K.W. JETER UOMO D’OMBRA (The Night Man, 1989) A John Jordan della razza migliore di giocatori di football PRIMA — Questo...
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K.W. JETER UOMO D’OMBRA (The Night Man, 1989) A John Jordan della razza migliore di giocatori di football PRIMA — Questo posto puzza di morto. Felton guardò il ragazzo voltarsi verso il suo compagno e sorridere. Erano tutti e due biondi, giovani, e portavano quei grossi occhiali da sole firmati da qualche francese che i ragazzi del college hanno sempre. — Di morto cotto nella merda a fuoco lento. — I due si rivolsero un sorriso. Portavano abiti neri sotto quel sole bruciante; Felton si sentiva colare il sudore sotto la camicia, lo sentiva penetrare tra la polvere e la sporcizia incollate in mezzo alle pieghe cascanti di carne. Erano saliti i venti di Santa Ana, trasformando ottobre in una replica cocente dell'estate. I due giovanotti non sudavano: erano profumati di qualche colonia costosa, probabilmente verde e forte e distillata da biglietti da venti dollari. Felton non sapeva se si aspettavano che sorridesse anche lui, se doveva anche lui stare al gioco. Del resto, era del suo terreno che stavano parlando. Ma se non lo faceva... si sforzò di sorridere. Se non lo avesse fatto, l'affare sarebbe andato a monte, e lui non sarebbe riuscito a sbarazzarsi dell'area edificabile. Rimasero immobili in mezzo alla distesa di paletti metallici, già rugginosi sotto le mani di vernice che si sbriciolavano. I pali arrivavano più o meno all'altezza del petto. Si snodavano in lunghe file sulle colline e le vallate d'asfalto; si vedevano bene quelli colpiti dalle auto, inclinati di qualche grado dalla verticale. Proprio in mezzo alla distesa c'era il fabbricato dello snack bar, con la facciata a vetri e le finestrelle di proiezione rivolte al grande schermo, il rettangolo bianco ritagliato al cielo azzurro. Nient'altro, solo l'ampio spiazzo di asfalto con il catrame molle per il calore. Il più giovane, quello che faceva le battutine, tolse un altoparlante dal sostegno in cima a uno dei pali. Soppesandolo nella mano, sorrise come se fosse sul punto di saltare fuori con una delle sue. Ma non disse nulla, e do-
po un momento riappese l'altoparlante al gancio a L. — Bel posto. — Girò il sorriso a Felton. — Quando è stata l'ultima volta che qui hanno proiettato un film? Felton si strinse nelle spalle. La camicia gli si appiccicava alle scapole bagnate. — È passato parecchio. — Già — disse l'altro. — Dev'essere stato Via col vento. Il primo sogghignò guardando il socio. Sempre lo stesso sorriso. Felton si domandò se non fossero froci, a giudicare da come ciascuno dei due sembrava apprezzare ogni minima cazzata che l'altro faceva. Ma se lo erano, erano senz'altro del tipo che, quando la sera andavano in giro e non se la facevano tra loro, si portavano sempre appresso delle sventolone da togliere il fiato. Donne sul genere dei loro vestiti, e di quegli occhiali da sole francesi, e della macchina silenziosa con cui le portavano a spasso: tutte cose che devi avere perché in realtà non le hai. Mentre guardava i due ragazzetti, alla periferia del suo campo visivo comparve una piccola luce che lampeggiava in sintonia con il pugno che si stringeva e si allentava ritmicamente nel suo torace. I due non erano interessati all'affare: era quello il senso dei loro sorrisi. Doveva dire qualcosa, riportare il discorso sulla vendita, sbattergliela ai piedi come un fox-terrier con uno scoiattolo. — Il posto rende. Cioè, anche senza bisogno di film. Nei fine settimana qui ci sono i mercatini dell'usato. Arriva un mucchio di gente. — Felton alzò la mano sudata e tracciò un cerchio nell'aria, una specie di benedizione impartita alle panchine invisibili e ai tavolini pieghevoli, i camper e i camioncini e le auto con il cofano aperto, le corde tese fra i paletti a cui erano appesi abitini trasparenti a colori pastello e magliette con i simboli heavy melal o scritte come FESTA NUDA o LA MERDA FA NOTIZIA; le pietruzze lisce sorvegliate da vecchi topi del deserto in cappello da cowboy, occhiali scuri sul volto rugoso e incartapecorito e grandi foulard turchesi stretti al collo ossuto; le manette giocattolo da due dollari, tre per cinque dollari, incidiamo noi le vostre iniziali; e la paccottiglia vera e propria, vecchie bottiglie di Avon e servizi di piatti sbeccati; e poi gli anziani venditori di souvenir, che non vendevano mai niente ma tornavano ogni fine settimana, perché per loro era una buona scusa per stare un po' al sole, seduti sulle seggiole pieghevoli tra i frigo portatili e i cani sonnolenti, per spettegolare osservando la folla nella speranza che qualcuno prendesse in mano una delle zuppiere Tupperware rosa, ne chiedesse il prezzo e poi annuisse rimettendola a posto e passando ad altro... i tre dollari che dovevano
pagare per esporre le loro cianfrusaglie erano un prezzo abbastanza basso per un divertimento di quel genere. — Certo, i mercatini dell'usato. — II più giovane annuì col capo, guardandosi intorno. — Un settore industriale in espansione. — Si allontanò di due o tre passi, si fermò e rivolse lo sguardo oltre il recinto di rete metallica e la selva di erbacce alte quanto un uomo, appena più in là. Felton si girò verso il secondo. — Cosa state cercando esattamente? Cioè... è un drive-in che volete? L'altro alzò gli occhi dal taccuino per appunti che si portava dietro. Alzò le spalle. — Facciamo lavoro di esplorazione per un cartello di investitori. Scegliamo terreni qui e là. — Per farci cosa? Di nuovo gli occhi sul taccuino. — Un po' di tutto. Zone residenziali, centri commerciali... roba del genere. Roba del genere... puzzava tanto di soldi. Felton sentì il sudore colargli da sotto le braccia fra le costole, come un paio di mani morbide e umidicce. — Questo è un ottimo posto. Per roba del genere. Non ottenne risposta. Il più giovane stava scrivendo qualcosa sul taccuino. Il primo era andato a dare un'occhiata allo snack-bar, e toglieva la polvere da una delle grandi vetrate per sbirciare dentro. Gli girò intorno, ripulendosi la mano dalla polvere, poi spinse la porta del retro, chiusa a chiave. — Cosa ci tiene qua dentro? Felton si avvicinò obbediente, con il sole che gli bruciava il cranio in mezzo ai capelli radi. Girò la chiave e spalancò la porta. — La uso come ufficio. Quando sto qui. — Lo disse come se in città avesse un ufficio più grande con una bella scrivania in mogano e la segretaria in anticamera. Il giovane curiosò in giro, prese una videocassetta da uno degli scatoloni di cartone aperti. — Le tiene qua dentro? Non si sciolgono? — L'ufficio era un forno, l'aria stantia era spessa e bollente; il ragazzetto vestito di nero non sudava nemmeno una goccia. _ Sono per i mercatini. — Un rivolo salato e bruciante scese nell'angolo dell'occhio di Felton. — Le vende? — Anche quello col taccuino era scivolato nell'ufficio a ficcanasare tra gli scatoloni e le cianfrusaglie ammucchiate negli angoli. Felton annuì. — Solo... be'... solo come occupazione secondaria. — Occupazione secondaria... come no... — II più giovane annuì: capiva tutto. Soprattutto perché lui avesse bisogno di un'occupazione secondaria.
Felton si pentì di averlo detto. Era imbarazzante farsi capire in quel modo. Guardò il giovanotto che prendeva altre due o tre cassette, per guardare le immagini sbiadite delle etichette. — C'è molto mercato per roba del genere? Qui? — Alzò le cassette per far vedere a Felton le etichette. Lui si sentì avvampare, e il calore che saliva da sotto la pelle andò a unirsi al sudore che ci stava sopra. L'etichetta sbiadita della cassetta mostrava i capelli di una bionda ossuta sopra un paio di gambe pelose mentre lo prendeva in bocca, e un filo di saliva sopra un groviglio di peli neri e ricciuti. Le altre erano dello stesso tipo; sulle etichette fotocopiate gli attori nudi sembravano foto di vittime di incidenti, pubblicate su un vecchio giornale. — Ci sono certi... cioè, be', alla gente piacciono quelle cose. — Cosa poteva dire? Che non erano sue e che quella roba non la guardava lui? Ma perché mai doveva cercare scuse con quei due stronzetti? Il primo stava mostrando le videocassette al compagno, e di nuovo quel sorrisetto complice e divertito passò fra i due. Quello col taccuino aveva indicato con un cenno del capo le file di registratori e televisori contro la parete, e il sorrisetto si allungò; credevano che Felton fosse un vecchio stronzo solo, obeso e senza uno straccio di donna, che veniva nel suo capanno privato, in quella stanzetta bollente di sole, a spararsi seghe in mezzo alla distesa d'asfalto e alla piccola foresta di paletti metallici. Lui avrebbe voluto dire loro delle feste, dei ragazzi che arrivavano, della squadra; che era amico per la pelle della squadra; era una cosa importante, ma la tenne per sé. Avrebbero pensato che mentiva, che si inventava le cose. Meglio parlare di affari: — Ah... bisogna conoscere il campo in cui si lavora. — Più o meno. — Proprio così. — Sorriso. — È sempre meglio conoscere il proprio campo. — Rimise i nastri in cima allo scatolone. Felton sentì crescere il desiderio di fracassare quel sorrisetto a pugni, un desiderio che gli irrigidì la schiena. Seguì i due fuori dalla stanza. — Cos'è quello? — II giovane indicò un punto lontano, contro il riverbero del sole. Il suo socio col taccuino guardò in quella direzione. Felton si schermò gli occhi con la mano. Gli faceva male la testa, e la luce gli penetrava sotto le palpebre come schegge di vetro. Quanto avevano intenzione di cazzeggiare ancora, quei due? — È il raccordo per l'interstatale. Da qui si arriva subito all'autostrada. — Ci si arriva sempre. C'è dappertutto, il raccordo. Intendevo là, quella serie di palazzi. — II giovane allungò il braccio a indicare più oltre. Oltre la recinzione e la strada che la circondava c'era solo una collina di-
gradante, tutta erbacce e polvere. Alle pendici delle colline si vedevano un'altra recinzione e alcuni edifici in lontananza. Felton annuì; sapeva che l'avrebbero chiesto. — Quello è... ah... un edificio pubblico. Il più giovane si voltò a guardarlo. — "Edificio pubblico"? Che vuoi dire, è un ospedale o cosa? Cosa intende? — Ha l'aria di una scuola. — Quello col taccuino si alzò sulle punte dei piedi, tenendosi in equilibrio su uno dei paletti per gli altoparlanti. Aveva notato i campi verdi e gli innaffiatoi, le garitte col filo spinato. Il pennone per la bandiera. — Da queste parti mettono il filo spinato intorno alle scuole? — II primo puntò il pollice verso il recinto lontano. — È il... ah, credo che sia il riformatorio. — Facce di merda. — Davvero? — I due guardarono gli edifici oltre le recinzioni e il letto secco del fiume. Felton si sentì sprofondare il cuore nel vedere il secondo segnarsi un appunto sul taccuino. — Da queste parti arrivano molti evasi? Lui scosse il capo. — No. C'è il filo spinato, giusto? — Pura stronzata. Il dipartimento della contea addetto al riformatorio non si occupava minimamente della manutenzione del recinto, come invece avrebbe dovuto; in certi punti il filo spinato mancava, era arrugginito o allentato tanto da scendere sotto il livello della recinzione. Una volta ci si era trovato davanti e aveva visto uno dei ragazzi internati, con addosso l'uniforme standard, maglietta e blue jeans sbiaditi, girarsi nel punto in cui giocava come esterno sinistro e schizzare diritto verso la recinzione, scalarla e gettarsi sulla strada dall'altro lato, poi percorrere il letto disseccato del fiume tranquillo come un maratoneta, con la strada libera di fronte e nessuno dietro. Quei coglioni del riformatorio non lo avevano neanche rincorso: lo avevano semplicemente guardato saltare dalla recinzione e filarsela. Non avevano nemmeno interrotto la partita di baseball; avevano mandato un altro ragazzo al posto di esterno sinistro, mentre uno dei funzionari chiamava la polizia per dire di cercare un altro uccel di bosco. E succedeva continuamente. Chiuso il discorso sull'area residenziale. Felton guardò il giovanotto che scriveva sul taccuino. La gente non avrebbe gradito gangster minorenni e ladri d'auto che si facevano un giretto dietro casa loro. O magari i costruttori potevano farsene forti, pubblicizzarlo come incentivo: PANORAMA SU SPLENDIDI CAMPI DA CALCIO. AMMIRATE I FUTURI CAMPIONI OLIMPIONICI NELLE SPECIALITÀ DEL SALTO IN LUNGO E DEI CENTO METRI.
I due ragazzetti tornarono alla loro auto, all'estremità dello spiazzo asfaltato. Felton gli tenne dietro. — Grazie per la gita. — Quello che aveva chiacchierato di più rimase immobile con la mano sulla maniglia dell'auto. — Grazie di averci dedicato il suo tempo. Felton non riuscì a impedirsi di dirlo: gli venne fuori di getto. — Allora che ne pensate? Un buon potenziale, eh? — Perfino ai suoi orecchi la frase risultò patetica e disperata. II ragazzotto si strinse nelle spalle. Tolse la giacca e la gettò in macchina, e una corrente d'aria fredda uscì dalla portiera aperta. Avevano lasciato motore e condizionatore accesi mentre perlustravano la zona con lui. — Forse lo proporremo. La località è passabile, e il terreno è di buon livello. Ci si potrebbe fare qualcosa. Non fu capace di lasciar perdere. Si sentiva intorpidito a stare sotto quel sole, come se il cervello gli si stesse sciogliendo o rimpicciolendo dentro il guscio d'ossa. — Cosa intendete? Cioè, più o meno? L'altro era appoggiato al tettuccio dell'auto, e lo fissava. Il primo si tolse la cravatta, la gettò sul sedile posteriore sopra la giacca. — Penso che i nostri clienti potrebbero arrivare fino a... diciamo diecimila. — Si slacciò i primi bottoni della camicia; una volta salito in auto e partito, l'aria condizionata gli avrebbe gelato il velo di sudore sulla pelle. — Non credo molto di più. — Diecimila? — Felton non riusciva a deglutire, e la lingua gli si era fatta spessa e arida. — Cioè diecimila sopra l'offerta? Diecimila di ricavo per me? Il sorrisetto salì di nuovo alle labbra del tipo. — No. Diecimila in totale. Per tutto quanto. — Po... porca merda. — Non riusciva a credere alle sue orecchie. Non sarebbe bastato neanche a coprirgli le perdite. Con quella cifra poteva farcisi il bagno. Quei due stronzetti lo stavano prendendo in giro. Un prezzo ridicolo, e lo sapevano. Era quella la ragione dei sorrisetti e delle puttanate che dicevano. Il sudore gli colò sulla faccia arrossata. — Siete matti. — Forse. — II tipo più giovane si mise al volante, e quell'altro figlio di puttana col sorrisino stava già dentro a trafficare coi pulsanti dell'autoradio. — Se hai in sospeso qualche offerta migliore, forse è meglio che la accetti. — Non chiamarci. — Comunque grazie per averci mostrato il posto. — Ti chiameremo noi. Felton guardò l'auto allontanarsi e girare l'angolo per uscire nella stradi-
na che portava fuori dal drive-in e immetteva nel viale esterno. Gli parve di sentire quei due ridere, e l'abitacolo della macchina colmarsi delle risate forti e gelide come il soffio del condizionatore. E così il pomeriggio era sprecato. Si diresse verso lo snack-bar a chiudere l'ufficio. Diecimila... cagate. Valeva molto di più. Per lui. Ed era già venerdì. La cosa gli sollevò il morale. Proprio come i vecchietti del mercatino, i weekend, che incentravano tutta la loro vita su quell'unico giorno della settimana. Riuscire ad arrivarci significava essere ancora vivi. Diede un'occhiata alle cassette, ai videoregistratori e ai televisori collegati, prima di chiudere la porta e girare la chiave. Almeno quello era già pronto. Doveva solo fare un salto al negozio di liquori a prendere le casse di birra. Solo a pensarci si sentì meglio. In culo a quei due froci sorridenti e ai loro stronzissimi diecimila. Quella sera arrivava la squadra. Era l'unica cosa che contasse. Gli venne voglia di andare sulla strada e tirare via il cartello che diceva IN VENDITA fermo là ormai da tanto tempo. Non avrebbe mai venduto quel terreno. Capì di non volerlo più vendere. Stringendo le chiavi nel pugno, così forte che il metallo gli spedì una rossa lama di dolore lungo il braccio, attraversò l'asfalto, passò la distesa di paletti metallici e tornò dove aveva lasciato la sua auto. PARTE PRIMA Notte di festa 1 Una donna aveva vomitato un uomo. Larry ebbe quell'impressione. I capelli biondi della donna sfioravano le cosce dell'uomo dalla pelle bianchissima. L'uomo era disteso sulla schiena, in una stanza con un materasso per terra e nient'altro: alzò la testa per assistere distratto, le palpebre socchiuse, all'ultimo stadio del parto, il cilindro di carne rossa che scivolava fuori dalle labbra della donna. I riccioli di pelo nero luccicavano di sudore e della saliva spessa che colava da sopra una vena pulsante. Anche la donna era nuda, i seni come due sagome bianche penzolanti, china sulle mani e le ginocchia, l'ultimo pezzetto di lui che usciva fuori e un ultimo filo di saliva dall'angolo della bocca che si tese quando lei si spinse indietro. La donna si asciugò la bocca e rivolse lo
sguardo inespressivo su Larry. Aspettava solo lui, in quella stanzetta. Uno. degli altri ragazzi della squadra scoppiò a ridere, una grossa risata rauca. — Crii-isto di un Dio, guarda quella come lo prende, eh? Ah ah! — Piegò la testa all'indietro e bevve un lungo sorso gorgogliante dalla lattina di birra. Larry si strofinò la lattina sulla fronte, e la sensazione di freddo e umido gli tolse un po' del caldo che bruciava sotto la pelle. Aveva la nausea, la birra che aveva bevuto gli risaliva in gola, acida sulla lingua. La stanza, l'"ufficio" di Felton gli stava intorno, caldo e puzzolente del sudore degli altri, come lo spogliatoio a scuola. Ma senza l'odore pungente del disinfettante che gli uomini delle pulizie passavano sui pavimenti di cemento, o l'odore caldo e dolciastro degli asciugamani impilati nel cesto della lavanderia. Là, in quel buco, c'era tutta la puzza dei diversi sudori sovrastata da quello della birra versata e gli odori attaccaticci di quello che le loro ragazze si erano spruzzate addosso. E in più quell'altro odore, come di sudore, ma più stantio e acre, che saliva da sotto i jeans e le magliette a mano a mano che la notte e il party procedevano. Stimolato dalla collezione video di Felton, nell'aria chiusa della stanza ce n'era già quanto bastava per bloccare la gola a Larry. Voltò le spalle al televisore e al videoregistratore appoggiato sopra e si fece strada tra la folla di giubbotti col distintivo della scuola, come il suo. Se proprio doveva vomitare, meglio farlo ben lontano dalla festa, in modo che i compagni di squadra non lo vedessero. Non riusciva più a sopportare le loro battute, le loro cazzate e tutte quelle risate. Vicino alla porta, sentendo l'aria notturna morbida e fresca sulla faccia e sul collo, riuscì a ricacciare giù il bolo acido. Forse non avrebbe vomitato, ora che poteva respirare qualcosa oltre al sudore degli altri ragazzi. Si guardò alle spalle e vide Felton seduto su una cassetta accanto al televisore, chino in avanti su quel suo pancione, come se volesse infilare la testa in quell'altra stanzetta, quella in bianco e nero sgranato dall'altra parte dello schermo, in cui ora la bionda con gli occhi da cadavere teneva il culo per aria, con la carne pallida che tremolava quando veniva colpita dallo stomaco dell'uomo che stantuffava da dietro. — Certo che è roba proprio forte... — Felton aveva la faccia rossa e sudata, e un paio dei capelli neri e untuosi che di solito pettinava indietro per coprire la pelata gli pendevano fino al mento. — Me li faccio dare da un tipo di Vancouver. Li prende in qualche posto... non so dove, tipo la Svezia. Niente male, eh?
Felton passò in rassegna gli adolescenti con un'occhiata in cerca di consensi. Sperava di averne: patetico, con quella faccia obesa, gli occhi resi piccoli e porcini dalle mascelle cascanti. Ci dava troppo dentro, come sempre. Larry si girò ancora verso la porta, provando una nausea diversa. Un altro membro della squadra era appoggiato alla porta a finire una birra. Per un istante, gli occhi di Dennie incontrarono quelli di Larry, poi passarono a Felton; un sorrisetto rivelò a Larry il disprezzo che Dennie provava per quel vecchio stronzo, con le sue cassette porno e le confezioni di birra, che leccava il culo ai ragazzi della squadra di football. Come se potesse essere dei loro, il loro amicone. Larry ricordava quello che Dennie gli aveva detto la prima volta che era andato a una festa al drive-in, quando gli aveva chiesto chi fosse quel Felton. «Solo una vecchia checca. Non preoccuparti se ti palpa il culo, vorrà solo sentire com'è fatto uno sportivo vero.» Lo sguardo di Dennie tornò a posarsi su Larry, Vedi? Cosa ti dicevo?, e poi si voltò e scagliò via la lattina di birra nell'oscurità. Fece un gran rutto mentre usciva. — Vecchia testa di cazzo. — Dennie si fermò a un paio di metri dall'edificio. Quando al drive-in si proiettavano ancora film, l'edificio ospitava lo snack-bar e la cabina di proiezione; Larry ricordava di esserci venuto con sua madre e suo padre. Dennie si infilò la mano nella tasca laterale della giacchetta, frugando sotto la grossa M ricamata, e ritirò la mano stringendo una sigaretta. — Come se gliene sbattesse a qualcuno dei suoi film porno. Era vero: Larry rivolse lo sguardo alla soglia da cui la luce filtrava a illuminare l'asfalto, e vide che dentro c'erano solo Felton e un paio dei tizi più grossolani della squadra, come quel centrosinistro con le sue risatone viscide, a prestare attenzione a quello che la bionda ossuta e l'uomo si stavano facendo. Gli altri della squadra di football erano impegnati a frugare tra le casse di birra di Felton e a parlare di cazzate fra loro o con le loro ragazze. Stavano appoggiati alle pareti dell'ufficio o seduti sugli scatoloni pieni di videocassette, non quelle porno, ma le altre che Felton vendeva al mercatino ogni fine settimana; non gli importava di rompere le custodie di plastica dei nastri, dato che Felton era troppo cagasotto per azzardarsi a dirgli di tirare via il culo da là. Le voci e le risa si affievolirono nell'aria notturna, lontane oltre lo spiazzo deserto di asfalto, l'eco di un sussurro che rimbalzava sullo schermo bianco bucherellato torreggiante all'altra estremità del drive-in. — Ci vediamo dopo. — La sigaretta ballonzolava dalle labbra di Dennie
a ogni parola, e un frammento di brace gli cadde sulla giacca. — Vado a pisciare. Larry lo guardò allontanarsi, trafficando già con una mano in cima alla lampo. Dennie si fermò vicino a una delle auto parcheggiate in cerchio intorno allo snack-bar. Uno degli altri della squadra alzò la testa per guardarlo dal finestrino del lato guida, e la sua ragazza si alzò dal sedile spingendosi col gomito, stringendosi il reggiseno slacciato contro il petto. Una voce scocciata: — Ehi, stronzo, mi stai pisciando sulle ruote! Dennie sorrise e gli allungò il medio sollevato, alla luce della sigaretta. Quello nella macchina si calmò brontolando qualcosa. Dennie era in vantaggio fisico su di lui e su tutti gli altri della squadra. Non valeva la pena di farsi spaccare la testa solo perché gli pisciava su una ruota. Larry si appoggiò alla parete dello snack-bar, nella luce che proveniva dalla porta aperta. Ai suoi piedi il tubo di scarico di un piccolo generatore Honda mandava sbuffi di fumo. Era l'unica fonte di elettricità che Felton aveva installato. Gli salì alle narici l'odore del combustibile. Non si sentiva più male. Aveva solo bisogno di prendere un po' d'aria. Si pentì di non aver preso un'altra birra. Il raggio luminoso della pila percorse il terreno, da destra a sinistra e viceversa. Dietro camminava Taylor, facendosi strada fra le pietre e le sterpaglie secche. Sapeva dove andare, lungo il pendio della collina: era passato di là decine di volte, sempre al buio. Nella polvere c'erano ancora le sue impronte dall'ultima volta. Nel raggiungere la cima della collina spense la pila, in modo che nessuno potesse vederlo da lontano quando si fosse trovato dall'altra parte. Ora riusciva a sentirli meglio. Li aveva sentiti ancora prima di aprire la porta del pozzetto di aerazione e uscire all'esterno. Le voci, le risate e il ruggito dei motori delle auto si erano fatti sempre più forti a mano a mano che lui percorreva l'erba umida in direzione del recinto perimetrale. Ora che si trovava in cima alla collina, sentì il rumore salirgli fino al petto e poi al volto, come se si fosse immerso in un oceano traboccante di rifiuti galleggianti. Era proprio così che sarebbero sembrate le voci, se avesse potuto afferrarle e strizzarle nel pugno. Taylor tenne lo sguardo rivolto in basso, intento ad ascoltare e strofinandosi la pila di metallo freddo contro il palmo della mano. Dall'altro lato delle colline c'era il vecchio drive-in, circondato da uno stretto viale d'accesso e una recinzione di rete metallica. Una volta la re-
cinzione era di assi molto alte, inchiodate insieme senza lasciare una fessura, per impedire alla gente di parcheggiare fuori e guardarsi i film a sbafo, anche senza sonoro, solo con le immagini giganti sullo schermo. Dopo che il drive-in era stato chiuso, la recinzione di legno era stata trascurata ed era andata a pezzi, finché i vigili del fuoco non avevano costretto i proprietari a portare via le assi marcite e a erigerne una nuova. Roba di anni prima. Dall'alto, il drive-in gli era sempre sembrato una foresta, una foresta scarnificata di cui non erano rimasti che ceppi tagliati, con la terra inaridita tutto intorno. L'aveva visto una volta mentre guidava verso nord. Dalla porta aperta sulla fiancata del vecchio snack-bar filtrava luce a sufficienza da mostrare le file di paletti metallici a cui erano sospesi gli altoparlanti, che sembravano solo aspettare l'arrivo delle auto e l'abbassarsi dei finestrini. Su una buona metà dei paletti gli altoparlanti non c'erano più: li avevano tolti i ragazzini. Restavano solo i cavi, a penzolare sull'asfalto crepato e rovinato. I ragazzi della squadra di football avevano parcheggiato le auto in un largo cerchio intorno allo snack-bar. Sotto gli occhi di Taylor, altre due o tre svoltarono nella stradina di fronte al drive-in, accelerando nell'immettersi sul viale, poi evitando le buche e i rigonfiamenti dell'asfalto, i fari che saltavano su e giù mentre procedevano. Andavano al party. Era appena passata mezzanotte quando Taylor aveva lasciato il riformatorio per il suo giro notturno di ricognizione, e certe volte i ragazzi non arrivavano fino alle due di notte. Il chiasso del party continuava ad aumentare. Dalla sua postazione sentì un frantumarsi di vetri: probabilmente bottiglie, forse una finestra nel retro dello snack-bar, e poi altre risate rauche. Taylor si batté la pila contro il palmo della mano. Quegli stronzetti laggiù... si voltò, lasciandosi colpire le spalle dal frastuono del party, e si allontanò, tornando nel buio in direzione del riformatorio. Repken alzò gli occhi da quello che stava leggendo quando sentì la porta laterale aprirsi. Non si prese la briga di togliere i piedi dal tavolo dietro il banco di accettazione; sollevò semplicemente il capo per alzare lo sguardo dalla copia di People che teneva sulle gambe. Era Taylor che rientrava, prendendo la chiave dalla serratura e infilandosela in tasca, con la cordicella che gli pendeva dalla cintura. Taylor stava bene; Repken si era appisolato fra un articolo sullo scimpanzé di Michael Jackson e le imprese di una diva della TV appena uscita dalla Betty Ford Clinic. Taylor aveva la sua solita espressione scocciata: voleva dire che entro breve ci sarebbe stato
sufficiente movimento, in un senso o nell'altro, da aiutarli ad ammazzare almeno un po' del loro turno da sepolti vivi, per far arrivare le sette del mattino e potersene tornare a casa. Posò la rivista a terra mentre Taylor attraversava il salone e raggiungeva il banco. Non aveva neanche bisogno di chiedergli cos'era successo, che cosa lo aveva infastidito nella sua passeggiata notturna lungo il recinto. — Quei ragazzini scemi... — Taylor non si prese neanche la briga di completare la frase, quella che Repken aveva già sentito più che a sufficienza: "...hanno ricominciato". Sempre la stessa storia, almeno due sere la settimana, a volte anche tre o quattro, quando la stagione degli incontri era finita e loro non erano sfiniti dagli allenamenti e dalle partite. Quella sera non erano neppure particolarmente turbolenti: c'erano state molte notti in cui i party al vecchio drive-in erano molto più chiassosi, pieni di risate e urla e musica assordante e i motori delle auto alzati di giri, e tutto quel fragore che attraversava i campi di atletica bui intorno al riformatorio per penetrare nell'edificio. Quando il rumore era troppo forte, i ragazzini si svegliavano, e quell'ilarità lontana li sintonizzava tutti quanti sulla stessa turbolenta lunghezza d'onda. Cominciavano a picchiare sulle porte metalliche delle stanze - perché era vietato chiamarle "celle" - e a urlare e a strappare i materassi. In quelle occasioni loro due passavano tutto il turno, almeno fino alle quattro del mattino, quando il party della squadra di football iniziava a calare d'intensità, a calmare gli internati. Era quella la vera rottura di coglioni: era per quello che valeva la pena di incazzarsi. Ma nelle notti relativamente tranquille, come quella, quando i piccoli criminali e ladri d'auto dormivano tutti tranquillamente... se Repken fosse stato il responsabile del turno al posto di Taylor, avrebbe lasciato correre. Taylor si allungò sul bancone, spostando i piedi a Repken per raggiungere il telefono. Prese la cornetta e la posò sul ripiano di fronte a sé, poi compose il numero. Appoggiato al bancone, aspettò la risposta. Repken sentì il segnale interrompersi e qualcuno borbottare indistintamente dall'altro capo della linea. — Sì, sono il responsabile del turno di notte al riformatorio. — Taylor si girò, tenendo la cornetta all'orecchio. Manteneva la voce completamente inespressiva. — Senta, stavo camminando lungo la recinzione sul retro, e ho visto un gruppo di ragazzini al vecchio drive-in. — Una pausa. Borbottio. — Sì, sono della stessa banda, ne sono sicuro. Guardi, li sentiamo fin da qui. Direi proprio che disturbano. Fatemi il favore di mandare qualcuno a far finire questa storia. — Borbottio. — Sì, va bene. Okay, grazie.
Allontanò la cornetta dall'orecchio e la rimise con calma sull'apparecchio. La base del telefono era ancora rotta, da quando lui l'aveva sbattuta sul tavolo. Repken si grattò una guancia con la copia di People arrotolata. — Non capisco perché insisti a chiamarli. Gli sbirri non fanno mai niente... Taylor posò l'apparecchio sul ripiano. Prese il registro, lo aprì e iniziò a descrivere l'accaduto, alzando gli occhi verso l'orologio appeso alla parete del salone diurno. Era appena passata l'una. Richiuse il registro, lasciando dentro la penna. — Già, be'... questo si vedrà. — Si voltò e rivolse lo sguardo alla serie di finestre piene di notte, mentre ascoltava i rumori lontani. Era meglio rendersi invisibile. Restare tranquillo, quasi senza respirare, finché gli altri non si accorgevano di te. Steven ci riusciva bene. Se si sforzava molto riusciva a non esistere neppure, e sul sedile posteriore dell'auto non c'era proprio nessuno. Restavano solo due occhi che guardavano e vedevano ogni cosa. Capì che il fidanzato di sua sorella era arrabbiato. Bastava vedere il modo in cui Mick guidava, come curvava le spalle in quella sua giacca, la giacca che indossavano tutti i ragazzi che giocano a football. Ogni tanto Steven vedeva nel retrovisore gli occhi di Mick, ridotti a due fessure cattive, che lo fissavano maligni o, meglio, fissavano il punto in cui lui si sarebbe trovato sul sedile posteriore se fosse esistito. Invisibile... Steven guardò fuori dal finestrino, gli aloni di luce blu sotto i lampioni che sfrecciavano via dietro di loro. — Ma perché dobbiamo portarcelo sempre dietro? — La voce di Mick era acida, come se avesse sulla lingua un grumo di catarro da sputare in fretta. Allontanò la mano dal volante e indicò con il pollice dietro la spalla. — Eh? Era per quello che Mick era arrabbiato. Non solo perché avevano dovuto fermarsi a mangiare, dato che in casa non c'era assolutamente niente e la madre di Steven non era andata a fare la spesa come aveva detto. Si era addormentata sul divano, e sia Steven che sua sorella Kris sapevano che non era proprio il caso di svegliarla. Meglio lasciarla dormire. Steven aveva abbastanza soldi da poter prendere un hamburger al Burger King e poi mangiare su una delle panchine all'esterno mentre Mick e Kris andavano a mangiare il loro in macchina. Poi Mick aveva suonato il clacson urlandogli di muovere il culo, che era ora di andare. Erano già in ritardo per il party.
Ma non era solo per quello. L'aveva capito ancora prima che Mick aprisse bocca. Mick era arrabbiato perché doveva portarsi in giro il fra telline di dieci anni della sua fidanzata. Steven guardò sua sorella che sorrideva a Mick. Aveva gli occhi sonnolenti, semichiusi. Sapeva che avevano bevuto, davanti al Burger King: era per quello che erano andati a mangiare in macchina, in modo che nessuno potesse vederli mentre vuotavano la bottiglietta di Bacardi nella CocaCola. Il gestore del fast-food aveva già mandato via Mick e i suoi amici un paio di volte perché facevano cose del genere nello spiazzo del parcheggio. Kris si allungò, muovendo un braccio pigramente, come se si trovasse sott'acqua. Steven capì che era già ubriaca marcia. La ragazza giocherellò con una ciocca di capelli di Mick, avvolgendosela intorno al dito. — Perché... — II sorriso si allargò. — Perché è il mio piccolo chaperon. — Girò la testa, fissandolo dal sedile davanti. — Vero? "Invisibile..." Steven la guardò mentre gli sorrideva, sentì l'odore dolciastro dell'alcool nell'alito, proprio come con la loro madre. Lui non esisteva, e Kris sorrideva al niente. Guardò fuori dal finestrino, fissò le sagome che si allontanavano nel buio, dentro e poi fuori dagli aloni di luce. — Vero o no? Eh? — Kris lo disse a denti stretti, e il suo sorriso si fece duro e cattivo. Con la coda dell'occhio, Steven vide la punta del dito, l'unghia rotonda e affilata. Sua sorella si allungò indietro e lo pungolò con il dito sulla guancia. Lui le allontanò la mano, un riflesso veloce, e sentì salirgli dallo stomaco un'ondata rossa di rabbia. Dovette ingoiare e spingerla di nuovo giù in gola. Lei lo aveva visto, lo aveva costretto a esistere, nella macchina del suo ragazzo, intrappolato, e se avesse parlato, se le avesse urlato di lasciarlo in pace, non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Lei si annoiava ed era in vena di scherzi: Steven sapeva bene come diventava, in certi momenti. E lui era la cosa più a portata di mano per farsi quattro risate. Come sempre. Non avrebbe dovuto allontanarla, non avrebbe dovuto reagire. Steven si girò verso il finestrino, a guardare fuori nel buio. Non era nella macchina di Mick: era fuori nella notte, a guardare e ascoltare. Sentiva parlare sua sorella. Aveva perso interesse in lui, e si era girata di nuovo a parlare con Mick. — La mamma è convinta che non farai scherzi se c'è anche lui. — Posò il braccio sullo schienale, strofinando la spalla di Mick con la mano, infilandogli le dita sotto la giacca. — È così che mi mantiene vergine. Mick la guardò. — Certo, come no... — La voce dura, ancora incazzata.
— Merda. — Si allungò e accese la radio, alzando il volume per farsi martellare dalla musica che riempì tutto l'abitacolo. Steven li fissò entrambi, poi volse di nuovo lo sguardo nel buio. Le sagome, strade e palazzi, non sfrecciavano più, e il bagliore rossastro del semaforo di fronte a cui Mick si era fermato bagnava l'asfalto. Poi quel bagliore salì, come per vita propria, su per il radiatore e il cofano di un'altra macchina che si era fermata nella corsia vicina, accostando al marciapiede. Steven guardò l'altra auto, nera e bassa, simile a un foro ritagliato nella notte, di un nero più scuro del buio. Non vedeva il guidatore oltre il parabrezza scuro, soltanto un'ombra al volante. In sottofondo al frastuono lagnoso della radio sentiva il mormorio del motore, debole, in attesa. Kris stava ancora parlando. Lontana, da qualche parte. — Be', quella stronza ha cominciato a darmi addosso sul serio, diceva che era la terza volta che arrivavo in ritardo alla sua lezione, e allora io le ho detto una cosa tipo «'fanculo, non sono mica obbligata a starti a sentire»... — Certo, come no... — Mick tamburellava le dita sul volante, aspettando il verde. Fuori, nella notte, la portiera dell'altra macchina si aprì. Steven guardò il guidatore uscire in strada. — Gliel'ho detto! — La voce di Kris salì, diventando stridula. — Le ho proprio detto così! Se ci fossero state altre macchine all'incrocio, con le luci dei fari che arrivavano dall'altro senso, forse sarebbe riuscito a vedere in faccia il guidatore. Ma c'erano solo l'auto di Mick e l'altra, fianco a fianco, e le luci dei fari ricadevano nel buio senza svelare niente. Mick e Kris non videro neanche l'uomo che faceva il giro della sua auto e veniva verso di loro. Steven lo vide, e rimase a guardare, trattenendo il respiro per diventare di nuovo silenzioso e invisibile. L'uomo della macchina nera raggiunse la portiera di Mick e si allungò verso la maniglia. — Ehi... — Mick si girò, sorpreso nel vedere la portiera spalancarsi e la notte che penetrava nella macchina. — Ma cosa... Il braccio dell'uomo si abbatté ad arco sul volto di Mick. Il colpo lo mandò a sbattere contro il sedile, facendogli ruotare la testa. Da lontano, Steven sentì il grido di Kris colpita in faccia da uno schizzo di sangue rosso vivo. Mick la fissava con occhi sbigottiti mentre il sangue sgorgava da sotto il brandello di carne strappata dalla mascella. Il rosso gli penetrò sotto i denti. Un urlo gli si bloccò in gola mentre alzava le mani e si rannic-
chiava contro Kris, al suo fianco. L'uomo alzò il braccio, il sangue di Mick come una macchia umida sul dorso della mano, e lo fece calare di nuovo; il colpo fu una curva che Steven vide sospesa nello spazio, concreta e rigida, e il momento dell'impatto spiraleggiava via senza fine... Poi la macchina fu di nuovo silenziosa, e le urla di Kris e Mick si allontanarono. Nel medesimo nulla di poco prima. Il semaforo diventò verde, e Mick schiacciò l'acceleratore. Guardò Steven dallo specchietto. Niente più sangue, il solito volto largo, gli stessi occhietti cattivi. Al suo fianco, Kris si tormentava una delle unghie finte. Sembrava annoiata. — Cosa diavolo guardi? — Gli occhi di Mick lo fulminarono dal retrovisore. Steven non disse nulla. Si girò e guardò dal finestrino l'altra macchina ancora ferma all'incrocio. Il guidatore, con quel volto che non riusciva a vedere, era ancora al volante, una sagoma buia nell'ombra. Non era affatto uscito dall'auto per raggiungere la portiera di Mick e fare quello che Steven aveva visto fare. La curva del manrovescio, ancora impressa nelle niente di Steven. L'uomo restava fermo, in attesa. Sentì Mick borbottare: — Ragazzine di merda... L'altra macchina non si mosse. Si ritirò nella tenebra, i fari che si attenuavano a due punti luminosi, finché Steven non la vide più, la guancia premuta contro il vetro freddo. Continuò a guardare lo stesso, anche molto dopo che la notte ebbe inghiottito il foro in cui si era trovata. 2 Larry guardò la macchina di Mick che percorreva la stradina d'accesso, in un lungo cerchio come per una parata sull'asfalto del drive-in, con quei fari che salivano e scendevano al ritmo delle sospensioni sugli avvallamenti e le cunette. Una grossa Chevy, una familiare che il vecchio di Mick gli aveva lasciato invece di darla alla concessionaria quando ne aveva presa una nuova. Mick inchiodò a pochi centimetri dalla più vicina del cerchio di macchine parcheggiate intorno allo snack bar, e la Chevy ondeggiò sulle sospensioni scassate. Larry si appoggiò alla fiancata della costruzione, prendendo un sorso della birra che stava centellinando per arrivare alla fine della nottata. Mick scese dall'auto. La sua ragazza, quella scema di Kris, rimase seduta a mettersi il rossetto e a controllarsi nel retrovisore, come se dovesse fare una grande entrée a qualche stronzissimo ballo di maturità, invece della
solita nottata di birra e fregnacce. Credeva di essere una gran fica solo perché era riuscita - almeno per un po' - ad agganciare il capitano della squadra. Credevano tutti e due di avere dei gran numeri. Larry pensò che erano senz'altro una bella coppia. La gente del party si era spostata all'esterno, stufa delle cassette porno del vecchio Felton. Dentro restavano solo Felton e quel centrocampo sbavoso, e un paio dei più brocchi, a guardare una bionda diversa dalla prima con gli stessi occhi spenti, mentre si lavorava di dito l'inguine rasato. Mentre Mick si avvicinava, uno dei ragazzi della squadra gli tirò una birra. Mick la prese con entrambe le mani all'altezza della vita, proprio come per un passaggio veloce in zona meta. La aprì e bevve una lunga sorsata, gettando indietro la testa. Intorno a lui si stava già formando un gruppetto, e i suoi compagni di squadra stavano cambiando posizione e abbandonavano eventuali conversazioni, dimostrando così quale fosse il nuovo centro di gravita che li attirava. Dennie ne aveva bevute un paio più del dovuto, ed era occupato con un'altra, aggiungendo la birra a tutto il resto che aveva tracannato. Si mise proprio accanto alla porta dell'ufficio di Felton, dove poteva raggiungere le casse facilmente. Larry lo aveva già visto in quelle condizioni prima: succedeva a tutte le feste che Dennie arrivasse al punto in cui non faceva altro che bere, una dopo l'altra, più in fretta che poteva. Non sembrava neanche divertirsi: sudava, con la faccia rossa, e respirava pesantemente, proprio come quando picchiava le spalle contro il sacco agli allenamenti nei pomeriggi afosi. Non aveva nemmeno visto Mick che arrivava e usciva sorridente dalla macchina per raggiungerli. Larry guardò Mick mentre arrivava alle spalle di Dennie. Quando Dennie portò alla bocca la birra, ingoiandola rumorosamente, il sorriso di Mick si allargò. Gli picchiò la mano sul gomito, un bel colpo duro. La lattina sbatté sul naso e la bocca di Dennie, gettandogli indietro la testa, e la birra schizzò fuori spumeggiando, gocciolandogli sulla bocca e sulla camicia. Dennie si girò di scatto, la lattina già per terra, i pugni alzati. Prima aveva gli occhi rossi; ora Larry, immobile a qualche metro di distanza, li vide stringersi per la rabbia. Durò solo un secondo, quanto bastò a Dennie per vedere chi era a scocciare. La rabbia scomparve, sostituita da un sorrisetto imbecille che rifletteva quello più duro sul volto di Mick. Mick poteva permettersi di fare stronzate del genere e passarla liscia. Bloccò un pugno finto di Dennie con l'avambraccio, poi fintò a sua volta prima di passare a
Dennie la sua lattina mezza vuota e oltrepassarlo per prenderne una nuova. Larry allontanò lo sguardo da loro. Aveva già visto un sacco di volte tutte le loro mossettine da vecchi amiconi: quei party al drive-in erano una specie di assurda distorsione temporale come quelle delle riviste di fantascienza, dove le stesse stronzate si ripetevano in eterno e nessuno poteva sfuggirle. Alcune delle ragazze si erano riunite in gruppetto da una parte. Kris era finalmente riuscita a staccarsi dalla macchina per venire a chiacchierare con le altre del piccolo branco. Larry pensò che era quasi divertente il modo in cui le ragazze si odiavano tanto, come progettavano di portarsi via a vicenda il fidanzato, tutto per pura malvagità o per il desiderio di salire una contorta scala sociale; o anche il modo in cui parlavano alle spalle di chiunque di loro non fosse presente al momento. Eppure si sorridevano tutte e dicevano "ciao" in tre sillabe non appena ne arrivava una. Ora sembrava che scoppiassero dalla gioia di vedere Kris. Mentre le guardava, Larry si strofinò la lattina di birra contro il viso, nonostante fosse ormai calda quanto la pelle. Sapeva di essere arrivato al punto in cui la birra gli stava rifluendo fuori dalle cellule cerebrali per lasciarlo stanco e rinfrescato. Era quello il momento migliore per osservare gli altri e le puttanate che facevano, come dall'alto, proprio come trovarsi a guardare in un oceano e vedere gli animaletti muoversi tra rocce e caverne in profondità. Eppure quasi tutti gli altri non sapevano come fare per stare tranquilli, come rilassarsi e arrivare a percepire i movimenti al rallentatore dei pensieri dentro le teste. Dovevano per forza darci dentro e combinare stronzate. Sotto gli occhi di Larry, due dei suoi compagni di squadra, uno dei placca tori, che si chiamava McNuldy, e un altro coglione grande e grosso di cui non riusciva mai a ricordare il nome, andarono alla macchina di Mick, con le birre in mano. Dentro c'era qualcuno, rannicchiato sul sedile posteriore, che guardava fisso di fronte a sé e che ignorò McNuldy e l'altro quando batterono al finestrino. — Ehi, Kris! — II bue... sembrava proprio un bue, con quel faccione da grezzo... gridò rivolto al gruppo delle ragazze: — Ti sei portata dietro quella mezza sega, eh? — Indicò col pollice il finestrino dell'auto. Kris li guardò e rivolse loro un'espressione schifata. — Già, ho dovuto per forza. McNuldy fece un passo indietro, l'altro spalancò la portiera e si infilò dentro con un ghigno sulla faccia. — Ehi, bimbo, sei pronto a fare quattro
salti? Hai l'aria di uno che ne ha bisogno. Il ragazzino, che era piccolo anche per avere solo dieci anni, alzò gli occhi sul giocatore di football. Larry non riusciva a ricordare come si chiamasse il ragazzino, che lanciò un'occhiata di odio bruciante alla figura che incombeva su di lui. Non sembrava neanche un bambino, con quella faccia strana. I due della squadra di football, invece, sembravano neonati gonfiati, con quelle risate fragorose a tono con la corporatura. McNuldy scansò il suo socio e afferrò il ragazzino per la camicia. Lo trascinò sul sedile fino alla portiera, stringendo la camicia con quei pugni grandi come prosciutti tanto da strappargliela fuori dai jeans a mostrare lo stomaco roseo. Il ragazzino cercò invano di spingere via l'avambraccio di McNuldy con entrambe le mani. — Forza, comincia la festa. — McNuldy e l'altro ragazzo sorridevano degli sforzi del ragazzino per liberarsi. — Lo sai come comincia la festa, no? Si parte così... — McNuldy alzò la sua lattina di birra e la spinse in faccia al ragazzino, schiacciandogliela sulla bocca. Il ragazzino sputacchiò la birra, che gli cadeva sulle guance e il collo, inzuppando la camicia che McNuldy stringeva nel pugno. Larry sentì le risate farsi più rumorose. Si guardò intorno e vide che ridevano tutti, tutti quelli della festa. Era successo qualcosa, una piccola scintilla a illuminare la noia che stava calando sulla serata. Mick e Dennie accanto alla porta, Dennie che praticamente si spanciava dalle risate, con la faccia ancora più paonazza, e il sorriso di Mick che saliva a mostrare i denti all'angolo della bocca; e perfino Kris, la sorella del ragazzino, a scoppiare in risa stridule insieme alle ragazze. Tutte quelle risa, quelle urla, martellarono Larry, riempiendogli il cervello finché non gli parve che stesse per scoppiargli fuori dal cranio. Una parte di lui voleva unirsi alle risate, voleva entrare nel gruppo. Guardò il ragazzino con la birra che gli gocciolava giù dal mento, e si sentì stringere la bocca e tendere le labbra. Poi anche dalla sua bocca proruppero le risa. McNuldy si guardò alle spalle, ghignando, intento a bere in mezzo all'ilarità della compagnia. Il ragazzino colse l'occasione: si contorse e riuscì a staccare la camicia dalla morsa di McNuldy che, colto di sorpresa, fece un passo indietro. Il ragazzino afferrò la maniglia interna della portiera e tirò. Qualche centimetro prima che si richiudesse, McNuldy si aggrappò alla portiera. Un paio di secondi di tiro alla fune: il ragazzino che puntava i piedi contro il pavimento della macchina e tirava la maniglia con le braccia sottili, e il ragazzo della squadra che cominciava a scocciarsi. Poi il ragaz-
zino lasciò andare di colpo, la portiera si spalancò, e McNuldy finì col culo per terra. Il fragore delle risate salì ancora di più. McNuldy era talmente sbronzo che per un secondo o due, disteso sull'asfalto, mantenne un sorrisetto scemo; poi si rese conto che ora stavano tutti ridendo di lui. Perfino il suo compare, quello che era andato con lui all'auto di Mick a tormentare il ragazzino, stava praticamente soffocando, con le lacrime agli occhi dal gran ridere, appoggiato al paraurti posteriore della macchina con le braccia strette contro lo stomaco. Il sorrisetto scomparve dal viso di McNuldy. Si alzò, la mascella in fuori. Il ragazzino lo aveva sputtanato davanti a tutti: ecco perché ridevano. Si allungò verso la portiera, ma questa, che si stava già aprendo, lo spinse indietro. Il fratellino di Kris schizzò fuori e scappò via, passando accanto all'amico sghignazzante di McNuldy. — Moccioso di merda! — McNuldy cercò di afferrare il ragazzino, ma era troppo lento: l'altro era già oltre la sua portata, e stava correndo nel buio oltre il cerchio di automobili. — Torna qui, porca puttana! — McNuldy raccattò da terra la sua lattina e la scagliò verso il ragazzino; la lattina rimbalzò sull'asfalto con un rumore secco, oltre portata di sguardo. Larry si asciugò gli occhi, e la risata gli si spense dentro. Quello sì che era stato divertente, vedere un piccoletto di dieci anni che spediva quel gran sacco di merda col culo per terra. Respirò profondamente, sentendo ancora una specie di malessere in fondo alla gola. Forse se avesse bevuto di più, non si sarebbe ricordato per quale motivo aveva iniziato a ridere. Rivolse lo sguardo oltre la distesa deserta del drive-in, nel punto in cui il ragazzino era scappato via. Era là fuori, ancora a correre nel buio. Il respiro gli bruciava dentro, e le costole gli facevano male, nel punto in cui aveva sbattuto contro uno dei paletti per gli altoparlanti. Aveva corso alla cieca, con le gambe e il cuore che gli pulsavano, e non aveva visto il paletto, uno di quelli piegati quasi a 45 gradi: lo aveva beccato proprio nel fianco, ed era finito per terra su un ginocchio e sulle mani, con un'esplosione di rosso dietro le palpebre. Si era rialzato intontito, poi aveva ripreso a scappare. L'unica cosa che riusciva a vedere nel buio era il recinto di rete metallica all'estremità del drive-in. Corse in quella direzione, per mettere la maggior distanza possibile fra sé e il party della squadra di football. Steven rallentò aspirando l'aria a boccate, quando il recinto fu a un paio di metri di distanza. Si fermò, si voltò per guardarsi indietro. Quando pre-
mette le palme delle mani contro i jeans sentì che gli bruciavano, e abbassò la testa, ansimando. Vedeva le automobili stagliate nella luce che proveniva dalla porta aperta dello snack bar. Le ombre si allungavano sull'asfalto. Poi c'erano alcuni dei giocatori, gli amici di sua sorella, sparsi sul piazzale a parlare; da quella distanza non sentiva le voci, solo il ritmo ovattato della musica di uno dei registratori che si erano portati dietro. Nessuno lo rincorreva: era riuscito a svanire, a diventare niente di nuovo, invisibile nella tenebra. Ora sarebbero stati costretti a tornare ai loro giochi. C'era solo da far passare il resto della nottata, fino al momento di andare a casa. Steven raggiunse zoppicando uno dei paletti, stringendosi le costole. Ora che non correva più, sentiva il dolore del colpo, un pulsare sordo che andava in sintonia col battito del cuore. Si toccò con le dita, chiedendosi se non si fosse magari rotto qualche osso. Aveva ancora bene impresso nella memoria il giorno in cui si era rotto un braccio, a sette anni, un frammento di tempo che riusciva a prendere e osservare da vicino, ancora nitido e chiaro come le luci del pronto soccorso. Ricordava anche la dottoressa, una donna nera dall'aria giovane - la mamma la chiamava "nera", anche se a lui sembrava più sul marrone, come il caffelatte - con gli occhiali dalla montatura rosso vivo, che lo aveva portato in una stanzetta senza nessun altro, con l'odore dell'ingessatura ancora fresca che gli solleticava il naso e la stecca metallica diritta in fuori come un pezzo di un tavolino pieghevole. La dottoressa gli aveva domandato come aveva fatto a rompersi il braccio, e lui aveva risposto proprio come gli aveva detto la mamma, perfino dopo che la dottoressa gli aveva chiesto per la terza volta se ne era veramente sicuro, con voce dolce ma insistente. Quella era l'unica parte che non riusciva a ricordare, cosa gli aveva detto di rispondere la mamma. Quando erano usciti dalla stanzetta, la dottoressa aveva guardato la mamma di storto, ma non le aveva detto niente. Non gli sembrava di avere niente di rotto. Steven spinse più forte le dita contro l'ultima costola in fondo. L'idea che fosse rotta, di avere un orlo seghettato e tagliente in mezzo al torace che poteva bucargli lo stomaco o rimanere staccato come il raggio di una ruota di bicicletta, gli si impresse tanto nella mente che non riuscì più a scacciarla. "È solo un livido" si disse, e allontanò la mano dal fianco. Prima o poi, i lividi guarivano sempre. Sedette sull'asfalto, appoggiandosi a un paletto. Il respiro gli era tornato normale, e il dolore al fianco andava calando lentamente. Era il minimo: se l'era cavata con poco, rispetto a un paio di settimane prima, quando lo ave-
vano preso e se l'erano passato lanciandolo in aria, e lui era atterrato rimediando una contusione alla terapia. Quando si era toccato l'orecchio, aveva visto la mano riempirsi di sangue, e per un istante si era domandato, nell'intontimento, con la testa che ancora gli ronzava, se l'orecchio non si fosse strappato via del tutto. Si era addirittura messo a quattro zampe a cercarlo per terra, sentendosi sommergere dalle loro risate che gli arrivavano da chilometri di distanza. Quando erano tornati a casa, Kris aveva raccontato alla mamma una balla qualsiasi su come lui avesse fatto a conciarsi così il sangue gli si era seccato formando una crosta nera sull'orecchio e lungo il collo - e lei si era limitata a stringere le spalle, gli occhi semichiusi ancora fissi sulla TV, e aveva detto a Steven di stare più attento a quel che cazzo faceva. Lui non ricordava più nemmeno una delle storie che si inventavano, indipendentemente da chi lo faceva, neanche quelle che raccontava lui; dopo, c'era sempre il vuoto. Quello che lo feriva veramente era che lo avessero visto. I ragazzi della squadra di football, il fidanzato di Kris e i suoi compari: non era riuscito a rendersi invisibile, a rendersi un niente, uno spazio vuoto da cui poteva osservare e ascoltare. Non importava quanto ci provasse, quanto rimanesse calmo, quanto ogni espirazione e inspirazione fossero caute... lo ritrovavano sempre. C'era sempre qualcuno che lo ritrovava. Appoggiò le braccia alle ginocchia, posando il mento sulla manica del giubbino. Rivolse lo sguardo in direzione del party, verso le ombre che ondeggiavano ritmicamente. Forse si erano dimenticati di lui, almeno per un po'. Là fuori, nel buio, poteva osservare e aspettare, e vedere chiunque venisse a cercarlo prima che lo riprendessero ancora. Le palme delle mani gli bruciavano, da quando era caduto. Le girò davanti agli occhi, poi le strofinò sul mento per ripulirle dalla terra. Non doveva far altro che aspettare. Intorno a lui, silenzio: gli altri rumori, le risate e la musica, erano lontani. Steven alzò la testa: da dietro proveniva un altro rumore. Era il motore di un'auto, come un ronzio di fondo appena distinguibile nell'aria notturna immobile. Voltò la testa, guardandosi alle spalle. In un primo momento non vide altro che i fanali della macchina, due cerchi di luce contro il buio. Lungo la stradina che portava al drive-in, nel punto in cui si apriva sul viale esterno: le due luci erano ferme, immobili. Il brusio del motore, qualcosa che Steven percepì nello stomaco più che udirlo, gli arrivò da oltre lo spiazzo asfaltato. Si girò senza spostarsi da dov'era, allungandosi in avanti per vedere meglio. In lontananza c'era una sa-
goma scura, dietro il riverbero dei fari. La macchina, nera contro il nero: non riusciva a vedere nell'abitacolo, era troppo lontana e sembrava in qualche modo colmo di quella tenebra. Ma sicuramente c'era qualcuno all'interno. Sapeva chi c'era dentro la macchina. Seduto al volante, ad aspettare. Aveva già visto quell'auto prima. Steven si girò, premendo la schiena contro il gelido paletto metallico. Anche se chiudeva gli occhi la sentiva lo stesso, distante, il motore che mormorava una quieta pazienza. Anche l'uomo al volante poteva aspettare. Aveva tutta la notte. Avevano cominciato ad andarsene. Una volta finita la birra, la maggior parte dei ragazzi che erano venuti da soli, senza la fidanzata, levarono le tende, dopo la pisciata di rito all'angolo opposto del drive-in. Non aveva senso starsene là: era noioso come qualsiasi altro posto. Perfino il vecchio Felton si era addormentato, pieno della sua birra, steso su una sedia pieghevole dentro l'ufficio, di fronte allo schermo televisivo coperto da uno scintillio di neve grigia, l'ultima cassetta porno ormai alla fine del nastro. — Forza. — Uno degli altri toccò la spalla a Larry. — Andiamo a mangiare qualcosa. Lui era seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro dello snack bar. Alzò gli occhi verso il compagno di squadra e scosse il capo. — Nooo... — Si strofinò il volto: lo sentì irrigidito, come se l'alcool che gli rifluiva fuori dall'organismo se ne fosse portato via un pezzo. — Io torno a casa. Sono un po' sconvolto. — Fa' come ti pare. — Gli altri cominciarono a dirigersi verso le rispettive macchine. — Ci si vede dopo. — Sì, certo. Dopo. — Non appena la testa gli si fosse schiarita un poco, si sarebbe alzato per tornare in macchina - era dei suoi vecchi, ma gliela lasciavano usare quando voleva - e sarebbe tornato a casa a sbattersi a letto. Non si sentiva sbronzo: aveva passato la nottata senza arrivare a quel punto. Era solo stanco e nauseato. Si sentiva stupido, schifato di se stesso, a venire sempre a quei party. Ogni stronzissima settimana, sera dopo sera. Non erano neanche party veri: solo una banda di atleti del liceo che si trovavano a ingurgitare birra gratis ospiti di un vecchio fanatico del football. Perché non c'era un cazzo d'altro da fare. Larry aveva già dato per stabilito che l'anno successivo, dopo il diploma, se ne sarebbe andato da quel buco di paese, anche se avesse dovuto cacciarsi nell'esercito per farlo.
Rivolse lo sguardo verso le macchine. Mick e la sua ragazza, Kris, erano là a raccontarsi scemenze. Lei sedeva sul bordo del sedile posteriore, con Mick appoggiato alla portiera spalancata. Con il fratellino lontano - dove mai era andato a nascondersi, quel moccioso? - potevano fare quello che volevano. Anche se Larry sapeva benissimo che lo facevano comunque, ci fosse o no il ragazzino. Era l'argomento preferito delle altre ragazze, quello che faceva Kris, ne parlavano praticamente in pubblico: le rendevano merito di riuscire a restare appiccicata a Mick, in cima alla loro piccola scala sociale. Scoparsi il capitano della squadra fa guadagnare punti. Mick e Kris stavano finendo un paio di birre, che probabilmente si erano portati dietro nel baule della macchina. Lui disse qualcosa, e lei rise, una risata fragorosa e strascicata, la testa all'indietro a mostrare i denti. Mick gettò via la lattina vuota e spinse la ragazza nell'auto, la seguì dentro e poi si allungò a chiudere la portiera. Dal finestrino si vide per un attimo la testa di Mick, che poi sparì. Larry distolse lo sguardo e lo riportò sullo spiazzo deserto dello snack bar. Li sentiva ancora ridere dentro la macchina. La macchina non c'era più. Steven alzò la testa e si guardò alle spalle. Si era addormentato: non sapeva per quanto, forse solo un paio di minuti, e l'automobile, quella nera vicino all'entrata del drive-in, era scomparsa. Sbatté gli occhi e poi se li strofinò, così forte che un lampo di luce gli attraversò la testa. Quando tolse le mani, vide di nuovo la strada deserta, nel punto in cui si era trovata la macchina. Ora era tranquillo: i rumori, le risate e le urla del party si erano affievoliti. Come se la notte fosse scivolata sopra l'asfalto, una marea scura pronta a coprire tutte le cose che erano state visibili per breve tempo, i segni di vita. Buio e tranquillo: così doveva essere, così doveva rimanere ancora per molto tempo. Steven si sollevò da terra, sentendosi percorrere la gamba da punture aguzze. Si sostenne al paletto dell'altoparlante e agitò il piede per far rifluire il sangue. Rivolse lo sguardo allo snack bar e vide che c'era ancora qualche macchina parcheggiata attorno. Al party della squadra di football rimanevano solo gli ultimi tiratardi: sapeva dalle volte che c'era stato prima che molti di loro avrebbero smaltito la sbronza dormendo nello spiazzo. Non riusciva a vedere se c'era ancora l'auto di Mick. Era difficile distinguere la Chevy a quella distanza, nel buio. Forse sua sorella e Mick se n'erano andati lasciandolo lì; forse lo avevano chiamato mentre lui dormiva e
non sentiva le loro grida attraversare l'estensione dello spiazzo. Non si sarebbero certo presi la briga di venire a cercarlo in quel posto dove non si vedeva niente; ci avrebbero riso sopra, mandandolo all'inferno, dato che del resto non l'avevano voluto fra le scatole fin dall'inizio. Filtrava ancora luce dalla porta spalancata sul fianco dello snack bar. Almeno aveva un punto a cui fare riferimento nell'altra versare il drive-in deserto, ora che il dolore alla gamba si era ridotto a un formicolio intorno alla caviglia. Una parte di lui sperava che se ne fossero andati, lasciandolo lì: se loro non c'erano, voleva dire che era libero, almeno per un po'. Non sarebbe stato costretto a sopportare le piccole torture che sua sorella e il suo ragazzo erano capaci di inventarsi. Sperduto, a mille chilometri di distanza: era ancora meglio che rendersi invisibile. Anche se sapeva che l'avrebbe pagata quando fosse tornato a casa. Alla fine vide la macchina di Mick. Sembrava che dentro non ci fosse nessuno. Lentamente, cercando di allungare la distanza, vi si diresse. 3 — Cristo di un Dio... — Felton biascicò le parole a voce alta. Aveva in bocca un sapore come di cadavere che gli si stesse putrefacendo sotto la lingua. Scosse il capo, e gli ultimi rimasugli di sonno gli rotolarono nel cervello come qualcosa di viscido e pesante. Sputò, ma il gusto schifoso non scomparve. Lo schermo del televisore scintillava di puntini grigi. Per abitudine, si allungò a premere il pulsante di espulsione del registratore. L'apparecchio ronzò e sputò fuori un centimetro di plastica nera. Nel rimettere la videocassetta nella sua custodia, Felton guardò l'etichetta in bianco e nero sgranato. Sembravano due donne, con la testa l'una in mezzo alle gambe dell'altra, ma non ne era sicuro. Non ricordava nemmeno di aver visto il film: doveva aver collassato poco dopo premuto il pulsante di avvio. Si chiese se in giro ci fosse ancora qualcuno della squadra, o se ormai se n'erano andati tutti. Sollevando la manica per guardare l'orologio, vide che erano quasi le tre del mattino. Probabilmente ce n'era ancora qualcuno, anche se la birra era quasi finita: il pavimento dell'ufficio era coperto di lattine vuote, e il cemento scabro era bagnato dove si erano rovesciate. Di fronte a quella scena sentì un impulso pressante in fondo alle budella, e capì che aveva bisogno di pisciare. Era una fortuna che non gli fosse capitato mentre era privo di sensi: non lo
sopportava, risvegliarsi ancora mezzo sbronzo e scoprire di avere il davanti dei calzoni bagnato e gelato dall'aria notturna e il puzzo della propria urina che saliva alle narici. Tutte le volte che gli era capitato prima di allora, il disgusto che aveva provato per se stesso gli era bastato tanto da non farlo bere per quasi una settimana. Si alzò dalla sedia e avanzò barcollando fino alla porta. Fuori c'erano ancora cinque o sei macchine, le ultime del party di quella notte. Il dolore alla vescica si acuì; Felton non si prese la briga di controllare quali dei giocatori fossero ancora in giro. Entrò nel buio e cominciò a dirigersi verso il recinto. Era là che andavano i ragazzi per i loro bisognini notturni. Lui strinse i denti, sussultando e camminando più in fretta. — A me sembra che non stia succedendo proprio niente. — Harrelson diresse i fanali dell'autopattuglia sull'entrata del drive-in. Il raggio di luce spazzò l'asfalto oltre la recinzione, e l'ombra della rete metallica si allungò nel buio. — Mi sembra tutto tranquillo. Pineda fissò il collega nell'altro sedile della macchina. Quella gran testa di cazzo. Con lui bisognava sforzarsi solo per non mettersi a urlare. Aveva una gran voglia di tirare fuori la pesante pila elettrica dall'anello alla cintura e pestarla sul cranio a Harrelson finché non gli fosse entrato un po' di buonsenso in quella testa vuota. Invece, mantenne la voce bassa. — Forse è per questo che abbiamo risposto alla chiamata con due ore di ritardo. Harrelson si strinse nelle spalle. — Non si può mica essere dappertutto nello stesso momento. Brutto stupido figlio di puttana. Pineda chiuse gli occhi e trasse un paio di respiri lenti e profondi. "Prendila con calma" si disse. Proprio come faceva almeno dieci volte per ogni turno che gli capitava con Harrelson. Era una piaga proprio come quel ciccione piccoletto del drive-in: tutti e due cotti di quei giovinastri del cazzo. Solo perché facevano parte della scarsa squadretta di football del liceo. Schifosamente patetico - Pineda cercava di tenere a bada i bollori - il modo in cui Harrelson gli lasciava passare tutto. Se quei teppisti della squadra avessero ammazzato qualcuno e dalla centrale ci avessero detto via radio che il drive-in era pieno di cadaveri e che quelle teste di cazzo ci ballavano sopra in tenuta di squadra e paraspalle, con in mano delle mitragliatrici, Harrelson si sarebbe lo stesso menato l'uccello un paio d'ore, girando per qualche quartiere dalla parte opposta della città per far visita alle nonnette a cui qualche stronzo aveva forzato la cantina due settimane prima... E poi si sarebbe fermato alla caffetteria, Cri-
sto santo, uno di quei maledettissimi buchi della catena Winchell's, proprio come in una vignetta satirica: il classico stereotipo dello sbirro panzone e perdigiorno che beve caffè del giorno prima e fa battute ritrite mangiando ciambelle alla marmellata e dolcetti vari... "Calma." Pineda ingoiò il groppo acido che gli si era formato in gola solo a pensare a quelle fregnacce. "Tieni duro e stai tranquillo..." Harrelson era già ai ferri corti, al distretto. C'era già una pila alta così di lamentele da parte dei cittadini per quella tresca fra lui e la squadra di football del liceo. Pineda aveva visto l'incartamento, perché gliel'aveva mostrato un suo amico segretario del capodivisione. Pineda si disse che il segreto, d'ora in poi, era mantenere i nervi calmi, lasciare che fosse Harrelson a impiccarsi da solo e accertarsi che la marea di merda in cui stava per sprofondare non ingoiasse anche lui. Aprì gli occhi e guardò fuori dal parabrezza, distogliendo lo sguardo da Harrelson. — Adesso senti... — con voce inespressiva e atona. Perfettamente padrone di sé. — Andiamo là e controlliamo questa storia. Okay? Perché io non smonto dal turno prima di averlo fatto. Perché qualcuno del turno mattutino dovrà alzare il culo e venire qui a dare un occhio. E tutti ci chiederanno come mai non ce ne siamo occupati noi. — Si voltò verso Harrelson. — Ti va bene? Harrelson si pulì lo zucchero a velo dalle dita. Richiuse il sacchetto di carta arrotolandolo, poi lo infilò sotto il sedile. Pineda alzò gli occhi al cielo. Ciambelle, Cristo santo. Quel tipo era una caricatura umana! Harrelson si pulì la bocca col dorso della mano. — Certo, come no. Se la cosa ti farà felice. — Rimise in marcia l'autopattuglia e girò il volante con una mano sola. Certo che mi farà felice. Brutto sacco di merda. Pineda non disse nulla ad alta voce: trattenne le parole come uno sputo sulla lingua. Sarò felice quando ti sbatteranno fuori dai coglioni e io verrò assegnato a qualcos'altro che non sia fare da baby-sitter al signor Campione Mondiale Degli Stronzi Sportivi. Si accomodò sul sedile, gli occhi rivolti fuori dal parabrezza, cercando di vedere se c'era ancora in giro qualcuno di quegli stronzetti liceali. Meglio che non ci fossero, se solo avevano mezza idea di cos'era meglio per loro. "Gli faccio il culo". Pineda annuì fra sé mentre lo pensava. Felton si tirò su la lampo. Fare una pisciata così, quando ci si sentiva la vescica enorme e tesa come un pallone, dava altrettanta soddisfazione che
sbronzarsi. Si sentiva perfino più lucido, come se avesse sputato fuori un litro di birra stantia direttamente dal cranio, dove se la sentiva gorgogliare dietro gli occhi. Era ora di tornare a casa e farsi una dormita: poteva tornare più tardi a ripulire tutto, raccogliere le lattine di birra e impilarle con il resto delle varie stronzate dei ragazzi, e poi preparare il drive-in per il mercatino del fine settimana, più avanti, una volta sorto il sole. Si girò nel sentire rumore di passi che calpestavano il ghiaino dall'altra parte della recinzione. Una coppia di sbirri che aveva già visto alcune volte avanzarono lungo la stradina d'accesso che attraversava il drive-in. La loro autopattuglia era parcheggiata ad alcuni metri di distanza, con i lampeggianti e la sirena cromata sul tettuccio spenti e silenziosi. Quello più basso e dall'aria più agile si fermò accanto alla recinzione. Sollevò la pila che teneva in mano, e il raggio di luce diretto proprio negli occhi gli fece scoppiare nel cervello una rapida fitta di dolore che gli attraversò la nuca. — Felton — gridò il poliziotto più basso, dietro il riverbero della pila. — Muovi il culo e vieni qua! Quel tipo era proprio uno stronzo. Felton non riusciva a capacitarsi del perché mai avessero preso anche un messicano nella polizia, a meno che non si trattasse di qualche programma assistenziale per i diritti delle minoranze, e che in realtà i federali non volessero veramente che la gente avesse a che fare con quei piccoli mangiapeperoncini spocchiosi. Comunque l'altro poliziotto era un tipo a posto; lui avrebbe senz'altro fatto in modo che quelle quattro vaccate non gli dessero più fastidio di tanto. Felton tirò su la linguetta metallica della lampo e si diresse alla recinzione. Mentre Felton si avvicinava, lo sbirro abbassò la pila. — Si fa festa stasera? — Sarcastico, ma non sorrideva. Felton si strinse nelle spalle. Non gliene sbatteva un cazzo di cosa diceva quel piedipiatti. Il poliziotto si avvicinò un po' di più alla rete. — Qualcuno si è lamentato di te e del tuo gruppetto di boyscout che viene qui. — II raggio luminoso della pila si spostò fino al fabbricato dello snack bar, oltre lo spiazzo asfaltato deserto. Felton gli rivolse una smorfia, come se stesse risucchiando in bocca il sapore acido per sputarlo fuori. — Cristo, amico, sono sempre quelle vecchie zitelle di merda. Perché non gli dite di farsi i cazzi loro? Quella risposta mandò in bestia il poliziotto basso. Diventò rosso in faccia e cominciò a urlare. — E invece lo sto dicendo a te, pezzo di stronzo!
Me ne sbatto i coglioni, io, anche se fai venire qua l'intera squadra di football del liceo! Sarò ben felice di portare quei teppisti uno per uno al riformatorio e registrarli... L'altro poliziotto era rimasto in disparte a guardare; ora si fece avanti e prese il braccio del suo socio. — Spostati. Me ne occupo io. Per un istante il poliziotto basso sembrò sul punto di stringere la mano a pugno e scaricarla sul collega. Quella sì che sarebbe stata una scena da vedere: due sbirri che se le davano rotolando sul sentiero di ghiaino, pestandosi in faccia. Felton guardò in silenzio: tutte quelle urla e quelle stronzate gli facevano male alla testa. Il poliziotto basso fissò con odio il suo compagno, mordendosi il labbro prima che gli sfuggissero le parole. Poi si allontanò di mezzo metro, girandogli la schiena. L'altro - Harrelson, ecco come si chiamava: a Felton era appena tornato in mente - curvò il dito, facendogli segno di avvicinarsi di più alla recinzione. Così potevano parlare semplicemente, invece di tutti quegli strilli. — Senti... — il poliziotto pareva dispiaciuto. Capivano benissimo tutti e due che erano solo puttanate. — Te l'ho già detto prima. Devi dire ai ragazzi di stare un po' calmi quando vengono qui. — Lo disse con voce bassa, tranquilla e ragionevole. — Cioè... è giusto che si divertano, lo meritano, ma devono veramente... Non riuscì a terminare. L'altro poliziotto, quello basso, tornò di corsa alla rete. Stava urlando, e la saliva schizzava oltre la rete fino in faccia a Felton. — Hai dato di nuovo della birra a quei piccoli bastardi? — La voce era ancora più stridula di prima: Felton sussultò, come se quella voce fosse un chiodo raschiato su una lavagna e il suono gli echeggiasse nella testa. — Gliel'hai data, vero? Guarda che posso sbatterti dentro subito per aver fornito alcolici a dei minorenni. E se ti metto dentro, ti ci puoi anche pulire il culo con le tue licenze per gli alcolici, coglione. Non ne farai più neanche uno di mercatino qua, te lo garantisco io... Quello che si chiamava Harrelson era più grosso. Prese il suo collega urlante per entrambe le braccia, tirandolo indietro dalla recinzione con tutto il suo peso. Quando lo lasciò andare, il poliziotto basso indietreggiò barcollando di un mezzo metro, gli occhi che mandavano lampi. Harrelson fissò l'altro poliziotto, immobile davanti alla recinzione con quelle sue spalle enormi. — Torna in macchina. — L'altro sembrava scocciato. — Ti avevo detto che me ne occupavo io, no? Per cui non starmi fra
i piedi. L'altro poliziotto fissò Harrelson ancora per un momento, e Felton si domandò con la testa ottenebrata se non fosse il caso di buttarsi a terra. Cristo santo, quel tipo aveva una pistola appiccicata al fianco. E poi era messicano: tutti col sangue caldo, no? Forse intendeva sistemare la discussione sparando qualche colpo. Poi lo sbirro, sempre con l'aria scocciata, si allontanò, tornando all'autopattuglia. Harrelson si girò, fissando Felton da oltre la recinzione. Dopo il piccolo scontro con il suo collega era tutto affannato, con il fiatone. Ora se n'era andato un pezzettino del tono amichevole di prima. Felton annuì mentre ascoltava il poliziotto. Due uomini di buonsenso fuori nella notte, con la luce azzurra delle stelle e della luna calante sul volto e le mani. — Non preoccuparti di quello stronzo. — Harrelson mantenne la voce calma. — A lui ci penso io. Ma fammi il favore di pensare a quello che ho detto. Okay? Cercate solo di non esagerare, qui. Non dovete fare altro. — Sì, okay... — Felton annuì ancora. — Lo dirò ai ragazzi. — Dire cosa? Non l'aveva ancora capito. Non avevano fatto niente; era proprio per quello che arrivavano in quel posto lontano da tutto, per cazzeggiare, sfogarsi un po' senza dare fastidio a nessuno. Se solo la gente li avesse lasciati un po' stare, invece di metterla sempre giù così dura... Ovviamente non poteva dirlo al poliziotto; non ad alta voce, almeno. Ma sapeva che anche il poliziotto lo pensava. Stava solo facendo il suo lavoro ad arrivare da lui e parlargli in quel modo. Faceva così perché doveva, e poi tutto tornava come prima. Il poliziotto stava già tornando all'autopattuglia, al cui paraurti stava appoggiato il suo collega, che osservava la scena con un'espressione acida. — Glielo dirò — gridò Felton al poliziotto, ad alta voce in modo che lo sentisse anche l'altro. — Sistemerò tutto io. Stronzate. Non avrebbe mai dato addosso ai ragazzi della squadra perché facevano troppo casino. Chiunque fosse stato a lamentarsi, poteva anche andare a prenderlo in culo, pensò Felton. Si diresse nuovamente all'edificio dello snack bar, camminando pesantemente nel buio. Steven capì che erano in macchina. Li vedeva dentro. Appena sotto il livello dei finestrini, sicuramente avvinghiati l'uno all'altro: sua sorella Kris di sotto, le ginocchia sollevate per stare sul sedile posteriore, e Mick di sopra, i jeans calati sul davanti, il fondo della schiena visibile e pallido, lo
stesso pallore gelido delle cosce della ragazza allargate e strette a lui. Rimase immobile a qualche metro dall'auto di Mick, chiedendosi cosa doveva fare. Erano là dentro, ma non li sentiva sussurrare né ridere né altro. E non li vedeva muoversi, non vedeva Mick alzare la testa e inarcare la schiena quando drizzava le braccia forti e muscolose. Nella macchina era tutto tranquillo. Steven si strinse le braccia intorno al corpo, cercando di far circolare ancora il sangue sotto il giubbino leggero. Aveva freddo ed era stanco: mettersi a dormire con la schiena premuta contro il paletto non aveva certo migliorato le cose. Anzi, le aveva peggiorate, con quel sogno della macchina nera sulla stradina... ora capiva di avere sognato; non era esistito nulla se non gli strati di tenebra, uno sopra l'altro, ad avvolgere il mondo intero. E si era fatto tardi: non avrebbe saputo dire quanto, ma sapeva che di solito tornava a casa molto prima di quell'ora. Il party si era ammosciato: ormai era finito, fatta eccezione per alcuni ragazzi della squadra ancora in giro. Steven li vedeva come sagome scure appoggiate alla fiancata dello snack bar, che chiacchieravano a bassa voce, come se la notte pesasse loro sulle spalle, calmandoli, e tutto il divertimento se ne fosse andato fino alla volta successiva: due o tre sedevano con la schiena contro la parete, gli avambracci appoggiati alle ginocchia, le mani penzolanti, le teste che ciondolavano dal sonno. Steven sapeva che erano solo ubriachi. L'unico scopo del party, per alcuni di loro - quelli senza ragazza, che non avevano qualcuno come sua sorella Kris, come Mick - era semplicemente cacciarsi nello stomaco quanta più birra potevano e quanto più in fretta potevano. Per quante ragazze del liceo ci fossero ai party, non ce n'erano mai abbastanza per tutti. Le cose andavano così. Forse Mick e Kris si erano addormentati, distesi nella macchina. Una volta finito quello che stavano facendo. Se fossero arrivati a casa a quell'ora sarebbero stati guai, e la mamma era sveglia. A volte si svegliava in piena notte, si alzava dal divano su cui si stendeva in compagnia della luce azzurrina del televisore e del rumore sarcastico e martellante che la inondava come una marea perpetua, che una volta spente tutte le luci riempiva la stanza fino agli angoli. Lui avrebbe voluto spegnerle, ma sapeva che alla mamma dava fastidio risvegliarsi al buio e rendersi conto di essersi addormentata senza avere guardato la TV; così le lasciava accese. Spesso, diverse ore dopo, la sentiva alzarsi e brancolare per la stanza borbottando "merda" a denti stretti quando inciampava nella bottiglia accanto al divano.
Quando Steven si svegliava la mattina dopo, lei era nel proprio letto, con addosso ancora gli stessi abiti del giorno prima, stesa sulla schiena a bocca spalancata, respirando a ritmo secco e veloce. E la TV era ancora accesa, con il ciarlare dei faccioni ridenti di uno o un altro show mattutino tipo Buongiorno America, e lui sentiva parlare - più che altro li sentiva urlare, a quel volume assurdo - mentre si vestiva e preparava la colazione. A quei pensieri, all'idea di sua madre che si svegliava e camminava a tentoni nella casa buia e si accorgeva che lui e Kris non erano tornati, e che ora era, si preoccupò. Si strofinò le braccia gelate, pensando a cosa fare. Si sarebbe veramente infuriata. Avrebbe dato direttamente addosso a lui e Kris, avrebbe urlato. Per Kris non era certo un problema: le avrebbe risposto urlando più forte di lei e poi sarebbe andata da qualche parte con Mick, come già altre volte prima. Per cui sarebbe rimasto Steven, che non aveva altro posto dove andare, solo la casa e nient'altro. E con Kris via, sarebbe stato lui a subire tutta la rabbia della loro madre. Quel pensiero gli fece provare un senso di vuoto allo stomaco. Si sentì nauseato e triste, come se avesse cercato di vomitare ma non ci fosse niente, solo la consapevolezza di quello che sarebbe successo. Forse c'era ancora tempo. Poteva sempre sperarlo. Forse sua madre dormiva ancora; a volte non si alzava neanche dal divano, ci restava fino al mattino dopo. Dipendeva dal caso. Doveva andare a svegliarli. Kris e Mick. Ovviamente lei si sarebbe incazzata, ma in ogni caso era meglio. Meglio di quello che sarebbe successo se non fossero arrivati a casa in fretta. Kris era ancora una specie di peso mosca, quando si trattava di infuriarsi: più una che metteva il broncio e diceva cattiverie che un'arpia urlante. A lei poteva tenere testa. Doveva solo mantenere la calma, diventare invisibile, scomparire del tutto, lasciarsi passare sopra le parole affilate di Kris e la sua voce simile a un rasoio. Con la mamma no. Lei riusciva sempre a trovarlo, dovunque si nascondesse, non importava quanto si trincerasse nel silenzio e nell'attesa. Si guardò attorno per vedere se qualcuno dei compagni di squadra di Mick lo aveva localizzato. Ce n'erano solo alcuni, sei o sette; sentiva un gruppetto chiacchierare vicino allo snack bar, le voci che mormoravano nel buio, le mani infilate a fondo nelle tasche dei giubbetti per proteggerle dal freddo notturno. Nessuno guardava dalla sua parte. Era un sollievo: forse si erano completamente dimenticati di lui. Andò alla macchina di Mick, sforzandosi di attutire ogni passo. Quando vi posò le dita, sentì che il finestrino era freddo. Si avvicinò al
vetro, e il suo alito creò due piccoli ovali di condensa mentre guardava all'interno. Era così buio, perfino la luce delle stelle era offuscata, che non vide niente. Gli ci volle un momento prima di riuscire a distinguere le due sagome all'interno, sua sorella e Mick distesi insieme sul sedile posteriore. Non si muovevano, fatta eccezione per il respiro lento e profondo, all'unisono, la linea delle costole di Kris che saliva contro la mano di Mick. Aveva la maglietta sollevata fin sotto le braccia, le dita di Mick allargate sul seno minuscolo; tra due nocche di Mick si intravedeva un cerchietto scuro, nero nel buio. Tutta la luce pareva provenire dalla pelle della ragazza, talmente pallida da sembrare azzurra, un bagliore bianco sotto le luci tremolanti di un parcheggio. La pelle di Mick era più scura, segnata dal nero dei capelli; nel punto in cui i jeans chiusi si piegavano, si vedeva l'angolo delle ossa del bacino. La pelle grigia contro quella bianca di Kris, umida di sudore e di un altro tipo di umidità: il muscolo era ancora ritto, perfino mentre dormiva. Steven indietreggiò dal finestrino. Strinse il pugno e lo sollevò per battere sul vetro. Prima di potersi muovere, capì che dietro di lui c'era qualcuno. Si girò e tentò di accucciarsi per sfuggirgli, ma era troppo tardi. Una mano gli afferrò il colletto del giubbino, stringendola nel pugno e allontanandolo dall'auto di Mick. Si sentì stringere la gola dal colletto della maglietta, vide i piedi penzolare nel vuoto. Uno dei ragazzi della squadra, quello che si chiamava Dennie, lo sollevò ancora di più, tenendolo appeso come una pietra sollevata vicino agli occhi. Dennie accostò il volto al suo con un sogghigno. — Cos'è che guardi, stronzetto? — urlò Dennie nell'orecchio di Steven. — Eh? che cazzo guardi di tanto interessante? Steven cercò di liberarsi scalciando e colpendo Dennie al petto coi gomiti. — Niente! — Dennie lo teneva ben saldo, stringendogli la maglietta arrotolata e il giubbino tanto forte da soffocare le sue grida. — Lasciami! Il sorriso di Dennie si fece più vicino, proprio in faccia a Steven; il ragazzino sentiva l'alito puzzolente di birra. — Mocciosetto di merda... — II sorriso si allargò a mostrare i denti umidi. — Stai a spiare perfino tua sorella... — Non stavo... — Ora erano arrivati altri ad assistere: li vedeva, sospeso a mezz'aria nella stretta di Dennie, le punte delle scarpe che sfioravano invano l'asfalto. Le sue grida avevano attirato l'attenzione dei ragazzi della squadra rimasti a gironzolare intorno allo snack bar, e sui loro volti si disegnarono sorrisi come quello di Dennie. La festa non era ancora finita: ci
si poteva divertire ancora un po'. Non si erano dimenticati di lui. E in macchina, Mick e sua sorella Kris erano svegli: forse non si erano neppure addormentati veramente. Si erano alzati a sedere sul sedile posteriore in modo da vedere cosa succedeva. Steven li sentiva ridere, un suono ovattato dal vetro. Sua sorella gettò indietro la testa e rise, stringendo le braccia intorno a Mick, abbracciandolo forte, e tutti e due scoppiarono ancora a ridere serrando gli occhi. — Non stavo spiando nessuno! — Steven si agitò tra le mani di Dennie. Cercò di divincolarsi scivolando fuori dalla giacca e dalla maglietta, ma Dennie le aveva strette troppo nel pugno, costringendo Steven a inarcare le spalle, e sentiva la maglietta tesa come un laccio emostatico sulle costole. — Non stavo... Vide Dennie lanciare un'occhiata oltre di lui per scambiarsi uno sguardo divertito con Mick, in macchina. Poi i volti ghignanti degli altri ragazzi della squadra indietreggiarono, facendosi da parte mentre Dennie portava il ragazzino allo snack bar, verso la luce che filtrava fuori, tenendolo sospeso in aria. Dennie lo mise per terra, schiacciandogli la faccia contro uno degli schermi televisivi della stanzetta. Steven si sentì appiccicare la guancia al vetro dello schermo, abbagliato dalle righe grigie. Vide Dennie trafficare con l'altra mano sul videoregistratore, posto su una scatola accanto al televisore; Dennie tirò fuori un nastro dall'apparecchio e lo gettò via a rimbalzare con un tonfo sulle scarpe di uno degli altri che si erano radunati ad assistere. Senza neanche guardare di che si trattasse, Dennie prese un'altra videocassetta e la infilò nello sportellino dell'apparecchio, poi premette il pulsante di avvio. Steven fece forza per spostarsi dal televisore, ma Dennie ce lo spinse contro, con quel pugno enorme contro la nuca. Le righe grigie sullo schermo scomparvero, sostituite da sagome grigie intrecciate l'una all'altra: gli ci volle un momento per rendersi conto che erano persone, nude e avvinghiate tra loro. Da così vicino gli erano sembrati un unico organismo, una di quelle creature che a volte si vedevano strisciare nelle pozzanghere tra le rocce vicino all'oceano, informi e con decine di zampe. — Ti piace? — gli urlava Dennie da dietro, sovrapponendosi ai rumori bagnaticci e ai gemiti che provenivano dall'altoparlante del televisore. — Eh? Ti piace questo? Le risate riempirono la stanza. Steven strinse gli occhi, ma la luce grigia filtrava sotto le palpebre, e le ombre si fondevano l'una nell'altra.
— Magari sei stanco di stare a guardare. — Dennie urlò ancora più forte, coprendo le risa e i rumori del televisore. — Visto che sei uno stronzetto tanto arrapato, forse vuoi provare com'è davvero. Eh? È questo che vuoi? Steven non sentiva più il vetro gelato dello schermo contro la faccia. Stava cadendo, strappato all'indietro da Dennie. Quando atterrò sul cemento gli si mozzò il fiato, e una lama gli trafisse la schiena. Gemette, mentre il dolore gli riempiva la bocca. Aprì gli occhi e vide Dennie allungarsi per prenderlo. Non fece in tempo a scappare. Nella stanza c'era una ragazza, che rideva insieme a tutti gli altri. Non sua sorella, ma una delle altre della compagnia. Lei rise, e versò la birra che stava ingoiando, bagnandosi la maglietta, mentre Dennie sollevava Steven e gli spingeva la faccia tra i seni della ragazza. — Ti piace? Eh? La ragazza rise più forte, una specie di raglio più su della testa di Steven, e sbatté contro la parete, mentre Dennie spingeva Steven contro di lei. — Bello, eh? — Dennie tirò Steven indietro; lui stava ancora ansimando nel tentativo di riprendere fiato. Dennie si chinò su di lui, il volto vicino al suo, il ghigno ampio e allegro. — Ti è venuto duro? Eh? Che ne dici, vediamo se ti è diventato duro? O magari le ragazze non ti piacciono. Magari sei una checca, eh? Steven sentì la mano di Dennie trafficargli sulla lampo dei jeans e aprirgli la fibbia della cintura. In un impeto di panico improvviso, strinse il pugno e mirò al volto di Dennie. Il colpo fu forte quanto bastava da rovesciare la testa a Dennie, che perse l'equilibrio e cadde all'indietro, mollando la spalla di Steven. Scappa. Sentiva quell'unica parola nella mente, una voce tranquilla e pacata, a chilometri di distanza ma allo stesso tempo proprio dentro di lui. Se solo avesse provato a uscire, a uscire da quella stanzetta con quei visi ghignanti, uscire nel buio, allora poteva scappare e continuare a scappare finché non fossero più riusciti a trovarlo. Dove nessuno ci sarebbe mai più riuscito. Era già troppo tardi. Prima di potersi muovere, si sentì stringere il braccio da una mano. Dennie, la guancia macchiata di rosso, sollevò Steven, stringendogli il braccio con le dita robuste. Poi Steven si sentì precipitare all'indietro, e stanza e facce gli volteggiarono intorno. Finì su una pila di scatole di cartone contro la parete, e le videocassette si sparpagliarono per terra. Stordito, Steven non riuscì a muoversi, come se gli avessero separato braccia e gambe dal corpo. Non riuscì a fare altro che
alzare gli occhi e vedere Dennie che incombeva su di lui e si abbassava di nuovo per prenderlo. 4 Taylor guardò il poliziotto che tornava dal punto della recinzione in cui si era messo a parlare con il buffone obeso che gestiva il drive-in. Anche il poliziotto era robusto, ma in modo diverso. Il tipo del drive-in aveva l'aria di essere sempre stato grasso, come se fosse fatto esclusivamente di grasso: del genere in cui si poteva infilare dentro il dito come in una gelatina e, se si spingeva forte, probabilmente si passava dall'altra parte. Invece, sotto la pancia traboccante dello sbirro si vedevano ancora i muscoli: braccia e spalle possenti, tutto che si afflosciava e migrava verso il culo, che stava diventando la parte più massiccia di lui. Un vecchio fan, pensò Taylor. Stessa squadra, stesso liceo, molti anni fa. Spiegava un mucchio di cose. Non lo vedevano, il poliziotto ciccione e il suo collega appoggiato al paraurti dell'autopattuglia. Aveva risalito lentamente il pendio della collina, con la pila spenta nella mano. E si era fermato a qualche metro di distanza nel buio, dove poteva osservare e ascoltare i rumori della scenetta che prendeva piede vicino alla recinzione del drive-in. Un sacco di strilli, tutti da parte del compagno dello sbirro grasso. Nel sentirli, Taylor aveva sorriso acido: almeno non era l'unico nei dintorni a essersi rotto i coglioni di quei teppisti che venivano a menarsela al drive-in. Oltre la recinzione, il gestore del drive-in tornava barcollando allo snack bar, una volta terminato il breve colloquio imprevisto con la polizia. Taylor non era riuscito a capire cosa si erano detti, una volta allontanato il poliziotto che se l'era presa a quel modo, ma lo poteva immaginare. Amici come prima. Voleva parlare ai due poliziotti prima che se ne andassero. Con un gesto leggero del pollice, l'interruttore della pila scattò. Lui sollevò il raggio di luce e lo diresse proprio contro i due uomini, e l'ovale obliquo di luce si riflette sulla portiera bianca dell'autopattuglia. Sorpresi, i poliziotti si girarono, alzando gli occhi alla collina che fiancheggiava la stradina d'accesso al drive-in. Taylor abbassò la pila mentre scendeva dal pendio sulla stradina di ghiaia. Loro lo riconobbero per tutte le volte in cui lo avevano visto quando avevano portato dei ragazzini al riformatorio per farli registrare. E dalle te-
lefonate di protesta al commissariato di polizia riguardo i party dei ragazzi della squadra di football al drive-in; sapevano che era lui a farle. Il poliziotto ciccione - Taylor non si era mai preso la briga di ricordarne il nome - annuì lentamente, salutando Taylor con una smorfietta acida mentre lui si avvicinava all'autopattuglia. — Vedo che vi siete occupati del problema. — Taylor parlò con altrettanto sarcasmo. — Dico bene? Il poliziotto aprì la portiera del lato guida e fissò Taylor, cattivo. L'altro rimase a guardare, passando lo sguardo alternativamente da Taylor al suo socio. — Va bene, amico. Adesso stura le orecchie. — Negli occhi del poliziotto grasso brillava la rabbia. — Non devi più spaccare il cazzo, chiaro? Sono stufo di sentirti fare menate per faccende che non ti riguardano. Con la coda dell'occhio, Taylor vide il collega del poliziotto scuotere il capo e abbassare gli occhi sul terreno a lato dell'autopattuglia, come imbarazzato da quella scena. A Taylor dispiacque per lui: quel povero stronzo non poteva muovere mezzo dito mentre il suo collega con la lingua lunga scavava la fossa a tutti e due. Il suo incarico di responsabile del riformatorio durante il turno notturno rendeva automaticamente Taylor funzionario del servizio di vigilanza della contea; i poliziotti erano dipendenti comunali, ma avrebbe dovuto lo stesso esserci almeno la finzione di trovarsi tutti dalla stessa parte a fare il proprio dovere nelle trincee della guerra contro il crimine locale. E invece si incazzavano a quel modo, come non avrebbero mai fatto neppure con un Pinco Pallino qualunque in strada. Taylor fissò di nuovo lo sbirro obeso negli occhi, aspettando la fine di quel suo sermone esagitato. — Quei ragazzi sono più importanti di te. — Allo sbirro tremava la bocca, mentre puntava il dito grassoccio contro Taylor. — Ficcatelo in testa. Sono della squadra, Cristo santo... e se ogni tanto hanno bisogno di scaricare un po' la tensione, tu non farai proprio niente per fermarli. Chiaro? Brutto ciccione di merda. Taylor non riusciva a credere che quel tipo facesse sul serio. La squadra, quella parola pronunciata addirittura in tono di venerazione, come se lo sbirro avesse detto: «Ehi, non possiamo mica dare la multa a quello là, è il papa». E uno fosse obbligato a genuflettersi. Taylor sentì l'altro poliziotto sospirare, appoggiato all'autopattuglia con entrambe le mani, la testa bassa, e capì che gli stava dicendo in silenzio: "Ehi, non guardare me. Devo passarci il turno con questo qua, non credi che sia abbastanza?"
Il poliziotto grasso, soddisfatto del discorso, si sistemò al volante. Taylor fece un passo avanti e afferrò lo spigolo della portiera prima che l'altro potesse richiuderla. — Allora è tutto qui? — Taylor si sentiva stringere la gola dalla rabbia. — Non intendete fare un cazzo per questa... Il poliziotto allontanò la mano di Taylor dalla portiera e la richiuse. Gli occhietti rossi, ridotti a fessure, lo fissarono con odio dal finestrino. Taylor alzò il pugno. Prima che potesse colpire il vetro, a pochi metri di distanza risuonò un tonfo di metallo contro metallo. L'altro poliziotto voltò lo sguardo sul paraurti posteriore della macchina. Una lattina ammaccata rotolò per terra accanto alla ruota, e la birra si rovesciò schiumando. Dovevano averla lanciata sopra la recinzione del drive-in. Taylor spostò lo sguardo dall'autopattuglia e vide in lontananza, oltre la stradina d'accesso, la persona dall'altra parte della rete metallica. Uno dei ragazzi, col giubbotto spinto sui fianchi dalle mani affondate nelle tasche. Il giocatore di football si bilanciò avanti e indietro sui talloni, sogghignando agli adulti dall'altra parte della recinzione. Il ragazzo conosceva Taylor. Il sogghigno si allargò mentre estraeva una mano dalla tasca della giacca, la alzava e rivolgeva a Taylor il medio sollevato. Poi si voltò e se ne andò, lentamente e con noncuranza, allontanandosi dalla recinzione per fare ritorno allo snack bar. Taylor sentì il finestrino dell'autopattuglia che veniva abbassato. Si guardò intorno e vide il poliziotto appoggiare il gomito sul montante d'acciaio. Non era più tanto rosso in faccia: era riuscito a darsi una calmata, una volta finita la sua messinscena. — Senti, perché non te ne stai a casa? — Lo sbirro fece uno sforzo per sembrare ragionevole. — Cristo, telefoni praticamente ogni sera per lamentarti di questi ragazzi. E ci siamo scocciati. Non fa mica bene, sai, continuare a stressare gli altri. Ti sembra che noi veniamo al riformatorio a dire a voi come dovete fare il vostro lavoro? — Aspettò una risposta che non arrivò. Taylor continuava a fissarlo in silenzio. — Sai benissimo che non lo facciamo. Allora perché non ci lasci un po' in pace con queste stronzate da niente? Questi ragazzi non fanno male a nessuno. L'altro poliziotto rivolse a Taylor un'occhiata che era un misto di scusa e di esasperazione, prima di aprire la portiera dall'altro lato ed entrare. — Fatti gli affari tuoi e stop. Va bene? — Lo sbirro obeso accese il motore e mise in marcia. Le ruote posteriori sputarono ghiaia quando l'auto si allontanò.
Per un istante, Taylor rimase a guardare i fanalini dell'autopattuglia in fondo alla stradina d'accesso. Ai suoi piedi, la lattina di birra continuò a gorgogliare, una macchia scura sul terreno. Lui si strofinò l'impugnatura della pila contro il palmo della mano, sentendo il metallo freddo premergli sulla pelle. Restò immobile al buio, a osservare e aspettare. "Ma guarda che stronzi" pensò Larry. Credevano davvero di essere dei grand'uomini. Si erano fatti prendere a calci in culo per tutto il campionato sul campo da football, e adesso eccoli tutti impegnati a terrorizzare un mocciosetto scemo di dieci anni. Come se fosse colpa sua se si erano fatti sbattere a faccia in giù nel fango da tutte le altre scuole del distretto. Dal punto in cui si trovava, sulla soglia dell'ufficio di Felton, Larry vedeva il ragazzino, il fratello minore di quella troietta boriosa di Kris, disteso sulle scatole di cartone e le videocassette nell'angolo. Era stato Dennie a gettare là il ragazzino, proprio come se fosse un gatto che lo aveva graffiato. Il moccioso sembrava aver perso il fiato e annaspava in cerca di aria, senza muoversi, ma fissando con occhi da lepre spaventata Dennie, che si abbassava su di lui a prenderlo con la sua manona. Quel brutto sacco di merda. Larry si fece strada a spallate fra gli altri ragazzi immobili in cerchio ad assistere e ridere. Anche loro erano dei sacchi di merda. Mentre passava, il frastuono di quelle battute sceme e quelle risa sgangherate gli strinse un groppo nello stomaco. Afferrò la spalla di Dennie. E tirò. Dennie non si aspettava sorprese alle spalle, e girò su se stesso per trovarsi davanti a Larry. — Lascialo stare, Dennie. — Lasciò ricadere le mani ai fianchi, tenendosi pronto, mentre Dennie si raddrizzava e lo fissava. Dennie sorrise, incredulo. — Cosa? Lui non sapeva perché l'avesse fatto, perché si fosse fatto avanti a forza, guastando il divertimento a tutti, e avesse allontanato Dennie dal ragazzino. Dennie aveva addosso almeno venti chili di muscoli, ma Cristo santo, sembravano quasi cinquanta quando Dennie esibiva quel ghigno cattivo, quando si vedeva che aveva sotto gli occhi qualcosa di minuscolo, qualcosa che lo aveva infastidito. Larry aveva già visto quell'espressione attraverso la griglia protettiva del casco di Dennie, agli allenamenti, quando Dennie riusciva a sbattere col culo per terra in modo particolarmente elegante i suoi compagni di squadra. E quando ci rideva sopra, dopo. E poi, chi era mai quel ragazzino imbecille? Era solo uno stronzetto co-
me tanti che avrebbe dovuto starsene a letto... ma del resto, avrebbero dovuto starsene tutti quanti a letto, invece che là dov'erano a bere la birra offerta da un vecchio fanatico del football e fare casino. Larry guardò Dennie diritto negli occhi, stretti da quel ghigno cattivo. A un certo punto non gli era sembrato più divertente. Era quello il motivo per cui l'aveva fatto. — Dai. — Avevano smesso tutti di ridere: Larry si sentì addosso i loro sguardi, come pesi contro le scapole. — Lascialo stare, cazzo... Dennie finse di non aver capito bene, spalancò la bocca. — Tu stai dicendo a me... — Come fosse la cosa più sorprendente mai sentita in vita sua. Indicò Larry col pollice, come a dire: "Roba da non crederci" rivolgendo lo sguardo più oltre, verso la porta. Anche Larry si guardò alle spalle. Sulla soglia c'era Mick, la camicia ancora sbottonata sotto la giacca. Era appoggiato allo stipite, e stava osservando con quel sorrisetto in viso, più furbo di quello di Dennie ma altrettanto cattivo. Aspettava di vedere cosa sarebbe successo. Silenzio, misurato in battiti di cuore: Larry se li sentì in gola, il calore che gli saliva al viso. Si girò a fissare il sorrisetto di Dennie. Poi finì di colpo contro di lui, ed entrambi furono spinti indietro di mezzo metro da qualcosa che si infilò loro tra le gambe. Il ragazzino. Nessuno lo aveva tenuto d'occhio. Gli era bastato a riprendere fiato e a rialzarsi in piedi, nell'angolo delle scatole di cartone dove si trovava. Era la sua occasione. Larry si staccò dalla giacca di Dennie, e vide il moccioso schizzare sotto le gambe degli altri della squadra, più veloce di tutti loro. Perfino Mick, in piedi sulla soglia, fu colto di sorpresa. Il ragazzino lo oltrepassò spintonandolo e scomparve di corsa nel buio. — Ecco, sei contento, adesso? — II sorriso era sparito dal volto di Dennie. Si era sostenuto appoggiando una mano al muro, e riprese l'equilibrio, fissando rabbioso Larry con gli occhi arrossati dalla birra. Sfiorò con le spalle muscolose il torace di Larry nel dirigersi alla porta. Larry non disse niente. Restò a guardare gli altri ragazzi che se ne andavano. Ora la festa era davvero finita. Scappò. Non gli importava dove: correva nel buio, oltre lo spiazzo asfaltato deserto, oltre le file di sostegni per gli altoparlanti che si ergevano come alberi morti nella notte. Corse finché non sentì più niente alle spalle, indietro, dove la luce filtrava dalla porta della stanzetta; corse finché non sentì più nient'altro che il proprio respiro e il pulsare del cuore. Steven rallentò, poi si fermò. Si girò, chinandosi, strofinando la botta sul
fianco: gli sembrava di avere un coltello sotto le costole. La notte si era fatta così fredda che vedeva il soffio del proprio fiato, una nuvola argentea alla debole luce delle stelle. In lontananza vedeva piccole sagome che passavano di fronte alla luce proveniente dallo snack bar. Il rumore di un motore che si accendeva, come un colpo di tosse, poi un altro; fari delle auto che se ne andavano curvando lungo la stradina. Steven si abbassò per un istante nella paura che i fasci luminosi percorressero lo spiazzo asfaltato e lo illuminassero. Ma le luci girarono e poi svanirono, facendosi sempre più piccole quando le auto si dirigevano alla stradina che portava fuori sul viale. Il ritmo del respiro rallentò, lasciandogli un gusto spesso e salato sotto la lingua. Anche la paura diminuì: là era al sicuro. Sempre, fin da quando ricordava, avere paura era significato scappare, o voler scappare, da qualche parte in cui fosse in grado di guardarsi tutto intorno, un grande spiazzo deserto in ogni direzione. Non importava anche se era buio. Anzi, era meglio che fosse buio, perché voleva dire potersi nascondere, diventare veramente invisibile, non solo fingere di esserlo. Il peggio era trovarsi da qualche parte, una stanza con pareti, un angolo nel quale cercare di rannicchiarsi per diventare piccolo, sempre più piccolo, ma mai abbastanza. Camere con porte irraggiungibili, da cui non poteva mai uscire per scappare via, porte che avrebbero benissimo potuto essere lontane un milione di chilometri, perché c'era sempre qualcuno, qualcuno più grande di lui, come la mamma o sua sorella o un amico di sua sorella. Se si poteva scappare, c'era almeno una possibilità. Quando la paura fu andata del tutto, dentro non gli rimase più nulla. Steven camminava lentamente, senza meta. Era felice di averla scampata, di trovarsi fuori nel buio e nella quiete invece che in quella stanzetta con le risate che gli picchiavano addosso. Tuttavia non provava rancore verso di loro. Non più, almeno. Molto tempo prima, prima di avere capito tutto, si era sentito bruciare le guance da grandi lacrimoni bollenti di vergogna e rabbia. Ma aveva imparato: piangere dove gli altri lo potevano vedere, quando lo intrappolavano in un angolino, non faceva che peggiorare le cose. Serviva solo a farli ridere di più, o a farli infuriare sempre di più, e le urla assumevano un tono che non era più quello di sua madre, ma un clamore stridulo che gli colpiva le orecchie con una forza ancora maggiore di quella delle mani di lei. E piangere dove nessuno poteva vederlo, anche quello era terminato, una volta capito che era meglio non sentire niente, essere vuoti dentro. Finché uno piangeva, continuava a esistere; non era lontano un milione di chilo-
metri, non era invisibile. Meglio ingoiare tutto, spingerlo giù in gola, non importava quanto enorme e duro e soffocante, giù nel vuoto nero dentro, sotto lo stomaco. Dove non poteva vederlo nessuno. Raggiunse la recinzione. Quando allungò le mani a toccare la rete metallica, la sentì gelata contro le dita contratte, e quando la strinse il filo rigido fece un debole scricchiolio metallico. Nel giro di qualche istante si sarebbe concesso di pensare al da farsi, alla lunga camminata verso casa, in mezzo alle strade e ai viali deserti. Il traffico sfrecciava lungo la sopraelevata dell'autostrada in lontananza, un fiume costante di fari che a quell'ora di notte si faceva sempre più rado e tranquillo, ma non si inaridiva mai. Tutta quella gente andava da qualche parte, dove c'erano luci e rumore. Ma in quella zona non c'era nessuno. Camminando fino a casa Steven avrebbe visto forse tre o quattro macchine in tutto, che avanzavano tortuosamente oltre i filari di case e condomini dalle finestre buie. Tra un po' ci avrebbe pensato, e avrebbe cominciato a camminare. Sapeva che non sarebbe andato a casa con sua sorella Kris, nella macchina di Mick, non dopo quanto era successo. Era stata una brutta notte. Di solito riusciva a stare fuori dai guai - invisibile - quando era costretto ad aggregarsi a sua sorella e ai party dei suoi amici. Di solito non capitava niente, e lui non doveva fare altro che sedersi al buio e aspettare finché non finiva tutto e non arrivava l'ora di tornare a casa. Sedersi e dormire un po', con i rumori e le risate che scivolavano dentro e poi fuori dai sogni. Quella notte aveva sognato qualcosa... lo ricordò. Una macchina nera, un frammento di notte... che aspettava e assisteva, in un punto dal quale riusciva appena a intravederla, nera contro il nero... — Ehi... — Un urlo eruppe dalla notte. Steven alzò gli occhi, sorpreso, sentendo tendersi la pelle sulle scapole. Una voce d'uomo. Rivolse lo sguardo oltre la rete di recinzione e vide dall'altra parte una sagoma nera, lungo la stradina stretta, contro il pendio di una collina. Una sagoma d'uomo che lo guardava: ne sentiva lo sguardo, anche se non vedeva i suoi occhi né altro, solo il buio. Si allontanò dalla recinzione e cominciò a correre. Dietro di lui, l'uomo gridò ancora. — Ehi... torna qui... Le parole gli sfiorarono appena le orecchie, attutite dalla corrente d'aria della fuga e dal pulsare del sangue. Continuò a correre senza guardarsi indietro, diretto al cancello lontano del drive-in.
Taylor guardò il ragazzino scappare via, una figuretta che svaniva nel buio dall'altro lato della recinzione. Non un adolescente: gli parve più sui dieci o undici anni. Piccoletto, un viso pallido e magro, anche per avere solo nove anni. Eppure quel viso sottile gli era parso più vecchio, come capita a volte con certi bambini simili ad anziani ridotti a dimensioni di bambino, con le rughe stirate e la pelle grigia tornata rosea e bianca. Ma gli occhi restavano vecchi, e cauti, e fissavano sempre gli altri da un punto in fondo alla caverna che avevano dentro, dove nessuno poteva arrivare a toccarli. Taylor aveva già visto ragazzini così, nel braccio dei minori vicino al carcere: i due palazzi dividevano gli stessi servizi medici e di cucina, così c'era sempre un certo traffico che andava e veniva nelle due direzioni. I bambini malmenati, quelli a cui non era stato fatto tanto male da finire in ospedale, o peggio, all'obitorio cittadino, venivano fatti entrare per il controllo dell'infermiera, mentre i poliziotti portavano via i genitori, o il convivente della madre, o chiunque avesse l'aria abbastanza colpevole da meritarsi una passeggiatina al commissariato. Se i bambini venivano portati durante il turno di notte, e Taylor non era in giro a controllare le unità abitative o il perimetro, allora passava dall'unità medica e leggeva sulla scrivania dell'infermiera i rapporti degli agenti che avevano effettuato l'arresto. Aveva visto un tal numero di freddi rapporti di polizia, "lesioni visibili", da non sentire più quel coltello piantato nelle budella, ma solo una sensazione di vuoto. Era molto peggio. Insensibilità: ci si abituava, ci si abituava a vedere bambini di dieci anni con occhi da cadavere, e poi bambini di nove e cinque e quattro anni. Non avevano mai imparato altro che ad aspettare e osservare, da quel punto dentro di loro nel quale nessuno poteva ferirli, almeno non tanto da ucciderli. E se si lavorava al carcere quanto bastava - Taylor vi aveva trascorso venti anni di stillicidio - si rivedevano gli stessi ragazzini più tardi, quando erano più avanti con gli anni e i poliziotti li portavano dentro per qualcuno dei vari casini in cui avevano imparato a cacciarsi da soli. Non avevano più bisogno di quei loro stupidi genitori o del convivente di mamma: sapevano cavarsela benissimo da soli, con l'ago. E almeno era qualcosa che maneggiavano loro. Però gli occhi rimanevano uguali, magari con caverne ancora più profonde oltre lo sguardo da cadavere, di bambini ancora più lontani nel buio. Non era bello stare a pensarci, in piedi su una strada deserta e ghiaiosa nelle ore che strisciavano verso il mattino. Il ragazzino che Taylor aveva visto e che gli aveva disposto i pensieri su quella rotta tetra e logora, era
scomparso del tutto, scappato nel buio. Pensò che doveva averlo spaventato, preso di sorpresa con quel vocione da adulto che saltava fuori dal nulla a quel modo. E il ragazzino era schizzato via d'istinto, Dio sapeva dove. Cosa ci faceva fuori a quell'ora di notte? Forse c'entrava qualcosa con gli altri ragazzi, quei teppisti maniaci del football che facevano casino nel drive-in. Difficile a dirsi. E del resto non poteva farci niente. Diventando adulti lo si imparava. Si poteva stare tutta la notte a leggere i verbali degli agenti mentre le infermiere dello studio medico misuravano e contavano i lividi e pulivano le croste nere di sangue dalle orecchie dei bambini con un batuffolo di cotone bagnato nell'alcool; lo si poteva fare, ma non cancellare quei verbali in triplice copia con il foglio giallo in fondo riservato agli schedari permanenti. Era tutto permanente: alla fine era questo che si imparava. Si voltò, tornando alla collina dall'altra parte della strada. Lentamente, con la pila spenta che dondolava dalla mano, si fece strada tra le erbacce secche in direzione del riformatorio. — Ehi, mi è venuta un'idea. — Kris si spinse addosso a Mick, infilandogli la mano nella giacca e passandogli i polpastrelli lungo le costole. Lui non la guardò neanche, bevve una sorsata dalla lattina di birra, l'ultima che si era portata dietro. Lei gli avvicinò la bocca all'orecchio, abbassando la voce. — Perché non torniamo a casa mia? Così possiamo stare comodi. E da soli. Era quello il vantaggio del fatto che quel suo stupido fratellino fosse scappato via. La privacy. Non che qualcosa che Steven diceva o faceva le impedisse mai di fare quello che voleva. Era soltanto un gran rompicoglioni; anche quando stava da qualche altra parte della casa, con la porta della camera di Kris chiusa e la radio accesa per coprire i rumori e le risatine sue e di Mick, anche così si capiva che c'era lui in casa, in camera sua o seduto a guardare la televisione accanto alla mamma che russava. Con quella sua faccetta scema. Guardava e basta, senza dire niente. A Mick scocciava anche solo che quello sgorbio gli stesse nei paraggi. Steven gli dava ai nervi, lo metteva di cattivo umore. Anche se sobbarcarsi il fratellino rendeva loro possibile un mucchio di cose simpatiche e bloccava sul nascere tutte le eventuali scenate che altrimenti la madre di Kris avrebbe piantato... Kris aveva spiegato tutto a Mick già dieci volte, ma lui se ne fregava lo stesso, voleva solo veder sparire quel moccioso. E lei doveva essere ancora più carina, fargli le cose che voleva lui, pur di oltrepassare la barriera di astio che la presenza di suo fratello gli faceva montare dentro. A volte le ci vo-
levano delle ore. Ma quella sera era diverso: lei capiva che Mick pensava la stessa cosa. Steven era sparito da solo, o almeno potevano dire così alla mamma. Non era colpa sua se quel piccolo figlio di puttana non era capace di sopportare gli scherzi senza perdere la testa e schizzare via al buio dove non sarebbero riusciti a trovarlo neanche se ci avessero provato. Per cui non era veramente una bugia se diceva alla mamma che lei e Mick erano veramente andati a cercare Steven, che lo avevano chiamato e tutto quanto... ma che doveva essersi nascosto. Tutto piagnucoloso e lagnoso, quel frignone. Solo perché i ragazzi della squadra si erano divertiti un po' con lui, ma non che gli avessero fatto male o altro. Anche se non le sarebbe dispiaciuto: se il fratellino fosse finito in ospedale per un paio di settimane, proprio come si meritava solo per essere il moccioso stronzo che era, lei avrebbe avuto molta più privacy. Ma anche per quella sera poteva andare, come inizio. Kris si strusciò contro Mick, alzando gli occhi su di lui e aspettando che dicesse qualcosa. Mick mandò giù un'altra sorsata di birra. — E tua madre? Sul volto di Kris passò un sorrisetto. — Ma scherzi? Anche nel caso che si dovesse svegliare, se la prenderà tanto con Steven per averci piantato in asso che non gliene sbatterà un cazzo di quello che facciamo. Non ci fu bisogno di stare a convincerlo. La lattina vuota di birra rimbalzò sull'asfalto. Poi Mick le sorrise e spalancò la portiera. 5 Non riusciva a trovare la strada. Quando aveva cominciato a correre, inseguito dal grido dell'uomo alle sue spalle, si era lanciato nel buio senza pensare a dove stesse andando. Voleva solo scappare, solo correre finché quello che gli faceva paura non si fosse trovato lontano, indietro. Steven si fermò, piegandosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Era tutto buio e silenzioso, là in quell'angolo dello spiazzo deserto del drive-in; si guardò attorno e vide i paletti che reggevano gli altoparlanti, le file curve lungo l'asfalto, righe sottili di nero stagliate contro la notte. Dall'altra parte, a pochi metri di distanza, c'era la recinzione. Ingoiò un altro respiro pungente, poi vi si avvicinò e cominciò a scalarla, artigliando con le dita la rete metallica. Quando arrivò in cima, portò le gambe dall'altra parte e si lasciò cadere sulla stradina di ghiaia. Spolverandosi la terra dalle ginocchia dei jeans, Steven percorse la rete.
Ora sapeva dove si trovava: dall'alto aveva intravisto il lontano bagliore azzurrino dei lampioni sullo stradone. Una volta arrivato là, sarebbe stato abbastanza facile ritrovare la via di casa. Un'ora di cammino, forse. Nel buio, le scarpe scricchiolavano sulla ghiaia. Una volta in strada, si diresse verso la città, con lo schermo del drive-in che incombeva alle sue spalle, un riquadro bianco bucherellato che nascondeva stelle e luna. Ora non restava altro da fare che camminare e sarebbe arrivato a casa, e forse sarebbe andato tutto bene. Forse la mamma dormiva ancora. Almeno poteva sperarlo. Sentì l'auto, il rumore del motore, provenire da dietro. In quello stesso istante, la strada si accese dei fasci rotondi di luce dei fari, che spingevano via il buio, fuori della sua portata. Si fermò e si guardò intorno, ma sapeva già chi era. Oltre il bagliore dei fari, l'auto di Mick gli venne incontro sulla strada. Riparandosi gli occhi, Steven vide le sagome delle due persone all'interno, Mick al volante e Kris accanto. Sapeva che non erano venuti a cercarlo. Se ne stavano tornando a casa perché il party al drive-in era finito. E lo avevano visto. E si sarebbero fermati a prenderlo. Sapeva anche questo. Non perché Kris lo volesse, o gliene fregasse particolarmente di lasciarlo a vagare nel cuore della notte. Solo perché sapeva come procurarsi meno guai possibile. Se la mamma fosse venuta a sapere - se gliel'avesse detto lui - che l'avevano visto in strada e non si erano fermati, e l'avevano lasciato dov'era a notte fonda, se la mamma fosse venuta a saperlo, sarebbero stati guai, strilli e scenate. Per Kris non ne sarebbe valsa la pena; meglio riportarselo a casa, proprio come da casa erano partiti con lui. Steven sapeva anche cosa si sarebbero detti, in macchina. Come se l'avesse in testa, sentiva già la voce di sua sorella, quel tono agro e schifato. Non appena l'avesse visto, illuminato dai fari: "Cristo, guardalo, è là, quello stronzetto". E avrebbe sospirato, anzi, lo aveva già fatto, insaccando le spalle. "E meglio se lo tiriamo su." Mick avrebbe brontolato, aveva già brontolato, era già successo tutto; Mick stava già sterzando a lato della strada, per accostare nel punto in cui Steven li aspettava immobile a guardarli. Li vedeva in faccia, oltre il parabrezza. Mick si allungò davanti a Kris e indicò col pollice il sedile dietro. — Sali. — Si rimise diritto, stringendo il volante con quelle manone. Steven passò sul sedile posteriore. Ancora prima che avesse chiuso la portiera, Mick allontanò l'auto dal marciapiede, sgommando.
Dal sedile davanti, Kris gli lanciò un'occhiata cattiva. — Credevo che ci fossimo liberati di te... Lui non disse niente. Doveva subire, nient'altro. Almeno la mamma non avrebbe dato fuori di matto perché si era allontanato. Se l'avessero trovata sveglia al loro arrivo... Meglio Kris e le sue frecciate cattive che un rischio simile. La strada buia sfrecciava oltre il finestrino, frammentata dagli aloni di luce azzurra sotto i lampioni. Steven teneva il volto contro il vetro e osservava la notte deserta. Ma non era deserta. Lo capì non appena sentì il rumore dell'altra macchina. La macchina nera, quella che aveva visto prima, accostò alla loro nella corsia accanto con un ruggito. Il sibilo del motore, che aveva attraversato il mondo per bloccarsi in fondo allo stomaco di Steven, era diventato un urlo che saliva di tonalità e volume, penetrando dai finestrini dell'auto di Mick e riempiendo l'abitacolo. — Ma che cazzo... — Sorpreso, le spalle curve sotto la giacca, Mick si girò di scatto, fissando la sagoma nera di fianco alla macchina. L'uomo alla guida dell'altra auto, proprio come lo aveva visto Steven prima: un'ombra nera nel buio, senza volto, nemmeno occhi. Ma li sentì lo stesso, quando la sagoma al volante si girò e lo guardò. Poi un altro suono, distorto dal ruggito del motore della macchina nera. Steven capì che sua sorella stava urlando. Non si allontanò dal finestrino, ma capì che Mick girava freneticamente il volante, preso dal panico, mentre la macchina nera si lanciava avanti e tagliava loro la strada. Steven si coprì la faccia con le mani quando si sentì schizzare via dal sedile e andare a sbattere con la spalla contro la portiera. L'auto di Mick rimbalzò contro il marciapiede e inchiodò, e l'angolo del paraurti sbatté contro un mucchio di terra oltre il limite della strada. Per un istante l'auto ondeggiò, le sospensioni scricchiolarono, e parve che stesse per cappottare; poi si fermò con un tonfo violento. L'urlo di sua sorella era diventato un piagnucolio di dolore. Steven la vide ricadere contro il sedile, una rete di sangue che le fluiva sul viso; anche sul parabrezza c'era sangue, al centro di una ragnatela di vetro frantumato. Mick si toccò la bocca e poi si guardò la mano, gli occhi annebbiati nel fissare la macchia umida di rosso sul palmo. Il sangue scendeva come una saliva spessa e nera sul bordo del volante. Non riuscivano a vedere altro che il proprio sangue. Ma Steven vedeva
più in là, oltre i mille frammenti del parabrezza schiantato. L'altra macchina, quella nera, che si era staccata dalla notte per diventare realtà, più reale di qualsiasi altra cosa, si era fermata un paio di metri oltre l'auto di Mick. Il sibilo del motore ispessiva l'aria, solidificandosi in gola a Steven. Sotto i suoi occhi, la portiera si aprì. Nell'abitacolo non si accese la luce: il buio rimase integro. Il guidatore uscì da dietro il volante. Si avvicinò alla macchina di Mick. Oltre il parabrezza sbriciolato, Steven vide la sagoma, senza volto nel buio, fermarsi a fianco della macchina. Anche Mick vide l'uomo, e alzò gli occhi. Il sangue gli sgorgava in mezzo alle dita che teneva premute contro la faccia; un lamento, come quello di Kris al suo fianco, gli uscì dalla bocca. Poi l'auto si riempì di frammenti di luce che esplosero sul sedile anteriore. Steven sussultò, alzando la mano: contro il palmo, i frammenti del parabrezza scintillavano e bruciavano come insetti, un'ondata che arrivò e scomparve in un secondo. Aprì gli occhi e vide i minuscoli pezzi di vetro intorno al bordo del parabrezza ondeggiare e cadere come ghiaccioli illuminati dai fari della macchina nera in lontananza. Le mani e gli avambracci del guidatore erano punteggiati di schegge di vetro, infisse nelle nocche penetrate attraverso la ragnatela di incrinature. Il guidatore si allungò oltre il parabrezza distrutto, di cui restavano solo le ultime briciole di vetro che cadevano sul cruscotto con un rumore di campanellini. La mano dell'uomo si aprì, le dita si allargarono e si richiusero sulla gola di Mick. Il sangue gli gorgogliò sulle labbra, e l'urlo che gli saliva in gola venne soffocato dalle dita dell'uomo che stringevano la carne, i pollici che scavavano nel collo. Steven si spinse contro lo schienale, vide tutto. Ora sua sorella urlava, rannicchiata contro la portiera dalla sua parte, le mani sulla faccia per proteggersi. L'uomo dell'auto nera si drizzò, tirando fuori Mick dalla macchina, trascinandolo contro i frammenti affilati di vetro in fondo al montante del parabrezza. Mick strinse con le mani i polsi dell'uomo, cercando con le dita di spezzare la presa che gli bloccava la gola. Steven cercò a tentoni la maniglia interna della portiera e vi strinse le dita. Poi si fermò, sentendo il metallo freddo nella mano. Poteva aprire la porta, uscire e scappare; non c'era niente a fermarlo. Ma la voce che prima gli aveva sempre detto di farlo, quella che sentiva sempre... era ammutolita. C'era solo il vuoto, silenzioso e in attesa. Un silenzio che Steven poteva
bloccare dentro per osservarlo. Ritirò la mano. Fuori dall'auto, vide l'uomo lanciare Mick in strada. Mick rimase nel punto in cui era caduto, le braccia allargate. Il sangue gli colava dalla bocca spalancata a formare una pozzanghera nera contro la nuca. Il guidatore fece un passo indietro, girò di nuovo il volto d'ombra verso la macchina. Steven percepì quegli occhi che non vedeva, uno sguardo che si restringeva da quella distanza. L'uomo calpestò una mano a Mick e andò verso la macchina. Sul montante dalla parte di Kris era rimasto del vetro. L'uomo della macchina nera lo spazzò via con il dorso della mano. L'urlo di Kris salì di tono, spezzandosi in un singhiozzo quando lei si sentì colpire dai pezzi di vetro. Si rannicchiò in un mucchietto tremante sul sedile, stringendo l'aria con le mani, coprendosi la faccia con gli avambracci. L'uomo si allungò e la prese per un polso. Con la stessa forza tranquilla, la trascinò fuori da sopra il cruscotto. Lentamente, Steven si spinse avanti sul sedile. Si alzò, stringendo il piano del sedile con le mani. Per vedere. L'uomo aveva trascinato Kris sul cofano dell'auto. I fari gli illuminavano il petto, lasciando il volto nel buio. Scagliò Kris contro la griglia del radiatore. Il colpo stordì la ragazza, e un livido rosso le si allargò sul volto quando colpì una delle barre cromate della griglia. Il sangue le gocciolò dal naso fin sul labbro inferiore. Il volto di lei si illuminò, una macchia bianca contro la notte, mentre l'uomo della macchina nera la portava di fronte a uno dei fari. A pochi centimetri di distanza, la luce cancellava tutti i lineamenti di lei, per lasciarle solo quel marchio brillante di sangue sulla pelle. L'uomo le stringeva forte i capelli, tirandole indietro il capo, la gola tesa sotto il mento sollevato. Con un colpo violento, l'uomo le spinse la faccia contro il faro. La luce si spense con un crepitio elettrico, e scintille schizzarono sulla fronte di Kris e l'avambraccio dell'uomo. Steven sentì il gemito di sua sorella quando l'ultimo frammento di consapevolezza sparì nel dolore. Il buio le si ripiegò addosso, il faro si spense. L'uomo aprì la mano, scagliandola via. Lei cadde sulla strada a faccia in giù, una macchia nera che si allargava trascinandole i capelli ingarbugliati in quella pozza scura. Sulla strada, Mick si era alzato sulle mani e le ginocchia. Il volto incrostato di sangue, rivolse gli occhi alla macchina. Vide, ma non capì. Steven se ne rese conto nel guardare Mick dal sedile posteriore, oltre lo spazio vuoto lasciato dal parabrezza. "Non capisce." All'improvviso gli dispiac-
que per Mick, una piccola sensazione fuggevole che svanì nel vedere l'uomo della macchina nera allontanarsi dal cofano dell'auto. La sagoma si avvicinò a Mick. Mick non lo vide arrivare: stava guardando Kris, fissava con lo sguardo annebbiato il corpo scomposto della ragazza, il lago di sangue che le arrivava alle spalle. Vederla così, immobile come una bambola rotta gettata via, fece salire il terrore sul volto di Mick. Ora capiva quanto fosse reale. Il sangue gli gorgogliava sulle labbra, una specie di piagnucolio mentre alzava gli occhi e cercava di allontanarsi dall'uomo a soli pochi passi di distanza. La paura fece perdere la testa a Mick. Si trascinò in piedi e fece per scappare. Steven lo vide stagliato nella luce dei fari, mentre andava barcollando verso l'estremità del raggio luminoso. L'uomo non inseguì Mick. Tornò senza fretta alla macchina nera e salì. Il rombo del motore si fece più forte quando mise in marcia. La ghiaia schizzò da sotto le ruote e l'auto avanzò, spazzando la strada con la luce dei fari e acquistando velocità. Mick aveva già raggiunto il buio tranquillo e sicuro quando i fari della macchina nera lo raggiunsero, scagliando avanti la sua ombra contorta. Continuò a fuggire, i passi resi goffi e scoordinati dal panico; si guardò alle spalle colpito dalla luce improvvisa. Anche a quella distanza, Steven lo sentì urlare, un rumore estirpato a forza dai polmoni e sospeso nell'aria della notte. Una parte del cervello di Mick funzionava ancora, un frammento non ancora congelato dal terrore. Quanto bastava per farlo deviare di colpo, come se si trovasse sul campo da gioco per eludere un ultimo placcatore che gli stava addosso. Stava correndo in mezzo alla strada; all'improvviso si girò e sfuggì di lato, cercando di raggiungere un punto nel quale la macchina nera non potesse seguirlo. Mick corse diritto contro una recinzione di rete metallica, più nuova di quella che circondava il drive-in, ferro ancora lucido e senza ruggine, ben teso e non allentato tra un paletto e l'altro. Dall'altra parte c'era un parcheggio, righe bianche tracciate a lisca di pesce sull'asfalto intorno a una serie di edifici commerciali. La scena venne illuminata dai fari della macchina nera, un'ombra liquida che si spandeva sull'asfalto, e quella di Mick che si allungava al centro. La macchina si era portata in un arco dall'altra parte della strada, in modo da poterlo raggiungere a piena velocità, inchiodando Mick tra i cunei
luminosi dei fari. Il guidatore diede gas e la macchina schizzò avanti, passando oltre il basso gradino e la stretta fascia del marciapiede. Mick si voltò, appiattendosi contro la rete. Si fece indietro, allargando le mani come per proteggersi dall'impeto. Un grido di choc e orrore gli esplose dalla gola quando la parte superiore del cofano gli si schiantò contro lo stomaco. Mick si piegò in due, le mani scivolarono sul metallo nero. La recinzione dietro di lui si incavò, e il ringhio del motore scese di tonalità quando la griglia spinse indietro la schiena di Mick. Stravolto in viso, Mick si appoggiò contro la recinzione, il giubbotto con il monogramma dell'università stampato a losanghe sulla rete metallica. Le costole gli saltarono con un rumore di fuscelli secchi spaccati. Qualcosa di umido, che nella notte sembrava nero, fluì da dietro il giubbotto di Mick, colando sulla rete. Poi le cuciture si spaccarono, e i fili di nylon si strapparono punto per punto. Il sangue sgorgò pulsando, scintillante sul filo metallico intrecciato. La macchina indietreggiò, e il corpo di Mick, come un pupazzo rotto, scivolò a terra. Steven si era alzato sul sedile anteriore, fino a sfiorare con la testa il soffitto dell'abitacolo. Osservava e vedeva tutto; anche se era successo in lontananza sulla strada, il punto più lontano in cui Mick era riuscito a scappare prima di venire raggiunto dalla macchina nera, aveva visto perfettamente lo schianto della spina dorsale di Mick contro la recinzione. Fino all'ultimo dettaglio: quando la macchina nera, con il suo guidatore senza volto all'interno, era avanzata schiacciando il costato di Mick, il rumore delle ossa che si frantumavano era risuonato netto e veloce, come di rami spezzati vicino all'orecchio. E più vicino, proprio dentro quella macchina, nel fascio di luce dell'unico faro, Steven guardava in basso e vedeva il corpo attorcigliato di sua sorella, a faccia in giù nella pozza scura di sangue che si allargava. "È successo." Il pensiero gli percorse lentamente il cervello, come qualcosa che gli si districasse dietro la fronte. La prima Volta che aveva visto la macchina nera, quando si era affiancata a quella di Mick, aveva capito. Stava per succedere qualcosa. Era là per quello. Loro non l'avevano vista, erano troppo stupidi per vederla. Finché non era stato troppo tardi. Il suono del motore dell'altra auto lo spinse indietro. Diede un'occhiata e la vide allontanarsi dalla recinzione. I fari voltarono per puntare diritti su di lui, in lontananza. L'auto avanzò, tornando verso quella di Mick. La macchina nera si fermò a pochi metri di distanza, e il ringhio del mo-
tore divenne un fremito leggero nell'aria notturna. Sotto gli occhi di Steven, rannicchiato dietro il sedile anteriore, la sagoma scura dell'uomo aprì la portiera e uscì. Non c'era posto dove scappare, neanche se fosse riuscito a muoversi. Steven rimase immobile dov'era, inginocchiato sul sedile posteriore. Una mano si allungò verso la maniglia; la serratura scattò, e la portiera si aprì. Steven si raggomitolò contro quella opposta. — Steven... — La voce dell'uomo, bassa e morbida, un sussurro che si staccava dal buio circostante la macchina. Era sicuro che l'uomo avrebbe saputo il suo nome. Doveva saperlo; era successo tutto proprio come lui sperava sarebbe successo. Ma Steven non sapeva cosa sarebbe accaduto poi: era quello a spaventarlo, a spingerlo contro la portiera, via dalla mano che si allungava lentamente dentro l'auto. Fece scivolare le dita sulla maniglia e tirò in fretta, spalancando la portiera con il proprio peso. Ricadde sulla strada, battendo la spalla e un angolo della fronte contro la superficie ruvida. La vocina dentro si era risvegliata a pronunciare quell'unica parola. Corri... Steven si rialzò in fretta e scappò via dall'auto. Solo un passo e ricadde di nuovo, graffiandosi le palme delle mani contro la strada. Qualcosa lo aveva sgambettato. Guardò e vide Kris stesa nel punto in cui era caduto, il volto ancora girato in mezzo alla pozzanghera umida e lucente che le impantanava i capelli scuri. Gli aveva afferrato una caviglia con una mano tesa, stringendola forte, le dita che gli penetravano attraverso il calzino nella carne magra sopra l'osso. In gola gli salì un urlo che si bloccò dentro, e indietreggiò, spingendosi con le mani contro l'asfalto, scalciando per staccare la mano di sua sorella dalla caviglia. Ma lei resisteva, inchiodandolo dov'era. Di colpo, un buio ancora più fondo gli cadde intorno. Alzò gli occhi e vide l'uomo della macchina nera sopra di sé. Il volto completamente nero lo fissava. La mano scese verso di lui. La voce, bassa, quasi gentile. — Steven... non avere paura... Ora non vedeva altro che l'uomo, la sagoma nera che cancellava tutto il resto della notte. Steven ricadde indietro, e il buio si allungò a prenderlo. 6 Sentiva la voce provenire dal buio. Tutto intorno: ci era caduto dentro, e non c'era fondo, solo un precipitare lento e il mondo che svaniva al di fuori
della mente. Dove prima c'erano automobili e una cosa bianca che era stata sua sorella, che una volta aveva un viso, disarticolata sulla strada. Senza volto. Il buio portava via le facce, le rendeva cose scure di cui si sentiva lo sguardo fisso... Si girò lentamente all'interno del buio, andando alla deriva; un letto, un oceano nero e caldo, che gli risaliva contro il viso. ... lo sguardo fisso, che allungava una mano giù nel buio in cui stava cadendo, il volto senza occhi, solo il buio, la voce morbida e gentile, che sussurrava il suo nome... — Ehi... ehi, ragazzo... Ma la voce era cambiata, era diversa. Steven si accigliò in quel sonno naufragante, come se una zanzara gli avesse fatto risuonare nell'orecchio il suo ronzio, una nota acuta e dissonante. Perché mai avrebbe dovuto cambiare? Non aveva senso. L'uomo della macchina nera aveva la sua voce, l'unica possibile, quel sussurro che scivolava dolcemente nella calma aria notturna. — Ehi, su... ci sei? Non morbida e bassa, come il mormorio del motore della macchina nera che aspettava con i fari accesi a tagliare due falci affilate di luce nel buio. Quella voce era petulante, preoccupata. Dunque non poteva essere l'uomo della macchina nera. Nello stesso momento, Steven sentì qualcosa tenerlo per una spalla e scuoterlo, facendogli dondolare la testa avanti e indietro. Allontanava il buio, trascinandolo via. Aprì gli occhi. Venne sommerso dalla luce bianca accecante; gli occhi gli bruciarono per il bagliore improvviso. La luce scomparve quando gli occhi si adattarono, e vide porcellana bianca splendente e tubi cromati, rubinetti e manopole. Lavelli: quattro in fila, con uno specchio sopra ciascuno. Anche il pavimento era bianco, e le pareti, coperte dalle stesse piastrelle quadrate e lucide, interrotte solo da un tombino rotondo di metallo, fessure nere nella cromatura, proprio al centro del pavimento della stanza. Steven abbassò lo sguardo e si vide le mani, con le palme rivolte in basso su una panchina di legno. La tenebra in cui si era ritrovato a galleggiare si era trasformata in una serie di assi pesanti e lucida te dal logorio. Avevano un odore di umido sovrastato da quello aspro del doro, tipo la polvere Comet che la mamma teneva sotto il lavello di casa. — Stai bene? — La mano non lo scosse di nuovo: gli rimase immobile sulla spalla.
Lui non disse niente. Si guardò soltanto attorno, fissando le pareti di piastrelle brillanti sommerse dalla luce dei pannelli fluorescenti al soffitto, gli odori dell'acqua calda e del disinfettante che bruciavano a ogni respiro lento che faceva. Davanti ai suoi occhi discese un volto. L'uomo che lo aveva scosso per risvegliarlo, che si chinava per guardarlo più da vicino. Snello, capelli radi e baffi color sabbia: una faccia come tante, con occhi e tutto quanto il resto. — Adesso sbrigo una cosa, poi torno qui e ti registriamo. Va bene così? — L'uomo sorrise, come se gli avesse raccontato una barzelletta. — Tu stai qui buono. — Si girò e uscì dalla stanza con le luci bianche. Steven alzò la testa, guardandosi alle spalle. Alle pareti, sopra la panca di legno, vetrate rinforzate da rete metallica. Oltre le vetrate vedeva un'altra stanza, più ampia, con un corridoio scuro che si staccava da un lato. L'uomo si avvicinò a un alto bancone, e allungò una mano per prendere il telefono. Steven capì di essere in un altro luogo. Diverso. Sentiva la notte, il buio ancora fuori da quella piccola sacca di luce. Non poteva fare altro che aspettare per scoprire tutto. Taylor si trovava in fondo alle unità di detenzione quando Repken lo chiamò dall'accettazione. Il litigio con gli altri poliziotti e il party del drive-in gli avevano scombinato l'orario: di solito cercava di ispezionare le unità abitative prima di quell'ora, verso l'una o ancora prima. Ma erano passate le quattro, già oltre la metà del turno, e lui stava appena terminando. Oltre alla storia con gli agenti e il party, c'erano stati fastidi all'unità F, e anche questo era servito a fargli perdere tempo. A un tossico sedicenne ladro d'auto era saltato in testa che fosse la notte ideale per esibirsi nell'imitazione del lupo e aveva iniziato a ululare alla luna dalla griglia di sicurezza alla finestra. Taylor sapeva che bisognava stroncare in fretta certi atteggiamenti, prima che il coglioncello svegliasse tutti gli altri ragazzini dell'unità e combinasse casini mettendosi a tirare calci contro le porte blindate chiuse, urlando come un ossesso. Stronzate del genere si propagavano in fretta da un'unità all'altra, finché a un certo punto l'intero riformatorio dava fuori di matto. Era solo rumore e basta, ma rese la notte molto più lunga. Richiamato in rinforzo il personale delle unità D ed E, Taylor aveva aperto la porta blindata e aveva cercato di far ragionare il piccolo lupo mannaro. Fu molto aiutato nel suo intento dal paio di "corde dolci" che teneva in
mano e che mise davanti agli occhi del ragazzo, staccando la banda di gomma protettiva. Il ragazzo era un veterano del riformatorio, aveva un incartamento spesso cinque centimetri; veterano quanto bastava per capire cosa significassero quelle strisce lunghe e sottili di tessuto imbottito. Per lui significavano finire a braccia e gambe larghe sul lettino, legato strettamente ai polsi e alle caviglie, con gli altri capi delle corde assicurati ai quattro angoli della rete. - Perché non vogliamo che ti faccia male da solo disse Taylor al ragazzo. Il che era una vera stronzata; lo sapeva lui, lo sapeva il ragazzo, lo sapevano tutti. Ma il ragazzo sapeva anche che il personale gli si sarebbe gettato sopra, lo avrebbe legato per bene e lo avrebbe lasciato dov'era per un bel po', se non la piantava con quella storia degli ululati. La ragione aveva prevalso. Il ragazzo non cercava di combinare guai grossi, voleva solo divertirsi un po'. E voleva attenzione; quella l'aveva avuta, e una volta finito tutto era pronto a mettersi a dormire, proprio come un bravo bambino. Spente le luci della celletta, richiusa la porta blindata, e buonanotte. I rinforzi di Taylor fecero ritorno alle proprie unità di assegnazione, alle macchine da scrivere portatili o ai testi d'esame o al consueto tedio generale, qualunque cosa si fossero portati dietro per resistere alle lunghe ore del turno di notte, fino alle sette del mattino quando staccavano e subentrava il personale diurno, tutti mugugnanti e mezzi addormentati con in mano le tazze di polistirolo piene di caffè prese al Seven-Eleven vicino all'uscita dell'autostrada. Taylor aveva detto ai vari membri del personale coinvolto di non stare a scrivere un verbale di incidente per quanto riguardava il ragazzo; visto che non c'era stato bisogno di mettergli le corde dolci, non c'era ragione di compilare scartoffie. Il ragazzo stava già russando quando Taylor era ripassato a controllare. — Ne deduco che finalmente sei riuscito a far sbaraccare la comitiva. — Willis, dell'unità K, aveva poggiato i piedi sul piano del banco, una volta ammucchiate da un lato macchina da scrivere e pile di carta. Si mise sullo stomaco il libro che stava leggendo e scosse cenere grigia dal suo sigaro puzzolente. Taylor brontolò qualcosa e si mise a sfogliare il registro dell'unità. — Sì, finalmente. — L'unità K si trovava all'estremità dell'edificio a forma di L che ospitava il riformatorio, la più vicina alla recinzione e alle colline più oltre. Era quella che subiva di più il peso di qualsiasi tipo di casino provenisse dal drive-in abbandonato. — Non certo grazie ai nostri eroici difen-
sori della legge. Willis alzò le spalle dietro il nuvolone grigio di fumo: era riuscito a sviluppare la capacità di non sentire il rumore dei ragazzi che giocavano a football. Da lui si irradiava un'aura di quiete cinica, sembrava un Budda satollo. Più di una volta aveva consigliato a Taylor di non prendersela tanto per una manica di adolescenti coglioni. Prima o poi sarebbero tutti passati dal riformatorio, e quei bei culetti rosei e viziati sarebbero finiti in riga a prendersi una buona scarica di calci per fargli pagare il debito con gli interessi. E se non lì, magari da qualche altra parte, una volta cresciuti e non più corazzati del loro status privilegiato di eroi del liceo. Se mai avessero tentato stronzate del genere da adulti, avrebbero scoperto in galera - non certo in quella specie di pensione per educande che era il riformatorio quanto poteva diventare brutto pagare il debito. Il telefono squillò. Willis dovette togliere i piedi dalla scrivania e sedersi correttamente per poter rispondere. — Unità K. Eh? Sì, è qua. — Allungò la mano sul bancone e porse la cornetta a Taylor. — Alla registrazione vogliono parlare con te. Dall'altro capo della linea provenne la voce stopposa di Repken. — Abbiamo un inquilino, ce l'ha appena mandato il dipartimento di polizia di Midford. Pensavo che forse avresti voluto darci un'occhiata prima che io compili i documenti. Taylor si appoggiò al bancone, stringendo la cornetta all'orecchio. — Perché? Che ha di speciale? — Be'... era, diciamo, ehm, privo di sensi quando l'ho controllato, proprio adesso. — Le parole cercavano di farsi strada nell'imbarazzo di Repken. A quella notizia Taylor si drizzò. — Come hai detto che era? — Be'... tipo svenuto... — Cristo... di... un... Dio. — Taylor capì che Willis lo fissava chiedendosi cosa stesse succedendo. — L'unità medica ci ha mandato un ragazzo, e lui era privo di sensi? Come diavolo... La voce di Repken salì di tono, le parole furono più veloci. — Be', non era proprio del tutto incosciente quando l'hanno portato dentro. Solo un po' steso, capisci? E l'infermiera non è veramente riuscita a vederlo, perché era fuori per la pausa, e al banco accettazione c'è quella ragazza nuova. La polizia di Midford l'ha messa completamente sotto, le hanno scaricato il ragazzino e i documenti addosso prima che si rendesse conto di cosa stava capitando...
— Sì, va bene, lascia perdere. Senti, arrivo subito. Non muovere il ragazzino, okay? — Riattaccò la cornetta, poi firmò il registro ispezioni dell'unità K. — Prendila con calma — gli gridò Willis mentre lui apriva la porta blindata dell'unità e usciva nel buio. "Ci mancava anche questa..." Taylor si infilò il portachiavi con la cordicella di cuoio in tasca e attraversò lo spiazzo erboso umido. Ci voleva proprio, per completare la nottata: un ragazzino col cranio fratturato come un uovo dalla manganellata di un piedipiatti imbecille, che moriva di emorragia cerebrale su una panchina nella sala docce dell'accettazione. Nei suoi dodici anni al riformatorio, aveva visto morire un custodito solo una volta: un suicidio. Il ragazzino si era impiccato con un lenzuolo strappato nell'unità B, e a Taylor era bastato per il resto della vita. Le scartoffie per quell'incidente si erano susseguite letteralmente per mesi. E uno poteva dire di averla scampata per un pelo se non era finito in tribunale a testimoniare davanti a un giudice che lo avrebbe guardato come uno stupratore di bambini uscito da Auschwitz e capitato per puro caso nel libro paga della contea. Quelli della polizia di Midford erano proprio i cazzoni adatti a combinare un tiro del genere. Taylor e l'infermiera di notte avevano già litigato un sacco di volte con gli sbirri di Midford perché cercavano di scaricare al riformatorio dei ragazzini che avrebbero invece dovuto portare direttamente al reparto emergenze del pronto soccorso. Ragazzini con le braccia rotte, o talmente in overdose da essere completamente lividi. I poliziotti preferivano sbolognarli al riformatorio, se riuscivano a cavarsela, perché i verbali erano molto meno complicati di quelli che richiedeva l'ospedale. E non erano costretti ad aspettare mentre il dottore e gli infermieri lavoravano per salvare la pelle a un piccolo delinquente: potevano alzare i tacchi e tornare a perdere tempo in qualche bar. Oltrepassò i recinti del baseball, tagliando per il campo di atletica: era quella la strada più breve per la Registrazione. Taylor imprecò sottovoce. Gli sbirri di Midford probabilmente si stavano già ingozzando di brioche tracannando caffè del giorno prima e sghignazzando per essere riusciti a levarsi anche questa dalle palle. Privo di sensi, Cristo santo. Quel ragazzino probabilmente aveva già il cervello tumefatto come una spugna gonfia d'acqua. "E nel mio turno." Era questo a irritare Taylor. Forse erano addirittura gli stessi poliziotti, quelli che erano venuti al drive-in: il riformatorio era un ufficio di contea, e accettava ragazzini pro-
venienti da ogni dove, ma si trovava ufficialmente nei confini della città di Midford. Proprio come il drive-in: l'intero territorio attorno a quel lato delle colline basse e cespugliose e al torrente secco faceva parte di Midford. C'erano state dispute giurisdizionali fra il dipartimento per la libertà vigilata della contea e la polizia di Midford, su di chi fosse l'autorità competente per il riformatorio: poteva per esempio un agente come Taylor ordinare ai poliziotti di togliersi le pistole e metterle negli armadietti del banco di accettazione quando portavano un ragazzo? Il caso era arrivato fino alla corte suprema di stato, che aveva emesso una sentenza sfavorevole alla polizia. Da quel giorno i poliziotti avevano sempre avuto un pessimo atteggiamento per quanto riguardava la collaborazione con il personale del riformatorio. Repken si trovava accanto al banco dell'accettazione. Voltò lo sguardo verso Taylor quando lo sentì aprire la porta ed entrare nella sala di controllo. — Ho chiamato l'infermiera. — Repken annuì col capo in direzione delle vetrate della sala docce. — Ha detto di portarlo da lei appena possibile... — Sì, certo... — Taylor prese il foglio delle accettazioni dal banco e vi diede un'occhiata. Il ragazzino si chiamava Steven; era utile saperlo, per poterlo chiamare per nome nel caso fosse stato necessario tirargli fuori le risposte a forza. — Prima fammi dare un'occhiata al ragazzo. Era seduto sulla panchina della sala docce, le spalle insaccate, a fissare il tombino di scolo al centro del pavimento. Taylor non aveva letto il foglio di accettazione tanto da sapere l'età del ragazzino; per un istante rimase preso in contropiede nel vedere quanto fosse piccolo. Dieci al massimo: in genere, qualsiasi ragazzo che avesse resistito ai poliziotti tanto da beccarsi un colpo in testa aveva quindici anni o più. Oppure, se era stata la droga a fargli perdere coscienza, la cosa era strana perché di solito i ragazzini non si mangiavano il cervello a quel punto finché non avevano almeno l'età del liceo. Taylor si chinò verso il bambino. — Ehi, Steven... — mantenne la voce bassa e tranquilla, per non spaventarlo. — È così che ti chiami, no? Il ragazzino alzò gli occhi, e Taylor lo riconobbe. Da un'unica breve occhiata, a distanza di molti metri, nel buio. Un paio di ore prima, aveva visto quel volto tirato e quegli occhi cupi dalla recinzione intorno al drive-in, prima che il ragazzino si spaventasse e scappasse via per sparire. Ora quegli occhi lo fissavano. Qualsiasi cosa fosse stata a farlo scappare, c'era ancora, sepolta nel buio più profondo. Il ragazzino non disse niente.
Se non altro, era sveglio e attento. Taylor allungò una mano e gli spinse indietro i capelli dalla fronte. Un grosso livido scendeva su un lato della faccia, quasi fino allo zigomo. C'era mancato poco che quel ragazzino non finisse all'altro mondo. Una crosticina di sangue secco proprio all'attaccatura dei capelli. Taylor gli prese le mani e le rivoltò. Graffiate, di un rosa acceso, con abrasioni profonde, rosse, che si allungavano parallele lungo i polsi. Non ci voleva molto a capire: il ragazzino aveva preso una botta in testa quando si era messo a correre nel buio. Era inciampato in qualcosa ed era finito a terra, proteggendosi con le mani, ma non abbastanza in fretta da evitare un bel colpo in testa. Era quello che lo aveva fatto svenire, non una manganellata di qualche sbirro. Se non altro, il dipartimento di polizia di Midford con quella storia non c'entrava. L'infermiera lo avrebbe controllato e si sarebbe assicurata che non avesse un trauma cranico. Ma Taylor ne dubitava: gli occhi del ragazzo seguivano i suoi osservandolo con cautela. Forse il ragazzo stava scappando da lui: Taylor sapeva anche questo. Forse lo aveva terrorizzato facendolo fuggire nel buio. Dove si poteva inciampare in un sacco di cose. Taylor si alzò. — Eri al drive-in, vero? Poco fa? Il ragazzino alzò la testa, fissando l'adulto che aveva di fronte. Alzò le spalle, senza spezzare il silenzio intorno a sé. — Forza. O c'eri, o non c'eri. Dimmi solo sì o no. — Taylor rimase in attesa. Il ragazzino allontanò lo sguardo verso un angolo della sala docce. — Sì. — Un filo di voce appena percepibile. — Cosa ci facevi là? — Niente... — Una scintilla di difesa nella parola, pronunciata a voce più alta. Poi, tetro: — Non facevo niente. Taylor sospirò. — Vieni. — Fece un passo verso la porta, quindi si girò e attese. Dopo un istante, il ragazzino si alzò dalla panchina e lo seguì. Repken sedeva dietro al banco, visibilmente meno nervoso ora che della cosa si era preso carico qualcun altro. Rimase a guardare Taylor che prendeva il registro delle accettazioni e lo leggeva da cima a fondo. Il ragazzino rimase accanto a lui, in attesa, inespressivo. — Ma che puttanate. — Taylor sbatté il foglio sul bancone. — "Violazione di orario." L'hanno davvero portato qui per un'accusa del cavolo come questa? Cristo, non ricordo neanche quando è stata l'ultima volta che ho visto un ragazzo dentro per violazione di orario. E non ha precedenti
penali? Perché Cristo non lo hanno portato semplicemente a casa? È la procedura solita. Quelle parole rabbiose fecero rannicchiare Repken nella poltrona. Indicò il foglio di accettazione. — Be', senti... cioè... il ragazzino non ha voluto dargli l'indirizzo o il numero di telefono. Le righe del modulo proprio sotto il nome del ragazzino erano in bianco. Taylor si allungò dietro il bancone e prese un sacchetto di plastica pieno di oggetti. Gli effetti personali del ragazzo, sistemati insieme per tenerli al sicuro: cintura, monetine e oggetti vari che aveva in tasca. E un portafogli di plastica sottile, marchiato a fuoco perché sembrasse cuoio. Taylor aprì il sacchetto e tirò fuori il portafogli. — Cristo, ma se è qui. — La voce di Taylor si strinse dal disgusto mentre porgeva il portafogli aperto a Repken. In una tasca trasparente c'era una carta d'identità, del tipo che le scuole della contea distribuivano a tutti gli studenti. — Quelle teste di cazzo non si sono neanche presi la briga di guardare. — Infilò il portafogli nel sacchetto di plastica, poi si girò e fissò il ragazzino. — Okay, Steven... — Guardò ancora il nome sul modulo di accettazione. — Welsky... è così che ti chiami? Il ragazzo fissava le vetrate dello stanzone, la notte che avvolgeva il palazzo. Spostò gli occhi nuovamente su Taylor, come preso di sorpresa nel sentire il proprio nome. Taylor mantenne la voce bassa e rassicurante. — Va bene, Steven. Sai dove ti trovi? — Aspettò una risposta, anche solo un'alzata di spalle, ma non ottenne niente. — È il riformatorio. Non spaventarti, non è niente di grave. Ti riportiamo a casa appena possibile, okay? Niente. Sempre silenzioso, il ragazzino lo guardava. C'era tempo in abbondanza. Certi elementi del personale notturno, a un tipo silenzioso come quello avrebbero fatto subire tutta la procedura di ammissione. L'avrebbero sbattuto a fare la doccia e a mettersi l'uniforme, jeans e maglietta sbiaditi, per poi cacciarlo in una delle cellette della Registrazione prima ancora che avesse trovato il tempo di respirare. Era convinzione diffusa che il dipartimento per la libertà vigilata non pagasse abbastanza perché prendessero quegli stronzetti per la manina e stessero attenti a non traumatizzare la loro tenera psiche di adolescenti. A cose del genere poteva pensarci il personale diurno; era per quello che li pagavano di più. Tuttavia Taylor preferiva fare un certo tipo di distinzione, riservando il trattamento duro solo a quelli che veramente lo meritavano, i piccoli
vermi criminali che entravano con una boria alta il doppio di loro. Se la si metteva giù dura con tutti, compresi i piccoletti con gli occhioni sgranati come quello, si perdeva il senso di appagamento che si provava nel ridurre i veri stronzi in fasce a pezzettini, piccoli quanto bastava a farli entrare nel tritacarne dell'amministrazione giudiziaria. Non sarebbe arrivato così avanti nel servizio se non avesse scoperto le piccole soddisfazioni che valeva la pena togliersi. — Devo farti un po' di domande. — Taylor appoggiò tranquillamente un gomito al bancone. — E tu puoi rispondermi, okay? Non occorre che ti preoccupi, non è come raccontare alla polizia cose che credi possano metterti nei guai. A noi non frega assolutamente un cazzo. Prima sei fuori di qui, meno lavoro c'è per noi. Chiaro? Finalmente una risposta. Il ragazzino annuì. — Come mai non eri completamente a questo mondo, prima? Il ragazzino si accigliò. Non capiva. — Forza... intendo dire il modo in cui hai... diciamo flippato, là fuori. Hai preso qualcosa che non avresti dovuto? — C'era sempre una possibilità: l'alito del ragazzino non sapeva di alcool, ma restava comunque una vastissima gamma di schifezze. — Pillole, o cose del genere? — No. — Appena percepibile, un cenno di diniego col capo. Taylor gli credeva. Il silenzio del ragazzo veniva dalla sua paura, non dai farmaci. — Hai problemi di salute? Epilessia, o cose simili? Prendi insulina, o altro? — Se era quello il problema, il ragazzino avrebbe senz'altro riconosciuto le parole per descriverlo. Un altro cenno di diniego. — Come ti sei fatto quel bozzo? Il ragazzino alzò la mano e si sfiorò il livido sul lato del volto. Lentamente, riabbassò la mano. — Stavo correndo. E sono caduto. Taylor rimase in attesa, ma non vi furono ulteriori spiegazioni. "Sono caduto". Non ne avrebbe cavato altro. Voleva fare un'altra domanda: "Di cosa avevi paura?" e invece disse: — Perché scappavi? Un'alzata di spalle. — Non lo so. — Cosa ci facevi al drive-in? Stavolta nemmeno l'alzata di spalle. Il ragazzo tornò nel suo silenzio, richiudendosi in sé. Apparentemente non lo aveva riconosciuto, non ricordava di averlo visto oltre la recinzione del drive-in. Il punto in cui Taylor aveva gridato rivolgendosi al ragazzo, spaventandolo. "Scappava da me." Era quella la spie-
gazione. Che non spiegava niente. Non era la ragione della paura del ragazzino, chiusa in fondo a quel silenzio, dove conducevano i cunicoli profondi del suo sguardo. Dove nessuno poteva arrivare, nemmeno quel tanto che bastasse a sapere cosa c'era. Taylor lo sapeva bene; lo aveva già visto, molto tempo prima. Erano cose a cui era meglio non pensare. Allungò la mano verso la fronte del ragazzo. — Fatti dare un'altra occhiata. — Gli spinse indietro la testa, come aveva fatto prima. Gli premette il sopracciglio con il pollice, facendogli spalancare l'occhio. Niente. Quel ragazzino non aveva preso niente. C'era solo il buio, al centro. Taylor vi vedeva il proprio riflesso minuscolo, il proprio volto che restituiva lo sguardo dal profondo di quel buio interiore. All'angolo della bocca gli si dipinse un sorriso aspro. Lasciò ricadere la mano dalla fronte del ragazzino. Prese il portafogli dal bancone e lo aprì, mostrandoglielo. — È questo il numero di casa tua? Il ragazzino annuì. Taylor prese il telefono dalla scrivania e lo mise sul bancone, proprio fra sé e il ragazzo. Guardò il numero segnato dentro il portafogli, poi iniziò a comporlo. 7 Non si era mai trovato in un posto come quello, prima. Così strana, quella sacca di luce all'interno della notte, i neon sul soffitto che ronzavano dolcemente, tutto avvolgeva Steven come se perfino l'aria dentro quell'ampio spazio fosse per qualche motivo diversa da quella esterna. E la gente che ci lavorava, quello che gli aveva fatto tutte le domande, che sembrava sempre infuriato per qualche motivo, e l'altro... Dovevano far parte di quel piccolo mondo. Quando tutti gli altri dormivano, o facevano qualcosa nella notte, loro rimanevano là in quella luce brillante, a fare quello che facevano, le cose di cui gli adulti si occupavano per guadagnare soldi. Come i marinai in alto mare; ci si poteva stendere sul letto con le luci spente e pensare e sapere che in quel preciso momento erano là fuori, in un altro luogo. Ma c'erano anche altre persone lì, solo che non erano sveglie. Steven sapeva che c'erano, anche senza bisogno di vederle o sentirle. Dormivano, oltre le porte che fiancheggiavano i corridoi bui da entrambi i lati di quello spazio illuminato. Le sentiva come si sente che c'è qualcun altro in giro, semplicemente annusando l'aria. Pensò che dovevano essere ragazzi. Per
quella faccenda del riformatorio, come lo chiamavano. Più vecchi di lui, forse quanto sua sorella e i suoi amici... ragazzi che si erano messi nei guai... Sua sorella... Steven chiuse forte gli occhi, scacciando la luce accecante, allontanando lo stanzone e le voci dei due uomini, quello sempre arrabbiato che urlava sempre e l'altro che gracchiava come se si sentisse colpevole di qualcosa. Finché non si furono allontanati, e lui rimase di nuovo solo, dentro il buio della propria mente. Se fosse riuscito a restare tranquillo, senza lasciarli entrare... Avrebbero voluto sapere di Kris. Sapeva che alla fine gli avrebbero chiesto di lei, cosa le era successo. E anche a Mick. Lo sapevano già, forse? Era riuscito a stare in silenzio con i poliziotti, quelli che lo avevano raccattato in strada, dove era disteso mentre sentiva la terra girare follemente, la sua testa pulsare, una pugnalata di dolore lancinante all'angolo della fronte e qualcosa di umido e nero e attaccaticcio sulle dita quando se l'era toccata. Non lo sapevano, non l'avevano ancora trovata. Dove aveva lasciato lei e Mick l'uomo della macchina nera? Ricordava di essere stato visto e raccolto da terra dai poliziotti, con cautela, perché non sapevano quanto gravemente fosse ferito, e di quando l'avevano messo sul sedile dell'autopattuglia, con quello schermo che separava il sedile anteriore da quello posteriore, e la radio che gracchiava e parlava ai due e i due che rispondevano. In quel momento era ancora così stordito, la testa che gli doleva nel punto in cui l'aveva battuta cadendo, che non era nemmeno sicuro che fosse tutto vero, che si fosse veramente trovato sul sedile posteriore di un'auto della polizia. Poi ricordò di essersi nuovamente svegliato, poco alla volta, come se i sogni non volessero lasciarlo sfuggire e non fosse ancora sicuro di essere seduto sulla panchina di una sala illuminata, con una fila di lavabi e piastrelle che salivano fino al soffitto, e puzza di vapore e sapone bagnato. E qualcuno che lo scuoteva cercando di farlo risvegliare, di farlo ritrovare nella luce di quello stanzone. Invece che nel buio dietro le palpebre, dove l'uomo della macchina nera, una sagoma scura senza volto, si stava ancora chinando verso di lui, pronunciando il suo nome con voce bassa e tranquilla... Quello era successo. Tutto il resto pareva solo una finzione: aveva dovuto fare uno sforzo anche solo per stare un minimo a quel gioco, come quando l'uomo l'aveva portato nella sala più grande e gli aveva fatto tutte quelle domande, e lo aveva guardato negli occhi come nel tentativo di ve-
dere la macchina nera e l'uomo che la guidava e i corpi di sua sorella e di Mick scomposti sulla strada a gocciolarsi addosso pozzanghere nere e umide, immobili, immobili per sempre... C'era tutto, dentro di lui; era per quello che doveva starsene zitto. Lo avrebbero scoperto presto. Stare zitto. Non doveva fare altro. Per chiuderli tutti fuori. "Non ho bisogno di loro..." Aveva avuto paura quando era successo tutto, quando la macchina nera era uscita dal buio e l'uomo che la guidava aveva preso Mick e sua sorella, e aveva fatto loro quello che aveva fatto. Qualcosa che non potevano impedire, e che li aveva lasciati inerti, disarticolati. Era successo così in fretta: era stato quello a spaventarlo. Ma ora era finita, tutto nascosto dentro di lui, e non doveva fare altro che starsene zitto. Steven rimase fermo accanto al bancone nella stanza, in attesa. Aspettava qualunque cosa sarebbe successa poi. L'uomo che gli aveva fatto le domande stava componendo un numero al telefono. Si appoggiò al banco in attesa della risposta. Steven sentì in lontananza gli squilli. Gli squilli cessarono. Una vocina, dentro la cornetta che l'uomo teneva all'orecchio, disse qualcosa che Steven non riuscì a capire. — Sì, parlo con casa Welsky? — La voce dell'uomo assunse un tono completamente diverso, professionale. Qualcuno borbottò una risposta all'altro capo. — Sì, lo so. Mi scusi se la chiamo a quest'ora. Ma sono del riformatorio della contea. Abbiamo qui un giovanotto che si chiama Steven. Parlo con la madre di Steven? — L'uomo attese un istante, in ascolto della voce che si sentiva dentro la cornetta. — Capisco... sua sorella. Le spiace attendere un minuto? — Coprì il microfono del ricevitore e si girò verso Steven. — Ce l'hai davvero una sorella? Steven si accigliò, chiedendosi dove andasse a parare l'uomo. Chiedergli una cosa del genere... Era forse uno scherzo, o cosa? Forse lo sapevano già tutti, sapevano quello che era successo in strada, quello che aveva fatto l'uomo della macchina nera, e ora volevano prenderlo in giro. Volevano pungolarlo, facendo finta che non fosse successo niente. Si sentiva schiacciare dalla luce delle lampade al soffitto, il bagliore lo accecò improvvisamente e gli fece girare la stanza intorno. La luce si allontanò un poco, e Steven si rese conto che l'uomo gli stava porgendo il telefono. Lentamente, lui prese la cornetta e se la portò all'orecchio. Sentì la voce di sua sorella. Infastidita: — Ehi, si può sapere cos'è questa stronzata? Sua sorella. Non riusciva a crederci. Steven strinse la cornetta con en-
trambe le mani, premendosela contro il volto. — Kris... Kris, sei tu? — Oh, Cristo. — II tono schifato diventò più schifato. Aveva la voce di una persona che ha bevuto troppo. — Chi cazzo credevi che fosse? Impossibile. L'altro luogo, quel luogo oscuro, quello era vero: la strada e le sagome immobili distese sull'asfalto, i laghi di sangue nero che gli si allargavano intorno, i capelli di lei impigliati in quell'umidità attaccaticcia. Era tutto reale: aveva ancora tutto dentro la mente, dove poteva ricordare, rigirare e guardare bene. Ma ora... Gli riuscì solo di sussurrare. — Stai... stai bene? — Quelle parole gli parvero stupide, come se stesse parlando con un fantasma, un fantasma che non vedeva nemmeno. La voce esasperata della ragazza gli trapanò l'orecchio. — Perché mai non dovrei stare bene? — Pensavo... che fosse successo qualcosa... Steven sentì la propria voce affievolirsi e ricadere dentro di sé. Non aveva senso. "L'ho visto. Ho visto tutto." C'era ancora, nel buio. Sapeva che se avesse chiuso gli occhi lo avrebbe rivisto, e avrebbe rivisto l'uomo della macchina nera, il volto nascosto dall'ombra che calava su di lui sussurrando il suo nome. Che gli diceva di non avere paura. Ora non ne aveva. Qualcosa di vuoto gli si aprì dentro, un vuoto grande abbastanza da ingoiare il buio e lasciarlo in quella stanza illuminata, lui, fermo lì e in nessun altro luogo che lì. L'uomo gli prese la cornetta di mano. Steven lo ascoltò mentre parlava. — Va bene, Kris... è così che ti chiami, giusto? Senti, Kris, c'è tua madre? Steven si sfiorò il livido sul lato del volto, poi la crosta di sangue all'attaccatura dei capelli. Non faceva male. Era insensibile. Il ragazzino lo aveva piantato di nuovo in asso. Rimaneva fermo dov'era, come se sentire la voce di sua sorella l'avesse stordito. Taylor aveva ripreso il telefono per fare il lavoro che andava fatto. A volte capitava che dovesse parlare sempre e solo lui. — Pronto, sei ancora in linea? — Non aveva avuto risposta; solo qualche risatina ovattata e un chiacchiericcio all'altro capo. — Ho chiesto se c'è tua madre. Vorrei parlarle, se possibile. Di nuovo la voce della ragazza, con un tono scocciato e sarcastico. — Non può venire a risponderle. Cioè, adesso no. — Vicino a lei, qualcuno rise. Taylor si passò la punta della lingua sugli incisivi, annuendo fra sé. Non
era la prima volta che gli capitava di imbattersi in letamai del genere. La bella scenetta del figlio maggiore che guadagna punti dai casini che combina l'altro. Anche la sua famiglia, suo fratello e sua sorella, non erano stati molto diversi, quando lui era piccolo. E anche per quelli che conosceva la storia sembrava più o meno la stessa. C'era da chiedersi dove andassero a tirarle fuori, le famigliole felici della TV. Indurì la voce e mise da parte tutte le stronzate dell'agente educato e rispettoso. — Okay, adesso apri le orecchie, chiudi la bocca e ascolta bene. Se non c'è tua madre, voglio che le dici o le lasci un messaggio per farle sapere che Steven è qui al riformatorio. Chiaro? Richiamo fra qualche ora... — Vaffanculo, porco. — Uno scatto secco, quando la cornetta all'altro capo della linea venne riagganciata. Taylor fissò il telefono muto che stringeva in mano, poi riappese. Si girò verso il ragazzino. — A quanto pare, starai qui per il resto della nottata. Il ragazzino alzò le spalle. Sembrava che non gli importasse molto, in un caso o nell'altro. Si era infilata la maglietta di Mick quando era uscita dalla camera da letto per rispondere al telefono. Ora lui le stava alle spalle, con addosso solo i jeans; le diede una manata sul culo, appena sotto l'orlo della maglietta. Kris si voltò sentendosi abbracciare, portandogli la mano alla vita, e lo guardò tracannare dalla bottiglia mezza piena di vodka che avevano trovato a fianco del divano. Mick era davvero figo, a mescolare quell'intruglio con tutta la birra che aveva bevuto. Per poco non perse l'equilibrio, trascinando anche lei contro il bancone che separava la cucina dal soggiorno. Kris afferrò il telefono prima che precipitasse a terra. Nulla, neanche uno dei rumori che avevano fatto a parlare e ridacchiare, aveva svegliato sua madre, ma non voleva correre rischi. Avevano avuto già abbastanza fortuna, del tipo che a lei faceva comodo. Prima il suo fratellino scemo che scappava a quel modo al drive-in, così non c'era stato bisogno di portarselo fino a casa. Anche se avesse visto Steven per strada, che camminava con quel suo stupido broncio - Cristo, quanto le dava ai nervi vederlo con quel faccino da cane bastonato! - avrebbe sicuramente detto a Mick di lasciarlo dov'era e dargli la polvere, piuttosto che fermarsi a raccattarlo. Almeno sarebbe servito a dare loro un minimo di relativa privacy in casa, prima che Steven arrivasse davanti alla
porta. Ma era andata addirittura meglio: quel moccioso cretino era riuscito a farsi prendere dalla polizia. Almeno per una volta gli sbirri avevano fatto qualcosa di giusto e lo avevano scaricato al riformatorio. Lei non c'era mai stata, ma degli amici le avevano detto come funzionava. Con tutta probabilità Steven non sarebbe arrivato a casa prima delle nove o delle dieci del mattino. Peccato che non lo mettessero dentro definitivamente, almeno finché non avesse compiuto diciotto anni o giù di lì. E glielo avessero tolto dai piedi. Era stufa marcia di quella stronzata dello "chaperon". Era un rompicoglioni, nient'altro. Naturalmente non sarebbe successo, ma... adesso a lei e a Mick restava un bel po' di tempo, ore e ore. Potevano guardare il sole sorgere dalla finestra della camera da letto, oltre la tenda. Sarebbe stato bello, come se fossero già sposati o conviventi, in casa loro, lontano dalla mamma e da quelle stronzate. Si spinse contro Mick, schiacciandogli una tetta coperta dal cotone sottile della maglietta contro il torace caldo, che sapeva di sudore. Un'occhiata di lato, verso il centro della stanza, e vide sua madre ancora distesa sul divano, la bocca aperta, che russava piano e gorgogliando, di gola. Aveva una mano ancora abbandonata a terra, il palmo sollevato proprio nel punto in cui si era trovata la bottiglia di vodka. Era immersa nella luce azzurrina del televisore, con le ombre che fluttuavano sullo schermo come placide correnti oceaniche. — Vieni. — Kris prese la mano di Mick e lo condusse sorridendo verso il corridoio, e poi verso la camera da letto in fondo. — Adesso non dobbiamo più preoccuparci che qualcuno venga a rompere. — Sai che ti dico? Questa è una grossa stronzata. — Taylor si picchiò il portafogli del ragazzino contro il palmo della mano. Repken alzò gli occhi su di lui. Taylor scuoteva lentamente il capo, un angolo della bocca contorto dal disgusto. — Proprio così, amico. Proprio così. — Sembrava avere preso una decisione dentro di sé. Sempre con in mano quel portafogli, Taylor allungò l'altra mano dietro il bancone e prese il sacchetto di plastica e il modulo di accettazione che Repken aveva iniziato a compilare. — Che fai? — Stupefatto, Repken guardò Taylor strappare il modulo prima a metà, poi di nuovo, e infilarsi i brandelli di carta nel taschino della camicia.
Taylor lo ignorò. Porse il sacchetto di plastica, con il suo contenuto, al ragazzino che gli stava accanto. — Prendi. — Dopo un istante, lui si allungò e lo prese. — Ehi... — protestò Repken, e sembrava in ansia. Si alzò a metà dalla sedia, come per lanciarsi sul bancone a riprendere gli oggetti. — Si può sapere perché... — Riporto questo ragazzino a casa sua. — Taylor lo disse con calma, senza la minima emozione, come se si trattasse di una normale procedura d'ufficio. — Mi ci vorrà un quarto d'ora, venti minuti. Niente di strano. Lo lascio a casa e torno direttamente qua. — Indicò col pollice i corridoi che circondavano il salone. — Lui non ci deve stare in un posto come questo. Non per essere uscito di casa di notte. Repken sgranò gli occhi, incredulo. — Va bene, ma... è già nel registro... Taylor si allungò sul bancone e prese il raccoglitore che si trovava accanto al registro dell'accettazione. Lo aprì e lo sfogliò fino all'ultima pagina. Con un gesto rapido, strappò via la scheda di accettazione che Repken vi aveva inserito qualche minuto prima. — Adesso non c'è più. — Taylor accartocciò la scheda nel pugno. — E non c'è mai neanche arrivato. Chiaro? — Cristo... — Repken scosse dubbioso il capo. — Okay, amico... il culo è tuo... Il ragazzino aveva aperto il sacchetto e ci stava guardando dentro, come se non ne avesse mai visto il contenuto prima. — Forza — disse Taylor, dandogli di gomito. — Infilati la cintura. Andiamocene da qui. Non c'era niente che facesse sorridere Steven. Sul volto gli restava sempre la stessa espressione cauta, o forse l'espressione non c'era affatto. Prese la cintura dal sacchetto, poi se la infilò nei passanti dei jeans. Taylor era passato dall'altra parte del bancone a riprendere le chiavi della macchina dal cassetto in cui le aveva lasciate. — Se qualcuno chiede di me — si rialzò, facendo tintinnare il mazzo di chiavi nella mano — digli che sto facendo un altro controllo del recinto. Stasera abbiamo avuto un sacco di fastidi, qui intorno. — Taylor non aspettò la risposta e partì verso il corridoio, seguito dal ragazzino che si infilava il portafogli in tasca. Mentre attraversava lo spiazzo del parcheggio di fronte al riformatorio, Taylor separò la chiave della macchina dalle altre. Aprì la portiera del lato passeggero, le mani inargentate dalla luce dei lampioni a vapori.
Entrò dall'altro lato, sedendo al volante. Il ragazzino non era ancora entrato: restava fermo fuori dalla macchina. — Entra. — Fece un gesto con la mano verso di sé. Il ragazzino non lo guardava neanche, stava fissando un punto lontano nel buio. — Forza, muoviti. Alla fine il ragazzino lo squadrò, poi salì in macchina. Sedette con lo sguardo fisso in avanti oltre il parabrezza. Per un istante, Taylor tamburellò le dita sul lato superiore del volante. Poi si tirò fuori di tasca una pallottola di carta. Alzò la mano in cui stringeva la scheda accartocciata che aveva preso dal raccoglitore. La luce che penetrava nell'abitacolo la illuminò, e il ragazzino si girò a fissarla. — Guarda — la voce di Taylor risuonava molto più forte nello spazio ristretto dell'auto — che non ho semplicemente fatto uno strappo alle regole. Le ho violate. Non chiedermi perché me ne sia presa la briga. Ho solo pensato che non eri tipo da stare là dentro. Okay? Del resto, nessuno se la prenderà per questo. Non sei mica un pluriomicida. — Infilò la chiave e accese il motore. — Comunque, se qualcuno dovesse farti delle domande, rispondi che è venuta tua madre a prenderti. D'accordo? Il ragazzino spostò lo sguardo dalla pallina di carta a Taylor, poi annuì. Era come cavare un dente. Taylor si diede per vinto. — Ehi, ma di niente. Non c'è nessun bisogno di ringraziarmi. — Lanciò la pallina di carta in mezzo alle cianfrusaglie sparse sul sedile posteriore, poi allungò la mano verso la leva del cambio. Una vocina cupa risuonò nell'abitacolo: — Grazie. — II ragazzino aveva ripreso a guardare fisso di fronte a sé. Taylor mise la retromarcia. — Prego. Prima che avesse cominciato a muoversi, il ragazzino parlò ancora, con la stessa voce esitante, tanto che Taylor dovette sforzarsi per riuscire a sentirlo. — Oh... be', sai... non occorre che mi porti fino a casa. Da qui posso arrivarci a piedi. — II ragazzino allungò la mano verso la maniglia della portiera, ma la ritirò nel vedere l'occhiata di Taylor. — Come no — disse Taylor. — Alle cinque del mattino, io dovrei lasciarti andare in giro per le strade. Con la mia fortuna, i poliziotti che ti hanno portato qui ti riprenderebbero di nuovo, e allora sì che posso dire addio al culo. No, grazie. Servizio completo, e niente discussioni. Okay? Il ragazzino annuì, rassegnato, e si lasciò andare sul sedile. Taylor si guardò alle spalle e portò l'auto fuori dal parcheggio.
L'uomo del riformatorio non lo sapeva. E neppure Steven lo sapeva più; non capiva come cose diverse potessero essere vere nello stesso momento. Aveva visto quello che l'uomo della macchina nera aveva fatto, quando era uscito dalla sua auto ed era venuto a trascinare Kris e Mick sulla strada. L'uomo li aveva lasciati là, creature invertebrate e disarticolate quali le aveva rese. Non si erano più mossi, erano rimasti immobili a piangere quelle pozze nere di sangue che li circondavano. Ma poi Kris, contemporaneamente, era viva; ora era viva. Gli aveva parlato al telefono, ed era riuscito addirittura a capire che c'era Mick con lei, che rideva. E non poteva essere vero anche quello, se l'altra Kris - quel pupazzo fratturato sanguinante sulla strada - era autentica. Lo spazio vuoto che aveva dentro si allargò ancora di più, come se gli avesse scavato fuori le interiora, lasciandogli un nodo in gola a sigillare quel vuoto. Steven guardò le strade passare oltre, le luci che si muovevano nel buio, l'uomo del riformatorio al suo fianco. Che lo portava a casa. Chiuse gli occhi. "Ho sognato tutto." Pensò che quelle parole gli erano scivolate nella mente da sempre, al limitare del buio. Dove le poteva contenere per un po', non voleva vederle, solo ripetere le parole fra sé. "Ho sognato tutto." Tutto quanto: le marionette immobili gocciolanti sull'asfalto, la macchina nera, il guidatore con il suo non-volto che gli si avvicinava allungando la mano e sussurrando il suo nome... Proprio come uno sceneggiato televisivo: lo si vedeva, ma non era successo. Non veramente. Il bozzo sulla testa - anche senza toccarlo lo sentiva, il livido caldo sul lato del volto, la crosta di sangue sulla fronte - se l'era procurato nel cadere mentre scappava via. E forse gli aveva sbalestrato qualche rotella: era proprio così che certe volte la gente finiva col credere a cose mai accadute. I sogni saltano fuori, e uno li vede e li considera reali. Il riformatorio, dove si era ripreso: quello sì, era vero. Con quelle luci accecanti e il mormorio appena percepibile di gente che dormiva mentre gli altri, i custodi dell'edificio, lavoravano nella notte. Come marinai su una navicella sperduta in mare. Come l'uomo che lo stava portando a casa. Steven lo guardò di sbieco. Guidava per le strade deserte con tranquillità. Gli stava facendo un favore: Steven lo sapeva bene. L'altro agente del riformatorio non aveva intenzione di lasciarlo andare, voleva tenerlo dentro, secondo le regole. Il fatto era che quell'uomo al volante della macchina credeva di fargli un favore. Non sarebbe stato poi tanto male rimanere al riformatorio: almeno avrebbe ritardato il momento del ritorno a casa e dei guai che avrebbe passato, con la
mamma e tutto quanto il resto. Per di più, se uno finiva dentro (perché era come stare in galera, giusto? Con le sbarre e le reti alle finestre, perfino quella parte che Steven aveva visto assomigliava più a una specie di sala d'aspetto del pronto soccorso, dove era andato con la mamma un paio di volte): se uno finiva dentro, era al sicuro. Al sicuro da quello che c'era fuori, nel buio. In quel grande spazio vuoto che sentiva dentro, e che sembrava più grande di lui, c'erano due cose molto piccole che si erano mosse, rivoltandosi su se stesse, quando aveva sussurrato "Ho sognato tutto." La prima era che ora non occorreva più aver paura, almeno non della macchina nera e dell'uomo che la guidava, quella figura con il volto fatto di tenebra. Non esisteva davvero. Oppure esisteva, ma solo nella sua mente. E se non era vero, se non era affatto successo nel modo in cui lo aveva visto succedere, allora c'era la seconda cosa che gli si muoveva dentro. Quello che aveva provato nel momento in cui la paura era cessata. Delusione. Il ragazzino restò in silenzio per tutto il tragitto. Quando Taylor gli lanciò un'occhiata, stava fissando diritto davanti a sé, sprofondato nei propri pensieri. Aveva l'aria del tipico ragazzino che rimuginava spesso e a lungo. Anche Taylor era così, a quell'età. Il silenzio del ragazzino lo metteva un po' a disagio, e lo costringeva a riportare gli occhi sulla strada. Lo metteva a disagio perché gli ricordava i giorni di tanto tempo prima, ora chiusi sotto gli alti e i bassi della vita da adulto. Bisognava mantenersi la mente occupata, in modo da non essere costretti a ricordare. Cercò di intavolare un po' di conversazione. Poi vide il ragazzino girarsi sul sedile e guardare indietro la strada che scorreva via oltre il lunotto. Stringeva forte il bordo del sedile, fissando attentamente il buio. — Che c'è, hai già nostalgia del riformatorio? — Era una battuta, e Taylor cercò di mettere un po' di allegria nella voce. — Vuoi tornarci? Il ragazzino si girò a guardarlo, preso di sorpresa, gli occhi sgranati. Era completamente assorto in quello che aveva visto fuori, dietro di loro, qualunque cosa fosse. O forse lo stava cercando con lo sguardo. Scosse il capo, voltandosi lentamente, lasciandosi scivolare sul sedile. — No... no, credevo... — Un borbottio che si affievolì subito. — Credevo di avere visto qualcosa... — Sì? Cosa? Silenzio. Il ragazzino si lasciò andare sul sedile e tornò a rifugiarsi in se
stesso. Taylor alzò gli occhi verso il retrovisore. Non vide niente, solo la strada deserta distesa loro alle spalle. Poi, a diversi isolati di distanza, una coppia di fari girò oltre un angolo, due puntini di luce, fori scavati nel buio. Niente d'importante. Altra gente che usciva in strada: quella era l'ora del mattino in cui si passava dal "tardissimo" al "prestissimo", quando i pendolari delle lunghe distanze dovevano uscire per imboccare le autostrade. Taylor alzò una mano e girò lo specchietto per vedere meglio l'altra automobile. Gli rimaneva dietro, seguendolo alla stessa velocità. La strada venne illuminata dall'alone di luce brillante che proveniva da una stazione di servizio: quando vi passò, anche l'altra macchina, Taylor la vide meglio. Americana, ultimo modello - la intravide così velocemente che non riuscì a riconoscere quale marca - o forse una straniera, più appariscente, progettata in modo da riprodurre la linea ribassata a motore potente delle carriole di Detroit. Chiunque fosse alla guida, si vedeva che curava la sua macchina: brillava come ossidiana lucidata, e le luci della stazione di servizio scintillavano sulle fiancate nere e aerodinamiche. Dovette riportare per un momento l'attenzione al proprio veicolo. Più avanti, un semaforo stava passando al giallo. Nel rallentare, Taylor guardò nello specchietto. La macchina nera era sparita, aveva svoltato in una delle altre strade. Non gli riuscì di vedere dove esattamente. Perfino il bagliore rosso dei fari di coda era svanito. Di nuovo solo sulla strada deserta, Taylor aspettò il semaforo. Sapeva dove abitava il ragazzino. Quando aveva letto l'indirizzo segnato nel portafogli, Taylor aveva riconosciuto il quartiere. Non era poi tanto lontano dall'appartamento in cui viveva lui, dalla parte opposta del centro commerciale di Midford, originale dell'epoca della guerra di Corea. Al riformatorio passavano parecchi clienti di quella zona. Taylor rallentò, cercando i numeri segnati sulle porte. La maggior parte delle case era in stato di abbandono, con porte di sicurezza rugginose appese ai cardini schiantati, e grondaie che pendevano spezzate dai tetti a cui mancavano le tegole. Finestre rotte con scatole di cartone appiattite a coprire i frammenti di vetro. Giocattoli, bambole decapitate e automobiline rotte, abbandonate nell'erba alta dei giardini. Un quarto delle stradine interne era pieno di auto che sembravano essersi trascinate fin là per morire in pace, le gomme completamente a terra, foglie secche nelle crepe dei cofani rugginosi.
Accostò al marciapiede e spense il motore. La casa non aveva un'aria migliore delle altre: non che lui se lo fosse aspettato. Diede un'occhiata al ragazzino. — Questa? Lui annuì. — Vieni, allora. — Uscì dalla macchina ed entrò nel vialetto, dirigendosi alla porta della casa. Dopo un momento, sentì l'altra portiera aprirsi, quindi richiudersi, e il ragazzino che lo seguiva. Taylor suonò il campanello. Lo sentì echeggiare in casa, un rumore appena ovattato dal vetro della finestra e dalle tendine sottili. Non rispose nessuno. Lui premette di nuovo il pulsante e aspettò. Il ragazzino, accanto, alzò gli occhi verso di lui, poi girò la maniglia e spalancò la porta. Non l'avevano chiusa. Lo seguì. Il ragazzino andò verso il centro del soggiorno. Taylor si fermò appena varcata la soglia, e si guardò intorno. Sapeva fin dall'inizio che la casa sarebbe stata esattamente così. Il soggiorno era illuminato dal bagliore di un televisore e da una lampada in cucina, oltre un bancone che vide a lato. L'aria era stantia, come se nessuno avesse aperto le finestre per anni, come l'alito misto della gente che ci abitava, imbottigliato e senza vita. Un cumulo di quotidiani, vecchi quanto bastava perché quelli sul fondo avessero iniziato a ingiallire, era in bilico contro una parete, pronto a precipitare in qualsiasi istante. Il bancone che delimitava la cucina era coperto di bicchieri sporchi e vassoi di pietanze precotte, con l'unto che formava una pellicola maculata sull'alluminio. La stanza era deserta, fatta eccezione per il ragazzino al centro. Accanto al divano, un pacchetto di sigarette e un portacenere traboccante: Taylor vide una debole nebbiolina di fumo che saliva in alto. Sulla soglia del corridoio che si apriva in fondo al soggiorno comparve una donna. Aveva l'aria scorbutica, i postumi di una sbronza, e indossava un accappatoio leggero. Per un istante, non si accorse di Taylor in piedi sulla soglia, mentre andava faticosamente al divano. Poi mise a fuoco il ragazzino con gli occhi cerchiati di rosso. — E tu, si può sapere che cazzo fai? — Alzò la testa, e finalmente vide Taylor, socchiudendo gli occhi. — Lei chi diavolo è? — Si tolse i capelli ingarbugliati dagli occhi con una mano, sedette e si allungò verso il pacchetto di sigarette. Il ragazzino non aveva aperto bocca. Taylor si fece avanti. Sentiva l'alito della donna da un metro di distanza: non solo alcool e sigarette vecchie, ma qualcosa di più acido, come se si fosse appena sentita male e fosse ap-
pena tornata dopo essere rimasta un bel po' in ginocchio sulla tazza del gabinetto. — Lei è la signora Welsky? — Sì, e allora? — La donna prese un accendino dalla tasca dell'accappatoio. — Qual è il problema? — Sembrava che per lei fosse una cosa normale trovarsi di fronte a degli sconosciuti che le parlavano in tono ufficiale nel soggiorno alle cinque del mattino. Lui ricacciò giù il sapore che gli si era formato in bocca. — Mi chiamo Taylor, signora Welsky. Sono il responsabile del turno di notte al riformatorio della contea. Qualche ora fa ci è stato portato suo figlio Steven. Niente di grave, solo perché lo avevano trovato a girare di notte. Abbiamo pensato che fosse meglio risolvere la cosa in modo informale, così l'ho riportato a casa. Abbiamo pensato di risparmiare a tutti un sacco di guai. La donna accese la sigaretta con mano tremante e richiuse l'accendino. Fissò Taylor con uno sguardo cattivo. — Sì, va bene, grazie mille. Se si fosse comportato come doveva, senza scappare e cacciarsi nei guai, lei non sarebbe venuto qui a rompere, giusto? Si alzò barcollando dal divano. Avanzò con la sigaretta che le dondolava all'angolo della bocca, oltrepassò Taylor. Tirò indietro il braccio, e la manica larga scivolò indietro a mostrare la pelle cascante sopra il gomito. Mollò un manrovescio sul viso al ragazzino, così forte che lo fece indietreggiare di qualche passo prima che riprendesse l'equilibrio. Taylor aveva saputo fin dall'inizio anche quello che stava succedendo. Proprio come aveva saputo come sarebbe stata la casa dentro, che odore vi avrebbe sentito, l'alito pesante della madre del ragazzino: era tutto nella sua mente, una sequenza immaginaria che si andava concretizzando. Lo aveva saputo da sempre, ma non aveva modo di impedire niente. Inutile provarci. Neanche il ragazzino era sorpreso. Incassò lo schiaffo senza piangere, senza dire niente. Se non fosse stato per quel segno rosso che gli si allargava sulla guancia sotto il livido che aveva già, gli sarebbe parso di aver visto colpire un manichino. Steven restituì lo sguardo alla madre con occhi spenti, senza cambiare espressione. — Eccoti qua... — Una voce di ragazza dal corridoio. Taylor la riconobbe: era quella che aveva sentito al telefono. Si girò e vide un'adolescente in mezzo al corridoio. La ragazza fissò Steven con uno sguardo cattivo. — Dove cavolo te n'eri scappato? — La voce della ragazza era stridula
come quella della madre, anche se le mancava il raschiare del tabacco in gola. — Ti abbiamo cercato dappertutto! Continuavamo a cercarti e a cercarti, e adesso sento che ti hanno raccolto i poliziotti, lo sa Dio dove. — Si voltò verso sua madre. — Lo vedi, te lo dicevo che faceva stronzate come questa. Perché devo essere sempre io a badare a lui? Eh? La madre si lasciò ricadere sul divano con un'espressione da martire esausta. — Kris, amore... ti prego, mi da già abbastanza problemi... Un letamaio... e Taylor c'era entrato diritto, anche se l'aveva intuito, e anche se aveva saputo tutto quanto fin dal principio. Bastardo testa di cazzo. Chiuse gli occhi per un istante, serrando i denti. Eccoti la ricompensa per essere il paladino dei poveri. La ragione principale per cui era sempre rimasto fisso la notte al riformatorio, invece di passare al diurno, era che non voleva avere niente a che fare con le famiglie nauseanti di quei ragazzini. Aveva fatto da rincalzo un paio di volte al diurno, come supervisore negli orari di visita bisettimanale, e ne aveva visti a carrettate, fino al vomito, di genitori ubriachi marci e urlanti, o altri semplicemente pazzi furiosi, gente a cui avrebbero dovuto sparare un colpo in testa prima che potessero procreare. Sentire quella gente che parlava con i propri figli - e "parlare" non era il termine più adatto - era come assistere a una parata di lucertole. Li si guardava negli occhi e non si vedeva altro che un bagliore di crudeltà, qualcosa da rinchiudere sotto vetro. E la sorella di quel povero ragazzino stava facendo pratica. Con quella maglietta addosso che le copriva a malapena il culo, aveva già l'aria dell'osso duro. Lo stesso cervello da lucertola di quei genitori e un paio di gambe da copertina. Che non eccitarono Taylor minimamente. La contraddizione gli fece salire alla gola una nausea soffocante. Si girò verso la madre. — Immagino che se le dicessi che sua figlia è una stronzetta bugiarda lei non mi crederebbe, vero? Non aveva alcun motivo per dirlo: non sapeva nemmeno se la ragazza fosse davvero andata a cercare suo fratello o meno. Ma non riusciva a concepire che da quella bocca provenissero altro che menzogne. La donna gli scagliò addosso un'ira lacerante, una voce affilata che parve tagliare l'aria. — Fuori di qui. Che diavolo vuole, per entrare in casa degli altri e dire porcate del genere? Ti faccio licenziare, figlio di puttana... — Per la rabbia le cadde la cenere sull'accappatoio. Lo schifo di Taylor aveva raggiunto il limite. Sospirò, nel guardare il ragazzino. Il segno rosso del ceffone gli stava sparendo dalla guancia. — Be'... curati, d'accordo?
La maschera svanì dal volto del ragazzino per un istante, e gli rivolse uno sguardo obliquo, dall'aria stranamente adulta. Come se riuscisse a percepire l'ironia di quel consiglio, in un ambiente del genere. Annuì. — Sì, certo. — Con quella sua voce tranquilla. Taylor si voltò e andò alla porta, sentendo gli sguardi furibondi di madre e figlia inchiodati sulla schiena, così forti che gli pesavano. Quando Kris ritornò, Mick si era alzato a sedere sul letto. La ragazza sbatté la porta. Aveva l'aria di una persona infuriata a morte. Lui infilò la mano sotto la coperta per grattarsi. — Chi diavolo era? — Aveva sentito gli strilli e il casino dal corridoio, ma non era riuscito a capire le parole che si dicevano. Kris scivolò sotto le lenzuola, stringendosi a lui. Gli posò un dito sulle labbra. La rabbia che aveva dentro stava già lasciando il posto alla civetteria. — Sss, abbassa la voce. La mamma è ritornata in vita. — Annuì col capo verso la finestra. Riuscirono a distinguere il rumore dei passi di qualcuno sul vialetto della casa. — Uno stronzo del riformatorio. Che ha riportato a casa il mio fratellino scemo. Mick si alzò, si girò e aprì l'angolo della tendina accanto al letto. Fuori c'era un tipo tutto serioso che si stava dirigendo verso una macchina ferma sul marciapiede. Mick guardò bene l'uomo che apriva la portiera e si metteva al volante. — Ehi, ma lo conosco, quel faccia di merda. — Mick continuò a fissarlo, dall'angolino della finestra. — Ci ho fatto un paio di litigate, con lui. È il rotto in culo che chiama sempre gli sbirri a darci addosso. Kris gli strofinò il collo, percorrendogli con il dito la curva dell'orecchio. Vide che sul volto gli si stava accendendo un sorriso. Mick annuì lentamente. Abbassò la voce quasi fino a un sussurro. — So perfino dove abita... PARTE SECONDA La mattina dopo 8 Quando Taylor fu sulla soglia del suo condominio, sentì alle spalle il tonfo del giornale ripiegato che sbatteva sul selciato. Il quotidiano scivolò avanti, battendogli sul tallone; lui si voltò, e vide una Volkswagen macula-
ta di ruggine che si allontanava lungo la strada, un braccio che sporgeva dal finestrino pronto a lanciare un altro giornale. Raccolse il quotidiano e lo aggiunse alla poca posta che aveva preso dalla propria cassetta in portineria. Si sentiva stanco, pronto a tirare tutte le tende del suo appartamento, sintonizzarsi su qualche stazione radio universitaria che sussurrava musica classica in modo da cancellare il frastuono del traffico diurno, e crollare. Il personale di notte del riformatorio si divideva più o meno equamente fra quelli che andavano a dormire subito dopo aver smontato e quelli che si tenevano in serbo il sonno fino al tardo pomeriggio o alla sera. E poi c'era sempre qualche coglione che cercava di non dormire affatto, come se le lunghe ore buie da mezzanotte in poi si potessero semplicemente accodare alla vita normale senza essere costretti a regolarsi su altri ritmi per pagarne il prezzo. Tipi del genere di solito finivano bruciati nel giro di pochi mesi: Taylor ne aveva visto più di uno nei suoi giri di perlustrazione delle unità. Giri che non faceva neanche con riservatezza; cercava sempre di fare il maggior rumore possibile, camminando pesantemente per i corridoi, addirittura fischiettando, Cristo santo, nel caso che qualcuno avesse bisogno di essere avvertito di ritornare al mondo, in modo che potesse rialzare la testa dalla scrivania e dai libri su cui si era addormentato, di schiarirsi la testa e asciugarsi la saliva dal mento. Taylor lo considerava semplicemente doveroso, dal momento che addormentarsi in servizio era praticamente l'unico modo per vedersi licenziati dal turno di notte. Bastava rimanere svegli, attraversare le notti lunghe e tediose finché non si faceva vedere il personale diurno, e si poteva mantenere quel posto in eterno. Bastava volerlo... Alcuni ragazzi del turno erano andati a fare colazione da Denny's, vicino all'autostrada, dato che conoscevano il gestore del ristorante quanto bastava per fargli aprire il bar a quell'ora, ma Taylor aveva declinato. Non era per la faccenda della squadra di football e dei due sbirri fuori dal drive-in che si sentiva stanco, o meglio esausto, fin nelle ossa, quanto per aver portato il piccolo Welsky in quella sua casa ributtante. Casa ributtante, madre ributtante e piena di alcool. Un'occhiata tetra dentro il mondo da cui venivano i ragazzini del riformatorio, prima che si trasformassero nell'immondizia che gente come Taylor spazzava via e nascondeva in belle cellette ordinate, a spese dei contribuenti. Gli ci volle un po' per indossare di nuovo la sua corazza isolante di cinismo, quella che gli aveva dato la forza di lavorare ai turni del riformatorio per dodici anni e resistere a cose simili. Era qualcosa a cui non si pensava proprio, che si richiudeva nella mente
per dimenticarsene, anche se si sapeva sempre che c'era. Era per quello che non aveva mai lasciato il turno dei sepolti vivi per passare a quello diurno: con i ragazzi se la cavava abbastanza bene, soprattutto perché dormivano quasi sempre. Era il resto, quello che stava intorno a loro, a stressarlo. L'erba del cortiletto centrale del condominio era umida di rugiada. Durante la notte erano uscite le lumache, lasciando scie argentate sui gradini dell'appartamento di Taylor. Aveva già tirato fuori la chiave prima di rendersi conto che la porta era già aperta e leggermente socchiusa. La spalancò spingendola con l'estremità del giornale ripiegato. Dall'apertura comparve un braccio di donna, che stringeva in mano un cartoncino da due litri di latte. — È arrivato il lattaio — disse una voce allegra da dentro. Anne fece un passo indietro per lasciar entrare Taylor nell'appartamento. Lui si richiuse la porta alle spalle e la strinse a sé con un braccio solo. Quando la lasciò andare, lei portò il latte nell'angolo cucina. — Mi sono ricordata che avevi finito il latte l'altra sera. — Posò il contenitore sul bancone e cominciò a tirare fuori roba da un sacchetto di carta marrone. — E anche il caffè, te ne ho portato un po'. Guarda che dovresti veramente provare a far un salto al supermercato, una volta ogni tanto. Se non fosse per me, moriresti di fame. Taylor lanciò il giornale sul tavolo da pranzo ed entrò nel soggiorno, massaggiandosi per togliere quel dolore rigido in fondo alla schiena. Non fece caso ad Anne: brontolava per scherzo, non sul serio. Le frecciate cattive le riservava a suo marito: il loro matrimonio ormai in pezzi stava diventando una guerra di attriti, di piccole ferite dolorose e altri spargimenti di sangue. Nessuno dei quali interferiva con la loro gestione comune di una piccola impresa informatica e la cura che dedicavano al figlio di otto anni. Anne aveva tutto un repertorio di aneddoti sulle amichette del marito, che riferiva a Taylor con una specie di tetra soddisfazione. Il punto cruciale della litania era il resoconto di come una delle suddette si era sbronzata tanto da mettersi a vomitare sul sedile anteriore della Mercedes per la quale suo marito stravedeva, e di come la puzza non era più venuta via dai rivestimenti in cuoio. Taylor non sapeva se la voleva vicino in quel momento. Non si era mai pentito di averle dato la chiave dell'appartamento: si vedevano regolarmente di prima mattina, fra il momento in cui lui tornava a casa dal riformatorio e lei doveva uscire a lavorare sui tabulati degli archivi di una certa banca. Di prima mattina e le sere in cui suo marito portava il bambino agli al-
lenamenti di calcio. Taylor non era in vena, né per lei né per altro. Era stanco morto, o forse era semplicemente privo di sensazioni. La posta era costituita di bollette e stronzate simili. Lui si fermò in mezzo al soggiorno, tra le librerie traboccanti e la scrivania su cui era posato il vecchio manuale Royal, strappando le buste con il pollice. Ed McMahon che smaniava di fargli vincere un milione di dollari. Taylor accartocciò il faccione sorridente e gettò la pallottola nel cesto della spazzatura vicino alla scrivania. Riconobbe la calligrafia dell'ultima busta. Quando la aprì, vi trovò una foto di una ragazzina sorridente. Una foto scattata a scuola. La girò. Con la stessa calligrafia: A PAPÀ. TI VOGLIO TANTO BENE. KAREN. Lui guardò la foto per un momento, poi la posò sulla scrivania, contro un ritratto incorniciato della stessa bambina. Sua figlia. Erano stati sua madre e il patrigno - il nuovo padre, pensò Taylor - a spedirgli quella foto con cornice un paio di anni prima come regalo di Natale. A loro piaceva fare stronzate simili, da gente civile. Karen aveva sempre lo stesso sorriso di prima, ma aveva un altro taglio di capelli: la moda adolescenziale della treccia tutta da un lato aveva raggiunto gli angoli più sperduti del Minnesota. Gli ci volle un istante per calcolare se aveva già cominciato il liceo. No, sarebbe stato l'anno successivo, anche se sua madre e il patrigno fossero riusciti a farla avanzare di un anno. — Ma di niente. Si voltò, e vide Anne appoggiata al muro che separava la zona cucina, intenta a fissarlo con le braccia conserte. Gli ci volle un altro momento per farselo tornare in mente: il latte, scemo. E il caffè. Annuì col capo. — Hai ragione, grazie per avermi portato quella roba. L'ho molto apprezzato. — Rivolse lo sguardo fuori dalla finestra con la vista sul parcheggio che stava lentamente riempiendosi con il passare della mattina. — Credo di essere solo un po' stanco. Anne gli si avvicinò da dietro e gli massaggiò le spalle. — È successo qualcosa al riformatorio? Sei arrivato a casa un po' in ritardo. Qualche mese prima c'erano state grane fra il dipartimento per la libertà vigilata e il sindacato dei dipendenti, qualcosa che aveva a che fare con il personale part-time che il dipartimento continuava ad assumere: era manodopera a basso prezzo, dato che non rientrava nella convenzione di assistenza medica della contea. Taylor aveva dovuto partecipare a diverse riunioni la mattina presto, prima che la faccenda si risolvesse. Scosse il capo. — No, solo le solite puttanate.
Anne gli posò la testa sulla spalla. — Quando te ne andrai da là? Ti farà diventare pazzo. Lui scosse le spalle. — Va tutto bene. — Poi un sorriso. — Mi lascia un sacco di tempo per lavorare al mio libro. — Batté con la punta della scarpa su una valigetta a lato della scrivania. Lei si allontanò. — Quello non è un libro. È una scusa. — Sapevano benissimo tutti e due che erano settimane che non portava al riformatorio quella valigetta, che conteneva il manoscritto e i suoi appunti. Lui la osservò mentre andava verso una sedia vicino al tavolo della cucina per prendere soprabito e borsetta. — Allora, qual è l'ultima su te e Richard? — Capì immediatamente che non avrebbe dovuto dirlo. Ma la frecciata sul libro lo aveva punto nel vivo. Lei gli rivolse un sorriso cupo. Touché. — Già, be', ognuno ha i suoi problemi, no? — Diede un'occhiata alla fede al dito di lui. — Quando si ha un figlio da crescere, si sopportano un mucchio di cose. Lui annuì. — Sì, credo di averne sopportate un bel po' quando ero sposato. Borsetta e soprabito sottobraccio, Anne andò da Taylor e lo baciò su una guancia. — Devo andare. Lui la prese alla vita. — Perché non vai più tardi, stamattina? — Era ancora stanco, ma non tanto da non potersi godere la sua compagnia. Lei si lasciò abbracciare, ma indietreggiò. — Sono arrivata tardi anche ieri mattina. E la mattina prima. — E allora perché deluderli? Dagli qualcosa di cui parlare. — Oltre al marito di Anne, nell'impresa c'erano due operatrici di computer, due donne che consideravano ogni giornata della vita in ufficio come una puntata di una grande telenovela. L'unica volta che Taylor era passato a prendere Anne per portarla a pranzo, la mattina dopo lei gli aveva riferito che il tasso di pettegolezzi e risatine era salito di dieci punti. Anne si staccò il braccio di lui dalla vita. — Vai a letto. — Cominciò a infilarsi il soprabito. — Da solo. Una volta fuori dall'appartamento, si voltò a guardarlo, lo vide appoggiato allo stipite. — Ci vediamo quando smonti? Lei scosse il capo. — Non so. Se non rimandano gli allenamenti di Danny. — Alzò le spalle. — Forse stasera tardi. Taylor la guardò andare all'uscita del palazzo e dirigersi alla macchina parcheggiata sul marciapiede. Non si guardò indietro una sola volta, con i tacchi che picchiettavano sul selciato.
Lui si lasciò cadere sul divano, le gambe stese di fronte a sé. Per qualche momento piegò la testa per guardare fuori dalla finestra, gli occhi fissi sulle commesse del centro commerciale che andavano al lavoro e sulle ombre che lentamente si ritiravano sotto i lampioni del parcheggio. Al volante c'era Mick. Con i suoi amici, i compagni di squadra, accanto e dietro, impegnati a spartirsi una confezione da sei di birra. Quando avevano parcheggiato la macchina, a poche traverse di distanza dal condominio, erano tutti su di giri, come per una partita importante, pronti per l'azione. Ma Mick aveva avuto una specie di presentimento. Era per quello che era lui il capitano: perché capiva. E così aveva ordinato di aspettare. Di darsi una calmata mentre lui esaminava la situazione. Proprio come immaginava, una puttanella tutta compita era venuta fuori dall'edificio sbattendo i tacchi, diretta alla propria auto. Dopo l'ora in cui di solito la gente andava al lavoro, e tutto si era calmato. Se la banda avesse fatto la sua mossa in quel momento, sarebbe incappata proprio in lei, il che sarebbe stato decisamente fastidioso. Ora era arrivato il momento. Mick si sentiva la sicurezza nello stomaco, calda e tranquilla, proprio come quando se ne mandava una in meta rimanendo sempre tranquilli in posizione, al sicuro e coperti dai compagni, e si vedeva la palla salire a spirale come se fosse incollata al binario di un trenino elettrico che correva nel cielo. Di recente gli era capitato più durante gli allenamenti che nelle partite vere, ma restava comunque una bella sensazione. La sensazione giusta. Il momento giusto. — Okay... — annuì, poi mandò giù quello che restava della sua birra e tirò la lattina fuori dal finestrino. Si voltò, allungandosi dietro. — Passami il coltello. Dennie era seduto dietro. Rivolse a Mick un sorriso, poi si frugò nella giacca e ne trasse il suo coltello. Era bello grosso, grande perfino per la mano di Dennie. Lo sbatté in mano a Mick. Mick gli rivolse un sorriso come ringraziamento mentre faceva scattare la lama. La luce del sole mattutino scintillò sul metallo lucido. Uno degli altri seduti dietro aveva un sacco di tela fra i piedi. Dentro c'era qualcosa, qualcosa di vivo, che si muoveva. E quel qualcosa nel sacco aveva paura, voleva uscire. Emise un debole miagolio patetico di terrore. Il giocatore che stringeva nel pugno l'estremità del sacco spinse la mano contro la creatura all'interno, e in risposta si udirono sibili e uno scalciare furioso, e un artiglio bucò la tela colpendo il dito dell'adolescente. Il ragazzo si fissò la goccia di sangue che si ingrossava sulla punta del dito, poi per-
cosse il sacco con un forte pugno, e si sentì un guaito. Mick controllò la lama, passandosene il filo sul pollice. Poi si allungò dietro il sedile e prese di mano il sacco al suo amico. Taylor si risvegliò nel sentir battere contro la porta: colpi come martellate che risuonavano nell'appartamento, forti quanto bastava a far vibrare il vetro della finestra. Spalancò gli occhi alla luce del sole che penetrava nella stanza. Si era addormentato sul divano del soggiorno, una spalla incuneata nell'angolo del bracciolo foderato. Non aveva sognato niente: privo di sensi e basta. Per un istante, confuso, credette che quel battere facesse parte del sogno, qualcosa spinto fuori dall'adrenalina degli incubi. Poi il rumore cessò, e Taylor sentì un rumore di passi che correvano via al di fuori, e una risata che svaniva in lontananza. A quel punto sentì l'altro rumore e si svegliò del tutto, gli ultimi brandelli di sonno che si spegnevano. Uno stridio lamentoso, acuto come una lama. Paura e dolore che salivano a ondate proprio davanti alla porta di casa. Il suono, un verso di animale, riempì di angoscia l'aria dell'appartamento e gli penetrò al centro del cranio. — Cristo di Dio... — Taylor si alzò dal divano e corse alla porta. Quando allungò la mano verso la maniglia, il verso si stava già spegnendo in qualcosa di più morbido, come un gemito gorgogliante. Quando spalancò la porta, il torace gli si impiastricciò di rosso. Gli ci volle un secondo per capire cosa fosse quella creatura. Si muoveva e sanguinava, e il pelo scuro era aggrovigliato e riluceva di sangue. Il grosso chiodo che bloccava l'animale alla porta sporgeva dal collo, e la bocca era spalancata, con denti aguzzi, e a ogni respiro strozzato si riempiva di rosso. Un gatto che agitava una zampa anteriore, raschiando invano il legno della porta. Taylor si sentì stringere lo stomaco di fronte a quell'agonia sospesa di fronte ai suoi occhi. Il torace dell'animale era aperto dal costato alle zampe posteriori. Dalla ferita fuoriusciva il groviglio imbrattato di rosa delle interiora, spinto in basso dal peso degli altri organi. Stava morendo, ma non abbastanza in fretta, e gli occhi, in mezzo a quel piccolo volto contorto, erano sbarrati, fuori dalle orbite. Il respiro era un ansimare rapidissimo, i polmoni soffocati dal sangue che saliva schiumando alla bocca del gatto. — Merda... — Taylor sentì un groppo di nausea in gola. Uscì dall'appartamento e richiuse la porta, mentre il sangue del gatto colava in rivoletti fino al marciapiede. Si girò e si diresse verso la stanzetta in fondo al palazzo
in cui il giardiniere riponeva i suoi attrezzi. La signora Ortiz, l'amministratrice del condominio, lo vide tornare indietro con la vanga in mano. Era uscita nel sentire il fracasso, con addosso l'abito sbiadito che usava in casa. Lo chiamò dal cortile, agitando la mano che teneva la sigaretta. — Cosa succede? Qualcosa non va? Lui tornò in fretta al suo appartamento. — Niente, signora Ortiz. — Lo gridò voltando la testa. — Non si preoccupi. Ci penserò io. Lei intravide il gatto inchiodato alla porta, e impallidì. Tornò di corsa nel suo appartamento e richiuse la porta facendola sbattere. L'animale era ancora vivo e si contorceva lentamente, facendo colare il groviglio di intestini come un sacco grigio-bluastro liscio e tremolante. Taylor sollevò la vanga e posò il filo della lama contro il collo del gatto, appena sotto il chiodo. Strinse i denti e premette rapidamente; il gatto si contrasse, le zampe anteriori disegnarono cerchi sbavati nelle macchie di sangue. Un'altra spinta, più forte. Il corpo del gatto ricadde sul selciato. Sussultò convulsamente per un istante, poi rimase immobile. Riuscì a servirsi della lama per estirpare il chiodo. La testa del gatto, occhi spalancati ma ciechi, precipitò con un rumore ovattato e umidiccio sulla carcassa. Taylor infilò la vanga nell'erba a fianco del selciato e spinse contro il manico. Espirò lentamente, ricacciando giù il gusto nauseante che aveva in bocca. Si era mosso in fretta, come se avesse innestato un pilota automatico, quando i versi del gatto lo avevano spinto a muoversi. Senza pensare; ma in quel momento i pensieri tornarono, insieme alla rabbia che cresceva sempre più a ogni battito di cuore. "Schifosi ragazzini bastardi." Era incazzato. Sapeva che erano stati dei ragazzini, e aveva anche idea di quali. Alzò la testa. La porta d'ingresso dell'appartamento sembrava un tavolo da macello alzato in verticale e fissato ai cardini. Il carnaio ai piedi della porta era anche peggio. Doveva ripulire. Una volta spinto il gatto morto in un sacchetto di plastica per l'immondizia e ripuliti porta e selciato con la canna dell'acqua, riportò la vanga nel casotto del giardiniere. Mentre la rimetteva a posto, si sentì osservato. Oltre il muro posteriore del palazzo, si apriva sulla strada il vicolo che portava ai parcheggi coperti. Taylor girò il capo e vide un'auto ferma. Facce all'interno, facce che lo fissavano. E sorridevano. Uno di loro si sporse dal finestrino del lato guida. Taylor l'aveva già visto, al drive-in. Uno dei ragazzi della squadra di football. Il ghigno dell'adolescente si allargò, e Taylor riuscì a sentire le risa degli altri.
Il ragazzino al volante teneva una specie di fagotto in mano. Lo lanciò verso Taylor, e l'oggetto si dispiegò e ricadde in mezzo alla strada. Poi il motore salì di giri, e l'auto sgommò nello staccarsi dal marciapiede. Taylor richiuse la porta del casotto. Uscì in mezzo alla strada e prese quello che l'adolescente aveva tirato. Un sacco di tela. Il tessuto ruvido era pesante, zuppo di sangue. 9 Il bidone della spazzatura pesava molto. Pesava perché non lo vuotava nessuno da tempo: era rimasto nel suo angolino in cucina, e la roba ci finiva dentro pressata sempre più a fondo, lattine e cartoncini di latte e i vassoietti dei pranzi precotti. E altre cose che pesavano di per sé, come le bottiglie vuote. Il bidone pesava tanto che Steven doveva stare curvo all'indietro e bilanciarselo sul petto stringendolo per le due maniglie ai lati. Puzzava anche molto: gli ultimi giorni erano stati afosi. Un rivolo liquido traboccò dal bordo e gli scese sull'avambraccio scoperto. Portò il bidone di fianco alla casa e lo rovesciò nel cassonetto, quello che il netturbino veniva a svuotare ogni volta che qualcuno si ricordava di portarlo fuori sul marciapiede. Sarebbe stato meglio se ci avesse pensato lui, ma a volte il cassonetto era troppo pesante, e aveva bisogno dell'aiuto di sua sorella, o più raramente di sua madre, per farcela. Un paio di volte in cui ci aveva provato da solo, aveva fatto un bel casino: la prima volta aveva strappato con il bordo inferiore del cassonetto una striscia d'erba dal giardino del vicino di casa, e l'altra volta aveva perso la presa e aveva rovesciato l'immondizia sul vialetto. E tutte e due le volte c'erano state storie, urla e altro che lui aveva dovuto mandare giù come una pioggia che gli batteva sulle spalle. Non c'era niente da fare, solo aspettare che finisse. Il contenuto del bidone finì nel cassonetto con un gran fracasso, un fragore di bottiglie che si rompevano; uno squadrone di mosche si alzò in volo. Le bottiglie erano di sua madre, prese al supermercato: etichette di carta, bianche con una striscia blu, che trattenevano le schegge di vetro nei punti in cui si rompeva. Una volta - Steven lo ricordava, per cui non poteva essere stato molto tempo prima - sua madre aveva comprato roba migliore, bottiglie con etichette vere e nomi veri, come quelli delle pubblicità sulle riviste, dove si vedeva gente che beveva felice e sorridendo. A quei tempi, qualsiasi fossero, lei aveva anche più cura per le bottiglie: le portava fuori di persona nel cassonetto, avvolte in un sacchetto di carta ripiega-
to strettamente in modo che non sbattessero e non facessero rumore. Steven pensò che probabilmente ora non le importava più gran che di cose simili. A quel punto sentì la sua voce, un urlo che veniva dalla casa. — Steven! Alza il culo e vieni qui! — Lentamente, in modo da non fare altro rumore (forse l'aveva svegliata facendo sbattere le bottiglie, e per quello sembrava incollerita) Steven rimise il coperchio sul cassonetto ed entrò in casa. Lei lanciò un'occhiata cattiva a Steven mentre lui deponeva il bidone della spazzatura nel suo angolo. Aveva i cosmetici disposti di fronte a sé sulla toilette. Era seduta su uno degli sgabelli, e aveva già dato inizio al procedimento, partendo dal trucco e dal rossetto per arrivare all'ombretto. Trascurava quella parte del rituale del risveglio solo nei giorni peggiori, quelli in cui non si alzava neppure dal letto. Le ciglia finte che teneva nella pinzetta assomigliavano a un insetto, una creatura con lunghe zampette nere. Lei lasciò cadere vicino alla tazza di caffè forte la pinzetta, che tintinnò sul linoleum. Con un'espressione infuriata sul viso, scese dallo sgabello e spalancò lo sportello del frigorifero. — Guarda qua! — Tremava dalla rabbia, era impallidita, e il fard faceva sembrare le guance ancor più scavate. — Non c'è un cazzo da mangiare in questa casa! Non ti avevo detto di muovere il culo e andare al negozio? — Richiuse lo sportello facendolo sbattere. Steven rimase fermo vicino al bidone. — Non mi hai dato i soldi. Quella spiegazione non servì a farle sbollire i nervi. Lei lo fissava ancora cattiva, e allungò una mano verso la borsetta, rovesciando sul banco una delle bottigliette del trucco. Le ci volle un momento in cui frugò dappertutto e si infuriò ancora di più. Sibilò qualcosa sottovoce, poi trovò una banconota accartocciata gliela tirò. — Ecco qua, e voglio il resto. Fino all'ultimo centesimo. Chiaro? Lui raccolse la banconota da terra. Era un biglietto da dieci dollari. Lo ripiegò con cura e se lo infilò nella tasca dei jeans. Taylor seguì il consiglio di Anne. La faccenda del gatto lo aveva fatto entrare in tensione, sentiva ogni muscolo contratto, ma era riuscito comunque a sprofondare in un sonno inquieto. Quando finalmente si risvegliò, più tardi di quanto gli fosse consueto e con un sapore cattivo in bocca, si trascinò alla cucina e non ci trovò niente da mangiare. A meno che non volesse vivere di caffè. Sia sulla pagnotta nel cassetto, sia su buona parte del groviera nel frigo, crescevano a vista d'occhio macchie bicolori. Rimase
per un istante fermo con in mano una scatoletta di asparagi, l'unica cosa trovata nella credenza, a domandarsi a che diavolo gli servisse. Non ricordava nemmeno di averla comprata. Si fece una doccia, si cambiò e si diresse, come gli aveva consigliato Anne, al supermercato. Era uno dei vantaggi del lavorare di notte: si aveva il privilegio di occuparsi delle proprie commissioni per la sopravvivenza quando tutti gli altri, fatta eccezione per la stirpe morente delle casalinghe con pedigree, erano al lavoro. Anche se quel giorno non le avrebbe battute poi di molto: erano già quasi le quattro del pomeriggio. Il supermercato si poteva raggiungere anche a piedi: si trovava in un angolo del centro commerciale. Andò lo stesso in macchina, per non doversi caricare di provviste. Il sole del pomeriggio gli sbatté in faccia quando uscì dall'auto e attraversò il parcheggio. Taylor non sapeva spiegarsi perché rimandasse sempre quegli impegni finché non arrivava a morire di fame, se non per pura e semplice pigrizia. La pigrizia di un neo-scapolo che andava per la quarantina, con un appartamento pieno di libri e altre stronzate che servivano a isolarsi. Fra quel tipo di isolamento e quello del lavorare al riformatorio, che era un micromondo in sé, pensò che forse aveva perso la sua capacità di avere rapporti con la gente. Quel collegamento con il mondo esterno aveva iniziato a cedere dopo il divorzio. E ora il pensiero di entrare in un supermercato diciamo verso le sei, all'ora di punta, lo riempiva di disgusto. Non l'avrebbe assolutamente fatto: si sarebbe diretto a qualche fast-food dove poteva starsene in macchina e limitare i rapporti a un'autoradio gracchiante e una ragazza che gli serviva il pranzo dal finestrino. Quando entrò, le porte automatiche del supermercato si spalancarono con un sibilo. Si sentì investire dall'aria fredda mentre andava in fretta verso i corridoi per prendere quello di cui aveva bisogno e andarsene prima che la folla riempisse il negozio. Uscì con una sola borsa tra le braccia. La depose sul paraurti della macchina mentre tirava fuori le chiavi di tasca e apriva il portellone posteriore. Una volta sistemata la borsa sul sedile e richiuso il portellone, sentì qualcos'altro. Poco lontano, voci di ragazzini che urlavano. Ragazzini piccoli, non come gli adolescenti che gli avevano fatto visita in mattinata. Si raddrizzò e si voltò, schermandosi gli occhi per vedere da dove provenivano le grida. Steven non aveva prestato attenzione ad altro che ai pensieri profondi e impronunciabili che gli percorrevano la mente, e così erano riusciti a pren-
derlo. Di solito lo sentiva subito quando c'era qualcuno intorno, qualcuno che lo cercava, e riusciva a evitarlo, svicolando per una direzione diversa o restando in un posto sicuro, come dentro il negozio, finché quel qualcuno non si annoiava e se ne andava. Ma stavolta se n'era dimenticato, non era stato abbastanza attento: non si era nemmeno accorto di loro finché non si era trovato praticamente a sbattere contro quello più grosso. Tra le braccia aveva la borsa con la roba comprata al supermercato. Alzò gli occhi sopra il bordo e vide il volto del ragazzo più grande. Molto, molto più grande, anche se aveva solo un paio d'anni più di lui. Steven non sapeva nemmeno come si chiamasse, ma sapeva chi era. Il fratello minore di uno degli amici di sua sorella: sembrava addirittura una versione in minore di un giocatore di football, massiccio e con la stessa faccia larga e sorridente. Il sorriso era rivolto a lui. Steven vide con la coda dell'occhio i compagni dell'altro ragazzino farglisi intorno in cerchio e bloccargli così qualsiasi via di fuga. Il ragazzo più grosso contorse le labbra in un ghigno sarcastico. — Sei andato al negozio per la mamma, eh? — e strappò la borsa della spesa dalle braccia di Steven. Gli altri risero. Erano almeno in sei: sentiva i due che gli erano alle spalle e lo spingevano avanti, a portata di braccia di quello grosso. Il ragazzo guardò nel sacchetto. — Conoscendo la tua mamma, sicuramente qui dentro hai un paio di birre. A quella battuta risero tutti più forte. Steven non disse niente, lasciò affondare quelle parole e quelle risa in un punto imprecisato dentro di sé. — Merda. — II ragazzino robusto lasciò cadere di colpo il sacchetto, che si ruppe sull'asfalto. — La tua vecchia ti manda al negozio a prendere queste stronzate? — Prese dal sacchetto una confezione di uova. — Allora dovresti starci più attento, scemo. — Un paio delle uova erano già incrinate, e il bianco gocciolava dai gusci come moccio. Il ragazzino prese uno di quelli interi e sorrise, palleggiandolo nel cavo della mano. Lo schiacciò contro il petto di Steven, spingendolo con la mano aperta. L'uovo si frantumò, e l'interno schizzò fuori dai frammenti del guscio. Con un sorriso ancora più grande, il ragazzino si pulì la mano sulla camicia di Steven, macchiandola di tuorlo e albume acquoso. La spinta del ragazzo più grosso aveva fatto indietreggiare Steven di un passo, contro gli altri alle sue spalle. Quelli lo spinsero avanti, e per poco lui non inciampò sul sacchetto distrutto. O meglio, gli sarebbe capitato, se lui fosse esistito. Ma non c'era già più, era lontano mille chilometri, dentro di sé, dove gli altri non potevano rag-
giungerlo. Era come guardare la scena alla TV: c'era un ragazzino proprio uguale a lui, circondato da altri ragazzini, la vittima nel cerchio che andava stringendosi. Non gli importava di cosa succedeva, potevano fare quello che volevano. Finché era invisibile, o, meglio ancora, assente. Era questo che aveva imparato. Il liquido dell'uovo gli stava inzuppando la camicia. Uno degli altri ragazzini si chinò e prese dal sacchetto una bottiglia di melassa. La alzò con una risata. — Forse qua dentro ci mettono da bere per lui. — Non era nemmeno una bella battuta, ma gli altri ragazzini scoppiarono a ridere. Il ragazzino più grosso prese la bottiglia di melassa e svitò il tappo. Annusò. — No... — e scosse il capo. — Altre stronzate. Proprio come alla TV, la scenetta in cui uno versa in testa all'altro qualche liquido attaccaticcio, e l'altro se ne rimane fermo e zitto finché non gli cola fino nelle scarpe, e rimane fermo come un imbecille perché è quello il ridicolo della situazione. Il ragazzino robusto la conosceva, quella scenetta, la conoscono tutti: il sorriso si allargò ancora di più, mentre alzava la bottiglia sopra la testa di Steven e faceva per rovesciarla. D'impeto, Steven alzò la mano e gli prese la bottiglia. Era stato uno sbaglio, perché lui non esisteva nemmeno; eppure c'era, in mezzo a quel cerchio di ragazzini, un groppo di rabbia e paura nello stomaco. Tolse di mano la bottiglia di melassa al ragazzino, e la bottiglia volò via. Un rivoletto scuro uscì dall'orlo e macchiò la camicia dell'altro ragazzino. Il volto di quello robusto si illuminò di gioia. Era ciò che aveva sperato fin dall'inizio: vedere Steven fare una mossa, mostrargli che c'era, che si rendeva conto del guaio in cui era finito. — Oh, vuoi pestare, eh? Forza. — Batté la mano sul petto a Steven. — Forza, merdolina, pesta. Era così che funzionava, che i rituali passavano da uno stadio all'altro. Steven sapeva già tutto quello che stava per arrivare. Essersi mosso e aver gettato via di mano la bottiglia al ragazzo era una specie di biglietto che l'altro aveva aspettato e che sapeva avrebbe avuto. E ora poteva stringere i pugni e passare al livello superiore. Altre due spinte fecero indietreggiare Steven, che inciampò ma non cadde. I ragazzini alle sue spalle si allontanarono, facendosi da parte; lui si trovò improvvisamente contro un muro, le scapole che sfioravano i mattoni ruvidi. Il tipo robusto e la sua schiera di amichetti avevano spinto Steven nel vicolo dietro il supermercato, dove gli autocarri scaricavano la mercé. Lontano dal parcheggio: così nessuno avrebbe visto niente, oppure
sarebbe sembrato solo un gruppetto di ragazzini impegnati a fare cose da ragazzini. Nessuno lo avrebbe visto al centro del branco, con le spalle al muro. Quello robusto lo colpì di nuovo, con un pugno proprio alla spalla. Lui finì con la testa contro il muro. Se fosse rimasto dov'era e avesse subito, se non si fosse rannicchiato e non avesse alzato le mani per proteggersi il volto... se non fosse caduto nell'angolo fra la parete e l'asfalto, dove potevano cominciare a prenderlo a calci... Si fece forza, fissando il sorriso del ragazzino robusto e aspettando il colpo. Taylor aveva riconosciuto il bambino appena prima che gli altri gli si raccogliessero intorno, togliendo la vittima alla vista di chiunque si trovasse a passare di lì, entrando o uscendo dal centro commerciale. Aveva riconosciuto il volto smagrito, con quella maschera di gelido stoicismo e di indifferenza a qualsiasi cosa accadesse. Si sentì addosso la stessa stanchezza di poco prima: si girò verso l'auto, spalancò la portiera per entrare. Si fermò, a testa bassa, stringendo il bordo superiore della portiera con la mano. Non gli importava. Non era affare o lavoro o turno suo. Se capitavano stronzate come qualche bullo da scuola - perché sapeva che stava succedendo proprio quello, una banda di ragazzini malvagi guidata da un piccolo tagliagole più alto di un metro della preda - se succedevano cose del genere nel mondo reale fuori del riformatorio, non erano affari suoi. Porcate del genere capitavano di continuo. Così andava il mondo, soprattutto per un piccoletto intristito come quel Welsky. Una vittima della vita. I bulli di quartiere erano come i lupi, o qualsiasi altro predatore, con la caratteristica comune di possedere un istinto sviluppatissimo per capire quando potevano attaccare e farla franca. Non si vedevano mai quei teppisti da aula scolastica attaccare briga con qualcuno che avesse l'aria di potergli dare una bella mazzata al culo. E nemmeno con quelli più in alto, quelli con addosso l'aureola da ragazzo prodigio da cui si capiva che nel giro di qualche anno sarebbero finiti a capo del corpo studenti o qualcosa di simile. Taylor sapeva nel profondo del cuore, proprio come tutti, che nelle scuole si tollerava la presenza di quei bulli per la semplicissima ragione che c'era sempre qualche ragazzino mogio di cui agli insegnanti non fregava niente, perché erano un peso, facevano sentire in colpa perché non si poteva far niente per loro o facevano tornare in mente la propria infanzia rovinata; e così gli insegnanti erano altrettanto lieti di vederli maltrattare e umiliare e sbattere a
terra nel fango da cui provenivano, di vederli strisciare fuori portata d'occhio, in modo da non essere costretti a guardarli. Invisibili. Se i bulli della scuola, come agenti esecutivi dei desideri segreti dei docenti, avessero potuto andare fino in fondo e uccidere le loro vittime per poi divorarle, masticandone le ossa briciola per briciola, allora per gli insegnanti sarebbe stato perfetto. Dentro di loro, in quegli angoli oscuri, un pezzettino della rabbia e del disprezzo sarebbe svanito. Finalmente avrebbero potuto lasciar perdere e dimenticarsene. Quei pensieri sfrecciarono nella mente di Taylor come una cassetta in riavvolgimento veloce. Una cassetta ascoltata tante volte che non c'era neanche bisogno di far altro che non fosse guardare l'etichetta per sapere cosa conteneva. Cose che sapeva, che sapevano tutti, ma che se si provava a dire ad alta voce si veniva additati come gente che covava rancore dalla terza elementare. In teoria la gente avrebbe dovuto crescere e mettere pensieri simili in cantina senza tante storie, non certo rimuginarseli ancora a un passo dalla quarantina. Il gruppetto di ragazzini, il branco con la sua vittima, si era spostato in uno spazio di lato al supermercato, facendo indietreggiare il ragazzino con la sua forza collettiva; il branco voleva la vittima tutta per sé senza disturbi. Se gli avessero dato addosso proprio davanti al centro commerciale, qualche adulto in vena di altruismi avrebbe potuto interferire e guastare loro la festa. "Non sta a me." Non c'era niente al mondo che stesse a Taylor. Aveva tirato fuori le chiavi di tasca, facendosi scivolare il metallo freddo tra le dita. Non doveva fare altro che tornare alla macchina, salire e andarsene. — Cristo di un Dio. — Borbottò le parole mentre si infilava le chiavi in tasca e si dirigeva al vicolo a lato del centro commerciale. La banda di piccoli teppisti non si accorse del suo arrivo: erano tutti impegnati con la preda attorno a cui si erano riuniti, la preda con le spalle al muro. Taylor avanzò a grandi passi e prese il ragazzino più grosso di tutti per la spalla, bloccandolo proprio mentre tirava indietro il braccio per colpire di nuovo. Il ragazzino perse l'equilibrio quando Taylor lo tirò indietro con forza per poi spingerlo di lato. Gli altri smisero di ridere e lo fissarono a occhi sgranati. — Lasciatelo in pace. — Loro indietreggiarono nel sentirlo gridare, e il cerchio si allargò. Lui fece un gesto al piccolo Welsky, ancora fermo contro il muro, che lo fissava completamente inespressivo. — Vieni, muoviti. Si girò, e, senza nemmeno aver fatto un passo, per poco non finì contro
qualcuno di più grande. Più grosso dei ragazzini nel vicolo, anche più di lui stesso. Taylor fece un passo indietro e alzò gli occhi. Vide un volto sorridente, lo stesso del ragazzino che stava perseguitando il piccoletto, ma più vecchio. E portava una giacchetta con il simbolo della squadra. Anche senza vederlo, Taylor lo avrebbe riconosciuto comunque. Lo aveva già visto, non semplicemente al drive-in, ma da vicino. Era già finito al riformatorio due o tre volte. L'adolescente aveva l'aria di un gorilla, se poi i gorilla erano cattivi e brutali come pensavano gli ignoranti, e anche orgogliosi di essere grossi e cattivi. Taylor non ricordava il nome del ragazzo, ma ricordava chiaramente la battaglia con quello stronzo il giorno che lo avevano portato al riformatorio. Il ragazzo aveva deciso che non era obbligato a sottomettersi a tutte le formalità dell'accettazione, e nemmeno a fare quello che i coglioni del riformatorio gli imponevano. E aveva cominciato a pestare, e Taylor aveva dovuto chiamare rinforzi da tutte le unità dell'edificio, e tutti si erano ammucchiati sopra il ragazzo come su un toro scatenato in un rodeo, per chiarirgli le idee. Taylor non si era nemmeno preso la briga di cercare di mettergli addosso le corde dolci: gli aveva infilato due paia di manette, una ai polsi dietro la schiena e una alle caviglie. Lo stronzo aveva già preso a calci uno del personale, colpendolo alla coscia tanto forte da spedirlo in volo. Poi avevano trascinato il ragazzo della squadra di football nella stanza con le pareti di gomma imbottita dell'Accettazione, dove lo avevano lasciato a bestemmiare e strillare fino a perdere la voce, mentre tutti riprendevano fiato e controllavano eventuali ferite. Già quella era stata brutta, e Taylor aveva sei persone dalla sua parte. Era quello il senso dei rinforzi: pura questione numerica, per porre fine al confronto il più in fretta possibile e ridurre al minimo i danni. E adesso si trovava ad affrontare quel gorilla da solo. Nel manuale operativo del riformatorio si raccomandava vivamente di evitare situazioni del genere, di considerarsi talmente grandi e forti da poter tenere a bada da soli uno scimmione adolescente al massimo della forza fisica, e finire poi con la testa rotta. "Me lo merito." Taylor per poco non rise, stava già ridendo senza la minima allegria dentro di sé. Visto che voleva fare l'altruista. Era passato dal non risolvere niente, zero completo per ogni suo sforzo, all'imminente prospettiva di vedersi rompere il culo. Il ragazzo allargò le gambe, piantandosi fermamente a terra e bloccando
qualsiasi via per poterlo oltrepassare e andarsene dal vicolo. Rimase fermo con le mani sui fianchi, gli occhi fissi in quelli di Taylor. — Era il mio fratellino che stavi maltrattando. — II ghigno si strinse. — Grand'uomo. Taylor non faceva fatica a crederci. Sembravano proprio fratelli, e quello più piccolo aveva addirittura la stessa posa, imitava il più vecchio. Lo stesso sorrisetto malvagio, in attesa del movimento vero. Gli altri ragazzini del branco si erano fatti un poco indietro, lasciando al fratello del giocatore di football una specie di trono ideale. — Ci godi a maltrattare i più piccoli? — II ragazzo si avvicinò a Taylor, annullando lo spazio tra di loro. — Eh, grand'uomo? — Di nuovo quel sorriso, un angolo del labbro che si sollevava. — Per me non ti piacciono i bambini. Tranne quel tuo amichetto lì. A quella battuta un paio dei ragazzini ridacchiarono. Taylor sapeva che il piccolo Welsky era ancora alle sue spalle, contro la parete del supermercato. Avrebbe anche potuto scappare via: nessuno gli prestava attenzione. Non quando c'era uno spettacolo molto più interessante. Il ragazzo si avvicinò di più a Taylor. Occhio contro occhio, la stessa altezza: Taylor calcolò che l'adolescente avesse addosso dai venti ai trenta chili solo di muscoli. E in più quell'atteggiamento da animale senza cervello: non gli importava di farsi male, purché potesse farne di più all'avversario. Quel pensiero riportò un nesso alla mente di Taylor: il ragazzo aveva detto o, meglio, urlato ad alta voce, quello che era sembrato un incitamento del tipo che gli allenatori gridavano alla squadra durante l'intervallo fra i tempi della partita. «Fagli male! Fagli male di più! » Lo aveva urlato dopo che gli avevano sbattuto le manette addosso e lo avevano trascinato nella stanza con le pareti di gomma: rivederlo e risentirlo nella mente gli riportò tutto alla memoria. Il nome del ragazzo, scritto sul modulo di accettazione. Dennie, Dennie Pincopallino. Taylor ricordava anche qualcos'altro. L'imputazione segnata sul modulo. La stessa di tutti gli altri moduli, quelli compilati durante le precedenti visite dell'adolescente al riformatorio. C'erano tutti, in bell'ordine dentro l'incartamento del ragazzo. E la maggior parte, quelli in cima al mucchio, i più recenti, erano verbali identici: il ragazzo sembrava volersi specializzare in una carriera particolare. E non si trattava di furto d'auto o semplice possesso di marijuana, o gli altri consueti guai da quattro soldi in cui si cacciavano i ragazzi. Era una cosa completamente diversa, sicuramente non da duri come quegli altri generi di esibizionismi giovanili. Taylor ricordava che quel Dennie aveva tenuto la bocca chiusa quando gli altri ra-
gazzi del riformatorio gli chiedevano per cosa lo avevano messo dentro, o borbottato qualche storia che gli facesse fare miglior figura della realtà. Ma quello era successo tempo prima, al riformatorio. In quel momento si trovava in un vicolo dietro un supermercato, fuori portata di vista dal parcheggio e da chiunque fosse tanto altruista anche solo da chiamare i poliziotti o la vigilanza del centro commerciale. Dennie gli si avvicinò ancora di più. Tanto che Taylor ne sentì l'alito, che sapeva di birra acida. — Ti piace molto quello stronzetto, vero? — Dennie indicò con il capo Steven, ancora fermo contro la parete. Il ghigno di Dennie si fece sbilenco, poi di nuovo gelido. — Si vede che siete amici per la pelle. — II ghigno si allargò. — Del resto ai tipi come te piacciono i bambini piccoli, no? Ti piacciono tanto. Uno dei bambini del branco fece una risatina. Taylor restituì a Dennie uno sguardo freddo. — Levati dai piedi. — Mantenne la voce tranquilla, alta appena quanto bastava per far sentire le parole al pubblico di ragazzini. Il trucco stava nel cercare un'intonazione dolce, tipo Clint Eastwood, per dare a intendere di avere un asso nella manica tanto grande che non c'era nemmeno bisogno di scaldarsi tanto all'idea di servirsene. In più, Taylor era seccato dalla battuta imbecille del ragazzo, l'insinuazione grezza sulla sua presunta omosessualità. Giocava con il suo pubblico raccontando barzellette sui froci, per suggerire che la festa gli era stata guastata da una checca. Il ghigno di Dennie si fece cattivo come la morte. — E perché dovrei, brutto frocio di merda? Eh? Eccola, la parola, allo scoperto, sospesa nell'aria davanti agli occhi di tutti. Parole di guerra su quel campo da gioco, un piccolo universo racchiuso fatto di nasi sanguinanti e baruffe infantili in cui il ragazzo stava cercando di risucchiarlo, dal quale il ragazzino robusto non era mai riuscito a venir fuori e che Dennie non aveva mai voluto lasciare perché là dentro era un re e poteva mettere i più piccoli a faccia in giù nella polvere, per l'eternità, poteva torcere loro le braccia dietro la schiena e bloccarli a terra con le ginocchia, impantanandoli nel fango delle loro lacrime brucianti e piene di vergogna. Il genere di insulto che si pronunciava non perché fosse vero, o perché avesse anche solo una possibilità di esserlo, ma perché l'altro non poteva tirarsi indietro, non poteva lasciarlo in sospeso senza vendicarsi. Allo stesso modo che dire qualche porcata riguardo la professione della madre: in teoria uno avrebbe dovuto farsi avanti senza contare di
quanto era più grande il teppista che lo aveva insultato. E si sarebbe fatto pestare per bene, sarebbe finito con la bocca piena di sangue e il piede del teppista in faccia, sapendo benissimo che sarebbe andata così, ma senza poterci fare niente, almeno non sotto il peso di tutti quegli occhi che lo guardavano dal mondo dei bulli e degli attaccabrighe. Proprio un cumulo di stronzate, del tipo che Taylor credeva di essersi lasciato alle spalle molto tempo prima nelle prigioni buie dei giochi della sua infanzia. Ed ecco che ci era finito di nuovo in mezzo. Il ghigno sul volto di Dennie lo aveva già visto molte volte, anni prima. E che quel pezzo di merda facesse la battuta del frocio era veramente ridicolo. Almeno considerando cosa stava scritto sui foglietti di carta raccolti nell'incartamento di Dennie al riformatorio. Ancora quel sorrisetto, Dennie aspettava, bloccando ogni via d'uscita dal vicolo con il suo fisico da giocatore di football. Anche i ragazzini del branco aspettavano: aspettavano di vedere movimento. "Tranquillo." Taylor indicò col pollice il cerchio di ragazzini intorno. Guardò Dennie negli occhi, socchiudendo appena i suoi. Calmo, completamente freddo. — Forse ai tuoi ammiratori piacerebbe sapere come mai i poliziotti ti hanno portato al riformatorio un paio di settimane fa. — Lo disse apertamente, a voce alta appena quanto bastava perché lo sentissero tutti. — E tutte le volte prima. Dennie perse quel suo sorrisetto cattivo, spalancò la bocca, come se avesse preso un bel cazzotto al fegato invece che poche semplici parole. Sgranò gli occhi sorpreso. Sorpreso non che Taylor sapesse perché lo avevano portato al riformatorio, dato che era proprio quella una delle ragioni per cui Dennie aveva colto al volo l'occasione di farla pagare a qualcuno del personale, ma piuttosto che qualcuno potesse essere tanto crudele e privo di scrupoli da usare le parole, le parole che lo avrebbero rivelato a tutti, a tutti i bambini che stavano lì intorno a guardare e ascoltare, e solo per fargli male. Per vincere il combattimento invece di farsi avanti incontro ai suoi muscoli, dove il vantaggio era suo. Per fare in modo che non ci fosse nemmeno più un combattimento, ma qualcosa che era già finito prima ancora che gli fosse data l'occasione di sferrare un solo colpo. Già finito perché lui aveva già perso. A quel punto fu Taylor a sorridere. Guardò Dennie, mantenendo la voce tranquilla. Non aveva bisogno di fare altro. — Che ne dici? Credi che alla banda andrebbe di saperlo? — Taylor rivolse lo sguardo verso i bambini che assistevano alla scena. Stavano tutti
fissando Dennie, il modo in cui si era sgonfiato il giocatore di football prima così pieno di sé. Il fratellino di Dennie, quello che aveva perseguitato Steven, era visibilmente mortificato nel veder sminuire così il suo eroe. — Glielo dico o no? Forza, decidi tu. Glielo dico perché gli sbirri della città continuano a portarti dentro, e quante volte ti hanno già portato dentro? Secondo me vorrebbero saperlo anche loro. Vuoi che glielo dica? Il volto di Dennie si riempì di rabbia, una rabbia troppo grande per schizzarla dai denti serrati. Anche lui era tornato nel mondo dei più forti, solo che adesso non era più lui il bullo del quartiere. Era il ragazzino indifeso a cui qualcuno aveva calato i pantaloni fino alle caviglie e poi tirato un calcione facendolo finire in mezzo al prato giochi in modo che lo indicassero tutti a dito piegandosi dalle risate, a inciampare con addosso solo gli slip bianchi da grande magazzino e le palle che gli si rattrappivano al gelo tagliente dello scherno degli altri bambini. "Stupido coglione." Taylor provò quasi pietà per quel ragazzetto. Il fratello maggiore grande e grosso di quella banda di ragazzini, il duro del quartiere. Non avrebbe mai creduto di poter essere sputtanato per qualcos'altro, qualcosa che manteneva segreto alla sua corte di piccoli ammiratori. Ma se qualcun altro lo sapeva, voleva dire che non era un segreto. Il povero allocco contava sul fatto che Taylor stesse alle regole, le regole che imponevano che a vincere fosse quello più grosso e con più muscoli. Non si era immaginato che a Taylor di cose simili non fregava un cazzo. Dennie aveva stretto i pugni, le nocche sbiancate, ma li teneva immobili ai fianchi. Il branco di bambini lo guardò sbigottito. Taylor si voltò e allungò una mano dietro di sé, prendendo Steven per il braccio. Tirandosi dietro il bambino, oltrepassò Dennie, spingendolo da parte con una spallata. Sentiva addosso gli sguardi di Dennie e degli altri, sguardi che gli bruciavano la schiena, mentre si dirigeva con Steven verso il parcheggio. — Non guardare indietro. Cammina e basta. Taylor mantenne il passo lento e rilassato, mentre uscivano dal vicolo "Calma, calma" - e tirava le chiavi della macchina fuori di tasca. Le sentiva scivolose, umide di sudore. Aveva tirato parecchio la corda con quel teppista di Dennie, affrontandolo a viso aperto a quel modo di fronte a una banda di bambinetti. C'era ancora la possibilità che Dennie, che certo non era una cima, potesse dar fuori di matto e partire alla carica dal vicolo per prendere Taylor alle spalle e massacrare il suo aguzzino fino a ridurgli la faccia a una marmellata sull'asfalto del parcheggio, rovinandolo tanto da
non doversi più preoccupare di qualsiasi segretuccio Taylor potesse spifferare. Oppure, anche adesso che era così vicino alla macchina e stava per uscire da quella scena squallida, c'era la possibilità che la maschera di ghiaccio gli si spezzasse e lui mostrasse paura iniziando a correre per l'ultima parte del tragitto, verso la sicurezza dell'abitacolo della macchina... "Non guardarti indietro" si disse. "Continua a camminare." Aveva a fianco il ragazzino, quel piccolo sgorbio, Steven, per il quale aveva appena rischiato il culo. Aveva gli occhi fissi a terra, i denti stretti: Taylor vide benissimo come serrava la mascella, e tutto per resistere alla tentazione di voltare la testa per vedere se qualcuno stava correndo verso di loro con i pugni alzati per colpirli alla nuca e ai reni. Taylor raggiunse con la mano la maniglia della portiera dal lato passeggero. La spalancò. — Entra. — "Prendila con calma... Muoviti lentamente..." Steven esitò. Rimase fuori dalla macchina, gli occhi ancora fissi a terra. — Forza — ordinò Taylor mentre faceva il giro dell'auto per passare dall'altra parte. — Non ho nessuna voglia di stare qui tutto il giorno. Il ragazzino entrò lentamente. Taylor scivolò al volante e richiuse la portiera. Alzò gli occhi al retrovisore: non ci fu bisogno di allungare la mano a sistemarlo per vedere quello che voleva. Il branco di bambini si era disperso, l'ultimo stava uscendo dall'imboccatura del vicolo vicino al supermercato per allontanarsi in cerca di un'occasione migliore per divertirsi. Dennie, il giocatore di football, non si vedeva da nessuna parte. Rivolse lo sguardo verso Steven. Il ragazzino restava seduto con le mani sulle gambe, il volto magro completamente inespressivo, la stessa maschera di prima, al riformatorio. — Ehi... — Taylor infilò la chiave, ma non la girò. — Cerca di lasciar perdere quegli stronzi. Va bene? Guarda che non vale la pena di mangiarsi il fegato per gente così. Il ragazzino fece tanto di voltarsi a guardarlo: Taylor rimase sorpreso di aver ottenuto una simile risposta. Steven gli lanciò un'occhiata acida, gli occhi stretti, poi tornò a guardare fuori dal finestrino. — Cosa vuoi saperne tu? — Un borbottio basso, quasi soffocato dall'amarezza. Una voce vecchia, non da bambino, anche se le parole provenivano dalla bocca di un bambino. Taylor sospirò, sentendo la stanchezza risalirgli la spina dorsale e svuotargli di vita i muscoli.
— Senti. — Taylor appoggiò i polsi sopra il volante come se fossero creature morte che per qualche motivo gli si erano collegate al corpo. — Senti, so cosa vuoi dire. Okay? Ci sono passato anch'io. C'è passata un mucchio di gente. — Certo, come no... — ancora più acido di prima. "Me lo merito..." Aveva salvato il culo a quel ragazzino, ed ecco il ringraziamento. Anche se non sapeva se si era aspettato qualcosa di diverso. Ci riprovò, per oltrepassare quella barriera. — Ehi, su, guarda che lo so come va. Lo so cosa vuoi dire essere il tipo di ragazzino che prende calci in culo dovunque va, e torna a casa e gli danno altri calci in culo e non ha posto al mondo dove poter andare senza ricevere calci in culo. Non c'è bisogno che me lo spieghi, è successo anche a me. Aveva alzato la voce, più collerico di quanto avesse voluto. Una volta aperto il coperchio, le parole erano uscite a valanga, senza poterle fermare. Steven si girò e lo guardò duro. — Per te è diverso. — Oh? Ma davvero? E come mai per me è diverso? La voce tetra del ragazzino, dal profondo: — Tu sei più grande. — E rivolse ancora lo sguardo fuori del finestrino. Taylor alzò gli occhi al cielo, esasperato. Che ragazzino imbecille... — E credi che sia nato grande? — A sentirlo sembrava che Taylor fosse una specie di elefante immune dal rischio di farsi rompere le ossa da un fondocampista diciassettenne. — Nascono tutti piccoli. Credimi. Anche quei rotti in culo. — Indicò un punto oltre il volto di Steven, verso il finestrino e il vicolo più oltre. Ora era vuoto, i bambini se n'erano tutti andati. Steven guardò di nuovo Taylor con occhi socchiusi e rabbiosi. — Sei anche più scemo. Taylor fu preso di sorpresa. — Cosa... Steven gli sputò addosso le parole con una furia che saliva a ogni istante. — Credi di essere tanto furbo, eh? — Tremava di collera, una collera troppo grande perché potesse contenerla il corpo di un bambino di dieci anni. — Cosa vuoi fare, seguirmi tutto il giorno come una guardia del corpo? Eh? — Ehi, su... — La voce di Taylor era flebile, le parole prive di forza. La rabbia di Steven crebbe e lo colpì ancora. — Se me ne restavo fermo a subire, dopo un po' loro se ne andavano. Ma dovevi venire tu a ficcare il nasone in mezzo. Così adesso la prossima volta che mi prendono, mi rompono il culo sul serio.
— Steven si lasciò ricadere sul sedile, le braccia conserte, fissando l'aria vuota oltre il parabrezza. — Grazie tante. Grazie davvero. Quello scoppio d'ira aveva stordito Taylor. Fece fatica a ritrovare la voce. — Ehi... Steven non si prese nemmeno la briga di guardarlo. — Non te lo ricordi, com'era. Per un istante gli parve di non trovarsi neppure nell'abitacolo della macchina. Taylor strinse il volante, e il materiale liscio e curvo si inumidì di sudore, ma non vide realmente lo sterzo o i quadranti del cruscotto o il riflesso del suo volto stupefatto nell'angolo dello specchietto. Era tutto svanito per lasciarlo in un altro luogo, un tempo rimosso dalla memoria. — Io lo ricordo... — mormorò. Sentì a malapena le parole, la voce da adulto era un gracchiare debole, incapace di raggiungerlo, di penetrare il muro. Poi l'altra voce, quella da bambino ma già vecchia e piena di amarezza, quella che sapeva come stavano le cose. In quel mondo e in qualsiasi altro. — Perché non mi lasci stare? So badare a me. La voce gelida di Steven era come una frustata che riportò Taylor alla realtà. Si allontanò dal volante e guardò il ragazzino. — Benissimo. Ottimo. — Parole secche, morsicate via. — Come vuoi tu. Ma ascolta un momento, okay? Credi di potermi ascoltare per un minuto? Volevo solo dirti che puoi farcela anche tu. Credimi. Un giorno sarà finita. E potrai essere anche tu adulto. — La voce gli si strinse addosso, sarcastica. — Non ti sembra una gran cosa? Il ragazzino fissò Taylor per un momento, poi aprì la portiera dal suo lato e uscì dall'auto. Taylor lo guardò allontanarsi, sparire oltre lo spiazzo del parcheggio. — Lascia perdere. — Borbottando fra sé, girò la chiave di accensione. — Cosa vuoi saperne tu... 10 — Dove cazzo l'hai lasciato oggi il cervello? Eh? — L'allenatore gli mollò uno schiaffone sul casco, forte quanto bastava per fargli ronzare le orecchie. — Te ne stai lì a sognare a occhi aperti, stronzo? Guarda che hai mancato di un chilometro quel cazzo di placcata! Dennie sentì il gusto salato che gli gocciolava in bocca, il sudore bruciante all'angolo degli occhi. Gli sembrava di cuocere, in quel completo da
football, sotto il sole che marciava a pieno regime e rendeva il campo di allenamento una distesa di terracotta infuocata. Lo stesso caldo estivo, l'ultima parte della stagione che si trascinava nell'inverno e rendeva le notti così tiepide e piacevoli, una brezza secca che scivolava tra le colline dal deserto più oltre: un buon tempo per bere birra, quando la si poteva far scendere in gola sentendosi sbottonare la spina dorsale a mano a mano che calava nello stomaco e tutto si allentava dentro. Gli pareva di sentirne il gusto, e al pensiero gli venne l'acquolina in bocca, il liquido freddo, aspro e dolce che passava sulla lingua e in fondo alla gola, mentre ingoiava il fondo della prima, con quel suo gusto di alluminio, e già strappava dall'anello di plastica la successiva, e poi altre quattro dopo quella, e un'altra confezione da sei per prendersela più con calma, una volta goduta la botta, quando poteva rilassarsi e dimenticare tutto (Che ne pensi? Eh? Vuoi che glielo dica? Una voce che gli strisciava nei pensieri), dimenticare anche quello, l'aria calda della notte che lo avvolgeva e gli asciugava il sudore gocciolante dalla maglietta... — Cristo di un Dio! — Un altro schiaffo... bam!... sul casco, che gli sbatté la testa contro la spallina imbottita. — Mi ascolti o che cazzo, brutto stronzo? Non era più a bere birra con i suoi compagni di squadra, a ridere e sparare cazzate al vecchio drive-in. Ora si trovava sul campo di allenamento, con quel sole pomeridiano ad arrostirlo sotto i paracolpi imbottiti e i grugniti e i tonfi dei compagni che gli risuonavano nelle orecchie a mano a mano che passavano da una stupidissima prova all'altra. E l'allenatore, quel culo rotto che credeva di essere Vince Lombardi o chissà chi, con tutti quegli schiaffoni che mollava e le cazziate per qualsiasi scemenza capitava di fare, compreso guardarlo storto, l'allenatore era un botole che stringeva in mano un taccuino e doveva alzarsi in punta di piedi per colpire Dennie sul casco. Faccia da bulldog strabico, alito che puzzava di litri di Maalox. Se quel bastardo da quattro soldi non fosse sempre stato così fuori di testa, non ne avrebbe certo avuto bisogno. Quando Dennie era perfettamente disteso e sereno, con la birra, poteva anche mettersi a pensare all'allenatore e sentirsi triste per lui. Ma non in quel momento, con quelle urla proprio davanti alla maschera protettiva del casco. — Potresti unirti alla squadra, se la cosa non ti è di troppo disturbo? Eh? — L'allenatore con la faccia da bulldog aveva l'aria di uno caduto in una pentola di olio bollente, tutto paonazzo, con una vena che gli pulsava all'angolo della fronte. — Non ti stiamo facendo perdere il tuo prezioso tem-
po libero, vero? Gli altri si erano fermati e stavano guardando Dennie e l'allenatore. Le urla li avevano attirati intorno per stare a guardare mentre Dennie si faceva fare il culo. A lui parve che la testa gli stesse scoppiando dalla pressione che vi cresceva dentro. Solo il casco gliela manteneva a posto. Il ronzio che era iniziato dopo gli schiaffi dell'allenatore salì di intensità, come un trapano da dentista che penetrava sempre più, un rumore sempre più forte, che saliva al ritmo del battito del cuore. "Vuoi che glielo dica? Eh? Credi che alla banda andrebbe di saperlo? Come mai gli sbirri..." E faceva talmente caldo, con i paracolpi e le altre cazzate che gli bruciavano addosso... "... portato dentro, e come mai gli sbirri continuano a portarti dentro, questa volta e..." ... non era il sole a pesargli addosso, era il calore del sangue che pulsava così forte e rapidamente che lo sentiva, lo sentiva chiudergli gli occhi e serrargli la mascella... "... questa volta e tutte le volte prima..." ... troppo caldo, il sangue troppo forte negli orecchi, si strappò la cinghietta del casco... "... Vuoi che glielo dica? Eh? Vuoi che gli dica..." — Porca puttana, vuoi starmi a sentire? "... che glielo dica." Dennie si tolse il casco e lo tirò per terra davanti all'allenatore. Il casco sbatté sullo stinco dell'allenatore e rotolò via. Riuscì a respirare di nuovo. Fissò l'allenatore con cattiveria. — Va' a prenderlo in culo. — E si girò per dirigersi verso il limitare del campo e lo spogliatoio più oltre. L'allenatore balbettò qualcosa alle sue spalle. Poi urlò: — Ti sbatto in panchina, testa di cazzo! Per tutto il campionato! Dennie si girò giusto quanto bastava per allungargli il medio sollevato e vedere tutti gli altri della squadra che lo fissavano. Non gli sbatteva un cazzo di quello che pensavano. Si stava già strappando di dosso la maglietta numerata prima ancora di arrivare allo spogliatoio. — Dite... — Larry si voltò verso gli altri della squadra — ... Dite che uno di noi dovrebbe andare da lui? A parlargli, o cosa? Guardarono tutti
Mick, che era rimasto a braccia conserte durante tutta la scenata fra Dennie e l'allenatore. A guardare senza dire una parola. Mick raccolse la palla ovale dall'erba e cominciò a pulirla dalla terra appiccicata alla superficie rugosa, fissandosi il pollice mentre la grattava via. Alla fine scosse il capo, con la cinghietta del casco che gli penzolava sotto il mento. — No, lasciate stare. — Alzò la palla e tirò indietro il braccio, come se fosse sul punto di lanciarla in passaggio al ricevitore in zona meta. — Quella checchetta tornerà quando ne avrà voglia. — Si lasciò cadere la palla dalle dita. L'allenatore era riuscito a riprendersi quanto bastava per proseguire l'allenamento. L'aiutante della difesa soffiò nel fischietto e cominciò a urlare qualcosa. Larry rimase a guardare il punto in cui Dennie era uscito rabbioso dal campo, mentre tutti gli altri se ne andavano. Lo sapeva Cristo che a lui non importava un tubo di Dennie: era uno stronzo convinto che la sua merda non puzzasse come quella degli altri solo perché faceva parte della squadra. Ma dopo certe cose capitate l'ultima volta che si era incazzato e se n'era andato, non gli sembrava giusto lasciarlo andare via così. Non fosse altro che perché Dennie era il primo attaccante, e da solo costituiva buona parte della loro forza in campo. Solo che sapeva come cacciarsi nei guai. Guai grossi e che rimanevano... era quello il problema... — Cristo santo! Non comincerai anche tu con queste cagate, adesso? Larry voltò la testa e vide che l'allenatore lo fissava cattivo, il taccuino contro il fianco lardoso, un'espressione da martire esasperato sulla faccia quadrata. Per il momento Dennie avrebbe dovuto pensare da solo a se stesso. Larry andò di corsa verso il punto in cui gli altri stavano aspettando. Era tutta colpa di quel figlio di puttana del riformatorio. Dennie era fermo sul ciglio della rampa d'accesso dell'autostrada, con le mani ficcate nelle tasche del giubbotto, il volto cupo e teso. Si rimuginava tutte le stronzate che gli erano successe e a quanto gli bruciava che fossero così ingiuste. Allungò una mano e sollevò il pollice nel vedere una macchina svoltare dalla strada e immettersi sulla rampa, ma quella lo oltrepassò, accelerando per immettersi nel flusso rapido del traffico più su. "Stronzi" pensò Dennie: anche la gente di quella macchina rientrava nelle stronzate, a lasciarlo lì quando si stava già facendo sera e lui aveva delle cose da sbrigare in città prima che finisse la notte. Cose che lo avrebbero fatto sentire meglio. Poteva anche lasciar perdere quei bastardi della macchina, e quelli di tut-
te le altre che gli erano passate davanti senza fermarsi a dargli un passaggio, o almeno lasciarle sprofondare nel buio, dove teneva quello che non dimenticava del tutto. Ricordava ogni cosa, strato su strato di lerciume, fin da quando era bambino. Anche solo pensarci un minimo gli strinse lo stomaco, come un pugno al fegato. Gli parve quasi di sentirne il sapore, come di sangue sulla lingua. Anche se ci fosse voluta un'eternità, gliel'avrebbe fatta pagare. A tutti, anche a quei figli di puttana nelle macchine. Un'altra svoltò sulla rampa. Era così buio che aveva acceso i fari, nonostante filtrasse ancora oltre i pilastri dell'autostrada la luce rossa del sole al crepuscolo, per mostrare a Dennie il guidatore oltre il parabrezza. Nella macchina c'era solo un tipo, sulla trentina, o magari un vecchio stronzo, quaranta o più. A volte era difficile capirlo finché non ci si trovava proprio di fronte a loro. Gli occhi dell'uomo incontrarono quelli di Dennie, e per un istante Dennie pensò che non avrebbe avuto bisogno di andare in città, che aveva già trovato quello che cercava, praticamente davanti al naso. Quella piccola scintilla, l'istante di comunanza fra due persone che non si erano mai incontrate prima. Due persone che vedevano qualcosa l'una nell'altra. Poi la macchina lo oltrepassò, e il tipo al volante non si voltò nemmeno a guardarlo. Dennie guardò i fari di coda girare in cima alla curva della rampa e svanire. Rimise la mano nella tasca del giubbotto, stringendo i pugni tanto forte da contrarre tutti i muscoli delle braccia. Forse il tipo nell'auto andava in città per la stessa cosa. Forse lo avrebbe rivisto in strada. Forse era uno di quelli cauti, che non volevano correre il rischio di venir visti in simili compagnie da conoscenti. Forse più tardi gli avrebbe comunque riempito la serata. Il pensiero lo fece stare meglio. Il volto oltre quel parabrezza era liscio e rotondo, da bambino, come una specie di giovane dirigente o qualcosa di simile che stava facendo carriera nell'azienda con i contatti giusti, moglie e figlio di due anni sistemati in uno di quei nuovi quartieri residenziali, quello con quei cazzo di laghetti finti in mezzo e la palizzata intorno. La macchina era una Mercedes o una BMW, una di quelle porcate costosissime. Per cui il tipo aveva soldi, soldi con cui prendere tutto quello che voleva. Il volto da bambino... Dennie strinse il pugno ancora più forte, affondando le unghie nel palmo finché gli parve quasi di sentire il sangue che schizzava fuori. — Merda... — Insaccò le spalle nella giacchetta. Stava perdendo tempo a restare lì, se nessuno gli dava un passaggio. Quel bastardo con la Merce-
des sarebbe arrivato in città e avrebbe agganciato qualcun altro per avere quello che voleva, se lo sarebbe arpionato uno degli altri ragazzi in strada. Fu tentato di tornare a casa a piedi e prendere la macchina, la vecchia Fairlane che sua madre gli aveva lasciato, e andare in città per i cazzi suoi. Sarebbe stato senz'altro più veloce che non restarsene là per tutta la notte. Ma non voleva: sarebbe stato come rovinare l'incanto. La prima volta che era andato in città per quella storia - aveva solo quattordici anni - aveva dovuto fare l'autostop per arrivarci. Faceva parte del brivido, salire in una macchina mai vista prima, senza sapere cosa sarebbe successo ma pronto a tutto. Anche se all'inizio della serata non voleva altro che farsi un giro, solo andare in città, dove c'era davvero movimento, le auto che rallentavano per dare un'occhiata da vicino mentre lui stava sotto il lampione ad aspettare, aspettare qualsiasi cosa succedesse... Per qualche motivo, nella sua mente, restava tutto una cosa sola, dall'inizio della notte alla fine: farsi scarrozzare in macchina era come un piccolo assaggio di quello che sarebbe venuto, la parte importante, quella che consisteva nello scivolare dentro l'auto di uno sconosciuto con la luce azzurra del lampione che saliva a mostrare una faccia da bambino e occhi luccicanti, ansiosi... Pensarci lo fece stare bene, sempre meglio. "Forza..." sussurrò tra sé nel vedere un altro paio di fari all'imbocco della strada. Gliel'avrebbe fatta vedere, gliel'avrebbe fatta vedere a tutti. Il pugno che gli stringeva le viscere si contorse, strizzandole. Quel rotto in culo del riformatorio, quel figlio di puttana saccente. Non voleva uno con la faccia da bambino in Mercedes, voleva quello del riformatorio - Vuoi che glielo dica? Eh? - ma nel frattempo si sarebbe accontentato anche di un faccia da bambino, lo avrebbe fatto sentire meglio comunque. Aveva riconosciuto il tipo del riformatorio quando l'aveva visto nel vicolo di fianco al supermercato. Lo ricordava: era il responsabile o qualcosa di simile, quando gli sbirri lo avevano portato dentro. Quello stronzo credeva di essere tanto furbo, faceva il grand'uomo quando aveva venti persone a spalleggiarlo. Non aveva le palle per affrontarlo da solo, per cercare di infilargli le manette da solo. Se ci avesse provato, Dennie lo avrebbe ridotto a pezzettini. Per cui l'occasione di beccarlo fuori dal suo territorio, e per conto suo, senza nessuno ad aiutarlo, era stata come una specie di regalino, incartato e spedito personalmente da Dio. Se ne stava camminando per lo spiazzo del parcheggio, senza un pensiero al mondo che non fosse quella sete che gli stava già cartavetrando la gola, quando aveva visto il branco di ragazzini
nel vicolo, e in mezzo a loro il suo fratellino minore. E poi quello stronzo del riformatorio, che faceva il duro come fosse un eroe e si intrometteva per salvare lo stronzetto triste. Dennie sorrise tra sé, gustandosi di nuovo la sensazione che aveva provato nel mettere il tipo del riformatorio con le spalle al muro, nel dare addosso a quel tappetto bastardo, di premerlo, di tormentarlo un poco, proprio come lui tormentava il suo fratellino minore e gli altri bambini. Come si era sentito a insultarlo in tutti i modi, e lui non poteva reagire, perché aveva paura, perché sapeva cosa stava per capitargli; e poi a tirargli un cazzotto diritto nei denti e a sentire il sangue che schizzava fuori, a piegarlo in due con un altro pugno allo stomaco e a spedirlo indietro con una ginocchiata nelle palle... Dennie sorrise solo a pensarci, pensando al tipo del riformatorio disteso ai suoi piedi nel vicolo, tutto contorto, il sangue che gocciolava dalla faccia di quel figlio di troia, Dennie con i muscoli che gli formicolavano, proprio la stessa sensazione di quando perforava la linea della difesa e spaccava il culo a quel cagasotto del capitano avversario, tutti che urlavano e davano fuori di matto, i ragazzini del vicolo che sgranavano gli occhi e urlavano "Uau!", godendosi la scena, dieci iarde perse per la squadra avversaria, lui che li ricacciava tutti quanti indietro fino ai pali di porta... Solo che non era andata così. Non aveva spaccato il culo a quello del riformatorio. Il sorriso di Dennie si spense, e strinse i denti. Quello stronzo cagasotto... perché quel bastardo non poteva giocare lealmente? Invece di tirarla fuori così, proprio davanti al suo fratellino e agli altri bambini, tutti lì intorno ad assistere e ascoltare chiedendosi cosa stava succedendo. Le lacrime bruciarono agli angoli degli occhi di Dennie. Non era leale, punto e basta: quel tipo non avrebbe dovuto dire cose del genere, minacciare di raccontare tutto. Tutti i segreti di Dennie. Era già brutto che quel figlio di puttana lo sapesse. Ma che se ne servisse contro di lui a quel modo... Era rimasta sullo stomaco a Dennie per tutta la giornata. Tutto che gli diventava bollente dentro, ogni volta che risentiva la voce del tipo che mormorava Vuoi che glielo dica? Eh? Vuoi che glielo dica? di nuovo e poi di nuovo, stronzo saccente, stronzo, si credeva tanto furbo... E così si era sputtanato l'allenamento, e l'allenatore gli aveva dato addosso e lui gli aveva risposto di andare a prenderlo in culo, e poi chi cazzo se ne fregava? A Dennie non sbatteva un cazzo. Sapeva cosa gli serviva, cosa lo avrebbe fatto sentire meglio. Strinse i pugni nella tasca della giacca, li strinse più forte, due rocce. La macchina che stava fissando risalì sulla rampa, dirigendosi verso di
lui. Non era una Mercedes, e nemmeno simile, solo una berlina giapponese tutta ammaccata. Un tipo che tornava a casa dal lavoro. Dennie lo fissò direttamente negli occhi attraverso il parabrezza, e capì che era un tipo regolare, non quello che serviva a lui. Per trovarlo avrebbe dovuto andare in città. Alzò il pollice, e l'auto rallentò, fermandosi qualche metro più avanti di lui. Dennie si girò e partì di corsa per raggiungerla mentre il tipo alla guida apriva la portiera accanto. Già molti degli altri ragazzi erano in strada, quando arrivò Dennie. Lavoravano da prima che tramontasse il sole: in città, in una strada come quella, il movimento, i traffici, andavano avanti ventiquattr'ore al giorno. Solo che di notte il ritmo cresceva. Dennie percorse gli isolati, da un alone di luce all'altro, salutando i ragazzi che conosceva e quelli che non aveva mai visto prima: l'occhiata, il messaggio che andava dai loro occhi ai suoi, diceva tutto, un tacito riconoscimento della ragione per cui erano tutti fuori quella notte. La luce azzurra, il riverbero dei neon sopra gli ingressi dei bar, prosciugavano i visi da ogni colore umano, rendendoli maschere di cera plasmate in volti da adolescenti. Scroccò una sigaretta a uno, un tipo che batteva di professione e che tutti chiamavano Scooter, anche se ne aveva un pacchetto quasi pieno nella tasca della giacchetta. Solo per chiedere a Scooter, mentre alzava il fiammifero nelle mani unite a coppa, scaldando il viso di entrambi quando si avvicinarono l'uno all'altro, come andavano le cose quella sera. Scooter alzò le spalle, lo sguardo fisso ai semafori e al traffico strisciante. La faccia di Scooter sembrava scavata da dentro, le guance che mostravano tutti i denti rimasti, gli occhi cerchiati di rosa ormai smangiati dalle occhiaie scure. Ormai lo caricavano in macchina sempre più di rado: la maggior parte degli uomini che passavano in rassegna le strade venendo dai sobborghi o dai condomini che fiancheggiavano le colline lo conoscevano già, o lo ricordavano da quando era più carino. A quei tempi sembrava un angioletto, con i jeans sbiaditi e la maglietta dei Metallica, quando aveva quattordici anni e aveva appena iniziato a battere le strade, alla stessa età e nello stesso momento di Dennie. Ma Dennie sapeva che Scooter non si voleva bene, non quanto se ne voleva bene lui: Scooter mangiava tutto quello che gli capitava sottomano e usava le siringhe ogni volta che aveva qualcosa per cui usare una siringa, e lasciava che gli uomini delle macchine gli facesse-
ro tutto senza farsi dare niente. Era quello il peggio: lasciarsi comprare da loro, e poi prendere i soldi e dargli veramente quello che volevano, fare tutto quello che volevano e non farsi pagare con qualcos'altro che non fossero i soldi. Dennie si assicurava sempre che pagassero. E ora lui era ancora robusto e in salute, e anche bello, e gli uomini nelle macchine rallentavano per ammirarlo e lustrarsi gli occhi con quel bel ragazzo giovane che giocava a football, con tanto di giubbotto con il monogramma della squadra ricamato sopra e muscoli potenti sotto. Scooter invece aveva l'aria di uno che sta per crepare, il che gli rovinava gli affari ancora di più, perché sembrava veramente molto malato, e chi mai voleva una creatura del genere? Per poi magari farsi attaccare qualcosa? I capelli biondi e sporchi di Scooter si stavano già diradando, all'attaccatura, e sembrava che il cranio gli volesse scoppiare fuori dalla pelle. Dennie disse a Scooter di prendersela con calma, poi si allontanò lungo la strada, anche se sapeva che Scooter voleva che rimanesse con lui, che gli tenesse compagnia alla sua postazione sotto il lampione, come se il corpo robusto del giocatore di football fosse un fuoco a cui stare vicino e scaldarsi durante la notte. Ma chi se ne fregava: gli altri ragazzi, quelli usciti presto, si erano già dati da fare con le macchine, avevano già raccolto la prima ondata di arrapati che arrivavano dalla periferia appena calato il sole. Non voleva sputtanarsi le occasioni facendosi vedere in compagnia di un untorello come Scooter. C'era già una piccola transazione in atto, un paio di isolati più in là. Una bella station wagon Volvo nera, proprio la macchina che ci si aspetta di vedere al sabato attorniata da frotte di ragazzini a una partita della Pop Warner. In quel momento l'uomo al volante stava parlando con un tipetto magro con l'aria da surfista, diciotto anni al massimo: il ragazzo era appoggiato al finestrino della Volvo, e i lunghi capelli gli ricadevano sulla faccia dagli occhi scintillanti. Poi il ragazzo salì, e la Volvo si staccò dal marciapiede: guidavano sempre veloci, una volta concluse le trattative. Non costeggiavano più il marciapiede con calma per guardare la mercé, volevano raggiungere in fretta qualche posto buio. Dennie prese la postazione del giovane surfista, un ottimo punto sotto il lampione. A buona distanza dagli altri, tutti come sentinelle dinoccolate a guardia degli isolati. Una parete solida di cemento a cui appoggiarsi per guardare il traffico che passava. C'era un negozio di liquori, una traversa più su: ogni tanto un vecchio cinese rincoglionito usciva con un manico di scopa a cacciare chi ci stava davanti, urlando stronzate a voce tanto alta da
richiamare gli sbirri. Comunque la posizione era ottima. Gli piaceva stare quasi al termine del viale, dove i bar si diradavano, in modo che quelli nelle macchine avessero già visto la concorrenza e assodato che in strada non c'era nessuno di carino e robusto come lui. Proprio quello che cercavano. La schiena al muro, fissando i fari che risalivano lentamente la strada, le ombre degli altri ragazzi che ondeggiavano e si muovevano, Dennie prese una sigaretta dal pacchetto e se la accese con la cicca di quella che aveva scroccato a Scooter. Gettò via il mozzicone della prima, una cascata di scintille nel vicolo, poi si mise comodo. E aspettò. 11 Steven pensò di sognare. Era proprio quello che gli sembrava: di sognare, quando si sa di essere addormentati e non importa. Quando ci si può abbandonare alla corrente e lasciarsi cullare nel buio da onde lente. Non sapeva neppure come aveva fatto ad arrivarci, nel sedile posteriore di una macchina che percorreva le strade urbane nella notte. Aveva aperto gli occhi: lentamente, per niente sorpreso o impaurito, e si era ritrovato là, la guancia calda appoggiata alle mani. Quando aveva alzato gli occhi, aveva visto il bagliore blu dei lampioni che scivolavano oltre i finestrini, uno dopo l'altro. Il movimento dell'auto, il mormorio profondo del motore, lo cullò fino a farlo sprofondare in un mezzo dormiveglia. Non si alzò a sedere: continuò a restare disteso, a guardare e aspettare. Vedeva la parte posteriore della testa dell'uomo al volante sul sedile anteriore. Solo una sagoma nera, stagliata nella luce, poi in ombra, contro i fari delle altre macchine. Per qualche ragione sapeva già chi fosse l'uomo al volante, anche se per lui non c'era nome o volto. Steven lo sapeva, e basta. Niente di cui preoccuparsi. Non lì e in quel momento. Sollevò le gambe, rannicchiandosi intorno al gomitolo caldo del battito del cuore e del respiro. La macchina avanzò tra le strade buie. Erano passate due ore. O forse già tre? Dennie non avrebbe saputo dirlo, se non fosse stato per il dolore alla schiena causato dal muro. Il selciato intorno ai suoi piedi era coperto di mozziconi di sigaretta. Il pacchetto era vuoto; Dennie lo accartocciò e lo gettò in mezzo alla strada.
Brutti luridi figli di puttana. Dennie fissò con odio le macchine che passavano, con una rabbia che gli bruciava acida in fondo alla gola, tanto bollente che gli veniva voglia di sputarla contro il parabrezza di qualcuno di quei bastardi. Stupide teste di cazzo, cosa si credevano di fare? Passavano dandogli la tipica lumata veloce, fissando lo sguardo nel suo per un istante, quella frazione di secondo in cui si capiva tutto di ciascuno dei due, tutto tranne la tariffa esatta. Lo guardavano e passavano oltre, quei figli di troia, diritti verso la macchia di buio in fondo alla strada, o facevano inversione di marcia un paio di isolati più avanti e tornavano indietro per dare un'altra occhiata alla mercanzia passata in rassegna prima. Non che ne restasse molta in strada. Non a quell'ora, quando si avvicinava la chiusura dei bar e la musica che filtrava dalle porte fin sui marciapiedi ricadeva finalmente nel silenzio; i tipi da bar, che sapevano di essere quello che erano senza cercare di nasconderlo dietro un matrimonio e dei figli e un'aura di rispettabilità piccoloborghese, uscivano con giubbotti di cuoio e jeans strizzapalle, stivali da cowboy e strisce di cuoio ai polsi, quei costumi di scena che indossavano tanto per farsi quattro risatine nostalgiche quanto per darsi seriamente da fare e rimorchiare intorno ai tavoli da biliardo. Capelli ingrigiti e panzoni traballanti sotto le giacchette nere e lucide piene di anelli cromati sadomaso... ormai erano caricature, da quando i bar equivoci erano diventati solo istantanee negli album di famiglia. Ogni tanto, mentre salivano sulle loro Harley costosissime e le loro jeep da maschioni, lanciavano un'occhiata alle pollastre - chiamavano così i giovanotti in strada - e li fissavano per un momento, e gli sguardi si univano oltre il traffico, e loro ricordavano i tempi in cui avevano fatto stronzate del genere. E poi se ne andavano, le insegne al neon venivano spente, e l'oscurità, quella vera, copriva le strade. Dennie sapeva che dopo sarebbero calate le opportunità per quelli che venivano in città a raccogliere la mercé da strada e si fermavano nei bar a racimolare un po' di coraggio alcolico e riempirsi la testa con gli odori sudati degli uomini inscatolati tutti insieme in uno spazio ristretto. Solo così riuscivano a eccitare i propri desideri fino al punto da accostare un ragazzo sotto un lampione. Senza quel ritmo subliminale che filtrava dentro le auto e la sensazione dei corpi muscolosi che scivolavano l'uno contro l'altro da qualche parte, quei bastardi sarebbero diventati verdi dalla paura e sarebbero tornati in fretta in autostrada per tornare a casa, a un'altra lunga notte a fianco delle mogli addormentate, a una veglia gelida. Alcuni degli altri ragazzi ci avevano rinunciato, quelli come Scooter,
troppo bruciati dalla strada per riuscire a trovare clienti, quella sera o qualsiasi altra. Se Dennie guardava verso il fondo dell'isolato ne vedeva uno, un ragazzo della sua età che si era appena steso sul marciapiede rannicchiandosi su se stesso come un vecchio straccione, la testa contro la parete per dormire. In culo, in culo a tutti quanti. Dennie si morse un labbro, ribollendo dentro. La rabbia con cui era sceso in strada era continuata a crescere con ogni macchina che passava senza fermarsi, con ogni volto che si girava a guardarlo e poi allontanava gli occhi, mentre lui si accendeva una sigaretta dopo l'altra. Ora non gli restavano che i pugni stretti nelle tasche della giacca. Serrò gli occhi, immaginando dentro di sé quanto sarebbe stato divertente pestare un bel diretto in piena faccia a qualcuno di quei froci, per fargliela pagare, per fargliela pagare a tutti... Il sangue gli rumoreggiava tanto forte nella testa che quasi non sentì la macchina ferma al marciapiede. Proprio di fronte a lui, dopo essersi staccata dal flusso del traffico e aver accostato. Finché il basso mormorio del motore gli salì nella testa dagli echi che gli percorrevano il petto. Aprì gli occhi e vide la macchina, una sagoma nera su cui scintillavano i riflessi dei lampioni. Era bella, del tipo che a Dennie sarebbe piaciuto avere per sé, che sapeva che un giorno avrebbe avuto, una volta richiesto da un grande college e ottenuto un sostanzioso anticipo come giocatore di football insieme a tutti gli altri premi per la borsa di studio. Linea ribassata e aerodinamica, come quella di una Porsche 924 o una Z, qualcosa del genere, quei profili che facevano sembrare la macchina un coltello pronto a tagliare l'aria. E dentro era comoda, con un mucchio di spazio per mettersi tranquilli e crogiolarsi e rivolgere sorrisi oltre i finestrini affumicati mentre ci si lasciava massaggiare dallo stereo a quattro uscite. Ma non era una Porsche né una Z; era troppo buio, non era riuscito a vederla meglio quando aveva accostato per capire di che marca fosse. Forse era uno di quei modelli personalizzati. Qualunque cosa fosse, puzzava di soldi. Il rombare del motore risalì l'asfalto e poi le gambe di Dennie, fino a toccare un punto di risonanza nell'inguine. Il finestrino del lato passeggero scese dolcemente. L'uomo al volante si allungò sul sedile, ma rimase nell'ombra all'interno; Dennie non riuscì a vedere il volto dell'uomo. Una voce calma, tranquilla, come una breccia nel frastuono del traffico, da cui sgorgavano parole che raggiunsero l'orecchio di Dennie: — È tardi
per starsene fuori. A Dennie parve di sentire il sorriso nella voce dell'uomo. Anche senza bisogno di contattare i suoi occhi, capiva esattamente cosa stava dicendo. Finalmente. Ne aveva davvero pieni i coglioni di star fermo ad aspettare. Sapeva che prima o poi avrebbe trovato un cliente. Lo trovava sempre. Sorrise, con una gioia calda e ansiosa che gli si srotolava nel petto mentre si staccava dal muro e attraversava il marciapiede. L'uomo alla guida si accomodò al volante mentre Dennie raggiungeva l'auto e si abbassava a guardare dentro dal finestrino. — Forse. — Dennie alzò noncurante le spalle. — E con ciò? Vide l'uomo annuire, il volto immerso nell'ombra che si girava verso il parabrezza. Uno grosso, non una mammoletta di quelle che sembravano burro spalmato su un grissino. Non del tipo massiccio, ma alto, e si muoveva con la grazia di chi ha muscoli esercitati. Era ancora più divertente, mostrare a quelli lì che le ore che passavano a fare sollevamenti agli attrezzi Nautilus nelle palestre maschili insieme ai loro amiconi non volevano dire un cazzo. Sentì i muscoli contrarsi sotto la giacca, e un primo assaggio di adrenalina gli percorse il corpo. La sagoma dell'uomo alla guida guardò avanti, senza fissare Dennie, e allungò una mano a socchiudere la portiera. — Sali. Ti do un passaggio a casa. Dennie annuì, sentendosi aprire la faccia in un sorrisetto. Preliminari già sentiti. Spalancò la portiera ed entrò, scivolando nel sedile. L'uomo staccò la macchina dal marciapiede e la riportò in strada. Dalla parte di Dennie i lampioni sfrecciavano via, e la luce arrivava di sbieco a illuminargli il viso senza raggiungere quello dell'uomo al volante. Di nuovo quella voce calma e tranquilla. — Aspettavi qualcuno, là? — e spostò le mani sul cerchio del volante, sempre con lo sguardo fisso avanti. Andava bene così. Dennie sorrise fra sé. Non gli davano fastidio quei giochini, gli inevitabili discorsetti prima di arrivare al dunque. — Forse. — Guardò la strada illuminata passargli a fianco. Ancora più calmo: — Magari aspettavi di fare un po' di soldi. — L'uomo non si voltò verso Dennie; continuò a guidare, facendosi strada fra il traffico che a quell'ora di notte andava calando. Dennie sbirciò la sagoma dell'uomo, poi alzò le spalle. Al punto in cui era, non doveva fare altro. — Forse qualcuno ti farà un'offerta... — Quasi un sussurro. — Qualcosa che ti andrebbe bene. Qualcosa... qualcosa che farebbe al
caso tuo. Dennie appoggiò la testa allo schienale imbottito. Quel tipo se la prendeva calma, ma stava arrivando al succo. Lo capiva. — Un bel ragazzone come te... — L'uomo assentì lentamente, come se stesse rimuginando qualche pensiero profondo. — Ho sentito dire che certa gente... gente che scende in strada per incontrare ragazzi come te... ho sentito dire che a volte gli piacciono le cose un po' dure. Gli piace farsi maltrattare un po'. Cose del genere. Era troppo bello per essere vero: era un sogno, il paradiso. Dennie chiuse gli occhi, e gli parve che il cuore fosse un gran fiore caldo che gli sbocciava nel petto. L'uomo, quello che lo aveva caricato, stava proprio arrivando al dunque, a quello che voleva davvero. E quando uno di quei tipi si metteva a parlare in quel modo - "cose un po' dure" - era facile capire su che lunghezza d'onda andasse. "Farsi maltrattare un po'". Quello che voleva da Dennie. "Cose del genere". Non ci sarebbe stato bisogno dei preliminari, di tutte le stronzate da marchettaro implicite nel gioco. Con quel tipo non ci sarebbe stato bisogno di portare la macchina in un vicolo e frugare nel buio a tentoni per aprirgli la patta e stringere il pugno sul sangue bollente che pulsava e abbassargli la testa sulle gambe per prenderlo in bocca con la parte inferiore del volante che gli strisciava sull'angolo della fronte. E nemmeno l'altro tipo di routine, quella più stiracchiata che consisteva nel farsi portare nell'appartamento lussuoso del cliente, con i suoi giocattolini costosi, lo stereo gigante e altre fregnacce del genere, e una birra e magari un paio di piste che bruciavano il naso, così sottili da sembrare disegnate sullo specchietto con una matita bianca. E poi, letto o moquette, era sempre la stessa cosa. Ma con quel tipo, l'uomo al volante... Dennie se lo sentiva fin nelle ossa, nel sangue che gli saliva alle braccia: non ci sarebbe stato bisogno di passare per quelle stronzate per arrivare alla parte che Dennie voleva. Quella davvero divertente. Sentì l'uomo parlare di nuovo. — Magari qualcosina anche di più duro... — Calmo e lento. — Pensi di potercela fare? Dennie strinse le dita sulle cosce, strinse le mani a pugno. Il sangue fluiva cantando. Sorrise, annuendo lentamente. — Certo… Il volto dell'uomo, sempre una sagoma nera, si voltò verso Dennie. Quasi un sussurro. — Bene... "Bene..."
Steven sentì la voce dell'uomo, quell'unica parola tranquilla. Alzò la testa, sollevandosi dal sedile posteriore per ascoltare. Aveva sentito tutto quello che si erano detti, le voci che andavano e venivano, parole che significavano più del poco che si sentiva a orecchio, parole circondate da luoghi bui e profondi nella cui oscurità si muovevano creature misteriose. Era rimasto sempre rannicchiato sul sedile, in silenzio, a guardare e ascoltare sotto le luci della città che sfrecciavano più indietro, frammenti e paesaggi intravisti dall'angolo sotto i finestrini. E la nuca dell'uomo al volante, la sagoma scura stagliata nelle luci dei fari che venivano dalla direzione opposta, che ogni tanto si voltava a mostrare un profilo nero e senza lineamenti, gli occhi dell'uomo che scrutavano la strada a osservare e cacciare. Il buio e le luci lancinanti si allontanarono, la macchina scivolò avanti in un brandello di tempo vuoto e interminabile. Finché Steven non la sentì rallentare e accostare al marciapiede per fermarsi. A quel punto erano iniziate le voci, quella dell'uomo al volante, che lui aveva riconosciuto da prima, dal suo sogno... E poi l'altra, quella che si era avvicinata al finestrino a rispondere alle parole calme e gentili dell'uomo. E sapeva anche chi era l'altro, non appena l'aveva sentito parlare... "Forse." Duro, sfottente. "E con ciò?" Era quel Dennie, quell'amico di sua sorella. Uno dei ragazzi che giocavano a football. Quello che si era divertito a tormentarlo ai party del drivein, e poi anche quel giorno stesso al supermercato, per dare addosso al tipo del riformatorio. Disteso sul sedile posteriore, dove l'altro non poteva vederlo, Steven immaginò il sorriso sul volto di Dennie, quel gran sorriso cattivo, come se si stesse già gustando il divertimento che avrebbe provato. L'espressione che aveva Dennie quando si dava da fare al drive-in, cose come tirare su Steven da terra con quella manona che gli tirava la camicia e scagliarlo via con un gesto rapido delle dita grandi e forti. "Ma non lo sa." Parole sussurrate nella mente di Steven quando aveva alzato gli occhi per ascoltare. "Non lo sa ancora. " Dennie era salito in macchina e si era messo accanto all'uomo. L'auto era partita infilandosi nell'oscurità, verso un luogo dove non c'era luce. Steven trattenne il respiro: Dennie non si era ancora accorto di lui, non si era reso conto che c'era, raggomitolato sul sedile dietro a guardare e ascoltare. L'uomo al volante e Dennie parlavano, parole che scivolavano avanti e indietro nello spazio buio e ristretto dell'abitacolo. Il mondo intero si era riversato dentro la macchina, e fuori non restava altro che il buio.
"Pensi di potercela fare?" Lo aveva detto l'uomo, un profilo nero che si voltava verso Dennie. La voce di Dennie che sorrideva. "Certo..." Non lo sa. Steven alzò gli occhi verso la nuca di Dennie, dietro il poggiatesta. Dennie non lo sapeva ancora... "Bene..." Il sussurro dell'uomo al volante era l'unico suono rimasto al mondo. La macchina si era fermata da qualche parte, lontano dal traffico. Fuori era buio e silenzioso, tanto che Steven sentì il proprio respiro e quello di Dennie. Dennie non se ne accorse, ma la sagoma dell'uomo al volante si girò ancora di più, dietro di lui appoggiato al sedile, fino a rivolgersi verso Steven. Lui non riuscì a vedere gli occhi dell'uomo, non ci riusciva mai, eppure sapeva che quello sguardo gelido era fisso nel suo. Un messaggio tacito, non c'era bisogno di dire altro. Steven si ritrasse un poco da quel volto in ombra, premendo la schiena contro il sedile. L'uomo tornò a guardare Dennie. — Pronto? — Un sussurro, ancora più dolce di tutte le parole precedenti. Steven sapeva che Dennie aveva stretto i pugni, dal modo in cui teneva le spalle, i muscoli gonfi sotto il giubbotto da ragazzo. E che sorrideva. — Certo. — Dennie girò la testa. — Forza... Dennie si interruppe quando il braccio dell'uomo esplose descrivendo un arco che partiva dal volante. La mano dell'uomo volò alla gola di Dennie, afferrandogliela con forza. L'angolo del pollice e dell'indice sbatté contro la mandibola di Dennie, gettandogli indietro la testa. Quando le dita gli affondarono nel collo, Dennie tirò fuori la lingua. Sgranò gli occhi, e dalla bocca gli provenne un gorgoglio raschiante e strozzato. Steven si alzò dal sedile. A guardare. Il mondo all'interno dell'abitacolo si restrinse ancora di più fino a spingerlo contro gli altri volti. L'uomo al volante infilò l'altra mano nella tasca della giacca di Dennie, non a tentoni, ma direttamente per prendere quello che sicuramente sapeva esserci. Quando ritirò la mano, stringeva un coltello. Era il grosso coltello a serramanico di Dennie: Steven gliel'aveva già visto in mano prima, lo aveva visto tirare fuori la lama scintillante dall'impugnatura con le estremità cromate. Dennie aveva sempre usato entrambe le mani per aprire quel coltello, ma l'uomo, in un unico movimento rapido, lo fece con una mano sola, e la lama scivolò fuori dall'impugnatura per bloccarsi con uno scatto. Il metallo affilato sembrava irradiare una luce sottile contro la faccia di
Dennie. Quando vide la lama, Dennie sgranò gli occhi ancora di più, come se stessero per saltargli dalle orbite: graffiò inutilmente la mano che gli stringeva la gola. L'uomo girò il volto di tenebra verso Steven. Ora il sussurro dell'uomo era rivolto a lui, perché non c'era più nessun altro ad ascoltare. — Steven... — L'uomo sollevò il coltello, e una scintilla ne percorse la lama. Steven spostò lo sguardo dall'uomo col volto invisibile alla punta del coltello che stringeva in mano. Il sussurro gli raggiunse l'orecchio. — Steven... dammi la mano... Non riuscì a impedirsi di farsi avanti verso il coltello. La luce che brillava sulla lama gli ricadde dentro, fino in fondo al cuore: lo tratteneva immobile, trascinandolo verso la sua purezza rigida e tagliente. Ora rimanevano solo loro due, l'uomo al volante e lui. Con loro nella macchina c'era un'altra creatura, una creatura con occhi spalancati e fissi che passavano dal volto nell'ombra a quello del bambino. La creatura terrorizzata annaspò in cerca d'aria, singhiozzando. Sul volto arrossato scendevano le lacrime. La creatura terrorizzata aveva paura del coltello. Non lo sapeva. Non ancora. — Forza... — L'uomo al volante girò la lama. — Prendilo... II coltello gli calamitava la mano. Steven fece scivolare le dita sull'impugnatura. L'uomo al volante prese con la mano quella di Steven, costringendolo a stringere la presa sull'impugnatura. — Così... Lui si era spinto tanto avanti sul sedile che dovette mantenersi in equilibrio con l'altra mano su quello di Dennie. Il colletto della sua giacca gli sfiorò le nocche. — Forza... Steven guardò la lama mentre l'uomo al volante ritirava la mano. Mantenne la presa, stringendo l'impugnatura. Vedeva il proprio riflesso sul metallo lucido, un occhio che sembrava stirato in un filo dove incontrava il bordo della lama. Poi il metallo si illuminò, brillando di luce che partiva da un azzurro gelido e cresceva fino a un bianco argenteo, invadendo l'abitacolo, cancellando il riflesso del suo viso sulla lama e la sagoma dell'uomo più oltre e il balbettio spaventato e implorante di Dennie. Steven girò la testa verso il finestrino e alzò lo sguardo.
Il cielo si era riempito di luce: ci volle un istante a Steven per ritrovare la vista dopo il bagliore. Strinse gli occhi e vide i pali metallici che torreggiavano su ogni lato della macchina, sollevando banchi di luce contro il cielo notturno. Sapeva di cosa si trattava, li aveva già visti prima: erano i lampioni che si usavano al liceo per illuminare i campi da football durante le partite notturne. Un giorno artificiale e abbagliante si rovesciò sul campo e le tribune silenziose, vuote; in lontananza, le porte di meta perforavano la notte con ombre crescenti. L'abitacolo della macchina si accese, rendendo la mano di Steven un oggetto bianco che stringeva una scheggia di fuoco, e il volto di Dennie una maschera da pagliaccio, lacrime scintillanti che gocciolavano fino alla bocca spalancata e alla mano che gli mordeva la gola. C'era luce, eppure non riusciva lo stesso a vedere il volto dell'uomo alla guida; il buio si era condensato appena dietro il volante, ma non spariva. Da quella tenebra provenne di nuovo la voce dell'uomo, e il sussurro calò di tono, ancora più intenso. — Forza... forza, Steven... Steven si allontanò dal volto buio e abbassò gli occhi su Dennie. Gli occhi del giocatore di football incontrarono i suoi; al limitare del buio al loro centro, Steven vide il riflesso del coltello, un frammento aguzzo che brillava di una luminosità sua. Dennie si lasciò ricadere nell'angolo fra sedile e portiera, nel tentativo di allontanarsi dalla lama, combattendo inutilmente con le mani la forza che gli stringeva il collo. Al bagliore dei riflettori, il volto gli si annerì di sangue, la lingua protesa in cerca d'aria. Qualcosa - una parola, un nome - scivolò fuori dal gorgoglio di terrore: a Steven parve quasi di sentirlo, quello che Dennie cercava di dire, cosa voleva implorare... Poi il pugnale calò. Il punto di luce precipitò verso il basso e la parola che ribolliva in gola a Dennie si tramutò in un urlo, un urlo soffocato nel silenzio, solo un sibilo di choc e dolore. Il volto di Dennie si contorse, gli occhi serrati, le labbra tirate sui denti. La mano dell'uomo strinse più forte la gola di Dennie, e le urla morirono tra le dita che affondavano nella carne molle. Qualcosa di caldo bagnò la mano di Steven. Lui abbassò lo sguardo e vide l'impugnatura del coltello: la lama era sparita dentro il torace di Dennie, il metallo aveva tagliato la giacca e la, camicia. Steven teneva ancora il coltello, la mano stretta sull'impugnatura. Qualcosa di nero e umido gli risalì la mano, caldo, fra le dita e il pollice. Qualcosa che inzuppò la camicia di Dennie e poi la giacca.
Di nuovo il flusso scintillante che sgorgava dal foro fatto dal coltello, un'esplosione fino al polso di Steven. L'uomo al volante aveva lasciato andare la gola di Dennie, ma Dennie non si mosse e non cercò di allontanarsi. La testa gli dondolava contro la portiera, e le strisce rosse lasciate sul collo dalle dita dell'uomo svanirono lentamente. E lui non poteva lasciarlo andare. La cosa che era stata Dennie cadde scivolando lungo il sedile anteriore, ma Steven non riusciva a lasciarlo. La mano gli rimase stretta sul coltello che scivolava fuori dal petto di Dennie, e il liquido luminoso schizzò in alto, verso di lui... Fu il suo grido a risvegliarlo. Da quella luce accecante al buio della camera da letto: l'urlo gli si strozzò in gola quando cercò l'aria. Steven si sentiva galoppare il cuore nel petto. Batteva alla stessa velocità con cui pulsava il sangue del sogno, quel sangue risalito lungo il coltello e poi sulla mano. Nero nell'ombra, e poi di un rosso acceso nel fluire dal torace di Dennie e sul polso. La mano di Steven che stringeva forte l'impugnatura, le dita congelate, incapaci di mollarla... Si alzò a sedere sul letto, sollevandosi sui gomiti dal cuscino umido di sudore. Teneva la destra stretta a pugno, con il lenzuolo annodato nel palmo. Lo lasciò andare, allargando lentamente le dita irrigidite, e il sangue rifluì nella carne sbiancata. I segni delle unghie erano mezzelune rosse allineate sulla pelle. Silenzio, nella camera da letto: Steven voltò la testa, per ascoltare. In lontananza, verso il soggiorno, sentiva il russare di sua madre, quel raschiare liquido e profondo, gutturale, e il mormorio della TV. Nessuno si era svegliato, nessuno aveva sentito il suo urlo rapido e affannoso. Sotto il silenzio della camera, gli parve di sentire ancora l'eco del grido che svaniva agli angoli, offuscato dalla luce lunare che scivolava oltre le tende. Si rigirò le mani, fissandole. Un sogno, Dennie e la macchina nera, proprio come l'uomo all'interno. Sempre sogni... Il sussurro dell'uomo, la voce vicinissima all'orecchio... "Forza... così... forza, forza..." Sentiva anche quella. Non come eco all'interno della stanza, ma nella mente. C'era ancora, sussurrava ancora. "Forza..." La voce, il sussurro dell'uomo al volante: quella l'aveva nella mente. Ma l'altro rumore che aveva sentito... Si girò verso la finestra accanto al letto. Il rumore veniva da là, in lontananza.
Il ronzio di un motore d'auto che si avvicinava. Steven spinse via la coperta e si alzò, sentendo il freddo del pavimento contro i piedi. Si avvicinò alla finestra e tirò la tendina, appena quel tanto che bastava per sbirciare fuori. La strada era illuminata di azzurro, piena della luce lunare come un mare immobile fra le abitazioni. Nessun'altra luce, tutte le finestre buie fin dove riusciva a vedere, l'ora del silenzio in cui dormivano tutti. Nessun'altra luce, finché il rumore dell'auto crebbe come un mormorio che sfiorava l'orecchio di Steven. E due punti di luce uscirono da un angolo, una sagoma nera che svoltava. Fari. Steven se li sentì passare sulla faccia. Si ritirò dalla finestra, ma non poté fare a meno di guardarli mentre avanzavano. I fari si avvicinarono. Ora vedeva la macchina nera e l'ombra al volante. Che restituiva il suo sguardo, anche se Steven non riusciva a vederne gli occhi. Ma lo sapeva comunque. Dentro la macchina c'era qualcos'altro. Abbandonato contro la portiera di destra, accanto al guidatore. Immobile. La macchina nera proseguì verso casa di Steven. Ora vedeva cosa c'era dentro oltre all'uomo. Qualcosa di bianco, un volto da cui era defluito tutto il sangue, inerte contro il vetro del finestrino. La bocca di Dennie era spalancata, la lingua pendeva da un lato. Gli occhi erano due fessure cieche, di cui si vedeva solo il bianco. Steven non avrebbe saputo dire se Dennie era ancora vivo: a mano a mano che l'auto avanzava, il volto bianco scivolava lungo il vetro, lasciandovi una scia rossa dalla bocca aperta. Steven si ritrasse dalla finestra, la macchina continuava ad avanzare lungo la strada, verso la casa. Lasciò ricadere la tenda. Si rannicchiò sotto la finestra, stringendo le ginocchia al petto, mentre il rumore del motore saliva e saliva, non più un mormorio ma un ruggito. Finché non capì che era proprio fuori dalla casa, e gli parve di sentire la voce in mezzo a quel rumore... "Steven... forza..." Poi svanì. All'esterno, la macchina nera se ne andò e svanì in fondo alla strada deserta. Di nuovo nel buio. Perfino quando la notte fu tornata silenziosa, e l'unico rumore fu quello del cuore che gli pulsava nel petto, Steven rimase fermo dov'era, raggomitolato con il volto premuto contro le ginocchia. 12
L'ora zero profumava di erba umida. Al ragazzo con il taccuino piaceva quell'odore, e anche quell'altro, che non era affatto un odore, ma la sensazione pungente e fredda che dava l'aria la mattina presto, quando il respiro usciva sotto forma di nuvolette di vapore. Il tempo era cambiato di punto in bianco: i venti del deserto si erano fermati e l'inverno vero prendeva il sopravvento. Il ragazzo portava il taccuino nell'incavo del gomito, le mani affondate nelle tasche della giacca per scaldarle, e ascoltava il capobanda che soffiava nel suo fischietto, un suono lacerante. Al liceo la chiamavano ora zero perché le lezioni regolari non cominciavano fino alla prima, educazione fisica compresa; per cui, se quelli della banda scolastica volevano fare esercitazione sul campo di football, dovevano uscire tutti molto presto. Al ragazzo col taccuino la cosa non dava fastidio, come del resto a quasi nessun altro nella banda, anche se significava doversi alzare un'ora prima di tutti gli altri, vestirsi e fare colazione mentre fuori era ancora buio, Cristo santo - il ragazzo col taccuino stava mostrando i primi sintomi di dipendenza da caffè forte - e organizzare ogni genere di accordi per passarsi a prendere in macchina, perché gli autobus non passavano così presto. Ma a nessuno importava più: erano arrivati tutti al punto in cui lo avrebbero fatto solo per divertimento, anche se la cosa non faceva guadagnare punti scolastici. L'unico problema era che quello era il momento cruciale della giornata, e bisognava sopportare tutte quante le lezioni solo per arrivare al doposcuola e potersene stare a far niente e scherzare nella sala della banda. Quasi tutte le ragazze della banda portavano sacchetti di plastica sopra le scarpe per non macchiarsele con l'erba bagnata. La ragazza della sezione flauti con cui il ragazzo col taccuino usciva la sera si piegò ad allacciarsi l'elastico alla caviglia, e lui si fermò ad ammirarle il posteriore. Poi entrò nel campo mentre il capobanda - l'unico segno di riconoscimento del suo grado era il bastone con la pallina cromata all'estremità - cominciò a soffiare nel fischietto e a spingere tutti nei ranghi. Per poco due basso tuba non si scontrarono, con quelle grandi campane che si sfioravano a distanze di pochi centimetri. I ragazzi avvolti nei grossi tubi d'ottone si fecero una bella risata: quelli delle sezioni bassi nelle bande marcianti erano sempre dei gran buffoni, e il ragazzo con il taccuino non era mai riuscito a capire perché. — Avanti, avanti... — II capobanda aveva rinunciato al fischietto per iniziare a urlare. — State perdendo un casino di tempo, ragazzi...
Il ragazzo col taccuino sentì i tamburini rullare finalmente la cadenza iniziale mentre percorreva la stradina di servizio che portava al campo. Si prese di tasca il mazzo di chiavi del conduttore - gli affidavano le chiavi anche quando il conduttore non era nella sala prove a trascrivere le parti - e aprì il lucchetto del cancello che portava al campo. Tirò fuori la catena tintinnante e spalancò la cancellata, fino a farle toccare la recinzione di rete metallica. Era di quello che si occupava il ragazzo, oltre a scrivere i testi che recitava dal leggio per gli annunciatori in cima alle tribune, i venerdì e i sabato sera durante gli intervalli delle partite del campionato di football. Non marciava più con la banda, già dal secondo anno di scuola, quando aveva iniziato a scrivere i testi: sostanzialmente perché era incapace di suonare qualcosa che non fosse il fagotto, il che andava benissimo per l'orchestra scolastica, ma avrebbe fatto pisciare sotto dalle risate in una banda: chi mai sarebbe riuscito a sentire un fagotto in mezzo a tre file di trombettisti che suonavano a pieni polmoni? Sarebbe stato come vedere un mimo che si esibiva con un tronco d'albero appeso al collo. Ma poteva comunque portare l'uniforme della banda, che era niente male, compreso il grande colbacco impellicciato come quello che si vedeva nelle foto delle guardie di Buckingham Palace, e inoltre godersi tutte le stronzate della banda. Almeno in quella scuola, far parte della banda comportava un minimo di prestigio. Il ragazzo col taccuino pensò che in un certo senso era un peccato dover avere la scusa delle partite di football per poter mettere in scena quegli spettacoli da intermezzo. Ai tempi in cui era matricola, la banda era una specie di patetica appendice della squadra di football, con il compito di gracchiare la canzone di guerra dell'istituto ogni volta che la squadra segnava e l'Alma mater alla fine della partita. Gli spettacoli di intrattenimento erano così miseri che tutti gli occupanti delle tribune, perfino i genitori dei ragazzi della banda, si alzavano per andare al chiosco a prendere hot dog e Coca-Cola. Il ragazzo col taccuino ricordava di essersi sentito a metà fra l'imbarazzato e il sollevato nel vedere che nessuno ascoltava. E per di più a quei tempi la squadra aveva un certo successo, veniva invitata agli incontri di distretto e nazionali, reggendosi quasi del tutto sulle spalle del capitano, un divo, un vero talento naturale che aveva già firmato un pezzo di carta in cui si dichiarava che sarebbe andato a giocare per uno dei grandi college come quelli che si vedevano in televisione. Poi erano successe due cose: il capitano si era diplomato ed era partito alla volta di quel grande istituto, senza farsi mai più sentire, e al liceo era arrivato un
nuovo direttore della banda. Che aveva cominciato a tirare calci in culo. Nello stesso tempo in cui la squadra di football finiva diritta nel cesso e ci rimaneva, la banda stava diventando un numero sempre più forte. Tanto per cambiare, avevano smesso di marciare in riga, ma quando suonavano sputavano l'anima, con arrangiamenti che il direttore aveva preso dai brani classici più d'effetto. Cristo, quell'anno il brano introduttivo, quello che suonavano all'entrata in campo prima dell'inizio della partita, era niente di meno che il "Coro dei soldati" dal Faust. Con un gran rullare di tamburi e una melodia suonata dagli ottoni che si scioglieva nell'aria autunnale come l'esplosione di un razzo, un Quattro di Luglio in anticipo. Troppo bestiale per crederci, ma dalla sua postazione nella cabina degli annunciatori, il ragazzo col taccuino si era accorto del cambiamento: ora la gente andava al chiosco durante la partita - perché mai starsene là solo per vedere la squadra di casa che si faceva prendere a calci in culo? - e riempiva le gradinate quando arrivava il momento dell'intervallo. Bestiale, bestiale davvero. Il ragazzo sfogliò le carte raccolte sul taccuino, per controllare le formazioni e i brani su cui esercitarsi. La banda stava già risalendo la stradina di servizio, destra-sinistra-destra, muovendosi al ritmo della cadenza battuta sui rullanti, diretta alla cancellata. In un certo senso, gli dispiaceva per quei poveri coglioni della squadra di football. Il liceo, per loro, non si stava affatto rivelando conforme alle aspettative. Avevano sbattuto le teste vuote contro una delle crude verità del comportamento umano: a nessuno fregava il benché minimo cazzo dei perdenti. Probabilmente nella scuola c'erano atleti migliori di certi bovini che giocavano nella squadra dell'istituto, ma chi mai avrebbe voluto ingaggiare una formazione che era diventata fonte d'imbarazzo per tutti? Cristo, il ragazzo col taccuino era amico di un paio di altri che se n'erano andati dalla squadra per entrare nella banda. Il che aveva fatto incazzare a morte gli allenatori: il ragazzo li aveva visti rivolgere sguardi di morte al conduttore della banda dai lati del campo. Andassero a prenderlo in culo. Non gliene fregava proprio una sega se a un branco di Neanderthal gonfi di birra si spezzava il cuore. Neanche se fossero stati Neanderthal bravi e buoni. Proprio in quel momento la banda stava marciando oltre la cancellata, la sezione tamburini picchiava a tutta forza e la piccola flautista gli aveva rivolto un sorriso nel passargli davanti con gli altri: meno male che non l'aveva visto fissarle il culo così apertamente, perché era un po' suscettibile. L'aria fredda del mattino gli risuonava dentro, e se avesse potuto far durare per sempre quel piccolo frammento
del suo ultimo anno scolastico, un'eterna ora zero, per lui sarebbe stato il paradiso. Quando anche i basso tuba, nell'ultima fila della banda, ebbero varcato la cancellata, il ragazzo li seguì sul campo. — Ehi, cos'è quella stronzata laggiù? — II capobanda prese il suo bastone con una mano sola e lo usò per indicare il centro del campo di gioco. — Cosa? — II ragazzo col taccuino dovette mettersi una mano a coppa attorno all'orecchio per riuscire a sentire l'urlo contro il frastuono dei tamburini. — Da quella parte... — gli indicò di nuovo il capobanda. Aveva portato la banda in formazione nella zona d'estremità, e la stava facendo marciare lungo un lato del campo, facendole attraversare tutte le linee delle dieci iarde una per una. Stava indietreggiando per portarsi di fronte alla prima fila di suonatori, e chiamò il ragazzo col taccuino. — Quella roba laggiù. Il ragazzo si voltò e guardò dall'altra parte del campo da gioco. Una transenna, del mucchio di quelle che di solito venivano chiuse nel magazzino per il materiale tecnico dietro le gradinate. Qualcuno l'aveva trascinata fuori e lasciata sulla linea delle cinquanta iarde. E c'era qualcos'altro, disteso contro la sbarra trasversale della transenna, qualcosa che assomigliava a uno dei sacchi neri pieni di palle ovali che la squadra portava fuori agli allenamenti. La tela era zuppa di rugiada. — Non capisco proprio — gridò lui in risposta al capobanda. — Be', Cristo beato, portala via da là. — II capobanda aveva alzato il suo bastone con entrambe le mani, pronto per dare la prima battuta della rullata. — Ce l'abbiamo proprio fra le palle. In realtà non era vero, ma lo sarebbe stato nel momento in cui la banda avesse fatto il giro dall'altra estremità e fosse tornata indietro lungo il campo. Lui posò il taccuino sulla prima fila delle gradinate. — Ehi, Ed, dammi una mano, ti spiace? — II suo amico nella sezione corni francesi uscì dalle righe e depose lo strumento sopra il taccuino. Si diressero insieme verso la transenna; alle loro spalle risuonarono le battute iniziali di El Capitan. — Si può sapere che cazzo è questa roba? — Nell'avvicinarsi, il ragazzo aveva notato che il sacco di tela era vuoto, ma deposto come una coperta sopra qualcos'altro. Ne sentiva l'odore, veramente lercio, e si domandò se quelli della squadra non avessero deciso di piazzare in campo qualcosa di fetido con l'idea di fare uno dei soliti scherzi da microcefali. Non gliel'avrebbe fatta passare liscia. Ed si allungò e tirò un angolo del sacco di tela. — Ma che Cristo... Il ragazzo riconobbe il faccione che penzolava, il corpo piegato in due
sopra la sbarra della transenna. Era uno dei ragazzi della squadra di football, uno di quelli più grossi e stupidi di cui a nessuno a scuola importava niente, un vero stronzo che si chiamava... Rifletté lentamente, come se il tempo si fosse arrestato con la rivelazione di quella faccia rivolta a terra con la bocca spalancata. Dennie, ecco come si chiamava. Probabilmente quel gorilla stava smaltendo la sbronza. Era per quello che stava lì, talmente fuso marcio da non essersi nemmeno accorto che i suoi amici lo avevano lasciato su una transenna come un sacco di cemento. L'intera squadra al completo sembrava passare le nottate a rovinarsi, neanche con del fumo o altro per cui fossero costretti a tirare fuori soldi, no, solo con litri e litri di birra che qualche ammiratore continuava a regalargli. Lo sapeva tutta la scuola. Ubriachi marci di continuo, e la smaltivano dovunque capitasse... Poi il sacco di tela scivolò completamente e cadde per terra. — Cristo d'una madonna! — I due fissarono lo spettacolo. La transenna si ribaltò, come al rallentatore. Il corpo del giocatore di football precipitò a terra, una guancia che scivolava contro l'erba, un grumo rosso che colava dalla bocca aperta. E allora videro tutto. I jeans di Dennie abbassati fino alle caviglie, il fiore di sangue che macchiava le natiche bianche, il varco rosso che saliva da quel punto fino al ventre e più su ancora, il sangue che inzuppava la camicia e la giacca lacerate. Dennie rimase disteso sull'erba a fissarli con quell'unico occhio beota, senza vederli. La musica cessò. Il ragazzo la sentì morire in sibili di fiati e bacchettate fuori tempo. A qualche metro di distanza gli altri avevano visto tutto, quella creatura distesa sull'erba del campo. Il ragazzo si girò, con le parole congelate in gola come una pietra. Poi non ci fu tempo per dire niente, perché qualcuno, una delle ragazze, aveva cominciato a strillare, e il suono riempì completamente l'aria. Steven li guardò portare via il cadavere. Un paio di autopattuglie della polizia avevano parcheggiato sulla pista circostante il campo, e c'era un veicolo che assomigliava a un'autoambulanza, uno di quei grandi furgoni dipinti di bianco con le sirene sul tettuccio. Strinse con le dita le maglie della rete di recinzione, premendo il volto contro il filo metallico nel tentativo di vedere cosa stesse succedendo. La polizia aveva circondato il campo di football con quella specie di nastro giallo, come quello che si vedeva sempre al notiziario in televisione,
su cui era scritto decine e decine di volte VIETATO L'ACCESSO - INDAGINE DI POLIZIA IN CORSO – VIETATO L’ACCESSO... Lo avevano teso intorno alla recinzione del campo, per tenere indietro una calca di adolescenti che si erano raccolti vicino alla cancellata. Steven sentiva il chiacchiericcio rapido, i sussurri veloci e le parole praticamente appiccicate l'una all'altra delle ragazze, riunite in gruppetti e coppie con i libri stretti al petto e le fronti che si toccavano. Molti stavano in punta di piedi e allungavano il collo per vedere la scena oltre le teste degli altri. La folla di studenti si trovava in lontananza; dov'era, Steven non aveva nessuno intorno. Proprio al confine del terreno su cui sorgeva il liceo, nel punto in cui un'altra recinzione fiancheggiava la stradina di servizio dividendo la scuola da una lunga striscia di terreno vuoto e coperto di erbacce oltre il quale c'era casa sua. Ogni volta che Steven andava a scuola - non ci andava spesso come gli altri bambini, e a nessuno sembrava importare gran che - prendeva quella scorciatoia. Ma quella mattina non ci stava andando; aveva già capito cosa avrebbe visto nel momento in cui si era avvicinato al liceo. Ora sul campo c'era un bel mucchio di persone: gente che sapeva essere poliziotti a causa delle uniformi che portavano, e gli altri, che erano qualcosa di simile, anzi, erano poliziotti veri e propri; lo sapeva perché vedeva gli sceneggiati televisivi. Solo che si occupavano di altre cose. Come quelli che avevano fotografato Dennie e tutto quanto intorno, con le macchine che mandavano piccole esplosioni di luce. E gli altri, che prendevano misure con i metri a nastro, o riempivano di cose varie sacchetti di plastica che poi etichettavano, inginocchiati in mezzo allo spiazzo di erba umida. Sul campo stavano succedendo molte cose. Tuttavia sembrava che stesse per finire. Alcuni poliziotti se n'erano andati, portando con sé la propria roba. La creatura che era stata Dennie, ormai ridotta solo a una sagoma sotto un lenzuolo di plastica, veniva sollevata su una specie di carrello. Stavano cominciando a portarlo verso gli sportelli aperti dell'ambulanza, quando il rumore della folla salì all'improvviso. Steven guardò in quella direzione. Un gruppo di ragazzi della squadra di football, tutti in giubbotto con il simbolo del liceo, si stavano facendo largo a spinte per passare di fronte alla folla. Uno di loro - Steven lo riconobbe dai party al drive-in, ma non ne conosceva il nome - dava fuori di matto, urlava qualcosa, forse il nome di Dennie, ma con il volto contorto e bagnato di lacrime che gli scendevano sulle guance. Probabilmente era sbronzo già a quell'ora del mattino. Steven provò una
certa nausea nel fissarlo. Il ragazzo stava cercando di oltrepassare il nastro giallo ed entrare nel campo, dove si trovava Dennie; il poliziotto che piantonava la cancellata e un paio dei compagni di squadra del ragazzo si stavano dando da fare per tirarlo indietro. Si stava comportando come se fosse in un film, probabilmente nel modo in cui pensava tutti si aspettassero di vederlo comportarsi. Tutto sconvolto, a fare il buffone con quella scenata di dolore. Era stupido, neanche gli avessero ammazzato il fratello. Steven ascoltò le urla del ragazzo, grandi strilli singhiozzanti che arrivavano fino a lui. La cosa veramente stupida era cercare di creare qualcosa dal niente in quel modo, di mettere qualcosa dove c'era soltanto un foro, uno spazio vuoto con il buio al centro. Era proprio così. Proprio come nel suo sogno. Solo il buio... Non lo sapevano... non ancora... Il sogno. Steven alzò gli occhi, più su del campo e della gente che vi correva dentro. Di lato, verso le gradinate. Più in alto, i riflettori torreggiavano sui pali metallici; ora erano spenti, in fila come volti rotondi e inespressivi, volti senza occhi. La prima volta che li aveva visti illuminavano il cielo, una luce che invadeva il campo e l'abitacolo della macchina, il mondo intero, con una luce che aveva reso la faccia di Dennie una maschera bianca da pagliaccio, lacrime di panico e dolore che gli scendevano sulle guance, una luce che cancellava tutte le ombre tranne quelle che circondavano l'uomo al volante, quelle che mantenevano il suo volto invisibile nell'oscurità. Dov'era successo... Era successo proprio lì, ora lo capiva. Nel sogno. Le luci che esplodevano come fuoco, sul campo e sulla macchina nera, e il mondo all'interno... — Ehi... ehi, ragazzo... Steven aveva fissato i riflettori così intensamente che non si era accorto che qualcuno gli si stava avvicinando. La voce, una voce adulta, lo colse di sorpresa. Girò la testa e vide un poliziotto ergersi su di lui, allungare una mano massiccia dalle dita robuste. Mise una mano sulla spalla di Steven. Ma lui stava già scappando, via dal poliziotto e dalla recinzione e da tutto quello che aveva visto oltre di essa. Correva lungo la striscia di terra di nessuno a lato della scuola, diretto alle strade più oltre. Sentì il poliziotto gridargli: — Ehi... aspetta... Continuò a correre. Taylor si stava dirigendo verso casa in ritardo. Una volta terminato il
turno dei sepolti vivi al riformatorio, e arrivato il personale diurno a prendere servizio, stava andando a prendere la macchina nel parcheggio quando si era ricordato di aver finito il latte. Aveva lasciato sul tavolo della cucina il cartoncino che Anne gli aveva portato, e così era inacidito: se n'era accorto dall'odore sospetto nell'avvicinarselo al naso. Vicino all'autostrada c'era un Seven-Eleven, così era salito in macchina e vi si era diretto. Poi era capitato che il commesso del negozio fosse un veterano del riformatorio, un ragazzo che Taylor aveva visto entrare e uscire dalla porta girevole del dipartimento libertà vigilata per un paio d'anni. Ora aveva diciotto o diciannove anni, e se la cavava abbastanza bene, almeno per quanto riguardava lo starsene fuori dai guai, da sperare in un lavoro regolare. L'idea di venire processato da adulto per tutti i reati da quattro soldi commessi da ragazzo aveva fatto miracoli sul suo comportamento: non ci voleva un genio per capire che finire in una prigione vera non sarebbe stato certo una passeggiatina come il carcere dei ragazzini. Così si era visto costretto a subire una lunga conversazione, quel ragazzino che gli chiedeva degli altri membri del personale che ricordava, neanche fosse un neolaureato che chiedeva notizie dei suoi vecchi insegnanti. Quando finalmente riuscì a districarsi e tornare in macchina, Taylor pensò che il riformatorio, per quel ragazzo, sarebbe stato l'unica scuola che avrebbe mai avuto. Considerato il retroterra familiare della maggior parte dei ragazzini che finivano dentro, c'era da pensare che con tutta probabilità il commesso aveva passato al riformatorio le ore migliori della sua vita. Il giro al Seven-Eleven aveva portato Taylor dalle parti del liceo. Si accorse del trambusto da un paio di isolati di distanza: qualsiasi cosa mettesse insieme adolescenti e polizia ridestava sempre il suo interesse professionale. Accostò al marciapiede, dall'altra parte della strada rispetto al campo di atletica del liceo, e abbassò il finestrino per vedere meglio. Autopattuglie, un cadavere coperto da un lenzuolo che veniva caricato su un'ambulanza. Conosceva benissimo le procedure, dalla volta in cui era morto il ragazzo nel suo turno. Su quel campo di football era successo qualcosa, e in seguito a quel qualcosa era rimasto per terra un mucchietto di ossa fredde con gli occhi rivolti al cielo. La folla di adolescenti stretti dietro il nastro giallo della polizia assisteva interessata. Forse era uno dei loro? Difficile capirlo. Poteva benissimo trattarsi di un vecchio ubriacone uscito dal suo nido sotto i ponti dell'autostrada e il cui cuore aveva deciso di tirare le ultime in un bel posticino pubblico. Quei ragazzini, con le loro fissazioni morbose, lo avrebbero trovato al-
trettanto affascinante. Alcuni insegnanti erano usciti dalla scuola e stavano rompendo la calca per allontanarli dalla rete metallica che circondava il campo. Una campanella squillò per farli muovere più in fretta. Taylor alzò gli occhi allo specchietto prima di staccarsi dal marciapiede. Una sagoma schizzò dall'altra parte della strada più indietro. Un ragazzino che scappava, più giovane di quelli ammucchiati intorno alla recinzione per guardare il cadavere che veniva portato via. Gli parve di averlo riconosciuto, ma non ne era certo. Era già scomparso, lungo una stradina fiancheggiata di abitazioni, prima che Taylor riuscisse a girare la testa. Dall'altra parte della strada, gli sportelli si richiusero, e il carico lugubre rimase nascosto dentro il furgone. Taylor mise in marcia e si diresse verso casa, sentendosi stanco. 13 Non era granché, come party. Felton aveva portato un bel po' di cassette di birra, e tutti si servivano a volontà, ma nessuno rideva e scherzava come al solito. Parlavano semplicemente a bassa voce, seduti sui paraurti delle macchine intorno al vecchio snack bar, e continuavano a ingozzarsi di birra, affondando in un lento torpore. Felton aveva infilato un paio di nastri nuovi nei videoregistratori dentro l'ufficio, roba che gli era arrivata da un tipo del New Jersey, un poco di buono che si era fatto anni di galera per certe cose che spediva via posta, ma che in seguito aveva ridotto il proprio campo d'affari a mercé accettata dal servizio postale. Eppure Felton aveva fatto la scenetta di strizzare l'occhio e dare di gomito nelle costole a tutti quelli della squadra, rivolgendo loro quel suo ghigno viscido e sudaticcio, per cui non si sapeva che razza di roba sconvolgente ci fosse in quelle videocassette. A sentire Felton, sembrava che guardare delle vecchie troie con le smagliature e gli occhi spenti che si sditalinavano a vicenda fosse la cosa più eccitante del mondo. Ma nessuno aveva voglia di vedere le cassette sconce di quel vecchio testa di cazzo, non in quel momento, non con un morto che pesava come un macigno dentro le budella di tutti quanti. Felton era scocciato, perché per lui la festa era starsene seduto a guardare film porno circondato da adolescenti; così si ritirò nell'ufficio, a far fuori tetro una delle cassette di birra e a guardare i film per conto suo.
Anche le ragazze se ne stavano in gruppo per conto loro. Come se avessero il permesso di stare alla festa, ma non di parteciparvi. Era una cosa riservata ai maschi, qualcosa che spartivano tra di loro, che ingoiavano e si lasciavano scorrere nelle vene come una specie di sangue comune, come le birre che stringevano nel pugno e nella gola. Niente dolore, ma rabbia cupa e piena di borbottii. Però uno di loro piangeva. Lo faceva da tanto che la faccia gli si era gonfiata tutta, come quella di un bambinetto con il moccio che gli si mescolava alle lacrime. Fino al punto da creare imbarazzo a tutti, come una nota acida e stonata in sottofondo a quella che esprimeva la loro rabbia. Larry avrebbe voluto che quel tipo se ne stesse zitto. Si appoggiò alla griglia cromata del radiatore di una macchina a guardare quel cretino piagnone. La lattina di birra che teneva in mano si era riscaldata, ancora mezza piena. All'inizio non voleva bere proprio niente, ma sapeva che avrebbe dovuto farlo se voleva essere insieme a tutti gli altri. Alla squadra. Il tizio che piangeva - lo stesso che aveva fatto la scenata quella mattina a scuola quando la polizia si era messa a fare le sue cose e poi avevano portato via il cadavere di Dennie - si asciugò il naso con la manica della giacca, sulla quale rimase una strisciata umida come quella di un lumacone. Ci erano voluti tre dei suoi compagni di squadra per tirarlo via dalla recinzione intorno al campo di gioco, solo per come si era messo a strillare e piagnucolare. — Gliel'avevo detto... — II tipo aveva la voce tutta sputtanata dalla birra. — Gliel'avevo detto, io, di non fare più quelle stronzate... gliel'avevo detto... Larry sorseggiò la birra calda. Erano tutti stufi marci di quel cazzone. Perfino le ragazze, che se ne stavano un paio di metri più indietro nel loro branco sussurrante, lo guardavano piangere scuotendo la testa. Un altro ragazzo, un placcatore di seconda posizione, si passò una lattina di birra vuota sul palmo della mano. Il suo borbottio spezzò il silenzio: — Adesso lo sapranno tutti, in quello schifo di scuola... Mick, il capitano della squadra, gli rivolse un'occhiata di disgusto. — Chiudi la bocca. — Aveva l'aria di volersi allontanare dal paraurti della sua macchina e avvicinarsi al tizio per tirargliene uno nei denti. Quello che aveva parlato ammutolì debitamente, lo sguardo fisso nell'apertura a strappo della sua lattina di birra. Che cosa stupida da dire. Larry si domandò se ci fosse qualcuno a scuola che non l'aveva saputo. Di Dennie, e di quello che gli piaceva fare. Il gene-
re di casini che andava a cercarsi. E che aveva finalmente trovato. Forse era proprio quello che voleva trovare. Il pensiero risalì alla mente di Larry da qualche angolo buio. Non reggeva la birra, solo il sapore gli raggricciava la lingua, e così mezza lattina era sufficiente a liberare certi pensieri, a tirarli fuori, cose che altrimenti non si sarebbero mai dette nemmeno a se stessi. Ma in fondo, lo sapevano tutti che Dennie era così. Non perché era una checca, lo sapeva Cristo che di quelle cose non importava più un cazzo a nessuno, ma perché era marcio in un modo diverso. Era malato e gli piacevano le cose malate. Malate... Larry si strofinò la lattina di birra sulla fronte, ma non serviva più a raffreddare il sangue sotto la pelle. Era proprio quello che pensavano tutti... Mick schiacciò una lattina vuota nel pugno, con un crepitio secco di metallo. La gettò nel buio. — Brutti froci di merda... Lo stordimento della birra scomparve dalla mente di Larry. Per un istante, gli parve di non trovarsi davvero là insieme a tutti gli altri. Come se un intero nuovo mondo gli si fosse avvolto intorno, e tutti gli altri, la squadra, fossero rimasti in un altro. Un altro mondo che lui vedeva e osservava, ma i pensieri che brulicavano dietro i volti erano qualcosa di diverso, non come i suoi. Mick aveva l'aria di voler ammazzare qualcuno. "Froci di merda." Gli altri avevano annuito, accigliandosi e mormorando in segno d'assenso quando le parole rabbiose di Mick si erano rovesciate nell'aria della notte. Ma era Dennie... Larry voleva urlarglielo, entrare di forza in quel piccolo mondo del quale non faceva più parte. Era quello che Dennie si era andato a cercare, e che aveva trovato. Serrò la bocca, richiudendo dentro le parole. Non sarebbe servito a niente cercare di dire loro quello che sapevano già. Proprio a niente. Piegò le braccia sul petto, per scacciare il freddo. Anche se era solo, era sempre circondato dagli altri. A loro non sarebbe piaciuto sentirgli dire qualcosa di diverso, diverso da quello che avevano già deciso e dato per scontato in fondo al cuore. Chiuse gli occhi. Sentiva più nausea che paura. Meglio starsene zitti, lasciare che tutto passasse. Steven sedeva al buio, a osservare i ragazzi della squadra di football. E le loro ragazze, fra cui Kris. Tutti seduti in cerchio a parlare e bere. Non lo sapevano. Non ancora.
Si appoggiò al sostegno dell'altoparlante, stringendo le ginocchia al petto. Proprio come le altre volte, sua madre lo aveva costretto ad andare con sua sorella al party: la solita grandissima scemenza dello "chaperon". Quella sera, nel sedile posteriore della macchina di Mick, si era finalmente reso conto che sua madre non ce lo mandava ogni volta per tenere sua sorella fuori dai guai, per impedirle di combinare le porcate che sicuramente avrebbe combinato se con lei non ci fosse stato il fra telline. Neanche sua madre poteva essere tanto distrutta e fusa dal bere. Cristo, la mamma era già capitata nella camera di Kris e aveva trovato Mick nel suo letto, tutti e due addormentati, ancora sudati per quello che avevano fatto. La mamma sapeva da sempre cosa faceva Kris. La grande intuizione di Steven consisteva nel rendersi conto che a lei non importava niente. E se lo mandava con Kris dovunque lei andasse insieme a Mick, era solo perché non lo voleva in casa. Niente più. In modo da potersene stare sola davanti alla TV, con uno spazio vuoto e silenzioso tutto intorno, la casa piena delle grida della TV e dei sussurri della bottiglia. In modo da poter scivolare nel sonno senza nessun altro fra i piedi. Se n'era appena reso conto per la prima volta, e si sentì stupido per non averlo capito prima. Ma gli si stavano aprendo agli occhi molte cose. Era tutto diverso, come se vedesse tutto per la prima volta. Come i ragazzi della squadra, Mick e tutti gli altri. Non erano più gli stessi. Si sentì quasi triste per loro. Perché non sapevano ancora. Continuavano tutti a parlare e bere, in mezzo al frignare di quello grande e grosso. Era un'unica grande messinscena. Steven era felice di essersi allontanato non appena Mick aveva parcheggiato la macchina. Lontano da loro, nel buio, dove le loro voci sembravano minuscole e flebili, lontane milioni di chilometri. Nessuno gli aveva prestato attenzione: erano tutti assorti in quello che era successo a Dennie. A pensare a come lo avevano trovato, con i pantaloni calati fino alle caviglie e il culo squarciato a quel modo. Steven sapeva che era a quello che stavano pensando, un'immagine di rosso sulla pelle bianca, la pelle di Dennie: anche se non l'avevano visto con i loro occhi, l'immagine c'era lo stesso, in un punto da cui non potevano tirarla via. E così non avevano guardato lui, non erano in vena per il genere di giochini che solitamente amavano. Come se fosse invisibile, come se non lo vedessero affatto. E c'erano altre cose che non vedevano. Cose reali. Steven girò la testa, allontanò lo sguardo dagli adolescenti stagliati nella luce che proveniva dalla porta dello snack bar. Fissò l'oscurità che circondava il drive-in. Loro
non vedevano cosa c'era là. Lui sì. Lontano, oltre la recinzione, sulla stradina che la costeggiava. Fari. Immobili. In attesa. Steven guardò di nuovo i ragazzi della squadra. Non se n'erano accorti. Si alzò in piedi, lentamente e con calma, tirando le gambe sotto di sé e spingendosi con le mani sull'asfalto. Tenne gli occhi fissi su di loro per accertarsene. I ragazzi della squadra e le loro fidanzate: nessuno lo vide. Era nascosto nel buio. Si girò e si allontanò da loro senza fare rumore. Finché non sentì più le loro voci. L'ombra della recinzione si stendeva verso di lui disegnata a losanghe, proiettata dai fasci di luce dei fari. Ora vedeva la sagoma della macchina, un oggetto nero contro il nero della notte. Vedeva perfino all'interno, oltre il parabrezza, dov'era seduto l'uomo al volante. Osservava e aspettava. Aspettava lui. Un'occhiata indietro, verso il centro del drive-in, e il piccolo alone di luce, minuscolo, un altro mondo. I ragazzi si vedevano appena, ombre disposte intorno al cerchio di automobili. Steven tornò a camminare verso la recinzione. Lentamente, percorse gli ultimi metri, fino a poterla toccare. Sentiva le maglie di ferro contro le dita, fredde. Avvicinò il volto alla recinzione, guardando la macchina nera. Una portiera si aprì. La luce all'interno dell'abitacolo non si accese: rimase tutto buio, e la sagoma al volante uscì. L'uomo si avvicinò a Steven. Lui si accucciò sui talloni mentre lo fissava. Si appese alla recinzione, la rete metallica che gli penetrava nella carne delle mani, per non scappare via. La sagoma dell'uomo passò di fronte ai fari dell'auto, cancellando prima l'uno e poi l'altro. Steven socchiuse gli occhi al bagliore della luce, e l'ombra dell'uomo gli passò rapida sul volto. Alla fine a separarli non ci fu che la recinzione. Alzò gli occhi verso l'uomo, la sagoma nera, il volto con quegli occhi che non si vedevano, che perforavano il cielo e le stelle. Lo sguardo dell'uomo lo inchiodò dov'era. L'ultima volta, quando si era trovato dentro la macchina nera, quando aveva visto tutto quello che succedeva, il coltello e la faccia di Dennie, e la propria mano stretta sul coltello... era stato tutto un sogno. Lo aveva pensato nel risvegliarsi, all'interno del buio della camera da letto. Un sogno vero, reale. Ma non vi si era trovato nella realtà. Nei sogni la gente vedeva cose che accadevano veramente ma non esistevano; lo sapevano tutti. Ma in quel momento, mentre guardava l'uomo della macchina nera, non era più sicuro di saperlo. Il modo in cui si era sentito nel sogno, quello spazio
angusto che gli si stringeva intorno, il piccolo mondo d'ombre che si muoveva e lo fissava... di nuovo gli si richiuse addosso, proprio come nel sogno. Ma sapeva di non sognare. Era fuori, nell'aria fredda della notte, lontano da tutti. Tranne l'uomo della macchina nera. L'unica altra persona al mondo. Lentamente, l'uomo girò la testa da un lato, poi dall'altro. Steven vide il profilo affilato come una lama. Sapeva che l'uomo si stava guardando intorno per vedere se c'era qualcuno. Frugava l'aria della notte, la assaporava in cerca del gusto caldo degli estranei. Gli parve di sentire lo sguardo gelido dell'uomo che scrutava l'oscurità. L'uomo girò di nuovo il volto nero verso di lui. Sfiorò la recinzione con una mano. Steven la sentì nella propria, non come un tremito, ma una morbida pressione che piegava la rete. L'uomo si chinò, avvicinando il volto a quello di Steven. I fari della macchina lo illuminavano sui due lati, un bagliore che stagliava la sagoma scura in una luce di un biancoazzurro purissimo. L'uomo piegò la schiena come un animale a cuccia, il volto a soli pochi centimetri di distanza. Lo sguardo si fissò in quello di Steven, penetrandogli fino al cervello. All'interno, come se quel mondo gli si fosse rovesciato dentro. — Steven... — sussurrò l'uomo della macchina nera, parole riservate solo a loro due e nessun altro. E un sorriso, dolce e fascinoso, nella voce. Che lo invitava a entrare ancora di più in quella piccola confraternita, il mondo intero avvolto su di loro. Si sentiva strano, come se quell'altro mondo, quello più grande, si fosse ribaltato per sfuggirgli da sotto i piedi, come sabbia trascinata via a una spiaggia dalle onde. L'uomo parlò di nuovo, un volto lontano due centimetri. — Steven... adesso sei felice? Taylor aveva aspettato tutta la notte. Finché non fu ora di uscire di nuovo nel buio. Aspettò fino a dopo mezzanotte, una volta sistemate tutte le procedure con cui iniziava il turno dei sepolti vivi: l'assegnazione delle nuove camere, la conta dei casi medici all'infermeria. Poi aveva preso la pila elettrica dal cassetto della scrivania lasciando la responsabilità a Repken, che stava sfogliando una rivista come al solito. Mentre attraversava il campo di atletica del riformatorio, pensò che forse
la squadra di football aveva deciso di fare a meno del consueto party. Visto quello che era successo al liceo, con uno dei loro trovato cadavere a quel modo, tagliato in due con le gambe piene di sangue raggrumato. Quel ragazzino imbecille batteva: stava scritto così nel suo incartamento penale, tutta una carriera di schede di accettazione al riformatorio, di notti a incontrare uomini a cui piaceva quel genere di cose e disposti a pagare per averle. Chiaro che neanche tutto l'oro del mondo sarebbe bastato a pagare chi non amava le stesse cose. Comunque quella piccola scoperta sul campo del liceo forse sarebbe bastata a convincere i compagni di squadra del morto a lasciar perdere la serata di birra. Nel silenzio degli spazi vuoti e bui che circondavano il riformatorio, non gli parve di sentire risa e urla portate dall'aria notturna, come al solito. Ma aveva altre ragioni per uscire, a parte controllare quello che la squadra di football poteva o poteva non combinare quella notte. C'erano altre cose, nella notte. Taylor raggiunse il cancello e si fermò. Accese la pila e fece passare il fascio di luce oltre la cancellata. La luce spazzò la stradina di servizio, allungandosi in un ovale obliquo quando la puntò verso l'entrata. Riuscì a distinguere la catena che penzolava dai bassi paletti metallici dei due lati, a bloccare l'accesso alla stradina. Riportò il fascio di luce sulla strada di ghiaia. Se c'erano impronte nuove, di macchina o altro, lui non le vedeva. Spense la pila. Prese le chiavi attaccate alla cordicella dalla tasca, aprì il cancello e avanzò sulla stradina di servizio. I ciottoli scricchiolarono sotto le scarpe quando si voltò a richiudere il lucchetto sugli anelli della catena. La sua ombra proiettata dai lampioni perimetrali in alto sopra la recinzione gli si allungò davanti, mentre attraversava la strada e risaliva il primo basso pendio delle colline. Nel giro di un paio di metri, la sua ombra si era fusa nella tenebra circostante. Facendosi strada tra le erbacce secche, raggiunse la cima della collina. Gli occhi si erano adattati al buio. Tenne spenta la pila, e rivolse lo sguardo in lontananza. I ragazzi della squadra c'erano lo stesso: li vide come figurine minuscole, illuminate dalla luce di una porta spalancata. Il consueto party non era stato rimandato, ma sembrava procedere a ritmo più sommesso. A Taylor parve una veglia. Come dei primitivi che piangevano i loro morti, quei ragazzi avevano i loro piccoli rituali. Se fossero riusciti a ottenere il cadavere dall'obitorio della polizia, sicuramente se lo sarebbero condivisi, lo avreb-
bero mangiato per conservare la memoria di quel povero bastardo. Non c'era niente per cui valesse la pena di chiamare la polizia per lamentarsi. Finché rimanevano così, quasi intristiti, ora che la prova della loro mortalità era stata incisa nella pelle del loro amico, di loro non gli fregava un cazzo. E in un certo modo, era alquanto soddisfacente pensarli laggiù, con la mente sconvolta. Dal dolore, dalla paura e altre cose che erano troppo stupidi per capire. Una buona vendetta per il gatto che gli avevano inchiodato alla porta. Stava per voltarsi e discendere il pendio quando vide le altre sagome. Così vicine, alla base della collina di fronte a lui, che quasi non se n'era accorto. Una zona della recinzione circostante il drive-in era illuminata da una coppia di fari. Una macchina parcheggiata a breve distanza da due persone, un ragazzino e un uomo, accucciati dalle parti opposte della recinzione. Non lo avevano visto, lassù nel buio. Riconobbe il bambino: era quel Welsky... Steven, ecco come si chiamava. L'uomo, dalla parte della recinzione più vicina a lui, gli volgeva la schiena. Anche in mezzo al fascio di luce dei proiettori, l'uomo sembrava completamente immerso nel buio e privo di lineamenti, come se il ragazzino stesse parlando a un'ombra dalle sembianze umane china di fronte a lui. Le due sagome, bambino e uomo, avevano i volti così vicini che quasi si toccavano attraverso la rete. Stavano parlando. Taylor lo sapeva; vedeva il bambino muovere la bocca e scuotere la testa per negare. Ma erano troppo lontani perché riuscisse a sentire cosa si dicevano. Non si mosse. Inspirò lentamente, senza fare rumore, perché non voleva che alzassero gli occhi e lo vedessero. Continuò ad assistere nel buio alla scena che si svolgeva sotto di lui. — Steven... adesso sei felice, vero? Steven ascoltò il sussurro dell'uomo. Anche se chiudeva gli occhi, sentiva lo stesso il suo sguardo premergli addosso. Uno sguardo che lo frugava in attesa di una risposta. Le parole dell'uomo continuarono, come un bacio sull'orecchio. — Adesso non devi preoccuparti più di niente, Steven. Non devi preoccuparti più. — La voce si tese di fervore. — Penserò io a tutto. — Quella promessa bruciava come un filo metallico scaldato. — È per questo che sono venuto. Penserò io a tutti loro. — Poi, più dolcemente: — Sai bene che lo farò. Steven... lo sai... vero? Lui dovette appendersi alla rete per non cadere. Il metallo gli premette contro la guancia. Tenne gli occhi chiusi: non voleva vedere il volto immerso nell'ombra davanti a sé. — Steven…
Si costrinse ad aprire gli occhi, e si guardò alle spalle, verso le luci lontane. C’erano tutti, in quell’altro mondo. Girò la testa, indietreggiando dalla rete per restituire lo sguardo dell'uomo. — Ma... — Le parole furono lente: doveva tirarle fuori una per una dal profondo di sé. — Ma tu... lo hai ucciso... Silenzio. La sagoma dell'uomo, china dall'altra parte della recinzione, insaccò le spalle. La mano che stringeva la rete si richiuse, le dita raccolte verso il palmo. L'uomo della macchina nera avvicinò il volto. — Non era quello che volevi? La voce gli risuonò di un candore quasi infantile. E perplessa, come se ci fosse qualcosa di incomprensibile, un mistero perfino per l'uomo della macchina nera. Qualcosa, dentro di lui, voleva urlare, gridare un'unica parola, quella che avrebbe fatto a pezzi il piccolo mondo raccolto intorno a loro e strappato via l'oscurità come una lama di coltello... — Non è così? "Sì." Steven strinse le mani sulla rete, e il filo metallico gli penetrò negli incavi delle dita. La parola gli riempiva la bocca, era così enorme che lo soffocava. "Sì!" Talmente grande che doveva sputarla, o l'avrebbe ucciso... Si morse il labbro fino a sentire il gusto del sangue, gli occhi stretti a trattenere il buio dentro di lui. Da un angolo dell'occhio gli sgorgò una lacrima che discese bruciante la guancia. Scosse la testa, aprì di nuovo gli occhi a guardare l'altro diritto in faccia. — No... devi fermarti... L'uomo lo fissò, con quegli occhi sempre invisibili nell'ombra. — Non posso fermarmi, Steven... non adesso... L'altra parola, quella che gli aveva riempito la bocca, era ancora in gola, qualcosa che non riusciva a ricacciare giù. Non doveva fare altro che pronunciarla, che lasciarla uscire... Sarebbe stato facile. Guardò la propria mano tirare la rete metallica. Nel sogno, quel sogno reale, aveva stretto il pugno sul coltello, mentre la lama si trasformava in fuoco e poi nel suo riflesso, luce che esplodeva e riempiva la macchina. L'altro viso, quello di Dennie, scintillante delle lacrime nate dal suo terrore. C'era anche quello. Nel sogno, nel mondo dentro di lui che non riusciva a tirare fuori. L'uomo della macchina nera lo stava aspettando. Lì... Steven deglutì, saliva inacidita dal sangue che gli era colato dal labbro. — Vai via...
L'uomo scosse il capo. — Steven... tu non vuoi che mi fermi. Vero? A quel punto non riuscì più a dire una parola. Non ce n’erano. L'uomo sussurrò con voce ancora più dolce: — Ci penserò io, a loro... ci penserò io, a tutti quanti. Aspetta e vedrai... Steven lasciò andare la rete. Si rialzò in piedi, poi si girò, allontanandosi dal volto dell'altro, da quel profilo e dai sussurri, e scappò. Vide la propria ombra stendersi di fronte a sé, spinta nell'oscurità dai fari della macchina nera. Poi un'altra, l'uomo che si alzava in piedi a sua volta dietro la recinzione. Continuò a correre finché il buio non gli fu tutto intorno. Alle sue spalle, sentì il motore accendersi. L'asfalto del drive-in si illuminò per un momento quando i fari curvarono seguendo l'inversione di marcia. Poi sparirono, e il suono del motore si affievolì, e Steven non sentì più altro che il pulsare del proprio sangue mentre correva e continuava a correre. Taylor rimase a guardare finché il ragazzino non fu scomparso alla vista. Inghiottito dal buio oltre lo spiazzo deserto del drive-in. La macchina se n'era già andata. L'aveva osservata, le luci posteriori rosse come due fessure tagliate nella notte, mentre percorreva lo stretto viottolo. Aveva svoltato sulla strada più oltre, e a quel punto l'aveva persa di vista. Ancora per un momento si batté la pila contro il palmo della mano, sentendone il peso freddo sulla pelle. La notte era ricaduta nel silenzio; vedeva addirittura in lontananza che il party della squadra di football era agli sgoccioli, e i ragazzi stavano salendo in macchina e allontanandosi dallo snack bar. La notte stava tornando come un'onda di marea che cancella lentamente uno scoglio emerso per poche ore e destinato a svanire di nuovo sotto la superficie. Rimase a guardare, lasciando proseguire il muoversi lento dei pensieri muti. Poi si girò e tornò indietro sui suoi passi. 14 I suoi amici lo scaricarono perché non sopportavano più tutti quei pianti e quel frignare. Quel testa di cazzo era già messo male prima di cominciare a bere, fin da quella mattina, quando la notizia del ritrovamento del cadavere era arrivata a tutti. Come se lui e Dennie fossero stati amici per la pelle, o qualcosa del genere: era imbarazzante. E poi quando quel bifolco
grande e grosso aveva cominciato a bere - ed era sempre stato uno di quelli che ci davano dentro di più, ai party - non aveva fatto altro che peggiorare. — Vaffanculo, dai, esci di qua. Mi fai schifo. — L'altro della squadra seduto dietro lo spinse per le spalle. Quando diceva che gli faceva schifo, era vero: l'ubriacone aveva vomitato anche l'anima, sporgendo dal finestrino la faccia rossa e sudata e lasciando una scia di vomito birroso sulla fiancata della macchina, facendone colare un rivolo dalla parte interna della portiera. — Forza... — L'altro giocatore di football si allungò oltre l'ubriaco e spalancò la portiera. Cristo di Dio, la maniglia era tutta imbrattata. Sollevò il piede per aiutarsi a spingere l'altro nel fondo della schiena. — Levati dal cazzo, amico. Avevano accostato in una stradina del centro. Non sapevano dove, stavano semplicemente girando senza meta. Le vetrine dei negozi erano serrate, le insegne luminose spente. Da un paio di isolati di distanza proveniva il rumore di un'autopulitrice, con i grandi spazzoloni rotanti che raschiavano la sporcizia dai vicoli. Il loro compagno di squadra, il grosso ubriacone imbecille, uscì a fatica dalla macchina, riuscendo per puro caso a reggersi in piedi, con le gambe molli. Afferrò la colonnina di un parchimetro per sostenersi, barcollando e stringendo le mani sulla finestrella con il quadrante del segnatempo. Fissò i suoi compagni dentro la macchina a occhi sgranati, la bocca spalancata. Aveva la camicia incollata al petto dal vomito. L'ubriaco riuscì ad alzare una mano dal parchimetro. — Ehi... — Si sentiva la lingua come un peso morto. — Co... — Brutto stronzo, vai a fartelo piantare in culo — urlò dal finestrino quello che lo aveva buttato fuori a calci. Lui e gli altri due sui sedili anteriori erano ancora incazzati per la puzza, e lo fissavano schifati. La macchina si allontanò dal marciapiede, e uno dei due rivolse al suo compagno ubriaco il medio sollevato. Stretto alla colonnina, il giovane ubriaco si guardò attorno. Nella mente gli si era incagliato tutto quanto, pensieri di cemento, inamovibili. Forse stava per vomitare ancora. Sapeva di averlo fatto prima, anche se non lo ricordava, ma sentiva il sapore in bocca. Le dita cominciarono a scivolargli sul metallo del parchimetro, e lui strinse più forte, disperatamente. Se fosse caduto, non era certo di riuscire a rialzarsi. E non riusciva a capire. Prima era in macchina con i suoi compagni, al sicuro, con la testa che gli ciondolava avanti e indietro mentre le strade gli giravano intorno, contorcendosi l'una sopra l'altra. Ora invece si trovava al
freddo, e i suoi amici se n'erano andati. Tutti quanti... A quel pensiero iniziò a piangere di nuovo. In gola gli risalì un singhiozzo, e dovette annaspare per ritrovare il fiato. Dennie se n'erano andato, se n'erano andati tutti, e lui era rimasto solo. Si allontanò dalla colonnina, con le lacrime bollenti che gli colavano sulle guance. Tutto solo... Si mise la mano nella tasca della giacca e vi trovò una lattina di birra ancora piena per metà. Il resto si era versato, infradiciandogli la giacca e il fianco dei jeans. Vide una lastra di vetro tremolare e barcollargli davanti agli occhi; dall'altra parte c'erano oggetti che sembravano scarpe. Appoggiò le spalle alla vetrina e riuscì faticosamente a portarsi la lattina alla bocca. Era calda e acida, e gli riportò il sapore del vomito in fondo alla lingua. Non riuscì a deglutire: quasi tutta la birra gli colò dal mento finendo sul petto. Gettò via la lattina vuota, che rimbalzò sul selciato con un tonfo metallico. Cercò di muoversi, ma le gambe gli cedettero. Scivolò lungo la vetrina, e giacca e camicia gli salirono sulla schiena. Poi non sentì più le ginocchia, e precipitò a terra. All'angolo della bocca gli gocciolò qualcosa di salato quando alzò la faccia dal marciapiede. Ma non sentiva dolore, solo il pulsare attutito del sangue. — Gliel'avevo detto... — II gelo gli penetrò nel fianco e nella spalla su cui stava disteso. Sollevò le ginocchia, stringendosi le braccia al corpo. — Gliel'avevo detto, gliel'avevo detto... Non si accorse del raggio della torcia neanche quando gli illuminò il volto. Teneva gli occhi serrati, le lacrime che scendevano sotto le ciglia. Uno dei due poliziotti si chinò e prese il ragazzo per i capelli. In mezzo alla strada, l'autopattuglia era ferma col motore in folle, e nel buio risuonava la voce gracchiante dell'autoradio. IL poliziotto gli sollevò la testa e gli mise la pila davanti al volto. Il ragazzo biascicò qualcosa, stringendo gli occhi e passandosi la mano sul viso. — Cristo santo... — II collega del poliziotto scosse il capo, disgustato. Gli era arrivata alle narici la puzza di vomito. Il primo era riuscito ad alzare il ragazzo, che era grande e grosso e pesava come un carico di mattoni, in posizione seduta, con la testa che gli ciondolava in avanti, un filo di saliva densa che colava sulla camicia. Il poliziotto rivolse la pila sulla giacca del ragazzo. Vide una grande lettera M al cui interno era ricamata una piccola palla da football. — Ehi... — II poliziotto si girò, chino accanto al ragazzo, e alzò gli occhi verso il collega. — Questo buffone è della squadra di Midford.
Era la città vicina. La forza di polizia, in quella dove si trovavano, era praticamente costituita di campioni della ciambella con caffè e del sonnellino in macchina. Se il ragazzo fosse stato di una delle altre città della contea, avrebbero potuto fare una chiamata via radio e far venire qualcuno a prendere l'adolescente sperduto per riportarlo dalla mamma. Ma a chiamare il dipartimento di polizia di Midford non c'era modo di sapere quanto sarebbero dovuti rimanere ad aspettare che arrivasse una delle loro autopattuglie a raccattarlo. Meglio lasciar perdere. — Mi sembra di riconoscerlo. — II poliziotto con la pila puntò il fascio di luce di nuovo contro il volto del ragazzo. — Fa parte della linea d'attacco. — Anche suo figlio giocava, per cui aveva visto diverse partite. L'altro guardò il collega, poi di nuovo il ragazzo sbronzo. — Sì? Be', guarda, adesso farà parte della linea dei carcerati. Il primo spense la pila e prese il ragazzo sotto il braccio per tirarlo in piedi. — Forza, Rambo. Andiamo a farci un giretto. — Lasciami stare... — II ragazzo rimase disteso contro il muro che stava sotto alla vetrina. Mollò un gancio al poliziotto, ma non arrivò neanche vicino a colpirlo. — Merda. — II poliziotto sospirò, poi prese di nuovo il ragazzo per i capelli. Con un unico gesto secco, gli sbatté la testa contro il muro. Il ragazzo sgranò gli occhi fissi nel vuoto. — Fai conto che hai fatto meta, stronzo. Il ragazzo non disse più niente. Lasciò che i due poliziotti lo alzassero in piedi per poi trascinarlo all'autopattuglia. Lo scaricarono sulla panchina della sala docce, come un sacco di patate. Il giocatore di football barcollò, con la bocca aperta e gli occhi rovesciati, i polsi ammanettati dietro la schiena. Uno dei poliziotti lo tirò avanti quanto bastava per aprire le manette. Il metallo aveva lasciato dei segni rossi, come se un animaletto avesse morso la pelle tutto intorno ai polsi del ragazzo. I due poliziotti uscirono dalla sala docce, e uno si allacciò le manette alla cintura. Il suo collega tirò un sacchetto di plastica sul bancone che circondava la scrivania. Taylor alzò gli occhi dal registro dell'unità di accettazione. Nel sacchetto c'era la solita roba: portafogli e cintura, chiavi e spiccioli. Un pacchetto di sigarette, tutte rovinate, da cui cadevano fili di tabacco. Dall'altra parte del bancone, seduto alla scrivania, Repken teneva il naso nella copia di People che aveva letto già una volta durante il turno, come
alla ricerca di qualcosa che si era perso alla prima passata. Repken, come molta gente, diventava nervoso quando c'erano poliziotti in giro e si bloccava del tutto finché non se ne andavano. — Uno grosso. — II poliziotto indicò col pollice la sala docce. — Ma gli è già quasi passata. Non dovrebbe darvi guai. Taylor annuì, intento a controllare il modulo di accettazione. Quei tipi erano a posto, professionisti. Non tutti i dipartimenti di polizia della contea erano pieni di stronzi. Quei due avevano addirittura portato il ragazzo in infermeria per controllarlo e verificare che non fosse in overdose di qualcosa e non si ritrovassero per le mani un cadavere livido. Per di più non avevano mandato il ragazzo in tensione, non lo avevano punzecchiato per metterlo in vena di alzare le mani preparandolo così a dare addosso al primo adulto a portata di mano non appena gli fossero state tolte le manette, o almeno a provarci. Certi sbirri lo trovavano divertente, il giochino di far incazzare come un animale qualche teppista grande e grosso, mentre loro alzavano i tacchi e passavano da un bar a farsi quattro risate. Ma quei due si erano comportati bene. Si allontanarono lungo il corridoio che portava fuori dall'unità di accettazione. Taylor andò alla porta della sala docce e guardò all'interno. La festa aveva tutta l'aria di essere terminata, e da un bel po', almeno per quel ragazzo in particolare. Uno di quei dementi che passavano le serate al drive-in: Taylor non lo riconobbe. Non uno degli habitué, come quel Dennie. Il ragazzo sedeva accasciato sulla panchina, la testa insaccata fra le spalle. Aveva il giubbotto con il monogramma della squadra tutta macchiata, e un lungo strappo su una manica. Taylor annuì. Come previsto. Era pronto a scommetterci che avrebbe visto dentro qualcuno del branco quella sera. E qualcos'altro gli fece crescere l'espressione di disgusto che aveva già. Fece ritorno al bancone e prese le scartoffie del ragazzo. — Tocca a te. — Indicò col capo la sala docce. — Portalo sotto una doccia. Puzza. Repken abbassò i piedi dalla scrivania e posò la rivista. Spinse indietro la sedia e poi si diresse verso la sala docce. Taylor lo sentiva, Repken con quella sua voce che rimbalzava sulle pareti di piastrelle. — Va bene. — Repken che iniziava la consueta litania. — Scarpe, giacca... voglio tutto qua. Taylor aprì il registro sul bancone e cominciò a scrivere, copiando le in-
formazioni del modulo. Ubriachezza molesta. Niente di sorprendente. Lo scrisse. Se fosse andato avanti automaticamente, un passo dopo l'altro, non sarebbe stato obbligato a pensare ad altro. A quello che aveva visto quella notte, dalle parti del drive-in. Gli scorreva in sottofondo ai pensieri, dietro tutto il resto, come un film: la macchina sulla striscia di terreno, i fari che illuminavano la recinzione, il ragazzino che scappava, scappava nel buio sotto lo sguardo di quella sagoma di tenebra... e un'altra sagoma, sulla collina più in alto, che assisteva... Dalla sala docce provenne la voce del ragazzo. — Oh, Dio... — Sembrava che non si sentisse affatto bene. Poi perse il controllo. Taylor sentì il rumore e capì che quel piccolo bastardo stava vomitando anche il culo. — Cristo di Dio... — La voce di Repken. Eroico martire del lavoro. I rumori proseguirono, il ragazzino che sputacchiava e gemeva. Taylor guardò la porta della sala docce, poi continuò con quello che stava facendo. La segretaria della portineria chiamò l'unità di accettazione. — C'è qui un signore che vuole parlarti. — Aveva l'aria inquieta. — E un po' sconvolto. Taylor guardò l'orologio alla parete. Alle tre del mattino, erano sempre sconvolti quando venivano al riformatorio. In genere erano appena venuti a sapere che la polizia aveva preso il loro cocco di mamma, il quale stava smaltendo la sbronza in una delle stanzette con le porte che si chiudevano solo da fuori. E naturalmente era una parodia di giustizia, roba da Geraldo Rivera, non certo colpa dei loro tesorucci completamente strafatti. — Vengo subito. — Rimise la cornetta sull'apparecchio. — Tieni duro. — Repken, che era alla terza rilettura di People, assentì. Vide il gruppetto di fronte alla scrivania mentre arrivava al termine del corridoio. Il tipo, chiunque fosse, aveva portato rinforzi, valeva a dire quattro o cinque adolescenti di grossa taglia a fargli quadrato intorno. E portavano tutti quelle stupide giacchette, con ricamata sopra - sorpresa, sorpresa - la lettera M. Sembrava proprio che fosse capitato a fargli visita un comitato di rappresentanza dei party etilici notturni. Dall'altra parte del bancone, la ragazza rivolse a Taylor un'occhiata di sollievo incommensurabile nel vederlo arrivare. Non aveva l'aria spaventata da tutte le urla che sicuramente aveva subito, solo era stanca morta di dover avere a che fare con degli imbecilli. Taylor appoggiò noncurante il gomito sul bancone. — Sono il responsabile del turno. Ha bisogno di aiu-
to? L'uomo, paonazzo, sulla quarantina tendente alla cinquantina, gli rivolse un'occhiata cattiva. Portava un soprabito e la giacca del pigiama. Se non altro era riuscito a infilarsi dei pantaloni decenti. Però aveva le scarpe ancora slacciate. Urlò con la bocca tremante: — Voi avete qui uno dei miei attaccanti... Così quello era il capo allenatore del liceo. Arrivato a salvare la situazione. Presumibilmente, i membri della squadra che lo circondavano lo avevano tirato giù dal letto per raccontargli cosa era capitato al loro socio, il grosso ubriacone. Taylor si strofinò pensoso il mento. — No... — Si preparò a recitare una commediola. — Abbiamo qualche intossicato e stasera ci hanno portato anche dei dipsomani... le solite cose... ma non mi sembra proprio che abbiano portato dentro nessuno per reati connessi all'attaccanza. L'allenatore e il crocchio di ragazzi lo fissarono. — Basta cazzate. — L'uomo puntò il dito contro il petto di Taylor. — II ragazzo si chiama Hoffman, e voglio vederlo fuori subito. In questo preciso momento. Domani la scuola ha un incontro importante, in mattinata ci sono gli allenamenti, e non voglio vederlo in mezzo ai figli di puttana che avete qua dentro. Taylor dovette mordersi la parte interna del labbro per non mostrare il sorriso. Scosse il capo, lentamente e con aria dispiaciuta. — Temo sia impossibile. Il suo ragazzo è stato formalmente imputato e assegnato. Adesso l'unica persona che può farlo uscire è un funzionario per la libertà vigilata con tanto di certificato. Sfortunatamente, a quest'ora di notte non ce ne sono presenti. — Avanti... — L'allenatore sporse il mento in fuori. — Lo lasci in custodia a me. Me ne assumo io la responsabilità. Taylor scosse di nuovo il capo. — Mi spiace. Il regolamento è questo. L'allenatore aveva l'aria di volergli tirare un cazzotto. Strinse i denti e riuscì a riprendere il controllo. — Va bene... se è a questo che vuole giocare. A che ora arriva il funzionario, allora? Tutto a meraviglia. Taylor respirò risucchiando l'aria fra i denti. — Be', direi che siete capitati nel momento sbagliato. Quando un ragazzo viene arrestato il venerdì sera, di solito non riesce a incontrare il funzionario per la libertà vigilata fino al lunedì successivo. I fine settimana non vengono. Temo che il suo attaccante dovrà rimanere qui fino ad allora. L'allenatore sbatté di nuovo il dito sul petto di Taylor. — Okay, amico, vuoi proprio farti male al culo? Benissimo. Il giudice Rendell del tribunale
per i minori è a capo del comitato sostenitori della squadra. Mi basta fargli una telefonata e ti ritrovi per la strada a cercare lavoro, faccia di merda. Era troppo bello per essere vero. Taylor restituì al capo allenatore uno sguardo gelido, poi alzò gli occhi verso l'orologio dietro il bancone. Quasi le tre e mezzo. Del mattino. Si chinò sul banco, prese il telefono e lo posò sul ripiano. — Prego. — Sorrise. — Se crede che al giudice faccia piacere una sua chiamata a quest'ora, faccia pure. Nella sala della portineria si fece silenzio. L'allenatore strinse gli occhi fino a ridurli a due fessure malvage. Uno dei giocatori di football alle sue spalle strinse i pugni. — E non si dimentichi una cosa. — Taylor mantenne la voce calmissima, senza spostarsi dal bancone. Passò lo sguardo su tutti quanti. — Vi trovate in un edificio pubblico. Il tempo medio per far arrivare qui la polizia è di cinque minuti. Una volta definite le imputazioni per eventuali aggressioni — guardò di nuovo l'allenatore — il suo piccolo battaglione passerebbe senz'altro il fine settimana in compagnia del loro amico. L'allenatore diventò livido in volto, si gonfiò tutto come se il sangue stesse per scoppiargli dalla pelle. Poi si voltò e se ne andò rabbioso; i ragazzi della squadra si scambiarono una breve occhiata, quindi lo seguirono. La segretaria aprì il portoncino: l'ultimo a uscire cercò di farlo sbattere, ma la molla pneumatica fece richiudere la porta dolcemente. Taylor si allontanò dal bancone. Rivolse un sorriso alla segretaria: un buon lavoro, per la nottata. Per un istante non gli importò assolutamente niente di quanto poteva accadere all'esterno. Quegli stronzi non dovevano cercare di fargli scherzi nel suo territorio. Aveva riconosciuto un paio di facce: le aveva viste dentro la macchina parcheggiata fuori dal suo condominio, quella mattina, con la storia del gatto. Si era proprio divertito a sbatterglielo in quel posto. Si voltò e imboccò il corridoio buio per tornare al reparto accettazione. Stava davvero bene. Larry li vide uscire dal portone principale del riformatorio. L'allenatore e un gruppo di ragazzi: non avevano l'aria per niente contenta. Si allontanò dal paraurti della macchina nel vederli attraversare il parcheggio. Era stato uno degli ultimi a sentire che gli sbirri avevano portato dentro Hoffman. Quello che lo aveva piantato in mezzo alla strada era tornato indietro dopo poco per riprenderlo, in tempo per parcheggiare e ve-
derlo tirare a forza sull'autopattuglia. Allora avevano cominciato a telefonare, e probabilmente Larry era in fondo alla lista. Così non era arrivato in tempo per entrare con l'allenatore e tutti gli altri. C'era un altro ritardatario. Mick aveva parcheggiato nello spiazzo un paio di minuti dopo di lui. Non si erano detti niente, erano rimasti ad aspettare a braccia conserte, appoggiati alle loro macchine. — Allora? — Mick aveva un'aria rabbiosa, e sembrava sbronzo. — Lo lasciano andare? L'allenatore spalancò la portiera della propria auto. Fulminò con lo sguardo Mick e poi tutti gli altri. — Sai, se voi teste di cazzo pensaste ogni tanto alle partite, invece di farvi continuamente seghe con le vostre puttanate, non avremmo di questi problemi. — Salì in macchina e richiuse la portiera. Larry rimase immobile con il resto del branco a guardare la macchina dell'allenatore che usciva dal parcheggio. Mick era messo male, pensoso, il volto cupo. — Brutto stronzo — borbottò uno di quelli che erano entrati nel riformatorio insieme all'allenatore. Mick si girò a fissarlo. — Di chi parli? L'altro indicò l'edificio con un cenno del capo. — Lo conosci, quel figlio di puttana che ci manda sempre addosso gli sbirri. Mick assentì lentamente, lo sguardo fisso sul portone d'ingresso e sulla luce che proveniva da dentro. — Forza, leviamoci da qui. — A Larry non erano andate le ultime battute, il modo in cui Mick fissava il palazzo del riformatorio e tutto quello che ci stava dentro. Aveva sentito delle stronzate che Mick e i suoi amici avevano combinato a quello sbirro, quello per il quale provavano un'avversione particolare. In quel momento gli parve di vedere praticamente muoversi gli ingranaggi nel cervello di Mick, pensieri tenebrosi che risalivano. Diede un'occhiata agli altri della squadra. — Tanto vale separarci. Non possiamo farci niente. Si girò e fece ritorno alla sua macchina. Alcuni degli altri seguirono il suo esempio, ma la maggior parte - lo sapeva senza neanche bisogno di voltarsi a guardare - rimasero con Mick. Sentì la voce di Mick mentre apriva la portiera. — Stronzetto... — Un mormorio basso, che veniva dal profondo. — Brutto stronzetto di merda... Larry girò la chiave d'accensione. Non aveva la minima voglia di starse-
ne là. Il ragazzo ubriaco era disteso sul letto. Nell'unità di accettazione, i letti erano lastre di cemento sporgenti dalle pareti delle cellette, con materassi disposti sopra. Era un modo per impedire ai ragazzi appena arrivati, che non avevano ancora avuto modo di entrare nella filosofia del riformatorio, di staccare un pezzo di ferro dalla rete, come succedeva con i letti vecchi, e usarlo per farci scemenze del tipo cercare di colpire un membro del personale. Lo stesso valeva per il sanitario con lavello e gabinetto in pezzo unico: con quei bordi arrotondati, contribuivano a far calare i bollori ai ragazzi finché rimanevano dentro. Taylor, mentre sbirciava dalla finestrella incassata nella porta blindata, pensò che comunque quel tipo in particolare non aveva bisogno di aiuto a quel riguardo. Una volta ripulito e vestito con l'uniforme del riformatorio, jeans e maglietta, si era addormentato come un bambino. Un bambino brutto e cattivo di un quintale, con l'alito che puzzava ancora di birra. Ma qualsiasi guaio avesse combinato sarebbe passato al personale diurno. Taylor si allontanò dalla porta blindata. Nel percorrere il corridoio verso la sala accettazione, si concesse un sorrisetto, assaporando il dolce pensiero di come aveva azzittito quell'allenatore paonazzo e urlante insieme alla sua congrega di teppisti. Repken aveva tutta l'aria di essere arrivato al sonno con quella sua rivista scandalistica. L'aveva deposta sulla scrivania, e vi teneva sopra la testa bassa, come se da un momento all'altro gli stesse per scivolare dalle mani per finire sulle pagine patinate. Taylor non andò a svegliarlo. Gli piaceva stare da solo nel silenzio. Si fermò davanti alle finestre del salone a guardare fuori. Capì cos'era ancora prima di vederla. Oltre la recinzione, sulla stradina esterna. Aspettava e osservava. Rivolse lo sguardo oltre i campi di atletica del riformatorio, la distesa nera di erba, scrutando la rete e sapendo già cosa avrebbe visto. C'era. Proiettori, due fasci di luce che ricadevano obliqui nel buio. Riuscì a distinguere la macchina, una sagoma stagliata contro la collina. Taylor sapeva che dentro c'era qualcuno, qualcuno che aspettava e osservava. E guardava lui dal parabrezza. Il suo sguardo incontrò quello dell'uomo al volante, in qualche punto della notte là fuori. Non voltò le spalle alla finestra. Non andò alla scrivania a prendere il telefono per chiamare l'ufficio dello sceriffo e richiedere un'autopattuglia a
indagare. Si limitò a guardare il bagliore immutabile dei fari. La porta di legno dell'appartamento si scheggiò al primo calcio. Proprio intorno alla serratura. Un altro calcio per spezzare il catenaccio, e la porta si spalancò. Mick e gli altri della squadra entrarono nell'appartamento. Mick si fermò a guardarsi intorno. La stanza era illuminata dal debole bagliore verde che proveniva dal quadrante del sintonizzatore dello stereo. Era più o meno quello che Mick si era aspettato di trovare: librerie traboccanti di libri. Dischi, probabilmente qualche cagata classica, come quella che arrivava dolce dagli altoparlanti in cima alle mensole. Una scrivania a lato del soggiorno, con una macchina da scrivere e il ripiano coperto di fogli. Uno schedario, e altre stronzate del genere: proprio il tipo di roba da intellettuale pigliainculo che aveva immaginato di trovare nella casa di quel coglione del riformatorio. Forse qualcuno negli altri appartamenti era stato risvegliato dal rumore della porta spaccata: dovevano fare in fretta. Ma c'era comunque tempo per un buon lavoro. Mick guardò gli altri alle sue spalle e sorrise. — Cominciamo a giocare — sussurrò. Si avvicinò alle librerie e le strappò dalla parete. I mobili precipitarono a terra, i libri scivolarono fuori dalle mensole e si sparpagliarono per terra. Lo stereo scoppiò in mille scintille nel cadere, le spie si spensero e la musica si interruppe ancora prima che gli altoparlanti andassero a pezzi. Anche gli altri si diedero da fare, entrando di corsa nel salone. 15 Arrivò a casa e trovò la porta aperta. Per un momento pensò che potesse essere arrivata Anne, che fosse entrata con la sua chiave e lo stesse aspettando dentro. Il che andava benissimo: non gli sarebbe dispiaciuta un po' di compagnia. Era uscito dal turno al riformatorio più esausto del solito, come se la notte fosse durata anni, procedendo faticosamente nel buio per arrivare alla luce del mattino. La porta era socchiusa: Taylor pensò che Anne si sarebbe fatta vedere, che sarebbe uscita dal suo nascondiglio per mostrargli un sorriso. Poi vide il legno scheggiato intorno ai chiavistelli di metallo lucente. Quello della serratura era ancora in posizione chiusa, ma sporgeva in fuori, puntato ver-
so di lui; la serratura strappata via, che penzolava attaccata all'unica vite di ottone rimasta. Intorno alla maniglia c'erano due impronte di scarpa infangata, e il legno era scheggiato intorno ai segni dei talloni. Nell'appartamento non c'era nessuno, lo sapeva già. Dalla stretta apertura sembrava sgorgare il silenzio. Chiunque fosse stato a sfondare la porta, era già lontano. Pensò che non avrebbe dovuto entrare, ma andare dall'amministratrice e chiamare la polizia. Dopo un istante, spinse la porta: uno dei due cardini fece resistenza. Entrò. Non fu sorpreso da quello che vide. Rimase immobile in mezzo al soggiorno, accanto alle mensole ribaltate, e si guardò intorno. Dovevano essere arrivati in parecchi, e avevano lavorato in fretta. In modo da potersene andare prima che qualcuno avesse il tempo di chiamare i poliziotti. Così si viveva nei condomini: gli altri si preoccupavano solo se il rumore durava tanto da disturbare il loro sonno. Se era solo qualche minuto, non valeva la pena di sconvolgersi tanto. Taylor oltrepassò i libri sparsi per terra. Alcuni dischi erano fuori dalle copertine, altri avevano le buste strappate ed erano sparpagliati intorno o spaccati. Lui si chinò a raccogliere due pezzi di vinile nero che sembravano ali rigide: concerti per piano di Mozart. Poi li gettò di nuovo in mezzo al ciarpame. Compilò mentalmente un inventario per verificare una per una tutte le sue proprietà, passando lo sguardo lungo la camera. Il divano era stato tagliuzzato, e l'imbottitura traboccava dalle lunghe ferite sui cuscini e gli schienali. Il ripiano della scrivania era vuoto, e la macchina da scrivere era per terra come una tartaruga rivoltata sul guscio. Tutte le carte erano sparse in giro come foglie dopo un tornado; spinse un foglio con la punta del piede, lo guardò e vide che era una pagina della prima bozza del suo libro. Si rese conto che erano anni che non la vedeva, era sempre rimasta in letargo dentro una cartelletta sepolta fra la confusione che regnava sulla scrivania. Le frasi sulla pagina erano file di parole sconosciute, come una lettera scritta da qualcuno di cui si era dimenticato il nome. Per un momento chiuse gli occhi, per lasciar sparire tutte le parole segnate sulla pagina. Il sole del mattino filtrava dalla finestra in raggi obliqui, colpendogli il volto. Si girò, scrutando nuovamente la stanza. Lo stereo era andato: anche se non si fosse rotto quando avevano ribaltato le mensole, uno degli intrusi era saltato sul telaio metallico, appiattendolo e facendo schizzare fuori transistor e integrati. E anche gli altoparlanti: le griglie di protezione strappate a calci, fracassate a mostrare i coni lacerati e le interiora di cavi multi-
colori. Qualcosa attirò il suo sguardo, e Taylor alzò gli occhi. Lesse le parole scritte sul muro. Neanche quelle lo sorpresero. Rimase a guardarle ancora per un po', quindi si chinò accanto alla scrivania e frugò finché non ebbe trovato il telefono, tirandolo per il cavo fuori dal cumulo di libri e mobili distrutti. Nell'orecchio gli risuonò il segnale di linea, e lui iniziò a comporre il numero. Lo sapeva a memoria. I poliziotti arrivarono una mezz'ora dopo. Per il dipartimento di polizia di Midford, era un'ottima prestazione. Taylor non aveva toccato niente nell'appartamento, preferendo lasciare il caos come l'aveva trovato. Si allontanò dalla finestra dalla quale stava guardando fuori, ancora con la giacca addosso, quando sentì bussare. Aveva lasciato la porta aperta. — Signor Taylor? — La porta si aprì alla spinta del poliziotto. I due entrarono. Gli venne quasi da ridere nel vedere di chi si trattava. Era logico che di tutti gli sbirri in servizio a Midford dovessero arrivare da lui proprio quei due. I due buffoni che arrivavano sempre al drive-in ogni volta che lui telefonava dal riformatorio per lamentarsi, e che ogni volta finivano col non fare assolutamente un cazzo per risolvere la situazione. Forse per i tagli alle spese del bilancio comunale restavano solo quei due di pattuglia da mezzanotte al mattino; probabilmente stavano finendo il turno quando avevano ricevuto la chiamata dalla centrale e l'ordine di passare da lui a stilare un verbale. I due poliziotti entrarono nell'appartamento, guardandosi intorno. Quello basso, dall'aria ispanica, aveva già preso penna e taccuino. Alle sue spalle, quello ciccione, lo stronzo vero, annuì come se stesse ammirando un lavoro ben fatto. — Così ti hanno fatto proprio un bello scherzetto. — Lo sbirro ciccione spinse un paio di libri per terra con la punta della scarpa. Taylor lo fissò, poi tornò a guardare fuori dalla finestra. Non valeva la pena di sprecare fiato per quel demente lardoso. L'altro si schiarì la gola. — Ha idea di chi possa essere stato? Lui non si voltò. — È stata la squadra di football. — Un tono di voce inespressivo perfino ai propri orecchi. — Quelli del liceo. Lo sbirro grasso emise un gemito di disgusto. — Dobbiamo proprio andare avanti con questa storia? Continui a romperci e a lamentarti di quei ragazzi. Perché non ci dai un taglio? Taylor vide il poliziotto basso, riflesso nella finestra, rivolgere al collega
un'occhiataccia. Il ciccione lo ignorò. — Cos'è, questa volta? — II tono di voce del poliziotto si fece più arrogante. — Cos'è che ti fa pensare che sono stati i ragazzi? Eh? Lui si girò e guardò il poliziotto negli occhi per qualche secondo, poi indicò con un cenno del capo la parete della cucina, alle spalle dei due. I due poliziotti si girarono a guardare. Le parole che non avevano visto nell'entrare in casa, le lettere malferme alte mezzo metro scritte con la merda. Ai piedi del muro c'era un giornale accartocciato macchiato di marrone. NON ROMPERE IL CAZZO ALLA SQUADRA. Il poliziotto grasso rimase fermo con le mani sui fianchi, a guardare il messaggio. Scosse il capo. — Be', senti, non vuoi dire molto. Non vuoi dire proprio niente. — Alzò la voce. — Lo sanno tutti che ce l'hai con quei ragazzi. Cristo, secondo me ce l'hai scritta tu quella roba, solo per fargli passare dei guai. Quel tipo era altrettanto coglione lì quanto al vecchio drive-in. Taylor gli guardò le pieghe cascanti di pelle strette dal colletto della camicia. — Dacci un taglio. Il poliziotto si guardò intorno, poi prese uno straccio per i piatti dal bancone. Se lo arrotolò sulla mano, si avvicinò al muro e iniziò a cancellare le parole. La merda si sbavò in lunghe striature. — Ma che... — L'altro poliziotto andò fuori di sé. Gli ci volle un momento per riprendersi dallo choc dello spettacolo a cui stava assistendo. Poi prese il suo collega per il braccio e lo bloccò. Voltò la testa verso Taylor. — Ci scusi un momento. Il poliziotto basso, scuro in volto dalla rabbia, trascinò l'altro alla porta. Un istante più tardi, Taylor li sentì fuori. — Che cazzo credi di fare? A Pineda non importava anche se Harrelson gli era superiore per grado e forza fisica: era così incazzato che gli veniva voglia di sbattere quel sacco di lardo contro il muro dell'edificio, a un paio di metri dalla porta dell'appartamento in cui erano entrati. — Stai cercando di farci sbattere davanti alla commissione disciplinare? — urlò Pineda in faccia a Harrelson. — Lo sai cosa stavi facendo? Eh? Stavi distruggendo delle prove, amico, e proprio davanti a quello là! Harrelson parve sorpreso da quello scoppio d'ira improvviso, saltato fuori dal niente. Gli ci volle un momento per recuperare la voce, e quando ci
riuscì le parole giunsero flebili. — Ehi... non prendertela così... Pineda diede di matto, come un razzo che partiva. — Non devo prendermela? Ti sei inculato il cervello! Sei talmente arrapato per quei bambinetti stronzi che giocano a football che non riesco a crederci. — Lasciò andare la camicia di Harrelson e fece un passo indietro, scuotendo la testa per lo schifo. Alzò di nuovo gli occhi verso Harrelson. — Be', guarda, non ci sarà proprio bisogno di aspettare che quello là faccia rapporto, perché lo faccio io direttamente. Il culo te lo fai fare tu. Io no. Harrelson si sentì colpito, e riuscì a riprendersi. — Forza — balbettò. — Fai rapporto, coglione. Vedrai che nel dipartimento sono tutti dalla mia parte. — Cagate. — Se quel tipo non fosse stato una piaga simile e non avesse fatto correre anche a lui il rischio di finire sbattuto fuori dalla polizia, Pineda avrebbe addirittura potuto dispiacersi per lui. — Se non avessi il cervello nelle nuvole, amico, se non avessi continuamente per la testa solo questo cazzo di sport, ti saresti già accorto che c'è una montagna di lamentele sul tuo conto alta un chilometro. Hai lasciato fare a quei teste di cazzo quello che volevano, e tutti ti hanno dato corda, ti hanno lasciato andare avanti, pensando che forse magari ti svegliavi fuori... ma adesso ne abbiamo tutti le palle piene di te e di quelle cazzate che dici quando rompi le orecchie alla gente dicendo di sostenere la squadra scolastica. — Pineda scosse di nuovo il capo. — È finita, amico. Torna pure alla stazione a vuotare l'armadietto. — Girò sui tacchi e si allontanò dal collega. Dentro l'appartamento, il tipo del riformatorio stava ancora guardando fuori dalla finestra. Pineda si schiarì la gola prima di parlare. L'altro non si voltò lo stesso. — Arriverà una squadra investigativa dalla stazione. Adesso li chiamo dalla macchina e cerco di farli arrivare qua in fretta. — Non avrebbe saputo dire neanche se il tipo del riformatorio lo stesse ascoltando. — II fotografo dovrà fare delle foto, per cui se potesse aspettare a rimettere a posto fino a che non avranno finito, ci farebbe un favore. Magari potrebbe compilare un elenco di tutti gli oggetti danneggiati o rubati... Taylor continuava a guardare fuori dalla finestra. La cosa colpì Pineda. Si domandò a cosa stesse pensando. Con quei tipi silenziosi, non si sapeva mai. — In questo momento non possiamo fare di più. — Pineda tornò verso la porta. — Ci faremo sentire non appena avremo trovato qualcosa.
Nessuna risposta. Pineda esitò un istante, poi si girò e uscì per tornare alla macchina e ai dettagli di cui ci si doveva occupare. Quel giorno la mamma era dovuta andare al dipartimento di contea per i servizi sociali per vedere il suo assistente di lavoro, per qualche stronzata riguardo a un corso per diventare estetista o qualcosa del genere. Il che era veramente da ridere: Kris non si capacitava di come potesse esserci qualcuno disposto a farsi sistemare la faccia da un rottame umano come sua madre. Ma doveva andarci comunque, altrimenti non le avrebbero spedito l'assegno del sussidio. Il bello era che sarebbe stata via tutto il giorno. Aveva un'amica, che abitava in uno degli appartamenti popolari vicino agli edifici amministrativi della contea, con cui aveva fatto l'aiuto infermiera anni prima, appena uscita dal liceo. Ogni volta che andava dall'assistente per il lavoro, faceva visita alla vecchia amica, e passavano la giornata sedute a chiacchierare e ubriacarsi con intorno un esercito di cagnolini, a cui le pulci avevano spelato completamente la coda, tutti ad abbaiare loro alle caviglie. Una volta Kris c'era andata, a prendere la mamma quando era troppo sbronza per arrivare a casa. L'appartamento puzzava di merda di cane e sua madre piangeva, la faccia tutta rossa e gonfia e un rivolo di sangue all'angolo della bocca, come se qualcuno l'avesse picchiata. Da quel giorno le aveva detto di tornarsene a casa per conto suo. Ma questo voleva dire che Kris aveva la casa tutta per sé, per tutto il giorno. Sempre a patto di non contare quel suo fratellino schifoso, ma non era un gran problema, visto che almeno era abbastanza furbo da starsene in camera sua e non capitare fra i coglioni. Per prima cosa aveva chiamato Mick per dargli la buona notizia, che era giorno di festa privata per tutti e due. Lui arrivò di corsa, tutto su di giri per qualcosa che aveva combinato quella notte insieme ai suoi amici. Lei gli sentì sulla pelle il sudore dell'emozione, un gusto salato sulla lingua quando gli aveva tolto la camicia. Era capitato qualcosa che lo aveva arrapato come un pazzo, tanto che le aveva infilato la mano nelle mutandine ancora prima che lei lo portasse nella sua camera. Si lasciarono cadere sul letto, lei che rideva e se ne fregava anche se quel suo stupido fra telline li sentiva. Mick aveva portato una confezione da sei birre. Ne aprì una e cominciò a bere, e un rivolo di birra gli scivolò fuori dal sorriso a denti serrati; poi le posò la lattina fredda proprio sulla tetta, e lei gli mollò uno schiaffane sulla terapia, forte, per farlo infuriare. Almeno quanto bastava perché le facesse quello che a lei
piaceva. Era accaduto in mattinata, appena dopo che la madre di Kris era uscita. Dopo la prima, appena finito, Mick si era addormentato. Aveva già bevuto parecchio, quando era stato in giro insieme agli altri della squadra. Lei gli si era strofinata contro nel letto, sentendo la pelle umida a contatto della sua. La morte di Dennie aveva fatto perdere la testa a tutti, li aveva fatti impazzire. A lei non importava, non particolarmente. Non c'entrava niente con lei, e del resto quel Dennie era sempre stato uno stronzo odioso, e poi lo sapevano tutti quanti che dava via il culo. Era contenta che si fosse levato dai coglioni, e pensò che probabilmente le altre ragazze della squadra la pensavano nello stesso modo. E poi c'era qualcosa di bestiale nei froci, come se volessero entrare in un territorio non loro. Non le era mai andato giù che Dennie facesse la doccia insieme alla squadra e guardasse il culo a Mick e agli altri. Si spinse sotto il braccio sudato di Mick; lui, con la faccia contro il cuscino, grugnì e brontolò qualcosa. Finché aveva lui, a Kris non importava un cazzo del resto. Lui aveva continuato a dormire, tanto pesantemente che alla fine era scivolata fuori dal letto senza svegliarlo per farsi una doccia. Doveva essere circa mezzogiorno, perché vide sul bancone della cucina della roba che le fece capire che Steven era uscito di nascosto per farsi da mangiare. Quel moccioso aveva lasciato fuori un barattolo di maionese vuoto. Probabilmente era tornato in camera sua a giocherellare: Kris capiva che era in casa, anche se aveva imparato a starsene assolutamente zitto e tranquillo. Gliel'aveva insegnato a forza la mamma. Kris non capiva solo perché non sparisse, perché non se ne andasse via in modo da lasciarle la casa bella pronta e vuota, tutta per lei. Forse era arrivato al punto che gli piaceva farsi prendere sempre a calci in culo. Quando fece ritorno dal bagno, Mick era già sveglio. Si allungò a prenderla, la trascinò di nuovo nel letto, togliendole con quelle manone l'asciugamano dai capelli bagnati. Era di nuovo allupato, il che era bello, anche se Kris si sentiva ancora indolenzita dalla prima volta. E aveva anche frugato in giro, mentre lei era in bagno: aveva preso una delle bottiglie di vodka di sua madre. Kris non sopportava quella roba, le era sempre sembrato che sapesse di benzina. Ma per Mick era come benzina sul fuoco: le aveva dato addosso e la stava sbattendo sul materasso come se volesse spaccarla in due. Andò avanti per un bel po'. Una volta finito, erano tutti e due stremati. Quando lei si risvegliò, fuori era già buio.
Anche quello le dava fastidio, risvegliarsi in una camera buia. In quel periodo dell'anno la notte arrivava talmente presto che a non farci attenzione ci voleva poco a sputtanare tutta la giornata. Mick era uscito dal letto e frugava tra le lattine di birra sparse in giro. Era stato quello a svegliarla, il frastuono metallico e quello della bottiglia vuota di vodka che sbatteva sulla moquette. Non si era neppure vestito: era chino per terra, e sulla schiena gli si vedevano tutte le vertebre come montagnole allineate. Prendeva le lattine una per una e le gettava da parte. Alla fine ne trovò una in cui era rimasto ancora qualcosa; rovesciò la testa e aspirò con ansia la poca birra calda del fondo. Poi gettò la lattina insieme alle altre. Kris si alzò su un gomito e guardò con la testa annebbiata Mick che si infilava i jeans e poi la camicia. Quel cazzo di termostato non aveva azionato il riscaldamento, e la casa era gelida. Mick aveva la pelle d'oca per il freddo. Lei si sentiva distrutta. Ci aveva dato dentro anche lei con la bottiglia di vodka di sua madre, sbattendosela in gola per non sentirne il sapore. Si chiese torpidamente se non stesse per vomitare... — Dove vai... — balbettò, sostenendosi la testa con il palmo della mano. Aveva i capelli negli occhi. Mick non rispose. Infilò i piedi nelle scarpe senza allacciarle. Uscì barcollando dalla stanza, sbattendo la spalla contro la porta. Fanculo. Lei si distese sulla schiena, premendosi il dorso gelato della mano contro la fronte bollente. Sentiva in gola il sapore della vodka. Se si fosse concentrata, con quel po' di forza che riusciva a trovare, sarebbe riuscita a ricacciarlo giù. In lontananza, sentì Mick camminare pesantemente nel corridoio. Chiuse gli occhi, respirando dalla bocca. Doveva esserci altra roba da bere in giro. Ce n'era sempre, in quella casa. La madre di Kris era un'ubriacona marcia: era per quello che spendeva quasi tutti i soldi degli assegni di suo padre. Mick raggiunse il termine del corridoio e si appoggiò alla parete per mantenere l'equilibrio. Si sentiva gli occhi come se glieli avessero bolliti: il soggiorno era tutto confuso e sfuocato. Avanzò verso il divano. Per poco non ci cadde sopra, mentre lo frugava. Niente... — Merda. — Gli bruciavano gli occhi, come se stessero per lacrimare. — Porca putt... — Prese lo schienale del divano e lo allontanò dalla parete. Fu ricompensato da uno scintillio di vetro trasparente. Si mise in ginoc-
chio e afferrò la bottiglia, portandosela alla bocca. Non ne scese niente; si accorse solo in quel momento che era vuota, solo una macchia marrone in fondo, Scotch o qualcosa di simile. Sentì lo strato di polvere che copriva il vetro, e capì che la bottiglia doveva essere là dietro da settimane. La lasciò cadere, schifato, e si alzò di nuovo in piedi. Avrebbe dovuto uscire a prendere da bere. Da qualche parte. Fuori era già buio; se non ci fosse stata la luce accesa in soggiorno, non sarebbe nemmeno riuscito ad arrivarci. Forse Felton era già al drive-in. Poteva farsi dare qualcosa da quel vecchio bastardo. Perché doveva trovarlo. Aveva troppa roba che gli frullava nel cervello, immagini di Dennie come lo avevano trovato sul campo da football, immagini tutte rosse su pelle bianca e gelata. Anche quando si era sbattuto Kris aveva continuato a vederle, per quanto serrasse gli occhi. Quando lui e gli altri della squadra avevano buttato all'aria l'appartamento di quel tipo del riformatorio, si era sentito bene, come se fosse riuscito a mettere le mani sulle immagini che aveva in testa, come se fossero state grandi quanto le pareti e le mensole e le altre stronzate e lui riuscisse a spaccarle e distruggerle. Ma poi erano tornate. L'alcool cancellava le immagini. Cancellava tutto. Era a quello che serviva. Almeno questo lo aveva già imparato. Si strofinò la coscia, controllando attraverso il tessuto dei jeans di avere le chiavi in tasca. A quel punto era tutto a posto: non doveva fare altro che riuscire a passare la porta e raggiungere la macchina. Poi sarebbe andato tutto alla perfezione. Qualcuno lo stava fissando. Lo sentiva. Si guardò intorno, e la stanza ondeggiò e barcollò al ritmo con cui gli girava la testa. Vide il fratellino di Kris in piedi al termine del corridoio, che lo fissava. — Scemo... moccioso di merda... — biascicò le parole, sentendosi avvampare di rabbia. Lo faceva incazzare il modo in cui il ragazzino lo guardava, fermo là senza dire una parola con gli occhi puntati su di lui. Mick si chinò e raggiunse la bottiglia vuota, poi si alzò e la scagliò contro il bambino. Steven non mosse neanche un muscolo quando la bottiglia si frantumò contro la parete a mezzo metro da lui. Chi cazzo se ne fregava... Mick si girò, allontanandosi dal divano e dirigendosi barcollando verso la porta. Qualcosa gli bloccò il braccio, facendolo fermare. _ Ma chi... — Si guardò attorno, stringendo gli occhi e scuotendo il capo. Steven era entrato nella stanza, in fretta, e gli si era appiccicato, stringendogli forte l'avambraccio appena sotto il gomito.
— Non uscire. Mick non credeva alle sue orecchie. Il ragazzino aveva esclamato quelle parole come un ordine, con voce decisa, da adulto. E anche la sua espressione sembrava da adulto, con quegli occhi che trapassavano Mick. — Eh? — Malfermo sulle gambe, Mick guardò Steven esterrefatto. — Ma che cazz... Steven parlò come un adulto a un bambino. — Torna in camera di mia sorella, e stenditi. — Lentamente, deciso. — Ma non uscire da qui. — Quel pezzettino di merda stava dicendo a lui cosa doveva fare. Mick tirò un manrovescio a Steven con la mano libera, e per poco non perse l'equilibrio seguendo il braccio. Il colpo rimbalzò sulla spalla di Steven come se lui non lo sentisse nemmeno. — È meglio per te se non esci. — Steven tenne gli occhi inespressivi fissi in quelli di Mick. — È meglio se rimani qui. Mick cercò di allontanargli il braccio, ma la presa del ragazzino era più forte. — Levati dai coglioni... — La voce di Mick si fece stridula. — Brutto pelo di culo... frocetto di merda... che cazzo vuoi? Steven si incupì dalla rabbia. Spinse via d'improvviso il braccio di Mick. — Okay. — Steven tratteneva la rabbia dentro di sé, ma un frammento colò tra le parole. — Fai pure. Mick fissò ancora per un momento a occhi sgranati il ragazzino, poi si girò. Riuscì ad aprire a tentoni la porta e uscire barcollando. Alle sue spalle, Steven lo stava a guardare mentre apriva la portiera della sua macchina. — Gliela faccio vedere... gliela faccio vedere a tutti... — borbottò con la testa annebbiata nel mettersi al volante. Dentro c'era qualcosa, qualcosa che gli serviva e di cui si era appena ricordato. Si allungò sul sedile e premette il pulsante del cassettino. Lo sportello si aprì, e lui frugò dentro. Quando ritirò la mano, vi stringeva un involto di stagnola. Lo strappò, e due capsuline rosse gli caddero fra le gambe. Lui le raccolse e se le cacciò in bocca. Gli parve quasi di sentirsele schiudere dentro, un calore lento e viscido che gli pervadeva la spina dorsale. Con gli occhi pesanti, Mick si lasciò ricadere sul sedile e guardò fuori dal finestrino. — Bastardi di merda... — Tutti quanti, uno per uno. Credevano di essere tanto svegli, ma lui gliel'avrebbe fatta vedere. Tirò fuori le chiavi dalla tasca dei jeans e le infilò faticosamente. Il motore si accese con un ruggito. Steven era fermo sulla soglia, nell'aria fredda della notte. Rimase a
guardare la macchina di Mick che si allontanava sgommando dal marciapiede davanti alla casa. I fari avanzarono, un paio di isolati più giù; per qualche istante riuscì a seguire le luci posteriori che si allontanavano, e poi Mick girò un angolo troppo velocemente, evitando per un soffio un'auto parcheggiata, e scomparve alla vista. Lui continuò a guardare nel buio. Aveva cercato di dirlo a Mick, di avvertirlo. Ma non era servito a niente. Tuttavia ci aveva provato lo stesso, e qualunque cosa stesse per succedere non era colpa sua. Non veramente. Qualcosa si muoveva nel buio, lontano, dove non riusciva a vederla. Ma sapeva che c'era. Appoggiò la testa allo stipite, per osservare. E ascoltare. PARTE TERZA La festa è finita 16 Era ancora alla finestra con lo sguardo fisso nel buio. Anne sedeva in mezzo al pavimento, e ogni tanto lo guardava per poi tornare a frugare tra i dischi sparpagliati e rimetterli nelle rispettive buste. I danni all'appartamento erano in maggior parte sistemati. Nell'aria stagnava l'odore pungente del detersivo con cui Taylor aveva finito di ripulire il messaggio dalla parete in cucina. Lo straccio e lo spazzolone duro che aveva usato erano già nel cassonetto per l'immondizia del condominio. Avevano rimesso a posto le mensole, ma non i libri; quando lei era arrivata quella sera, erano ancora accatastati disordinatamente come se lui avesse iniziato a rimetterli in ordine alfabetico e poi avesse perso interesse alla cosa. Lei sapeva cosa aspettarsi, perché lo aveva chiamato dall'ufficio per dirgli che sarebbe arrivata, e lui le aveva raccontato quello che era successo. Guardò il disco di vinile nero che teneva in mano, e il nome sull'etichetta. Dire che era successo dava alla faccenda l'aria di un incidente, come una tempesta che avesse scagliato il ramo di un albero contro una finestra spaccandola. Quello che avevano fatto, ecco il modo giusto di dirlo. Infilò il disco nella copertina di cartone e lo posò sul mucchio che aveva a fianco. Lui sorseggiava il caffè che si era portato vicino alla finestra, anche se lei sapeva che ormai doveva essere freddo gelato. Era convinta che fosse ancora in collera con quei delinquenti che gli avevano rovinato la casa, ma
nel momento in cui era arrivata lui era già oltre la collera. Quel silenzio lungo e riflessivo era molto peggio. Era venuta per dirgli qualcosa, la ragione per cui gli aveva telefonato. E adesso, con quella faccenda... sarebbe stato ancora un po' più difficile. Ma doveva comunque dirglielo. Ma non ancora. Il silenzio di lui pesava ancora troppo su entrambi, su tutta la stanza. Anne prese un altro disco da terra. — Quel ragazzo... — Gli guardò la schiena. — Quello che hanno trovato sul campo della scuola... era uno di quelli che ti hanno dato dei guai, vero? Anne sapeva già la risposta. La sua voce era ricaduta nel silenzio come un sasso dentro un pozzo. Per un istante, Taylor non parlò. Poi annuì lentamente, sempre con lo sguardo fisso oltre la finestra. La voce calma: — Ha avuto quello che meritava... Lei rimase sorpresa. Quelle parole così gelide. Lo fissò. — Cosa? Si girò verso di lei. Scosse il capo, come se si fosse appena reso conto di quello che aveva detto. — No... no, non intendo per questo. — Indicò con una mano il caos che regnava ancora nell'appartamento. — Solo perché sono stati i suoi amici a combinare tutto questo... non è di questo che mi importa. Volevo solo dire... no, lascia perdere. Tornò a girarsi verso la finestra. Anne lo guardò ancora qualche secondo, poi si rimise al lavoro, frugando in giro in cerca del disco appartenente alla copertina che teneva sulle gambe. — Sai... — La raggiunse la voce di lui, bassa, pensosa. — Capisco perché l'hanno fatto... lo so perché. L'hanno fatto perché hanno paura... e nessuno ha mai insegnato loro come comportarsi con la paura. Non sono mai stati educati a farlo... ad averne. — Annuì col capo, lo sguardo fisso nella notte. — Ma adesso sono spaventati per quello che è successo a uno di loro, e quando sono spaventati vanno avanti alla cieca, colpiscono la prima cosa che vedono. Fanno cose come questa per dimostrare che non hanno paura di niente, di niente al mondo. — Abbassò la voce quasi fino a un sussurro. — Ma hanno paura comunque. Da quando è morto il primo. Sanno che qualcosa sta... — Si interruppe, e per un istante il silenzio prese di nuovo possesso della stanza. — E sanno di meritarlo. In fondo, sono ancora bambini. Quelli che gli stanno intorno gli hanno impedito di crescere. Ma sanno che hanno fatto i cattivi. È per questo che hanno paura. Lei si sentì accapponare la pelle delle braccia. Quel tono di voce, le cose
che diceva la spaventavano. Si morse un labbro, guardandosi le mani vuote che teneva sulle braccia. Quando lui parlò di nuovo, capì che sorrideva con quel suo sorriso teso e senza allegria che aveva ogni tanto. — Da bambino... quando mi capitavano cose... che non mi andavano... lo sai cosa sognavo? Anne alzò gli occhi e vide che lui la stava fissando. Taylor si girò ancora verso la finestra, come per parlare al proprio riflesso. — Sognavo un uomo a cavallo. — Annuì lentamente. — Davvero. Lei sorrise, più gentilmente che le fu possibile. Forse era possibile sottrarlo al silenzio e a tutti i pensieri oscuri che aveva. — Scherzi. Lui alzò le spalle. — Be', sai... quando si è bambini... — Sorseggiò di nuovo il caffè freddo. — Me ne stavo nel letto, al buio, e mi faceva ancora male la spalla dove mi avevano preso a cazzotti, o avevo un orecchio tutto rosso e gonfio e la faccia bagnata perché piangevo... sai, con la faccia contro il cuscino per non farmi sentire da nessuno, perché se mi avessero sentito piangere sarebbe stato peggio... e sognavo un uomo a cavallo. — Scosse il capo. — Devo avere visto troppi western, da piccolo. Lei lo fissava in silenzio, aspettando che finisse quello che doveva dire. — Solo che quest'uomo era tutto vestito di nero, e aveva la faccia sempre in ombra, non lo vedevo mai in viso. E il cavallo che montava era tutto nero... proprio come se lo avessero ritagliato via dalla notte, o da un pezzo di carta nera. — Sorrise e annuì col capo, come se sapesse dentro di sé quanto fosse stupido parlare di cose da bambini ad alta voce. — E sognavo quest'uomo vestito di nero, con quel cavallo nero... sognavo che sarebbero venuti... — II sorriso scomparve, e la voce si abbassò ancora di più. — Sognavo... che sarebbero venuti ad aiutarmi... Lei non riuscì più a guardarlo. Chiuse gli occhi. Sapeva che erano cose che non avrebbe dovuto sentire. Cose che bisognava dimenticare, oppure, se non dimenticare, tacere. Di nuovo la voce di lui, più sforzata, un tono aspro. — Però immagino che adesso i bambini non guardino più i western. Non sognano certo cavalli, no? — Rimase in silenzio per qualche secondo. — Oggi un bambino sognerebbe qualcos'altro... qualcos'altro di nero, come ritagliato via dal buio... Lei non poteva aiutarlo. E non aveva mai potuto. Solo in quel momento lo capiva. Quando riaprì gli occhi, lo vide ancora immobile di fronte alla finestra, a guardare fuori. Per terra restavano solo pochi dischi ancora. I cerchi di vinile brillavano,
e quando li guardò li vide sfuocati. Allontanò il volto da lui, anche se sapeva che non l'avrebbe vista, che non avrebbe visto niente. Si strofinò gli occhi con la punta del dito. Si alzò in piedi. Avrebbe potuto allungare una mano e posargliela sulla spalla. — Adesso devo andare. Lui annuì, ma non si voltò a guardarla. — Mi... mi dispiace che sia successo. — Guardò il caos, lo stereo distrutto contro la parete. — Dovresti cercare di dimenticartene. Ripulire tutto e... non pensarci tanto. Lui alzò le spalle, assorto nei suoi pensieri scuri e silenziosi. Non ci sarebbe mai stato un momento adatto. Per dirglielo. — Non vengo più qui. Lui voltò la testa a guardarla, impassibile. Lei spinse fuori le parole una dopo l'altra. — Io e Richard... abbiamo deciso di provarci di nuovo. Capisci... di vedere se riusciamo a sistemare le cose. Per Danny. Così Richard mi ha detto che non sarebbe più andato... da lei. E... — Si interruppe, come se non avesse più niente da tirare fuori. Lui la guardò ancora per un istante, poi annuì lentamente e si voltò di nuovo verso la finestra. — È per questo che sono venuta... per dirtelo. Capisci, vero? Le luci dei lampioni all'esterno gli dipingevano il volto di un azzurro gelido. — Certo. — II volto nel riflesso non mostrava emozione; qualunque cosa provasse, la teneva chiusa dentro. — Certo che capisco. — La guardò di nuovo, poi rivolse gli occhi alla scrivania. Il vetro che copriva la foto di sua figlia era andato a pezzi quando l'avevano gettata a terra con il resto. Tra i frammenti si vedeva ancora il volto della bambina. — Devi fare quello che è meglio per Danny. — Si voltò verso la finestra. Aveva un tono di voce come se si stesse rendendo conto per la prima volta di qualcosa, di una verità. — Prima di tutto il bambino... sempre... devi pensare al bene del bambino... Non c'era altro da dire. Per entrambi. Anne lo fissò. Lo sguardo di lui era lontano, rivolto a un punto del buio al di fuori. Non là dentro. Anne si voltò e prese soprabito e borsetta dal divano. Taylor continuò a guardare fuori dalla finestra mentre lei attraversava la stanza. Anne si richiuse la porta alle spalle e corse in fretta alla macchina, per tornare a casa. Mick sentì un gusto salato in bocca. Gli parve di essere disteso sulla schiena, come se si fosse risvegliato nel proprio letto o in quello di Kris,
ma sentiva la sagoma curva del volante sotto le dita. — Merda... — Gli faceva male la testa, e il dolore ondeggiava al ritmo del pulsare del sangue; se chiudeva gli occhi, gli sembrava una luce rossa che si avvicinava e poi svaniva. Fissarla gli dava la nausea, e sentiva le budella risalirgli in gola. Si costrinse ad aprire gli occhi per allontanarla. Si accorse di essere in macchina. Ricordava perfino di avere guidato... ricordava di esserci salito, di averla accesa... dopo che quello scemo del fratellino di Kris gli si era appiccicato per dirgli di non uscire. O magari faceva solo parte del sogno, qualcosa che gli aveva attraversato il cervello mentre era disteso là sbronzo marcio e completamente fuso? Gli parve di sentire odore di benzina, giusto una punta, nell'aria fredda della notte. Il ragazzino aveva una voce talmente strana, quando gli aveva ordinato di restare. O forse voleva avvertirlo... Mick scosse il capo, nonostante quel gesto gli scagliasse il dolore in cima al cranio. Doveva avere sognato. Strinse più forte il volante e si alzò a sedere. La molla dello schienale era scattata, ribaltandolo quasi fino in posizione orizzontale. Il sedile a lato, invece, era a posto. Vi si appoggiò con la mano per mantenere l'equilibrio. Ora poteva guardarsi intorno e vedere dov'era, dove si era cacciato con l'auto. I fanali erano spenti. Doveva avere sbattuto contro qualcosa e fracassato i proiettori. — Cazzo... — Non gli importava quanto fosse danneggiata la macchina. Mettersi seduto gli diede una nausea ancora peggiore: l'abitacolo dell'auto sembrava girargli intorno, ingrandirsi e poi rimpicciolirsi, come se fosse dipinto sulla superficie interna di una palla di gomma. La lingua gli si aggricciò per il sapore acido che cercava di risalirgli in bocca. Dal parabrezza vedeva solo metallo contorto. Il cofano della macchina? Era del colore sbagliato, grigio invece di rosso. E poi, più oltre, una parete di mattoni. Raggiunse la maniglia della portiera, la spinse e cadde dalla macchina. Si tirò in piedi. Lì fuori l'odore di benzina era più forte. Tenne le mani contro la carrozzeria per non cadere, e cercò di verificare i danni. Il metallo contorto era quello del lato di un cassonetto per l'immondizia. La macchina si era incuneata ad angolo nell'imboccatura di un vicolo sconosciuto. Dal cassonetto con il coperchio spalancato fuoriusciva l'odore forte della spazzatura che andava a unirsi a quelli che gocciolavano dall'automobile. Mick vide che la griglia del radiatore e il paraurti erano completamente distrutti, accartocciati, strappati dal telaio. Nella parete del vicolo c'era una grande scalfittura, nel punto in cui l'impatto della macchina
vi aveva scagliato contro il cassonetto. La ruota sotto il paraurti sputtanato era contorta in un angolo assurdo. Tutto intorno si era formata una pozza di liquido scintillante che colava da qualche punto imprecisato del motore. — Merda... — Mick si strofinò la faccia intorpidita. — Macchina del cazzo... — La rabbia risalì trapassando la nausea. Sbatté il palmo della mano contro la griglia, e per poco non cadde. Si girò, appoggiandosi alla macchina con le gambe distese di fronte a sé. Non era ancora talmente marcio da non poter reggerne ancora; anzi, probabilmente lo avrebbero fatto sentire meglio. Se fosse riuscito a trovarne... Si frugò nella tasca della giacca e vi trovò un pezzo di stagnola. Vuoto. Le rosse ormai erano perdute per sempre, sparite nel suo stomaco e poi nel sangue. Gettò via la stagnola e si alzò, spingendosi contro la fiancata. La macchina bloccava l'imboccatura del vicolo; avrebbe dovuto scavalcarla per andarsene da lì. Non c'era nessun altro modo, gli girava ancora la testa. L'altra estremità del vicolo era libera, e le luci azzurre dei lampioni lo raggiungevano da qualche punto apparentemente a chilometri di distanza. Gli venne voglia di gettarsi a quattro zampe e andare fin là strisciando. Era l'unico modo per farcela ad arrivare tanto lontano. Si diresse incespicando verso l'imboccatura del vicolo, verso la luce in lontananza. Riuscì a fare solo un paio di metri prima di inciampare su assolutamente nulla e cadere pesantemente di lato. Stava peggiorando. Grattò con le dita fra l'immondizia che copriva il selciato del vicolo, cercando di far presa per non precipitare nel cielo che gli vorticava sopra. Nel cadere a terra aveva sentito in bocca il gusto salato del proprio sangue, e ora se lo sentiva colare sul mento. Il sapore caldo fece crescere la nausea. Si girò con la faccia in basso, e sbatté l'angolo della fronte contro la parete di mattoni del vicolo. Non voleva vomitare disteso sulla schiena. C'era pericolo di morire. — Gliel'ho fatta vedere... — Invece del vomito, alla bocca gli risalirono le parole. Le biascicò contro l'asfalto lurido. — Gliel'ho fatta vedere, a quel rotto in culo... Un'ombra gli cadde addosso, a bloccare la luce sottile dei lampioni. Mick si sentì scuotere per una spalla. — Ehi.... ehi, Mick... — La voce della sagoma che si chinava su di lui era piena di preoccupazione. — Cristo, amico, sei proprio sfatto... Mick prese per il braccio l'ombra e vi si abbarbicò disperatamente. Grazie a Dio uno dei suoi compagni lo aveva trovato. Gli venne quasi da pian-
gere per la gratitudine. — Oh, amico... — II profilo buio del suo compagno, stagliato contro l'azzurro dei lampioni, gli ondeggiava davanti agli occhi insieme a tutto il vicolo. Le lacrime gli salirono agli occhi, annebbiando la scena ancora di più. — Devo andare alla partita... stasera c'è la partita... — Forza. — II suo compagno lo tirò in piedi, sostenendolo sotto il braccio. — Non preoccuparti, amico.... ti ci porto io. Lui si lasciò trascinare verso l'estremità del vicolo. C'era una macchina in attesa, un motore che ronzava dolcemente nell'aria immobile della notte. — Cristo... — Mick lasciò ricadere la testa contro il sedile. Si sentì prendere e sollevare la gamba, la sentì spingere dentro in modo che il suo compagno potesse richiudere la portiera. Quella del lato guida si spalancò, e l'altro sedette al volante. Mick si strofinò il volto; il suo amico mise in marcia e uscì dal vicolo. — Oh, Dio... me ne sono fatte troppe... merda... grazie a Dio mi avete trovato voi... Pensava che i suoi amici nel sedile posteriore dicessero qualcosa. Facevano sempre tutto in gruppo, perché era quello che voleva dire far parte di una squadra. Proprio come con il gatto e quando avevano fatto casino nell'appartamento di quello stronzo: le cose si facevano in gruppo perché così si era forti e nessuno poteva fermarti. E ci si aiutava vicendevolmente. Non era per quello che erano venuti a cercarlo? Ma nessuno diceva niente. La macchina era silenziosa, solo il rumore del motore e le strade deserte che scivolavano via fuori dai finestrini. Mick scosse la testa, cercando di costringere i propri pensieri a muoversi, affondando le dita nella pelle rigida della faccia come per risvegliarsi. Lasciò ricadere la mano, sfiorandosi la bocca aperta con il palmo, e si guardò a fianco... ... guardò l'uomo al volante, l'unica persona in macchina insieme a lui, l'unica... ... che gli rivolse un viso nero e privo di lineamenti, buio nel buio, invisibili perfino gli occhi, anche se Mick ne sentiva il peso che lo ricacciava indietro sul sedile... — Ehi... — La sua voce risuonò debole all'interno dell'abitacolo, ingoiata dall'oscurità. Un terrore improvviso attraversò la nebbia che gli riempiva la mente. Si agitò sul sedile, allontanandosi dal volto nero che lo fissava, e cercò a tentoni la maniglia. Vide i lampioni sfrecciare all'esterno, sagome offuscate che erano i palazzi immersi nel buio; la macchina stava prendendo velocità. Ma a lui non importava, doveva uscire, doveva scappare...
Sentì una mano afferrargli il colletto della giacca, la stessa che lo aveva aiutato ad alzarsi nel vicolo. Quella mano lo tirò via dalla portiera, facendolo alzare dal sedile; per un momento, ebbe la faccia davanti a quella dell'uomo al volante, e il bagliore di quegli occhi in ombra gli trapanò il cranio. Poi l'uomo, sempre con la sinistra sul volante, sbatté Mick contro il sedile con l'altra mano. Mick picchiò la nuca contro lo schienale. La vista gli si schiarì, e vide la mano dell'uomo, stretta a pugno, avvicinarglisi descrivendo un arco in orizzontale. Prima che potesse alzare il braccio a proteggersi, il pugno lo prese in pieno volto. Il colpo lo mandò a sbattere contro la portiera e poi sul sedile. Sentì il gusto del sangue salirgli in bocca. Gli schizzi di rosso sul finestrino gli si sbavarono sotto le dita quando lui cercò di aggrapparsi al vetro. All'esterno vide la strada buia che rallentava, si fermava. — No... per favore... — Le parole erano bolle umidicce nel fluire del sangue. Mick si rattrappì contro la portiera nel veder arrivare un altro manrovescio. Il colpo lo prese alla guancia con uno scricchiolio di ossa rotte. Il sangue gli schizzò negli occhi, e Mick sentì con la lingua i monconi spezzati che aveva in bocca. Pianse, di un terrore più grande del dolore. Ripiegò le gambe, curvando la schiena, come per raggomitolarsi su se stesso in un niente, in qualcosa di invisibile che quel volto buio non riuscisse più a trovare, che non potesse più ferire... L'uomo al volante strinse la mano sulla giacca di Mick, alzandolo di nuovo. Lui aprì gli occhi, e si vide davanti alla faccia l'altra mano dell'uomo. Con un gesto veloce, impercettibile, saltò fuori qualcosa di scintillante, che rifletteva la luce azzurrina da oltre i finestrini dell'auto. Il coltello... Mick lo aveva già visto prima, lo aveva addirittura tenuto in mano. Il coltello di Dennie: sapeva che era quello. Sul metallo lucido vide il riflesso distorto del proprio volto bagnato di sangue e lacrime. Oltre la lama c'era il viso dell'uomo. Il viso che ancora non vedeva, nascosto dall'oscurità all'interno dell'auto. Ma lo vide allontanarsi da lui e mettersi di profilo, per guardare indietro, sul sedile posteriore. L'uomo al volante parlò in un sussurro che scivolò nello spazio buio: — Steven... C'era qualcun altro nella macchina: Mick se ne accorse in quel momento. C'era sempre stato, nascosto sul sedile posteriore. A osservare e aspettare. Il pugno dell'uomo al volante lo inchiodava per il collo al sedile, e non riusciva a muoversi, ma riusciva a girare gli occhi per vedere chi fosse la
persona a cui l'uomo aveva parlato. Steven... il ragazzino era dietro, il fratellino di Kris. In ginocchio sul sedile, allungato in avanti a vedere tutto, una mano contro il sedile anteriore per tenersi in equilibrio. Steven non guardava Mick: teneva gli occhi sul coltello, sui riflessi della luce sulla lama, tanto forti da bruciare come un fuoco negli occhi. L'uomo al volante sollevò il coltello. — Steven.... — Di nuovo quel sussurro, affilato come la lama. — Prendilo... "No..." Mick cercò di urlare, ma solo un piagnucolio gorgogliante riuscì a vincere la morsa che lo stringeva alla gola. Steven non prese il coltello. Si ritrasse, gli occhi sempre fissi alla lama. — Su, Steven... — La voce dell'uomo si fece pressante. — Come prima... questo... e poi tutti gli altri... possiamo sistemarli tutti quanti... — II coltello tremò, e il viso di Mick ondeggiò nel riflesso. Steven scosse lentamente il capo. — No... Mick guardò l'uomo allungarsi sul sedile verso il buio alle loro spalle. — Steven... La morsa che gli stringeva la gola si allentò, quanto bastava perché Mick potesse girare la testa e vedere. Il sedile era vuoto. Steven non c'era. A Mick si mozzò il fiato in gola quando l'uomo strinse il pugno. Gli strinse il polso, ma non riuscì a contrastare la forza che lo spingeva contro la portiera. Il volto di tenebra gli si portò sopra e bloccò la luce azzurra che filtrava dal parabrezza. Il coltello brillò alla luce, una scintilla blu che percorse il filo della lama. Poi scomparve. Svanì. La mano dell'uomo era troppo veloce per riuscire a seguirla. Per un istante confuso, con le lacrime che gli riempivano la bocca spalancata, Mick si chiese dove fosse finito il coltello. Lo capì nel sentire il dolore che gli sbocciava dentro, il fuoco che gli trapassava il cuore. L'uomo d'ombra gli lasciò andare la gola, e lui urlò. Steven rimase immobile sulla cima della collina. La notte lo avvolgeva, e con lui il mondo. Vedeva fino in fondo alla stradina che percorreva la recinzione del riformatorio. La macchina nera era parcheggiata là. Anche a quella distanza, da cui la vedeva solo come una sagoma nera, capì subito quello che stava succedendo dentro. Se chiudeva gli occhi, rivedeva ogni cosa. Vedeva tutto.
Il silenzio della notte venne spezzato, tagliato in due. Da quel punto in basso, dentro la macchina, provenne un urlo. E non ci fu più silenzio, non ci sarebbe mai stato, solo il suono del dolore e della paura che gli battevano contro le orecchie. Rimase fermo ad ascoltare. Chiuse gli occhi, e lo vide. Vide tutto. 17 Alcuni del pubblico applaudivano. Erano i tifosi più accaniti. Non c'era neanche molta gente sulle gradinate, non dopo il modo in cui erano andate le cose ultimamente, ma alcuni arrivavano sempre nonostante tutto. Sportivi in età pensionabile, ancora con i capelli a spazzola e i giubbotti scoloriti con il monogramma della squadra di quando si erano diplomati vent'anni prima, che ricucivano e rappezzavano anche se ormai non riuscivano più nemmeno a chiudere la lampo, da tanto erano panzoni. Il modo in cui urlavano e incitavano la squadra, come se fossero ancora al liceo, aveva sempre fatto sentire Larry molto strano, ma quella sera gli diede la nausea. Dovevano per forza sapere di tutte le cose che erano capitate, ma non gliene importava. Erano venuti per la partita. Non aveva molto tempo per pensarci. Le urla dalle gradinate erano attutite dal casco, e il centrocampo gli aveva appena tirato la palla ovale. Corse indietro, girandosela fra le mani per passare le dita sulla cucitura, nel tentativo di vedere dove Cristo fosse finito il ricevitore. Gli sembrava di essere diventato cieco, o peggio: vedeva ancora, ma non aveva senso, solo sagome contrassegnate da numeri che si scontravano e lottavano fra loro, fra i tonfi dei paracolpi che si scontravano e i grugniti. Poi lo placcarono: con una calma tale che sembrava aspettassero solo l'invito. Lui schizzò in aria, ma riuscì a tenere la palla, stringendosela al petto, e colpì la terra fangosa con il lato del casco. L'allenatore fece segno a qualcun altro di calciare la palla, e Larry uscì barcollando dal campo, togliendosi il casco e dirigendosi verso la panchina. Sedette pesantemente, abbassando la testa e ansimando in cerca d'aria. Il casco gli penzolava tra i piedi. Da entrambi i lati erano seduti gli altri riservisti della squadra, tutti con l'aria ugualmente esausta e sconfortata. Nessuno di loro gli aveva rivolto la parola nel vederlo uscire. Quello accanto a lui sputò per terra. — Ci stiamo facendo spaccare le corna... — Aveva la voce piena di disgusto. Larry fissò il terreno, ancora stordito per il colpo che aveva preso. Scos-
se il capo. — Non dovremmo neanche essere qui a giocare questa cazzo di partita. — Non riusciva ancora a crederci. Alzò gli occhi e vide che l'altra squadra restituiva il calcio di ripresa e guadagnava venti iarde senza neanche far finta di sforzarsi. Avevano fatto entrare in campo quasi tutti i riservisti, giusto per rendere la cosa meno farsesca. Ma cosa ci stavano facendo lì tutti quanti? Di nuovo, pensò a voce alta. — Cristo santo, uno dei nostri è morto... e noi siamo qui a giocare una stupida partita di football? Il giocatore accanto a Larry grugnì in segno d'assenso. Con la coda dell'occhio, lui vide alcuni degli altri annuire col capo. Sembravano tutti vergognarsi, come se li avessero sorpresi a darsi a qualche vizio di poco conto ma schifoso. Tutte stronzate. Avrebbero dovuto rimandare l'incontro a fine campionato, o dare forfait e in culo a tutto, o qualsiasi altra cosa... se non fosse stato che quel sifilitico di allenatore era così kamikaze, neanche ne andasse del suo impiego o che, come se non l'avessero già preso nel culo da otto partite a quella parte, con la certezza matematica di finire all'ultimo posto nella classifica del distretto. Larry era convinto che quel testa di cazzo di Mick fosse un grandissimo stronzo, ma doveva dargliene atto: quel figlio di una vacca aveva avuto l'idea migliore. Non farsi vedere affatto; anche se era il capitano. Ed era quello il motivo per cui l'onore di uscire a farsi rompere il culo dalla difesa degli avversari era toccato a Larry. Quando si facevano un paio di punti agli allenamenti, voleva dire che per le partite vere non sarebbero andati più in là. Mentre Mick era in giro da qualche parte, probabilmente a sbronzarsi. Il che, pensò Larry, si poteva considerare un modo come un altro di onorare i morti. Migliore comunque che giocare un incontro di football. Qualsiasi alternativa era migliore... — Stronzate. — Tanto valeva andare a cercare Mick e fargli compagnia. Aveva sicuramente più senso. Larry si alzò dalla panchina. E fece per andarsene. L'allenatore lo prese per il braccio. — Dove diavolo credi di andare? — Tieni. — Larry spinse il casco nel fegato all'allenatore, così forte che quel culo rotto indietreggiò di qualche passo. — Gettala tu la spugna, stronzo. Si diresse alle docce, senza curarsi dell'allenatore che strillava sputacchiando.
La valigetta, quella che portava sempre con sé, era sul divano, chiusa. Taylor non l'aveva nemmeno sfiorata da quando era arrivato al riformatorio e aveva iniziato il turno. Non aveva fatto altro che aspettare. Sedeva a uno dei tavoli della sala principale dell'accettazione, ad ascoltare. Ascoltava il silenzio all'esterno, la notte che avanzava lentamente passo per passo. Rivolse lo sguardo oltre le vetrate del salone, verso il buio. In lontananza, oltre i campi di atletica, vedeva la recinzione e i lampioni che la punteggiavano a intervalli fissi. Alzò gli occhi verso l'orologio alla parete: era già passata mezzanotte. Andava bene. Poteva aspettare. Quando sentì il rumore di un'auto, un motore potente a basso regime che tagliava l'oscurità, come se si trovasse tra le rocce sottostanti l'edificio, allora chiuse gli occhi e ascoltò. Era là fuori. Non aveva bisogno di vederla per sapere che c'era. Girò la testa e guardò la scrivania. Repken non aveva sentito niente: era disteso sulla sedia, i piedi sul ripiano, a sciropparsi uno spesso tascabile. Era una notte lenta. Taylor si alzò dal tavolo. Aveva già preso la pila; l'aveva tirata fuori dal cassetto della scrivania, come prima cosa dopo aver firmato il registro e una volta uscito tutto il personale diurno. Raggiunse la porta blindata, prendendo di tasca le chiavi con la cordicella. Sentì sulla schiena il peso dello sguardo di Repken. Quando spalancò la porta, l'aria gelida della notte penetrò nel salone. Taylor guardò Repken, e si infilò di nuovo le chiavi in tasca. — Io esco. — Aprì di più la porta. — Per l'ispezione. Repken annuì e tornò al suo libro. Taylor uscì e richiuse la porta blindata, e la luce che veniva dal salone si ritrasse all'interno. Mentre usciva sul campo, tenne la pila spenta. Macchina e autista se n'erano andati. Quando Taylor raggiunse la stradina di servizio, sentiva già il silenzio della notte, di nuovo completo e assoluto, serrarglisi attorno mentre arrivava alla recinzione. Non c'era niente, solo il buio. Raggiunse la rete e accese la pila. Fece passare il raggio fra i riquadri di filo metallico, fino alla strada dall'altro lato. Impronte di ruote: le vide subito, linee parallele tracciate nella polvere. Qualunque macchina fosse stata a imprimerle, si era diretta verso la cancellata. Era sparita... ma aveva lasciato qualcosa. Seguì le tracce con il fascio luminoso, finché non raggiunse qualcosa che sembrava un cumulo di
stracci. Taylor si avvicinò alla recinzione. Vedeva qualcosa di nero gocciolare dalla tela e inzuppare la terra. Sapeva cos'era, ma doveva vederlo lo stesso. Prese le chiavi e aprì il lucchetto della cancellata. Proiettò il fascio di luce davanti a sé mentre si avvicinava al mucchio di stracci. Si fermò a mezzo metro di distanza: non voleva entrare coi piedi in quella pozzanghera, che alla luce della luna sembrava nera. Nera, e poi rossa quando vi passò sopra il raggio della pila. Anche la tela era rossa, inzuppata di quel colore. Dal fagotto spuntavano un paio di gambe aperte a V. La tela dei jeans sembrava cuoio, inzuppata di sangue. La parte anteriore dei jeans era stata strappata via con un coltello. Quello che restava dell'inguine era rosso e molliccio, e il sangue era schizzato anche sul giubbotto con il monogramma della squadra. Anche la maglia era lacerata, uno squarcio dal collo al ventre a mostrare contorni rossastri all'interno del torace e dello stomaco. Taylor spostò il fascio luminoso sul volto della creatura. Gli occhi erano spalancati, fissi nella notte. La bocca era aperta, ma c'era qualcosa a bloccare quell'urlo muto. Dalla bocca fuoriusciva l'impugnatura di un coltello, in verticale. La lama doveva aver spezzato la nuca, inchiodando la testa all'asfalto. Riconobbe il volto. Lo aveva già visto prima, oltre la recinzione del drive-in. E un'altra volta, che rideva di lui da dietro il volante di una macchina dall'altra parte della strada di fronte al suo appartamento, che rideva di lui mentre lui gettava un gatto squartato nel cassonetto della spazzatura. Ma ora non rideva più. Continuava a urlare, nonostante quel coltello piantato in bocca. Taylor si allontanò e tornò al cancello. Doveva fare una telefonata. La stradina faceva parte del territorio su cui sorgeva il riformatorio, e i poliziotti arrivarono lì a prendere il cadavere. La luce rossa sul tettuccio dell'auto di uno di loro rimbalzò sul pendio della collina come una fiammata veloce. La strada era illuminata dai fari che circondavano il corpo. Taylor rimase a guardare i poliziotti che svolgevano il loro lavoro, con i flash delle macchine fotografiche a spezzare il buio. Si trovava appena all'esterno della fascia di nastro giallo che delimitava la zona. Un agente in borghese con un taccuino in mano sfogliò le pagine
della dichiarazione che Taylor aveva già consegnato. — Lei non ha visto nessuna auto qui sulla strada stanotte? — chiese l'agente alzando gli occhi dal taccuino. Taylor scosse il capo. — No. — Ha visto qualche veicolo sospetto nelle vicinanze? Di recente, voglio dire. Nelle ultime due settimane o circa. Aveva esaminato le impronte dei pneumatici, fotografandole e seguendone il percorso fino alla cancellata chiusa. A Taylor non importava, sapeva che così non avrebbero trovato niente. — Allora? Taylor riportò lo sguardo sull'agente. — No. — Sarebbe comunque stato un segreto dentro di lui. L'agente ripiegò le pagine del taccuino. — Forse avremo altre domande da farle più tardi. Dipende da come va l'indagine. Le telefoneremo. Lui annuì. — Certo. L'agente si allontanò da lui, andò verso il punto in cui stavano sollevando il cadavere per deporlo su una barella. Per quella notte era finita. Taylor si girò e andò verso il cancello e l'edificio che attendeva più oltre. Fu fortunato. I poliziotti non lo avevano visto. Si era messo a girare in cerca di Mick fin da quando aveva lasciato la partita di football. Quando vide i lampeggianti rossi e le auto della polizia sulla stradina oltre il riformatorio, capì da una sensazione nel profondo delle viscere che qualcun altro lo aveva già trovato. Larry lasciò l'auto parcheggiata sulla stradina, molto lontana dal punto in cui si stava svolgendo il movimento, dove nessuno sarebbe riuscito a vederlo. Corse su per il pendio della collinetta, strisciò fra le erbacce basse e secche per non essere a portata d'occhio. Da quel punto, riuscì a vedere bene la faccia di Mick per un momento, quando il vecchiaccio che si erano portati dietro gli sbirri, che doveva essere un medico legale o qualcosa di simile, tirò fuori il coltello dalla bocca spalancata. Poi lo coprirono con un lenzuolo. Larry dovette sforzarsi per non vomitare, serrando forte i denti e stringendosi lo stomaco con le mani. Il tipo del riformatorio, quello a cui Mick e i suoi compagni avevano dato addosso con quella storia del gatto morto e il resto, era fermo sulla stradina di ghiaia, a farsi torchiare dagli sbirri. Gli stavano facendo ogni genere di domande: probabilmente era lui che aveva trovato il corpo e chiamato i poliziotti. L'aria della notte era talmente immobile che Larry sentiva quel-
lo che il tipo e gli sbirri si stavano raccontando. Larry avrebbe voluto parlare con lui, specialmente dopo aver sentito certe cose che aveva detto alla polizia. Scese lungo il pendio, ben oltre la portata di qualsiasi luce. I poliziotti terminarono di fare domande al tipo del riformatorio, e lui si diresse alla cancellata. Larry lo stava già aspettando. Era chino per terra, e si alzò in piedi. — Ehi... Lui alzò gli occhi: era perso nei propri pensieri, e camminava senza guardare dove andava. Era solo a un paio di metri di distanza: Larry guardò il tipo del riformatorio squadrarlo attentamente e fissargli il giubbotto con il monogramma. Identico a quello che indossava il cadavere che avevano appena portato via. — Che vuoi? — II tipo aveva con sé una grossa pila che lasciava penzolare dalla mano. Larry guardò più indietro: la polizia non si era accorta di quello che stava succedendo lì dove si trovavano. Tornò a guardare l'uomo che aveva di fronte. — Posso parlarti un minuto? Dopo un istante, quello del riformatorio annuì col capo. — Certo. Che hai in mente? — La voce era fredda, inespressiva. Larry indicò con un cenno del capo la polizia, che si stava occupando dei propri affari oltre le transenne di nastro giallo. — Ti ho sentito parlare ai poliziotti... quello che ti hanno domandato... Senza muovere un muscolo, il tipo del riformatorio aspettò di sentirlo continuare. — Gli hai detto che non hai mai visto niente di sospetto qui in giro, come una macchina, o cose del genere. L'altro continuò nel suo silenzio. Fissò Larry con un'occhiata dura. La voce di Larry parve troppo nervosa perfino a lui stesso. — Io l'ho vista, una macchina. Sai, una di quelle cose... tipo sospette. Sul volto dell'altro passò quasi un sorriso, la testa inclinata leggermente. — Davvero? Larry gli si avvicinò. — L'ho vista un paio di volte. Vicino al drive-in... lo sai, dove si va la sera a fare festa. — Brutto stronzo, certo che lo sapeva. — Una macchina nera che arriva sulla stradina fuori e si ferma, capisci, come se quello che c'è dentro stesse a guardare o altro. E... qualche volta... quel ragazzino, Steven... lo sai, il fratellino della ragazza di Mick... l'ho visto... — Esitò, poi proseguì abbassando la voce. — L'ho visto andare alla
rete e parlare con quello che guida la macchina. Il tipo del riformatorio gli rivolse un'occhiata gelida. — E allora? Larry alzò le spalle, un tremito quasi impercettibile. Non stava andando come aveva creduto. — Non so... credevo che forse... se tu avevi visto una macchina qui in giro... e se era la stessa che ho visto io, con quello là a guardarci... forse dovremmo dirglielo. Alla polizia, capisci. L'uomo parve riflettere sulla proposta. Si strofinò contro il mento l'estremità della pila. — E tu lo hai detto a qualcuno? Ai tuoi amici, o ai compagni di squadra? Gli hai parlato di questa macchina che hai visto? Lui scosse il capo. — Non... non immaginavo che succedesse qualcosa. Cioè, era solo una macchina che stava là ferma. Come tante. E poi, dopo, non l'ho detto a nessuno... sai, di Steven che andava a parlare con quel tipo... perché pensavo che si sarebbero incazzati con lui. Come se fosse coinvolto in quello che stava capitando. Sul volto dell'uomo si allargò un sorriso. — Davvero un ragazzo coraggioso. — Non era veramente un sorriso. — Davvero. Come fai a sapere che in quella macchina non c'ero proprio io? Come fai a sapere che il cadavere del tuo amico non l'ho trovato io proprio perché sono stato io a metterlo là? Hmm? Come fai a saperlo? Larry fu preso in contropiede. Gli ci volle un momento per ritrovare la voce. — Non... non lo so. Il tipo del riformatorio lo oltrepassò e girò la chiave nel lucchetto che chiudeva la cancellata. Parlò senza neanche voltarsi a guardare Larry. — Va be', non stare a pensarci tanto, perché non sono stato io. Larry lo prese per la manica. — L'hai vista? La macchina? Lui gli allontanò la mano, e spalancò la cancellata. — Non è meglio se vai alla polizia a dirglielo? Taylor si voltò e rivolse a Larry un'occhiata fulminante. — E perché? Non sta succedendo niente che mi riguardi. Che m'importa di quello che capita a voi pezzi di merda? — Colpì Larry al petto con il braccio teso, e lui indietreggiò, barcollando, mentre l'uomo gli si avvicinava. Aveva sul volto un'espressione rabbiosa. — Ci sono cose che voi non sapete, che vi posso spiegare io. Lo sai cosa? Eh, signor eroe del football? — Spintonò Larry una seconda volta. — Adesso te lo dico. Voi non sapete cosa vuoi dire essere piccoli e vedersi maltrattare di continuo da gente più grande. Che ti prende a calci e ancora a calci e non ti lascia mai in pace, finché arrivi al punto che non vuoi più svegliarti alla mattina, non vuoi più nemmeno vivere.
Aveva fatto indietreggiare Larry a spintoni lungo la stradina secondaria, fino al bordo. Per poco non cadde sul pendio della collina quando l'uomo del riformatorio si fece avanti, arrivandogli davanti agli occhi. — Eh? — Larry era stupefatto dallo scoppio d'ira dell'uomo. — Di che parli? Io non... L'uomo era preso dalla propria rabbia, inarrestabile. Stava urlando così forte che Larry non capiva come facessero gli sbirri a non arrivare di corsa. — Perché... — Gli occhi dell'uomo erano stretti, due fessure. — Perché qualcosa dentro è già morto, deve morire per togliere le emozioni, per non sentire dolore quando gli altri ti danno addosso. Voi siete fortunati, non sapete cosa significhi qualcosa del genere, o forse ve ne siete dimenticati, tu e i tuoi soci. Perché a voi piace maltrattare i più piccoli, ci godete a ucciderli un pezzetto dopo l'altro... è divertente, no? Un altro spintone, e Larry cadde finendo disteso contro il ghiaino che ricopriva il fianco della collina. Gridò: — Non capisco di cosa parli... L'uomo emise un ringhio pieno di amarezza. — Soprattutto sapendo che non dovrete mai pagarne il prezzo. È questa la parte migliore, giusto? Sapere che potete uccidere qualcuno dentro, e comunque potrà lo stesso crescere e un giorno o l'altro diventare adulto, e andarsene in giro con qualcosa di morto dentro... qualcosa che avete ucciso tu e i tuoi amici. Lui cercò di rialzarsi in piedi, ma la rabbia dell'uomo lo inchiodò a terra. — E a quel punto cosa dovrebbe succedere? Eh? — La voce assunse un tono sarcastico. — Dimmelo tu. Se succede qualcosa... se arriva qualcuno... e tutto d'un tratto chi maltratta una persona più piccola scopre che c'è un prezzo da pagare per averla uccisa poco alla volta... cosa dovrei fare io? Eh? Larry guardò l'uomo stupefatto. — Di che... non... L'uomo non lo sentì nemmeno. Abbassò la voce. — Perché forse è proprio quello che vi meritate. Forse è meglio che tu e i tuoi amici impariate ad aver paura. Fino alle ossa. Perché è arrivato qualcuno. E adesso c'è un prezzo, un prezzo che credevate di non dover mai pagare... adesso è arrivato il conto. Larry non riuscì a fare altro che guardare l'uomo che si voltava e andava verso la cancellata. Repken alzò gli occhi dalla scrivania quando Taylor fece ritorno all'accettazione. La porta blindata si richiuse, spingendo fuori la tenebra e il gelo.
— Finita? — Repken non aveva più toccato il suo tascabile, ancora aperto sulla scrivania, da quando Taylor era entrato ore prima a chiamare la polizia. Per riferire cosa aveva trovato sulla stradina. — Sistemato tutto, là fuori? Taylor non rispose. Si infilò le chiavi di nuovo in tasca, poi andò vicino al tavolo su cui stava la valigetta. La aprì e guardò il mucchio di pagine dattiloscritte all'interno. — Certo che dev'essere stata una bella strizza al culo — continuò a blaterare Repken. — Uscire e trovarsi davanti un cadavere... Taylor tirò fuori i fogli di carta dalla valigetta. Li tenne fra le mani come a soppesarli, poi li posò di nuovo. Li guardò ancora per qualche istante, con i muscoli del collo che gli si tendevano. In un'esplosione di collera improvvisa, scagliò via la valigetta dal tavolo, e i fogli si sparpagliarono in una tempesta di carta bianca per ricadere a terra senza vita. 18 Percorse cautamente la strada nel buio. Oltre la recinzione si stendeva lo spiazzo deserto del drive-in, punteggiato dei sottili paletti per gli altoparlanti in file silenziose. Steven si fermò e alzò la testa, allungando una mano in avanti per tenersi in equilibrio. Gli altri, i poliziotti e quelli che erano con loro, li aveva visti vicini, appena oltre la parte opposta della collinetta; poi se n'erano andati, portando via il corpo di Mick, ma Steven avanzava ancora con circospezione. Si guardò intorno, e non vide nessuno. Ma sapeva che sarebbe arrivata proprio lì. — Esci... — II sussurro ricadde nel buio. Lui stesso fece fatica a sentirlo. Del resto non gli importava, anche se lo sentiva qualcun altro. L'urlo del bambino spezzò il silenzio della notte. — Vieni fuori! Dove sei? Poi intorno a lui si fece luce, una luce che scacciò la sua ombra di là dalla recinzione a morire nel vuoto più oltre. Si guardò intorno, e vide i fanali a molti metri di distanza, che crescevano da una debole fosforescenza gialla a un bagliore accecante. Si riparò gli occhi, sforzandosi di vedere oltre la luce. Riuscì appena a distinguere la sagoma dell'uomo dentro l'abitacolo, seduto al volante. Stava aspettando lui.
Con cautela, Steven fece il giro della macchina, tenendosi a distanza. Mentre lo faceva, l'uomo al volante si allungò sul sedile opposto, e il finestrino del lato passeggero si abbassò. La voce dell'uomo al volante lo raggiunse. Dolcemente: — Steven... sali... — L'uomo spalancò la portiera. Steven indietreggiò di un passo, allontanandosi dalla macchina nera. Scosse il capo. — No... vattene... La portiera aperta, il buio dentro la macchina, gli strinsero lo stomaco. Girò lentamente dall'altra parte, passando di fronte ai fanali. Per qualche ragione i suoi passi sembravano avvicinarlo di più, come se fosse preso a un amo invisibile. Così vicino che l'uomo al volante avrebbe potuto sporgersi dal finestrino aperto e toccarlo. Invece, gli rivolse un cenno della mano per invitarlo ad avvicinarsi. — Steven... va tutto bene... non ti farei mai del male... — Non ti voglio qui... — Lui continuò a muoversi, di nuovo davanti ai fanali, di nuovo vicino alla fiancata. — Non ti voglio più qui... Il volto di tenebra, immerso nell'ombra dell'abitacolo, era fisso su di lui. — Su... — La voce era dolce e fascinosa, come un invito gentile. — Solo un momento... ho qualcosa da mostrarti. Ora lui si trovava di fronte all'auto, con quella portiera come un'ala protettrice che lo attirava dentro. Esitò. Ma sapeva che doveva farlo. Salì. L'uomo al volante si allungò e richiuse la portiera. Poi si lasciò andare sul sedile. Il silenzio della macchina si richiuse su Steven, avvolgendolo nel piccolo mondo che riconobbe dai suoi sogni. — Guarda... — L'uomo indicò un punto oltre il parabrezza. Steven seguì la direzione del dito, guardando la tenebra all'esterno. In lontananza, i fari della macchina raggiungevano il drive-in deserto. La luce arrivava giusto a toccare lo snack bar al centro dello spiazzo. Non c'era nessuno: niente auto parcheggiate, nessuno della squadra di football a sghignazzare e bere. Deserto e silenzioso. L'uomo girò il volto in ombra verso Steven. — La festa è finita. Steven restituì lo sguardo. Quel volto era tenebra, tenebra in cui lasciarsi cadere, cadere in eterno. Tenebra che nascondeva gli occhi puntati su di lui. L'uomo al volante aveva qualcosa in mano, e lo porse a Steven. Un involto piccolo e raffazzonato di carta macchiata di liquido scuro. Steven si rannicchiò contro la portiera nel veder avvicinarsi quel pacchetto. — Ho preso questi... — Steven si sentì sfiorare l'orecchio dal sussurro
morbido dell'uomo. — Per farti vedere... Sollevò con una mano un lembo del pacchetto. Poi gli altri, come un fiore che sbocciava. Steven abbassò gli occhi su quello che l'involto conteneva. Due oggetti umidi. Sembravano tagli di carne o, meglio, lo sembravano in quel momento, ma Steven sapeva che non lo erano. Non proprio. Riconosceva ancora quelle cose scure e impiastricciate: erano pezzi di corpi umani. Capì anche di quali corpi. Voltò la testa, e alla gola gli salì una nausea soffocante. Allontanò l'involto, e il liquido attaccaticcio gli bagnò le mani. — No... no... La voce dell'uomo cercò di tranquillizzarlo. — L'ho fatto... per te... Steven sentiva la testa colmarsi di quella sensazione di soffocamento, che superava ogni altra. L'odore di quei due pezzi di carne gli diede le vertigini, gli fece pesare sulle spalle il piccolo mondo della macchina nera. Frugò a tentoni di fianco a sé in cerca della maniglia. — No... — Dalle palpebre strette gli scesero le lacrime. — Io ti ho sognato... non voglio più vederti qui... Il sussurro si avvicinò ancora di più all'orecchio di Steven. — Tutti... tutti quanti... per te... Lui urlò, come un'esplosione. — Io ti ho sognato! Raggiunse con le dita la maniglia e la afferrò. La tirò con forza, e la portiera si aprì spinta dal suo peso. Ricadde sull'asfalto, graffiandosi forte la spalla. Mentre si trascinava in piedi e cominciava a scappare, sentì un altro grido alle sue spalle. Un urlo che si soffocava da solo, come se provenisse da un cuore spezzato. — Steven... Il grido dell'uomo d'ombra lo sommerse. Lui si coprì le orecchie con le mani per cancellarlo, il volto rigato di lacrime mentre scappava nel buio. Accecato, si scontrò con qualcosa, con tanta violenza da perdere il fiato. Annaspò nel sentirsi afferrare le spalle con forza da mani che lo intrappolavano. Il ragazzino spalancò gli occhi. Larry guardò il viso stravolto dalla paura e dalla sorpresa, lo sentì annaspare per ritrovare il fiato. Una volta allontanatasi la polizia, lui era rimasto sulla collina, dove il tipo del riformatorio lo aveva fatto cadere. E aveva percepito la presenza
poco lontano di cose che si muovevano nel buio. Era venuto a vedere. Steven si agitò, spingendo Larry sul torace. Lui abbassò gli occhi e vide che aveva il giubbotto sporco di macchie scure ancora umide. Strinse il ragazzino più forte, sollevandogli la faccia all'altezza della sua. Gli urlò: — Chi c'è nella macchina? Chi è? Steven picchiò i pugni contro il petto di Larry. — Non sono stato io... non sono stato io! Il ragazzino smise di agitarsi nel vedere il sangue che macchiava la giacca di Larry. Sgranò gli occhi per il terrore, fissandosi le mani umide. Quella scena gli diede la forza della disperazione: con una torsione veloce del corpo, si districò da Larry e ricadde a terra. Rivolse a Larry uno sguardo terrorizzato, e si trovò di nuovo in piedi a correre. Si guardò alle spalle. Larry lo inseguì. Il bambino stava tornando di corsa verso la macchina; Larry ne vide la sagoma nera in lontananza sulla stradina. Non riusciva a capire se dentro ci fosse ancora qualcuno. Steven raggiunse la portiera del lato passeggero. Larry lo vide guardare all'interno prima di aprirla e salire dentro di corsa. Il finestrino iniziò a salire. Era arrivato solo a metà quando Larry raggiunse la macchina. Mentre lui tirava la maniglia, Steven si allontanò da lui, verso il volante. — Porca puttana... — La portiera non si apriva. Il ragazzino doveva averla chiusa. Lui infilò un braccio dentro e frugò in cerca del pulsante, vicino alla maniglia interna. Steven si allontanò ancora di più, schiacciandosi contro la portiera opposta. Larry non riusciva a trovare il pulsante, e cercava inutilmente con la mano lungo la fodera sottile della portiera. Non c'era tempo: il proprietario della macchina doveva essere senz'altro vicino. Larry riuscì a infilare la testa e l'altro braccio nell'apertura del finestrino. Allungò entrambe le mani verso Steven. — Steven... — L'apertura era stretta, lo faceva annaspare. — Vieni... devi uscire da lì... Steven si appiccicò alla portiera, stringendo con una mano il volante. Larry si sforzò di andare più avanti, alzandosi in punta di piedi, per prendere il ragazzino. — Forza... sarà qui a momenti... lo so che non hai fatto niente... Si sentì improvvisamente trascinare indietro, la portiera si spalancò, tirata da qualcun altro fuori, alle spalle di Larry.
Non ebbe il tempo di gridare. Vide solo la sagoma, quella del proprietario della macchina nera, con la coda dell'occhio, e si sentì prendere per i capelli. L'uomo strinse più forte, tirandogli indietro la testa, facendogli colpire con le spalle la parte superiore della portiera. Rimase intrappolato, con il bordo del finestrino che gli premeva contro il ventre. L'uomo tirò la portiera ancora più indietro e poi la sbatté. Il bordo del tettuccio prese Larry al torace. Il fiato gli si mozzò in un urlo, e il dolore gli martellò il cranio, spingendogli indietro la testa nelle mani dell'uomo. Larry si sporse in avanti, ancora intrappolato nella fessura del finestrino, mentre l'altro apriva la portiera; trascinò sull'asfalto i piedi inanimati. Sentiva qualcosa di caldo gocciolargli dall'angolo della bocca fino al mento. Vedeva il buio girargli intorno, offuscato da una nebbia rossa. Alle sue spalle, l'uomo si preparò a sbattere di nuovo la portiera, questa volta per dare il colpo mortale. Poi una piccola creatura schizzò fuori dall'auto, oltrepassando Larry e sbattendo contro il torace dell'uomo. Da una distanza infinita, lui sentì Steven urlare istericamente: — No! Fermati... fermati... — e il rumore dei colpi. I pugni minuscoli di Steven, e la rabbia improvvisa con cui aveva attaccato costrinse l'uomo d'ombra a indietreggiare di qualche passo dalla portiera. Stava andando tutto a pezzi, e accadeva in qualche luogo oltre quel sipario che calava passando dal nero al rosso vivo. A Larry parve che la testa gli si stesse alzando in volo, come un pallone gonfiato che qualcuno aveva lasciato andare. Guardava in basso e vedeva il proprio corpo scivolare fuori dall'apertura del finestrino e crollare sulla strada. Poi si riprese, e si sforzò di respirare nonostante il macigno che gli avevano piantato nel petto. Alzò gli occhi e vide l'uomo della macchina nera che allontanava Steven dal collo, e il ragazzino che mollava pugni che non arrivavano a segno. L'uomo scagliò via Steven. Il colpo che Steven prese nel ricadere sul bordo della strada gli tolse tutta la furia. Larry riuscì a girare la testa, e vide la paura dipingersi sul volto del bambino mentre si alzava in piedi con mani e ginocchia. Poi il ragazzino sparì di corsa nel buio. A quel punto non vide più niente: le gambe dell'uomo gli oscuravano la vista. Alzò gli occhi e vide la sagoma nera incombere su di lui, un corpo nero stagliato nel biancore azzurrino e abbagliante dei fanali. La luce svanì, e la tenebra si fuse con la notte più indietro, in un nuovo buio nel quale si sentì precipitare. Precipitare e svanire a sua volta.
Scappò. Non poteva fare niente per aiutare quel tipo, quello che l'uomo al volante avrebbe ucciso entro breve. Steven sapeva che non avrebbe dovuto spaventarsi tanto da correre via, sapeva che quel ragazzo non gli avrebbe fatto niente. Ma lo aveva preso di sorpresa, uscendo dal buio e afferrandolo a quel modo, e poi, quando aveva visto il giubbotto della squadra, proprio come quella di tutti i giocatori, e poi il sangue, il sangue di uno dei suoi compagni di squadra, con cui gli aveva macchiato la giacca, aveva avuto paura. Più di quello che lui avrebbe potuto o meno fargli, più dell'uomo della macchina nera. E non stava semplicemente scappando via. Sapeva che stava tornando. Dall'uomo. Che lo avrebbe protetto. Che gli voleva bene. Poi era cominciato di nuovo, troppo in fretta perché lui riuscisse a pensare. Aveva cercato di aiutare il tipo della squadra - ne ricordava perfino la faccia, era lui che aveva impedito a Dennie di dargli addosso qualche sera prima - ma non poteva fare niente. L'uomo della macchina nera era troppo forte. Non poteva fare altro che scappare. Finì contro la recinzione, a dita strette sulle maglie della rete, cercando un appiglio con le punte dei piedi. Raggiunse la cima e si gettò per metà dall'altra parte, sentendosi pungere lo stomaco dagli spuntoni di filo di ferro. Durante l'arrampicata aveva quasi aspettato di sentirsi afferrare le caviglie e tirare giù. Là in alto, sentì accendersi il motore, un ruggito che perforò il silenzio della notte. I fasci di luce dei fanali lo colpirono, e lui sentì le ruote sputare ghiaia sulla superficie della stradina. Steven portò le gambe dall'altra parte della recinzione e si lasciò ricadere sull'asfalto del drive-in deserto. Si tirò in piedi e corse verso il centro dello spiazzo. Di fronte a lui si dipinse il profilo dello snack bar, una sagoma nera contro il buio della notte. La luna brillava oltre le nuvole grigie contro la facciata dell'edificio. Lui corse al muro laterale e vi si rannicchiò contro, ansimando per riprendere fiato e ascoltando attentamente. In lontananza, sulla strada circostante, il rumore dell'auto svanì lentamente. Andava verso l'ingresso del drive-in, l'entrata che portava allo spiazzo asfaltato. Steven percorse la lunghezza della parete chino sui talloni, finché non trovò la porta dell'ufficio nel retro. Chiusa. La maniglia gelata rumoreggiò, senza aprirsi. Vide che un angolo della griglia di rete metallica attaccata alla finestra era sollevato. Strinse l'intreccio di filo di ferro e lo spinse, ripiegandolo in-
dietro. Un altro chiodo arrugginito si staccò, facendogli guadagnare spazio. Steven infilò dentro la mano, contro il vetro liscio della finestra. Quando lo spinse, il vetro si mosse verso l'interno. Infilò la testa sotto gli spuntoni aguzzi, appiattendosi contro il davanzale. Gli spuntoni di ferro gli graffiarono le spalle, strappandogli giubbotto e camicia fino alla pelle. Ma riuscì comunque a contorcersi tanto da entrare, spingendo le mani contro la parete sotto la finestra. La rete gli si impigliò nei jeans, e dovette allungarsi indietro per liberarli. Poi riuscì a ricadere nel silenzio che regnava dentro l'ufficio. Steven si accucciò sotto la finestra e sbirciò fuori. Ancora niente. Prese la rete metallica e la ripiegò per farla tornare a posto, meglio che gli riuscì. Restava comunque un angolo in vista. Lo lasciò stare, e andò al centro dell'ufficio. Gli occhi si erano adattati al buio quanto bastava per fargli distinguere i contorni. Una sedia pieghevole tutta squinternata, cumuli di scatole di cartone, videocassette sparpagliate ovunque. Contro una parete c'erano i videoregistratori e i televisori. In quel buio, erano tutte cose morte. Poteva trattenere il fiato e confondersi con esse, nascondersi, in modo che nessuno lo trovasse. Se fosse riuscito a rendersi abbastanza piccolo, invisibile... Sedette nell'angolo opposto alla finestra, in uno spazio angusto fra due cumuli di scatoloni. Stringendo le ginocchia al petto, rimase a osservare e ascoltare. Niente, fatta eccezione per il battito del suo cuore. Gli pareva di sentirselo in gola. Schiacciò il mento contro gli avambracci, e ascoltò. Sentì i passi fuori dall'edificio. Lenti, che facevano il giro. L'uomo della macchina nera doveva averla lasciata poco lontano per raggiungere lo snack bar a piedi. Cercava Steven... Lui si ritrasse ancora di più nello spazio fra gli scatoloni, ad ascoltare il rumore. Si avvicinava. Un'ombra riempì la finestra, nera contro il nero della notte. La sagoma di un uomo, immobile. Una mano si allungò a tirare l'angolo della rete protettiva. La rete si piegò fino al chiodo arrugginito, poi fece resistenza. Non si apriva più di così. La sagoma buia all'esterno lasciò andare la rete e si allontanò dalla finestra. Steven la sentì fare il giro dell'edificio, fermarsi e cercare di aprire la porta chiusa, per poi proseguire. Trattenne il fiato e si fece piccolo, invisibile, un nulla. Silenzio. Come se l'ombra scura che aveva visto alla finestra se ne fosse
andata, tornata nel buio da cui era venuta. Steven alzò la testa dall'incavo delle braccia e delle gambe. La porta tremò, sussultando per il colpo. Il fragore penetrò gli orecchi di Steven. Un altro colpo, e la serratura si ruppe, con un urlo secco di legno che si schiantava; la porta girò sui cardini e sbatté contro il muro interno. La sagoma nera rimase ferma sulla soglia, con le mani aperte per reggersi in equilibrio. Riabbassò a terra il piede, dopo aver sfondato la porta con il calcio. Ancora più piccolo. Steven serrò gli occhi. Era invisibile, non esisteva... I passi raggiunsero il centro dell'ufficio. "Non può vedermi." Steven si morse il labbro. "È troppo buio, non può vedermi, non può..." Steven aprì gli occhi, quanto bastava per scorgere l'ombra nera a qualche metro di distanza da lui, che riempiva l'ufficio, alta fino al soffitto. La vide girare la testa di profilo, frugare la stanza con lo sguardo, passarlo oltre il punto in cui lui era nascosto. L'ombra si voltò, allontanandosi da Steven. Fece un paio di passi verso la porta. Allungò la mano a ispezionare la parete. Steven sentì lo scatto dell'interruttore premuto due volte. Il lampadario al soffitto non si accese: mancava la corrente da anni. "Vattene... non ti voglio qui..." Steven trattenne il respiro, guardando l'ombra che si muoveva nel buio dell'ufficio. La sagoma andò alla porta, poi si bloccò. Si chinò vicino alla parete. Steven sentì che armeggiava con qualcosa, ma non riusciva a vedere cosa. Un rumore aspro e meccanico attraversò l'ufficio: sembrava una falciatrice che veniva accesa. Un motorino tossì un paio di volte, poi di nuovo silenzio. II generatore, quello piccolo, portatile, che il ciccione proprietario del drive-in aveva portato lì per avere la corrente necessaria per i suoi spettacolini. Era stato quello a fare rumore. Steven vide l'ombra prepararsi a tirare di nuovo il cordino d'avviamento. Tese il braccio, con la cordicella stretta in mano. Il generatore sputacchiò di nuovo, salì di giri con un breve ringhio, poi iniziò a mormorare piano. Prima di alzarsi, l'ombra gettò l'estremità del tubo di scarico fuori dalla porta spalancata. L'ombra percorse di nuovo l'ufficio. Fino alla parete opposta, quella dei videoregistratori. Si abbassò a premere il pulsante di accensione. La stanza venne invasa da una luce grigia, tremolante, che si fece più in-
tensa, riempiendo lo schermo televisivo sopra l'apparecchio. Steven si spinse ancora di più nella macchia d'ombra creata dagli scatoloni che aveva sui due lati. Nell'apparecchio era rimasta una cassetta: un debole rumore di ingranaggi, quando il nastro iniziò a scorrere sulle testine. Sullo schermo televisivo, la luce grigia venne sostituita da creature che si muovevano, corpi attorcigliati l'uno sull'altro. Membra e bocche aperte, saliva umida e luccicante sulla pelle. La luce che ricadeva nella stanza cambiava colore, sfumando in un rosa che tremolava come un fuoco lento. L'ombra dell'uomo cancellò la luce: si era allungato ad accendere gli altri videoregistratori. Gli schermi si illuminarono. Altre creature, esseri nudi che frugavano e spingevano inguini umidi di sudore contro bocche sdentate. Una serie di rosari sovrapposti di gemiti e ansiti colpì le pareti dell'ufficio. Ora la stanza era illuminata a giorno dal bagliore degli schermi televisivi. Steven vide l'ombra nera allontanarsi dai registratori. Ancora più piccolo, invisibile, inesistente... Chiuse forte gli occhi, stringendo le ginocchia al petto. Rumore di passi, come un tamburellare alle orecchie. Con gli occhi chiusi, si sentì cadere addosso l'ombra. Poi la voce, calma, perfino gentile. — Vieni... Lui aprì gli occhi e alzò la testa. Una voce diversa. E luce a sufficienza per vedere in faccia la sagoma nera. L'agente del riformatorio lo fissava dall'alto. — Va tutto bene, Steven. — L'uomo allungò la mano verso di lui. — Andiamocene via da qui. 19 Riusciva a malapena a respirare. Gli sembrava di avere dei coltelli piantati nei muscoli del torace. Larry sentì il dolore delle costole rotte prima di tutto il resto. Prima di aprire gli occhi e vedere il cruscotto e lo schienale del sedile, i frammenti dell'abitacolo dell'auto che gli volteggiavano sopra, il dolore lo trascinò come un gancio nello spazio angusto in cui era disteso. Non sapeva come ci era arrivato. Il filo della memoria si era rotto, precipitandolo nel buio. Qualcosa su una macchina, non quella in cui era, ma una completamente buia all'interno, con il volto di un bambino terrorizzato
che cercava di ripararsi da lui, allontanandosi sempre di più, tanto che non era riuscito a raggiungerlo per quanto ci avesse provato... E c'era un altro volto, che non era affatto un volto, solo altra tenebra, un altro frammento, un frammento con occhi che non riusciva a vedere, ma che sapeva lo stavano fissando. Quello lo ricordava. I brandelli galleggiavano come pezzetti di cenere dentro l'abitacolo. Tutto il resto era bruciato in un'esplosione rossa, fiamme che urlavano con la sua voce e ora scemavano fino a diventare le braci affilate che sentiva sotto i muscoli. Tutto... Il dolore lo aveva spezzato in due, lo aveva reso incapace di muoversi. Larry cercò di alzarsi, spingendosi sul sedile con una mano, ma scivolò, e il dolore gli arrivò come un canto fino al cervello. Ricadde giù. Non riusciva nemmeno ad alzare la mano, con le nocche contro i tappetini di moquette della macchina. Era la macchina di qualcun altro: non quella nera, nera come l'uomo uscito dal buio. Alla fine gli tornò in mente, un filo sottile che saliva dal foro che aveva ingoiato i ricordi. L'agente del riformatorio. Lo vedeva sopra di sé. Era sceso a piedi da una macchina, quella in cui ora si trovava Larry; una macchina che aveva parcheggiato a pochi metri di distanza, facendogli passare sugli occhi la luce dei fari. Quel ricordo ne portò altri, gusto di sangue e terra in bocca, dolore che gli ruggiva nel petto mentre si trovava disteso sulla strada. L'uomo del riformatorio si era inginocchiato - Larry ricordò di averne visto il viso, un viso vero - e lo aveva raccolto da terra, portato nella sua macchina e steso dentro. Al sicuro. Non ricordava altro. Niente di più. L'uomo se n'era andato, aveva altro di cui occuparsi. Larry si chiese di che cosa si trattasse, ma il pensiero gli si spense nella mente, e lui si lasciò cadere sommerso dall'ondata nera e lenta che gli schiumava addosso. Mentre si allontanavano dallo snack bar, dal buio provenne il rumore di un motore, un ronzio sommesso. Un raggio di luce percorse il drive-in deserto e li sfiorò. Taylor rivolse lo sguardo verso l'ingresso del drive-in. Più oltre, sulla stradina circostante, c'era la sua macchina, dove l'aveva lasciata. Con dentro il ragazzo, il giocatore di football che aveva trovato privo di sensi sulla strada. Non restava altro, in quel luogo a cui si era istintivamente diretto dopo aver lasciato il riformatorio. Era uscito dall'edificio senza dire una
parola, senza voltarsi a rispondere alle domande di Repken che lo chiamava. Di quel piccolo mondo non gli importava più niente. Ora era quello il mondo. In lontananza, due fanali che svoltavano. Una macchina nera attraversò lentamente la cancellata. La macchina si fermò, e chiunque ci fosse dentro rimase a fissarli da dietro il parabrezza oscurato. Taylor e Steven rimasero immobili, in attesa di vedere cosa avrebbe fatto la persona al volante. L'auto si mosse ancora, girando dalla cancellata su una delle corsie che attraversavano la foresta di paletti bianchi per gli altoparlanti. La macchina avanzò lentamente, con un ronzio leggero. Taylor voltò la testa, fissandola mentre faceva il giro. Lui e il ragazzino avevano percorso solo pochi metri, quando era comparsa l'auto. Il veicolo si fermò dall'altro lato del piccolo edificio, e il fascio di luce dei fanali colpì un angolo delle finestre di fronte. Oltre il riverbero dei proiettori, Taylor vedeva la sagoma al volante. Che osservava e aspettava. Taylor si abbassò, sfiorò la schiena di Steven fra le scapole e lo spinse avanti leggermente. Mantenne la voce calma. — Vieni. Si diressero nuovamente verso la cancellata, di buon passo. Teneva la mano sulla spalla di Steven, costringendolo a rallentare per seguire i suoi passi lenti e calcolati. Alle loro spalle provenne una voce. — Taylor... Si fermò di nuovo. Quando si voltò a guardarsi alle spalle, vide che il finestrino laterale della macchina era abbassato, e il volto immerso nell'ombra dell'uomo al volante era rivolto diritto verso di lui. Taylor allontanò la mano dalla spalla di Steven. — Resta qui. — II ragazzo alzò gli occhi verso di lui, ma non si mosse, mentre lui si girava e andava alla macchina nera. L'uomo al volante spalancò la portiera nel vedere Taylor avvicinarsi. Taylor guardò il veicolo per un momento, poi si abbassò per portare il volto alla stessa altezza di quello dell'altro. Erano lontani solo pochi centimetri, ma lo stesso non vedeva altro che buio. Il volto dell'altro uomo rimaneva nascosto. L'uomo al volante alzò la testa, guardò più indietro, verso il punto in cui Steven era fermo in attesa. Poi fissò di nuovo Taylor. — Dammelo. — La voce dell'uomo era un sussurro quasi impercettibile contro il rumore del motore in folle. — Dammi il ragazzo.
Taylor guardò quel volto, gli occhi invisibili che lo fissavano. Scosse la testa. — No. — Solo quella parola, con voce calma. L'uomo si piegò sul volante, un gesto quasi animalesco. — Ci ha traditi... — La voce sembrava penetrare come una lama nell'orecchio di Taylor. — Ne ha lasciato andare uno... proprio mentre mi stavo occupando di lui. Uno di loro. Volevo sistemarlo io... per te. Taylor fissò l'uomo al volante. — No. Non ti darò il bambino. La voce dell'altro si fece lamentosa. — Sempre... è stato tutto, sempre, per te. Non per lui. L'ho fatto per te. Tutti quanti... — La voce si abbassò. — Cosa c'è di male? Taylor distolse lo sguardo, verso il buio che regnava intorno. Per un istante rimase in silenzio, poi trovò le parole. — Non ne vale la pena. — Taylor guardò di nuovo l'uomo al volante. — Non serve. Non c'è niente che serva. E quando me ne sono reso conto... — Silenzio, un respiro che scivolava fuori nell'aria gelida della notte. — Non ho più avuto paura. — II buio li avvolgeva come un abbraccio. — Di niente. Taylor si alzò di fronte alla portiera spalancata. Si voltò e fece per andarsene. La voce lo inseguì, piena di dolore. — Taylor... è stato sempre per te! Lui voltò gli occhi verso la macchina. La sua voce risuonò gelida. — Torna da dove sei venuto. L'uomo alzò la testa, avanzando dall'abitacolo buio della macchina. Abbastanza perché la flebile luce delle stelle percorresse quel volto rimasto fino ad allora in ombra. Taylor fissò il riflesso distorto e teso del proprio volto. Gli occhi erano pozzi che conducevano a un'altra tenebra, una tenebra infinita. — Vengo... da qui. Le ultime parole, tenui e tirate come un cavo, tagliarono la notte. Taylor sentì il cuore rallentare nel petto, come se stesse per fermarsi. Fra un battito e il successivo, lui e l'uomo d'ombra rimasero le uniche presenze al mondo, e tutto il resto scivolò via nella notte. Poi il sangue riprese a fluire, e lui riuscì a voltarsi e andarsene. Steven alzò gli occhi verso di lui. Taylor posò una mano sulla spalla del bambino. — Andiamocene. Avevano percorso metà della distanza, diretti al cancello del drive-in, quando sentirono il motore della macchina nera salire di giri alle loro spalle. Poi l'uomo mise in marcia e le ruote stridettero, un urlo che perforò la notte.
Furono colpiti dalle luci dei fanali, che stesero le loro ombre sullo spiazzo asfaltato deserto. Taylor non si girò. — Non guardarti indietro. — La voce ancora calma. — Continua a camminare. Steven alzò gli occhi verso di lui, poi li tenne fissi di fronte a sé. La macchina balzò avanti. Diritta verso il bersaglio: colpì l'angolo dello snack bar, proseguendo verso le vetrate sulla facciata. I vetri scoppiarono, una tempesta argentea tutto intorno al cofano e al parabrezza. Il muro sottile fra lo snack bar e l'ufficio del gestore tremò e si ruppe. Una tanica di benzina, il combustibile per il generatore portatile, si rovesciò, e il contenuto si sparse sul pavimento dell'ufficio. Uno dei televisori vi si sfasciò sopra in una cascata di scintille. Un'altra esplosione, una palla di fuoco, avvolse tutto il vecchio fabbricato. Unita all'impatto della macchina nera, fece a pezzi lo snack bar: le pareti crollarono verso l'esterno, vomitando lingue di fuoco e fumo nerastro. Le fiamme percorsero il cofano e il parabrezza della macchina che sfrecciava in mezzo ai detriti e prendeva velocità nell 'oltrepassare la pioggia di schegge di vetro che precipitava in uno scintillio diffuso. Taylor sentì il calore dell'esplosione sulla schiena. La sua ombra e quella del ragazzo si contorsero e svanirono nel bagliore arancione che sommerse lo spiazzo deserto del drive-in. Sempre senza guardarsi alle spalle, spinse avanti Steven. L'esplosione aveva sparpagliato i videoregistratori e gli apparecchi televisivi per quello che restava dell'ufficio. I corpi avvinghiati sugli schermi a colori si contrassero, come se sentissero bruciare le fiamme che salivano. I frammenti infuocati ricaddero dalle fiancate della macchina nera, lasciando integro il metallo scintillante. La macchina schizzò avanti, le ruote che stridevano, sbattendo in diagonale contro le colonnine dei parcheggi. I paletti per gli altoparlanti si schiantarono all'impatto, e volarono in aria, con i cavi strappati dall'asfalto. I fili neri si ingarbugliarono sul paraurti della macchina, frustando l'aria come serpenti impazziti, e gli altoparlanti eruttarono scintille nel ricadere a terra e contro i paraurti del veicolo. L'auto accelerò, e i fasci di luce dei fari avvolsero tutto quello che stava di fronte.
Il cancello era solo a pochi metri di distanza. Taylor si fermò di colpo e spinse Steven in avanti. — Vattene — gridò, mentre il ragazzino avanzava incespicando. — Vai! Steven si voltò e strinse il braccio di Taylor. — No... — Glielo tirò. — Vieni! Taylor aveva la faccia contorta, e la calma che provava si frantumò e scomparve. Si liberò il braccio con uno scatto furioso, e per poco non mandò Steven a terra. _ Vattene! — Ora stava urlando. — Vai via da qui! Steven avanzò, malfermo. Per un istante rimase a fissare il volto di Taylor. Poi si girò e corse alla cancellata. Taylor si guardò alle spalle. Rimase accecato dal bagliore dei fari che gli sfrecciavano addosso. Il mondo diventò un'unica enorme luce che gli si precipitava contro, e il ruggito del motore cancellò tutto. DOPO Pineda sterzò l'autopattuglia e attraversò il cancello del drive-in. Oltrepassò il cartello con la scritta IN VENDITA che era là da sempre. Qualche giorno prima, l'agenzia immobiliare titolare dell'opzione vi aveva appiccicato sopra un adesivo con la scritta VENDUTO. Felton doveva essersi finalmente svegliato fuori. In lontananza, al centro dello spiazzo asfaltato, ancora un debole filo di fumo saliva dai resti dello snack bar. L'incendio si era spento da solo prima che qualcuno lo avesse denunciato. Pineda e Harrelson erano stati i primi ad arrivare, alle luci dell'alba grigia. Fissò Harrelson, seduto di fianco a lui. Quel vecchio bastardo non aveva detto una sega per tutta la notte. Gli avevano messo in corpo il timore di Dio, e soprattutto di perdere la pensione; solo un paio di mesi ancora al ritiro forzato che gli era stato offerto. A Pineda la cosa andava a meraviglia. Non vedeva l'ora di trovarsi un collega che non fosse un completo testa di cazzo. Dello snack bar non restava molto. Fermò l'autopattuglia a qualche metro di distanza dal cerchio di asfalto carbonizzato. Forse era stato Felton stesso a dargli fuoco, anche se Pineda non riusciva a immaginare come un figuro del suo calibro potesse mai essere riuscito a farselo assicurare. O
forse erano stati quei ragazzini, quel branco di bifolchi adolescenti che giocavano a football. Comunque fosse andata, non era una gran perdita. In mezzo alle ceneri c'erano videoregistratori e televisori deformati dal calore, schermi vuoti e ridotti in frantumi. Pineda si sentì bruciare le narici dalla puzza di plastica sciolta mentre usciva dall'auto per guardarsi intorno. Più oltre, a metà strada in direzione del cancello, una macchina era ferma, immobile. Harrelson rimase a grattarsi il culo obeso dentro l'autopattuglia mentre Pineda vi si dirigeva. Nell'avvicinarsi, vide quanto era ridotta male. Nera, coperta di sporcizia e polvere, era bassa, con gli pneumatici decrepiti e forati e i cerchioni che toccavano terra schiacciando la gomma slabbrata. Portiere e paraurti ammaccati e mangiati via dalla ruggine. Il parabrezza era una ragnatela di spaccature. Qualcuno doveva averla rimorchiata dentro per abbandonarla lì. A Pineda non veniva in mente altra spiegazione. Si avvicinò alla fiancata e guardò dentro. Nell'abitacolo c'era qualcuno, accasciato sul sedile di guida, immobile. Pineda aprì la portiera, che cigolò. Morto. Inutile controllare respiro o pulsazioni. Capì a prima vista che l'uomo dentro la macchina era già freddo. Sporco di sangue, gli abiti strappati e macchiati. Tutto intorno, l'abitacolo era decomposto quanto l'esterno della macchina, i rivestimenti strappati dal tempo, il cruscotto svuotato dei quadranti. Pineda si allungò a toccare il cadavere per la spalla. La testa ciondolò in avanti, spostando il viso nella sua direzione. Era il tipo del riformatorio, il responsabile del turno di notte. Pineda si infilò nella macchina, tenendosi alla portiera per mantenere l'equilibrio. Cercò il pulsare del sangue sotto la mandibola, per pura routine. Niente. Ritrasse la mano. Il cadavere aveva sulle gambe qualcosa che assomigliava a un pacchetto di carta. Era inzuppato di sangue ormai secco e nero. Pineda aprì l'involto con la punta dell'indice. Quando vide cosa c'era dentro, si bloccò, e i capelli gli si drizzarono sulla nuca. Lentamente, uscì dalla macchina e tornò indietro. Andò all'autopattuglia. Scosse il capo quando Harrelson lo guardò. — Dobbiamo fare rapporto. Harrelson allungò la mano verso la radio, tirò fuori il microfono e glielo passò dal finestrino. Lui lo prese, appoggiandosi alla macchina, fissando
da lontano l'altra. I ragazzini si riunirono intorno alla recinzione per guardare. La polizia aveva chiuso il drive-in, ma la notizia di quello che avevano trovato si era sparsa in breve tempo. Come sempre. Steven c'era fin dall'inizio, da prima che arrivassero tutti gli altri. Gli si fecero intorno, accalcandosi contro la rete, e lui non disse niente. I poliziotti stavano estraendo dall'auto l'agente del riformatorio. Dietro Steven, un ragazzino grosso e robusto, il fratello del primo che era morto, sogghignò. — L'avevo sempre detto che quello là doveva essere un frocio. — In tono amaro. Avevano sentito già tutti di cosa c'era nella macchina insieme al cadavere. I pezzi delle vittime. — Pervertito di merda. Steven si voltò. — Chiudi la bocca. — Lo disse con calma, fissando l'altro diritto negli occhi. — Chiudi quella fogna. Quelle parole colsero di sorpresa il più grosso, che strinse la mascella, alzando i pugni come per dare una lezione a quello stronzetto. Poi vide qualcosa negli occhi di Steven, qualcosa che gli fece paura. Fece paura a tutti. Il ragazzino grande e grosso indietreggiò, e poi gli altri lo seguirono. Si raccolsero in gruppo a qualche metro di distanza, e Steven tornò a voltarsi verso la rete. Rimase dov'era, in silenzio, stringendo il filo di ferro con una mano, a guardare il cadavere che veniva caricato e poi portato via. FINE