IL MULINO RICERCA
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VEDERE E PENSARE
IL MULINO
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INDICE
Premessa
I.
Vedere e pensare
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1. Una premessa per evitare fraintendimenti. 2. «Sense data» o oggetti visivi? - 3. «Vedere» in senso stretto. - 4. Percezione come «problem-solving». - 5. Completamento percettivo e completamento mentale. - 6. La tesi «interpretazionista» è falsificabile? - 7. Appunti di metodologia: contro il «soggetto ingenuo».
II.
La presenza amodale
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1. Vedere e pensare: una dicotomia solo fenomenica? - 2. La presenza amodale: un fenomeno da rivalutare. - 3. Effetti funzionali del completamento amodale. - 4. Uno strumento di analisi. 5. Osservazioni conclusive.
III.
Comunicare per immagini
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1. Percezione naturale e percezione pittorica. 2. Doppia natura dei completamenti da sovrapposizione. - 3. Continuazione amodale e rappresentazione pittorica. ISBN 88-15-02921-4
IV. Copyright © 1991 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Le ambiguità della pregnanza
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1. La pregnanza: l'eredità più cospicua e più contestata della Gestalttheorie. - 2. Una prima ambi-
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guità: pregnanza come «singolarità» e pregnanza come «semplicità e stabilità». - 3. Una seconda ambiguità: tendenza alla semplicità del process~ e tendenza al risultato singolare. - 4. SegmentazlOne precategoriale del campo visivo e identificazione degli oggetti visivi. - 5. Le «prove» della tendenza alla singolarità. - 6. Considerazioni conclusive.
VIII. La validazione delle diagnosi di personalità 1. Valutazione intuitiva della personalità. - 2. I reattivi caratterologici. - 3. I criteri di validazione. - 4. Descrizione dell'indagine. - 5. Esposizione dei risultati. - 6. Discussione dei risultati.
Riferimenti bibliografici V.
È mascherato solo ciò che può essere smascherato
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1. Paradosso o sofisma? - 2. Quando una struttura è mascherata. - 3. Le «textures». - 4. Altre tecniche di mascheramento. - 5. In conclusione.
VI.
L'attrazione fenomenica
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1. Introduzione. - 2. Modalità sperimentali. 3. L'Effetto Attrazione. - 4. Forme di attrazione e fenomeni analoghi. - 5. Considerazioni teoriche. - 6. Conclusioni.
VII. La percezione della reazione intenzionale
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A. Posizione e storia del problema
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1. Premessa. - 2. Heider e Simmel. - 3. Michotte. - 4. Minguzzi. - 5. Una classificazione dei movimenti. - 6. Programma della ricerca ed esperimenti preliminari.
B. Contributo sperimentale
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1. Descrizione di un caso tipico di movimento «reattivo». - 2. Il rapporto fra le velocità dei due mobili. - 3. La velocità assoluta dei due mobili. 4. I fattori temporali. - 5. La distanza fra i due mobili. - 6. Lo spazio percorso dai due mobili. 7. Il raggio d'azione. - 8. La polarizzazione dei movimenti. - 9. Altre condizioni. - 10. Riepilogo.
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PREMESSA
Il tema che dà il titolo allibro e che, da varie angolature, viene affrontato nei saggi che lo compongono è sempre stato nel fuoco del mio interesse scientifico per la percezione visiva. Il rapporto tra «vedere» e «pensare», cioè tra la elaborazione primaria o, come viene anche chiamata, preattentiva o precategoriale, dell'input visivo ed i processi cosiddetti superiori che in o su quella elaborazione intervengono, è una questione tutt'altro che pacifica. Non c'è accordo sul ruolo che, nel costituirsi del mondo visivo, hanno questi due tipi di attività cognitiva. Il dissenso principale è tra chi le considera come attività di due sistemi autonomi che interagiscono senza perdere nell'interazione la propria specificità, e chi invece nega che si possa parlare di distinzione e di autonomia, perché si tratterebbe di aspetti o momenti indistinguibili di una globale attività cognitiva. In quest'ultimo caso non avrebbe senso chiedersi che parte abbia il pensiero nel processo percettivo, poiché esso (sotto forma di categorizzazioni, schemi anticipatori, congetture, inferenze) pervaderebbe ogni fase del processo, a partire dalla formazione stessa degli oggetti visivi. Non esisterebbe alcun momento del vedere in cui non sia presente una qualche traccia di attività razionale, anche se soltanto sotto forma di un ragionamento o giudizio inconscio. Ho sempre pensato e penso tuttora che il ricorso ai giudizi inconsci sia un modo non di risolvere ma di eludere un problema, dichiarandolo inesistente. Perciò preferisco la prima ipotesi, non tanto perché sono convinto che sia vera, ma perché la ritengo almeno verifica bile , mentre i giudizi 9
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inconsci sono per definizione destinati ad essere inverificabili per sempre. Infatti, se l'organizzazione primaria è impermeabile alle influenze provenienti da altri sistemi, se quindi le attività di tipo razionale, pur operando sui dati forniti dal sistema visivo, non possono però interferire nella loro formazione né sono in grado di modificarli, allora ci possiamo sensatamente porre alcuni interrogativi: a) Secondo quali principi avviene la formazione degli oggetti nel sistema o «modulo» visivo, quali sono le leggi dell'organizzazione propriamente visiva, del vedere in senso stretto? b) Queste leggi sono identiche, simili, o diverse da quelle valide nell'ambito del «pensiero»? c) È possibile accertare una qualche influenza delle istanze razionali sulla formazione degli oggetti visivi e, in caso affermativo, quali sono le condizioni ed i limiti di tale azione? Sono problemi sensati perché per affrontarli è possibile escogitare situazioni concrete nelle quali la natura è costretta a dare una risposta. Mi sono posto spesso interrogativi di questo genere e la maggior parte delle mie ricerche, da quelle contenute nella Grammatica del vedere a quelle qui raccolte, sono tentativi di trovare a quegli interrogativi risposte che non siano meramente speculative ma nascano sul terreno empirico della fenomenologia sperimentale. Nel corso di queste ricerche mi sono spesso servito del completamento amodale come di un utile strumento di indagine e, un po' alla volta, mi sono convinto che un fenomeno talmente onnipresente nell'esperienza quotidiana merita un'attenzione maggiore di quanta gli viene in genere prestata. Così, accanto al tema dei rapporti tra vedere e pensare, il completamento amodale è diventato per me un altro soggetto privilegiato di ricerca. A questo tema sono dedicati in particolare il secondo ed il terzo capitolo. Sono certo che valga la pena continuare a lavorare in questa direzione. Come risulta dalla nota che segue, alcuni articoli sono firmati anche da Metelli, da Vicario, da Gerbino e da Luccio. La revisione di questi lavori, prima della loro ristampa, 10
mi ha fatto riandare con la mente a momenti felici della mia vita di scienziato. Infatti poche esperienze nella mia attività di ricerca sono state così gratificanti come lavorare sperimentalmente e discutere creativamente con gli amici che ho avuto la fortuna di avere per collaboratori. Ricordo con nostalgia soprattutto i periodi trascorsi nel laboratorio di Padova a studiare con Metelli le condizioni nelle quali si produce l'attrazione fenomenica, e le lunghe giornate passate nell'Istituto di Trieste a cercare di individuare con Vicario i sottili mutamenti nelle strutture cinetiche che trasformano un declenchement fenomenico iq una reazione intenzionale. Un lavoro molto artigianale, con il metodo dei dischi di Michotte, che richiedeva ingegnosità, tempo e tanta pazienza. Allora non c'erano ancora i computer che avrebbero certamente semplificato ed abbreviato il nostro lavoro, anche se probabilmente Ci avrebbero tolto una buona parte del divertimento. Devo aggiungere che se non ho continuato a coltivare questo promettente filone di ricerca sulla espressività dei movimenti, che avevo iniziato ad esplorare con Metelli, Vicario e Minguzzi, è proprio perché, non essendo disponibili all'epoca tecniche agili quali la computer grafica, mi sono arreso di fronte all'ostacolo costituito dalla complicatezza e dal costo dei procedimenti che si potevano allora utilizzare, e cioè la produzione meccanica dei movimenti o, in alternativa, il film di animazione. Anche questi lavori, riprodotti nel sesto e nel settimo capitolo, affrontano, accanto ai temi specifici dell'attrazione fenomenica e della reazione intenzionale, il problema del rapporto tra vedere e pensare. Il modo più semplice di spiegare l'espressività dei movimenti è quello di attribuirla all'azione assimilatrice del sistema di conoscenze: un certo tipo di movimento o una certa sequenza di movimenti ricorda, somiglia, è associata ad una situazione espressiva incontrata nel passato, perciò acquista per assimilazione quella qualità .espressiva. Ma affinché un evento del presente possa richiamare un evento del passato e venire ad esso assimilato, è necessario che anzitutto esista, che sia «presente» come entità visiva. Deve inoltre essere simile, cioè possedere una 11
struttura isomorfa, all'evento rievocato. Gli esperimenti sulla attrazione e sulla reazione fenomeniche erano diretti a individuare le condizioni spazio-temporali che danno luogo a queste impressioni. Ed è risultato che la loro comparsa non è arbitraria né casuale, ma che soltanto ben· precise strutture cinetiche sono in grado di innescare una elaborazione cognitiva che porta a determinate interpretazioni. Anche questi due lavori rientrano dunque nel tema generale del libro in quanto guardano al vedere come ad una premessa o precondizione del pensare. Mi resta da spiegare perché ho voluto includere una ricerca che non rientra nello schema generale del libro, in quanto non si occupa del vedere. Non riguarda il vedere ma riguarda certamente il pensare, perché i suoi risultati dimostrano quanto sia facile far accettare alla gente come veritiere affermazioni anche molto impegnative, senza che venga fornita alcuna seria garanzia sulla attendibilità scientifica dei procedimenti con cui quelle affermazioni sono state ottenute. È una ricerca antica di cui nessuno si ricorda, ma che ritengo istruttiva ancor oggi. Anzi, forse oggi più di ieri, perché da molti segni sembra che vada aumentando l'in~ teresse acritico per tutti i tipi di pseudoscienze, soprattutto per quelle che sostengono di essere in grado di diagnosticare il carattere, la personalità o lo stato di salute. Questa sorprendente facilità a credere nella fondatezza di simili pseudodiagnosi ricavate dalla interpretazione dei «segni» più svariati ed improbabili sta anche alla base della fiducia nell'efficacia di interventi terapeutici condotti con procedure altrettanto prive di un serio fondamento scientifico. Comunque, indipendentemente dal suo eventuale valore di attualità, è una ricerca che mi ha divertito quando l'ho fatta e che spero sia trovata divertente anche da coloro che la leggeranno.
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Fonti
I capitoli del libro riproducono, con alcune non sostanziali modifiche, articoli già apparsi in diverse occasioni e sedi. E precisamente: Cap. I: Vedere e pensare, in «Ricerche di Psicologia», 4, 1984. Cap. II: Il completamento amodale tra vedere e pensare, in «Giornale Italiano di Psicologia», 8, 1981 (in collaborazione con W. Gerbino). Cap. III: Comunicare per immagini: problemi di lettura percettiva, in: Linguaggi visivi, Storia dell'Arte, Psicologia della Percezione (a cura di L. Cassanelli), Roma, Multigrafica Editrice, 1988. Cap. IV: La pregnanza e le sue ambiguità, in «Psicologia italiana», 1, 1985 (in collaborazione con R. Luccio). Cap. V: È mascherato solo ciò che può essere smascherato, in Sul mascheramento visivo (a cura di G. Kanizsa e G.B. Vicario), Padova, Cleup, 1982. Cap. VI: Récherches expérimentales sur la perception visuelle d'attraction, in «Ioumal de Psychologie», 4, 1961 (in collaborazione con F. Metelli). Cap. VII: La percezione della reazione intenzionale, in Ricerche sperimentali sulla percezione, (a cura di G. Kanizsa e G. Vicario), Trieste, Pubblicazioni dell'Università, 1968 (in collaborazione con G. Vicario). Cap. VIII: Sulla validazione delle diagnosi di personalità, in «Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria», 14, 1953.
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CAPITOLO PRIMO
VEDERE E PENSARE
1. Una premessa per evitare fraintendimenti Gli occhi ci mettono in contatto con il mondo esterno, ci informano sulla presenza in esso di cose lontane da noi, fuori dalla portata delle nostre mani e dal raggio d'azione degli altri organi sensoriali. In questo senso il vedere è senza dubbio una forma di conoscenza, uno strumento del conoscere. Altre forme più evolute di conoscenza sono le operazioni con cui la mente integra e va oltre le informazioni che l'organismo raccoglie mediante la percezione. Operazioni di astrazione, categorizzazione, inferenza che nel loro insieme chiamiamo «pensare». Mentre dunque vedere e conoscere sono termini che non si riferiscono ad attività in qualche modo contrapposte o che si escludono a vicenda, esiste un problema per quanto riguarda il rapporto tra vedere e pensare. Il rapporto tra queste due forme di conoscenza è un problema antico e complicato che la psicologia ha ereditato dalla riflessione filosofica. Un problema che è ben lungi dall'aver trovato una soluzione unanimamente accettata dato che per alcuni le due attività sono qualitativamente differenti e governate da leggi diverse, per altri non sussistono differenze sostanziali perché ambedue i processi obbedirebbero alle stesse regole e, più precisamente, nella percezione visiva sarebbero rintracciabili, almeno in embrione, le medesime leggi che presiedono al pensiero. Se si facesse un referendum tra gli studiosi di percezione, sono certo che il secondo punto di vista risulterebbe di 15
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gran lunga il più diffuso. Per quanto mi riguarda, farei in questo caso parte della minoranza. So anche, per lunga esperienza, che tra i sostenitori di queste due posizioni esistono notevoli difficoltà di comunicazione, tanto che può sembrare che essi siano per così dire impermeabili alle reciproche argomentazioni. Tra le possibili cause che possono essere considerate responsabili di tale incomunicabilità, le principali mi sembrano essere le seguenti: a) Sono convinto che, come spesso avviene nelle discussioni infruttuose, l'incomprensione reciproca sia dovuta, oltre che alla radicale diversità delle impostazioni teoriche di fondo, anche al diverso significato attribuito ai concetti intorno ai quali si discute. Nel nostro caso è il concetto di «percezione» che sembra non essere chiaramente definito, dato che troppo spesso si ha la netta impressione che gli interlocutori stiano parlando di cose diverse. Si può avere una definizione estensiva per cui con «percezione visiva» si intende l'intero processo che, a partire dalla registrazione sensoriale, porta al mondo articolato degli oggetti visivi, al loro riconoscimento ed alla loro interpretazione. Poiché la concreta attività cognitiv:a ci si presenta come un processo unitario nel quale ogni distinzione può sembrare arbitraria e artificiosa, ci sono buone ragioni che giustificano un uso così ampio del termine. Ma è chiaro che, se è questo che si intende per «percezione», è ozioso domandarsi se nel vedere siano individuabili operazioni caratteristiche del pensare, poiché data quella definizione la risposta non può che essere affermativa. E ciò per la semplice ragione che in tal caso nel processo si deve necessariamente trovare quello che vi è stato messo. Eppure c'è qualcosa di insoddisfacente in questo uso allargato del concetto. Ed è il fatto che, ponendo l'accento su quegli aspetti che possono essere assimilati alle operazioni del categorizzare e dell'inferire tipiche del pensare, rimane in ombra l'aspetto peculiare che differenzia questo processo da altri processi cognitivi, cioè l'aspetto per cui parliamo di percezione visiva. Infatti ciò che caratterizza la percezione 16
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visiva non sono quelle operazioni mentali, ma il fatto che esse si svolgono mediante il o accompagnate dal vedere. Tutte quelle operazioni possono avvenire anche senza essere accompagnate dal vedere. Si può cioè pensare senza vedere: il cieco certamente non vede ma altrettanto certamente pensa, cioè usa concetti, ricorda, inferisce, ragiona. Perciò il termine «percezione visiva» può avere una accezione più ristretta e riferirsi soltanto a quella forma di attività conoscitiva - fenomenicamente diversa e logicamente distinguibile da altri modi di conoscere - che nell'uso comune viene chiamata «vedere». Se l'esistenza di una parola è dovuta alla esigenza di distinguere un' oggetto, un evento, un'idea da altri oggetti, eventi o idee, allora il fatto che in tutte le lingue esistano due parole diverse per designare il «vedere» e il «pensare» indica che si tratta di due attività che gli uomini sentono come diverse. Anche se non sono sempre in grado di darne una definizione esatta, tutti sanno che cosa intendono quando dicono di vedere una cosa e quando invece dicono di pensarla. Solo se si usa il termine «percezione visiva» in questa accezione più ristretta - intendendo riferirsi a ciò che giustifica l'attributo di visivo ad un atto conoscitivo - diventa sensato porsi il problema dei suoi rapporti con il pensare. b) Una seconda fonte di disturbi comunicativi proviene dalle diverse finalità che vengono assegnate allo studio del vedere. Il vedere è, per chi ha occhi, la cosa più semplice e naturale del mondo, come il respirare per chi ha polmoni. Le difficoltà sorgono quando, a proposito del vedere, ci si pongono alcune domande. Le domande che, in ordine di tempo, gli uomini si sono poste per prime sono all'incirca: «In quale misura ciò che vediamo corrisponde a ciò che è? Fino a che punto possiamo fidarci dei nostri occhi? Quanto sono attendibili e veridiche le informazioni che ci dà la vista?» È il problema gnoseologico, il problema del rapporto . tra il fenomenico ed il transfenomenico, intorno al quale - . dai presocratici ai giorni nostri - si sono affaticati i filosofi di tutte le epoche. Un secondo tipo di domande può essere così formulato: «Come è possibile il vedere? Quali sono le 17
sue leggi? Da quali fattori è influenzato? Quali sono i rapporti tra il vedere e le altre attività psicologiche?» In questo caso l'interesse si sposta dal vedere come strumento di conoscenza al vedere come oggetto di conoscenza. Ma studiare il vedere come fenomeno naturale. e discuterne il valore conoscitivo sono due imprese distinte. La prima è un compito della ricerca empirica (se si vuole: un'impresa scientifica), la seconda è un compito della riflessione filosofica. Nella ricerca sulla percezione visiva non sempre questi due compiti rimangono, come a me sembra che debbano rimanere, ben distinti. Molto spesso all'interesse per la natura del vedere e per la determinazione delle leggi che lo governano si intrecciano preoccupazioni di tipo gnoseologico che riguardano la veridicità della percezione, la precisione e la qualità delle informazioni che essa ci fornisce. Anche l'insufficiente attenzione a tenere separati questi due ordini di problemi contribuisce alle incomprensioni e alla sterilità delle discussioni. c) Un'altra fonte di possibili incomprensioni riguarda il livello di analisi al quale si ritiene vada ricercata la «spiegazione» dei fatti visivi. Negli ultimi decenni sono stati compiuti enormi progressi nell'indagine sulle basi neurofisiologiche della visione. Molti scienziati, giustamente entusiasmati da questi successi, sembrano convinti che ormai sia aperta la via che ci porterà, in tempi più o meno lunghi, ad una completa comprensione dei fenomeni della percezione visiva. Ad altri questa certezza non appare giustificata. Alla radice del disaccordo ci sono valutazioni di natura epistemologica. Da una parte si può credere che quando sia stato scoperto il correlato neurofisiologico di un fenomeno lo si sia per ciò stesso spiegato. Si può invece ritenere che il vedere costituisca un livello di realtà che - pur essendo causalmente legato all'attività del settore ottico del cervello - non è ad esso riducibile. Da questo secondo punto di vista, la più completa conoscenza dei processi che si svolgono al livello di realtà neurofisiologica non sarà mai sufficiente a «spiegare» le proprietà emergenti di questi processi: i fenomeni visivi, il vedere come esperienza psicologica cosciente. 18
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È evidente che se le diverse opzioni a proposito dei punti sopra esaminati (ampiezza di significato con cui il termine «percezione» viene usato, finalità che vengono poste allo studio del vedere, livello di analisi a cui viene ricercata una spiegazione) non vengono esplicitamente dichiarate, è difficile che non sorgano fraintendimenti. E, per limitare le possibilità di essere frainteso, dichiaro che in seguito: i) userò il termine «percezione» nella sua accezione ristretta, ii) che non intendo discuterne la veridicità, ma mi pongo nell'ottica di chi vuole trovare le leggi del suo funzionamento, iii) che considero i fenomeni visivi uI} dominio di realtà «emergente», non riducibile ad altri domini di realtà, da studiare quindi con i metodi della fenomenologia sperimentale adeguati alla sua specificità.
2. «Sense data» o oggetti visivi? Fatta questa premessa, vengo ora al tema dei rapporti tra vedere e pensare. Vedere significa avere di fronte a sé, «incontrare», un mondo segmentato in oggetti discreti, di varia grandezza, forma e colore, fermi o in movimento in uno spazio tridimensionale. Possiamo avere incertezza sulla loro identità, qualche oggetto può non essere visibile per intero perché parzialmente coperto da un altro oggetto, o può essere male illuminato, o presentare lacune, o può sparire troppo presto alla vista. In questi casi facciamo delle ipotesi sulla loro identità, cerchiamo altri dati per confermarle, integriamo mentalmente le lacune, interpretiamo in base alle nostre conoscenze o al contesto, e così via. Queste ipotesi ci vengono suggerite da _qualche caratteristica di ciò che vediamo e vengono confrontate con una «rappresentazione interna» o «conoscenza del mondo» di cui il nostro sistema cognitivo deve essere fornito. Ma posso anche pensare ad una situazione nella quale, aprendo gli occhi, mi trovo circondato, oltre che da oggetti che sono in grado di riconoscere, da cose sconosciute. Non le ho mai viste, non so a che cosa servono, che cosa posso19
o HG. 1.1. Oggetti visivi facilmente categorizza bili e quindi descrivibili.
no fare. Come farò a dare un senso a una scena del genere? Immaginiamo di eseguire il seguente esperimento a cui prendono parte due soggetti. Il primo soggetto deve descrivere ciò che vede nella fig. 1.1 ad un secondo soggetto che deve disegnare la figura che non può vedere. Possiamo supporre che dirà all'incirca: «Ci sono quattro figure: la prima a sinistra è un triangolo equilatero nero di circa 2 cm. di lato, ecc .... ». In base a queste indicazioni il secondo soggetto sarà in grado di disegnare con buona approssimazione ciò che l'altro vede. Diamo ora al primo soggetto il compito di descrivere la figura 1.2. È molto improbabile che i risultati siano in questo caso anche lontanamente soddisfacenti. In che cosa differiscono le due situazioni? Nel primo caso riesco a descrivere le entità visive che ho davanti, perché ho in mente gli schemi a cui posso assimilarle, categorie nelle quali posso farle rientrare, spesso posso dar loro un nome. Nel secondo caso mi trovo davanti degli oggetti visivi sconosciuti, irregolari e perciò difficili da descrivere. Come avviene con le macchie di Rorschach, essi possono «ricordarmi» qualcosa, posso cercar di interpretarli. Una incoercibile ricerca di significato mi spinge a esplorarli e scrutinarli nel tentativo di farli rientrare in una categoria meno generica che quella di «oggetti visivi sconosciuti di forma irregolare». Ma onestamente: nonostante i miei sforzi per trovar loro un qualche significato, essi rimangono proprio entità visive sconosciute. D'altra parte - e ciò va sottolineato con forza - se la seconda situazione differisce dalla prima perché è priva di significato, non c'è differenza tra le due sotto l'aspetto specificamente visivo. Il non essere di sicura interpretazione non
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FIG. 1.2. Oggetti visivi sconosciuti, senza significato, ma perfettamente visibili e stabili per forma, colore, grandezza, rapporti spaziali.
impedisce a quegli oggetti visivi di esse~e quello che sono: forme nere su uno sfondo bianco ben delimitate da contorni netti. Non c'è significato ma c'è organizzazione, cioè segmentazione, articolazione, precisi rapporti spaziali, cromatici, dimensionali, topologici. Tutto meno che i sense data cari ai filosofi anglosassoni', materiale grezzo, disorganizzato oltre che privo di senso, «macchie di colore» in attesa di venir ordinate. Quali «schemi» o «anticipazioni», quale «rappresentazione interna» o «conoscenza del mondo» dobbiamo supporre agire in questo caso per dare a ciò che vedo proprio la forma che ha, stabile e netta, non ambigua anche se non classificabile con sicurezza? Ma se può esserci organizzazione senza significato, vuoI dire che anche nel caso della figura 1.1, che esemplifica la normalità della percezione visiva di ogni giorno, il significato viene attribuito ad una realtà visiva già segmentata in oggetti distinti e dotati di forma. Anche se il processo di incorporazione del significato non è in genere osservabile, il costituirsi dell'oggetto visivo deve necessariamente precedere il suo riconoscimento. Può essere riconosciuto solo in quanto già esiste.
3. «Vedere» in senso stretto Se codificazione, riconoscimento e interpretazione presuppongono necessariamente i dati visivi che sono oggetto di quelle operazioni, e se questi dati possiedono già una
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loro organizzazione, il problema che si pone a questo punto è quello della loro formazione. In altre parole: come si svolge il processo che porta proprio a quella organizzazione dell'input visivo? Come si formano gli indizi (cues) che devono essere interpretati? Occuparsi di questa fase dell'attività conoscitiva - che è stata chiamata in vario modo: processo primario o precategorico o preattentivo - significa per me studiare il vedere in senso stretto. Mentre, sempre secondo me, studiare Ili fase successiva di interpretazione (processo secondario) è già studiare il pensiero. Anche se è un pensiero che si esercita su materiale visivo. Sulla natura del processo primario l'ipotesi più accreditata è quella «interpretativa» o «raziomorfica» proposta da Helmholtz e adottata ai nostri giorni con sfumature diverse da numerosi studiosi. Per citare solo i più autorevoli: Ames, Arnheim, Bruner, Gregory, Hochberg, Rock e la maggior parte dei teorici dell'human information processing. Come è noto, secondo tale ipotesi non ci sarebbero differenze sostanziali, per quanto riguarda la loro natura, tra il processo di formazione dei cues (processo primario) ed il processo di interpretazione dei cues stessi. In ambedue i casi si tratterebbe di procedure raziomorfe, analoghe a quelle che in forma pura si riscontrano nel pensiero discorsivo e scientifico (operazioni di categorizzazione, formazione di ipotesi, produzione di inferenze). Pertanto le regole del ragionare dominerebbero il percepire in tutte le sue fasi: ciò che vediamo verrebbe non soltanto utilizzato dai processi inferenziali nella fase di interpretazione ma sarebbe anche il prodotto di inferenze inconscie nel processo primario. È una posizione ampiamente diffusa e che anche recentemente è stata sostenuta con ricchezza di argomentazioni da I. Rock nel suo The Logic of Perception [1983]. Ma è una tesi nient'affatto pacifica e che suscita qualche ben fondata perplessità. Infatti si può affermare che il sistema visivo segmenta la stimolazione prossimale in oggetti distinti con le loro specifiche forme, in base a calcoli probabilistici e a principi di raggruppamento e di segregazione che esso 22
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«conosce». Si può anche dire che gli oggetti che cosÌ si costituiscono esibiscono una notevole costanza di colore, di grandezza, di forma perché il sistema «conosce» ed applica le leggi dell'ottica, della geometria proiettiva, dell'analisi vettoriale. Ma ci si può anche chiedere quali vantaggi presenti questa formulazione (che richiede tra l'altro l'intervento di un homunculus) rispetto a quella che sostiene che il sistema visivo non conosce e non applica nessuna regola ma semplicemente funziona secondo principi che fanno parte della sua natura o, detto altrimenti, secondo principi in base ai quali è programmato. Si può ritenere che in fondo si tratti di una divergenza di carattere soprattutto speculativo, non dirimibile sul piano empirico. Ai fini pratici della ricerca empirica non sarebbe poi tanto importante decidere tra le due posizioni: aderire all'una piuttosto che all'altra sarebbe soltanto una questione di gusto o di preferenza personale. Ma se, come penso, lo scopo principale dello studio della percezione è la scoperta e la determinazione precisa dei principi e delle regole del suo funzionamento, dubito fortemente che la scelta sia davvero indifferente. In primo luogo, una caratteristica di una teoria «raziomorfica» è che non è facile confutarla, perché per qualunque rendimento percettivo si possono sempre trovare le procedure logiche che lo giustificano. La non-falsificabilità è senz'altro una debolezza di tale posizione ma, con tutto il rispetto per Popper, non sarebbe ancora una prova sufficiente che essa è sbagliata. La mia diffidenza nei suoi confronti non è alimentata tanto da considerazioni di natura epistemologica, quanto da preoccupazioni circa le conseguenze negative che essa può avere sul piano della motivazione alla ricerca. Mi sembra infatti una teoria tipicamente non euristica, poiché di qualunque fenomeno dà per scontata in anticipo la spiegazione. È quello che si chiama «spiegar via» un problema, cioè eliminarlo dando l'impressione che in realtà non c'è niente da spiegare.
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4. Percezione come «problem-solving»
Per una teoria raziomorfica della percezione ogni fenomeno visivo sarebbe dunque il prodotto di inferenze inconscie mediante le quali il sistema visivo partendo da un insieme di assiomi e di premesse (naturalmente inconscie) giunge, con un processo che ha fondamentalmente le caratteristiche di un ragionamento, a determinate conclusioni (che sono appunto i fenomeni visivi stessi). Una particolare categoria di fenomeni viene poi considerata come il risultato di processi simili a quelli di una vera e propria attività di problem-solving. Quando la stimolazione prossimale è plurivoca, può cioè essere «letta» in più di un modo, il sistema visivo si troverebbe nelle necessità di scegliere fra un certo numero di possibili soluzioni. La soluzione scelta sarebbe la più logica, la più coerente, parsimoniosa ed elegante tra quelle teoricamente possibili. Arnheim [1969] e Rock [1983] citano, come esempio particolarmente evidente di problem-solving percettivo, la trasparenza fenomenica che si instaura quando più superfici opache sono giustapposte in particolari condizioni. Altri esempi sarebbero la creazione di superfici anomale e gli effetti stereocinetici. Va anzitutto detto che non è la plurivocità in quanto tale l'aspetto che distingue queste situazioni da tutte le altre. Infatti la stimolazione prossimale è sempre potenzialmente ambigua, suscettibile in via teorica di essere segmentata in un numero indefinito di modi diversi. Direi piuttosto che ciò che può fare di queste situazioni una categoria speciale è il fatto che in esse la plurivocità è spesso fenomenicamente constatabile. Anche perché non è raro che in questi casi il rendimento percettivo attraversi tipicamente alcune fasi prima di stabilizzarsi. L'emergere fenomenico della plurivocità è una caratteristica che presentano anche tutte le situazioni reversibili o multistabili (figura-sfondo, cubo di Necker, mascheramento figurale, ecc.). Ma a parte queste considerazioni, che tuttavia hanno il loro peso, si ripropone ancora una volta il quesito sulla utilità di una definizione in termini di problem-solving. Dire 24
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che in questi casi il sistema visivo «risolve un problema» può essere accettato come un parlare per metafora. Oltre che nella poesia, le metafore possono essere utili anche nella scienza - a patto che rimangano tali e non vengano scambiate per spiegazioni. Ora, un problema presuppone per definizione la consapevolezza di un ostacolo che impedisce il raggiungimento di una meta. Risolvere il problema consiste nella scoperta del modo di superare l'ostacolo. Non esistono problemi nella natura, si ha un problema solo quando vi è una mente che vive una certa situazione come problemica. Come dicono Mosconi e D'Urso [1973]: «il problema si crea nella mente, sempre». Altrimenti q\Ialsiasi risultato finale di un processo naturale può essere considerato come la soluzione di un problema. In questo senso, anche di un uovo di gallina si può dire che è una costruzione perfettamente funzionale che rappresenta la soluzione di un certo numero di problemi fisici e biologici. Ma a chi verrebbe in mente l'idea che questa affermazione sia in qualche modo la «spiegazione» della formazione dell'uovo? E così, dire che quando vediamo la trasparenza questa è il risultato di un processo inconscio di problem-solving non aggiunge assolutamente niente alla comprensione del fenomeno. Per quanto riguarda la conoscenza delle leggi che lo determinano, delle condizioni che lo favoriscono e di quelle che lo ostacolano o lo rendono impossibile, ne sappiamo quanto prima. Una metafora non può sostituire una spiegazione. Senza contare che sarebbe comunque una spiegazione che ha il difetto di valere solo per i casi positivi. Quando un fenomeno non si verifica, si può sempre dire che il sistema non è in grado di risolvere il problema, che ha commesso qualche errore, che si è lasciato ingannare o che ha applicato in modo inappropriato una regola. Ma bisogna ammettere che è un modo non molto brillante di aggirare una difficoltà. In conclusione, non mi sembra epistemologicamente corretto il tentativo di attenuare, fino a farle scomparire, le differenze tra vedere e pensare ponendo l'accento sulle loro presunte analogie. Ma soprattutto, come ho già detto, non
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genere non sono eventi isolati, sono la regola nella nostra interazione quotidiana col mondo. Molto spesso si tratta di vere e proprie soluzioni di problemi, di decisioni a cui si perviene mediante ragionamenti, valutando gli indizi disponibili alla luce delle conoscenze e del contesto. Come quando decidiamo che una zona bianca che vediamo sul pendio della montagna di fronte a noi non è una macchia di neve ma l'intonaco di una baita. Questa decisione trasforma il significato della macchia ma non modifica per nulla il suo aspetto visivo. Per questa ragione non dobbiamo considerare percettive queste soluzioni, se vogliamo conservare al termine «percettivo» la sua specificità, riservandolo a quelle esperienze che viviamo come «incontrate», comé dati che troviamo di fronte a noi, in larga misura non influenzabili dai nostri atteggiamenti, dalle nostre conoscenze, dalla nostra volontà.. Quindi, quando il processo di interpretazione stabilisce nuovi collegamenti tra gli elementi di una scena o fa immaginare l'oggetto nascosto o coperto di cui è visibile solo una parte, senza che nulla di veramente percettivo si aggiunga ad essi, è preferibile parlare di integrazione o completamento mentale.
riesco a vedere i vantaggi di una simile operazione, mentre ne vedo i pericoli. Sostenere che un campo di fenomeni va spiegato mediante i principi validi in un altro campo non può avere, secondo me, un effetto stimolante sulla ricerca. Una teoria del genere, che in ultima analisi trascura o sottovaluta la specificità del vedere, rischia di spegnere la curiosità e la voglia di indagare fenomeni per i quali esiste sempre e comunque una spiegazione preconfezionata. Da questo punto di vista è preferibile mettere a fuoco le differenze perché queste, indicando la possibilità che i due campi di fenomeni obbediscano a regole diverse, possono metterci sulla strada della loro scoperta.
5. Completamento percettivo e completamento mentale
I fenomeni di completamento sono i più adatti a mettere in luce le analogie e le differenze tra vedere e pensare e per valutare quando ha senso parlare di soluzione di problemi e quando se ne può parlare solo in termini metaforici. E in questo secondo caso si può mostrare quanto spesso la metafora non regge. . a) Completamento mentale. Nell'attività cognitiva si va sempre oltre l'informazione sensoriale. I dati immediati della visione vengono identificati in base alle nostre conoscenze, vengono arricchiti mediante operazioni inferenziali basate su principi logici o su calcoli probabilistici. Anche una scena molto impoverita, lacunosa o in condizioni di scarsa illuminazione non rimane di norma priva di senso ma riceve una qualche interpretazione. Spesso è sufficiente un particolare minimo o l'inserimento in un contesto spazi aIe o temporale perché avvenga l'identificazione e il riconoscimento. Un bravo. caricaturista riesce a suggerire un personaggio con un UnICO tratto di penna, siamo in grado di riconoscere un amico dalla sola andatura, la vista di una coda o di una zampa ci avverte della presenza di un determinato animale e così via. Integrazioni ed interpolazioni cognitive di questo
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b) Completamento percettivo. Oltre e accanto alle integrazioni cognitive esistono anche le interpolazioni percettive, quando l'integrazione è cioè direttamente visibile, ha il carattere di una presenza «reale», non solo immaginata o pensata. I fenomeni più noti di interpolazione percettiva sono il movimento beta, il completamento della zona corrispondente alla macula cieca, la comparsa di oggetti visivi stereoscopici con stereogrammi di punti disposti casualmente, la formazione di superfici anomale. Un onnipresente fenomeno di integrazione percettiva è la continuazione amodale di una superficie visiva dietro ad un'altra superficie. Quando nella stimolazione prossimale due regioni contigue hanno un margine in comune, nella percezione visiva si ha tipicamente sovrapposizione parziale di due superfici. Si può sostenere che la sovrapposizione è il
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risultato di un processo raziomorfo. Nell'esperienza di ogni giorno avviene continuamente che un oggetto occulti alla vista una parte di un altro oggetto, mentre è molto più raro che una linea visiva corrisponda al margine comune di due oggetti giustapposti. Quindi è altamente probabile che il confine che separa due regioni del campo visivo corrisponda al margine di una superficie occludente dietro alla quale continua la superficie occlusa. In base a questo «ragionamento» la figura 1.3 viene interpretata (e quindi vista) come A sopra B. Una spiegazione alternativa, che non ipotizza alcun ragionamento da parte del sistema visivo, può essere: una linea nel campo visivo tende a rifiutare una doppia funzione, cioè a servire contemporaneamente da margine a due superfici. Per questa ragione, nella figura 1.3, m è margine della regione A; ergo in quella zona la regione B è senza margine, non finisce lì, quindi continua sotto o dietro ad A. La continuazione è amodale, cioè senza gli attributi cromatici della modalità visiva, ma è una presenza genuinamente percettiva, che cioè si impone coercitivamente e non può essere modificata a volontà come una presenza solo pensata. Si pongono a questo punto due quesiti, relativi il primo all'ordine della stratificazione e il secondo alla forma che assume la parte che si continua amodalmente. Quanto al primo quesito (cioè quale delle due regioni sta davanti e quale dietro) vale la cosiddetta legge di Helmholtz-Ratoosh, secondo cui la stratificazione dipende dal modo come si incontrano i contorni delle due regioni. Se la giunzione è a T, si unificano i due segmenti collineari, che cioè giacciono nella medesima direzione. In forza di questa regola, il segmento m viene a far parte del contorno della regione A, quindi B deve continuare sotto A. L'inverso vale per l'ordine di stratificazione delle due regioni della figura 1.4. Solo nei casi in cui la giunzione è del tipo a Y e quindi la linea che divide le due regioni può continuare altrettanto bene in ciascuno degli altri due segmenti - si ha giustapposizione fenomenica, come nella figura 1.5. Il secondo quesito (come la superficie occlusa continua
FIG. 1.3. La regione A occlude la regione B. L'ordine della stratificazione dipende dal modo in cui si incontrano i contorni delle due regioni.
FIG.
1.4. Qui la giunzione a T determina l'occlusione di A da parte di B.
FIG. 1.5. Con la giunzione a Y non si ha occlusione ma giustapposizione fenomenica.
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dietro all'altra) offre una possibilità ideale per mettere a confronto il modo di operare dei due tipi di completamento. Infatti nella «continuazione amodale», una situazione in cui è assente il supporto sensoriale, il sistema visivo è «libero» di scegliere la forma della continuazione. Quindi, se il risultato percettivo è diverso da quello a cui perviene la mente secondo un ragionamento logico, questo può significare due cose: o il sistema visivo non doveva risolvere alcun problema, oppure ha risolto il problema secondo una <
6. La tesi «interpretazionista» è falsificabile? Al centro della figura 1.6 si vede prevalentemente un poligono parzialmente coperto da due quadrati neri. Difficilmente, anche se in teoria altrettanto plausibili, si realizzano le due soluzioni della figura 1.7 nelle quali, invece della sovrapposizione, si ha una giustapposizione di superfici oppure due superfici nere più due linee spezzate. Come abbiamo visto, la preferenza per la sovrapposizione sarebbe dovuta alla tendenza dei margini a svolgere una funzione uni!aterale e l'ordine della stratificazione sarebbe imposto dalle quattro giunzioni a T presenti nella stimolazione prossimale. Ciò che qui interessa è come il poligono continua amodalmente dietro la copertura. Mentre la soluzione più logica sarebbe l'ottagono, suggerito anche dal contesto, la soluzione percettiva prevalente è quella della figura 1.8. E così la 30
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figura 1.9 si completa percettivamente come nella figura 1.10 e non come nella figura 1.11, benché quest'ultima sia la soluzione più aderente alla logica del contesto. Sono solo due esempi (che però si possono moltiplicare a piacere) per mostrare che, di fronte allo stesso problema, il sistema visivo e quello cognitivo possono portare a soluzioni diverse. Il che rende anche plausibile l'ipotesi che il loro funzionamento obbedisca a regole diverse. Nei casi ora presentati il sistema visivo sembra costretto ad effettuare il completamento rispettando la continuità di direzione, senza che il risultato venga influenzato dalle esigenze di regolarità e di adeguamento al contesto che sembrano guidare l'attività di problem-solving a livello del pensiero. Normalmente le differenze nel modo di operare dei due sistemi hanno scarso rilievo, ma vengono alla luce quando, come nelle figure 1.6 e 1..9, si creano condizioni che permettono alle diversità di manifestarsi. Ciò avviene in modo vistoso nelle situazioni scoperte e studiate da Gerbino [1978]. Nella figura 1.12, benché ci siano le condizioni per la formazione di un esagono perfettamente regolare, le linee interrotte dai triangoli neri si completano in un poligono spiacevolmente distorto. Evidentemente la soluzione percettiva contrasta con la soluzione alla quale tenderebbe il sistema cognitivo: soltanto così è comprensibile il senso di disagio che la figura provoca nell'osservatore. Disagio che è una chiara testimonianza del conflitto tra le regole di funzionamento dei due sistemi. Nella figura 1.13 si vede una croce bianca sovrapposta ad un quadrato bianco. La peculiarità di questo esito percettivo consiste nel fatto che la zona bianca è, nella stimolazione prossimale, completamente omogenea: quindi la sua scissione in due oggetti visivi è un primo fatto da spiegare~ Il secondo fatto è l'ordine della stratificazione. Petter [1956] ha dato del fenomeno una interpretazione fondata su un principio di minimo. Un tale principio non ha necessariamente a che fare con un processo razionale, non è però difficile escogitare una spiegazione che faccia ricorso a processi raziomorfi.
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FIG. 1.6.- AI centro, un poligono parzialmente coperto da due quadrati neri.
FIG. 1.7. Possibili soluzioni percettive della Fig. 1.6, ma che difficilmente si realizzano spontaneamente.
FIG. 1.9. Come si completa amodalmente la figura dietro al rettangolo nero?
FIG. 1.10. Il completamento amo dale avviene secondo la buona continuazione a livello locale e non rispetta la struttura globale.
FIG. 1.8. La soluzione percettiva prevalente. FIG. 1.11. Questa continuazione rispetterebbe la struttura globale, ma è un completamento solo mentale che non riesce ad avere realtà percettiva.
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FIG. 1.12. Benché ci siano le condizioni per la formazione di un esagono regolare, il completamento amodale dà luogo ad un poligono distorto [Gerbino 1978].
Ma come si applica una spiegazione di questo tipo ai casi illustrati nella figura 1.14? Quale ragionamento fa preferire in questi casi l'intreccio, una complicazione non richiesta da nessuna esigenza logica? In un articolo pubblicato nel 1969 [Kanizsa 1969; 1980] ho presentato varie situazioni nelle quali l'effetto Petter veniva posto in conflitto con l'esperienza passata. In tutti quegli esempi il risultato percettivo era tale che mi portava a concludere che il sistema visivo risolve il suo problema contro la logica del buonsenso, le aspettative, le conoscenze. Anche in quei casi l'esistenza di un reale conflitto tra i due sisteQli era rivelata dall'impressione di assurdità e di divertita incredulità che le figure suscitavano negli osservatori. Un ultimo esempio che testimonia della forza e della indipendenza del processo primario di fronte alle richieste della logica e delle conoscenze. La figura 1.15, tratta da Massironi e Sambin [1983], mostra una situazione in cui un particolare accostamento di linee perfettamente rette produce un marcato effetto di curvatura fenomenica. Anche di questo rendimento percettivo si pùò dare una ovvia spiegazione razionale che rimanda all'esperienza passata: «Abbiamo visto tante volte trame e intrecci di questo genere, ecc. ecc.» Che le cose non stiano proprio così lo si può constatare osservando le figure 1.16 e 1.17. 34
FIG. 1.13. L'e~fet~o. ~etter. La zona bianca omogenea si scinde in due oggetti VISIVI: una croce in primo piano ed un quadrato retrostante. .
FIG. 1.14. In questi c~si. s~ impongono soluzioni ad intreccio certamente meno semph~1 .~I quelle che le condizioni di stimolazione renderebbero pOSSibilI.
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1.15. Un effetto funzionale del completamento amodale: l'ondulazione fenomenica [Sambin e Massironi 1983).
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1.17. Come nella figura precedente, il completamento amodale delle parti modalmente visibili del pesce provoca la curvatura in avanti del paesaggio che fa da sfondo.
1.16. Il rendimento percettivo si realizza contro tutto quanto sappiamo dall'esperienza passata e contro ogni aspettativa.
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Anche in questi casi, come nella figura 1.15, il completamento amodale delle parti modalmente visibili dell'automobile o del pesce provoca una paradossale curvatura in avanti della parte di paesaggio visibile tra i tronchi d'albero. Ma qui il rendimento percettivo si realizza proprio contro tutto quanto sappiamo dall'esperienza passata e contro ogni ragionevole previsione. La conclusione che si può trarre è che se il sistema visivo, in questi casi in cui sarebbe libero di farlo, non sceglie la soluzione più coerente con il contesto come vorrebbe la logica di un normale ragionamento, ciò significa che il vedere segue una «logica» diversa o, ancora meglio, che non fa nessun ragionamento, ma semplicemente funziona secondo principi autonomi di organizzazione che non sono gli stessi che regolano il pensare. I contro-esempi che ho citato (che sono solo un piccolo campione di quelli che è possibile produrre) a me sembrano rappresentare altrettante confutazioni o falsificazioni delle tesi raziomorfiche. Non mi illudo tuttavia che saranno trovati altrettanto convincenti da chi sostiene quelle tesi. Penso tuttavia che, anche se non vengono accettate come disconferme valìde, situazioni del genere pongano al teorico seri interrogativi che non sarebbe saggio accantonare con pseudo-spiegazioni o considerandoli alla stregua di curiosità più o meno divertenti. Dico questo perché sono convinto che rintracciare e sottolineare le affinità e le somiglianze tra fatti naturali è un compito importante della ricerca scientifica, ma sono altrettanto convinto che ignorare o minimizzare le differenze non può avere effetti benefici sulla ricerca stessa.
7. Appunti di metodologia: contro il «soggetto ingenuo» Comunque sia, se si vuole che la questione non rimanga oggetto di una disputa solamente verbale ma venga affrontata sul terreno della ricerca empirica, si pone un problema metodologico abbastanza delicato. Se voglio scoprire le affi38
nità e le eventuali differenze del funzionamento dei due sistemi, devo in primo luogo essere in grado di decidere se un fenomeno è prodotto dall'uno o dall'altro sistema. Come posso accertarmi che un rendimento è realmente percettivo nel senso definito sopra? In base a quali criteri posso distinguere un fatto del «vedere» da un fatto del «pensare»? Il procedimento a cui si ricorre comunemente, e che appare il più ovvio, è: .interrogare un certo numero di soggetti e lasciare che siano essi a decidere. Un procedimento che, come -in altri settori di indagine della psicologia, molto spesso è, oltre che l'unico possibile, del tutto adeguato e in grado di fornire risultati attendibili. Ma non sempre le cose sono così semplici, e a questo proposito sarebbe necessario aprire un discorso che riguarda i fondamenti della fenomenologia sperimentale a cui posso fare qui solo qualche accenno. Quando si parla di osservazione fenoménologica nello studio dei fatti percettivi si intende una osservazione il più vicina possibile alle condizioni della vita quotidiana, condotta con atteggiamento naturale, spontaneo, libero da preconcetti, non analitico. Ciò significa che il soggetto ideale sarebbe chi non ha studiato psicologia, non è a conoscenza degli scopi dell'esperimento, non ha una teoria sui fenomeni che deve osservare e descrivere, in una parola: il soggetto ingenuo. Purtroppo sono condizioni che non si avverano mai. I cosiddetti soggetti ingenui sono tutto meno che ingenui, se con questo termine si intende non prevenuti, senza preconcetti teorici, con impostazione naturale. Il soggetto ingenuo non può non farsi delle idee sugli scopi dell'esperimento e sulle aspettative dello sperimentatore, porta nell'esperimento le sue teorie più o meno implicite, «sa» come devono apparire le cose, ha quasi sempre pronta una sua spiegazione per i fenomeni che dovrebbe solo descrivere. Il peggio è che lo sperimentatore non conosce le teorie che i soggetti hanno in mente. Perciò se prende per buone le loro dichiarazioni - e non può fare altrimenti una volta che si è affidato a loro - corre il rischio di accettare come fatti percettivi quelli che invece possono essere soltanto i giudizi a cui ogni soggetto perviene partendo dalle proprie personali 39
A FIG. 1.18. Come può essere descritta questa figura?
presupposizioni. Se le cose stanno così, «chiedere ai soggetti» può non essere una sufficiente garanzia che le risposte ottenute siano attendibili, e allora decidere per l'esistenza o meno di un fenomeno contando semplicemente il numero delle risposte (sottoponendole magari a raffinati test statistici) può portare a conclusioni del tutto sbagliate e fuorvianti. Se, di fronte ad un tavolo su cui sono posti vari oggetti, chiedo a 100 soggetti «ingenui» di descrivermi quello che vedono e se in nessuna delle 100 risposte che ottengo si fa cenno all'ombra degli oggetti sul piano del tavolo, devo forse concludere che le ombre che io invece vedo distintamente non esistono nella loro esperienza, sono solo una mia allucinazione? O se, come è accaduto ad un mio collega, un certo numero di soggetti mi dice di vedere trasparente un quadrato grigio collocato al centro di un quadrato bianco, devo accettare questi protocolli come prove di genuine impressioni percettive o non li devo piuttosto considerare artefatti provocati dalle istruzioni che parlavano di trasparenza? E per prendere un esempio che riguarda ancora una volta la distinzione tra completamento modale e amodale, facciamo descrivere ad un soggetto ingenuo la figura 1.18. Una probabile risposta può essere: una figura nera (che potrebbe essere una D) contigua al lato superiore di un rettangolo grigio. Chiediamogli ora di dire cosa vede nella figura 1.19. Se mi risponde che vede una B e una R, ebbene io non gli credo. Non credo che veda quelle lettere anche se, in base al contesto ed alla parte modalmente visibile, ha risolto correttamente il problema di individuare le lettere che potrebbero stare tra A e C e tra Q e S. Ma a questa conclusione poteva giungere anche se le lettere fossero state completamente coperte o se al loro posto ci fosse stato uno spazio vuoto.
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CDE PQ ST
FIG., 1.19. Dire che le lettere seminascoste sono una B ed una P significa risolvere un problema, non significa <wedere» quelle lettere.
Mi si può obiettare che ho scelto situazioni estreme che non sono rappresentative delle situazioni che normalmente si danno nelle ricerche di psicologia della percezione. Invece non è raro leggere resoconti di esperimenti da cui si trae l'impressione che le risposte dei soggetti siano frutto di un equivoco, di una mancata o non chiara distinzione tra vedere e pensare. Soprattutto in esperimenti destinati a discriminare tra casi di vera presenza percettiva amodale e casi di semplice integrazione mentale priva di carattere percettivo. Ad esempio, per accertare se il completamento amo dale si attua secondo il principio della codificazione più economica Buffart, Leeuwenberg e Restle [1981] chiedevano ai loro soggetti di disegnare come determinate figure si completano dietro ad uno schermo. Molto difficilmente i risultati ottenuti con alcune delle loro rappresentazioni possono essere considerati come indicanti completamenti realmente percettivi, ma sono probabilmente indicazioni di integrazioni mentali conseguenti ad un ragionamento. Riporto un solo esempio, in figura 1.20, che mi sembra una chiara dimostrazione di quanto sto affermando. In questo come in altri casi si ha l'impressione che il soggetto abbia trasformato l'istruzione: «Disegna come vedi la figura completarsi dietro al quadrato» nell'istruzione: «Disegna come è più probabile che la figura si completi dietro al quadrato». Se ciò è realmente accaduto, non siamo più di fronte ad un compito percettivo ma ad un compito di problem-solving, ed i risul-
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· A
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.·.... .. ... B FIG.
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1.20. Un terzo dei soggetti dell'esperimento di Buffart. Leeuwenberg e RestIe [i981). invitati a disegnare come vedevano completarsi le figure A e B. hanno fornito le risposte C e D.
tati non possono essere considerati come prove di codificazione a livello percettivo. Ma se il soggetto ingenuo non è completamente affidabile, dobbiamo allora impiegare nelle ricerche percettive soltanto soggetti particolarmente addestrati? Ma non significa questo tornare ai «soggetti esperti» nell'introspezione che hanno già fatto cattiva prova a Wiirzburg ai tempi di Kiilpe? Non credo che ciò sia proprio necessario. Una ricerca di fenomenologia sperimentale non è garantita in modo sicuro dal ricorso a un soggetto «ingenuo» ma non richiede neppure un. soggetto «esperto», se esperto vuoI dire lungamente esercitato in compiti di osservazione, pronto nelle risposte, in grado di cogliere ogni sfumatura, di discriminare ogni minima differenza tra fenomeni. Un buon soggetto per questo tipo di ricerche non occorre che possieda né doti eccezionali né un particolare esercizio, ma è essenziale che abbia ben compreso il suo compito. Lo chiamerei un sogget42
to istruito o «avvertito». L'unica cosa che conta è che deve sapere che cosa si chiede da lui, deve conoscere la differenza tra presenza percettiva e presenza puramente pensata o immaginata, deve sapere che può dire «vedo» solo quando vede veramente e astenersi dall'affermare di vedere ciò che invece giudica più logico o più probabile. Può sembrare una cosa semplice ma così non è, perché come lo scienziato ha le sue teorie così le ha il profano. Come il primo deve accuratamente evitare di farsi influenzare dalle proprie ipotesi ed aspettative (che lo spingerebbero a notare soprattutto le conferme e a ignorare o minimizzare l'evidenza contraria), così il secondo, per essere un valido collaboratore del primo, deve imparare a descrivere soltanto la realtà visiva come gli appare e non come a lui sembra che dovrebbe essere o apparire . .Soltanto a queste condizioni, solo con la collaborazione di soggetti «avvertiti», la fenomenologia della visione può essere qualcosa di più di una descrizione o inventario di fenomeni e aspirare a divenire una fenomenologia sperimentale. Il fine che si propone la fenomenologia sperimentale del vedere non differisce da quello degli altri settori di indagine della' psicologia: scoperta e analisi di connessioni funzionali necessarie tra fenomeni visivi, individuazione delle condizioni che favoriscono od ostacolano la loro comparsa e il grado della loro evidenza, in altre parole: determinazione delle leggi a cui il campo di fenomeni obbedisce. E questo senza uscire dal dominio fenomenico, senza cioè riferirsi ai processi neurofisiologici sottostanti (in gran parte sconosciuti) né alle attività psicologiche non-visive concomitanti (attività di tipo logico, mnestico, affettivo che non presentano certamente meno enigmi della visione stessa). L'influenza di tali processi ed attività non può certo essere negata, ma essi non devono essere identificati con il vedere. I processi nervosi non sono «vedere», come del resto non sono «pensare», anche se siamo convinti che non esista visione o pensiero in assenza di attività nervosa. La fenomenologia sperimentale della visione non si occupa del cervello ma di quel risultato dell'attività del cervello che è il vedere. Non è una 43
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scelta di ripiego, giustificata dalla lentezza del progresso nella ricerca neurofisiologica e dalle sue incerte prospettive, è una opzione metodologica dettata da precise motivazioni epistemologiche. E principalmente dalla convinzione che la realtà fenomenica non può essere affrontata e tanto meno spiegata con un approccio neuroriduttivo, perché si tratta di un livello di realtà che ha la sua specificità, che esige e legittima un tipo di analisi adeguato a tali specificità.- Le conoscenze raggiunte per questa via sono da considerarsi scientifiche allo stesso titolo delle conoscenze ottenute in qualsiasi altro dominio di realtà con metodi commisurati a quel dominio. Un fenomeno visivo è per definizione un'esperienza cosciente di un soggetto. Perciò non è pensabile uno studio dei fatti visivi che possa prescindere dalle risposte (verbali o comportamentali) di un soggetto. Le condizioni in cui si raccolgono queste risposte sono essenziali per la loro attendibilità e quindi vanno tenute presenti nella progettazione e nella valutazione dei risultati di un esperimento. La miglior soluzione di questo problema metodologico non è il soggetto ignaro o «ingenuo», ma al contrario il soggetto istruito o «avvertito» di cui lo sperimentatore è sicuro che abbia compreso perfettamente il compito che gli viene richiesto.
CAPITOLO SECONDO
LA PRESENZA AMODALE
1. Vedere e pensare: una dicotomia solo fenomenica?
Non è necessario riflettere, fare calcoli, compiere ragionamenti - in una parola non è necessario pensare - per decidere che nella figura 2.1 ci sono due oggetti visivi distinti, che uno degli oggetti è più piccolo dell'altro, che essi sono diversi per colore e per forma, che uno sta sopra all'altro, che quest'ultimo è più regolare del primo. Non occorre pensare, basta guardare, perché queste proprietà e questi rapporti si vedono. E li vediamo non soltanto noi, ma anche molte specie di animali, come risulta dalle innumerevoli ricerche che hanno dimostrato che essi sono in
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I FIG. 2.1. Non è necessario l'intervento del pensiero per vedere direttamente il numero, il colore, la grandezza, la forma, la posizione reciproca di questi oggetti visivi.
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grado di discriminare gli oggetti visivi in base a questi attributi. Nell'attività percettiva sembrano dunque implicite operazioni di categorizzazione, di confronto, di comprensione di rapporti analoghe a quelle che si possono osservare, in forma esplicita, nell'attività di pensiero vera e propria. Partendo da questa constatazione piuttosto ovvia si possono però trarre due conclusioni molto diverse sui rapporti che intercorrono tra percezione e pensiero. Da una parte, in base al fatto che l'attività percettiva possa svolgersi senza l'intervento di processi di pensiero, si può sostenere e si è sostenuto, specie in sede filosofica, che si tratta di due attività psichi che del tutto eterogenee: fonte, la prima, del mondo sensibile, dell'apparenza mutevole ed ingannevole delle cose; strumento, il secondo, della costruzione e sistemazione razionale della realtà sulla base del materiale fornito dalla prima. Si può d'altra parte sostenere l'esistenza, se non proprio di una identità, di una sostanziale continuità tra le due attività, che sarebbero forme diverse di un medesimo processo cognitivo, aventi le stesse finalità e regolate dalle stesse leggi. A questa conclusione spinge proprio la constatazione che il più semplice evento percettivo sembra il risultato di operazioni della stessa natura di quelle intellettuali. L'ipotesi della continuità e, al limite, della impossibilità pratica di una netta distinzione tra questi due momenti dell'attività cognitiva può assumere sfumature differenti. Si può avere una prospettiva prevalentemente panpercettiva oppure una prospettiva panlogica, a seconda che nella costruzione del modello di funzionamento del processo cognitivo venga privilegiato uno dei due poli del continuum. Come è noto, i gestaltisti, nella loro aspirazione ad una concezione unitaria della vita psichica, hanno sostenuto che le leggi di organizzazione valide nella percezione agiscono anche nel pensiero. E poiché alla percezione essi applicano un modello di campo, essi tendono a considerare anche i processi di pensiero, e la loro organizzazione e ristrutturazione, come dominati da leggi di campo. 46
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Dal canto loro i cognitivisti sostengono, come Helmholtz, che i processi percettivi si svolgono secondo regole che obbediscono alla medesima logica dei processi inferenziali del pensiero. Naturalmente si tratta di ragionamenti o di giudizi inconsci: il meccanismo dei processi percettivi è concepito come se esso fosse un calcolatore programmato per eseguire operazioni inferenziali di tipo logico. Ci sembra che la differenza tra queste due prospettive teoriche sia sostanziale. Nel primo approccio, l'esperienza sensoriale è rappresentata direttamente da un insieme di eventi fisici, che sono il prodotto di una trasformazione della stimolazione. Le caratteristiche che vengono attribuite a tali eventi fisici permettono di effettuare delle previsioni sul corso dei fenomeni. Secondo l'altro approccio, la rappresentazione fisica degli stimoli viene subito rimpiazzata da una rappresentazione simbolica; e l'esperienza sensoriale viene concepita come l'insieme di conclusioni cui perviene una sequenza di procedure di manipolazione di simboli. Queste due prospettive teoriche ispirano due differenti modelli processuali: da un lato, l'autoregolazione dinamica di un campo di forze (o un altro modello di eventi fisici adeguato alle proprietà fenomeniche); dall'altro lato, l'interpretazione di dati. Non siamo in grado oggi, alla luce delle conoscenze che possediamo, di decidere quale modello sia migliore. Ma, stando così le cose, non sembra nemmeno tanto urgente prendere una tale decisione. Probabilmente è più utile lasciare che, in un clima di pacifica (anche se competitiva) coesistenza, la ricerca empirica si sviluppi parallelamente in entrambe le direzioni, e aspettare che parlino i fatti. Personalmente preferiamo una teoria dell'elaborazione di informazioni per il pensiero, per il quale ci riesce difficile immaginare come possa funzionare un modello fisico, che invece troviamo più convincente per capire i fatti percettivi. Confessiamo che tali preferenze sono dettate da ragioni fenomenologiche. Infatti, quando pensiamo, abbiamo talora l'impressione che la nostra mente compia, più o meno velo- . cemente, quelle operazioni di categorizzazione, di formula-
zione e controllo di ipotesi, di analisi, di confronto e decisione postulate da una teoria inferenziale. Quando invece guardiamo con gli occhi, possiamo spesso constatare direttamente che gli eventi percettivi si comportano come se fossero sottoposti alle tensioni, ai vettori, alle influenze, al gioco di forze di un campo. Le nostre preferenze possono essere discutibili e dimostrarsi alla lunga errate, ma pensiamo che, in via di principio, non sia assurdo lasciarsi guidare, nella costruzione di teorie e nella progettazione di procedimenti metodologici, dalle particolari caratteristiche e proprietà della realtà che si intende studiare. Nel dire questo, siamo perfettamente consapevoli della asimmetria che esiste tra l'uso dei modelli fisici e l'uso delle procedure interpretative basate sulla manipolazione di simboli. La scelta della controparte fisica di un fenomeno è spesso difficile ed esposta alla disconferma sperimentale; mentre sembra sempre possibile, in teoria, escogitare una sequenza di passaggi logici capace di render conto del verificarsi di un fenomeno. Comunque, una volta dichiarate le preferenze personali per un determinato tipo di approccio teorico, non dobbiamo dimenticare che nello stadio attuale della nostra disciplina non dovrebbe essere consentito a nessuno il lusso di esclusivismi o di pretese egemoniche. Quando i fatti sulla cui interpretazione esiste un consenso relativamente unanime sono ancora pochi, mentre per la maggior parte di essi prevale la più totale diversità di vedute, ci sembra poco utile ed anche pericoloso decidere a priori quale debba essere la più giusta chiave di lettura dei fenomeni, e di conseguenza quali debbano essere gli strumenti concettuali e metodologici più adeguati per il loro studio. Nel nostro caso, anche ammettendo che il sistema percettivo funzioni come un calcolatore, crediamo importante non predeterminare l'insieme di regole secondo le quali esso è programmato. È meglio lasciare all'osservazione fenomenologica e alla ricerca sperimentale il compito di scoprirle. Questo insieme di regole potrebbe rivelarsi diverso da quello che regola il calcolo logico. Se non si tiene presente
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questa possibilità, e si dà per scontato in partenza che le due attività sono governate dalle stesse regole, si rischia di rimandare per lungo tempo la scoperta delle effettive leggi di funzionamento di uno dei due campi. Adottare prematuramente un'unica chiave di lettura può portare a non vedere i fenomeni che non sono previsti dal modello prescelto o ad eliminare, dichiarandoli «eccezioni», quelli che non trovano spiegazione nel proprio schema teorico. Un fenomeno che, da questo punto di vista, sembra paradigmatico, è il completamento amodale, cui sono dedicate le osservazioni e le discussioni che seguono. j
2. La presenza amodale: un fenomeno da rivalutare
Si tratta di un fatto la 'cui reale importanza è stata per lungo tempo non sufficientemente riconosciuta. Il completamento della parte non direttamente visibile di un oggetto, perché coperto da un altro oggetto, era tradizionalmente considerato, con il nome di «interposizione» o di «occlusione», come uno degli indizi pittorici di profondità. Indizio «pittorico» perché utilizzato, insieme con la prospettiva e con il chiaroscuro, anche dai pittori, per rinforzare l'impressione di tridimensionalità nei loro quadri, come mezzo atto a suggerire una più univoca interpretazione del rapporto spaziale avanti-dietro degli oggetti raffigurati. Benché Metelli [1940], analizzando le condizioni che determinano ciò che si muove e ciò che appare immobile nel campo visivo, avesse mostrato situazioni di straordinaria presenza percettiva di oggetti ai quali non corrispondeva una presenza reale nella stimolazione fisica, le sue osservazioni furono considerate, come spesso è avvenuto per altri fenomeni visivi, come interessanti curiosità, senza richiamare su di sé l'attenzione che si meritavano (si veda la figura 2.2). Michotte stesso, cui si devono peraltro molte ricerche sperimentali sul problema della presenza amodale [1962], in una breve nota pubblicata per la prima volta nel 1951, parlò del fenomeno come di un nuovo enigma della percezione. Si deve 49
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FIG.
2.2. Il disco bianco e nero illustrato nella figura viene fatto ruotare lentamente (ad una velocità variabile tra 1/4 e 21fz giri per secondo). Il centro di rotazione coincide con il centro dell'arco che costituisce il margine tra le regioni bianca e nera. Il rendimento fenomenico prevalente è il seguente: una apertura circolare' ruotante copre e scopre continuamente le differenti parti di un disco nero immobile (indicato in figura da una linea punteggiata), che appare come presente tutto intero per tutto il tempo, in parte modalmente, in parte amodalmente. Le parti che sono presenti amodalmente cambiano continuamente [da Metelli 1940].
anche notare l'attenzione crescente che Gibson [1950; 1966; 1979], nello sviluppare il suo punto di vita sulla percezione. ha dedicato al ruolo svolto dalla «occlusione» nell'organizzazione del nostro mondo visivo. Solo tardi dunque, e solo parzialmente, al completamento amodale è stata riconosciuta una realtà genuinamente percettiva. Poiché agli psicologi, come prima agli artisti, non era certo sfuggito il fatto che il nostro mondo fenomenico è, come dice Metelli, «teatro di continue totalizzazioni», l'assenza o la scarsità di interesse da parte dei percettologi verso un fenomeno invece così interessante è comprensibile soltanto come una conseguenza del mancato riconoscimento della sua natura percettiva. Infatti esso è stato in genere «spiegato via», cioè eliminato, come problema, facendolo rientrare in uno schema interpretativo precostituito, considerandolo cioè come il risultato di un'operazione del pensiero sul dato percettivo. L'integrazione della parte
so
b
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2.3. Esempi di presenza modale (a). rappresentazione mentale (h) e presenza amodale (c).
nascosta di un oggetto è stata vista sempre come una integrazione mentale, come il contributo che, alla costruzione del mondo visivo, viene dato dal «sapere», cioè dalla conoscenza di come sono fatte le cose. A questo punto riteniamo opportuno fare alcune precisazioni su che cosa intendiamo con i termini «rappresentazione mentale» e «presenza percettiva», per chiarire cosa intendiamo quando parliamo di vari tipi di completamento e insistiamo sulla necessità di distinguerli. Nella figura 2.3a è un anello grigio interamente visibile. Le due zone centrali delimitate dai trattini orizzontali hanno la stessa evidenza percettiva delle due zone arcuate: esse sono, come queste ultime, presenti nella modalità visiva. In b ci sono soltanto due archi grigi, ma essi possono essere pensati come parti dell'anello a, al quale mancano le due zone centrali. Queste due zone, qualora vengano mentalmente interpolate tra gli archi a formare un anello, sono soltanto «rappresentate», e questa integrazione mentale non esercita alcuna influenza sull'aspetto dell'interruzione che continua ad apparire come una parte dello sfondo bianco. Tale rappresentazione è puramente mentale, non avendo effetti percettivi. La distinzione tra queste due forme di «presenza» non offre difficoltà: tutti sanno riconoscere la differenza fra una cosa realmente veduta ed una soltanto pensata. Meno semplice è la situazione di c. Anche qui i due archi sono modalmente 51
tutti questi casi che, ripetiamo, sono la stragrande maggioranza delle situazioni visive con cui abbiamo a che fare quando ci guardiamo attorno nella vita di ogni giorno, l'integrazione avviene in genere in base a quanto sappiamo sulla forma e sul colore normali degli oggetti, più o meno familiari, che ci circondano. Sono operazioni del pensiero sui dati percettivi. La validità di questa spiegazione, che sembra universale, non deve però nasconderci un altro fatto, che è altrettanto universale. Le integrazioni mentali, su base cognitiva, sono quasi sempre accompagnate e facilitate da completamenti di natura percettiva, del tipo che abbiamo :chiamato amodali, e che danno luogo ad una presenza «incontrata». Ritorniamo all'esempio della persona seduta dietro alla scrivania. Abbiamo detto che essa è vissuta come completa. Ma in che senso è completa? Evidentemente non nel senso che sapremmo indicare la posizione delle sue gambe, né il colore dei suoi pantaloni, o la forma delle sue scarpe. Queste cose le possiamo inferire, più o meno sicuramente, a seconda del grado di conoscenza che abbiamo della persona stessa. Comunque la loro rappresentazione è certamente il risultato di operazioni puramente mentali. Ma c'è qualcosa, nella situazione, che ha un carattere meno vago, qualcosa che si impone come un dato di fatto, indipendente dal contributo dell'osservatore. È il fatto che, fenomenicamente la persona non finisce dove finisce la sua parte visibile, il suo corpo continua oltre il bordo del tavolo che segna il confine tra la parte visibile e quella coperta. Il «continuare», il «passar dietro», ha l'evidenza coercitiva del fenomeno «incontrato», mentre la forma ed il colore sono indefiniti, sono più «soggettivi». Il completamento delle parti non direttamente visibili sembra dunque, in questo caso, il risultato dell'azione simultanea di due fattori di livello diverso: uno più mentale e uno più percettivo. La compartecipazione di questo secondo fattore, di natura percettiva, si può forse cogliere considerando la differenza tra la figura 2.4 e la figura 2.5. In ambedue le figure è rappresentata la stessa parte di
visibili ma non c'è bisogno di rappresentarsi il loro completamento, perché essi tendono a continuare spontaneamente dietro alla sbarra orizzontale bianca. Tanto è vero che c può essere descritto, e viene descritto dalla maggior parte degli osservatori, come l'anello a coperto dalla sbarra orizzontale. In questo caso, la presenza delle due zone centrali che non sono modalmente visibili, assume un carattere nuovo, di maggiore coercitività. Non si tratta più di una rappresentazione soltanto mentale, come in b, ma di una vera presenza fenomenica, che possiede una realtà che l'osservatore vive come indipendente da sé e dalla propria immaginazione. Per dirla nei termini di Metzger [1963] si tratta di un dato «incontrato», non più di un dato puramente «rappresentato». A questo tipo di presenza incontrata riserviamo il nome di presenza amodale. Mentre, come abbiamo detto, la distinzione tra presenza modale e rappresentazione mentale (cioè tra vedere vero e proprio e pensare in senso stretto) non presenta troppe difficoltà, non altrettanto pacifica è la distinzione tra rappresentazione mentale e presenza amodale. In primo luogo, non tutti i completamenti sono amodali nel senso ora precisato, cioè «incontrati». Anzi, la maggior parte delle integrazioni che avvengono continuamente nel nostro concreto mondo visivo di ogni giorno sono di carattere rappresentativo, sono cioè integrazioni mentali. Una persona che siede davanti a noi, dietro ad una scrivania, ci appare una persona completa, anche se vediamo direttamente soltanto la sua testa, le sue braccia e parte del tronco. E allo stesso modo il quadro alle sue spalle, di cui scorgiamo direttamente soltanto le parti non coperte dalla sua testa, non ha in quella zona un buco, ma è un quadro completo. Questo vale per ogni scena normale, perché in uno spazio tridimensionale occupato da corpi la parziale copertura di alcuni da parte di altri, rispetto al punto di vista di un osservatore, è la regola. E comunque, anche prescindendo dalla interposizione di oggetti diversi, non dobbiamo dimenticare che la parte visibile di ogni singolo corpo, anche quando non è coperto da altri, occlude alla visione diretta la sua parte retrostante. In
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53 I
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una persona. Ai fini della nostra analisi la differenza tra i due casi è piuttosto notevole. Nella figura 2.4 abbiamo un «pezzo» di persona, che è comunque sufficiente a farci indovinare il resto del corpo; ma ciò non è assolutamente sufficiente a trasformare minimamente il suo aspetto di pezzo o di frammento. Nella figura 2.5 la stessa configurazione non è più un pezzo ma è la parte visibile di una persona intera, la cui parte non direttamente visibile è presente, con il carattere dell'«incontrato», dietro al tavolo. Ci rendiamo conto che queste possono sembrare sottigliezze. Ce ne scusiamo, ma riteniamo che, in determinati casi, siano necessarie anche distinzioni che possono apparire sottili, se c'è la speranza che ciò possa aiutare a comprendere meglio un campo di fenomeni. La differenza tra le due situazioni ci sembra dunque sostanziale. Essa è dovuta, a nostro avviso, al fatto che nella situazione di figura 2.5 agiscono congiuntamente due attività di integrazione, di natura diversa, una tendenza al completamento percettivo amodale accanto ad un completamento puramente mentale, di tipo inferenziale. Nella figura 2.4 può agire questo secondo fattore, ma è del tutto assente il primo. Ma questo ragionamento si applica non soltanto alle situazioni artificiali delle figure 2.4 e 2.5; esso è, a maggior ragione, valido per le scene reali, che costituiscono in ogni istante il nostro concreto ambiente visivo. Ognuna di queste scene del mondo quotidiano è in genere costituita, da un punto di vista della stimolazione, soltanto da un insieme di parti direttamente visibili di persone, di visi, di oggetti. Queste parti o pezzi non hanno però, in quanto tali, una reale esistenza fenomenica nel mondo visivo, dove invece ci troviamo di fronte a persone, visi e oggetti interi, che si coprono parzialmente l'un l'altro. Non abbiamo l'impressione di integrare «pezzi», come nel caso di figura 2.4, ma vediamo oggetti interi parzialmente coperti, come in figura 2.5. Ma se il completamento amo dale , lungi dall'essere una curiosità da laboratorio, è un ingrediente così importante
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FIG. 2.4. Un «pezzo» di persona.
FIG.
2.5. Una persona seduta alla scrivania. Il «continuare dietro» alla scrivania non è puramente immaginato. ha l'evidenza coercitiva del fenomeno «incontrato».
nella costruzione del nostro mondo visivo quotidiano, poiché il suo intervento trasforma un insieme di pezzi in una realtà di cose complete, con il carattere fenomenico del\' «incontrato», riteniamo giustificata una maggiore attenzione alle modalità della sua azione ed un suo studio accurato anche in condizioni di laboratorio. Una volta che se ne sia riconosciuta l'autonomia e la natura genuinamente percettiva, se cioè esso non viene «spiegato via» catalogandolo sbrigativamente . come una forma di integrazione mentale, il completamento amodale può diventare uno strumento per evidenziare le regole, i vincoli e le tendenze secondo cui funziona il sistema percettivo. Esso può, per esempio, servire anche per controllare se la «logica» di tale sistema è proprio la stessa di quella del pensiero.
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Nelle pagine che seguono esporremo alcune osservazioni sugli effetti funzionali del completamento amodale, che dovrebbero servire a ribadire il suo carattere peculiare di meccanismo percettivo, rispetto ai processi meramente interpretativi, e indicheremo alcune aree nelle quali il completamento amodale potrebbe essere utilizzato come strumento di ricerca.
3. Effetti funzionali del completamento amodale
Quando abbiamo parlato del completamento amodale come di un dato incontrato, individuando in questa caratteristica la prova che si tratta di un fenomeno di natura diversa da quella di un completamento rappresentato, ci siamo richiamati alla testimonianza dell'esperienza diretta, cioè all'impressione di avere di fronte a noi qualcosa di «oggettivo», che è da noi indipendente, che non subisce l'influenza della nostra volontà o della nostra impostazione assuntiva. Infatti, proprietà come l'essere fenomenicamente dato, l'essere indipendente, la non influenzabilità, sono alcune delle caratteristiche distintive di un dato percettivo, e lo distinguono da quanto è meramente pensato. Il ragionamento può apparire, in certo senso, circolare: il completamento amodale è un dato percettivo perché abbiamo l'impressione che sia percettivo. Ma forse abbiamo a disposizione argomenti meno suscettibili di essere classificati come «soggettivi» o poco attendibili. Oltre ad essere caratterizzato da alcune peculiarità fenomeniche, un dato percettivo ha sempre un qualche effetto funzionale. Infatti l'introduzione di un evento veramente percettivo in una situazione visiva modifica sempre, più o meno profondamente, l'aspetto o il ruolo dei dati già presenti nella situazione stessa. Ne sono una prova le cosiddette illusioni ottico-geometriche, l'effetto che uno schema di riferimento esercita sul modo di apparire di una configurazione, la trasformazione del ruolo di una parte in dipendenza del contesto nella quale essa è inserita. 56
L'assegnazione del completamento amo dale alla categoria dei fenomeni percettivi dovrebbe risultare più convincente se si riesce a dimostrare che esistono effetti funzionali che accompagnano regolarmente il completamento amodale, e che sono invece assenti quando il completamento è soltanto mentale. Esponiamo qui di seguito un certo numero di situazioni nelle quali la presenza di notevoli effetti funzionali del completamento amo dale ci sembra innegabile. a) Formazione anomala di superfici e contorni I
Le superfici anomale hanno suscitato negli ultimi anni un certo interesse teorico e sperimentale. Sono state proposte varie spiegazioni - da quelle basate su meccanismi fisiologici (inibizione laterale, canali per l'analisi selettiva delle frequenze spaziali, feature detectors) a quelle di tipo più cognitivo (inferenze basate sulle ipotesi di oggetto). Senza escludere che meccanismi di questo genere possano avere una qualche influenza, riteniamo che il fattore causale principale nella formazione di superfici anomale sia la tendenza al completamento amodale di linee o superfici percettivamente incomplete. Che la comparsa nel campo visivo di una superficie con carattere di presenza modale sia un effetto funzionale del completamento amodale è stato mostrato più volte [Kanizsa 1955; 1974; 1976]; ci limitiamo pertanto all'esempio della figura 2.6. Nella figura 2.6a, la tendenza verso il completamento degli archi aperti dà luogo ad una sup('rficie opaca, nettamente distinta per chiarezza dallo sfondo, da cui è separata da un contorno al quale non corrisponde una discontinuità nella stimolazione. In b gli archi sono chiusi e non tendono a completarsi. Il completamento può essere pensato anche in questo caso, ma nessuno sforzo riesce a creare una superficie che abbia, come avviene per quella che si forma spontaneamente in a, il carattere della presenza «esterna», indipendente dall'osservatore. Il confronto tra le due situazioni permette di constatare (verrebbe da dire di 57
a FIG.
b
2.6. Il tentativo di completare, mediante il pensiero, gli archi in b non produce alcun effetto funzionale: non è sufficiente a far vedere la superficie coprente che in a è quasi impossibile non vedere. (/
toccare con mano) la differenza tra dati «incontrati» e dati pensati, dimostrando la assoluta inefficacia dell'attività di pensiero a modificare anche di poco l'aspetto percettivo di una situazione a cui esso sia applicato, la sua incapacità di produrre effetti funzionali.
FIG.
b
2.7. Soltanto in b le parti nere tendono a completarsi sotto i dischi grigi, dando l'impressione che ci sia più nero in b che in a, dove invece da un punto di vista della stimolazione le aree nere sono più estese.
b) Il completamento amodale aumenta la «quantità di colore»
Se si confrontano a e b di figura 2.7 si ha l'impressione che nella seconda ci sia «più nero» che nella prima. Questo può essere sorprendente se si tien conto che in b le aree nere direttamente visibili sono meno estese che in a. La differenza strutturale tra le due situazioni consiste nel fatto che in a i quadrati neri sono giustapposti a quelli grigi, con scarsa tendenza a passar dietro degli uni rispetto agli altri. In b, la tendenza al completamento delle aree nere dietro a quelle grigie è molto forte, con il risultato che, nonostante la diminuzione delle relative aree di stimolazione, la quantità fenomenica di nero aumenta. Altri esempi, forse ancora più convincenti, si possono vedere nelle figure 2.8 e 2.9. L'aumento fenomenico della quantità di colore è, in questi casi, chiaramente una conseguenza del completamento amodale. Del resto questo particolare effetto funzionale non è separabile dagli altri effetti che vedremo più avanti . . ed è pertanto osservabile anche nelle figure 2.11 e 2.12. 58
a FIG.
2.8. C'è più nero in a o in b?
b
a
FIG. 2.10. Quattro coppie di settori neri. I vari completamenti mentalmente possibili non incidono sulla loro identità.
b fIG. 2.9. Anche in questo caso, in b, per effetto della unificazione amodale, abbiamo un aumento della quantità fenomenica di nero, benché l'estensione delle parti nere direttamente visibili sia identica a quella dei triangoli di a.
fIG. 2.11. Un quadrato con quattro appendici, come in figura 2.13.
FIG. 2.12. Quattro dischi come in figura 2.14.
fIG. 2.13. Così si completa la figura 2.11.
FIG. 2.14. Così si completa la figura 2.12.
c) Il completamento amodale crea oggetti visivi differenti La direzione verso la quale si attua il completamento ha per conseguenza il formarsi fenomenico, «incontrato», di oggetti visivi di forma diversa, come è esemplificato dalle figure dalla 2.10 alla 2.14. I quattro elementi neri di figura 2.10 sono a prima vista irriconoscibili nelle figure 2.11 e 2.12, perché in queste situazioni sono obbligati a completarsi in direzioni diverse (si vedano le figure 2.13 e 2.14). Ciò ha per risultato l'emergere fenomenico di oggetti di forma completamente diversa.
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Questo effetto è così forte che un osservatore non prevenuto non si rende conto (o fa fatica a rendersi conto) che le parti modalmente visibili, che danno luogo a due o più configurazioni diverse, sono identiche per grandezza e per fbrma. Tanto è vero che un nostro amico (che è probabilmente rappresentativo di molti lettori), di fronte a queste situazioni, ha dichiarato. «Non vedo dove sta il problema. Se mi fate vedere due cose diverse le vedo per forza diverse». Una dichiarazione che dimostra quale evidenza percettiva riesca ad avere un completamento amodale. Una risposta del genere non si otriene certamente se si invita qualcuno a completare con l'immaginazione gli elementi della figura 2.10, prima in un quadrato e poi in quattro dischi. In questo caso, tali elementi continuano a rimanere quattro coppie di settori che si .toccano con le punte, mentre nelle figure 2.11 e 2.12 essi perdono la loro identità entrando in configurazioni completamente nuove. d) Effetti dimensionali e distorsioni dovuti alla continuazione amodale
Un'altra influenza del completamento amodale, direttamente e regolarmente riscontrabile nel campo visivo, riguarda le dimensioni delle superfici che si completano. I due semicerchi della figura 2.15 sono di grandezza uguale, anche se quello adiacente al rettangolo appare più grande e come rigonfio. Altrettanto vale per i due triangoli 2.16 e per i trapezi di figura 2.17. In una verifica sperimentale di Kanizsa e Luccio [1978], in cui, per evitare l'eventuale azione di altri fattori illusivi, vennero usati dei rettangoli come figure test e figure di confronto, fu trovato un effetto di espansione di circa 1'8%. Tale risultato è stato confermato da un altro esperimento, condotto con diverso metodo psicofisico da Gerbino [1979], che ha trovato un'espansione di circa il 9%. Si tenga presente che l'allargamento apparente riguarda la parte modalmente visibile di una superficie che si completa amodalmente, e che quindi l'effetto è, ancora una volta, di natura chiaramente percettiva. Un effetto opposto, di restringimento, 62
FIG. 2.15. Il completamento amodale ingrandisce il semicerchio adiacente al rettangolo.
FIG.
2.16. Un effetto analogo a quello di figura 2.15.
63
D FIG. FIG.
2.17. Il trapezio di sinistra appare maggiore di quello di destra.
D
D
fIG. 2.18. Il quadrato coperto sembra essere più piccolo dei quadrati laterali.
si ha per le dimensioni della parte coperta di una superficie di cui sono visibili soltanto due parti (si veda la figura 2.18). Da una ricerca di Kanizsa [1975b], con figure simili a quelle della figura 2.19, e da una analoga ricerca di Tampieri [1979], la entità di tale restringimento risulterebbe es64
2.19. L'entità della contrazione fenomenica è I proporzionale all'ampiezza della regione coperta.
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b
a
FIG.
2.20.
sere proporzionale all'ampiezza dell'area coperta, e corrisponderebbe al 5% dell'area totale della figura completata. Al completamento amodale sono dovute anche altre distorsioni fenomeniche, ad esempio la cosiddetta illusione di Poggendorf che consiste nella sfasatura spaziale di due segmenti obiettivamente collineari [Zanuttini 1976], o l'effetto illustrato nella figura 2.20 in cui il cerchio coperto parzialmente dal rettangolo sembra chiudersi senza toccare la linea orizzontale che in realtà è una sua tangente.
Cl)
e) L'immagine consecutiva di una figura amodalmente completata
tango lini di colore complementare (verdastri se nella presentazione erano rossi) stabili e ben separati. Nella parte sinistra invece è spesso visibile un rettangolo verde tutto intero che ogni tanto sparisce e viene sostituito dall'immagine consecutiva delle due barre verticali, che a loro volta svaniscono dopo un po' per lasciare nuovamente posto al rettangolo completo.
Un rilevante effetto funzionale del completamento amodale è stato segnalato da Bozzi [1980; 1989]. Se lo stimolo fissato è simile a quello di figura 2.21, la parte destra dell'immagine consecutiva (figura 2.22) è costituita da tre ret-
4.. Uno strumento di analisi
+
FIG.
2.21. Nella configurazione sperimentale le regioni grigie erano rosse. Il soggetto fissava monocularmente o binocularmente la croce centrale.
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FIG.
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2.22. L'immagine consecutiva appare come tre piccoli rettangoli verdastri alla destra, ed un unico rettangolo continuo alla sinistra, che si vede alternarsi all'immagine consecutiva negativa verde delle barre verticali.
Accenniamo ora rapidamente ad al~une osservazioni che ci sembrano indicare possibilità metodo logiche che il completamento amodale può consentire, una volta che ad esso si sia riconosciuta la natura di meccanismo appartenente alla sfera percettiva, in gtado di produrre effetti funzionali che lo distinguono dalle integrazioni meramente mentali, prive del carattere dell'«incontrato». Sono indicazioni che riguardano l'impiego del completamento amo dale quale strumento per osservare l'azione dei principi di organizzazione nel campo visivo, in situazioni libere dai vincoli imposti dalla stimolazione. Il completamento amodale, infatti, ha luogo in zone del campo la cui stimolazione serve esclusivamente a formare la superficie coprente. La formazione della parte coperta, quindi, non è dovuta alla stimolazione di quella zona; essa può essere condizionata soltanto dalla stimolazione relativa alle zone adiacenti. Poiché la forma che tale parte coperta assume non è arbitraria, come potrebbe essere se fosse prodotta soltanto da una attività interpretativa, ciò deve dipendere in qualche modo dalle caratteristiche delle parti direttamente visibili. In altre parole, la parte visibile deve avere in sé la tendenza a continuare, a completarsi in un determinato modo, e non in uno qualsiasi degli altri modi teoricamente possibili. Il completamento amodale può diventare così un «rivelatore» di tali tendenze, poiché osservare come concretamente si attua il completamento, o come la sua forma varia al variare della forma o di altri attributi della parte o delle
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parti visibili, può aiutarci a individuare qua1cuna delle regole secondo le quali il sistema lavora. Come cercheremo di mostrare nei paragrafi che seguono, esso può, per esempio, essere impiegato allo scopo di mettere in conflitto i vari principi di organizzazione, in modo da permettere di stabilire la loro forza relativa. a) Semplicità
Parecchi sforzi sono stati compiuti per tentare di precisare il principio che, da molti, viene considerato come fondamentale a tutta l'organizzazione percettiva: la semplicità. Quando si tenta di definire meglio e con più esattezza questo concetto, si è portati naturalmente a vederlo come equivalente a semplicità matematica. La più semplice tra due soluzioni sarebbe quella che può essere espressa con la formula più economica o più elegante. E poiché, tra le forme geometriche, quelle regolari sono quelle cui corrisponde la formulazione più semplice, si può essere tentati di identificare semplicità con regolarità geometrica. Kanizsa [1975a] ha sostenuto che una tale identificazione può essere fuorviante e che, probabilmente, essa è dovuta ancora una volta alla tendenza a considerare percezione e pensiero come regolati dalla stessa «logica». Il pensiero è in effetti dominato dalla ricerca della regolarità e della simmetria ma questo non vuoI dire automaticamente che il sistema percettivo sia dominato dalla stessa tendenza. Tra gli altri argomenti, Kanizsa aveva presentato anche i seguenti, che utilizzano risultati ottenuti con il completamento amodale. Nelle configurazioni di figura 2.23, sebbene siano possibili completamenti che danno luogo a figure simmetriche, il completamento «incontrato» avviene, prevalentemente, secondo il principio della continuità di direzione, che dimostra così di avere una notevole forza di strutturazione. Ciò risulta in modo estremamente evidente nella figura 2.24. Almeno in queste condizioni, il «destino» delle parti non sembra determinato dalle «esigenze» della struttura globale.
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FIG. 2.23. In queste situazioni, il completamento amodale più frequente non è conforme alle aspettative secondo le quali il sistema percettivo tenderebbe a produrre la massima simmetria in una configurazione.
FIG.
2.24. Il completamento amodale è cosÌ efficace che il risultato percettivo è lo stesso della figura 2.23 anche se la figura massimamente simmetrica è presente nella stimolazione. senza occlusione.
Alla stessa conclusione porta l'esempio della figura 2.25, dove pure si assiste al prevalere di fattori agenti a livello locale, contro le aspettative generate dalla struttura globale. Un altro esempio di come il completamento amodale possa essere uno strumento «rivelatore» delle effettive preferenze del sistema percettivo è fornito da Gerbino [1978]. Una del-
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b) Vicinanza
Secondo la prima «legge» di Wertheimer, i raggruppa- ' menti nel campo fenomenico si attuano, a parità delle altre condizioni, in modo che vengano vissuti come appartenenti allo stesso gruppo elementi vicini, piuttosto che elementi lontani. Nella figura 2.26 la formazione di coppie, secondo questo principio, è abbastanza coercitiva. La prossimità non . è però un fattore ,di unificazione molto forte. Infatti la sua a:z;ione viene agevolmente sopraffatta da altri fattori più potenti come la continuità o la chiusura. Interessante è che, come è dimostrato dalla figura 2.27, mediante il completamento amodale si ottiene il medesimo risultato che si ottiene facendo agire direttamente questi altri fattori, congiungendo, come nella figura 2.28, gli elementi lontani mediante interpolazioni modali, che rendono irresistibile l'azione della continuità e della chiusura. Ma questo vuoI dire che le strutture che si realizzano nel completamento amodale sono proprio equivalenti a quelle modali. Dietro alla figura coprente si produce una vera unificazione provocata da reali «forze», che danno luogo ad effetti percettivi. Infatti i collegamenti di figura 2.28 possono anche essere fatti nel pensiero: possiamo ad esempio, nella figura 2.26, pensare alle coppie costituite dagli elementi lontani. Ma queste unificazioni sono difficoltose ed estremamente instabili, sono «con-
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2.25. Il completamento amodale è determinato dalle condizioni <
'I le sue illustrazioni è riportata nella figura 1.12. I poligoni regolari, nel caso in cui ciascun loro angolo venga coperto da una figura avente un lato passante per il vertice di tale angolo, subiscono una evidente distorsione fenomenica. Gerbino interpreta questo effetto come dovuto alla tenden". za del contorno del poligono a prolungarsi sotto la figura coprente, e quindi a spostare la localizzazione apparente del vertice. L'impressione di distorsione sarebbe dovuta al fatto che il completamento amodale si attua, in questo caso, in forza di un meccanismo percettivo indifferente ai criteri di regolarità del pensiero. Quando le aspettative «razionali», che sembrano privilegiare la massima regolarità, si trovano in conflitto con il prodotto dei meccanismi percettivi, si produce un'impressione di irregolarità, di deviazione da una norma, che è però una norma valida per le istanze razionali e non necessariamente anche per quelle percettive.
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2.27.
tro natura». Con il completamento amodale non c'è bisogno di alcuno sforzo: le unificazioni diventano «naturali», sono date, non semplicemente rappresentate.
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c) Il ruolo della familiarità La tendenza a spiegare tutti i fenomeni percettivi mediante l'intervento del sapere, dell'apprendimento, dell'esperienza passata è una conseguenza della concezione dei processi cognitivi come dominati tutti dalla stessa logica. L'esperienza passata gioca un ruolo enorme, per non dire preponderante, nell'integrazione mentale dei dati percettivi prodotti dall'elaborazione primaria. Questi dati percettivi vengono interpretati, dotati di significato, attraverso processi inferenziali, in massima parte fondati su quanto noi conosciamo degli oggetti del nostro mondd e del loro comportamento. Non ci sembra che la grande importanza dell'esperienza passata nell'interpretazione dei dati percettivi renda legittimo applicare il medesimo modello di spiegazione al processo di formazione .dei dati stessi. È un passaggio non obbligato, e probabilmente gravido di conseguenze negative, la più evidente delle quali è che il ricorso all'esperienza passata costituisce spesso un vero «spiegar via», cioè un ignorare fenomeni interessanti che in-ial- modo rimangono in realtà inesplicati. Kanizsa [1969] ha dato numerosi esempi di quanto poco effiGienti siano il sapere e le aspettative basate su esso, quando entrano in conflitto con i fattori che agiscono realmente nella formazione dei dati percettivi. Mediante l'osservazione di come le parti di oggetti ben noti si completano dietro ad uno schermo, possiamo valutare i limiti che l'elaborazione primaria pone all'influenza della familiarità. Nella figura 2.29 il completamento amodale porta alla deformazione di uno scooter che ha una grandezza e proporzioni ben note. Nella figura 2.30, contro la familiarità e nonostante il contesto, appare un «mostro», come risultato del completamento delle parti di due silhouettes familiari di animali differenti.
2.28.
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FIG.
2.29. Lo scooter «allungato».
FIG. 2.30. Un ibrido creato dal completamento amodale.
5. Osservazioni conclusive
Quando un oggetto viene parzialmente nascosto da un secondo oggetto, la parte non direttamente visibile del primo possiede il carattere della presenza pensata, o inferita cioè della rappresentazione. La parte direttamente visibile è un indizio per un completamento cognitivo, che si attua in 74
base alla conoscenza, più o meno specifica, della forma dell'oggetto, del suo colore e così via. Comunque, accanto a questi completamenti puramente mentali, esistono dei completamenti che possiedono il carattere della presenza percettiva «incontrata». Anche se è spesso difficile distinguere tra questi due tipi di completamento, noi abbiamo voluto enfatizzare la necessità e l'utilità di tale distinzione. Entrambi i tipi di completamento hanno in effetti una rilevanza generale, poiché, in condizioni ordinarie, non si ha un mondo fenomenico senza di essi; inoltre i completamenti rappresentati sembrano essere sempre accompagnati, suggeriti, facilitati, dai completamenti percettivi in senso stretto, che abbiamo chiamati «amodali». In primo luogo, tale distinzione è basata sull'evidenza fenomenologica: la presenza amo dale «incontrata» e la presenza puramente mentale sono realtà psicologiche differenti. Ma la distinzione tra i due tipi di presenza è richiesta anche dal fatto che soltanto il completamento amodale «incontrato» produce effetti funzionali di natura percettiva. Se si tiene conto di tali effetti, diventa evidente che un oggetto visivo completato_ amodalmente si comporta, in un certo modo, «come se» esso fosse un oggetto modalmente presente nel campo visivo. Di conseguenza, se consideriamo la percezione come un processo composito, possiamo distinguere, da una parte, un processo primario che organizza l'input sensoriale e, dall'altra, le attività cognitive che categorizzano, riconoscono, interpretano, attribuiscono significati: da un punto di vista logico le seconde presuppongono l'esistenza del primo. Il verificarsi degli effetti funzionali ci porta a ipotizzare che i completamenti amodali sono un prodotto del processo primario. Il processo primario corrisponde a quanto è stato chiamato «processo preattentivo» da Neisser [1967] e da Broadbent [1977], lo stadio «prericonosçitivo» da Prinzmetal e Banks [1977], «di formazione delle unità» da Kahneman [1973], «di codificazione elementare» da Kinchla [1974]. 75
Le caratteristiche degli effetti funzionali ci permettono inoltre di sottoporre a verifica ipotesi riguardanti l'insieme di regole che governano l'elaborazione primaria. Più in particolare, l'espansione della parte modale di un oggetto completato ci sembra una prova che, nella spiegazione del completamento amodale, è perlomeno insufficiente il ricorso a procedure interpretative. Non vediamo alcuna ragione per la quale la semplice interpretazione di una data distribuzione di regioni come di un oggetto parzialmente nascosto da un altro piuttosto che come un mosaico, debba comportare modificazioni degli attributi metrici delle parti direttamente visibili. D'altra parte, l'esistenza di tale effetto indica che i processi di organizzazione che conducono al completamento amodale possono venir rappresentati più adeguatamente da eventi fisici, nei quali la distribuzione globale sembra influenzare le proprietà locali. Pensiamo che, allo stesso modo in cui i completamenti mentali possono essere utilizzati per studiare le attività cognitive dello stadio secondario, il completamento amodale può essere un utile strumento per l'analisi del processo primario. Può essere che le dimostrazioni offerte in questo articolo abbiano un valore limitato, e non coprano l'intera gamma di problemi sollevati dai fenomeni di completamento, ma ci auguriamo che valgano a contribuire allo sviluppo della ricerca in questa direzione.
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CAPITOLO TERZO
COMUNICARE PER IMMAGINI
1. Percezione naturale e percezione pittorica a) Processo primario e processo secondario La percezione visiva è una attività cognitiva complessa, nella quale è possibile distinguere almeno due livelli o momenti: il momento della 'formazione dell'oggetto visivo, cioè il processo primario attraverso il quale l'input sensoriale viene organizzato e segmentato (il «vedere» in senso stretto) ed un processo secondario che comprende le varie operazioni più propriamente intellettive di categorizzazione, significazione, interpretazione che la mente compie sui risultati della segmentazione primaria (attività che comunemente sono considerate caratteristiche del «pensare»). Benché in un concreto atto di percezione visiva i due momenti del vedere e del pensare siano compresenti e praticamente non separabili, non è tuttavia possibile ai fini di un loro studio scientifico sfuggire alla necessità logica di tenerli concettualmente distinti. Sul tipo di rapporto intercorrente tra questi due momenti c'è spazio per le più diverse opinioni - e in effetti tra epistemologi, neurofisiologi, psicologi, uomini della strada regna il più ampio disaccordo. E si tratta di opinioni in genere ben argomentate e sostenute con convinzione, anche se non sempre sono proprio convincenti. Questa pluralità e disparità di teorie e di ipotesi è un dato di fatto che ci costringe a concludere che nessuno di noi può o dovrebbe essere convinto di avere la- teoria giusta. La percezione, nonostante secoli di speculazioni, nonostante i grandi progressi 77
compiuti dalla fisiologia sensoriale e dalla neuropsicologia, nonostante i tentativi di simulazione della cosiddetta visione artificiale, rimane a tutt'oggi un processo in gran parte misterioso. La situazione diventa, se possibile, ancor più complicata quando si passa a quella particolare categoria di oggetti visivi che sono le immagini pittoriche (disegni, dipinti, graffiti, fotografie), cioè le superfici trattate dall'uomo con lo scopo e il risultato di rappresentare altro da sé. La peculiarità delle rappresentazioni pittoriche consiste nella loro doppia natura percettiva: guardando una immagine vediamo la raffigurazione di qualcosa che non è effettivamente presente, ma nello stesso tempo vediamo anche che la raffigurazione è solo un surrogato, perché ci rendiamo benissimo conto che si tratta di segni tracciati su un superficie bidimensionale. Anche su questo problema della <~pe[cezionepittorica» e sul rapporto tra rappresentazione e realtà rappresentata abbiamo una quantità di teorie proposte da filosofi, psicologi, artisti, estetologi. Anche in questo caso dunque, come per la normale percezione di scene naturali, dobbiamo giungere alla medesima conclusione: le teorie sono tante ma non è facile decidere quale sia quella giusta. Su una cosa tuttavia penso che possiamo essere tutti d'accordo: una immagine pittorica è un oggetto visivo, è qualcosa che, per poter essere compresa come rappresentazione, per essere veicolo di comunicazione, deve essere vista. Il problema della rappresentazione pittorica può quindi essere affrontato a due livelli: quello della informazione comunicata e quello del mezzo con il quale l'informazione viene trasmessa. Non si comunicano immagini, si comunicano ~ignificati, contenuti, informazioni per mezzo di immagini. E solo a questo livello di analisi, al livello del «v6dere» non a quello del «comunicare», che come percettologo voglio soffermarmi per fare alcune considerazioni. Ma che cosa si può dire di utile su questo piano, se è vera l'affermazione che non sappiamo bene cosa sia la percezione, che non è ancora chiaro come si svolgano i processi che portano al vedere? Ebbene, c'è un modo di porsi di 78
fronte al «vedere» che, prima di preoccuparsi di spiegare il processo percettivo, vuole anzitutto conoscerlo, un atteggiamento che, senza rifiutare le teorie, privilegia l'accertamento dei fatti che quelle teorie si propongono di spiegare. Questo tipo di approccio allo studio dei fatti percettivi è la fenomenologia sperimentale. b) La fenomenologia sperimentale
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,L'obiettivo preliminare del metodo fenomenologico è dunque una descrizione accurata delle cose e degli eventi visivi cosÌ come ci appaiono, cioè di cbme essi visivamente sono. Un compito che può sembrare semplice se non addirittura banale, ma che in realtà proprio da tale apparente semplicità è reso estremamente difficile. Tutto infatti sembra ovvio e naturale nell?ambito della percezione. Ma l'ovvietà e la naturalezza spesso non sono che il frutto di tenaci pregiudizi teorici e del buonsenso dietro cui si nascondono i veri problemi percettivi, i quali richiedono quindi una buona dose di «innocenza fenomenologica» per essere portati allo scoperto. CosÌ ci sembra ovvio che se un oggetto si sposta dalla posizione A ad una posizione B noi si veda l'oggetto muoversi lungo il percorso AB. Il fatto cessa di essere altrettanto ovvio quando vediamo quell'oggetto compiere lo stesso movimento senza che nella realtà fisica si verifichi il minimo spostamento. È il caso del movimento stroboscopico: se in un ambiente buio si illumina un oggetto immobile nella posizione A e, dopo un breve intervallo di tempo, si illumina un altro oggetto immobile, simile al primo, nella posizione B, non è possibile non vedere un unico oggetto spostarsi con un balzo da A a B. E non si tratta, come verrebbe da pensare, di una interpretazione o di un giudizio, ma di un fenomeno rigorosamente legato alle condizioni di stimolazione. Infatti una lunga serie di esperimenti ha dimostrato che, variando opportunamente le condizioni spazio-temporali (cioè il tempo di esposizione dei due oggetti, la loro distanza, la durata dell'intervallo buio ecc.), si passa da casi in cui è chiaramente percepito il mo~ 79
vimento di un unico oggetto dalla posizione A alla posizione B, a casi di apparizione successiva di due oggetti immobili. E questo avviene anche se le variazioni introdotte sono subliminari, non sono cioè avvertite come tali, e non possono quindi influire su un eventuale giudizio. Ma una descrizione,. per quanto fedele ed esauriente, non è ancora una spiegazione. Questa critica viene spesso mossa al metodo fenomenologico, considerato solo un punto di partenza per la vera e propria indagine scientifica, un punto di partenza necessario fin che si vuole ma privo di reale valore esplicativo. È un' obiezione che sarebbe giusta se la fenomenologia si limitasse davvero ad una pura e semplice descrizione del mondo visivo. Ma, come abbiamo visto dall'esempio del movimento stroboscopico, la fenomenologia sperimentale tende, come ogni scienza empirica, a scoprire e analizzare connessioni funzionali tra fenomeni visivi e ad individuare le condizioni che favoriscono o che ostacolano la loro comparsa. In altre parole, essa tende, iIi quanto scienza del vedere, a stabilire un sistema di principi e di leggi da cuÌ quel campo di eventi è governato, e a tale scopo oltre all'osservazione fa ricorso dove è possibile all'esperimento. Insomma un programma che non differisce sostanzialmente da quello degli altri settori della psicologia scientifica. In questo modo la fenomenologia sperimentale, che ha una lunga tradizione soprattutto nella psicologia della percezione europea, è riuscita a stabilire un certo numero di leggi che governano i fenomeni della visione. Ricordiamo l'enunciazione da parte di Wertheimer dei principi secondo i quali si attua la segmentazione ed organizzazione dell'input sensoriale, la individuazione da parte di D. Katz [1935], dei fattori responsabili dei «modi di apparenza» dei colori, la precisazione da parte di numerosi altri ricercatori delle condizioni che determinano la percezione della trasparenza, della tridimensionalità, del movimento, della causaiità, dell'espressività. A prescindere dai modelli interpretativi spesso molto diversi proposti dagli scienziati che ha,nno compiuto tali scoperte, queste regolarità empiricamente accertate
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TAV. L Mantegna, Giuditta e Olofeme. Il piede nudo che sporge dall'apertura è un indizio sufficiente a farci immaginare il corpo che giace nella tenda. Le condizioni strutturali (giunzioni a T) provocano la continuazione amodale, per cui non siamo in presenza di un frammento di gamba come nel quadro di P. Tonzar (fig. 3.8). Anche qui dunque l'integrazione mentale è favorita dal completamento amodale.
TAV.
II. Icona di Novgorod. I contorni degli elmi si incontrano in modo da dar luogo a giunzioni che favoriscono la giustapposizione. Risultato: lo squadrone di cavalieri appare curiosamente appiattito in una superficie increspata da borchie.
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TAV.
III. Codice medievale. Cinque guerrieri (5 lance, 5 teste, 5 scudi) ma solo sei gambe!
non sono delle ipotesi, sono dei fatti e come tali vanno accettati. Possono essere discusse ma non negate o ignorate. c) Fenomenologia sperimentale e rappresentazione pittorica
TAV.
IV. Giotto, La discesa dello Spirito Santo, Padova, Cappella degli Scrovegni. L'aureola copre la visuale degli apostoli in primo piano (Osservazione di M. Kubovy).
Ho sottolineato questo aspetto non ipotetico ma fattuale delle scoperte della fenomenologia sperimentale perché tutte queste regolarità devono valere anche per la lettura di un.a immagine in quanto oggetto visibile. È infatti difficile ammettere che il sistema visivo abbia un modo di funzionare di fronte alle scene naturali ed un altro modo di fronte alle superfici trattate dall'uomo con intenti di raffigurazione. L'informazione che l'occhio riceve dal mondo esterno è contenuta nella luce che viene modulata dalle superfici dell'ambiente in funzione del coefficiente di riflessione dei materiali da cui le superfici sono costituite e dei gradienti microstrutturali che nella proiezione ottica specificano le varie inclinazioni di ciascuna superficie. Allo stesso modo, le regioni che formano la superficie di una immagine pittorica strutturano la luce proprio come fanno le superfici naturali non trattate. Con la differenza (ed è una differenza di non poco conto) che, quando l'intervento dell'uomo non si limita ad un effetto puramente decorativo, la struttura della luce riflessa dal dipinto ha, o può avere, per effetto la raffigurazione di un altro oggetto o evento. Ma per quanto riguarda il «vedere», una superficie disegnata non pone problemi sostanzialmente diversi da quelli posti da una superficie naturale che non rappresenta e non comunica nulla. Sul piano strettamente visivo, l'unica differenza di rilievo tra la percezione di una rappresentazione pittorica e la percezione diretta della scena rappresentata sembra stare nella diversa possibilità che abbiamo a disposizione nelle due situazioni per risolvere eventuali ambiguità relative alla forma o alla localizzazione spaziale degli oggetti. Nella visione normale il mezzo principale di disambiguazione è il movimento. Mediante spostamenti della testa o mediante la locomozione possiamo verificare la tridimensio~I
nalità e la!~~IJ:l(l degli oggetti presenti in una scena e stabilire-là-distanza alla quale si trovano rispetto a noi. Dfiionte ad un dipinto questa procedura non funziona più. Perciò, se la possibilità di disambiguazione può spiegare il fatto che il mondo fenomenico nel quale viviamo non ci appare quasi mai ambiguo, tanto è vero che non abbiamo alcun dubbio che le cose che vediamo non siano realmente le cose che esistono fuori di noi, ci potremmo attendere di trovare una grande plurivocità e instabilità fenomenica nelle immagini dipinte per le quali manca quella possibilità. È invece sorprendente quanto di rado esse siano effettivamente ambigue. Anche nella rappresentazione pittorica l'ambiguità appare come tale, è cioè fenomenica, solo in rari casi - in laboratorio o nei manuali di psicologia della percezione, nei disegni degli inesperti o nelle fotografie mal riuscite, nei quadri dei pittori che ricercano di proposito questi effetti visivi. La ragione sta nel fatto che chi disegna possiede, oltre alla padronanza delle tecniche, una conoscenza più o meno chiara delle regole secondo le quali il sistema visivo elabora !'informazione contenuta nella luce. Tanto è vero che, mentre leggere immagini è una capacità naturale che non deve essere appresa, non è altrettanto naturale la capacità di produrle, come è dimostrato dalle difficoltà incontrate dai bambini e dai primitivi. Per ottenere un certo risultato mediante un disegno devo sapere che se voglio che, dei quattro segmenti di a della figura 3.1, i primi due siano visti come un gruppo, come una coppia di elementi con un rapporto di reciproca appartenenza, devo avvicinarli come in b. Oppure posso raggiungere questo risultato introducendo una differenziazione cromatica come in c, o aggiungendo opportunamente altri elementi come in d, o infine disponendoli come in e in modo da favorire l'unificazione dei segmenti che hanno la stessa direzione. Chiunque si dedichi con un minimo di successo ad una produzione grafica sa far questo, dimostrando così una conoscenza implicita delle regole della visione. E questo senza aspettare che Wertheimer enunciasse i principi
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3.1. Vicinanza. somiglianza, chiusura. continuità di direzione come fattori di segmentazione percettiva.
della unificazione fenomenica. E così devo sapere che per rappresentare corpi tridimensionali devo utilizzare determinati accorgimenti (prospettiva, grandezza relativa, interposizione, prospettiva aerea, chiaroscuro, ombre, ecc.), affinché la superficie da me trattata strutturi la luce in modo da produrre proprio gli effetti voluti. Sono conoscenze che fanno parte del mestiere di un operatore visuale, tecniche che si devono scoprire o che si imparano a scuola. Come si imparano le tecniche per suscitare in chi guarda l'impressione della illuminazione e quella delle caratteristiche dei vari materiali. I pittori hanno fatto queste scoperte e le hanno utilizzate senza attendere o senza conoscere le analisi di Gibson [1950] sui gradienti tissurali, quelle di Katz [1935] sulle Erscheinungsweisen dei colori, gli studi di Hering [1926] e di Musatti [1953] sul contrasto e sull'eguagliamento cromatico, le teorie di Fuchs [1923], Heider [1933], Metelli [1974] sulla trasparenza fenomenica. Le ricerche di questi scienziati non riguardavano la «percezione pittorica» ma la percezione visiva in generale, di cui volevano scoprire le leggi. Le ricerche dei pittori erano dirette in primo luogo a trovare i mezzi per rappresentare la realtà visiva, ma con ciò stesso erano anche ricerche sulla visione ed ogni scoperta tecnica era anche un contributo alla conoscenza del modo di funzionare del sistema visivo. Fenomenologia sperimentale e pittura si integrano a vicenda e, in quanto i risultati nei due ambiti non possono essere in contraddizione, sono l'una il banco di prova dell'altra.
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2. Doppia natura dei completamenti da sovrapposizione a) La stratificazione fenomenica Ho detto che una immagine pittorica è, in quanto oggetto visivo, una superficie composta da un certo numero di regioni con diverso indice di assorbimento e di riflessione delle radiazioni incidenti. Ciò dà luogo ad una modulazione della luce, la quale arriva all'occhio con una specifica distribuzione spaziale delle varie radiazioni. Questa distribuzione costituisce l'informazione per la struttura cromatica e. spaziale di quella superficie. Ne risulta, sul piano fenomenico, un insieme di regioni visive diverse per chiarezza e colore, separate da margini che sono la contropartita fenomenica della transizione tra due tipi di stimolazione fisica. Si potrebbe pensare di descrivere in modo esauriente la superficie elencando il numero delle regioni da cui è composta e indicando l'andamento dei margini dai quali ciascuna regione è delimitata. In realtà il nostro occhio non si limita a compiere questo tipo di analisi o di lettura. Ben raramente vediamo una superficie come un mosaico di regioni giustapposte nello stesso piano. Una descrizione in questi termini del quadro di figura 3.2 sarebbe bensì corretta da un punto di vista geometrico, ma tralascerebbe di menzionare un rilevante aspetto fenomenico, che nessuno manca di notare e che l'artista era ben consapevole di ottenere. Se si intende riferire in modo preciso tutto ciò che si vede, si deve aggiungere che alcune di queste zone coprono altre zone, le quali a loro volta sono sovrapposte ad altre. Una descrizione fenomenologica che voglia essere fedele e completa non può cioè omettere di parlare della stratificazione delle regioni, che è un aspetto non meno evidente di quanto non lo siano il loro colore e la loro forma. Ma la situazione che abbiamo scelto per fare queste considerazioni non è affatto una situazione particolare. Il fenomeno della stratificazione si verifica in ogni superficie disegnata o dipinta: è un rendimento del tutto normale. Ciò che invece è eccezionale è proprio il caso della giustapposizione R4
FIG. 3.2. Franco Grignani, Periodica a rilievo, 1967.
fenomenica di due o più regioni nello stesso piano. Perché questa si realizzi, cosicché la resa fenomenica corrisponda alla descrizione geometrica, è necessario che si verifichino speciali condizioni. Ciò avviene ad esempio in configurazioni a scacchiera, a nido d'ape o a palladiana come quelle di figura 3.3. Che siano richieste per questo rendimento per-
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FIG. 3.3. Esempi di giustapposizione fenomenica.
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3.4. In questo caso prevale l'impressione della stratificazione.
cettivo condizioni ben precise è dimostrato dal fatto che è sufficiente una minima modificazione perché alla impressione di due superfici accostate si sostituisca quella della stratificazione (figura 3.4). Questo fatto è ben noto ai pittori che lo hanno sempre utilizzato per rendere chiari i rapporti di reciproca localizzazione spaziale degli oggetti raffigurati e per conferire profondità alle scene dei loro quadri. Tanto è vero che la sovrapposizione o copertura, insieme allo scorcio ed al chiaroscuro, è considerata uno degli indici appunto pittorici della tridimensionalità fenomenica. Mentre il rapporto tra la percezione pittorica ed altri meccanismi percettivi è stato ampiamente trattato ed approfondito, non altrettanto si può dire della stratificazione fenomenica. Esistono saggi e libri interamente dedicati ad analizzare il ruolo che nella rappresentazione pittorica svolgono la prospettiva, il chiaroscuro, le interazioni cromatiche, le illusioni ottiche ma, se si eccettuano alcune osservazioni di Arnheim [1954] e di Gombrich [1960], minore attenzione è stata presta~a alla continuazione o completamento di una superficie visiva dietro ad un'altra superficie. La ragione di questo scarso interessamento sta molto probabilmente nel fatto che si tratta di un fenomeno la cui spiegazione si dà per scontata: il completamento sarebbe il risultato di una integrazione cognitiva e perciò si ritiene che esso non abbia bisogno di essere ulteriormente analizzato. In realtà non abbiamo a che fare con un unico tipo di integrazione, bensì con un fenomeno che può verificarsi a due diversi livelli, i quali non devono necessariamente essere dello 86
stesso tipo e possono portare ad esiti diversi. Se non si riconosce questa diversità, si perde la possibilità di distinguere la funzione che ciascuna delle due forme di completamento assolve nella rappresentazione pittorica. Tenterò, se mi riesce, di chiarire in che cosa consiste la loro diversità e la loro specificità. Ho già detto che in pittura la parziale occlusione di un oggetto da parte di un altro oggetto viene normalmente impiegata come una tecnica per suggerire la profondità. Questo 'perché il pittore parte dalla constatazione che nella visione di scene naturali avvengono continuamente processi di completamento. Infatti in ciascun momento l'ambiente ed i suoi oggetti sono direttamente accessibili alla vista solo in parte. Possiamo vederli per intero solo in successione temporale, girando loro attorno o facendoli girare davanti ai nostri occhi. Ciononostante, non abbiamo normalmente l'impressione di trovarci di fronte ad una collezione di pezzi o di «frammenti» di oggetti, di persone, di paesaggio. Viviamo in un mondo di corpi tridimensionali collocati in uno scenario che essi nascondono parzialmente ma non annullano. Ma il mondo visivo non è soltanto il risultato della nostra esplorazione visiva, esso è anche il frutto di operazioni cognitive rivolte ad interpretare gli indizi costituiti dai dati incompleti della visione. La parte direttamente visibile di un oggetto è quasi sempre sufficiente per farci fare una inferenza in modo che possiamo dargli un significato in base alle nostre conoscenze e farlo rientrare in una classe di oggetti conosciuti. A me, come percettologo, interessa il fatto che non c'è un modo solo di integrazione dell'informazione direttamente data. Oltre alla interpolazione cognitiva, frutto di operazioni mentali di tipo inferenziale, esiste una interpolazione percettiva che non dipende dalle mie conoscenze o dai miei ragionamenti, in una parola, dal mio pensiero. Un caso paradigmatico di integrazione percettiva, indipendente da processi cognitivi superiori, è il movimento stroboscopico di cui abbiamo parlato in precedenza. Un tale movimento non è un dato immaginato o pensato: è un dato fenomenico al-
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trettanto reale di quello provocato da un effettivo spostamento di un oggetto nell'ambiente fisico. E così, nel completamento delle parti mancanti di un oggetto parzialmente coperto da un altro oggetto, accanto al completamento puramente immaginato gioca sempre un ruolo anche un completamento realmente percettivo. Nella normale articolazione del campo visivo in «figura» e «sfondo», quest'ultimo continua sempre dietro alla figura. La continuazione non è soltanto «immaginata», lo sfondo retrostante è vissuto come una presenza dotata di piena realtà fenomenica. Ciò equivale a dire che una zona che nella stimolazione è unica si scinde nell'esperienza visiva in due strati sovrapposti. In questo consiste la stratificazione fenomenica.
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3.5. Linee «virtuali» e linee meramente pensate.
una 'profonda differenza tra le due alternative. In a le congiunzioni indicate in c non hanno una esistenza reale, possono essere soltanto immaginate; come possono essere immaginate migliaia di altre congiunzioni teoricamente possibili. Si tratta di linee «pensate», la cui presenza è meramente mentale. Le congiunzioni ad arco sono anch'esse invisibili nel senso stretto del termine, ma tuttavia hanno una presenza reale, sono lì davanti a noi senza bisogno di essere tracciate. Sono linee «virtuali», la cui presenza pur essendo amodale, cioè priva di colore, è una genuina presenza fenomenica. Un altro esempio adatto a dimostrare la fondamentale differenza tra presenza amodale e presenza mentale è dato dalla figura 3.6, che può essere descritta come un gruppo di otto figure angolari. È improbabile che ad un osservatore non prevenuto tali figure facciano venire in mente un cubo
b) La presenza amodale La stratificazione fenomenica ci pone di fronte ad un fatto di estremo interesse per ogni teoria della percezione visiva (e non solo visiva): la presenza amodale. Che cosa vuoI dire «presenza amodale» e perché è importante? Si chiama «amodale» perché si tratta di una presenza senza il carattere specifico della modalità sensoriale visiva, cioè senza sensazioni di colore. È importante, perché dire che una regione continua dietro ad un'altra significa affermare che qualcosa può esistere nel mio mondo fenomenico in un posto da dove (nel corrispondente posto nel mondo fisico) non partono radiazioni luminose verso l'occhio, qualcosa cioè per cui non sembra esserci una contropartita nella stimolazione. In altre parole significa dire che una cosa può in qualche modo essere vista senza che esistano le normali condizioni di visibilità; una affermazione evidentemente assurda sul piano logico ma non altrettanto assurda su quello del vissuto immediato. Un esempio di presenza amodale sono le linee virtuali. I punti della figura 3.5a formano spontaneamente due archi di cerchio, sono cioè collegati da linee «virtuali» come mostrato in b, benché nulla vieti di immaginare altre linee di collegamento come ad esempio quelle mostrate in c. C'è
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FIG. 3.6. Presenza mentale: si può immaginare un cubo. ma è molto difficile veder/o.
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FIG. 3.7. Presenza amodale: il cubo si completa amodalmente dietro alle tre strisce opache e diventa percettivamente presente.
al quale sono state tolte alcune parti. Se questa possibilità viene suggerita, si può bensì «immaginare» il cubo, ma non lo si può «vedere». Eppure è semplicissimo «vederlo» se si congiungono alcuni margini delle figure angolari. Si ottiene così la figura 3.7 in cui appare chiaramente un cubo coperto da tre strisce, un risultato che è molto difficile da ottenere con la sola immaginazione. Mentre nella figura 3.6 i pezzi separati devono venir collegati nel pensiero, nella figura 3.7 gli stessi pezzi non finiscono dove incontrano le barre trasversali, ma tendono a continuare con evidenza percettiva dietro ad esse. Tale continuazione sembra dunque in questo caso essere il risultato dell' azione simultanea di due fattori di livello diverso: uno mentale ed uno più propriamente percettivo. L'azione sinergica di questi due fattori si può osservare nel quadro di P. Tonzar (figura 3.8), dove si vede, a sinistra, una gamba uscire dal quadro e, a terra, un frammento di gamba. La prima continua amodalmente, il frammento rimane tale senza la minima tendenza a completarsi. La diversità di rendimento va attribuita al fatto che per la gamba che fuoriesce dal quadro agiscono congiuntamente due processi di integrazione di natura diversa: accanto ad un completamento mentale di tipo indiziario o inferenziale, una
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FIG. 3.8. Paolo Tonzar, San Martino di Quisca, 1985. Per la gamba che fuoriesce dal quadro agiscono congiuntamente una integrazione mentale e una tendenza alla continuazione amodale. Quest'ultima non agisce per il frammento di gamba che perciò rimane vistosamente un frammento.
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tendenza alla continuazione amodale. Per il frammento di gamba sono assenti le condizioni perché possa agire questo secondo fattore di natura percettiva. Può agire soltanto l'in- . tegrazione mentale, ma questa non può da sola dar luogo ad una reale presenza fenomenica.
3. Continuazione amo dale e rappresentazione pittorica Ci si può chiedere a questo punto quale importanza possa avere il fenomeno del completamento amodale per l'analisi di un'opera pittorica. Dare una risposta a questa domanda non rientra nelle mie competenze di percettologo: mi limiterò quindi a mostrare con qualche esempio come il completamento amodale sia un ingrediente necessario ad ogni efficace realizzazione pittorica e quale sia il suo rap-· porto con il completamento meramente mentale. È evidente che nella pittura astratta e non figurativa gioca un ruolo preminente la continuazione amodale percettiva in senso stretto, mentre è inesistente e trascurabile l'azione del completamento mentale. Infatti, in questo caso, le parti visibili delle superfici che continuano dietro a quelle occludenti non possono suggerire, essendo in genere prive di significato, la forma della parte occlusa. Questa ultima viene determinata soltanto dall'azione di fattori strutturali autoctoni, il principale dei quali è la tendenza a mantenere la continuità di direzione nel punto di intersezione tra i margini (vedi a questo proposito e per quanto riguarda gli effetti funzionali del completamento amodale il secondo capitolo di questo volume). Un discorso diverso va fatto per la pittura figurativa, che si propone di rappresentare una scena reale o immaginaria. Quando si osserva una scena reale, ad ogni «punto di vista» corrisponde uno specifico assetto visibile della scena stessa, per cui ogni oggetto, oltre ad essere autoccludente, occlude alla vista diretta qualche porzione dell'ambiente e può esso stesso essere parzialmente occluso. Ad ogni mutamento del punto di vista, muta il gioco delle occlusioni e
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quindi l'assetto visibile. Al pittore che voglia rappresentare quella scena si pone perciò il problema della scelta del punto di vista più opportuno, perché da tale scelta dipende la maggiore o minore facilità di lettura della scena raffigurata. Se vuole evitare ambiguità (e non è detto che si proponga sempre un tale scopo), le parti visibili degli oggetti parziamente occlusi, che sono gli indizi da interpretare, devono essere tali da permettere un agevole riconoscimento. Così, ad esempio, un lembo di stoffa può non essere sufficiente a segnalare con sicurezza la presenza di un personaggio maschile o femminile seminascosto, mentre può esserlo una calzatura tipicamente da uomo o da donna. Normalmente la parziale occlusione non dà luogo ad ambiguità o incertezza. Ciò non avviene neppure quando l'occlusione è quasi totale: si pensi alle teorie di santi, alla rappresentazione di battaglie o di folle, agli scenari di montagne. In questi casi, le parti visibili bastano quasi sempre a far compiere con facilità le inferenze adeguate alla situazione e volute dal pittore. Un esempio di indizio molto scarso, ma tuttavia sufficiente alla identificazione, può essere quello commentato nella figura 3.9. Possiamo aggiungere l'esempio, segnalato da Arnheim [1969], di Andrea Mantegna che del cadavere di Oloferne rappresenta soltanto un piede che sporge dall'apertura della tenda (tav. I). Anche in questo caso l'indizio visivo è sufficiente a farci immaginare il resto del corpo, anche se non riesce a conferirgli il carattere di una reale presenza fenomenica. Ma in alcuni casi eccezionali la rappresentazione dell'occlusione porta a risultati strani, ambigui, di difficile o comunque di non immediata lettura. Si veda qualche esempio nelle tavole II e III. C'è da dire che è raro trovare stranezze o paradossi visivi dovuti ad imperizia o a veri e propri errori dell'artista. Infatti i pittori sanno benissimo come evitarli. In primo luogo essi raffigurano le parti direttamente visibili in modo tale che l'osservatore non abbia difficoltà a compiere una integrazione sensata. Ma ciò non sarebbe sufficiente a spiegare la naturalezza, l'assenza di sforzo, l'ovvietà con cui l'integrazione viene in genere vissuta. Se 93
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3.9. Canaletto, Ponteghetto della farina, 1730 (particolare). Il pittore ha ritenuto sufficiente raffigurare un «pettine» per suggerire la presenza di una gondola accostata alla riva. Ma il pettine può informare sulla presenza di una gondola soltanto chi conosce come sono fatte le gondole, perciò si tratta di una integrazione puramente mentale. Bisogna aggiungere che tale integrazione è accompagnata e facilitata dalla continuazione amodale determinata dal tipo di intersezione (giunzione a T) tra i margini delle regioni interessate. Lo stesso discorso vale per l'uomo che poggia una mano sulla riva [da P. Pesante 1984].
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andiamo a controllare da questo punto di vista una rappresentazione pittorica ben riuscita, possiamo constatare che, oltre alle condizioni necessarie per l'integrazione mentale, sono sempre rispettate anche le condizioni per la continuazione amodale. Condizioni che i pittori non hanno bisogno di teorizzare, perché nel loro operare sono guidati dal proprio occhio, che funziona secondo le sue leggi e al quale quindi certamente non sfuggono eventuali incongruenze. E così i pittori sanno altrettanto bene come evitare il completamento visivo di un oggetto che vogliono far apparire come un frammento. Per cui nello stesso quadro, come abbiamo visto nella figura 3.8, si possono avere parti di oggetti occlusi, che l'osservatore completa visivamente con naturalezza, senza quasi rendersene conto, e parti di oggetti che con altrettanta naturalezza sono vissuti come pezzi staccati che non mostrano alcuna tendenza a completarsi. Così, nel collage del surrealista Styrsky (fig. 3.10) ci sono due tipi di mancanza di informazione sensoriale: la porzione intermedia della lama del coltello e la parte superiore del corpo della donna. Ma mentre il coltello si completa amodalmente e la sua parte intermedia ha il carattere percettivo della presenza incontrata, non altrettanto si può dire della donna, la cui parte superiore può essere soltanto immaginata. In La révélation du presentdi Magritte (fig. 3.11), il grande dito continua con naturalezza dietro la parete semidistrutta, mentre quest'ultima appare inevitabilmente interrotta. Possiamo immaginare abbastanza facilmente come doveva essere l'edificio quando era completo, ma tale immagine non ha nulla della realtà percettiva che avrebbe qualora, come nella figura 3.12, la parte diroccata fosse nascosta da una superficie occludente, in modo tale da dar luogo alle giunzioni a T che sono le condizioni necessarie perché si verifichi il completamento amodale avente il carattere di una reale presenza visiva. I paradossi e le ambiguità visive non sono dunque di norma imputabili a incapacità tecniche o a distrazioni dei pittori, ma sono piuttosto ricercati consapevolmente da alcuni artisti (vedi ad esempio molti surrealisti, come Savinio, Topor, Magritte) i quali si propongono proprio di 95
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FIG. 3.11. Magritte, La révélatiòn du présent, 1936.' © René Magritte by SIAE,1990. Anche qui le condizioni strutturali rendono possibile la continuazione del dito dietro al muro dell'edificio diroccato, il quale invece può essere soltanto «immaginato» come intero.
FIG. 3.10. Styrsky, Collage, 1934. Ci sono le condizioni per il completamento amodale del coltello, mentre l'assenza di giunzioni a T impedisce il completamento percettivo del corpo della donna, che perciò appare monco.
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FIG. 3.12. Introducendo nella figura 3.11 le condizioni necessarie (giunzioni a T) l'edificio continua amodalmente dietro alla superficie occludente. Da Magritte, La révélation du présent, 1936. © René Magritte by SIAE, 1990.
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problematizzare il complesso e sottile rapporto tra processi cognitivi di livello diverso, tra ciò che ci dice l'occhio e ciò che ci suggerisce l'intelletto, tra le leggi della visione e il linguaggio delle convenzioni iconiche e simboliche. Nel caso dell'arte primitiva o della pittura prerinascimentale, dove più di frequente si incontrano incongruenze legate alla stratificazione fenomenica, esse hanno probabilmente un'altra origine. Quando questi pittori sembrano cadere in qualche contraddizione visiva, ciò non è dovuto tanto alla loro imperizia o alla ricerca di un effetto voluto di proposito, ma più probabilmente perché essi erano dibattuti tra ciò che è corretto dal punto di vista visivo e ciò che, a loro parere, era necessario dal punto di vista simbolico e narrativo. In Pilato si lava le mani di Duccio di Boninsegna (fig. 3.13), Pilato ed il servo che versa l'acqua sono sicuramente sotto il portico, quindi la colonna che sostiene il portico dovrebbe passare davanti e nascondere le mani dei due personaggi. Il pittore si è probabilmente reso conto che, se avesse rispettato le corrette relazioni spaziali tra gli oggetti rappresentati, si sarebbe creata un'ambiguità, perché l'osservatore non avrebbe potuto percepire in maniera univoca che cosa stavano facendo dietro la colonna le mani dei due personaggi. Quel gesto era troppo importante per lasciarlo alle possibili diversità di interpretazione degli osservatori. Duccio ha optato per il male minore: la distorsione dell'architettura. Analoghi esempi di architetture distorte non sono rare nella pittura prerinascimentale. Spesso, per evitare di nascondere una figura o una parte importante della storia raffigurata, i pittori preferivano operare uno scambio di ruoli tra oggetto occluso e oggetto occludente, ponendo in primo piano ciò che avrebbe dovuto stare dietro. Un altro problema che si poneva ai pittori riguardava il modo di rappresentare le aureole quando i santi che le portavano non erano visti di faccia. Infatti, quando un santo veniva raffigurato da dietro o di profilo, l'aureola in primo piano avrebbe nascosto la sua testa. Questa soluzione sarebbe forse apparsa ai credenti poco rispettosa, quindi alcuni pittori rappresentano la testa davanti all'aureola (tav.
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FIG. 3.13. Duccio di Boninsegua: Pilato si lava le mani, Siena, Museo dell'Opera del Duomo. Per non nascondere le mani di Pilato il pittore ha preferito produrre una distorsione nell'architettura.
IV). Questa soluzione dà l'impressione che i santi siano accecati dal simbolo stesso della loro santità. Le situazioni che ho citato, qualora non vengano riduttivamente accantonate come semplici curiosità o bizzarrie. possono indicare l'esistenza di un problema tipico della rappresentazione pittorica che normalmente passa inosservato, perché è molto raro che in un'opera pittorica si riscontrino tali effetti di incongruenza. Quando, come negli esempi riportati, le condizioni strutturali (in primo luogo il tipo di intersezione dei contorni) favoriscono una continuazione amodale che non si accorda con l'integrazione mentale suggerita dalle parti direttamente visibili, insorgono le difficoltà di lettura. Ed è, secondo me, di grande rilievo teorico constatare che in caso di conflitto tra completamento amodale e inferenza mentale prevale il primo fattore, con la conse-
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guente impressione di disturbo, di stranezza, alle volte di incomprensibilità. Ciò dimostra che la naturalezza con cui avvengono i completamenti nei casi normali è dovuta al fatto che il «mestiere» del pittore riesce ad evitare il conflitto tra i due livelli di elaborazione cognitiva. Non so quanto le osservazioni che ho esposto possano interessare lo studioso di estetica o il critico d'arte. Per il percettologo alcuni «errori» del pittore sono molto istruttivi perché rivelano l'esistenza di un problema che altrimenti rischia di non essere avvertito. Proprio perché l'occhio dell'artista ·corregge automaticamente gli eventuali errori di una prima esecuzione, è probabilmente così diffusa la convinzione che tutti i completamenti siano dovuti esclusivamente ad una integrazione mentale. Per questa ragione ho voluto insistere sulla doppia natura dei fenomeni di completamento ed ho cercato di individuare le condizioni di quello amodale. Secondo me non si tratta di due fenomeni che si differenziano soltanto per il grado di evidenza con cui si manifestano. L'esistenza di situazioni nelle quali i due processi sono chiaramente in conflitto fa ritenere che ci sia tra di essi una differenza qualitativa e non solo di intensità. Se questa ipotesi è giusta, ciò non è senza significato per la teoria della percezione in generale come anche per la comprensione della percezione delle rappresentazioni pittoriche. Perciò penso che le riflessioni che precedono possano avere un certo interesse anche per lo studioso d'arte e possano offrire una prospettiva di analisi, una possibile chiave di lettura del modo di operare di certi artisti o delle peculiarità di determinati stili.
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CAPITOLO QUARTO
LE AMBIGUITÀ DELLA PREGNANZA
1. La pregnanza: l'eredità più cospicua e più contestata della Gestalttheorie
Non è difficile convenire che la psicologia della gestalt intesa come sistema teorico caratterizzante una «scuola», avente in Wertheimer, K6hler e e Koffka i suoi fondatori e rappresentanti più significativi - oggi non esiste più come tale. D'altra parte si può constatare che alcune delle sue idee-guida e alcuni dei concetti da essa elaborati sono stati incorporati nel modo di pensare e nel vocabolario di psicologi che sicuramente rifiuterebbero di essere considerati gestaltisti (o almeno gestaltisti senza ulteriori specificazioni). Per quanto riguarda ad esempio la percezione, il problema dell'organizzazione o «strutturalità» del mondo percettivo, un problema centrale nel pensiero dei gestaltisti, continua a ripresentarsi anche oggi come centrale a chi affronta lo studio dei processi cognitivi. Così come continua ad essere di uso corrente il concetto, o almeno il termine, di buona gestalt o di pregnanza. La «pregnanza» è certamente un concetto cardine della teoria della gestalt, ma è anche un concetto che ha dato origine a una folla di fraintendimenti e sul quale si sono indirizzate le critiche più radicali. Tra l'altro ai gestaltisti accanto al riconoscimento dell'impatto euristico e innovatore che le loro idee hanno esercitato sugli studi psicologici è stato spesso rimproverato di avere fatto della pregnanza una sorta di super-principio dalla portata universale, una chiave che apre tutte le porte, e nello stesso tempo di non
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averne mai dato una definizione rigorosa e di non aver delimitato con precisione il suo ambito di validità. Tanto è vero che ci si può chiedere oggi se un concetto di questo tipo, e cioè non chiaramente definito, sia stato utile al progresso della conoscenza, ci abbia fatto capire di più, abbia sempre aiutato la ricerca; o se invece non abbia rappresentato anche un ostacolo sulla via della ricerca, che in alcuni casi potrebbe essere stata a lungo avviata in un vicolo cieco.
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2. Una prima ambiguità: pregnanza come «singolarità» e pregnanza come «semplicità e stabilità» a
Abbiamo detto: assenza di una definizione rigorosa. Vediamo allora, testi alla mano, cosa ne dicono Wertheimer e gli altri principali esponenti della scuola 1. Rileggendo Wertheimer [1912a; 1923] si possono rintracciare nei suoi lavori le origini di alcune ambiguità che a proposito del concetto di pregnanza la psicologia della Gestalt si porterà poi dietro negli anni. Egli ne parla infatti in almeno due sensi. Una prima sua definizione di pregnanza si riferisce a una qualità o proprietà che alcune configurazioni percettive possiedono rispetto ad altre che ne sono prive: una proprietà che le rende ausgezeichnet, e cioè singolari, uniche, privilegiate. Wertheimer la illustra con il seguente esempio: se nella figura 4.1 il punto C viene spostato verso il basso lun-
1 Il concetto di pregnanza viene introdotto da Wertheimer nel 1912 nel saggio sul pensiero dei popoli primitivi [1912a]. In questo saggio, a proposito delle serie numeriche, Wertheimer parla di zone «privilegiate», ausgezeichnet, «pregnantÌ», che corrispondono, a seconda del sistema numerico in uso presso le popolazioni esaminate, a numeri quali il lO, il 12, il 20, ecc. Allo stesso modo, per determinate quantità vi sono delle partizioni pregnanti (per esempio, per il 100 possono esserlo il 25 o il 50). Di vera e propria <
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FIG. 4.1. 11 punto C, spostandosi lungo il percorso indicato dalla linea punteggiata, dà luogo a uri triangolo virtuale che muta continuamente forma. Le cinque posizioni a, b, c, d, e rappresentano nel continuum dei triangoli quelli fenomenicamente privilegiati (due retti e tre isosceli) [Wertheimer 1923].
go la traiettoria indicata dalla linea tratteggiata, parallela alla linea di congiunzione tra A e B, il triangolo virtuale ABC subisce una continua trasformazione. Ma mentre obiettivamente la sequenza dei triangoli virtuali che vengono così a formarsi costituisce una serie continua, fenomenicamente la trasformazione non ha un decorso continuo, ogn~ tanto si hanno improvvise ristrutturazioni, si producono degli «scatti». Quando C arriva in determinate posizioni, il triangolo acquista alcune regolarità geometriche che caratterizzano la sua forma rispetto a quella degli altri triangoli virtuali che si costituiscono nelle posizioni intermedie. Ciò accade in cinque posizioni diverse nelle quali il triangolo diventa per due volte retto e per tre volte isoscele. A queste cinque configurazioni geometricamente regolari corrispondono cinque impressioni fenomenicamente privilegiate. Wertheimer parla in questo caso di «punti di pregnanza» o di «zone di pregnanza» (Priignanzstufen) che vengono raggiunti (e poi ab-
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bando nati) durante la graduale trasformazione della configurazione. Un esempio analogo è dato dai «punti di pregnanza» attraversati da un angolo che aumenta gradualmente di apertura da O gradi a 180 gradi (vedi figura 4.2).
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FIG. 4.2. Rappresentazione delle zone di pregnanza attraversate da un angolo che passa gradualmente da O a 180 gradi. Una ristretta zona di «approssimazione» che fiancheggia l'angolo retto comprende gli angoli quasi-retti. Le zone degli angoli acuti o ottusi sono molto più estese [Rausch 1966].
In questi casi «pregnante» coincide con «regolare», e lo stesso vale per altre configurazioni che, come il cerchio, il quadrato, la sinusoide, ecc., sono costruite secondo una formula matematica abbastanza evidente. Ma sono «buone gestalten» anche tutte le forme per le quali non è facile enunciare la formula secondo -cui è costruito lo stimolo, ma che hanno la caratteristica di essere fenomenicamente «singolari» o privilegiate, proprio come l'angolo retto è unico o singolare rispetto a quelli acuti o ottusi. Sono strutture fenomeniche ordinate, ben riuscite, che incorporano in modo ottimale una qualità terziaria, configurazioni dotate di coerenza interna, cioè costruite secondo il medesimo principio in tutte le loro parti. Parti che stanno bene insieme, «si appartengono», si richiedono reciprocamente. Sono configurazioni ausgezeichnet in confronto a configurazioni simili ma non altrettanto ben riuscite, che pertanto sono fenomenicamente «meno buone», o addirittura «cattive» 2. 2
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Le qualità terziarie, o fisiognomiche (come l'allegria o la tristezza, la
Ma Wertheimer parla di pregnanza in un secondo senso: è pregnante un evento che si svolge in modo non casuale, ma è regolato da principi di semplicità ed economia e porta ad un risultato che rappresenta un massimo di equilibrio delle forze in gioco e perciò un massimo di stabilità e di resistenza al mutamento. Come. è noto, egli elenca ed illustra un certo numero di «principi di unificazione» (Zusammenfassung, Gruppierung) in base ai quali avviene la segmentazione del campo visivo e si costituiscono gli oggetti visivi. Contrariamente a quanto spesso si afferma, tra questi principi (le cosiddette «leggi di Wertheimer») non figura un «principio della pregnanza», inteso come fattore che agisce accanto agli altri fattori di unificazione. Egli parla della pregnanza come di un principio generale a cui si uniforma l'azione degli altri fattori. Tali fattori agirebbero cioè tutti in funzione di una Tendenz zur Resultierung in «guter» Gestalt. Così egli afferma, ad esempio, che la legge della somiglianza è solo un caso speciale del principio della buona gestalt e che il fattore della continuità di direzione agisce in modo che l'unificazione (o raggruppamento) dia luogo ad una gute Fortsetzung, sia kurvengerecht, avvenga secondo l'innere Zusammengehoren, risulti in una gestalt che obbedisce ad una sua «neces-
calma o la tensione, la monotonia, la solennità, ecc.) sono percepite in una configurazione o in un evento altrettanto direttamente del loro colore e delle loro dimensioni. In genere non siamo ancora in grado di stabilire con precisione la struttura dello stimolo che sta alla base di queste impressioni, anche se sappiamo distinguere con sicurezza le configurazioni che possiedono in pieno quella caratteristica globale (pregnanti) da quelle malriuscite che la possiedono in modo approssimativo (non pregnanti). Ciò vale per le configurazioni visive statiche come per le strutture cinetiche, ed ancor più per quelle acustiche e musicali. Ad esempio, la fine di una melodia darà un'impressione di finito, di conchiuso solo con la presenza di certi intervalli tra le ultime due note. Secondo la cosiddetta legge di Lipps-Meyer [Lipps 1905; Meyer 1900], tale impressione si ha quando il rapporto tra le frequenze delle due note finali è un rapporto tra un numero pari e un numero dispari, e la nota terminale è pari. Per esempio, una seconda minore (do e do diesis) corrisponde a un rapporto 15/16, e la sensazione di «conchiuso» si ha se i toni sono eseguiti in quest'ordine, altrimenti la sensazione è di incompletezza, di sospensione, di tensione terminale.
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sità interna» (innere Notwendigkeit), ed è per questa ragione una gute Gestalt [Wertheimer 1923, 324]. Egli si rendeva conto che si trattava di una formulazione provvisoria (sehr vorliiufige Benennung), che doveva trovare una strengere Priizisierung. Una precisazione che. di fatto egli non ci ha mai dato, per cui è rimasta nella letteratura gestaltista una fondamentale ambiguità del concetto di pregnanza o «bontà», usato sia in funzione descrittiva per indicare la «singolarità» di un risultato fenomenico, sia in funzione esplicativa per indicare la conformità a leggi del processo percettivo e la sua tendenza verso uno stato finale di equilibrio stabile. Due concetti che non sono affatto equivalenti, poiché un risultato fenomenico può essere massimamente stabile, ma non per questo deve essere anche ausgezeichnet nel senso di fenomenicamente «singolare», anzi lo è raramente. È lecito a questo punto chiedersi quanto sia stato opportuno usare lo stesso termine per due fatti così differenti: per indicare da una parte la qualità di un risultato fenomenico, direttamente constatabile nell'esperienza, qual è la «bontà» di alcune configurazioni, e per designare dall'altra le caratteristiche ipotetiche di un processo. Col senno di poi si può affermare che sarebbe stato meglio riservare il termine «pregnanza» per la prima classe di fenomeni e destinare ai secondi una denominazione più specifica, come «principio di economia», o «legge di minimo», come del resto hanno fatto K6hler, Koffka o Metzger in alcune occasioni, senza tuttavia operare esplicitamente la netta distinzione che noi riteniamo non solo utile ma necessaria 3. 3 <
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La pregnanza nel primo significato, intesa ClOe come «singolarità» o «bontà» figurale, è dunque un dato di fatto fenomenico, corrisponde ad una descrizione fedele dell'esperienza visiva. Tutti constatiamo che determinate forme o strutture sono fenomenicamente migliori, più ordinate, più coerenti, più belle, più azzeccate di altre che sono invece «cattive», disordinate, disarmoniche, mal riuscite, e così via. Ed è indubbio che preferiamo le prime o almeno tendiamo a privilegiarle (per la facilità con cui le codifichiamo e k conserviamo nella memoria, per il peso che hanno nella valutazione estetica). Da buon fenomenologo Wertheimer aveva dunque individuato una qualità o dimensione importante dell'esperienza visiva, destinata a svolgere un ruolo centrale nella successiva teorizzazione gestaltista anche se, come abbiamo detto, non è stato sufficientemente chiaro nel tener distinto questo specifico significato di «bontà» fenomenica da quello più generico di economia processuale e stabilità del risultato 4. Dopo Wertheimer, i contributi più interessanti nell'elaborazione del concetto di pregnanza nel suo primo significato, nel tentativo di farne qualcosa di più preciso, sono dovuti a E. Rausch [1966] e ad E. Goldmeier [1937; 1982]. Rausch enuncia sette Priignanzaspekte secondo cui può essere definita e valutata la pregnanza di una configurazione 5. Sono dimensioni bipolari, nelle quali il polo positivo
4 In base a considerazioni analoghe alle nostre, A. Ruppe [1984) ha proposto di distinguere i due significati, chiamando Primiirpriignanz la bontà fenomenica, e Sekundiirpriignanz la conformità a leggi del processo e la stabilità del risultato. 5 Le sette dimensioni bipolari di Rausch sono: 1) Gesetzmiissigkeit - Zufiilligkeit: regolarità, intesa come «conformità a una legge», contro casualità, arbitrarietà. 2) Eigenstandigkeit - Abgeleitetheit: autonomia, indipendenza, contro derivazione, dipendenza. Per fare un esempio, è massimamente pregnante il rettangolo (figura-origine o di riferimento) in confronto a tutti i parallelogrammi di pari base e altezza, che sono vissuti come «derivati» dal rettangolo. 3) Integritiit - Privativitiit: integrità, completezza, contro manchevolezza, incompletezza. Mentre nel caso della «derivazione» si tratta di una tra-
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corrisponde al massimo di pregnanza e il polo negativo a un minimo o all'assenza di pregnanza. Si tratta dunque di Graduirdimensionen, esprimibili in termini graduali, per cui, secondo Rausch, dovrebbe in via di principio essere possibile definire una funzione matematica che permetta di calcolare il grado di pregnanza di una configurazione a seconda del suo collocarsi nelle varie dimensioni più o meno in prossimità di uno dei due poli. Per Goldmeier la caratteristica più saliente della pregnanza (che egli significativ~mente traduce con singularity termine che adotteremo anche noi da qui in avanti) 6 è la uniqueness conferita a determinate configurazioni dal fatto di possedere. una qualità che manca a tutte le altre. Sono configurazioni che corrispondono, nel linguaggio di Wertheimer, a una Priignanzstufe. Intorno a questo «punto di pregnanza» c'è in genere una ristretta zona di near-singularity nella quale si collocano i pattern che vengono vissuti come deviazioni dal pattern singolare. Inoltre vi è la regione della non-singularity, occupata da pattern irregolari, instabili, senza una precisa identità 7. sformazione o allontanamento globale dalla figura-origine, qui la deviazione consiste in un «disturbo» locale, che può 'essere la mancanza di una parte, o una sua deformazione, o anche una aggiunta incoerente con il tutto. 4) Einfachheit - Kompliziertheit: semplicità strutturale contro complicatezza della struttura. 5) Komplexitat - Tenuitiit: complessità, ricchezza della struttura, contro povertà strutturale. A differenza della dimensione precedente, dove la semplicità rappresenta il polo positivo della pregnanza, l'accento viene qui messo sulla articolazione armoniosa, sulla pienezza dell'organizzazione (per esempio, una sinfonia rispetto a un canto popolare). 6) Ausdruckfulle - Ausdrucksarmut: ricchezza espressiva contro povertà espressiva. 7) Bedeutungsfulle - Bedeutungsleere: pienezza di significato contro assenza di significato. 6 «The word singularity is my translation of the German word Priignanz ... the two words are intended as synonyms» [Goldmeier 1982, 44]. 7 Anche Rausch [1952] distingue tre zone attorno a ciascun punto di pregnanza: il settore della realizzazione, corrispondente esattamente al punto occupato dalla configurazione pregnante, il settore della approssimazione, occupato dalle figure che sono assimilate come categoria a quelle pregnanti, ma sono vissute come «malriuscite», «cattive» (settore corri-
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Oltre ad essere «unici», i pattern singolari sono self-consistent, cioè dotati di coerenza interna, per cui ogni parte è «richiesta» dalle altre parti. Inoltre sono normativi, in quanto fungono da norma o punto di riferimento per gli altri pattern (e in modo particolare per quelli che cadono nella regione della near singularity e sono vissuti come «quasi» o «circa» o «approssimativamente» il pattern singolare). La caratteristica peculiare della singolarità è, per Goldmeier, il fatto che per essa il nostro sistema percettivo è dotato di una- estrema sensibilità al cambiamento. Nella zona di nearsingularity (che corrisponde alla zona di «approssimazione» di Rausch) viene avvertito ogni minimo scostamento del valore singolare, mentre la soglia discriminativa si innalza notevolmente per i valori che cadono al di fuori di tale regione, dove non siamo in grado di avvertire differenze anche di consistente entità tra due elementi contigui in una serie 8.
spondente quindi alla ristretta zona di massima sensibilità di cui parla Goldmeier), e il settore della derivazione, a cui appartengono le figure categorialmente diverse da quelle pregnanti, pur essendo ad esse riferite in un rapporto di derivazione. 8 Le analisi di Rausch e di Goldmeier differiscono per il diverso rilievo dato a due possibili significati del concetto di pregnanza, che in un certo senso possono sembrare contraddittori: per Rausch la pregnanza è soprattutto una proprietà scalare che può assumere tutti i valori di intensità giacenti tra i due poli delle sette dimensioni da lui individuate, Goldmeier pone l'accento sul fatto che le zone di pregnanza segnano dei punti di discontinuità in una serie qualitativa. In realtà i due aspetti non sono tra loro incompatibili, ma il privilegiare l'uno rispetto all'altro, senza che sia chiarito il loro rapporto, non può essere senza conseguenze sulla discussione teorica. Il problema non è mai stato posto esplicitamente nella letteratura gestaltista, dove a volte si dà la massima importanza all'aspetto della discontinuità, e in altre occasioni si parla di gradazioni di pregnanza, senza che apparentemente venga avvertita una qualche contraddizione tra i due significati. Una possibile fonte di ambiguità può essere dovuta al termine Pragnanzstufe usato da Wertheimer e diventato subito popolarissimo, che vien abitualmente tradotto con «grado di pregnanza» (in inglese: degree of Pragnanz). Ma in effetti con Stufe (che letteralmente significa «gradino») si può indicare sia un certo valore lungo una scala di intensità, sia una posizione in una serie ordinata di qualità (come ad esempio una tonalità cromatica nella rosa di Hering). L'esempio di Wertheimer già citato (vedi Fig. 5.1) del punto che, spostandosi rispetto ad altri due punti, dà luogo ad una
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A ciò possiamo aggiungere che, come hanno dimostrato Stadler, Stegagno e Trombini [1979], una figura singolare ha una minor Identitiistoleranz di una figura non singolare, o, detto altrimenti, ha una maggiore resistenza alla trasfor• 9 mazIOne . 3. Una seconda ambiguità: tendenza alla semplicità del processo e tendenza al risultato singolare
Abbiamo voluto segnalare questa fondamentale ambiguità nell'uso del concetto di pregnanza, perché la riteniamo responsabile di molte in comprensioni e delle accuse di vaghezza che da sempre a quel concetto sono state mosse. Ma l'argomento che ci proponiamo di esaminare nel presente lavoro riguarda un'altra ambiguità non meno diffusa e, secondo noi, non meno dannosa. Si tratta del termine «tendenza alla pregnanza», il cui significato è tutt'altro che uniserie di triangoli interrotta da cinque triangoli ausgezeichnet (che sono altrettanti punti di discontinuità in un continuum), sembra indicare che l'accezione corretta del termine Priignanzstufe dovrebbe essere in termini di «zone» e non di «gradi» di pregnanza. È questa l'accezione sulla quale, pur non rifiutando l'altro significato, insiste Goldmeier. Ma è anche vero che l'altra accezione è certamente la più diffusa e viene posta in primo piano dalla formalizzazione di Rausch in termini multidimensionali - e sta anche alla base dei numerosi tentativi fatti, a partire da Attneave [1955] o da Garner [1962], di misurare la pregnanza in termini di teoria dell'informazione e di ridondanza. È evidente che tali misure si collocano lungo una scala di intensità, e la maggiore o minor ridondanza corrisponderebbe a un maggiore o minor grado di pregnanza. 9 Stadler e collaboratori hanno utilizzato il movimento stroboscopico di trasformazione, consistente nel fatto che la presentazione in rapida successione di due forme non troppo dissimili può portare a percepire un'unica forma che si trasforma. Con tempi interstimolo più lunghi, diversi a seconda del tipo di figure utilizzate, quel che si vede è la successione delle due forme. Essi, riferendosi alle prime quattro dimensioni di pregnanza di Rausch (vedi nota 5), hanno potuto rilevare che le figure non pregnanti si trasformavano più facilmente in quelle pregnanti che non viceversa; in altri termini, avevano una maggiore Identitiitstoleranz. Si tratta di un effetto funzionale della singolarità che, al pari di altri [la già vista maggiore discriminabilità, o la maggiore rapidità di processamento, dimostrata da Garner 1974, ecc.], indica presumibilmente una maggior facilità nella codificazione delle strutture singolari.
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voco. Da una parte, a cominciare da Wertheimer, con tendenza alla pregnanza si intende indicare il carattere ordinato, conforme a leggi, del processo percettivo, l'esistenza di principì di organizzazione che assicurano il raggiungimento di uno stato finale di equilibrio delle forze in gioco, e quindi un risultato stabile. Altre volte sembra che con la stessa espressione si intenda proprio una spinta del processo non solo verso la stabilità, ma anche verso la singolarità del risultato 10. A questo proposito va rilevato che - mentre la singolarità, come abbiamo già detto, è un dato di fatto direttamente esperibile, di cui si può discutere l'interpretazione, ma non negare l'esistenza - nel caso della tendenza alla pregnanza si tratta comunque, sia per l'uno che per l'altro dei suoi possibili significati, soltanto di ipotesi che devono essere provate. Non discuteremo qui la prima ipotesi (tendenza al decorso processuale più semplice ed economico ed al risultato più stabile). È una ipotesi che riteniamo il nucleo più valido ed euristico della teoria della gestalt e che del resto è larga!O Dice Wertheimer: «Che le cose stiano così è chiaramente dimostrato in sede sperimentale, dove è impressionante la regolarità della tendenza verso la configurazione pregnante. Se si presenta tachistoscopicamente un angolo, anche quando il suo scarto dall' angolo retto è rilevante, l'osservatore spesso vede semplicemente un angolo retto, assimilando l'angolo mostrato a quello pregnante» [Wertheimer 1923, 318]. Così K6hler: «In fisica tali distribuzioni si contraddistinguono per semplicità e regolarità. Quindi, se le strutture visive seguono questo principio, dovremmo attenderci che anch'esse procedano nella direzione della semplicità e della regolarità. E questa tendenza verso la Priignanz der Gestaltung è stata scoperta nelle strutture percettive da Wertheimer. Nella visione, il cerchio, una forma unica per le sue proprietà, tende frequentemente ad essere visto anche quando la configurazione dello stimolo devia considerevolmente da tale simmetria estrema» [K6hler 1922, 531]. Del tutto analogo è il senso di alcuni passi di Metzger: «Nel trasferirsi dall'organo sensoriale al campo fenomenico, un buon ordinamento ha ogni probabilità di restare buono, e - prescindendo dalle costellazioni di stimoli totalmente confuse - un· ordinamento meno buono ha ogni probabilità di diventare migliore. Linee quasi parallele e figure quasi simmetriche lo diventano completamente. Angoli di 87 o di 93 gradi diventano retti. Linee quasi «rette» e «cerchi» imperfetti vengono regolarizzati. Lacune vengono riempite . .. In breve, la maggioranza delle deviazioni tendono chiaramente ad un miglioramento dell'ordine» [Metzger 1963, trad. it., 1971, 260].
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mente condivisa anche da molti scienziati non gestaltisti. Intendiamo invece esaminare l'attendibilità della seconda ipotesi (tendenza al risultato singolare) che non va confusa, come sempre è stato fatto, con la prima. Come risulta dalle affermazioni di Wertheimer, di Ktihler e di Metzger che abbiamo riportato alla nota lO (e che si ritrovano più o meno identiche, quasi come citazioni d'obbligo, in tutta la letteratura sull'argomento), l'esistenza di una tale tendenza viene data per dimostrata sperimentalmente. Poiché si tratta di una questione di non poco conto, vale la pena di riesaminare con attenzione tale evidenza sperimentale. Su quali prove si basa infatti la ricorrente affermazione che il sistema visivo è dominato da una tendenza alla singolarità, ha una predilezione per l'ordine, preferisce produrre una configurazione armonica, regolare o «buona», piuttosto che una irregolare, o «cattiva»? Si è creduto di poter avere questa dimostrazione osservando quanto avviene in situazioni nelle quali l'azione della stimolazione è ridotta a zero (come nella zona della macula cieca, o nei casi di emianopsia), oppure ricorrendo a condizioni di osservazione subottimali, quando i vincoli posti dalla distribuzione degli stimoli sono allentati, meno rigidi, e pertanto i principì interni di organizzazione (non importa qui decidere se innati o acquisiti) hanno maggiore possibilità di far sentire la propria influenza sull'esito fenomenico. Come vedremo, i dati ottenuti in queste speciali condizioni di osservazione non solo sono spesso dubbi, specie sul piano metodologico, ma a volte sono addirittura il contrario di quanto ci si dovrebbe attendere qualora agisse davvero una tendenza al risultato singolare. Ma prima di procedere a questa discussione, è opportuno premettere alcune precisazioni per evitare che il senso delle nostre argomentazioni possa venire frainteso. La precisazione principale riguarda l'ambito entro il quale riteniamo valide le considerazioni che verremo esponendo.
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4. Segmentazione precategoriale del campo visivo e identificazione degli oggetti visivi
Nel discutere il ruolo di un'eventuale tendenza .alla singolarità nella percezione non si può dimenticare che al termine «percezione» corrisponde un concetto molto elastico. Il suo contenuto referenziale può variare considerevolmente a seconda delle opzioni teoriche di chi lo usa, o del contesto nel quale viene usato. ~er limitarci alla percezione visiva, si può avere una definizione ampia per cui con tale termine si intende l'intero processo che, a partire dalla registrazione sensoriale, si svolge attraverso l'esplorazione compiuta dallo sguardo, lo spostamento dell'atten'zione, l'attribuzione del significato, il confronto con le rappresentazioni depositate in memoria, il riconoscimento, la denominazione, le successive interpretazioni. In un'accezione così ampia del concetto vengono jcompresi almeno due elementi di natura chiaramente divefsa: la segmentazione del campo in oggetti visivi distinti e la loro identificazione, e cioè le operazioni di categorizzazione, riconoscimento, denominazione, che in ultima analisi sono operazioni del pensiero attraverso cui il mondo delle cose viste acquista un significato. Poiché in un concreto atto percettivo il momento visivo non è praticamente separabile dai momenti più propriamente cognitivi, si è spesso ritenuto che la distinzione stessa sia senza senso e non vada fatta. Ma è evidente che la categorizzazione, il riconoscimento, l'attribuzione di significato presuppongono un «qualcosa» su cui tali operazioni possano esercitarsi. Che la formazione di un oggetto visivo come entità separata da altri oggetti debba avvenire prima che l'oggetto possa venir riconosciuto è una necessità logica che non può essere ignorata solo perché l'attribuzione di significato avviene in modo così istantaneo che non è possibile osservare in un atto cognitivo naturale una fase in cui il dato visivo non è stato ancora identificato. Il problema di come avviene la segmentazione precate-
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goriale del campo visivo attraverso la quale si costituiscono gli oggetti visivi, che possono acquistare un significato solo entrando in contatto con i sistemi di tracce 11, è il problema dell'organizzazione percettiva primaria che, secondo la teoria della gestalt, è il prodotto della autodistribuzione dinamica dei processi scatenati dall'input sensoriale. Una tale auto distribuzione è governata da leggi, la cui individuazione rappresenta il maggior merito sperimentale di Wertheimer. Abbiamo detto che secondo Wertheimer i suoiprincipì di organizzazione primaria agirebbero tutti in funzione di una tendenza al risultato «buono» o singolare, tendenza che secondo lui sarebbe sperimentalmente provata (vedi nota lO). È la validità di quest'ultima affermazione che vogliamo esaminare. Ci teniamo a sottolineare che la nostra analisi riguarderà soltanto la segmentazione precategoriale del 11 Sembra qui opportuno richiamare l'<<argomento di H6ffding», che a un secolo circa dalla sua enunciazione, pur non sollevando confutazioni, viene continuamente dimenticato. H6ffding [1887, 195-292] discuteva in realtà il problema delle leggi dell'associazione, in connessione con il problema del riconoscimento, e poneva in rilievo il fatto che le associazioni, apparentemente immediate, richiedono di fatto l'intervento di un fattore di somiglianza. Le implicazioni di questo argomento venivano colte soprattutto da K6hler [1940, 126-139], e trovavano un'immediata eco in ambito gestaltista [vedi Wallach 1949]. L'argomento, secondo K6hler, può così essere enunciato: poniamo che vi siano due contenuti mentali, a e b, associati tra di loro (associazione che per H6ffding avviene sostanzialmente sulla base della <
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campo visivo, il momento visivo in senso stretto del processo percettivo. Non ci occuperemo cioè del ruolo che la tendenza alla pregnanza può avere nella codificazione degli eventi visivi, né dell' eventuale influsso da essa esercitato sulle modificazioni delle tracce mnestiche. Le ricerche di E. Rosch [1975; 1978] e quelle di E. Goldmeier [1982] sembrano dimostrare in modo convincente una tale influenza, mentre non altrettanto stringenti ci sembrano le prove sperimentali dell'esistenza di una tendenza al risultato singolare nel processo precategoriale.
5. Le «prove» della tendenza alla singolarità 5.1. Ricerche in condizionì di stimolazione impoverita e di visione subottimale '
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a) Stimolazione impoverita. Un primo gruppo di prove riguarda il modo in cui si attua il completamento percettivo in quelle zone del campo visivo nelle quali si ha un azzeramento del livello di stimolazione (macula cieca ed emicampo cieco in caso di emianopsia). Il completamento della regione del campo visivo che corrisponde alla macula cieca avviene per somiglianza cromatica: la lacuna, cioè, viene riempita dal colore dell'area circostante. Ma si verificano anche completamenti per continuazione di strutture più articolate, per esempio configurazioni di linee [Helmholtz 1866]. Le osservazioni compiute da Luchins e Luchins [1973], e che chiunque può facilmente controllare su se stesso, dimostrano che in quest'ultimo caso si può notare sempre una qualche semplificazione (vedi fig. 4.3). Se si vuole considerare la semplificazione come un «miglioramento» (e ritenere quindi questi risultati come comprovanti una tendenza alla singolarità) è da tener presente che si tratta pur sempre di un miglioramento locale, che può andare a scapito della «bontà» a livello della configurazione globale; persuasivo ci sembra l'esempio che proponiamo in figura 4.4. Si deve comunque rilevare che, mentre il completamen115
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b
c FIG. 4.3. Completamento nella regione della macula cieca. Se si presenta una linea interrotta (a) o con una deviazione dalla rettilinearità (b), e si fa cadere l'interruzione o la deviazione nella zona cieca, il risultato è la visione di una linea intera e diritta (c). In questo caso l'eliminazione del «disturbo» locale rappresenta anche un miglioramento della configurazione globale.
a
b
FIG. 4.4. Controesempio. Il completamento nella regione della macula non rispetta la «singolarità» della figura. Se si fa cadere nell'area cieca l'estremità sinistra della figura a, si ottiene b, che si può considerare la migliore (la più economica) congiunzione tra le due parti della figura che entrano nella zona cieca; ma questo miglioramento locale disturba la «bontà» della configurazione globale.
to cromatico in quanto tale è un fenomeno della massima evidenza (tanto è vero che la maggior parte degli uomini passa l'intera vita senza accorgersi della macula cieca, la cui esistenza deve quindi essere «scoperta» mediante un esperimento abbastanza innaturale), il completamento di una struttura figurale non è altrettanto evidente ed è soprattutto di difficile osservazione. Questa difficoltà di osservazione rende molto incerta l'interpretazione dei risultati delle ricer116
che compiute in questa area, e pertanto ne limita fortemente il valore dimostrativo. Analoghe riserve di carattere metodo logico si possono fare a proposito delle osservazioni riferite da soggetti affetti da emianopsia [a partire dalle classiche ricerche di Poppelreuter 1917 e di Fuchs 1920; 1921] Anche in questo caso si tratta di risultati non concordanti e variamente interpretabili. Ad ogni modo, le ricerche più recenti della Warrington [1965] generano seri dubbi sulla legittimità di ritenere i completamenti che si verificano in queste condizioni come una dimostrazione della tendenza verso la «singolarità» 12. b) Visione subottimale. La seconda fonte di evidenza è relativa alle ricerche condotte in condizioni di visione subottimale. I metodi seguiti consistono nel rendere difficoltosa la percezione agendo in vario modo sulla costellazione di stimoli: ad esempio, mediante una riduzione del tempo di esposizione dell'intensità, o delle dimensioni dello stimolo 13.
12 Proiettando parte della configurazione stimolo sull'emicampo cieco degli emianopsici, la Warrington ha dimostrato che il completamento si ottiene con forme semplici che possono essere considerate «buone» da un punto di vista gestaltista, ma che esso avviene anche con forme complesse, non singolari, purché però siano familiari al soggetto. E ancora, le ricerche condotte nell'ultimo decennio in campo neuropsicologico, a proposito del cosiddetto blindsight, da Weiskrantz e colI. [Weiskrantz 1977] inducono comunque a dubitare sull'effettivo significato della «cecità» degli emianopsici. 13 I principali metodi seguiti sono i seguenti: a) riduzione del tempo di esposizione dello stimolo, agendo in tal modo sul tempo di elaborazione delle informazioni presentate [Granit 1921; Sander 1928; Gemelli 1928]; b) riduzione dell'intensità dello stimolo, o meglio del gradiente di contrasto tra le diverse zone del campo visivo: figure grigie scure su fondo scuro, figure chiare su fondo chiaro, ecc. Si agisce così sulla soglia di discriminazione per le differenze di luminosità [Hempstead 1901; Gottschaldt 1926; 1929); c) riduzione delle dimensioni dello stimolo, che viene impicciolito (micropsia), agendo quindi sull'acuità visiva, al limite del potere di risoluzione [WohIfahrt 1932]; d) proiezione degli stimoli in zone retiniche extrafoveali e periferiche, con minore densità di recettori [Galli 1931; Graefe 1952; 1957; 1964]; si-
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Sono tutti metodi largamente impiegati negli studi sulla Aktualgenese o microgenesi delle forme visive, sia dalla scuola di Lipsia negli anni venti e trenta, sia più recentemente dal gruppo di Lund, volti a individuare le caratteristiche delle varie fasi del processo percettivo 14. I primi gestaltisti si riferivano soprattutto ai risultati della scuola di Lipsia, in particolare a Sander [1926; 1928; 1930], nei quali ritenevano di trovare una conferma alla loro ipotesi sull'esistenza di una tendenza alla singolarità che dominerebbe il processo percettivo fin dalle sue fasi più precoci.
gnificato analogo hanno le ricerche nelle quali si utilizza la visione scotopica, con illuminazione ambientale crepuscolare [Galli 1934]; e) induzione di condizioni di labilità o di diminuita stabilità del campo percettivo con una presentazione intermittente della stimolazione [Ehrenstein 1928; 1936]; f) osservazione delle trasformazioni che si producono nelle immagini consecutive, la cui stimolazione prossimale è costituita da processi residuali in rapida estinzione, provocati da una stimolazione pregressa non più attiva [Rothschild 1923; Brunswik 1935]. 14 Il termine Aktualgenese, utilizzato dalla scuola di Lipsia, indicava originariamente una tecnica di frazionamento della percezione, mediante presentazione tachistoscopica degli stimoli, che avrebbe dovuto consentire di studiare i «processi gestaltici» che conducono da delle pre-gestalten agli oggetti percettivi stabili della normale percezione [Kriiger 1928; Sander 1930; Wohlfhart 1932]. Nelle pre-gestalten, contrariamente a quanto si riscontra nelle gestalten terminali, si verificherebbero tendenze verso la regolarità, la simmetria, la chiusura, ecc. In questo dopoguerra ha prevalso un'altra scuola «microgenetista», quella di Lund, che ha avuto come massimi esponenti G. Smith [1952] e soprattutto U. Kragh [1955]. La critica che gli studiosi di Lund hanno rivolto ai colleghi di Lipsia si è indirizzata specialmente all'utilizzo fatto da questi di materiale di stimolazione estremamente povero, e soprattutto lontano da situazioni di vita quotidiana. Altro interesse che distingue gli studiosi di Lund è quello per le differenze individuali e per le caratteristiche di personalità, a loro avviso rilevabili in modo ottimale mediante l'Aktualgenese. Può comunque apparire un'ironia della sorte il fatto che l'enorme mole di lavoro sperimentale compiuto in ambito microgenetista soprattutto dai ricercatori legati alla scuola di Lipsia (in Italia una posizione di rilievo ha avuto in proposito Gemelli) sia oggi ricordata quasi esclusivamente per le citazioni che ne fanno i gestaltisti, che ne furono i maggiori avversari, ma che hanno utilizzato i loro risultati sperimentali a sostegno delle proprie tesi. Tra l'altro è indubbio che i microgenetisti hanno anticipato molte delle tecniche, ma anche delle argomentazioni, che tanto rilievo hanno avuto negli ultimi vent'anni in ambito cognitivista.
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Tuttavia, se si esaminano attentamente la metodologia ed i risultati di queste ricerche compiute in condizioni di osservazione impoverite, si ricava l'impressione che si tratti anche qui di una massa di dati suscettibili di essere variamente interpretati, che non costituiscono perciò un'evidenza stringente, conclusiva, a favore della tesi che stiamo esaminando. Si parte dal presupposto che in queste condizioni di osservazione - resa difficile o dalla drastica contrazione dei tempi di elaborazione, o perché condotta ai limiti della sensibilità al contrasto o del potere di risoluzione - avrebbero maggiore libertà di manifestarsi le forze di organizzazione del sistema visivo, offrendoci così la possibilità di individuare i principi del suo funzionamento. In realtà, l'unico dato sicuro è che in queste condizioni non si vede bene, i soggetti sono incerti sulla propria esperienza, la percezione ha un carattere fuggevole, fluttuante, vago, impreciso. Di più, molto spesso il compito che viene loro posto è quello di cercare di riprodurre con un disegno ciò che hanno visto (meglio sarebbe dire «intravisto»). Leggendo i protocolli sperimentali, è difficile sottrarsi all'impressione che le risposte verbali e grafiche dei soggetti: più che rapporti su effettive esperienze visive, vadano pIÙ correttamente considerati come scelte o decisioni cognitive. In altre parole, si tratterebbe di interpretazione di in': dizi (cues): di fronte a ciò che riescono ad afferrare in modo soltanto approssimativo e parziale in quelle sfavorevoli condizioni di presentazione, i soggetti decidono per ciò che sembra loro più logico, più probabile, più sensato. Detto anc~ra. diver~a~ente: ~iù che una prestazione visiva, ai soggettI VIene nchiesto dI eseguire un compito di problem-solving. C'è ancora da osservare che nel caso della riproduzione grafica si tratta di un compito che si riferisce non tanto ad una percezione attuale, ma piuttosto a una traccia mnestica, anche se molto recente 15.
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Del resto, che dubbi si possano avanzare a proposito di questi espe-
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Ora, come abbiamo già detto parlando delle ricerche della Rosch e di Goldmeier, è certo che esistono forti tendenze alla singolarità per quanto riguarda la codificazione e l'interpretazione dei dati visivi, e le trasformazioni che subiscono le loro tracce, ma ciò che qui si discute è se queste tendenze siano attive già a livello del costituirsi dell' oggetto visivo, a livello del processo precategoriale o primario. Se di fronte alle figure di fig. 4.5 otteniamo le risposte «cerchio», «triangolo», «quadrato», possiamo considerare ciò come una prova dell'esistenza di «concetti visivi» o di «figure di riferimento» che fungono da «norme» in rapporto alle quali vengono classificati e identificati gli oggetti visivi [Metzger 1963; Arnheim 1969; Goldmeier 1982]. Ma questo non significa affatto che questi ultimi subiscono come tali (e cioè sul piano visivo) una qualche modificazione in direzione di quelle norme. Visivamente il cerchio continua ad essere interrotto, la base minore del trapezio ndn diventa una punta, il quadrangolo irregolare non perde la sua irregolarità. Abbiamo cioè una assimilazione categoriale senza una corrispondente assimilazione percettiva. rimenti (in cui, ripetiamo, la caratteristica fondamentale è data dal fatto che il soggetto non vede bene) viene confermato da una recente analisi proprio di un microgenetista [Draguns 1983]. Tra le possibili fonti «cognitive» della microgenesi, egli individua l'«ottimismo strutturale» o «concettuale»: in condizioni di incertezza si tenderebbe di regola ad interpretare percezioni non chiare nella direzione della maggiore chiarezza. Appare cioè preferibile, di fronte a un percetto vago, indefinito, labile, correre il rischio di sbagliare interpretandolo come un oggetto chiaro, definito, conosciuto, piuttosto che come un oggetto mal strutturato, ignoto. Altre due fonti sarebbero: la «disponibilità» e la «rappresentatività», due euristiche proposte da Tversky e Kahneman [1973; 1974]. La disponibilità è la facilità con cui gli oggetti vengono alla mente. In termini microgenetici, lo stimolo nelle primissime fasi viene visto in modo parziale e vago, e se in queste fasi richiama alla memoria un testo «disponibile», ne deriva facilmente !'inferenza che lo stimolo visto in modo tanto impreciso sia proprio quell'oggetto. La rapprestlntatività è invece la capacità di un oggetto di esemplificare le caratteristiche fondamentali di una determinata categoria di eventi. Secondo Draguns, avremmo la tendenza a rappresentarci tali oggetti, il che, «tradotto in termini percettivi, è prossimo al processo di schematizzazione ... attraverso cui quel che viene percepito microgeneticamente viene trasformato in gestalten più semplici, più regolari, più buone» [Draguns 1983, 9].
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D FIG.
4.5. Concetti visivi. Il cerchio interrotto, il triangolo monco, il quadrato deformato non si regolarizzano visivamente. L'assimilazione categoriale non è accompagnata da un'assimilazione percettiva alla figura di riferimento.
Si tratta di decidere se, in condizioni di presentazione tachistoscopica o cOmunque di labilità della stimolazione, l'assimilazione categoriale diventi anche una assimilazione visiva, come vorrebbe l'ipotesi della tendenza alla singolarità. Non ci sembra che gli esperimenti citati diano questa dimostrazione, a meno che non si scambi la prima forma di assimilazione con la seconda, ritenendo irrilevante fare questa distinzione. Ed in effetti una distinzione del genere non ha troppa importanza se si opera con un concetto di «percezione» che include anche il momento della categorizzazione dell'oggetto visivo, ma essa diventa essenziale se ci si occupa del costituirsi dell'oggetto stesso, e cioè del processo primario di segmentazione precategoriale. Ed è una distinzione che non sembra preoccupare Wertheimer, se in una stessa pagina [1923, 318] può dire: Se si presenta tachistoscopicamente un angolo, anche quando il suo scarto dall'angolo retto è rilevante, spesso l'osservatore semplicemente vede un angolo retto, assimilando l'angolo mostrato a quello pregnante ...
e poco dopo continuare: . Spe,~so pres~ntand.o config~razioni prossime a quella pregnante SI ha l ImpressIOne di percepire quest'ultima, ma «non completamente esatta», «brutta», «un poco distorta», «sbagliata», senza tuttavia poter dire da che parte stia lo sbaglio ...
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Evidentemente, mentre per noi chiamare «cerchio» un cerchio interrotto non equivale a vedere un cerchio intero al posto di un cerchio interrotto - tra le due cose non sembra esserci per Wertheimer e per i gestaltisti in generale una vera contraddizione. E la ragione si comprende facilmente. Dopo aver aspramente combattuto la distinzione degli strutturalisti tra sensazione e percezione, essi diffidano di ogni distinzione che possa ricordare quella dicotomia da loro tanto avversata 16. Essi ritenevano inoltre che alla base di tutti i fenomeni di organizzazione siano operanti i medesimi principì. Da qui il loro rifiuto di ammettere che le diverse fasi del processo cognitivo possano essere governate da leggi diverse. Solo così si può spiegare come una assimilazione categoriale venisse considerata alla stessa stregua di una assimilazione visiva e si può comprendere come i risultati degli esperimenti microgenetici possano essere stati assunti come dimostrazione della postulata tendenza al risultato singolare anche nella fase della segmentazione precategoriale del campo visivo. Una mancata distinzione che ha generato non poche difficoltà e incomprensioni.
5.2. Ricerche in condizioni normali di visione Oltre alle «prove» ottenute in ricerche con stimolazione impoverita, esiste tutta una serie di argomentazioni basate su ricerche con stimolazione stabile e con effetti chiaramen16 Ma sono due cose completamente diverse: la dicotomia sensazionepercezione implica atomismo, ordine impartito dall'esterno, arbitrarietà. Essa è stata giustamente rifiutata dai gestaltisti, perché le sensazioni non hanno realtà fenomenica, non sono quindi i dati primitivi che devono essere ordinati per dar luogo agli oggetti visivi della nostra esperienza. I dati primitivi sono proprio gli oggetti visivi già organizzati (cioè dotati di forma, colore, grandezza, tridimensionalità, qualità terziarie, ecc.) prodotti dal processo precategoriale di segmentazione dell'input sensoriale. La distinzione tra processo primario e processo secondario, tra segmentazione del campo e categorizzazione, tra vedere e pensare, è priva di quelle implicazioni, ed è una premessa necessaria per un loro studio efficace.
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te visibili. Per queste non è valida l'obiezione di fondo che abbiamo mosso alle prime: che cioè in condizioni di visione incerta i «miglioramenti» non avvengono sul piano visivo, ma, essendoci maggiore spazio per l'intervento di processi interpretativi, è all'interno di questi ultimi che avverrebbero i miglioramenti. Un certo numero di tali argomentazioni sono state già discusse altrove [Kanizsa 1975a], altre verranno esaminate qui.
"a) Tendenza alla singolarità nel raggruppamento figurale. Nella figura 4.6 i punti della configurazione a si raggruppano in modo da dar luogo a un cerchio e ad un esagono sovrapposti parzialmente, e non alle due figure di b egualmente possibili. Questo esempio risale a Sander (1928], ed è sempre stato utilizzato in appoggio all'ipotesi della tendenza alla pregnanza, nél senso di singolarità. I controesempi delle figure 4.7, 4.8 e 4.9 dimostrano che la singolarità delle due configurazioni risultanti fenomenicamente in figura 4.6a è, soltanto una conseguenza accessoria della «continuità di direzione», che agisce localmente e non in funzione della struttura dell'insieme. b) Trasparenza e superfici anomale. Sia per il costituirsi della trasparenza fenomenica che per il formarsi delle superfici anomale si è pensato a suo tempo che fosse importante la tendenza alla pregnanza, in quanto in ambedue i casi il risultato fenomenico sembrava dimostrare un guadagno in termini di semplicità e singolarità [Kanizsa 1955a; 1955b; Metelli 1967; Metzger 1963; 1975]. Una falsificazione della tesi è rappresentata per entrambi i casi dalla figura 4.10, nella quale si ha la formazione di una figura anomala, trasparente ma non «singolare».
c) L'articolazione figura-sfondo come funzione della tendenza alla singolarità. Koffka [1935] cita i risultati delle ricerche di Bahnsen [1928] per avvalorare l'ipotesi dell'intervento della tendenza alla singolarità nell'articolazione figurasfondo (figura 4.11). Una controdimostrazione è però forni123
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FIG. 4.6. Una classica dimostrazione della tendenza alla segmentazione migliore. In a si vedono un cerchio ed un esagono, e non le figure <
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FIG. 4.10. Formazione di superfici anomale e comparsa della trasparenza non sono in funzione di un «miglioramento figurale». Né le figure viste parzialmente per trasparenza, né la superficie anomala trasparente hanno una qualche forma di singolarità.
FIG. 4.7. e FIG. 4.8. In questo caso il raggruppamento non privilegia le figure simmetriche. La buona continuazione locale prevale sulla singolarità globale.
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FIG. 4.9. Qui la segmentazione dà luogo a configurazioni senza coerenza interna: un cerchio con una parte appuntita e un poligono con un lato tondeggiante. Sarebbero peraltro possibili due figure coerenti. FIG. 4.11. Diventano di preferenza «figure» le colonne simmetriche [Bahnsen 1928).
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FIG.
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-+.1-+. Il completamento amodale non avviene in funzione del «miglioramento figurale». In b. dietro al quadrato antistante si vede prevalentemente un quadrato mutilato e non un esagono regolare. e in c il completamento amodale non dà luogo alla figura simmetrica accennata in d.
fi precedenti dimostrano che tale dipendenza non è necessaria. FIG. 4.12. Tendono ad assumere il ruolo di figura le regioni con margini convessi e non quelle simmetriche e perciò più singolari.
FIG. 4.13. In questa situazione è ancora più evidente il prevalere del fattore della convessità su quello della simmetria.[Kanizsa 1975a].
ta dalle figure 4.12 e 4.13, nelle quali diventano prevalentemente «figura» le zone con margini convessi pipttosto che le zone simmetriche, che quando si realizzano sono fenomenicamente più singolari. La simmetria è una delle basi strutturali del vissuto di singolarità, ed è stata spesso ritenuta, da Mach in poi, come la sua caratteristica costitutiva. Tutti gli esempi dei paragra126
d) La tendenza alla singolarità nel completamento amodale. Le situazioni di completamento amodale rappresentano dei «rivelatori» ideali dei principi che governano l'organizzazione percettiva a livello del processo primario. Infatti, non sempre il completamento amodale segue la logica delle integrazioni ed interpretazioni cognitive; perciò queste situazioni, offrendoci la possibilità di separare gli effetti dovuti ai due tipi di processo, ci permettono di farci un'idea delle leggi alle quali essi obbediscono. Si osservi la figura 4.14. Il fatto che a veng';1 visto in genere come un quadrato dietro ad un altro quadrato può essere considerato una prova che il completamento avviene in modo da soddisfare una tendenza alla singolarità. Che però la «bontà» della figura completata sia in questo caso soltanto un sottoprodotto occasionale dell'azione di altri fattori è dimostrato ad esempio da b, in cui per la maggior parte degli osservatori la figura che sta dietro è un quadrato mutilato e non un esagono regolare. E così è veramente difficile che il pattern c si completi come è indicato dalla linea tratteggiata in d. Eppure quest'ultimo completamento, che renderebbe regolare la figura, e sarebbe consentito dalle condizioni di stimolazione, è una soluzione che può essere solo immaginata, e come tale rimane priva del carattere fenomenico dell' «incontrato».
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Si può sostenere che in realtà anche in questi ultimi esempi il completamento amodale realizza una soluzione «buona» in quanto le linee si completano rispettando la loro legge di costruzione. Ma come già abbiamo fatto notare a proposito del completamento modale nella macula cieca (figure 4.3 e 4.4), si tratta di miglioramenti locali che vanno a scapito della bontà della configurazione globale. Una constatazione che mal si accorda con uno dei principali postulati della teoria gestaltista [Wertheimer 1923, 349]. e) La tridimensionalità apparente di figure piane come effetto della tendenza alla singolarità. Un'altra «prova» dell'azione di una tendenza alla massima regolarità sarebbe data dal modo in cui vengono percepite le proiezioni su un piano di oggetti tridimensionali. È una situazione studiata dalla Kopfermann [1930] e impiegata da Hochberg e Brooks [1961] per ottenere una misura oggettiva della semplicità e bontà di una forma. La figura 4.15a viene vista prevalentemente come piana, mentre b sembra una tenda trasparente. E così la figura 4.17a è un cubo trasparente, o di filo di ferro, mentre b appare prevalentemente come una figura confinata nel piano. La spiegazione che viene abitualmente data è che in entrambi i casi le figure che appaiono giacere nel piano hanno già una forma regolare e «buona», mentre le altre «migliorano» molto mediante la tridimensionalità apparente; gli angoli diventano retti, e le figure irregolari giacenti nel piano vengono sostituite da rettangoli e quadrati disposti nella terza dimensione. Le figure 4.16 e 4.18 sono due controesempi di questo assunto. Ancora una volta il fattore decisivo sembra essere la continuità di direzione a livello locale, e non già la singolarità della configurazione globale.
f) La fusione binoculare. A questa serie di controfatti possiamo aggiungerne alcuni altri, tratti dal campo della fusione binoculare di immagini presentate separatamente ai due occhi, che mal si accordano con l'ipotesi di una tendenza al risultato singolare. L'esperimento di Erke e Crabus [1968], illustrato nella figura 4.19, non parla certo in favore 128
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4.15. Le figure di Kopfermann come prova della tendenza alla singolarità. In b. mediante la tridimensionalità apparente. gli angoli acuti ed ottusi diventano retti e le superfici che sono irregolari se viste nel piano si trasformano in rettangoli [Kopfermann 1930].
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FIG. 4.16. Controprova della figura 4.15. Non è la tendenza aIrortogonalità a produrre la tridimensionalità fenomenica.
a FIG.
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4.17. Il pattern a. quando è visto come un cubo acquista una singolarità che manca nella versione piana. mentre il pattern b. che è già regolare nel piano. difficilmente è visto come tridimensionale.
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FIG. 4.IH. Falsificazione della dimostrazione precedente. a è visto come tridimensionale pur senza diventare più singolare. e b. pur essendo irregolare. rimane confinato nel piano.
FIG. 4.20. Mediante un'opportuna convergenza degli assi oculari si ottiene la perfetta sovrapposizione dei due anelli, ma la fusione delle due immagini non elimina la lacuna dell'anello di destra, che non viene riempita dal nero dell'anello continuo [Ki:inig 1962].
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FIG. 4.19. Se all'occhio destro viene presentato il gruppo «incompleto». e all'occhio sinistro il punto singolo. quest'ultimo non mostra alcuna tendenza ad occupare il posto «giusto» [Erke e Crabus 1968].
di una simile tendenza, ed ancor più significative in questo senso sono le ricerche di Kanig [1962] (figure 4.20, 4.21 e 4.22).
g) I fenomeni stereo cinetici e il movimento. Secondo Musatti [1924; 1937], l'esistenza di una tendenza alla pregnanza capace di indurre modificazioni reali nel mondo fenomenico sarebbe dimostrata dal modo in cui si realizzano gli effetti stereocinetici. Se si fa motare lentamente un disco nero alla cui periferia è disegnato in bianco un cerchio all'interno del quale si trova un punto in posizione eccentrica (figura 4.23), normalmente, dopo un breve periodo di os130
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FIG. 4.21. La sovrapposizione delle due semiimmagini potrebbe dar luogo ad un anello ininterrotto. Un risultato che non è possibile ottenere: si vedono soltanto frammenti ed interruzioni. Prevale, come nel caso della figura 4.20, la rivalità binoculare [Ki:inig 1962].
servazione, si assiste all'insorgere del fenomeno stereocinetico. In un primo tempo il cerc9io gira intorno al centro del disco, mantenendosi stabilmente orientato: esso, cioè, non volge sempre la stessa parte v4rso il centro del disco, come avviene in realtà, ma verso un~ determinata direzione assoluta dello spazio, ad esempio vhso l'alto. Come conseguenza, si vede il punto girare all'interno del cerchio: esso appare cioè del tutto scollegato dal cerchio, e in movimento relativo rispetto ad esso. Ben presto si produce la trasformazione stereocinetica: il punto si sposta dal piano del disco e 131
a
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FIG. 4.22. Dei tre cerchi concentrici di a, ad un occhio viene presentato il cerchio di mezzo, all'altro il cerchio interno e quello esterno. Risultato: i tre cerchi non danno luogo alla «buona gestalt» di a. C'è invece una tendenza alla fusione tra linee: il cerchio di mezzo tende a fondersi con quello interno o con quello esterno, ma, data la differenza di grandezza, ciò non riesce e si realizzano soltanto soluzioni parziali irregolari e instabili (ad esempio, b o c). L'unica soluzione «singolare» possibile (a) non si verifica mai. Al suo posto si danno soltanto soluzioni «cattive» [Ki:inig 1962].
si porta in avanti, verso l'osservatore, oppure indietro, via da esso. Esso diventa allora solidale con il cerchio, ed appare, nel primo caso, come il vertice di un piccolo cono di cui il cerchio costituisce la base. Si vede questo cono, col verti-
FIG. 4.23. Il disco nero ruota lentamente sul proprio centro. Il cerchio bianco in un primo tempo gira intorno al centro del disco mantenendosi stabilmente orientato, e di conseguenza il punto bianco gira all'interno del disco. Dopo la trasformazione stereocinetica il punto si stacca dal piano e diventa solidale con il cerchio, apparendo come il vertice di un cono che si libra nello spazio e compie una rivoluzione attorno al centro del disco [Musatti 1924].
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ce rivolto verso chi guarda e con l'asse leggermente inclinato, librarsi nello spazio ed effettuare, oscillando lievemente, la sua rivoluzione attorno al centro del disco. Nel secondo caso si ha l'impressione di un cono veduto dalla parte della base, una specie di imbuto che compie movimenti analoghi a quelli del cono. In ambedue i casi lo spostamento del punto nello spazio tridimensionale ha come conseguenza la scomparsa del movimento relativo: punto e cerchio vengono _ a far parte di un unico corpo solido. Se sul disco ruotante è disegnata un'ellisse con il proprio centro coincidente con il centro di rotazione (figura 4.24), le fasi che precedono la stereocinesi sono diverse. Dopo una prima fase, durante la quale l'ellisse ruota intorno al centro in conformità al suo moto reale, si produce una prima trasformazione: la rotazione cessa, e l'ellisse si trasforma in un anello elastico che si deforma in continuazione, pur mantenendosi stabilmente orientato. A questo punto si produce in genere la trasformazione stereocinetica: la figura si stacca dal piano del disco e sembra librarsi nello spazio, cessa dall'apparire in continua trasformazione e diventa un dischetto rigido che, imperniato sul proprio centro, oscilla in modo da presentare sempre la stessa parte obliqua all'osservatore. Secondo Musatti, la trasformazione stereocinetica sarebbe la conseguenza di una scomposizione cinematica del movimento reale, attraverso la quale si realizza la più semplice ed economica organizzazione cinetica finale. Poiché ad essa si accompagna la formazione di corpi tridimensionali appa~enti regolari e simmetrici (cono, tronco di cono, disco), Musatti conclude che la scomposizione cinematica che l'occhio applica al movimento reale è in funzione di un miglioramento formale, è una manifestazione di una generale tendenza alla singolarità da cui è dominato il sistema visivo. A ben vedere, la coincidenza tra massima semplicità della soluzione cinetica e «singolarità» degli oggetti visivi risultanti sembra legata alle condizioni particolari dell'esperimento di Musatti, in cui il fenomeno stereocinetico si realiz-
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FIG. 4.24. Sul disco ruotante è disegnata un'ellisse con il proprio centro coincidente con il centro di rotazione. In una prima fase l'ellisse non ruota ma diventa un anello elastico che si deforma in continuazione pur mantenendosi stabilmente orientato. A questo punto si produce in genere la trasformazione stereocinetica: la figura cessa dall'apparire in deformazione e diventa un dischetto rigido che, imperniato sul proprio centro, si libra oscillando nello spazio. [Musatti 1924].
za con il movimento rotatorio di figure piane. In questa situazione, soltanto nel caso del cerchio e dell'ellisse la scomposizione cinematica può dar luogo alla stabilità di orientazione e quindi ai movimenti relativi o di deformazione che sarebbero le premesse necessarie della stereocinesi e del miglioramento formale che con essa si realizza. Infatti non si ottiene questo esito con figure non curvilinee, per esempio un quadrato con all'interno un punto posto in rotazione non si trasforma mai in una piramide tridimensionale. È facile dimostrare che, se si toglie la condizione del moto rotatorio, si possono separare i due effetti della semplificazione cinetica e della «singolarità» del dato fenomenico. Effetti stereo cinetici di grande evidenza si ottengono con il dispositivo di Metzger [1934] e di Wallache O'Connell [1953] per mezzo del quale si fanno muovere nel piano con moto armonico punti o segmenti rettilinei o le proiezioni di solidi ruotanti. La tridimensionalità apparente che si impone coercitivamente in queste situazioni rappresenta certamente una semplificazione in quanto assicura la costanza delle distanze tra le parti di un corpo rigido, ma non I
134
FIG.
4.15. Se si proietta su uno schermo traslucido l'ombra di un groviglio disordinato di fil di ferro, essa appare del tutto confmata nel piano. Se il groviglio si mette in rotazione, o?ni punto dell'ombra si sposta con moto armonico da destra a SInistra e. viceversa. L'effetto fenomenico è coercitivamente la rotazione di un corpo rigido. La soluzione tridimensionale può essere considerata una forma di «miglioramento» in quanto assicura la costanza dell'oggetto. Ma costanza è' sinonimo di stabilità, non di singolarità [Metzger 1975].
assicura nec~ssaria~ente. la p~e.gnan~a intesa com.e singo~a rità fenomemca del CorpI che SI reahzzano. InfattI la prOIezione di un ammasso disordin~to di elementi o di un groviglio di filo di ferro del tutto irregolare in moto rotatorio assumono, per effetto della trasformazione stereocinetica, tridimensionalità e quindi stabilità e costanza dei rapporti interni, ma non certamente singolarità fenomenica (figura 4.25). . Altrettanto si può dire delle leggi che sembrano presie. dere alla percezione dei movimenti reali. La scomposizione vettori aIe dei movimenti, come definita da Johannson [1950; 1974a; 1974b], è al servizio della semplificazi~ne dei movimenti, non della singolarità della forma. Il mOVImento in profondità di corpi rigidi o semirigidi è un mezzo con cui il sistema visivo raggiunge un massimo di stabilità, costanza ed economia (tra tutti i movimenti possibili, è quello che avviene per la via più breve ed è il più lento). Quando, come nel caso dei fenomeni stereocinetici di Musatti i due 135
effetti coincidono, ciò è per puro caso, poiché si possono ottenere per «stereocinesi» movimenti stabili di oggetti rigidi del tutto irregolari, e tutt'altro che singolari. A meno che non si voglia identificare semplicità ed economia con «singolarità», e pertanto la tendenza alla prima con una tendenza alla seconda. A conferma di quanto detto riportiamo anche alcuni risultati di un esperimento che abbiamo appena concluso e che devono ancora essere pubblicati. Il problema che con tale esperimento ci eravamo posti riguardava la possibilità di individuare percettivamente le traiettorie di punti in moto lungo percorsi «singolari». A tale scopo sono stati fatti muovere su uno schermo dei punti lungo traiettorie circolari parzialmente intersecantesi 17 (cfr. figura 4.26).
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FIG.4.26. I tre gruppi di sei punti seguono le traiettorie circolari indicate dalle linee tratteggiate. Nonostante la loro «singolarità», non è possibile vedere tali percorsi.
17 L'esperimento è stato realizzato sullo schermo standard di un PET 2001 Commodore. II diametro delle traiettorie circolari era di 4 cm, e ogni punto era di un pixel. Quando per ognuna delle traiettorie circolari vi era più di un punto, questi erano equidistanti tra di loro. La traiettoria veniva compiuta da ogni punto in 5/6 di secondo.
136
Ci limitiamo qui a discutere il risultato relativo alla presenza di collettività di punti su tre traiettorie. Se vi è un solo punto per ogni traiettoria, queste sono assolutamente invisibili, e l'impressione che si riceve è quella di un triangolo elastico in rotazione e torsione nello spazio. Aumentando il numero dei punti, da due a sei, le traiet~ torie continuano a rimanere invisibili. Nella zona in cui le tre traiettorie circolari si sovrappongono si costituiscono raggruppamenti di punti, in continuo mutamento, che si formano e si disgregano, con uò'impressione collettiva di grande disordine, di spostamento su piani tridimensionalmente diversi, sempre mutevoli. Solo nelle zone più «esterne» delle traiettorie si riesce a seguire per qualche tratto il moto circolare, ma non appena i punti si approssimano alle zone di intersezione vengono come «attratti» da questo moto caotico. È solo con più di sei punti per traiettoria che l'osservatore riesce a vedere i moti circolari. In questo caso. evidentemente, prevale il fattore della vicinanza lungo la traiettoria, che riesce a far «chiudere» la configurazione circolare. Si badi che l'osservatore è perfettamente consapevole del fatto che si tratta di tre traiettorie distinte: il suo compito, anzi, è proprio quello di riuscire ad individuarle. L'impressione fenomenica è però coercitiva, e la conoscenza dell'esistenza delle traiettorie circolari non aiuta assolutamente a rintracciarle. In questo caso, quindi, non solo non vi è alcuna tendenza alla percezione di una configurazione singolare (la traiettoria circolare) che pure esiste nelle condizioni di stimolazione, ma il risultato è addirittura un'impressione di disordine. h) L'evidenza basata sulle illusioni ottico-geometriche. Rimane da esaminare ancora una linea di argomentazione a favore dell'esistenza di una tendenza alla singolarità, che si fonda sull'analisi di alcune cosiddette illusioni ottico-geometriche. La tesi è stata avanzata da vari autori in ambito gestaltista, ed è stata più ampiamente sviluppata e vigorosamente sostenuta da Rausch [1952; 1966]. Egli ha dimostrato 137
con accuratIssIme ricerche sperimentali che un parallelogramma fenomenico non corrisponde mai esattamente al parallelogramma presentato distalmente, ma che si verificano in modo sistematico scostamenti dei valori di alcuni suoi parametri dai corrispondenti valori della figura presentata (in particolare: ampiezza degli angoli, lunghezza delle diagonali, altezza e larghezza della figura). La sua proposta esplicativa per tale costante non-corrispondenza è la seguente: un parallelogramma è, secondo il suo modello dei gradi di pregnanza, una figura derivata da una figura di riferimento (Leitfigur) , che in questo caso è il rettangolo. Ora, il fenomeno che si osserva costantemente in tutti i parallelogrammi è un raddrizzamento (Entzerrung), una diminuzione delle differenze che sussistono tra la figura presentata e un rettangolo: il parallelogramma fenomenico tende ad avvicinarsi al rettangolo. Poiché la figura di riferimento (il rettangolo) è una gestalt buona o singolare in una serie di figure simili meno pregnanti che da lei derivano, questa tendenza al raddrizzamento andrebbe vista come una tendenza alla singolarità. Ciò che «migliora» è, secondo Rausch, la configurazione globale, quindi le deformazioni che subiscono le dimensioni parziali (altezza, diagonali) sono una conseguenza di quella tendenza che riguarda la figura complessiva. Ciò sarebbe illustrato in modo convincente dalla illusione di Sander (figura 4.27) nella quale la differente lunghezza fenomenica delle diagonali dei due parallelogrammi sarebbe una conseguenza del raddrizzamento o rettangolarizzazione degli stessi. Del resto, la tendenza di un parallelogramma alla rettangolarità è, secondo Rausch, solo un caso speciale di una più generale tendenza alla ortogonalità (due linee o direzioni che si incontrano tenderebbero sempre ad apparire più simili ad un angolo retto di quanto in realtà non siano). Egli ritiene che con la tendenza alla ortogonalità trovino spiegazione numerose illusioni ottico-geometriche classiche, come l'illusione di Z611ner, quella di Hering, quella di Poggendorff (figure 4.28, 4.29 e 4.30), mentre una tendenza al138
a
b FIG. 4.27. L'illusione di Sander. I due lati del triangolo is~sc~le a, quando diventano le diagonali dei due parallelogramml dI b non sono più di eguale lunghezza. Secondo Rausch, ciò sarebbe ~na c~n seguenza della tendenza dei parallelogrammi a «raddnzzarsl», cioè ad avvicinarsi alla forma rettangolare.
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FIG. 4.28. L'illusione di Zbllner. Perdita del parallelismo come conseguenza della tendenza all'ortogonalità.
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la rettilinearità, cioè sempre ad una tendenza in direzione di una forma più singolare, potrebbe essere ricondotta l'illusione di Lipps (figura 4.31). Pur riconoscendo un'indubbia forza di persuasione al ragionamento di Rausch, esso suscita alcune non lievi perplessità. In sostanza, nel caso della tendenza alla ortogonalità, avverrebbe che una forza destinata a ridurre lo scostamento di un angolo rispetto all'angolo retto provoca nel contempo l'eliminazione di una regolarità esistente nello stimolo: la collinearità nella Poggendorff, il parallelismo nella Z611ner e nella Hering, l'eguaglianza dei segmenti nella Sander e nella Mueller-Lyer. Nel caso dell'illusione di Sander si può sostenere, come fa Rausch, che la spinta alla pregnanza riguarda la figura nella sua globalità (il parallelogramma tende al rettangolo) mentre le deformazioni conseguenti interessano aspetti parziali di quella figura. Che dire allora della figura 4.32, dove la suppos~a rettificazione di alcuni angoli non retti conduce alla deformazione di altri angoli effettivamente retti? E inoltre provoca la trasformazione fenomenica di una Leitfigur (il rettangolo) in una forma certamente «derivata» da quella (il trapezio)? Tanto più che deformazioni simili si producono anche quando gli angoli nella presentazione sono tutti retti, e quindi non si può invocare per spiegarle una tendenza alla ortogonalità, dato che non c'è nulla da rettificare (figura 4.33). La perplessità più grave è prodotta dalla seguente considerazione. Ricordiamo che la «bontà» o «singolarità» è una proprietà fenomenica e quindi ha senso parlare di una tensione in quella direzione soltanto se il suo effetto è constatabile nell'ambito fenomenico. Ora, nelle situazioni esaminate il risultato netto di questa supposta tendenza al miglioramento è solo una deformazione, in quanto la ortogonalizzazione non ha realtà fenomenica, non compare come tale nell'esperienza visiva. Conclusione paradossale, ma inevitàbile: l'unico effetto constatabile di una forza che spinge verso un miglioramento è un peggioramento. Ma soprattutto vien fatto di chiedersi come mai la te n140
FIG.
4.29. L'illusione di Hering. Anche in questo caso l'incurvatura ?elle due parallele sarebbe una conseguenza della tendenza degh angoli verso l'angolo retto.
FIG.
4.30. L'illusione di Poggendorff. Ancora un presunto effetto sec~nda rio della ortogonalizzazione degli angoli: perdita della colhnearità.
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FIG. 4.31. L'illusione di Lipps. Le parti centrali delle cinque spezzate sono parallele. La seconda e la quarta appaiono però meno oblique delle altre tre. Sarebbe, secondo Metzger. una conseguenza della tendenza delle spezzate verso la linea diritta.
FIG. 4.32. Il rettangolo (figura «singolare») diventa fenomenicamente un trapezio (figura «derivata» dalla prima). Gli angoli effettivamente retti del rettangolo si deformano come conseguenza della tendenza all'ortogonalità degli angoli non retti. Il primo effetto si vede. il secondo non ha realtà fenomenica.
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FIG. -L13. La deformazione dell'esagono non può essere lIna conseguenza della tendenza all'ortogonalità. dato che gli angoli sono tutti retti [Gerbino 197K].
denza alla ortogonalità, nel caso delle illusioni, agisca per angoli ben lontani da una zona di pregnanza con tanta forza da causare come conseguenza collaterale deformazioni chiaramente constatabili, e non riesca a produrre la minima modificazione fenomenica all'interno di una zona di pregnanza nel caso di scostamenti anche minimi dalla struttura corrispondente alla forma «singolare». Infatti nelle zone di pregnanza, cioè nelle immediate vicinanze di una forma singolare, non avviene alcuna assimilazione fenomenica a quella forma; al contrario, si riscontra un aumento della sensibilità al mutamento o, detto altrimenti, un abbassamento della soglia di discriminazione per gli scostamenti dalla forma singolare. Come abbiamo già detto, l'assimilazione in questi casi è soltanto categoriale. i) Ordinamento e giudizio di bontà. Spesso si trovano citati, come prova dell'ipotesi, risultati di esperimenti che
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non riguardano il processo di formazione degli oggetti visivi, ma sono chiaramente ricerche sulle preferenze dei soggetti per configurazioni ordinate e regolari. Questo vale anzitutto per quelle ricerche nelle quali il soggetto deve ordinare o disporre un certo materiale [Meili 1926], o deve giudicare il grado di bontà di determinate configurazioni [Garner e Clement 1963; Prinz 1966; Palmer 1978; Ruppe 1984] o deve decidere a quale di due configurazioni «appartiene» un pezzo che in teoria potrebbe combaciare sia con l'una che con l'altra [Wehrenfennig 1968] (figura 4.34). Ed ancora l'osservazione può valere per le numerose ricerche nelle quali si chiede al soggetto di aggiungere (o levare) uno o più elementi ad una configurazione [Bear 1973] (figura 4.35). Da queste ricerche risulta in genere che le aggiunte (o le sottrazioni) si accordano con le valutazioni (ottenute indipendentemente) sulla «bontà» delle configurazioni risultanti. Ma in tutti questi casi sono evidentemente in gioco processi di categorizzazione più che principì di organizzazione percettiva precategoriale. Le configurazioni che vengono «migliorate» dall'inter-
• • • • FIG.
• • • •
• •••
4.35. Dove va il quinto punto? Il risultato conferma la spiccata preferenza dei soggetti per pattern ordinati e regolari [Bear 1973].
vento del soggetto hanno la stessa caratteristica degli elementi che si trovano nella zona di approssimazione ad un punto di singolarità: sono «quasi singolari», ?anno .«qualc~ sa in più» o «in meno» per esserlo, sono msoddisfacentl. Ma questo non basta a modificarle ~ercetti:amente: anche se in questi casi si fa sentire una spmta ~ I~terve~lfe mediante manipolazioni, aggitinte~ spostamentl, ntocchI. Queste «richieste» che prqvengono dalle situazioni no~ perfettamente singolari (la loro «esigenzialità»), che confe:Iscono loro quel carattere dinamico in cui secondo Arnh~Im risiede una parte non piccola della loro valenza. estetlca, sembrano a molti autori [Metzger 1975; Arnhelm 1969; Rausch 1952] una prova indiretta ma convinc~nte, u~ ,sintomo sicuro della tendenza o spinta verso la smgolanta. Un problema che va meditato alla luce del fatto. che t.ale. tendenza rimane sempre tale, non ha altre mamfestazlOm che questa inquietudine o senso soggettivo d~ tensione,. non ha mai una conseguenza sul piano della realta fenomemca.
6. Considerazioni conclusive
FIG. 4.34. Se si chiede a quale delle due figure «appartiene» il quadrato centrale, la maggioranza dei soggetti lo assegna alla figura di sinistra «
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In questo lavoro ci siamo occupati di ?ue for~e. di ambiguità legate al concetto di pregnanza COSI cOI~e e mte~o ed usato nella tradizione gestaltista e non. Abbiamo anZItutto posto in rilievo che il termine pregnanza è us.ato per indicare due cose tra loro molto diverse: un dato dI fatto fenomenico da una parte, e la caratteristica ipotetica di un proces145
so dall'altra. In Wertheimer, ed ancor più negli altri autori gestaltisti, si può constatare una continua oscillazione tra l'uso del termine pregnanza come «singolarità» (una qualità peculiare che possono avere alcune configurazioni fenomeniche) e pregnanza come semplicità ed economia del processo primario di segmentazione visiva (inteso come auto distribuzione dinamica di forze tendenti a raggiungere una condizione finale di massimo equilibrio e stabilità). In quest'ultima accezione, il termine «pregnanza» è più ? meno sinonimo di «organizzazione»; vuole cioè esprimere tI fatto che la formazione degli oggetti visivi non è un evento casuale o arbitrario, ma è un processo che segue un decorso regolato da principi, piani o «programmi», che è pos. sibile scoprire e precisare. Ma in tal caso ogni risultato percettivo fortemente stabile sarebbe per ciò stesso anche massimamente pregnante, mentre sarebbero prive di pregnanza soltanto le situazioni percettive instabili, vaghe, fluttuanti, ambigue, facilmente reversibili. Caratteristiche quest'ultime poco comuni, che si creano per lo più ad arte in laboratorio, mentre il mondo percettivo di ogni giorno è altamente stabile, non ambiguo, scarsamente reversibile. Ma poiché stabilità e singolarità, pur non escludendosi a vicenda, non sono affatto la stessa cosa (dato che si danno innumerevoli configurazioni assolutamente stabili, ma per ?ulla «singolari»), abbiamo concluso che è per lo meno mopportuno rischiare di scambiare i due fatti usando per ambedue lo stesso termine. . M.a ~o scopo prin.cipale della nostra indagine era quello dI chIanre quando SI può e quando non si può parlare di una «tendenza alla singolarità» nel processo percettivo. A questo proposito ricordiamo ancora una volta che la nostra discussione riguarda unicamente la fase della segmentazione precategoriale del campo visivo, non l'intero processo che a torto o a ragione viene chiamato «percezione». Le nostre argomentazioni hanno i senso se si accetta di disti ng~ere tra momento visivo e momento cognitivo della perceZIOne, tra processo primario precategoriale di formazione degli oggetti visivi, e processo secondario di identificazione 146
e codificazione degli oggetti stessi - in una parola, se si accetta la distinzione tra vedere e pensare. È chiaro che se non si ritiene decisivo l'argomento di Hoffding, i fatti da noi citati come controesempi non hanno più valore di falsificazione, e le nostre conclusioni perdono gran parte della loro forza persuasiva. Tenendo presente queste premesse, l'analisi che abbiamo compiuto ci consente di affermare che la maggior parte delle «prove» che tradizionalmente vengono portate a sostegno dell'ipotesi di una tendenza alla singolarità nella costituzione degli oggetti visivi non possono essere considerate sufficienti a suffragarla. Primo: i risultati ottenuti in condizioni di labilità della stimolazione sono inadatti a dirimere la questione, in quanto in tali condizioni non hanno, come comunemente si sostiene, maggiore libertà d'azione i principi di organizza~ione del processo primario, bensì i processi categoriali e mterpretativi secondari. Sono condizioni nelle quali l'incompletezza degli indizi favorisce l'assimilazione categoriale ad un . ,. . punto di pregnanza. Secondo: ma anche le «dimostraziom» dell eSIstenza dI una tendenza alla singolarità tratte da ricerche in condizioni di visione normali (nei fenomeni del raggruppamento, della trasparenza, delle superfici anomale, della tridimensionalità apparente, del completamento amodale, ecc.) si sono rivelate ad un esame più attento come casi speciali nei quali l'azione dei principi di organizzazione percettiva portano a volte ad un risultato che, oltre ad essere stabile, è anche singolare. Sono perciò dimostrazioni che solo in apparenza provano l'ipotesi, poiché per ogni situazione si possono trovare controesempi nei quali essa viene falsificata. Terzo: le «prove» basate sulle illusioni ottico-geometriche rappresentano un'evidenza contraddittoria e fortemente in contrasto con l'altro dato di fatto costituito dall'aumentata sensibilità, nelle zone di pregnanza, a deviazioni anche minime dalla configurazione «singolare». Quarto: un buon numero di «prove» sono tratte da esperimenti che non riguardano il formarsi degli oggetti visivi, 147
ma sono chiaramente ricerche sulle preferenze dei soggetti per configurazioni ordinate e regolari, oppure ricerche sulla memoria. In tutti questi casi sono evidentemente in gioco operazioni di categorizzazione, più che principi di organizzazione percettiva. Alla maggior parte dei nostri controesempi si può opporre (ed è stata opposta) la seguente obiezione: essi dimostrerebbero soltanto che non sempre la singolarità della configurazione globale prevale sulla singolarità a livello locale. Infatti si può dimostrare che in tutti gli esempi da noi citati il risultato a livello locale è, fra le tante possibili, la soluzione migliore (la congiunzione più breve, o quella kurvengerecht, ecc.). È un'obiezione che ha valore soltanto a patto di ignorare la distinzione (secondo noi fondamentale) tra pregnanza come singolarità e pregnanza come semplicità processuale. È ben vero che, per spiegare il risultato fenomenico delle situazioni da noi proposte come controfatti, si può sempre invocare l'intervento di un qualche principio di organizzazione (vicinanza, somiglianza, continuità di direzione, convessità, chiusura, ecc.) e sostenere che ciò dimostrerebbe che è all'opera una tendenza alla pregnanza. Ma allora, come abbiamo sostenuto fin dall'inizio, «pregnanza» vuoI dire appunto soltanto organizzazione conforme a leggi, raggiungimento del miglior equilibrio tra le forze attive in quel momento, e quindi massima stabilità possibile del risultato fenomenico nelle condizioni date.
CAPITOLO QUINTO
È MASCHERATO SOLO CIÒ CHE PUÒ ESSERE SMASCHERATO
1.' Paradosso o sofisma?
Per tentare di chiarire cosa intendo per «presenza percettiva» e in particolare la differenza tra tale tipo di presenza e una «presenza meramente pensata», ho fatto talvolta
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ricorso alla seguente argomentazione. Presento un cartone rettangolare simile ad A e chiedo di descrivermi quello che si vede. In genere la risposta è circa: «Vedo un rettangolo bianco con sopra un certo numero di figure nere». Faccio allora constatare che non c'è alcuna figura nera, ma soltanto dei buchi in un cartone bianco B sovrapposto ad un cartone nero C. Quando si separano i due cartoni, le figure nere non ci sono più. Si possono immaginare ma non vedere sulla superficie nera, che appare invece come perfettamente omogenea. Se qualcuno mi dice che vede le figure sul cartone nero, posso scegliere tra due alternative: considerarlo dotato di facoltà visive paranormali o decidere che una persona del genere quando dice «vedo» intende una cosa diversa da quella che intendo io con lo stesso termine. Ad ogni modo non la userei come soggetto in un esperimento in cui si tratti di compiere osservazioni fenomenologiche. A dir il vero non ho mai incontrato una persona così, e ciò mi conferma nella convinzione che tra «vedere» e «pensare» esiste una differenza sostanziale da tutti constatabile e che sarebbe assurdo ignorare, come qualcuno è tentato di fare, soltanto per ragioni teoretiche. A questo punto continuo dicendo che - poiché si può' immaginare di ripetere questa operazione quante volte si vuole con maschere fornite degli intagli più svariati - è lecito sostenere che nella superficie nera sono contenute in potenza tutte le figure piane teoricamente pensabili, come, se~ condo Michelangelo, in un blocco di marmo sono contenute in potenza tutte le statue pensabili. E concludo affermando che dall'esempio risulta chiaro che pensare tali figure non è sufficiente a farle vedere. Infatti il pensare non ha di norma effetti genuinamente percettivi: nel nostro caso non riesce a trasformare in presenza percettiva ciò che può essere agevolmente immaginato. Devo dire che ho sempre avuto l'impressione che questa mia argomentazione, per quanto convincente potesse sembrare a me stesso, in realtà non fosse altrettanto convincente per i miei interlocutori. E credo che sia questa la ragione per cui a Vicario, che deve aver assistito qualche volta alla 150
mia «dimostrazione», è venuto in mente di chiamarla un paradosso [Vicario 1982]. L'argomentazione diventa subito meno paradossale s~ al posto della superficie omogenea si impiega, come suggensce Vicario, una matrice di punti. Sovrapponendo ad una tale matrice il cartone forato B si ottengono configurazioni di punti simili alle figure nere di A. Anche queste configur~, zioni una volta allontanato il cartone forato, non sono pm visibili nella matrice. Ma è interessante notare che in questa situazione è più facile per la gente rendersi conto che tale invisibilità costituisce un problema. Sembra infatti naturale pensare che dovrebbe essere possibile con un po' di sforzo collegare visivamente i punti della matrice in modo da .realizzare qualsiasi tipo di raggruppamento. La constatazIone che invece ciò non è sempre possibile costringe l'osservatore a chiedersi il perché di questa impossibilità. Ma perché allora nel caso della superficie cromaticamen~ te omogenea il problema non viene capito e l'osservatore SI rifiuta di seguire il ragionamento? Una riflessione un po' attenta su ciò che caratterizza le due situazioni mi porta a concludere che i miei osservatori hanno sempre avuto ragione a non farsi convincere dalla mia «dimostrazione», per la quale non tanto di un paradosso si dovrebbe parlare quanto piuttosto di un sofisma. Poiché da una matrice di punti si può passare ad una superficie omogenea diminuendo gradualmente le distanze tra i punti, cioè aumentando la loro densità, verrebb~ da credere che tra le due situazioni sussista soltanto una dIfferenza nel grado di densità dei punti. In realtà un simile ragionamento nasconde una fallacia perché implica uno sl~tta mento dal piano fenomenologico al piano della geometna o della fisica. Una fallacia che è la conseguenza inavvertita di un uso linguistico impreciso, vago, della parola «punto». In un discorso fenomenologico, «punto» non può significare che «punto fenomenico», mentre i punti di una superficie omogenea sono «punti geometrici» ai quali non cornsponde necessariamente una esistenza fenomenica. La differenza tra una superficie omogenea e una matrice di punti non è 151
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dunque una semplice differenza quantitativa nel grado di densità o di compattezza, bensì una sostanziale differenza qualitativa. Infatti, mentre la matrice è costituita da «punti fenomenici» (cioè da elementi che possono assumere una esistenza autonoma), la superficie omogenea è fenomenicamente una superficie, non un insieme di elementi, punti o altro. A questo proposito Bozzi [1969] afferma che «se il quadrato non appare fatto di punti, esso non è fatto di punti». Ma se questo è vero, se cioè i punti, che nella superficie nera dovrebbero ipoteticamente collegarsi per dar luogo ad una infinità di configurazioni possibili, sono soltanto punti geometrici che a livello fenomenico semplicemente non esistono, la mia «dimostrazione» è proprio un sofisma se si vuole restare, come io intendo restare, all'interno di un discorso che si riferisce all'esperienza visiva. A livello di analisi fenomenologica, dire che - quando nel dispositivo da me usato si allontana la maschera sagomata - una certa figura continua ad esistere mascherata (o nascosta, o embedded) nella superficie nera ha altrettanto poco senso che sostenere che nella luce solare è «mascherato» il colore verde, soltanto perché sappiamo che vi è contenuta la radiazione della corrispondente lunghezza d'onda, oppure che nel rumore bianco è embedded un dato suono perché sappiamo che contiene la vibrazione della corrispondente frequenza. Così non si può dire che la traiettoria- a forma di cicloide compiuta da un punto situato alla periferia di una ruota che rotola su un piano è «mascherata» dal movimento circolare effettivamente ed unicamente percepito. E si potrebbe aggiungere: non sono da considerare mascherati gli elementi troppo piccoli per raggiungere la soglia della visibilità pur potendo essere rivelati con l'ausilio di una lente di ingrandimento, il che dimostra che esistono come «stimoli» potenziali. E altrettanto vale per il caso inverso, nel quale soltanto con la diminuzione dell'angolo visivo e la conseguente riduzione della grandezza degli elementi e dei loro interspazi (mediante una lente o la visione a grande distanza) è possibile vedere determinate strutture [Haìmon 1974]. Del resto a chi verrebbe in mente di dire che nella 152
illusione di Zoellner si maschera il parallelismo delle linee o che si maschera l'eguaglianza dei segmenti nella illusione di Miiller-Lyer o la collinearità dei punti nella illusione di Giovanelli? Non è facile che qualcuno faccia affermazioni del genere, probabilmente perché in questi casi è a tutti chiaro che facendole si passa dalle cose che esistono, sono date, avvengono qui nell'ambito del fenomenico, alle cose che si sanno o che si possono immaginare. In altre parole che si passa dal vedere al pensare, dal percepire al giudicare.
2. Quando una struttura è mascherata
Non sempre questo passaggio da un dominio all'altro è così palese, e le discussioni sul mascheramento ne sono una prova. C'è da dire che le situazioni per le quali si parla di mascheramento - a cominciare da quelle classiche di Wertheimer, di Gottschaldt, di K6hler - non formano una classe ben definita e omogenea. Si parla genericamente di mascheramento quando ad una figura o struttura vengono aggiunte o tolte delle parti che la trasformano in una nuova struttura nella quale la prima è quasi impossibile da ritrovare o è rintracciabile solo con difficoltà. La difficoltà può essere più o meno grande, il mascheramento più o meno efficace, i tipi di mascheramento più di uno, ma nessuno si è preoccupato di enunciare qualche criterio più preciso per stabilire i limiti entro i quali si può ancora parlare di mascheramento. È possibile individuare questo criterio? Mi sembra evidente che, al limite inferiore, non ha molto senso parlare di mascheramento di una struttura fino a tanto che l'aggiunta di nuove parti non ne intacca in misura sensibile la visibilità. E così, al limite superiore, non sono da considerarsi casi di mascheramento le situazioni del tipo «superficie omogenea» discusse più sopra, se non si vuole cadere nel paradosso o meglio, come ho detto, in pieno sofisma. Se si escludono, come è ovvio, questi casi limite, mi 153
sembra che un criterio ragionevole sia quello proposto da Vicario [1982] quando sostiene che si può parlare di mascheramento soltanto quando la struttura mascherata è in qualche modo recuperabile, anche se con difficoltà e solo fuggevolmente. In altre parole: è mascherato solo ciò che può essere smascherato. Il problema diventa allora: quali sono le condizioni che permettono lo smascheramento di una struttura nascosta e quando tale ritrovamento non è più possibile? Si tratta di un problema di ricerca sensato nella misura in cui è affrontabile sul terreno empirico: il ritrovamento deve essere possibile a livello fenomenico, adoperando soltanto gli occhi, senza altro intervento che non sia il guardare. La struttura mascherata deve poter diventare una presenza realmente fenomenica e non rimanere una potenzialità teorica attualizzata solo nel pensiero o nella immaginazione. Ritorniamo alla matrice di punti. Mentre in una superficie omogenea non ci sono, come abbiamo visto, le condizioni per la attualizzazione di nemmeno un punto, ciò è possibile nel caso della matrice. Posso con una certa facilità rintracciarvi visivamente una o più righe orizzontali, verticali, oblique, angoli, croci, quadrati, triangoli ed altre semplici configurazioni. Tuttavia le possibilità di attualizzazione fenomenica di una struttura incontrano anche nella matrice di punti un limite costituito dal grado di complessità della struttura stessa. Ad esempio, nella figura 5.2, non è possibile vedere nella matrice A la configurazione B. O almeno non si riesce a vederla contemporaneamente nella sua interezza, anche se è possibile rintracciare visivamente alcune sue parti in successione temporale. Possiamo chiederci se queste strutture non più realizzabili fenomenicamente debbano essere considerate come mascherate nella matrice o non piuttosto come inesistenti, alla stregua delle infinite strutture potenzialmente contenute nella superficie omogenea nera. Benché tra le due situazionisussista, come ho già sottolineato, una differenza sostanziale, ritengo che - se si accetta il criterio della possibilità di 154
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B FIG.
5.2. La configurazione B è «invisibile» in A.
smascheramento - anche le strutture che a causa della loro complessità sono soltanto «pensabili» ma non fenomenicamente estraibili dalla matrice debbano essere considerate non mascherate ma proprio prive di esistenza. Una distinzione di questo tipo non si trova chiaramente espressa né in Gottschaldt, né in Galli e Zama, n~ i~ ~ltri autori che, come Metzger e Witkin, si sono occupatI dl flgure nascoste. I loro esempi sono sempre presentati come istanze di mascheramento, che differiscono soltanto per la maggiore o minore resistenza che oppongono al ritrovamento della figura che vi è contenuta. Così sono chiamati casi di mascheramento situazioni come quelle delle figure 5.3, 5.4 e 5.5 nelle quali sono ancora ritrovabili, anche se con qualche difficoltà, le figure nascoste, ma anche situazioni come quelle di figura 5.6 e di figura 5.7 nelle quali le figure sono introvabili e alle quali pertanto il criterio della smascherabilità di Vicario non può più essere applicato. Ora, si possono stabilire con maggiore precisione le condizioni della introvabilità? Ritorniamo ancora una volta al 155
FIG. 5.5. Un mascheramento piuttosto efficace [da Gottschaldt 19261·
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B
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FIG. 5.3. È abbastanza facile vedere A in B [da Wertheimer 1923].
FIG.
FIG.
156
5.6. È molto difficile «vedere» la stella mascherata nella configurazione a destra [da Metzger 19751·
5.4. Un'altra figura facilmente smascherabile [da Gottschaldt 1926].
157
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FIG. 5.8. È distintamente visibile la configurazione di figura 5.28 .
FIG.
nostro esempio di figura 5.2. Se la smascherabilità dipende dal.grado di complessità della struttura da attualizzare percettIv~~e~te: potre~mo tentare di stabilire empiricamente qual e Il limIte massImo di complessità di una struttura ancora compatibile con il suo smascheramento. A prescindere dal fatt~ che la complessità di una struttura non è certamente. dI facile definizione, non sembra che in questo caso essa SIa un concetto utile a farci venire a capo del nostro pro~lema .. Infatti è molto semplice rendere visibile in a la c~nfIgurazlOne b: è sufficiente dare ai suoi punti un colore dIverso da quello degli altri per vederla nella sua interezza senza soverchia ~i~coltà (vedi figura 5.8). Si possono in tal ~od.o rendere dIstIn.t,amente visibili nella matrice configuraz~o~~ ~nc~e ~olto pm complesse. Perciò la causa della invisIbIlIta dI b In a non può essere, o non può essere solo la sua comple~sità ~n q~anto tale. Ciò che impedisce l'emergere ~en~memco dI talI configurazioni potenziali deve dunque vemr ncercato altrove. Dire ~he una configurazione non è smascherabile equivale a dIre che le parti che dovrebbero collegarsi in una c~rta struttura non sono disponibili per questa riorganizza~lOne, ~erché sono ~ià ingl~bate in altre strutture dalle qua~I non nesc?no a sVIncolarsl. La diversificazione cromatica è In grad~ dI pro~urre una tale disponibilità perché genera fo~ze d~ s~gregazlOne che sono invece assenti in un campo pnvo dI dIsomogeneità come quello della matrice originaria. 158
. Un primo concreto compito di ricerca potrebbe pertanto essere la determinazione delle condizioni generali che portano a stati di non-ristrutturabilità. Stati caratterizzati dalla presenza di forze di coesione così intense da impedire il distacco fenomenico delle sottounità componenti, distacco che dovrebbe renderle disponibili per altre riorganizzazioni teoricamente possibili.
5.7. Scomparsa fenomenica di un esagono.
3. Le «textures»
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Uno di questi stati di non ristrutturabilità, di minima disponibilità funzionale e indipendenza degli elementi costitutivi, è certamente una matrice omogenea di punti. Ma la matrice non è che un caso particolare di una categoria più generale: la categoria delle textures. Una texture fenomenica si ha quando un insieme di elementi vengono vissuti come il materiale di un oggetto, costituiscono la sua grana o microstruttura. Il passaggio di un gruppo di elementi da una condizione di relativa autonomia - in cui mantengono ancora una certa individualità ed un loro ruolo nella macrostruttura _ alla condizione di elementi microstrutturali anonimi e intercambiabili, dipende da una serie di condizioni relative alla loro grandezza, al loro numero, alla loro distanza reciproca, alloro ordine, ecc. Nelle figure 5.9,5.10 e 5.11 sono mostrati alcuni effetti che la variazione di queste condizioni esercita sulla natura fenomenica degli elementi interessati nelle rispettive macrostrutture. 159
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c FIG.
5.9. Dai «punti allineati» alla «linea punteggiata».
Nella figura 5.9, mentre i punti di A, pur essendo collegati nella tripletta, conservano un notevole grado di indipendenza ed hanno ciascuno una specifica funzione (<<estremità» e «centro»), i punti di C sono divenuti elementi intercambiabili del «materiale» o grana della linea. È necessario uno sforzo di attenzione per farne emergere qualcuno individualmente, ma ciò non dura a lungo. Dopo un po', il punto isolato dall'attenzione sfugge, viene risucchiato dalla collettività; il che è una testimonianza tangibile dell'azione di potenti forze di coesione, che ostacolano fino a vanificarlo ogni tentativo di segregazione. La situazione B rappresenta uno stadio intermedio tra i «punti allineati» e la «linea punteggiata». Un discorso an~logo può essere fatto a proposito delle serie di segmenti della figura 5.10 e della «scacchiere» di figura 5.11. Da queste considerazioni si può trarre un suggerimento. Se si può dimostrare che l'efficacia del mascheramento di una struttura va di pari passo con l'avvicinarsi di un insieme di elementi allo stato di «materiale», allora la impossibilità di smascheramento potrebbe essere utilizzata come indizio che si è raggiunto lo stato di texture. È una proposta che rappresenta in qualche modo l'inverso del procedimento seguito da Uttal [1975J, il quale impiega la resistenza al ma-
B
c FIG. 5.10. Dalle «righe» alla «superficie rigata». t}
scheramento come misura indiretta del grado di coesione di una configurazione di punti [vedi Gerbino 1979J.
160 161
Nelle figure che seguono vengono dati alcuni esempi di come potrebbe venir eseguita una tale ricerca di fenomenologia sperimentale .
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5.11. Dalla scacchiera al mosaico, alla texture.
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FiG. 5.12. Il quadrato virtuale è ritrovabile in B, ma non più in C.
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c FIG. 5.14. Tessellazione di yicario. Il 4, ancora ritrovabile in B si perde come elemento mlcrostrutturale in C. '
c FIG.
164
5.13. Il triangolo di Galli e Zama. In C la base del triangolo è assorbita dalle schiere di parallele, non può più riacquistare la sua funzione di «lato».
165
A A
B
B
c FIG. 5.15. Altri esempi di mascheramento per iterazione. Nelle situ~ioni C va perduta la possibilità di smascherare le sagome A. SI possono rivedere «a pezzi», ma non contemporaneamente nella loro struttura globale.
166
C FIG. 5.16. La croce, mascherata in B, non è più recuperabile in C.
167
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4. Altre tecniche di mascheramento
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FIG. 5.17. La croce, ancora visibile in A, mascherata in .B, acqu!sta carattere parzialmente amo dale in C. Le sue parti centralI vengono incorporate come «materiale» nell~. texture f,o.rtemente. coesa della «rete», dalla quale non sono pm segregablil. L.e parti sporgenti sono costrette a completarsi amodalmente dIetro la rete stessa.
Oltre al procedimento di progressivo avvicinamento allo stato di texture, per iterazione periodica o casuale di elementi, ci sono almeno altri due modi per mascherare una figura: i) l'inversione del rapporto figura-sfondo, e ii) lo smembramento fenomenico della figura mediante inglobamento delle sue parti costituenti in altre configurazioni. Può essere interessante accertare se anche per questi modi esistono stati di non-ristrutturabilità, raggiunti i quali non si deve più parlare di mascheramento, dato che non è più applicabile il criterio della smascherabilità.
4.1. Mascheramento mediante manipolazione della articolazione figura-sfondo
Sappiamo tutti che i contorni che separano una figura dal suo sfondo hanno normalmente funzione unilaterale, appartengono alla figura ma non delimitano lo sfondo. Ciò significa che lo sfondo, nella zona di contatto con la figura, non ha forma. Pertanto se si riesce a far assumere ad una figura il ruolo di sfondo, la si priva del suo attributo essenziale e in questo modo è possibile nasconderla alla vista senza coprirla. Sappiamo anche che l'articolazione figura-sfondo può essere più o meno rigida, andando da una condizione di facile reversibilità ad una condizione di equilibrio sempre più stabile. Questa possibilità di graduare la stabihtà dell'equilibrio ha fatto delle situazioni di figura-sfondo un mezzo prediletto fin dall'antichità per realizzare mascheramenti più o meno coercitivi. Prima dell'avvento dei cruciverba, nella pagina dei giornali riservata ai giochi e ai passatempi mancava raramente la vignetta intitolata «Cercate la lepre» oppure «Cercate il cacciatore», nella quale questi personaggi erano nascosti nel fogliame o nelle nubi (figure 5.18, 5.19). Oggi questi giochetti non sono più di moda, ma è difficile non trovare nei manuali di psicologia un esempio di figu169
FIG. 5.19. Napoleone e la sua tomba a S. Elena [da Fernberger 1950].
FIG. 5.18. Cinque visi «nascosti» [da Pastore 1971].
ra-sfondo più O meno facilmente reversibile. Una prima categoria è costituita dalle situazioni ambigue rese classiche da Rubin, dominate da un massimo di bistabilità, al punto che l'inversione del rapporto figura-sfondo è coercitiva: dopo un periodo di osservazione si produce spontaneamente 170
)
una repentina riorganizzazione e la figura scompare come tale, lasciando questo ruolo alla zona che fino a quel momento appariva come sfondo (figure 5.20, 5.21 e 5.22). In altre situazioni, caratterizzate da un equilibrio più stabile, è possibile «vedere» lo sfondo trasformarsi in figura, ma questa ristrutturazione non avviene di norma spontaneamente (figura 5.23). Infine la ristrutturazione, anche se non impossibile, può presentare una grande difficoltà, come nell'esempio della figura 5.24. Ma per quanto difficile si possa rendere l'inversione del rapporto figura-sfondo, sembra che non si riesca a raggiungere mai un punto di non-ritorno simile a quello ottenibile con le textures. Ma questa impossibilità sussiste soltanto fin171
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FIG, 5,20. Configurazione bistabile. Se si fa ruotare lentamente questo disco, appare in movimento soltanto la croce che è, in quel momento, «figura» mentre l'altra regione diventa «sfondo» immobile. Quando è «figura» la croce bianca, gli archi neri si completano amodalmente in cerchi concentrici che vengono progressivamente coperti e rivelati dalla croce in movimento [da Metelli 1941].
FIG. 5,22, Figure nere su sfondo bianco o lettere bianche su sfondo nero.
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FIG. 5.23. Cinque dischi bianchi su sfondo a righe o quattro «frecce» su sfondo bianco?
)
FIG. 5.21. Un'altra configurazione bistabile: il profilo nero e il profilo bianco si alternano nel ruolo di figura [da Rubin 1921J.
ché si rimane confinati alle immagini bidimensionali. In situazioni di chiara tridimensionalità, come quelle ottenibili nella visione stereoscopica cic1opea, !'inversione figura-sfondo non è più possibile neppure per il vaso e i profili di Rubino Se i profili sono localizzati in primo piano, non si rie-
172
FIG. 5.24. ~o spazio tra le figure non ha forma. L'inversione del rapporto figura-sfondo non avviene spontaneamente.
173
sce a vedere come figura il vaso, e viceversa [Julesz 1971, 39].
4.2. Mascheramento mediante smembramento fenomenico di una configurazione
Questa modalità di dissoluzione visiva di una struttura utilizza l'azione dei fattori di organizzazione che, provocando il formarsi di nuove unità, determinano la disgregazione della struttura originaria e la sua scomparsa come entità visiva a sé stante. Si possono distinguere due modi principali di mascheramento per smembramento: a) un procedimento per sottrazione e b) un procedimento per aggiunta. a) Smembramento «per sottrazione» (la tecnica di Street). Una configurazione può essere ancora riconoscibile quando viene privata di una o più parti [Bozzi 1969]. Si veda la figura 5.25. . Il riconoscimento può persistere anche quando, per l'allontamento di una parte, la figura rimane frazionata in più pezzi (figure 5.26 e 5.27). Naturalmente ciò vale finché le condizioni figurali permettono che i margini reali vengano integrati da margini virtuali, mantenendo così la riconoscibilità della forma di partenza. Quando l'integrazione è resa difficile, la ricono-
FIG.
174
5.25. Un rettangolo amputato.
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FIG. 5.26. I quattro pezzi appartengono al rettangolo.
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FIG.
5.27. Il rettangolo è ancora riconoscibile.
scibilità può andar perduta perché il pezzo risultante dalla mutilazione non è più vissuto come una figura mutilata ma ~o~e u?a nu?va configurazione (figura 5.28) oppure perché I smgoh P~ZZI acquistano indipendenza e sono vissuti ognuno come fIgura per conto suo (figure 5.29 e 5.30). Un altro modo di disintegrazione dell'unità originaria è la cattura dei «~ezzi» da parte di unità differenti o di gruppi che si costitUIscono per somiglianza o per vicinanza (figure 5.31 e . 5.32). Seco~do questo principio sono costruite le· figure di Street (flgu~a 5.33 e 5.34) e molti esempi famosi di «figure nascoste» (figure 5.35 e 5.36). Ambedue le possibilità sono sfruttate dalla natura nel mimetismo animale e dall'uomo in quello bellico. Per quanto riguarda lo stato di non-ristrutturabilità, è 175
FIG.
5.28. Una specie di croce.
FIG.
5.31. Smembramento per inclusione.
FIG. 5.29. Gruppo di quattro figure nere.
FIG. 5.32. Quattro gruppi di elementi vicini.
FIG. 5.30. Due forme accostate.
evidente che esso non viene raggiunto nelle situaz~oni del tipo illustrato nelle figure 5.25, 5.26 e 5.27, ma e a.nche certo che ciò avviene per quelle esemplificate nelle fIgure 5.28, 5.29 e 5.30. Ciò significa che il ~ascheramen~o pe: smembramento fenomenico ottenuto mediante. so.ttr.~lOne e un procedimento che non può su~~r.are ce.rtl hmltl senza raggiungere risultati non più reverslblh. Le fIgure 5.28, 5.29 176
e 5.30 possono essere solo «pensate» ma non «vedute» come pezzi di un rettangolo mutilato. Per convincersene si confronti il carattere di reale presenza fenomenica che il rettangolo assume mediante un loro completamento amodale con il risultato che si ottiene mediante una integrazione puramente cognitiva (figure 5.37,5.38 e 5.39). È un altro compito della ricerca empirica determinare in modo più preciso le condizioni di mutilazione che riescono a rendere irriconoscibile una configurazione. 177
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FIG. 5.33. Una figura di Street «facile» [da Street 1931].
FIG. 5.34. Figura di Street più difficile [da Street 1931].
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FIG. 5.36. Il cane dalmata [da Lindsay e Norman 1980] .
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FIG. 5.35. L'uomo «nascosto» [da Porter 1954].
b) Smembramento «per aggiunta» (la tecnica di Gottschaldt). Mentre il procedimento ora esaminato consiste in un impoverimento della struttura mediante sottrazione di al178
FIG. 5.37. Il completamento amodale rende fenomenicamente presente il rettangolo non più visibile nella figura 5.28.
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FIG. 5.38. Le quattro figure nere di figura 5.29 si completano amodalmente in un rettangolo.
FIG. 5.39. Confrontare con la figura 5.30.
cune sue parti, il principio di mascheramento di gran lunga più utilizzato è quello fondato su una aggiunta di elementi che lascia intatta la figura che deve venir resa invisibile. Il mascheramento in questo caso non è, come per le textures, una conseguenza del «rumore» visivo provocato dall'addensamento di elementi uguali o simili, ma dall'aggiunta alla 180
5.40. Mascheramento efficace dell'esagono [da Gottschaldt 1926).
figura da mascherare di elementi che favoriscono nuove organizzazioni, nelle quali alcune o tutte le parti della figura vengono incorporate con nuove funzioni. Il risultato in genere è lo smembramento fenomenico della figura, la sua scomparsa come entità visiva. Wertheimer e Gottschaldt hanno utilizzato situazioni di questo tipo per illustrare l'azione dei fattori autoctoni di organizzazione - quali la chiusura, la continuità di direzione, la simmetria - e per dimostrare la loro forza strutturante quando operano in opposizione alla familiarità (vedi figure 5.3, 5.4 e 5.5). Anche i mascheramenti che si ottengono con questo procedimento possono variare molto nel grado di resistenza opposto ai tentativi di smascheramento. Dalle situazioni delle figure 5.3 e 5.4, nelle quali la figura critica è facilmente svincolabile dal contesto, si arriva a situazioni come quelle di figura 5.40 nella quale un tale recupero è molto più problematico. Comunque, finché le configurazioni risultanti dalla riorganizzazione sono bidimensionali, sembra che il ritrovamento della struttura mascherata, per quanto difficoltoso si possa rendere, non sia mai veramente impossibile. Anche qui, si riesce a raggiungere lo stato di effettiva non-ristrutturabilità soltanto se si fa intervenire la tridimensionalità, sia 'pure solo apparente. Se lo smembramento della figura avviene in modo che le sue parti vengono ad essere incorporate in configurazioni dislocate fenomenicamente su piani diversi, allora il suo ritrovamento può risultare impossibile (vedi figure 5.41 e 5.42). 181
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FIG. 5.43. Un cerchio non è formato fenomenicamente dall'unione di archi
di cerchio. Perciò non si può affermare che in questa figura è mascherata la parola COCCO.
FIG.
5.41. La stella non è più recuperabile visivamente nella configurazione a destra [da Metzger 1975). FIG. 5.44. Il corsivo specularmente reduplicato è facilmente leggibile.
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FIG.
5.42. Il cubo non è più estraibile come figura intera [da Gottschaldt 1926).
Un particolare gruppo di mascheramenti appartenenti a questa categoria sono quelli che si ottengono mediante reduplicazione speculare di lettere e numeri: N.aturalmente, nelle configurazioni risultanti dalla reduplicazione devo~o essere contenute, come parti 1laturali, ma con nuove funzIoni, le parti che costituiscono l~ letter~ o il numer~. Ci? permette il loro ritrovamento ftomemco, mentre e eVIdente che se tali parti non esistono iù, come nel caso della figura 5.43, si cade nelle situazioni i non-mascheramento del tipo «superficie nera».
182
5.45. La lettura delle singole lettere è abbastanza facile, più difficile quella delle parole.
Gli altri casi, ai quali è applicabile il principio di Vicario, sono invece mascheramenti a buon diritto e, sulla scia delle iniziali di M. Wertheimer e del 4 di Koehler, gli esempi abbondano. Poiché i risultati che si ottengono con questo procedimento sono sempre configurazioni bidimensionali, non sembra raggiungibile uno stato di effettiva irreversibilità ma i mascheramenti possono variare grandemente nel grado di efficacia. Partendo. dalla simmetrizzazione delle parole in corsivo che sono le più facili a smascherare (figura 5.44), passando per le maiuscole stampatello le quali oppongono maggiore resistenza alla lettura delle parole ma sono agevolmente compitabili lettera per lettera (figura 5.45), si può arrivare a situazioni come quella di figura 5.46 dove anche tale decifrazione parziale è resa più difficoltosa, ma non impossibile, dalla adozione di differenti assi di simmetria. 183
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FIG. 5.46. Il risultato della sottrazione è esatto?
5. In conclusione
Aderendo all'invito di Vicario, ho cercato di chiarirmi le idee su ciò che siamo abituati a chiamare mascheramento (concealment, embeddedness, figure nascoste, ecc.). Le mie considerazioni si limitano a quello che Gerbino [1979] chiama «mascheramento nello spazio», cioè a quei procedimenti che consistono nell'interferire sulla visibilità di una figura o struttura mediante modificazioni del suo contesto. Ho escluso pertanto tutto quel vasto campo di ricerca che Gerbino chiama «mascheramento nel tempo» e che riguarda le interferenze negative che uno stimolo subisce da parte di un'altra stimolazione che lo procede o lo segue. È da notare che il termine «mascheramento» (masking) si riferisce oggi prevalentemente a questa seconda modalità di interferenza. Forse sono stato un po' prolisso, ma penso che, in mancanza di un criterio di definizione univoco e condiviso, una certa insistenza analitica possa essere giustificata. Soprattutto se si vuole evitare che il termine continui a venir usato in modo generico come sinonimo di nascondere, oscurare o rendere introvabile, ma acquisti un suo preciso significato tecnico. 184
A questo fine non mi sembra sufficiente sostenere, come fa ad esempio Zusne [1970], che il mascheramento è prodott~ dall'aggiunta di rumore visivo, intendendo per quest'ultimo tutte le condizioni che influiscono negativamente sulla visibilità di una struttura. Definire rumore tutto ciò equivale semplicemente a chiamare in un altro modo il mascheramento stesso. Una soluzione nominalistica senza valore esplicativo e soprattutto senza valore euristico. Ritengo che un criterio non tautologico sia quello della smascherabilità, proposto da Vicario, che ci consente di uscire dal generico e si presta ad essere empiricamente verificato. In concreto, le indicazioni di ricerca che mi sembrano suggerite dal concetto di smascherabilità riguardano la determinazione delle condizioni che permettono un facile sma.schera~ento, di quelle che lo rendono difficile o improbabde e dI quelle che lo escludono perché portano a stati di non-ristrutturabilità. Più in particolare, sarebbe da esaminare l'utilità di considerare la non-ristrutturabilità quale criterio operazionale del raggiungimento, da parte di una struttura, dello stato di texture o di materiale. Un'altra linea di ricerca potrebbe essere diretta all'analisi del «mascheramento per sottrazione», cioè allo studio delle condizioni di mutilazione che rendono irriconoscibile una configurazione. A Trieste ci occupiamo da tempo di q~esto problema [Bozzi 1969; Conti 1980; Alberti 1981; Kamzsa e Gerbino 1981] perché abbiamo l'impressione che il metodo della sottrazione di parti o mutilazione di una figura possa rappresentare una via per giungere ad una definizione di «forma» che abbia validità sul piano fenomenologico. Per dare un esempio del tipo di situazioni di cui ci siamo interessati: perché una figura, risultante da una certa amputazione di un triangolo (figura 5.47a) , viene vissuta come un «triangolo mutilato» pur essendo geometricamente un trapezio (figura 5.47b)? A che punto, e perché, l'amputazione la fa diventare anche fenomenicamente un trapezio (figura 5.47c) e quando perde nuovamente questo carattere per diventare una «striscia» (figura 5.47d)? Una nostra ipotesi è che una forma fenomenica corri185
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CAPITOLO SESTO
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L'A'!TRAZIONE FENOMENICA
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FIG. 5.47. Dal triangolo amputato, al trapezio, alla striscia.
sponda ad una specifica distribuzione di linee di forza o di vettori, ad un pattern dinami,co di tensioni che si stabilisce all'interno di un contorno. Una amputazione di una certa entità o di un certo tipo può disturbare l'equilibrio del pattern senza distruggerlo, una amputazione più profonda o di tipo diverso può sconvolgerlo e provocare un nuovo assetto che caratterizza un'altra famiglia di forme fenomeniche.
186
1. Introduzione
Lo studio di Michotte [1954] sulla causalità fenomenica è ormai un «classico» della psicologia sperimentale. Esso è un esempio di come un problema antico, esaminato da una diversa angolatura, possa far sorgere idee nuove, anche quando la sua soluzione era stata considerata evidente e definitiva. Malgrado la diversità delle opinioni sull'origine del concetto di causa, era convinzione unanime che il rapporto causale non potesse appartenere all'esperienza fenomenica, che cioè una connessione di dipendenza causale non si potesse vedere, ma solo inferire. E ciò per il semplice motivo che non esiste sul piano sensoriale qualcosa che corrisponda all'azione di un oggetto su un altro oggetto, qualcosa che in altri termini rappresenti il passaggio di energia che può avvenire tra due corpi del mondo fisico. L'aver potuto invece dimostrare sperimentalmente la realtà percettiva delle connessioni causali tra eventi fenomenici è servito non solo a distruggere un antico pregiudizio, ma ha anche offerto nuove prospettive allo studio del mondo fenomenico, prospettive che quel pregiudizio impediva di vedere. Infatti, aprendo la via allo studio dei fenomeni di tipo causale, l'opera di Michotte ci ha fornito anche una metodologia generale per l'analisi esatta dei rapporti che legano le condizioni temporali, spaziali e cinetiche della stimolazione alla struttura significativa del corrispondente evento fenomenico. Quell'opera ci ha inoltre consentito di gettare uno sguardo in un mondo quasi del tutto inesplora187
, to, fornendo gli strumenti idonei per proseguire le ricerche in questo campo. La nostra ricerca riguarda uno speciale tipo di impressione causale: vogliamo stabilire se, e in quali condizioni, può essere percepita l'attrazione esercitata da un oggetto su un altro oggetto 1. Naturalmente, essendo la nostra una ricerca di fenomenologia visiva non ci occuperemo dei problemi posti dall'esistenza di una forza di attrazione nel mondo fisico. E neppure è nostro intento stabilire fino a che punto le impressioni visive di attrazione siano un dato normale del nostro mondo fenomenico. Può ben darsi che un fenomeno non si produca che nelle condizioni particolari dell'esperimento di laboratorio, senza che ciò tolga nulla al suo significato teoretico.
2. Modalità sperimentali
Gli esperimenti descritti nel corso di questo articolo sono stati realizzati utilizzando, salvo l'esperimento n. 8, la tecnica dei dischi di Michotte [1954, cap. 2]. Essi possono essere ripartiti in tre gruppi. 1. Un primo gruppo di esperimenti (n. 2, 3, 4, 5, 6, 16) è caratterizzato dal fatto che si è seguita una tecnica particolarmente rigorosa, in modo da poter ottenere dei risultati incontestabili sul controverso fenomeno dell'attrazione. Hanno preso parte a tutti questi esperimenti 40 studenti universitari, non abituati alla sperimentazione psicologica, esaminati individualmente.
l Gli esperimenti, frutto di una collaborazione costante dei due autori, sono stati condotti negli Istituti di Psicologia delle Università di T~ieste e di Padova. La ricerca è iniziata nel 1956; i primi risultati sono statl presentati da Kanizsa e Metelli [1956]. Altri esperimenti sono stati oggetto di una comunicazione, di cui è stato pubblicato solo un breve riassunto [Kanizsa e Metelli 1959]. In seguito, si è proceduto a un controllo sperimentale di alcuni risultati su un numero sufficientemente ampio di soggetti [Metelli e Passi Tognazzo 1959-60].
188
Per evitare per quanto possibile che i soggetti si rendessero conto che gli esperimenti riguardavano l'impressione di attrazione, e che quindi si creasse in essi un'attesa, o almeno un atteggiamento non neutro, gli esperimenti relativi all'impressione di attrazione sono stati inseriti in una serie di altri esperimenti che riguardavano gli effetti causali di «spinta» e di «trazione», effettuati con tecniche e modalità analoghe [si veda Passi Tognazzo 1958]. Le situazioni sperimentali di «attrazione» venivano così a trovarsi relativamente isolate, essendo precedute e seguite da 4 o 5 situazioni sperimentali di tipo diverso. Dato che ogni soggetto doveva rispondere a una serie numerosa di situazioni sperimentali (39 in tutto), queste venivano presentate in tre sedute, distanziate tra loro di una settimana circa. In questo modo, ogni seduta comprendeva soltanto 2 o 3 situazioni' di attrazione fenomenica, e la probabilità che i primi esperimenti influissero su quelli successivi era scarsa. Per ridurre al minimo gli interventi da parte dello sperimentatore, gli esperimenti sull'effetto attrazione venivano fatti precedere da due esperimenti preliminari: a) un «effetto lancio», reso inefficace da una lunga pausa al momento dell'incontro tra i due oggetti, e b) un «effetto lancio» in condizioni ottimali. I soggetti dovevano descrivere ciò che avevano visto nei due casi, dopo di che si faceva osservare che, in base alle loro stesse descrizioni, nella prima situazione si vedevano due movimenti indipendenti, mentre nella seconda si vedeva un oggetto messo in movimento dall'urto dell'altro. Si sottolineava inoltre il differente aspetto fenomenico dei due movimenti in quest'ultima situazione: il carattere attivo, spontaneo, del movimento del primo oggetto, e il carattere passivo, non spontaneo, del movimento del secondo. Sempre al fine di evitare che le domande dello sperimentatore influenzassero i risultati sperimentali, si chiedeva al soggetto solo: a) di descrivere quello che vedeva; b) quando la descrizione non conteneva elementi sufficienti per un'interpretazione certa, di specificare se il movimento 189
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eseguito da ogni oggetto aveva un carattere attivo o passi2 vo . Il soggetto era posto a una distanza di circa 3 metri dallo schermo, ed era libero di fare qualche piccolo spostamento. 2. Il secondo gruppo di esperimenti comprende le serie n. lO, 11, 12. Trattandosi di situazioni che richiedono osservazioni e confronti molto delicati, questi esperimenti sono stati effettuati dai due autori e dai loro assistenti. 3. Gli altri esperimenti che dovevano fornire soltanto dei dati indicativi sono stati fatti con una trentina di soggetti.
3. L'Effetto Attrazione 3.1. Esiste la percezione visiva dell'attrazione di un oggetto da parte di un altro oggetto?
Nella sua opera sulla percezione della causalità, Michotte [1954], pur analizzando a fondo le connessioni di tipo causale del «lancio» e del «trascinamento», non si occupa che marginalmente dell'attrazione fenomenica, alla quale dedica un solo esperimento, perché ritiene di dover escludere per motivi teorici la possibilità di questo fenomeno. Partiamo proprio dall'analisi di questo esperimento: L'oggetto A e l'oggetto B si trovano a una distanza di 7 o 8 cm l'uno dall'altro. A entra in movimento verso B alla velocità di 10 cm/sec. Ad un dato momento, B entra in movimento in senso opposto, a velocità considerevole (salto stroboscopico), e si viene a porre bruscamente accanto ad A, che a questo punto s'arresta [Michotte 1954, esp. 36, 90].
È probabile che questo esperimento sia stato concepito 2 I soggetti erano in grado di rispondere a questa domanda, avendo appreso a distinguere tra movimenti attivi e passivi negli esperimenti preliminari.
190
in questa forma perché esso riproduce le caratteristiche dell'azione esercitata da una calamita su un pezzettino di ferro, situazione che costituisce, evidentemente, il caso tipico del fenomeno fisico dell'attrazione. Di fatto, Michotte, commentando i risultati dell'esperimento, si riferisce esplicitamente al caso della calamita, e rileva che, fenomenicamente, non è la calamita che attira la limatura di ferro, ma è quest'ultima che «si precipita» verso la calamita. Di conseguenza nell'esperienza fenomenica il rapporto dinamico tra agente e paziente si rivela invertito rispetto alla situazione fisica. Michotte attribuisce i risultati del suo esperimento all'orientamento diametralmente opposto dei due movimenti, il che rende impossibile una loro parziale identificazione. Si deve però osservare che, nell'esperimento sopra descritto, agisce anche un'altra condizione, nettamente sfavorevole al formarsi di una impressione causale. Infatti gli studi di Michotte hanno dimostrato che il rapporto gerarchico che si instaura tra i due movimenti riveste un'importanza fondamentale per la produzione di una chiara impressione causale [Michotte 1954, cap. 8; 1957a, 385]. L'oggetto che viene percepito come «agente» è quello il cui movimento predomina in un qualche modo sul movimento dell'altro. I principali fattori che assicurano questa predominanza sono costituiti dalla priorità temporale e dalla posizione nel rapporto tra le velocità. La loro azione congiunta dà naturalmente luogo agli effetti più completi e netti. Se analizziamo da questa angolatura l'esperimento n. 36 di Michotte, appare chiaro che, se la priorità temporale tende a far assumere il ruolo di agente all'oggetto A, la velocità più elevata (salto stroboscopico) favorisce sotto questo aspetto l'oggetto B, che perciò tenderà anch'esso ad assumere un carattere di attività. In questo caso, l'assenza di un'impressione causale potrebbe allora essere dovuta, oltre che al senso opposto delle traiettorie, al conflitto tra questi due fattori di gerarchizzazione. Infatti si ottiene un risultato analogo, cioè la mancan.za o una radicale riduzione delle impressioni di causalità, an191
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FIG. 6.1. FIG. 6.2.
che se, a parità delle altre condizioni, si opera con traiettorie orientate nello stesso senso.
Esp. 2. - L'oggetto A e l'oggetto B (quadrati di 5 mm di lato) si trovano a una distanza di 75 mm l'uno dall'altro. A compie un salto di 40 mm in direzione di B. Nello stesso momento, B entra in movimento in direzione' di A, alla velocità di 3 cm/sec, e si arresta nel momento in cui raggiunge A (vedi la figura 6.2).
Esp. 1. - L'oggetto A e l'oggetto B (quadrati di 5 mm di lat?) si trovano a una distanza di 60 mm l'uno dall'altro. A entra In movimento in direzione di B alla velocità di 4.4 cm/sec, e si arresta al suo fianco. In questo momento, B si allontana da A compiendo un salto stroboscopico di 45 mm (vedi la figura 6.1, in cui sono rappresentate le fasi successive dell'esperimento).
Quando l'oggetto B dopo l'urto si allontana a una velocità ben più elevata di quella dell'oggetto A (salto stroboscopico), l'impressione causale di lancio si attenua, e per la grande maggioranza dei soggetti viene sostituita dall'effetto di «scatenamento» 3. Questo fatto lascia pensare che, nella situazione dell'esperimento n. 36, l'assenza dell'impressione di causalità possa essere dovuta all'azione di due condizioni sfavorevoli: l'orientamento opposto delle traiettorie e il rapporto ascendente delle velocità. Perciò, per poter dire che nell'esperimento n. 36 l'unico fattore responsabile dell'assenza di una impressione di causalità è l'orientamento opposto delle traiettorie, occorre modificare la situazione, in modo da eliminare il conflitto tra i fattori di gerarchizzazione sopra ricordati. A questo fine, abbiamo realizzato il seguente esperimento: 3 Questo risultato era d'altronde prevedibile, in base agli esperimenti di Michotte [1954, cap. 7, 2].
192
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Risultato dell'esperimento: lO soggetti su 40 descrivono il movimento di B come se fosse causato dall'attrazione esercitata da A. L'esperimento non può essere ritenuto conclusivo. Infatti esso si presta a due differenti interpretazioni: a) la preponderanza dei risultati negativi deriva dal fatto che la condizione sfavorevole (senso opposto delle traiettorie) prevale sulla condizione favorevole (rapporto discendente delle velocità). Un effetto causale percettivo, cioè l'impressione che B sia attratto da A, si produrrebbe soltanto in condizioni soggettive particolarmente favorevoli: ad esempio, una forte Einstellung sintetica; b) i risultati positivi non devono essere considerati realmente percettivi, ma sarebbero dovuti al fatto che alcuni soggetti, invece di descrivere un genuino fenomeno percettivo, hanno interpretato in termini causali una successione di eventi. Allo scopo di stabilire quale delle due ipotesi abbia la maggior probabilità di essere esatta, abbiamo condotto alcuni esperimenti in cui abbiamo accentuato le condizioni che (secondo Michotte) dovrebbero favorire il verificarsi di un effetto causale. 193
3.2. Esperimenti di controllo
In base alle considerazioni del precedente paragrafo sono stati realizzati i seguenti esperimenti: Esp. 3. Apparizione istantanea - All'inizio sullo schermo si trova solo l'oggetto B (un quadrato di 5 mm di lato). Fa quindi la sua comparsa l'oggetto A, un rettangolo di 5 per 45 mm, orientato verso l'oggetto B, e distante da lui 37 mm. Immediatamente dopo la comparsa dell'oggetto A, l'oggetto B entra in movimento in direzione di A, alla velocità di 5 cm/sec, finché lo raggiunge (vedi la figura 6.3).
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FIG. 6.4.
come se fosse passivo, dovuto all'attrazione esercitata su B da A. Esp. 4. Allungamento - All'inizio si hanno l'oggetto A e l'oggetto B, due quadrati di 5 mm di lato distanti 95 mm. L'oggetto A si allunga in direzione dell'oggetto B alla velocità di 38 cm/sec, sino a prendere la forma di un rettangolo di 5 per 77 mm. A questo punto, l'oggetto B entra in movimento in direzione di A, alla velocità di 3 cm/sec, finché lo raggiunge (vedi la figura 6.4).
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III
FIG. 6.3.
Questa situazione sperimentale si differenzia da quella precedente, per il fatto che al fattore gerarchizzante costituito dalla scala discendente delle velocità si aggiunge la scala discendente delle grandezze. Inoltre, la condizione sfavorevole costituita dalla direzione opposta dei due movimenti è assente, o è poco forte perché il modo in cui l'oggetto A fa la sua brusca apparizione (movimento gamma) 4 non è un movimento unidirezionale ma è probabilmente uri'espansione dal centro verso tutte le direzioni. Di fatto, il risultato dell'esperimento n. 3 è molto diverso da quello dell'esperimento n. 2: 21 soggetti su 40 percepiscono l'effetto causale: descrivono cioè il movimento di B
4 L'apparizione improvvisa di un oggetto è percepita come un movimento [Lindemann 1922; Kanizsa 1951].
194
In questa situazione sperimentale al fattore gerarchizzante della velocità più elevata dell'oggetto A, e a quello della scala discendente delle grandezze, viene ad aggiungersi un'altra condizione rappresentata dal tipo di movimento poiché, in base a un'ipotesi formulata dallo stesso Michotte [1954, 174], il movimento accompagnato da deformazione sarebbe d'ordine più elevato del movimento semplice, e prevarrebbe su quest'ultimo. In questo esperimento, 27 soggetti su 40 (il 67,5%) percepiscono l'effetto causale. Esp. 5. Lancetta - 8 quadrati di 5 mm di lato (oggetto B) sono posti circolarmente in modo simmetrico alla distanza di 173 mm da un punto centrale. All'interno della circonferenza così determinata si trova l'oggetto A, un rettangolo di 52 per 5 mm, posto radialmente come una lancetta sul quadrante di un orologio. La lancetta ruota attorno al centro, saltando stroboscopicamente a intervalli regolari, e si dirige ogni volta verso uno dei quadrati. Immediatamente dopo il movimento della lancetta, il quadrato verso cui questa si è diretta si mette in movimento verso di lei, a una velocità di 7 cm/sec, finché la raggiunge (vedi la figura 6.5).
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In questa situazione, oltre alla velocità più elevata, agiscono come fattori gerarchizzanti a favore di A il movimento d'ordine più elevato (la rotazione [Michotte 1954, 174]),' la maggior grandezza e probabilmente la centralità dell'oggetto A; mentre il fatto che il movimento dell'oggetto A non è diametralmente opposto a quelli degli oggetti B riduce probabilmente l'azione sfavorevole costituita dalla diversa direzione dei movimenti. In questo esperimento, 30 soggetti su 40 (il 75%) percepiscono l'effetto causale.
6.6.
dine più elevato), e, in modo particolarmente accentuato, il rapporto tra le grandezze, la centralità, la molteplicità dei movimenti passivi di avvicinamento, e probabilmente anche un'altra condizione resa necessaria da motivi tecnici 5. In questo esperimento, 32 soggetti su 40 (1'80%) descrivono l'effetto causale di attrazione. I risultati ottenuti negli esperimenti n. 3, 4, 5 e 6 risolvono dunque l'alternativa posta dai risultati dell'esperimen-
Esp. 6. Allungamento multiplo - Si ha all'inizio un disco (r = 55 mm) (oggetto A) e a distanza di 112 mm quattro quadrati (lato = 5 mm) posti simmetricamente in rapporto al disco. Dalla periferia del cerchio, di fronte a ciascuno dei quadrati, cominciano ad allungarsi quattro appendici rettilinee a una velocità di 23 cmlsec (vedi la figura 6.6a). Quando le appendici giungono a 30 mm dai quadrati il loro allungamento cessa bruscamente, e i quadrati cominciano ad avanzare a una velocità molto inferiore (5 cmlsec) verso le appendici, finché le raggiungono (vedi la figura 6.6b).
196
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FIG. 6.5.
In questa situazione, oltre al rapporto tra le velocità, intervengono come fattori gerarchizzanti a favore di A il tipo di movimento (movimento con cambiamento di forma, d'or-
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5 Con la tecnica dei dischi le presentazioni si ripetono ciclicamente' non è possibile introdurre in certi esperimenti una pausa sufficiente pe: mettere in evidenza la fine di un ciclo. Da qui la possibilità di percepire differenti sequenze causali. Così, nell'esperimento 5, invece di vedere l'allungamento delle appendici seguito dal movimento dei quadrati, il ciclo può iniziare da quest'ultimo, ottenendosi così la sequenza: «movimento dei quadrati-sparizione delle appendici»; successivamente, le appendici riappaiono e sono nuovamente respinte dai quadrati. Essendo per motivi tecnici i~possibile i!1!rodurre una pausa più I~nga dopo l'avvicinamento di quadrati e appendiCI, per contrassegnare la fine del ciclo e per evitare la situazione. descritta sopra si è fatto ricorso all'espediente di presentare, più volte pnma dell'esperimento vero e proprio, il solo movimento di allungamento delle appendici. In questo modo, è questo movimento che nel ciclo completo acquista necessariamente il carattere di fase iniziale.
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to n. 2: se fosse esatta l'ipotesi secondo cui i risultati positivi dell'esperimento 2 sarebbero dovuti a un'interpretazione, e non a un effetto veramente percettivo, non si potrebbe spiegare il forte aumento dei risultati positivi in correlazione con l'accumulo dei fattori di gerarchizzazione,aumento che, per la sua rilevanza, permette di escludere l'ipotesi di una fluttuazione fortuita. L'esistenza di un nuovo tipo di effetto causale accanto al «lancio» e al «trascinamento» si può dunque ritenere assodata.
4. Forme di attrazione e fenomeni analoghi
Il fenomeno messo in rilievo nei paragrafi precedenti presenta alcune caratteristiche costanti nelle diverse situazioni sperimentali: 1) la presenza di due o più oggetti nel campo; 2) il movimento di uno dei due oggetti (A), mentre l'altro (B) resta immobile; 3) l'arresto brusco dell'oggetto A e l'immediata entrata in movimento dell'oggetto B (o degli oggetti B) in direzione di A. Se si prescinde dalla particolare direzione del movimento di B, la descrizione del fenomeno corrisponde perfettamente a quella dell'effetto lancio di Michotte. Si tratta dunque di una particolare forma di lancio a distanza, senza che si abbia identità di traiettoria (o del senso delle traiettorie). Nel caso specifico in cui la traiettoria dell'oggetto B è diretta verso l'oggetto A, si ha un'impressione di attrazione attiva di B da parte di A. A questo punto si presentano alla mente due quesiti: a) essendo stabilita la possibilità di effetti causali nel caso di una diversità di traiettorie dei due oggetti, agente e paziente, si possono produrre in queste condizioni effetti causali diversi da quello di attrazione? b) l'effetto attrazione è limitato alle condizioni dell'effetto lancio con diversità delle traiettorie, o del loro senso, o si può invece produrre anche in condizioni differenti? Di questi due problemi ci occupiamo in questo capitolo. 198
r )
4.1. Il lancio inverso
Nelle situazioni descritte precedentemente, il movimento dell'oggetto B era diretto verso l'oggetto A. È possibile ottenere impressioni causali anche con movimenti che abbiano senso opposto, cioè con due oggetti che invece di avvicinarsi, si allontanano l'uno dall'altro. Questa situazione è stata realizzata nell'esperimento seguente: Esp. ~. - L'og~etto A e l'oggetto B (quadrati di 5 per 5 mm) sono postt uno a fi~~co. dell'altro. A si allunga in direzione opposta a B a un.a veloclta dI 28 cm/sec, sino a prendere la forma di un ~ett~ng~lo dI 45 per 5 mm. A questo punto, B entra in movimento In dlfezlOne opposta a una velocità di 4.2 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 5 cm (vedi la figura 6.7).
. Per il 3?% ~ei ~og~etti: il risultato fenomenico è quello dI un «lancIO» m dIreZIOne opposta a quella del movimento dell'agente. Questa imp.ressione è molto più evidente e frequente nel seguente espenmento, benché esso comporti anche uno scostamento delle traiettorie, che non sono più l'una sul prolungamento dell'altra:
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Esp. 8. - Tre quadratini uguali sono posti come indicato nella figura 6.8. Due di essi, che sono allo stesso livello, si mettono in movimento nella direzione indicata dalle frecce nella figura 6.8a a una velocità di 30 cm/sec circa, e si arrestano quando si trovano nella posizione indicata dalla figura 6.8b, e cioè quando sono allineati con il terzo quadrato. A questo punto, il quadrato centrale entra in movimento in direzione opposta a una velocità di circa 5 cm/sec, e si arresta quando si trova nella posizione indicata dalla figura 6.8c 6.
4.2. L'attrazione fenomenica nel caso di continuità delle traiettorie dei due oggetti e di uguaglianza del loro senso
Per attrazione si intende lo spostamento passivo di un oggetto verso un altro oggetto, spostamento causato da quest'ultimo senza che tra di essi vi sia contatto. Ciò significa che il concetto di attrazione implica la direzione del movimento dell'oggetto che la subisce, ma non determina in alcun modo lo stato cinetico né la direzione dell'eventuale spostamento dell'oggetto motore. Perciò, avendo realizzato in condizioni particolari l'attrazione fenomenica, ci rimane ora da stabilire se queste condizioni (e, specificamente, lo stato cinetico, la direzione e il senso del movimento dell'og-
6
200
Questo esperimento non è stato effettuato con il metodo dei dischi.
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getto che esercita l'attrazione) siano condizioni necessarie perché si produca un effetto di attrazione fenomenica, o se invece questa si possa avere anche in condizioni diverse. Per stabilire se la direzione opposta dei movimenti sia una condizione necessaria dell'attrazione fenomenica, è stato realizzato il seguente esperimento: E.sp. 9. - Si hanno all'inizio l'oggetto A e l'oggetto B a distanza dI 5 mm. L'oggetto A si mette in movimento a una velocità di 29 cm/sec, allontanandosi da B, e si arresta dopo aver percorso 5 cm. In questo momento, B entra in movimento nella stessa direzione avvicinandosi ad A a una velocità di 5.5 cm/sec, e si arresta quando lo raggiunge (vedi la figura 6.9).
Questa situazione è stata descritta da 11 soggetti su 31 come dovuta ad un effetto causale di attrazione. Sulla base di questo risultato, si deve concludere che ,l'attrazione fenomenica si può produrre anche quando le traiettorie si trovano sulla stessa retta, e il senso del movimento dei due oggetti è lo stesso.
4.3. La condizione dell'arresto brusco dell'agente
Una condizione comune a tutte le situazioni descritte sinora nelle quali si è realizzato l'effetto attrazione è rappresentata dall'arresto brusco dell'oggetto agente (dell'oggetto 201
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che determina l'attrazione), arresto cui segue immediatamente l'inizio del movimento dell'altro oggetto 7. Resta da stabilire se ciò costituisca una condizione necessaria per il verificarsi dell'attrazione fenomenica. A questo scopo, è stato realizzato il seguente esperimento: Esp. lO. - L'oggetto A e l'oggetto B sono a distanza di 130 mm. L'oggetto A si mette in movimento verso l'oggetto B a una velocità di 24 cm/sec. Dopo che ha percorso 5 cm, l'oggetto B entra a sua volta in movimento avvicinandosi ad A a una velocità di 6 cm/sec. I due oggetti continuano a muoversi l'uno verso l'altro, finché si incontrano (vedi la figura 6.10).
In questa situazione, l'effetto attrazione in genere non si realizza, o si realizza in forma incerta. Allo scopo di effettuare un confronto, è stato eseguito l'esperimento n. 11, che differisce dal n. lO soltanto per un aspetto: mentre in quest'ultimo l'oggetto B si mette in movimento durante il movimento di A, e si arresta nello stesso istante di questo quando i due oggetti si incontrano, nell'e-
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FIG. 6.11.
sperimento n. 11 l'oggetto B si mette in movimento dopo l'arresto di A (vedi figura 6.11). Dal confronto tra i due esperimenti risulta che, mentre nell'esperimento n. lO l'effetto attrazione si realizza soltanto eccezionalmente, nell'esperimento n. 11 si hanno risultati positivi analoghi a quelli dell'esperimento n. 2, di cui l'esperimento n. 11 non è che una variante. È dunque legittimo ricondurre il diverso rendimento fenomenico nei due casi a quest'unica differenza strutturale tra le due situazioni, e dedurne che, per l'effetto attrazione come per l'effetto lancio, l'arresto dell'agente, e cioè la fase dell'urto, ha una funzione importante nella produzione del fenomeno. Tale conclusione appare confermata dall'analisi che abbiamo effettuato grazie al seguente esperimento:
FIG. 6.10.
Esp. 12. - L'oggetto A e l'oggetto B sono a distanza di 130 mm. L'oggetto A si mette in movimento verso l'oggetto B a una velocità di 24 cm/sec e dopo che ha percorso 6 cm entra a sua volta in movimento l'oggetto B avvicinandosi ad A a una velocità di 6 cm/sec. Dopo aver percorso altri 3,5 cm l'oggetto A si immobilizza, mentre l'oggetto B seguita ad avvicinarsi ad A, sempre alla stessa velocità, per fermarsi quando entra in contatto con esso (vedi la figura 6.12).
7 Ciò vale anche per l'effetto lancio. Gli esperimenti 24 e 25 di Michotte sembrerebbero contraddire questa affermazio.ne. Tuttavia, in queste situazioni, si ha effetto lancio solo se la velocità dell'agente subisce, dopo l'urto, una radicale riduzione tale da far apparire fenomenicamente la continuazione del suo movimento un'appendice senza importanza.
In questo esperimento, la maggior parte dei soggetti, in disaccordo con i tempi" della presentazione, percepisce l'inizio del movimento di B come consecutivo all'arresto di A; perciò l'esperimento n. 12 è per essi del tutto simile all'esperimento n. 11. Al contrarÌo, i soggetti che, in accordo con le condizioni oggettive percepiscono correttamente l'ini-
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0.12. FIG.
zio del movimento di B come precedente l'arresto di A danno una descrizione che presenta un notevole interesse. Per questi soggetti, il carattere del movimento di B subisce una variazione durante il percorso: nella prima fase, anteriore all'arresto di A, è un movimento autonomo, senza rapporto causale con il movimento del primo oggetto, men~ tre dopo l'arresto di quest'ultimo acquista un carattere dI passività; e cioè, l'oggetto B è attratto da A dal momento in cui questo si arresta. . Non è possibile attribuire questa perdita di autonomIa del movimento di B al fatto che quest'ultimo, dopo aver percorso una parte della distanza che all'inizio lo separava da A, entrerebbe nella sua sfera d'azione soltanto a una distanza ravvicinata, perché, come ha dimostrato Yela [1952] per il caso del lancio a distanza, la nozione di «raggio d'azione» va presa non in senso spaziale, ma temporale. E ciò risulta confermato anche per il caso dell'attrazione dai risultati dell'esperimento n. 11 se, per avere condizioni confrontabili con quelle degli esperimenti n. 10 e 12, si fa arrestare l'oggetto A a distanza considerevole da B. In effetti, se si osserva bene, si nota anche qui la scissione del movimento di B in due fasi, con caratteristiche fenomeniche differenti, che però si susseguono con un ordine inverso rispetto a quello dell'esperimento n. 12: a una prima fase passiva, di attrazione, segue una s~conda in cui l'oggetto B «avanza da solo», animato da un movimento autonomo, non più «causato» dall'arresto di A. 204
.
6.13.
Sembra dunque che, nelle situazioni che abbiamo studiato, l'«urto» sia un fattore veramente importante per la produzione dell'impressione di attrazione. Siamo tuttavia riusciti' a realizzare una situazione sperimentale che non contiene la condizione sopra menzionata (arresto dell'agente) e che nondimeno dà luogo a un evidente effetto attrazione in tutti i soggetti: Esp. 13. - L'oggetto A è costituito da un nucleo centrale circolare (di 40 mm di raggio), da cui si sviluppano lateralmente due appendici, che si allungano gradualmente, in parte allargandosi, a una velocità di 85 cm/sec. Dopo aver finito di allungarsi, le due appendici cominciano a cambiare continuamente forma all'es!remità, mentre due piccoli quadrati BI e B2 (5 per 5 mm), posti lateralmente, si muovono lentamente (32 cm/sec) in direzione dell'estremità delle appendici, con le quali entrano finalmente in contatto (vedi la figura 6.13).
In questo caso, tutti i 31 soggetti parlano di attrazione o di «assorbimento» degli oggetti B da parte dell'oggetto centrale A. Solo per due soggetti l'impressione di attrazione è incerta o discontinua; per tutti gli altri, si tratta di un'impressione particolarmente intensa. Si deve tuttavia rilevare che questa situazione differisce da quella degli esperimenti precedenti per qualche aspetto importante. L'oggetto cambia la propria forma durante il movimento e, mentre a un certo punto cessa di avanzare, 205
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l continua invece a deformarsi. Questo esperimento differisce dunque da quelli precedenti per l'assenza dell'arresto brusco di A, ma anche per il tipo di movimento eseguito da A e per la centralità di A in rapporto agli oggetti B. Queste condizioni avevano intensificato l'effetto causale di attrazione negli esperimenti n. 4, 5 e 6, grazie alla supremazia gerarchica di A su B. Sembra dunque che nelle condizioni particolari del movimento in senso opposto dei due oggetti, l'arresto brusco di A non sia indispensabile alla produzione dell'effetto attrazione, dato che la sua assenza può essere compensata da altri fattori. Dall'esperimento seguente risulta che l'arresto può non essere necessario neppure quando i movimenti dell'oggetto A e dell'oggetto (o degli oggetti) B non sono di senso opposto: Esp. 14. - Le condizioni sono quelle dell'esperimento n. 5, ad eccezione del fatto che il movimento stroboscopico del rettangolo centrale è sostituito da un movimento continuo di rotazione (velocità angolare 24%ec). I quadrati avanzano verso la lancetta ad una velocità di 3 cm/sec finché vengono in contatto con essa, poi tornano alla loro posizione iniziale dopo il passaggio della lancetta, con una velocità di 1.2 cm/sec. (vedi la figura 6.14).
Su 31 soggetti, 29 hanno un'impressione molto netta di attrazione; un soggetto percepisce una forma di «scatenamento» e l'altro descrive il movimento dei quadrati come spontaneo. Per le sue caratteristiche, questa forma di attrazione potrebbe essere messa in rapporto con l'effetto entrainement, in cui l'agente continua il movimento anche dopo avere «messo in azione» il paziente. Alcuni soggetti descrivono così il fenomeno: «Le cose avvengono come se l'oggetto B, che a intervalli regolari si trova di fronte all'oggetto A, fosse tirato da questo mediante una cordicella». In questo caso ci troveremmo quindi di fronte a quella forma dell'effetto entrainement che è l'effetto «trazione» (l'altra forma è lo «spingimento» ). Va tuttavia osservato che si tratterebbe di una particola-
206
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• , FIG, 6.14.
re forma di trazione a distanza, in cui l'agente si sposta a una velocità ben più elevata del paziente, e in direzione perpendicolare al movimento di quest'ultimo.
4.4. L'attrazione «pura»
. Rim~ne infine da stabilire se si produca un'impressione dI a~trazlOne quando le condizioni sono ridotte a quelle che abbIamo considerato essenziali per una definizione dell'eff~tto .attraz~one, e cioè il movimento di uno o più oggetti in d~rezIone dI un altro oggetto, sinché questo non viene raggmnto. Non sono necessari particolari esperimenti per dimostrare che un oggetto che si avvicina ad un altro immobile non produce, per questo solo fatto, l'impressione d'essere attirat~ ~a questo ..Tuttavia a scopo di controllo abbiamo pensato ~I I?trodurre m questa situazione elementare quelle carattenstlche (grandezza, centralità) che si sono rivelate in grado
207
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• FIG.
6.15.
di intensificare l'effetto causale, mediante l'instaurazione di un rapporto gerarchico tra gli oggetti. È stato perciò realizzato il seguente esperimento: Esp. 15. - L'oggetto A è costituito da un disco di 50 mm di diametro. Attorno ad esso sono disposti simmetricamente 4 quadrati, BI> B 2 , B 3 , B4 di 5 mm di lato, che si mettono in movimento alla velocità di 4,4 cmlsec in direzione radiale, finché raggiungono il disco (vedi la figura 6.15).
Il risultato dell'esperimento è stato negativo per quel che concerne l'impressione di attrazione. Su 31 soggetti, solo uno ha parlato di attrazione in questa situazione. Tuttavia, dopo la nostra prima comunicazione in proposito, Gemelli e Cappellini [1958]. hanno pubblicato una ricerca sull'effetto causale di attrazione, in cui sono riportati i risultati di una serie di esperimenti del tipo che segue: Un disco nero B è situato nell'angolo superiore destro di un rettangolo bianco, e un secondo disco nero A è situato nell'angolo inferiore sinistro. A comincia a spostarsi orizzontalmente fino alla regione centrale del rettangolo; successivamente, spostandosi più rapidamente e descrivendo una curva parabolica, va verso B e s'arresta al suo fianco [Gemelli e Cappellini 1958].
208
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6.16.
In questo esperimento, e in altri analoghi 8, il 37% dei soggetti descrive A come attirato da B. Abbiamo allora realizzato un esperimento di controllo: Esp. 16. - All'inizio, c'è un disco di 25 mm di raggio e, a una distanza di lO cm, un quadrato di 5 mm di lato. Il quadrato si mette in movimento alla velocità di 9 cmlsec lungo una traiettoria rettilinea, passante a 4 cm dal disco. A questo punto il quadrato cambia direzione e a velocità doppia (18 cmlsec) si dirige verso il disco, finché lo raggiunge (vedi la figura 6.16).
In questa situazione, 26 soggetti su 40 hanno percepito l'effetto causale. Il risultato è ancora più netto di quello di Gemelli e Cappellini. Per spiegare questo risultato si possono fare due ipotesi che si fondano entrambe sul fatto che, ad un dato momento del percorso dell'oggetto B, si produce un cambiamento di direzione e di velocità. Si può supporre che questo cambiamento brusco determini una modificazione dell'aspetto fenomenico dell'oggetto in movimento e del rapporto fenomenico tra i due oggetti. In cosa può consistere questa modifica? Le due possibili risposte sono: a) data la maggior grandezza dell'oggetto A, si ha già inizialmente, nella strut-
8 Gli esperimenti di questi autori sono stati realizzati con la tecnica cinematografica dei cartoni animati.
209
tura percettiva statica, un rapporto gerarchico di subordinazione di B nei confronti di A. Ciò determina il carattere del cambiamento, nel senso che il movimento di B diventa il movimento passivo di un oggetto che viene attirato. b) Il cambiamento di traiettoria e di velocità conferisce al movimento dell'oggetto B il carattere espressivo dell'intenzionalità. In altri termini B cambia direzione e aumenta la propria velocità, perché «vuole» raggiungere A. Se questo è vero, i soggetti, dicendo che B è attratto da A, non intendevano descrivere un fenomeno di causalità meccanica, ma volevano esprimere il carattere intenzionale assunto dal movimento di B nell'istante in cui cambia bruscamente direzione e velocità. A favore di questa seconda ipotesi sta il fatto che in generale l'aumento di velocità non favorisce il carattere fenomenico di passività 9. Sulla base dei dati attualmente disponibili, non è possibile pervenire a una conclusione sufficientemente certa su questo punto, la cui importanza teorica è evidente. I risultati attuali dovranno essere precisati in ulteriori ricerche.
5. Considerazioni teoriche
1. Quali sono le conseguenze di ordine teorico che derivano dagli esperimenti sopra descritti e dalla constatazione dell'esistenza di impressioni di attrazione di natura veramente percettiva? L'affermazione di Michotte [1954, 216], secondo cui «sarebbe teoricamente impossibile provocare un'impressione di attrazione», lascerebbe pensare che un esperimento contraddicente questa affermazione dovrebbe mettere in discussione l'intera sua teoria. Tuttavia un esame approfondito della teoria conduce a una conclusione diversa. Il nucleo centrale della teoria di Michotte è costituito 9 Ciò vale per l'effetto lancio e in generale per i nostri esperimenti. Fa tuttavia eccezione l'effetto entrafnement, che viene favorito da un aumento di velocità dopo l'incontro [vedi Michotte 1957b].
210
dal concetto di ampliamento del movimento, definito da Michotte come un «processo che consiste nel fatto che il movimento dominante, quello dell'agente, sembra estendersi al paziente, rimanendo tuttavia distinto dal cambiamento di posizione che questo subisce» [Michotte 1954, 214]. Per poter apprezzare il senso di questa definizione, è opportuno tener presenti alcuni fatti, messi in evidenza dallo stesso Michotte, quando analizza i fattori che determinano l'impressione causale nel caso paradigmatico dell'effetto lancio, a cui le forme tipiche di attrazione si mostrano apparentate. a) Occorre innanzi tutto operare una distinzione, in ambito sperimentale, tra movimento e dislocazione spaziale. La prova della legittimità, o meglio, della necessità di questa distinzione, è fornita dal fatto che i due fenomeni possono sussistere indipendentemente l'uno dall'altro. Il movimento senza dislocazione spaziale è un fatto: in quelle che vengono convenzionalmente chiamate «immagini consecutive di movimento», si percepisce il movimento di immagini che in realtà non si spostano, ma mantengono inalterata la loro localizzazione spaziale e lo stesso si ottiene, quando si stimola elettricamente il labirinto. E ancora esiste, ed è molto comune, il fenomeno inverso della dislocazione spaziale senza movimento: un oggetto trasportato da un veicolo si sposta, ma il movimento appartiene fenomenicamente al veicolo, non all'oggetto trasportato. Il fatto che a un dato fisico corrispondano due ordini distinti di dati percettivi non rappresenta, del resto, un caso isolato nella psicologia della percezione, in cui forme analoghe di scissione fenomenica sono ben note e niente affatto rare. b) Nel fenomeno del lancio, abbiamo un caso particolare di scissione fenomenica tra movimento e dislocazione spaziale. Il proiettile, e cioè l'oggetto lanciato, presenta un carattere di passività analogo a quello di un oggetto trasportato da un veicolo. Esso è inerte, non è dotato di movimento proprio, ma è semplicemente trasportato, dopo l'urto, da una posizione spaziale a un'altra. Non c'è tuttavia un veico211
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lo trasportatore: il movimento del proiettile appartiene fenomenicamente all'oggetto che provoca l'urto. c) L'affermazione, in apparenza paradossale, che il movimento che fa dislocare il proiettile appartiene all'oggetto motore che, dopo l'urto, resta immobile, esige. che si ammetta la possibilità: in primo luogo, che il movimento sia un fenomeno sui generis, suscettibile, in certe condizioni, di «staccarsi» dagli oggetti; e, in secondo luogo, che questo movimento possa essere vissuto ancora per un certo tempo come appartenente all'oggetto da cui si è staccato percettivamente. Michotte riferendosi anche al ben noto esperimento di Wertheimer [1911] sul movimento puro, ha dimostrato sperimentalmente che in condizioni adeguate possono prodursi entrambe le eventualità fenomeniche. Ne conclude che, quando si realizza l'effetto lancio, al momento dell'impatto il movimento dell' oggetto motore sembra estendersi al proiettile, di cui realizza la dislocazione. In altri termini, in condizioni spaziali, temporali e cinetiche adeguate, il movimento si sdoppia nell'istante dell'urto, e viene vissuto nello stesso tempo come la continuazione del movimento dell'oggetto motore, e come la realizzazione del cambiamento di posizione del proiettile. Da questa definizione, risulta chiaramente che, benché da un punto di vista oggettivo si tratti di due movimenti, il lancio comporta da un punto di vista fenomenico un unico movimento, quello dell'oggetto motore, che continua dopo l'arresto di quest'ultimo, e «trasporta» il proiettile. È dunque in questa continuazione del movimento dell' agente e nella sua estensione al paziente (e cioè, nell'ampliamento del movimento) che risiede il punto essenziale della teoria. E poiché Michotte è riuscito a ricondurre a questa nozione fondamentale tutti i casi nei quali si produce un'impressione causale da lui studiati, ne ha concluso che si può vivere una connessione causale tra due avvenimenti percettivi soltanto se sussistono le condizioni che consentono la realizzazione dell'ampliamento. È possibile accettare la teoria di Michotte, senza accet212
tare nello stesso tempo la sua affermazione (che egli considera conseguenza logica della teoria stessa) sulla impossibilità di produrre quei fenomeni di tipo causale di cui noi abbiamo dimostrato sperimentalmente l'esistenza? Pensiamo che sia possibile farlo, perché non ci sembra che la conclusione negativa ",Ila quale perviene Michotte discenda necessariamente dalla teoria dell'ampliamento. Infatti nella teoria sono precisate solo le condizioni generali dell'ampliamento del movimento. Si tratta sia delle condizioni che assicurano la distinzione dell'agente dal paziente, sia delle condizioni che favoriscono la fusione dei loro due movimenti in un movimento solo, che passa dall'uno all'altro. Ma le condizioni specifiche che permettono o meno l'unificazione dei movimenti possono essere stabilite con certezza soltanto sperimentalmente. Se ne trova un esempio particolarmente evidente nel libro di Michotte. In teoria si potrebbe pensare che, tanto nel caso del lancio che in quello del trascinamento, i movimenti dell'agente e del paziente richiedano, per potersi unificare, oltre all'identità di direzione dei movimenti lo stabilirsi di un contatto tra gli oggetti. In realtà, Michotte stesso ha mostrato che la unificazione può prodursi a distanza, e dalle ricerche di Yela [1952a] risulta che, se il concorso delle altre condizioni favorevoli è ottimale, il lancio a distanza assume un'evidenza fenomenica particolare. A nostro avviso, non c'è motivo per negare a priori la possibilità che tra due movimenti di senso opposto si stabilisca quella identificazione che è necessaria affinché, con il prodursi dell'ampliamento, si abbia un'impressione di causazione. Ciò equivarrebbe a ritenere che l'identità di senso costituisca una condizione assoluta perché tra due movimenti si possa cogliere una somiglianza o un certo grado di affinità. Ma ciò non è affatto vero; infatti, per dare un esempio, due oggetti che siano i soli a muoversi in un campo per il resto assolutamente statico, hanno, a prescindere dal tipo di orientamento delle loro traiettorie, un'affinità fondamentale dal punto di vista percettivo, affinità costituita precisamente dal fatto che sono dotati di movimento. 213
Secondo noi, non si può sostenere che nel caso di movimenti di senso opposto non esistono le condizioni per una identificazione, come non si può neppure affermare che l'unificazione deve obbligatoriamente aver luogo; la comparsa o meno del fenomeno dipenderà dalla presenza di altre condizioni favorevoli, dal loro numero e dalla forza della loro azione. 2. Per mettere in evidenza queste condizioni, e stabilire le conseguenze teoriche che derivano dalle nostre osservazioni, conviene esaminare i risultati quantitativi degli esperimenti condotti in condizioni rigorosamente controllate con lo stesso gruppo di 40 soggetti. Abbiamo raccolto questi risultati nella seguente tabella:
Esperimenti Lancio (Michotte esp. 1) Allungamento multiplo (esp. 6) Lancetta (esp. 5) Allungamento (esp. 4) Disco immobile (esp. 16) Apparizione istantanea (esp. 3) Salto stroboscopico (esp. 2, figura 6.2) Calamita (Michotte, esp. 36)
N. dei soggetti che percepiscono l'effetto causale 37 32 30 27 26 21 lO
7
(92.5%) (80%) (75%) (67.5%) (65%) (52.5%) (25%) (17.5%)
Come si vede, per avere un termine di riferimento, sono state presentate anche due situazioni sperimentali di Michotte: quella paradigmatica del lancio, e l'esperimento negativo relativo all'attrazione, che riproduce l'avvicinamento della limatura di ferro alla calamita. Se le classifichiamo in base alla frequenza dei risultati positivi, queste due situazioni compaiono, come era prevedibile, al primo e all'ultimo posto. Però, contrariamente alle previsioni, la prima non raggiunge la totalità delle risposte positive e le risposte alla seconda non sono tutte negative. Come vanno interpretati questi risultati? Si può avanzare l'ipotesi che certi soggetti
214
non abbiano capito bene cosa ci si attendeva da loro, o che si siano rifiutati di cOllabora/1- Ma, anche ammettendo che ciò sia vero per i tre soggett~ che non hanno percepito l'effetto lancio lO, è più difficile che sia vero per i 7 soggetti che hanno dichiarato di percepire l'attrazione nell'esperimento 36 di Michotte. È dunque probabile che almeno qualche soggetto abbia percepito l'attrazione anche in questa situazione. Quali conseguenze comporta questa interpretazione? Consideriamo innanzi tutto il significato che va attribuito al fatto che nelle varie situazioni sperimentali un diverso numero di soggetti ha percepito l'effetto causale. È chiaro che il fatto che di fronte alla stessa situazione sperimentale alcuni soggetti hanno risposto in modo diverso dagli altri non può dipendere che da una differenza nelle condizioni soggettive: impostazioni o atteggiamenti spontanei che esercitano un'influenza favorevole o sfavorevole sull'impressione causale. Le differenze nelle percentuali dei risultati positivi registrati nei vari esperimenti potrebbero anche dipendere da fluttuazioni casuali degli atteggiamenti soggettivi, ed è probabile che di fatto ne dipendano quando le differenze sono piccole. Ma quando le differenze sono tali che non si ha che una minima probabilità che siano casuali, è legittimo e normale cercare un'altra spiegazione. Nel caso qui descritto si potrebbe pensare che le situazioni sperimentali sono differenti tra loro per la maggiore o minore facilità con cui possono dar luogo ad un'impressione di connessione causale: in certe situazioni sarebbe necessario un atteggiamento particolarmente favorevole perché si produca l'effetto causale; in altre, può essere sufficiente che l'atteggiamento non sia sfavorevole; in altre, infine, l'effetto causale è coercitivo, o,' in altri termini, si produce praticamente sempre, e non si verifica solo in caso di condizioni soggettive estremamente sfavorevoli. Secondo questa spiegazione, l'esperi-
lO Sembra tuttavia improbabile che ciò possa essersi verificato senza che gli sperimentatori se ne accorgessero.
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mento 36 di Michotte farebbe parte delle situazioni che possono dar luogo a un effetto causale soltanto a patto che ci sia un atteggiamento soggettivo particolarmente favorevole. È accettabile questa conclusione? È chiaro che l'atteggiamento soggettivo non è onnipotente, poiché altrimenti si potrebbe sempre percepire una relazione causale tra due oggetti o due eventi qualsiasi. Ciò significa che anche la situazione dell'esperimento 36 di Michotte deve contenere delle condizioni favorevoli alla percezione di una relazione causale. Non è difficile precisare, pur se solo ipoteticamente, alcune di queste condizioni: il fatto che entrambi gli oggetti entrino in movimento, che uno d'essi abbia la priorità temporale, che il movimento del primo cessi al momento in cui il secondo entra in movimento 11. Anche per le altre situazioni sperimentali è possibile mettere in evidenza l'azione dei fattori favorevoli che giustificano le differenze nelle percentuali dei risultati positivi. L'esperimento n. 3 (Apparizione istantanea), che ha dato risultati positivi molto elevati, se confrontati a quelli dell'esperimento 36 di Michotte (Calamita) (X2 = 7.58; P < .01) 12, se ne distingue sotto diversi aspetti: a) il rapporto delle velocità dei due oggetti è discendente, e noti ascendente; b) il senso del movimento che compare improvvisamente non è opposto a quello dell'altro oggetto; c) l'oggetto motore è ben più grande ed è perciò probabile che anche la differenza di grandezza, in quanto fattore gerarchizzante, agisca in senso favorevole al prodursi di un effetto causale. L'esperimento n. 4 (Allungamento), i cui risultati differiscono nettamente da quelli dell'esperimento n. 2 (Salto stroboscopico) (X2 = 13.47; P < .01), si distingue da quest'ulti11 Oggettivamente, il movimento del primo cessa quando cessa quello del secondo; ma data la rapidità del salto stroboscopico, la localizzazione temporale soggettiva dell'arresto del primo oggetto dipende dall'organizzazione percettiva dell'avvenimento. Dalle osservazioni effettuate, sembra che l'organizzazione percettiva sia quella indicata nel testo. 2 12 Trattandosi di esperimenti effettuati con gli stessi soggetti, il X è stato calcolato con la formula proposta da Edwards con la correzione di Yates.
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ma in quanto l'oggetto motore è (o, più esattamente, diventa) più grande dell'oggetto che subisce l'attrazione. Inoltre anche la deformazione che accompagna il movimento agisce in senso favorevole all'effetto causale. Infatti il carattere gerarchicamente superiore del movimento accompagnato da deformazione è stato messo in evidenza da Michotte nello studio della «propulsione». Dal confronto tra l'esperimento n. 3 (Apparizione istantanea) e esperimento n. 5 (Lancetta) (X2 = 3.37; non significativo) e n. 6 (Allungamento multiplo) (X2 = 6.66; p < .01) (in cui i risultati sono nettamente superiori a quelli dell'esperimento n. 3), risulta che queste situazioni, oltre alle condizioni già discusse, si differenziano per la posizione centrale dell' oggetto motore che inoltre è unico di fronte a una molteplicità di oggetti periferici. Con tutta probabilità, questa condizione ha accentuato il rapporto gerarchico. Il peso relativo di questi diversi fattori non è certamente lo stesso. Infatti, benché nella situazione dell'effetto lancio non si abbia né un rapporto discendente delle grandezze, né centralità, né movimento d'ordine superiore dell'oggetto motore, la sola identità di direzione dei due movimenti porta a risultati positivi per quasi tutti i soggetti. 3. Sulla base dei risultati dello studio di Michotte e delle ricerche effettuate da noi e da altri autori, tentiamo ora di precisare le condizioni del fenomeno causale: a) Condizioni relative all' oggetto Carattere d'oggetto. L'effetto causale è generalmente percepito come esercitato da oggetti su altri oggetti. Si pone perciò il problema di sapere se il «carattere di oggetto» costituisca una condizione necessaria, o almeno favorevole, al prodursi di un effetto causale. Il problema è stato affrontato indirettamente da Michotte, quando ha dimostrato che l'impressione causale è indipendente dal carattere fenomenico di oggetto. Il fatto che si possa percepire il lancio di una biglia di legno come se fosse effettuato da un cerchio di luce [Michotte 1954, esp. n. 28]
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dimostra che il carattere di oggetto (inteso nel senso per cui un cerchio di luce, o un'ombra, ne sono sprovvisti) non è una condizione necessaria per la produzione dell'effetto causale. Se invece si considera come «oggetto» ogni unità discreta nel campo visivo, questo carattere si rivela, almeno negli esperimenti effettuati finora, come una condizione costante degli effetti causali. Numero degli oggetti. M1chotte, con la scoperta dell'autolocomozione, ha dimostrato che la condizione che poteva sembrare implicita nel concetto stesso di causalità (la presenza di almeno due oggetti, l'agente e il paziente) non è una condizione necessaria in modo assoluto, datQ che un effetto causale può prodursi anche quando è presente un solo oggetto. Grandezza relativa degli oggetti. Sulla base dei risultati degli esperimenti descritti nel paragrafo precedente un rapporto decrescente tra le grandezze sembra favorire la produzione di un effetto causale tra due oggetti. b) Condizioni temporali Successione dei movimenti 13. Nei due esperimenti fondamentali di Michotte (esperimenti n. 1 e n. 2), l'oggetto percepito come causa del movimento entra in moto per primo. Questa condizione si rivela importante per stabilire un rapporto gerarchico tra l'agente e il paziente 14; non si tratta tuttavia di una condizione necessaria per la produzione dell'effetto causale: Michotte stesso [1954, 67] nei suoi esperimenti di «lancio al volo» ha presentato situazioni nelle quali
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13 Dai lavori di Michotte deriva la necessità di distinguere tra questa condizione (l'agente entra in movimento prima del paziente) e la condizione fondamentale, secondo la quale l'agente deve essere in movimento prima del momento in cui si produce l'effetto causale (negli effetti di lancio e trascinamento, prima dell'incontro dei due oggetti). Riserviamo la denominazione di priorità temporale a quest'ultima condizione, mentre chiamiamo successione dei movimenti quella qui esaminata. 14 Questa condizione è presente in tutti i nostri esperimenti, ad eccezione dell'ultimo.
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l'effetto causale si determina, nonostante che i due oggetti entrino simultaneamente in movimento 15. Intervallo temporale tra i movimenti. La rapidità di successione dei movimenti 16 sembra essere una condizione essenziale per l'insorgere dell'effetto causale: Michotte ha mostrato che, aumentando l'intervallo temporale tra i due movimenti, si passi rapidamente dall'impressione fenomenica di «lancio» a quella di due oggetti che eseguono dei movimenti indipendenti in successione. È stato però trovato che in certi casi un piccolo aumento di tale intervallo è favorevole all'effetto causale [Passi Tognazzo 1958] 17. Sembra quindi che non si tratti di una condizione assoluta, ma di una condizione legata ad altri aspetti del fenomeno. Non si hanno dati sperimentali per stabilire se, e in quali limiti, questa condizione, che appare come una delle più coercitive' dell'effetto causale, possa essere compensata da altre. Priorità temporale. Chiamiamo così, con Michotte, il fatto importantissimo che l'oggetto motore inizia il suo movimento prima del momento in cui si produce l'effetto causale. Nondimeno, dagli stessi esperimenti di Michotte sembra che neppure questa condizione sia indispensabile, poiché, nella propulsione, l'effetto causale si realizza senza la priorità temporale, la cui assenza viene ad essere compensata dall'azione gerarchizzante del movimento d'ordine più eJevato [vedi Michotte 1954, cap. 11] 18.
15 Anche nelle ricerche di Passi Tognazzo [1958] l'effetto causale compare in tutta una serie di esperimenti nei quali i due oggetti entrano in movimento simultaneamente. 16 Nella descrizione delle condizioni dell'effetto causale si adotta il punto di vista fisico-oggettivo; di fatto, come si è detto, fenomenicamente si tratta di un solo movimento. 17 Quando, nel trascinamento, l'oggetto motore effettua un movimento di andata e ritorno, l'introduzione di una pausa prima del movimento comune favorisce l'effetto causale. 18 Allo stesso modo, dagli esperimenti di Passi Tognazzo risulta che, in condizioni particolari, si percepisce come motore l'oggetto che non ha la priorità del movimento. I
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c) Condizioni spaziali Direzione e verso dei movimenti. L'identità del verso dei due movimenti è considerata da Michotte una condizione sine qua non perché si produca l'effetto causale: infatti ciò che renderebbe possibile l'identificazione parziale tra i due oggetti, identificazione che permette l'estensione del movimento dal primo al secondo, sarebbe precisamente il fatto che i due movimenti sono in continuazione l'uno dell'altro. Tuttavia, nel corso dei nostri esperimenti, abbiamo constatato che l'effetto causale può realizzarsi tra oggetti i cui movimenti sono di verso opposto. Si deve dunque concludere che anche questa condizione è molto favorevole ma non indispensabile all'effetto causale 19.
Orientamento relativo dei movimenti. Secondo Michotte, perché l'impressione causale si produca in modo ottimale, sarebbe necessaria un'identità, o almeno una divergenza molto piccola dell'orientamento dei movimenti. L'impressione causale sparirebbe totalmente quando le traiettorie sono perpendicolari tra di loro, o quando si ha uno scarto parallelo tra una traiettoria e l'altra [Michotte 1957a, 97 ss, 121, 225]. I nostri esperimenti 5, 8 e 14 mostrano che queste condizioni non escludono però affatto il verificarsi di un effetto causale 20. Posizione. Nei nostri esperimenti, la posizione (centrale o periferica) sembra esercitare un'influenza sull'effetto causale, particolarmente quando si ha movimento senza dislocazione dell'oggetto motore (rotazione o cambiamento di forma). 19 Del resto, nell'esperimento 58 di Michotte [1954, 158 - effetto trazione] il movimento dell'agente prim,a dell'incontro va in direzione opposta a quello del paziente, nonché dell'agente stesso dopo l'incontro. Anche in questo caso, come osserva Michotte, la direzione opposta dei movimenti rappresenta un ostacolo, e pertanto l'effetto causale è evidente solo se le . altre condizioni sono favorevoli. 20 Gli esperimenti n. 5 e n. 14. provano la possibilità di un effetto causale quando i movimenti sono fo'rtemente divergenti, mentre l'esperimento 8 fornisce la stessa prova per i casi in cui le traiettorie sono sfasate tra di loro.
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d) Condizioni cinetiche Movimento deltoggetto motore. È la condizione che si incontra in tutti gli esperimenti di Michotte, e che è alla base della teoria stessa dell'ampliamento del movimento. La sola eccezione è costituita dall'esperimento di Gemelli e Cappellini, ripetuta da noi nell'esperimento 18, e i cui risultati attendono di venir interpretati alla luce di ulteriori ricerche. Velocità assoluta. Le ricerche di Michotte hanno messo in luce l'importanza della velocità che, nel fenomeno del lancio, non deve essere né troppo elevata (perché allora impedirebbe l'effetto causale unificando i due oggetti in movimento, e trasformando così radicalmente la struttura dell'evento), né troppo bassa (perché costituirebbe un ostacolo indiretto all'effetto causale, favorendo l'azione dei fattori di segregazione. Le nostre conoscenze sull'azione esercitata dalla velocità assoluta sulle altre condizioni dell'effetto causale sono attualmente incomplete. Trattandosi tuttavia di una azione che può operare nel senso di una maggiore unificazione, o di una maggiore segregazione, è chiaro che questa azione può essere compensata da altri fattori unificanti o segreganti. Velocità relativa. Una scala decrescente delle velocità (agente più veloce del paziente) è una condizione particolarmente favorevole ad un effetto causale ottimale. Essa sembra indispensabile quando occorre compensare la presenza di altre condizioni sfavorevoli, come nel caso del lancio a distanza [Yela 1952] e nei nostri esperimenti, in cui si tratta sempre di un effetto a distanza complicato da altre condizioni sfavorevoli all'effetto causale (la principale è il verso opposto dei movimenti). Tuttavia, già dall'esperimento paradigmatico di Michotte [1954, esp. 1, 18] risulta che non si tratta di una condizione indispensabile. Gerarchia dei movimenti. La scala discendente dei movimenti, come la scala decrescente delle velocità, esercita una funzione gerarchizzante, per cui diviene oggetto motore l'oggetto con un movimento di ordine più elevato (rotazione, deformazione, ecc.). Anche questa è una condizione faj
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vorevole alla produzione dell'effetto causale [Michotte 1954, 174; ed i nostri esperimenti n. 4, 5, 6, 13, 14].
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4. Dall'esame delle condizioni spaziali, temporali e cinetiche della causalità percettiva (esame che ci ha permesso di confrontare i risultati delle nostre ricerche e di quelle d'altri studiosi con i dati riportati da Michotte), risulta dunque che, con l'eccezione della condizione della simultaneità o della successione immediata 21, tutte le altre condizioni si compensano reciprocamente, e che nessuna di esse è indispensabile alla produzione del fenomeno causale. Questa constatazione trova del resto la sua giustificazione nel quadro della teoria di Michotte. Le condizioni che abbiamo testé analizzato hanno soprattutto il ruolo di creare una situazione di equilibrio tra due estremi: da una parte l'unificazione o, più esattamente, l'identificazione 22 dei due oggetti che eseguono i due movimenti in un solo oggetto che li esegue entrambi e dall'altra parte la segregazione non soltanto degli oggetti, ma anche dei movimenti che essi compiono. Contemporaneità o successione immediata (o con un breve intervallo) dei due movimenti, orientamento e direzione (concordante o meno), velocità più o meno elevata o differenza tra le velocità, contatto o azione a distanza: queste sono le principali condizioni che, appositamente dosate, creano il giusto equilibrio tra unificazione e segregazione che permette l'unificazione dei movimenti, pur mantenendo la distinzione tra gli oggetti. C'è però un gruppo di condizioni che svolge questo ruolo in modo particolare. Sono quelle che creano un rapporto gerarchico tra i due oggetti in movimento, rapporto che staSi deve rilevare che questa coJdizione è determinata, come le altre, i~ modo empirico: non c'è nessuna necessità logica che la imponga, e non SI può dunque escludere che, in casi particolari, la condizione della successione immediata si riveli non necessaria. 22 Nel caso dell'autolocomozione l'oggetto è uno solo; si ha tuttavia una differenziazione funzionale tra le due parti dell'oggetto, che svolgono le funzioni che nelle altre situazioni sono proprie dei due oggetti, agente e paziente.
bilisce quel particolare equilibrio tra unificazione e differenziazione necessario per il verificarsi del fenomeno causale. Queste condizioni sono: l'antecedenza e la priorità temporale, la scala discendente delle velocità, la scala discendente dei movimenti, il rapporto gerarchico delle dimensioni e delle posizioni. Solo l'arresto brusco dell'oggetto motore, condizione che abbiamo analizzato sperimentalmente nella parte precedente, non sembra poter entrare in questa definizione. Questa condizione sembra limitarsi al fenomeno del lancio e ai fenomeni che gli sono apparentati, come la maggior parte delle situazioni di attrazione. Ma, a guardar bene, nelle altre forme di causalità percettiva si ha comunque un brusco cambiamento nel momento stesso in cui si instaura il fenomeno causale. L'esperimento paradigmatico dell'entrafnement mostra che il momento in cui si presenta l'effetto causale è contrassegnato dall'incontro. Si ha dunque un evento che coincide con la nascita dell'effetto causale o la precede immediatamente. Tale evento può essere un arresto o un incontro o, come nel nostro esperimento 16, un cambiamento di direzione o di velocità. Una specie di incontro si può vedere anche nell'esperimento n. 14, nel momento in cui la lancetta giunge di fronte ad ogni quadrato, e, pur continuando a spostarsi, vi rimane per alcuni istanti. Questa condizione ha un carattere diverso da quelle che abbiamo sinora considerato: non ha né funzione gerarchizzante, né funzione unificatrice, sembra avere piuttosto un ruolo di rottura, di riorganizzazione percettiva.
6. Conclusioni
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I risultati della nostra ricerca hanno dimostrato, innanzitutto, che nessuna delle condizioni favorevoli per la produzione dell'impressione causale è assolutamente necessaria, data la possibilità di compensazione tra condizioni differenti.
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Ciò non comporta modifiche sostanziali della teoria di Michotte: le forme dell'attrazione fenomenica appaiono compatibili con la teoria dell'ampliamento del movimento, e rientrano senza sforzo nelle due forme fondamentali del lancio e dell' entrafnement. Nondimeno, l'esperimento n. 16 richiede una considerazione a parte. L'attrazione di un mobile da parte di un oggetto immobile non può in alcun modo rientrare nella teoria dell'ampliamento del movimento; la dimostrazione di questa forma particolare di attrazione mette automaticamente in questione la teoria, o, almeno, ne restringe la validità a un dominio particolare di fenomeni. Tuttavia, un solo esperimento, di cui è stato controllato il risultato ma di cui non si è riusciti a chiarire il significato, non basta a mettere in crisi una teoria, e ancor meno a farne formulare una nuova. Se esiste una forma di causalità fenomenica in cui il motore è immobile, non è verosimile che essa si limiti all'attrazione fenomenica. Si rende allora necessario uno studio che acèerti l'estensione di questo nuovo fenomeno. Quanto alle condizioni che lo determinano, esse potranno probabilmente essere precisate studiando attentamente gli effetti dei mutamenti improvvisi del campo percettivo. Da questo tipo di ricerche ci si può attendere molto.
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CAPITOLO SETTIMO
LA PERCEZIONE DELLA REAZIONE INTENZIONALE
A. POSIZIONE E STORIA DEL PROBLEMA
1. Premessa I movimenti fenomenici possiedono - oltre alle caratteristiche più note, quali la velocità e la direzione - un certo numero di qualità espressive o «fisionomiche». Mentre i primi aspetti sono stati oggetto di accurati studi, scarsa è ,la letteratura riguardante questo secondo gruppo di qualità. O meglio, sono relativamente pochi i lavori dedicati allo studio dei fenomeni espressivi in quanto strutture percettive, mentre abbondano invece quelli volti a determinare l'attendibilità dei giudizi sulla espressione dei sentimenti altrui. La nostra ricerca rientra tra quelle del primo gruppo, non riguarda cioè il problema della esattezza dei giudizi sulla espressività, ma piuttosto l'aspetto percettivo dell'espressività stessa. La storia del nostro problema può essere fatta risalire a due inizi tra di loro indipendenti, cioè ad una ricerca di Heider e Simmel [1944] ed agli studi che circa nello stesso periodo Michotte [1946] veniva conducendo sulla causalità fenomenica. Poiché nei trattati vengono dedicati a queste ricerche generalmente pochi accenni, riteniamo opportuno esporle un po' più estesamente, affinché siano chiare le premesse da cui partono le nostre ricerche.
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Heider e Simmel presentavano ai loro soggetti un breve film d'animazione, della durata di circa 2 minuti e mezzo, nel quale tre figure geometriche (un triangolo grande, un triangolo piccolo ed un piccolo disco) si muovevano in varie direzioni ed a varie velocità. C'era inoltre un rettangolo, una parte del quale si apriva e si chiudeva come una porta (vedi figura 7.1). Dopo aver visto il film, i soggetti venivano invitati a raccontare per iscritto ciò che avevano visto. Solo una persona su 34 descrisse il film in termini puramente geometrici, tutte le altre interpretarono le sequenze dei movimenti veduti sullo schermo come una successione dì «azioni» di esseri animati, quasi sempre come azioni di personaggi umani. Tutti i 36 soggetti di un secondo gruppo, che erano stati espressamente invitati ad interpretare i movimenti delle figure geometriche come azioni di persone, raccontarono una storia di cui erano protagonisti tre personaggi umani. Il fatto che i soggetti del primo gruppo (meno uno) descrivessero spontaneamente le sequenze del film come azioni
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FIG. 7.1.
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di esseri animati è già un risultato importante, ma il fatto più importante è costituito dalla grande uniformità delle storie raccontate dai soggetti di entrambi i gruppi. Ad esempio, in tutte le storie il triangolo grande ed il triangolo piccolo ad un certo momento «combattono» fra loro, e per la maggior parte dei soggetti esiste un accordo tra il triangolo piccolo ed il dischetto, che sono alleati contro il triangolo grande. Andando oltre alla constatazione di queste significative concordanze, Heider e Simmel tentano di analizzare ulteriormente i loro risultati, cercando di precisare le caratteristiche possedute dalle situazioni-stimolo corrispondenti alle diverse interpretazioni. Essi pervengono così a distinguere quattro tipi principali di combinazioni di movimenti: 1) movimenti successivi con contatto momentaneo; 2) movimenti simultanei con contatto prolungato; 3) movimenti simultanei senza contatto; 4) movimenti successivi senza contatto. Nel primo di questi casi individuano le condizioni per le quali si realizza l'impressione della causalità meccanica, che Michotte chiamerà «effetto lancio». Quando il triangolo piccolo inizia a muoversi immediatamente dopo essere stato toccato dal triangolo grande, si ha l'impressione che esso venga «scagliato», «lanciato» dall'altro: i soggetti hanno la netta impressione di un passaggio di energia cinetica da un oggetto all'altro. L'impressione di «lotta» è data dall'alternarsi rapido e coordinato di tali sequenze di movimenti ciascuna delle quali ha le caratteristiche del «lancio». Nel caso di movimenti simultanei con contatto prolungato si verifica quell'altro tipo di situazioni causali che Michotte chiamerà «effetto trazione» ed «effetto spingimento». Nel film di Heider e Simmel tali impressioni causali si verificano ad esempio quando si vedono i personaggi «aprire» o «chiudere» la porta: essi cioè non lo fanno mediante un urto istantaneo, ma «tirano» o «spingono» la porta con contatto prolungato. Nel terzo caso, quello dei movimenti simultanei senza contatto, si può ancora avere l'impressione che uno dei due 227
movimenti sia causato dall'altro, ma in genere non si tratta più di causalità meccanica, ma di una causazione psicologica. Ad esempio uno dei due personaggi «insegue» l'altro (la cui fuga è pertanto causata dal movimento del primo), oppure uno dei due «guida» l'altro. La constatazione di questa duplice possibilità è importante, perché in situazioni così semplificate l'interpretazione delle combinazioni di movimenti può variare molto a seconda di quale delle unità in movimento è vissuta come «origine». In altre parole, i movimenti delle linee e delle figure sono di per sé degli stimoli ancora indeterminati, che acquistano un significato preciso soltanto quando si innestano in un campo costituito da oggetti e da persone, e vengono vissuti o interpretati come «azioni». Secondo Heider e Simmel si può applicare in questo caso, altrettanto legittimamente di come si fa ad esempio nel campo della percezione cromatica, la distinzione tra una percezione in un certo senso più strettamente corrispondente alla stimolazione locale ed una percezione relativamente più determinata dalla situazione globale. I movimenti fenomenici in quanto tali sarebbero cioè paragonabili ai colori di riduzione e le azioni e le persone sarebbero equivalenti ai colori oggettuali. Nel caso della percezione cromatica, il colore si distribuisce in proporzioni differenti tra oggetti e illuminazione e nel caso delle combinazioni cinetiche il movimento è vissuto come appartenente in modo peculiare piuttosto all'una che all'altra unità percettiva. Meglio: si opera una scissione tra «movimento» e «spostamento» e, mentre il movimento vero e proprio appartiene all'oggetto-causa, all'agente, l'oggetto che subisce l'azione del primo viene semplicemente «spostato» in modo passivo. Questo nelle situazioni di causalità meccanica; quando invece si tratta di causazione psicologica, il movimento intenzionale è un vero movimento (e non soltanto uno spostamento passivo) ma la sua origine o «causa» è vissuta nel movimento di un altro oggetto.
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3. Michotte
Quasi contemporaneamente al lavoro di Heider e Simmel, Michotte stava compiendo le sue famose ricerche sulla percezione della causalità 1. Nel corso dei suoi esperimenti sulla percezione della causalità meccanica egli aveva notato che spesso i soggetti nel descrivere le situazioni che venivano loro presentate (e che consistevano, come si sa, in semplici spostamenti di quadratini), ricorrevano ad un linguaggio antropomorfico, dicendo ad esempio che un quadratino «spingeva», «inseguiva», «picchiava» l'altro, e così via. Da queste osservazioni Michotte [1950] fu indotto a proporre una teoria che egli presentò al «Simposio sui sentimenti e sulle emozioni», tenuto nel 1948 all'Università di Chicago. Questo suo saggio, relativamente poco noto, ci sembra molto interessante per la chiarezza con la quale viene impostato il problema della «lettura» diretta dei sentimenti altrui e della comprensione dei rapporti interpersonali. Egli parte anzitutto dalla constatazione abbastanza ovvia che la nostra conoscenza degli stati emotivi e delle intenzioni delle altre persone si fonda necessariamente sulle loro reazioni percepibili, cioè sulle loro parole, sui loro gesti o sulle loro espressioni mimiche. Nella maggior parte dei casi queste manifestazioni non sono vissute come riguardanti un individuo isolato - come potrebbe essere ad esempio un'espressione di gioia o di dolore la cui causa sia sconosciuta allo spettatore - ma sono quasi sempre percepite come aventi un rapporto con qualche altra persona, animale o cosa. «La persona che è irritata perché è incespicata in un sasso dà ùn calcio al sasso; se qualcuno incontra un amico gli stringe
1 Già Duncker [1935], Koffka [1935] e Metzger [1941] avevano affermato che le impressioni di causalità sono dati immediati dell'esperienza. correlati con la struttura specifica della situazione stimolo. Il merito di Michotte sta nell'aver dato una validità empirica a queste affermazioni, accertando attraverso la sua lunga ed ingegnosa serie di esperimenti l'effettiva esistenza di tale correlazione tra configurazione degli stimoli ed esperienza fenomenica e precisandone la natura, i limiti e le leggi.
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una mano o afferra il suo braccio. E d'altra parte queste reazioni sono spesso seguite o accompagnate da altre reazioni da parte degli oggetti: si vede volare il sasso, o l'amico contraccambiare i gesti di affetto» [Michotte 1950, 116]. Anche quando non comprendiamo la lingua di chi parla o quando è assente qualsiasi tipo di comunicazione verbale, noi in genere «vediamo» abbastanza bene lo stato d'animo di una persona o il tipo di rapporto intercorrente tra due persone. Molti anni prima, per spiegare come questa comprensione sia possibile, K6hler [1929] aveva elaborato una teoria che si fonda in sostanza sull'ammissione di uno stretto isomorfismo strutturale tra la esperienza emotiva di un soggetto, la sua espressione nel comportamento dello stesso soggetto, e la percezione di tale comportamento da parte di un altro soggetto. Per Michotte, che adotta un ragionamento analogo a quello di K6hler, le emozioni e .le tendenze si possono distinguere grosso modo in due gruppi, a seconda che riguardino un rapporto integrativo (simpatia, amicizia, amore) o segregativo (antipatia, disprezzo, odio, paura) tra la persona che prova tali emozioni e la persona o la cosa che ne sono l'oggetto. Le reazioni motorie corrispondenti al primo gruppo provocano di solito un avvicinamento, per cui si tende a mettersi l'uno vicino all'altro o a stabilire un contatto più o meno stretto, più o meno prolungato: una stretta di mano, un abbraccio od anche un semplice sguardo. Le reazioni caratteristiche delle emozioni segregative presentano naturalmente gli attributi opposti: ci scostiamo dalla persona che non ci piace e allontaniamo, talvolta con violenza, gli oggetti che ci dispiacciono. Le reazioni di «affetto» producono perciò nell'osservatore l'impressione che un individuo «sta andando verso un altro» e - per effetto dei nuovi rapporti dL vicinanza che si vengono così a stabilire, o della direzione comune dei due movimenti - provocano il costituirsi di nuove unità o raggruppamenti percettivi. E così secondo gli stessi meccanismi, le reazioni fisiche delle emozioni di tipo segregativo 230
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danno luogo ad impressioni di allontanamento, di repulsione, di dissolvimento di preesistenti unità. Si può pertanto affermare che le reazioni fisiche concomitanti alle emozioni realizzano di fatto le condizioni di stimolazione che sono necessarie per produrre in un osservatore le strutture cinetiche che in forma estremamente schematica si verificano negli esperimenti con i quadratini in movimento di Michotte. Tuttavia, l'integrazione e la segregazione percettive non sono di per sé sufficienti a caratterizzare in modo univoco un evento, ed inoltre assumono significati differenti a seconda delle diverse condizioni nelle quali si presentano. Ad esempio si possono trovare forme di integrazione non solo nelle manifestazioni esterne dell'amicizia e dell'amore, ma anche in situazioni del tutto contrarie, come in una lotta corpo a corpo o in altre manifestazioni di ira o di odio. E così la separazione può corrispondere sia all'ira che al disprezzo ed anche alla paura. Poiché, ciononostante, le interpretazioni dei soggetti sono molto specifiche e concordano generalmente tra loro, è logico supporre che a determinare il significato percettivo di un evento agiscano altri fattori, inerenti alla struttura cinetica degli eventi stessi ed al tipo ed alle modalità della loro sequenza e connessione. Ad esempio, la struttura cinetica corrispondente ad un abbraccio è ben diversa da quella di una lotta, ed il significato di un «contatto» varia in modo considerevole secondo la natura della fase precedente e di quella seguente. Un ruolo importante sembra avere a questo riguardo la velocità: movimenti rapidi danno l'impressione di «violenza», mentre ai movimenti lenti sarebbe legata una impressione di «gentilezza». Un improvviso rallentamento o una momentanea pausa nel movimento gli dà un carattere di «esitazione». Improvvise e ripetute variazioni di direzione, o anche semplicemente di velocità, danno l'impressione di «nervosità» o di «agitazione». Michotte non ha compiuto una analisi sistematica di queste condizioni, ma si è limitato a proporre il seguente schema generale nel quale egli sintetizza le principali combinazioni di alcune variabili in gioco. 231
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I. L'oggetto A si muove e raggiunge B
a) il contatto così stabilito è statico. 1. Se il movimento è rapido, si ha l'impressione che ci sia un urto violento e che i due oggetti si saldino tra loro. 2. Se il movimento è lento, si vede A raggiungere ed unirsi tranquillamente aB.
II. L.'oggetto B comincia a muoversi dopo essere stato ragglunto da A, mentre A rimane fermo
b) il contatto è di durata sufficiente per permettere che i due oggetti formino per quel periodo una singola unità. L'impressione che si produce è spesso interpretata nel ~enso di un momentaneo accordo tra due complici che si mcontrano, seguito quindi da un disaccordo e quindi da una separazione.
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III. L'oggetto B comincia a muoversi dopo essere stato toccato da A; ed i due continuano a muoversi appaiati, alla stessa velocità e nella stessa direzione a) non c'è pausa al momento del contatto. L'impressione è che A conduca, trascini, porti via con sé B. Se il movimento è lento ed uniforme, l'unione è «gentile», «amichevole». Un movimento rapido dà invece un'impressione di violenza: se dopo un avvicinamento piuttosto lento c'è un rapido acceleramento dopo il contatto, si ha l'impressione che uno trascini con sé l'altro con la forza bruta; ciò prende il carattere di un vero e proprio rapimento quando al momento del contatto viene invertita la direzione del movimento.
b) il contatto è di breve durata. 1. Se il movimento è rapido, si ha l'impressione che A colpisca B. 2. Se il movimento è lento, si ha l'impressione che A semplicemente tocchi B.
a) il contatto è di breve durata. 1. Se il movimento di A è più rapido di quello di B si ha l'impressione che il contatto di A lanci in avanti B' ~iò , . ' puo essere mterpretato come una reazione d'ira. ~: Se è i~ movime~to di B ad essere quello più rapido, si ha l ImpreSSIOne che tI contatto scateni la partenza di B' il movimento di B appare come autonomo e, se è abbasta~za v~loce, dà spesso l'impressione di una «fuga»; questa fuga è VIsta come provocata dal contatto di A ed è interpretata come una reazione di paura: questa impressione è più accentuata se B comincia a muoversi prima del contatto e cioè «reagisce» al semplice avvicinarsi di A. '
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b) dopo il contatto c'è una momentanea pausa. Quando i due oggetti cominciano a muoversi di nuovo, si ha l'impressione di un «andare insieme». L'unità viene naturalmente accentuata dalla somiglianza delle loro proprietà cinetiche (legge del destino comune). E quando questa coppia di oggetti sparisce dietro uno schermo, ciò suggerisce non infrequentemente una storia, un appuntamento di amanti, o due complici che vanno a nascondersi insieme.
4. Minguzzi
Lo schema di Michotte non ha la pretesa di essere completo: esso vuole descrivere soltanto alcune delle principali combinazioni di condizioni che danno luogo a strutture cinetiche le quali hanno un significato ben preciso ed una vasta comprensibilità interindividuale. Come abbiamo già detto, le affermazioni di Michotte si fondano su una serie di osservazioni che - a differenza delle minuziose analisi sperimentali da lui compiute per determinare le leggi della percezione della causalità meccanica hanno un carattere prevalentemente «qualitativo», sono ipotesi di lavoro che attendono di venir verificate. Del resto 233
anche le osservazioni di Heider e Simmel - basate come sono sull'impiego di un unico film - sono di natura esclusivamente qualitativa e si limitano in realtà a porre una serie di interrogativi ai quali solo la ricerca sperimentale sistematica è in grado di dare una risposta esauriente. Per quanto strano ciò possa sembrare, l'invito a proseguire la ricerca nella direzione indicata dagli autori che abbiamo ora esaminato non è stato raccolto che molto raramente. Se 25 anni fa Heider poteva attribuire la scarsità dei progressi compiuti dai pur numerosi studi dedicati al modo come noi inferiamo le emozioni altrui, al fatto che solo raramente le ricerche in questo campo erano state svolte dal punto di vista della psicologia della percezione, possiamo ripetere oggi la sua affermazione. Anche oggi il problema che sembra polarizzare su di sé l'interesse della maggior parte dei ricercatori è costituito quasi esclusivamente dalla <~correttezza» o «giustezza» della interpretazione dell'espresSIOne altrui, cioè dalla corrispondenza tra l'impressione che ha l'osservatore e l'emozione o l'intenzione effettivamente presenti nell'osservato. Tale preoccupazione per il problema della «validità» della interpretazione, che è ovviamente di vitale importanza nelle relazioni interpersonali, ha probabilmente distolto l'attenzione dal problema - in un certo senso preliminare e ., ' percIO non meno importante - di come sia intanto possibile la percezione diretta di tali relazioni interpersonali, anche quando siano assenti altri elementi cognitivi oltre a quelli puramente percettivi. Si può dire che, concentrati nel tenta- . tivo di stabilire le condizioni che influiscono sulla attendibilità delle impressioni di personalità, gli psicologi abbiano un po' trascurato lo studio delle configurazioni stimolanti stesse, quali possibili determinanti dirette delle impressioni immediate di personalità e punto di partenza delle successive interpretazioni. Con questo non si vuoI dire che l'indicazione di Heider sia rimasta ignorata. Molti autori, soprattutto quelli di ispirazione o di derivazione gestaltistica o fenomenologica, hanno accolto quei concetti e li hanno incorporati ad esem234
pio nelle loro teorie sulla natura della percezione sociale, dei rapporti interpersonali, del rapporto terapeutico, e così via. Pensiamo all'analisi dei vari aspetti della percezione interpersonale dello stesso Heider [1958], ai contributi di Asch [1946] e di Luchins [1948] sulla formazione delle impressioni di personalità, ai saggi di McLeod [1947] sulla causalità psicologica, o alla utilizzazione di questi concetti nelle teorie psicoterapeutiche di Rogers [1951] e di Snigg e Combs [1949]. Ciò che stupisce è però che, accanto a tale accettazione sul piano teorico, manchino indagini sperimentali il cui scopo principale non sia l'accertamento della «validità» delle impressioni di personalità, ma la determinazione esatta della struttura delle condizioni che sono in grado di provocarle. Le condizioni essenziali sottostanti alle impressioni dei sentimenti e delle intenzioni sarebbero, secondo Michotte e Heider, le semplici strutture cinetiche. Su questo argomento - ad eccezione di uno studio di Tagiuri [1959] che però riguardava le «tracce» o i «percorsi» lasciati dal movimento di una persona, e di una ricerca dagli scopi molto limitati di Defares e De Haan [1962] - l'unico studio sperimentale accurato è quello che Minguzzi [1961] ha dedicato alla percezione dell' attesa. Egli, adottando come Heider e Simmel la tecnica dei cartoni animati, e riducendo, come Michotte, i protagonisti dell'evento a due soli oggetti in movimento, ha analizzato, variando opportunamente le situazioni, l'influsso che sul versificarsi dell'attesa fenomenica esercitano le velocità dei due movimenti, i loro rapporti spazio-temporali e la loro direzione. Dalla sua ricerca risulta che è abbastanza facile realizzare situazioni che diano luogo ad impressioni genuine ed univoche di attesa, e che la condizione necessaria perché si verifichi l'attesa fenomenica è una modificazione dello stato cinetico di un oggetto percettivo (decelerazione, passaggio dal movimento all'immobilità o viceversa, mutamento di direzione) in rapporto al movimento di un altro oggetto. Il verificarsi del fenomeno è legato a precise condizioni che 235
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non possono variare oltre certi)imiti. Particolare influenza hanno, non tanto le velocità, quanto le variazioni della distanza spazio-temporale tra gli eventi e la direzione dei movimenti prima e dopo la fase centrale dell'evento complessivo. Un altro risultato interessante è che l'attesa è una «qualità del tutto»: l'immobilità, la decelerazione, l'immobilizzazione di un oggetto assumono cioè il carattere di attesa solo per effetto delle fasi ulteriori dell'evento complessivo. In altri termini, per essere percepita come tale, l'attesa dev'essere fenomenicamente conclusa.
5. Una classificazione dei movimenti
Se l'attenzione di Minguzzi era rivolta al fenomeno dell'attesa, la nostra ricerca è dedicata alla percezione della «reazione»: ci siamo proposti cioè di vedere se è possibile determinare con una certa precisione quali sono i fattori e le leggi per cui un evento è percepito come «reazione» ad un altro evento. Per inquadrare meglio il nostro problema riteniamo opportuno tentare di operare preventivamente una classificazione dei movimenti, anche per poter impostare un più ampio programma di lavoro. :r;ra~ur~lmente gli sc~emi ed i ragionamenti che seguiranno SI nfenscono solo ai movimenti fenomenici, cioè escludono sia i movimenti fisici (quelli che più propriamente vengono chiamati moti), sia determinati tipi di movimento che, pur appartenendo al mondo fenomenico, non interessano tanto le. caratteristiche dell'evento in quanto tale ma riguardan~ PlUtt~StO le sue origini (movimento stroboscopico, mOVImento mdotto, movimento consecutivo). Come tutte le classificazioni, anche la nostra ha valore soltanto dal punto di vista che abbiamo adottato. Qualunque gruppo di fenomeni può infatti essere ordinato in modi molto diversi a seconda del criterio di classificazione adottato e. la sce~ta di. questo. ultimo dipende in definitiva dagli SCOpI che SI prefIgge ChI opera la classificazione. Abbiamo 236
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voluto fare questa precisazione, anche se può apparire un po' superflua, perché sappiamo benissimo che la nostra classificazione non è né esauriente né priva di contraddizio. ni e soprattutto è frutto di una riflessione che precede e non segue la ricerca empirica sistematica, pur essendo concepita con la funzione di dare un primo orientamento a quest'ultima. Dopo aver a lungo riflettuto sul modo migliore di classificazione, ci siamo convinti che non è possibile, o riuscirebbe molto complicato, uno schema unico nel quale si tenga conto di tutte le dimensioni importanti dei fenomeni da ordinare. Abbiamo perciò deciso di ricorrere a due classificazioni: nella prima i movimenti sono considerati in se stessi, come se fossero indipendenti da altri movimenti (vedi tabella 7.1), nella seconda al contrario il punto di vista adottato è quello del rapporto tra eventi (vedi tabella 7.2). TAB.7.1. NATURALI
~
caduta libera
~
PASSIVI
~
causalità meccanica
~
(f"ionomki ESPRESSIVI
~
piano inclinato pendolo, ruota, ecc. lancio, trazione, attrazione, ecc. caratterizzanti animali, oggetti, comportamenti
~
stati d'animo intenzionali
~ ~
emozioni, sentimenti volontari
Cerchiamo ora di descrivere lo schema di tabella 7.1. Dal punto di vista che ci interessa pensiamo che i movimenti possano essere distinti anzitutto in tre grandi categorie: 1) movimenti naturali, 2) movimenti passivi, 3) movimenti espressivi. 1) Per definire i movimenti del primo gruppo è preferibile ricorrere ad una caratterizzazione negativa: sono movimenti che da un punto di vista fenomenico «semplicemente avvengono», senza che si abbia l'impressione che siano né 237
causati né intenzionali. Essi sono tipicamente i movimenti che sono dovuti alla gravitazione ed all'inerzia. Ad esempio il movimento di un oggetto sul piano inclinato, le oscillazioni di un pendolo, il girare di una ruota su un perno, il rotolare di una palla, il passaggio di una cosa attraverso il campo visivo, la caduta libera in genere (della neve, della pioggia, di un oggetto). È una categoria di movimenti dalle caratteristiche fenomeniche molto labili, in quanto sono sufficienti lievi modificazioni, anche della impostazione soggettiva, perché essi assumano i caratteri della passività o della intenzionalità, peculiari dei gruppi secondo e terzo. 2) La caratteristica principale dei movimenti passivi è quella di essere vissuti come dovuti a una forza non inerente all'oggetto che si muove, ma che gli è impartita da una fonte esterna. Si tratta in genere più di «spostamenti» che di veri movimenti. Rientrano in questa categoria tutti i movimenti «causati meccanicamente», nelle situazioni studiate da Michotte e da altri autori: il movimento dell'oggetto che viene lanciato, spinto, trascinato, attratto, frenato, deformato, ecc. 3) Abbiamo chiamato «espressivi» i movimenti della terza categoria. Ci rendiamo conto che è una denominazione non del tutto felice, che può ingenerare qualche perplessità o qualche malinteso. D'altra parte non è facile trovare un altro termine più univoco e meno discutibile, a meno di non ricorrere a una serie di definizioni negative. Infatti la maggior parte dei movimenti di questo gruppo sono non-passivi, poiché la fonte di energia risiede nella cosa o nell'essere stesso che si muove. Non possiamo però chiamarli semplicemente «attivi», perché tra essi includiamo alcuni tipi di movimenti fisionomici nei quali il carattere fenomenico dell'attività o non esiste, o comunque non è in primo piano. Questa categoria può essere divisa in tre sottogruppi principali: a) movimenti fisionomici, b) movimenti che esprimono stati d'animo, c) movimenti intenzionali. a) Per movimenti fisionomici intendiamo quelli che sono caratteristici o connotativi di un oggetto, di un animale o di un comportamento tipico. Ad esempio rientrano tra questi
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il movimento di un corpo elastico, di una molla, della gelatina, delle onde, il movimento felino, vermiforme, serpentino, ameboide, lo strisciare, il nuotare, il barcollare, il movimento tipico dell'ubriaco, del maldestro, il movimento furtivo, prepotente, cauto, curioso, compassato, sicuro. In questa categoria si possono far rientrare ancora altre qualità cinetiche che caratterizzano gruppi di comportamenti o di movimenti, quali la ritmicità e l'aritmia, l'uniformità e la monotonia, ecc. b) Nel secondo gruppo rientrano tutti quei movimenti che tradizionalmente sono chiamati specificamente espressivi che cioè manifestano stati d'animo, sentimenti, emozioni: come l'ira, il dolore, la simpatia, l'odio, la sorpresa, la paura, che in genere sono manifestazioni momentanee di una persona, mentre i movimenti che esprimono caratteristiche costanti di personalità rientrano meglio nella precedente categoria dei movimenti fisionomici. Ad un esame un po' attento appare chiaro che la distinzione tra movimenti fisionomici e quelli che esprimono stati d'animo non è del tutto netta. Alcuni casi che abbiamo classificato tra i primi potrebbero anche passare tra i secondi: ad esempio i movimenti «indecisi» o «incerti» o «cauti» sono connotativi di uno specifico comportamento ma poiché attraverso ad essi «vediamo» l'indecisione, l'incertezza, la cautela di chi li segue, possono essere considerati anche come esprimenti stati d'animo. Ma il fatto che esistano questi casi limite, di incerta assegnazione, non ha molta importanza finché si possono indicare esempi che chiaramente, secondo i criteri fissati, appartengono a due classi diverse. E le basi per queste distinzioni ci sembra che esistano: ad esempio il movimento tipico di un animale da una parte e l'espressione di un sentimento dall'altra appartengono a due categorie fenomeniche ben separate e circoscritte, che è pertanto bene mantenere divise. c) Rimangono da esaminare i movimenti intenzionali, che sono ovviamente quelli attraverso i quali si esprime un'intenzione e sono perciò percepiti come movimenti di «qualcuno», voluti e diretti dall'interno. Un esempio po-
239
trebbe essere quello del movimento esploratorio: quando vediamo un topo lino girare per un labirinto possiamo avere la netta impressione, derivata dalla struttura cinetica dei suoi movimenti, che egli stia cercando, osservando, appunto esplorando. Il suo comportamento è vissuto come spontaneo, autonomo, non causato, cioè intenzionale. Si potrebbe osservare che il comportamento esploratorio può essere considerato come rientrante tra quelli che abbiamo chiamato fisionomici. Ed è vero. Infatti nulla vieta che un movimento abbia contemporaneamente due aspetti fenomenici: in questo caso fisionomico ed intenzionale, in altri casi fisionomico e passivo (il movimento elastico di un corpo vissuto come causato da un urto), e così via.
TAB. 7.2.
Il comportamento esploratorio rappresenta un caso di movimento intenzionale autonomo, indipendente - almeno sul piano fenomenico - da cause esterne. Ma per la maggior parte dei movimenti intenzionali vale il discorso che deve esser fatto a proposito dei movimenti passivi di tipo meccanico. Abbiamo già detto che in tali casi si tratta sempre di movimenti la cui causa è vissuta come esterna, si tratta cioè sempre di un elemento parziale di una struttura cinetica più complessa, nella quale l'energia passa dall'agente sul paziente e lo sposta, gli conferisce il movimento. Anche i movimenti intenzionali di norma sono vissuti come movimenti di qualcosa o di qualcuno in rapporto al movimento di qualcosa o di qualcun altro, sono cioè una fase di una struttura cinetica più complessa. Anche qui la causa o l'origine del movimento risiede in un'altra fase della struttura cinetica ma - a differenza della causalità meccanica - qui non avviene, sempre fenomenicamente, alcun passaggio di energia cinetica, ma la causazione è vissuta come puramente psicologica. Pertanto ci sembra utile una seconda suddivisione delle strutture cinetiche, nella quale, oltre che dei movimenti singoli in quanto tali, si tenga conto soprattutto dei rapporti tra movimenti. A questo scopo abbiamo preparato la tabella 7.2. I rapporti tra movimenti si possono dividere in due clas-
si: da una parte i movimenti indipendenti, dall'altra i movimenti connessi o interdipendenti. 1) Tra i movimenti indipendenti il rapporto è puramente temporale e spaziale: si tratta di due o più movimenti che sono contigui nello spazio e nel tempo, ma fenomenicamente sono completamente privi di rapporto reciproco. Questi movimenti possono essere sia naturali che intenzionali. 2) I movimenti interdipendenti possono a loro volta venir ordinati in tre categorie principali, a seconda che si tratta di un rapporto di: a) causalità meccanica, b) di scatenamento o c) di reazione intenzionale. È inutile che ci dilunghiamo sulla prima e sulla seconda categoria, che sono state ampiamente illustrate dalle ricerche di Michotte. Negli effetti di causalità meccanica si ha l'impressione che un oggetto agente comunichi il proprio movimento ad un altro oggetto e si vede quest'ultimo spostarsi passivamente per l'energia che gli è stata così trasmessa. Nell'effetto scatenamento, invece, l'agente «libera» un'energia che imprime essa il movimento all'oggetto. Si parla in questi casi anche di effetto grilletto o di effetto staffetta. Esempi: i movimenti che avvengono dopo che è stato premuto un pulsante o abbassata una leva, la situazione del varo, della miccia, di uno sparo.
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INDIPENDENTI
naturali o intenzionali,
-+ { contemporanei nello stesso campo
causalità meccanica scatenamento INTERDIPENDENTI
allontanamento -+ fuga, balzo
-+
reazione intenzionale
-+ modificazione
stato cinetico avvicinamento
-+ attesa
ostile -+ { affettuoso
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Tutti i movimenti vissuti come intenzionali ed allo stesso tempo in rapporto ad un altro movimento o situazione possono legittimamente esser chiamati «reazioni», in quanto essi avvengono solo in rapporto o in risposta ad un evento esterno, che è vissuto come la loro «causa». Naturalmente la differenza con la causalità meccanica è che in questo caso non si tratta di un passaggio di energia, la quale è invece interna al soggetto che si muove o, meglio, agisce. Le reazioni intenzionali possono essere a loro volta di tre tipi fondamentali, a seconda che l'evento cinetico consista in un allontanamento, in un avvicinamento o in qualche altro tipo di modificazione dello stato cinetico. Quest'ultimo tipo di reazione è costituito dai fenomeni di attesa studiati da Minguzzi e le modificazioni dello stato cinetico possono essere, come abbiamo già detto, un rallentamento, l'arresto o l'inizio di un movimento, un mutamento di direzione. Le altre due modalità corrispondono a quelle che Michotte aveva chiamato rapporti di integrazione e di segregazione. Le reazioni di allontanamento sono quelle che vengono vissute come una «fuga», un «balzo», un «distanziamento», originati da paura, schifo, odio, disprezzo, ira. La reazione di avvicinamento può essere a sua volta di due tipi: ostile o affettuosa.
6. Programma della ricerca ed esperimenti preliminari
Pur sapendo di esporci al pericolo di essere schematici ed inesatti, abbiamo voluto tentare un panorama completo di tutti i movimenti fenomenici che possiedono qualità terziarie. Siamo convinti che un'analisi di tutte queste modalità di apparenza del movimento sia interessante, e comunque utile per dare alla classificazione che abbiamo tratteggiato un fondamento empirico e probabilmente un nuovo assetto. Naturalmente è un lavoro che va affrontato gradualmente e per il quale è certamente necessario lungo tempo. Nella ricerca, i cui risultati vengono riferiti nella seconda
parte del presente lavoro, abbiamo affrontato soltanto una delle modalità dei fenomeni cinetici che abbiamo chiamato di «reazione intenzionale». E precisamente abbiamo scelto le reazioni di tipo segregativo (allontanamento, fuga e così via), rimandando per il momento ad un'altra serie di ricerche quelle di tipo integrativo (avvicinamento affettuoso o aggressione) le quali, da alcuni sondaggi preliminari, ci sono apparse meno facilmente riducibili a situazioni dotate della necessaria semplicità per consentire un'analisi sperimentale. Abbiamo visto che Heider e Michotte avevano già chiaramente espresso quali erano, secondo loro, le condizioni necessarie all'insorgere di una reazione di fuga: il nostro compito era pertanto quello di verificare la validità di quelle asserzioni e di studiare - con il grado di precisione possibile in questo genere di ricerche - l'incidenza dei vari fattori. Per eseguire gli esperimenti preliminari abbiamo ideato alcune situazioni cinetiche che avrebbero presumibilmente generato un'impressione di movimento re attivo e le abbiamo realizzate sotto forma di brevi film d'animazione. Descriviamo ora alcuni dei molti film che abbiamo utilizzato; per capire meglio queste descrizioni si può ricorrere alla figura 7.2, dove sono illustrati i fotogrammi salienti di alcuni di questi film. Abbiamo presentato questi film a numerosi spettatori, alcuni dei quali erano esperti in questo genere di osservazioni, mentre altri non lo erano. Sia gli uni che gli altri hanno vissuto con grande immediatezza l'impressione di reazione nelle situazioni FI e F6. Questa impressione era meno evidente, ma ancora abbastanza chiara in FS, diventava debole in F2 ed era piuttosto dubbia in F3 e F4. I protocolli erano ricchi di espressioni come «fuggire», «scappare», «saltare indietro», ma le dichiarazioni dei soggetti diventavano incerte e contraddittorie non appena si cercava di chiarire a quale oggetto «appartenesse» il movimento reattivo. La ragione era semplice, anche se fu scoperta in ritardo: in situazioni come la FI, ad esempio, le «reazioni» sono in realtà
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243
FS
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F1
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Nel campo appare un solo oggetto, piccolo e ovale, che compie a velocità moderata una traiettoria ad arco che lo porta dall'angolo a destra in basso verso l'angolo a sinistra in alto. Quando sta per giungere al termine della traiettoria arcuata, compare improvvisamente nell'angolo a sinistra in alto un disco nero. A questo punto l'oggetto piccolo cambia traiettoria, spostandosi a grande velocità all'indietro, verso la metà destra del campo. Nel frattempo il disco nero scompare. Anche questo film è stato realizzato in numerose varianti, ad esempio facendo comparire il disco nero fin dall'inizio, e rendendolo più chiaro (cioè grigio) nell'attimo in cui è raggiunto dall'oggetto piccolo, per farlo poi ridiventare nero non appena il piccolo si è allontanato. Altre variazioni riguardavano la velocità e la traiettoria del piccolo ovale.
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F2 Nel campo appaiono due oggetti: uno nero e grosso, di forma semicircolare, situato nell'angolo a sinistra in basso, e fornito di tre «pseudopodi» fermi; l'altro è piccolo, ovale, e in moto dall'angolo a destra in alto verso l'oggetto più grosso. La scena si svolge come in Fl, con la differenza che all'avvicinarsi dell'oggetto piccolo gli pseudopodi si mettono in rapida oscillazione. L'oggetto piccolo allora si ritira, questa volta a grande velocità.
•
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•
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F4
Nel campo appaiono due oggetti: un cerchio grosso, fermo nell'angolo a sinistra in basso, e un piccolo ovale in moto dall'angolo di destra in alto verso l'oggetto più grosso. La velocità del piccolo ovale è moderata finché non giunge in prossimità del cerchio. A questo punto, l'oggetto grosso si deforma, emettendo una specie di «pseudopodo» in direzione dell'oggetto piccolo. Allora l'oggetto piccolo si ritira a grande velocità fino a ritornare al punto di partenza, mentre quello grosso riprende la sua forma rotonda.
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F5 Nel campo appaiono un piccolo disco nero ed un piccolo ovale, situati molto vicini, al centro del quadro. Ad un certo punto il disco nero aumenta subitaneamente di dimensioni, e il piccolo ovale si allontana un po' da esso, fermandosi non appena ha ristabilito la distanza iniziale. Dopo un altro po', il disco nero aumenta nuovamen.te di dimensioni, e l'ovale si allontana di nuovo nell'identico modo. La cosa si ripete altre due volte.
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F3
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Il campo è diviso in due zone da una sbarra verticale nera; la zona di destra è più piccola di'quella di sinistra; al centro della sbarra c'è un'«apertura». Nel campo ci sono anche due cerchietti neri disposti sulla stessa orizzontale (sulla quale si trova anche l'apertura), il primo aderente al bordo sinistro del quadro, il secondo aderente al bordo destro del medesimo. Il primo inizia a muoversi a velocità moderata lungo una traiettoria rettilinea verso l'apertura; non appena è giunto a poca distanza da essa, il secondo cerchietto si stacca dalla sua posizione e muove a grande velocità in direzione del primo, arrestandosi nelle vicinanze dell'apertura. A questo punto il primo cerchietto inverte il senso di marcia e si allontana a grande velocità, raggiungendo il punto dal quale era partito.
Nel campo appaiono due oggetti: un disco nero e grosso, situato nell'angolo a sinistra in alto, e un piccolo ovale che percorre una traiettoria diagonale che passa vicino ai bordi dell'oggetto grosso, procedendo a bassa velocità dall'angolo a destra in alto verso l'angolo a sinistra in basso. Non appena l'oggetto piccolo ha raggiunto l'oggetto grosso, quest'ultimo emette dalla sua circonferenza una serie di punte. L'oggetto piccolo percorre allora a grande velocità la traiettoria restante, mentre quello grosso riassorbe le sue punte. Questo film è stato realizzato in numerose varianti, in ciascuna delle quali mutavano o la velocità dell'oggetto piccolo (più spedito prima, più lento poi) o la sua traiettoria (più o meno inclinata verso il basso dopo il passaggio sotto l'oggetto grosso).
FIG. 7.2. Fotogrammi salienti di alcuni film usati nelle ricerche preliminari sulla reazione di fuga.
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245
1
due, quella dell'oggetto grosso che, all'avvicinarsi del piccolo, emette una protuberanza; ma· anche quella dell'oggetto piccolo che, all'apparire della protuberanza, fugge all'indietro. Si trattava quindi di semplificare la situazione, in modo tale che il movimento re attivo fosse uno solo, e potesse essere attribuito con sicurezza ad uno solo degli oggetti. Contemporaneamente, ci rendemmo conto che le variabili da dominare in situazioni ricche di dettagli come quelle da noi usate, erano troppo numerose per consentirci di individuare con sicurezza quei due o tre fattori che presumibilmente sono i maggiori responsabili del carattere di «re attività» del movimento. Malgrado la grande quantità dei film prodotti, non eravamo in grado di capire chiaramente quali delle variabili presenti (velocità, direzione dei movimenti, tempi, tipo e dimensioni degli oggetti, loro chiarezza, loro reciproca posizione nel campo, ecc.) fossero importanti e quali invece non avevano un peso apprezzabile. A questo punto abbiamo deciso di ridurre drasticamente il grado di complessità di situazioni pur chiare come la Fl e la F6, riducendo i protagonisti dell'azione a semplici punti. Contemporaneamente abbiamo deciso di abbandonare la tecnica dei film di animazione, e ciò per due ragioni. In primo luogo perché il mezzo impiegato è sproporzionatamente dispendioso per le situazioni stimolo che intendevano preparare (semplici movimenti di punti); in secondo luogo perché il film favorisce nell'osservatore atteggiamenti interpretatori e proiettivi con evidente danno per gli obiettivi della nostra ricerca, che consiste soprattutto nell'individuazione di strutture primariamente percettive. La conclusione è stata che per i nostri scopi il metodo più adatto era ancora quello dei dischi di Michotte. Esso infatti permette un esame sufficientemente preciso di quei pochi parametri della situazione che le numerose ricerche in q~esto campo hanno dimostrato essere i più importanti. Il metodo dei dischi ha inoltre l'innegabile vantaggio che l'osservatore «sa» di trovarsi di fronte ad una situazione artificiale, e pertanto ricorre il meno possibile ad interpretazioni, preferendo peccare per difetto piuttosto che per eccesso. 246
B. CONTRIBUTO SPERIMENTALE
1. Descrizione di un caso tipico di movimento «reattivo» Come abbiamo detto nel capitolo precedente, per poter analizzare fruttuosamente le condizioni e le leggi del movimento reattivo, è necessario diminuire drasticamente il numero degli elementi che concorrono a formare la situazione-stimolo senza per questo nuocere all'evidenza percettiva del fenomeno. Una situazione che risponde ai requisiti necessari ci sembra la seguente (vedi figura 7.3): A e B sono due quadratini di 5 mm di lato, il primo di colore arancione, il secondo bianco. Essi si muovono orizzontalmente su uno sfondo nero omogeneo, nel modo indicato dalla figura 7.3. Siccome la situazione stimolo è stata preparata con il metodo dei dischi di Michotte, durante la traslazione i quadratini presentano alcune lievi deformazioni, che però, dato il tipo delle osservazioni richieste al sog-
B
A
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• • • -..
FIG.
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A
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B
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D
D
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7.3. Caso tipico di movimento «reattivo». Alle lettere corrispondono le fasi principali dell'evento; la lunghezza delle frecce indica una maggiore o minore velocità.
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getto, rappresentano un elemento irrilevante. Come si può facilmente capire, non ha importanza che gli elementi della situazione siano proprio dei quadratini: avrebbero potuto essere, per esempio, anche dei cerchietti; la loro ragion d'essere dipende dall'impiego del metodo dei dischi. Ecco dunque la situazione stimolo nei suoi dettagli: I. All'inizio, A e B sono fermi in un campo per il resto omogeneo, a 50 mm di distanza l'uno dall'altro (per distanza intendiamo lo spazio vuoto fra i due oggetti, cioè la distanza fra il margine destro di A e il margine sinistro di B). L'osservatore è seduto a 2 m dallo schermo, e gli spostamenti dei quadratini avvengono all'altezza dei suoi occhi. Dopo 1 sec dalla comparsa dei due quadratini, A si mette in moto verso B alla velocità uniforme di 4 cm/sec, e prosegue nel suo spostamento finché non ha raggiunto una posizione che dista 5 mm dalla posizione iniziale di B. Qualche tempo prima, però, e precisamente 100 msec prima, quando A è a lO mm di distanza da B, e a 5 mm dal punto in cui dopo si arresterà, anche B si mette in moto nella stessa direzione e con lo stesso verso. B si sposta alla velocità uniforme di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 40 mm. L'intera situazione dura 3 sec. L'osservazione che era compiuta in buone condizioni di illuminazione, veniva ripetuta finché il soggetto dichiarava di essere pronto a descrivere la propria impressione.
Il rendimento percettivo di questa prima situazione stimolo (I) è il seguente: il quadratino B non viene visto semplicemente spostarsi lungo la propria traiettoria con movimento «naturale», ma viene visto «fuggire da A», «saltare indietro», «scostarsi», «evitare con un salto il contatto con A», ecc. In altre parole, il movimento di B è vissuto come una reazione intenzionale all'avvicinarsi di A. Abbiamo verificato la genuinità e la consistenza di questa impressione sottoponendo a 25 soggetti non esperti in questo genere di osservazioni (studenti universitari d'ambo i sessi) una serie di altre 7 situazioni così composta: II. Un solo quadratino bianco, che si sposta con moto rettilineo uniforme sullo schermo, alla velocità di 12 cm/sec. III. Due quadratini, uno arancione e l'altro bianco, in moto uniforme ed indipendente sullo schermo. Dapprima entrambi sono sulla sinistra; dopo 1 sec, uno di essi si mette in moto verso destra
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alla velocità di 12 cm/sec, e sparisce dietro uno schermo dopo aver percorso circa lO cm; a questo punto si mette in moto l'altro quadratino, che percorre la medesima traiettoria in maniera del tutto identica. IV. Una situazione tipica di «effetto entrafnement» (Michotte), in cui il primo mobile A, dopo aver percorso 4 cm alla velocità di 12 cm/sec, raggiunge il secondo mobile B e si arresta per 20 msec. Dopo di ciò, entrambi si mettono in moto, sempre a 12 cm/sec, finché spariscono - dopo un percorso di circa 6 cm - dietro uno schermo situato sulla destra. V. Una situazione tipica di «effetto lancio» (Michotte), in cui la velocità del mobile A è di 36 cm/sec, mentre quella del mobile B è di 8 cm/sec. Sia lo spazio percorso da A che quello percorso da B è di 4 cm, e i due mobili restano in contatto per 20 msec. VI. Una situazione tipica di «effetto scatenamento» (Michotte), in cui il mobile A, dopo aver percorso 4 cm alla velocità di 4 cm/sec, raggiunge il mobile B e si arresta. Dopo 20 msec B si mette in moto alla velocità di 36 cm/sec, e scompare dietro uno schermo dopo aver percorso 5 cm. VII. La situazione di «movimento re attivo» che abbiamo dianzi descritto (I). VIII. Una situazione «neutra», in cui A e B sono dapprima fermi sulla sinistra dello schermo, a 5 cm di distanza l'uno dall'altro. Dopo 1 sec, A si mette in moto e raggiunge B alla velocità di 36 cm/sec e sosta a contatto con esso per 500 msec; indi B si mette in moto alla velocità di 8 cm/sec e si arresta dopo aver percorso 4 cm.
Come si vede, al soggetto venivano dapprima presentate due situazioni semplici (II e III), che avevano lo scopo di familiarizzarlo con le successive situazioni sperimentali. Venivano quindi presentate tre situazioni ampiamente collaudate: entrafnement (IV), il lancio (V) e il déclenchement o scatenamento (VI), preparate secondo i dati forniti da Michotte e controllate - in merito al loro rendimento con alcuni soggetti esperti. Com'è noto, non tutti gli osservatori riescono a «vedere» (oppure a descrivere) gli effetti summenzionati, oppure reagiscono con descrizioni eguali di fronte a configurazioni cinetiche diverse. Queste tre situazioni avevano pertanto lo scopo di accertare se il soggetto era in grado di compiere questo tipo di osservazioni. A questo punto veniva presentata la situazione che
249
avrebbe dovuto dar luogo all'impressione di «reazione» (VII), e del cui rendimento avevamo avuto prova positiva nelle osservazioni compiute da alcuni soggetti esperti. Da ultimo veniva presentata una situazione (VIII) che i soggetti esperti avevano chiamato «neutra», e che dava luogo soltanto all'impressione di due movimenti indipendenti. Nel contesto del nostro esperimento la situazione (VIII) fungeva da controllo, poiché avrebbe individuato quei soggetti che lavorano di fantasia ed «interpretano» tutto ciò che vedono. La serie di situazioni proposte agli osservatori non esperti è stata ridotta al numero minimo indispensabile di prove (7), allo scopo di eliminare taluni prevedibili fattori di disturbo. Avevamo infatti accertato, in precedenti esplorazioni quantitative su questo medesimo argomento, che all'osservatore inespèrto non si può chiedere di compiere discriminazioni troppo sottili, e che anche nel caso in cui non si richieda una particolare accuratezza, non si può spingere la durata della prova oltre i 15 minuti. Ad un certo punto, infatti, le risposte del soggetto diventano o uniformi o erratiche: per questo motivo abbiamo limitato la serie a poche situazioni nettamente differenziabili. Dopo tutto, lo scopo principale della prova era quello di accertare se il movimento «reattivo» viene distintamente percepito anche da un osservatore ingenuo, e se ha la medesima evidenza percettiva di altri effetti ben noti, come il lancio ed il trascinamento. I soggetti venivano semplicemente invitati ad osservare ed a descrivere ciò che vedevano, ed in seguito venivano incoraggiati a specificare ogni dettaglio delle loro impressioni. Soltanto se incontravano difficoltà, veniva loro suggerito di paragonare i movimenti dei quadratini sullo schermo con altri movimenti riferentisi a situazioni concrete, cioè a oggetti, animali o persone. Nella tabella 7.3 sono esposti i risultati dell'esperimento, che riguardano 22 soggetti (i restanti 3 soggetti non si sono dimostrati idonei a questo tipo di osservazioni, in quanto non riuscivano nemmeno a vedere gli effetti classici di Michotte). . 250
TAB. 7.3. Risultati in valori assoluti e percentuali delle risposte alle situazioni N-VIII. Le situazioni II e III servivano soltanto per «ambientare» il soggetto. La situazione VII è identica alla I N
%
Hanno descritto la situazione IV come effetto entrafnement
20
90.9
Hanno descritto la situazione V come effetto lancio
22
100.0
Hanno descritto la situazione VI come effetto scatenamento
22
100.0
Hanno descritto la situazione VII come movimento reattivo
16
72.7
Hanno descritto la situazione VIII come due movimenti indipendenti
18
81.8
Ci sembra che i risultati di questo primo esperimento possano essere interpretati come segue: a) Esiste una configurazione cinetica che viene spontaneamente descritta da osservatori anche inesperti come «movimento reattivo». La sua evidenza percettiva non è di molto minore di quella di altri effetti ben noti. b) La configurazione cinetica del movimento re attivo ha, 'come gli effetti di causalità meccanica, tratti caratteristici propri: le espressioni mediante le quali viene descritta la situazione (quelle riportate poc'anzi) non sono «interpretazioni» di una situazione semplicemente plurivoca; quando infatti la situazione è plurivoca (ad es. nel caso della VIII), i soggetti restano perplessi, e dicono che si tratta di «due movimenti separati», oppure che «non succede niente». c) L'alta percentuale di descrizioni «corrette» di effetti già noti indica che per i soggetti esaminati la configurazione del movimento re attivo è una struttura cinetico-temporale ben precisa, come il lancio, la trazione, ecc.; il confronto fra le percentuali rivela però che la configurazione del movimento reattivo ha contorni meno netti che non gli effetti classici di casualità meccanica. Possiamo pertanto dire che esiste qualcosa di peculiare, nel modo in cui gli oggetti si muovono nel campo percetti251
,
,
,
vo, che viene vissuto direttamente con quel carattere espressivo che noi denotiamo con la parola «reazione». Ci proponiamo ora di analizzare nei dettagli il caso tipico di movimento reattivo che abbiamo testé descritto, con lo scopo di individuare i più importanti fattori responsabili del realizzarsi di tale configurazione cinetica.
2. Il rapporto fra le velocità dei due mobili
Com'è noto, il rapporto fra le velocità degli elementi che, compongono una configurazione cinetica ha grande importanza nel determinare il rendimento percettivo della situazione-stimolo. Per questo motivo prendiamo in esame la situazione tipica (I) in primo luogo da tale punto di vista. A questo scopo abbiamo preparato 36 varianti della situazione (I), facendo in modo che sia il mobile A che il mobile B possiedano di volta in volta una delle seguenti velocità: 3, 4, 8, 12, 24 e 36 cm/sec. Per individuare il rapporto di velocità più favorevole all'instaurarsi dell'impressione di «reazione» da parte di B, abbiamo presentato a 4 soggetti bene addestrati (PB, GK, GT, GV) le 36 situazioni in ordine «casuale» 2, in due o tre sedute successive, dando semplicemente il compito di descrivere la situazione con la massima libertà. Le risposte ottenute possono essere raggruppate in tre categorie principali: a) lancio: in questa categoria vengono classificate tutte le risposte del seguente tipo: «A urta B, che prosegue per propria inerzia», «è una spinta», «è quasi una spinta», «è un urto con un'appendice intenzionale nel movimento di B)), ecc.; b) due movimenti: in questa categoria vengono classifi2 Il rapporto vel-Alvel-B assumeva di volta in volta i seguenti valori: 3/24; 36/4; 8/8; 12/24; 8/12; 4/12; 36/12; 12/8; 3/8; 4/4; 4/36; 8/4; 36/36; 8/36; 3/12; 24/3; 4/8; 24/12; 36/24; 12/3; 3/36; 24/8; 24/4; 12/12; 8/24; 3/4; 12/4; 36/3; 24/24; 4/3; 36/8; 3/3; 24/36; 4/24; 8/3; 12/36.
252
cate tutte le risposte del seguente tipo: «si tratta di due movimenti indipendenth), «due movimenti quasi automatici)), «pare una corsa a staffetta)), «più che un lancio sembra una staffetta)), ecc.; c) reazione: in questa categoria vengono classificate tutte le risposte del seguente tipo: «B salta indietro)), «il bianco fugge)), «B arretra intenziortalmente)), «sfugge il contattO)), «si scansa bruscamente)), ecc. Oltre a queste tre categorie di risposte, si è avuto un esiguo gruppo di impressioni di «scatenamento)) (6 in tutto, su un totale di 144 presentazioni). 1 risultati dell'esperimento sono esposti nella figura 7.4, dove si può osservare la distribuzione delle tre risposte tipiche per ciascun soggetto. Ogni quadro della figura 7.4 è composto di 36 caselle, ciascuna delle quali rappresenta una determinata combinazione delle velocità dei due mobili A e B secondo il seguente schema: u
<1)
'"
36
Eu
24
.5
12
'6
8
co
'~
., 'uo
~
4
3
-
----
-
---
-
-
--
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
--- -
-
-- -
_. -
-
3
4
8
12 24 36
velocilà di A in emise c
Nella figura 7.4 risultano annerite quelle caselle per le quali il soggetto in questione ha dato la risposta specificata in testa a ciascuna delle tre colonne. Risultano sbarrate da una croce quelle caselle (cioè quei rapporti di velocità) per i quali i soggetti hanno dato la risposta di «scatenamento)), della quale abbiamo poc'anzi parlato. Questi stessi risultati possono essere rappresentati cumu253
LANCIO
LANCIO
PB
2 MOV.
..i
a
J
>
GK
GT
GV
FIG. 7.4. Distribuzione delle risposte <
254
2 MOV.
REAZIONE
REAZIONE
Vfl
b
c
A---+
FIG. 7.5. Distribuzione delle risposte «lancio» (a), «due movimenti indipendenti» (b), e «reazione» (c), considerate cumulativamente. Le caselle nere' rappresentano quei rapporti di velocità (vedi lo sche· ma nel testo) per i quali tutti e quattro i soggetti hanno dato la medesima risposta; le caselle tratteggiate rappresentano quei rapporti di velocità per i quali almeno un soggetto ha dato la risposta considerata.
lando le risposte omologhe dei quattro soggetti. Nella figura 7.5 ci sono tre quadrati, costruiti secondo il medesimo schema della figura 7.4, ciascuno dei quali si riferisce ad un determinato tipo di risposta (lancio, due movimenti, reazione), Le caselle nere corrispondono a quei rapporti di velocità per i quali tutti e quattro i soggetti sono stati concordi nel dare una medesima risposta; le caselle tratteggiate corrispondono a quei rapporti di velocità per i quali almeno un soggetto ha dato quella risposta. Esaminando i tre schemi di figura 7.5, possiamo fare una prima osservazione di massima, e cioè che l'area dei rapporti fra le velocità dei due mobili A e B si ripartisce in modo abbastanza regolare in tre zone. Quando la velocità di A è maggiore di quella di B abbiamo quasi sempre impressioni di causalità meccanica sotto la specie del lancio o dell'urto (a); quando la velocità di B è maggiore di quella di A abbiamo quasi sempre impressioni di un movimento intenzionale di B del tipo «reazione» (c); quando le velocità di A e di B sono grosso modo pari, abbiamo quasi sempre impressioni di due movimenti che si svolgono indipendentemente, sia in modo meccanico che intenzionale (b).
255
Possiamo altresì schematizzare l'insieme dei risultati nel seguente modo:
T
REAZIONE
DUE MOVIM.
VEL. PRIMO MOBILE
--7
FIG. 7.6. Rappresentazione schematica della distribuzione delle risposte in funzione della velocità dei due mobili.
Ritornando ai tre schemi della figura 7.5, possiamo fare una seconda osservazione, che riguarda il grado di unanimità delle risposte dei soggetti. Mentre nel caso del «lancio» le risposte unanimi sono lO su 14 (71.4%), nel caso della «reazione» sono 7 su 16 (43.8%). Ciò significa, a nostro parere, che se da un lato viene ribadita la «forte» struttura del lancio, nondimeno è da considerarsi assai probante la misura dell'unanimità ottenuta per la struttura cinetica della reazione. Infatti, fra queste due zone di unanimità esiste un rapporto (71.4/43.8 = 1.63) molto vicino a quello esistente fra le percentuali di «lanci» e di «reazioni» ottenute nel primo esperimento (vedi la tabella 7.3: 100.0/72.7 = 1.37). Si può aggiungere che i soggetti esperti, a quanto sembra, sono stati più cauti o «severi» dei soggetti ingenui. Una terza osservazione può essere compiuta nei riguardi dei punti di sovrapposizione delle aree considerate in a, b e c della figura 7.5. Se prendiamo in esame le aree nere e le tratteggiate nel loro insieme, troviamo che l'area del lancio si sovrappone a quella dei due movimenti in 4 punti, e all'a256
rea della reazione in 1 punto solo; d'altra parte l'area dei due movimenti si sovrappone all'area della reazione in 9 punti. A nostro parere ciò vuoI dire che la percezione della reazione si fonda su condizioni cinetiche nettamente distinte da quelle del lancio, mentre è più vicina alle condizioni della percezione di due movimenti indipendenti. Se prendiamo invece in considerazione soltanto le aree di unanimità, troveremo che l'area della reazione non si sovrappone in alcun punto con quella del lancio, confermando l'affermazione fatta alla fine del precedente capitolo, laddove si diceva che la configurazione cinetica del movimento re attivo ha tratti caratteristici propri, e pertanto va considerata alla stregua di altre configurazioni della medesima specie, come il lancio, lo spingimento e lo scatenamento. Possiamo quindi concludere che, a parità delle altre condizioni (spazi percorsi dai due mobili, rapporti temporali fra l'inizio e la fine dei loro spostamenti, ecc.), la maggiore velocità di B - che deve essere almeno quattro volte superiore a quella di A - favorisce l'insorgere di un'impressione di «reazione» nel movimento di B.
3. La velocità assoluta dei due mobili
Abbiamo appena visto che un rapporto di 1 : 4 fra le velocità dei due mobili A e B è sufficiente a produrre un'impressione di reazione nel movimento di B ed aggiungiamo ora che questa impressione possiede la sua maggiore nitidezza quando quel rapporto è di 1 : 9 - come si può desumere dalla terza colonna della tabella 7.4. Nella situazione-stimolo tipica (I), quella che abbiamo presentato agli osservatori non addestrati, la velocità di A era infatti di 4 cm/sec, e quella di B di 36 cm/sec. A questo punto ci si può chiedere se tale rapporto di velocità sia di per sé sufficiente al costituirsi della configurazione percettiva della «reazione», o se non sia legato in qualche modo anche alla velocità assoluta dei due mobili. In altre parole, è possibile che, pur rispettando il rapporto ot257
timale di 1 : 9 fra le velocità di A e di B, si trovino delle velocità (troppo basse o troppo alte) per le quali l'impressione di movimento re attivo di B diviene meno evidente, oppure non si presenta affatto. A questo scopo abbiamo sottoposto ai quattro soggetti bene addestrati la seguente situazione-stimolo: IX. A e B sono fermi sulla sinistra dello schermo, a 45 mm di distanza l'uno dall'altro. Ad un certo istante A si mette in moto verso B e si arresta a 5 mm da esso; in questo preciso momento si mette in moto B, che con una velocità 9 volte maggiore di quella di A raggiunge un punto situato 40 mm più a destra, nella stessa direzione.
Montando il disco che conteneva questa situazione-stimolo su un apparecchio che lo faceva motare a velocità regolabile, abbiamo ottenuto un numero pressoché illimitato di varianti della situazione (IX), in cui la velocità di A variava in modo continuo da 0.5 a 16 cm/sec, mentre la velocità di B variava solidalmente da 4.5 a 144 cm/sec. Col metodo delle variazioni continue abbiamo quindi cercato di stabilire quali siano i limiti, inferiore e superiore, della velocità assoluta dei due mobili in rapporto all'impressione di «reazione» ricavata da ciascun soggetto. I risultati di questo terzo esperimento si possono vedere nella tabella che segue: i valori indicati rappresentano la media di due soli passaggi, uno a salire e l'altro a scendere. Nell'ultima riga sono indicati, per ciascun soggetto, i rapporti fra le ve'locità assolute del limite superiore e del limite inferiore, i quali possono offrire un indizio sull'ampiezza della zona entro alla quale, per ogni soggetto, c'è impressione di movimento reattivo da parte di B. I valori riportati nella tabella non corrispondono a vere e proprie determinazioni di soglia. Si vede subito che la loro gamma di variabilità è piuttosto alta, e si constata inoltre che per il soggetto GK non è stato possibile trovare un limite inferiore all'impressione di «reazione» nell'ambito delle velocità ottenibili con il dispositivo impiegato. Se, com'è presumibile, la variabilità' delle soglie dipende in misura
258
TAB,
7.4. Limiti inferiori e limiti superiori dell'!mpression.e. di «reazione» quando si varia la velocità assoluta del due moblil A e B m,a,ntenendo inalterato il rapporto ottimale l : 9 fra le loro veloClta. Il rapporto tra i valori del limite superior~ e quelli del limite infe-
riore serve a dare un indizio sull'ampiezza della «zona» della reazione. Soggetti PB
GK
GT
GV
Limite inferiore
ve!. A ve!. B
1.52 13.68
< 0.50 < 4.50
0.94 8.46
1.20 10.80
Limite superiore
ve!. A ve!. B
9.64 86.76
6.50 58.50
10.46 94.14
6.00 54.00
6.34
> 13.00
11.12
5.00
Rapporto limo sup./lim. inf.
Ii tanto rilevante dall'osservatore, una loro determinazione più esatta diventa priva di senso. Non dobbiam? ,dime~ti~a re che l'oggetto della misurazione è una quahta terziana, anche se particolarmente evidente dal punto di vista percettivo. Dobbiamo inoltre notare, che il metodo dei dischi non si è rivelato il più adatto per compiere questo tipo di misurazione. Alle velocità più basse, infatti, le deformazioni dei due mobili A e B risultano ovviamente molto evidenti: il loro movimento diventa perciò oltremodo espressivo; possiamo pertanto ritenere che i valori esposti nella t~bella risultino più bassi di quelli che si sarebbero ?ttenutl co~ u~ sistema che evitasse la deformazione (rombOldale, con lllchnazione nel verso del movimento) dei due mobili. Alle velocità più alte, d'altra parte, con l'aumentare del numero dei giri del disco al minuto, aumenta anche il ritmo di successione delle presentazioni (una ogni 4 sec quando la velocità di A è di 4 cm/sec e quella di B di 36 cm/sec): si instaura pertanto prevalentemente una impressione di «meccanicità» nei movimenti dei due mobili, ad evidente scapito di una eventuale «intenzionalità». Possiamo ritenere pertanto che anche nel caso dei limiti superiori di velocità
259
I
J
I
1~ j
l
per i quali si ha una impressione di reazione, i valori esposti nella tabella risultino più bassi di quelli che si sarebbero ottenuti con un metodo di presentazione diverso. Abbiamo cercato di ovviare in qualche modo all'inconveniente presentato dalle alte velocità di rotazione scoprendo la zona dello schermo in cui avveniva la presentazione soltanto a tratti, quando il soggetto si dichiarava pronto ad effettuare l'osservazione. Nonostante tutte le sopraddette limitazioni, il presente esperimento ha conseguito almeno due risultati: a) il costituirsi della configurazione cinetica della reazione trova dei limiti nella velocità assoluta dei due mobili, rimanendo fermo beninteso il rapporto ottimale 1 : 9 fra le due velocità; inoltre quei limiti non si identificano con le soglie inferiore e superiore della percezione di movimento; b) la gamma di velocità per le quali si instaura la configurazione cinetica della reazione appare piuttosto variabile , da soggetto a soggetto: per due dei nostri osservatori potrebbe essere definita «ristretta», dal momento che il valore limite superiore è soltanto 5.00 (GV) o 6.34 (PB) volte il valore del limite inferiore; per gli altri due osservatori è invece «ampia», essendo i rapporti tra i due limiti 11.12 (GT) e 13.00 (GK). Quali altre configurazioni espressive si sostituiscono a quella della reazione al di sotto del limite inferiore e al di sopra di quello superiore? Nel primo caso «i due mobili A e B sembrano animati da forze indipendenti» (PB, GV). Nel secondo caso, tutti e quattro gli osservatori hanno parlato di «movimenti meccanici indipendenti» oppure di «movimenti automatici legati da causalità meccanica».
q~ello di B, i fattori temporali dei quali dobbiamo tener conto sono di due specie: a) rapporti di prima/dopo fra i due movimenti, o più precisamente fra le loro fasi salienti (inizio e termine degli spostamenti dei due mobili); b) durate degli intervalli di tempo fra le predette fasi salienti dei due movimenti. In altre parole, dobbiamo accertare non soltanto in quale ordine devono susseguirsi certe fasi salienti degli spostamenti dei due mobili, ma anche a quanto devono ammontare gli intervalli fra quelle fasi, affinché si generi nell'osservatore l'impressione di «reattività» del movimento di B. A questo scopo abbiamo preparato 16 situazioni stimolo che sono costruite tutte secondo il seguente schema:
/
X. A e B si presentano fermi sulla sinistra dello schermo. In seguito si hanno due movimenti: A si porta verso destra .alla velocità di 4 cm/sec, e si ferma dopo aver percorso 4 cm. AdIacente al luogo in cui A si arresta (o si è arrestato, o si arresterà) c'è B, ,che si sposta egualmente verso destra, coprendo 4 cm alla veloclta dI 36 cm/sec. Lo spostamento di A dura 900 msec; quello dI B dura 110 msec circa.
Quello che abbiamo fatto variare, nello schema X, è il momento in cui si verificano gli spostamenti dei due mobili, come si può vedere nella tabella 7.5, dove sono elencate le 16 varianti. Più precisamente, abbiamo variato l'intervallo di tempo fra due fasi salienti qualsivoglia dei due movimenti (per esempio, la partenza di A e la partenza di B): poiché la durata di ciascun movimento è costante, variano solidalmente anche gli intervalli di tempo fra tutte le altre fasi (per esempio, la partenza di A e l'arrivo di B, l'arrivo di A e la partenza di B, ecc.). Col variare degli intervalli di tempo, inoltre, cambiano anche i rapporti di prima/dopo fra le fasi salienti dei due movimenti. Se si compie una esplorazione abbastanza ampia, avremo situazioni in cui il movimento di B precede interamente il movimento di A (vedi la tabella 7.5, variante 1), altre in cui B parte prima di A, ma si arresta dopo che
4. I fattori temporali
Il rendimento percettivo di una configurazione cinetica è ovviamente legato alla successione temporale in cui iniziano e terminano le sue varie' fasi. Siccome la situazione che stiamo studiando è composta da due movimenti, quello di A e 260
261
L
'.("f.:.·: A è partito (var. 2), altre in cui B parte dopo di A ma si ar~esta prima ~i esso (var. 3-7), altre ancora in cui parte pnma che A SI arresti, ma si arresta dopo di esso (var. 8lO),. altre infin: in cui il movimento di B è interamente postenore al mOVImento di A (var. 11-16). Cerchiamo ora di precisare il quesito a), cioè quali devono essere i rapporti prima/dopo fra le fasi salienti dell'intera configurazione cinetica, affinché si abbia l'impressione della «reazione». Nell'intera situazione stimolo abbiamo 4 «fasi salienti»: la partenza di A, l'arrivo di A, la partenza di B e l'arrivo di B. I possibili rapporti di prima/dopo fra queste fasi assommano a 12. In teoria, per sapere qual è il rapporto più importante nel costituirsi della reazione, si dovrebbe esaminare il rendimento percettivo di tutt'e 16 le varianti dello schema X per ciascuno dei 12 possibili rapporti. In realtà non è necessario prendere in esame tutte le 12 possibilità (partenza di Alpartenza di B; partenza di Alarrivo di B, e~c.): facendone semplicemente l'elenco ci si accorge che 4 dI esse non vanno prese in considerazione perché riguardano le fasi salienti del movimento di un singolo quadratino, mentre altre 4 non sono che ripetizioni con i termini invertiti delle restanti quattro, quelle che dunque dobbiamo esaminare. Queste relazioni sono: partenza di Alpartenza di B' partenza di Alarrivo di B; arrivo di Alpartenza di B' arriv~ di Alarrivo di B. ' . Quale criterio ci permette di individuare il rapporto più Importante nello strutturarsi della configurazione cinetica della «reazione»? Partendo da una situazione in cui i movimenti dei due oggetti sono ben separati nel tempo e addirittura invertiti rispetto alla situazione ottimale (vedi la tabella 7:5, variante 1), e variando progressivamente gli intervalli dI temp~ fra .il prodursi dei due movimenti fino a raggiunge:e la SItuazIOne 10 e a superarla, accade che i rapporti di pnma/dopo delle 4 anzidette relazioni mutino uno dopo l'altro. Lo SI vede dal segno degli intervalli temporali fra le fasi salienti-.considerate in ciascuna relazione: nel caso della partenza dI A e della partenza di B si passa da valori negativi
B
262
r' I
)
(B parte prima di A) a valori positivi (B parte dopo A), passando per un punto zero (B ed A partono insieme). Ci sembra che sia da considerare importante soltanto quel rapporto che in prossimità del punto zero, o della sua inversione, produce un significativo cambiamento del rendimento percettivo. L'esperimento è consistito nel presentare ai quattro soggetti esperti le 16 varianti dello schema X in un'unica seduta, con questo ordine: 3; 8; 13; 14; 1; 6; 10; 9; 16; 12; 2; 4; 11; 15; 7; 5. Come al solito, essi erano liberi di osservare ciascuna situazione finché lo volevano, e soltanto alla fine esprimevano la loro impressione. I risultati sono esposti nella tabella 7.5. Nella prima colonna si trovano i numeri che contraddistinguono le varianti della situazione base, nella seconda colonna gli intervalli in msec fra la partenza del mobile A e del mobile B, nella terza i corrispondenti intervalli fra l'arrivo di A e la partenza di B, nella quarta quelli fra l'arrivo di A e l'arrivo di B, nella quinta quelli fra la partenza di A e l'arrivo di B. Nell'ultima colonna si vede quanti e quali soggetti hanno percepito la «reazione» nel movimento di B: i casi positivi sono segnalati da una pallina nera. Dato lo scarso numero di soggetti che hanno compiuto le osservazioni, ci asterremo dal commentare quantitativamente l'esito dell'esperimento. Viceversa faremo alcuni rilievi di carattere qualitativo che servono a chiarire il ruolo dei fattori temporali nel costituirsi della configurazione cinetica della «reazione»: a) la relazione più importante fra le quattro fasi salienti nelle quali si può articolare l'intera situazione è quella fra l'arrivo del primo mobile e la partenza del secondo mobile; esaminando infatti la tabella 7.5, si può vedere che si verifica un significativo cambiamento del rendimento percettivo in prossimità dello zero (cioè del mutamento dei rapporti di prima/dopo), soltanto della seconda colonna e non in concomitanza dei punti zero delle altre tre colonne; b) perché si abbia la percezione della reazione è necessario che il secondo mobile parta prima dell' arrestarsi del pri263
I
i
i,
Il
~ ~.~.~ ~.'~ ·'Ì~ ..
~
:
TAB. 7.5. Esame dei fattori temporali. Nella prima colonna le varianti della
I
situazione stimolo; nella seconda, terza, quarta e quinta colonna gli intervalli di tempo fra le varie fasi salienti di ogni variante; in ultima colonna i risultati degli esperimenti: sono annerite le caselle di quei soggetti che hanno percepito la <
11 12 13 14 15 16
Intervalli di msec tra: parto A parto B
arri. A parto B
arri. A arri. B
part. A arri. B
- 200 -100
-1100 -1000
-
- 90 + lO + 110 + 210 + 310 + 610 + 810 + 910 + 960 +1010 +1060 +1110 +1210 +1410 +1710 +2110
O + 100 + 200 + 500 + 700 + 800 + 850 + 900 + 950 +1000 +1100 +1300 +1600 +2000
-900 -
-
800 700 400 200 100 50
O + 50 + 100 + 200 + 400 + 700 +1100
990 890 790 690 590 290 - 90 + lO + 60 + 110 + 160 + 210 + 310 + 510 + 810 +1210
Risposte positive dei soggetti PBGKGTGV
••• •• •• •• •• •• •• •• •• •
ma mobile, dalla tabella 7.5 si vede infatti che gli osservatori sono unanimi nel giudicare reattivo il movimento di B soltanto quando B parte prima che A si arresti; c) il movimento· del secondo qùadratino deve iniziare prima che l'altro quadratino s( arresti, ma questo «prima» non è indefinito: l'intervallo utile massimo (limitatamente alle nostre osservazioni) è compreso fra i 400 e i 700 msec (vedi le situazioni 5 e 6); tutti i soggetti hanno definito come «ottimali» quelle situazioni in cui l'intervallo fra la partenza di A e l'arrivo di B è compreso fra i 50 e i 200 msec. Per quanto riguarda i rendimenti percettivi delle situazioni corrispondenti alle parti alta e bassa della tabella 7.5, dove cioè non si è avuta percezione della reazione, si possono fare le seguenti osservazioni: Nelle situazioni 1-4 (in cui B parte prima di A, o imme264
l
..
diatamente dopo), i soggetti hanno dato risposte di questo tipo: «sono due movimenti indipendenti», «A insegue B», «A pare come attratto da B», «A si muove come per effetto di un elastico che lo tiene legato a B». Nelle situazioni 1012 la maggior parte dei soggetti (3 su 4) ha dato descrizioni del tipo déclenchement. Nelle situazioni 13-16 (in cui B parte molto tempo dopo che A si è arrestato), la quasi totalità delle risposte è di questo tipo: «due movimenti indipendenti»; un soggetto ha invece descritto la situazione sempre in questo modo: «B si muove per effetto di un ordine di A».
5. La distanza fra i due mobili
j
l )
)
Nelle situazioni che abbiamo finora esaminato, le traiettorie lungo le quali si spostano i due quadra tini A e B sono separate da un piccolo spazio (5 mm) o addirittura si toccano , cosicché nel momento in cui B inizia a muoversi, A si trova a contatto con esso oppure ad una distanza che non supera i lO mm (infatti B parte quasi sempre prima che ~ abbia raggiunto l'estremità destra della sua traiettoria). E facile quindi supporre che i movimenti dei due quadra tini appaiano fenomenicamente «connessi» anche perché l'arrestarsi del primo e l'inizio dello spostamento del ~econdo avvengono nel medesimo «luogo». In alcune situazioni del gruppo X - quelle esaminate nel capitolo precedente - le cose vanno in modo diverso. Se infatti B inizia a spostarsi ancora prima che A inizi il suo moto (nella Xl e nella X2 , per esempio), i due quadr.atini restano separati da una distanza che non scende sotto i 4 cm, e che può ammontare anche ad 8 cm. Tale distanza decresce naturalmente in ragione del diminuire dell'intervallo negativo di tempo che separa l'arrestarsi di A dall'inizio dello spostamento di B. Come contropartita fenomenica abbiamo che i due quadratini appaiono muoversi «in luoghi diversi», oppure «ciascuno per conto suo». Non è fuor di luogo supporre che l'impressione di «reazione» nel movimento di B diminuisca di chiarezza nelle 265
anzidette situazioni, non soltanto perché l'intervallo di tempo fra i due m?vimenti è «sbagliato», ma anche perché, aumentando la dIstanza fra di essi, si impedisce loro di «connetters~» !enomeni~amente, di venire a costituire le parti . naturah dI una configurazione cinetica unitaria. Abbiamo pertanto ritenuto opportuno procedere ad un esame del f~ttore «distanza fra i due mobili» (o, il che è lo stesso, fra I due ~ovimenti o fra le due traiettorie), indipendentemente ~at fattori temporali. In altre parole, abbiamo pres? ~na situazione stimolo ottimale sotto ogni altro pu~to di vista, ed abbiamo variato la distanza fra le due tratettorie, ci.o~ !ra. il luogo in cui si arresta A ed il luogo dal quale ha ImzlO tI moto di B: XI. A e ~ ~i presentano fermi sulla sinistra dello schermo. Dopo 1 sec, A llllZla a spostarsi verso destra in direzione di Balla velocità di 4 cm(sec, e si arresta dopo aver percorso 2 cm. 100 msec pnma che A. si ~rresti, B inizia a spostarsi pure verso dest!a, ,p~rcorre uno SpazIO dI 2 cm alla velocità di 36 cm/sec, dopo.dl~he SI arresta a sua volta. La distanza che separa il punto in CUI SI. arr~sta A d~l pu.nto in. cui ha iniziato il moto di B assume, in 6 vanantt della sItuazIone, 1 seguenti valori: mm O (XII); mm lO (XIz); mm 20 (XI3); mm 35 (XI 4); mm 55 (XIs); mm 80 (XI6).
Il
Il,
. I I
i
L'esperimento è stato condotto con il seguente metodo. I quattro soggetti esperti dovevano riferire intorno alle im~ressi?ni. vi~sute durante la presentazione di un lotto di 21 s!tuaz~om ~ttmolo, ~utte, di;rerse fra loro, ciascuna delle quah. vemva npetu~a fmche ~ osservatore riteneva di aver raggmnt? u~a ragIOnevole sIcurezza di giudizio. Tutto ciò si esaunva m una sola seduta; in una seduta successiva le stesse 21 situazioni venivano ripresentate, una alla volta e nello stesso ordine, ma cominciando dalla 8a. per finire con la 7a .. In una. terza ed ultima seduta le medesime situazioni vemva~o dI nuovo presentate, cominciando però con la 15a . e termmando con la 14a. , Di queste ~1 s~tu~zioni stimolo, soltanto 6 riguardavano l argomento di CUI Cl occupiamo ora, cioè la distanza fra i due mobili. Le altre 15 erano destinate allo studio di altre variabili (gli spazi percorsi dai due mobili e lo spazio per-
corso dal secondo mobile) delle quali ci occuperemo nei due prossimi paragrafi. Nell'intero lotto di 21 situazioni quelle che ora ci interessano - cioè le 6 varianti della XI occupavano i seguenti posti: X1 2 ; -; -; -; X1 6 ; XII; -; -; -; X1 3 ; _; _; _; -; XIs ; -; -; X1 4 ; -; -; -. In conclusione, quindi, l'intero lotto conteneva situazioni stimolo appartenenti a tre esperimenti diversi: con questo accorgimento supponiamo di esserci cautelati a sufficienza da errori sistematici dovuti all'eventualità che i soggetti potessero in qualche modo essere indotti a far ipotesi sullo «stimolo» o ad «interpretare» la situazione. I rendimenti percettivi delle situazioni XII-6 sono indicati nella figura 7.7 dove la percentuale di risposte «movimento reattivo di B» è considerata in funzione della distanza fra le due traiettorie. Come si vede, il fattore .distanza fra i due mobili gioca innegabilmente un certo ruolo nel formarsi dell'impressione di movimento reattivo. Si possono fare due osservazioni. In primo luogo, una situazione già di per sé positiva viene ulteriormente migliorata quando le due traiettorie sono separate da una certa distanza. Le risposte di «reazione», che ammontano già al 66.7% per una distanza zero, raggiungono un massimo dell'83.3% quando tale distanza è di 20-35 mm. In secondo luogo, la struttura cinetica del movimento reattivo viene dissolta da un eccessivo distanziamento dei due movimenti. Dopo aver raggiunto un valore massimo per separazioni di 20-35 mm, la frequenza delle risposte di «reazione» scende subito al 33.3% per i 55 mm, e si riduce a zero quando la separazione arriva ad 80 mm. Il valore di questi risultati sta ovviamente nel loro aspetto qualitativo, e non in quello quantitativo. Anticipando qui un discorso che potremmo fare ogniqualvolta vengono prese in considerazione variabili di natura spaziale, sottolineiamo che i dati ottenuti (in questo caso l'ammontare della separazione in mm fra le due traiettorie) valgono soltanto per la specifica situazione qui esaminata, e che potrebbero essere differenti se distanze, traiettorie, ed altri parametri fossero diversi. 267
266
100
83.3
20
o~--~--~----~------~--------~o~~ 55 80 mm fIG. 7.7. Incidenza delle risposte: «movimento re attivo di B,) in funzione de.l variare d.el.la. distanza fra il punto in cui si arresta il mobile A e I~ pun~o dI Inizio dello sp'ostamento di B (distanza fra le due tralettone) .
. Per quanto ri~uard~ l'interpretazione dei risultati, posSIamo fare delle IpotesI soltanto in merito alla dissoluzione della struttura cinetica per eccessivo distanziamento dei due. movimenti. ~a ~os~ era facilmente prevedibile, poiché ogm struttura umtana e caratterizzata dalla «vicinanza» in senso lato delle sue parti: nel capitolo precedente per esempio, abbiamo visto che anche l' «allontanamento:> nel tempo dei due movimenti produce il medesimo risultato. M~ è po~sibile che l'eccessiva separazione delle due traiettone abbIa un effetto più sottile, che non è da ricondursi alla distanza spaziale in quanto tale. Com'è noto le relaz~~ni ~emporali fenomeniche tra eventi diventan~ via via pm sVIncolate dalla sequenza obiettiva degli stimoli col cres~ere delle. dissi~iglianze fr~ i medesimi, e la diversa posiz~one spazlale del due movImenti può rientrare nel novero dI tali dissimiglianze 3. È ovvio quindi che non si può ave-
3
268
Vedi Fraisse [1957, 107 ss.] ed anche Vicario [1964, 224 ss.].
re alcuna configurazione cinetica stabile se le relazioni temporali fra le sue parti risultano incerte o determinate da altri fattori (diverso rilievo fenomenico tra le parti, spostamento del punto di fissazione, ecc.), estranei agli intervalli temporali predisposti sull'apparecchio che produce gli stimoli. A questo proposito, due soggetti (PB, GK) hanno chiaramente riferito che il rendimento percettivo di talune situazioni ambigue (in cui la distanza fra le due traiettorie era di 10 o di 55 mm) variava a seconda dell'impostazione dell' osservatore, e precisamente nel seguente modo. Se l'attenzione veniva appuntata sulla fase centrale della situazione (arresto di A e partenza di B), l'impressione si concretava facilmente in quella di movimento reattivo; se invece l'attenzione era «dispersiva» o «globale», le medesime situazioni davano luogo all'impressione di due movimenti indipendenti, per lo più di tipo meccanico. Quali sono infine le impressioni riferite dagli osservatori quando la distanza fra le due traiettorie è troppo piccola o troppo grande? Nel primo caso (all'estremità sinistra della curva di figura 7.7) si hanno per lo più impressioni di movimenti meccanici del tipo scatenamento; nel secondo caso (all'estremità destra della curva) l'impressione prevalente è quella di due movimenti indipendenti.
6. Lo spazio percorso dai due mobili
In questa sezione esamineremo il ruolo giocato sul costituirsi dell'impressione di reazione dalla diversa lunghezza del percorso dei due mobili. Nelle osservaziòni preliminari avevamo infatti notato che, a parità delle ~ltre condizioni, l'evidenza della «reattività» nel movimento di B variava a seconda della lunghezza delle traiettorie dell'uno o dell'altro mobile. Allo scopo di chiarire questo punto, abbiamo preparato la seguente situazione sperimentale:
269
I :1
XII. A e B si presentano fermi sulla sinistra dello schermo, separati da una distanza di 1, 3 o 6 cm. Dopo 1 sec, A inizia a spostarsi verso destra in direzione di B alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso una certa traiettoria. 100 msec prima che A si arresti, B inizia a spostarsi pure verso destra, percorre una certa traiettoria alla velocità di 36 cm/sec, quindi si arresta a sua volta. La situazione viene presentata in 9 varianti, a seconda dello spazio percorso dai due mobili, e precisamente: 1 cm per A e 1 cm per B (XII!); 1 e 3 (XII2 ); 1 e 6 (XII 3); 3 ed 1 (XII 4); 3 e 3 (XIIs); 3 e 6 (XII 6); 6 ed 1 (XII7); 6 e 3 (XIIs); 6 e 6 (XII 9).
Queste nove varianti della situazione XII sono state presentate ai quattro soggetti esperti nel corso di quella serie di 21 situazioni della quale abbiamo parlato nel paragrafo precedente. All'interno della serie le XII I_9 occupavano i seguenti posti: -; XII 3 ; XII 9 ; -; -; -; XII 7 ; -, XIII; -; -; XIIz; XIIs; -; -; -; XII4 ; -; XII 6 ; -; XII 5 . Come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, l'intero lotto di situazioni veniva presentato ai soggetti per tre volte in tre sedute diverse: nella prima seduta si cominciava dalla prima situazione del lotto per terminare con la ventunesima, nella seconda seduta si cominciava dalla ottava, per terminare con la settima, nella terza seduta si cominciava dalla quindicesima per terminare cori la quattordicesima. Ciascuna situazione veniva in tal modo sottoposta complessivamente a 12 valutazioni. Non abbiamo ritenuto necessario moltiplicare il numero delle prove perché già alla seconda ripetizione i soggetti dicevano di riconoscere talune situazioni - e tutto ciò malgrado il loro ordine di apparizione fosse mutato. I risultati dell'esperimento vengono esposti nella tabella 7.6, dove vengono elencate, in ordine di frequenza, le impressioni alle quali hanno dato luogo le presentazioni di tutte le varianti della situazione XII. Come si vede, l'impressione di movimento reattivo è molto netta quando il percorso di A è di 3 o 6 cm ed il percorso di B è di 3 cm. L'impressione di reazione è meno buona - essa divide infatti il primo posto con altre configurazioni - quando il percorso di A è di 1, 3 o 6 cm ed il
270
TAB. 7.6. Risultati dell'esperimento sull'influenza della .lunghezza dei per-
corsi dei due mobili nel costituirsi dell'impressIone dI «reazIOne» Variazione della situazione (XII)
Spazio pere. daA, in cm
1
1
rendimenti percettivi di ciascuSpazio pere. na variante, elencati secondo la frequenza, su un totale di 12 da B, valutazioni (3 per ciascuno dei 4 in cm soggetti)
1
reazione (6) due movimenti indipendenti (6)
2
1
3
incertezza (6) reazione (2) lancio (2) scatenamento (2)
3
1
6
scatenamento (6) lancio (5) incertezza (1)
1
reazione (3) lancio (3) due movimenti meccanici (3) incertezza (2) scatenamento (1)
3
reazione (8) incertezza (2) lancio (1) scatenamento (1)
6
lancio (4) incertezza (3) reazione (2) scatenamento (2) due movimenti indipendenti (1)
4
5
6
3
3
3
7
6
1
reazione (4) lancio (4) incertezza (3) due movimenti meccanici (1)
8
6
3
reazione (9) incertezza (2) due movimenti meccanici (1)
6
due movimenti indipendenti (6) reazione (2) lancio (2) incertezza (2)
9
6
percorso di B è di 1 cm. Riuniamo questi dati nel seguente specchietto:
Reazione buona
Reazione non buona
3-3 6-3
1-1 3-1 6-1
dove i numeri separati da un trattino rappresentano i percorsi dei due mobili A-B. A nostro parere, ciò significa che nello strutturarsi della configurazione cinetica della reazione ciò che conta è soprattutto la lunghezza dello spazio percorso dal secondo mobile. Vediamo infatti che il risalto fenomenico del movimento re attivo viene deciso unicamente dalla lunghezza della traiettoria di B: nella casella delle reazioni «buone» ci sono soltanto situazioni in cui B percorre 3 cm, mentre nella casella delle reazioni «non buone» ci sono soltanto situazioni in cui B percorre 1 cm. Al contrario, nell'una e nell'altra casella troviamo situazioni in cui A percorre, 1, 3 o 6 cm. (Il quadro sarebbe perfetto se la situazione XII2 , quella in cui gli spazi percorsi da A-B sono 1-3 cm, non facesse eccezione: essa infatti ha dato impressioni in cui domina soltanto l'incertezza).
7. Il raggio d'azione
In una nostra precedente ricerca sul movimento re attivo [Kanizsa e Vicario 1965], era risultato che la situazione stimolo deve possedere un'altra caratteristica, non sufficiente, ma necessaria, affinché venga percepita la reazione nello spostarsi del mobile B. Deve essere infatti visibile un arresto di quest'ultimo, altrimenti la struttura cinetica nel suo insieme - pur essendo rispettate tutte le altre condizioni ot272
timali - si configura come uno scatenamento, cioè come la «liberazione» di un'energia posseduta in proprio dal secondo mobile. Ci troviamo quindi di fronte ad un nuovo caso di struttura temporale in cui l'evento che si verifica per ultimo (l'arresto del secondo mobile) condiziona il modo di apparire degli eventi che precedono (partenza e spostamento del secondo mobile). Dallo studio di fenomeni consimili sappiamo però che la «disponibilità» degli elementi che precedono non dura a lungo, generalmente 100-200 msec per le strutture più semplici (ad es. il movimento stroboscopico) oppure 1.000-1.200 msec per quelle più complesse (ad es. l'effetto tunnel acustico) [Vicario 1964]. Anche nel caso del movimento re attivo succede lo stesso: la «reazione» si vede soltanto se il secondo mobile si arresta, ma ciò non è sufficiente: deve anche arrestarsi in t~mpo. Questo complesso di fatti, che viene interpretato come «raggio d'azione» del primo segmento della configurazione cinetica sui successivi [Yela 1952a] e che più propriamente dovrebbe essere inteso come una spia delle dimensioni che può raggiungere la configurazione cinetico-temporale prima di dissolversi [Vicario 1964, 181], esige che anche nel presente caso si provveda ad una misurazione del massimo spazio che può essere coperto dal mobile B (o del massimo intervallo di tempo che può essere impiegato dal mobile B nel percorrere la sua traiettoria) prima dell'arresto, senza che si abbia a perdere l'evidenza percettiva della «reazione» di B per effetto dell'avvicinarsi di A. Un'esplorazione sistematica in, questo senso appare del resto necessaria anche in considerazione dei risultati ottenuti nell'esperimento descritto nel precedente capitolo. Nella tabella 7.6 si vede infatti: a) che l'impressione di movimento reattivo divide il primo posto con altri effetti quando il percorso di B è di 1 cm; b) che l'impressione di movimento re attivo è prevalente nei casi in cui il percorso di B è di 3 cm (salvo l'eccezione della quale abbiamo già parlato); c) che l'impressione di movimento reattivo è presente in modesta percentuale, o addirittura assente, quando il per273
corso di B è di 6 cm. Si può pertanto immaginare che allungando convenientemente il percorso di B (e di conseguenza aumentando la durata del suo spostamento, ovvero posponendo l'istante del suo arrestarsi) si giunga ai limiti del raggio d'azione del movimento di A sul movimento di B, cioè ai limiti della configurazione cinetica della reazione. A questo scopo abbiamo preparato una situazione stimolo ottimale sotto ogni aspetto, tranne che per lo spazio percorso (o il tempo impiegato) dal mobile B prima del suo arrestarsi, che viene opportunamente graduato in 6 diverse varianti: XIII. A e B si presentano fermi sulla sinistra dello schermo, a 35 mm di distanza l'uno dall'altro. Dopo 1 sec, A inizia a spostarsi verso destra in direzione di B alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo 3 cm di percorso. 100 msec prima che A abbia raggiunto la posizione di arresto, B inizia a spostarsi pure verso destra, alla velocità di 36 cm/sec. Lo spazio percorso ed il tempo impiegato da B assumono i seguenti valori nelle 6 varianti della situazione: 10 mm e 27.8 msec (XIII!); 20 mm e 55.5 msec (XIII2); 35 mm e 97.2 msec (XIII3); 50 mm e 139 msec (XIII4); 70 mm e 194 msec (XIIIs); 95 mm e 264 msec (XIII 6).
Le 6 varianti della situazione XIII sono state presentate ai 4 soggetti esperti nel corso del gruppo di 21 situazioni del quale abbiamo già parlato. All'interno di esso le XIII l _6 occupavano i seguenti posti: -; -; -; XIIh; -; -; -; XIIIs ; -; -; XIII 6 ; -; -; XIIIl; -; XIII 4 ; -; -; -; XIII 3 ; -. Ovviamente queste situazioni - come le XI e le XII - sono state esaminate 12 volte ciascuno, e cioè 3 volte da ogni soggetto. I risultati dell'esperimento sono indicati nella figura 7.8, dove la percentuale di risposte «movimento re attivo di B» è considerata in funzione dello spazio percorso dal secondo mobile (o del tempo impiegato a percorrere tale spazio, in quanto la velocità di B è sempre la stessa, cioè 36 cm/sec). Come si vede, anche nel caso della «reazione», il secondo segmento della configurazione - cioè il movimento di B non può superare certe dimensioni temporali senza che venga compromessa l'esistenza della struttura percettiva della «reazione». Un movimento che dura 194 msec dà luogo sol274
% 100
110
75.0 66.7
60
40
20
o
107
10 27.8
20 55.6
35 97.2
50 139
70
QS
lQ4
204
mm msec.
FIG. 7.8. Incidenza delle risposte: «movimento reattivo di B», in funzione dello spazio percorso dal secondo mobile - o dal tempo impiegato a percorrere tale spazio.
tanto al 50% di risposte positive, le quali si riducono ad una esigua minoranza (8.3%) già quando l'arresto di B si verifica a 264 msec dalla partenza del medesimo. Con l'aumentare dello spazio percorso (e quindi del tempo impiegato), l'impressione di movimento re attivo viene sostituita da impressioni diverse, che vanno da «una reazione debole» (PB), ad effetti di causalità meccanica: «è uno scatenamento» (GK), «B viene soffiato via» (GT). Non mancano impressioni di «mero allontanarsi di B» (PB, GV), oppure di «due movimenti indipendenti» (GV).
8. La polarizzazione dei movimenti Com'è noto, i movimenti percepiti posseggono, insieme con le più svariate caratterizzazioni espressive, anche una «polarizzazione». Un oggetto che si muove non soltanto si sposta, ma anche si «avvicina» o si «allontana» rispetto agli altri oggetti presenti nel campo. Inoltre, malgrado l'oggetto possa essere simmetrico dal punto di vista geometrico, fenomenicamente possiede una «testa» e una «coda»: la prima si 275
trova di solito nel senso della marcia, l'altra dalla parte opposta. In taluni casi può invece verificarsi il contrario - tutto dipende dalle condizioni del campo - e quando la «testa» fenomenica si trova nella direzione opposta a quella di marcia, si percepisce l'«arretrare» dell'oggetto. Nel nostro caso è accaduto sovente che gli osservatori segnalassero siffatta polarizzazione dei due oggetti in movimento A e B, nel senso che il primo sembra avere la «testa» sul suo lato destro, ed il secondo sul suo lato sinistro. In tali condizioni, il quadratino A è visto «dirigersi verso», «avanzare», «aggredire» il quadratino B, mentre B a sua volta è visto «allontanarsi», «ritirarsi», «indietreggiare», mantenendo la «testa» dalla parte di A. Teniamo però presente che non mancano i casi in cui l'osservatore vede B allontanarsi «facendo un balzo in avanti» (così ha detto uno dei soggetti ingenui del primo esperimento), per esempio come una cavalletta che sia molestata all'estremità posteriore. Si pone pertanto il problema se la polarizzazione dei movimenti possa avere un qualche influsso sulla percezione di re attività nel movimento di B. Se si introducono nella situazione - a parità delle altre condizioni - elementi che favoriscono la percezione del movimento di A come un arretramento e quella del movimento di B come uno scatto in avanti, probabilmente l'impressione globale di reazione deve risultare notevolmente diminuita od anche annullata. Abbiamo cercato quindi di determinare a nostra volontà la polarizzazione dei movimenti di A e di B, modificando l'aspetto dei due mobili in modo tale da favorire la presenza della «testa» o della «coda» a qualsivoglia delle loro estremità. Abbiamo pertanto apportato un cambiamento alla situazione tipica ottimale (I), sostituendo ai due quadratini due rettangoli bianchi con una estremità dipinta in arancione, ottenendo così quattro nuove situazioni, le quali esauriscono le possibili distribuzioni degli elementi testa e coda nei due mobili A e B (figura 7.9). Precisiamo che le dimensioni dei rettangoli sono di 5 x 10 mm, e che la larghezza della banda colorata è di 3 mm; tutte le altre caratteristiche spaziali, temporali e cinetiche 276
A
B
XIV XV XVI XVII FIG. 7.9. Situazioni sperimentali XIV-XVII. destinate allo studio dell'influenza della polarizzazione dei movimenti sull'impressione di movimento reattivo. La parte colorata di ciascun mobile (qui rappresentata dall'area tratteggiata) dovrebbe favorire la percezione di quella parte dell'oggetto come «testa».
delle situazioni XIV-XVII sono quelle ottimali della situazione L Va da sé che il metodo adottato per provocare la polarizzazione dei movimenti di A e di B - colorando una delle loro estremità - è soltanto uno dei numerosi possibili. Avremmo avuto certamente un eguale risultato disegnando un puntino vicino al lato minore dei rettangoli, o rendendo puntuta una delle loro estremità. L'impiego del metodo da noi descritto è dovuto soltanto a necessità tecniche contingenti, facilmente intuibili quando si rammenti che il movimento dei rettangoli era ottenuto con i dischi di Michotte. Precisiamo che non necessariamente l'estremità arancione deve essere vissuta come «testa», anche se questa era la nostra intenzione nel preparare le situazioni: l'importante è che sussistano le condizioni perché le estremità dei mobili vengano di volta in volta polarizzate in modo differente. Le situazioni sono state presentate in ordine casuale ai 4 soggetti esperti, i quali le hanno valutate dopo un conveniente periodo di osservazione. Quasi senza eccezioni, i soggetti hanno identificato nell'estremità dipinta in arancio277
r
ne la «testa» di ciascun mobile. Ecco i risultati dell'esperimento: XIV. per tre soggetti (GK, GT, GV) si tratta di un discreto esempio di movimento reattivo da parte di B; per il quarto (PB), il movimento di B è «uno scarto un po' meccanico»; XV. per due soggetti questa situazione è negativa: «un movi-. mento strano» (GK), «la reazione è scarsa, B se ne va quasi spontaneamente» (GV); un terzo soggetto giudica la situazione «una .buona reazione» (GT); il quarto (PB) non soltanto l'ha giudicata «buona», ma ha aggiunto di aver avuto l'impressione che il mobile B rinculasse; XVI. per tutti e quattro i soggetti questa situazione dà un effetto di reazione di gran lunga migliore di tutti gli altri; XVII. un soggetto ha giudicato questa situazione «buona» (GT); gli altri tre l'hanno giudicata negativa: «si tratta di un déclenchement» (PB), «sembrano molle» (GK), «più che altro sembra una staffetta» (GV).
Possiamo sintetizzare i risultati dell'esperimento nel seguente specchietto, dove le risposte dei 4 soggetti sono sommariamente divise in «impressioni di reazione» e «altre impressioni» :
XIV XV XVI XVII
Impressioni di reazione
Altre impressioni
3 2
1 2
4
O
1
3
Come si vede, le impressioni di reazione sono prevalenti (7 contro 3) in quelle situazioni in cui la «testa» del mobile B è rivolta verso il mobile A (XIV e XVI, vedi figura 7.9). Meno importante sembra la polarizzazione del movimento del rettangolino A, dato che si ha un egual numero di impressioni di reazione in quelle situazioni in cui la «testa» di A è nella direzione di marcia (XIV e XV, totale: 5), come in quelle in cui la «testa» è dalla parte opposta (XVI e 278
XVII, totale: 5). Diciamo meno importante, ma non irrilevante, perché esiste una differenza fra il rendimento percettivo della situazione XIV e quello della XVI: quando anche la «testa» di A è rivolta verso B, il numero di soggetti che vede il movimento reattivo cresce e l'impressione medesima acquista maggior vivezza. Si può pertanto affermare che - almeno nelle condizioni da noi utilizzate - l'impressione di movimento reattivo di un oggetto è migliore se è associata con l'impressione di «arretramento» dell'oggetto medesimo. La cosa sembra ancor più verosimile se prendiamo in considerazione la risposta del soggetto PB alla situazione XV: il mobile B è visto contemporaneamente «reagire» ed «arretrare», ma poiché quest'ultima caratteristica è incompatibile con la presenza della «testa» sul lato destro, le due aree cromatiche del mobile B cambiano ruolo: la presenza fenomenica della. «testa» si sposta dalla parte arancione (quella che è sempre stata individuata come «testa») alla parte bianca (quella che è sempre stata vissuta come «corpo» o «coda» del mobile B). In questo caso, evidentemente, le componenti cinetiche e temporali della struttura hanno avuto la meglio sulla naturale tendenza ad orientare i due rettangolini nella direzione della più stretta banda arancione. In altre parole, sembra che la polarizzazione del movimento di A e di B sia in parte dovuta anche al realizzarsi della struttura della reazione; non altrimenti si può spiegare l'equipartizione delle risposte nella situazione XV. La XV è infatti omologa alla situazione XVI, quella che ha dato la totalità di risposte di reazione, solo che si ammetta l'inversione di ruolo fra le parti bianche e arancione di entrambi i mobili. Se questa inversione si verifica, si ricostituisce la posizione «faccia a faccia» dei rettangolini, che verosimilmente è la più propizia al realizzarsi del movimento re attivo di B. Si può quindi concludere che la polarizzazione dei movimenti dei due mobili A e B, oltre che una condizione, è anche un effetto del costituirsi della struttura della «reazione».
279
9. Altre condizioni
In questo paragrafo esamineremo i risultati di osservazioni qualitative condotte su situazioni stimolo particolari; il tipo di risultati ottenuti ci ha convinto che, per gli scopi che ci eravamo proposti, un'indagine più approfondita sarebbe stata superflua. a) Lo stato di quiete o di moto dei due oggetti. Nel caso tipico di movimento reattivo (I), ed in quasi tutte le situazioni che abbiamo esaminato, le condizioni cinetiche dei due mobili sono sempre le medesime: dapprima A e B sono fermi, si mette in moto A e poi si arresta, si mette in moto B e poi si arresta. Possono variare i tempi in cui si succedono le varie fasi, ma lo schema cinetico resta sempre lo stesso. Ci è sembrato quindi opportuno osservare il rendimento percettivo di talune situazioni (fra le numerose possibili), in cui le condizioni cinetiche sono differenti da quelle tipiche. Le elenchiamo qui sotto: XVII. La situazione è in tutto eguale alla I, con la sola differenza che il mobile B non si arresta e, dopo aver percorso 8 cm, sparisce dietro uno schermo. In questo caso non viene percepita la «reazione» nel movimento di B, ma si ha piuttosto un'impressione di causalità meccanica, per lo più della specie dello scatenamento, e molto raramente del lancio. XIX. In questa situazione il mobile A compare sullo schermo già dotato di moto. B è fermo in mezzo al campo; A si spo~ta da sinistra verso destra alla velocità di 4 cm/sec, e dopo 2 sec SI arresta in una posizione adiacente a quella di B. 100 msec prima che raggiunga tale punto, B inizia a spostarsi verso destra alla v~locità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Il rend1ment? percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso t1pico. XX. In questa situazione è il mobile B a comparire sullo schermo già dotato di moto. A è fermo sulla sinistra, quando compare B in moto da sinistra verso destra alla velocità di 3 cm/sec. Dopo 600 msec anche A si mette in moto da sinistra verso destra alla velocità di 4 cm/sec. Durante questa fase, quindi, entrambi i quadratini sono in moto, ed A «insegue» B, riducendo progressivamente la distanza che li separa. Quando questa distanza si è ridotta a 15 mm il che accade circa 1 sec dopo che A si è messo in moto, la veÌocità di B passa a 36 cm/sec, ed entrambi i mobili si
280
arrestano dopo 100 msec. La distanza che li separa in quel momento è di 52 mm. Il rendimento percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso tipico. XXI. In questa situazione è il mobile A che, una volta in moto, non si arresta più. La situazione è in tutto identica alla I, con la sola differenza che A continua a spostarsi - alla velocità costante di 4 cm/sec - anche dopo che B ha iniziato il suo moto. B si mette in moto alla velocità di 36 cm/sec quando la distanza che separa i due quadratini è di lO mm. La presentazione termina con B fermo sulla destra ed A ancora in moto verso B, a 5 mm da quest'ultimo. Il rendimento percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso tipico I.
In conclusione, soltanto la situazione XVIII ha dato qualche risultato degno di nota, ed è che l'impressione di «reazione» nel movimento di B è legata soltanto ad un arresto visibile di quest'ultimo; le altre condizioni cinetiche del-
l'insieme non sembrano avere alcuna influenza sul fenomeno. La situazione XVIII può a buon diritto essere considerata come il caso limite del gruppo XIII, quello in cui l'arresto del secondo mobile veniva sempre più differito, allo scopo di misurare l'estensione del cosiddetto raggio d'azione. Vengono così confermate le tesi sostenute nel sesto e nel settimo paragrafo. b) Il verso dei due movimenti. In tutte le situazioni che abbiamo finora esaminato il verso degli spostamenti di entrambi i mobili è da sinistra· a destra. Non ci è sembrato fuor di luogo accertare se, a parità di tutte le altre condizioni, il mutamento di verso del moto di A, di B o di entrambi, abbia un qualche influsso sul costituirsi della configurazione della «reazione». I risultati delle nostre osservazioni sono esposti qui sotto. XXII. La situazione è identica alla I, salvo gli spostamenti dei quadratini A e B, che ora avvengono da destra verso sinistra; spazi, tempi e velocità sono quelli della situazione ottimale. Il rendimento percettivo di questa situazione non differisce da quello del caso tipico I. XXIII. In quest'altra situazione, A e B si presentano immobili nel mezzo dello schermo, a 5 mm l'uno dall'altro. Dopo 1 sec A inizia a spostarsi verso sinistra alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm 100 msec. Prima che A abbia raggiunto la
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poslZlone di arresto, B inizia uno spostamento verso destra alla velocità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Il rendimento percettivo di questa situazione è quello di due movimenti che si svolgono indipendentemente. XXIV. Questa situazione è identica alla precedente, con la so-
la differenza che B inizia il suo spostamento dalla parte opposta di A non 100 msec prima che A si fermi, ma 100 msec dopo che A è partito. Il rendimento percettivo di questa situazione è ambiguo: accanto all'impressione generica di due movimenti che hanno funzioni o scopi diversi, sussiste l'impressione che l'uno «abbia a che fare» con l'altro.
XXV. In quest'altra situazione, i quadratini A e B si presentano alle due estremità del campo, e muovono l'uno «contro» l'altro. All'inizio A e B si trovano a 85 mm di distanza l'uno dall'altro, fermi; dopo 1 sec, A inizia uno spostamento da sinistra verso il centro dello schermo, alla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm 100 msec dopo che A ha iniziato il suo spostamento; si mette in moto B, che dalla destra si porta verso il centro dello schermo alla velocità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Perciò A continua a spostarsi anche dopo che B si è arrestato, e si accosta a quest'ultimo fermandosi quando la distanza è ridotta a 5 mm. Il rendimento percettivo di questa situazione è per lo più di due movimenti indipendenti, benché talvolta possa sembrare che A si è fermato «perché» B gli ha sbarrato la strada. XXVI. Questa situazione è identica alla precedente, con la sola differenza che B non inizia il suo spostamento poco dopo che A ha iniziato il suo, ma poco prima (200 msec) che A abbia raggiunto il centro dello schermo. Perciò B si arresta circa 100 msec prima di A (essendo più veloce), quando quest'ultimo deve percorrere ancora 4 mm. Il rendimento percettivo di questa situazione è costituito dalla impressione che B «aggredisce» A, oppure che si . prepari attivamente a sbarrargli la strada.
Ci sembra che i risultati di questo gruppo di osservazioni offrano materia di riflessione per precisare sia il concetto di dipendenza fenomenica fra movimenti, sia il concetto di «qualità specifica» o del «significato» di una configurazione cinetica. Per quanto riguarda il primo punto, sembra che la dipendenza fenomenica fra due movimenti si instauri stabilmente soltanto quando c'è integrazione spazio-temporale fra i medesimi. Nella XXIII, dove i mobili si allontanano e la
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congruenza temporale si ha soltanto fra gli istanti dei rispettivi arresti, l'impressione è quella di due movimenti indipendenti. Nella XXIV, in cui i mobili si allontanano, ma c'è congruenza fra gli istanti delle rispettive partenze - cioè quando i due mobili sono vicini - si ha un'impressione sia pur vaga di interdipendenza fra i due eventi. Altrettanto si può dire per la XXV, in cui i mobili si avvicinano, ma c'è congruenza fra gli istanti delle rispettive partenze - cioè quando i due mobili sono distinti fra loro. Nella XXII e nella XXIV, dove c'è congruenza di luoghi e di tempi (B parte press'a poco dove A si arresta, e quasi nello stesso momento in cui A si arresta; B si arresta press'a poco dove si arresta A, e quasi nello stesso momento), si vive una stretta dipendenza fenomenica fra i due movimenti: nel primo caso il movimento di B è una reazione di «fuga» nel secondo caso una reazione di «aggressione». A questo punto giova mettere in risalto il fatto che la XXVI è strutturalmente identica alla XXII e, in definitiva, alla I: stessi spazi percorsi, stesse velocità, stessi tempi che separano gli eventi salienti della configurazione. Quello che cambia è soltanto il verso del secondo movimento, e ciò è sufficiente per cambiare radicalmente il rendimento percettivo delle due situazioni: in un caso abbiamo l'aggressione, nell'altro la fuga. Questo ci conduce a considerare il secondo punto, che riguarda la caratterizzazione espressiva di una configurazione cinetica. Quali sono i fattori dai quali dipendono la «qualità», il «colorito», il «significato» di una certa situazione? Dopo quanto abbiamo detto, sembra lecito affermare che il fattore temporale determina soltanto la connessione di due o più movimenti in un evento unitario, mentre il «tipo» di configuzione che si vede dipende da altri fattori. Ad esempio, è sufficiente un cambiamento di verso per mutare una «fuga» in una «aggressione», oppure un mutamento dei rapporti di velocità per cambiare un effetto tipicamente «meccanico» come quello del lancio, in uno tipicamente «intenzionale» come quello della reazione (vedi secondo paragrafo).
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..... ' ' l' Se volessimo fare un'analogia tra configurazioni cinetiche e configurazioni visive statiche, potremmo dire che il ruolo del fattore temporale nel primo caso equivale in qualche modo a quello sostenuto nel secondo caso dalla vicinanza, dalla buona continuazione o dalla chiusura, fattori che garantiscono egualmente bene sia la visione di una circonferenza che quella di un quadrato, cioè di figure che hanno un ben diverso aspetto e carattere espressivo. Il ruolo di altri fattori, nel caso di configurazioni cinetiche (verso del movimento, rapporto delle velocità, ecc.) sarebbe analogo a quello esercitato nel campo delle configurazioni statiche da quei fattori (grado di curvatura, parallelismo, equidistanza, ecc.) che danno alle singole figure la loro specifica struttura ed espressività, e cioè fanno sì che il cerchio sia un cerchio e il quadrato un quadrato. c) Movimenti di altro tipo. In tutti i casi che abbiamo fin qui esaminato, gli oggetti A e B sono costituiti da quadratini che si spostano lungo una traiettoria orizzontale. Abbiamo perciò deciso di sondare - utilizzando sempre il metodo dei . dischi - il rendimento percettivo di situazioni in cui l'uno o l'altro dei quadratini sono sostituiti da rettangoli che si allungano o si accorciano, come è indicato nella figura qui sotto:
B
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A
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B
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O
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XXVII. È la situazione illustrata nella figura 7.10. Nel campo ci sono, all'inizio: sulla sinistra un rettangolo arancione A disposto orizzontalmente, di 40 X 5 mm; sulla destra un quadratino bianco B di 5 x 5 mm; fra i due oggetti c'è una distanza di 50 mm. Dopo 1 sec, A comincia ad allungarsi in direzione di B alla velocità di 4 cm/sec, finché la sua lunghezza è diventata di 80 mm. 100 msee prima che A abbia raggiunto la fase di massimo allungamento, B inizia a spostarsi verso destra alla velocità di 36 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. Il rendimento percettivo di questa situazione è di movimento reattivo di B, ottimale da ogni punto di vista; esso è quindi identico a quello reso dalla situazione I. XXVIII. La situazione è analoga alla precedente, con i seguenti cambiamenti. La velocità di allungamento di A è di 36 cm/sec; fra la fine dell'allungamento di A e l'inizio dello spostamento di B corre un intervallo di tempo di 100 msec, durante il quale tutto è fermo; la velocità di spostamento di B è di 4 cm/sec. Il rendimento percettivo di questa situazione è una impressione di vaga connessione meccanica di tipo causale fra i due movimenti (lancio, espulsione). XXIX. Nel campo ci sono: sulla sinistra un quadratino arancione A di 5 x 5 mm di lato; sulla destra un rettangolo bianco B disposto orizzontalmente, di 80 x 5 mm; fra A e B esiste una distanza di 50 mm. Dopo 1 sec, A inizia a spostarsi verso Balla velocità di 4 cm/sec, e si arresta dopo aver percorso 4 cm. 100 msec prima che A si arresti, B incomincia ad accorciarsi: il suo lato verticale di sinistra si sposta verso destra alla velocità di 36 cm/sec. L'accorciamento termina allorché B ha raggiunto i 40 mm di lunghezza. Il rendimento percettivo di questa situazione è l'impressione che B si contragga come per effetto di una scossa, con un effetto di reazione intenzionale in tutto simile a quello della situazione tipica (I). XXX. La situazione è come la precedente, ad eccezione delle seguenti modifiche: la velocità di spostamento di A è di 36 cm/sec; un intervallo positivo di tempo - 100 msec - fra l'arrestarsi di A e l'inizio della fase di accorciamento di B; la velocità con cui B si accorcia è di 4 cm/sec. Il rendimento percettivo di questa situazione è una impressione di vaga connessione meccanica di tipo causale (urto).
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7.10. Schema delle fasi in cui si articola la situazione XXVII. Il quadratino in movimento di sinistra della I è stato sostituito da un rettangolo che si allunga con la medesima velocità con la quale si spostava il quadratino.
La prima conclusione che si può trarre da questi risultati è che i movimenti dei due oggetti A e B non devono essere necessariamente degli spostamenti in toto: la reazione può essere egualmente percepita in movimenti «interni» agli oggetti, in questo caso l'accorciarsi di un rettangolo che però
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viene vissuto come fermo al suo posto. Una seconda conclusione è che non è la dimensione delle superfici interessate, né la loro forma, ad influire sul configurarsi della reazione, ma piuttosto il comportamento dei loro margini. Se questi ultimi si spostano secondo le leggi empiriche stabilite nei precedenti esperimenti, si ha percezione di reazione (confrontare tempi e velocità della XXIX con quelli della I). Negli altri casi si configurano altre strutture cinetico-temporali, identiche a quelle che si ottengono con analoghi spo.stamenti di oggetti (confrontare la XXX con la V, o con altra situazione che dia luogo all'effetto lancio). Ad analoga conclusione eravamo giunti osservando il rendimento percettivo di variazioni sistematiche della situazione cinematografica (F1). Avevamo constatato infatti che il formarsi della protuberanza nel cerchio grande appariva come una reazione del medesimo all'avvicinarsi del piccolo ovale soltanto se compariva in maniera· brusca (cioè con un'alta velocità di espansione) ed al momento giusto (un po' prima che il piccolo ovale avesse raggiunto il punto di massimo avvicinamento al cerchio). d) Direzioni diverse del moto di B. Abbiamo preso in esame l'opportunità di studiare questa variabile mediante variazioni sistematiche della situazione cinematografica (F3). In essa, come si ricorderà, un piccolo oggetto attraversava diagonalmente il campo, passando al di sotto di un oggetto grosso: poco prima che la distanza fra i due si riducesse al minimo, l'oggetto grosso «emetteva» delle punte, e l'oggetto piccolo percorreva la restante traiettoria a velocità molto maggiore che nel primo tratto. Nella (F3) l'intera traiettoria era rettilinea; nelle varianti essa assunse la forma di una spezzata, nel senso che la metà di sinistra fu fatta ruotare verso il basso di 30, 45, 60, 90 e 120 gradi. Accadeva così che nel momento in cui l'oggetto grosso emetteva le sue punte, quello piccolo si allontanava, oltre che a velocità elevata, anche con una traiettoria radiale, compiendo cioè un mutamento di direzione. Abbiamo quindi potuto osservare che l'impressione di reazione è migliore quando la traiettoria di fuga si scosta dal
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semplice prolungamento del primo tratto del percorso di B; fa eccezione il mutamento di rotta di 90°, che favorisce l'impressione di un cambiamento di strada «deciso in modo autonomo da B».
lO. Riepilogo
Riassumendo i risultati principali della nostra ricerca, possiamo classificare le condizioni della percezione del movimento «reattivo» nelle seguenti quattro categorie: A. Condizioni spaziali: 1) Una certa separazione fra la traiettoria percorsa dal primo mobile e quella percorsa dal secondo mobile (vedi il quinto paragrafo). 2) Una certa lunghezza della traiettoria percorsa dal secondo mobile (vedi settimo paragrafo). B. Condizioni temporali: 1) Un certo intervallo di tempo fra la partenza e l'arresto del secondo mobile (vedi settimo paragrafo). 2) Un certo intervallo di tempo negativo o un intervallo nullo fra l'arresto del primo mobile e la partenza del secondo mobile (vedi quarto paragrafo). C. Condizioni cinetiche: 1) Un certo rapporto - che è ottimale intorno ad 1/9 - fra la velocità del primo e quella del secondo mobile (vedi secondo paragrafo). 2) Una certa velocità assoluta dei due mobili, fermo restando il rapporto anzidetto (vedi terzo paragrafo). D. Condizioni figurali e di campo: 1) Esistenza di un punto di arresto per il secondo mobile (se tale arresto non c'è, si ha percezione di «scatenamento», vedi nono paragrafo). 2) Polarizzazione dei movimenti dei due oggetti, nel senso di un «avanzamento» del primo e di un «indietreggiamento» del secondo (vedi ottavo paragrafo). 3) Direzione del movimento del secondo oggetto il più possibile «in allontanamento» rispetto alla direzione del movimento del primo oggetto (vedi nono paragrafo). 4) Attenzione del soggetto appuntata sull'evento centrale preso nel suo insieme (arresto del primo mobile e partenza del secondo, vedi quinto paragrafo).
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CAPITOLO OTIAVO
Di quèste condizioni si può affermare che: a) tutte hanno in comu~e la caratteristica di essere necessarie, ma non sufficienti); b) la polarizzazione dei movimenti appare ad un tempo come condizione ma anche come effetto dello strutturarsi della configurazione cinetica della reazione; c) gli effetti dello stato attentivo del soggetto sono almeno altrettanto dubbi quanto difficili da controllare, Abbiamo altresÌ preso nota di talune caratteristiche della situazione stimolo che non influenzano (almeno nelle zone da noi esplorate) la percezione della reazione. Esse sono: 1) La grandezza relativa degli oggetti (vedi parte prima, sesto paragrafo, e parte seconda, nono paragrafo). 2) La forma, il colore, la posizione relativa dei due oggetti (ibidem). 3) Il tipo di movimento degli oggetti, sia esso traslazione o espansione-contrazione (ibidem). 4) La condizione cinetica dei due mobili anteriormente all'inizio del movimento del secondo oggetto (vedi nono paragrafo). 5) In generale, ogni caratteristica spaziale o temporale (per esempio la lunghezza del percorso, o il tempo impiegato a coprirlo) che riguardi soltanto il primo oggetto.
LA VALIDAZIONE DELLE DIAGNOSI DI PERSONALITÀ
1. Valutazione intuitiva della personalità Tutti gli uomini, si sa, sono convinti di essere più o meno buoni psicologi, in grado cioè di giudicare i propri simili in base all'aspetto, al comportamento abituale, all'espressione dei loro sentimenti e delle loro emozioni. Ed in realtà una tale convinzione non manca di un certo fondamento. Senza un minimo di capacità di comprensione allopsichica o di intuito psicologico non sarebbe pensabile una vita di relazione; e non sarebbe possibile il costituirsi di complessi rapporti sociali se non esistesse la possibilità di quella reciproca comprensione su cui si fondono le scelte, le valutazioni, le previsioni del comportamento altrui e l'adattamento del proprio comportamento alle caratteristiche ed alle esigenze, anche inespresse, degli altri. Certo, esistono gradi molto diversi di questa capacità ed una completa sicurezza di giudizio nessuno la possiede: ad ognuno infatti è avvenuto di essersi sbagliato nel giudicare la personalità ed i moventi della condotta altrui, di veder smentite dai fatti le proprie impressioni e di dover correggere talvolta profondamente le proprie valutazioni. Comunque è incontestabile che i sentimenti, le preferenze, le preoccupazioni, il carattere degli altri ci sono in qualche modo accessibili ed è un dato di fatto che gli uomini hanno sempre atteggiato la propria condotta nei confronti di coloro che li circondano facendosi guidare da una supposta loro conoscenza, più o meno perfetta, più o meno sicura. Si può anche dire che in complesso il comportamento e le reazioni
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dei propri simili costituiscono per la maggior parte degli uomini piuttosto conferme che non smentite ai propri giudizi ed alle proprie previsioni. Del resto anche gli argomenti per sostenere una pretesa inconoscibilità della personalità interiore altrui hanno soltanto una validità astratta di principio, ma vengono smentiti dal quotidiano comportamento pratico di coloro stessi che una tale tesi sostengono, i quali non appena si distolgono dai loro ragionamenti in apparenza inconfutabili e si trovano nuovamente di fronte ai loro parenti, colleghi e conoscenti, esplicitamente od implicitamente li giudicano e li classificano come buoni, pazienti, testardi, malevoli, invidiosi, generosi e così via, e differenziano il proprio modo d'agire nei loro riguardi proprio in base a questa conoscenza: che in teoria negano ma di cui in pratica si servono e della cui esattezza nella maggior parte dei casi non dubitano. Una cosiffatta nozione empirica della personalità si fonda, oltre che sulla conoscenza delle manifestazioni della vita pregressa e delle condizioni ambientali nelle quali una personalità si è venuta sviluppando, sull'osservazione di una quantità di segni esteriori: che vanno dall'aspetto generale al modo di muoversi, di parlare, di gestire, al tono della voce, al sorriso, allo sguardo, alla mimica facciale in genere, alla scrittura, e via dicendo. L'interpretazione di questi vari lineamenti esteriori avviene in base alla esperienza individuale ed in base ad una specie di lettura diretta per cui determinate caratteristiche del comportamento suggeriscono in modo immediato date qualità psichiche; così un gesticolare animato e scattante sembra testimoniare una natura esuberante, vivace ed eccitabile, ed il tono della voce, lo sguardo, il sorriso possono esprimere direttamente la timidezza, l'imbarazzo oppure la sicurezza di sé. Indubbiamente tutti questi aspetti del comportamento manifesto possiedono una qualche significatività, immediata od acquisita, per cui indicano qualche cosa che sta dietro ad essi e possono quindi servire a farlo conoscere o intravvedere. Ma i dati ottenuti attraverso una tale «lettura» diretta
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devono, per condurre ad una adeguata valutazione caratterologica, essere interpretati alla luce di una ampia esperienza psicologica. Soltanto dal confronto con le reazioni tipiche di persone della medesima età, sesso, costituzione, classe sociale, ecc. in analoghe situazioni, una determinata manifestazione potrà ad esempio essere considerata normale o meno, espressione di una qualità costante oppure dovuta a particolari condizioni transitorie di tensione o di rilassamento. Intuito psicologico unito dunque ad una vasta esperienza sono premesse indispensabili alla comprensione e valutazione corretta della personalità altrui; e sono doti che in effetti possiedono coloro che, come uomini politici, come uomini d'affari, come educatori, come medici, riescono con successo a scegliere, guidare, dominare, educare, aiutare i propri simili. Ma è chiaro altresì che in queste condizioni le cause di errori e di false interpretazioni non possono che essere molto numerose. Scarso potere di penetrazione psicologica da una parte e difetto di esperienza dall'altra, o esperienza unilaterale, o deformata per effetto di meccanismi inconsci, tendenza alla schematizzazione, alla classificazione per tipi rigidi senza sfumature e plasticità, possibilità di simulazione e di maschera tura da parte dei soggetti, e soprattutto la plurivocità dei segni o sintomi che devono servire alla interpretazione, sono alcune delle principali fonti di giudizi erronei e di diagnosi illusorie, quando la valutazione della personalità viene empiricamente elaborata sui dati forniti dall'impressione individuale. In conclusione, se si può affermare che un minimo di capacità di comprensione dell'altrui personalità fa parte del corredo attitudinale di ogni persona normale, è altrettanto certo che essa è distribuita molto inegualmente fra gli uomini e costituisce comunque una specie di «talento» innato, che solo fino ad un certo punto può venire affinato dall'esperienza e dall'esercizio, per cui l'interpretazione dei segni o tratti rivelatori del carattere interiore sembra debba rimanere pur sempre un'arte e non un'attività tale da assumere la obbiettività ed il rigore dei procedimenti scientifici.
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2. I reattivi caratterologici È naturale e ben comprensibile il desiderio di sfuggire alla natura incerta ed aleatoria delle valutazioni soggettive, sostituendo all'impressione individuale norme di· giudizio più sicure, determinate con criteri obbiettivi, in base all'osservazione sistematica e con il controllo dei metodi esatti e positivi di una scienza. A questa aspirazione - di fornire cioè all'intuizione personale uno strumento preciso, esente da fluttuazioni e deformazioni individuali, di passare in una parola dall'arte alla scienza del carattere - devono la propria origine i tentativi antichi e sempre rinnovati di fondare una tecnica di interpretazione della personalità sulla scorta degli elementi offerti dall'aspetto della costituzione fisica, della fisionomia, della mimica, della conformazione delle mani, della scrittura, del comportamento motorio ed espressivo in genere. Oltre all'assenza di senso critico e di prudente equilibrio nella maggior parte dei loro cultori, al loro fanatismo, alla unilateralità ed arbitrarietà dei punti di vista, alla puerilità dei ragionamenti analogici, alla insufficienza metodologica dei criteri di validazione dei risultati, ciò che la maggior parte di tali «scienze» hanno in comune è il desiderio, legittimo in sé, di sistematizzare le osservazioni caratterologiche, di fornire criteri di valutazione uniformi, in modo da svincolare l'interpretazione dei caratteri dalla soggettività e renderla indipendente dalla capacità intuitiva più o meno sviluppata e dalle sue oscillazioni nel medesimo individuo. Alla medesima esigenza, di eliminare o di ridurre al minimo il margine di errore dovuto alla soggettività dei giudizi, si ispira il lavoro ormai pluridecennale degli psicologi che in numero sempre maggiore si dedicano alla elaborazione di metodi di esame e di diagnosi della personalità che abbiano le caratteristiche di strumenti di misura e valutazione sicura, obbiettiva e costante. Oltre alla determinazione di particolari tecniche ed accorgimenti per rendere più sistematica ed esauriente la raccolta dei dati attraverso i metodi più tradizionali di esplorazione e valutazione costituiti dai
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questionari, autobiografie e colloqui, nei quali in ultima analisi si chiede al soggetto di dare notizie ed opinioni su se stesso, vengono introdotti quei speciali procedimenti di esame che, sull'esempio delle prove di intelligenza, si chiamano test o reattivi caratterologici. Il metodo dei re attivi viene considerato obbiettivo perché, a differenza degli altri metodi, non tende a 'far esprimere al soggetto opinioni su se stesso, ma permette di osservare direttamente il suo comportamento in situazioni ben definite nelle quali le sue qualità, abitudini, aspirazioni, bisogni hanno modo di manifestarsi. Le particolarità di tale comportamento possono venir confrontate con il comportamento, nelle medesime situazioni standardizzate, di altri soggetti le cui caratteristiche sono per altra via ben conosciute. È evidente che attraverso un simile confronto l'impressione soggettiva dell'esaminatore possa venir notevolmente disciplinata ed obbiettivata. Appartengono a questo gruppo di accertamenti obiettivi le cosiddette «miniature», ossia situazioni artificialmente predisposte e riproducenti situazioni della vita reale, la osservazione e registrazione all'insaputa del soggetto del suo comportamento motorio e verbale in tali condizioni (ripresa cinematografica, magnetofono), molteplici misurazioni fisiologiche (pressione sanguigna, curva respiratoria, conducibilità galvanica, ecc.). Ad essi si aggiunge il gruppo di reattivi che, dal meccanismo psicologico che mettono in azione, vengono detti proiettivi, con i quali si tende ad ottenere indizi sulla personalità interiore e soprattutto su quella profonda, attraverso il modo con il quale il soggetto conferisce organizzazione e significato ad un materiale costituito da stimoli indefiniti, ambigui o plurivoci. Il metodo si fonda s~l presupposto che il soggetto imprima le tracce della proprib struttura interiore nelle sue produzioni, sia che queste si ottengano attraverso un meccanismo espressivo-motorio (scrittura, disegno, scarabocchio), o percettivo-strutturale (macchie d'inchiostro, Szondi, tautofono), o appercettivo-dinamico (TAT, gioco, produzione di fantasie). La maggior parte dei re attivi caratterologici, quelli
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proiettivi inclusi, si pongono su una via intermedia tra i due estremi della completa soggettività incontrollata da una parte e della esatta quantificazione dall'altra. Utilizzano il giudizio soggettivo al quale cercano di conferire sicurezza ed attendibilità, costringendolo ad adeguarsi ad un sistema di regole e correggendolo mediante molteplici controlli elaborati in base a criteri di carattere statistico. Rimangono perciò nella loro essenza metodi qualitativi, nei quali le singole determinazioni vengono affidate alla valutazione individuale; non corrono perciò il pericolo della considerazione atomistica e dei suoi risultati astratti, meccanici, lontani dalla realtà viva della personalità, ma sono esposti molto di più al rischio di subire l'influenza della incapacità valutativa dell'esaminatore e di tutte le deformazioni che con una attività di interpretazione e valutazione dei segni o sintomi sono connesse. La definizione di qualitativi non può essere intesa come un appunto critico sufficiente a toglier valore ai procedimenti considerati. Una volta riconosciuta la vanità e l'insensatezza di una quantificazione rigorosamente esatta, sul modello delle misure fisiche, in un campo per sua natura così complesso come quello dei tratti della personàlità, ed ammessa d'altra parte l'esistenza di una effettiva possibilità di comprensione e di giudizio da parte di un uomo del comportamento di un altro uomo, la via veramente scientifica di procedere è proprio quella di prendere a base del procedimento tali atti di giudizio, ponendo la massima cura nell'istituire da una parte regole fisse per la rilevazione dei dati, stabilendo dall'altra norme precise per l'assegnazione di un valore comparativo alle varie componenti che entrano a far parte del giudizio complessivo, disciplinando la elaborazione dei quadri sintetici e delle valutazioni finali di un esame in modo da assicurare che i singoli fattori messi in luce entrino con il loro proprio peso in tale giudizio conclusivo, senza che abbiano troppo a subire spostamenti od alterazioni dovute alla particolare «equazione personale» dell'esaminatore. È mia convinzione che non ci si debba o possa attendere molto di più dalla caratterologia scientifica, senza parlare 294
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delle assurde aspirazioni ad una tecnica di diagnosi meccanizzata ed infallibile che qualche profano pretenderebbe come risultato dei nostri studi. Qualunque metodo per quanto perfezionato non potrà offrirci che indizi e sintomi; la loro interpretazione ed integrazione corretta, la vera e propria diagnosi, sarà sempre affidata all'intuito clinico individuale. L'importante è riuscire a restringere la zona dell'arbitrario, a limitare e compensare le deviazioni sistematiche derivanti dall'angustia degli angoli visuali, dall'esperienza necessariamente ristretta e dalle particolari idiosincrasie e debolezze dell'esaminatore. Giungere cioè a fare della caratterologia una semeiotica positiva, una scienza dei segni rivelatori della personalità, che offra alla diagnosi il sostegno del maggior numero possibile di dati attendibili di valore sperimentato ed univoco. A che punto siamo oggì in questa opera? Quale fiducia possiamg riporre nelle diagnosi che, con procedimenti più o meno complicati, si ottengono mediante i re attivi che in numero sempre crescente vengono posti a nostra disposizione? Rispondere a queste domande significa porsi il problema dei criteri di validazione dei risultati ottenuti con i reattivi, ossia esaminare i metodi della verificazione sperimentale della esattezza delle diagnosi.
3. I criteri di validazione
Perché uno strumento o un procedimento possa venir considerato idoneo a fornire «misure» o anche soltanto a rivelare in forma qualitativa la presenza e l'entità di un fenomeno, è necessario che tale idoneità sia stata accertata in modo preciso e le sue determinazioni controllate obiettivamente così da offrire la garanzia di un funzionamento che soddisfi determinate esigenze minime di attendibilità, di precisione e di costanza. Per quanto concerne in particolare la attendibilità o validità, di cui ora ci occupiamo, la situazione è alquanto diversa per i test di attitudine e per quelli caratterologici. 295
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I primi vengono validati in base a criteri di rendimento, obiettivamente accertabili, spesso misurabili con una certa esattezza. Così ad esempio la validità di una batteria di re attivi mentali, che si suppone mettano in evidenza l'attitudine di riuscire in una data specializzazione professionale, viene stabilita dal grado di correlazione esistente tra la classificazione di un gruppo di individui ottenuta in base ai risultati nei reattivi e quella ottenuta in base all'effettivo rendimento professionale ?egli st1s~i sog?et~i,. determinato qu~ st'ultimo sulla scorta dI eleme tI obblettlVl come: la quantItà e qualità di lavoro svolto o 'entità del guadagno realizzato nei cottimi, il numero degli errori di lavorazione, delle punizioni o multe, degli incidenti e così via. Le difficoltà in questo campo sono molteplici ed esigono una grande cautela nella scelta degli indici di rendimento e di riuscita profèssionale, ma in complesso una lunga esperienza dimostra che è perfettamente possibile predire con buona approssimazione il rendimento di un individuo in base alle sue prestazioni in prove psicotecniche. Molto maggiori diventano le difficoltà quando, anzi che di accertare un'abilità e predire il grado di rendimento, si tratta di stabilire se la diagnosi di una caratteristica della personalità corrisponda in realtà alla sua effettiva presenza nell'individuo considerato; e ciò tanto più se il giudizio ha pretese quantitative, e verte cioè sull'importanza di quella caratteristica nella personalità complessiva e nel modo come essa venga ostacolata, bilanciata o esaltata da altre funzioni. Come è possibile stabilire una correlazione significativa tra le diagnosi -ottenute con un determinato metodo e la effettiva struttura caratterologica dei soggetti? I criteri che possono venir seguiti e che in realtà sono stati adottati, singolarmente o variamente combinati, dai vari ricercatori in questo campo, sono fondamentalmente i seguenti.
a) Controllo del metodo su materiale patologico, di cui cioè sia nota per via clinica la struttura delle funzioni psichiche. b) Osservazione accurata per lunghi periodi di tempo
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del comportamento in circostanze reali della vita dei soggetti esaminati. c) Raccolta dei giudizi convergenti espressi da persone che, per rapporti familiari, d'impiego o di amicizia, dovrebbero conoscere l'individuo sottoposto ad esame. d) Giudizio del soggetto stesso sul grado di esattezza delle affermazioni relative alla sua vita interiore.
a) Il «criterio patologico» si uniforma ad .uno sc~em.a dimostrativo al quale nelle scienze biologiche VIene attnbmto un alto valore probatorio. Esso parte dall'ammissione di , una fondamentale continuità fra stati normali di un organismo e stati morbosi, questi ultimi rappresentando alterazioni dell'equilibrio vitale provocate dall'ipertrofia o dal deficit di una o più funzioni «normali». I processi morbosi non sarebbero pertanto qualcosa di completamente <
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ma situazione-stimolo degli individui normali, in cui la integrazione più o meno armonica di quella funzione nel quadro delle altre funzioni può provocare tipi di risposte non solo quantitativamente ma anche qualitativamente ben diverse. La somiglianza delle risposte o reazioni potrebbe essere soltanto apparente ed esteriore, prodotta da meccanismi psichici del tutto inconfrontabili. Kretschmer e Rorschach, che su tale parallelismo fondano le loro caratterologie ed i loro metodi di diagnosi e rappresentano gli assertori più autorevoli e convincenti del criterio patologico nello studio della personalità, non ci hanno in fondo dato una dimostrazione o prova diretta della identità tra processi psichici in normali ed in anormali che manifestano tratti esteriori simili. b) Quanto al secondo possibile criterio, quello che in teoria appare senza dubbio il più sicuro, va notato che presenta difficoltà enormi nella attuazione pratica. Infatti è ben difficile che si riesca a seguire per un lungo periodo di tempo e in tutte le loro manifestazioni un gruppo di soggetti abbastanza ampio per fornire la base a conclusioni statisticamente significative. Studi cosiddetti «longitudinali» di una certa serietà sono stati fatti per uno, o al massimo per un numero limitatissimo di soggetti, ma è poco probabile che possano essere eseguiti per un numero di individui tale da soddisfare le esigenze di una elaborazione statistica rigorosa. Senza contare che anche i dati ricavati da una tale indagine sarebbero in sostanza affetti dalla medesima soggettività, dipendente da chi emette i giudizi, che appunto l'esame mediante il re attivo dovrebbe permettere di evitare. c) Obiezioni di principio molto gravi, analoghe alle precedenti, possono venir mosse anhe ad un metodo di validazione che adotti come «criterio» i giudizi espressi sulla personalità dell'individuo esaminato da coloro che, per avere rapporti di familiarità con lui, si suppone posseggano una conoscenza abbastanza esatta delle sue caratteristiche. Ricerche ormai numerose hanno messo in evidenza la scarsa attendibilità delle informazioni ottenute per tale via, dimostrando la enorme sconcordanza dei giudizi dati da varie 298
persone sugli stessi individui. Troppi sono i fattori che influenzano tali giudizi perché si possa riporre in essi una qualche fiducia. In definitiva adottare questo criterio significa voler rendere obbiettivo uno strumento ricorrendo per questa operazione proprio al vaglio della soggettività nella sua forma meno controllata. Qualche progresso verso la obbiettivazione di questi giudizi si è compiuto attraverso il metodo, ora molto usato, delle ratingscales, con le quali una caratteristica di un individuo viene valutata da parecchie persone su una scala di valori accuratamente studiata. Una raffinata elaborazione statistica dei dati così ottenuti permette di raggiungere una certa precisione nella attribuzione di qualità personali. d) Rimane ancora la possibilità di richiedere ai soggetti stessi, ai quali si riferiscono le risultanze emerse dalle loro prove nel reattivo, se la diagnosi così ottenuta è riuscita o meno. Sembrerebbe che un simile procedimento possa offrire una certa possibilità d'impiego, se non per quanto si riferisce alle strutture della personalità profonda che evidentemente è ignota all'individuo, almeno per le caratteristiche di superficie che si deve supporre siano abbastanza note al soggetto. Unica condizione indispensabile sembra essere quella di assicurarsi della massima sincerità dei soggetti, condizione che non è difficile raggiungere quando si ponga l'indagine su un terreno di serietà scientifica e si diano tutte le desiderate garanzie circa l'anonimità delle risposte e la non divulgazione delle medesime. Poiché considerazioni di questo genere devono aver avuto il loro peso nell'indurre alcuni studiosi a far ricorso alle dichiarazioni dei soggetti come ad un possibile ed attendibile criterio di verifica, mi sono proposto di sottoporre ad una indagine sperimentale la sua validità. Quale valore si può attribuire alla accettazione o al rifiuto da parte di una persona di tratti caratterologici che le vengano enunciati come caratteristici della sua personalità? A questo quesito già altri hanno cercato di dare una risposta, giungendo a conclusioni in genere molto negative [Meili 1929; Kriiger e Zietz 1933]. Poiché d'altra parte, nonostante l'evidenza di tali di299
'~.".';~ v
most~az~o~i. sperimentali,
si continua, anche da parte di COlOgI dI nhevo [come, ad es., Eysenck 1950], a riporre certa fiducia nelle autovalutazioni come atte a fornire conferma a tentativi diagnostici, ritengo utile riferire serie di esperimenti dedicati a chiarire questo problema.
psiuna una una
4. Descrizione dell'indagine
Se, dopo aver sottoposto una persona ad una prova con re attivi caratterologici, si espongono alla stessa i risultati a cui si è pervenuti in base alla interpretazione delle sue risposte, e si chiede la sua opinione sulla veridicità delle affermazioni che così si vengono a fare, si possono ottenere o una piena approvazione o un netto rifiuto o accettazioni parziali e condizionate della diagnosi. Tali dichiarazioni del soggetto interessato possono scaturire da una effettiva corrispondenza o non corrispondenza dei tratti caratterologici enunciati con la fisionomia della personalità interiore. È tuttavia anche possibile che le reazioni del soggetto di fronte al supposto profilo della propria personalità siano determinate dal contenuto del profilo stesso; vale a dire è possibile che alcune caratteristiche abbiano mag~i~re probabilità di ~e~irel accettate di altre che vengono pIU frequentemente nfIUta~e. L'accettazione di una diagnosi non dipenderebbe in tall'caso dalla sua maggiore aderenza. alla effettiva realtà ps~c110g~c~ del so~getto in esame, ma pIUttostO dal numero dI quahta del pnmo tipo che vi sono contenute. Se una simile ipotesi si dimostrasse vera, ben scarso valore si potrebbe assegnare al giudizio dei soggetti sulla propria diagnosi caratterologica in quanto possibile criterio di validazione di un metodo di esame. Il procedimento che ho seguito allo scopo di verificare una tale eventualità si sviluppava secondo il seguente schema: costruzione di un ritratto caratterologico contenente in prevalenza affermazioni presumibilmente «accettabili»; esame di un gruppo di persone con un reattivo caratterologico qualunque; presentazione a tutti i soggetti del medesimo ri300
...
1 !
tratto costruito in precedenza senza tener conto dei risultati della prova: computo del numero di «accettazioni» e di «rifiuti» per ciascuna voce del profilo standard. È un procedimento, come si vede, differente ed in un certo senso inverso a quello seguito dal metodo del «questionario» o inventory. Mentre infatti in quest'ultimo si lascia ai soggetti la scelta delle qualità, reputate caratteristiche della propria personalità, in un ampio elenco di tratti fra di loro eterogenei ed anche antitetici, col mio sistema si tratta per il soggetto di decidere se tratti, che vengono dichiarati essere emersi da un esame obbiettivo delle sue reazioni, sono conformi a quanto egli sa di se stesso. Questo allo scopo di render perfettamente identiche e perciò confrontabili le situazioni delle mie esperienze e quelle dei normali esami con re attivi che danno luogo a diagnosi della personalità. Il profilo caratterologico che, dopo un certo numero di tentativi e modificazioni, fu adottato quale responso da dare a tutti i soggetti fu il seguente: PROFILO
A
Personalità caratterizzata da notevole intensità di sentimenti, capace cioè di forti affetti e di avversioni altrettanto forti. Le sue simpatie ed antipatie sono quasi sempre istintive ed immediate, e spesso non sa rendersi conto di queste sue prese di posizione. Il soggetto tende ad un particolare equilibrio e serenità di giudizio, sono tuttavia presenti sentimenti di invidia e spunti talora forti di gelosia che compromettono l'obbiettività e l'imparzialità delle sue azioni. Buon conoscitore degli altri, sa immedesimarsi nelle loro condizioni. Tale comprensione però gli fa spesso difetto proprio nei riguardi delle persone a lui più vicine. Tendenza ad imporsi, a primeggiare, spesso in situazioni di poco conto. Profonda spinta verso la socievolezza, che, quando non può essere soddisfatta, è causa di tristezza. Frequenti le oscillazioni di umore e le discontinuità nello svolgimento delle attività pratiche. Quasi immune da suggestibilità, il soggetto si affida nelle sue
301
;:1 l' "
azioni al proprio raziocinio, ama veder chiaro nei motivi del suo agir~ ed essere profondamente sincero con se stesso. E fondamentalmente un timido e la volontà spesso non lo sorregge, ma è dotato di una perseveranza a largo respiro per cui si sforza attraverso tutta la sua vita di attuare le sue aspirazioni fondamentali. Il fondo di insoddisfazione e di amarezza che è caratteristico della sua personalità gli proviene dal fatto di essere ancora lontano da questa meta. Una ma1celata soddisfazione tocca il soggetto quando altri si occupano di lui, perciò è molto incline a pensare all'impressione che fa la propria persona sugli altri. Gli piace mostrarsi generoso e disinteressato, benché il movente profondo delle sue azioni sia quasi sempre egoistico. Emotivo, spesso di fronte a fatti che ad altri passano inosservati o che li lasciano indifferenti. La sua intelligenza è ostacolata dallo scarso rendimento mnemonico; meglio indirizzata avrebbe potuto rendere molto di più.
Come si può vedere, esso consta di affermazioni relative all'affettività, temperamento, emotività, capacità di giudizio, intuito sociale, aggressività, suggestionabilità, volontà, narcisismo, intelligenza e memoria, che costituiscono nelloro co~plesso la descrizione di una personalità immaginaria. RImando a dopo l'esposizione dei risultati l'analisi dei criteri seguiti nella compilazione e nel dosaggio delle ventisei voci incluse nel quadro caratterologico; essa mi offrirà lo spunto a considerazioni sulla tecnica impiegata da grafologi, chiromanti e simili nella formulazione dei loro responsi. La ricerca si svolse nel modo seguente: al soggetto veniva proposto di sottoporsi ad un esame allo scopo di determinare le caratteristiche della sua personalità. Gli veniva detto che si trattava di una prova molto semplice, che offriva però la possibilità di una diagnosi obbiettiva precisa e circostanziata, in base alla valutazione delle particolarità della produzione espressiva che sarebbe stato invitato a prestare. L'esame aveva uno scopo strettamente scientifico e serviva a controllare la validità di questo metodo di esame caratterologico che, molto usato all'estero, doveva venir introdotto anche da noi qualora si fosse dimostrato attendibile. Il soggetto veniva quindi invitato a compiere la «prova 302
dello scarabocchio» [il cosiddetto test du gribouillage del Meurisse 1948], doveva cioè, su un foglio di carta bianca, tracciare con la matita, senza alzar la punta dal foglio, per la durata di un minuto, uno scarabocchio o ghirigoro con la massima spontaneità, senza proporsi di fare un disegno o comunque qualcosa di sensato. Il giorno dopo gli veniva presentato il profilo caratterologico preparato in precedenza e gli veniva detto: «Dall'esame degli aspetti formali del suo disegno risulterebbe questo profilo della sua personalità. La prego di leggerlo attentamente fino in fondo e di dirmi, se crede, se la diagnosi le sembra esatta, se cioè riconosce come proprie le caratteristiche enunciate». Registrata così l'impressione prodotta dalla diagnosi nel suo insieme, si passava all'esame di ogni singola voce ed alla sua eventuale discussione. Con questo procedimento vennero esaminati 23 soggetti, ai quali venne presentato beninteso sempre il medesimo profilo. Essi erano in massima parte studenti universitari o laureati in età dai 20 ai 30 anni, di cui 15 maschi ed 8 femmine. Gli esami furono condotti da cinque persone diverse, cosicché la uniformità dei risultati non può venir attribuita soltanto alla particolare abilità di un determinato esaminatore nel condurre l'esperimento e nel presentare le conclusioni. Meili [1929], per dimostrare l'assurdità del cosiddetto metodo elettrodiagnostico del dott. Bissky, che a suo tempo aveva suscitato un certo interesse 1, si era servito del seguente procedimento. Dopo aver redatto un elenco di 68 qualità, attribuì a ciascuna di queste un grado di intensità mediante un punteggio variante da 1 a 5. I punteggi furono assegnati «a caso» e in modo che ogni intensità fosse rap-
1 Nella elettrodiagnosi del Bissky il cranio veniva suddiviso in 79 regioni corrispondenti ciascuna ad una qualità psichica o attitudine (una specie di ritorno alla frenologia dunque); ogni regione veniva poi toccata con un elettrodo: il grado dell'attitudine avrebbe dovuto essere proporzionale alla intensità della scossa provata [Schulte 1925; Giese 1925].
303
presentata con una frequenza corrispondente approssimativamente alla legge di Gauss, e cioè il punteggio 3 fu dato al 40% delle qualità, i punteggi 2 e 4 al 20% delle voci ciascuno ed i punteggi estremi 1 e 5 al 10% dei casi ciascuno. Costruiti così a «caso» 37 profili differenti, li presentò a 37 soggetti dichiarando che erano responsi di esami grafologici, e li invitò a correggere le valutazioni secondo l'opinione che ognuno aveva di se stesso. Ne risultò che le valutazioni delle «diagnosi» coincidevano con quelle dei soggetti nel 53,4% dei casi, e per le altre lo scostamento medio fu, su una scala di 5 punti, inferiore ad una unità di punteggio (0,73). Il metodo di Kriiger e Zietz [1933] fu invece, salvo varianti di poco conto, sostanzialmente analogo a quello seguito da me nella prima serie di esperimenti, con risultati, come vedremo, molto simili ai miei.
5. Esposizione dei risultati
Tutti i 23 soggetti dichiararono che la diagnosi era nel complesso ben riuscita, corrispondeva a quelle che erano le loro caratteristiche psicologiche. Per alcuni l'accettazione era entusiastica, mista a stupore che con mezzi tanto semplici fosse possibile giungere a determinazioni così precise ed aderenti alla realtà; altri discutevano o rifiutavano qualche particolare sul quale non erano d'accordo, pur affermando che la maggior parte dei punti era esatta. Riporto dai protocolli qualche dichiarazione tipica dell'uno e dell'altro atteggiamento: G. M., anni 19, studente: «La maggior parte dei punti corrisponde alla realtà». Dopo la discussione dei singoli punti, dei quali accetta 24 su 26, osserva: «Non credevo si potesse giungere ad una diagnosi cosÌ precisa». P. M., anni 20, impiegato: «In generale azzeccato in pieno». Accetta 22 punti su 26. V. R., anni 21, studente: «Tranne l'egoismo, il resto è perfetto». Accetta 25 punti su 26.
304
L. B., anni 37, maestra: «Meravigliosamente descritta la mia personalità». Accetta 26 punti su 26; le osservazioni che fa a proposito di qualche voce non fanno che confermarle. Commento finale: «Non trovo assolutamente nulla di errato». L. M., anni 65, maestra: «La diagnosi è molto esatta». Dopo l'esame dei singoli punti (ne accetta 19 su 26): «È tutto molto giusto: e io che avevo sempre pensato che foste degli acchiappa-mosche!». Oppure: P. N., anni 22, studente: «Complessivamente abbastanza indovinato». Dissente su 5 punti ed è incerto su altri 3. L. B., anni 28, architetto: «La diagnosi è esatta per più della metà». In realtà, esaminando le voci in dettaglio, ne rifiuta soltanto 4 e manifesta incertezza per 3 di esse. Giudizio finale: «La diagnosi, vista punto per punto, è ancor più convincente». P. D., anni 27, medico: «In complesso esatto per 1'80%». Dissente per 4 punti e fa delle riserve per altri 2.
Per poter apprezzare - oltre alla impressione complessiva, che fu dunque nettamente positiva nel 100% dei casi il modo secondo il quale le accettazioni ed i rifiuti si distribuivano fra le varie voci, ho cercato di dare forma tabellare ai risultati registrando, per ognuna delle ventisei affermazioni nelle quali può essere diviso il profilo, il numero di volte che essa fu riconosciuta come corrispondente alla realtà, o fu respinta come errata o diede luogo ad accettazioni condizionate o espresse in forma dubitativa (tabella 8.1). Da essa risulta che - se si esclude il punto 22 per il quale si è avuto un numero di rifiuti eguale a quello delle accettazi.oni - ciascuna voce è stata riconosciuta come corrispondente con percentuali che vanno da un minimo del 60% (14 su 23) ad un massimo del 95% (22 su 23), la media essendo di 18 accettazioni (78%), che rappresenta anche il valore mediano e quello più frequente nella distribuzione. In totale le ventisei voci sono state accettate 471 volte (78,7%), sono state rifiutate 68 volte (11,3%) ed accettate con riserva 59 volte (9,8%). Il punto sul quale si ebbero i maggiori consensi (22 su 23) è il venticinquesimo, che si riferisce all'influenza negativa della scarsezza di memoria sull'intelligenza, ed il maggior 305
TAB. 8.1. Numero di accettazioni, di rifiuti e di risposte incerte per ciascuna voce del profilo di forma A, nei protocolli di 23 soggetti VOCI
2
3 4
5
6
7 8 9 lO 11 12 13 14 15 16 17
18 19
306
Personalità caratterizzata da notevole intensità di sentimenti, capace cioè di forti affetti e di avversioni altrettanto forti Le sue simpatie ed antipatie sono quasi sempre istintive ed immediate, ecc. Il soggetto tende ad un particolare equilibrio e serenità di giudizio Sono tuttavia presenti sentimenti di invidia e spunti talora forti di gelosia, ecc. Buon conoscitore degli altri, sa immedesimarsi nelle loro condizioni Tale comprensione però gli fa spesso difetto proprio nei riguardi delle persone a lui più vicine Tendenza ad imporsi, a primeggiare spesso in situazioni di poco conto Profonda spinta verso la socievolezza che, quando non può essere soddisfatta, è causa di tristezza Frequenti le oscillazioni di umore e le discontinuità nello svolgimento delle attività pratiche Quasi immune da suggestibilità il soggetto si affida nelle sue azioni al proprio raziocinio, ecc. È fondamentalmente un timido e la volontà spesso non lo sorregge ma è dotato di una perseveranza a largo respiro per cui si sforza attraverso tutta la sua vita, ecc. Il fondo di insoddisfazione e di amarezza che è caratteristico, ecc. Una malcelata soddisfazione tocca il soggetto quando altri si occupano di lui
N. accettazioni
N. dubbie
N.
r !
TAB. 8.1. (Segue) 20
rifiuti 21 22
19
3
1
19
2
2
19
2
2
23 24
25 17
2
4 26
16
6
1
perciò è molto incline a pensare all'impressione che fa la propria persona sugli altri Gli piace mostrarsi generoso e disinteressato benché il movente profondo delle sue azioni sia quasi sempre egoistico Emotivo spesso di fronte a fatti che ad altri passano inosservati o li lasciano indifferenti La sua intelligenza è ostacolata dallo scarso rendimento mnemonico meglio indirizzata avrebbe potuto rendere di più Totale
% 15
4
17
2
4
14
3
6
lO 18
3
lO
4
1
18
4
1
1
22 21
1
1
471
59
68
78,7
9,8
11,3
4 4 5
19 18 20
2
1
18 21
3
2
1
1
20 16
1 3
2
18 21
4
1
1
1
4
3
20
19
3
18
4
18
1
1
4
numero di rifiuti è stato registrato dal ventiduesimo punto che afferma la natura egoistica dei moventi dei soggetti. Risultati del tutto corrispondenti furono ottenuti con un egual numero di soggetti, con i quali l'esperienza fu condotta in condizioni molto più sfavorevoli, e cioè collettivamente. Durante una esercitazione di psicologia nel primo corso di una Scuola per Assistenti Sociali, fu fatta eseguire contemporaneamente la prova dèl Meurisse ad un gruppo di 23 allievi. In una successiva esercitazione, dopo che lo sperimentatore ebbe ben insistito sul fatto che il re attivo era ancora in fase sperimentale di studio e che non si sentiva perciò affatto sicuro sulla esattezza delle diagnosi, i responsi (dattilografati in più copie con la carta carbone!) furono distribuiti agli allievi che vennero invitati a segnare con un +, un - ed un ? le risposte, a seconda del grado di corrispondenza. Risultò che:
307
PROFILO B
N.
=
21 soggetti accettarono la «diagnosi» come corrispondente in pieno o nella massima parte dei punti alla loro personalità accettò il 50% delle voci e rifiutò l'altra 1 » metà accettò il 50% delle voci ed espresse in» 1 certezza per l'altra metà 23
Elaborati secondo il procedimento seguito nella tabella 8.1, i dati si distribuiscono nel modo seguente: TAB. 8.2. Numero e percentuali di accettazioni, rifiuti e risposte incerte, su un totale di 598 risposte, di un secondo gruppo di 23 soggetti, per il profilo di forma A N. accettazioni
N. dubbie
475 % 79,4
27 4,5
N. rifiuti
96 16,1
Comunque si vogliano interpretare questi risultati - attribuendoli alla azione suggestiva della situazione di esame o al linguaggio usato nella fonpulazione del responso o alla scelta delle qualità inserite nel profilo o a tutti questi fattori insieme - mi sembra che essi )costituiscano una risposta abbastanza chiara al quesito dal quale eravamo mossi: il giudizio del soggetto sulla esattezza di una diagnosi, che egli ritenga esser stata formulata nei riguardi di determinati aspetti della sua personalità, ha un valore molto scarso come prova della sua attendibilità. Questa conclusione viene ulteriormente confermata dall'esito di un altro gruppo di esperimenti che ho effettuato mantenendo inalterato il procedimento descritto e sostituendo al profilo standard uno costruito con criteri diversi. Ho preso infatti il profilo di cui ho finora parlato ed ho trasformato ognuna delle sue voci in un'altra che afferma circa il contrario, ottenendo così il seguente nuovo quadro caratterologico che nel suo insieme può venire considerato, grosso modo, il negativo del precedente:
Personalità caratterizzata da notevole equilibrio affettivo, lontana cioè da affetti e da avversioni troppo violente. Le sue simpatie ed antipatie sono in genere giustificate, in quanto non fondate sulle apparenze esteriori ed immediate, ma frutto di più ponderate valutazioni. Il soggetto non è sempre obiettivo e sereno nei suoi giudizi, ma l'assenza di sentimenti di invidia ed il temperamento scarsamente geloso assicurano equilibrio ed imparzialità alle sue azioni. Gli riesce difficile immedesimarsi nelle condizioni degli altri, se si escludono le persone a lui più vicine nei confronti delle quali tale comprensione è perfetta. Non si cura un gran che di imporsi o di primeggiare, soprattutto se le situazioni sono di poco conto. Fondamentalmente un isolato, sa bastare a se stesso, la compagnia degli altri spesso lo infastidisce. Di umore relativamente costante, presenta una marcata continuità nello svolgimento delle attività pratiche. Facilmente suggestionabile; subisce l'influsso di situazioni ed ambienti, si affida nelle proprie azioni più all'intuito che a!l raziocinio, non ama andare a fondo nei motivi del proprio agire, che spesso nasconde anche a se stesso per il piacere di coltivare delle illusioni. Sa affrontare con coraggio la maggior parte delle situazioni della vita, ed è dotato di una discreta forza di volontà, il che non gli ha impedito di mutare più volte indirizzi ed aspirazioni nel corso della vita. Ciò sta alla base del fondamentale ottimismo del suo carattere e della soddisfazione per quanto finora è riuscito a compiere. Poco vanitoso, preferisce che la gente si occupi poco di lui, dà scarsa importanza all'impressione che la propria persona fa sugli altri. Scarsamente generoso e quasi mai disinteressato, non è però un egoista. Ottimo dominio emotivo, sa controllarsi anche di fronte a fatti per i quali altri perdono il dominio di se stessi. La sua intelligenza è sorretta da una buona memoria, che in alcuni campi è particolarmente tenace.
Questo nuovo quadro caratterologico fu sottoposto, con le medesime modalità descritte prima, ad un gruppo di altri 23 soggetti. L'esito fu alquanto sorprendente in quanto, pur con qualche lieve variazione, i risultati sono fondamentalmente 309
308
analoghi a quelli ottenuti con la diagnosi nella forma A, e precisamente: 17 soggetti accettano in pieno o nella maggior parte dei punti il profilo » rifiutano la diagnosi in quanto non corri2 spondente alla loro personalità 4 » dichiarano che il profilo è esatto per il 50% dei punti ed è errato per l'altra metà. N.
= 23
TAB. 8.3. Numero di accettazioni, rifiuti e di risposte incerte per ciascuna voce del profilo di forma B, nei protocolli di 23 soggetti
VOCI
2 3 4
Nella tabella 8.3 sono esposti sinteticamente i dati numerici relativi alle accettazioni ed ai rifiuti per ciascuna voce. La percentuale complessiva delle accettazioni (408 su· 598) diminuisce dell' 11 % circa ed aumenta nella stessa misura il numero dei rifiuti. Ciò è dovuto alla presenza nel nuovo profilo di alcune poche caratteristiche di fronte alle quali i soggetti manifestano particolare resistenza e sono precisamente i punti quinto, decimo, quattordicesimo, ventesimo e ventunesimo. Se si rifà il computo per le rimanenti ventun voci la percentuale delle accettazioni risale a 73,7%.
6. Discussione dei risultati Come ho già detto, mi sembra che i dati esposti siano abbastanza espliciti per quanto riguarda il grado di attendibilità che può esser attribuito al parere dei soggetti come ad un possibile criterio di validazione di una diagnosi caratterologica. Oltre a questa conclusione, che risponde all'assunto principale della ricerca, qualche altra considerazione di un certo interesse può venir fatta in base ai risultati ottenuti. Come è possibile, anzitutto, spiegare questi risultati? La risposta che si presenta per prima è quella che li farebbe considerare semplicemente come effetti di suggestione. Indubbiamente un tale fattore deve aver avuto la sua parte nel 310
5 6 7 8 9 lO Il 12 13 14 15 16 17 18
Personalità caratterizzata da notevole equilibrio affettivo, lontana cioè da affetti e da avversioni troppo violente Le sue simpatie ed antipatie sono in genere giustificate, ecc. Il soggetto non è sempre obbiettivo e sereno nei suoi giudizi ma l'assenza di sentimenti di invidia ed il temperamento scarsamente geloso, ecc. Gli riesce difficile immedesimarsi nelle condizioni degli altri se si escludono le persone a lui più vicine nei confronti delle quali tale comprensione è perfetta Non si cura un gran che di imporsi o di primeggiare soprattutto se le situazioni sono di poco conto Fondamentalmente un isolato, sa bastare a se stesso la compagnia degli altri spesso lo infastidisce Di umore relativamente costante presenta una marcata continuità nello svolgimento delle attività pratiche Facilmente suggestionabile, subisce l'influsso di situazioni ed ambienti si affida nelle proprie azioni più all'intuito che al raziocinio, ecc. Sa affrontare con coraggio la maggior parte delle situazioni della vita ed è dotato di una discreta forza di volontà il che non gli ha impedito di mutare più volte indirizzi ed aspirazioni nel corso della vita Ciò sta alla base del fondamentale ottimismo del suo carattere, ecc.
N.
N.
N.
accettazioni
dubbie
rifiuti
18
3
19
2
4
16
3
4
17
2
4
11
3
9
21 17
2 2
21 13
4
2 4
6
11
3
15
2
9 6
15
2
6
16
2
5
11
5
7
16
3
4
20
2
19
3
18
4
311
TAB. 8.3. (Segue) 19 20
21
22 23 24
25 26
Poco vanitoso, preferisce che la gente si occupi poco di lui dà scarsa importanza all'impressione che la propria persona fa sugli altri Scarsamente generoso e quasi mai disinteressato non è però un egoista Ottimo dominio emotivo sa controllarsi anche di fronte a fatti per i quali altri perdono il dominio di se stessi La sua intelligenza è sorretta da una buona memoria che in alcuni campi è particolarmente tenace Totale
%
15
3
5
9
3
11
10 16 19
4 2 1
9 5 3
19
1
3
13
4
6
13
4
6
408
59
131
68,2
9,8
21,9
determinare l'altissimo grado di uniformità nelle risposte, per quanto lo sperimentatore non mancasse di sottolineare di non avere una personale esperienza della efficacia diagnostica del metodo di esame, della cui validità intendeva appunto accertarsi attraverso un numero molto elevato di prove, e di essere soltanto all'inizio di tale lavoro di controllo. Il soggetto sapeva d'altra parte che all'estero il re attivo aveva già subito un collaudo, si trovava inoltre di fronte ad un responso stilato in forma tecnica da persona da lui ritenuta competente, leggeva la diagnosi in uno stato di una certa tensione emotiva (tutti i soggetti si sottoponevano con molta serietà ed interesse alla prova), elementi tutti che favoriscono il formarsi di una condizione di accessibilità suggestiva. Che però all'azione del fattore suggestivo non si debba attribuire un peso eccessivo è stato dimostrato da una ulteriore ricerca compiuta a questo proposito nell'Istituto di Psicologia di Milano, da Passuello [1951]. Da essa risultò infatti che i soggetti non accettano «qualsiasi» profilo, che venga loro presentato da un tecnico e con determinate mo312
dalità che possano favorire l'animarsi di stati di suggestibilità. Infatti sostituendo, come fece la Passuello con i suoi 60 soggetti, un certo numero delle venti sei voci del profilo A con altre, scelte opportunamente, queste ultime vengono rifiutate ed accettate in proporzione inversa alle rimanenti voci. La ragione del forte consenso sulla maggior parte delle voci contenute nel profilo è probabilmente un'altra. Ho detto che esso era stato costruito con l'intento di farlo risultare «accettabile», e l'esito degli esperimenti sembra confermare che i criteri seguiti per raggiungere un tale scopo erano buoni. La maggior parte delle voci scelte contengono infatti affermazioni su qualità che in misura maggiore o minore sono presenti' in ciascun individuo. Ma è appunto sulla intensità delle caratteristiche o sulla frequenz~ di certi tipi di condotta che le affermazioni sono ben poco esplicite. Infatti espressioni quali «spesso», «frequenti», «profondamente», «intenso», ecc., con le quali ad una tale intensità o frequenza si allude, hanno in realtà un valore ben poco impegnativo in quanto sono indicazioni che non si riferiscono a scale di misura obbiettive, ma esprimono valutazioni semi-qualitative le cui unità variano in ampiezza con l'oggetto a cui si riferiscono e con l'individuo che le enuncia. D'altra parte sono proprio queste espressioni che conferiscono un carattere di giudizio individuale a proposizioni di contenuto generale. A questo proposito voglio far notare che è proprio una tale abilità, di far apparire come individuale ciò che in realtà è una affermazione generale, che - adottata in buona fede o deliberatamente - costituisce uno dei segreti della tecnica che assicura il costante successo ai responsi ed alle predizioni dei chiromanti, cartomanti, grafologi, ecc. Vi è poi un altro elemento di una tale tecnica che l'analisi del nostro profilo permette di individuare. Molte caratteristiche sono piuttosto negative o rappresentano lati deboli, incontrollati delle personalità. Questo conferisce una tinta realistica al quadro, gli uomini avendo di se stessi una opinione molto meno favorevole di quella che si sforzano e 313
si illudono di creare negli altri nei propri confronti. La enunciazione di questi aspetti meno simpatici della propria personalità, - purché essa venga fatta in tono obbiettivo, non moralistico, e non oltrepassi determinati limiti, come ha dimostrato Passuello nel lavoro citato - crea nel soggetto una impressione di veridicità che predispone a considerare con occhi meno critici tutta la diagnosi. Il profilo impiegato da Kriiger e Zietz era costruito invece in modo da contenere in prevalenza tratti «positivi», simpatici, così da costituire nell'insieme un ritratto favorevole di una personalità. Esso inoltre era composto in massima parte da proposizioni sottilmente contraddittorie, nel senso che, attraverso un abbondante uso di «però», «ma», «tuttavia», «ciononostante», nella seconda parte del periodo veniva offerta una alternativa alla affermazione contenuta nella prima parte, espediente che nella mia «diagnosi» ho cercato di ridurre al minimo. Il fatto poi che con il profilo di forma B si siano ottenuti risultati così poco discordi dai primi, il che a prima vista può produrre una certa sorpresa, può trovare una spiegazione abbastanza soddisfacente se si pone mente, da una parte, al tipo di affermazioni contenute nei due profili e, dall'altra, a quanto probabilmente avviene da un punto di vista psicologico in chi si trova di fronte alla enunciazione di proprie .caratteristiche comportamentali o stati d'animo prevalenti. Il soggetto di fronte ad una determinata affermazione si risolve ad ammetterne la giustezza o a respingerla in base al ricordo di concrete manifestazioni della propria vita che gli sembrino confermare o escludere quella particolare definizione. Poiché è ben difficile che sussista una perfetta còerenza ed uniformità negli atteggiamenti e nelle reazioni di un medesimo individuo, la formulazione di una caratteristica sembra agire nel senso di far affiorare nella coscienza quegli episodi che possano costituirne una conferma, mentre rimangono nell'ombra quelle situazioni, forse altrettanto numerose, che potrebbero smentirla. Per esempio l'affermazione: «È dotato di una discreta forza di volontà» farebbe 314
emergere quei fatti, che non possono naturalmente essere assenti nella esperienza di un individuo normale, in cui una tale caratteristica ha avuto modo di esplicarsi; mentre l'inversa: «La volontà spesso non lo sorregge» darebbe rilievo a quegli altri fatti, certamente non meno numerosi nella esperienza della medesima persona, nei quali avrebbe desiderato di essere dotato di una maggiore forza di volontà. Tutto lascia supporre che il quadro che ognuno ha della propria personalità e della massa della propria esperienza, abbia un carattere molto indeterminato, con contorni non ben precisi, per cui fino ad un certo punto può venir caratterizzato mediante schemi abbastanza diversi ed anche opposti. A questi fattori cui ho brevemente accennato va infine aggiunta un'altra causa che probabilmente ha influito notevolmente sui risultati; ed è l'impostazione generale dei soggetti verso questo tipo d{ esperimenti. In ciascuno di noi sopravvive la aspirazione primitiva ed infantile a credere nella possibilità della magia. Il pensiero magico corrisponde nel primitivo al desiderio di dominare la natura, e lo stregone con le sue formule verbali o atti simbolici di propiziazione e di scongiuro appaga questo bisogno. Conoscere la natura è un modo di dominarla e l'indovino, l'interprete di sogni, l'augure e poi il cartomante, il chiromante, il grafologo, il radioestesologo e così via, rappresentano coloro che in qualche modo si sono impadroniti della chiave che svela i segreti della natura, del destino, del carattere. L'uomo adulto civile, nella nostra epoca portata ad apprezzare soprattutto e spesso a sopravvalutare il valore della razionalità, non può accettare coscientemente soluzioni magiche dei suoi problemi conoscitivi e pratici, ma è indubitabile che nell'entusiasmo per la scienza, che assolve per noi a tali funzioni di dominio e conoscenza della natura, si annida non poco della tendenza a veder realizzato lo straordinario, il miracoloso. Così lo psicologo che, con mezzi tanto semplici come la.· lettura di uno scarabocchio o l'interpretazione di una serie di macchie, sembra risolvere il mistero di una personalità 315
umana, rappresenta colui che compie il miracolo «in forma scientifica», nell'unica forma cioè in cui il miracolo può venir accettato. Il soggetto perciò desidera che la prova abbia successo, perché cosÌ ad un tempo vengono appagate le sue esigenze razionali alla scienza e le aspirazioni irrazionali del pensiero magico. Anche Kriiger e Zietz accennano ad un tale fattore quando affermano che per i soggetti la descrizione della loro personalità da parte del presunto grafologo acquista il carattere, più che di una interpretazione scientifica dei segni, di una vera dia-gnosis, di un «veder-attraverso», di una misteriosa illuminazione di quanto si sottrae normalmente agli indiscreti sguardi altrui. Non aggiungo altre considerazioni che si possono fare a questo proposito, perché hanno tutte un carattere semplicemente ipotetico, ma penso che il metodo del profilo standard, da me usato per un'indagine sulla validità del «criterio», possa consentire uno studio obbiettivo di alcuni problemi - oltre a quello qui appena sfiorato dell'analisi della tecnica dei responsi di chiromanti, astrologi e simili - come per esempio lo studio degli stereotipi sociali delle qualità della personalità. Poiché infatti l'accettazione ed il rifiuto di tratti caratterologici sono probabilmente determinati anche socialmente, dal grado cioè di approvazione o riprovazione della società della quale l'individuo fa parte, una indagine condotta con questo metodo in diversi ambienti sociali potrebbe permettere di individuare alcune differenze negli ideali personali dovuti all'appartenenza a diversi gruppi sociali o etnici. Un primo tentativo in questa direzione è stato compiuto dalla Passuello nella ricerca citata, con cui essa ha cercato di individuare le ragioni che rendono «inaccettabili» determinate qualità personali in soggetti che pur sono pronti ad ammetterne altre che non costituiscono certo lati «positivi» della personalità. Ritengo che a tale fine esso possa rappresentare un utile complemento al metodo del «questionario» o inventory, che è il mezzo abituale per accertare le opinioni o gli atteggiamenti prevalenti in diverse categorie di persone.
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IL MULINO
RICERCA
STORIA
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Finito di stampare nel marzo 1991 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino
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Mutamenti e tendenze nella divisione internazionale del lavoro
DIRITTO
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