienza nelle fl otte del levante, furono convinti anche gli Svevi, i quali provvidero chiamando alla carica di ammiraglio genovesi di parte imperiale: Guglielmo Porco (le cui peripezie si conclusero con la cattura tra i musulmani in rivolta) e sotto Federico II Enrico Pescatore conte di Malta, Nicolino Spinola, Ansaldo de Mari e il figlio Andreolo; e sotto Manfredi Filippo Chinardo, che fu tra i pochi titolari di grandi uffici non appartenenti alla cerchia dei parenti e degli affini del re. Nel registro del 1239-40 possono evidenziarsi, oltre le cure, le grosse spese che comportavano la costruzione e, la manutenzione delle navi e il mantenimento degli uomini. Nel 1241 l'armamento del « felice stuolo » che sconfisse la flotta genovese e catturò i prelati che andavano al concilio esaurì l'erario a tal punto, a quel che ne scriveva l'imperatore, da rendere necessaria l'imposizione di una colletta straordinaria. D'altro lato nelle pause, quando la flotta trovava impiego in operazioni commerciali, beneficiari non erano mercanti locali, che invece erano i
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più esposti ai rischi e ai costi per le deteriorate condizioni dei viaggi e degli scambi. Frammentaria ed episodica la documentazione attinente vale, comunque, a dare la traccia delle difficoltà che venivano dall'espansione della pirateria. Nel 1222 Abate di Garessio, signore di Pietraperzia, faceva ricorso al monastero di S. Maria di Valle Josaphat per averne, in cambio di alcune terre, 4000 tari (133 onze e 1/3) che i pirati gli avevano chiesto per il riscatto. Nell'aprile del 1231 alcune clausole del trattato fra il regno di Sicilia e l'Africa propria furono dedicate alla pirateria e alla polizia del mare. Nel 1239 Venuto di Cefalù e Alessandro Russo pisano, catturati nell'imbarcazione di Oberto da Ventimiglia che esercitava la pirateria, offrivano per la liberazione rispettivamente 100 e 40 onze d'oro, e la corte subordinava la concessione alla prova che essi si trovavano sul legno pirata perché costretti. Le coste di Puglia, in quell'anno 1239-1240 del quale il registro superstite ci dà notizie meno saltuarie, erano infestate dagli Sciavi. Nel 1241 i portulani del regno erano invitati ad armare vascelli contro genovesi e pirati, indifferentemente. Ma anche da parte siciliana la guerra di corsa entrava nella pratica. Nel gennaio del 1240 Federico II comandava all'ammiraglio Nicolino Spinola di preparare rapidamente 4 navi e 4 galee da adoperare nella cattura della carovana di navi mercantili veneziane e genovesi, che nel mese di maggio suolevano venire dal levante; e queste disposizioni confermava nel febbraio '$. In tali condizioni non c'era attenzione e tanto meno sollecitudine del potere per stimolare presenza e assicurare protezione ai mercanti del regno. Le richieste provenienti dalle città siciIiane, d'altro canto, pur nei momenti particolarmente favorevoli erano indirizzate o almeno trovavano riscontro e accoglimento in sgravi sui consumi (e quindi sulle importazioni) e in facilitazioni per gli esportatori, quali che fossero. Quella di porto-mercato per la merce in passaggio e per la produzione locale si presentava condizione privilegiata, soprattutto quando era sorretta da sgravi che incidevano sui prezzi dei generi di consumo essenziali e di quelli pregiati il cui acquisto era consentito dal riciclaggio del guadagno. Questa scelta di un ruolo che offriva vantaggi meno aleatori, fu il modo meno brillante, meno avventuroso e meno duro di stare inseriti nel giro degli scambi sulle grandi distanze.
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Nel 1231, in quell'anno intenso di iniziative e di esplicitazione di indirizzi autoritari all'interno e di più acceso intervento all'esterno, gli operatori locali furono ulteriormente emarginati. Dall'agosto tutte le merci destinate ai mercati del regno, da regnicoli e da forestieri, dovevano essere portate nei fondaci stabiliti dalla curia in alcune città. Vi dovevano essere condotti pure i panni di lino e di seta e le altre « cose venali » in esportazione. Con lo stesso documento si fissava la nuova misura dello ius doane in entrata, diverso per i musulmani che dovevano il 10% e i cristiani che dovevano il 3% del valore. Dai fondaci si passò ai porti designati per l'esportazione di cereali e di bestiame. Linea dirigistica di cui è dubbia la concreta verifica, da parte della curia, della disponibilità di strumenti idonei ad applicarla senza le rudi iniquità discendenti da sanzioni saltuarie, parziali e discriminatorie. Il peso fiscale si estese da quell'anno su voci svariate: tassazioni, la cui gravosità non può essere misurata con i pesi di oggi, in un sistema con modi e grado di assuef azione diversi, e che risultavano vessatorie nel contesto della pressione per il più largo spettro di scambi che esse colpivano e per la complessità che 1 sistema assumeva in contrasto anche con i livelli correnti di cultura che lo avrebbero richiesto semplice 19. Non fu, comunque, la somma di tasse, la manifestazione più pesante e incisiva negativamente del dirigismo in cui la dignità dell'autocrate mal copriva l'urgenza di denaro. Fu invece l'avocazione alla curia del commercio dei generi di prima necessità e di più largo consumo: ferro, sale, seta. Se scopo di questi monopoli non era alleviare alea e fatica del mercante e dare sicurezza al produttore, tanto meno ne era beneficiario il consumatore. Talune norme di applicazione date all'indomani della emanazione delle disposizioni dirigistiche lo mettono in chiara evidenza. Con lettera del giugno del 1231 fu dato ordine che la seta fosse venduta agli ebrei di Trani, e che questi la rivendessero un terzo in più di quanto la acquistavano, a vantaggio della curia (ad opus curie, è l'eufemismo). Con altra lettera il prezzo di vendita era stabilito in 3 onze per 2 del costo in acquisto, e quello del sale in 6 onze al minuto per 4 all'ingrosso. In questa ansia di creare al fisco spazi di guadagni nuovi e più larghi, non fu risparmiata la produzione agricola: fu stabilito, il 12 giugno del '31, in Melfi « per consiglio di prelati, conti, nobili e molti cittadini del regno » che fosse consegnata alla curia la dodicesima parte
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della produzione annua di tutte le vettovaglie, dei legumi, del lino, della canapa prodotta nelle terre demaniali e in quelle devolute al demanio; il trasporto ai granai regi era a carico dei produttori; furono pure inviati, almeno in taluni giustizierati, ufficiali incaricati di raccogliere e di far portare la duodecima nei più vicini granai della curia e di designare nelle singole terre uomini fedeli e discreti che girassero per controllare; e fu pure ordinata la compilazione di registri delle consegne. Queste le disposizioni che conosciamo 20. Della applicazione non sappiamo abbastanza, e neppure poco. Certo, gli uomini della campagna erano assuefatti alle imposizioni, ma erano abituati a trovare le vie per le quali queste risultavano alleviate o addirittura si smarrivano nella strada tra l'emanazione e l'esecuzione. Consumatori e grossi mercanti, gli uni e gli altri presumibilmente stranieri quando le derrate erano destinate all'esportazione, per parte loro potevano essere danneggiati solo per il rincaro prevedibile; quelli che erano certamente colpiti, oltre i produttori, erano i minuti e mediocri mercanti che operavano nella intermediazione che la curia finiva con l'arrogarsi. Il maggiore beneficiario nella esportazione dei cereali volle essere in ogni modo il fisco che, di norma, percepiva la terza parte del prezzo, ridotta per i forestieri e per i regnicoli, nell'ottobre del 1239, a un quinto in Sicilia e in Puglia « che più abbondano di vettovaglie » e a un settimo in Calabria, Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo, e cercava di gestire la fetta di esportazioni più grossa possibile con il trasporto sulle navi della curia e riservandosi i mercati e le occasioni di maggiore lucro. Nel dicembre del 1239 l'eccedenza di vettovaglie delle masserie della curia al di qua del Salso fu riservata alla esportazione in Barberia e in Spagna ove si sarebbe potuto vendere a prezzo più vantaggioso e si diede incarico all'ammiraglio Spinola di preparare la nave; nel febbraio del '40 fu fermata l'estrazione di grano da parte di privati (e in particolare dei genovesi che ne facevano incetta per incarico del re di Tunisi) finché non si fossero acquistate le 50.000 salme che l'ammiraglio Nicolino Spinola aveva proposto di portare su navi regie a vendere sul mercato africano per 40.000 onze (e cioè 24 tarì a salma) 21 . Erano operazioni quanto meno opportune quando si impediva che mercanti forestieri speculassero sulla carestia in Africa con il grano prodotto in Sicilia; ma le restrizioni e le inibizioni coinvolgevano i mercanti e gli
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armatori siciliani (i quali in epoca normanna avevano continuato a gestire fetta cospicua della esportazione di cereali nell'Africa del nord). In ruolo poco significante nel giro dei traffici nel Mediterraneo, anche di quelli in partenza dall'isola o in transito da essa, vuoi verso i porti europei (dai quali anche nel secolo XII erano stati pressoché defilati), vuoi verso quelli africani (e la mortificazione dei musulmani dell'isola qui pesava negativamente), persistentemente ai margini di quelli verso il levante (le esportazioni in esenzione di cui beneficiava qualche ordine non dovevano di necessità essere compiute sulle navi del regno), i mercanti siciliani mantenevano ruolo di operatori nelle piazze marittime dell'isola e negli scambi all'interno. A Palermo che godeva anche il vantaggio dell'avviamento, a Messina, a Trapani, validi approdi e mercati di transito e di compravendita, nei porti ove affluivano i cereali, la lana, il cuoio, il cotone, il lino e il sale, destinati fuori dell'isola e fuori del regno, attori non erano solo genovesi e pisani che fruivano di case e di logge e di fondaci, e che magari adattandosi o non contrastando alla politica della monarchia riuscivano a mantenere i loro stabilimenti e a continuare nelle loro attività, ma anche siciliani. Il numero di questi operatori locali non era esiguo, ma essi raramente disponevano di capitali adeguati ad allargare il giro fuori delle piazze del regno e tanto meno di influenza in sede politica: della capacità cioè di fare valere e fare predominare i propri interessi che in quell'epoca la borghesia acquistava o consolidava nei comuni dell'Italia centro-settentrionale, nel sud della Francia, nelle Fiandre, nell'Hansa... Nel 1200 la metà del castello di Naso che era appartenuta ai de Garessio e che a seguito del « tradimento » di Abate era andata, sotto Enrico VI, ad un pisano (il quale, anch'egli, aveva « tradito ») passava a titolo di feudo « quod in demanio in demonio et quod in servitio in servitio » e salvo il servizio dovuto alla corte, a Stefano da Patti, a cancellazione del mutuo (17.000 tari pari a 566 onze) che egli aveva offerto al cancelliere Gualtiero di Pagliara. Tra i primi a fare prestiti a Federico II fu un messinese, Rosso Rubeo: feudatario, barone della « villa » di Sperlinga e di Martini: i 2000 fiorini mutuati non venivano da affari, ma dalla dote della moglie .Macalda, figlia di Aldoino di Creun conte di 'Geraci n. Comunque se non mancavano del tutto, erano sporadici, pressoché chiusi nell'arco messinese, anche i casi di rici-
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claggio della rendita fondiaria e degli utili commerciali negli investimenti in agricoltura, magari con il soddisfacimento dell'ambizione di entrare nei quadri feudali. E delle grosse operazioni, contrattate quando le esigenze della corte erano più impellenti, a un tasso che arrivava al 3% al mese (ben lontano da quel 10% annuo che la const. fridericiana consentiva solo ai giudei che non avevano da perdere l'anima con l'usura), e compiute più di una volta con la restituzione in merci (specie in cereali) o attraverso licenze di esportazione, non furono partecipi neppure in modica parte operatori siciliani. Sui quali piuttosto pesavano i prestiti forzosi e gli inasprimenti fiscali e le collette che si ripetevano con il grottesco sistema che consentiva ai più grossi di scaricare la più larga parte del peso sui più minuti. Bene o male, la borghesia di affari dell'isola consolidava le sue connotazioni: numericamente significante negli abitati maggiori, almeno in parte, non priva di disponibilità da riversare sui consumi, ancor se, nella congiuntura, angustiata dal peso fiscale e dalla prepotenza del potere che la difendeva di raro e la offendeva più spesso, ormai non divisa da motivi di religione (le fasce di rito greco erano inclini, se non alla confusione, alla convivenza senza traumi), come prima e più di prima inetta a far pesare le proprie ragioni sugli orientamenti politici e sui comportamenti di governo. Verso la base, di questo ceto variegato che le norme legislative riducevano in unica classe, l'artigianato non viveva esso pure una fase di felice espansione. Nei 60 anni dalla morte di Guglielmo a quella di Federico si compì il collasso dei musulmani di Sicilia. Intorno al 1190, essi conservavano certi spazi nei commerci e ne tenevano più larghi nelle manifatture. Il loro non era, ai livelli giuridici, status di burgenses, come non lo era quello dei giudei; ma a questo punto il discorso non può non essere ricondotto alle condizioni di fatto. Il collasso dei musulmani significava riduzione, sfaldamento, in non pochi luoghi, di un ceto di artigiani talora qualificati qualche volta non facilmente sostituibili. Nel 1240 Federico II raccomandava di pagare le spese, come era consuetudine, ai maestri saraceni « intagliatori, carpentieri, maestri che fanno le armi » n; ma queste maestranze allora si trovavano a Canosa, a Lucera... Per procurarsi baliste l'imperatore doveva fare obbligo ai regnicoli che esportavano merci per nave di portarne in numero e in valore propor-
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zionati alla capienza dell'imbarcazione, e non essendocene altri in Sicilia oltre quelli rimasti nel palazzo di Messina, bisognava, nel '40, richiedere a Pisa costruttori di armature. La doana maris, delle gabelle di Palermo probabilmente di epoca sveva, nelle varie voci trattate in quella grande piazza di incontro tra oriente e occidente evidenzia il largo posto tenuto da prodotti di pregio provenienti dall'esterno 24. Le norme emanate da Federico per un serio regolamento dell'esercizio delle arti e per la tutela dei clienti non avevano intenti vessatori. Anche le disposizioni esecutive, che imponevano per alcune arti limitazioni numeriche, verifiche attraverso l'iscrizione in albi (quaterni) e la conferma da parte del re delle nomine degli eletti a presiedere le maestranze, rispondevano entro un'ottica che abbracciava tutto il regno a reminiscenze di corporazioni controllate dall'alto e ad apprezzabili intenzioni di tutelare l'utente e la società attraverso la verifica della qualificazione professionale. Non fu comunque di artigiani che si adattassero a sopperire alle richieste e alle esigenze abituali e neppure di quelli qualificati a livello individuale e di bottega, che difettava l'isola, ancora nella immediatezza dei danni della dispersione dei musulmani. La carenza era di un ceto di imprenditori che curasse la lavorazione della materia prima che continuava ad essere fornita dall'agricoltura e dalla pastorizia e provvedesse alla distribuzione, quando in larghe parti dell'Europa lo sviluppo organizzato del settore manifatturiero si affiancava al commercio a dare i più alti livelli di utile. La estraneazione della Sicilia da questi processi con i quali si urtava la ideologia conservatrice dell'impero, marcava certi connotati regressivi della società e dell'economia siciliana, costantemente attaccati alla produzione agropecuaria e al valore che l'elevata richiesta riservava ad essa. Entro i burgenses in diritto accentuava, così, fisionomia e presenza il burgisato, le cui caratteristiche e il cui ruolo sembravano piuttosto irrigidirsi estranei a stimoli dinamici e a contagi dall'esterno e sensibili e succubi delle spinte verso la depressione della congiuntura all'interno. L'appesantimento di tributi inveterati e di nuove imposizioni (jura vetera, Tura nova), il susseguirsi pressoché annuale delle collette dal quarto decennio del secolo, l'applicazione della dodicesima n, i gravamina ai quali non erano sottoposti solo i saraceni (assegnazione forzata di bestiame a condizioni che « non pochi impotenti ed atterriti sono
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costretti ad abbandonare la residenza », come lamentavano gli uomini di Caltabellotta negli ultimi anni di Federico), anche a prescindere dalle superexactiones e dalle rapine di « cabelloti, foresterii, platearii, factionarii seu passegerii », valevano a stabilizzare e a spingere in basso il tenore di vita e a frustrare aspettative di questo vasto ceto, al quale per altro vicende e circostanze tendevano ad assegnare più larghe dimensioni e più chiaro assestamento 26 La ribellione dei saraceni e la loro mortificazione cancellava, dalla morte di Guglielmo II alla vigilia di quella di Federico II, le differenze in diritto e in fatto che venivano dalla condizione di « pagani ». Altro motivo di allargamento insieme di dissoluzione del ceto erano la crisi del villanaggio e le situazioni che ne emergevano. Lo status del censuale non era quello villanale; come non lo era quello del terraggiere che viveva su campo vuoto che iniziava a coltivare di sua iniziativa, o del gabelloto che conduceva il terreno preso per contratto a tempo. Fuori della condizione di villano, stava perfino il prestatore d'opera nell'agro per mercede. Sorgeva la riottosità a sentirsi egualmente partecipi ed equamente accomunati, con diritti-doveri discendenti dall'assetto giuridico, in una stessa classe intermedia fra l'aristocrazia e il servaggio, fra gli impegnati nel servizio nobile e gli .
obbligati al servizio ignobile, proprietari e affittuari, chi pagava e chi riceveva la mercede, gente che viveva del reddito agricolo e altri che combinavano ad esso un mestiere, uomini in condizioni economiche dalla indigenza alla agiatezza. Il burgisato tendeva a ricostituirsi dimensione e fisionomia al di fuori del sistema giuridico anacronistico e in aderenza allo stato economico e occupazionale: con il rifiuto, innanzi tutto, del ramo bracciantile.
Gli anni degli Svevi esaltarono, pure, un'altra faccia della borghesia: gli ufficiali dell'amministrazione centrale e periferica che in congrua misura rappresentavano la « cultura ». C'era, anche in questo, continuità e sviluppo di linea di tendenza con il periodo normanno, quando la monarchia (e già prima il conte) cercò aggancio e trovò sostegno nel ricorso a esperienze amministrative e organizzative anche alloglotte e non cristiane e offrendo ospitalità larga a uomini di lingua romanza e di religione
cattolica. In epoca sveva le presenze di uomini estranei al mondo cattolico e latino non furono cospicue nell'amministrazione e nel governo; e quelle tedesche nel regno furono incisive solo in
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periodi di crisi e si esaurirono senza lasciare peso sulla composizione di alcuna classe, neppure della feudalità. Sotto Federico II gli alti e i mediocri uffici civili furono occupati da borghesi di estrazione: al vertice regnicoli formatisi negli ambienti più qualificati della cultura dell'epoca (da Bologna a Parigi) e talora in contatto con essi, ai livelli medi da uomini cresciuti nell'isola e nel mezzogiorno d'Italia con larghe ambizioni e aperture. Le inclinazioni, le apprensioni o la cedevolezza di Manfredi portarono, nel crepuscolo della dinastia, alla ribalta dei grandi uffici oltre che dei comandi militari (ove la presenza dei feudatari era consueta, salvo nella flotta) familiari del re investiti di grossi feudi, ma non toccarono i gradi mediani né l'amministrazione periferica. Il dispotismo degli Svevi, alieno dal ricercare l'appoggio di una classe per timore e prevenzione di renderla compartecipe, assecondò il consolidamento di un ceto di ufficiali ai diversi livelli di grado, funzione, preparazione, che era al paragone ancora in nuce al tramonto della dinastia normanna. Questo ceto riuscì a produrre opere ammirevoli per l'epoca (avanti tutto, il corpo di leggi), fu partecipe sensibile del recupero e della ridiffusione delle conoscenze scientifiche, si distinse attraverso il nutrito gruppo di poeti che si sogliono più o meno confusamente raccogliere . all'insegna della corte di Federico imperatore ma dei quali l'effettivo comune riferimento sta piuttosto nella nascita (Guido e Oddo delle Colonne, Stefano protonotaro, Fi li ppo di Messina, Tommaso di Sasso, Ruggero de Amicis) o nella pratica (Giacomo da Lentini) di Messina, la più borghese, anzi la sola borghese fra la città di Sicilia in quegli anni. E pure ebbe a dare, questo ceto, al vertice saggio di raffinata corruttela, e in tutti i gradi di rozza corruzione che, nella frequenza, erano segni del costume corrente. Si delineava per queste vie, nei pregi e nei vizi, l'altra faccia entro la borghesia: la burocratica e, come si disse appresso soprattutto nella parte continentale del regno, forense.
4. Il declino del villanaggio L'abate del monastero di S. Maria di Valle Josaphat che nel 1196 concludeva, con gli uomini venuti di Calabria a bonificare il luogo di Mesepe e costituirvi un casale, il pactum nel quale
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furono partitamente segnate le concessioni fatte e le angarie imposte ai nuovi villani e fino il vitto da corrispondere durante le giornate lavorative — l'abate era certo ben lontano dal supporre che il documento sarebbe servito a distanza agli studiosi più che non immediatamente, per i rapporti che esso regolava. Il pactum di Mesepe può considerarsi l'ultimo documento in ordine cronologico costitutivo di un rapporto di villanaggio formale e sostanziale. Ce n'è semmai forse uno più tardo, del 1220. Il luogo è sempre la Sicilia orientale, e nella parte greca (Lardaria, sulla fiumara nelle vicinanze di Messina) gli uomini venivano essi pure di Calabria; promotore figurava un ecclesiastico di rango, Berardo allora arcivescovo di Messina, il quale nella ricostituzione del casale impegnava gli uomini che vi si stabilivano ad accettare l'arcivescovo come signore. Sul piano sostanziale, l'arcivescovo concedeva a ciascuno un appezzamento di terreno di canne 6 X 6 pro domo edificanda, ma l'esplicita accettazione della giurisdizione arcivescovile e la forma di privilegio e non di pactum impediva di includere quello di Mesepe tra i contratti enfiteutici che in quegli anni entravano in largo uso, sostitutivi proprio del rapporto di villanaggio. Probabilmente però fu solo una cautela perché, essendo Lardaria in terreno di giurisdizione vescovile, gli uomini avrebbero dovuto sottostare al baiulo, facessero o meno quella dichiarazione. Ambiguità e incertezze frequenti, a ogni modo, in periodi di transizione! A fronte della carenza di atti istitutivi, stanno i documenti del cedimento del villanaggio. C'era per questo già una condizione determinante: molti villani, sempre più, non erano sul terreno, sradicati e allontanati nelle perturbationes. Quando queste si placarono, né i fuggitivi ritornarono né i rimasti accettarono lo stato precedente o furono lasciati in esso. Nel 1202 la domina Sorbina dichiarava deserto il suo casale in territorio di Carini perché i villani lo avevano abbandonato profittando delle circostanze (il documento è discretamente eufemistico: « cum villani universi pro temporum malitia discurrerent »). Nel 1208 Pagano de Parisio conte di Butera e di Avellino faceva donazione ai gerosolimitani in territorio di Paternò tra l'altro di terreni che avevano tenuto villani saraceni. Intorno al 1206 Federico concedeva alla magione dei teutonici « omnes villanos Policii »: è l'ultima donazione, in ordine di tempo, di villani da parte della corte, o di feudatari, a noi nota, e i villani erano donati, « ubi-
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cunque sunt ». Nei fatti sarebbe toccato ai teutonici recuperarli, o almeno denunciare il luogo ove si erano trasferiti nella speranza che ne fosse compiuto il recupero. Restava, però, ai teutonici la disponibilità dei terreni che quei villani avevano tenuto; cos? come restavano al fisco o ai signori, laici o ecclesiastici che fossero, i casali che « nella malizia » di quei « tempi di perturbazione » erano restati vuoti di abitatori e i tenimenta di essi. In pratica, si andava ben al di là delle semplici prospettive della trasformazione del possesso eminente in proprietà. Comunque, immediatamente la perdita dei villani, che rompeva uno schema e un modo di fruizione, era oggetto di lamentele e si inseguivano le speranze di recuperarli. L'arcivescovo di Monreale chiedeva e otteneva, quando era in buone relazioni con la corte, il recupero dei villani; e ci sono rimasti numerosi documenti di risposta; magari con la esplicita disposizione e « potestà » di « prendere i villani della predetta chiesa di Monreale e delle obbedienze di essa ovunque si trovino e ricondurli con le famiglie e i beni ai luoghi propri ». Poi, dacché i rapporti con la corte si deteriorarono fino ad arrivare all'incameramento dei beni dell'arcivescovado, e perché era vano chiedere e assurdo confermare ché proprio la corte, attraverso le deportazioni in Puglia, si faceva protagonista della dispersione, non ci furono più né richieste né proposte in tal senso. Nel 1255 frate Ruffino di Piacenza, vicario pontificio in Sicilia e in Calabria, concedeva ai canonici di Agrigento i proventi dei giudei e la tintoria della città considerando tenuitatem et inopiam del vescovado « per la guerra dei saraceni e per la perdita dei villani di cui il defunto imperatore Federico spogliò la medesima chiesa trasferendoli in Puglia ». Sempre nel Val di Mazara le due masserie-casali dei teutonici, Gurfa e Margana, nel 1258 erano vuote di villani Avanti, nel 1247-48, i reintegratori dei feudi dichiaravano di essersi trovati in difficoltà negli accertamenti « poiché si dice che i villani erano saraceni, ed essi ormai sono morti o scacciati dalla Sicilia » 27. Quegli ufficiali però dovevano avere una certa urgenza di scaricare sull'amministrazione centrale la responsabilità dell'interpretazione di norme e di usanze nelle quali si imbattevano e dovevano andare abbastanza in fretta se non trovavano neppure le testimonianze tenui ed episodiche di sopravvivenze delle quali ancora dispone lo storico, e se accettavano senza riserve e per
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tutti i territori la interrelazione tra l'espulsione dei saraceni e la scomparsa del villanaggio. Si dimostrava più cauto ed attento, nel 1329, il compilatore del Rollus rubeus della chiesa di Cefalù, il quale ripeteva l'elenco dei villani che erano stati della chiesa e dei proventi che ad essa conseguivano, a titolo di memoria perché la lex del villanaggio era abrogata; e avanzava una motivazione più riflessiva e più larga nella logica di chi si trovava dinanzi a nomi che non erano tutti di saraceni: « per la negligenza dei prelati e la sacrilega usurpazione dei potenti e la mutazione del dominio, e le sciagure delle guerre, essi hanno conseguito la libertà, per quanto alcuni acquistarono, usurpandola, una certa libertà e divennero chierici entro la medesima chiesa, altri presero la vita militare... ». La chiesa di Cefalù, del resto, ancora sotto Carlo d'Angiò procedeva a qualche recupero di cui ci restano documenti (a Collesano, a Caltavuturo, a Montemaggiore) e tentativi di reintegrazione furono operati, tra gli ultimi anni di Federico e quelli di Manfredi, da parte del vescovato di Patti. In questa città il vescovo conservava « copiam hominum » quando, nel 1253, concedeva risiedervi al villano recuperato Giovanni di Basilio; e nel 1254 vennero regolati i rapporti fra il vescovo e ï de Garessio (ai quali evidentemente quel feudo era ritornato dopo varie vicissitudini) condomini, per la metà, di Naso, con particolare attenzione alla condizione dei villani e cercano di porre riparo ai danni del formariage che in quelle condizioni si presentava piuttosto facile (« che i feudi e i capi dei villani che finora furono sminuiti e esauriti ad occasione dei matrimoni contratti fra gli uomini della stessa chiesa e gli uomini dei baroni della terra di Naso, che furono pro tempore, ed anche nel tempo del predetto signor Matteo, siano ricondotti in piena integrità ») e in riferimento anche alla eventualità che fossero revocati gli uomini del demanio che risiedevano nella terra di Naso (« i feudi e i capita dei feudi dei villani che essi abbiano tenuto, siano allora restituiti al diritto e alla proprietà della chiesa di Patti, o del medesimo barone o dei suoi eredi... »). Già nel 1249 il vescovo aveva stipulato un accordo con gli uomini di Sinagra, nel quale si stabilivano gli oneri reali e quelli personali e la commutazione in moneta sia per i borghesi che per i villani (il frumento 5 tari la salma, 2 tari l'orzo, 7 grana meno un terzo le singole diete con buoi, 1 tari le 10 diete « in seminando, zappuliando, maisando et aptando vineas » per i villani che — am-
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messa la buona lezione dell'atto — ne sarebbero dovuti risultare straordinariamente avvantaggiati, se al prezzo di una salma di frumento potevano riscattare ben 50 giornate di lavoro). Fuori del vescovato di Patti, una commutazione per certi aspetti analoga avveniva tra l'arcivescovo di Messina e gli uomini che tenevano vigne nei casali di Zaffaria e di Lardaria 28 . L'esaurirsi del villanaggio in Sicilia rimane per gran parte fuori della documentazione per acta. Lo sradicamento dei imusulmani fu senza dubbio traumatizzante, e ad esso si accompagnarono e appresso di esso si svilupparono altre occasioni. C'era che i vuoti creati dai vari discrimina, nell'agro e nelle fasce degli abitati maggiori che vivevano dell'agricoltura, non erano colmabili con uomini che per la condizione religiosa fossero disposti ad accettare lo stato semiservile; e, mentre il bisogno di prestatori d'opera stimolava richieste più larghe, la condizione villanale (sia pure nelle forme meno severe e lesive degli hospites e degli affi dati) non suscitava spostamenti interni e neppure immigrazioni dal momento che la « servitù della gleba » tramontava anche nell'Italia centro-settentrionale. Fossero autoctoni costretti a trasferirsi per punizione (gli uomini di Centorbi e di Capizzi che popolarono l'Albergaria di Palermo), o forestieri stanchi delle vicissitudini delle terre proprie e lusingati di trovare condizioni migliori e quiete (i lombardi di Corleone, i genovesi ingaggiati per recarsi a Cassibile), o novi habitatores in città (Messina, Trapani, Siracusa) o in centri che venivano su (Eraclea-Terranova, Augusta, Erice - Monte S. Giuliano), il villanaggio era fuori dalle proposte. La corte stessa, del resto, svolgeva indirizzi che, nella stessa coerenza con i principi ispiratori dell'ordinamento giuridico, risultavano riduttivi e costrittivi dell'istituto del villanaggio. Considerato parte delle strutture delle quali si intendeva preservare e consolidare la fisionomia, il villanaggio trovò tutela nella emanazione nell'energica ripetizione di norme che tendevano ad impedire l'esodo dei soggetti, a tutelare i diritti di ciascun dominus e quelli del fisco, a revocare quanti avessero abbandonato lo stato villanale. Ma alla concezione, e all'impianto della monarchia sveva difettò il senso che, sia pure per conservare, non valeva la ostinazione nella stasi, quando al rinnovamento del villanaggio stavano pure motivi etici e ideologici relativi alla condizione degli individui, trapiantati nella legislazione da uomini come Pier delle Vigne e Taddeo da Sessa, dotati di elevata educazione
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giuridica e percettivi di polemiche e di princìpi che andavano oltre la mera affermazione della maestà del sovrano e della irreversibilità della piramide sociale. La const. III 9 (61) De hominibus non tenendis ratione terre vel feudi stabiliva: « Poiché sotto pretesto del lecito spesso si tenta l'illecito, chiudendo ogni via e materia alle frodi disponiamo che non sia lecito a ragione di terra o di feudo che sì tenga o riceva da conte, barone o milite o persona ecclesiastica o pure secolare, per qualsiasi convenzione convalidata da qualunque solennità di diritto obbligare la propria persona a servizi, e così sotto questa occasione passare nella cornmenda e nel dominio altrui, ma sia consentito solo riconoscere rendite in moneta e in altre cose in proporzione al ricevuto. Noi infatti che siamo i signori delle persone non vogliamo che senza l'assenso della nostra Serenità le persone si obblighino a servizi perpetui (...) ». Può essere che questa potestà del dominus personarum non fosse ignota già ai normanni negli anni dell'insediamento e del consolidamento (e ne potrebbero essere segno le clausole dei diplomi di dotazione delle chiese, che contemplano la concessione di un numero di villani, ripetutamente 100 per i vescovati, che è da intendersi nel senso di riceverne fino a quel numero); ma nella realtà non se ne era tenuto conto quando la Sicilia si era ripopolata di immigrati, regnicoli e forestieri, borgesi alcuni, villani non pochi. La const. II 9 (61) significava nella misura in cui la monarchia aveva coerenza e vigore nella applicazione delle leggi, aggressione al villanaggio dal momento che per continuarsi esso non poteva non innovarsi; e si aggiungeva alle altre spinte verso condizioni sostitutive. C'era innanzi tutto, tra queste, la difficoltà più elementare: la crisi del villanaggio non era solo dell'istituto, ma era di disponibilità di forza di lavoro, dal momento che sostanzialmente, salvo episodi che tendevano all'eccezione, veniva meno l'afflusso esterno. Il processo sostitutivo comunque, entro questi limiti, si apriva a coinvolgere di luogo in luogo sia i meno dotati — i poveri e gli impoveriti (coloro che, come in alcuni casali dei dintorni di Messina, stavano di fatto in condizioni difficilmente differenziabili da quelle dei villani accanto ai quali vivevano) sia nuovi venuti per movimenti all'interno, che furono la grossa valvola attraverso la quale riuscirono a filtrare le spinte più dinamiche. Borghesi poveri e nuovi venuti senza terreno, con poca arte e meno parte, erano la base dell'offerta di lavoro a mercede: —,
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essi, disponibili da tempo anche a prendere le vie e i rischi del basso servizio militare. Difficoltà all'impiego del lavoro salariato, come alla conduzione diretta, atraverso contratti a tempo, non mancarono neppure dall'altra parte, quella dei proprietari, o dei feudatari ai quali restavano vuote quelle che erano state le quote villanali e che avevano da sopperire alla parte in demanio. Facevano difetto capitali, spirito imprenditoriale, adattabilità e volenterosità ad entrare in un circuito di investimenti e di relazioni che comportava un margine di rischio, mentre dall'altro lato si svegliava, in molti, la diffidenza per il lavoro saltuario e magari incerto, la preferenza verso i rapporti stabili su un terreno che si sentisse proprio, perché la presenza in esso era assicurata durante la vita e poi era destinato ai figli. La servitù della gleba, il villanaggio avevano formato radici psicologiche; e quell'ambiente, come ogni ambiente agricolo, non se ne staccava con agio. Non abbiamo documenti che consentano una rappresentazione quantitativa del ricorso alla mano d'opera salariata in agricoltura, per cercare di verificarne l'opinabile crescita. I registri notarili in Sicilia datano dalla fine del secolo XIII, dopo il Vespro, e si infittirono dalla metà circa del secolo XIV. Dei registri degli uffici di corte dell'epoca sveva rimangono uno pressoché integro e frammenti di altri; quanto basta a sapere che le masserie della corte erano tenute da salariati dal quarto decennio del secolo almeno. In queste condizioni, ancora una volta è riservato ampio margine alla interpretazione intuitiva dello storico, che è sempre un'ipotesi, tanto meno fragile quanto più lato sia il sostegno di una coerente impostazione contestuale e di motivazioni logiche che vengano da lla correlazione dei segni delle fonti più o meno strettamente attinenti. Le remore verisimili e obiettive e la carenza di atti pertinenti rendono inclini all'ipotesi che ci sia stato un ricorso moderatamente contenuto alla mano d'opera salariata. Le richieste comunque rimanevano superiori all'offerta, tanto da lasciare spazio alla contrattazione sulla remunerazione. Sì che già nel 1231 il legislatore (la sua visuale era, come in ogni caso, non esclusivamente isolana; ma fuori dell'isola, quanto meno, non c'erano le esigenze e le particolari urgenze che creava la rottura con i musulmani) intervenne piuttosto pesantemente con la const., III 49 (48 b) in favore dei datori di lavoro: « Ordiniamo che i nostri baiuli in carica stabiliscano le prestazioni degli operai, dei vendemmiatori e dei mieti-
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tori e simili sotto certa mercede, e agli operai non sia lecito superare la meta di questa costituzione, e se la superino perdano la mercede ricevuta e paghino il quadruplo alla curia nostra ». Il ricorso nelle masserie regie a prestazioni a tempo per mercede era seguito a corte con attenzione. In un'enciclica Federico II raccomandava ai provisores delle masserie: « Vedi anche e investiga con diligenza sulla quantità e sulla qualità dei famuli che ciascun massaio tiene, che non ne abbiano meno del sufficiente, o che non si trastullino con numero superfluo: ancora se sono di buona fama, fidati e solleciti nell'eseguire i servizi loro affidati, e se per caso non siano consanguinei dei massari, e non usino prodigalità, e non defraudino la curia nostra nelle cose o negli animali che custodiscono, o nei loro proventi, o che non vendano i prodotti dei possedimenti o elargiscano, o dal cambio ricevano cose cattive per buone in danno della nostra curia (...) ». E numero, remunerazione e vitto degli uomini di famiglia erano elencati con minuziosa attenzione negli statuta delle masserie e dei greggi degli anni tardi di Manfredi ". Per greggi e terreni della curia il ricorso a ingabellazioni o cessioni a parte entrava nel sistema. Modi e termini delle locazioni dei beni del demanio furono regolati da Federico attraverso una const. posteriore al concilio di Melfi. I demania dovevano essere locati a persone fidate, per essere coltivati, « per modico tempo non oltre 5 anni »; le paludi e i boschi non destinati alle defense reali o a pubblici pascoli o al taglio della legna potevano essere concessi per essere estirpati o coltivati « con proventi certi sopra di essi » o per il censo che si riteneva più redditizio, comunque senza diminuire per nulla quello preesistente (venivano comunque confermati i diritti derivanti da atti anteriori). Nella pratica, nel 1239 Federico manifestava a Ruggero de Amicis giustiziere della Sicilia ultra Salsum la approvazione per la diligenza impiegata nell'adempimento del mandato « super locandis mandris ovium curie nostre ad certam pecunie quantitatem ». Richiesto, pure, del beneplacito sul comportamento nei confronti dei saraceni che fino ad allora avevano avuto in estaglio le pecore, e restavano debitori di grande quantità di denaro e parecchi non pagavano, comandava che se ne prendessero i beni, e se non bastavano, li si catturasse e li si destinasse ai lavori di muratura della curia per dare esempio a non prendere gabelle se non si era in grado di pagare « senza difficoltà ».
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Ancora trasferitisi a Lucera i saraceni avevano bisogno del bestiame della corte per la lavorazione delle terre, e lo ottennero « ad partem » con esplicito richiamo ai modi consueti fin dal tempo normanno. Non erano comunque i soli saraceni a essere interessati, né erano solo saraceni a non potere pagare gabelle e estaglio che gli ufficiali della curia imponevano con logica leonina (si ricordino le lagnanze degli uomini di Caltabellotta) 30. Anche tra privati e da parte di feudatari e di ecclesiastici, le ingabellazioni trovarono una certa diffusione. A Messina, nel 1243, si era addirittura consolidata la « consuetudine » relativa ad esse. Il ricorso era piuttosto frequente per terreni di una certa estensione 31 . Raramente, per parte sua, il gabelloto era coltivatore diretto o provvedeva da solo alla cultura del terreno; supporto ne era, per la esigua presenza di schiavi, il ricorso a prestazioni d'opera. Raramente si trattava di appartenenti a famiglie nobili, sia pure senza titolo e feudo in proprio; talora erano professionisti o pubblici ufficiali (e, del resto, molti uffici non erano presi in gabella?). Non abbiamo possibilità di ricostruire vicende personali: carriere di gabelloti, con le condizioni di provenienza, i lucri e la destinazione di essi. Appare — e non è molto — che i gabelloti della corte guardati da questa con prevenzione e sospetto, invisi pregiudizialmente alle popolazioni, oggetto di vigilanza da parte degli ufficiali maggiori e dell'amministrazione centrale (le rapine entravano insieme alle superexactiones nella casistica attraverso una const. posteriore alla dieta di Melfi, tra quelle cioè che più aderivano allo stato di fatto) almeno in epoca sveva non erano tra i più fortunati e tra quelli ai quali era più facile la via dell'agiatezza. Le lamentele, le accuse di abusi, gli interventi nei loro confronti non mancavano; e restano per altro a dimostrare che certe disposizioni legislative non erano di mera cautela e fondate su ipotesi 32. La corte, del resto, proprio negli anni in cui il maggior bisogno la rendeva più attenta, si dichiarava tutt'altro che soddisfatta dell'amministrazione del demanio. Tanto che nel 1244 Oberto Fallamonaca, maestro della imperiale doana dei secreti e dei questori per tutta la Sicilia, fu incaricato di locare « a annua rendita a censo e in perpetuo, premessa licitazione e subastazione », il demanio in tutta l'isola « finora male amministrato e non collocato come sarebbe dovuto essere collocato ». Oberto volle cominciare da Palermo « come capitale e più degna
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di tutte le altre terre »; e dopo che era stato dato ripetutamente bando, radunò la maggior parte dei cittadini, « dei magnati cioè, dei maggiori e dei minori ». Oberto cominciò da quelli che tenevano case, botteghe, bottiglierie e altri luoghi, di cui dovevano ogni anno il terzo dei redditi « percepiti o da percepire ». E siccome riteneva che nella valutazione del terzo la curia fosse in vari modi lesa, dispose che il patronus dovesse rendere le sue parti alla corte a giusto prezzo e analogamente dovesse procedere ad acquisti. Il priore di Ustica acquistò allora per il censo annuo di 32 tari da corrispondere in rate mensili, dopo che Oberto accertò che non c'era possibilità di collocarle con maggiore vantaggio per la curia, 4 botteghe fuori del Cassaro nel porto fuori la porta di mare, per le quali avanti lo stesso priorato corrispondeva 25 tarì 33. Non si andò probabilmente molto oltre; Oberto durò poco in quella carica, e nel 1247-48, con prudente aggancio alla pratica corrente per il demanio regio, veniva data disposizione ai reintegratores che i demania feudorum locati a censo senza il consenso della corte fossero senz'altro revocati e dati ad amministrare al maestro camerario competente per territorio. Anche se i risultati sembra siano rimasti modesti, e quali in effetti siano state le difficoltà che la frustrarono, l'operazione avviata da Oberto Fallamonaca in Sici lia faceva giungere le ragioni economiche delle censuazioni alla corte, piuttosto restia per esperienze (si ricordino le dissipazioni nella minorità di Federico) e per principio (la inalienabilità del demanio), ma di fatto non astinente in occasioni verificatesi in talune città (oltre Palermo, Messina, Siracusa, Trapani), e in abitati nei quali erano in corso immigrazioni e ripopolamenti (Augusta, Eraclea, Corleone). Nei territori infeudati le interdizioni di natura giuridica non potevano essere superate per autonoma decisione, come era consentito al principe in quelli del suo demanio; e anche qui l'anacronismo delle norme portava alla disapplicazione. In molti luoghi — osservavano i reintegratori nel 1247 48 la scomparsa dei villani aveva rotto gli argini fra demanio e quota in servizio; e la corte conveniva che là dove si era verificata la confusione si dovesse presumere che « tutto era demanio, se non si provava il contrario ». Ma da parte della curia non c'era segno di sensibilità alle ragioni economiche che sussistevano anche per -
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i feudatari il cui demanio si era ingrossato, ma che erano in difficoltà perché non disponevano della mano d'opera per tenerlo (e salvo a considerare saggio di sensibilità in questo senso le disposizioni sulle mete). Ai reintegratori (che segnalavano di aver trovato, in Lentini e Siracusa, vari contratti tra i feudatari e borghesi, per cui numerosi terreni erano stati venduti e parecchi altri, vuoti e sterili o poco utili ma demania feudorum, erano stati dati a piantarvi vigne « ricevuta moneta da parte dei feudatari e stabilito il censo da pagare annualmente in moneta »), era data disposizione, di ricondurre « ad usum et proprietatem » del feudo le terre demaniali date a censo, e di non revocare invece quelle locate « a una certa parte dei frutti », salvo che questa parte dei frutti fosse talmente irrisoria da giustificare la presunzione di un contratto fittizio. Non sappiamo se e in quale misura riuscì allora ad esplicarsi l'azione dei reintegratores (dal documento stesso sembra procedesse con molte, troppe, difficoltà e incertezze). Comunque, rimane certo che le concessioni a censo toccavano i demani feudali oltre le quote già villanali, sia pur ricorrendo a finzioni e dilatando oltre il consentito la norma del 1231 che mentre inibiva nuovi rapporti di dedizione personale (e quindi di villanaggio) dava spazio alla assegnazione di terre per corrispettivi in denaro. Le censuazioni allora effettuate possono essere seguite, e ne è possibile verificare estensione e funzione, soprattutto nell'ambito delle fondazioni monastiche e ecclesiali. Si ha per il secolo XIII e le enfiteusi analoga situazione che per il XII e il villanaggio: le fonti sono pervenute pressoché esclusivamente attraverso la preservazione dovuta alla continuità di vita e di interesse di istituzioni religiose, e resta incerto se e quanto della parte perspicua che esse hanno nella documentazione superstite risponda, sia pure entro certa misura, alla solerzia manifestata e alle possibilità operative di cui riuscirono a fruire (ma quanto meno queste seconde valgono per gli anni degli Svevi!), o sia conseguenza della perdita dei documenti dei quali non furono attori interessati persone o istituti religiosi. Che, impediti essi pure da norme di diritto pubblico o canonico ad alienare gli immobili, riuscirono a destreggiarsi nelle pieghe di una pratica adusa alla preservazione, insieme al reddito, del diritto eminente sui beni. Il contratto enfiteutico aveva durata trentennale (la formula in perpetuo era eccezionale); il ricorso alla conferma
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in silentio non alterava, per prescrizione o usucapione, la condizione giuridico-formale per la quale il concedente serbava il diritto eminente; e il beneficiario, sempre formalmente, era affittuario. Le censuazioni furono frequenti, e sembrano rispondere in taluni casi a un disegno o almeno a un comportamento aderente, toccando abitazioni in deperimento e da riattare o terreni per costruire case in città, e nell'agro orti e giardini, terre vuote o irrigue da essere messe in cultura o migliorate ed episodicamente anche mulini. Almeno a quel che veniva dichiarato, le censuazioni rientravano negli atti di normale gestione. La documentazione più larga si riferisce a città, Messina e Palermo, che avevano problemi vistosi e differenti — di costruire e impedire il totale abbandono, di ridurre spazi vuoti e di reperirne nuovi idonei — e che attingevano in cospicua misura gli alimenti dai campi e dagli orti entro e accosto gli abitati e dalla campagna attigua. Ma resta sempre da considerare che non abbiamo cifre che consentano rappresentazioni quantitative e disponiamo di una documentazione che si riferisce a un numero piuttosto ridotto di campioni: disponiamo, cioè, di tasselli, e la traccia da percorrere rimane affidata alla capacità di accostamento e di combinazione e all'intuizione. Quel che emerge dai fondi diplomatici, è che il ricorso alle censuazioni dopo i primi decenni del secolo XIII fu comune, e nel periodo degli svevi tese a dilatarsi. A Messina ne furono investite, nuovamente, le fiumare: protagonisti l'arcivescovado, i monasteri di S. Maria di Malfinò, di S. Maria di Valle Josaphat, le monache di S. Maria... A Palermo l'arcivescovado fu pure presente. Emerge, comunque, l'operazione, sistematica e continuata, dei frati-cavalieri dell'ordine dei teutonici: che se da un lato si esercitò nella concessione entro le città di case dirute o in disfacimento da riattare e di casalini da mettere su per esser adibiti ad abitazioni, dall'altro ebbe campo nella parcellazione dei terreni della fascia attigua alla casa e alla chiesa dell'ordine, da Porta di Termini fino a S. Giovanni dei Lebrosi, che furono dati a censo con l'impegno della destinazione a culture di elevato rendimento economico. Le censuazioni valsero a richiamare in città un certo numero di immigrati, e non mancarono gli attesi vantaggi economici. Quei solerti frati, che in Sicilia non avevano impegni militari, né soverchi né pochi, estesero le censuazioni ai tenimenta delle dipendenze: ad
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Agrigento, Corleone, Polizzi, Vicari... Non erano, del resto, le censuazioni fenomeno esclusivamente cittadino: anzi lo erano meno di quel che potrebbe risultare da una mappa che non può non basarsi sui fondi archivistici di chiese e monasteri che operarono prevalentemente in città. Il monastero di S. Maria di Valle Josaphat diede terreni a censo, oltre a Messina, a Paternò. Il monastero di S. Maria della non lontana Agira, dal 1259 almeno, diede luogo a una serie piuttosto larga di censuazioni; che, dal 1281, sotto l'abate Nicolò Cantone, assunse dimensioni e carattere di operazione sistematica. Nell'insieme, sul piano cronologico, non ci sono parentesi, già all'indomani della morte di Guglielmo II: il vescovo di Cefalù nel 1191 dava a censo una casa e nel 1198 un tenimento di terre nel casale Harsa; l'arcivescovo di Messina si rifaceva nel 1225 a censi già accesi (ma un rinvio era già in un atto del 1178). Il ricorso sembra comunque rispondere a disegni organici tra il terzo e il quarto decennio del secolo XIII: datano dal 1225 le concessioni da parte del monastero di S. Maria di Valle Josaphat in Paternò, dal 1231 prendono consistenza quelle della magione dei teutonici, dal 1236 si presentano aderenti a un indirizzo definito quelle da parte del priorato di S. Maria di Valle Josaphat in Messina (una serie più consistente fu legata alla ricostruzione dopo i guasti del Vespro). Il ricorso alle enfiteusi alla morte di Federico II era in evidente allargamento nei territori delle fondazioni che ne avevano già fatto uso più o meno largo e si estendeva negli anni successivi. Dal 1252 partono gli atti di S. Maria di Malfinò, dal 1255 (con accentuazione dal 1259) si sviluppano quelli di S. Maria Latina in Agira e Messina, e sempre dal 1259 quelli del monastero femminile di S. Maria, dal 1268 datano quelli di S. Maria Nuova di Monreale'. Entro la duplice, e con frequenza convergente, direzione verso rapporti sostitutivi del villanaggio e verso l'utilizzazione congrua del terreno si diffusero pure i contratti di conduzione a parte, ad medietatem, ad quartum. Si trattava, in epoca sveva, di rapporti con consistenti analogie; solo che mentre il secondo — ad quartum — si attagliava ai beni dei privati che non erano sottoposti a vincoli di inalienabilità, quello ad medietatem si confaceva alle chiese il cui patrimonio aveva questa soggezione. In pratica entrambi si diffusero per i territori vuoti da trasformare
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in vigneti, e su scala più mobile per quelli destinati a culture arboree o promiscue. In virtù del contratto ad medietatem il concessionario-coltivatore nei primi 2 anni curava la piantagione; nei successivi 2 anni, eccezionalmente 3, godeva dell'intero frutto della piantagione; poi il terreno era spartito in 2 quote eguali (uno dei contraenti operava la divisione, l'altro sceglieva). Attraverso il contratto ad quartum il proprietario-concedente conservava il diritto eminente sul suolo, e, dopo 4 o 5 anni, percepiva la quarta parte dell'intiero frutto. Erano le fondamenta della metateria, per secoli presunto rapporto equitativo tra diritto del proprietario e fatica del coltivatore; in sé, comunque, i 2 contratti affini durante la monarchia sveva vennero ad essere regolati da usi locali (« ad medietatem secundum usum et consuetudinem civitatis »; « ad quartum iuxta consuetudinem ecclesiarum »); e per questo il ricorso al notaio avveniva in genere al momento in cui, concluso il periodo della messa a cultura, si procedeva alla divisione, o si instaurava il rapporto ad quartum, magari compiendo contemporaneamente la scelta fra i 2 modi di spartizione e qualche volta addivenendo a deroghe dai termini consuetudinari ss Chiaramente al di fuori degli schemi del villanaggio e delle concessioni in beneficio per prestazioni di servizi sordidi (la marineria, il trasporto del legname), che essi pure là dove già vigevano cedevano nella commutazione in oneri in moneta, e delle stesse censuazioni, fu il terraggio. Il ricorso fu largo specialmente là dove si ricevettero immigrazioni e movimenti interni. A Corleone le cessioni a terraggio furono alternative e competitive con quelle a censo; gli uomini di Eraclea dovevano alla curia a titolo di terraggio 6000 salme di frumento. Al di fuori di iniziative dall'alto e degli insediamenti più o meno consistenti, il terraggio andò conformandosi per altro quale rapporto instabile e spontaneo: absque pactione seu licentia o cum licentia et sine pactione. In questi termini esso giunse nelle consuetudini cittadine con un contorno di clausole, ma pur sempre posato sulla base che il seminator su terreno trovato incolto doveva al proprietario cereali in quantità pari al seminato. Il terraggio usci dagli anni degli Svevi abbastanza adulto; e già immediatamente dopo il Vespro ne erano palesi deformazioni e abusi, quando un capitolo di Giacomo II (uno di quei capitoli che restavano allo stato di denunzia) condannava l'abitudine di
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affidare la stima del seminato a incompetenti compiacenti verso i proprietari e all'atto della corresponsione l'uso di misure alterate da parte degli ufficiali della curia o di baroni 36. O che si intervenisse a fissare la meta delle giornate di lavoro punendo il prestatore d'opera se pagato di più o che si lasciasse degenerare la pratica del terraggio, per gli uomini delle campagne non c'erano spine divelte né asperità appiattite sulle strade che portavano fuori del villanaggio.
XVII DIECI VOLTE IL SEMINATO A guardare nei congegni dell'economia siciliana di epoca sveva — l'abbiamo notato volta a volta — più d'uno si vede battere a vuoto. Quando non per regresso, per stasi: che in anni che erano di avanzamento nella vasta area dell'Europa euro-mediterranea, era maniera di restare indietro. Entro l'artigianato si accentuò la crisi di dimensioni in qualche settore, e di organizzazione pressoché generalizzata; l'edilizia, e non solo la più qua lificata, fu in aperta recessione; la partecipazione al commercio sulle grandi rotte si contrasse ulteriormente, soprattutto quella di privati. L'importazione non era più ristretta alle spezie e a pochi generi di lusso, ma lasciava spazio al vestiario, alla lana « transmarina » e ai tessuti del continente. E non perché mancassero le pecore, ma perché la materia prima difettava di qualità, e la lavorazione non era accurata. Il difetto di qualità tendeva a diventare vizio: forse nel regno, certo nella Sicilia. Una certa trascuratezza toccava perfino l'agricoltura, che persisteva settore trainante: quello su cui poggiava l'esistenza materiale della popolazione e che sosteneva lo stato. Federico confidava negli ebrei provenienti dal Garbo perché trapiantassero in Sicilia alcune colture di pregio; e doveva pure mandare a chiedere a Riccardo Filangieri, nel Principato, uomini che sapessero fare lo zucchero e insegnassero a farlo « perché tale arte non può scomparire alla leggiera in Palermo ». Si coltivavano orti, nuovi e vecchi (e in questo senso si muovevano molti contratti di censuazione), e si impiantavano vigneti. Erano arti antiche, ancor quando se ne ricavava quel buon vino « de galloppo », il cui invio la corte sollecitava nel 1240 i. Anche se i vecchi congegni perdevano colpi, essi valevano ancora, comunque, ad assicurare l'autosuffi-
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cienza anche dei prodotti dell'allevamento, che era il settore più scompensato 2 A dare corpo alla produzione e all'esportazione c'erano gli alimenti: il cacio, le carni salate (erano il pendant della tonnina; ed era d'aiuto la disponibilità di sale e di bestiame, soprattutto di suini). « Capre, pecore e porci di qualsiasi regione » erano tra gli animali dei quali era data facoltà di esportazione al contrario di « cavalli e cavalle, muli e bufali, buoi e vacche ». E se nell'insieme in Sicilia non c'era scarsità di bovini e anzi sussisteva una certa eccedenza che poteva essere riversata a compensare urgenze in altre province del regno, per gli equini, e soprattutto per quelli di miglior levatura adatti alle armi, le preoccupazioni non risparmiavano l'isola. Fu, cosi, estesa ai giustizierati siciliani la lettera regia che puntualizzava, nel febbraio del 1240, di non permettere l'esportazione di cavalli idonei all'armamento (« parecchi nobili e magnati — vi si legge — ci supplicano con insistenza di permettere che essi portino fuori dal regno i cavalli che comprano nel regno; e ciò non rientra nella nostra volontà »); e ancora al giustiziere della Sicilia citra si ribadiva la proibizione nei confronti dei « militi peregrini » che chiedevano licenza di comprare cavalli e muli da portare oltremare (« non vogliamo che si permetta che essi comprino di tali cavalcature, in quanto per i nostri affari incombenti vogliamo che tutte le parti del nostro regno non siano prive di tali animali »); e con circolare ai maggiori ufficiali di Sicilia, giustizieri e secreti, pure nel 1240, Federico trasmetteva uno di quegli ordini che valgono a collocarlo fra i più strenui e fra i più ingenui pianificatori, al di là del proprio tempo (« Poiché piace alla nostra Eccellenza che il regno di Sicilia nutra abbastanza muli e cavalli, comandiamo che ovunque nella tua giurisdizione ordini e faccia osservare che tutti' gli uomini che abbiano giumente un anno le facciano coprire da cavalli e un altro anno da asini sì che nel regno cresca il numero di cavalli e di muli »). All'allevameno del bestiame era riservato spazio, in quegli anni, magari in considerazione delle difficoltà che venivano dalle rivolte e dalle fughe dei musulmani che non erano esaurite e dalle repressioni e dagli esodi forzati che continuavano. Davanti ai buoi, compagni necessari del lavoro dei campi, si inchinavano a comprensiva cedevolezza anche le ragioni del fisco (« si impedisca che per qualsiasi colletta o debito pubblico o privato siano tolti i .
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buoi domestici per quanto il loro padrone sia debitore alla nostra curia o a privata persona, affinché non sia in alcun modo trascurata l'agricoltura »). Rimanevano, del resto, le grosse mandrie delle chiese, anche se queste non ne serbarono i documenti con lo zelo maturato di senso pratico e giuridico con cui nel secolo XII custodirono atti di villanaggio e nel secolo XIII atti di censuazione. E c'erano grosse mandrie di privati. A R. de Calvellis, i cui beni nel 1239 erano sotto confisca, erano appartenuti, oltre 3 giumenti trovati presso Agrigento, 1495 pecore che erano state ingabellate a M. da Piazza e a Gurfulione sara ceno, e 10 buoi che erano stati consegnati a P. di Geremia maestro delle paricle. Di questa grossa mandria nel 1240 fu ordinata l'assegnazione ai secreti: cioè l'inserimento tra quelle proprie della curia che le dava in gabella o in estaglio, o le manteneva direttamente nel contesto di una masseria 3. Le masserie demaniali furono organizzate entro ciascun giustizierato facendo capo al magister massariarium. Tra le novae constitutiones è una relativa ai compiti di questi ufficiali di vigilanza: è specificatamente indirizzata al magister in Puglia, ma dichiaratamente si tratta di enciclica estesa a tutti i giustizierati. Nelle disposizioni impartite non senza puntigliosità con la attenzione per la gestione proficua non c'erano né traccia né stimoli a innovazioni nei sistemi e nei tipi di conduzione e di coltivazione. « Vedrai (...) se fanno coltivare i possedimenti nei tempi opportuni; se ben ripongono i frutti. Informati anche da ciascuno di essi sulla quantità del seme o sulle vettovaglie raccolte, affinché si sappia da parte tua se i lavori siano compensati dai frutti, se ripongono il vino in recipienti puliti, buoni e adatti, se le case sono curate e mantenute come si deve e se hanno bisogno di riparazioni, e di quali, e se hanno bisogno insisti presso i massari che facciano riparare le masserie, se le masserie son fornite di legna, paglia e fieno, se vi sono luoghi fertili, se vi è sufficienza di api e di granoturco, avena, miglio, panico, spelta e altri legumi, bombace e canapa di cui ci piace che si semini nelle singole masserie, se similmente hanno a sufficienza oche, galline, capponi e pavoni, se dalle penne di questi uccelli i massari fanno fare letti e guanciali. Domanda, di più, delle vigne da piantare, degli ulivi e altri alberi da frutta nei luoghi adatti alle stesse masserie, che facciano fare castrati di arieti, di becchi e di buoi, e li facciano ingrassare con i frutti che hanno, affinché se saremo
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presenti nel regno la nostra corte si nutrisca delle loro carni, o in nostra assenza se ne procuri profitto ». L'inclinazione a ritenere di potere disciplinare minutamente la conduzione con schemi e disposizioni esplicative sortirono negli ultimi anni di governo svevo, dopo il 1254 (« post obitum regis Conradi ») in una serie di statuta. Le parti normative si combinavano in essi con altre piuttosto didascaliche. Chi stese gli statuta volle dare ordini e impartire nozioni. A noi ha fatto pervenire notizie molto interessanti: sugli indirizzi di quella amministrazione, e sulle cognizioni in sede agro-pecuaria, e ancora sui prezzi, sui costi, sui salari andanti. Lasciamo, per ora, salari e remunerazioni. La scrofa che partoriva — diceva il primo statuto — rendeva 4 porci (e le toccava per nutrimento una salma d'orzo; mentre i suini sterili erano mantenuti a spese del massaro). Quello che era un calcolo medio e previsionale (e per noi ha significato in quanto tale) diveniva per il massaro obbligazione. In tempo di « spiga e di ghianda » 500 porci dovevano avere 6 custodi più un addetto « per custodire la resa »; nelle altre stagioni ne dovevano avere 4 ed uno che curasse le scrofe; 1000 pecore dovevano avere 5 custodi e uno per custodirne la resa; 300 vacche dovevano avere 4 custodi più uno per la resa a partire da marzo e finché durava la mungitura poi ne avevano 3. Delle .aratie dei giumenti erano segnati, con gli stipendi degli addetti, gli alimenti delle bestie: al ronzino andava un terzo di tumolo di orzo ogni notte, a 5 stalloni ne andavano 2 tumoli, a ogni puledro un terzo. Di 100 giumente ogni anno ne dovevano figliare « due parti », e « la figliolanza sempre suole essere di femmine la quarta parte più che di maschi ». Lo statuto assumeva tono discorsivo-didascalico a scapito della stessa indole dispositiva nel trattare « del tempo in cui cominciano a portare i soprascritti animali e per quanto tempo portino e dei loro frutti ». La giumenta poteva « portare » dai 3 anni compiuti, la « figliolanza in ventre » durava 11 mesi e poteva essere impregnata fino ai 12 anni. Ciascun anno potevano figliare due parti delle giumente e concepivano dal mese di marzo in avanti e a ogni centinaio di giumente bastavano 5 stalloni. L'età di « portar figli » per le vacche si considerava dai 2 anni, il periodo da cui potevano essere impregnate partiva da marzo, bastavano 5 tori per 100 mucche. Le scrofe, ancora, cominciavano a portar figli da un anno in poi, e portavano 2 volte l'anno, stavano pregne
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4 mesi e fino a 6 anni, ogni anno si riteneva figliassero la metà delle scrofe, e a 100 bastavano 7 porci. Anche delle pecore si riteneva ne figliassero 2 parti, con il concorso di 5 montoni. La gallina — si diceva — cominciava a fare uova a gennaio, e durava fino a tutto maggio. La resa si considerava in questo periodo di 50 uova al giorno, in tutto 6750 per 100 galline. Si riteneva pure che di 100 galline ne potessero cubare 10, e che ciascuna desse, fra il primo aprile e tutto agosto, 10 pulcini. Di 100 anatre si riteneva ne potessero cubare 10, e ciascuna dare 7 fra paperi e papere. La parte didascalica versava in tono patetico per le colombe: « non cubant nel mese di dicembre, negli altri mesi cubant e fanno ogni mese 2 piccioni, e ciascun colombo deve avere la propria colomba per sé, e si nutriscono con poche spese, ed è meraviglioso come, quando la colomba perde il suo maschio, non vuole dagli altri colombi da essa conosciuti, ma da quelli ignoti ». I frutti delle api — si concludeva in proposito — si avevano due volte l'anno alla festa di S. Giovanni e a fine settembre, e « pro quolibet cuparello » si ricavavano 3 libbre meno un terzo di cera, sempre che il tempo fosse favorevole, altrimenti si aveva un solo frutto alla festa di S. Giovanni di una libbra e mezza di cera e 3 soldi di miele; « e dovevano stare (le api) ove erano alberi, fiori e acqua, dai quali potevano ricavare pascolo e acqua, e quando il miele era estratto dal cupello tutte le api ne erano chiuse nel fondo, e dovevano avere un uomo che le custodisse » ¢. Avanti questo discorso dei « frutti », c'era lo statutum massariarum, con lo stipendio e il salario degli addetti e le corresponsioni dovute dal massaro. E c'era la resa dei cereali essenziali e abituali all'alimentazione dell'uomo e degli animali: « (...) di ciascuna salma seminata di frumento è tenuto a rendere 10 salme e di orzo 12 ». Solo calamità naturali potevano motivare l'inadempienza: « se avverrà una diffusa avversità per cui quanto detto non possa essere adempiuto, saranno tenuti a provarlo o attraverso i vicini o per atto pubblico ». Prevaricazione? e perché? e chi allora sarebbe rimasto a fare il massaro? Questa resa imposta dal fisco, modica ai livelli di economia agricola odierna, estremamente elevata per l'epoca, almeno a quel che si conosce di altri paesi ove l'ascesa tra il secolo X e il XIII giunse a 4 volte la semina (con rare e locali eccezioni) dalle 2 con punte fino a 3 di epoca carolingia, era
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aderente ai computi correnti in Sicilia. Nel 1250 il maestro giustiziere Riccardo di Montenegro fu chiamato a sentenziare in Foggia in una vertenza fra il vescovo di Patti e Gregorio Mustaccio il quale aveva amministrato, per ordine della curia, il casale di S. Lucia durante la vacanza del vescovato. Erano in contestazione fra l'altro 125 salme di frumento: la valutazione del ricavato delle 12 1/2 seminate. Era il medesimo computo: la media equa perché di consueto raggiunta salvo annate di gravi calamità. Era, questo rendimento, eccezionalmente elevato per l'epoca, a distinguere l'economia agricola delle regioni meglio dotate dell'Italia meridionale, della Puglia e della Sicilia « che al massimo abbondano in vettovaglie » 5. Quando, nel 1238, si constatò una contrazione della produzione con punte che localmente tendevano alla carestia, si cercò di correre • ai ripari, almeno per quanto la sterilità non dipendeva dalla inclementia aeris ma dalla negligentia dei coltivatori. I quali seminavano scarso e non destinavano per difetto di affezione buoi adatti al servizio dei campi; si che « da esiguo e modico seme si aveva scarso e modico raccolto ». Per evitare la sterilità e riportare la fertilità, si diede ordine di costringere vecchi e nuovi agricoltori e quanti altri ne avessero bisogno a comprare buoi e coltivare ciascuno a misura delle proprie possibilità, e di far dare a terraggio le terre disponibili. Da un lato rilievo della sperequazione fra terre non adeguatamente coltivate o addirittura in abbandono e forza di lavoro non adoperata congruamente, dall'altro costatazione e lamento dinanzi alla « negligenza » del tradizionale buon sistema che esigeva il bue compagno partecipe alla semina. La lettera, pervenuta con l'indirizzo al giustiziere di Terra di Bari, provincia tra le meglio provvedute in grano, facilmente giunse anche in Sicilia se si trattava di una enciclica; ma proprio per questo carattere di circolare non dice se e in quale misura erano investiti i diversi giustizierati (e, come a noi interessa, quelli siciliani). Nei quali non si può invero parlare di scarsezza di produzione di cereali e nemmeno di flessioni che non fossero occasionali (e neppur congiunturali); ché semmai qualche, non disinteressato, ufficiale poté lamentare che « anche la provincia di Sicilia dovunque generalmente non aveva abbondato di grano » in una stagione in cui per la scarsezza di derrate gli uomini di
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Principato e di Terra di Lavoro giravano per l'isola cercando di esportare frumento in esenzione da tasse d Resta da chiedersi se e in quale misura i mali lamentati (difettosa ripartizione del terreno rispetto alla mano d'opera disponibile, inadeguata utilizzazione del bestiame) valevano per l'isola. Dal quadro che siamo andati tracciando la risposta risulta consolante: ché non si manifestarono in Sicilia « ubique generaliter » segni che il suolo fosse ad alcuni precluso e da altri trascurato. Semmai nei sistemi di cultura come negli insediamenti c'era stagnazione. La panda continuava a rappresentare misura di terreno e di lavoro'. Non c'era altro apprezzabile miglioramento nei modi di lavorazione e di utilizzazione del terreno, ma perseveranza entro la « solitam agricolarum industriam » con il conforto del suolo che restituiva il seme né parce né modice. Ed era per le rese larghe, più che per l'estensione delle superfici coltivate, che il regno di Sicilia e l'isola propriamente godevano fama di feracità e di ricchezza ed erano guardati con ammirazione e invidia nelle regioni dell'occidente cristiano ove espansione demografica e consumi dilatati si impattavano con il problema dell'alimentazione e nei paesi d'Africa ove le difficoltà di sussistenza erano costanti nell'oscillante vicenda politica e militare. .
XVIII VITA D'OGNI GIORNO Nel 1249 il vescovo di Patti computava il frumento (18 salme e un terzo) che i villani del casale di Sinagra potevano pagargli in moneta in ragione di 5 tari la salma. Nello statuto delle masserie il frumento era stimato un'onza le 3 salme. 10 tarì, e cioè il doppio. Questo non è lo scarto di prezzo più elevato fra i due documenti: l'orzo era valutato a Patti-Sinagra 2 tarì e mezzo la salma (la metà del frumento, come avveniva per solito) nello statutum 7 e mezzo, le uova rispettivamente 3 e 14 grana le 10, le galline 4 e 10 grana l'una. Del pari, un porco di 2 anni apprezzato nello statuto 10 tari, nella controversia fra il vescovo di Patti e Gregorio Mustaccio era valutato 4. Né i giudici in questo caso indulgevano ad -accomodamenti dei prezzi abbassandoli: una salma di vino la valutavano 6 tarì, quando 4 anni avanti in Messina in giudizio civile il mosto era apprezzato un tari e mezzo la salma (200 salme di mosto erano date a conguaglio di una differenza di 300 tarì)'. Verisimilmente nello statuto la corte preoccupata di cautelarsi con valutazioni che scoraggiassero negligenze e sottrazioni, e con l'ottica rivolta al regno nel complesso, e al di fuori delle oscillazioni congiunturali, di annata e di stagione, agganciava, magari caricandoli, i prezzi più elevati riscontrati e prevedibili nei mercati più pesanti. La differenza fra le stime nello statuto e nelle commutazioni di Sinagra riflettevano, anche, la scala dal produttore e dal luogo di produzione siciliani al mercato di consumo, magari non siciliano, gravato dalle tasse e dai profitti e dagli incerti del giro commerciale, e non mancavano di risentire della celerità e della consistenza diverse della circolazione monetaria fra piazze più o meno frequentate e soprattutto fra campagna e città. Che è quanto poi
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risalta dai prezzi nel mercato di esportazione in anni non lontani dalla data dello statuto e dell'atto di Patti-Sinagra. Nel novembre del 1239, 1000 salme di frumento erano vendute dalla corte ad alcuni mercanti di Poggibonsi che potevano uscirle da Trapani e Palermo libere (e cioè senza tassa di export, esenzione cui facilmente corrispondeva un aumento nel prezzo), 433 onze, e cioè 13 tarì la salma. Nel corso della stessa indizione, nel gennaio del 1240, la curia vendeva a mercanti pisani, per estrarle in esenzione dai porti di Trapani e di Palermo con licenza di portarle dappertutto fuorché a Venezia, 1300 salme di frumento per 520 onze, cioè 12 tarì la salma. Nel febbraio Federico raccolse la proposta dell'ammiraglio Nicolino Spinola di mandare a vendere 50.000 salme di frumento in Africa, ripromettendosi di ricavarne, nella carestia che affliggeva Marocco e Barberia, 40.000 onze (24 tarì la salma), con i rischi e a lordo delle spese del viaggio e dello smercio sulla costa africana! 2. Le stime dello statuto costituiscono per altro riferimento utilissimo a voler considerare il valore commerciale del frumento in relazione alle produzioni agro-pecuarie e alla reciproca posizione di queste sul mercato, al di là del dubbio di incerta lettura del prezzo o della misura di qualche voce. Queste valutazioni, omogenee per cronologia, ancor se caricate e non rispettose delle diverse situazioni locali, presentano un insieme coerente. I prezzi degli animali di fattoria possono apparire addirittura non proporzionati all'utilità, alle sollecitazioni a procurarsene e a farne uso, ai ripetuti divieti di esportazione. Una vacca con vitello o un bue domato valevano quanto 3 salme di frumento. Qui, veramente, la stima su scala che intendeva essere applicata a tutto il regno può apparire non consona all'isola, magari più in sé che per il rapporto fra cereali e capo bovino. Eppure nel 1264, in un casale presso Rametta, 19 buoi minuti da lavoro erano venduti 191 tarì (10 tari e 2 grana ciascuno). La lana, che era grossa e non pregiata sul mercato esterno stava al grezzo su bassi prezzi. A ll a accessibilità dei bovini, degli ovini e del bestiame di fattoria corrispondevano i prezzi non elevati della ricotta, del cacio (più lavorato, di consumo più diffuso), delle stesse carni salate. L'olio, pesato con la misura di Puglia (che ne era il paese produttore per antonomasia) aveva un prezzo abbastanza sostenuto; prezioso com'era, e non solo quale condimento o per la conservazione di cibi (era
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d'uso la salatura, piuttosto) quanto a consumarsi, lentissimamente, « pro luminaribus » e per usi di veterinaria. I prezzi per i generi della vita semplice (tra essi il vino), quelli di chi non andava ad acquistare gioielli importati, e non cercava le lane e le sete d'oltralpe e d'oltremare, il pelo di cammello, lo zendado e lo sciamito, erano contenuti. Semmai era privilegiato il grano, base della alimentazione comune all'interno e dell'esportazione all'esterno. Il bue, la vacca, l'asino magari, un certo numero di pecore o di capre, il pollame, per un verso, il grano, il cacio, le uova costituivano i mezzi di lavoro e i generi di consumo essenziali 3 . Al di là, i prezzi lievitavano: si trattasse pure del solido mulo o del cavallo che non erano ancora adibiti in Sicilia ai lavori della semina. Bastava questo scatto, comunque, per creare un diverso livello. Chi poteva concedersi il cavallo, con quel che si richiedeva per l'acquisto o per il nutrimento, stava già alle soglie di una possibilità: l'acquisto di uno schiavo o di una schiava. Nel 1260 un catalano di Barcellona, di nome Bernardo, vendette in Palermo una schiava: bianca, saracena, di nome Meriem. La comprò Giovanni Lombardo abitatore di Polizzi, padre di Rinaldo il quale, a termine della sua vicenda di mercante (solerte, o spregiudicato?) e di frate dei teutonici, designò erede ai primi del secolo XIV l'ordine, e con l'eredità lasciò le pergamene degli atti di compra dei beni che aveva accumulato. Per questa via possiamo disporre di un prezzo attendibile e utile all'accostamento per omogeneità cronologica. Il costo di quella schiava in età, certo efficiente, giovane verisimilmente, bianca, chi sa se proprio saracena, della quale si volle conservare il documento d'acquisto (un ricordo, una nota di affetto da parte dei figli del compratore?) fu di 5 onze e 4 tarì: 15 salme di frumento a prezzo di statuto (e di mercato cittadino), magari 30 a comprarle nell'aia in quel di Polizzi. Ma quante persone si potevano sfamare con quel grano! E 5 buoi (15 addirittura, se magari minuti si aveva la buona occasione di acquistarli) non erano più utili di una schiava, fosse pure bianca e saracena ma che per tanti avrebbe comportato complicazioni più che agevolazioni nel modo di condurre l'esistenza? 4 Poi, c'era altro grado di spese, altro modo, che non era semplice, di vivere. A Messina, nel 1246, finivano con l'accordarsi, presso il giudice e con l'assistenza di notaio, genero e suocera, perché egli le doveva 1200 tari per una casa dotale (« in nova
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urbe Messane in ruga Anglicorum ») ricevuta da lla moglie defunta, e lei gliene doveva solo 900: 700 a pagamento di oro lavorato e 200 per una coperta di sciamito. La sola coperta valeva più di Meriem, e di oro lavorato la suocera ne aveva ricevuto quanto il prezzo di 4-5 schiave in buona efficienza. Ma alle 1230 onze effettivamente impiegate, nel 1239, dall'indebitatissima corte nell'acquisto della magna scutella de onichio e di alias plures johyas non corrispondevano in concreto 3690 salme di frumento, e in ipotesi lo stuolo di 240 Meriem? 5 . Tra la vita dolce dei pochi, e dei pochissimi, e l'esistenza semplice dei moltissimi era vasto lo spazio. Orzo e frumento, alimenti primi, lo Statutum si preoccupava di segnarne la quantità spettante agli uomini e agli animali. Alla scrofa, che doveva rendere 4 figliolanze, andava una salma d'orzo, al ronzino da cavalcatura ne toccava ogni notte 1/3 di tumolo, a 5 stalloni 2 tumoli, e pure 1/3 di tumolo a ogni puledro. Analoga preoccupazione era di stabilire il nutrimento dei dipendenti del massaro: il frumento che dava il pane, al quale si accompagnava il vino, che non era vizio e non era gusto quando l'acqua mancava o quando berla rappresentava provocazione nei confronti di Esculapio. A ciascun familiare del massaro andavano ogni mese un tumolo e mezzo di frumento della salma di 8 tumoli; ai laboratores, agli scudieri e ai giumentari ne toccavano a ciascuno 2 tumoli. Allo scudiero andava pure un barile e mezzo di vino. A tenore di una ordinanza regia del 1241-42 la mercede del giumentaro o custode dei cavalli comprendeva 24 tumoli di frumento l'anno, quella dello scudiero oltre i 24 tumoli di frumento 18 barili di vino. Cacio, frumento, vino (3000 salme sono ricordate in una lettera dell'imperatore del 1240) costituivano l'approvvigionamento della flotta insieme alle carni - salate (l'insaccato: i porci erano stati « fatti ingrassare, uccidere e salare » per la « maggiore utilità della curia regia »). Nella vivanda del personale di servizio che stava in Malta sotto Gilberto Abate era privilegiato il frumento: carenza di vino e bontà di acqua in luogo, rispetto per le « consuetudini e costituzioni » che in quelle isole erano diverse, o che se non Allah che si sapeva non propenso, si lasciava provvedessero gli uomini. La razione di grano dei militari (220 tra servientes e
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marinai) risultava in media sui 2 tumoli e 1/2 al mese (nel documento è riportato il quantitativo di insieme (35 salme); quella delle mogli (« le 70 donne, le mogli cioè dei sopradetti servienti ») e del personale, anche servile, impiegato nell'ambito del castello (69 persone) superava 2 tumoli e 3/4. Questi 359 ricevevano pure ciascuno al mese in media 2 kg. di cacio (nell'insieme 9 cantari) e carni, burro e altro « a sufficienza ». Vivanda degli addetti ai lavori più umili (gli schiavi delle Gerbe che accudivano alle paricle, i custodi delle greggi...) era invece l'orzo: la media mensile a persona era 5 tumoli e 1/3. Ma tant'era: non era superiore il valore venale e neppure quello nutritivo, e per essi non era accenno a cacio, a burro, a carni o a qualsiasi altro companatico. La campagna e gli animali di per sé qualcosa magari offrivano; quella di costoro, comunque, non era alimentazione semplice: era la scarna nutrizione del derelitto 6 Grandi bevitori di vino anche i musulmani (virtù che probabilmente nasceva da necessità) consumatori in ogni modo di cereali e soprattutto di frumento (se non stavano in Malta e se non erano fuori della grazia di Dio), al pane e, quando andavano in mare, al biscotto i siciliani del secolo XIII accompagnavano di solito il cacio (erano meno frequenti la ricotta, il burro). Il pesce, là dove c'era, non era vivanda di tutti i giorni, né di molti giorni, anche a trattarsi di tonnina salata che poteva accompagnare l'astinenza dei monaci e stimolare la golosità di chi monaco non era; la carne, e pure la gallina (destinata più spesso ad omaggio d'obbligo, o non disponibile perché questo si era convertito in consuetudine rispettosa) stavano nelle mense degli umili nelle circostanze straordinarie: la caduta, la malattia, la morte appena sopravvenuta dell'animale proprio o del vicino erano le meno infrequenti. La gallina era pure conforto alimentare nelle circostanze più tristi per l'uomo. Anche alla mensa dei più agiati, a non trattarsi della corte regia o di quella larga di qualche nobile o « magnate » spendereccio (e ce n'erano tanti!), le carni consumate al di fuori di eccezionali circostanze erano, a parte la cacciagione, le salutes di pasqua e di natale (il buon pollame ruspante), e il volatile, il capretto o l'agnello rei di essere nati maschi che non figliano e non fanno latte, o i duri e meno garbati genitori che più non servivano, o meglio il porcellino. Ché, per il resto, chi avrebbe sacrificato il bue che serviva alla paricla, o la vacca .
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che dava figliolanza e latte e che, quando necessario, era utilizzabile all'aratro? Se il frumento manteneva sul mercato posizione privilegiata anche nel prezzo rispetto agli altri generi di consumo e al bestiame, la valutazione del terreno, quello vacuo o in trasformazione, era comparativamente esigua. Le disponibilità erano larghe, le richieste erano molto ristrette, esistevano difficoltà di conduzione, e per altro, cospicua parte del prezzo dei prodotti andava al giro del mercato. Erano situazioni che trovavano riflesso sia nelle compravendite per quel poco che ne era possibile, limitate come erano ai burgensatici, sia nella modicità dei canoni enfiteutici. Per 50 tari era venduto nel gennaio 1245 un appezzamento di terreno della misura di una salma e un quarto in contrada Monte Pellegrino, nelle immediate vicinanze di Palermo. 4 tarì era il censo acceso nel 1253 su un terreno alla Favara alle porte di Palermo, nel quale si sarebbero dovute piantare 8 migliaia di viti: il peso enfiteutico risultava, con buona approssimazione, sugli 8 tari alla salma di terreno, l'equivalente di una salma di frumento (in considerazione della vicinanza alla città che escludeva le spese di trasporto, ma valeva pure a sollevare il prezzo sull'aia) e al terraggio sullo stesso terreno. Pure per 4 tari era venduto nello stesso anno un appezzamento in territorio di Polizzi. Per il censo annuo di 2 tarì i teutonici di Palermo concedevano, nel 1255, un appezzamento in contrada Ponte dell'Ammiraglio. Nel 1254 era di 6 tari il censo annuo di un terreno a vigne nel territorio di Messina; nel 1260, di 10 quello stabilito su un vigneto alla Zisa di Palermo dell'estensione di canne 60 X 40, poco più di un ettaro (m 2 10.231,979). Il censo in questo contratto risultava di poco meno di un tari per 10 are, mentre nella enfiteusi del 1253 alla Favara era di un tari per poco meno di 22 are. Dietro ogni contratto stava la vicenda di esso, e 2 fasce possono essere simiglianti ma non eguali; il terreno alla Zisa dato in enfiteusi nel '60 era già vigneto, l'altro doveva ancora essere bonificato. Nel febbraio del 1252 Riviero, o Oliviero, Lombardo acquistava un pezzo di terra vuota in territorio di Polizzi. Nel 1258 lo rivendeva trasformato in vigneto a un altro Lombardo, Giovanni, uomo non sprovveduto nei commerci, per 9 onze, 45 volte il prezzo dell'acquisto. È un .
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caso che resta significativo, anche se non si può assumere a significare il rapporto fra terreno vuoto e « migliorato ». In questo senso dice già tanto che, per contratto consuetudinario ormai, quanti riuscivano a cedere terreno da essere trasformato in vigneto erano sollecitati dalla prospettiva di recuperarne la metà al compimento dell'impianto, dopo il primo raccolto'. Il fuoco riscalda chi sta accosto; e il potere, anche allora, dava calore che era fatto di guadagni e disponibilità di risorse. Una strada per i grossi lucri erano le gabelle di grandi uffici finanziari (maestri secreti, maestri portulani); ma se di queste gabelle, che rappresentano pure un investimento di capitali, abbiamo rendiconti degli introiti e degli esiti, non appaiono cette le spettanze e tanto meno gli utili netti. Al di fuori dell'opinabile stanno gli stipendi. All'ammiraglio (lo sappiamo con certezza per Nicolino Spinola, del quale è rimasto il documento di nomina, del 1239); la corte assegnava « per le spese personali » un'onza al giorno, 100 salme di frumento e 100 di vino l'anno da prelevare nei porti di Messina, Napoli e Brindisi, l'uso di alcuni beni e una partecipazione stimolante — la ventesima parte — sui saraceni catturati. C'era pure la facoltà di importare e esportare merci in esenzione; che era altro, e non ultimo, motivo perché quegli ammiragli, genovesi di buona fattura, sviluppassero sentimenti di marchio imperiale, quale che fosse l'atteggiamento occasionale e l'interesse del loro comune di nascita $. Anche la sperequazione fra i superstipendi dei pochissimi e le remunerazioni dei molti non era solco, ma voragine Fuori dei quadri più elevati la corte non era larga neppure verso i « fedeli » che mandava in missione (« per eseguire nostri servizi »), anche piuttosto lontano. Al notaio Angelo da Capua, che Federico, da Foligno, nel febbraio del '40, inviava nel regno, erano assegnate 7 onze al mese, che dovevano servire anche al mantenimento di 3 scudieri e delle 4 cavalcature. Ad Oliviero da Pontremoli, che si muoveva nello stesso tempo e per analoghi motivi, erano assegnate 9 onze, nel mese di febbraio per 5 uomini di accompagnamento e 6 cavalcature, e dal marzo per 4 scudieri e 5 cavalcature. Non si trattava di stipendio, ma di compenso e rimborso (si dava per certo il mese di febbraio; dal marzo permanenza in Sicilia e remunerazione erano eventuali, « se per i predetti servizi trarrai ritardo nel regno »). Considerate le spese di viaggio, maestro Angelo e Oliviero dovevano confidare nella
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continenza e nella contentabilità degli scudieri, se non delle cavalcature, per non uscirne maluccio. Del resto, fiduciosi lo erano: tanto da partire con il mandato di pagamento in Sicilia, « poiché — scriveva l'imperatore — nella camera nostra al presente non c'è denaro ». Né avevano prospettiva di impinguarsi i militi che andavano a prestare servizio, oltre quello non remunerato perché dovuto a ragione del feudo, armati e equipaggiati come si doveva. Il saldo di 2 mesi per quelli chiamati nell'aprile del '40 (60 nella Sicilia citra, 15 nella ultra) era 10 onze. E c'era pure chi non aveva ancora ricevuto le spese dei 2 mesi precedenti perché la curia si dichiarava in difficoltà di moneta (in defectu petunie).
Entro il giustizierato di Sicilia c'erano Galvano Lancia e Ermanno de Camera che avevano militato con 7 cavalli ciascuno e ognuno dei due avanzava 18 onze; e Cacciaguerra fratello di Ermanno il quale era stato a servizio con 3 cavalli e gli spettavano 7 onze. A quanto è annotato in fondo, il mandato di pagamento, del 22 marzo, non ebbe esecuzione perché il giustiziere Guglielmo di Anglona fu rimosso avanti che avesse dato corso; sì che il 10 maggio fu ripetuto l'ordine al nuovo giustiziere di Sicilia Pietro di Calabria. E siccome neppure Pietro diede seguito, gli fu di nuovo scritto, l'ultimo di agosto, dagli accampamenti all'assedio di Faenza, perché pagasse « giusto il contenuto delle prime lettere, a condizione che il mandato predetto non fosse ancora eseguito ». Piccoli incidenti di molte amministrazioni: anche quando il regno sia unito all'impero 9 Ma andiamo agli stipendi fuori dei quadri più prestigiosi e più vicini alla monarchia. Al marescalco lo statuto delle masserie assegnava un'onza al mese e in più un modico sostegno di grano per i familiari. Con le stime, le rese e i proventi di cui doveva rispondere (a quanto s'è andato dicendo si aggiunga che, per ogni pecora valutata in 2 tari e 8 grana, doveva ogni settembre 1 tari di utile; per ogni bufala stimata 45 tari ne doveva 7 e 10 grana) e con i vincoli e le obbligazioni che gli erano imposti, non aveva tanto da sperare che i lucri crescessero. A parte che a questi lucri il marescalco non doveva neppure pensare (e non dovremmo avere motivo neppure noi a usare malizia e sospetto, che non mancavano però a corte). In pratica nel 1241-42 lo stipendio del marescalco « pro omnibus necessariis », era fissato in 11 onze l'anno (e i mesi erano 12). .
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Il notaio che stava in masseria percepiva 4 onze l'anno oltre i minuti compensi-rimborsi professionali. Fuori di masseria i notai non stavano sempre meglio in quanto a emolumenti: a ciascuno dei 2 notai al seguito del secreto di Sicilia, quando nel 1240 furono unificate le secrezie citra e ultra, furono attribuiti per stipendio annuo 4 onze; il giudice percepiva il doppio. Anche in periferia, le 4 onze del notaio, le 8 del giudice non creavano lusinghe di vita tra gli agi. E non erano larghe le prospettive per quelli che negli ultimi anni del dominio svevo si accompagnarono al secreto di Principato e di Terra di Lavoro con uno stipendio annuo stabilito per il giudice intorno a 15 onze, e 12 per i notai; e meno per i cursori la cui mercede era di 15 tarì al mese (6 onze l'anno), e per il giudice e per il notaio del giustiziere della Sicilia ultra che, sempre in quegli anni, ricevevano rispettivamente 16 e 8 onze. Chi faceva l'errore di mettere su famiglia con remunerazione ai livelli di 4 o di 8 onze, e poi quello (che risponde agli stimoli di natura) di avere un paio di figli, se non aveva altro di proprio, doveva rassegnarsi a vedere andar via lo stipendio in frumento e in alimenti di prima necessità. Quelli di giudice e di notaio non erano funzioni d'accatto: erano prestigiose, anzi, al punto da essere interdette agli uomini di « vile condizione ». Ma che i figli dovessero crescere presto, molto presto, e che dovessero aver fretta a guadagnarsi il pane, era nel costume. E non era, questa urgenza di avere in proprio l'alimento essenziale, motivo all'attaccamento, addirittura aggressivo, che si creava per il pezzo di terra, quale che fosse professione o mestiere? D'altro lato, giudice o notaio rimanevano fuori della possibilità di accedere alla nobiltà della milizia, se non elevati direttamente dal sovrano, per norma che risaliva alla monarchia normanna. Che stessero al di sotto delle 20 onze, che almeno nel parametro ufficiale continuavano a rappresentare l'annua rendita del feudo di un milite, entrava nella logica del sistema. Come vi rientrava la concessione ai familiari (incolpevoli quali erano in genere le donne e i minori), dei feudatari traditori, di « alimenti » che andavano oltre le disponibilità che gli stipendi concedevano al notaio che avesse famiglia. Nel settembre del 1241 Federico, dietro supplica di Adelina moglie del fu Riccardo de Conca, i cui beni erano stati confiscati (« e la corte li tiene esigendolo le sue colpe ») assegnava, della rendita dei beni incamerati, alla stessa Adelina 3 onze l'anno e alle figlie
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Filippa e Isolda e agli altri figli e figlie che con esse risiedevano perché avessero « qualcosa di che vivere » (3 onze a ciascuno se avevano 12 anni o più un'onza e mezzo se di età inferiore) 10 C'era, comunque, ancora molta gente che stava a mercede inferiore a quella del giudice o del notaio, e questi guardava con invidia e la differenza di remunerazione gli appariva vistosa, perché il soldo non ha lo stesso peso nelle mani del povero e del ricco. Al giumentaro e al custode di cavalli lo statutum delle masserie assegnava la mercede di 3 tari e 15 grana il mese, e cioè 2 onze e 5 tari l'anno. Nelle disposizioni del 1241-42 lo stipendio era stabilito in 52 tari e in più 34 tumoli di frumento, che erano quelli che aiutavano a vivere. Allo scudiero, al quale nello statutum si assegnava in più un barile di vino al mese, le disposizioni del 1241-42 attribuivano 45 tari l'anno, 34 tumoli di frumento e 18 barili di vino. E per altro le ordinanze valevano a preservare il fisco dai dipendenti, e non si preoccupavano altrettanto di tutelare questi. Si che lo zelo del procuratore de lle masserie di Puglia in quell'anno 1241-42 diede allo statuto una sua « forma », in cui la mercede degli scudieri fu ridotta a un'onza, e il vitto a 24 tumoli lasciando inalterata la quantità di vino 11. Questa cura costante di difendere il padrone, fosse anche il fisco, sta nei parametri di commutazione fra cereali, prestazioni d'opera e moneta a Sinagra, a Zaffaria e a Lardaria. Nel casale di Sinagra, se la stima del frumento e dell'orzo non era elevata (5 tari, e 2 e 1/2 rispettivamente), estremamente basse erano le diete: un tari le 10, fossero villani e borghesi i prestatori, alla semina, alla « zappuliata », alla « maisa » e nel sistemare le vigne; un tari le 4 al tempo della semina, ciascuna 7 grana e mezzo quelle prestate dai villani con le paricle. Per un lavoro, ipotetico, di 30 giorni al mese senza interruzione (e cioè trasgredendo anche alle prescrizioni religiose) avrebbero ricavato, con queste mete, eventualmente il magro vitto (che era nella consuetudine, e nell'atto non ce n'è ricordo) e 3 tari, e con le paricle 7 tari e mezzo (ma che questo accordo, c'è da chiedersi, non volesse tanto commutare, quanto scoraggiare, le prestazioni di lavoro?). A Zaffaria, le opere di quelli che erano chiamati « censuari » erano valutate un tari le 3. Nel caso, fittizio, di lavoro ininterrotto, quegli uomini avrebbero potuto guadagnare fino a 10 tari al mese; nel caso, surreale, di continuità nei 12 mesi, ,
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avrebbero potuto raggiungere il tetto di 4 onze l'anno: quanto percepiva un notaio di masseria. Ma è tutto un giuoco; c'erano le giornate che continuavano a spettare al vescovo, e la campagna esigeva lavoro, e magari troppo lavoro, solo in alcuni periodi delle stagioni adatte 12. Resta da chiedersi quale potesse comunque essere nelle buone condizioni la rendita di un agricoltore in proprio, di un burgisi, o di un censuario prescindendo dall'onere enfiteutico, o di un terraggiere, o magari di un villano al di fuori delle diete e delle prestazioni in natura o in moneta. In n}ancanza di conti documentati, lasciamo posto a un calcolo ingenuo e semplicistico, ma che proprio per questo può essere discretamente indicativo riferendosi all'economia corrente di campagna. Assumiamo le 8 salme necessarie al lavoro e al sostentamento di una famiglia, secondo la conosciuta, e convincente, considerazione preliminare all'assegnazione di terre a Mesepe, nel 1196 13 . Già per necessità di rotazione il terreno coltivabile annualmente a frumento non poteva andare oltre le 4 salme, entro le possibilità dell'agricoltore che non avesse larghi impieghi in angarie nelle quote di demanio della corte e del signore, e avesse abitazione, arnesi, bestiame (innanzi tutto buoi) in proprio e a sufficienza. A non lesinare nelle sementi, alla resa media poteva arrivare a un raccolto di 40 salme. Tolte le semine, il necessario per il vitto (almeno 5 salme per una famiglia di 4 persone), la decima ecclesiale (era arduo che i cattivi rapporti, quando erano tali, fra signoria e clero, si risolvessero a vantaggio dell'agricoltore), la dodicesima dopo che fu istituita (3 salme, a non considerare il trasporto e a far credito al contadino siciliano di un'efficiente assuefazione alla evasione fiscale, sia pure parziale) si hanno 20 salme di frumento disponibile: 3 onze e 10 tari al prezzo non svilito di 5 tari sul posto di produzione. Né si poteva andare oltre: il conto è ottimale, largo; e il bestiame inghiottiva l'orzo; e c'era l'eventualità di spese per gli attrezzi logori o per il ricorso all'artigiano, se non per rinnovare il bue o il capo equino. Per il resto era difficile che l'appezzamento desse più del necessario ai bisogni della famiglia che lo lavorava (legumi, uova, qualche volta il pollo, la carne da salare, cuoiame scarso e lana grossa, poco lino e cotone se clima e altitudine erano favorevoli) e se c'erano vigne (che incidevano per il terreno che occupavano e per le cure che richiedevano)
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difficilmente davano margine a vendita con la gran sete che si aveva di vino. Questa la rendita del burgisi che lavorava su terreno buono e proprio, tutto partendo bene e tutto andando liscio per 52 settimane ognuna senza venerdì e 365 giorni ciascuno senza pene: che non era la condizione del terraggiere che in genere si doveva adattare su terreni marginali (e, secondo la media consuetudinaria, doveva già, di terraggio, 4 salme di grano); e neppure del censuario, se non teneva terreni sfruttati o culture particolarmente remunerative. E, c'erano, per tutti, gli incerti delle stagioni, e le cattive annate; e c'erano le tassazioni, e le angarie che erano nel sistema, e le collette e le imposizioni e le inibizioni per cui i mali della congiuntura degeneravano in tarli de lle srutture; e c'erano le calamità collettive e le sventure di ogni esistenza, provocate e naturali. E poteva bastare anche un evento, o un giorno a distrug gere il ricavato di mesi e di anni, e annichilire lusinghe e prospettive. Ma ancor quando non si verificava la disgrazia, per quel che il lavoro rendeva, comprare e mantenere un buon ronzino era per molti un traguardo o addirittura una velleità, per le 4 onze che costava e per il vitto che richiedeva, e acquistare una ancilla era lusso che il burgisi doveva considerare insostenibile. E ai molti, che non accompagnava la Fortuna, assente alla culla o perduta nel cammino, restavano semmai le briciole della « ricchezza » del paese: che stava nel suolo, quello che essi coltivavano, e che rendeva 10 volte il frumento seminato. In termini economici e sociali: la capitalizzazione da parte del coltivatore non aveva spazio, allora come realtà oggi come ipotesi storiografica.
XIX ABITATI E ABITANTI COSTIERA E INTERNO - CITTA E CAMPAGNA Nel computo dell'amministrazione angioina, quale vediamo attraverso la ripartizione di collette e la distribuzione di monete, dal 1270 (quando furono eliminati i focolai di resistenza: Cefalù e le Madonie sotto Enrichetto di Ventimiglia, Girgenti e Sciacca, Lentini, Caltanissetta, Centorbi Augusta, accesi nell'agosto del 1267 con lo sbarco di Federico di Castiglia, Corrado Capece e Nicolò Maletta nella costiera sud-occidentale e dilatati e accresciuti, a un anno di distanza, all'approssimarsi, e all'arrivo di Corradino nel regno) in Sicilia erano 150 terre: 101 nel giustizierato al di qua del Salso, 49 in quello al di là I. Il numero delle terre non è specchio di una diversa distribuzione della residenza umana, né di differenti condizioni economiche, al di qua e al di là del Salso. Metà circa delle terre della Sicilia citra erano nella fascia costiera fra lo sbocco del torrente Rosmarino e lo Stretto e nell'entroterra prossimo: San Marco, Militello, Alcara che si succedevano da nord a sud e dalla costa verso l'interno; poi Mirto, Galati, Longi, e Fitalia; più all'interno Ucria e Tortovici; accostati al torrente Naso erano l'abitato omonimo, Raccuia, Sinagra, Martini, Ficarra; formavano terra pure Anza e Lisico, i due casali del monastero di S. Angelo di Brolo; c'erano poi Patti e, non lontane dalla cittadina, dalla marina verso l'interno, Librizzi, Gurafi, il casale Zappardino, San Pietro, e più a oriente Basicò. Sulla costiera stavano ancora Oliveri e Milazzo, e, nella piana che da Milazzo prendeva nome, una serie di casali, quali erano definiti pur essendo nel novero delle terre: del protonotaro e di maestro Nicola, del vescovo, S. Andrea (Mazzarrà),
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Gala, Rodi, Catalimita, Gadera, Nasari, San Filippo (allora « del Piano », oggi « del Mela »), Cattafi, Camastra, e all'interno S. Lucia (anche essa, oggi, « del Mela »), e c'erano Sicaminò, Condrò, Monforte, San Martino. Si distinguevano per vivacità economica e per consistenza Milazzo, Patti, Oliveri. Lungo le fiumare, soprattutto vicino alla costa, c'era spazio per culture redditizie, e sussisteva — ad Oliveri, a Milazzo — la pesca e la conservazione del tonno; ed era, questa fascia, tra le meglio dotate in vigneti e per il vino, quello « greco » e il più pregiato « de galloppo »; e a San Marco, ancor se non espansi, persistevano la cultura del gelso e l'allevamento del baco da seta. In un ambiente a economia spiccatamente agricola (la pesca era attività marginale), questa distribuzione della popolazione in abitati modicamente espansi e popolosi, ma vicini da assicurare il rapido spostamento dalla residenza al posto di lavoro evitando l'isolamento, o il quasi isolamento, del piccolo casale e della masseria, costituiva indubbiamente cospicuo vantaggio. Era condizione, però, mantenutasi e sviluppata solo entro questo spazio piuttosto ristretto che conduceva a levante, a Messina. La quale rimaneva città in espansione e che fu comparativamente prediletta e avvantaggiata dalla nuova dominazione almeno nei confronti di Palermo, ma aveva sempre da risolvere il problema dell'approvvigionamento cerealicolo dal momento che la fascia era angusta e, dove fertile, privilegiava il vino, il cotone e il lino al frumento, le cui rese in fondo non superavano le medie su superfici piuttosto ridotte. Nell'altro versante, scendendo a mezzogiorno verso Catania, la situazione era meno felice e non si era realizzato addensamento di abitati, sia pure di dimensioni mediocri e esigue. Le iniziative di bonifica e di ripopolamento di cui erano state protagoniste in prevalenza istituzioni religiose di rito greco (dalle fiumare di Lardaria e di Zaffaria, a Mili e a Itala o Gitala, fino e oltre Agrò) non avevano avuto l'esito di quelle portate avanti a Milazzo, a Patti, a Santa Lucia, protagoniste fondazioni latine. Sempre nella Sicilia al di qua del Salso e non discosto dalla fascia costiera di tramontana che partiva da Oliven e Patti, sulle colline era Noara o Nugara (poi ribattezzata, con disinvoltura, Novara di Sicilia), ove si è conservato, per più lungo tempo e con minori inframmettenze nelle frazioni, il linguaggio gallo-italico. Nei quindici anni di governo angioino non si verificarono
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formazioni o scomparse di abitati. Tra le terre noverate dalla amministrazione angioina manca Centorbi. Le vicende di questa residenza antica furono le più travagliate: la cancellazione di ufficio risaliva al 1233, alla rivolta repressa da Federico II e all'ordine impartito agli abitanti di trasferirsi in Palermo; quelli che tornavano a risiedervi e i loro figli soccombettero durante la rivolta alimentata (la coerenza quante volte cede all'ironia!) dal ritorno svevo. Delle altre città che tra il '67 e il '70 furono coinvolte, a lungo assediate, espugnate, anche Augusta ove la resistenza fu più lunga e più accanita e si concluse, a stare alla cronachistica contemporanea, con lo sterminio della popolazione, non fu cancellata, perché il territorio fertile e vasto stimolò l'immigrazione (che la corte per suo conto cercò di incentivare con predilezione per gli « oltremontani ») 2. Il paesaggio siciliano nell'insieme, nei quindici anni di governo angioino, fu toccato solo superficialmente; sì che le condizioni alla vigilia del Vespro possono essere piuttosto occasione alla constatazione e al riepilogo delle persistenze e delle modificazioni nei due secoli successivi alla caduta della dominazione islamica, di rapporti immutati o diversi (o che tali si profilarono) tra campagna e città, tra costiera e interno, e della significazione di essi. Non mancarono, comunque, neppure movimenti vistosi, entro quel breve periodo, in senso regressivo (innanzi tutti, a Palermo di cui la dominazione angioina, con il trasferimento della capitale, volse in decadenza le difficoltà, che ancora potevano considerarsi occasionali e congiunturali) o in senso progressivo (a Trapani ove alla crescita del movimento del porto si combinò lo sviluppo del polmone agricolo di Monte S. Giuliano - Erice). La distribuzione della popolazione fra costiera e interno non era più quella del secolo XII. Insieme all'opera degli uomini incidevano cause naturali. Alcuni abitati non erano più noverati tra i porti, defilati come ormai erano dal mare per l'esaurirsi della navigabilità dei fiumi attraverso i quali avanti erano raggiungibili o alle cui foci erano ubicati gli approdi. Butera, Scicli, Lentini erano i casi più vistosi, per il convogliamento che in essi era per tempo avvenuto dei prodotti agricolopastorali di vasto territorio della Sicilia sud-orientale. Ne conseguì• tutto un diverso riassetto gravitazionale del quale si giovarono Augusta ed Eraclea, ma che non mancava di creare travagli
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e incertezze. Questo della contrazione della navigabilità dei fiumi era fenomeno che, se non rilevante del pari, e se non si presentava ancora tale da imporre l'alternativa fra la rinuncia alla funzione portuale o la costruzione di opere murarie, si verificava nella più ampia scala: coinvolgeva anche Palermo e Agrigento; e ne era rispettata semmai Mazara, per la quale, però, persistevano altri motivi di arresto e di declino. Le città, tali ai livelli più avanzati, permanevano Palermo e Messina: porti e piazze di mare. La prima era ritenuta la più popolosa e dotata delle maggiori disponibilità anche dal fisco nell'imminenza e subito dopo la rivolta del Vespro: nel 1277 era chiamata a partecipare alla colletta con la quota del 10,66% dell'imposta gravante su tutta l'isola (ed era il 286,60% di quella assegnata a Napoli), nella distribuzione della moneta operata nel 1279 la quota ad essa attribuita era il 28,91% della Sicilia ultra e nel gennaio 1283, a 'pochi mesi dal Vespro, Pietro d'Aragona chiamava a contribuire la città con una quota (2245 onze su 20.000 complessive, delle quali 8000 alla Sicilia ultra) che era ancora il 28,06% della imposizione alla parte a occidente del Salso e 1'11,22% della complessiva dell'isola. Sempre le ripartizioni di monete e le collette fonti di non discutibile buon grado di indicatività (per quanto cauti si voglia essere e riservati sulla funzionalità e obiettività di un'amministrazione dell'epoca e non tanto di quella angioina accusabile magari di insensibilità e di prevaricazione, ma non altrettanto di voluta parzialità nei confronti dei sudditi di nuovo acquisto) ponevano al secondo posto fra le città sulla costiera della Sicilia occidentale Trapani, con il 3,29% della sovvenzione imposta alle 150 terre dell'isola nel 1277, il 9,40% della moneta distribuita nelle 49 del giustizierato ultra nel 1279, scendendo al 5,75% e al 2,3% rispettivamente della parte al di là del Salso e dell'insieme dell'isola nel gennaio 1283. Il calo può trovare spiegazione nell'inversa tendenza di Monte S. Giuliano cui era stata attribuita probabilmente, negli ultimi anni della dominazione angioina o nei primi della aragonese, parte del territorio di Trapani, e che era salita dal 2,12% al 2,87% delle terre ultra Salsum tra la distribuzione della moneta del 1279 e la colletta del gennaio 1283. Probabilmente, pure, l'amministrazione centrale nella distribuzione della moneta tenne in conto la maggiore circolazione, e quindi il bisogno e l'assorbimento, nella città-porto.
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Queste cifre, che trovano conforto in altre relative alla esportazione di cereali, rivelano un vasto ridimensionamento de ll e possibilità che, comparativamente, il fisco attribuiva alle città e cittadine sul mare. Agrigento oscillava fra il 5,24% e il 4,75% delle collette del '77 e dell'81 e il 2,65% appena della moneta distribuita nel giustizierato ultra Salsum nel 1279; Licata andava dal 2,64% e 2,97% delle collette al 2,01% nella distribuzione di monete; Marsala dal 5,19% del 1279 al 3,12% della colletta del 1283; Mazara dal 3,98% del 1279 allo 1,87% del 1283; Sciacca, che aveva sofferto della rivolta e dell'assedio tra il '67 e il '70 saliva dal 2,15% al 3,12%; modesto era anche il ruolo di Cefalù (2,79% nel '79, 2% nell'81), e più ancora quello di Termini (1,06%; 1,04%). Per la Sicilia orientale si dispone di dati incompleti relativi alla colletta del maggio 1277 (7500 onze per giustizierato). Eradea (onze 296 tari 15 e grana 15) era chiamata a contribuire per il 3,95% della imposta delle 101 terre al di qua del Salso, Randazzo per il 4,16%, Patti e Butera ciascuna per il 3,98%, Piazza per il 3,97%, Nicosia per il 3,96%, Caltagirone per il 3,93%, Castrogiovanni per il 3,92%. Si scendeva, poi, al 2,65% di San Filadelfo - San Fratello e al 2,63% di Taormina (che al pari di Patti e di Butera non poteva considerarsi porto, ma aveva approdo per minute imbarcazioni entro il territorio). Colpisce che, eccettuate Taormina e Castrogiovanni, questi abitati, che emergevano all'interno e che avevano collocazione di rispetto nei confronti di quelli della costa (mancano, è vero, i dati dell'imposta di Catania e Siracusa, ma conosciamo quelli di Agrigento — 5,24% — e di Licata — 2,64% — nella stessa occasione), erano i più largamente legati alle immigrazioni del secolo XII. Condizione, questa, che nella Sicilia occidentale trovava riscontro in Corleone, che figurava dopo Palermo e Trapani (nel 1277 con il 3,18% dell'insieme dell'isola, nel 1279 con 1'8,76% della moneta distribuita fra le 49 terre al di là del Salso) o addirittura solo dopo Palermo (il 9,25% della quota del giustizierato ultra, nel 1283), e che aveva raccolto la più cospicua colonia in immigrazione al di là del Salso in epoca sveva. Richiami dall'esterno e movimenti interni, con quanto era ad essi implicito o con essi si combinava, trovavano espressione nella modificata distribuzione della residenza umana fra costa e hinterland, fra abitati che avevano porti e abitati dell'interno
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o che comunque non vivevano del mare o sul mare. Malgrado la parte cospicua di Palermo (il 28,91% del giustizierato) nel 1279 la quota di moneta distribuita alle città-porto era di poco superiore alla metà (tra il 53% e il 54%). Nella Sicilia orientale ove le città-porto erano nell'insieme meno popolose e disponevano di risorse minori, il rapporto pendeva a vantaggio delle terre dell'interno nell'ampio senso. Le dimensioni e la popolosità degli abitati più grossi sulla costa (fatta eccezione di Palermo e di Messina) si accostavano a quelle mediamente raggiunte da numero non minore di terre interne. Nella Sicilia occidentale Trapani, quando Monte S. Giuliano viveva per sé e non si erano sviluppate le saline a mare, era tenuta sul piano contributivo ai livelli di Corleone. Polizzi (3,18% nella distribuzione di moneta del 1279, 6,25% nella colletta del 1283), che primeggiava fra le terre delle Madonie (Golisano era ridotta nelle misure delle Petralie, la inferiore e la superiore, di Sclafani e di Geraci; più modeste erano Asinello-Isnello, Ipsigro, Gratteri, Montemaggiore), e pure Caltavuturo (2,37% nel 1279, 2% nel 1281) stavano sui livelli di Cefalù che era sede vescovile. Termini era considerata al disotto di Caccamo (1,46%) mentre nei territori lungo la costiera fra Termini e Cefalù, Brucato (0,02% nel 1279), da sempre modesta, era in declino; Pollina era piccolo casale arroccato verso l'interno, Tusa non figurava nel novero delle terre. Questa innovata distribuzione della residenza e delle risorse fra costiera e hinterland si ritrova nella parte più occidentale: Salemi (3,31% nel 1279, 2,42% nell'81) e Calatafimi (1,46%, 1,78%) stavano su livelli superiori a Castelvetrano (0,80%, 1,53%) e ben più ad Alcamo (0,93%, 0,68%). Sopra Sciacca, Caltabellotta, in rovina negli anni di Ruggero II, era rivitalizzata (1,60%, 1,52%). Sulle strisce costiere fra Sciacca e Agrigento e fra Agrigento e Licata non rimaneva traccia delle iniziative di ripopolamento promosse da Federico II. Un grosso nodo stradale dell'interno. Castronovo, con il 3,49% nel 1279, era chiamato a contribuzioni più elevate di Sciacca e di Licata, i cui porti raccoglievano i cereali dai territori di Caltanissetta già in ripresa nel 1279 (1,84%), Cammarata (1,90%), Naso (1,48%), Sutera (1,32%). Nella Sicilia al di qua del Salso, ove non ci sono fonti che ci conducano verso un dettaglio più o meno discutibile, astraendo
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dalla situazione particolare della fascia da Oliveri a Messina, più che il ruolo, pur mediocre, di abitati che non avevano passato prestigioso o che le vicende successive hanno relegato tra le residenze abbandonate (Odegrillo - Dirillo, Rahalgiovanni) o la decadenza di altre dalle vicende disgraziate o che pagavano gli svantaggi e del suolo e della positura sfavorevoli (Capizzi, Cerami, Centorbi, Troina con Bolo che ne era stato casale), risalta l'emergere di alcune grosse terre dell'interno (Castrogiovanni, Caltagirone, Butera, Nicosia, Piazza, Randazzo) che da sole nel 1277 contribuivano per il 25% circa della colletta imposta alla Sicilia orientale. E ciò mentre Siracura e Catania non erano certo in espansione, e si faceva più corto il respiro di Aci, e di Mascali che non aveva più darsena o non la aveva significante, e di Lentini il cui approdo fluviale o era perduto del tutto o stava per scomparire. Si configurava, parallela al diverso rapporto fra costiera e hinterland, una nuova dimensione delle interrelazioni città-campagna, nella distribuzione più omogenea e più chiaramente differenziata delle occupazioni e nella più accentuata caratterizzazione delle risorse e, se esistevano, delle eccedenze. Attività e risorse delle terre dell'interno, anche di quelle più grosse e favorite nella ubicazione 3 , venivano precipuamente dal suolo: cereali e bestiame nella parte occidentale e centrale, con i cereali e il bestiame e il legname in quella orientale ove la vegetazione d'alto fusto continuava a fare di Caltagirone e di Randazzo, di Piazza e di Nicosia le fornitrici del materiale essenziale per la costruzione del naviglio e per l'edilizia. Nella economia di Piazza al pari di Polizzi, di Caltagirone al pari di Corleone, le altre attività erano marginali o sussidiarie: ancor quando ne dipendevano fortune personali, esse non andavano oltre certi spazi di sussistenza. Il mercante, l'artigiano locale avevano posto, potevano avvantaggiarsi delle buone circostanze e della congiuntura favorevole, soffrire di quelle avverse (e allora gioiva l'usuraio), ma non erano essi a dare figura all'ambiente. Il rapporto fra abitati sulla costa e all'interno, così come si era andato configurando e innovando nel secolo XII e nel XIII, rispecchiava la accentuata caratterizzazione in senso agricolo (e agricolopastorale, e agricolo-forestale) della economia e della società siciliane: linea di tendenza che non era quella delle regioni più dinamiche e economicamente più aggressive della cristianità occidentale,
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ove l'agricoltura trovava attenzione e incentivo in funzione e in subordine allo sviluppo e alle esigenze delle città e alle attività di trasformazione e di scambio che ad esse facevano capo. Era, questa, linea già nelle inclinazioni di epoca normanna; ed allora si era creato un rapporto di complementarità fra offerta ed esigenze della Sicilia e richiesta e necessità di quei paesi. Alla vigilia del Vespro la situazione era mutata nel senso che la risposta siciliana alla domanda esterna era costituita in più larga misura da cereali, mentre il bestiame di pregio e di grossa taglia a mala pena copriva le esigenze del regno, e il cuoio e il pellame e vieppiù la lana non sollecitavano l'interesse di un mercato alle cui esigenze qualitative il grezzo siciliano non era in grado di corrispondere. Le 150 terre che l'amministrazione angioina noverava nel 1277, nel '78, e nel '79, tra demaniali e feudali, erano meno del 6% (5,983%) delle 2507 del regno, del quale l'isola occupava il 25% della superficie e quando il contributo richiesto ad essa era abitualmente del 25%, con qualche punta in eccesso e in difetto solo nella assegnazione di moneta 4. Viene immediata l'impressione di una diversa, più lata distribuzione dell'insediamento umano nella Sicilia a confronto della parte peninsulare del regno; e la sperequazione può apparire macroscopica quando si considerino le terre che si susseguivano da Oliveri verso il Faro. Ma in quale misura il numero delle terre rispecchiava condizioni amministrative diverse già al punto di partenza del secolo XI, e in quale invece rifletteva una differenza di fatto (l'addensamento della popolazione in borghi consistenti, o la diffusione in abitati?) o c'era il segno dell'avvenuto abbandono dell'agro, che si suol fare risalire alla guerra del Vespro e allo stato di insicurezza nel secolo XIV? Se ai conquistatori normanni la Sicilia presentò ampi spazi vuoti, insediamento e bonifiche si svolsero solo su parte dei territori (può supporsi, ma è solo ipotesi, su quelli che meglio si prestavano). Larghe fasce rimasero vuote di coltivazione e di coltivatori e nel secolo appresso le immigrazioni si contrassero, la pressione demografica si assopì, gli esodi stimolarono l'inversione di tendenza. In epoca normanna — abbiamo osservato — nelle divise di
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ciascuna terra erano, anche numerosi, i casali: le platee dell'arcivescovado di Monreale offrono un quadro esemplare. In ciascuno di essi il numero di residenti era piuttosto esiguo. La dominazione angioina accolse, pressoché matura, una nuova condizione, connessa, nei motivi e nelle inclinazioni, precipuamente al declino del villanaggio. Alla scomparsa della famiglia in condizione villanale si accompagnava l'abbandono della residenza nei casali, senza che corrispondesse, sempre e di norma, l'abbandono né delle culture né della presenza saltuaria o abituale. Anche il termine « casale » rimaneva; ma di fatto subentravano i pagliai e le capanne punti di riferimento isolati dei coltivatori piccoli proprietari, o la masseria di pertinenza della corte, di feudatari, di ecclesiastici, eccezionalmente di burgenses. Non c'era più la divisione tra parte demaniale e parte villanale: la forza di lavoro era costituita da stipendiarii. La gestione delle masserie regie, quale abbiamo visto in avanzata epoca sveva e torneremo ad osservare pressoché immutata negli anni di Carlo d'Angiò, si svolgeva secondo una tipologia cui erano portate a rifarsi le aziende di privati e di istituzioni religiose, proprio nel fatto sostanziale che la mano d'opera era costituita da salariati. Questi, quando erano impiegati nei settori dell'agricoltura in cui non si richiedeva continuità di lavoro, erano compensati a mese, a giornata. Ma si trattasse di vero e proprio jurnataru (giornaliero), o fosse questo un modo di definire, non esisteva un legame tra l'uomo e il pezzo di terra, e la masseria, che avesse motivo di realizzarsi nella stabile residenza. Nella sostituzione del villano con lo jurnataru l'agro perdeva i suoi residenti, e il borgo si ingrossava di contadini delle diverse condizioni. Anche per gli anni di regno di Carlo I d'Angiò la rappresentazione quantitativa della condizione demografica resta pressoché evanescente tra le nubi delle ipotesi. La corte angioina avverti l'esigenza di verificare, insieme allo stato e alla diffusione dei feudi, le condizioni delle terre demaniali entro i vari giustizierati come condizione per l'efficiente funzionamento dell'apparato finanziario e amministrativo 5. L'iniziativa incontrò diffidenze e resistenze energiche: fuochi furono occultati, si arrivò addirittura a denunce di abbandono di residenze. Da un quadro esauriente, anche per la conoscenza delle condizioni economiche di insieme e delle singole famiglie, l'amministrazione angioina, fino al Vespro e in Sicilia almeno, rimase comunque lontana. Sì che il
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peso fiscale, la distribuzione della moneta, le richieste di partecipazione all'esercito di terra e alla flotta furono di solito quantificati secondo le esigenze della corte e poi ripartiti secondo valutazioni approssimative con incerta aderenza agli sviluppi e ai regressi nel breve tempo. A queste che erano le linee su cui si era mossa l'amministrazione sveva, la angioina aggiunse per la esazione delle collette, ormai entrate nell'uso, il tentativo di una procedura magari non meno dura ma più duttile attraverso congegni meno macchinosi. Alla base, le università delle singole « terre e luoghi » compilavano il quaderno con i nomi di tutti quanti « abitano nelle stesse terre ovvero vi abbiano beni burgensatici ovunque abbiano residenza ». Questi quaderni erano inviati ai giustizieri, i quali su essi compilavano un elenco « si che pressoché nessuno sia esente dalla tassa della sovvenzione ». Il contingente per giustizierato e a ciascuna università era attribuito dalla curia ed era distribuito all'interno « secondo che richiedono le facoltà dei singoli giusto l'arbitrato dei tassatori o secondo la stima che si trova fatta in qualsiasi luogo o terra ». Se si raccomandava « che i ricchi e i più agiati siano tassati in relazione alle facoltà e i poveri o i meno abbienti non siano gravati oltre il dovuto », non era ammessa esenzione « ratione paupertatis loci ». Alle sovvenzioni, inoltre, erano chiamate tutte le terre « tanto del demanio nostro [regio] quanto delle chiese, dei conti, dei baroni » 6 Per quanto in partenza incerti e affidati a una larga dose di approssimatività nella combinazione fra condizione demografica e risorse economiche, le cedule fiscali (delle sovvenzioni particolarmente) rimangono i punti di riferimento meno labili nel tentativo di quantificare la popolazione. Nella pratica, nella distribuzione delle collette se c'era continuità o aggancio con le annate precedenti, si verificavano variazioni, sia nella distribuzione tra i giustizierati che all'interno di essi; e non mancavano le contestazioni, soprattutto ai livelli locali e per iniquità lamentate. Nel maggio 1270, sotto carestia la corte impose una colletta per il matrimonio di Isabella figlia del re, di complessive onze 98.049 tari 18 e grana 15, di cui nei 2 giustizierati di Sicilia onze 25.000. Nella sovvenzione della indizione XV (1271-1272) imposta pro militia Karoli (il primogenito del re) i 2 giustizierati siciliani furono tassati ciascuno per 15.000 onze; cifra ridotta in quella del maggio 1273 alla .
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metà. Per il matrimonio di un'altra figlia di Carlo, Beatrice, i 2 giustizierati furono tassati, nel 1276, ciascuno per 12.500 onze, pari al 12,45%. Sempre nel 1276 i giustizierati siciliani parteciparono alla subventio generalis di onze 60.880 tari 28 e grana 12, con onze 7500; somma che si ripetette con una lieve differenza in percentuale sul complessivo (24,92%) per variazioni nella quota di altri giustizierati, nella successiva subventio con uguale motivazione (« pro solvendis stipendiariis et pro pacifico statu regni »). Identica percentuale si ebbe su somma superiore, e con leggerissima differenza tra i due giustizierati (onze 8655 tarì 3 e grana 10 a quello citra, onze 8625 a quello ultra) nel dicembre 1277. Nel successivo dicembre 1278 la Sicilia citra fu chiamata a contribuire con onze 8897 tari 13 e grana 13 e quella ultra con onze 8865 tari 15 e grana 18. Nella colletta del gennaio 1280 l'unica variante sta nello scarto di 20 onze in più (onze 8885 tari 23 e grana 15) alla Sicilia ultra. In quella imposta nel gennaio 1281 la differenza per l'isola fu insignificante (al giustizierato ultra appaiono segnate, a stare alla trascrizione, onze 8895 tari 22 e grana 5), per quanto si ebbe uno scarto percentuale dovuto alla elevazione del contingente della Calabria da onze 3140 tari 10 e grana 11 a onze 4305 tari 14 e grana 11. Colletta particolarmente forte fu quella sborsata pochi mesi avanti il Vespro, nell'agosto 1281, ancora per il pagamento delle milizie e per il « felice stato del regno »: onze 107.891 e tari 9 con una media, riportata dal regesto attraverso il quale il documento ci è noto, di onze 9809 e tari 9 per giustizierato del regno. Nel susseguirsi delle collette è il termometro della crisi finanziaria. Non c'è invece quello delle condizioni economiche e demografiche, e nella loro variabilità è assurdo ricercare, come pur si è fatto ripetutamente, una quota focularia costante che possa rappresentare la chiave per arrivare, se non al numero effettivo degli abitanti, a quello presunto del fisco. Con le riserve e le cautele più larghe, e accompagnati sempre dalla convinzione che non si può andare oltre le ipotesi, questa chiave può essere offerta piuttosto da un certo numero di documenti non pertinenti purtroppo alla Sicilia ma che rientrano in una condizione non atipica all'isola. Questi documenti consentono di conoscere il rapporto verificatosi in sede locale tra imposizione e numero dei focolai: di risalire, cioè, alla imposta media per focolare entro una o più terre. Questa media appli,
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cata all'ammontare d'insieme de lla colletta, e alla quota dei giustizierati siciliani, può condurre a una proposta aderente ai dati presunti dal fisco in merito al numero dei fuochi (modicamente modificati, semmai, da altro assunto, relativo al particolare stato economico). Nel 1271 la universitas del casale di S. Giovanni in Golfo denunciava un errore materiale a suo danno: era solita essere tassata per 15 focolari « in generali subventione » per un'onta, ora era stata tassata per 8; mentre il casale di S. Giovanni in Galdo, che aveva quasi 100 fuochi e soleva essere tassato per 8 onze, era tassato per 1 onza. Nella tassazione dei due casali la popolazione contava; ma la quota focularia media non era identica a quel che conteneva la protesta e su cui la corte dava ordine di procedere dopo avere riconosciuto l'errore: per S. Giovanni in Golfo era di 2 tari (il minimo esigibile per focolare, secondo una disposizione di epoca sveva), per S. Giovanni in Galdo di 2 tari e 8 grana (il 20%) in più. Manca il riferimento alla imposta di insieme; c'è invece quello alla consuetudine. Accogliendolo per quel che può valere, e cioè con guardinga perplessità, ci si dovrebbe rifare per la Sicilia ad onze 13.200 nei due giustizierati, che ai modesti limiti di S. Giovanni in Galdo corrisponderebbero a 165.000 fuochi e, con una media di 3,5 - 4 persone per ciascuno di essi, a una popolazione di 577.500-660.000 esclusi gli esenti. Un altro riferimento, meno fragile: di Conversano in Terra di Bari conosciamo il contingente e il numero di focolari nel 1276-77 (la quota media focularia risulta grana 55 1/2 pari a 2 tari e 15 1/2 grana), e nel 1278-79 (65 grana e 3 den. pari a 3 tari e 5 1/2 grana). Su questa media nel 1276-77, il numero dei focolari della Sicilia (l'imposta nei 2 giustizierati fu nell'insieme di onze 15.000) risulta 162.142 e nel 1278-79 (imposta di onze 17.764 tari 10 e grana 11) complessivamente 162.478 nelle terre demaniali, feudali e delle chiese, e compresi i poveri e i minus habentes. Con la media composizione del focolare di 3,5-4 persone si arriva a una popolazione di 567.567-648.648 individui nel 1276-77, 568.675650.000 nel 1278-79. Le differenze tra questi due anni sono poco significanti, mentre pressoché coincidente si presenta il computo sul reperto del 1271 relativo al piccolo centro molisano di S. Giovanni in Galdo. Ci si trova, cioè, dinanzi alla opinabile supposizione di 162.140-165.000 focolari da parte di un'amministrazione, la angioina, che disponeva di mezzi di veri-
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fica molto mediocri e di lenta attivazione (e questo può spiegare la staticità riscontrata per il numero dei focolari, nei diversi anni) ma era animata da intenzioni efficientistiche e da acuto zelo impositivo. Con i parametri, che ci sembrano i più confacenti, di 3,5-4 persone a fuoco si arriva all'ipotesi di 550.000-650.000 appartenenti a famiglie di contribuenti e compresi gli esenti, in percentuale certamente non elevata e comunque difficilmente superiore al 10%, da 605 a 715 mila abitanti, con una densità media da 23 a 27 per km2 7. Quale che possa essere il credito da attribuire ai riveli che il fisco angioino ereditò da quello svevo e agli eventuali aggiornamenti, e quale che possa essere la fiducia negli agganci con essi che noi possiamo tentare attraverso un discorso pressoché evanescente nella episodicità dei punti di riferimento — questi numeri, accettabili almeno a titolo indicativo, hanno pure concordanza con le ipotesi meno fragili sulla popolazione in partenza nell'epoca normanna e con le vicende sotto gli Svevi (ricordiamo il computo meno disattendibile, in 525-600 mila abitanti contribuenti, e nel totale 583-666 mila, nel 1238) contorte tra incremento naturale e flessione per traumi, mentre la conquista e i quindici anni di governo angioino nell'isola non autorizzano l'opinione di variazioni macroscopiche e tali comunque da essere prontamente e funzionalmente recepite dagli uffici finanziari. Le immigrazioni, volano delle spinte demografiche più consistenti, non avevano più ampio peso ristrette, semmai, al richiamo compensativo. Nuove presenze, in misura alquanto modesta (vennero, poi, a trovarsi pressoché smarrite nella temperie del Vespro), furono legate alla feudalità ligia alla costituzione della quale la discesa di Corradino e i movimenti che la precedettero e le repressioni che seguirono diedero stimolo e occasione con la ridistribuzione dei beni dei « traditori manifesti ». Questi avvenimenti valsero anche a stimolare tendenze al recupero. Ad Augusta ove rivolta e resistenza furono più accanite e più lunghe e i vuoti furono più larghi, la corte volle privilegiare tra i nuovi abitatori gli oltramontani 8 ; ma questo non valse a richiamarne tanti e ligi, e nel 1282 Augusta aderì alla ribellione del Vespro. Sulla scala più vasta, se mai baroni, chiese o il demanio regio vollero dare sviluppo a un territorio, dovettero ricorrere a movimenti interni; agli uomini i quali ritenevano o si illudevano di mutare stato o sottrarsi ai pesi fiscali cambiando cielo. Gli uomini
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stanziati nei castelli della curia alla vigilia del Vespro non raggiungevano il numero 250, e non sempre né in tutto i presidii erano costituiti da forestieri ultramontani o magari regnicoli di terraferma (né del resto gli ultramontani suolevano dar prova di rispetto delle popolazioni e di attaccamento alla dinastia). Il castello più munito, quello di Messina, nell'aprile del 1281 ne aveva 49: il presidio era costituito di solito nel 71 come nel '75 e nel '76, dal castellano, da 4 contergi e da 50 servienti. Vi si accostava per consistenza, solo quello di Castrogiovanni (vi erano 50 servienti nel '74, ridotti a 37 nell'81). A Nicosia in quegli anni erano di stanza un castellano e 20 servienti; a Cefalù erano oltre il castellano 30 servienti nel '74, 38 nel '75, 27 nell'81. Al di là del Salso (Cefalù era oscillante; nell'81 era inserita in quello ultra, senza aderenza alla condizione geografica) i presidi erano più esigui. A Palermo, oltre i 2 castellani nel '75 erano 8 servienti nel palazzo, 13 nel castello a mare; nell'81 il disarmo era pressoché totale: il castellano provvedeva a sue spese al mantenimento del palazzo, quello del castellammare aveva 5 dipendenti. Nel castello di Licata nel '71 e nel '74 stavano 10 servienti, 18 nel '75, nell'81 il castellano aveva 3 dipendenti. Presidio più consistente era a Vicari: 20 servienti nel '71 e nel '74, ridotti a 9 l'anno avanti il Vespro. Castelli di abitati di un certo respiro (Agrigento, Termini, Corleone) erano affidati alla custodia di un contergio. Certo non erano queste presenze (ammesso pure che si trattasse di non siciliani) a costituire un reticolo di insediamenti nuovi. Né era particolarmente consistente la guarnigione alle dipendenze del vicario di Sicilia. Nel 1280 a Eriberto d'Orléans erano assegnati 25 militi « che sono computati per 50 scudieri armigeri » e 150 scudieri e armigeri equipaggiati e accompagnati nei modi per allora usuali (e in particolare « che ciascun milite abbia armi che si addicano alla sua persona e 4 cavalli dei quali uno atto alle armi e uno scudiero cavaliere nobile ultramontano armato come si conviene e 3 garzoni... »). A Eriberto erano inviati nell'isola 10 militi e 48 scudieri cavalieri, mentre gli altri sarebbero stati prelevati dalla comitiva (già di eguale numero di componenti) del predecessore Ada Morrier. Questi stipendiarii, pure, alla bisogna erano impiegati fuori di Sicilia (e, nel giugno, 20 cavalieri furono destinati per ordine della corte a scortare gli ambasciatori che avrebbero portato a Napoli il tributo di Tunisi) 9 . Intanto prevenzioni e distacco tra
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vecchi abitatori e uomini della nuova dominazione, anzi che tendere ad esaurirsi, si facevano più tesi: fino alla ribellione e alla caccia al francese nel 1282. Non c'erano d'altro lato, ad agire nel senso di una spinta demografica, condizioni di prosperità sia pur relativa, di tranquilla residenza, quando (a limitarsi a casi di Sicilia) si dovevano dare ordini severi di impedire le fughe dalle terre demaniali di quanti cercavano evitare le vessazioni del fisco se ad abbandonare la residenza erano uomini di territori tra i meno avari, quali Milazzo e S. Marco, e il terrore dell'arruolamento nella fl otta rendeva latitanti « per luoghi solitari e campestri », e per contro, seppure per diversa coerenza, si perseguitavano quanti cercavano di passare nell'isola, fossero pure saraceni di Lucera, o magari soprattutto se lo erano ia Non vogliamo credere, per altro, che bastassero certi fenomeni pur indubbiamente regressivi (la stagnazione della produzione agricola, la congiuntura negativa di annate di carestia aggravate dalle esosità fiscali), a provocare una flessione demografica: per la crescita dei conigli al buon Dio della riproduzione bastano le lattughe. E se non mancarono povertà, guerra interna ed esterna, carestia, non fu presente il quarto e implacabile cavaliere dell'Apocalisse: quello che miete con la falce aguzza dell'epidemia. Così come sono, le indicazioni sul numero degli abitanti non ci pare siano prive di aderenza a un'eredità non arricchita, ma neppure largamente deperita nel breve tempo. Sono cifre che, se si agganciano con quelle proponibili per periodi precedenti, contrastano meno di proposte euforiche con il disegno sconfortante tratteggiabile a un secolo di distanza, dopo gravi traumi e soprattutto dopo la peste del 1348 e l'endemia cronicizzata, attraverso fonti che sembrano esplicite ma, a guardarle bene, sono quanto mai sospette di ridotta aderenza alla realtà e alle cifre che più tardi (dalla seconda metà del '500) risultano da documenti di una certa attendibilità. Anche qualche pur disorganico frammento inseribile quale tessera dell'arduo mosaico della demografia siciliana avanti il Vespro è utilizzabile entro queste linee se cautamente recepito e quale per sé non conducente verso sobrie ipotesi di insieme n Nel 1276 l'armamento di 20 fra galee e tende ciascuna con equipaggio di 150 persone composto da uomini delle terre marittime di Sicilia era distribuito nella misura: Messina 7 galee, Milazzo 1, Catania e Augusta 1, Lipari e Patti 1, Palermo e Ter-
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mini 4, Trapani 2, Mazara e Marsala 1, Siracusa 1, Cefalù 1, Terranova-Eraclea 1, Licata e Agrigento 1. La corte cercava evidentemente di tenere conto, oltre che di situazioni economiche e condizioni demografiche, di stati di fatto (quale la distanza da Messina, luogo di armamento). Ma la distribuzione non considerò le diverse situazioni; e ne vennero le difficoltà del vicario di Sicilia, il quale le rappresentò avendone in risposta l'invito ad usare e fare usare « ogni diligenza e sollecitudine » nell'approntamento di quei vascelli. « Molti — egli scriveva — poveri e tenui nelle facoltà, atterriti dall'esperienza dell'annata precedente, quando non era stato pagato il soldo, e perché non ricevevano nulla prima dell'imbarco dandosi alla fuga sono in latitanza per luoghi campestri e solitari ». In Palermo, Termini, Cefalù e Mazara non si trovavano persone idonee nel numero richiesto, o erano « di gran lunga più degli altri afflitti » perché dovevano raggiungere i vascelli in Messina; e in Palermo pur essendoci gli uomini la carenza di marinai era tale che la città insieme a Termini non poteva armare più di una galea. A Messina non c'erano difficoltà per trovare i 1050 uomini di ciurma. La città non mancava di marinai, che non avevano da compiere alcun viaggio di trasferimento, né famiglie da allontanare « senza ricevere nulla ». L'assillo di Messina rimaneva l'approvvigionamento, e non solo per la lievitazione dei prezzi sul mercato tra vani che facevano rifornimento e insufficienza del territorio contiguo. La carestia non fu, qui, improvvisa nel 1270; né dopo di allora fu spettro senza consistenza. Nel 1281 si prospettava « fiera », a quello che riferivano al re, e a quanto questi (così poco propenso a dare facile credito) condivise. Fu allora concesso di importare in città, nello spazio di un anno a partire da marzo, 30.000 salme di frumento dai porti e dai territori di Lentini (8000), di Terranova (8000), di Licata (7000), di Termini (4000), e di Agrigento (3000). Le 30.000 salme di frumento potevano sopperire, sul metro delle razioni assegnate al personale delle masserie o a quello nei castelli, al fabbisogno annuo di 25.000 individui. Si può anche andare oltre (sui 30.000) prendendo in considerazione che, anche se la parsimonia nel cibo non doveva essere particolare virtù della città più spendereccia dell'isola (quella cui da re Carlo si vedono disposte e tolte limitazioni dei consumi e del lusso), c'erano pure anziani e bambini e magari l'abitudine a una nutrizione più varia. D'altro lato non
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sappiamo in quale misura quelle 30.000 salme di frumento erano destinate a coprire il fabbisogno annuo dei residenti e quale era l'assorbimento di grano da parte di forestieri e di navi in transito. Resta quindi anche questo un numero-segno: nel caso, almeno e solo, di una città popolosa rispetto ai punti di partenza e ai livelli dell'epoca 12.
XX LA CRISI DELLA CONGIUNTURA
Il passaggio dagli Svevi agli Angioini non ebbe immediato carattere traumatico sulle strutture del paese: semmai ne accentuò la vischiosità nell'insistenza dell'economia in senso agricolo, e nelle difficoltà che si manifestavano ad adeguarsi ai ritmi dei paesi più avanzati e a lle esigenze dei tempi. Non era più corrente la fama di prosperità, di avanzato sviluppo del paese; si discuteva anche la nomèa della efficiente organizzazione amministrativa e della potenza militare del regno. Carlo non era re e imperatore; era re di Sicilia, conte e signore di Angiò e di Provenza e senatore in Roma, ed era il fratello del re di Francia (finché Luigi IX visse), poi lo zio del re di Francia. Il personaggio era di primo piano, ma ai contemporanei la sua figura si presentava proiezione del reame d'oltralpe; il cordone ombelicale, che mai i normanni si erano trascinati, per lui non appariva rotto. Il regno di Sici li a non valeva a porlo sui più elevati livelli, e la funzione e il prestigio avevano bisogno dell'avallo del titolo di senatore e legato di Roma papale. Non erano stati psicologici che si frapponevano o sovrapponevano alle considerazioni concrete; erano invece valutazioni che discendevano dal ridimensionamento del regno nella scala della efficienza politica e militare e della presenza economica. Praticamente esaurite le altre risorse minerarie, o comunque abbandonato lo sfruttamento di esse, il salgemma, estratto in un congruo reticolo di giacimenti, continuava a prestarsi alla migliore conservazione delle carni e del pescato, mentre a Trapani si andava allargando l'estrazione del sale marino che, meno costoso, era destinato a prevalere nel grosso mercato e negli usi correnti. Il pescato era indirizzato prevalentemente al mercato
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locale, con fornitura di tonnina al naviglio in transito e qualche spedizione che gli ordini monastici continuavano a destinare alle case d'oltremare. Anche per le carni salate, più che di esportazione, si trattava di rifornimenti delle navi. L'esportazione del cacio rimaneva entro misure non vaste; qualche fornitura si registrava per il lino e il cotone. La bassa qualità aveva ormai tagliato fuori dal mercato esterno il cuoio, il pellame e la lana siciliani. L'amministrazione angioina, che ne continuò e ne ereditò anche talune inclinazioni, ripetette la distinzione operata dagli Svevi tra animali esportabili e non esportabili (che erano, i secondi, i cavalli adatti alle armi e di pregio e i buoi), e riaffermò la impignorabilità di questi ultimi, quando e siccome indispensabili alla coltivazione. La produzione di lino, canapa, cotone contribuiva a dare credito particolare per l'isola alla affermazione che « il regno di Sicilia abbonda di ognuna delle cose che si riconoscano necessarie alla condizione del genere umano, con eccezione dei panni di lana ». E va dato atto al governo di Carlo I della sollecitudine, manifestata quando, nel settembre del '78, ordinò ai secreti di Sici li a di fornire al vicario nell'isola la moneta necessaria per l'acquisto in Barberia di « 700 pecore giovani e fertili » e di 300 arieti « produttori di lana » nella fiducia che potessero fornire « lana buona e adatta a produrre panni di tale fatta nel regno ». A parte che i secreti di Sicilia dovevano dare la moneta e il bestiame acquistato doveva essere condotto nella penisola a Castellammare di Stabia, che è disposizione di cui non può essere fatta colpa al re del regno e non dell'isola, non risulta che l'iniziativa abbia dato risultati (e comunque, per avere riflessi sull'isola, la acclimatazione e la diffusione della nuova razza ovina avrebbero richiesto tempi più lunghi che quelli in cui durò il dominio angioino in Sicilia) Persistentemente dominata dai cereali (grano e orzo prevalenti, fave e ceci, con scoperture per il miglio, pur nella misura di una richiesta modesta), l'agricoltura insistette sui moduli consueti: nulla portò e nulla tolse di inveterato la nuova dominazione. L'aratro con 4 o 2 buoi, valido alla cultura di 8 salme di terreno, persisteva strumento e protagonista; e si continuava la pratica della concimazione del terreno con lo sterco del bestiame lasciato a « stabulare » giorno e notte. La commissio araciarum, e lo statutum araciarum curie in Sicilia ripetettero condizioni e disposizioni degli analoghi documenti di epoca sveva. Si ripetettero '.
XX. La crisi della congiuntura
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anche interessamento e sollecitazioni: primo, l'allargamento dei campi messi a cultura. Sovrastava, però, e concludeva una presa d'atto sconsolata: che le masserie regie nell'isola erano in collasso « tanto nei vigneti, oliveti, giardini e altri possedimenti che nelle altre case ». L'amministrazione centrale ne attribuiva la responsabilità ai maestri massari che si erano succeduti in Sici li a avanti quel dicembre del 1277 e ai loro subufficiali (responsabilità che comunque, secondo la stessa amministrazione, erano da accertare avanti di essere punite) 2 Ma la regressione non era ristretta ai vigneti, alle culture arboree, ai giardini, e ai colti stessi della curia. Magari, là dove affetti e interessi personali erano stimolanti, non c'era questa abbandono; né, del resto, sia pure non incoraggiati dallo stato di incertezza, si ridussero il ricorso alle censuazioni e quello ai contratti a parte di aree da destinare a culture privilegiate; e il consumo del vino continuava molto largo, a considerare l'alimentazione stessa riservata al personale impiegato nella flotta, nei castelli, nelle masserie 3 . Dell'impegno, del quale si lusingava Federico II, che i giudei del Garbo potessero impiantare e diffondere in Sicilia culture pregiate e rare (alcana, indaco) non si scorgeva seguito. Anche l'area della seta non era allargata; a S. Marco, ove la cultura era impiantata già negli anni di Edrisi, rimaneva un gruppo di israeliti (i quali erano versati e prescelti dalla curia alla sericoltura), ma la loro era comunità esigua entro una terra il cui respiro non era in dilatazione e che anzi attraversò momenti molto difficili 4. Proprio per il ruolo di corpo e di punta dell'economia siciliana, e per l'immedesimarsi con essa della sovrapproduzione e della esportazione, le aritmie e gli squilibri della cerealicoltura erano sintomi del disagio diffuso nel paese. Già nell'estate del 1266 il raccolto fu al di sotto dell'aspettativa. Nell'aprile successivo i due secreti e portulani di Sicilia chiesero e ottennero che le attribuzioni (che erano per materia) fossero mutate con l'assegnazione di una competenza territoriale (citra, e ultra Salsum), dal momento che la curia aveva proibito la esportazione delle vettovaglie e quindi compiti e proventi di uno dei due secreti erano vanificati 5. Poteva essere, questa, crisi dei mesi di raccordo fra due raccolti (e nel documento si dice che le difficoltà dei due secreti dipendevano anche dalla persistenza .
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del clima invernale); e nella indizione X (settembre 1266-agosto 1267) i secreti di Sicilia mettevano in introito onze 1280 tari 19 e grana 10 in conto dello ius exiture di 8901 salme di frumento, 120 tra fave e ceci e 1700 di orzo, in ragione di 15 onze le cento salme, e cioè tarì 41/2 la salma di frumento, fave e ceci, e onze 7 1/2 le cento salme di orzo; e nella stessa stagione e nella successiva vendevano il grano a prezzi oscillanti intorno ai tarì 5 1/2 la salma. Le città della fascia orientale (Messina, Siracusa, Catania) facevano d'altra parte ricorso, avanti l'inverno del '67 e nella primavera-estate del '68 all'importazione di grano, miglio e frutta secca (castagne, noci, mandorle) dal Principato e Terra di Lavoro e dalla Puglia '. Fu dopo il raccolto del 1268 che si parlò, nel regno e proprio in Sicilia, di « carestia »; e se ne continuò a parlare fino al raccolto del '70-71, e cioè per tre anni. I prezzi lievitarono: a parte le notizie che erano portate nel nord-Italia in luogo del frumento o che erano diffuse a giustificare il prezzo di quel tanto che vi giungeva per contrabbando, le contrattazioni da parte di ufficiali della monarchia nella indizione XII (1268-1269) toccarono quote di tari 34 1/2 la salma di frumento portato dalla Puglia « in Messina, Siracusa, Catania e altre terre marittime di Sicilia ». Nella indizione XIII (1269-1270) la corte designò un ufficiale di rango, Giacomo Rufulo di Ravello, per l'acquisto in Puglia di 8000 salme di frumento e 3000 di orzo da inviare in Sicilia e in Acaia. Comprato in Puglia intorno ai 17 tari la salma (a peso generale; la salma pugliese era inferiore del 10%), il grano fu venduto in Messina a un prezzo medio di 23 tari e 15 grana; un altro successivo aggravio fu costituito dal trasporto da Messina (su 75 salme e mezza da li portate ad Augusta pesarono per solo nolo della barca 4 onze e 7 tarì, pari a un tari e 14 grana la salma). Sempre nel '70 Filippo de Slix fu costretto a comprare in Catania da un mercante genovese 40 salme di frumento e 60 di orzo « per il vitto ed il sostentamento dei soldati che dimoravano nella città » per 100 onze, e cioè, basandoci sull'uso corrente (il grano il doppio dell'orzo), il prezzo del frumento sfiorava i 43 tarì la salma (Filippo veramente non pagò, ma la corte non si sentì disobbligata, e nel novembre diede ordine al secreto di saldare il debito). La situazione era resa più drammatica dalle richieste da parte dell'esercito di Luigi IX che muoveva su Tunisi e dalle esportazioni che secreti e portulani
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lasciavano filtrare. Ma non vale dar causa della carestia alla prima (come è stato fatto, male, da taluni storici) o ai secondi (come indulgeva, e con enfasi, la corte quando ribadiva la proibizione « poiché udimmo che a motivo di estrazioni di tal fatta la stessa regione [la Sicilia] soffre che i prezzi si incariscono e arriva allo stremo della miseria »). L'agricoltura siciliana aveva sopperito a richieste più elevate che quelle dell'esercito crociato di Luigi IX, e l'economia del paese e le finanze regie ne avevano tratto profitto. Non c'erano invece grossi lucri da sperare quando l'acquisto era compiuto a prezzi tanto elevati. Il grano pure era richiesto e accaparrato dalla corte stessa con invito a inviarlo, magari per le vie di terra che erano tanto più costose, ai giustizierati della penisola, e anche a Marsiglia e alla Provenza. Le sollecitazioni non erano solo per Messina e per le città sulla costa di levante, o genericamente per la Sicilia, ma per Trapani (sia pure per essere passata a Tunisi) e per Palermo stessa; e venivano dirottati in Sicilia carichi partiti dalla Provenza o dalla Puglia con destinazione all'esercito di Tunisi'. La carestia fu superata con il raccolto dell'estate del '71. Ai primi di quel luglio la corte, dando precedenza alle preoccupazioni finanziarie (« perché i servizi nostri della provincia a te assegnata soffrano quanto meno della mancanza di moneta ») impartiva ordine al secreto di Sicilia di consentire la estrazione di frumento fino a 5000 salme con il pagamento dello ius exiture di 15 onze le 100 salme (tari 41/2 la salma). Nel settembre, da Melfi, lo stesso secreto fu invitato a emanare bando che quanti volessero portare frumento fuori del regno accedessero alla curia per averne l'autorizzazione previo pagamento dello ius relativo. Il quale ius che negli ultimi mesi degli Svevi, quando ci si lamentava che le cose andavano male, era di tarì 1 1/2 la salma, fu stabilito con circolare in tutto il regno nella misura di 30 onze per il frumento e 15 per l'orzo le 100 salme (e cioè rispettivamente 9 tari e 4 tari e mezzo la salma). Rimasto su tale misura, ridotto ma non abrogato per il trasporto entro il regno, costituì provento cospicuo per il fisco, ma non fu incentivo né alla produzione né al mercato e semmai stimolò il contrabbando $. Il grano fu pure da allora utilizzato da Carlo come strumento di pressione, con l'inibizione di esportarlo nei paesi nemici (di volta in volta o insieme Genova e Pisa, occasionalmente le « terre di occidente », continuativamente quelle del « Paleologo ») e ,
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cercando di controllarne la ottemperanza attraverso ricevute nei porti di approdo. La carestia, per altro, rimase apprensione e incubo ancor quando la corte consentiva più larghe estrazioni con ius meno sostenuto (e cioè 25 onze le 100 salme: 7 tarì e mezzo la salma) e pure invitava alla sorveglianza attraverso la spia del prezzo (un augustale, 7 tarì e 1/2 la salma ritenuto limite di guardia sul mercato siciliano); e per Messina non fu solo preoccupazione 9 . Ma ancor se la carestia non si ripetette, la cerealicoltura e l'allevamento erano squilibrati, sotto il peso della pressione fiscale aggressiva e di alcuni interventi che ripetevano, con più meticolosa incisività e maggiore insensibilità verso altro che non fosse il vantaggio del fisco, espedienti e vessazioni degli anni più duri di Federico II. Dal 1276 al 1278 si susseguirono annate abbondanti: l'offerta ovviamente si allargò, ma la richiesta era scoraggiata dallo ius exiture alla cui diminuzione la corte rimaneva ostile. I prezzi precipitarono. Il fisco non ritenne che avrebbe potuto recuperare sulla riduzione della misura dello ius con una esportazione più larga, e cercò anzi profittare della sovrapproduzione lasciando invilire i prezzi a proprio vantaggio. Nel giugno 1276, agli inizi del nuovo raccolto, fu data disposizione di destinare all'esportazione, oltre il contingente di 20.000 salme di frumento e 10.000 di orzo, oltre 40.000 e 20.000 salme rispettivamente, restando inalterate la misura della tratta (30 e 15 onze le 100 salme) e le sanzioni verso i porti dell'impero bizantino o di altri nemici. Il prezzo in Sicilia, a quel che giungeva a corte, era di 3 tarì la salma il frumento, 1 1/2 l'orzo, o era ancora più vile. Carlo diede disposizione di incettare grano « nuovo e buono » e inviarlo nel più breve tempo a Napoli e in Terra di Lavoro, con un'attenzione: « che non sia fatta menzione che le stesse vettovaglie sono comprate da voi [i maestri procuratori e portulani siciliani] e per questo divengano più care ». Nel luglio del '77 i cereali di spettanza alla curia eccedenti il fabbisogno minacciavano di andare in guasto; e la corte si affrettava a dare ordine di venderne, fatto salvo sempre lo ius exiture (in 25 onze le 100 salme per il grano) e con le consuete eccezioni, o comunque di mandarlo a vendere fuori del regno per conto della curia stessa. Il trasporto su navi della curia e la vendita per conto di essa sui mercati ove si prevedeva un prezzo più conveniente entrarono
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nell'uso dell'amministrazione angioina, che aveva pure provato a guadagnare con la costituzione di società delle quali era partecipe nella misura dello ius exiture dei cereali da commerciare. Tra il febbraio e l'aprile del '78 (l'anno in cui l'euforia della produzione esuberante si concluse con l'avvertimento a non lasciarsi distrarre e a vigilare che non passassero inosservati i segni premonitori della carestia) si susseguirono gli ordini agli ufficiali in Sicilia di inviare grano: Napoli era lo scalo più frequente, e spesso intermedio con Roma. La richiesta più larga fu del febbraio 1278: i maestri portulani e procuratori di Sicilia erano invitati a inviare a Napoli il residuo delle vettovaglie fatte acquistare per essere rivendute durante l'indizione precedente (3181 salme e 2 tumoli di frumento, 5720 salme di orzo), e a farsi consegnare dai ricevitori e conservatori delle vettovaglie della curia e mandare a vendere 4000 salme di frumento a Tunisi, Bugia e altre terre di Barberia, 4000 a Genova, 4000 a Pisa, 3320 a Venezia « a partire dal prossimo futuro mese di marzo, cioè nel tempo adatto alla navigazione », con navi della corte o, in difetto, noleggiate appositamente. Altra avvertenza: che facessero presente se ritenevano di dover portare al ritorno merci, e quali, e che ove prima della partenza delle navi avessero avuto notizia che i cereali potevano essere venduti altrove a prezzo « migliore e più caro » concertassero la deviazione con il vicario in Sicilia. Le difficoltà di vendita sulle piazze siciliane, a mercanti regnicoli o stranieri, durarono oltre le annate grasse. Nel maggio 1281, avanti il raccolto, era dato ordine al secreto Matteo Rufolo di Ravello di raccogliere entro la indizione in corso (settembre 1280-agosto 1281) 30.000 salme di frumento e 20.000 di orzo nella Sicilia ultra, 20.000 di frumento e 6000 di orzo nella citra, cui erano da aggiungere 3400 salme di frumento rica. vate dalle gabelle dei terraggi della curia e altre da richiedere alle masserie regie dell'isola fino a raggiungere 60.400 salme di frumento e 15.000 di orzo. Il grano doveva essere portato a vendere in Napoli (4000 salme), Amalfi (4000), Gaeta (2000) entro il regno, e Roma (4000 salme), Bugia, Tunisi e altre parti di Barberia (12.000), Accon (12.000, di cui 4000 da consegnare al vicario in Gerusalemme), Durazzo (2000), Chiarenza (5000), Venezia, Dalmazia e Schiavonia (complessivamente 15.000) fuori il regno. L'orzo era destinato ad Accon (2000 salme), Durazzo (1000), Chiarenza (6000), ad altri luoghi da scegliere (6000). Il
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prezzo di vendità era prefissato per il frumento in 18 tarì la salma all'estero, 16 nel regno, per l'orzo in 12 tarì. La spedizione rompeva gli indugi di un disegno in maturazione da quando le notizie della elevata produzione di grano nell'isola e del basso costo che se ne profilava si intrecciavano con quelle della, lievitazione del prezzo nei paesi importatori. Nell'ottobre del '70, infatti, Carlo indirizzava al vicario di Sicilia una lettera riservata invitandolo a indagare e rispondere con secretezza sulla informazione che in Tunisi, Bugia, Tripoli e altre parti di Barberia la salma di frumento si vendeva dai 10 ai 12 bisanti (e ciascuno era valutato 2 tarì) 10. Dall'operazione il fisco si riprometteva di assicurare la vendita dei prodotti delle proprie masserie, recuperare l'introito che sarebbe venuto dallo ius exiture (su 60.000 salme di frumento e 15.000 di orzo alla misura di 30 e 15 onze le 100 salme sarebbe stato di 20.500 onze) e speculare sul basso prezzo di acquisto. Era cioè un mezzo per non avere svantaggio ma trarre utile dalle incertezze nelle quali venivano a trovarsi produzione e mercato dei cereali anche per la irregolarità delle rese, fra la carestia e la sovrabbondanza, cui potrebbe non essere stata estranea la rottura dell'equilibrio stagionale. (Viene da ricordare la « persistenza del tempo invernale lamentata nel 1267; e resta quanto meno il sospetto che certe trasformazioni climatiche, supposte o provate in Europa dai primi decenni del secolo XIV, siano cominciate nella estrema punta meridionale negli ultimi decenni del XIII) ". Per altro questi espedienti si aggiungevano alla misura elevata dello ius exiture a stimolare il contrabbando, con le conseguenze che la pratica di esso finiva per avere sull'impegno, sulla credibilità e sull'efficienza dell'amministrazione e del governo. Le difficoltà dell'agricoltura siciliana trovavano specchio nell'accentuata svalutazione del terreno, ancor se migliorato in vigneto e ubicato nelle vicinanze di città che garentivano l'assorbimento senza notevole incidenza di spese di trasporto e di immagazzinamento e senza i rischi del viaggio certamente cresciuti da quando si moltiplicavano resistenze e fughe « in luoghi inospiti e silvestri ». Nel 1278 lo stratigoto mise in vendita gli immobili che erano stati confiscati in Messina e dintorni a Orlando de Amicis, ribelle. Nel documento allora redatto furono segnate tredici voci, per dodici delle quali si diedero prezzo di vendita e valutazione della rendita. Questa andava per le case dal 5%
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all'8,33% (con due intermedi, del 6,66% e dell'8% rispettivamente); la rendita di una casa soggetta a censo era calcolata del 3,92%; quella di tre vigneti in buona positura in contrada dell'Annunziata, nella fiumara di Cammari, e in quella di Bordonaro, erano rispettivamente del 3,5%, 3,46%, 3,92%. La rendita era estremamente bassa (0,83%) in un caso (vigna in contrada S. Michele) in cui c'era solo l'appezzamento di terreno, si elevava (6,94%, 7,14%) nei due in cui il fondo era dotato di casa e di attrezzi 12.
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IL DETERIORAMENTO DELLE STRUTTURE
Il modulo dei rapporti fra Stato e persone e tra le persone non subì con l'avvento di Carlo e negli anni avanti il Vespro trasformazioni dettate da concezioni e inclinazioni nuove e diverse. La struttura portante continuò a rimanere quella del regno normanno e, se mutazioni avvennero, non fu per decisione o impegno dell'Angioino ma perché il suo governo le raccoglieva in evoluzione e, sotto la spinta della congiuntura negativa e per difetto di immedesimazione con il paese, ne accentuò il deterioramento. Quello angioino in Sicilia stentava a definirsi nel senso di regime feudale, senza che per altro si manifestassero o un attacco meditato o la volontà consapevole di difendere le strutture superstiti alle difficoltà incontrate e alle erosioni subite negli anni degli Svevi. La partizione nelle tre classi nelle quali le persone erano state divise (schiavi a parte) nell'ordinamento del regno normanno fu mantenuta e trovò ripetizione anche la diversa pena pecuniaria secondo il grado'. Ma alla diffusa erosione della tripartizione nel declino del villanaggio (in Sicilia certo, ridotto ormai a sparuti residui) il nuovo governo non poteva rimanere estraneo neppure a livello legislativo; e già nel primo anno degli Angfioini, compare la divisione tra persona nobile e persona che « nobile non è » con pena diversamente umiliante e con differente pubblicità di essa. Per sradicare le rapine « che di frequente avvenivano nel Regno » si stabiliva come pena per la prima rapina che il non nobile fosse fustigato e pagasse il triplo del danno recato (e se non era in grado di dare l'ammenda era segnato in fronte con il marchio della curia), il nobile doveva sei onze e
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tre volte il danno (ma poteva scegliere di essere fustigato e marchiato, e poteva anche preferire il carcere per un anno); per il recidivo non nobile era comminato il taglio del piede se s traniero, della mano se regnicolo; il nobile perdeva « l'armamento e tutto quanto gli doveva la curia, e se nulla gli spettava da ll a curia, doveva venti onze, e se non era in condizione di pagare, andava in carcere (non ci è noto per quanto tempo per abrasione nel documento) e poi era esiliato. Alla terza rapina « il nobile sia punito con la decapitazione » e il non nobile con la forca 2. Atteggiamento analogo, di accettazione e di continuità di istituzioni che resistevano adattandosi, si verificò nello stretto ordine del feudo. Il quale, magari entrato in Sicilia non perfetto, ora era oltremodo imperfetto; mentre al servizio nobile non corrispondeva quasi più per nulla quello del non nobile, ed era venuta pressoché del tutto meno la partizione tra terre « in demanio » e « in servitio ». Il feudo ormai resisteva nei limiti della marcata oscillazione fra l'esercizio delegato del potere (quasi mai esteso alla maggiore giurisdizione penale e abitualmente privo di immunità fiscali) e di alcuni Tura, e il possesso di una grossa proprietà fondiaria. Senza le perplessità manif estate pochi anni innanzi dagli ufficiali incaricati della « reintegrazione » dei feudi di Sicilia, era richiamata la antiqua et observata in Regno consuetudo per cui il feudo integro corrispondeva al reddito e provento annuale di 20 onze, e conti e baroni rispondevano alla corte del servizio dei suffeudatari, che « consisteva in antico » in tre mesi di milizia. Il servizio però era abitualmente sostituito dalla corresponsione in moneta o surrogato dall'approntamento di naviglio fatto « promettere » e prestare da feudatari singoli e associati 3. Nei fatti Carlo ricevette in Sicilia una feudalità largamente ridimensionata da Federico, mentre le famiglie che i legami con Manfredi avevano portato sulla cresta dell'onda erano rimaste travolte dalla disgrazia dell'epigono svevo. I tentativi di rivalsa antiangioina che precedettero, accompagnarono e seguirono la breve e tragica spedizione di Corradino diedero occasione al più largo ridimensionamento. Del quale Carlo né si avvantaggiò per sradicare i ceppi feudali esistenti, né seppe profittare per crearsi, con una feudalità nuova e a sé legata, basi valide almeno nel breve tempo e fasce di consenso nel paese conquistato. Egli non approfondì la linea nella quale carattere e convinzioni avevano spinto Federico, né ripercorse quella sulla quale erano riusciti a muo-
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versi i due Ruggero, i quali avevano sagacemente gestito la bivalenza di una feudalità tendenzialmente ligia per comunanza di sangue e di fortuna, pericolosamente irrequieta ed ambiziosa fino a rivaleggiare con la monarchia quando era vigorosa. Carlo non alimentò in Sicilia signorie velleitarie per potenza che venisse da territori vasti o particolarmente ricchi; ma non riuscì a trovare attraverso un diffuso tessuto di vertice a sé legato le basi di un consenso. Chi sa, forse perché egli fu convinto, almeno fino alla durissima esperienza del Vespro, che per regnare non si richiedesse altro che un'amministrazione rigidamente efficiente. La conquista con l'aiuto, e nel nome, della Santa Romana Chiesa non comportò che il clero venisse ad assumere ruolo dirigenziale: tra i consiglieri e nella corte di Carlo gli ecclesiastici non ebbero spazio più largo che avanti; e neppure vescovadi e monasteri recuperarono le signorie su città e sui più vasti territori. Ci furono inquisitiones, prologo a reintegrationes, che non ebbero però esito nel senso che i vescovi di Patti, di Cefalù, e di Catania, e l'arcivescovo di Monreale recuperassero i domini che avevano ricevuto dalla dinastia normanna o tanto meno il monastero e l'archimandrato del Salvatore in Lingua Phari fossero restituiti al ruolo religioso o reintegrati nelle temporalità °. In una carta frammentaria e parziale, quale risulta dalla imposizione (« promessa », come si diceva eufemisticamente) di armamento del naviglio, stanno in primo piano pochi grossi nomi: Alaimo da Lentini (cui il Vespro avrebbe dato fama tra fortuna e travagli) che era chiamato ad approntare una tenda insieme a Simone da Calatafimi nell'aprile del '77, Giacomo da Lentini che in quella occasione « presente a corte si offri volontariamente » con Palmerio Abate (altro nome legato al Vespro) per fornire una terída, e che allora e nel '78 contribuì per altra tenda insieme ad alcuni feudatari di Sicilia e del continente, Ruggero di Pietraperzia, Giovanni di Mazzarino e il signore di Sclafani che ne approntarono una insieme. Altri partecipi erano di nuovo insediamento: Pietro di Alamannone, il quale anche lui nel '77 « presente in curia si offri volontariamente » con l'irrequieto Guglielmo Porcelet che — sappiamo per altra occasione — investito dei castelli di Calatafimi e di Calatamauro « stese le mani sopra altri casali », Girardo e Bertrando Berteraimo de Artus i quali avevano avuto Tortovici, i casali del Conte, Burgidiano, Con-
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sorte e Favarotta con Poncio de Blancoforti, Fulcone de Podio Riccardi (Puy-Richard), per tempo nel giro degli uffici maggiori, insieme a Ribaldo de Mullino, Ruggero de Zabatt (o Lazabatt) con Pietro de Podio Viridi, Filippo de Aurelatense (o de Arillano) cui era stato concessa in quota Buccheri con Matteo de Podio che aveva ricevuto Centineo nella Piana di Milazzo 5 . Erano espressione, nell'insieme, e con maggiore evidenza i secondi, del movimento nella cerchia dei feudatari di Sicilia verificatosi sotto Carlo d'Angiò: una nuova lotteria cui diedero agio, fra il 1270 e il 1272, le confische dei beni dei « traditori », e cioè dei ribelli a Carlo. Una lotteria che toccò intiere terre e casali; ma che, se non mise in circolo una feudalità irriguardosa per ambizioni fondate su reale potenza, non creò neppure un solido aggancio alla dinastia 5 . Anche perché i nuovi signori non furono accompagnati da un seguito che avesse presa sul tessuto demico o valesse quanto meno a contenere prevenzioni e risentimenti, nostalgie seppur strane e aspettative magari vaghe a chi non riusciva a distinguere (e spesso non ne aveva neppure agio o motivo) causa e provenienza delle vessazioni: dal potere centrale lontano, o dal signore vicino, eguali nella lingua e magari nell'insensibilità (se non era dispetto e non era disprezzo) verso i soggetti. L'osmosi tra questa feudalità di nuovo insediamento, minuta e in larga parte frammentata, e quella preesistente, traumatizzata e mortificata e da tempo debilitata, ammesso che lo si volesse e sapesse regolare, avrebbe richiesto tempo; e se ce ne fu un sia pur parziale avvio, l'esplosione del Vespro tolse occasione. Questa nuova feudalità venne piuttosto a condividere le difficoltà in cui si trovava l'antica per lo squilibrio perdurante nella campagna. La crisi del villanaggio, che rompeva il modo di conduzione della parte dominica non era conclusa. Erano invece aperti i problemi connessi. Il villanaggio non era scomparso al tutto in Sicilia: rimaneva in diritto, e resistevano casi singoli e mediocri sacche. Ce ne sono pure documenti: la chiesa di S. Maria di Montemaggiore ultra flumen Salsum aveva quattro villani, alcuni villani erano in diocesi di Agrigento, i figli di Elia di Giorgio residenti in Golisano si dichiararono nel 1279 villani della chiesa di Cefalù, quattro villani del medesimo ceppo familiare abitanti in Caltavuturo erano tra i bona pbeudalia nel territorio di quel borgo venuti alla curia alla morte senza figli del beneficiario,
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Enrico Bonet, e poi passati in scambio, nel dicembre del 1275, insieme al casale Melia e ad altri beni in quel di Castronovo che erano appartenuti ai Maletta « traditori ». Unico documento, quest'ultimo, in cui siano esplicitate le prestazioni alle quali erano soggetti i villani, e però verisimilmente falsate per insuperate difficoltà nella trascrizione dal registro ora perduto. Ciascuno di essi — sembra da quel che si legge nella trascrizione (e però c'è il segno di una abrasione) — doveva ogni anno 9 onze e 3 tari (68 salme e mezza di grano al prezzo di 4 tari la salma, congruo per quel posto di produzione eccentrico, quasi metà della rendita base del feudo di un milite, più delle 8 onze con le quali un villano poteva evitare un anno di carcere per trasgressione al divieto di caccia), una salma di frumento (a questo punto c'è verisimiglianza) e mezza di orzo, 3 galline e 30 uova. Quante che fossero le onze o fossero i tari, resta la obliterazione della angaria sul terreno dominicale. E c'è piuttosto da chiedersi: in quale misura e come gli squilibri congiunturali, le incertezze e le oscillazioni fra carestia e sovrapproduzione che il mercato non assorbiva a prezzi congrui o non accettava, gravavano di volta in volta su quanti dovevano versare o ricevere il censo ovvero la prestazione, segno o resto della condizione villanale, quando villani e censuali erano obbligati alle subventiones e i feudatari al servizio nobile o all'equivalenza di esso? La vischiosità che né si spiegava in dinamismo costruttivo né sortiva in nuovo assestamento, segno in fondo di declino proprio della Sicilia in epoca di mobilità e di crescita economica nello scacchiere euromediterraneo, si manifestava ancora al medio livello. La sorta di complementarità istituita fra l'economia siciliana basata sulla cerealicoltura e la pastorizia (questa, ormai in modica misura) e le economie della penisola che ne assorbivano la produzione tendeva all'obliteramento, nello scavalco per il ricorso delle seconde ad altro mercato dinanzi al venir meno della sicurezza della offerta (negli anni di scarso raccolto) e per effetto delle tasse di esportazione esorbitanti. Nei grossi traffici, d'altro lato, la partecipazione dei siciliani non si allargava. La fetta di esportazione più larga, al di fuori del ricorso ad operatori stranieri, rimaneva della curia. Per il resto la presenza dei locali si realizzava comunque piuttosto in posizione di noleggiatori che di mercanti. Nei rendiconti dei maestri portulani e procuratori in Sicilia che la corte convalidò nel luglio e dicembre 1276, su
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un export di 4430 salme di frumento e 500 di orzo effettuato per conto della corte tra aprile e luglio, la partecipazione dei siciliani fu larga ma circoscritta al nolo resosi necessario « in difetto di navi della curia che, se non riparate, non potevano navigare ». Due imbarcazioni di proprietà dei messinesi Matteo de Riso e Nicolò Guerrisio (o Guirosa) furono adibite all'esportazione di carichi di grano di salme 1630 1/2 e 500 verso la Barberia e Venezia con partenza da Trapani e da Palermo. II carico più grosso (2000 salme di frumento e 500 di orzo) di quel contingente partì da Trapani verso Messina sulla nave di un amalfitano, uno di 300 salme di frumento da Agrigento verso la Barberia sul battello di un siciliano o comunque di un regnicolo. 4000 (come si legge nel documento nello stesso anno, gli addendi però danno il totale 4100) sulle 20.000 salme del frumento destinato all'esportazione furono trasportate in Barberia (2000 partirono da Trapani, 1000 o 1100 da Sciacca, 600 da Mazara, 400 da Agrigento), poco meno di un terzo (1300 salme) su imbarcazioni di siciliani e più propriamente di messinesi, la decima parte (400 salme) sul battello di un regnicolo (di Salerno), per un carico di 600 salme in partenza da Mazara non ci è nota la nazionalità del proprietario della nave, quasi la metà (1800 salme) fu portata su imbarcazioni di stranieri (2 di Pisa, uno di Tortona). Altre 3250 salme di frumento furono esportate per conto di mercanti stranieri (6 pisani, un genovese, un catalano, un marsigliese sembra) verso la Barberia, ad eccezione di 2 contingenti rispettivamente di 250 e 200 salme inviati a Marsiglia e a Venezia. 2 carichi mediocri, di 650 salme complessive, furono esportati per conto di amalfitani. Debolissima fu in questa occasione la partecipazione del naviglio locale (300 salme furono trasportate da un battello di Messina per conto di un mercante pisano) e regnicolo del continente (200 salme su una nave di Ischia per conto di un amalfitano); incerta è l'appartenenza dell'imbarcazione sulla quale furono caricate per conto di un mercante pisano 400 salme di frumento in partenza per la Barberia. Per oltre 3470 salme la esportazione fu effettuata dopo il luglio, a nuovo raccolto avanzato, per conto di mercanti esteri. La presenza certa di siciliani fu limitata al trasporto di 200 salme esportate ad Agrigento sul buccio di Nicolò Maletta da Catania, e 300 estratte da Palermo da un mercante della città, Guglielmo Speciale. Il quale si incontra ancora, forse unico sici-
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liano, nel quaderno delle esportazioni autorizzate e effettuate fra luglio e dicembre, con 400 salme su 3720 (tale è il computo nel documento; gli addendi, così come trascritti, danno il totale di 3860 salme) 8 . Specchio ovviamente incompleto, questo su cui si riflette uno dei 15 anni di governo angioino in Sicilia, ma non specchio deformante le grandi e reali linee delle annate fuori della carestia e della crisi da eccedenza. Non che fosse venuto a mancare allora in Sicilia un ceto di operatori e di imprenditori; e però il respiro ne era corto. Non solo a Palermo sacrificata per il trasferimento della capitale, dopo avere subito l'amputazione, gravosa in senso quantitativo e nel qualitativo, della parte islamica della sua popolazione, ma pure a Trapani che raccoglieva poco meno di un terzo del grano in regolare esportazione dal luglio al dicembre 1276 (il 31,40%, contro il 18,45% di Sciacca, il 17,45% di Agrigento, il 9,25% di Eraclea, il 6,80% di Licata, il 5,90% di Mazara sulla costiera meridionale, e il 3,95% di Termini e il 7,40% di Palermo su quella settentrionale). Una borghesia grassa di poche famiglie dalle larghe ambizioni, dalla vista larga e dalle risorse solide, si muoveva a Messina. Famiglia particolarmente cospicua e in evidenza erano i Riso: Matteo, « milite cittadino di Messina », proprietario della grossa nave locata alla curia per il trasporto di 1630 salme di frumento da portare a Bugia, era implicato pure negli appalti di grossi uffici attorno ai quali si muoveva vasto giro di interessi e di capitali e un composito ambiente imprenditoriale e professionale. Maestro portulano in Sicilia nel 1273, egli nel 1277 si aggiudicò da solo le gabelle della secrezia e dei proventi e diritti del sale nell'isola per la indizione VI (settembre 1277-agosto 1278) soppiantando la società composta da un altro messinese, Pellegrino Maraldo, e da due regnicoli del continente (Giovanni Castaldo e Giovanni Pironto di Ravello) con l'offerta di 18.857 onze, 4 tarì, 13 grana di moneta di conto, 2304 salme e 3 tumoli di frumento, 890 salme e 2 tumoli di orzo, 508 salme di vino e in più per il sale 400 onze oltre quelle che avevano pagato i maestri portulani e procuratori Bartolomeo Aconzaioco e Lorenzo Rufolo e oltre l'aumento di 200 onze avanzato dal giudice Pellegrino: a considerare i personaggi con i quali si era messo a competere era atto di spavalderia. Né era personaggio tranquillo, Matteo de Riso, se, più tardi, la corte comandava allo stratigoto di Messina di revo-
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care al demanio alcuni casali che egli aveva occupato insieme al defunto fratello Nicoloso (del quale sappiamo che nel 1274 era stato giustiziere in Terra di Bari). Un altro dei Riso, Gregorio, nel 1278 si incontra, forse unico siciliano, in un elenco di 37 mercatores che avevano esportato il frumento con regolare licenza e pagamento dello ius exiture ai maestri portulani Simone da Bari e Costantino Caziolo da Trani: lista nella quale si trovano cognomi fra i più noti della borghesia dei commerci nel Mediterraneo, di Venezia e di Genova, di Pisa e di Nizza, di Provenza e di Catalogna (Giustiniani e Dandolo, Lercaro e Squarciafico, Afflitto e Gagliardo, de Mari e Doria, Grasso e Rubeo, Spinola e Traversa...). Furono pure vicende e intraprendenza pressoché singolari quelle dei Riso. Le fortune dei quali furono legati agli Angioini insieme alle sventure. Ché Matteo acquistò grosso titolo di merito guidando le galee messinesi che nel '68 si scontrarono con la flotta ghibellina comandata da Guido Boccio da Pisa e da Federico Lancia, e la conclusione della sua esistenza, vittima del furore popolare insieme al fratello Baldovino, nel giugno dell'82 segnò il passaggio di Messina dalla parte dei rivoltosi contro Carlo. Un altro fratello, Riccardo, fu preso prigioniero dai siculo-aragonesi nel golfo di Napoli e decollato nel 1284 9 . Caso se non senza analogie, dalle poche analogie, dunque, questo dei Riso e per la efficienza e la incisiva presenza nella economia e per i rapporti assidui, anche se episodicamente sostenuti, con la dinastia. Perché la fragile borghesia di Sicilia, se non ebbe vigore di far valere i suoi interessi e condurre una linea politica confacente presso la corte, neppure costituì valido sostegno alla nuova monarchia. Questa, per parte sua, non avviò un discorso conducente a legare a sé il medio ceto rurale e cittadino del commercio e delle manifatture, degli uffici e delle professioni, nei larghi strati al di là di punte individuali. Semmai, la monarchia cercò di svolgere consuetudini e prerogative locali e una certa inclinazione verso forme di rappresentanza che stava nell'eredità di parte guelfa, al proprio vantaggio e in senso precipuamente finanziario, rendendo sistematica l'elezione (che era poi una scelta guidata, ancora e proprio se si raccomandava che avvenisse « de communi voto omnium ») dei giudici o dei giurati (« buoni, idonei, fedeli ») rispettivamente nelle terre demaniali o in quelle di feudatari laici ed ecclesiastici, da
XXI. Il deterioramento delle strutture
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parte delle università, e pur mostrando particolare attenzione a fruirne ai fini della distribuzione e della percezione delle subventiones e della riparazione dei castelli 10 . Nessun più lungo passo verso forme di autonomia delle « università » (a godere le meno strette, e non da ora, erano i giudei, cui erano riservate per contro più larghe occasioni di sofferenza) e neppure maggiore indulgenza o magari sopportazione, semmai scaltrito e cavilloso impegno a far valere la presenza e la ingerenza del fisco. Nel 1274, il vicario di Sicilia rappresentò alla corte che, essendosi recato a Palermo a indagare nei confronti degli apprezzatori delle collette, gli abitanti insieme e singolarmente dichiararono che per le immunità di cui godeva la città non era dato ad alcun ufficiale svolgere inquisizione generale o speciale « contro uno o contro più d'uno », e che l'indagine era consentita solo al re; Carlo ritenne allora risolvere la questione con una decisione drastica quanto cavillosa: conferì la « sua vece ». E colse l'occasione per raccomandare di condurre inquisitiones di quella fatta, a Palermo e in altre terre del giustizierato, ogni qual volta ne fosse riconosciuta l'opportunità ".
XXII LA VIA AL VESPRO
L'attenzione della Corte angioina non fu volta, all'interno, a creare alla dinastia di nuovo insediamento basi di adesione e di simpatie, né le preoccupazioni per le condizioni del paese e degli abitanti andarono oltre le generiche istanze di correttezza e di richiamo alla disciplina. Le ragioni della dinastia erano egemoni, e dalla mancata osmosi con quelle del paese discendevano la insensibilità per i disagi delle popolazioni e le difficoltà che a queste venivano da imposizioni spinte oltre i livelli della tollerabilità. Carlo e la sua corte non manifestarono inclinazione né cercarono occasioni di compenetrazione con il paese conquistato; tanto meno con la Sicilia ove risiedettero in circostanze eccezionali e per il tempo da queste richiesto. Non si ripetette la condizione verificatasi con gli Altavilla; sotto i quali per lunga via si compenetrarono interessi e ambizioni della dinastia a necessità e spazi del regno. Carlo, portato in Sicilia quale controparte degli Hohenstaufen, accentuò anzi la subordinazione (forse Federico e Manfredi avevano creduto nell'interrelazione) delle sorti del regno a disegni dei quali esso era strumento. Gli interessi e gli indirizzi che egli aveva già espresso in Provenza, nell'Italia settentrionale e centrale, e anche in Roma verso la corte pontificia non furono né abbandonati né quietati: la conquista del regno nella immediata euforia non frustrata dall'esito disgraziato della crociata di Tunisi, bilanciata dai successi nei Balcani (nel '72 la conquista di Corfù e dell'Albania, nel '78 dell'Acaia), si presentò tappa del consolidamento nello scacchiere europeo, della più larga espansione in quello mediterraneo, nella duplice direzione dell'ambizione personale e dello sviluppo del « nome » francese all'ombra della invadente profes-
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sione di lealismo e di tutela della chiesa di Roma. Carlo non ritenne, compiuta la conquista, dover cercare di raccogliersi a consolidarla. Magari se mai si rese conto che il regno mortificato e depresso da lunghe difficoltà, deteriorato nelle istituzioni e esposto a incertezze congiunturali, aveva bisogno di respiro; non ebbe sensibilità che il suo dominio doveva costituirsi fondamenta e trovare sostegno in luogo. Fu solo il Vespro a rivelare all'Angioino la fragilità di una dominazione che non si immedesimava nel paese e non rappresentava neppure una classe o ne riceveva l'adesione e l'appoggio. Gracile la feudalità di nuova importazione, divisa e contrastata da quella preesistente all'occupazione mentre gli esuli e i danneggiati dalla instaurazione della dinastia francese cercavano di non perdere contatti e di rinnovare occasioni, debole o ostile la classe media ai diversi livelli e nelle varie connotazioni, disilluso il clero che aveva concepito attese che andavano oltre la più larga restaurazione dopo le umiliazioni e le confische lamentate ad opera degli Svevi e ora riceveva solo promesse e inquisitiones, offese e aggredite nelle varie gamme le classi subalterne — la dinastia era isolata. E, nel suo isolamento, essa non rinunciava a ruoli più complessi e dispendiosi nella prestigiosità, quando c'erano già condizioni di tensione e difficoltà a sanare le quali non sarebbe bastata la sola volontà di raccoglimento (che Carlo non aveva). La pirateria dilagava, avvantaggiata dalle guerre aperte e al di fuori di esse, e imponeva misure di vigilanza e aggravi di armamento fu comunque solo per ragioni di vigilanza e di difesa della costa e dei commerci che la flotta raccolse attenzione e richiese grossi impegni finanziari. La guerra e i preparativi di guerra erano continui e costavano perché non operavano più contingenti scelti ma ristretti, mobilitati con prospettive di acquisti o attratti da spirito di avventura o reclutati attraverso il servizio feudale e appoggiati da stipendiarii dalle pretese piuttosto miti (si ricordino i saraceni adoperati dagli anni di Ruggero II fino a Manfredi). Per l'armamento della flotta e per l'esercito si richiedeva ora una mobilitazione che ricadeva sulla popolazione, distaccando dal lavoro e dalle famiglie elementi validi. Per far fronte alle scadenze finanziarie, per le iniziative e gli interventi urgenti e di prestigio, Carlo fu indotto a misure fiscali e a imporre restrizioni che non avevano riscontro nemmeno negli anni più pesanti
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di governo degli Svevi. Si aggravarono il controllo e il monopolio dei commerci lucrosi di generi di prima necessità (cereali o sale) da parte della curia; le tassazioni furono aumentate (si ricordi l'enorme lievitazione dello ius exiture); la esazione delle collette ritornò periodica con motivazioni varie e ricorrenti, e si aggiunsero le continue imposizioni alle università di mutui al fisco. Tutto con sordidezza e semmai con la discutibile strana equità di non indulgere a eccezioni cui non corrispondeva, però, neppure un certo modo austero di gestire la cosa pubblica. Che, se verso i sudditi recalcitranti le punizioni erano immediate ed erano pesanti, per gli alti ufficiali la corte angioina ricorse al richiamo, alla minaccia, predilesse semmai la sanzione pecuniaria (e non perché avesse compreso — ammesso che sia vero — che nel clima del mezzogiorno si sia più pavidi per la borsa che per la vita). Nel luglio 1272 Carlo, informato che il giustiziere della Sicilia al di là del Salso esigeva per ogni onza della sovvenzione un tari e mezzo oltre il dovuto (a riuscir bene era un'estorsione di 750 onze, dato che in quella indizione fu richiesta la colletta di 15.000 onze a giustizierato), manifestava meraviglia (« perché hai ecceduto oltre il nostro comando e aggravi i nostri fedeli ») e gli ingiungeva di smettere; e lo avvertiva che, se avesse dato ordine di indagare e fosse stata provata la colpa, si sarebbe proceduto in modo che risultassero « a te di pena e agli altri di terrore ». Nel maggio del '73 era trasmesso al vicario in Sicilia un elenco di abusi, di usurpazioni, di sopraffazioni commessi in clima di intimidazione (c'era un Roberto di Mileto cittadino di Messina che teneva occupati feudi e casali nel territorio della città e nel Piano di Milazzo e nessun teste aveva osato deporre contro di lui) con l'ordine di revocare quanto risultava usurpato al demanio e di citare gli occupanti abusivi a comparire dinanzi i procuratori del fisco « per rispondere delle detenzioni dei beni predetti ». Nell'agosto del '70 il re procedeva contro gli ufficiali che al di là del Faro (e cioè nell'isola) si erano comportati « con nequizia »: fu comminata la pena in solido di 20.000 onze, la cui distribuzione fu affidata a una commissione composta dall'arcivescovo di Orléans, da Nicolò Boucel, da Gozzolino della Marra e da Matteo Rufolo, personaggi nemmeno loro, non tutti almeno, rimasti esenti da sospetti negli impieghi al servizio della corte. Sono comunque esempi di uno strano, ancor se teso, modo di perseguire una gestione attenta 2.
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Questo modo di governare e di amministrare si venne a trovare di fronte a problemi e a situazioni gravissime, e dovette contrastare con una congiuntura straordinariamente avversa. L'apparato finanziario — abbiamo detto — era in dissesto; ai debiti dell'amministrazione sveva, si andarono aggiungendo nuovi prestiti e obbligazioni; mentre non era guadagnata la pace all'esterno e nemmeno recuperata la tranquillità all'interno. Federico II aveva rispettato talune impalcature, almeno, e aveva manifestato una certa riguardosità in cui l'enfasi formale era mista al sentimento sincero, Carlo non ebbe né motivi affettivi, né ritegni formali. E non si rese conto, dinanzi a manifestazioni di resistenza e di opposizione, della pericolosità di atteggiamenti in cui l'incomprensione di interessi concreti si univa all'offesa della sensibilità dei governati. La situazione imponeva lo sgancio dalla linea dell'amministrazione sveva. Le proposte e le misure della corte angioina non furono né innovative né abitualmente risolutive, o quanto meno comprensive della realtà del momento, delle esigenze del paese, dei sentimenti e risentimenti che i provvedimenti erano atti a suscitare. Stipendi e salari degli alti ufficiali come dei minuti dipendenti 3 , rimasero quelli di epoca sveva, sì come immutato restò il prezzo di generi essenziali di cui la corte si riservava il monopolio '. Ma, quando si ebbe a verificare il ricorso contemporaneo a francesi (gallici) e a regnicoli, lo stipendio dei primi fu spesso maggiore, o magari e anche per operai e maestri artigiani quello dei primi fu aumentato, mentre furono effettuate detrazioni sui salari già percepiti dai regnicoli 5 . Durante la carestia, la corte avviò un aggancio delle remunerazioni alla lievitazione dei prezzi. Venuta meno la inopia si ritornò alle misure dell'epoca sveva. Questa mobilità delle remunerazioni fu, pure, ristretta a pochi incarichi con ampio ruolo decisionale e agli ufficiali al seguito: una dirigenza in larga misura formata da provenzali o comunque oltremontani e, anche a motivo del trasferimento della corte a Napoli, da regnicoli del continente 6. Anche ai livelli dei tempi, quella di Carlo era « mala signoria », perché oppressiva e perché offensiva. Soprattutto in Sicilia, e entro l'isola a Palermo. Da molti, moltissimi siciliani, dai palermitani nella più larga parte, la dominazione straniera fu identificata con i transalpini, e fu pure significata dai regnicoli del continente. Forse proprio nel rancore crebbe per la prima volta, ora che le consistenti differenze religiose e linguistiche
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interne erano superate e al di là di quelle di classe, il senso indefinito e irrequieto di una « nazionalità » propria. Quello che avrebbe alimentato la communitas Siciliae, quando risentimenti e rancori furono esca, in Palermo, al Vespro del 31 marzo del 1282. Allora si trovarono a fronte da un lato la dinastia senza radici e basi di consenso, angustiata e isolata; dall'altro un paese vigoroso nella irritazione e nella euforia ma fragile, unito e aggressivo nell'odio ma privo sia pure di una classe valida a trovare, per sé e tanto meno per la comunità, vie e moduli nuovi. Quella del Vespro fu fiera sommossa in cui, con violenza e con brutalità, si combinarono ed esplosero interessi mortificati, sentimenti offesi; e però mancò la visione e la concreta tensione verso una società rinnovata, o sia pure semplicemente coerente con i tempi. Fu rivolta, non divenne rivoluzione. Il movimento di popolo cedette alle trame anguste di un gruppo di aristocratici anelanti alla rivalsa e alla restaurazione. La rivolta decadde nel ricorso ad altra dinastia straniera, quella di Aragona e di Catalogna che guardava alla Sicilia, più che per incerti titoli di legittimità (portati dalla più giovane Costanza), nella ricerca di spazio politico e commerciale; e volse ad esaurirsi nella restaurazione di condizioni usurate e compromesse da quando impegni e dilatate ambizioni di regnanti, per i quali l'isola restava « remota dalle parti nelle quali in prevalenza e con continuità operiamo » 7, si erano sovrapposti alle urgenze delle popolazioni e alle inclinazioni del paese.
1059 Il papa Nicolò II investe Roberto il Guiscardo del ducato di Puglia, della Calabria e della Sicilia da conquistare. 1060 I normanni occupano la Calabria fino allo Stretto. Ibn at-Tumnah emiro di Siracusa chiama i normanni in Sicilia contro Ibn al-Hawwâs signore di Girgenti e Castrogiovanni. Prima spedizione normanna; tentativo di insediarsi a Messina. 1061 Roberto il Guiscardo passa lo Stretto con 1000 cavalieri e 1000 fanti. Costruzione del castello di S. Marco. 1062 La flotta africana inviata in Sicilia è distrutta dalla tempesta. Ruggero conte di Calabria occupa Troina. Rivolta degli abitanti, cristiani di rito greco. 1063 Battaglia di Cerami. Fallisce il tentativo dei musulmani di scacciare dall'isola i normanni. 1071 Ruggero entra in Catania come alleato e se ne proclama signore. 1072 Roberto il Guiscardo occupa Palermo. Spartizione della città e delle conquiste siciliane fra Roberto e Ruggero, che resta nell'isola con il titolo di conte di Sicilia. 1076 Patto fra Ruggero e gli Ziriti di Africa, ai quali assicura forniture di vettovaglie e di legname. 1077 I Normanni occupano Trapani. 1080 Fondazione del vescovado di Troina. 1085 Morte di Roberto il Guiscardo. Ruggero, in cambio dell'aiuto che presta, riceve dal nipote e erede di Roberto i territori di Sicilia e di Calabria rimasti alla ducea, 1086 Ruggero occupa Siracusa. Nuovo accordo commerciale con gli Ziriti. 1087 Scisma della chiesa orientale. Non ha seguito in Sicilia. Occupazione di Girgenti. Resa di Castrogiovanni. 1089-1091 Occupazione di Butera e di Noto, ultimi centri di resistenza. Incontro fra Ruggero e il papa Urbano II a Troina. Ruggero rivendica la legazia apostolica nell'isola. 1094 Primo documento sulla presenza degli Aleramici in Sicilia. 1101 Ruggero muore in Mileto. Succede il figlio Simone sotto la tutela della madre Adelasia. 1105 Muore il conte Simone. Succede il fratello Ruggero II sotto la tutela della madre.
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Gli eventi
1112 Ruggero esce di tutela. Trasferimento a Palermo della capitale della contea, che era stata a Mileto e a S. Marco. 1117-1118 Guerra fra Ruggero e gli Ziriti di Africa. È rinnovato il trattato. 1122-1123 La flotta normanna tenta di occupare al-Mandiyah. Revisione dei catasti della contea. 1127-1128 Morte del duca Guglielmo. Ruggero, designato alla successione, inizia il recupero dei territori continentali. 1130 Il papa Anacleto investe Ruggero del regno di Sicilia. Incoronazione in Palermo, la notte di Natale. 1130-1139 Campagne di Ruggero per il recupero dell'Italia meridionale. Innocenzo II, fatto prigioniero da Ruggero (luglio 1139), conferma l'investitura del regno di Sicilia, del ducato di Puglia e del principato di Capua. 1140 I normanni giungono al Garigliano. Assise di Ariano. 1146 Occupazione di Tripoli. 1147 La flotta normanna occupa Corfù e saccheggia Corinto e Tebe. 1148 Occupazione di al-Mandiyah, Susa e Sfax. 1149 Perdita di Corfù. 1154 Morte di Ruggero II. Succede il figlio Guglielmo I. 1156-1157 Repressione della rivolta in Puglia e Calabria, della congiura di Goffredo di Montescaglioso, della sollevazione di Butera. I bizantini sbarcano in Puglia; sono sconfitti. 1156-1160 Perdita delle conquiste africane. 1160-1161 Uccisione del grande ammiraglio Maione. Repressione della rivolta dei feudatari. I lombardi scacciano i musulmani dalla Sicilia orientale. Distruzione di Piazza. 1166 Morte di Guglielmo I. Succede il figlio minorenne Guglielmo II. Reggenza della madre Margherita di Navarra. 1168 Tumulti in Palermo. Fuga del cancelliere e arcivescovo di Palermo Stefano di Perche. 1169 Terremoto nella Sicilia orientale. 1171 Guglielmo II esce dalla minore età. Riforma della curia avviata nel 1168, protagonisti l'arcivescovo Gualtiero Offamill e il vicecancelliere Matteo d'Aiello. 1174 Fallita spedizione in Egitto. 1178 Fondazione ed elevazione in arcivescovado del monastero di S. Maria Nuova di Monreale. 1185 Spedizione in Grecia. 1186 Matrimonio fra Costanza, figlia di Ruggero II e erede designata del regno, e Enrico VI, figlio e erede dell'imperatore Federico di Svevia. 1189 Morte di Guglielmo II (dicembre). 1190 Caccia ai musulmani, i quali accendono la rivolta nell'interno. Si manifestano due partiti: uno capeggiato dall'arcivescovo Gualtiero favorevole alla successione di Costanza, l'altro guidato da Matteo
Gli eventi
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d'Aiello che fa proclamare re Tancredi conte di Lecce illegittimo
del duca Ruggero figlio di Ruggero II. 1191 Enrico VI e Costanza ricevono in Roma la corona imperiale. Enrico tenta la discesa nel regno; è costretto a ritirarsi. Costanza è catturata a Salerno (e restituita al marito dopo un anno). 1193 Morte di Matteo d'Aiello. Morte di Ruggero figlio di Tancredi. 1194 Morte di Tancredi. Succede il figlio Guglielmo III reggente la madre Sibilla. Enrico VI occupa Palermo. Sibilla e il figlio si arrendono a Caltabellotta e sono inviati in Germania. Violente repressioni sulla nobiltà vicina agli Altavilla. Federico II nasce in Iesi. 1197 Enrico VI concede ai frati cavalieri dell'ordine teutonico la chiesa e il monastero della SS. Trinità in Palermo. Congiura e rivolta contro Enrico VI. Repressione violentissima. Morte di Enrico VI. Costanza assume la reggenza in nome del figlio. 1198 Morte di Costanza. Il papa tutore di Federico nel regno. 1198 1208 Perturbationes. Rivolte dei musulmani; scontri fra parte papale e parte tedesca. 1208 Il papa scende nel regno. Dieta di San Germano. Federico II è dichiarato maggiorenne. 1209 Nozze fra Federico II e Costanza sorella del re d'Aragona. I 500 cavalieri portati dalla regina in larga parte periscono per una epidemia. 1212 Federico in Germania. È eletto imperatore. 1215 Federico incoronato imperatore. 1220 Federico rientra in Italia. Curia generale in Capua. Editto De resignandis privilegiis. 1221 Distruzione di Celano. Curia generale a Messina. Recupero della Sicilia: scontri con i musulmani in Val di Mazara; Siracusa è tolta ai genovesi. 1222-1223 Campagna contro i musulmani; espugnazione di Giato e Entella; deportazioni a Lucera. 1224 Recupero di Malta. Fondazione dell'università di Napoli. 1225 Federico sposa Isabella figlia di Gualtiero di Brienne; assume il titolo di re di Gerusalemme. 1227 Federico sospende i preparativi della partenza per la crociata adducendo a motivo l'epidemia scoppiata a Brindisi. È scomunicato. 1228-1229 Crociata. Federico entra a Gerusalemme in seguito ad accordo. Rientra nel regno per le notizie della rivolta e del passaggio di forze pontificie nel regno. 1229 Sollevazione dei musulmani di Giato e di Entella. 1231 Promulgazione delle Constitutiones a Melfi. 1232-1233 Rivolta a Messina e nella Sicilia orientale. Devastazione di Capizzi, Troina, Montalbano; distruzione di Centorbi. -
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Gli eventi
1237 Federico concede a Ottone di Carcerano di stabilirsi in Corleone. Ultima immigrazione di una colonia nei secoli XII e XIII. 1239 Gregorio IX scomunica Federico. Riforma dell'amministrazione del regno. 1240 I frati minori e i predicatori sono espulsi dal regno. 1243 Si riaccende la rivolta nelle montagne di Giato e di Entella. 1245 Le truppe regie comandate da Riccardo Filangieri infliggono gravi perdite ai musulmani. 1246 Congiura di Tebaldo Francesco, Pandolfo Fasanella, Enrico de Morra, Andrea Cicala. Sconfitta e deportazione dei musulmani del Val di Mazara. 1247 Carlo d'Anjou figlio di Luigi VIII di Francia sposa Beatrice figlia e erede del defunto conte di Provenza Raimondo Berengario. 1248 Disfatta di Federico a Cortenuova. 1249 Condanna di Pier delle Vigne. 1250 Federico muore a Ferentino (12 dicembre), dopo aver designato alla successione il figlio Corrado minorenne e baiulo Manfredi, nato da Bianca Lancia. 1251 Rivolta stimolata dal pontefice. Pietro Ruffo si dichiara vicario di Corrado in Sicilia. 1252 Corrado IV scende nel regno. Dieta di Foggia. 1253 Corrado occupa Napoli. Pietro Ruffo si dichiara vicario pontificio in Sicilia. 1254 Muore in maggio Corrado IV, dopo aver designato successore il figlio Corradino e baiulo Bertoldo di Hohenburg. Trattative fallite fra il papa e Manfredi. 1255 Manfredi baiulo di Corradino nel regno. Pietro Ruffo sconfitto ad Aidone si rifugia in Calabria, e poi lascia il regno. Manfredi è scomunicato. 1256 Enrico Abate, comandante delle truppe di Manfredi, sconfigge il legato pontificio e occupa Palermo. Federico Lancia elimina i nuclei di resistenza (Messina, Piazza, Castrogiovanni, Aidone). 1258 Manfredi è coronato re in Palermo (agosto). 1259' La flotta siciliana occupa Durazzo. 1260 Rivolta di Gobbano. Uccisione di Federico Maletta. 1262 Nozze fra Pietro d'Aragona e Costanza figlia di Manfredi. 1265-1266 Carlo d'Anjou, ricevuta l'investitura (giugno 1265) e coronato dal papa (gennaio 1266), passa nel regno. Manfredi è sconfitto e ucciso a Benevento (febbraio 1266). 1267 Corradino di Svevia scende in Italia (aprile). Federico di Castiglia, Corrado Capece, Nicolò Maletta sbarcano a Sciacca (agosto). La rivolta si estende. 1268 Corradino è sconfitto a Tagliacozzo (agosto); catturato, è decapitato a Napo li (ottobre). 1268-1271 Carestia in Sicilia.
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1269-1271 Spedizione angioina in Sicilia Resistenze e assedi a Girgenti, Lentini, Centorbi, Caltanissetta, Sciacca. 1270 Crociata di Tunisi Morte di Luigi IX (agosto). Carlo fa pace con il « re » africano il quale si impegna a corrispondere un tributa annuo. 1272 Conquista di Corfù, Vallona, Durazzo. Carlo re d'Albania. 1274-1276 Guerra contro Genova. 1276 Pietro III succede al pad re nel regno d'Aragona. 1278 Conquista della Acaia; Carlo ne prende titolo di principe. 1281-1282 Preparativi per la campagna contro l'impero d'oriente. 1282 Rivolta del Vespro (31 marzo).
Nelle fonti narrative in arabo è normale l'uso dell'anno dell'egira. Decorre dal 16 luglio 622 ed è ripartito in 12 mesi, 6 di 30 e 6 di 29 giorni. Negli scrittori in greco e nei documenti rogati all'uso dei greci è abituale l'anno dall'origine del mondo. Decorre dal 1° settembre 5509; per i mesi non presenta difformità dal calendario romano. Tra i cristiani di Sicilia, greci o latini, decorre pure dal 1° settembre l'indizione (ciclo di 15 anni numerati progressivamente, con punto di partenza dal 313 d. C.). È anticipata di 4 mesi rispetto allo stile romano (privilegiato nell'area cristiano-occidentale almeno a partire dalla metà del secolo XII) che coincide con l'anno dalla circoncisione ora corrente (inizio dal 1° gennaio). Se rimane agevole evidenziare la aderenza del periodo 1° settembre - 31 agosto con l'annata agraria quale si svolge nel Mezzogiorno d'Italia, l'indizione aveva particolare risalto (e la mantiene per lo studioso) per la coincidenza con la gestione finanziaria e con il conferimento e la scadenza di uffici centrali, provinciali e locali. L'anno di Cristo, di abituale uso negli atti e tra gli scrittori in latino, in Sicilia solo eccezionalmente decorre dalla natività (25 dicembre). Di solito è quello dell'incarnazione, con inizio ritardato al 25 marzo. Il periodo dal 1° gennaio al 24 marzo rientra nell'anno già avanzato. Per le distanze rimaneva egemone il miglio (metri 1486,84). Misura dei terreni era la salma, equivalente alla superficie (are 223,10, pari a m2 22.310) ritenuta congrua a ll a semina di 1 salma di frumento. Sottomultiplo ('/16) era il tumolo. Per terreni di una certa ampiezza si trova ricorso alla parida (o pariclata), pari a 30 salme. Per piccole dimensioni era adoperata la canna lineare (m. 2,06). Per gli aridi la salma al peso generale (ponderis generalis) adottato negli atti degli uffici centrali e di abitudine in Palermo e nell'area della città, era pari a litri 275,08. Si divideva in 16 tumoli (ciascuno litri 17,193), eccezionalmente in 8 tumoli. Per il vino la salma, di capacità eguale a quella degli aridi, era partita in 8 barili (litri 34,386). Per l'olio misura ufficiale era quella della regione che ne era maggiore produttrice, la Puglia: lo staio di Bari di litri 20,59, per le grosse partite il migliaio corrispondente a 8 cantari di Sici lia. Nell'isola l'olio si vendeva a peso, per cantaro (kg. 79,342), in 10 cafisi di 10 rotoli (kg. 7,934 pari
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Misure del tempo e delle cose
a litri 8,56, e cioè a 1/2 tumolo) o in 5 cafisi di 20 rotoli (de ll a capacità di 1 tumolo). Base dei pesi può considerarsi l'oncia di grammi 26,4473. 12 onze erano una libbra (grammi 317,368), 30 un rotolo. 250 libbre, o 100 rotoli, erano 1 cantaro (kg. 79,342). In Messina e nella Sicilia orientale queste erano misure « sottili »; il cantaro adoperato anche per derrate di largo consumo (quale il cado) era di 110 rotoli. La moneta era indicata negli atti nel rapporto ponderale con l'oro. L'onza ponderis generalis (grammi 26,647) si divideva in 30 tari, 600 grana, 3600 denari. (Quindi 1 onza = 30 tari; 1 tari = 20 grana; 1 grana = 6 denari.) L'onza d'argento era di 33 tari. Alle monete coniate in Sicilia era attribuito valore ufficiale in rapporto al peso d'oro: fu, sia per l'augustale coniato sotto Federico II sia per il carlino emesso sotto Carlo I, tari 7 1/2. Il peso non corrispondeva al corso imposto, e a parte le spese di zecca e di distribuzione, la messa in circolazione sembra rappresentasse operazione vantaggiosa per il fisco (fu contestazione mossa a Federico, e fu tra le vessazioni attribuite a Carlo d'Angiò). Non mancarono per altro iniziative di circolazione forzosa, assolutamente sganciata da corrispondenza metallica, che suscitarono . reazioni per cornprensiva diffidenza e timore di frode e per le difficoltà che insorgevano nei confronti di operatori forestieri e nel cambio con monete straniere. (Sotto Guglielmo I pare si sia verificata una emissione di monete di cuoio, prontamente rientrata per le proteste provocate.) Le monete coniate in zecche straniere seguivano talora un corso ufficiale, ma in genere il cambio era legato, a parte speculazione e motivi occasionali o propri dell'operazione, al peso e alla qualità dell'intrinseco. Quando dalle fonti abbiamo riportato monete di conio, abbiamo cercato di accompagnarle, ove possibile, con il rapporto dichiarato con quella di conto o con la valutazione corrente in quel lasso di tempo in Sicilia. In linea generale, nel dare misure del tempo e delle cose, abbiamo cercato di aderire alle fonti, presentandole nei modi di esse e dichiarando rapporti e riferimenti istituiti a razionale complemento o esplicazione. Per la cronologia è parso opportuno rifare il computo secondo l'uso odierno, segnalando discrepanze là dove possa sussistere esigenza di precisazione o materia di questione. Pure, in più di un'occasione il riferimento all'indizione ci è parso quanto meno utile per le coincidenze e le implicazioni concrete e funzionali con essa connesse.
ABBREVIAZIONI Amato A.S.P. « A.S.S. » « A.S.S.O. » Atti acc. B.A.S.
Battaglia
Amato di Montecassino, Storia dei normanni, ed. V. De Bartholomaeis, in F.S.I., Roma 1935. Archivio di Stato di Palermo. « Archivio storico siciliano » o « Archivio storico per la Sicilia ». « Archivio storico per la Sicilia orientale ». Atti dell'Accademia di scienze lettere e arti di Palermo. M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, Leipzig 1857 e App. 1875 e 1887; trad. it., 2 voll., Torino 1880-1881 e App. 1889. G. Battaglia di Nicolosi, I diplomatici inediti relativi all'ordinamento della proprietà fondiaria in Sicilia sotto i normanni e gli svevi, fasc. 2,
Palermo 1895. « Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani » Brandileone F. Brandileone, Il diritto romano nelle leggi normanne e sveve del regno di Sicilia, Torino 1884 (ed. delle assise). P. Collura, Le più antiche carte dell'Archivio Collura capitolare di Agrigento, Palermo 1961. Cusa S. Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale..., 2 voll., Palermo 1868. G. B. De Grossis, Catana sacra, Catania 1654. De Grossis La Historia o Liber de Regno Sicilie e la EpiFalcando « Bollettino »
stola ad Petrum Panhormitane Ecclesie thesaurarium, ed. G. B. Siragusa, in F.S.I., Roma
Garufi, Catalogo Garufi, Documenti Gregorio, Bibliotheca
1897. G. B. Garufi, Catalogo illustrato del tabulario di S. Maria Nuova di Monreale, Palermo 1902. C. A. Garufi, I documenti inediti dell'epoca normanna in Sicilia, Palermo 1899. R. Gregorio, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere,
Guillou
2 voll., Palermo 1791. A. Guillou, Les actes grecs de S. Marie de Messine. Enquête sur les populations grecques
Abbreviazioni e note
294
H.B. Jamsilla
de l'Italie du Sud et de Sicile (XIe-XIVe siècle), Palermo 1963. J. L. A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici Secundi, 6 voll., Paris 1852-1861. Niccolò Jamsilla,, Historia de rebus gestis Friderici II imperat'oris eiusque filiorum [Conradi et Manfredi], in R.I.S., VIII, 491 584. K. A. Kehr, Die Urkunden der Normannischsicilischen Könige, Innsbru ck 1902. Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, ed. E. Pontieri, in R.I.S., n. ed., V, -
Kehr
Malaterra
Ménager Mongitore, Bullae
Mongitore, Monumenta
Pirri Reg. ang.
Riccardo di San Germano Rollus rubeus
Romualdo
Città di Castello 1928. L. R. Ménager, Les actes latins de S. Maria di Messina, Palermo 1963. A. Mongitore, Bullae, Privilegia et Instrumenta Panormitanae Metropolitanae Ecclesiae, Palermo 1734. A. Mongitore, Monumenta historica Sacrae Domus Mansionis SS. Trinitatis militaris ordinis Theutonicorum Urbis Panormi et magni eius praeceptoris, Palermo 1731. R. Pirri, Sicilia sacra, III ed. con emende e
aggiunte di V. M. Amico, Palermo 1733 (2 voll. con numerazione continuata). I registri della Cancelleria angioina, ricostruiti da R. Filangieri di Candida e dagli Archivisti napoletani, Napo li 1950 sgg. Riccardo di San Germano, Chronica, ed. C. A. Garufi, in R.I.S., n. ed., VII, parte II, Città di Castello 1938. C. Mirto, Rollus rubeus. Privilegia Ecclesiie Cephaleditanx, a c. di C. Mirto, Palermo 1972. Romualdo Salernitano, Chronicon, ed. C. A. Garufi, in R.I.S., n. ed., VII, parte I, Città di C as tello 1935. Saba Malaspina, Rerum Sicularum libri VI ab anno Christi MCCL ad annum MCCLXXVI, in R.I.S., VII, 781 874. G. C. Sciacca, Patti e l'amministrazione del Comune nel Medio Evo, Palermo 1903. R. Starrabba, I diplomi della cattedrale di Messina raccolti da A. Amico, Palermo 1878. E. Winkelmann, Acta Imperii inedita seculi .
Saba
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Sciacca Starrabba Winkelmann
XIII. Urkunden und Briefe zur Geschichte des Kaiserreichs und Königsreichs Sicilien in den Jahren 1198 bis 1273, 2 voll., Innsb ru ck 1880-
1885.
NOTE I. L'eredità musulmana. Tipi e distribuzione degli abitati
Ampio spazio è dedicato alla geografia della Sicilia sotto i musulmani nella fondamentale opera di M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, 3 voll ., Firenze 1854-1872, ora consultabile nella ed. modificata e accresciuta dall'A. e pubblicata con note di C. A. Nallino, Catania 1933-1939, rist. anast., Catania 1977 (dalla quale citiamo). In particolare: il viaggio e la descrizione di Palermo di Ibn Hawqal (II, pp. 336-54), le notizie sull'isola in al-Muqaddasi (II, pp. 354-63); che hanno riscontro di fonti in B.A.S., pp. 4-11 (trad. it., I, pp. 10-27), e App., pp. 54-7 (trad. it., II, pp. 668-75), e Yagnt , in B.A.S., pp. 105-26 e 127-32 (trad. it., I, pp. 181219, e pp. 220-5). Rassegna di studi successivi sulla Sicilia musulmana e panorama storiografico di insieme, F. Gabrieli, Un secolo di studi arabo siculi, in « Studia islamica », II, 1954, pp. 89 102; Id., La storiografia arabo islamica in Italia, Napoli 1975. Sulle maggiori città, attraverso le fonti raccolte da M. Amari e referti linguistici e indagini sul terreno: M. Columba, Per la topografia antica di Palermo, in Centenario di Michele Amari, 2 vo ll ., Palermo 1910, II, pp. 395 426 (pp. 398 9); Il. Peri, Il porto di Palermo dagli arabi agli aragonesi, in « Economia e storia » , 1958, pp. 422 69 (pp. 425 37); Id., Per la storia -
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della vita cittadina e del commercio nel Medioevo. Girgenti porto del sale e del grano, in Studi in onore di A. Fanfani, I. Antichità e Medioevo,
Milano 1962, pp. 531-618 (part. pp. 555-84).
t L'esistenza di giacimenti di ferro in sfruttamento nei pressi di Palermo, dati per certi da M. Amari (Storia dei musulmani cit., II, pp. 343-4), trova aggancio nel nome di una de lle porte de lla città noverate da Ibn Hawqal (B.A.S., p. 8), la bab al hadid (e cioè « porta di ferro », come Amari stesso traduce nella Storia dei musulmani cit., II, p. 346 nota, e non « porta di ferro » come nella traduzione della B.A.S., I, p. 20): porta che stava accosto ad altra che si apriva presso la « contrada dei fabbri ». Amari (II, pp. 506-7) per altro fa giustizia de lle « immaginazioni » su miniere d'oro nell'Etna. 2 Per il ruolo del legno nell'economia siciliana e per le sollecitazioni soprattutto dall'Africa settentrionale, M. Lombard, Arsenaux et bois de marine dans la Méditerranée musulmane (VIIe-IXe siècle), in Le navire et l'économie dans la Méditerranée musulmane. Travaux du II' Colloque international d'histoire maritime, Paris 1958, pp. 54-106 (part. pp. 59, 79,
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82 3, 94 5); Id., Le bois dans la Méditerranée musulmane (VIIe-Xe siècle), in « Annales », XIV, 1959, pp. 234-54. 3 Per la tipologia delle abitazioni in epoca musulmana, oltre qualche agevole corrispondenza tra onomastica e reperti persistenti (Gurfa, oggi in territorio di Alia) o vasti resti con agganci anteriori (Pantalica), interessante la descrizione del quartiere girgentino del Balatizzo di S. Bonfiglio, Girgenti. Villaggio bizantino nel Balatizzo, in « Notizie degli scavi», 1901, pp. 511-20, e le puntualizzazioni cronologiche di P. Orsi, Rettifica archeologica, in « Bullettino di paletnologia italiana », XVIII, s. 2, t. III, 1901, p. 206. 4 Riferimenti puntuali alle fonti (Ibn Haldùn, Edrisi, ecc.) sulla tipologia delle abitazioni nel Magrib e alla letteratura sulle larghe persistenze ancora nel nostro secolo in Il. Peri, Per la storia cit., pp. 569-71. In Sicilia il pagliaio continuò per tempo ad essere abitazione usuale nell'agro. Esemplare la clausola di divisione del casale Milocca nel gennaio 1278 (Collura, pp. 235-8) : « quod quilibet habitator eiusdem casalis valeat ire ad abitandum in quacumque parte casalis eiusdem et deferre paliarium suum in quacunque parte casalis eiusdem et omnia sua bona, in qua parte uoluerit habitare (...) ». Ma anche nei sobborghi delle città e di Palermo stessa le abitazioni in pietra furono considerate con meraviglia (« hospitia magna, et mansiones edificatas ad lapidem et calcem, que hodie sunt diruta quasi in totum, et dicuntur de Sancto Iohanne de Leprosis », nel Chronicon Siculum ab anno circiter DCCCXX ad annum MCCCXLIII, in Gregorio, Bibliotheca, II, f. 124. Secondo l'anonimo autore questi edifici, che nel tardo secolo XII destavano l'ammirazione di Ibn Giobayr e furono esaltati nella Epistola ad Petrum, sarebbero stati costruiti dai normanni quando assediavano Palermo; il che non è né provato né verisimile). Qualche spunto sul rapporto fra regime fondiario e insediamenti rurali è nel saggio di H. H. Abdul Wahbab e F. Dachraoni, Le régime foncier en Sicile au Moyen Age, in Etudes d'orientalisme dediés à la mémoire de Lévi Provençal, Paris 1962, II, pp. 401 4. -
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II. Il mare, i fiumi, i porti, le città Descrizione analitica degli abitati è lo studio preliminare, Geografia di Sicilia sotto i normanni (I, pp. 5-301, e aggiunte e rettifiche, II, pp. 297302) di Il. Peri, Città e campagna in Sicilia. Dominazione normanna, 2 voll., Palermo 1953-1956 (fascicoli 1 e 4 degli Atti acc., s. 4, vol. XIII, parte II).
Ad esso rimandiamo per i riferimenti puntuali alle fonti. Per città singole e comprensori, oltre quelli ricordati al cap. I, pp. 26-7: V. Di Giovanni, La topografia di Palermo dal secolo X al secolo XV, 2 voll., Palermo 1880; R. La Duca, Bibliografia della urbanistica e della architettura palermitana, in « Quaderni dell'Istituto di Elementi di architettura e di rilievo della Facoltà di Architettura dell'Università di Palermo », nn. 2-3, maggio 1964; V. Picone, Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1861 sgg.; G. Agnello, Siracusa medievale, Catania 1926; P. Pieri, La storia di Messina nello sviluppo della sua vita comunale, Messina 1939; C. Trasselli, I privilegi di Messina e di Trapani (1160-1345), Palermo 1949; G. Fasoli, Tre secoli di vita cittadina catanese. 1092-1345, in «A.S.S.O. », s. 4, VII, 1954, pp. 116-43; S. Boscarini, Vicende urbanistiche di Catania, Catania 1966. Fonte fondamentale è il Libro di Edrisi che si cita nella ed. e trad. it.
Note al cap. II
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di M. Amari e C. Schiaparelli, L'Italia descritta nel Libro di re Ruggero compilato da Edrisi, in Atti della R. Accademia dei Lincei, sez. 2, vol. VIII, Roma 1883. Il diario di Ibn Giobayr è in B.A.S., pp. 76-104 (trad. it., I,
pp. 137-80); i passi di Beniamino di Tudela sono dalla trad. in latino in G. B. Caruso, Bibliotheca Historica Regni Siciliae, Palermo 1723, p. 1000. (L'insieme, The Itinerary of Benjamin of Tudela, ed. M. N. Adler, London 1907). Altra fonte essenziale, la Epistola ad Petrum, è edita con la Historia del Falcando. Per la ricostruzione di insieme degli eventi valgono ancora e soprattutto il vol. III di M. Amari, Storia dei musulmani cit.; e F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, 2 voll., Paris 1907 (rist. anast., New York 1960). Per ampi periodi: E. Pontieri, La
madre di re Ruggero: Adelaide del Vasto contessa di Sicilia regina di Gerusalemme, in Atti del convegno internazionale di studi ruggeriani. 2125 aprile 1954, 2 voll., Palermo 1955, II, pp. 327 432: E. Caspar, Roger II und die Gründung der Normannisch Sicilischen Monarchie, Innsbruck 1904; G. B. Siragusa, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, Palermo 19292; I. La Lumia, La Sicilia sotto Guglielmo il Buono, Palermo 1881, ristamp. con -
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Intr. di F. Giunta, Palermo 1969 (opera felice in alcune intuizioni); E. Jamison, Admiral Eugenius of Sicily, London 1957 (notevole, al di là della proposta identificazione del c. d. Falcando con l'ammiraglio Eugenio, come ricostruzione degli anni dei due Guglielmo).
I I diplomi di fondazione delle prime chiese vescovili già in Pirri (alle notizie sui vescovadi), in R. Starrabba, Contributo allo studio della
diplomatica siciliana dei tempi normanni. Diplomi di fondazione delle chiese episcopali di Sicilia, in «A.S.S. », XVIII, 1893, pp. 30 sgg. Per le altre, cfr. Sciacca (Patti), Collura (Agrigento), Rollus rubeus (Cefalù). Garufi, Catalogo (Monreale).
2 Il ricordo di gravi distruzioni nei documenti di fondazione delle chiese vescovili di Agrigento e Mazara (R. Starrabba, Contributo cit., pp. 48-52). Per Catania v. nota 7 di questo capitolo. 3 Su Messina al momento dell'occupazione nelle fonti normanne: Malaterra, II, 1; Amato, p. 238. 4 Per il terremoto nella Sicilia orientale Falcando, p. 164; Romualdo Salernitano, p. 258 (che riferisce la data: « febbraio 1168 ind. II alla vigilia della festa di S. Agata », e cioè, con il computo dell'incarnazione in uso in Sicilia, il febbraio 1269). 5 Riferimenti bibliografici e elenco e descrizione dei monumenti, G. De Stefano, Monumenti della Sicilia normanna, Palermo 1955 (in ristampa). Fra gli studi posteriori: E. Kitzinger, I mosaici di Monreale, Palermo 1960; R. Salvini, Il chiostro di Monreale e la scultura romanica in Sicilia, Palermo 1962; W. Krönig, Il duomo di Monreale e l'architettura romanica in Sicilia, Palermo 1965; Id., Vecchie e nuove prospettive sull'arte della Sicilia normanna, in Atti del congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna, Palermo 1973, pp. 132 45; M. G. Paolini, Considerazioni su edifici civili di età normanna a Palermo, in Atti acc., s. 2, vol. XXIII, fasc. 2 (1974), pp. 299-392; F. Basile, L'architettura della Sicilia normanna, CataniaCaltanissetta-Roma 1975. Per la tessitura della seta, U. Monneret de Villard, La tessitura palermitana sotto i normanni e i suoi rapporti con l'arte bizantina, in Miscellanea G. Mercati, vol. III, Città del Vaticano 1946, pp. 464-89, 6 Nella iscrizione sepolcrale del vescovo Angerio nota attraverso l'Opus di Matteo Selvaggio (1542) e ripubblicata da G. Fasoli, Tre secoli cit., -
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pp. 143-4 si leggeva: « istius Ecclesiae primus fundamenta feci / muros et turres faciendaque feci (...) ». 7 Nella cit. epigrafe del vescovo di Catania: « Struxi piscinas, hortos, virgultaque sevi, / quae satis esse queant praesentibus in usibus aevi, / innumeras colui vites, ficus et olivas »; che può essere attestato dalla partecipazione al rilancio agricolo e documento della fisionomia de lla città al punto di partenza (per cui anche: « ruinosas reparavi civibus aedes / quae fuerant avibus nocturnis antea sedes »).
Note al cap. V
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/redo di Lesce signore di Noto, Sclafani e Caltanissetta, II. Adelicia di Adernò, in « A.S.S.O. », IX, 1912, pp. 159-97. 3 Per gli insediamenti gallo-italici e le immigrazioni v. i riferimenti bibliografici del cap. VII e la nota 13 al cap. IX.
V. Abitati nuovi e residenze abbandonate Per i riferimenti alle fonti sulle singole località, cfr. sempre Geografia
III. La terra: il castello, il borgo, i casali La letteratura sugli abitati medi e minori insiste sugli aspetti giuridici e ammnistrativi: da R. Gregorio, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni al presente, Palermo 1805 (citiamo dalle Opere scelte, Palermo 1845; da cui è stata tratta la ristampa con Intr. di A. Saitta, Palermo 1972) a L. Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo 1921. Inclinazioni verso l'esame dell'ambiente in M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, pp. 795 801 e nel nostro Città e campagna cit., II, pp. 11-60. -
t Sul documento controverso della concessione del casale del Gallo e sulla donazione di Tancredi al vescovo di Siracusa, Il. Peri, Il villanaggio in Sicilia, Palermo 1965, pp. 54 e 57. 2 Le platee degli uomini appartenenti all'abbazia vescovile di LipariPatti in C. A. Garufi, Censimento e catasto della popolazione servile. Nuovi
studi e ricerche sull'ordinamento amministrativo dei Normanni in Sicilia nei secoli XI e XII, in « A.S.S. », n. s., XLIX, 1928, pp. 1-100 (part.
pp. 92-6). Quelle dei territori dell'arcivescovado di Monreale in Cusa pp. 134-79 (maggio 1178); pp. 179-244 (maggio 1182); pp. 245-86 (apr. 1183); e per la distribuzione V. D. Di Giovanni, I casali esistenti nel territorio della chiesa di Monreale nel secolo XII, in « A.S.S. », n. s., XVII, 1892, pp. 438-96. Abbiamo riportato i toponimi seguendo la traslazione dall'arabo dei regesti curati dall'editore dei documenti.
!V. Terre della costiera e terre dell'interno I riferimenti alle fonti sulle singole località possono riscontrarsi, anche per questo capitolo, nello studio Geografia di Sicilia, in Città e campagna cit. Per il comprensorio madonita, Il. Peri, I paesi delle Madonie nella descrizione di Edrisi, in Atti del convegno internazionale di studi ruggeriani cit., pp. 627 60. Per la distribuzione delle fondazioni religiose, L. T. White, Latin Monasticism in Norman Sicily, Cambridge (Mass.) 1938; C. A. Garufi, Per la storia dei monasteri in Sicilia nel tempo normanno, in « A.S.S. », VI, 1940, pp. 1 96 (aggiunte e proposte di revisione al libro di White); M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale, Roma . 1947. t Per le vicende di Focerò nel contesto della reggenza di Adelaide, E. Pontieri, La madre cit., pp. 368-70. 2 Sui possedimenti siciliani dei Montescaglioso e di Adelicia, C. A. Garufi, Per la storia dei secoli XI e XII. I conti di Montescaglioso, I. Got-
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di Sicilia cit., in Città e campagna cit.
t Per l'epidemia del 1106 in Palermo, quanto meno marcandone l'incidenza, F. Maggiore Perni, Palermo e le sue grandi epidemie dal secolo XVI al XIX, Palermo 1894, p. 124. 2 Libellus de successione pontifccum Agrigenti, in Collura, p. 307. 3 La ipotesi sulle circostanze della distruzione di Qal`at as-Sirat in M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, p. 291. I due diplomi relativi al magister burgensis di Golisano in Garufi, Documenti, pp. 39-40 (giugno 1140), pp. 185-8 (nov. 1183). 4 Per le fonti e la letteratura su Piazza, Il. Peri, La questione delle colonie lombarde in Sicilia, in « Bullettino storico-bibliografico subalpino », LVII, 1959, fasc. 3-4, pp. 3-30 (part. pp. 15-8). 5 Casali « deserti » oltre che nelle giaride del 1182 (Cuss, pp. 179-84) in atto del dic. 1188, in C. A. Garuffi, Monete e conî nella storia del diritto siculo dagli Arabi ai Martini, in « A.S.S. », n. s., XXXIII, 1898, pp. 1-171 (doc. II). -
VI. Agi e disagi antichi e nuovi t Libellus de successione, in Collura, p. 301: « Datum fuit eidem Ecclesie Casale Catta in demanium cum centum uillanis Sarracenis capi -taneis,cumfl potibs,nquhaefrmiglsdbu mercurii, cum redditibus suis et balneum pro tots regione (...) ». 2 « qui in villis et casalibus habitat » è nella const. II, 32, attribuita direttamente a Federico II (H.B., IV, parte I, pp. 103-5). 3 La sicurezza sotto i normanni era rimpianta e esaltata in epoca sveva da Riccardo di San Germano, p. 4: « ubique pax, ubique securitas, nec latronum metuebat uiator insidias, nec maris nauta offendicula pyratarum ». 4 Per le iniziative di dissodamento da parte di Angerio a Catania v. nota 7 al cap. II. Per Riccardo Palmer a Siracusa la notizia di Scobar ripresa da Pirri: « Piantavit etiam Olivetum apud Trimelium » (S. Privi Storia di Siracusa antica e moderna, Napoli 1879, rist., Bologna 1971,-tera, p. 23 nota e p. 25). Per Agrigento il vanto al quinto vescovo, Gualtiero « francigena », nel Libellus de successione (Collura, p. 307): « ab ipso plantate fuer(unt) uinee Hanee et Casuanie ».
Abbreviazioni e note
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VII. « Populo dotata trilingui »
« Hactenus urbs felix, populo dotata trilingui »: Pietro da Eboli,
Carmen de rebus Siculis. Liber ad honorem Augusti, ed. E. Rota, in R.I.S.,
n. ed., XXI, Città di Castello 1904, 1. I, III, 56 (p. 15). I problemi relativi alla composizione etnica, linguistica e religiosa trovano avvio e riferimento nella Storia dei musulmani cit. (part. vol. II, pp. 48-61, 248-51, 456-75 per il periodo prenormanno; II, pp. 208-39 e passim per il normanno). Per la componente musulmana, gli unici apporti successivi consistenti possono rinvenirsi nei reperti linguistici (part. G. B. Pellegrini, Terminologia araba in Sicilia, in Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all'Italia, 2 voll., Brescia 1972, I, pp. 237 82). Per la popolazione greca persistente validità di proposte, P. Batiffol, L'abbaye de Rossano. Contribution à l'histoire de la Vaticane, Paris 1891; J. Gay, Notes sur l'hellenisme sicilien de l'occupation arabe à la conquête normande, in « Byzantion », I, 1924, pp. 215-28. Per le vicende e taluni aspetti culturali nell'ambito proposto dal titolo, M. Scaduto, Il monachesimo cit.; L. R. Ménager, La byzantinisation religieuse de l'Italie méridio-
Note al cap. VIII
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rilatinizzazione dopo il crollo della dominazione araba è stata sostenuta con cost an te approfondimento e aggancio alle ricerche degli storici da G. H. Rohlfs, Die Quellen aus unteritalienischen Wirtschaft für die Romanische Philologie, 1926; Scavi linguistici nella Magna Grecia, Roma 1933, e, più recenti e rimeditati, Correnti e strati di romanità in Sicilia, in « Bollettino », IX, 1965, pp. 74 105; Nuovi scavi linguistici nella Magna Grecia, Palermo 1972; Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina 1975 (edizione vastamente rielaborata e aggiornata); Historische Sprachschichten in modernen Sizilien, München 1975 (Bayerische Akademie der Wissenschaften Philosophische-Historische Klasse, Hft. 3). -
VIII. Gruppi di potere e uomini di servizio
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nale (IXe-XII• siècle) et la politique monastique des Normands d'Italie,
in « Revue d'histoire ecclésiastique », LIII, 1958, pp. 747-74 e LIV, 1959, pp. 5-40. Più largo verso apporti culturali e verso la presenza nell'amministrazione e in politica, F. Giunta, Bizantini e bizantinismo nella Sicilia normanna, Palermo 1974 (la I ed. in Palermo, 1950). Su una documentazione limitata e ristretta a una fascia territoriale in condizioni particolari, A. Guillou, Inchiesta sulla popolazione greca della Sicilia e della Calabria nel Medio Evo, in « Rivista storica italiana », LXXV, 1963, ripresentata quale Introduzione agli Atti in greco del monastero di S. Maria di Messina. Riepilogo storiografico e proposte interpretative in Il. Peri, Resistenza e decadenza dei greci di Sicilia, in Atti del HI Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 1959, pp. 485 94; Id., Alle origini dell'ellenismo nella Sicilia, in Byzantinische Forschungen, I, Amsterdam 1966, pp. 260 8. Apporti linguistici con offerta di reperti etimologici, G. Alessio, L'elemento greco nella toponomastica della Sicilia, in « Archivio storico catanese », XI-XII, 1946-47, pp. 16-63, e in « Bollettino », I, 1953, pp. 65-106. Per i latini, con riferimento alla penetrazione e diffusione delle fondazioni religiose, L. T. White, Latin Monasticism cit.; C. A. Garufi, Per la storia dei monasteri cit. Su più ampio spettro (persistenze, immigrazioni, conversioni), Il. Peri, Sull'elemento latino nella Sicilia normanna, in « Bollettino », II, 1954, pp. 349-66. La « latinizzazione » o « rilatinizzazione » è stata particolarmente sensibilizzata dai filologi con attenzione più o meno privilegiata alle colonie gallo-italiche (su cui v. nota 13 al cap. IX) e vario aggancio con le fonti dell'epoca. Punto di avvio, con documentazione che oggi risulta palesemente esigua, N. Maccarrone, La vita del latino in Sicilia, Firenze 1915. La continuata latinità del siciliano « in quanto linguaggio parlato » è stata sostenuta, con aggancio e non senza note polemiche con Rohlfs, da A. Pagliaro (Aspetti della storia linguistica della Sicilia, in « Archivum Romanicum », XVIII, 1934, pp. 290 5; Sulla latinità della Sicilia, in Atti del III Congresso nazionale di studi romani, Bologna 1935, vol. IV, pp. 91 101), e da G. Alessio (Sulla latinità della Sicilia, in Atti acc., parte II, s. 4, vol. VII, 1948, pp. 287-510; vol. VIII, 1949, pp. 73-156). La -
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1 Di Scolaro-Saba (vicende, condizioni economiche) è testimonianza autobiografica il testamento (Pirri, p. 1000). Un fratello di Scolaro fondò un monastero nel quale si ritirò (M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, p. 266). Dei discendenti, Nicola nel 1145 era logoteta in Calabria (E. Caspar, Roger II cit., regesto n. 201) e fu anche ammiraglio (C. A. Garufi, Censimento cit., p. 46). Dei Graffeo, Giovanni in un documento del 1183 figura fra gli arconti del secreto (Cusa, pp. 432-4) e con atto probabilmente del 1189 (Guillou, pp. 208-24), fondò il monastero di S. Maria di Bordonaro presso Messina (su cui M. Scaduto, Il monachesimo cit., pp. 116-21). 2 Il documento del 1193 di fondazione del convento nella casa in Palermo che era stata di Adelicia di Golisano in Garufi, Documenti, pp. 255-7 (e cfr. G. Di Stefano, Monumenti cit., pp. 84-5). 3 Per la partecipazione dei greci alla organizzazione della contea C. A. Garufi, Censimento cit., pp. 1-59; F. Giunta, Bizantini cit., pp. 55-63; Il. Peri, Città e campagna cit., II, pp. 174-80. Su Nicola ostiario, Kehr, pp. 68-9. Su Cristodulo, C. A. Garufi, Il più antico diploma purpureo in
scrittura greca ed oro della Cancelleria normanna di Sicilia per il protonobilissimo Cristobulo. 1094-1131 (?), in « A.S.S. », n. s., XLVII-XLVIII,
1926-1927, pp. 105-36. 4 Su gaito Pietro, che « sicut et omnes eunuchi palatii nomine tantum habituque christianus erat, animo sarracenus », Falcando, p. 25, e anche pp. 83, 90, 98. La proposta di identificazione con Ahmad il siciliano illustratosi in Marocco nella guerra santa (Ibn Halden, in B.A.S., p. 462, trad. it., II, pp. 166-7) è di M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, pp. 505-6. 5 Su Filippo di al-Mandiyah il passo di Ibn al-Atir in B.A.S., pp. 299300 (trad. it., I, pp. 479-80) e Romualdo, p. 235. 6 Per lo scontro fra feudatari e Adelaide, E. Pontieri, La madre cit., pp. 368-9. 7 La partecipazione dei musulmani all'esercito: Elia Cartoni, Malaterra, III, 18; III, 39 (cfr. M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, p. 158); la campagna contro Guglielmo di Grantismenil: Malaterra, IV, 17 e IV, 21; ad Amalfi. Lupo Protospataro, in R.I.S., V, ad ann. 1096; Pietro Diacono, in M.G.H., SS, VII, IV 12; Annales Cavenses, in M.G.H., SS, III, ad ann. 1096; campagna del 1098: Malaterra, IV, 19; frombolieri al seguito di Adelasia: Alberto di Aix cit. da M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, pp. 340-1; Ruggero II « rex Sarracenorum » e il suo esercito: Falcone Beneventano, in C. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni della dominazione normanna nel Regno di Puglia e di Sicilia, 2 voll., Napoli 1845 1865, I, -
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pp. 211-2; assedio di Piazza: Falcando, p. 73; sui musulmani a Tessalonica: M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, pp. 547-9; Eustazio, Espugnazione di Tessalonica, ed. a cura di S. Kiriakidis, trad. di V. Rotolo, pp. 136-7, 150-1. 8 Le osservazioni correnti di E. Caspar, Roger II cit., p. 6; F. Chalandon, Histoire cit., II, pp. 499 sgg.; C. Cahen, Le régime féodal de l'Italie normande, Paris 1940, p. 55 trovano rispondenza nelle più vivaci velleità della feudalità dell'Italia meridionale di formazione in larga parte anteriore all a conquista normanna. La documentazione esistente suffraga comunque la tesi della vasta disseminazione nell'isola della feudalità minore accanto a quella ecclesiastica (Il. Peri, Signorie feudali della Sicilia normanna, in « Archivio storico italiano », CX, 1952, pp. 172-204; M. Carnavale, La feudalità nella Sicilia normanna, in Atti del congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna cit., pp. 21 -50, part. pp. 21 - 4; V. D'Alessandro, Il problema dei rapporti tra Roberto il Guiscardo e Ruggero I, nel vol. Roberto Guiscardo e il suo tempo, Roma 1975, pp. 91 - 105). 9 Risale al 1116 la concessione di una casa con fondaco in Messina alla colonia genovese rappresentata da un proprio console di nome Ogerio (Cusa, pp. 359-60); nella stessa città il consolato dei pisani risale al 1189 (D. Abulafia, The Two Italies. Economic Relations between the Norman Kingdom of Sicily and the Northern Communes, Cambridge 1977, pp. 279280). La chiesa dei veneziani dedicata a S. Marco nel Seralcadio in Palermo è degli anni di Ruggero II, intorno al 1144 (Garufi, Documenti, pp. 41-5, da transunto del 1309, e rif. in doc. del febbr. 1172, ivi, pp. 149-50). Oltre i riferimenti nella toponomastica dell'epoca, rinvii per le presenze nei porti siciliani e le voci e direzioni degli scambi in Il. Peri, Il porto di Palermo cit., pp. 456-9. Con particolare attenzione possono essere seguiti gli investimenti e le contrattazioni compiuti in Genova, per l'esistenza di un certo numero di cartulari notarili dalla metà del sec. XII. Gli atti per affari terminali sui porti dell'isola rappresentano costantemente, pur nelle variazioni congiunturali legate anche ad avvenimenti politici e militari, cospicua fetta degli investimenti, an che senza tener conto delle operazioni e dei rifornimenti che avevano luogo nelle piazze siciliane, scalo frequente negli affari verso l'Africa e inevitabile in quelli verso il levante del Mediterraneo (grafici statistici in E. Bach, La cité de Gênes au XIIe siècle, Copenhagen 1955; e in D. Abulafia, The Two Italies cit.). Le strutture del commercio genovese con il Regno (D. Abulafia, The Two Italies cit., parte III, pp. 217-82) evidenziano, con aderenza alle clausole dei trattati di Commercio, quali voci più consistenti di esportazione dall'isola prodotti cerealicoli e della pastorizia, con largo spazio al cotone e a panni di scarsa qualità, mentre (ed è fatto di chiara significazione sul piano sociale) tra le importazioni, oltre che i generi di lusso dei quali gli operatori dell'Italia centro-settentrionale erano portatori e intermediari dall'oriente, avevano spazio crescente tessuti di varia provenienza dall'occidente (pp. 255-64, 283-4). Gli Atti della geniza del Cairo attestano, d'altra parte, e coerentemente, la esportazione dalla Sicilia verso i porti del Nord-Africa dal tardo sec. XI alla metà del XII, oltre che di cereali e legumi, di cotone e, fra i generi di lusso, di corallo (p. 276). L'esame specifico di questi documenti, anzi, presenta quali voci di esportazione dall'isola nel Nord-Africa seta, panni non pregiati (i caratteristici turbanti) e in quantità cereali e frutta secca (S. D. Goitein, Sicily and Southern Italy in the Cairo Geniza Documents, in « A.S.S.O. », LXVII, 1971, pp. 9-33, part. pp. 13-5). Che è il quadro che risulta partitamente nelle voci seppur non nei termini quan-
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titativi, tra le fonti interne all'isola, dalle gabe lle di Palermo. Per le interrelazioni fra relazioni politiche e commerci, G. Pistarino, I Normanni e le repubbliche marinare, in Atti del congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna cit., pp. 241-62 e soprattutto D. Abulafia, The Two Italies cit., parte II, pp. 59-213. 10 Per l'interessamento e gli interventi degli Altavilla nel commercio dei cereali e lo stimolo involutivo dei livelli borghesi che ne consegui, Il. Peri, Città e campagna cit., II, pp. 245-6, pp. 281-4 e nelle linee di insieme C. Cipolla, Storia dell'economia italiana, Torino 1959, I, p. 11. L'incontro di Ibn Giobayr con il gaito Abu al-Qasim, in B.A.S., pp. 102-3 (trad. it., I, pp. 176-9). L'attività del gaito in Genova attraverso autorevoli rappresentanti locali appare dagli atti del notaio Giovanni Scriba (D. Abulafia, The Two Italies cit., pp. 247-9).
IX. Diversi per razza, diversi per casta t Il diploma del 1095 di concessione di 75 agareni di Giato, Corleone e Limina, in Cusa, pp. 1-3. 2 Il prologus alle assise del cod. cass., in Brandileone, p. 119. La varietas delle popolazioni nella assise I, De Legum interpretatione (ivi, pp. 95-6). Il privilegio del vescovo di Catania Giovanni di Aiello, con il passo « Latini, Graeci, Iudaei et Sarraceni unusquisque iuxta suam legem iudicetur », in De Grossis, p. 88; G. Fasoli, Tre secoli cit., pp. 144-5. Accettandone la datazione al 1168, esso va guardato entro questa ottica anzi che quale sollecitazione alle immigrazioni dopo il terremoto del febbraio 1169. 3 La prima concessione in ordine cronologico, fra le pervenute, è di Sichelgaita all'arcivescovo di Palermo (G. e B. Lagumina, Codice diplomatico dei giudei di Sicilia, vol. I, parte I, Palermo 1884, pp. 9-10), confermata da Federico II con formulazione più esplicita e aggiungendovi totam tinctam nel genn. 1211 (ivi, pp. 12-4), confermata nell'ottobre (pp. 4-15) e ancora nel 1215 (ivi, pp. 16-7). Della chiesa agrigentina si ha la conferma del 1254 (ivi, p. 21); dell'arcidiaconato di Messina la restituzione nel 1267 (ivi, pp. 22-3). Del 1271 sono il riconoscimento alla chiesa messinese della gisia Iudeorum nonché « de convicio magariae, Iudegiae (idest cum alicui Christianorum objicitur quod egit cum Iudaea vel e converso), Sarraceniae (cum alicui mulieri dicatur quod ivit ad Sarracenos et de corpore suo quaestum faceret) » (ivi, pp. 24-5), e la conferma della gisia e iocularia dei giudei in Agrigento, Sciacca e Licata (ivi, pp. 25-6). Giudei erano iscritti nelle platee di Catania; a Termini la gisia fu concessa dalla contessa Adelasia all'abbazia di S. Bartolomeo in Lipari; a Siracusa l'università ebraica era data in balia; di ebrei è fatta specifica menzione in un elenco di sudditi fatto compilare dai vescovi di Cefalù; ricordi episodici se ne hanno a Naso, a Fitalia, nella toponomastica di Giato (i riferimenti ai documenti in Il. Peri, Città e campagna cit., II, pp. 212-3). Per l'attività culturale entro la comunità israelita di Palermo, S. Stern, Un circolo di poeti siciliani ebrei nel secolo XII, in « Bollettino », IV, 1956 - 1959, il quale riprende (p. 40) da R. Strauss, Die Juden im Königreich Sizilien unter Normannen und Stau f en, Heidelberg 1910 e da C. Roth, The History of the Jews of Italy, Philadelphia 1946, pp. 81-3 la tesi dell'uso da parte dei giudei siciliani del linguaggio romanzo e dell'arabo. Questo uso ne avrebbe facilitato la funzione di veicolo commerciale « con tutti i paesi del Mediterraneo, del Marocco e della Spagna sino al-
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l'Egitto o alla Siria », di cui era convinto U. Monneret de Villard, La tessitura cit. e all a quale potrebbe venire conforto da taluni documenti della geniza di al Fustât (S. D. Goitein, A Mediterranean Society, I. Economic Foundations, II. The Community, Berkeley Los Angeles 1967 1971, e specificamente Sicily and Southern Italy in the Cairo Geniza Documents cit.). In realtà dai documenti de lla geniza si rileva la presenza di operatori israeliti siciliani nelle piazze di mare dell'Africa del nord, in calo, però, nei secoli XII e XIII; situazione che ha riscontro con la crisi in cui sotto Federico II si venne a trovare la comunità di Palermo. Storia 4 Per la schiavitù, oltre la documentazione portata da M. Amari, dei musulmani cit., III, pp. 241-4 e da F. Chalandon, Histoire cit., II, pp. 526 7: M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia dopo i Normanni, Catania 1926, pp. 19-20; Ch. Verlinden, L'esclavage en Sicile au bas moyenâge, in « Bulletin de l'Institut Historique Belge de Rome », XXXV, 1963, pp. 11-123 (part. pp. 13-6; e per il sec. XIII avanti il Vespro, pp. 16-8). 5 L'atto di affrancazione della schiava Aguglia, nel 1186, in Garufi, Documenti, pp. 209-10. p.aio ropos. TwV f>'ovpyiwv µâprvs» in Cusa, 6 La sottoscrizione «µ6Àç vi pp. 302-6. Perplessità analoghe per i documenti di Golisano su cui v. nota 3 al cap. V. Il privilegio di Cefalù in Garufi, Documenti, pp. 78-9. La sottoscrizione « ego robertus follanum » in doc. del giugno 1176 in A.S.P., Tabulario di Cefalù, perg. n. 17 (manca la sottoscrizione in Battag lia, pp. 114-8). 7 La donazione da parte di Ruggero Hammüd di 3 casali ai confini di Naro e Licata, nel 1141, in Cusa, pp. 16 -9. 8 Per il villanaggio, Il. Peri, Il villanaggio cit., particolarmente alle pp. 7-101. Per la partizione entro il villanaggio, la assise X del cod. vat. sviluppata nella assise 6 del cod. cass. e nel Rescriptum pro clericis (Brandileone, pp. 100-1, 121, 138). 9 I borghesi latine lingue, in Sciacca, doc. II. Il diploma di Librizzi del 1117 in Cusa, p. 512. L'elenco databile dal 1131 al 1148 in C. A. Garufi, Censimento cit., pp. 92-6. L'accordo per Sinagra del 1249 in R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 190 n. 4. Il doc. su Zappardino nel 1318, in Sciacca, pp. 258-62. 10 L'elenco del vescovado di Cefalù in C. A. Garufi, Censimento cit., pp. 98-100, e in Rollus rubeus, pp. 39-41 (per l'interpretazione, Il. Peri, Il villanaggio cit., p. 43 n. 30). 11 II doc. del conte Simone, in Cusa, pp. 315-7. Per Mandanici, la conferma del 1145 in Pirri, pp. 1046-7. La dotazione di S. Maria di Mili, ivi, p. 1025 (per la data, 1090, può valere la proposta di L. T. White, Latin monasticism cit., p. 42; per l'interpretazione M. Scaduto, Il monachesimo cit., pp. 81-3). Il doc. di Mesepe, C. A. Garufi, Un contratto agrario in Sicilia nel secolo XII per la fondazione del casale di Mesepe presso Paternò, in « A.S.S.O. », V, 1908, pp. 11-22 (part. pp. 19-20). Per Zaffaria, l'atto del 1176 in Starrabba, p. 43 n. 31. Sul terraggio, v. p. 209. 12 Proteste e richieste degli oppidani di Caccamo in Falcando, pp. 144-5. 13 Le esenzioni dei palermitani a ll a consuetudine XXX, De Panhormitanis civibus ad angariam, et alia servitia non trahendis (W. Brünneck, Siciliens mittelalterliche Stadrechte, Halle 1881, pp. 24-5). Il privilegio di Messina del 1160, in C. Giardina, Capitoli e privilegi di Messina, Palermo 1937, pp. 15-7; quello di Catania del 1168, in De Grossis, pp. 88-9; di Cefalù da parte di Ruggero II, in R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 203 n. 2; il rinnovo da parte del vescovo, in Garufi, Documenti, pp. 78-9. Il -
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doc. del 1133 del vescovo abate di Patti, in Sciacca, doc. I. La licenza di stare « liberi et sine molestia sicut Lombardi Randacii », in Gregorio, Considerazioni cit., p. 110 n. 1; la riduzione del servizio di marineria nel 1177, in Sciacca, doc. III. L'impianto di S. Lucia su un locum ove era un piccolo insediamento musulmano, in L. T. White, Latin Monasticism cit., doc. IV. Riepilogo storiografico con ampio spazio agli studi linguistici e alle immigrazioni, Il. Peri, La questione delle colonie lombarde in Sicilia, in « Bullettino storico bibliografico subalpino », LVII, 1959, pp. 253 80. Posteriori sono: G. Tropea, Un dialetto moribondo: il gallo italico di Francavilla sicula, in « Bollettino », IX, 1965, pp. 133 52; G. Petracco Siccardi, Influenze genovesi sulle colonie gallo italiche della Sicilia, in « Bollettino », IX, 1965, pp. 106-32 (con proposte particolarmente interessanti). Posizione particolare quella di G. Bonfante il quale (« Bollettino », I, 1953, pp. 4564; II, 1954, pp. 280-307; III, 1955, pp. 195-222; IV, 1956, pp. 296-309; V, 1957, pp. 269-300) ha ritenuto individuare l'origine dei dialetti di Sicilia nel gallo-romanzo di Francia. La assise 37 del cod. cass., De intestatis, in Brandileone, pp. 136-7, la XIX del cod. vat., ivi, p. 105. 14 Proposta, più che approccio, di carta della feudalità, S. Tramontana, Aspetti e problemi dell'insediamento normanno in Sicilia, in Atti del congresso internazionale di studi normanni cit., pp. 310-50 (part. pp. 345-7). I1 doc. del 1094, con i beneficiari della « lotteria feudale » (R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 87), in Pirri, pp. 94-5. 15 Riferimenti ad amministrazioni locali lasciate o affidate a musulmani• Malaterra, III, 30; Anonimo Vaticano, Historia Sicula, in R.I.S., VIII, pp. 741-79, col. 763. Il dipl. del 1142, con richiamo al gaito Maimun, in Cusa, pp. 310-1. La donazione del 1141 da parte di Ruggero Hammöd, in Cusa, pp. 16-9. Il passo di Leone Africano, De viris illustribus apud Arabes, cap. 14, è ripetuto da R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 83 n. 3. La identificazione con Edrisi è proposta da M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, p. 679. Con atto in arabo del maggio 1111 (Guillou, p. 55) la contessa Adelaide e il figlio Ruggero donavano 8 villani a Hatiq, cavaliere (al-farts). Nella seconda parte del documento, in greco, il nome del beneficiario è Ghiollén e la qualifica « signore di Laburzi ». Facilmente, si trattava di un modesto vassallo latino. La donazione del casale Sariana o Essariana nei confini di Misilmeri, in Cusa, pp. 80-2. 16 La lettera ai reintegratores dei feudi, probabilmente del 1247/1248, in Winkelmann, I, pp. 701-2. Casi e ipotesi su singoli feudi divisi tra più d'un beneficiario, C. Cahen, Le régime cit., pp. 63 e 69 sgg. Per il valore del feudo in 20 onze di rendita, Andrea di Isernia cit. da R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 173 n. 3 e cfr. più avanti. L'investitura di Diotisalvi del 1144, inserita in doc. di epoca sveva, in Kehr, pp. 498-500. « Broccatum feudum sc licet sex militum » concesso « quod in demanio in demanio, et quod in servitio in servitio », in Mongitore, Bullae, pp. 37-8. Lo scambio di Calatrasi nel 1162, in C. A. Garufi, Catalogo, pp. 161-3. La concessione di 75 agareni a S. Maria di Palermo, in Cusa, pp. 1-3; quella di 10 villani nel 1157 alla chiesa di Troina, in Cusa, pp. 315-6. Per S. Bartolomeo, il doc. più volte citato, in C. A. Garufi, Censimento e catasto cit., pp. 92-6. 17 La clausola « quod in demanio (...) » oltre che nel doc. di Brucato, nella dotazione di Giato e Corleone a S. Maria di Monreale (Pirri, pp. 453455). Nel dipl. del 1182 (Cusa, pp. 179-244) ricorre il « dominus Corilionis » (pp. 180-2), terra in cui all'arcivescovo era affidata la giurisdizione -
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Abbreviazioni e note
Note al cap. XI
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penale attraverso l'assegnazione della funzione di giustiziere. La piena iurisdictio al vescovo di Catania, nel 1092, in De Grossis. pp. 55-7. A Ce-
falù « salvis ta rn en regalibus nostrae Maiestatis: fellonia videlicet, traditione et homicidio », in doc. del 1145, in Pirri, p. 800. 18 La regolamentazione dell'accesso dei villani al clero nella assise 10 del cod. vat. sintetizzata nella assise 6 del cod. cass., nonché il rescriptum della 39 del cod. cass. (Brandileone, pp. 100-1, 121, 138). X. La situazione demografica. Condizioni locali e ipotesi d'insieme Le ipotesi quantitative meno labili sul numero degli abitanti durante la dominazione musulmana sono quelle di M Amari basate per Palermo sulla descrizione di Ibn Hawqal (Storia dei musulmani cit., vol. II, pp. 938941), e per l'isola nell'insieme sul numero dei morti nella campagna di Halil nel 938-941 (II, pp. 251-2) e su quello dei circoncisi nel 962 (II, pp. 295-6). Sul periodo normanno non si hanno proposte concrete. 1 Le platee di Catania del 1095 e del 1145, in Cusa, pp. 565-85. Il numero delle vittime nel terremoto, in Falcando, p. 164. La platea dei musulmani di Aci, in Cusa, pp. 541-9. 2 Di C. A. Garufi, Censimento cit., p. 100, sono le ipotesi che l'elenco dei villani già appartenuti alla chiesa di Cefalù fosse stato compilato in ottemperanza alla const. fridericiana Nihil vetus, e che i numeri si riferiscano all'intiera popolazione e non ai capifamiglia (come invece era consueto), col suffragio del computo della popolazione nel 1570 e nel 1583 in 3830 e 4776 persone (F. Maggiore-Perni, La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo, Palermo 1892, p. 523). La platea di Cefalù del 1132 in G. Spata, Le pergamene greche esistenti nel Grande Archivio di Palermo, Torino 1862, pp. 412-20; quella del 1145 in Cusa, pp. 472-80. 3 Numero dei villani in territorio del vescovo di Patti, in C. A. Garufi, Censimento cit., pp. 92-7. Per i condomini di Naso, « de Garrexio », riteniamo usare Garessio e non Garres, facendo riferimento alla località piemontese (prov. di Cuneo) in territorio nell'ambito delle origini degli Aleramici di Paternò e di Butera, al cui seguito essi figurano (marzo 1115, in C. A. Garufi, Gli Aleramici e i Normanni in Sicilia e nelle Puglie, in Centenario della nascita di M. Amari, Palermo 1910, I, pp. 47-83, doc. I). 4 I diplomi di Monreale, in Cusa, pp. 134-9 e 245-86. Il servizio di Calatrasi nel doc. pure citato del 1162, in C. A. Garufi, Catalogo, pp. 161-3. 5 Gli oppida Lombardorum: Falcando, p. 155. 6 Il servizio di marineria: in Santa Lucia, 20 uomini nel 1177 (Sciacca, doc. III); Caltagirone, 250, ridotti nel 1160 da Guglielmo I (Kehr, pp. 435-6); Nicosia, 296 sotto Guglielmo II (A. Barbato, I Lombardi di Nicosia nel secolo XII, Nicosia 1920, pp. 75-9; e conferma del 1209 in P. Scheffer-Boichorst, Zur Geschichte der XII un XIII Jahrhunderts. Diplomatische Forschungen, Berlin 1897, p. 401). Per Aidone si ha riferimento al momento dell'incoronazione di Federico II quando il servizio fu commutato in 30 onze (Winkelmann, I, p. 681); su Paternò si ha un parziale e particolare condono nel 1216 (Winkelmann, I, p. 375).
XI. «Temporibus turbationum » Non è nostra intenzione ricostruire gli avvenimenti diplomatici e militari che ebbero attrice o protagonista la monarchia siciliana; si cerca piuttosto di mettere in evidenza eventi che ebbero particolare diretta incidenza sull'ambiente. Per la ricostruzione di eventi: E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweiter, Berlin 1927-1931 (trad. it., Milano 1940; nuova ed., 1976, dalla quale citiamo), il cui taglio biografico e l'esposizione estetizzante velano la ricca documentazione; Th. Curtis Van Cleve, The Emperor Frederick II of Hohenstaufen, Oxford 1972; R. Morghen, Il tramonto della potenza sveva in Italia (1250-1265), Roma-Milano 1936 (tentativo di rielaborazione: L'età degli Hohenstaufen in Italia, Palermo 1974) che procede sulla scorta di B. Capasso, Historia diplomatica Regni Siciliae ab anno 1250 ad annum 1266, Napo li 1874; P. F. Palumbo, Contributi alla storia dell'età di Man f redi, Roma 1959; E. Pontieri, Pietro Ru ff o di Calabria e la sua presunta fellonia, ora nel vol. Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana, Napoli 19502, pp. 7-128. Tratteggio della organizzazione e di alcuni aspetti di vita economica, W. Cohn, Das Zeitalter der Hohenstaufen Breslau 1925 (trad. it., Catania 1932, dalla quale citiamo). Con- inSzle, serva sempre particolare validità per le vicende dell'islamismo e dei musulmani la Storia dei musulmani cit., III, pp. 578-633. H.B., I, pp. 6-7. Di un piano di trasferimento di Guglielmo II sul trono di Costantinopoli si parlò anche in oriente (Eustazio, La espugnazione cit., ed. e trad. cit., pp. 60-1: « Questi [Guglielmo II], a quanto dicono, aveva progettato di offrire il regno di Sicilia ad altri, riservando per sé Costantinopoli » ). 3 Il brano del Libellus de successione cit., in Collura, p. 309. La inquisitio del giugno 1250, in V. Picone, Memorie cit., II, pp. ix-xxiii. 4 La lettera di Innocenzo III nel 1199 con riferimento alle condizioni dell'isola, in H.B., I, p. 37; l'appello ai saraceni, in H.B., I, pp. 37-9; il resoconto dell'arcivescovo di Napoli, in H.B., I, pp. 46-9; il rifiuto di accordo con Marcovaldo (sett. 1200), in H.B., I, pp. 57-9; le lamentele dell'arcivescovo di Monreale, in H.B., I, pp. 102-4; il compiacimento del papa (1206), in H.B., I, pp. 118-9. La frase « come fanno i borgesi (...) », in H.B., I, pp. 204-5. 5 H.B., II, pp. 393-4. 6 Winkelmann, I, pp. 570-1. Sui congiurati, E. Kantorowicz, Federico II cit., pp. 740-3. 7 Alla missione di Oberto in Tunisia, nel 1240, è riferimento in H.B., V, p. 966; per quella in Marocco, Annales Siculi, in M.G.H., SS, XIX, pp. 495-500 (ad ann. 1241, ivi, p. 497) per quella in Spagna, riferimento in doc. del 1244, in Winkelmann, I, pp. 561-2. Nel maggio del 1246 (Kehr, p. 502) erano date disposizioni a Filippo di Castanea, che era subentrato a Oberto che era stato rimosso. « Figlio del signor Abderrahman gaito della grande città di Palermo » Oberto si dice in un atto in greco (lingua del notaio) ove firma in arabo (Cusa, pp. 676-8). Dopo l'abbandono delle cariche, Oberto sopravvisse a lungo; e nel giugno e luglio 1274 depose come teste nelle inquisitiones sui beni e diritti della chiesa arcivescovile (Mongitore, Bullae, pp. 131-3) e della cappella palatina di Palermo (L. Ga1 2
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rofalo, Tabularium Regiae ac Imperialis Capellae Collegiatae Urbis Panormi, Palermo 1865, pp. 76-87, part. p. 81). 8 Con una documentazione interpretata in aderenza ma che non basta a dissipare le ombre, E. Kantorowicz, Federico II cit., pp. 697-8 sviluppa l'opinione che Pier delle Vigne « s'era reso colpevole delle stesse malversazioni e baratterie della maggior parte dei funzionari » (ivi, p. 665). 9 La lettera al primogenito di Alfonso di Castiglia, in Winkelmann, I, p. 339. L'ingiunzione ai saraceni nell'agosto 1246, in H.B. VI, pp. 456-7. La comunicazione a Ezzelino da Romano, nel novembre dello stesso anno, in H.B., VI, pp. 471-2. lla città nel 1195, lo Per la cattura del vescovo di Catania e i danni a Ottone di San Biagio, Chronica, Hannover-Leipzig 1912, p. 60, cit. da W. Cohn, L'età cit., pp. 25-6 e da G. Fasoli, Tre secoli cit., p. 123. 11 Le vicende di Calatabiano in H.B., I, pp. 253-5. La concessione del casale Murra ai templari, in H.B., I, p. 145; quella del mulino « de Salinis », in Winkelm an n, I, pp. 89-90. 12 Nel giugno 1210 (H.B., I, pp. 172-3) Alamanno da Costa, « conte di Siracusa per il comune di Genova », concedeva il casale Bigene all'ospedale di S. Giovanni. Nel 1211 (Pirri, pp. 1311-3) Insibardo di Morenga signore di Noto confermava a Rodolfo abate di S. Maria dell'Arco un casale distrutto « pro temporum perversitate ». 13 L'ordine al giustiziere di indagare su Vinito di Palagonia, in H.B., V, p. 833. 14 Per la letteratura relativa ai vantaggi e agli svantaggi conseguiti dall'immedesimazione fra regno e impero, R. Morghen, Il tramonto cit., al cap. La missione dell'impero e la Italienische Kaiserpolitik (pp. 11-35). Esaltazioni della missione dell'impero propalata da ll a corte e di un presunto laicismo nella pratica di potere, A. De Stefano, L'idea imperiale di Federico II di Svevia, Bologna 19522 ; G. Pepe, Lo Stato ghibellino di Federico II, Bari 19512 . 15 Le vivaci contestazioni sulla pesantezza della politica economica e finanziaria di Federico e sulla incidenza negativa di essa sul paese non sono nuove: basta riandare al secondo dei Discorsi della dominazione straniera in Sicilia di S. Scrofani (Palermo 1824). Comunque, ancora agli inizi del nostro secolo si poteva scrivere, senza muovere contro l'opinione più accreditata, della « medesima cura di giustizia, medesimo senso pratico, medesima abilità a conciliare le necessità del tesoro e l'interesse dei soggetti » (p. 3) che l'imperatore avrebbe manifestato nella conduzione economicofinanziaria come in quella politico-amministrativa (G. Yver, Le commerce et les marchands dans l'Italie méridionale au XIII' et XIV' siècle, al cap. L'oeuvre de Frédéric II, pp. 1-6); o quanto meno si poteva nell'insieme osservare che i « vizi » di Federico « furono molto esagerati da quelli che non consideravano il complesso della vita e dei tempi » (p. 32), giudicando per altro « in gran parte moderno » (p. 10) l'ordinamento finanziario da lui imposto (G. Paolucci, Le finanze e la corte di Federico II di Svevia, in Atti acc., s. 3, vol. VIII, 1902-1903, pp. 52 con numerazione propria). Poi le riserve si sono dilatate, e nelle ricostruzioni di insieme (Cohn, Kantorowicz ecc.), e nella saggistica a sfondo economico. J. M. Emperor Powell, Medieval Monarchy and Trade: the Economic Policy of in « Studi medievali », s. 3, III, 1962, pp. 420-524 in Sicily, II Fredick ha evidenziato gli aspetti negativi de lle misure ripetute dall'imperatore dalle assise di Capua del 1222, che pure segnerebbero l'avvio della « ree di Melfi construction of the monarchy » (pp. 453-72) attraverso que ll
Note al cap. XII
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(pp. 490-505) fino alla sua morte. Nella conclusione (pp. 513-24) la politica fridericiana — attraverso i pesi fiscali, le tasse di esportazione e di importazione (che addirittura avrebbero sollecitato l'inclinazione dei genovesi verso il mercato cerealicolo di Provenza e quella dei veneziani verso la Romagna, p. 518), i monopoli, il controllo delle arti, delle professioni e dei commerci — sarebbe gravata duramente sul paese. Sulle conseguenze deleterie del fiscalismo e soprattutto del dirigismo aggressivo e frustrante ha insistito, con angolazione diversa, F. M. De Robertis, La politica economica di Federico II di Svevia, in Atti delle seconde giornate federiciane (Idria 16-17 ott. 1971), Bari s. d., pp. 27-39. te Vociferazioni e « miti » sulla regina e imperatrice, II. Peri, La luce della gran Costanza, in Dante e la Magna Curia. Atti del convegno di studi, Palermo 1966, pp. 264-87. La sensibilità dei contemporanei e delle generazioni non lontane fu vivacemente colpita dalla conclusione in miseria dell'ambiziosa vicenda fridericiana. La riflette anche l'epitaffio che sarebbe stato inciso sulla sua tomba riportato, con varianti, dal Chronicon Siculum, in Gregorio, Bibliotheca, II, p. 134; e da Riccobaldo da Ferrara, Compilatio chronologica, in R.I.S., IX, p. 249. XII. Terre in declino e luoghi ripopolati 1 Apr. 1201, in Winkelm an n, p. 77 (Federico II concede terre « que sunt de tenimento dudum casalis Vamelie in tenimento Salem, quod nunc destructum est et caret habitatore »); sett. 1201, in Winkelmann, p. 80 (Federico II concede a S. Maria di Latina « reedificare, construere et ab habitatoribus hospitari casalia ipsius Monasterii sancte Marie de Latina in Sicilia pertinencia, que propter guerram post mortem Guillelmi secundi bone memorie et propter preteritam turbationem fuerunt destructa »); genn. 1219, in Collura, pp. 101-2 (donazione al monastero di S. Maria distrutto « clade bellorum »). 2 Non bastano le due carte di F. D'Angelo (I casali di S. Maria la Nuova di Monreale nei secoli XII e XIV), in « Bollettino », XII, 1973, pp. 333-9, anche per la documentazione limitata (le platee rilasciate all'arcivescovato sotto Guglielmo II; i documenti regestali, in Garufi, Catalogo) a definire i momenti del supposto abbandono delle residenze rurali (su cui, per l'isola tutta, con particolare aggancio agli atti della collettoria posteriori alla peste del 1348-1349, C. Trasselli, Ricerche sulla popolazione della Sicilia nel XV secolo, in Atti acc., s. 4, vol. XV, parte II, fasc. 2, 19541955, pp. 213-72, part. pp. 216-20; L. Gambi, La popolazione della Sicilia fra il 1374 e il 1376, in « Quaderni di geografia umana per la Sici li a e la Calabria », I, 1956, pp. 3-10). Per Corleone, v. sopra, pp. 148-9. 3 Il ricordo dei tempi felici di Agrigento, in A.S.P., Cancelleria reg. n. 69 (1433-1434), f. 49 (cfr. Il. Peri, Per la storia cit., p. 616). 4 Per le censuazioni, v. sopra, pp. 204-8. L'ordine di Federico II, nel 1239, di invitare i saraceni « ad firmandas mansiones » nel Seralcadio di Palermo, in H.B., V, pp. 425-7; l'invito a R. de Amicis giustiziere della Sicilia ultra a indurre i saraceni a « reducere in melius » le loro abitazioni, in H.B., V, pp. 595-7. Del sett. 1248 è l'assegnazione di una casa nel Seralcadio da parte di Gualtiero di Fisaula incaricato di distribuire le abitazioni in quel quartiere (G. Paolucci, La giovinezza di Federico II di Svevia e i prodromi della sua lotta col Papato, in Atti acc., s. 3, vol. VI, 1900-1901, p. 48 (il saggio ha numerazione propria). L'ordine di trasferire
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Abbreviazioni e note
Note al cap. XII
in Palermo gli uomini di Centorbi e di Capizzi, nel doc. cit., in H.B. V, pp. 595-7; misure nei confronti dei renitenti, nel febbr. 1240, in H.B., V, pp. 770-1. Le disposizioni, nel dic. 1240, sulle richieste degli ebrei del Garbo stabilitisi in Palermo, in H.B., V, pp. 571-4 (p. 572). 5 Ordine, dell'ag. 1231, che tutte le merci da commerciare fossero portate nelle case o fondaci de ll a curia, dislocazione di questi, misura dello nel ius casatici (3,3%), in Winkelmann, I, pp. 616-7. La limitazione, extra maggio del 1240, ai porti di Milazzo e di Augusta de lle esportazioni regnum dalla Sicilia citra, in H.B., V, pp. 982-3. Nel doc. del 1231 Maremorto è da identificare con Augusta (Bartolomeo di Neocastro, Historia Sicula, in R.I.S., n. ed. XIII, parte III, Città di Caste llo 1922, cap. CX, p. 94: « et terra, priusquam fuisset aedificata, vocabatur Mare Mortuum »). 6 L'estensione a Trapani dei privilegi goduti da Messina, con riduzione di tasse di esportazione, in H.B., I, p. 40. Ordine di inquisire, nel genn. 1240, sulla accusa contro il notaio addetto all'ufficio del baiulo, in H.B., V, pp. 668-9. Di Trapani è stata notata la crescita in relazione ai favori che godeva quale approdo nei traffici fra l'Italia settentrionale, l'Africa e il levante (V. Vitale, Il comune dei podestà cit., p. 391). 7 Consistenza e composizione della popolazione di Erice risultano negli ultimi del sec. XIII attraverso gli atti del notaio Giovanni Maiorana degli anni 1297-1300 (a cura di A. De Stefano, Palermo 1953). La varia provenienza degli immigrati può essere evidenziata attraverso i toponimi (spoglio in Il. Peri, La questione cit., pp. 274-5). Jahrbücher 8 Fonti sulla rivolta del 1232-1233, in E. Winkelmann, der deutschen Geschichte. Kaiser Friedrich II, 2 voll., Leipzig 1889-1897, II, pp. 235-8, 402, 410 sgg.; W. Cohn, L'età cit., pp. 183-8; E. Kantorowicz, Federico II cit., p. 256. C'è nelle fonti qualche discrepanza cronologica (così, negli Annales siculi cit., p. 497, si segna solo la rivolta di Matteo Ballon con data 1231, e la uccisione di questi e la caduta di Siracusa e di Nicosia con data 1232). 9 Il perdono agli uomini di Caltagirone per gli eccessi « in dirutione castri ipsius terre et occupatione animalium massarie curie », in Winkelmann, I, p. 412. 19 Le sedi delle curie provinciali (in Sicilia, Piazza), in H.B., IV, pp. 460-2. Sulla presunta colonia di Oberto Mostacciolo, La questione cit., pp. 268-70. 11 L'invito a inviare nuncios al colloquium generale in Foggia, nel 1240, in H.B., V, pp. 796-8. 12 La colletta (probabilmente) del maggio 1248, in Winkelmann, I, pp. 797-8. Sul sensibile divario fra i due giustizieriati potrebbe anche avere occasionalmente inciso il peso delle repressioni; in genere, però, e con aderenza, esso si verificava quando la partizione seguiva il corso del fiume si che nella citra era inclusa la diocesi di Cefalù con il comprensorio madonita. Per le capacità contributive di Polizzi negli anni intorno al in Vespro, Il. Peri, Rinaldo di Giovanni Lombardo habitator terre Policii, Studi medievali in onore di A. De Stefano, Palermo 1956, pp. 429-506 (tav. in App.). Dai documenti di Rinaldo si evidenzia una non ristretta immigrazione, e non solo interna, che può considerarsi fra gli stimoli più consistenti della crescita dell'abitato. Qualche altra presenza, per spostamenti interni, nel comprensorio madonita è stata segnalata da H. Bresc e F. D'Angelo, Structures et évolution de l'habitat dans la région de Termini Imerese, in Mélanges de l'Ecole française de Rome. Moyen-âge-Temps modernes, t. 84, 1972, pp. 361-402 (part. pp. 378-9). Queste presenze potrebbero .
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essere in relazione alla repressione dei musulmani; e comunque non si trattò di casi isolati e propri di quei luoghi. In H.B., V, pp. 249-58 si ricordavano uomini che avevano trovato ricetto nei territori del vescovo di Catania e che erano stati revocati al demanio (« Item idem de Cathaniensi ecclesia, nisi forte tangatur de hominibus demanii domini imperatoris que temporibus belli propter locum securumet fertilem se Cathaniam contulerunt. Hos fatetur imperator se ad demania sua revocasse, secundum formam generalis constîtutíoeis regni (...) »: pp. 251-2. 13 Gualtiero di Pagliara in Catania ebbe a contrastare con i cittadini, con i feudatari locali, con i genovesi. Non è invece noto se e in quale misura la città fu coinvolta nella sollevazione degli anni 1232 e 1233 (H. Niese, Il vescovato di Catania e gli Hohenstaufen, in « A.S.S.O. », XII, 1915, pp. 74-104, part. pp. 84-92; G. Fasoli, Tre secoli cit., pp. 124-5). La città contribuì ai lavori di elevazione del castello Ursino con 200 onze (H.B., V, p. 528). 14 Sui castelli del triangolo Catania, Augusta, Siracusa e su quello all'interno di Castrogiovanni, G. Agnello, L'architettura sveva di Sicilia, Roma 1935; G. Samonà, I castelli di Federico II in Sicilia e nell'Italia meridionale, in Atti del convegno internazionale di studi fridericiani, Palermo 1952, pp. 507-34; S. Bottari, Monumenti svevi di Sicilia, Palermo 1950. Fruibili al di là del piano architettonico: E. Sthamer, Die Verwaltung der
Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II und Karl I von Anjou, Leipzig 1914; A. Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920. L'attenzione di Federico si volse anche al riatta-
mento dei castelli già esistenti nella Sicilia citra (a Siracusa, Caltagirone, Milazzo, Lentini - nov. 1239, in H.B., V, pp. 509-10); mentre per quelli della Sicilia ultra (Trapani, Marsala, Mazara, Sciacca) raccomandava di non fare spese (H.B., pp. 504-6). 15 La concessione a censo di terre vuote « in prato magno » nel marzo del 1240, in H.B., V, pp. 866-72. La concessione di fondaci in Siracusa in Winkelmann, I, pp. 616-7, e di logge fondaci ai genovesi in Siracusa e Augusta nel 1259, in P. Sella, La pandetta delle gabelle e dei diritti della curia di Messina, Torino 1870, pp. 89-95. 16 Per la localizzazione dell'architettura religiosa, S. Bottari, menti cit., pp. 3-7, 9-14, 15-6, 17-9. Per S. Nicola di Agrigento, Il.MonuPeri, Per la storia cit., pp. 610-1. 17 Nel 1239 era dato ordine a Ruggero de Amicis giustiziere della Sicilia ultra di fare una habitatio sopra la grande fonte presso Burgimil e costruire un casale tra Sciacca e Agrigento nel fiume di S. Stefano a tre miglia dal mare « ex hominibus Arcudachii et Andranii » e un altro casale fra Agrigento e Sciacca « apud Cunianum » (H.B., V, p. 505). 18 II placet per la costruzione della plagia la misura del terraggio all a curia di Eraclea, in H.B., V, pp. 632-4. IIequantitativo di cereali prodotto si mantenne elevato: sotto Carlo d'Angiò in un'annata (dal luglio 1278 al settembre 1279) l'estrazione regolare fu di 11.709 salme di frumento e 3690 di orzo, nella maggior parte verso Messina ma anche verso la parte peninsulare del regno e l'Italia settentrionale (Reg. ang. XXIII, p. 63). La conferma dei terreni concessi agli uomini di Augusta in P. SchefferBoichorst, Zur Geschichte cit., pp. 253-5. Il doc. del 1240 con le disposizioni sugli antopi di Catania residenti in Augusta, in H.B., V, pp. 770-4. L'ordine di vigilare « de granerio, campis, molendinis et scadentiis Auguste », in H.B., V, pp. 633-4.
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Abbreviazioni e note
XIII. Immigrazioni e movimenti interni t Per i documenti di Mesepe e Lardaria, v. C. A. Garufi, Un contratto cit., pp. 19-20; Starrabba, pp. 69-70. 2 La constitutio sive encyclica de extraneis ad domicilium in Siciliae Regnum transretandum invitandis, in H.B., IV, p. 234; e in lezione meno tortuosa, in Winkelmann, I, pp. 622-3, con data ott.-nov. 1231 e cioè anteriore alla const. Cum hereditarium regnun (ed. H.B., IV, p. 259, sintetizzata da Riccardo di San Germano ad ann. 1233, p. 187), che la avrebbe dovuto superare ma che ebbe applicazione solo eccezionale (cfr. anche nota in H.B., IV, pp. 233-4). Casi di applicazione nel senso del ricorso a ll a licenza regia per avere trattamento « sicut unus de burgensibus », Winkelmann, I, p. 656 (1241), p. 664 (1251) e ancora H.B., V, pp. 770-4. 3 «(...) non pauci ex hominibus supradictis [di Calascibetta] effetti pauperes et territi gravamine ipso terre incolatum derelinquerunt et cotidie derelinquunt » (dic. 1239), in Winkelmann, I, p. 719. 4 Nel 1253 Opicino Tartaro cittadino di Genova stipulava un contratto con Giovanni e Giacomino Percival di Albissola i quali promettevano di recarsi a coltivare le terre che Antonino Tataro aveva nell'agro di Cassibile sulla marina in territorio di Siracusa. Agli ingaggiati erano assicurate le spese di viaggio per loro e quanti li volessero accompagnare, sovvenzioni nel primo anno di insediamento, assegnazione di una abitazione, facoltà di ritornare a Genova decorso il primo anno (V. Vitale, Genovesi colonizzatori in Sicilia nel secolo XIII, in « Giornale storico e letterario della Liguria », n. s., V, 1929, pp. 1-9). Prospettive furono fatte ventilare da Manfredi dopo aver carpito la « credulità » dei regnicoli e avere diviso « contee, baronie e feudi degli uccisi » e un certo richiamo fu esercitato su « numerosi lombardi che l'estrema povertà trascinava nel regno, e non pochi proscritti che si allontanavano dai loro per i contrasti delle parti » (Saba, I, 5, col. 797). 5 Su Corleone, i docc. del nov. 1237 in H.B., V, pp. 138-41 e del febbr. 1249 in H.B., VI, p. 695. La concessione del salto d'acqua per attivare un mulino nel casale Petra de Zineth in A.S.P. , Tabulario della Magione, perg. n. 43 (n. 42 V. Mortillaro, Elenco cronologico delle pergamene pertinenti alla Real Chiesa della Magione, Palermo 1859; accenno in Mongitore, Monumenta, pp. 52-4; incompleto in Battaglia, pp. 52-4). Degli atti del 1261 è notizia in Mongitore, Monumenta, p. 37; quello del genn. 1264 è in Battaglia, pp. 191-2 (con omissioni e data 1263). 6 Le cittadine di nuova fondazione, Jamsilla, col. 495: « Quasdam quoque Civitates in Regno fundavit et construxit, videlicet Augustam et Heracleam in Sicilia (...) ». Sul numero degli abitanti in Augusta, Saba, col. 854-5.
XIV. Presunzioni del fisco e situazioni di fatto t Il carattere eminentemente agricolo dell'economia siciliana sotto gli Svevi, come sotto i normanni, e la integrazione di essa con quelle dei comuni protagonisti della rivoluzione commerciale può considerarsi tra gli acquisti passati nella communis opinio. Ricordiamo: F. Ciccaglione, La vita economica siciliana nel periodo normanno-svevo, in « A.S.S. », X, 1913,
Note al cap. XV
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pp. 321-45; J. M. Powe ll , Medieval Monarchy cit., p. 420 sgg.; e, per l'epoca normanna, Il. Peri, Città e campagna cit., II, pp. 217-56; D. Abulafia, The Two Italie cit., pp. 31-55. 2 Le responsales a Gilberto Abate in Winkelmann, I, pp. 713-5. La gisia dei giudei nel dic. 1239, in H.B., V, pp. 571-4. 3 La colletta del genn. 1238, in Winkelmann, I, p. 632; del dic. 1239, in H.B., V, pp. 624-5; del dic. 1241, in Winkelmann, I, pp. 665-7; del maggio 1248, in Winkelmann, I, pp. 711-2. Raccolta dei dati, in G. Paolucci, Le finanze cit., pp. 28-9. L'elogio al giustiziere della Sicilia citra per la diligenza e I'abilità nella distribuzione della colletta, in H.B., V, pp. 503-4; la enciclica del 1241, in Winkelmann, I, pp. 657-8. 4 « Ut non graventur vidue et pupilli in collectis », in Winkelmann, I, p. 730, tra le Formule Magne Curie. 5 La quota di colletta a Paternò nelle responsales al secreto di Messina del marzo 1240, in H.B., V, pp. 812-6. 6 Le disposizioni a Oberto Fallamonaca, in Winkelmann, I, p. 681. La riduzione della marineria agli uomini di Nicosia nel 1209, in P. SchefferBoichorst, Zur Geschichte cit. , pp. 401-2. 7 L'aggancio ai numeri di Giovanni Villani, M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, p. 607; le obiezioni, P. Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, in « Archivio storico per le province napoletane », voll. XXXVI-XXXIX, 1911-1914 (part. XXXVI, pp, 623-4), cit. in nota da C. A. Nallino. Amari, pur scrivendo che si trattava solo di uomini del demanio e di S. Maria di Monreale, riteneva « troppo scarso » (III, p. 357) il numero di 100.000 tra maschi e donne dato dal cronista Ruggero de Hoveden e ripetuto nella Gesta Regis Henrici per i fuggiaschi nel tentativo di sottrarsi al « giogo di Tancredi ». « De ovibus curie nostre, que recipiuntur annis singulis a Sarracenis Lucerie servis nostris racione curie (...) », in Winkelmann, I, p. 715. Mandato di corrispondere le spese « magistris sarracenis, tarisiatoribus, carpentariis, magistris facientibus arma, custodibus uncle et tabacchorum » in Melfi, Lucera, Canosa di Puglia, in H.B., V, p. 764. Le disposizioni per impedire ai saraceni il passaggio oltre lo Stretto, in H.B., V, pp. 788-91. XV. L'unità di religione e di linguaggio
1 saraceni « qui Capitanatae Nuceriae incolunt et italicum idioma non mediocriter ut fertur intelligunt », in H.B., IV, p. 452 (ag. 1233); «intelligunt italicum idioma », in H.B., IV, pp. 457-8 (dic. 1233). 2 Tra le sedi di cui il papa lamentava la vacanza nel marzo 1239 (H.B., V, pp. 286-9) erano il monastero di Venosa e, in Sicilia, il S. Salvatore di Messina. 3 Elenco di chiese agli effetti della riscossione delle decime nel sec. IV, P. Sella, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia, Città di Castello 1944. Spoglio per le persistenze di chiese greche, Il. Peri, Resistenza cit., pp. 492-3. Trasferimento a monaci latini di monasteri « quae consueverunt per Graecos monacos gubernari » e che « propter illorum incuriam sunt adeo in temporalibus et spiritualibus deformata, quod de ipsis non possint leviter reformari », in Starrabba, pp. 100-1 (giugno 1267). La riduzione del greco letterario trova espressione nella rarefazione dei documenti rogati in greco anche in territori ove nel secolo XII erano
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Abbreviazioni e note
state più larghe le persistenze. Nel la raccolta di Cusa sono posteriori al 1250: ott. 1257, pp. 456-8 (rogato da notaio greco per conto di Matteo di Pietraperzia condomino di Naso); ag. 1269, pp. 458-60 (inquisizione in terra di S. Marco fatta eseguire dall'abate Filogamo di S. Nicola di Elàfico); ott. 1279, pp. 461-3 (vendita di un fondo al monastero di S. Filippo di Demenna); 1280 (?), pp. 464-7 (donazione di due case terragne in S. Marco al monastero di S. Fi lippo); e infine, p. 468 (vendita di un fondo all'abate tra il 1331 e il 1335). Fuori quel comprensorio c'è solo un atto di censuazione in Palermo da parte dell'abate del monastero di S. Maria della Grotta nel nov. 1259 (pp. 680-1) rogato da notaio greco ma con tutte le sottoscrizioni in latino. L'ultimo diploma in greco dell'arcivescovato di Messina, nella trascrizione di A. Amico, è del 1218 (Starrabba, pp. 424-8). Negli atti di S. Maria di Messina regestati da Guillou sono: la compravendita di 19 buoi con atto rogato in Rametta nel 1264 (pp. 162-4), la donazione di una vigna in un villaggio vicino Messina nel 1265 o 1266 (pp. 167-8); una concessione a censo nel villaggio di Rapano presso Rometta nel 1304 (pp. 173-5), e infine la vendita di un appezzamento di terreno redatta nel 1306 in greco da un notaio che forse era latino (pp. 179-82). Il fenomeno può essere rilevato anche attraverso le sottoscrizioni in greco di atti in latino (Guillou, pp. 185-96). 4 Riccardo di San Germano, ad ann. 1221, p. 96, riporta . la emanazione di norme contro « lusores taxellorumnet alearum, nomini domini blasphemantes, contro Iudeos ut in differentia vestium et gestorum a Christianis discernantur ». Nella legislazione fridericiana sono evidenti alternanze fra equità e prevenzioni nei confronti dei giudei. Nel primo senso stanno la estensione ad essi della defensa in nomine regis (const. I, 18, in H.B., IV, pp. 20-2) e del diritto al risarcimento da incendi ad opera di ignoti (I, 27, in H.B., IV, pp. 28-9), nel secondo la multa in caso di omicidio subito nella misura uguale a quella del musulmano e metà che per il cristiano (I, 18, in H.B., IV, pp. 29-31). La const. I, 6, Usurariorum nequitiam, in H.B., IV, p. 10. Sugli immigrati dal Garbo, H.B., V, pp. 571-4. XVI. Ordinamento giuridico e condizioni di fatto 1 Per le infeudazioni nella contea che era stata degli Aleramici, C. A. Garufi, Per la storia dei secoli XI e XII, 3. La contea di Paternò e i de Lucy, 4. I de Parisio e i de Ocra nei contadi di Paternò e di Butera, in A.S.S.O. », XI, 1913, pp. 346-73. Le incertezze permangono molte, al di fuori de lla conclusione che « nell'antico feudo aleramico le signorie di Bartolomeo de Lucy, di Pagano de Parisio e di Berardo de Ocra rappresentano brevi periodi » (p. 357). 2 Nel febbr. 1205 Paolo di Cicala « Dei et regia gratia Golosani et Aliphie comes ac regie privade masnede magister Comestabulus » donava all a chiesa di Cefalù il tenimento della Roccella e altri possedimenti (Battaglia, pp. 125-9). Vescovo di Cefalù era per altro allora Giovanni fratello del conte Paolo al quale già Enrico VI aveva dato conferma dei beni del vescovado (A.S.P., Tabulario di Cefalù, perg. n. 30; trascritta nel Rollus rubeus, pp. 75-6). Andrea, il quale era stato tra i collaboratori e gli ufficiali di più elevato rango, fu coinvolto nella congiura del '46, e ne rimase succubo (E. Kantorowicz, Federico II cit., pp. 636-7 e nota a p. 691). Oltre quelli, atipici, di Alamanno da Costa a Siracusa e di Guglielmo Grasso e di Enrico Pescatore a Malta, si è prospettata (E. Mazzarese Far-
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de ll a, I feudi comitali di Sicilia dai Normanni agli Aragonesi, Milano 1974, pp. 29 31; Id., Federico II e il « Regnum Siciliae », I. L'amministrazione, II, La feudalità, in « Annali dell'Istituto storico italo-germanico di Trento », I, 1975, Bologna 1976, pp. 25-49, part. pp. 42-4) l'esistenza, pure per breve tempo, dagli anni di Enrico VI, di due altri feudi con titolo comitale, limitrofi e pure nelle Madonie: di Geraci, e di Petralia. Il primo risulterebbe da un atto dell'aprile 1195 per assegnare a lla « illustri comitisse Guerrerie » tutte le divise pertinenti a Geraci « sicut Guillelmus de Crione avus suus eas tenuit »; l'altro da una donazione del marzo (manca il giorno) del 1201 da parte di « Gilibertus de Monteforte dei et regia gratia dominus Petralie » (ed. I feudi comitali cit., pp. 92-6, 97-8). Se di Guerreria non è dichiarata la località da lla quale prendeva il titolo di contessa (e i de Crione — ivi, p. 30 — erano conti « Yscle maioris »), per la fruizione di entrambi i documenti conservati in un archivio privato non sarebbe di troppo una vigile e cauta analisi dell'autenticità di essi. 3 Per la dotazione di feudi e l'affidamento di cariche a congiunti e ad affini da parte di Manfredi, H. Arndt, Studien zur inneren Regierungsgeschichte Manfreds, Heidelberg 1911 (Heidelberger Abhandlungen, hft. 31), pp. 172 sgg. 4 La dotazione di Isabella Maletta, in B. Capasso, Historia cit., p. 198, n. 2. 5 La lettera del febbr. 1240 a G. de Anglona, giustiziere della Sici lia citra, in H.B., V, pp. 770-4; il mandato dell'aprile 1240, in H.B., V, pp. 924-5. 6 #(...) quia maior pars feudatariorum in nostro servicio moratur », in Winkelmann, I, pp. 695-7. Le istruzioni in risposta ai capitoli dei reintegratori dei feudi, in Winkelm an n, I, pp. 701-2. 7 Biografie di irrelati titolari di cattedre siciliane e che ebbero larga parte nella vita politica: P. Lejeune, Walter von Palearia, Bonn 1906; F. Giunta, L'arcivescovo Berardo, in Uomini e cose del medioevo mediterraneo, Palermo 1964, pp. 65-104. 8 I privilegi di Federico all'arcivescovado di Palermo: genn. 1211, in H.B., I, pp. 182-4; apr. 1211, in H.B., I, pp. 186-7; apr. 1215, in H.B., I, pp. 372-3; ott. 1211, in H.B., I, pp. 191-5; dic. 1216, in H.B., I, pp. 490-2. Il privilegio all'arcivescovo di Messina del marzo 1211, in H.B., I, pp. 185-6. La concessione di Calatabiano al vescovo di Catania, in H.B., I, pp. 253-5. Il feudo Cultura (o Cuttura) al vescovo di Cefalù, in H.B., I, pp. 426-7. Atti in favore dell'arcivescovato di Monreale: genn. 1211, in H.B., I, p. 184; apr. 1211, in H.B., I, p. 188 e Winkelmann, I, pp. 94-5; febbr. 1212, in H.B., I, pp. 204-5; luglio 1220, in H.B., I, pp. 800-1 e Garufi, Catalogo, pp. 173 4. 9 Il richiamo di Onorio III a Federico a non ingerirsi nella elezione dei vescovi, con particolare riferimento a Catania, in Winkelmann, I, pp. 485-6. La lettera del papa nel successivo maggio 1226, in H.B., II, pp. 589-95. 10 La amministrazione delle sedi vacanti fu regolata con la const. I, 31 De • administrationibus rerum ecclesiasticarum post mortem prelatorum (H.B., IV, p. 140) che si agganciava a un'assise di Guglielmo, o secondo altro codice di re Ruggero. 11 La scomunica di Federico II da parte di Gregorio IX, nel 1239, in H.B., V, pp. 286-7. -
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12 I contrasti più clamorosi si accesero, oltre che sul vescovado di Catania, su quello di Cefalù, il cui vescovo, Arduino, fu sottoposto a processo (documento in E. Winkelmann, Bischof Harduin von Cefalù und sein Prozess, in « Mitteilungen des Instituts für Oesterreichische Geschichtsforschung », II, Innsbruck 1884). Le difficoltà dei templari furono piuttosto precoci, se già nel 1211 Innocenzo III interveniva lamentando che da essi la corte non solo esigeva « tallias et exactiones indebitas », ma li costringeva anche a riparare le mura di Messina senza tener conto della povertà in cui erano ridotti (Winkelmann, I, p. 473). Per allora le difficoltà furono forse superate, e nel sett. 1216 essi furono esonerati in tutto l'impero da ogni tassa, pedaggio, teloneo, angaria (Winkelmann, I, pp. 16-7); e nel giugno seguente Federico ne confermò tutti i beni, diritti e privilegi in Sicilia (ivi, I, pp. 121-2). Nel 1239 la mancata restituzione dei beni ai templari e agli ospedalieri fu tra i motivi addotti per la scomunica. L'ordine di espulsione dei francescani e dei domenicani dal regno, in Winkelmann, I, p. 318, e Riccardo di San Germano, ad ann. 1240, p. 207. L'ordine a R. de Amicis giustiziere e a Oberto Fallamonaca secreto di non concedere ai frati minori, che avevano lasciato la chiesa di S. Giorgio di Palermo di regia collazione, la costruzione di case in Palermo, in Winkelmann, I, p. 574. 13 Esempio della prosecuzione di certe linee di tendenza (quali le vacanze nei vescovadi) e delle reazioni di Roma, emerge dall'invito di Urbano IV nel gennaio 1264 a procedere contro Bonconte de Pendentia che occupava la chiesa di Patti per conto di Manfredi e con i proventi di essa aveva acquistato — si diceva — beni in città (Sciacca, pp. 225-6). 14 Il testamento di Federico, in H.B., VI, pp. 805-10. 15 Una permuta fra Manfredi e l'arcivescovo di Palermo, in B. Capasso, Historia cit., pp. 7-8. 16 Il privilegio del 1200 ai genovesi (vantaggi fiscali in introitu e in exitu, case in Messina, Sciacca, Trap an i), in H.B., I, p. 65. Il richiamo al privilegio di Guglielmo II nel 1230, in Winkelmann, I, p. 604. L'ordine del 1238 di non vendere vettovaglie ai genovesi, in H.B., V, pp. 238-9. Le concessioni di Manfredi, in P. Sella, Pandetta cit., pp. 89-93. L'ordine all'ammiraglio Nicolino Spinola di catturare i genovesi che tentavano mercanteggiare nel regno, in H.B., V, pp. 576-7. Per le relazioni fra Genova e il regno, J. M. Powell, Genoese Policy and the Kingdom Sicily. 1220-1240, in « Mediaeval Studies », XVIII, 1966, pp. 346-54 con agganci a V. Vitale, Il comune dei podestà cit. Il privilegio ai pisani del nov. 1221, in Winkelmann, I, pp. 213-5. Il privilegio ai veneziani del marzo 1232, in H.B., IV, pp. 310-2; l'interdizione ad essi di esportare derrate, nell'ott. 1233, in Winkelmann, I, pp. 647-9. La proibizione ai mercanti pisani di portare grano a Venezia, in H.B., V, pp. 648-9 (nell'occasione la scarsezza di frumento è mostrata dal prezzo di acquisto: 12 tari); la conferma del privilegio del 1232 da parte di Manfredi, nel 1257, in B. Capasso, Historia cit., pp. 133-9. L'autorizzazione ai mercanti provenzali di esportare vettovaglie a scomputo del debito, nel 1239, in H.B., V, pp. 477-9. 17 Per l'organizzazione della flotta, ancora fruibili W. Cohn, Geschichte der normannisch-sicilischen Flotte unter der Regierung Rogers I und Rogers II, Breslau 1910; Id., Die Geschichte der sizilischen Flotte unter der Regierung Friedrichs II (1197-1250), Breslau 1926. 18 L'atto fra Abate di Garessio e S. Maria di Va lle Josaphat, in Pirri,
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p. 1178. L'accordo del 1231 fra l'Africa propria e il regno di Sicilia, in H.B., III, pp. 276-8. L'episodio di Venuto di Cefalù, in H.B., V, pp. 595-7. L'ordine nel 1241 di armare navi contro genovesi e pisani, in H.B., V, pp. 1091-2. Disposizioni, nel genn. e febbr. 1240, contro gli Sciavi che infestavano le coste di Puglia e preparativi per l'attacco al convoglio di navi genovesi e pisane, in H.B., V, pp. 686-7 e V, pp. 780-3. 19 Le disposizioni dell'ag. 1231, in Winkelmann, I, pp. 616-7. I porti di estrazione per un quinquennio dal 1239, ivi, pp. 647-9. 20 Le disposizioni sul commercio della seta e del sale in Winkelmann, I, pp. 614-5. Quelle relative alle produzioni agricole, ivi, pp. 615-6. 21 Le disposizioni sulle tasse di esportazione dell'ott. 1239, in Winkelmann, I, pp. 647-9. Esse sono inserte tra gli ordini dati nel dic. dello stesso anno (H.B., V, pp. 632-4). La proibizione del commercio dei grani avanti il carico delle 50.000 salme sulle navi della curia, in H.B., V, pp. 780-3; mandato al maestro portulano della Sicilia citra di dare all'ammiraglio la moneta per l'acquisto, in H.B., V, pp. 790-2. Su queste esportazioni nel quadro più vasto, A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini nel Mediterraneo sino alla fine delle Crociate, trad. it., Torino 1915, pp. 587-628 (part. pp. 612-6) che conserva validità anche per le grandi linee dei rapporti commerciali in epoca normanna (pp. 547-75) e « al tempo dei torbidi interni » (pp. 576-87). 22 La concessione di metà del castello di Naso a Stefano di Patti, in H.B., I, pp. 63-4. Il mutuo di Rosso Rubeo di Messina nel maggio 1222, in Winkelmann, I, p. 220. A soddisfazione dei 12100 fiorini la corte assegnava « proventus omnes, Tura et redditus terre nostre Aydoni ». Alla valutazione che correva (1 onza per 5 fiorini) erano 240 onze. 23 Il mandato del febbr. 1240 di pagare « magistris sarracenis » le spese, in H.B., V, p. 764. Le baliste da acquistare in Accon, in H.B., V, pp. 720-1. La ricerca a Pisa di « magistri asbergerii », in H.B., V, pp. 721-3. Sulle baliste, nei frammenti De iure balistarum, in H.B., IV, p. 253. Non che il regno ne fosse sprovvisto (v. statutum novum editum super artificibus, ag: sett. 1231, in Winkelmann, I, pp. 617-8: « Magistri qui faciunt balistas et arcus legaliter operentur (...) »), ma la produzione non bastava alle crescenti esigenze in rapporto allo stato di guerra continuato. 24 Nelle gabe lle di Palermo anteriori alla riforma del 1312 (ed. F. PollaciNuccio - D. Gnoffo, Gli atti della città di Palermo dal 1311 al 1410, vol. I,. Palermo 1892, pp. 317-40) tra le importazioni operate da mercanti forestieri sono elencati « pannilana, panni di lino, seta torta » e lavori in seta, zendali, panni in oro, con oro filato, seta cruda, merci « que consistunt in pondere » quali pepe, cannella, incenso, cera, indaco, mastice, ferro, piombo, zucchero, riso, cuculli, casse con chiusere, lance con ferri,. terrecotte, vetro, zafferano, amono, chiodi di garofano. Tra le esportazioni da parte di operatori stranieri verso mercati siciliani, regnicoli o stranieri, accanto ai cereali, ai legumi e ai prodotti in genere dell'agricoltura e della pastorizia, figurano talune voci delle quali la piazza palermitana fungeva da punto di smistamento: bulduroni e lana di Barberia, pepe, cannella e altre spezie, panni di lana di Francia, panni « lombardiski, pisaniski, florentinisci ». La data del documento ci pare, piuttosto che fra il 1274 e il. 1312 come proposto dagli editori (ivi, p. xxxv), tra il 1232 e il 1257 (G. La Mantia, La pandetta sveva delle gabelle di Palermo, in « A.S.S. », I, 1935, pp. 1-28; Il. Peri, Il porto di Palermo cit., pp. 462-3). Non mancava, comunque, a Palermo (come del resto, per i consumi familiari e
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locali, anche in abitati minori) la tessitura se le gabelle stabilivano la tassa annua rispettivamente di 6 - e di 12 tari per ogni telaio di panni o di rindelli (Gli atti cit., I, p. 330). 25 «(...) sollemniter est in curia constitutum ut amodo singulis annis per totum regnum de omnibus victualibus, leguminibus, lino et cannapi, .que fiunt tam in terris demanii, quam in terris aliis ad demanium devolutis, imperiali fisco pars duodecima tribuatur (...) » (Winkelmann, I, pp. 415-6). 26 Le lagnanze degli uomini di Caltabellotta « effecti pauperes et territi gravamine ipso » per quanto ad essi si chiedeva per gli animali annualmente affidati, in Winkelmann, I, p. 719. n Il documento del 1202 relativo al casale Zarcante presso Carini, in R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 199, n. 3. Il doc. di Pag ano de Parisio, in C. A. Garufi, I de Parisio cit., pp. 369-71. La concessione dei villani « Policii », in H.B., I, pp. 113-6 e conferma del 1219, I, pp. 587-8. La facoltà al monastero vescovile di Monreale di riprendere villani e loro familiari ovunque fossero, nel marzo 1221, in H.B., II, pp. 150-2. Il doc. di frate Ruffino per Agrigento, in Collura, p. 154. Su Margana e Haiarzineth, M. Amari, Storia dei musulmani cit., III, p. 608. « (...) cum villani dicantur fuisse Sarraceni, eis modo mortuis et .eiectis de Sicilia », in Winkelmann, I, pp. 701-2. 28 Per le persistenze di rapporti di villanaggio nei territori del vescovo di Patti e in diocesi di Agrigento e di Cefalù, Il. Peri, Il villanaggio cit., pp. 86-7. H. Bresc - G. D'Angelo, Structures cit., hanno segnalato da un doc. trascritto in ms. nella Biblioteca comunale di Palermo qualche censo dovuto a Petralia nel 1290 « nomine villanagii ». L'elenco di villani di Cefalù dal Rollus rubeus, pp. 39-41. La convenzione fra il vescovo e i de Garessio, in Sciacca, pp. 231-8. L'accordo con gli uomini di Sinagra, in R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 190, n. 4. Quello dell'arcivescovo di Messina con gli uomini che tenevano vigne e Zaffaria e Lardaria, ivi, p. 190, n. 5. 29 La enciclica « super massariis curiae procurandis et provide regendis », in H.B., IV, pp. 214-8. Gli statuta delle masserie in Winkelmann, I, pp. 754-8 e 758-9 (seguono le aggiunte di Carlo I dell'ag. 1275); per la datazione, p. 755: « Si post obitum domini regis Conradi (...) ». 3° Sulle locazioni del demanio regio la nov. const. I, 88 De locatione .demanii (H.B., IV, p. 210), e anche la nov. const. I, 87 Forma qualiter notande sunt res fiscales (H.B., IV, pp. 208-10). Locazione in gabella di « scadenze » del demanio, nel 1249, in G. Paolucci, La giovinezza di Federico II e i prodromi della sua lotta col papato, in Atti acc. , 1902, pp. 48 50. Le disposizioni di Federico a R. de Amicis sulle gabelle della curia, nel nov. 1239, in H.B., V, pp. 504-6. Il mandato, nel dic. 1239, di dare mille buoi a saraceni (« ad partem sicut tenere consueverunt tempore regis G. Secundi »), in H.B., V, pp. 628-9. 31 «(...) renunciando expressim consuetudinibus civitatis Messane de gabellis », marzo 1243, in Battag li a, pp. 147-50. V. La Manda, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Palermo 1900, p. LVII, segnala riferimenti alle consuetudini messinesi in atti degli anni 1243, 1246, 1252, 1266. La consuetudine messinese delle gabe lle è la XXXII (W. Brünneck, Siciliens del mittelalterliche Stadtrecht, Halle 1888, pp. 151 2). In una inquisitio 1260 sui beni del vescovado di Agrigento (Co llura, pp. 156-71) si trovano -
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le locazioni « ad certam gabellam » che risalivano « a viginti annis infra » e i « victualia de terragiis ». 32 Il II cap. della nova const. De locatione demanii proibiva ai maestri curatoli di costringere ad acquistare « iura curie nostre vel res alias » sia pure a giusto prezzo, e permetteva « come è consueto in ogni parte delle terre » che si impedisse di vendere i propri iura prima di quelli della corte « a giusto e comune prezzo » (H.B., IV, pp. 210-1). Era allegata in nota una lettera regia a Tommaso di Montenegro, nel 1239-1240, giustiziere di Principato, nella quale si affermava che era arrivato ad audientiam che i baiuli e altri magistrati costringevano i tavernieri ad acquistare « quanto e al caro prezzo che volevano i vini propri o quelli da essi comprati ». Sul costume degli ufficiali si ricordino pure la const. I, 78 intesa a reprimere superexactiones et rapinar di cabelloti ecc. e il richiamo ai giustizieri nel 1241 (Winkelmann, I, p. 656) a seguito delle notizie che arrivavano all'imperatore sepius delle fughe di procuratori, revocatori, stallieri nel timore di essere costretti a dare cauzione fideiussoria. 33 Le prime locazioni di immobili della corte in Palermo da parte di Oberto Fallamonaca, in Winkelmann, I, pp. 561-2. 34 Per le censuazioni e i riferimenti puntuali ai documenti, cfr. Il. Peri, Censuazioni in Sicilia nel secolo XIII, in « Economia e Storia », IV, 1957, fasc. I, e Il villanaggio cit., pp. 90-5. Da aggiungere, pubblicati posteriormente, gli atti, in Guillou, pp. 98, 156-7; e in Ménanger, pp. 128, 191-4. 35 «(...) secundum usum et consuetudinem civitatis Panormi », genn. 1236 (= 1237), in Battaglia, pp. 47-8; « iuxta consuetudinem ecclesiarum Panormi », dic. 1258, ivi, pp. 87-9. In un contratto dell'ott. 1248 (ivi, pp. 50-1), concedente la casa dei teutonici, si stabiliva che nel caso che non si fosse addivenuti alla divisione dopo che la piantagione era messa a frutto, il coltivatore e gli eredi avrebbero corrisposto la quarta parte della resa. Altro caso atipico è dell'ott. 1260 (ivi, pp. 97-100): in ciascuno dei primi 29 anni il plantator della vigna di canne 60 x50 doveva il censo di 10 tari, successivamente avrebbe corrisposto la quarta parte delle {ive (ma una vigna piantata da 29 anni quanto e per quanto ancora poteva rendere?). Altri contratti atipici sono segnalati in Il villanaggio cit., pp. 121-2. 36 Il terraggio di Eraclea nel 1239, in H.B., V, pp. 632-4. La consuetudine palermitana sui terraggi, in W. Brünneck, Siciliens cit., pp. 83-4. Il cap. XXXII di Giacomo II, in F. Testa, Capitula Regni Siciliae, 2 voll., Palermo 1743, vol. I, p. 37. .
XVII. Dieci volte il seminato 1 « (...) alchanam et indicum et alia diversa semina que crescunt in Garbo nec sunt in partibus Sicilie adhuc visa crescere », « et hominibus ipsis venientibus eos recipias et facias fieri zucarum, et facias etiam quod 10ceant alios facere, quod non possit ars talis deperire in Panormo de levi », in H.B., V, pp. 571-4. La richiesta, nel genn. 1240, al secreto di Messina di inviare « centum barrilia de bono vino de galloppo », in H.B., V, p. 683. 2 Nell'apr. 1240 (H.B., V, p. 884) la corte chiedeva al secreto di Messina 1000 vacche degli armenti regi « que sint habiles ad colendum e 6000 pezze di cacio delle mandre di Sicilia; il 2 maggio (H.B., V, pp.
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Abbreviazioni e note
vacche con i tori. Poco avanti, nel dic. 1239 (H.B., V, pp. 628-9), erano stati richiesti allo stesso secreto 1000 buoi fra domiti e indomiti da assegnare a parte ai saraceni di Lucera. 3 Proibizioni di esportare bovini ed equini fuori del regno, nel 12391240, in Winkelmann, I, pp. 647-9; H.B., V, pp. 740-1; H.B., V, pp. 759-60 (particolarmente per la Sicilia); H.B., V, pp. 770-4. Disposizione sulla « copertura » delle giumente, in H.B., V, p. 738. Le novae const. Super bobus domesticis pro quolibet debito non auferendis et super hortis et vineis colonorum non devastandis, in H.B., IV, pp. 237-9. La assegnazione del bestiame di R. de Calveills, in H.B. , V, pp. 822-4. Super massariis curiae procurandis et provide 4 La const. o enciclica Statutum massariarum et primo de grege in H.B., IV, pp. 213-6. regendis, porcorum, Statutum iumentorum e Statutum massariarum, in Winkelmann, I, pp. 754-8. 5 « Item ita quod qualibet salma frumenti tenetur reddere salmas decem et de ordeo duodecim et, si pestilentia contingerit, quod predicta adimplere non possint, teneantur probare illud et per convincinos et per publicum instrumentum » (Winkelmann, I, p. 757). La sentenza del giustiziere Riccardo di Montenegro nella lite fra Gregorio Mustaccio e il vescovo di Patti, in H.B., VI, pp. 801-5. Ci si trova per la Sicilia dinanzi a una sostanziosa continuità di destinazione del suolo e di sistemi di cultura che ha espressione, oltre che nelle rese, nel valore venale attribuito ai cereali di maggiore uso. Cicerone, che aveva altro interesse che montare le cifre, dichiarava contro Verre che nel vasto agro di Lentini la buona resa di grano era 1:8 e nelle annate larghe 1:10 (« ager efficit cum octavo bene ut agatur; verum ut omnes di adiufra vent, cum decimo »: De frumento, S 112) e che il rapporto del prezzo frumento e orzo per senatoconsulto era 2:1 (5 188). S. Mazzarino, In margine alle «Verrine» per un giudizio storico sull'orazione De frumento, in Atti del I Congresso internazionale di studi ciceroniani - Roma, aprile 1959,
vol. II (1961), pp. 99-118, ha evidenziato le difficoltà, di natura non esclusivamente economica, che risultavano dalla mancata aderenza della richiesta della popolazione romana (che prediligeva e consumava quasi esclusivamente grano) all'offerta larga di orzo che dipendeva dal sistema di cultura dei cereali praticato nell'isola. Queste difficoltà non si riproposero nei secoli XI e XIII per l'estensione del mercato (dall'Italia centro-settentrionale all'Africa di nord-ovest, e fasce espanse nel Mediterraneo orientale, nei Balcani e in Spagna), e perché la produzione siciliana non fu condizionata dall'approvvigionamento di altri paesi, e tanto meno fu in funzione di esso, e anzi il regno poté servirsi delle licenze o delle interdizioni di esportare grano per pressioni politico-militari. Per le rese fuori Sicilia con documentazione preminente dell'area anglosassone, B. H. Slicher van Bath, Storia agraria dell'Europa occidentale, trad. it., Torino 1952, pp. 91-2 (nell'alto medioevo da 1:2 a 1:3,17), pp. 192-3 e tav. 2 (tra il 1230 e il 1349, medie da 1:1,8 a 1:5,2; massima locale registrata 1:6,1). Riferimenti precipui alla Francia: R. Duby, L'economia rurale nell'Europa medievale, trad. it., Bari 1966, pp. 38-42 (nei secoli IX e X raramente le rese per il consumo eccedevano le riserve per la semina; era già eccezionale la resa 1:2,2 dell'orzo), pp. 155-65 (notevoli crescite solo negli ultimi anni del secolo XII, forse per la migliore preparazione del terreno attraverso la diffusione delle marne già segnalata da Slicher van Bath: medie di 1:4,3 nella prima metà del secolo XIII, di
Note al cap. XVII
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1:3,6 nella seconda metà per il frumento, di 1:4,4 e 1:3 per l'orzo con oscillazioni locali da 1:3,3 a 1:10); A. Fanfani, Storia economica, parte I, Torino 1958, pp. 154 e 313 (rifacendosi alle lezioni di Slicher van Bath e Duby raccolte nel vol. Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'alto medioevo, Spoleto 1976); S. Lopez, La rivoluzione commerciale del medioevo, Torino 1971, pp. 50-1 (media normale nel sec. XIII, quattro volte il seme); C. Cipolla, Storia economica dell'Europa preindustriale, Bologna 1974 (aggancio a partire dal secolo XIII con le cifre, tra loro non sensibilmente discoste, di Slicher van Bath e di I. Z. Titow, Winchester Yield. A Study in Medieval Agricultural Productivity, Cambridge 1972). Per l'Italia centro-settentrionale Cipolla riporta, prime in ordine di tempo, le rese del triennio 1386-1387-1388 proposte per terreni dell'Aretino da G. Cherubini, La proprietà fondiaria di un mercante toscano del Trecento, in « Rivista di storia dell'agricoltura », V, 1965, p. 40 che presentano salti vistosi (1:5,3, 1:11, 1:6,7) con una massima che non ha riscontro con quelle segnalate nei secoli XV e XVI nelle aree di Siena, Firenze e Arezzo. S. Rotelli, Una campagna medievale. Storia agraria del Piemonte fra il 1250 e il 1450, Torino 1973, rileva che i dati disponibili per quella regione « attestano concordemente che i rendimenti non riescono a raggiungere le 4 semine ». Sempre per l'Italia centro-settentrionale confermano questo quadro le 5 segnalazioni relative al sec. X di V. Fumagalli, Rapporto fra grano seminato e grano raccolto nel Polittico di S. Tommaso di Reggio, in « Rivista di storia dell'agricoltura », V, 1966, pp. 360-2 (1:1,75, 1:1,82, 1:2,8, 1:3,3, 1:3,5). Una osservazione che si attiene al periodo che concluse la fase espansiva avanti la peste nera; R. Duby, Terra e nobiltà nel Medio Evo, trad. it., Torino 1971 nello studio Terre e rese agricole nelle Alpi del Sud nel 1338: « Ora in quelle aziende agricole attrezzate benissimo, dove non si guardava a spese, e che possedevano un attacco di qualità, ben mantenuto e ben ferrato, dove il regime di rotazione delle colture era apparentemente adattato alle necessità della terra, questa resa normale (eguale in ogni dominio, sottolineiamo il fatto, per i vari cereali differenti) era bassissima: tra le 132 annotazioni dell'inventario, soltanto 7 attestano una resa superiore al 5 per 1; 24 una resa uguale al 5 per 1; mentre in 21 domini la resa è del 3 per 1 ed in altri 5 cade al 2 per 1 » (p. 57). Più vicino nel tempo: le rese delle masserie della curia nell'isola di Corfù, secondo un rendiconto del luglio del 1280 a Carlo I d'Angiò (Reg. ang., XXIII, pp. 241-2), erano per l'orzo 1:2,89 (159 moggi seminati, 460 raccolti), 1:4,63 (47 seminati, 258 raccolti), 1:3,33 (33 seminati, 100 raccolti); e per il grano 1:3,8 (183 seminati, 564 raccolti) 1:3,33 (102 seminati, 330 raccolti). Di una partita di grano non è dato conoscere la resa per presumibile errore tipografico (figurano 83 moggi seminati, 33 raccolti). 6 Le disposizioni per la sterilitas in enciclica, giunta nella copia al giustiziere in Terra di Bari, del luglio 1238, in Winkelmann, I, p. 633. « (...) cum eciam provincia Sicilie ubique generaliter eadem estate non habundasse scribatis » (ai portulani di Sicilia, a. 1248?), in Winkelmann, I, p. 715. 7 Marzo 1208: terre lavorative in Milazzo « ad duo paricla » di buoi, in Winkelmann, I, p. 86; a. 1247-1248: « in triginta pariclatis de terris ad triginta salmatas per pariclatas », in Winkelmann, I, pp. 701-2, e passim.
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Abbreviazioni e note
XVIII. Vita d'ogni giorno 1 L'accordo tra il vescovo di Patti e i villani nel 1249, in Sciacca, pp. 258-9. La sentenza cit. nella lite con Gregorio Mustaccio, in H.B., V, pp. 801-5. « (...) pro singulis salmis frumenti tribus unc. I. / Pro singulis salmis ordei IV unc. I. », statutum massariarum, in Winkelmann, I, pp. 755-6. La sentenza con la valutazione di 200 salme di mosto 300 tarì, in Messina nel 1246, in C. A. Garufi, Monete e coni nella storia del diritto siculo dagli Arabi ai Martini, in « A.S.S. », n. s., XXIII, 1898, pp. 1-171 (part. pp. 169-71). 2 Vendita e tratta ai mercanti di Poggibonsi, in H.B., V, pp. 530-1; ai mercanti pisani, in H.B., V, pp. 648-9. La spedizione di 50.000 salme di frumento a Tunisi, in H.B., V, pp. 783-4. La interdizione di compravendite a mercanti stranieri avanti che fossero caricate le navi della curia, in H.B., V, pp. 792-9. 3 La compravendita di 19 buoi nel 1264, in Guillou, pp. 158-64. Staia di olio « pro luminariis et aliis necesariis equorum », in Winkelmann, I, pp. 668-9. 4 L'acquisto della ancilla bianca saracena, in A.S.P., Tabulario della Magione, perg. n. 88. 5 Il pagamento delle 1230 onze per la magna « scutella de onichio », in H.B., V, pp. 477-9 e 701. La sentenza dei 1246 alla nota 2. 6 L'ordinanza regia, probabilmente del 1241-1242 e la parte di mercede in natura in Winkelmann, I, pp. 668-9. L'approvvigionamento della flotta nel 1240, in H.B., V, pp. 866-72 (part. p. 870). Sotto Carlo I, nel 1281, il biscotto per il personale delle navi era calcolato in ragione di 1/4 di cantaro per persona al mese (Reg. ang., XXIV, pp. 127-8). La vivanda in Malta sotto Gilberto Abate, in Winkelmann, I, pp. 713-5. « (...) quam etiam pro Sarracenis et servis nostris necessarium frumentum, ordeum, vineum, caseum, companagium, scarpas et indumenta », in H.B., V, pp. 509-10. 7 Vendita dell'appezzamento di terreno nel 1245, in Battaglia, pp. 57-8; del terreno alla Favara nel 1253, ivi, pp. 67-8; in Polizzi nello stesso anno, ivi, pp. 69-71. Concessioni a censo: appezzamento in contrada Ponte dell'ammiraglio nel 1255, ivi, pp. 72-4; nel 1254 in territorio di Messina, ivi, pp. 17-20; nel 1260 in contrada Zisa di Palermo, in Mongitore, Monumenta, pp. 36-7. I due atti in Polizzi, in A.S.P., Tabulario della Magione, perg. n. 56 e n. 73 (ed. con omissioni Battaglia, pp. 61-3 e 90-1). 8 Lo stipendio dell'ammiraglio Nicolino Spinola nel 1239, in H.B., V, pp. 577-83; l'onza al giorno pro expensis ad Ansaldo de Mari, in Winkelmann, I, p. 661. 9 I compensi al not. Angelo da Capua, in H.B., V, p. 723; a Oliviero di Pontremoli, in H.B., V, pp. 723-4. Il soldo di 2 mesi per i militi chiamati nell'aprile 1240, in H.B., V, pp. 924-5; « pro defectu pecunie », in H.B., V, pp. 936-8. Il « piccolo caso » di Galvano Lancia e altri, in H.B., V, pp. 855-60. 10 Lo stipendio del marescalco in 11 onze, in Winkelmann, I, pp. 668-9. Il notaio in masseria, ivi, I, p. 757. Stipendio dei giudici e del notaio, in H.B., V, pp. 951-2. Gli stipendi del seguito degli ufficiali negli ultimi anni degli Svevi risultano dai rendiconti presentati a Carlo d'Angiò (Reg. ang., I, p. 108; I, pp. 110-1). Gli alimenti alla vedova di Riccardo de Conca, in Winkelmann, I, pp. 662-3.
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11 La forma servata dal procuratore delle masserie di Puglia, in Winkelmann, I, pp. 668-9. 12 Le commutazioni reali in prestazioni d'opera a Sinagra (1249), Zaffaria e Lardaria (1262), in R. Gregorio, Considerazioni cit., p. 190 n. 4 e n. 5 (e cfr. D. Orlando, Il feudalismo in Sicilia, Palermo 1847, pp. 158-9). 13 La assegnazione di terreno (8 salme) « pro suis necessitatibus » a Mesepe ha riscontro in Sicilia in quella da parte del monastero di Scafati sotto Carlo d'Angiò « ad rationem de sarmatis VIII pro quolibet aratro » (Reg. ang., XVIII, p. 157). Nella rotazione praticata in Sicilia il terreno destinato a cultura veniva seminato a grano annualmente per la metà; la rimanente parte restava a maggese o a cereali che non consumavano il suolo. Non c'era una quota specificamente assegnata al pascolo, in quanto si sopperiva con fave, orzo, paglia, e in estate con stoppie, e soprattutto con l'incolto e con l'utilizzazione in comune dei tratti boschivi (da qui le riserve demaniali e la frequenza degli usi civici). XIX. Abitati e abitanti. Costiera e interno, città e campagna
Per la descrizione degli eventi sempre suggestiva e stimolante La guerra del Vespro siciliano di M. Amari (ultima ed. vivente l'A. in Firenze nel
1886, sulla quale è la ristampa in 3 voll., con intr. di F. Giunta, Palermo 1969). Attenzione alle condizioni interne in E. Leonard, Les Angevins de Naples, Paris 1954 (trad. it., Varese 1967). Quadri di insieme degli eventi: E. Jordan, Les origines de la domination angevine en Italie, Paris 1909; e particolarmente St. Runciman, I Vespri siciliani. Storia del mondo mediterraneo alla fine del XIII secolo, trad. it., Bari 1971. 1 Elenchi di terre in funzione di distribuzione di monete e di subventiones: apr. 1270, in Reg. ang., XI, p. 212 (Sicilia citra e ultra); apr. 1273, in Reg. ang., XI, p. 212 (ultra); 1276-1277, ind. V, in Reg. ang., XIV, p. 97 (citra); maggio 1277, in Reg. ang., XVII, p. 62 (citra); ag. 1279, in M. Amari, La guerra cit., III, pp. 250-4; e dopo lo sbarco nelle richieste di Pietro d'Aragona, in De rebus Regni Siciliae. Documenti inediti estratti dall'Archivio della Corona d'Aragona, Palermo 1882, pp. 7 8, 13 7, 293 9, -
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331-40, 340-3, 343-67, 370-414. Dati limitati ad alcune o a poche terre: 1276, in Reg. ang., XIII, p. 309; 1277, in Reg. ang., XIII, p. 310 (e XIII, p. 303); maggio 1277, in Reg. ang., XVII, pp. 136-43. Numero delle terre nei giustizierati: Reg. ang., XVIII, p. 6; XVIII, p. 60; XVIII, p. 253 (1277); M. Amari, La guerra cit., III, pp. 246-9 (1278); Reg. ang., XX, pp. 97-8 (1279). 2 Descrizione degli eccidi compiuti in Augusta dagli uomini di Guglielmo Stendardo, Saba, col. 854-5. Sarebbero scampati solo 24 uomini fuggiti su una imbarcazione; ma la città sarebbe stata presto ripopolata « ab antiquis inquilinis » perché il re avrebbe convenuto sul danno dell'abbandono del suolo fertile. 3 Per le condizioni più favorevoli di un abitato dell'interno secondo la sensibilità dei contemporanei, Jamsilla, col. 550: « Est autem civitas ipsa Castri lohannis in medio Siciliae posita cunctis aliis Siciliae locis situ eminentiore (...) lapidibus etiam circumquaque decisa, et rupibus angustissimis, et decliviis viis ex tribus tantum partibus accessibilis, aquae abundantiam in ipsa etiam sublimitate montis habens ». 4 Percentuali de ll a Sicilia nelle collette e distribuzioni di moneta: mag-
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Abbreviazioni e note
gio 1270, 25,49% (Reg. ang., V, p. 6); 1276, 24,91% (Reg. ang., XI, p. 290); 1276, 24,70% (Reg. ang., XIII, p. 212); genn. e dic. 1277, 24,92% (Reg. ang., XIII, p. 303; XVIII, p. 9); 1278, 24,94% (Reg. ang., XX, p. 104); 1279, 22,41% (Reg. ang., XX, pp. 97-8); ag. 1279, 21,42% (Reg. ang., XXI, p. 186); genn. 1280, 24,98% (Reg. ang., XXII, pp. 27-8); sett. 1280, 23,77% (Reg. ang., XXIV, pp. 27-9; in regesto XXI, p. 292); genn. 1281, 28,16%, in C. Mineri-Riccio, Il regno di Carlo I d'Angiò dal 1273 al 31 dicembre 1283, dallo « Archivio storico italiano », XXII, 1875-1881, p. 3 (e Reg. ang., XXIV, p. 41 da ms. dello stesso Minieri-Riccio); luglio 1281, 23,18% (Reg. ang., XXIV, pp. 21-4). Riferimenti e proposte sugli abitati maggiori, K. J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, BerlinLeipzig 1937, pp. 91-6, pp. 190-203. 5 Tentativo da parte della corte di verifica della situazione feudale nel regno, la disposizione (Reg. ang., V, pp. 111-2) di riscontrare luogo per luogo quanti feudatari vivessero « jure Francorum sive jure Langobardorum ». Le difficoltà di un quadro delle condizioni locali e di insieme si evidenziano nell'ordine al vicario di Sicilia nel maggio 1273 di distribuire la colletta secondo le « facoltà » di ciascuna terra, dato che « propter adversitates et pressuras illicitas ex preterta guerra [in] terris ipsis per quaternos ipsius Curie nostre haberi non potuit plenaria certitudo » (Reg. ang., X, p. 68). Reg. ang., X, p. 68 6 Disposizioni sulla esazione delle collette, oltre in (1273), in Reg. ang., XII, pp. 26-8 (1276), XIV, pp. 126-7 (1277), e cfr. R. Trifone, La legislazione angioina, Napoli 1921, pp. 51-8. 7 La denuncia di S. Giovanni in Galdo, in Reg. ang., VII, p. 126. Per Conversano, P. Egidi, Ricerche sulla popolazione dell'Italia meridionale nei secoli XIII e XIV, in Miscellanea di studi in onore di G. Sforza, Lucca 1920, pp. 731-50 (part. pp. 745-6). Taluni dati apparentemente agevoli non sono utilizzabili perché manca l'aggancio alla colletta di insieme e perché in partenza sfuggivano dalla correlazione con la condizione demografica. Nel dicembre 1270 (Reg. ang., IX, p. 284) era dato ordine al giustiziere di Principato di raccogliere la tassazione imposta nella ind. XII, e si elencavano alcuni abitati (Sorrento con 335 focolari per onze 83 tari 12 grana 10; Capri con 124 focolari per 31 onze; Positano con 36 focolari per 9 onze, ecc.). La quota focolaria è costante in 150 grana (solo due eccezioni, in 149 e 150 rispettivamente), pari a tari 7 1/2, un augustale. Si tratta, cioè, della tassa per focolare sostitutiva della partecipazione di un uomo all'esercito mobilitato per l'assedio di Lucera, ultimo nucleo di resistenza in Terraferma dopo la sconfitta di Corradino (cfr. P. Egidi, Ricerche cit., pp. 736-8). 8 Sulla incentivazione a ripopolare Augusta: Reg. ang., IV, p. 126. n. 837 (« provisio pro extraxtione victualium » a un marsigliese « qui indendit incolatum facere in terra Auguste »); Reg. ang., VI, p. 201, n. 1067 (« statutis super distribuendis bonis proditorum Auguste novis habitatoribus eiussem terre, et precipue Ultramontanis et Provincialibus eligentibus in terra ipsa incolatum facere »). Die Verwaltung der 9 I presidi dei castelli nel 1281, in E. Sthamer,
Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II und Karl I von Reg. ang., Anjou, Leipzig 1914, pp. 155-6. Per gli anni 1271, 1275, 1276:
VII, pp. 262-3; XI, pp. 222-5; XIII, pp. 67-8; XVIII, p. 188. Sul corn-
portamento de lle guarnigioni, il caso del castello di Durazzo ove « sunt aliqui servientes qui sunt ultramontani et alii etiam vexatores se male gerentes, qui gagiis nostris eis statutis non contenti alii etiam bonis exem-
Note al cap. XIX
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plum ex hoc discentionis indevotionis et inobedientie tribuunt » si da renderne necessaria la sostituzione (nov. 1279, in Reg. ang., XXIII, pp. 81-2). Gli stipendiari al seguito del vicario di Sicilia, in Reg. ang., XXIII, p. 253. I 20 ]odestinati alla scorta del tributo di Tunisi, ivi, p. 256. Ordini di impedire fughe da terre demaniali, in Reg. ang., V, p. 5 (apr. 1270); VI, p. 19 (dic. 1270, Milazzo) e passim. Le lamentele, accolte in parte nel 1271, degli abitanti di S. Marco gravati da tasse fino ad essere costretti a emigrare, in Reg. ang., VI, p. 255. Il terrore dell'arruolamento nella flotta, ivi, p. 119 (dic. 1270). Misure per impedire passaggi clandestini nell'isola, ivi, p. 10. 11 A parte le proposte per il tardo sec. XIV, dopo la peste nera, danno adito a riflessione le prime cifre dosate su elementi non molto fragili: escluse Palermo e Messina, nel 1569, 787.297 abitanti; nel 1583, 801.401; nel 1593-1594, 730.700 (M. Aymard, Sicilia: sviluppo demografico e sue differenziazioni geografiche, nel vol. miscellaneo Demografia storica, Bologna 1975, pp. 194-227). 12
Qualche caso di riduzione di tributi, fuori della linea di tendenza dell'amministrazione angioina, ebbe esplicita motivazione: nel luglio 1276 il tributo che gli uomini di Aidone dovevano in conversione dello ius marinarie et lignaminum curie fu ridotto da 126 onze e 20 tari a 100 onze in quattro anni, quante la corte riteneva bastanti perché quella terra si sollevasse dai danni subiti da parte dei seguaci di Corradino e ad incoraggiamento a quelli che erano tornati ad abitarla (Reg. ang., XV, pp. 25-6). L'armamento de ll e galee nel 1276, in Reg. ang. , XIV, pp. 32-3. I provvedimenti per l'approvvigionamento di Messina nel genn. 1281, in C. Minieri-Riccio, Il regno da Carlo I cit., p. 3 e in Reg. ang., XXIV p. 126 da ms.; con data marzo 1280, in Reg. ang., XXIII, p. 64. M. De Boiiard, Problèmes de substances dans un état médiéval: le marché et les prix des céréales au royaume angevin de Sicile (1266-1282), in «Annales d'histoire économique et sociale », X, 1938, pp. 438-511 (part. p. 485) interpretava il provvedimento quale volto a coprire l'intiero fabbisogno di Messina, e se ne serviva agli effetti del computo del consumo medio a persona da un lato e quello generale nell'isola dall'altro, attraverso il rapporto fra le 30.000 salme di grano e la popolazione della città (70.000 persone) e dell'isola (1.500.000) secondo le proposte di G. Pardi (Storia demografica della città di Messina, in « Nuova rivista storica », V, 1931; La popolazione della Sicilia attraverso i secoli, in «A.S.S. », XLIX, 1928); proposte che però non trovano ormai accettazione neppure a titolo ampiamente indicativo sviluppate come sono sulla presunzione costante dell'interrelazione fra crescita e contrazione demografica da un lato e congiuntura politico-militare dall'altro. Riferimenti alle razioni alimentari alla nota 3 del cap. XX e per gli anni degli Svevi pp. 208-10. La vivanda in 2 tumoli di grano della salma di 8 tumoli a persona al mese per i militari nel sud-est europeo (in « Romania ») nel 1279-1280, in Reg. ang., XXIII, pp. 83-5, pp. 83-5, pp. 104-9 (part. p. 106), pp. 109-13 (part. p. 110). Le leggi suntuarie in Messina, in Reg. ang., VIII, pp. 185-6; IX, pp. 290-1; X, pp. 63-4; XII, pp. 160-1.
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Abbreviazioni e note
XX. La crisi della congiuntura 1 Nel 1273 fu dato ordine ai maestri procuratori di acquistare il sale estratto o da estrarre da tutte le saline dell'isola, che erano a: Trapani, Licata, Erac1ea, Capo Passero, Caltabellotta, Castrogiovanni, S. Filippo d'Agira, Nicosia, Galati, Petralia, Cammarata, Sutera, Manfra, Murra, Messina, Lipari (Reg. ang., XI, p. 220, n. 141). Nei documenti di corte si trovano notizie episodiche di esportazione di tonnina (Reg. ang., III, pp. 62 e 201), di cacio e carni salate (Reg. ang., p. 26; E. Jamison, Documents from the Angevin Register of Naples, in « Papers of the British Institute of Rome », 1949, pp. 138-40, bombate). « Nonnulli mercatores » esportavano zolfo, allume, carbone e scope da Lipari e Vulcano (Reg. ang., XVI, p. 184). Si trovano anche esportazioni di vino (Reg. ang., V, pp. 40-1 e 72-3; IX, p. 287). Delle grassia era interdetta l'estrazione (Reg. ang., I, p. 70; XVIII, p. 47). Divieti di esportazione dei cavalli atti alle armi e dei buoi: Reg. ang., I, p. 70; XVII, p. 47; XIX, p. 52. Impignorabilità dei buoi, Reg. ang., XIV, p. 197. L'acquisto degli ovini in Barberia, Reg. ang., XXI, p. 177. 2 L'aratro con 4 buoi nell'area del regno, Reg. ang., IX, pp. 208-9; XIII, p. 157; XVIII, pp. 159-60. Per la concimazione con sterco di « bidentium » e buoi a coppie (« per singulos duos boves »), Saba, col. 874. La commissio araciarum Sicilie, in Reg. ang., XIX, pp. 102-7; lo statutum araciarum curie in Sicilia, ivi, pp. 107-8; e la Commissio a pp. 108-12. Sollecitazioni ad allargare i campi coltivati, ivi, p. 110. « (...) in vineis, olivetis, iardenis et aliis possessionibus quam rebus aliis sunt conlapse », ivi, p. 111. 3 L'approvvigionamento dei castelli era costituito da « frumento e altre vettovaglie, vino, sale, olio, orzo, miglio, fave, ceci, e altro » (Reg. ang., III, p. 170). Lo « altro » consisteva in cacio, carni salate e tonnina (Reg. ang., XIII, p. 155, per il castello di Polizzi). Il fabbisogno di frumento a persona era valutato in ragione di 3 salme l'anno, e cioè 4 tumoli (Reg. ang., XIII, p. 67; XVIII, p. 188). Lo statutum araciarum stabiliva la corresponsione della vivanda di 2 tumoli al mese agli scudieri e ai giumentari (Reg. ang., XIX, pp. 102-7); quello specifico delle aracie in Sicilia assegnava sia ai custodi che ai servi la vivanda in tumoli 1 1/2, e cioè 3 mezzarole, al peso di Sicilia (Reg. ang., XIX, pp. 107-8). Gli alimenti nella misura di tumoli 1 1/2 al mese per persona erano assegnati a un mutilato « ab hostibus Romane Ecclesie » residente in Messina e al suo scudiero (Reg. ang., IV, p. 161). A questi 2 erano pure assegnate 12 salme di vino l'anno (al personale minuto delle aratie ne era dato un barile al mese nella misura di Amantea). Lo statutum di Sicilia, che Carlo estese al naviglio con ciurma di Terra di Lavoro e di Provenza (Reg. ang., IX, p. 201) dava al mese un cantaro di biscotto ogni 4 uomini, e cantara 31/2 di cacio e 2 1/2 di carni salate per galea (la ciurma abitualmente era di 150 uomini). Interessante anche osservare il rifornimento fatto pervenire dai vicesecreti di Sicilia all'esercito accampato presso Tunisi: biscotto « meno buono fatto del frumento della Curia (...) della Puglia, conveniente tuttavia e utile quale panatica delle galere (129 cantara e 84 rotoli), biscotto buono (153 cantara e 97 rotoli), buona semola di frumento (62 salme e 2 tumoli), granata dolci (1900), saligne (720), e acri (475), cotogni (220), lumie (3000), pesche (1350), mele (850), racemi primestri (2 cantara e 75 rotoli).
Note al cap. XX
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4 Da un ms. di C. Minieri-Riccio è riportata, in Reg. ang., VI, p. 166, « Notizia della comunità degli ebrei della terra di San Marco in Sicilia, in data 21 gennaio ind. XIV » (e cioè 1271). Nel marzo 1273 Carlo comandava di pagare alla badessa e al monastero del Salvatore di S. Marco le 20 onze « quas consueverunt percipere de tabella ludeorum et tinctorie et de aliis cabellis terre S. Marci » (Reg. ang., IX, p. 45, n. 137). Nel genn. 1283 Pietro d'Aragona accoglieva l'informazione da parte dei giudei di S. Marco che essi suolevano contribuire alle sovvenzioni per 1/10 dell'imposta di tutta la terra, e pertanto dovevano 7 onze (De rebus cit., p. 314; G. B. Lagumina, Codice cit., I, pp. 28-9). 5 Il cambio delle attribuzioni ai secreti nel 1266, in Reg. ang., V, p. 201. 6 Lo ius exiture nel 1266-1267, in Reg. ang., V, p. 201. Il prezzo del grano della curia nel 1266-1267 e nel 1267-1268, in Reg. ang., II, pp. 227-8. Importazioni di vettovaglie dal Principato e Terra di Lavoro nel. 1268, in Reg. ang., I, p. 268; dalla Puglia, ivi, I, p. 291; ivi, II, pp. 30-1; ivi, II, p. 55. 7 M. Amari, La guerra cit., I, pp. 94-5 riportava dagli Annales di Genova la voce che circolava in quella città, che il frumento si vendeva in Sicilia dai 40 ai 100 tari la salma. Il grano di Puglia nella Sicilia orientale a tari 34 1/2 la salma, in Reg. ang., VI, p. 354. II rendiconto presentato da Giacomo Rufulo e approvato con atto del 1271, in Reg. ang., VI, pp. 342-5. II grano in Catania a 43 tarì la salma in Reg. ang., VI, p. 18. Richieste ai giustizierati di Terraferma, Reg. ang., III, p. 259. Importazioni da Marsiglia e dalla Provenza: Reg. ang., III 60, nov. 1269 (1000 salme da Marsiglia); ivi, V, 153, nov. 1269 (dalla Provenza, da parte di mercanti di Lucca); ivi, VI, p. 254, apr. 1271 (988 salme). Altri carichi diretti in Sicilia, senza specifica del porto: Reg. ang., IV, p. 85; IV, p. 148; V, pp. 37-8; V, p. 157; VII p. 29; VII, p. 41, p. 85; IV, p. 177; VII, p. 23 (oltre, VI, p. 254). A Messina e costiera di levante: ivi, III, p. 251; III, pp. 258-9; IV, p. 80; V, p. 28; V, p. 148; VI, p. 161. A Trapani: V, p. 85. Dalla Provenza e dalle Puglie per l'esercito di Tunisi, dirottati su Sicilia: ivi, VI, p. 159; VI, p. 161; VI, p. 177; VII, p. 27. 8 L'ordine al secreto di consentire le esportazioni nel 1271, in Reg. ang., VI, p. 179. Le disposizioni del sett., in Reg. ang., VII, pp. 171-2. « (...) pro iure exiture salmarum M de portubus iurisdictionis sue unc. auri L » (rendiconto del secreto e portulano di Principato e T. di Lavoro dal sett. 1265 al febbr. 1266, in Reg. ang., I, pp. 102-9, part. p. 108). La misura dello ius exiture fissato da Carlo I, in Reg. ang., VI, p. 177; la riduzione a metà per le estrazioni verso porti del regno (dic. 1278), in Reg. ang., XXI, pp. 31-3. 9 Il prezzo ai livelli di guardia dalla carestia, Reg. ang., VII, pp. 31-3 (dic. 1278). 10 Sovrapproduzione e export nel giugno 1276, Reg. ang., XVI, pp. 179-80, XVI, p. 181. Eccedenze nel luglio 1277: ivi, pp 112-3. Partecipazione della corte allo export con lo ius exiture: Reg. ang., XI, pp. 93-4 (apr. 1274, per 3000 salme di frumento con mercanti pisani). L'esportazione a Napoli e da Napoli per Roma, Reg. ang., XVIII, pp. 102, 123,. 135, 136, 219, 220, 222-3, 224. L'esportazione nel febbr. 1278, in Reg. ang., XIX, pp. 39-42. L'ordine a Matteo Rufulo di Ravello per l'esportazione del grano e dell'orzo, nel maggio 1281, sulle navi della curia o in mancanza su vascelli « conductionis privatorum», in Reg. ang., XXIV, pp. 155-7,
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Abbreviazioni e note
dalla ed. di G. Del Giudice, Una legge suntuaria inedita del 1290, Napoli 1887, pp. 216-9 (attraverso la quale fu recepita da G. Yver, Le commerce cit., pp. 28-9) con lacune vistose, sì che il totale non corrisponde alle singole voci. Lo specchio risulta con evidenza dalla lettera inviata nella stessa data ai portulani di Sicilia perché consentissero l'estrazione libera « a iure exiture sine molestia » e fornissero il biscotto pro panatica per il viaggio, ora in Reg. ang., XXIV, pp. 127-8, da M. Camera, Memorie storico-diplomatiche dell'antica città e ducato di Amalfi, 2 voll., Salerno 1876-1881, I, p. 451, segnalandone la datazione errata. La richiesta di verifica delle notizie sui prezzi in Africa in Reg. ang., XXV, p. 2. Riguardo al quantitativo di grano esportato, M. De Boüard, Problèmes cit., pp. 483-4, ritenne poterlo precisare, dal 1266 al 1282, in 645.000 salme delle quali 555.000 dalla sola Sicilia; ma non si vede quali fonti confortino questo calcolo. Nel saggio sono utili piuttosto i dati relativi alle oscillazioni dei prezzi (pp. 492-5), là dove sono confortati da riferimenti puntuali ai registri di Carlo I. 11 La « instantia hyemalis temporis » in Reg. ang., V, p. 201. Ma il deterioramento delle condizioni climatiche fra il 1300 e il 1450 resta fra le ipotesi autorevolmente contraddette (cfr. B. H. Slicher van Bath, Storia agraria cit., pp. 225-7). Sul contrabbando — come suole succedere — vi furono proibizioni e richiami; e c'è qualche documento di casi nei quali si era colti in flagranza. Una prima fase è legata alla carestia del 1268-1271 quando, oltre lo ius exiture, si eludeva la proibizione di estrarre vettovaglie. Nell'ottobre 1269 la corte richiamava alla « massima diligenza » i preposti ai porti e alle maritime di Napoli, Baia, Nisida, Pozzuoli, Procida perché si impedisse la estrazione di vettovaglie in frode della curia (Reg. ang., V, p. 179), e nel seguente febbr. 1270 ordinava, a denunzia del secreto di Principato e del vicesecreto di Abruzzo, di procedere, dato che « in largo numero estraggono da quelle parti merci e altre cose lecite e illecite » (Reg. ang., III, p. 860). Meno vagamente, nel giugno veniva disposta un'inchiesta sulla denuncia che « grande quantità di vettovaglie sia stata portata fuori dai porti e luoghi marittimi di Calabria, Val Crati e Terra Giordana, in frode della curia, sotto pretesto di portarla in Sicilia a venderla ai portulani » (ivi, V, pp. 83-4); e nel rendiconto del giustiziere di Terra di Bari relativo alla gestione dal giugno del '68 all'ott. del '69 si trovavano tale Pasquale Rubeo di Bari e soci ai quali era stato sequestrato dell'orzo che avevano cercato « estrarre clandestinamente » contro la « inibizione di non esportare vettovaglie della stessa terra » (Reg. ang., IV, p. 178). La seconda fase si aprì con la revoca del divieto di estrazione, il contingentamento delle esportazioni e la elevazione dello ius exiture. Venne allora anche la preoccupazione che il carico andasse oltre la licenza; e nel sett. 1275 si raccomandava (Reg. ang., XIII, pp. 16-7) ai vicari e portulani di Sicilia di non frapporre impedimento a due mercanti di Gaeta che avevano acquistato licenza di estrarre fuori del regno 4000 salme di frumento dai porti dell'isola; e si dava contemporaneamente ordine di « vigilare continuativamente e sollecitamente sopra la custodia dei porti e della costiera di Sicilia che non siano estratti assolutamente vettovaglie e legumi in frode della corte, pubblicamente e occultamente », e che gli stessi ufficiali non permettessero l'estrazione « senza speciale mandato pendente dalla nostra Altezza ». Nel nov. del '72 era dato ordine di restituire al proprietario, un marsigliese che aveva dato cauzione, la nave San Giuliano in cui insieme all'orzo, di cui aveva licenza, aveva trasportato dalla Sicilia in Napoli frumento cari-
Note al cap. XXI
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cato « furtivamente » (Reg. ang., X, p. 222). Nell'ott. del '75 venne alla corte, e fu girata al giustiziere di Sicilia, la questione della nave di tale Bindino (o Bandino) de Viola (o de Vitula) da Pisa, su cui, in Palermo, tra le merci lecite, un altro pisano, tale Girardo Boninsegna, aveva nascosto un recipiente con una certa quantità di frumento. Gerardo si era messo in salvo fuggendo, e il giustiziere aveva trattenuto Bandino e la nave (Reg. ang., XII, pp. 265-6). Fecero seguito nel novembre l'esposizione dei fatti e ordini precisi dalla corte ai maestri portulani di Sicilia. Sulla tenda — si riferiva — di Bandino (le differenze di nomi sono dalla diversa trascrizione in questo e nel precedente documento) erano stati caricati nella III ind., con licenza, da diversi mercanti 2243 forme di cacio, 75 sacchi di cotone, 200 pelli vaccine, e tra questa merce furono trovati 23 sacchi di frumento caricati da Girardo Boninsegna « senza notizia e conoscenza degli stessi mercanti » (omnia munda mundis!). Si dava ordine di non procedere, però, alla restituzione della tenda avanti che Gerardo fosse preso, e di trattenere il proprietario o i proprietari della tenda i quali avrebbero dovuto curare « che non fosse immesso il frumento » (Reg. ang., XIII, p. 26). II contrabbando non era limitato al frumento, e non mancarono episodi clamorosi. Da un documento del marzo '74 sappiamo di tali Bonagiunta Sgarlata, Girardo Lombardo, Palminteri e Cagnaccio da Messina dei quali si diceva che, contro le disposizioni in vigore, si erano portati da Venezia ad Alessandria d'Egitto con la nave carica di ferro e di legname. Essendosi presentato di ritorno da Catania a Catona nella vicina sponda di Calabria, sulla imbarcazione di un pisano, lo stratigoto di Messina aveva invitato il proprietario della imbarcazione a consegnare i mercanti « sotto pena di 100 onze ». Mandati altri mercanti (uno di Salerno, altri di Pisa) a colloquio con lo stratigoto, proprietari e inquisiti erano fuggiti con la nave (Reg. ang., XI, pp. 203-4). 12 Prezzo e rendita degli immobili in Messina nel 1278, in Reg. ang., XXI, pp. 177-8. XXI. Il deterioramento delle strutture
Sull'ordinamento giuridico e l'amministrazione, oltre i riferimenti nelle opere cit. al cap. I: L. Cadier, Essai sur l'administration du Royaume de Sicile sous Charles Pr et Charles II d'Anjou, Paris 1891 (trad. it., L'amministrazione della Sicilia angioina, Palermo 1974); R. Trifone, La legislazione cit.; G. M. Monti, Dal secolo XI al secolo XV, Bari 1929 (agli studi VI e VII); Id., Dai Normanni agli Aragonesi, Trani 1936 (studio X), A. De Boüard, Documents en français des Archives angevins de Naples, I. Les mandements aux trésoriers, II. Les comptes aux trésoriers, Paris 1933 e 1935. 1 Capitoli dei maestri forestarii del marzo 1274, in Reg. ang., XI, pp. 140-1: « si baro fuerit ve1 miles, qualibet vice solvat Curie pro pena uncias auri XXIV, si burgensis uncias auri XVI, si villanus uncias auri VIII (...) ». 2 Le disposizioni « ad tollendas rapinas », in Reg. ang., I, pp. 90-1. 3 « Usus et consuetudines dicti Regni » sulla rendita del feudo integro, in Reg. ang., XIX, pp. 268-9 (concessione di S. Pietro sopra Patti, nel 1278). Il servizio quale « consistebat antiquitus », in Reg. ang., XIV, p. 59 (1275). La surroga, in Reg. ang., XVI, p. 65; XVII, p. 156; XX, pp. 89-
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Abbreviazioni e note
91; XXI, p. 266. Invito a tutti i feudatari latini del regno « ad comparendum in mostra, videlicet illi qui tenent feudalia valore unciarum 20 et ultra compareant personaliter et qui tenent feudalia infra uncias 20 annuo valore solvant adohamentum ad rationem unciarum 12 et dimidiae de singulis unciis 20 reddituum eorundem (...)» nel dic. 1275, in E. Jamison, Documents cit., p. 113, n. 69 e reg. I registri perduti della Cancelleria angioina transuntati da C. De Lellis a c. di B. Mazzoleni, 2 voll., Roma 1939-1943, vol. II, p. 123; e rivolto ai baroni latini di terra d'Otranto, con lievi varianti formali, nel giugno 1276, in E. Jamison, Documents cit., p. 95, n. 6, I registri perduti cit., p. 123. 4 L'ordine da parte di Carlo I, nel marzo 1266, di restituire alle chiese « debitas iurisdictiones et solitas libertates, nec etiam inquietentur iuribus aut turbentur », in R. Trifone, La legislazione cit., p. 5. Nei fatti a Catania, ove il vescovo Ottone Capece fu sostituito perché nel 1267 aveva parteggiato per Corradino, la chiesa, a conclusione della procedura inquisitoria, ebbe riconosciuta soltanto « possessionem vel quasi cognitionem causarum criminalium in civitate Catanie et terris Tacii, S. Anastasie et Maschalarum » la terza parte degli introiti della doana della città e il castello di Calatabiano con le pertinenze: ben poca cosa è stato osservato (G. Fasoli, Tre secoli cit., pp. 127-9) a paragone dei diritti che poteva contare con una interpretazione non restrittiva dei privilegi di Ruggero I. Nel 1279, in seguito ad altra inquisitio, furono riconosciuti alla chiesa di Catania i 250 tarì che essa aveva percepito « ratione Casalis ludice et S. Marie de Raso » fino al 1232 quando erano state distrutte Centorbi e ludica (De Grossis, pp. 141-2). Il vescovato di Cefalù fu tra i primi a chiedere e ottenere una procedura che gli riconoscesse il possesso ab antiquo della terra stessa e gli Tura sul porto (luglio 1266, A. de Saint-Priest, Histoire de la conquête de Naples par Charles d'Anjou, Paris 1847, vol. II, pp. 365-9; Rollus rubeus, pp. 109-12). Le inquisitiones sollecitate furono poi numerose, e non solo attinenti alle decime (come si richiedeva pressoché dalla generalità dei vescovati e, da taluno - come quello di Agrigento, su cui Collura, pp. 179-84 - già avanti l'avvento degli angioini) ma pure relative a possedimenti e diritti (e proprio per Cefalù ne sono rimaste largo numero in pergamene ora spartite fra l'Archivio di Stato di Palermo e quelli del capitolo locale, e il vescovo Tommaso di Butera ne fece trascrivere congruo numero fra il 1329 e il 1330). Comunque, di dominio del vescovo sulla città si parlò e si indagò soltanto! Quello di Agrigento è forse un caso limite del trascinarsi delle rivendicazioni su decime e altri diritti con inquisitiones che si ripetettero fino al 1282. Rimangono, tra le pergamene del capitolo: 15 sett. 1266, in Collura, p. 197; 16 sett. 1266, ivi, p. 198; 17 sett. 1266, ivi, p. 199; 17 sett. 1266, ivi, pp. 200-1; 22 sett. 1266, ivi, pp. 201-7 (che insieme costituiscono la prima procedura); e poi: 8 ag. 1270, ivi, p. 212; 9 ag. 1270, ivi, pp. 212-3; 11 ag. 1270, ivi, pp. 212-3; 11 ag. 1270, ivi, p. 214; 22 ag. 1270, ivi, pp. 214-6; 24 ag. 1270, pp. 216-9 (nell'insieme altra procedura). E ancora: ag. 1274 (inquisitio estesa alla dohana maris di Agrigento, Sciacca e Licata e ai due terzi dei proventi della città e delle terre della diocesi), ivi, pp. 223-5; 1276-1277 (sulle decime di Sciacca), ivi, pp. 231-8; maggio 1280 (ordine esecutivo), ivi, pp. 230-40; 15 ag. 1280 (altra procedura ed esecutoriale), ivi, pp. 240-50. Travagliato il discorso anche su Messina, città non infeudata ab antiquo ma della quale erano in disuso e in discussione le decime stesse: 1266, in Starrabba, pp. 97-8 (chiesa di S. Lucia presso il bosco di Alcara); sett.
Note al cap. XXI
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1267, ivi, pp. 101 4 e dic. 1272, ivi, pp. 109-10 (sentenza e trascrizione della inquisitio sul giardino confiscato da Federico II); maggio 1280, ivi, p. 116 (testimonianze raccolte in terra di Randazzo sul possesso del casale di Bolo e i confini di esso). Una larga inquisitio in Messina è stata pubblicata da E. Pontieri, Per una inquisitio in Messina nel 1273, ora in Ricerche sulla crisi cit., pp. 247-64 (a pp. 254-7). A Palermo furono compiute inquisitiones, dai medesimi ufficiali, nel 1274 per l'arcivescovado (Mongitore, Bullae, pp. 131 sgg.) e per la cappella palatina (ivi, pp. 76-87). Le istruttorie non furono limitate ai beni e diritti di fondazioni religiose, ma anche condotte ai fini del recupero di beni del demanio distratti durante il trapasso della dinastia e il tentativo di restaurazione sveva (ott. 1265, in Reg. ang., V, pp. 162-3: invio di inquisitori nei giustizierati per procedere al recupero dei beni usurpati al demanio). 5 L'armamento di naviglio nel 1277: Reg. ang., XVII, p. 156; l'offerta nel 1278: Reg. ang., XXI, p. 266. Giacomino da Lentini fu investito di Sortino, Linguaglossa, Climastado e Cassisi (Reg. ang., VII, p. 69; VII, p. 209). Sortino passò poi a Guglielmo Cornuto da Messina, contrastato da Giovanni che gli eccitò contro i vassalli (Reg. ang., XXI, p. 356). Furono partecipi: Guglielmo Porcellet, Reg. ang., XXI, p. 287, Bertrando de Artus per Tortorici e altri casali, Reg. ang., III, p. 209, X, pp. 178-9 (aveva anche il casale Favara « in baronia Biccari » per dote della moglie figlia di Bernardino di Caltagirone: Reg. ang., IX, p. 43); Bernardo di Biancoforte investito del casale Gurafi e di beni in Messina e Oliveri: Reg. ang., XV, p. 25; Poncio di Biancoforte investito di S. Pietro sopra Patti con servizio di 2 militi e t/2 nella ind. V e di Calatatubo nel successivo luglio 1278 (Reg. ang., XIX, pp. 268-9); Filippo di Arellano in quota di Buccheri (Reg. ang., VIII, p. 65, e VIII, p. 90); Matteo de Podio di Centineo (Reg. ang., VIII, p. 74). 6 La nuova « lotteria feudale », dai Reg. ang.: Gadera (ind. XIII e XIV, p. 111); Librizzi e Carini (luglio 1271, VI, pp. 150-5); Gagliano confiscata a Guglielmo di Gagliano e Caccamo confiscata a Isabella f. di Manfredi Maletta (genn. 1271, VI, p. 164, in dote a Sansa di Pietro f. di Fulcone di Puy-Richard); Gratteri già di Enrico Ventimiglia « detto il Conte » (genn. 1271, VI, 164, a Guglielmo « de Mosteris »); Sperlinga con il casale di Pettineo già di Manfredi Maletta e poi di Roberto di Sparto che era passato a Corradino (genn. 1271, VI, p. 164, a Pietro de Alamannone); Geraci, Gangi, Castelluccio = Castel di Lucio (genn 1271, VI, pp. 172-3, a Giovanni di Monforte, il quale insieme a Simone aveva ricevuto Librizzi, Carini e terre fuori di Sicilia in cambio di S. Mauro, Ipsigro, Fisaula, Montemaggiore. Castel di Lucio nel 1280 fu infeudato a Pietro de Alamannone: XXIII, pp. 17 e 265); Sortino, Climastado, Linguaglossa in baronia di Ragusa (VII, pp. 69 e 207, a Giovanni di Lentini in cambio di Castelvetrano. Linguaglossa era stata confiscata a Scifo Fiorentino, e Climastado a Guglielmo Lancia. Climastado, restituita da Giovanni, fu nel genn. 1280 - XXIII, p. 14 - infeudata a Ruggero de Maricurt). Isnello-Asinello e due casali già di Nicola di Geraci (VII, p. 209, a Guglielmo di Meledun); Calatafimi e Calatamauro (VII, p. 209; VIII, p. 138, a Guglielmo Porcelet); Tortorici, il casale del Conte e altri casali (VII, p. 209; X, pp. 178-9, a Bertrando e Girardo Buccardo detti de Artus); Reitano e feudo di Conterato già di Guarino di Conterato (VII, p. 68; VIII, p. 189, a Pietro e Berengario de Levers); il castello di Buscemi dalla rendita valu. tata in 60 onze e proveniente dai beni confiscati a Federico Maletta (VIII, -
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pp. 65 e 191, a Guglielmo Oliverio ammiraglio di Nizza e al suo genero); Buccheri della rendita valutata in 80 onze (VIII, pp. 65 e 190, a Filippo de Arillano e altri); Rahlhamud e altri casali già di Federico Mosca e Giovanni de Cava (VIII, p. 65, a Pietro Nigrel de Bellomonte); metà di Ciminna (VIII, p. 69 a Fulcone de Venellis; l'altra metà era tenuta da Gilberto Abate); Raffadali e altri casali nelle pertinenze di Agrigento (VIII, pp. 71 e 198, a Bartolomeo Nigrel); Milocca e altri casali già di Nicolò de Aspello e Guglielmo di Faczarato (VIII, pp. 71 e 190, a Giovanni Rosso e Guglielmo Raimondo di Bellomonte); Melia e Rahlmingil in territorio di Castronovo, già di Nicolò Maletta (VIII, p. 191, a metà tra Raimondo Dattilo e Fernando de Aquis; vicende successive, XIII, pp. 28-9); Commicini e altro casale già di Ansaldo de Avernachio (VIII, pp. 172 e 192, a Berengario e Guglielmo Raimondo Vaccherio e a Barracio Castel); Arcudaci (VIII, p. 73, a Isnardo Pelet); Nassari (VIII, p. 73); Raddusa in territorio di Aidone già di Riccardo de Fesina (VIII, pp. 73 e 193, a Pietro de Gappo); Centineo nel Piano di Milazzo (VIII, p. 74, a Matteo de Podio); casali Cutulati e Alleli già di Guglielmo Pedevillano e figli (VIII, p. 74, a Raimondo de Puy-Richard); casale del Monaco o del Cartulario nel Piano di Milazzo (VIII, p. 74, a Ruggero de Maricurt); Capizzi già di Galvano Lancia (nov. 1272, IX, p. 43, a Pietro de Alvernia in cambio del castello di Castiglione); Sparto e altri casali (ind. I, 12721273, IX, p. 213, a Guglielmo Zavater[iol); Rahlgiovanni (IX, p. 279). Riferimenti a altre infeudazioni in quegli anni: VI, p. 154; VII, p. 222; VIII, p. 68 (numerose investiture); VIII, p. 69; VIII, p. 70; VIII, p. 71; VIII, p. 72; VIII, p. 73; VIII, p. 74; VIII, p. 78; VIII, p. 138; VIII, p. 184; VIII, p. 187; IX, p. 41; IX, p. 43; IX, p. 44; IX, p. 213; IX, p. 279. Per i nuovi feudatari la qualifica « milite », « milite e familiare » ricorre con la frequenza con cui fra i precedenti torna l'appellazione « traditore ». Infeudazioni posteriori sono episodiche (ricordiamo XXI, p. 324; XXIII, p. 59; XXIV, p. 126). In una lettera del sett. 1280 sono ricostruite le vicende feudali dei castelli di Iullano (Giuliana?) e Caccamo: Carlo li concesse a Fulcone de Puy-Richard, dal quale passarono al figlio Enrico, e da questi, che viveva iure Francorum, alla primogenita Sansa andata sposa a Gala figlio di Guglielmo Stendardo (XXIV, p. 125). Atipica, nel contesto degli anni 1270-1272, ma significativa di per sé la concessione del castello di Mistretta e del casale di Tripi a Guglielmo e Enrico Visconti di Piacenza nipoti di papa Gregorio X (sett. 1272, IX, p. 41, da un tardo ms.). Atipici pure l'invito a non molestare nel possesso di Cattafi nel Piano di Milazzo (fu forse cambio con la concessione di metà di Naso, poi tornata ai de Garessio?) Ansaldo da Patti che ne era stato investito da Federico II (VIII, p. 135); e la restituzione del feudo Blava in pertinenza di S. Niceto a Clemente Rosso di Messina (siamo ancora una volta nella supposizione del riversarsi di facoltà e velleità dalla borghesia mercantile al feudo) al quale era stato tolto da Galvano Lancia (VIII, p. 138). 7 I riferimenti a persistenze di rapporti di villanaggio, sopra, al cap. XVI, p. 200 e nota 28. Il doc. di Caltavuturo, in Reg. ang., XIII, pp. 28-9. B Rendiconti dei maestri portulani e procuratori nel luglio e dic. 1276, in Reg. ang., XIV, pp. 52-7 e 86-92. Di un operatore si legge a amalfitano cittadino di Palermo » (p. 53) e « amalfitano » (p. 89). 9 La partecipazione di Matteo Riso nella estrazione di grano a Bugia, in Reg. ang., XIV, pp. 52 e 88; l'aggiudicazione della gabella della secrezia e dei proventi e diritti del sale, in Reg. ang., XIX, pp. 117-23. Matteo maestro portulano e custode del tesoro regio nel castello di Trani:
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M Amari, La guerra cit., I, p. 192. Il pactum secretie per la ind. VI, 1277-1278, in Reg. ang., XIX, pp. 117-23. L'usurpazione dei casali del demanio da parte di Matteo e Nicoloso de Riso, in Reg. ang., XXI, pp. 259-60. Nicoloso giustiziese in Terra di Bari: M. Amari, La guerra cit., I, p. 192. Gregorio de Riso fra i mercatores, in Reg. ang., XIX, pp. 141-2. Matteo al comando delle galere messinesi nel '68: Saba, VII, 4. Valdo fra i cittadini di Messina stabiliti « super recipienda et expendenda pecunia » per le galee armate contro genovesi e pirati nella Sicilia citra, in Reg. ang., IX, p. 255. Riccardo al comando di una flottiglia a custodia del litorale dell'isola nel giugno 1278, in Reg. ang., XIX, pp. 21 e 223. io La scelta dei giudici: sett. 1277, in Reg. ang., XVIII, pp. 4-6; ag. 1278, ivi, pp. 367-9. « (...) requiras universitates et barones terrarum et locorum (...) que ad reparationem pred. Castrorum tenentur, ut unum eorum pro parte omnium ordinent, sive mittant sindicum si voluerint, qui intersit estimationi predicte et super expensis proinde non faciendis; et convocatis quatuor probis viris (...) » (al vicario di Sicilia, giugno 1274, Reg. ang., XI, pp. 233-4). tt L'inquisitio sugli « apprezzatori » a Palermo, in Reg. ang., XI, pp.
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XXII. La via al Vespro I A parte le sortite degli assediati di Augusta cui la corte dedicava titolo di pirateria, una prima fase della guerra di corsa presenta protagonisti sui mari del regno i pisani, e comprimari veneti e « altri ». Ci agganciamo alla documentazione ristretta, dall'osservatorio siciliano, a taluni interventi e misure di sorveglianza e richieste di operare rappresaglie o inviti a lla restituzione o al compenso. Il 25 agosto del '69 Carlo chiedeva al doge Lorenzo Tiepolo soddisfazione per conto di Bessono de Aquis mercante e suo fedele, il quale dichiarava di essere stato aggredito mentre navigava « nelle parti del regno » da veneziani « exercentibus piraticam pravitatem ». Il danno dichiarato era di 80 libbre turonensi (Reg. ang., II, p. 179). (La libbra tornese, che circolava largamente tra i transalpini, mercanti e al seguito della corte angioina, era valutata in ragione di 21/2 per 1 onza. Reg. ang., VI, p. 40 e passim). Alcuni giorni prima Carlo dava licenza di rappresaglia contro i pisani, i quali avevano aggredito alcuni mercanti di Amalfi in partenza da Ischia recando danni per 160 onze (Reg. ang., II, p. 168). Il 6 nov. del '69 Carlo raccomandava di munire e armare le navi con cui mercanti pisani si accingevano a condurre frumento e orzo dalla Provenza in Sicilia « in modo che siano valide a difendersi dalle incursioni di pisani e di altri (Reg. ang., V, p. 153). A una settimana di distanza il re dava ordine a tutti gli ufficiali di aiutare « durante guerra » un cittadino romano nella rappresaglia contro i pisani che « in hiis piraticam exercentes » gli avevano tolto vettovaglie che faceva trasportare dai propri terreni a Roma (Reg. ang., V, p. 154). Un'altra denuncia era pure raccolta: nella ind. XI (1266-1267) alcuni pisani avevano catturato una barca diretta a Gaeta con vino e merci per il valore di 20 onze (Reg. ang., V, pp. 154-5). Sempre nel novembre, il 20, Carlo dava disposizione ai maestri dei cantieri di Principato e Terra di Lavoro di disporre sorveglianti nel litorale a difesa «dai pisani e altri nemici della chiesa e propri» (Reg. ang., VII, p. 287). Il 29 dic. Carlo dava ad alcuni mercanti lucchesi, ai quali pisani « nostri ribelli esercenti la rapina dei pirati » avevano preso beni e moneta
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stimati 185 onze, la licenza richiesta di rifarsi sui beni degli stessi (Reg. ang., V, p. 123). Del 6 gennaio successivo, 1270, è analoga licenza a tale Ansaldo Insignieri, del quale. erano riferite le vicissitudini: stava in Trapani quando alcuni pisani, in rissa con dei genovesi, ne avevano assaltato la nave producendo danni che egli valutava in 200 onze; altra volta, navigando fiducioso da Messina a Palermo, era stato « disrobato » da pirati pisani per 60 onze (Reg. ang., V, pp. 127-8). Nel giugno del '70 Carlo protestava contro )l comune di Pisa perché, ancor dopo la concordia contratta con essi, alcuni pisani su una barchetta avevano aggredito more piratico una imbarcazione di gaetani che veniva in Sicilia per conto di un mercante di Amalfi e invitava a dare 42 onze in riparazione e 35 per risarcimento delle merci rapinate (Reg. ang., IV, p. 164). Dal '71 al '73 il ruolo di pirati-nemici fu assunto dai genovesi, mentre si aggravava il fenomeno. Del giugno del '71 era la richiesta di Carlo al comune di Genova di far restituire a mercanti napoletani i panni e le merci che alcuni genovesi (ne erano ripetuti i nomi), i quali con numeroso seguito esercitavano la pirateria, avevano esportato invadendo la terida pisana nella quale li portavano da Pisa a Napoli; e se non erano in grado di restituire panni e merci, se ne chiedeva il risarcimento nel prezzo stimato in 230 onze (Reg. ang., VI, pp. 230-1). Analoga sollecitazione era rivolta nello stesso mese in favore di un cittadino di Siracusa il quale era stato catturato, al rientro da Malta nella sua città, al Capo Passero, da una sagitta comandata da Musso di Genova abitante di Bonifacio. Gli erano stati tolti onze 18 e tarì 71/2 « in sterlingis miliarensibus et turonensibus » del valore di onze 21/2, 25 rotoli di cera, 20 di zucchero, 30 di cotone filato, 10 cantara di cacio, abiti lavorati al modo di Alessandria e listati d'oro, 100 pelli d'agnello, 2 spade, 2 coltelli de latere ed altre cose minute (interessante elenco delle cose offerte in Malta, o che da Siracusa erano esportate attraverso quell'isola) (Reg. ang., VIII, p. 246). Malta per altro era ricettacolo ospitale di pirati, almeno per quelli che non « esercitavano » contro il regno, se la corte invitava il castellano, in rispetto agli accordi presi, a non accogliere pirati che molestassero le genti del « re » di Tunisi (Reg. ang., VII, p. 221). Nel luglio del '73 (Reg. ang., X, pp. 95-6) la corte siciliana concedeva a tre mercanti fiorentini, ai quali erano state rapinate carni salate acquistate per 800 onze e che portavano dal regno in Firenze, rappresaglia sopra i beni dei genovesi. Pirateria si aggiungeva a pirateria, più che non la scacciava! Che poi ci fosse qualcosa di piratesco nell'adattarsi, se non proprio nelle abitudini, di quelli che andavano per mare e di chi li riceveva, è rappresentato da un episodio che la corte significava aI comune di Genova, nel giugno del '72, cosa come veniva ad essa riportato, invitando a convocare le parti, ascoltarle e chiudere la vertenza « mediante iustitia », e cioè in modo che « la potenza dell'avversario non preponderi sulla ragione ». Guglielmo di Santo Egidio cittadino di Palermo navigando con una barca da Marsiglia verso la sua città aveva fatto approdo nel luogo chiamato Castello dei Genovesi. Manfredi Doria, signore del castello, lo invitò a pranzo dichiarando che gli avrebbe reso « servizio e onore ». Guglielmo a cuor contento accettò. Quando poi volle allontanarsi, Manfredi lo fece catturare; e lo trattenne per più di due mesi in durit vinculis, e gli tolse 65 onze in 85 doppie d'oro « de Miro », 60 fiorini d'oro e altrettanti d'argento, 80 libbre di genovine, una coppa d'argento con piede e due senza piede, 2 anelli d'oro con pietre preziose, una cintura d'argento, le armi e quanto altro portava (Reg. ang., VIII, pp. 246-7). Che andare per mare fosse peri-
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coloro doveva essere noto; e a Guglielmo di Santo Egidio cittadino di Palermo doveva mancare, a quel che egli raccontava, l'esperienza sia pure letteraria delle insidie di un lauto pranzo. La difesa dai pirati preoccupava e impegnava la corte, e si riversava in aggravio al fisco e da parte del fisco: della ind. I (1272-1273) ci sono arrivate le nomine di un certo numero di addetti a « raccogliere e spendere » il denaro « per le galee armate contro le incursioni dei genovesi e dei pirati »: nella Sicilia al di qua e al di là del Salso quattro cittadini di Messina (uno della famiglia Riso — a non mancare — Valdo, Aldoino Cazziolo, Ansaldo da Patti, Giacomo di Sasso) (Reg. ang., IX, p. 255); per quella al di là del Salso, tre cittadini di Palermo (Bartolomeo Failla, Riccardo de Pulcaro e Nicolò Zoppo) (ivi, pp. 255-6); e nel rendiconto dell'ind. precedente presentato da Roberto Infante giustiziere della Sicilia ultra figuravano, per la stessa indizione, 800 onze in rata del sussidio raccolto « per armare i vascelli destinati alla custodia e alla difesa della costiera di quelle parti » (Reg. ang., XVI, p. 132). Che poi anche per i pirati la vita non fosse facile e quella della pirateria non fosse scelta agevole non è solo opinabile. Fossero pure solo sospetti di esercitarla e avverso che diventasse il mare non c'era scampo: quanto meno, incombeva lo ius naufragii. Nel maggio del '73 la corte sollecitava l'invio dei fustagni e delle « altre cose diverse » raccolti dagli uomini del casale di S. Primo del Cilento nel naufragio di un vascello di pirati, dei quali, forse perché neppur noti, non vengono dati nomi e luogo di origine (Reg. ang., IX, pp. 215-6). Il caleidoscopio delle presenze e delle reazioni si complicava: prendevano posto dalmati e saraceni, catalani e greci di « Romania ». L'impegno diventava vistosamente più oneroso. Nel marzo del '74 si dava ordine al vicario generale in Sicilia Ada Morrier, a Giacomo di Sasso e a maestro Burgio di Caltagirone di prendere a nolo le galee necessarie per la custodia del litorale dell'isola, e di fare armare 3 galee e 2 galeoni, di cui era nominato ammiraglio Guglielmo di Santo Onorato (Reg. ang., XII, p. 283). Nel settembre dello stesso anno erano avanzati i preparativi per muovere « all'attacco e confusione dei pirati dalmati »: al secreto di Puglia era impartito ordine di far preparare il biscotto per 2 galee da essere impiegate allo scopo e per altre 2 da adibire alla custodia del litorale di Brindisi (Reg. ang., XII, p. 158); 3 galee « per la guerra ai dalmati » erano approntate, una per ciascuna città, da Vieste, Brindisi, Trani (Reg. ang., XII, p. 159). Nel maggio del '76, « per la custodia dalle incursioni dei pirati », era data disposizione ai protontini di Napoli e di Ischia di armare una galea e un galeone per pattugliare la costa di Terra di Lavoro da Castellammare a Sperlonga (Reg. ang., XIV, p. 5) e al protontino di Amalfi di fare armare una galea e un galeone con uomini della città per sorvegliare le coste del Principato da Policastro a Castellammare (Reg. ang., XIV, p. 6): pattugliamento interrotto nel luglio per la concordia sopravvenuta con i genovesi (Reg. ang., XIV, p. 17). Prospettiva di calma risultata illusoria; ché è dell'agosto l'ordine al protontino di Gaeta di scortare, a protezione degli attacchi dei pirati, con le 2 galee e la vacetta di eui era capitaneo e che erano adibite alla custodia della costiera di Principato e Terra di Lavoro, le barche che avrebbero trasportato da Napoli a Roma il grano inviato su 2 galee dal secreto di Sicilia (Reg. ang., XIII, pp. 43-4). Tl problema della pirateria era ben lungi dall'essere risolto, e si intrecciava con i contrasti continuati e in crescenza ai due lati: con il Paleologo (che trovavano esplicazione anche nell'embargo di cereali dai porti del regno), e con la Catalogna che si sviluppava nelle ambizioni politiche e nel-
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l'espansione commerciale (con questa erano mediocremente velati nella interdizione dell'esportazione di granaglie « verso paesi d'occidente »). Alla custodia della costiera di Puglia e di Abruzzo dagli attacchi dei pirati si vedono mantenute 2 galee, 1 galeone, 1 vacetta: il pattugliamento era disposto nei 6 mesi della primavera e dell'estate, e le spese erano fatte ricadere sulle popolazioni interessate perché esposte (Reg. ang., XIX, pp. 17 e 115). Ricettacolo dei pirati erano le coste deserte; e al tentativo di porre riparo fu legata la iniziativa di costituire le terre di Villanova nel luogo detto Petrolla e di Mauli in Terra di Bari, facendole prima recintare di muro, poi abitare (giugno 1277, Reg. ang., XIV, pp. 215 e 216-7). La situazione si faceva più pesante anche sui mari e per la costiera attorno all'isola. La imposizione di approntare naviglio fatta a feudatari e città non era diretta solo allo scopo della difesa dai pirati; entrava piuttosto nei preparativi di spedizioni in particolare contro Costantinopoli. Le condizioni aggravate, d'altro lato, davano spazio alla aggressività delle navi di corsa. Nel luglio del '76 Carlo principe di Salerno e vicario nel regno raccomandava al vicario di Sicilia di sorvegliare che 2 saraceni, rei di peculato e di tradimento, custoditi nel carcere di Pantelleria dal quale non erano stati trasferiti per timore dei pirati, non fossero liberati e proprio da pirati (Reg. ang., XIV, p. 46). E c'era motivo di preoccupazione se, nell'ottobre, dietro segnalazioni e rimostranze che 2 navi catalane scorazzavano per le acque attorno, in nome ancora del principe era dato ordine al vicario di Sicilia di proteggere la piccola isola con il naviglio adibito alla difesa del litorale di Sicilia (Reg. ang., XIV, p. 181). La protezione della costa si trasferiva ancora in onere alle popolazioni: nel gennaio del '77 si dava atto del versamento di 395 onze e 15 tari in conto delle 800 onze che la curia aveva ordinato di raccogliere per le galee da armare per la custodia delle coste siciliane (Reg. ang., XVI, p. 145). Ancor più che le catalane, rimanevano particolarmente attive, fino nell'isola, le navi bizantine. Nell'agosto del '77 re Carlo approvava i provvedimenti adottati d'urgenza dal vicario di Sicilia, perché 3 vascelli armati nelle parti di « Romania », girando per le acque di Sicilia avevano recato gravi danni e trucidato numerose persone, e confermava l'impiego di 2 galee, 2 galeoni e 2 vacette nella custodia delle coste e contro i pirati bizantini (Reg. ang., XVI, p. 123). Nel giugno del '78 Carlo, ricevuta notizia che il Paleologo stava per spedire navi pirate armate in « Romania » verso la Sicilia, impartiva disposizione contemporaneamente al vicario di Sicilia e al secreto di armare 2 galee (e sembra anche 2 vacette) delle migliori, e di inviarle, sotto il comando di Riccardo de Riso e di Federico da Falcone a scovarle e a catturarle (Reg. ang., XIX, pp. 21 e 223. C'è qualche differenza nei regesti attraverso i quali ci sono giunti i documenti: in quello relativo all'ordine al giudice Pellegrino di Messina e al secreto Giovanni Castaldo di Ravello si legge « 4 galere e 2 barchette di quelle costruite in Marsala (sic!) » da Leone di Pando e da Guglielmo di Santo Egidio; nella lettera al vicario si legge « 4 galee delle più veloci che stanno nel porto di Messina ». I regesti si trovano entrambi in ms. di C. MinieriRiccio, benemerito più per mole che per qualità di lavoro). Ancora nel maggio 1281 il portulano di Sicilia era sollecitato ad armare contro i pirati 2 galee e un galeone che stavano nell'arsenale di Messina (C. Minieri-Riccio, Il regno di Carlo I cit., p. 9 e reg. in Reg. ang., XXIV, p. 128). In queste condizioni, nei capitoli trasmessi nell'aprile 1280 al nuovo vicario in Sicilia perché « eseguisse più comodamente l'ufficio affidatogli », prime stanno le disposizioni relative alla vigilanza delle coste, ponendo nelle
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torri guardie e custodi delle terre più vicine, a distesa e in continuità per l'avvistamento di giorno e di notte di « qualche legno o vascello di pirati o indevoti » e perché, nel caso, ne dessero avviso da una terra all'altra di notte col fuoco e di giorno col fumo (Reg. ang., XXIII, p. 252). 2 La procedura contro gli ufficiali della Sicilia citra nel 1270, in Reg. ang., V, p. 244. La contestazione al giustiziere della Sicilia ultra nel 1272, in Reg. ang., V, p. 75. Le denunce trasmesse nel maggio 1273, in Reg. ang., XX, pp. 69-70. 3 Lo Statutum Sicilie relativo alla flotta fu coerentemente mantenuto e l'applicazione ne fu anzi estesa, nel marzo 1273 (Reg. ang., IX, p. 201), ai salari degli equipaggi, nella misura mensile di 27 tarì (nell'ipotesi di servizio continuativo, 10 onze e 24 tari l'anno) al comito, 20 tari (8 onze l'anno) al nocchiero, 13 tari e 1/3 ai supersalientes, 1 augustale ai marinai e con la panatica (a persona 1/4 di cantaro di biscotto e per galea 3 cantari e 1/2 di cacio e 2 cantari e 1/2 di carni salate). Altrove queste mercedi erano state, o si mantenevano, più tenui: 1 marinaio subtaneo imbarcato in Terra di Bari aveva il soldo di 6 tarì al mese nel 1268-1269 (Reg. ang., II, pp. 177-8). Nell'ottobre dello stesso '69 (e cioè a carestia incipiente) lo stipendio dei navigantes in galea era sempre di 6 tarì (Reg. ang., V, p. 160); ma nel maggio del '77 anche in Taranto la paga mensile di 1 marinaio era 1 augustale più il vitto (Reg. ang., XVII, p. 91). Gli stipendi del personale della flotta armata nel 1280 per operare sui mari di Grecia erano al mese: 27 tari ai comiti, 13 tarì. e 10 grana (la metà) ai nocchieri, 7 tarì e 1 (ancora la metà) ai marinai (Reg. ang., XXIII, pp. 151-3, part. p. 151). Anche i salari nelle massarie e nelle aracie risultano pressoché identici negli statuta di tarda epoca sveva (Winkelmann, I, pp. 754-7 e 757-9) e negli angioini dell'ag. e del nov. 1276 (Reg. ang., XIV, p. 61; XIX, pp. 94-5) con appendice per la Sicilia del 1277 (Reg. ang., XIX, pp. 107-8), con qualche variazione di non ampio rilievo. Il salario del giumentaro stabilito sotto gli Svevi in 3 tari e 5 grana più 2 tumoli di frumento e 1 barile di vino alla misura di Amantea rimaneva inalterato in Calabria, ma in Puglia era 4 tari e 8 grana, e in Sicilia nel '77 era 5 tarì al mese e 1 tumolo di frumento. Al preposto delle arazie sotto Carlo I erano dati tarì 71/2, e nello stipendio del maresciallo (ed è quanto di meno) non c'era la specifica « parvi ponderis » per l'onza al mese (la differenza tra piccolo peso e peso generale era intorno al 10%; cfr. Reg. ang., XXIII, p. 13, n. 71). Meglio trattato era il personale dei castelli. Il castellano milite aveva 2 tarì al giorno (se, come era possibile, stava al servizio tutto l'anno, 24 onze, 4 in più della rendita presunta del feudo integro) se non aveva terra, la metà se la teneva. Il castellano scudiero senza terra aveva 1 tarì; il serviente e il cappellano avevano 8 grana (4 onze e 24 tari ad anno completo). Cfr. die. 1269, Reg. ang., V, p. 170, Principato; ott. 1269, Reg. ang., VI, p. 18 e 19, Castro, Canne, Calabria; marzo 1274, Reg. ang., X, pp. 19-20, Sicilia; apr. 1281, in E. Sthamer, Die Verwaltung cit., pp. 155-6, Sicilia. Abitualmente uguale a quello corrisposto nel regno era lo stipendio del personale dei castelli nei Balcani (Durazzo, Acaia, « parti di Romania ») con una eccezione a Croy ove i servienti percepivano 9 tarì e 15 grana al giorno e 15 tari se tenevano cavallo (Reg. ang., XXIII, pp. 88-9 e 181-2). 20 tari al mese e la panatica consueta era, nel dicembre del 1270 il salario del personale addetto alla custodia delle navi (Reg. ang., VI, p. 160). Nello stesso anno (Reg. ang., VII, pp. 30-1) agli addetti ai lavori nel Castel Capuano andavano dai 2 tari al giorno (24 onze l'anno, sempre in ipotesi)
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Abbreviazioni e note
del direttore dei lavori alle 12 grana dei fabbri e 8 della donna che preparava i fili e sistemava le corde delle balestre; che sono compensi analoghi a quelli dei lavoranti nel febbraio del '70 (Reg. ang., III, pp. 165166) al castello in Napoli (al di: 1 tari al primo maestro, 12 grana al muratore, 8 al serviente). Più elevato, forse perché corrisposto per breve tempo e in circostanze più difficili, era il soldo per la costruzione delle mura di Lucera, dal maggio del '72 (Reg. ang., XI, pp. 140 e 225): 3 onze al mese allo ingeniator, 1 ai maestri gallici, 2 ai maestro Giovanni de Dinant « ordinato super forgia carpentarie ». Lo stipendio del rettore (« giustiziere ») nello studio di Napoli fu stabilito nell'ottobre del '66 (Reg. ang., I, pp. 187-8) e si mantenne (marzo '79, Reg. ang., XXI, p. 85) 20 onze se era napoletano, 30 se straniero; ai professori andava da 1 onza al mese, quale fu assegnata a Tommaso d'Aquino lettore in teologia (ott. 1272, Reg. ang., IX, p. 199) a 25-30 onze l'anno (dic. 1269, Reg. ang., III, p. 44, all'arcivescovo di Caserta; 1271-1272, Reg. ang., VII, p. 190 e cfr. II, pp. 87-8 e passim) con una punta nel 1271-1272 (Reg. ang., VII, p. 191) di 60 onze più 8 per vesti al reggente l'insegnamento in diritto civile. Guadagni eccezionali corrispondevano a servizi di eccezione o a prestazioni non facili a reperirsi: 20 onze e 12 onze rispettivamente ai 2 medici (Giovanni Casamiczula e Simone Arcidiacono) messi al seguito, nel febbraio 1272, del primogenito Carlo (Reg. ang., VIII, p. 95). Più modestamente il notaio Stefano Tacki di Messina « interprete dei libri della nostra [regia] camera » riceveva 6 onze per stipendio dei mesi di gennaio e febbraio 1270 (Reg. ang., III, pp. 202-3). Un notaio interprete in greco, ingaggiato in Messina dal maggio del '75 al novembre del '76, riceveva lo stipendio annuo di 28 onze, aumentato di un terzo in caso di servizio fuori regno e in più 4 onze per la « robba » invernale ed estiva (Reg. ang., XIV, pp. 147-8) 1 onza al dì de continuo, l'introitus marinarie di Messina computato in 2000 tarì l'anno, mulini e giardini, nel territorio della stessa città, 100 salme di frumento, vino... era lo stipendio dell'ammiraglio (marzo 1268, Reg. ang., I, pp. 42-3). Più contenuto lo stipendio dei maestri razionali con 8 onze al mese (Reg. ang., IX, p. 54; X, p. 72; XV, p. 79, ecc.), alle quali nel 1275-1276 fu aggiunta altra onza di stipendio e 2 onze per il sostentamento (Reg. ang., XIV, p. 106). Gli ufficiali di tesoreria per altro erano ai diversi livelli fra i meglio remunerati: nell'agosto 1280 lo stipendio del tesoriere al seguito del vicario in Sicilia era stabilito in 3 onze al mese a fronte dell'onza dello scrivano (Reg. ang., XXIII, pp. 252-5, part. p. 254). Nello stesso anno il tesoriere al seguito del capitano della flotta destinata a operare nelle parti di Acaia percepiva 6 onze per 3 mesi (Reg. ang., XXIII, pp. 151-3, part. p. 153). Questo mentre al capitano generale e vicario in Albania nel marzo 1274 era assegnato lo stipendio mensile di 4 onze (Reg. ang., XI, p. 254). Nel 1279-1280 (Reg. ang., XXIII, pp. 83-5, 88-9, 104-9, 109-13, 149-50) in Albania, Corfù, Acaia, « parti di Romania », erano corrisposti mensilmente 4 onze ai militi (con il consueto oneroso armamento e accompagnamento), 2 agli scudieri cavalieri, ai balestrieri e al tesoriere in loco, 1 onza ai castellani, 12 tarì ai servienti; e i pedites saraceni ricevevano 9 tari e 15 grana e il loro capitano (con la scorta di 2 armati, 1 cavallo atto alle armi e 1 da soma) 2 onze e 18 tari. Pure in quell'anno per 2 brevi missioni in Acaia erano corrisposti rispettivamente 3 'e 4 tarì al giorno (ivi, pp. 154-5) e 1 onza al mese era assegnata per altra in Corfù (ivi, p. 287). Il maresciallo del regno Filippo di Lagonessa nominato balivo e vicario generale nel principato di Acaia aveva « per le spese » proprie e della « famiglia » 400 onze l'anno sui proventi del principato (Reg. ang., XXIII,
Note al cap. XXII
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p. 148): ma si trattava di livelli che andavano oltre quelli degli uffici, quale che ne fosse il grado. Infine, un mezzo per aiutare era l'assegnazione stagionale di abiti adeguati al ruolo: non li disdegnava un maestro razionale quale Iozzolino della Marra (Reg. ang., IX, p. 205), il quale tenne negli anni di Carlo d'Angiò con autorità e non mancando di suscitare dissidenze la carica (che comportava la direzione dell'amministrazione finanziaria e del tesoro del regno) che già in epoca normanna (allora il titolo era magister camerarius) aveva dato contrastato prestigio anche quando era stata occupata da musulmani (gaito lohar, gaito Pietro). 4 Nel gennaio del '74 (Reg. ang., XI, pp. 219-20) il prezzo del sale in Abruzzo (ma facilmente si trattava di una enciclica) era fissato all'origine in 1 onza le 100 salme di 8 tumoli nelle saline regie « sicut extitit consuetum », in 1 onza e 10 tari nelle altre; quello di vendita, ove trasportato per mare, in gr. 10 al tumolo; e se venduto nel fondaco regio di Pescara « dove si è soliti venderlo » in grana 10 al tumolo più il costo del trasporto con un guadagno lordo sulle 12 onze le 100 salme (considerando fino a 10 tarì al tumolo le varie spese, non era poco!). Nel nov. del '77 (Reg. ang., XIX, pp. 77-9), in una lettera al nuovo incaricato « super officio salis totius Apulie » era confermato il prezzo di acquisto rispettivamente in 1 onza e 1 onza e 10 tari le 100 salme; quello di vendita nei fondaci « ai compratori, nei caricatoi e a quelli che lo portano fuori del regno » era stabilito in 6 onze le 100 salme; a quelli che lo spedivano entro il regno in 8 onze più le spese di trasporto « sicut vendi consuevit tempore qd. Frederici olim Romanorum imperatoris ». Nel contratto di gabella della secrezia di Sicilia per la ind. VI (1277-1278) non ristretto spazio era riservato al sale (Reg. ang., XIX, pp. 118-9). I nuovi gabelloti ricevevano « iura et proventus salis » in Sicilia alle condizioni di pagamento dei precedenti gabelloti con l'aumento di 200 onze; in cambio ne erano mutuate loro 8000 salme depositate nei fondaci della curia, e che essi si impegnavano a restituire. La vendita sarebbe stata effettuata a quanti volevano acquistare volontarie come « nelle stesse parti al tempo del defunto Federico già imperatore dei romani secondo lo statuto della curia si suole comprare e vendere per parte della curia, tanto dentro che fuori il regno » e mai per prezzo minore a quello praticato « come si è detto, al tempo del defunto imperatore ». La misura della salma generale di Sicilia sembra corrispondesse per il sale a quella del grano (litri 275,08), con rapporto di 1 a 5,35 con lo starello di Cagliari (C. Manca, Aspetti dell'espansione catalano-aragonese nel Mediterraneo occidentale. Il commercio internazionale del sale, Milano 1966, pp. 331-6, app. I). 5 Nel marzo del '74 (Reg. ang., XI, p. 254) il salario dei 2 notai destinati « pro servitio rationum » al capitano generale e vicario in Albania fu per quello « gallico » 1 tari e 8 grana al giorno (pari a 16 onze e 16 tari l'anno) e per l'altro « de Regno » in un tari (pari a 12 onze, il 71,42%). Nel sett. 1278 (Reg. ang., XXI, p. 77) Carlo, venuto a conoscenza che i « maestri » impiegati nell'opera di S. Maria della Vittoria erano stati pagati 18 anzi che 15 grana al giorno, ordinava che fossero licenziati « i maestri stranieri che non sono del regno » eccettuati gli ultramontani. Il salario di questi ultimi era elevato a 20 grana al giorno, fosse lavorativo o no (cioè 12 onze l'anno), mentre i regnicoli che avevano percepito 18 grana ne dovevano restituire 3 e adattarsi poi alla nuova meta. 6 I gagia dei giustizieri provinciali furono aumentati del 60%, da 50 a 80 onze l'anno, nel maggio 1270 « propter caristiam temporis » (Reg. ang., V, p. 6). Furono aumentati del 50% e del 30% rispettivamente i
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Abbreviazioni e note
salari dei giudici e dei notai al seguito, portati a 24 e 16 onze dalle 16 e dalle 12 che percepivano anche negli ultimi mesi del regno di Manfredi (rendiconto del giustizierato della Sicilia citra dal 5 ott. 1265 a tutto il febbr. 1266, in Reg. ang., I, pp. 109-11; rendiconto dal sett. del '65 al febbr. del '66 della secrezia e portulanato di Terra di Lavoro, in Reg. ang., I, pp. 102-9). Aumenti « propter imminentem caristiam » nell'ambito dei giustizierati risultano da un certo numero di atti del '70 e del '71 (in Terra di Bari, Reg. ang., III, pp. 133-4; VII, p. 32; X, pp. 186-8. In Capitanata, ivi, XVI, p. 26). Negli uffici della corte, specificatamente in quelli finanziari (Reg. ang., VIII, pp. 247 e 296) i notai e registratori passarono a percepire 2 onze, 11 tarì, 5 grana al mese (e cioè 28 onze e 14 tarì l'anno) più 2 onze per gli indumenti, gli scriptores 1 onza e 15 tari (18 onze l'anno), i servienti 19 tari e 10 grana (7 onze e 16 tarì l'anno). Con la ind. I (1272-1273) le provvigioni furono riportate « sicut tempore Frederici imperatori » (le provvigioni dei giustizieri nel gennaio, in Reg. ang., X, p. 231; dei giudici e dei notai, ivi, IX, p. 234). Nel rendiconto presentato da Roberto Infante giustiziere di Sicilia per il periodo dal giugno della ind. XV (1972) al genn. della IV (1276) e approvato nell'ott. del '76 (Reg. ang., XVI, pp. 131-45) si legge (ivi, p. 142): « al giudice (...) e al giudice (...) in successione assessori di detto Roberto in detto ufficio (...) dal 15 di giugno de ll a sopradetta ind. XV in poi (...) a ragione di onze 24 d'oro di minor peso (...), nella misura che allora ricevevano i singoli assessori di tutti gli altri giustizieri del regno per la carestia e da allora in avanti in ragione di 16 onze (...), ai notai degli attori (...) per ciascuno all'anno fino a tutta l'ind. XV, e da allora in avanti a ragione di 8 onze d'oro del medesimo minor peso per anno». 7 «(...) cum remota sit a partibus in quibus particulariter et continue feliciter agamus », nella nomina di Eriberto di Orléans a vicario in Sicilia, il 10 apr. 1280, in Reg. ang., XXIII, p. 267.
Indice dei luoghi
356 Sutera, 46, 139, 240, 326.
Sutri, 117. Tanèperi, 37. Taormina, 4-5, 18, 42-3, 58, 60, 174, 239. Taranto, 124, 181, 337. Termini, 5, 18, 31, 35, 41, 58-60, 66, 83, 87, 136, 207, 239-40, 248-50, 269, 303. Termoli, 172. Terra di Bari, 174, 216, 246, 270, 321, 328, 333, 336-7, 340. Terra Giordana, 328. Terra di Lavoro, 174, 191, 217, 228, 256, 258, 326-7, 333, 335. Terranova, v. Eraclea. Terra d'Otranto, 174, 330. Terrus, 39. Tessalonica, 81, 301. Tortona, 268. Tortorici, 235, 265, 331. Trabia, 31. Trani, 190, 332, 335. Trapani, 5, 14, 18-21, 58-9, 65, 83, 112, 138-40, 143, 151, 153, 186, 192, 200, 205, 220, 237-40, 250, 253, 257, 268-9, 310-11, 316, 326-7, 334. Tripi, 332. Tripoli di Barberia, 19, 260. Troia, 125.
Troina, 5, 13, 48, 63, 66, 90, 94, 104, 129, 139, 241, 305. Tunisi, 19, 191, 248, 256-7, 259-60, 273, 322, 325-7, 334. Tunisia, 307. Turingia, 128. Tusa, 240.
Ucria, 235. Ustica, 205. Val di Crati, 174, 328. Val Demone, 42, 64. Val di Mazara, 45, 64, 121, 126, 148, 151, 179, 198. Val di Milazzo, 174. Val di Noto, 64. Venezia, 186-7, 220, 259, 268, 270, 316, 329. Venosa, 181, 313. Vicari, 47, 52, 55, 111, 183, 208, 248. Vieste, 335. Villanova, 336. Vizzini, 132. Vulcano, 326.
INDICE DEL VOLUME
1. I NORMANNI. RILANCIO E CONTRADDIZIONI
Zaffaria, 35, 43, 95, 200, 229, 236, 304, 318, 323. Zappardino, 94, 235, 304. Zarcante, 318.
X.
L'eredità musulmana. Tipi e distribuzione degli abitati Il mare, i fiumi, i porti, le città La terra: il castello, il borgo, i casali Terre della costiera e terre dell'interno Abitati nuovi e residenze abbandonate Agi e disagi antichi e nuovi « Populo dotata trilingui » Gruppi di potere e uomini di servizio Diversi per razza, diversi per casta La situazione demografica. Condizioni locali e ipotesi d'insieme
3 13 33 41 51 57 63 73 85 107
2. GLI SVEVI. IL SISTEMA ALLA FRUSTA
XI. XII. XIII. XIV. XV. XVI. XVII. XVIII.
« Temporibus turbationum » Terre in declino e luoghi ripopolati Immigrazioni e movimenti interni Presunzioni del fisco e situazioni di fatto L'unità di religione e di linguaggio Ordinamento giuridico e condizioni di fatto Dieci volte il seminato Vita d'ogni giorno
117 135 145 153 163 169 211 219
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Indice del volume
3. CARLO D'ANGIÒ. RECESSIONE E MALA SIGNORIA
XIX. XX. XXI. XXII.
Abitati e abitanti. Costiera e interno - Cit:tà e campagna 235 253 La crisi della congiuntura 263 delle strutture Il deterioramento 273 La via al Vespro
Gli eventi
281
Misure del tempo e delle cose
287
Abbreviazioni e note
291
Indice dei nomi
343
Indice dei luoghi
349