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BARRY EISLER ALBA NERA SU TOKYO (Hard Rain, 2003) Per Emma Tu mi fai cantare il cuore Sboccia a sera il ciliegio: ripongo il mio lapis nel kimon l'ultima volta. Haiku funebre del poeta Kaisho, 1914 PARTE PRIMA Se non avessi saputo di essere morto ormai, avrei pianto per aver perso la vita. Ultime parole di Ota Dokan, esperto di arti marziali e poeta, 1486 1. Se si tralascia l'aspetto ironico della situazione, non è' difficile capire perché l'idea di uccidere un uomo proprio mentre si trova nel suo health club sia assolutamente raccomandabile. L'obiettivo era uno yakuza, tale Ishihara, un fanatico dei pesi che tutti i giorni andava a esercitarsi in una palestra di sua proprietà a Roppongi, uno dei quartieri dei divertimenti di Tokyo. Tatsu mi aveva detto che la morte doveva essere attribuibile a cause naturali, come sempre, perciò ero contento di entrare in azione in un posto dov'era possibile che una persona si accasciasse per un aneurisma dovuto allo sforzo o rimanesse vittima di una caduta su una sbarra d'acciaio o di qualche altro tragico inconveniente durante l'utilizzo di una complicata macchina ginnica. Una di queste terribili eventualità potrebbe persino finire, nero su bianco, tra gli avvertimenti che gli avvocati delle imprese produttrici suggeri-
ranno di apporre sulle macchine ginniche della prossima generazione per informare il pubblico dell'ennesimo modo poco ortodosso di utilizzare quell'attrezzatura, riguardo al quale l'azienda produttrice declina ogni responsabilità. Nel corso degli anni, il mio mestiere ha fatto di me l'anonimo destinatario di almeno due encomi normativi di questo tipo: il primo su un ponte che attraversa le acque inquinate del fiume Sumida, dove un certo uomo politico è annegato nel 1982 (ATTENZIONE! NON ARRAMPICARSI SULLE SBARRE); il secondo dieci anni più tardi, sulle confezioni degli asciugacapelli (ATTENZIONE! NON USARE DURANTE IL BAGNO), a seguito dell'elettrocuzione di cui un banchiere insolitamente onesto era rimasto vittima nella vasca di casa sua. Questo health club, inoltre, mi permetteva di non preoccuparmi delle impronte digitali. In Giappone, dove indossare costumi è una passione nazionale, un sollevatore di pesi non potrebbe mai esercitarsi senza un paio di guanti imbottiti all'ultima moda, così come un politico non si infilerebbe mai una mazzetta nelle mutande. Era un tiepido inizio di primavera, a Tokyo, che prometteva, dicevano, una deliziosa stagione della fioritura dei ciliegi; quindi quale posto migliore di una palestra per un uomo dotato di guanti che desideri passare inosservato? Nel mio mestiere, passare inosservati rappresenta una buona metà del lavoro. Tutti noi inviamo dei segnali con il corpo, il linguaggio, l'andatura, l'abbigliamento, le espressioni del viso, l'atteggiamento, il modo di parlare e la gestualità - che rivelano da dove veniamo, che cosa facciamo e chi siamo. La cosa più importante, perciò, è mimetizzarsi. Se non riesci a farlo, la vittima predestinata si accorgerà di te e a quel punto non potrai più arrivarle abbastanza vicino per fare tutto come si deve. Oppure sarà il raro poliziotto onesto a scorgerti, e a quel punto ti troverai a dover fornire un bel po' di spiegazioni. O, infine, può accadere che sia qualche addetto alla contro-sorveglianza, e a quel punto sei tu che ti trasformi in bersaglio. Se invece si fa attenzione, a poco a poco si capisce che quella dei segnali identificativi è una scienza, non un'arte. Si osserva, si imita, si impara. Alla fine, si riescono a seguire come un'ombra obiettivi diversi, appartenenti a ecosistemi sociali tra loro distinti, senza mai dover rinunciare all'anonimato. Era difficile, per me, essere anonimo in Giappone quando, ai tempi della scuola, le mie origini familiari erano di dominio pubblico e motivo di ingiurie. Oggi, però, sarebbe impossibile leggermi in faccia il tratto caucasico se non si sa che c'è. A mia madre, americana, non sarebbe dispiaciuto.
Aveva sempre desiderato che io mi adattassi all'ambiente giapponese, ed era felice che i tratti giapponesi di mio padre avessero avuto la meglio nella lotta genetica per la dominanza. Inoltre, l'operazione di chirurgia plastica a cui mi sono sottoposto al mio ritorno in Giappone, dopo il periodo trascorso con le forze speciali americane in Vietnam, ha abbondantemente portato a termine il lavoro iniziato dal caso e dalla natura. La storia che i miei segnali avrebbero raccontato allo yakuza era semplice. Avevo cominciato da poco a farmi vedere in palestra, ma evidentemente ero già piuttosto in forma. Dunque, non ero uno di quei tizi di mezza età che decidono di darsi ai pesi per tentare di recuperare la forma fisica dei tempi del college. La spiegazione più immediata poteva essere che l'azienda per cui lavoravo aveva deciso di trasferirmi a Tokyo, e se mi garantiva una camera ammobiliata nei dintorni di Roppongi - magari a MinamiAoyama o ad Azabu - io dovevo essere una persona discretamente importante e ben pagata. Che mi dedicassi al body building alla mia età era probabilmente indice di rapporti con donne più giovani, agli occhi delle quali il mio fisico ben tenuto poteva forse compensare le inevitabili conseguenze emotive derivanti dal fatto di andare a letto con un uomo più anziano per scambiare, in sostanza, un po' di sesso e di illusione di immortalità con borsette di Ferragamo e altre valute caratteristiche di questo genere di transazioni. E fin qui lo yakuza poteva capirmi; persino rispettarmi. In realtà, la mia recente comparsa nella palestra dello yakuza non dipendeva da un trasferimento aziendale: era piuttosto un viaggio di lavoro. A Tokyo dovevo soltanto portare a termine un lavoro. Fatto il lavoro, me ne sarei andato. Quando a Tokyo ci abitavo, avevo combinato alcuni guai capaci di generare una certa animosità in persone che, forse, a un anno di distanza, mi stavano ancora cercando; quindi, non potevo ragionevolmente concedermi altro che un breve soggiorno. Un mese prima, quando mi aveva contattato per convincermi ad accettare quel lavoro, Tatsu mi aveva consegnato un dossier sullo yakuza. Dal suo contenuto si sarebbe detto che la vittima fosse un comunissimo bruto al servizio della mafia, ma io capii che doveva essere qualcosa di più, visto che Tatsu riteneva indispensabile eliminarlo. In ogni caso, non avevo fatto domande. Mi ero limitato agli elementi che mi avrebbero consentito di avvicinarlo. Il resto era irrilevante. Nel dossier avevo trovato anche il numero di cellulare dello yakuza e lo avevo passato a Harry, il quale, da hacker compulsivo qual era, aveva trovato il modo di infiltrarsi nelle centrali di controllo delle tre compagnie te-
lefoniche giapponesi. I computer di Harry stavano monitorando il traffico telefonico del cellulare dello yakuza su tutta la rete nazionale. Ogni volta che il telefono veniva rilevato dal ripetitore che copriva l'area intorno allo health club, Harry mi mandava un messaggio. Quella sera il messaggio era giunto poco dopo le otto di sera, mentre ero nella mia stanza del New Otani Hotel, ad Akasaka-Mitsuke, assorto nella lettura. Sapevo che il club chiudeva alle otto; dunque, se lo yakuza aveva deciso di andare ad allenarsi dopo l'orario di chiusura, c'erano ottime probabilità che fosse da solo. Proprio l'occasione che aspettavo. La mia tenuta da palestra era già pronta in una borsa, e in pochi minuti fui fuori dalla porta. Presi un taxi a una certa distanza dall'hotel, per evitare che il portiere potesse sentire o ricordare dov'ero diretto, e cinque minuti dopo scesi all'angolo tra Roppongi-dori e Gaienhigashi-dori, a Roppongi. Detesto seguire tragitti così diretti, perché è difficile assicurarsi di non essere seguiti, ma in quel caso c'era poco tempo per mettere in atto il piano così come l'avevo concepito, e decisi, quindi, di correre il rischio. Avevo sorvegliato lo yakuza per oltre un mese, ormai, e conoscevo le sue abitudini. Avevo scoperto che gli piaceva allenarsi a orari sempre diversi, arrivando in palestra talvolta al mattino presto, tal'altra a tarda sera. Probabilmente, immaginava che l'imprevedibilità dei suoi spostamenti avrebbe complicato il lavoro di eventuali attentatori. Aveva ragione solo a metà. L'imprevedibilità è fondamentale se si vuole essere un bersaglio difficile, ma questo principio si applica sia al tempo sia allo spazio. Le mezze misure, come quelle adottate da quel tizio, possono servire a salvarti in qualche occasione, ma non bastano per difenderti da gente come me. È strano come certe persone, per certi riguardi, adottino misure di sicurezza adeguate o, addirittura, severissime, senza però occuparsi della propria vulnerabilità su altri fronti. È come chiudere a doppia mandata la porta d'ingresso lasciando poi la finestra spalancata. A volte questo fenomeno nasce della paura. Paura non tanto degli accorgimenti necessari, quanto delle conseguenze che comporta il fatto di vivere come un bersaglio difficile da colpire. Un'autodifesa seria, in questi casi, richiede l'azzeramento dei legami sociali, legami di cui molte persone hanno bisogno come dell'ossigeno. Devi rinunciare agli amici, alla famiglia, all'amore. Si va per il mondo come fantasmi, separati dalla vita circostante. Se capita, per esempio, di morire in un incidente d'autobus, si finisce sepolti in un'anonima fossa municipale, l'ennesimo signor Nessuno, senza
fiori, senza funerale né cordoglio. È naturale - desiderabile, persino - avere timore di una simile prospettiva. Altre volte interviene una forma di rimozione. I tragitti tortuosi, i controlli minuziosi, il continuo riflettere su «come mi avvicinerei a me, se fossi nei panni del mio attentatore?» richiedono una coscienza profonda del fatto che ci sono persone che hanno i motivi e i mezzi per eliminarti. Questo pensiero è naturalmente difficile da sopportare per la psiche umana, al punto da produrre uno stress enorme anche tra i soldati impegnati in combattimento. Molte persone, la prima volta che si ritrovano sotto tiro da distanza ravvicinata, restano sconvolte. «Perché sta tentando di uccidere me?» si domandano. «Che cosa ho fatto, io, per meritarmelo?» Pensaci un attimo. Ti è mai capitato, trovandoti in casa da solo, di guardare dentro un armadio o sotto il letto per assicurarti che non ci siano intrusi nascosti? Ebbene, ti comporteresti davvero così, se fossi convinto di poter trovare l'Uomo dal Passamontagna Nero? Certo che no. È molto più comodo credere al pericolo solamente in astratto e prendere contromisure poco convincenti. E questa si chiama rimozione. Infine, più banalmente, può incidere la pigrizia. Chi ha mai il tempo o l'energia necessari per ispezionare la propria auto alla ricerca di ordigni esplosivi ogni volta che vi sale? Chi è che può permettersi, ogni volta, un giro tortuoso di due ore per arrivare in un posto raggiungibile direttamente in dieci minuti? Chi se la sente di scartare un ristorante o un bar solo perché gli unici posti a sedere sono rivolti verso il muro invece che verso l'entrata? Domande retoriche, ma so bene quale sarebbe stata la risposta di Crazy Jake: «Tutti quelli che sono vivi, intendono continuare a vivere.» Di qui è facile giungere a una conclusione che, ne sono certo, è piuttosto comune tra le persone che prendono la vita come me: «Se davvero il mio bersaglio avesse voluto salvarsi, io non sarei mai riuscito a colpirlo. Non si sarebbe mai concesso quella debolezza che lo ha rovinato.» La debolezza dello yakuza era la fissazione per i pesi. Chissà che cosa l'aveva alimentata? Una storia di angherie infantili che gli avevano fatto venir voglia di apparire fisicamente forte; il tentativo di superare il senso di inadeguatezza derivante dal fatto di essere di corporatura più minuta dei bianchi; un omo-erotismo represso come quello di Mishima. Forse, almeno in parte, le stesse motivazioni che l'avevano indotto a diventare un gangster. La sua fissazione, naturalmente, non aveva nulla a che fare con il benes-
sere fisico. Anzi, quel tizio abusava chiaramente di steroidi. Aveva un collo così grosso che si sarebbe potuto sfilare la cravatta senza neppure allentare il nodo ed era affetto da problemi di acne così gravi che le brutali lampade a incandescenza del club, concepite per mettere al massimo in evidenza rigonfiamenti e solchi sviluppatisi sul corpo dei suoi soci, proiettavano piccole ombre sul paesaggio butterato della sua faccia. Probabilmente, aveva i testicoli come chicchi d'uva passa, mentre la sua pressione sanguigna imperversava, sovraffaticando il cuore. L'avevo anche visto in preda a una di quelle improvvise esplosioni di violenza non provocata che sono un ulteriore sintomo dell'abuso di steroidi. Una sera, un tale che non avevo mai notato prima - sicuramente uno dei soci non-malavitosi del club che trovava il posto di suo gradimento e credeva, frequentando gli stessi luoghi dei gangster, di poter diventare più duro per osmosi - stava sfilando alcune delle numerose piastre di ferro fissate al bilanciere che lo yakuza aveva sollevato negli esercizi da sdraiato. Lo yakuza, probabilmente, si era allontanato da quella postazione solo per una pausa; a quell'altro, invece, doveva essere parso che avesse finito. Anche l'altro era piuttosto grosso, e dalla sua coloratissima e succinta canotta di spandex spuntavano le braccia e il petto di un sollevatore di pesi allenato. Qualcuno, forse, avrebbe dovuto avvertirlo, sennonché i soci di quel club erano in maggioranza chinpira - giovani yakuza di mezza tacca, aspiranti cattivoni - non certo buoni samaritani inclini ad aiutare il prossimo. In ogni caso, bisogna essere almeno un po' stupidi per mettersi a smontare un bilanciere come quello usato dallo yakuza senza prima guardarsi intorno e chiedere il permesso. Dovevano esserci centocinquanta chili, su quella sbarra, forse anche di più. Qualcuno diede di gomito allo yakuza e gli fece notare la cosa. Lo yakuza, che era accosciato, si impennò urlando - «Orya!» - così forte da far vibrare la parete a vetri dall'altra parte di quella stanza rettangolare. Che cazzo! Tutti i presenti, colti di sorpresa come da un'esplosione, alzarono gli occhi, anche lo sprovveduto che fino a un istante prima pareva così distratto. Sempre vomitando insulti, lo yakuza si avviò a grandi passi verso la postazione da poco abbandonata, sfruttando a meraviglia la voce - non so se per istinto o deliberatamente - per disorientare la sua vittima. In tutte le sue espressioni - le parole, il tono di voce, i movimenti e la postura - comunicava un unico messaggio: «All'attacco!» L'altro, però, era troppo impietrito, o dalla paura o dalla rimozione, per potersi togliere dalla
traiettoria. E, pur avendo in mano una piastra di ferro da dieci chili dai bordi decisamente più duri del cranio dell'assalitore, non fece altro che spalancare la bocca, forse per la sorpresa, forse in un involontario e certamente inutile tentativo di scusarsi. Lo yakuza piombò su di lui come un rinoceronte. La vittima tentò di assorbire l'urto, ma di nuovo sbagliò a non togliersi di mezzo, cosicché il suo tentativo ebbe ben poca efficacia. L'assalitore lo scaraventò all'indietro contro il muro, per poi bersagliarlo con una gragnuola di pugni violentissimi alla testa e alla nuca. La vittima, scioccata e capace di opporre una resistenza solo passiva, lasciò cadere la piastra e riuscì a sollevare le braccia per parare una parte dei colpi, ma lo yakuza, continuando a urlare, neutralizzò quella difesa improvvisata e riprese a colpire. Vidi uno dei pugni raggiungere il lato sinistro del collo, nel punto in cui ha sede il seno carotideo, e il poveraccio cominciò a cedere, con il suo sistema nervoso che sovracompensava lo shock riducendo la pressione sanguigna nel cervello. Lo yakuza, i piedi ben piantati a terra come se stesse spaccando legna con un'ascia, continuava a martellare la testa e la nuca della sua vittima, che crollò a terra, pur conservando la lucidità necessaria a rannicchiarsi per proteggersi almeno in parte dalla grandinata di calci che seguì. Sbuffando e imprecando, lo yakuza si chinò e prese la caviglia destra di quell'uomo tra un bicipite e un avambraccio enormi. Credevo che volesse praticargli una presa di jujitsu alla gamba per cercare di spezzargli qualcosa. Invece, si limitò a rialzarsi e a trascinare la sagoma prona e inerte di quell'uomo verso la porta del club e, quindi, in mezzo alla strada. Un attimo dopo rientrò e, non senza una breve pausa per riprendere fiato, andò a occupare la sua legittima postazione sulla panca senza guardare in faccia nessuno. Tutti tornarono alle rispettive occupazioni: i suoi compari, che se ne fregavano, e i non-malavitosi, che si erano spaventati. Era come se nulla fosse accaduto, sebbene il silenzio in cui il club era piombato indicasse che qualcosa era successo. Una parte della mia mente che non smette mai di lavorare dietro le quinte registrò quelli che mi parvero i punti di forza del mio uomo: forza bruta, abitudine alla violenza, familiarità con i principi dell'attacco senza tregua. Tra i punti deboli, invece, annotai la mancanza di autocontrollo, il debito di ossigeno dopo uno scontro breve e in assenza di reazione da parte dell'avversario, la piccola entità dei danni causati a dispetto della ferocia impiegata. A meno che non fosse un asociale borderline, ipotesi statisticamente im-
probabile, immaginai che a quel punto lo yakuza dovesse sentirsi almeno un po' a disagio per quello che le persone presenti potevano pensare del suo scoppio. Ne approfittai per avvicinarmi alla sua postazione e gli domandai se avesse per caso bisogno di assistenza. «Warui na», rispose, sinceramente grato - ne ero certo - per il conforto che quella banale interazione gli offriva. «Iya», dissi io. Non c'è di che. In piedi, lì accanto, aiutai lo yakuza sdraiato sulla panca a sollevare il bilanciere. Vidi che lo aveva caricato con centocinquanta chili. Riuscì a sollevarli due volte, con un leggero aiuto da parte mia al secondo tentativo. Era ancora sotto l'effetto dell'adrenalina originata dall'alterco di poco prima, e io, sulla base di questo esercizio, presi mentalmente nota dei limiti della sua forza. Lo aiutai a riportare il bilanciere sui sostegni e fischiai piano, forse un po' platealmente, in segno di ammirazione per la sua potenza. Quando lo yakuza si rialzò a sedere, mi avvicinai all'estremità della panca e gli dissi che se avesse avuto bisogno di ulteriore assistenza sarebbe bastato chiedere. Lui annuì a mo' di burbero ringraziamento e io cominciai a voltarmi. Mi fermai, però, considerando l'opportunità di aggiungere qualcosa, e tornai a rivolgermi verso di lui. «Quel tizio si sarebbe dovuto accertare che lei avesse finito», dissi in giapponese. «Certe persone ignorano le buone maniere. Lei gli ha impartito una lezione.» Lui annuì di nuovo, compiaciuto per la mia acuta valutazione dell'importante servizio che aveva reso alla società facendo a pezzi quell'innocuo idiota, e io capii che non avrebbe avuto difficoltà, di tanto in tanto, a chiedere un po' di assistenza a me, al suo nuovo amico. Quella sera, per esempio. Percorsi rapidamente la Gaienhigashi-dori, superando pedoni che affollavano il marciapiede, ignorando il frastuono del traffico e dei camion con altoparlanti e dei procacciatori di clienti, e utilizzando le superfici cromate e le vetrine che avevo intorno per assicurarmi di non avere nessuno alle calcagna. Svoltai a destra appena prima del Roi Roppongi Building e poi di nuovo a destra, imboccando la via in cui aveva sede la palestra. Lì sostai dietro una fila di biciclette parcheggiate, la schiena rivolta all'incongrua facciata rosa di uno Starbucks, allo scopo di sorprendere eventuali pedinatori. Sfilarono alcuni gruppi di giovani festaioli, troppo presi dall'urgenza di divertirsi per accorgersi di quell'uomo silenzioso e fermo nell'ombra. Nessuno che facesse scattare il mio allarme. Qualche minuto dopo, mi avviai verso il club.
La palestra occupava il pianterreno di un grigio edificio commerciale decorato da scale anti-incendio arrugginite e soffocato dai cavi dell'alta tensione che pendevano dalla facciata come vegetazione marcia. Sul lato opposto della via c'era un parcheggio affollato di Mercedes con vetri scuri e pneumatici ad altissime prestazioni, gli status symbol delle élite e dei delinquenti del paese, dediti a scimmiottarsi a vicenda e a condividere tranquillamente i piaceri della notte nello sbracato ambiente di Roppongi. La via era illuminata unicamente dal bagliore neutro di un solitario lampione arcuato -decorato alla base da volantini pubblicitari degli innumerevoli servizi sessuali disponibili in zona - che all'ombra della sua stessa luminescenza ricordava il collo allungato di un qualche uccello antidiluviano intento a togliersi le piume malconce e arricciate. Le tende erano chiuse, dietro le vetrine della palestra, ma lì davanti vidi parcheggiata la Harley Davidson V-Rod in alluminio anodizzato dello yakuza, circondata dalle biciclette dei pendolari, simile a uno squalo tra pesci pilota. Subito accanto alle vetrine c'era l'ingresso vero e proprio dell'edificio. Provai ad aprire, ma era chiuso a chiave. Tornai davanti alla vetrina e bussai. Un attimo dopo, all'interno, si spensero le luci. «Bene», pensai. Lo yakuza aveva spento per poter vedere fuori, da dietro le tende, senza essere visto. Io aspettai, per dargli il tempo di osservarmi e di scrutare la via. Le luci, all'interno, si riaccesero, e un attimo dopo lo yakuza si presentò all'ingresso del club. Indossava pantaloncini grigi e una succinta canottiera nera, oltre agli obbligatori guanti da sollevatore. Evidentemente, si stava allenando. Aprì la porta e perlustrò la via con lo sguardo alla ricerca di un eventuale pericolo, senza accorgersi di averlo esattamente davanti a sé. «Shimatterun da yo», mi disse. Il club è chiuso. «Lo so», risposi in giapponese, alzando le mani come a volerlo placare. «Speravo di trovare qualcuno. Dovevo venire prima, ma sono stato trattenuto. Non c'è proprio la possibilità di fare un piccolo allenamento? Solo finché resterà qui anche lei. Non di più.» Lui esitò, ma poi scrollò le spalle e si girò per rientrare. Io lo seguii all'interno. «Per quanto tempo ancora conta di allenarsi?» gli domandai, posando a terra la mia borsa e sfilandomi i comodi pantaloni cachi, la camicia azzurra di tela Oxford e il blazer blu che indossavo. Avevo già i guanti alle mani, come sempre quando andavo in quel club, ma lo yakuza non aveva notato
questo dettaglio. «Per programmare la mia seduta.» Si avvicinò alla postazione per il sollevamento da accosciati. «Tre quarti d'ora... Un'ora al massimo», rispose, mettendosi in posizione sotto i pesi. Quello era l'esercizio che faceva, in genere, dopo il sollevamento da sdraiato. «Merda...» Mi infilai pantaloncini e maglietta e cominciai il riscaldamento con qualche flessione e altri esercizi preparatori, mentre lo yakuza continuava con i suoi sollevamenti da accosciato. Il riscaldamento poteva effettivamente tornare utile, pensai, in vista di una sua eventuale resistenza. Un vantaggio minuscolo, ma io non faccio sconti. Quando ebbe finito i suoi esercizi, gli domandai: «Ha già fatto gli esercizi sulla panca?» «Aa.» Sì. «Quanto è riuscito a sollevare, stasera?» Lui scrollò le spalle, ma io colsi un leggero rigonfiarsi del petto da cui dedussi di avere attizzato la sua vanità. «Non tanto. Centoquaranta chili. Avrei potuto fare di più, ma con pesi maggiori conviene avere qualcuno che ti assista.» «Posso assisterla io.» «No, per oggi basta così.» «Suvvia, ci riprovi. Vederla lavorare, per me, è un grande stimolo. Che cosa solleva? Il doppio del suo peso corporeo?» Sottostimai deliberatamente le sue capacità. «Di più.» «Oh, merda! Più del doppio del suo peso corporeo? Proprio questo intendevo dire: io non ci arrivo nemmeno vicino a certi livelli. La prego, lo faccia per me: servirà a motivarmi. La assisterò io, d'accordo?» Lui esitò, si strinse nelle spalle e si avviò verso la panca del sollevamento da sdraiati. Il bilanciere era già gravato dai centoquaranta chili che lo yakuza aveva sollevato in precedenza. «Crede di potercela fare a sollevare centosessanta chili?» domandai, in tono dubbioso. Lui mi guardò, e io capii di essere riuscito a punzecchiare il suo ego. «Certo che posso farcela.» «Bene, ci speravo proprio», dissi, sfilando due rotelle da dieci chili dalla rastrelliera dei pesi e infilandole alle estremità del bilanciere. Io mi piazzai a un'estremità della panca e afferrai il bilanciere a due mani più o meno in corrispondenza delle spalle. «Mi dica lei quando è pronto.»
Si sedette all'estremità opposta della panca, le spalle incurvate in avanti, e ruotò il collo da una parte e dall'altra. Protese ripetutamente e con forza le braccia in avanti, compiendo una serie di brevi e violente espirazioni. Quindi, si adagiò all'indietro e afferrò il bilanciere. «Al tre, dammi una mano a sollevarlo», disse. Io annuii. Lui emise un altro paio di sbuffi forzati, e poi: «Uno... due... tre!» Lo aiutai a sollevare il bilanciere e a sostenerlo al di sopra del suo torace. Fissava l'attrezzo come se questo lo avesse fatto arrabbiare, il mento affondato nel collo in previsione dello sforzo. A quel punto, decise di abbassare l'attrezzo, in modo controllato, ma con slancio sufficiente a farlo rimbalzare come si deve sul petto muscoloso. A due terzi della risalita la barra stava quasi per fermarsi, sospesa fra l'effetto della gravità e la potenza dei muscoli pompati a furia di steroidi, ma riuscì in qualche modo a completare la faticosa ascesa. Le braccia gli tremavano. Era escluso che potesse ripetere l'impresa. «Un'altra volta, un'altra volta», lo incalzai io. «Ce la può fare, ne sono sicuro.» Ci fu una pausa, durante la quale fui sul punto di riprendere a esortarlo, ma lui stava soltanto preparandosi psicologicamente allo sforzo. Fece tre respiri in rapida successione e lasciò scendere verso il petto il bilanciere, che risalì di pochi centimetri a seguito dell'impatto e poi di poco ancora per effetto della spinta verso l'alto; subito dopo, però, il bilanciere si fermò e cominciò la sua inesorabile discesa. «Tetsudatte kure», grugnì lo yakuza. Aiuto. Con calma, però, confidando del mio immediato intervento. L'attrezzo continuò a scendere e gli si fermò sul petto. «Oi, tanomu», disse, con maggiore concitazione questa volta. Io, invece, spinsi l'attrezzo verso il basso. Lui strabuzzò gli occhi, cercando di incrociare i miei. Tra il peso dell'attrezzo e la pressione da me esercitata, lo yakuza era ora alle prese con quasi duecentocinquanta chili. Mi concentrai sul bilanciere e sul suo torso, ma con la coda dell'occhio vedevo i suoi occhi sbarrati prima per la confusione e poi per la paura. Non fece il benché minimo rumore. Io continuai a rimanere concentrato sulla letale pressione verso il basso. Con i denti serrati, il mento praticamente rientrato nel collo, la mia vittima provò con tutte le sue forze a smuovere il bilanciere. E in extremis riuscì, in effetti, a sollevare leggermente il peso. Io, però, a quel punto infi-
lai un piede sotto i supporti orizzontali collocati alle mie spalle, in fondo alla panca, per aumentare ulteriormente la pressione e riportare l'attrezzo a contatto con il suo petto. Percepii un tremore comunicatomi dai pesi, quando le sue braccia cominciarono a vibrare per lo sforzo. Di nuovo, il bilanciere si sollevò leggermente. All'improvviso fui colpito da un puzzo di feci. II suo sistema nervoso simpatico, per la disperazione, stava interrompendo tutte le attività corporee non essenziali, compreso il controllo degli sfinteri, per dirottare tutte le energie disponibili verso i muscoli. Questo sforzo durò un attimo ancora. Poi le sue braccia cominciarono a tremare con maggiore violenza, e io sentii l'attrezzo tornare verso il basso, fino ad affondargli nel petto. Udii un lieve sibilo, quando l'aria cominciò a fuoriuscirgli dalle narici e dalle labbra strette. Mi sentii il suo sguardo in faccia, ma continuai a fissare il suo torso e il bilanciere. Nel frattempo, lui continuava a non fare alcun rumore. Passarono alcuni secondi, e poi altri ancora. La sua posizione non cambiò. Io aspettai. La sua pelle cominciava ad apparire bluastra. Aspettai un altro po'. Alla fine, allentai la pressione e mollai la presa. Gli occhi dello yakuza erano ancora fissi su di me, ma ormai insensibili. Io arretrai, per sfuggire al suo ex campo visivo e mi soffermai a osservare la scena. Sembrava proprio quello che, quasi quasi, era davvero: un fanatico dei pesi che, da solo, a tarda sera, cerca di andare al di là delle sue possibilità, resta schiacciato sotto l'attrezzo, soffoca e muore sul posto. Un bizzarro incidente. Mi cambiai, presi la mia borsa e mi avviai alla porta. Udii alcuni schiocchi, alle mie spalle, come di legnetti secchi che si stanno spezzando. Mi voltai a guardare per l'ultima volta, rendendomi conto che il rumore proveniva dalle costole dello yakuza che stavano cedendo. Era morto, non c'era alcun dubbio. Solo le sue mani erano ancora strette convulsamente al bilanciere, come se le sue dita si rifiutassero di credere a quello che il corpo aveva già accettato. Lasciai la palestra e attesi, nell'atrio buio, che la strada fosse sgombra. E a quel punto uscii sul marciapiede per immergermi nell'ombra circostante. 2.
Mi allontanai dalla zona a piedi, lungo una serie di vie secondarie di Roppongi e Akasaka, tagliando per vicoli stretti, che a un neofita sarebbero parsi una semplice teoria di scorciatoie, fino alla mia destinazione: un percorso concepito per costringere eventuali inseguitori a scoprirsi nel tentativo di non perdere le mie tracce. Con qualche deliberata eccezione, tutte le mie tecniche per individuare i pedinatori sembrano normali comportamenti da pedone. Se dovessi essere seguito da gente interessata a me, ma ancora ignara della mia vera identità, sarebbe stupido tradirsi muovendosi in modo innaturale. Dopo circa mezz'ora ero certo di non essere pedinato, la mia andatura si rilassò di pari passo con il mio umore. Mi ritrovai a procedere lungo un ampio semicerchio antiorario che - me ne rendevo conto solo in parte conduceva all'Aoyama Bochi, l'enorme cimitero collocato come un verde cerotto triangolare al centro dei modaioli quartieri occidentali di Tokyo. Sul lato nord della Roppongi-dori passai davanti a una piccola colonia di rifugi di cartone, le abitazioni dei senzatetto la cui esistenza, in un certo senso, era isolata e anonima come la mia. Posai a terra la borsa da ginnastica, ben sapendo che questa e il suo contenuto - abbigliamento da palestra e guanti da pesista - sarebbero stati rapidamente distribuiti e assimilati tra gli smunti fantasmi senza meta sparsi nei dintorni. Nel giro di qualche giorno, o di qualche ora, magari, i resti abbandonati di quell'ultimo lavoro sarebbero stati privati di qualsiasi traccia della loro origine, ridotti a incolori e anonimi oggetti tra anime altrettanto incolori e anonime, quei relitti di solitudine e disperazione che di tanto in tanto precipitano nel punto cieco collettivo della città e, di lì, nell'oblio. Liberatomi del peso che mi portavo dietro, ripresi il cammino lungo una traiettoria circolare in direzione est. In un sottopassaggio a Nogizaka, a nord della Roppongi-dori, vidi una mezza dozzina di chinpira, nelle loro sgargianti e lussuose tute di pelle, acquattati a formare un fitto semicerchio davanti alle loro aerodinamiche moto da corsa. Sul muro di cemento alla mia destra rimbalzarono alcune schegge della loro conversazione: parole incomprensibili, ma dal tono secco come quello delle marmitte truccate dei loro mezzi. Probabilmente, erano sotto l'effetto del kakuseizai, la metamfetamina che è sempre stata la droga preferita dai giapponesi, sin dai tempi in cui il governo la distribuiva ai soldati e ai lavoratori durante la seconda guerra mondiale, e di cui quei chinpira erano senza alcun dubbio spacciatori e, al contempo, consumatori. Stavano aspettando che la vibrazione indotta dalla droga nei loro muscoli e nel loro cervello arrivasse al giusto li-
vello, che l'ora fosse sufficientemente tarda e la notte abbastanza fonda e fascinosa, per emergere dalla loro tana di cemento e rispondere al richiamo al neon di Roppongi. Vidi che si accorsero di me, presenza solitaria in avvicinamento dall'ingresso meridionale di quello che, di fatto, era un angusto tunnel. Considerai l'opportunità di attraversare la strada, ma c'era una barriera di metallo a impedirlo. Avrei semplicemente potuto tornare indietro. Non avendolo fatto, diventò più complicato per me negare di essere diretto verso il cimitero. Quando giunsi a tre o quattro metri dal gruppetto, uno dei chinpira si alzò in piedi. Gli altri restarono accovacciati, attenti a non perdersi l'imminente diversivo. Avevo già notato la mancanza di telecamere per la sorveglianza che nelle strade e nella metropolitana diventavano di anno in anno più pervasive. A volte fatico a liberarmi della sensazione che quelle telecamere stiano cercando proprio me. «OH», disse rivolto a me il tizio che si era alzato in piedi. Ehi! Lanciai un'occhiata furtiva alle mie spalle per assicurarmi che non ci fosse nessun altro. Non avrei mai voluto che qualcuno assistesse a quello che avrei fatto a quegli idioti se avessero deciso di importunarmi. Senza cambiare passo né direzione, guardai negli occhi il chinpira con un'espressione piatta e neutra come ossidiana. Gli comunicai, con quello sguardo, che non lo temevo e neppure ero in cerca di guai; che mi ero già trovato mille volte in quella situazione; che, se proprio voleva divertirsi, gli sarebbe convenuto cercare da qualche altra parte. In generale, le persone - soprattutto se hanno una familiarità anche minima con la violenza - questi segnali li colgono, e si può contare che reagiscano in modi atti ad accrescere le loro probabilità di sopravvivenza. Evidentemente, però, quel tipo era troppo stupido o troppo fatto di kakuseizai. O forse aveva frainteso il mio iniziale sguardo all'indietro, interpretandolo come un segno di paura. In ogni caso, ignorò l'avvertimento che gli avevo dato e cominciò a venirmi incontro. Riconobbi la procedura: intendeva interrogarmi per verificare la mia adeguatezza al ruolo di vittima. Avrei acconsentito a farmi cacciare dal sottopassaggio e a tentare l'attraversamento in mezzo al traffico di auto? Mi sarei spaventato e fatto piccolo piccolo? In caso affermativo, lui mi avrebbe identificato come un obiettivo sicuro e sarebbe probabilmente passato alla violenza vera e propria. Io, invece, preferisco ricorrere a una violenza più improvvisa. Tenendolo
alla mia destra, lo superai con la mia gamba sinistra, per poi muovere la destra in modo da falciarlo con un osoto-gari, una delle mosse di judo più semplici ed efficaci. Contemporaneamente ruotai il mio braccio destro in senso antiorario e colpii quel tizio al collo, spingendo la parte superiore del suo corpo dalla parte opposta rispetto alle sue gambe. Per un attimo restò sospeso in orizzontale sopra il punto che poco prima lui occupava in posizione eretta. Dopo di che lo atterrai, tirando leggermente il suo bavero verso l'alto, per non fargli sbattere la nuca troppo forte. Non volevo ammazzarlo. Avrei attirato troppa attenzione. Il combattimento non era durato più di due secondi. Io mi raddrizzai e proseguii per la mia strada, guardando avanti, ma con le orecchie tese per captare il rumore di un eventuale assalto alle spalle. Nessun rumore, e con l'aumentare della distanza mi concessi un lieve sorriso. Non mi piacciono i bulletti: ne ho conosciuti troppi, da bambino, da una parte e dall'altra del Pacifico. E avevo l'impressione che ci avrebbero messo un bel po', quei chinpira, prima di riprovare a impedire a chicchessia il passaggio da quelle parti. Proseguii prendendo a sinistra, lungo il lato est del cimitero, e svoltando poi a destra sulla Gaiennishi-dori, approfittando come sempre del cambio di direzione per monitorare automaticamente l'area alle mie spalle, fingendo di osservare il traffico. Il cimitero si trovava alla mia destra, ma su quel lato della strada non c'era marciapiede e, quindi, restai sulla sinistra finché non trovai dall'altra parte una lunga rampa di gradini di pietra, che fungeva da passaggio tra la verde dimora dei morti e la città vivente che la circondava. Mi fermai a lungo a guardare quei gradini e infine decisi, come avevo già fatto molte volte in passato, che la smania a cui stavo quasi cedendo era ridicola. Mi voltai e tornai indietro lentamente per la strada da cui ero venuto. Come sempre accade ogni volta che porto a termine un lavoro, sentivo il bisogno di stare tra la gente, per cercare un po' di conforto nell'illusione di far parte della società in cui mi muovo. Pochi metri più avanti mi infilai al Monsoon Restaurant, dove avrei potuto gustare esempi di cucina del Sudest asiatico e il mormorio anodino delle conversazioni altrui. Scelsi un tavolo leggermente arretrato rispetto alla facciata aperta del ristorante e rivolto verso l'ingresso e la strada. Ordinai una semplice porzione di spaghetti di riso con verdure. Benché fosse abbastanza tardi per cenare, i tavoli erano quasi tutti occupati. Alla mia sinistra c'erano i superstiti di una piccola festa tra colleghi: alcuni giovani con la cravatta allentata e
completi blu tutti identici, insieme a due donne belle, vestite con più ricercatezza dei loro colleghi e perfettamente calate nel ruolo di servire il cibo, mescere le bevande e alimentare la conversazione che viene loro riservato dalla tradizione giapponese. Alle loro spalle, una coppia di liceali, o universitari, protesi l'uno verso l'altra, mano nella mano: lui che, sollevando le sopracciglia, sembrava intento a proporre qualcosa, e lei che rideva e scuoteva la testa in segno di diniego. Dall'altra parte, un gruppo di americani più anziani, in abiti più casual rispetto agli altri clienti, la voce adeguatamente bassa e la pelle che risplendeva a tratti illuminata delle lampade da tavola. C'è sempre un che di surreale nel ritrovarmi in un ristorante o in un bar dopo aver eseguito un lavoro, con la mente che comincia a vagare, e il sollievo che subentra con l'esaurirsi del flusso di adrenalina. Le sensazioni non erano nuove; era il contesto a renderle strane: come se fossi andato a un funerale con la giacca e i pantaloni solitamente impiegati per andare al lavoro. Credevo di aver chiuso con questo mestiere dopo aver regolato i conti con Holtzer, l'ex capo della CIA a Tokyo. La mia copertura era stata bruciata, e io avrei dovuto ricominciare daccapo, e non per la prima volta. Avevo pensato di trasferirmi negli Stati Uniti, sulla costa occidentale, magari a San Francisco o in un'altra città dove la comunità asiatica sia molto numerosa. Crearmi una nuova identità in America, ma senza le basi di cui godevo in Giappone, che mi erano costate un lungo e faticoso lavoro, sarebbe stato difficile. Inoltre, se la CIA avesse deciso di farmela pagare per la fine di Holtzer, sarebbe stato più comodo, per loro, operare sul terreno di casa. Restando in Giappone, ovviamente, avrei dovuto fare i conti con Tatsu, ma l'interesse di Tatsu nei miei confronti non aveva nulla di vendicativo, cosicché avevo scelto il minore dei rischi. Sorrisi, formulando questo pensiero. Avevo imparato che il pericolo rappresentato da Tatsu, benché meno acuto del rischio di essere direttamente eliminato da un qualche fortunato killer della CIA, era assai più insidioso. Mi aveva rintracciato a Osaka - la città più grande del Giappone, dopo Tokyo - dove mi ero rintanato dopo la mia fuga dalla capitale. Mi ero sistemato nel lussuoso quartiere di Belfa, a Miyakojima, nella zona nordoccidentale della città. Belfa era così densamente abitata da dirigenti d'azienda in trasferta che la presenza di un nuovo arrivato non avrebbe indebitamente attirato l'attenzione. In quel quartiere abitavano anche molte fa-
miglie con bambini piccoli, ossia il genere di persone che tiene d'occhio il vicinato e rende difficile il compito di effettuare una sorveglianza o tendere un'imboscata. All'inizio avevo sentito la mancanza di Tokyo, dove avevo vissuto per vent'anni, ed ero deluso di ritrovarmi in una città che gli abitanti della capitale, in media, liquidano automaticamente come un luogo arretrato da ogni punto di vista, a parte la pura estensione geografica. A poco a poco, però, Osaka mi aveva conquistato. La sua atmosfera, benché probabilmente meno sofisticata e cosmopolita di quella di Tokyo, è certamente anche meno pretenziosa. Diversamente da Tokyo, la cui forza di attrazione finanziaria, culturale e politica è così forte da indurre un autocompiacimento talvolta perfino solipsistico, Osaka non smette mai di confrontarsi con altre città, e soprattutto con la cugina di nord-est, uscendo vittoriosa in ambiti quali la buona cucina, l'acume finanziario e, in generale, le qualità umane. Avevo trovato piacevole questa bonaria e unilaterale sfida per la supremazia. Può darsi che ci manchino i modi raffinati, cioè l'affettazione, o le istituzioni politiche più potenti, cioè più corrotte - sembrava quasi dire Osaka a Tokyo, che neppure si degna di ascoltare -ma abbiamo più cuore. Con il tempo, avevo cominciato a credere che, forse, Osaka non aveva tutti i torti. Una sera, mentre camminavo diretto all'Overseas, un jazz club di Honmachi, mi ero accorto della presenza di Tatsu alle mie spalle. Pur senza darlo minimamente a vedere, l'avevo riconosciuto subito. Tatsu ha una corporatura tozza e un modo di dondolare le spalle, quando cammina, che è inconfondibile. Se il pedinatore fosse stato qualcun altro, sarei tornato indietro e l'avrei interrogato, se possibile. O eliminato, in caso contrario. Poiché, però, alle mie calcagna c'era Tatsu in persona, e da solo, avevo capito subito di non essere esposto a un pericolo immediato. Essendo un capo-dipartimento del Keisatsucho, l'equivalente giapponese dell'FBl, avrebbe potuto mandare qualcun altro a eliminarmi, se proprio avesse voluto. «Al diavolo!» avevo pensato. Quella sera era in programma un concerto di Akiko Grace, una giovane pianista che con il suo disco d'esordio, From New York, aveva elettrizzato l'ambiente del jazz giapponese, e io non avevo intenzione di perdermelo. Se Tatsu aveva voglia di assistere anche lui al concerto, era libero di farlo. Entrò a metà del secondo set. Grace stava eseguendo That Morning, un languido brano tratto dal suo secondo disco, Manhattan Story. Lo vidi indugiare un attimo, appena entrato, mentre scrutava i tavoli sul fondo. Gli avrei fatto segno, ma lui sapeva bene dove guardare.
Si fece strada fino al mio tavolo e si accomodò accanto a me, come se il fatto di venirmi a trovare lì fosse la cosa più naturale del mondo. Come al solito indossava un completo scuro che gli stava addosso come un ripensamento. Salutò con un cenno. Io ricambiai e tornai a guardare Grace che suonava. Lei non era rivolta verso di noi; indossava un abito di lustrini dorati che le lasciava le spalle nude e che luccicava sotto la fredda luce dei faretti blu come i lampeggi di certe notti d'estate. Guardandola, non potei fare a meno di pensare a Midori, sebbene più per contrasto che per somiglianza. Grace aveva un piglio decisamente più funky, più ondeggiante, con un modo un po' sghembo, a volte, di avvicinarsi al piano; e il suo stile, in generale, era più morbido e contemplativo. Dopo aver preso l'abbrivio, però, in brani come Pulse Fiction e Delancey Street Blues, assunse la stessa aria da invasata che aveva Midori, quasi che il piano fosse un demone e lei la sua esilarata amanuense. Mi venne in mente quella volta che, al Village Vanguard di New York, senza farmi notare, avevo visto suonare Midori ben sapendo che sarebbe stata l'ultima volta. Avevo assistito a concerti di altre pianiste, da allora, e ne avevo sempre tratto un piacere malinconico, come quando si fa l'amore con una donna magari bellissima, ma che non è quella di cui si è innamorati. Il set si concluse, e Grace, insieme al suo trio, lasciò il palco. Il pubblico, però, non smise di applaudire finché loro non ricomparvero in scena per eseguire, come bis, Bemsha Swing di Thelonius Monk. Tatsu doveva essere esasperato. Non era lì per godersi un concerto jazz. Finito il bis, Grace andò al bar. In molti si alzarono in piedi in segno di ringraziamento, o per farsi autografare il cd che si erano portati da casa, per poi accingersi a quello che la notte aveva in serbo per loro. Quando le persone intorno a noi se ne furono andate, Tatsu si voltò verso di me. «La pensione non fa per te, Rain-san», disse con la sua abituale stringatezza. «Ti sei rammollito. Quando eri in attività, non sarei mai riuscito a trovarti così facilmente.» È raro che Tatsu sprechi tempo in formalità. Ne sarebbe anche capace, ma non ce la fa proprio. E questa è una cosa che mi è sempre piaciuta di Tatsu. «Credevo fossi stato tu a mandarmi in pensione», dissi. «È così, infatti, ma solo per quel che riguarda i tuoi rapporti con Yamaoto e la sua organizzazione. Ho pensato che, per il resto, potremmo trovare
il modo di lavorare insieme. Tu mi capisci e sai qual è il mio obiettivo.» Alludeva alla sua incessante lotta contro il sistema della corruzione vigente in Giappone, in buona parte imperniato sul suo nemico giurato Yamaoto Toshi, uomo politico e burattinaio che aveva subornato Holtzer e che, per un certo periodo, era anche stato il mio ignoto datore di lavoro. «Mi dispiace, Tatsu, ma con Yamaoto e forse anche la CIA alle calcagna, la situazione per me si era fatta troppo rischiosa. Non sarei riuscito a esserti utile neanche se avessi voluto.» «Mi avevi detto che ti saresti fatto vivo.» «Ci ho ripensato.» Tatsu annuì e poi disse: «Lo sai che, pochi giorni dopo il nostro ultimo incontro, William Holtzer è morto per un attacco di cuore nel garage di un hotel in un sobborgo residenziale della Virginia?» Mi venne in mente quella volta che Holtzer, credendomi in punto di morte, aveva ammesso: «Ero io la talpa... Ero io la talpa». E mi ricordai di come, ai tempi del Vietnam, fosse riuscito a mettermi contro Crazy Jake, il mio fratello di sangue, per poi vantarsene. «Perché me ne parli?» domandai con aria indifferente. «A quanto pare, la sua morte è giunta inaspettata per la gente che lo conosceva nell'ambiente dell'intelligence», proseguì, ignorando la mia domanda, «perché Holtzer aveva passato da poco i cinquanta e fisicamente si era sempre tenuto in forma.» «Non abbastanza in forma da poter resistere alla scarica da trecentosessanta joule prodotta da un defibrillatore modificato», pensai. «È la dimostrazione del fatto che non si è mai troppo attenti», dissi, sorbendo un goccio del Dalmore invecchiato dodici anni che mi ero fatto portare. «Io, per esempio, prendo un'aspirinetta al giorno. Era uscito anche un articolo "sull'Asahi Shimbun" qualche anno fa, secondo cui ridurrebbe significativamente il rischio di problemi cardiaci.» Tatsu restò per un attimo in silenzio e poi, scrollando le spalle, disse: «Non era una brava persona.» Era forse il suo modo di dirmi che sapeva della mia responsabilità nella morte di Holtzer e che non gliene importava? In tal caso, che cosa mi avrebbe chiesto in cambio? «Come lo hai saputo?» gli domandai. Posò lo sguardo sul tavolo e poi nuovamente su di me. «Alcuni colleghi del signor Holtzer, della CIA di Tokyo, si sono messi in contatto con la polizia metropolitana. Non erano tanto turbati dalla morte di Holtzer in sé,
quanto piuttosto dal modo in cui era avvenuta. Sembravano convinti che ci fosse il tuo zampino.» Io non proferii parola. «Volevano che noi li aiutassimo a scovarti», proseguì. «I miei superiori mi hanno ordinato di fornire loro la massima collaborazione.» «Perché sono venuti a chiedere aiuto proprio a te?» «Ho il sospetto che la CIA abbia ricevuto l'incarico di eliminare almeno una parte della corruzione che paralizza l'economia giapponese. Gli Stati Uniti temono che, se la situazione dovesse degenerare, il sistema finanziario giapponese crollerebbe. E questo produrrebbe un effetto a catena, con conseguente recessione globale.» La preoccupazione dello Zio Sam era comprensibile. Tutti sapevano che i politici giapponesi erano più interessati ad accaparrarsi la loro quota di denaro attraverso la losca gestione delle opere pubbliche e le tangenti della yakuza che non a resuscitare un'economia al collasso. Si sentiva la puzza di marcio da lontano. Bevvi un altro sorso di Dalmore. «Come ti spieghi questo loro interesse nei miei confronti?» Tatsu si strinse nelle spalle. «Forse vogliono vendicarsi. Forse rientra in una più ampia offensiva contro la corruzione. In fondo, sai bene anche tu che Holtzer faceva circolare rapporti di intelligence che ti indicavano come l'assassino "per cause naturali", responsabile della morte di un certo numero di confidenti e di politici giapponesi di tendenze riformiste. Forse, per entrambi i motivi.» «Tipico di Holtzer», pensai. Guadagnare riconoscimenti per i suoi rapporti di intelligence, usandoli al contempo per fini personali. Rividi l'immagine di Holtzer accasciato e privo di vita nella sua auto a noleggio in quel garage della Virginia suburbana e sorrisi. «Non mi sembri particolarmente preoccupato», osservò Tatsu. Mi strinsi nelle spalle. «Certo che sono preoccupato. Che cosa hai raccontato alla CIA?» «Che per quanto ne sapevo io tu eri morto.» «È stato carino da parte tua.» Lui accennò un sorriso, e io vidi, per un attimo, l'immagine di quel furbo e sovversivo figlio di puttana che mi era subito piaciuto, in Vietnam, dove era stato distaccato da una delle agenzie da cui poi è nato il Keisatsucho. «Non ho fatto granché, in realtà. Siamo vecchi amici, in fondo. Gli amici devono darsi una mano ogni tanto, non trovi?»
Sapevo di essere in debito con lui. Gli ero debitore perché, nonostante mi avesse dato la caccia per anni, mi aveva fatto fuggire dopo l'imboscata che avevo teso a Holtzer all'ingresso della base navale di Yokosuka. E a quel punto ero doppiamente in debito, perché aveva anche depistato la CIA per proteggermi. Comunque, non era solo un fatto di riconoscenza. C'era anche un'implicita minaccia. Tatsu, però, aveva un debole per me che gli impediva di essere troppo diretto. Altrimenti, mi avrebbe rifilato le solite entusiastiche stronzate da vecchi amiconi per poi spiegarmi che, se non avessi cooperato, avrebbe passato il mio nome e il mio indirizzo ai miei vecchi amici dei Cristiani in Azione. E se avesse voluto, non avrebbe avuto difficoltà a farlo. «Mi era parso che tu mi volessi in pensione», ribadii, sapendo di avere già perso. Lui infilò una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una busta gialla. La posò sul tavolo tra di noi. «È un lavoro importantissimo, Rain-san», disse. «Altrimenti, non sarei venuto a chiederti questo favore.» Già immaginavo il contenuto di quella busta. Un nome. Una fotografia. Indirizzo di casa e di lavoro. Punti deboli conosciuti. L'insistenza affinché tutto fosse attribuibile a «cause naturali», sottintesa o manifesta. Non feci il benché minimo movimento in direzione della busta. «Ho bisogno di una cosa da te, prima di poter accettare», gli dissi. Lui annuì. «Vuoi sapere come ho fatto a trovarti?» «Esatto.» Tatsu sospirò. «Se ti rispondo, che cosa ti impedirà di scomparire di nuovo, magari in modo ancora più efficace?» «Nulla, probabilmente. D'altra parte, se non me lo dirai, è escluso che io possa accogliere la tua richiesta, di qualunque cosa si tratti. Dipende da te.» Prese tempo, come se dovesse valutare i pro e i contro, ma Tatsu è sempre qualche passo più avanti e aveva certamente previsto la mia mossa. Quell'indugio era puro teatro, finalizzato a convincermi di aver fatto un ottimo affare. «I registri della polizia di frontiera», disse alla fine. Non ne fui granché sorpreso. Avevo calcolato il rischio che Tatsu, venendo a sapere della morte di Holtzer, ipotizzasse un mio coinvolgimento; e sapevo anche che, in tal caso, non sarebbe stato difficile per lui ricostrui-
re i miei movimenti dall'ultima volta che ci eravamo visti, a Tokyo, fino al giorno della morte di Holtzer, in Virginia, poco meno di una settimana più tardi. Uccidere Holtzer era per me fondamentale, e mi ero preparato a pagare l'eventuale prezzo del rischio corso. Tatsu mi stava semplicemente presentando il conto. Io restai in silenzio, e fu di nuovo lui, dopo un po', a parlare. «Un certo Fujiwara Junichi è partito da Tokyo diretto a San Francisco il 13 ottobre scorso. Non c'è traccia di un suo rientro in Giappone. Se ne potrebbe dedurre che sia rimasto negli Stati Uniti.» In un certo senso, ci era rimasto davvero. Fujiwara Junichi è il mio nome giapponese. Quando avevo scoperto che Holtzer e la CIA sapevano dove abitavo a Tokyo, avevo capito che quel nome era ormai bruciato e inservibile. Per uccidere Holtzer, ero arrivato negli Stati Uniti con il mio passaporto giapponese, che poi avevo fatto sparire, ed ero rientrato in Giappone con un'identità diversa che avevo appositamente preparato per un'eventualità del genere. Se qualcuno si fosse messo alle mie calcagna, avevo pensato, sarebbe forse stato ingannato da questo falso indizio e avrebbe concluso che dovevo essermi trasferito negli Stati Uniti. Quasi tutti ci sarebbero cascati, ma non Tatsu. «Chissà perché, non mi quadrava che tu fossi andato a vivere negli Stati Uniti», proseguì. «Mi pareva che... te la passassi bene in Giappone. Non mi sembravi pronto a partire.» «Mi sa che hai indovinato...» Scrollò le spalle. «Mi sono detto: "E se in realtà il mio vecchio amico non avesse lasciato il Giappone, ma avesse soltanto cercato di farmelo credere, che cosa potrebbe aver fatto? Sarebbe potuto rientrare in Giappone sotto diverso nome. E si sarebbe potuto stabilire in un'altra città, perché a Tokyo, ormai, è troppo famoso".» Fece una pausa, e io riconobbi lo stratagemma dell'indovino, con cui una persona che avrebbe il compito di fornire informazioni finisce invece per carpirle con furbizia all'interlocutore, il quale ha tuttavia l'impressione di ricevere spiegazioni. Fino a quel momento Tatsu si era mantenuto sul vago, e io non avrei certo colmato le sue lacune confermando o smentendo alcunché. «Magari, nella nuova città, avrà usato lo stesso nome nuovo utilizzato per rientrare in Giappone», aggiunse poco dopo. Io, però, avevo utilizzato due nomi diversi. In caso contrario, per un inseguitore determinato sarebbe stato troppo facile rintracciarmi. Tatsu, evi-
dentemente, non aveva certezze al riguardo e, come sospettavo, sperava di saperne di più dalla mia reazione. Se avessi confermato di aver usato un unico nome nuovo, lui avrebbe detto che proprio questa era stata la traccia che lo aveva condotto a me, evitando così di dover rivelare come avesse fatto a trovarmi e lasciando perciò il mio punto debole intatto, pronto per essere sfruttato in un'altra occasione. Io, quindi, continuai a tacere, con un'espressione vagamente annoiata. Lui mi guardò con gli angoli della bocca quasi impercettibilmente rialzati, con un pallidissimo accenno di sorriso. Era il suo modo di riconoscere che avevo scoperto il suo gioco; sottintendeva la rinuncia ad altri trucchetti e la decisione di parlare chiaro, finalmente. «Fukuoka è troppo piccola», disse. «Sapporo troppo lontana. Nagoya troppo vicina a Tokyo. Hiroshima poteva andare bene, perché c'è un'ottima atmosfera, ma ho pensato che la regione del Kansai fosse più probabile perché non è tanto distante da Tokyo, dalla quale immaginavo che tu non volessi allontanarti troppo. Potevi essere a Kyoto, dunque. O magari a Kobe. Osaka, però, mi è sembrata la meta più probabile.» «Perché?» Tatsu si strinse nelle spalle. «Perché Osaka è più grande, più movimentata, e quindi è più facile trovarsi un nascondiglio. Inoltre, ha una popolazione di passaggio più numerosa, cosicché i nuovi arrivati non destano particolari curiosità. Infine, so che ti piace il jazz, e Osaka è rinomata per i suoi club.» Sarebbe stato facile prevedere che Tatsu avrebbe puntato sui locali. Nel periodo Taisho, dal 1912 al 1926, il jazz si era diffuso da Shanghai fino al Kansai, la regione occidentale di Honsu, l'isola principale dell'arcipelago giapponese, la stessa su cui si trova Osaka. Nei movimentati quartieri di Soemoncho e di Dotombori erano spuntati in gran numero balere e locali con musica dal vivo, e il jazz si era propagato ben presto anche nei caffè. Questa tradizione prosegue, al giorno d'oggi, con locali come Kelly's, Overseas, Royal Horse e, naturalmente, con il Blue Note di Osaka, e io non potei negare che la presenza di questi posti avesse influito sulla scelta di trasferirmi lì. Avevo persino pensato, per la stessa ragione appena addotta da Tatsu, che Osaka fosse una scelta piuttosto prevedibile, ma mi ero anche scoperto riluttante a rinunciare ai vantaggi che essa offriva per quel che riguarda lo stile di vita. Qualche tempo prima avrei automaticamente rinunciato a qualsiasi comfort per privilegiare l'aspetto della sicurezza personale. Con
l'età, però, mi ero reso conto che le mie priorità stavano cambiando, e questo era l'ennesimo segnale del fatto che era ora, per me, di ritirarmi. Comunque, è vero che Tatsu, conoscendomi come pochi altri, non doveva aver avuto troppe difficoltà a capire che ero a Osaka, ma questo non gli sarebbe bastato per trovarmi così - a colpo sicuro - come aveva effettivamente fatto. «Notevole», dissi. «Però non mi hai ancora spiegato come hai fatto a scovarmi in una città di quasi nove milioni di abitanti.» Lui sollevò leggermente la testa e mi guardò in faccia. «Rain-san, capisco il tuo desiderio di sapere, e ho intenzione di esaudirlo, ma è fondamentale che la voce non circoli, perché potrebbe limitare l'efficacia della lotta contro il crimine condotta dalla polizia metropolitana. Posso star certo che non divulgherai questa informazione?» La domanda e le rivelazioni promesse servivano a dimostrare che io potevo fidarmi. «Sai bene che non ne parlerò con nessuno.» Lui annuì. «Negli ultimi dieci anni le istituzioni locali, a ogni livello, hanno installato telecamere in molti luoghi pubblici, tipo stazioni della metropolitana e altri importanti luoghi di transito pedonale. È ampiamente provato, soprattutto dal caso della Gran Bretagna, che queste telecamere hanno un effetto deterrente sul crimine.» «Le ho viste, le telecamere.» «Puoi averne viste alcune. Non tutte. In ogni caso, non sono le telecamere quel che più importa, bensì quello che c'è dietro. Dopo quello che è successo negli Stati Uniti l'11 settembre 2001, la polizia metropolitana ha fatto grandi sforzi per collegare queste reti informali di telecamere con un database centrale capace di gestire un programma avanzato di riconoscimento somatico. Questo programma è in grado di rilevare elementi che è difficile o impossibile camuffare: la distanza tra gli occhi, per esempio, o gli angoli del triangolo i cui vertici sono il centro della bocca e i punti più esterni degli occhi. Insomma, quando una telecamera individua una somiglianza con una fotografia inserita nel database, vengono immediatamente avvertite le autorità preposte. Quello che prima era un semplice deterrente psicologico si è trasformato in un potente strumento investigativo anticrimine.» Sapevo, ovviamente, dell'esistenza del software di cui parlava Tatsu. Era in via di sperimentazione in alcuni aeroporti e in certi stadi, soprattutto negli Stati Uniti, come sistema per intercettare noti terroristi. Da quel che ho letto, le prime prove non sarebbero state particolarmente entusiasmanti.
Forse, però, si tratta di disinformazione. Comunque, non immaginavo che il Giappone fosse così avanti nell'impiego di questa tecnologia. «Le telecamere sono collegate a Juki Net?» domandai. «Può darsi», rispose lui, con la sua consueta sobrietà. Juki Net è un vasto programma di rilevamento e centralizzazione di dati che ha preso avvio nell'agosto 2002, forse ispirato alla Total Information Awareness Initiative del dipartimento della difesa americano. Juki Net assegna a ogni cittadino giapponese un numero di identificazione di undici cifre e associa ogni numero a dati personali quali nome, sesso, residenza, data di nascita. Il governo assicura che a questi dati non vengono aggiunte altre informazioni, ma sono pochi quelli che ci credono, e già si sono registrate irregolarità. Ci pensai su. Come aveva detto Tatsu, se si fosse saputo in giro, l'efficacia della rete di telecamere sarebbe stata pregiudicata, ma c'era anche dell'altro. «Non c'erano state delle proteste contro la creazione di Juki Net?» domandai. Lui annuì. «Sì. Come forse sai, il governo ha creato Juki Net senza prima approvare una legge sulla privacy che ne regolasse l'uso. I recenti tentativi di colmare questo vuoto sono stati ben poco convincenti. A Suginamiku è in corso un boicottaggio. Un mucchio di gente sta cercando di procurarsi un indirizzo in quel quartiere per sfuggire alle grinfie del sistema.» Ecco perché il governo era così preoccupato di mantenere il segreto sulla connessione della rete di telecamere di sorveglianza a Juki Net. In fondo, anche sapendo dell'esistenza di questa rete di controllo, sfuggire alla videosorveglianza sarebbe comunque impresa ardua, e quindi il timore di agevolare indebitamente i criminali era solo in parte giustificato. Il problema vero era sicuramente un altro: il governo aveva paura delle proteste che si sarebbero levate se l'opinione pubblica avesse scoperto che l'intento annunciato di Juki Net non era in realtà che la punta di un iceberg. Se si fosse saputo del collegamento tra Juki Net e la rete di videosorveglianza, la gente avrebbe davvero potuto cominciare a sentirsi in una situazione da Grande Fratello. «Non puoi biasimare la gente che non si fida del governo», dissi. «Ho letto da qualche parte che la primavera scorsa il ministro della difesa è stato trovato in possesso di dossier dettagliati, con tanto di dati relativi agli orientamenti politici, su persone che avevano richiesto materiale soggetto alla recente legislazione in materia di libertà di informazione.»
Tatsu adottò il suo solito sorriso triste. «Quando la notizia è trapelata, qualcuno ha cercato di far sparire le prove.» «Sì, devo aver letto che il partito liberal-democratico ha tentato di impedire la pubblicazione di un rapporto di quaranta pagine sull'accaduto.» Il suo sorriso, questa volta, fu più malizioso. «Naturalmente, tutti i funzionari dell'LDP coinvolti nel tentativo di insabbiamento sono stati puniti con la decurtazione dello stipendio.» «Questo sì che è un deterrente contro future illegalità», osservai io, ridendo. «Soprattutto se si è sicuri di ricevere sottobanco il doppio della cifra a cui si è rinunciato.» Tatsu si strinse nelle spalle. «Da poliziotto, utilizzo Juki Net e la rete di videosorveglianza come uno strumento contro il crimine; come cittadino trovo che la cosa sia agghiacciante.» «Perché allora mi chiedi di tacere? Forse, ci vorrebbe proprio una piccola soffiata.» Inclinò la testa da un lato, come se fosse meravigliato dalla rozzezza del mio suggerimento. «La diffusione incontrollata di certe voci», disse, «sarebbe inutile come una potente carica esplosiva piazzata nel posto sbagliato.» Mi stava dicendo che aveva in mente qualcosa. E, altrettanto chiaramente, mi stava invitando a non indagare oltre. «Insomma, per trovarmi ti sei servito di questa rete», conclusi. «Sì. Ho conservato le foto segnaletiche che ti aveva scattato la polizia metropolitana dopo l'incidente della base navale di Yokosuka. Le ho inserite nel database, in modo che la rete potesse aiutarmi a cercarti. Ho suggerito ai tecnici di concentrarsi inizialmente su Osaka. Comunque, il sistema non è infallibile: i falsi allarmi sono stati così numerosi che ci sono voluti tempo e risorse umane per trovarti. Ti ho cercato per quasi un anno, Rainsan.» Capii, a quel punto, che l'incessante progresso tecnologico mi avrebbe costretto a tornare all'esistenza nomade che avevo adottato dopo il Vietnam e fino al mio ritorno in Giappone, quando vagavo per il mondo senza un'identità, passando come mercenario da una guerra all'altra. Il pensiero non mi allettava minimamente. Avevo già fatto la mia penitenza per Crazy Jake e non avevo voglia di rivivere quella esperienza. «Il sistema non è perfetto», riprese Tatsu. «La copertura non è totale, tanto per cominciare, e poi, come ti ho detto, la quantità di falsi allarmi è impressionante. Tuttavia, con il passare del tempo, siamo riusciti a indivi-
duare una serie di costanti nei tuoi spostamenti. Un gran numero di avvistamenti a Miyakojima, per esèmpio. È stato facile, a quel punto, consultare all'anagrafe locale il registro dei nuovi residenti, scartare le false tracce, scoprire il tuo indirizzo e poi seguirti qui stasera.» «Perché non sei venuto direttamente a casa mia?» Sorrise. «Casa tua è il posto in cui tu, certamente, ti senti più vulnerabile, perché è un possibile collo di bottiglia buono per un'imboscata. E io non ho intenzione di sorprendere uno come te nel posto di massima vulnerabilità. Ho preferito, per sicurezza, avvicinarti su un terreno neutrale, dove tu potessi vedermi arrivare, ne?» Annuii, in segno di approvazione. Se sei il possibile obiettivo di un tentativo di sequestro o di omicidio o di qualsiasi altro tipo di agguato, i cattivi possono cercare di. colpirti soltanto nei luoghi dove sanno per certo di poterti trovare. E cioè, più probabilmente, sotto casa o sul tuo posto di lavoro. O magari lungo il tragitto, in un punto dove tu passi sempre, l'unico ponte, per esempio, che si incontra sulla strada tra casa tua e il tuo posto di lavoro. Queste strozzature sono i luoghi in cui è indispensabile essere più sensibili ai segnali di pericolo. «Allora?» domandò, sollevando leggermente le sopracciglia. «Ti eri accorto che ti seguivo?» Scrollai le spalle. «Sì.» Lui si concesse un altro sorriso. «Ne ero certo.» «Avresti anche potuto telefonarmi.» «Sì, ma c'era il rischio che tu, al solo sentire la mia voce, scomparissi di nuovo.» «È vero.» «Tutto sommato, credo di aver scelto la soluzione migliore.» «Per come ti sei mosso», dissi, «devi aver coinvolto un mucchio di persone. Tuoi colleghi e, magari, agenti della CIA.» Avrebbe potuto rispondere che questo inconveniente era colpa mia, dato che non mi ero messo in contatto con lui come avevo promesso di fare. Niente di più lontano, però, dallo stile di Tatsu. Aveva i suoi interessi, nella questione, come io avevo i miei, ma non mi avrebbe certo rimproverato per la mia fuga, così come era certo che io non avrei biasimato lui per avermi cercato. «Il tuo nome non è mai venuto fuori», mi disse. «Solo una fotografia. E i tecnici incaricati di analizzare i risultati prodotti dal sistema non hanno la minima idea di quali siano i motivi del mio interesse. Per loro tu sei soltan-
to uno dei tanti criminali ricercati dalla polizia metropolitana. E ho preso anche altre precauzioni: stasera sono venuto qui da solo e dei miei movimenti non ho informato nessuno.» Un'ammissione pericolosa, da parte di Tatsu. Se fosse stato vero, avrei potuto facilmente risolvere tutti i miei problemi eliminandolo. Un'altra dimostrazione di fiducia nei miei confronti, per persuadermi a fidarmi di lui. «Stai correndo molti rischi», gli dissi, guardandolo. «Come sempre», disse lui, ricambiando il mio sguardo. Ci fu un lungo silenzio, dopo di che fui io a parlare. «Niente donne né bambini. Deve trattarsi per forza di un maschio adulto.» «Infatti.» «Non dev'esserci nessun altro coinvolto in questa missione. Il lavoro tu lo affidi solo a me: è un'esclusiva.» «D'accordo.» «L'obiettivo dev'essere un pezzo grosso. E la sua uccisione non può avere il solo scopo di mandare un messaggio a qualcuno. Deve servire a qualcosa di concreto.» «Così è.» Avendo ribadito le mie tre regole irrinunciabili, era il momento di ricordargli le conseguenze di un'eventuale trasgressione. «Sai bene, Tatsu, che a parte le ragioni professionali, ossia la guerra e il mio lavoro, c'è un solo motivo che mi ha mai indotto a uccidere.» «Il tradimento», disse, per dimostrarmi che aveva già capito. «Già.» «Il tradimento non è nella mia natura.» Scoppiai a ridere, perché per la prima volta notavo in Tatsu un che di naïf. «È nella natura di tutti», ribattei. Avevamo stabilito un sistema per comunicare tra noi in condizioni di sicurezza, per mezzo di semplici codici e attraverso una bacheca elettronica protetta che io continuavo a utilizzare appositamente per messaggi di particolare importanza. Gli avevo assicurato che mi sarei messo in contatto con lui, a missione compiuta, ma non ero sicuro che fosse davvero necessario. Tatsu avrebbe appreso della morte dello yakuza da fonti indipendenti e capito che io avevo fatto la mia parte. Inoltre, meno contatti avevamo, meglio era. Certo, il nostro rapporto durava da tempo. C'era rispetto. Affetto, persino. Difficile però immaginare che i nostri interessi potessero corrispondere in quel modo tanto a lungo, e in fondo questa corrispondenza, o
la sua mancanza, era l'unica cosa che importava. Un pensiero triste, per certi versi. Non frequento molte persone e, visto che l'incontro non aveva dato origine a problemi, mi resi conto di aver gradito, a un certo livello, la compagnia di Tatsu, mio vecchio amico e mia nemesi. Triste anche perché mi costringeva ad ammettere una cosa che mi ero sempre sforzato di negare: presto avrei dovuto lasciare il Giappone. Mi ero preparato a lungo per questa eventualità, ma l'idea che quel momento fosse ormai imminente mi lasciava sgomento. Tatsu sapeva come e dove trovarmi; nel caso si fosse convinto che il mio rientro in gioco poteva essere determinante per lo scopo della sua vita, ossia la lotta contro la corruzione in Giappone, sarebbe stato facile per lui venirmi a beccare. D'altra parte, se avessi accettato le regole del suo gioco, sarebbe stato ancora più comodo per lui presentarsi di tanto in tanto da me per chiedermi un «favore». In entrambi i casi, lui si sarebbe trovato nella condizione di manipolarmi, e io questa esperienza l'avevo già fatta. Non avevo intenzione di rifarla. Il mio cercapersone trillò. Il display mostrava una serie di cinque numeri: era Harry che mi chiedeva di telefonargli. Finii di mangiare e feci cenno al cameriere di portarmi il conto. Mi guardai intorno per l'ultima volta. La festa tra colleghi di lavoro si era sciolta. Gli americani, invece, erano ancora lì, con il caloroso ed entusiastico rumore bianco delle loro conversazioni. Anche la coppietta di innamorati era ancora al suo posto: lui in posa quanto mai seria, lei a difendersi con una risata sommessa. Era bello essere di nuovo a Tokyo. Non avevo voglia di partire. Uscii dal ristorante, soffermandomi un po' a godere la sensazione della fresca aria serale di Nishi-Azabu, non senza scrutare attentamente i dintorni. A parte qualche macchina di passaggio, la zona era silenziosa come il cimitero di Aoyama che muto, tetro e buio, mi osservava dal lato opposto della strada. Guardai di nuovo i gradini in pietra e immaginai di ripercorrerli, dopo di che svoltai a sinistra e proseguii in senso antiorario lungo il cerchio che avevo cominciato a tracciare poche ore prima. 3. Chiamai Harry da un telefono pubblico sulla Aoyama-dori. «La linea è sicura?» mi domandò, riconoscendo la mia voce. «Abbastanza, credo. Telefono pubblico. Un posto appartato.» L'ubica-
zione aveva la sua importanza, perché i governi tengono sotto controllo certi telefoni pubblici -quelli nei dintorni delle ambasciate e dei commissariati di polizia, per esempio, e quelli installati negli atrii degli hotel più importanti - a cui prima o poi qualche pigrone ricorre per le proprie conversazioni «private». «Sei ancora a Tokyo», disse lui. «Stai chiamando da un telefono pubblico tra Minami e Aoyama.» «Come fai a saperlo?» «Ho delle apparecchiature che mi permettono di sapere il numero telefonico e il luogo da cui provengono le telefonate. Lo stesso sistema usato dai "nove-zero-zero" negli Stati Uniti. Non puoi bloccarlo.» «Harry...», pensai, sorridendo. Nonostante il suo stile da SuperNerd e la testa perennemente tra le nuvole, e benché in fondo fosse soltanto un bambino un po' troppo cresciuto per il quale fare l'hacker era come giocare ai videogame, Harry poteva risultare pericoloso. Il favore che casualmente gli avevo fatto anni prima, salvandolo da una masnada di marines ubriachi in cerca del giapponese giusto a cui fare il culo, mi aveva fruttato a dismisura. Eppure, malgrado i miei sforzi, sapeva essere anche paurosamente ingenuo. Se fossi stato in lui, non avrei mai detto a nessuno quello che mi aveva appena confessato. Non si può rinunciare a un vantaggio del genere. «La NSA non avrebbe mai dovuto lasciarti andar via, Harry», gli dissi. «Sei l'incubo dei fanatici della privacy.» Lui rise, ma senza troppa convinzione. Harry fa fatica a capire quando lo sto prendendo in giro. «Peggio per loro», disse. «E comunque avevano un po' troppe regole. È molto più divertente lavorare per una società di consulenza delle cinque grandi compagnie giapponesi nel settore dell'elettronica. Hanno così tanti problemi che neppure si preoccupano più di capire che cosa combino.» Era una scelta furba, da parte loro. Non ce l'avrebbero fatta comunque, a stargli dietro. «Che cosa dovevi dirmi?» domandai. «Nulla, in realtà. Volevo semplicemente sentirti finché ero in tempo. Temevo che, finito il lavoro, potessi ripartire subito.» «Be', avevi indovinato.» «Hai... fatto?» Harry ha capito da un pezzo qual è il mio lavoro, ma sa benissimo che qualsiasi domanda al riguardo sarebbe tabù. E probabilmente sapeva anche quel che sarebbe successo, quando, poche ore prima, mi aveva chiamato su
mia richiesta per dirmi esattamente dove e quando avrei potuto trovare lo yakuza. «Sì, ho fatto», risposi. «Significa che non resterai in zona per molto, vero?» Sorrisi, scioccamente commosso dal suo tono dispiaciuto. «Già, non per molto. Ti avrei chiamato, però, prima di partire.» «Davvero?» «Giuro.» Consultai il mio orologio. «Anzi, che cos'hai da fare, adesso?» «Mi sono appena svegliato, a dire la verità.» «Cristo, Harry! Sono le dieci di sera.» «Sto facendo degli orari un po' strani, ultimamente.» «Altroché! Sai che ti dico? Vediamoci per un drink. Tu, se vuoi, puoi fare colazione.» «Dove pensavi di andare?» «Aspetta un attimo.» Presi da sotto il telefono le pagine gialle di Tokyo e sfogliai la sezione ristoranti finché non trovai il locale che cercavo. Quindi, scelsi la quinta voce elencata dopo quella che mi interessava, secondo il nostro consueto codice, sapendo che qualunque ristorante avessi nominato Harry sarebbe risalito di cinque voci nell'elenco. Non che ci fosse qualcuno ad ascoltarci - chi diavolo ci sarebbe mai potuto riuscire, contro la volontà di Harry? - ma è sempre meglio non correre rischi. Gli avevo insegnato io ad adottare sempre una difesa a più livelli. A non lasciare mai nulla al caso. «Che ne dici del Tip-Top, in Takamatsu-cho?» proposi. «Va benissimo», rispose lui, lasciandomi intendere che aveva capito. «È un posto fantastico.» «Ci vediamo lì», dissi. Riagganciai, presi un fazzoletto da una tasca dei pantaloni e ripulii cornetta e tasti. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Il posto che avevo in mente, in realtà, si chiamava These Library Lounge, detto «Teize» dai frequentatori, un piccolo bar con l'atmosfera da bisca clandestina annidato al primo piano di un anonimo palazzo di NishiAzabu. Benché si trovi nel pieno centro geografico e psicologico di Tokyo, il Teize è immerso in un'onirica aura di distacco, come se il locale fosse un'isola segretamente felice di trovarsi sperduta nel vasto oceano di Tokyo. Il Teize è il classico posto in cui le conversazioni si trasformano a poco a poco in mormorio, e la fatica in languidezza, mentre le effimere preoccupazioni della giornata sfumano, e può capitare di ritrovarsi ad ascoltare un
brano struggente come Just a Memory di Johnny Hodges senza filtri né preconcetti, quasi fosse la prima volta, senza l'impressione di conoscerlo già; o di sorbire un salmastro e iodato whisky al malto di Islay e rendersi conto che proprio quello doveva essere il gusto che il distillatore aveva sperato di ottenere quando trent'anni prima aveva affidato il liquore ambrato a una botte di rovere; o di notare un gruppo di donne sedute in uno dei separé del bar - con i loro vestiti eleganti, i visi risplendenti ancora senza rughe, e la fiducia nel diritto all'esistenza di posti come quello espressa dal timbro ingenuo delle loro risate, dalla cadenza noncurante della loro conversazione - e ricordare senza amarezza la sensazione provata al pensiero di poter fare parte di quel mondo. Impiegai meno di dieci minuti per raggiungere il luogo dell'appuntamento. Ci passai davanti, sfilando accanto alle scale esterne che portavano al primo piano, figurandomi, come faccio ogni volta che entro in un edificio, i punti in cui io mi sarei appostato nel caso avessi dovuto tendere un agguato. All'esterno del Teize c'erano due postazioni alquanto promettenti, una delle quali - l'ingresso di un palazzo adiacente - mi sembrò particolarmente adatta perché era arretrata rispetto all'entrata del bar, in modo tale che chi usciva dal locale poteva scorgere un eventuale aggressore nascosto nell'ombra solo dopo essere giunto ai piedi delle scale, e a quel punto forse sarebbe stato troppo tardi. A meno che, ovviamente, prima di scendere, non ci si sporgesse dal balcone del bar per ammirare il silenzioso paesaggio urbano sottostante, come io mi ripromisi di fare. Verificate le condizioni di sicurezza all'esterno, presi le scale che portavano al primo piano ed entrai nel bar. Era un pezzo che non ci tornavo, ma i proprietari, grazie a Dio, avevano pensato bene di non cambiare nulla. La luce, soffusa come sempre, proveniva perlopiù da portalampade a candela, lampade a stelo e candele vere e proprie. Un tavolo di legno, che era servito da porta prima di essere promosso a quella ben più nobile funzione. Tappeti persiani sbiaditi e pesanti tendaggi scuri. Il bancone del bar in marmo bianco, che risaltava senza incombere al centro della sala principale, placidamente illuminato da una fila di faretti soprastante. C'erano libri dovunque, soprattutto di design, architettura e arte, insieme a scelte apparentemente più bizzarre tipo Le avventure di due bambole olandesi e Uncle Santa. «Nanmeisama?» mi domandò il barista. Quanti? Io sollevai due dita. Lui diede un'occhiata in giro, a conferma di quello che avevo già notato: non c'era un solo tavolo libero.
«Non importa», gli dissi in giapponese. «Credo che ci siederemo al banco.» Da dove, a parte altri vantaggi, si godeva di una vista tatticamente ideale sull'ingresso. Harry arrivò un'ora dopo, mentre io cominciavo a sorseggiare il mio secondo single malt della serata, un Lagavulin invecchiato sedici anni. Appena entrato, mi vide e sorrise. «John-san, hisashiburi desu ne», disse. Da quanto tempo... Dopo di che passò all'inglese, che garantiva una privacy maggiore, anche se non assoluta. «È bello vederti.» Mi alzai in piedi e ci stringemmo la mano. Benché le circostanze fossero tutt'altro che formali, gli rivolsi anche un lieve inchino. Ho sempre avuto un debole per il senso di rispetto implicito in un inchino e per il calore di una stretta di mano, e Harry meritava entrambe le cose. «Siediti», dissi, indicando il posto alla mia sinistra. «Mi perdonerai, spero, se ho cominciato senza di te.» «Tu, però, devi perdonarmi se non prendo quello che hai ordinato tu e mi butto, invece, sul cibo.» «Fa' pure», dissi. «D'altronde, il whisky è roba da adulti.» Harry sorrise, conscio della burla, e ordinò un'insalata di erbe con tofu, mozzarella e succo d'arancia liscio. Harry non è mai stato un bevitore. «Hai fatto un bell'SDR, eh?» gli domandai mentre aspettavamo che arrivasse il mangiare. Un SDR, o surveillance detection run, è un percorso appositamente concepito per scoprire eventuali pedinatori. Ero stato io a insegnargli questa tecnica, e Harry si era rivelato un allievo brillante. «Me lo domandi ogni volta che ci vediamo», disse, con un tono vagamente esasperato, come un adolescente con un genitore. «E io rispondo sempre allo stesso modo.» «L'hai fatto.» Lui alzò gli occhi al cielo. «Ovvio.» «E sei sicuro che nessuno ti abbia pedinato?» Mi guardò. «Non sarei qui, in caso contrario. Lo sai.» Gli diedi una pacca sulla spalla. «Non posso fare a meno di domandare. Ah, grazie ancora per l'ottimo lavoro con il cellulare dello yakuza. Sono arrivato a lui dritto come un fuso.» Harry ne sembrava felice. «Ho una cosa da darti», disse. «Ah, sì?» Annuì e infilò una mano in una tasca della giacca. Rovistò per un secondo ed estrasse un oggetto metallico grosso più o meno come un mazzo di
una dozzina di carte di credito. «Dacci un'occhiata.» Lo presi. Era pesante, in rapporto alle dimensioni. Doveva contenere un bel mucchio di circuiti, quell'affare. «Proprio quello che avevo sempre desiderato», dissi. «Un fermacarte in finto argento.» Fece il gesto di volerselo riprendere. «Be', se non apprezzi...». «No, no, lo apprezzo. Solo che non ho idea di che cosa diavolo sia.» In realtà, un'idea l'avevo, ma preferisco sempre che mi si sottovaluti. E poi non volevo negare a Harry il piacere della spiegazione. «È un detector contro microspie e telecamere», disse, scandendo lentamente le parole, quasi temesse che io, altrimenti, potessi non capire. «Se passi nel raggio d'azione di una frequenza radio o di un apparato a infrarossi, questo aggeggio ti avverte.» «Con una seducente voce femminile, spero.» Harry rise. «Se c'è chi ti sta sorvegliando, l'ultima cosa che ti serve è che qualcun altro lo sappia. Quindi, niente voce femminile. Solo una vibrazione: intermittente in caso di sistemi video; continua in caso di sistemi audio; un po' intermittente e un po' continua, in presenza di entrambi i sistemi. E la vibrazione dura solo dieci secondi per non consumare la carica.» «Come funziona?» Harry era raggiante. «Circuiti ad ampio raggio che individuano le apparecchiature emittenti attive su frequenze comprese tra i 50 megahertz e i 30 gigahertz. In più ha un'antenna incorporata che rileva la frequenza oscillatoria orizzontale emessa dalle telecamere. Io l'ho calibrata sul sistema PAL, che è quello più diffuso, ma puoi impostarlo anche per i sistemi NTSC e SECAM, se vuoi. La ricezione non è ottimale, perché l'apparecchio è piccolo e non permette di capire dove siano di preciso le microspie o le telecamere. Inoltre, le telecamere dei grandi sistemi a circuito chiuso che si vedono ogni tanto nelle stazioni del metrò o nei parcheggi sono perlopiù fuori dalla portata di questo affarino.» Peccato, per i sistemi a circuito chiuso. Se davvero fosse esistito uno strumento affidabile e portatile per individuarli, avrei potuto tentare di riprendermi la mia privacy e sfuggire a Tatsu e a chiunque altro. «Non riesci a migliorarlo un po' sul piano della ricezione?» domandai. Harry diede l'impressione di essersi offeso, e io capii che sarebbe stato meglio fargli qualche complimento, prima di rivolgergli quella domanda. «No, con un apparecchio così piccolo», disse, «ci vorrebbe un'antenna molto grande.» Fa niente. Nonostante i suoi limiti, quello strumento sarebbe tornato uti-
le. Lo soppesai in una mano. Avevo naturalmente visto in commercio alcuni modelli dalle funzioni analoghe; mai, però, così piccoli. Era un marchingegno davvero interessante. «Batteria ricaricabile?» domandai. «Certo. Agli ioni litio. Come i cellulari.» Frugò in una tasca della giacca e ne tolse un oggetto in tutto e per tutto simile a un normale carica-batterie da telefonino. «L'ho scaricato per provarlo; quando arriverai a casa dovrai ricaricarlo. E ricordati di farlo tutti i giorni. Non c'è un indicatore del livello di carica né altro del genere. Ho lavorato in velocità, non per l'estetica.» Presi il caricatore e lo posai sul tavolo accanto a me. Quindi estrassi il mio portafoglio e misi via il congegno. Era un oggettino bello e maneggevole. L'avrei esaminato con cura in albergo, naturalmente, per accertarmi che fosse davvero un detector di microspie e non, piuttosto, una microspia. Di Harry mi fidavo: era più che altro una mia fissazione. Rimisi il portafoglio nella tasca dei pantaloni e annuii con espressione compiaciuta. «Ottimo lavoro», dissi. «Grazie.» Lui sorrise. «So che sei un paranoico di professione. O ti portavo questo o una riserva di Valium a vita.» Io risi. «Di' un po': come mai questi orari da vampiro?» «Oh, niente», disse, distogliendo lo sguardo. «È una questione di stile di vita.» Stile di vita? Per quel che ne sapevo, Harry non aveva uno stile di vita. Nella mia immaginazione, era sempre rintanato nel suo appartamento, impegnato a introdursi in reti informatiche lontane, a creare varchi da sfruttare a tempo debito, frapponendo tra sé e la realtà uno schermo di computer. Notai che stava arrossendo. Cristo, il ragazzo era un libro aperto. «Harry, mi stai dicendo che hai una fidanzata?» domandai. Il rossore si intensificò, e io risi. «Che mi venga un colpo», dissi. «Mi fa piacere.» Lui mi osservò per vedere se avevo intenzione di prenderlo in giro. «Non è esattamente una fidanzata.» «Oh, lascia perdere la tassonomia. Come l'hai conosciuta?» «Per lavoro.» Presi il mio bicchiere. «Vuoi raccontarmi i particolari spontaneamente o devo farti tracannare a forza due o tre di questi per scioglierti la-lingua?» Fece una plateale smorfia di disgusto. «Un cliente della società per cui lavoro, un dirigente di una importante azienda di import-export, era molto soddisfatto dei sistemi di sicurezza che gli avevo installato.»
«Evidentemente non si è accorto degli accessi al sistema che ti sei riservato.» Harry sorrise. «Non se ne accorge mai nessuno.» «Insomma il cliente era soddisfatto...» «E il mio capo mi ha portato fuori a festeggiare in un hostess club.» La maggior parte degli occidentali fatica ad afferrare il concetto degli hostess club giapponesi, dove le donne vengono pagate solo per chiacchierare. L'Occidente ammette la mercificazione del sesso, ma si ribella all'idea che anche altre forme di interazione umana possano essere oggetto di transazioni economiche. Queste hostess non sono prostitute, anche se, come le geishe da cui discendono, possono accettare, con certi clienti, di instaurare relazioni extra-lavorative, dopo adeguato corteggiamento. In questi posti, però, i clienti pagano per il semplice piacere di stare in compagnia delle ragazze, bravissime a farti smaltire i postumi di certe riunioni di lavoro, e al limite con la speranza che possa nascerne qualcosa. Se i clienti fossero soltanto in cerca di sesso, potrebbero comprarlo altrove a un prezzo molto più conveniente. «Come si chiama il club?» «Damask Rose.» «Mai sentito nominare.» «Non fanno pubblicità.» «Un posto di lusso, eh?» «Già. Un posto decisamente raffinato. È a Nogizaka, sulla Gaienhigashidori. Se ci andassi tu, probabilmente non ti farebbero entrare.» Scoppiai a ridere. Mi piace quando Harry fa lo spiritoso. «Il tuo capo, insomma, ti ha portato al Damask Rose...» «Sì, e bevendo come una spugna continuava a dire a tutti che io ero un genio del computer. Una delle ragazze, che aveva appena comprato un computer nuovo, mi ha chiesto come si fa a configurare il firewall.» «Bella?» Il rossore ricomparve. «Credo di sì. Mi ha detto che aveva un Mac, perciò mi è piaciuta subito.» Sollevai le sopracciglia. «Non immaginavo che un amore a prima vista potesse fondarsi su cose del genere.» «Io le ho spiegato alcune cose», continuò Harry ignorandomi. «Alla fine della serata mi ha chiesto un numero di telefono per potermi rintracciare nel caso avesse avuto bisogno di altre spiegazioni.» Io risi di nuovo. «Per fortuna! Se si fosse limitata a darti lei il suo nume-
ro, sarebbe morta di vecchiaia senza mai ricevere una tua telefonata.» Lui sorrise, come a riconoscere che probabilmente avevo ragione. «E poi ti ha chiamato...», dissi. «E io sono finito a casa a sua per configurarle tutto il sistema.» «E le hai davvero configurato "tutto il sistema"?» domandai, spalancando gli occhi con aria di scherno. Lui abbassò lo sguardo, ma notai che stava sorridendo. «Be', sai com'è...» «Non avrai intenzione di... penetrare le sue difese, vero?» domandai, incapace di resistere. «No, a lei non farei mai una cosa del genere. Lei è carina.» Cristo, Harry era così ingenuo da non riuscire neppure a cogliere un doppio senso così banale. «Che mi venga un colpo», ripetei. «Sono contento per te.» Lui mi guardò per accertarsi che parlassi sinceramente. «Grazie», disse. Mi avvicinai il bicchiere alle narici, inspirai a fondo, trattenni per un attimo il fiato e poi espirai. «È lei, allora, che ti fa fare le ore piccole?» «Be', il club dove lavora chiude alle tre di notte, e lei ci va tutti i giorni. Se ci aggiungi il tempo per tornare a casa...» «Ho capito», dissi. In realtà, però, mi era un po' difficile immaginare Harry in connessione con qualcuno senza la mediazione di un cavo Ethernet e di un mouse. Era un introverso, un tipo socialmente nullo, senza il minimo contatto umano a parte i colleghi di lavoro, che lui teneva alla larga, e me. Una circostanza che aveva sempre fatto di lui un collaboratore utilissimo. Cercai di figurarmelo in compagnia di una hostess di alto bordo, ma senza successo. Mi sembrava troppo strano. «Non essere stronzo», pensai. «Il fatto di non poter avere una compagna non ti autorizza a prendertela con Harry.» «Come si chiama?» domandai. Lui sorrise. «Yukiko.» Yukiko significa «figlia della neve». «Bel nome», dissi. Harry annuì, con un'espressione lievemente trasognata. «Piace anche a me.» «Fino a che punto le hai spiegato quel che fai?» gli domandai, bevendo un sorso di Lagavulin, con il tono più innocente possibile. In realtà temevo che Harry, nel delirio di quella che aveva l'aria di essere la sua prima storia d'amore, potesse aver esagerato con le chiacchiere.
«Be', lei chiaramente sa di questo mio lavoro di consulenza, ma non... dei miei hobby.» Alludeva alla sua fanatica inclinazione per l'hackeraggio. Un hobby che gli sarebbe potato costare la galera, se le autorità l'avessero scoperto. O la vita, se lo avesse scoperto qualcun altro. «È difficile tenere segrete certe cose», osservai, per metterlo alla prova. «Non vedo come potremmo avere occasione di parlarne», disse, guardandomi. Da dietro una tenda sbucò una cameriera che posò sul banco davanti a Harry quel che lui aveva ordinato. Lui la ringraziò, manifestando un profondo apprezzamento per questa nuova categoria di esseri umani - le donne che lavorano nei ristoranti e nei bar - e io non potei fare a meno di sorridere. Se Harry avesse cominciato ad avere una sua vita sociale, sarebbe diventato meno utile e forse addirittura pericoloso, per me. La sua crescente apertura nei confronti del mondo esterno poteva aprire uno squarcio sulla mia esistenza altrimenti opaca. Ovviamente, se qualcuno fosse riuscito a stabilire un nesso tra Harry e me, anche lui sarebbe stato in pericolo. E malgrado quello che avevo tentato di insegnargli negli anni precedenti sapevo che Harry, alla luce del sole, non sarebbe stato in condizioni di difendersi. «È la tua prima fidanzata?» gli domandai, senza scortesia. «Te l'ho detto: non è esattamente la mia fidanzata», rispose, eludendo la domanda. «Se occupa la tua attenzione al punto che te ne resti a letto fin dopo il tramonto, non mi sembra azzardato utilizzare questa parola.» Lui mi guardò con un'aria indifesa. «È la prima?» insistetti. Lui guardò altrove. «Mi sa di sì.» Non avevo intenzione di metterlo in imbarazzo. «Harry, te lo domando solo perché quando si è giovani si è convinti di poter tenere un piede in due scarpe. Se ti stai solo divertendo, non è necessario che tu le racconti tutto. Anzi, non dovresti dirle nulla. Se però il rapporto diventerà più profondo, avrai molto da riflettere - fino a che punto sarai disposto ad andare, con lei; quanto sono importanti, per te, i tuoi hobby - perché non puoi vivere per metà alla luce del sole e per metà nell'ombra. Credimi, è impossibile. A lungo andare, almeno.» «Non preoccuparti», disse. «Non sono stupido, lo sai.»
«Chi è innamorato è sempre stupido», ribattei. «Fa parte del gioco.» Lo vidi arrossire di nuovo, per la parola che avevo usato e per quello che implicava. A me, però, non interessava sapere con quali parole lui descrivesse, tra sé e sé, quei nuovi sentimenti. So quel che significa vivere murati vivi, isolati da tutti e poi, all'improvviso, incredibilmente, scoprire che una ragazza che avevi desiderato ricambia il tuo sentimento. È una cosa che ti sconvolge le priorità. Cristo, ti ribalta la scala dei valori. Sorrisi amaramente, pensando a Midori. A quel punto, come se mi avesse letto nel pensiero, disse: «C'era una cosa che volevo dirti, ma volevo farlo a quattr'occhi.» «Una cosa piuttosto seria, evidentemente.» «Qualche mese fa ho ricevuto una lettera di Midori.» Scolai il mio Lagavulin prima di rispondere. Visto che la lettera era arrivata da così tanto tempo, quei pochi i-stanti che mi ci vollero per formulare mentalmente una risposta non facevano alcuna differenza. «Sapeva come raggiungerti...» esordii, anche se questo era già evidente. Harry si strinse nelle spalle. «Lo sapeva perché è venuta a casa mia quella volta che abbiamo dovuto decifrare la parte musicale di quel codice a reticolo.» Notai che, nonostante la circostanza, Harry si era sentito in dovere di definire con precisione il ruolo svolto da Midori in quella operazione, per sottolineare il fatto che lui sarebbe stato perfettamente in grado di forzare il codice da solo. Era molto sensibile, su questo punto. «Giusto», ammisi. «Non conosceva il mio cognome. La lettera era indirizzata semplicemente a "Haruyoshi". Per fortuna, altrimenti avrei dovuto traslocare, e sarebbe stata una bella scocciatura.» Per Harry, come per chiunque abbia a cuore la propria privacy, è fondamentale evitare che qualcuno possa stabilire un nesso - attraverso bollette, abbonamento tv, contratto d'affitto - tra il suo nome e il posto in cui abita. Questo tipo di separazione richiede un certo impegno e comporta la creazione di trust revocabili, società a responsabilità limitata e altre coperture giuridiche anonime che possono finire in fumo in un attimo se tua zia Keiko viene a trovarti a casa, si segna il tuo indirizzo e decide di mandarti dei fiori, poniamo, per ringraziarti dell'ospitalità. Il negozio di fiori inserisce il tuo indirizzo nel suo database, che poi rivende a qualche società di marketing la quale, a sua volta, lo vende a cani e porci, cosicché il tuo indirizzo diventa disponibile per chiunque sia dotato di abilità anche minime nel campo dell'hackeraggio o dell'ingegneria sociale. L'unico modo di ricon-
quistare la privacy, in questo caso, consiste nel traslocare e ricominciare tutto daccapo. Se la zia Keiko si limita a spedirti una lettera, ovviamente, l'unica persona in grado di stabilire il collegamento è il postino. Sta al singolo individuo decidere se questo sia o meno un rischio accettabile. Per me sarebbe inaccettabile. Probabilmente anche per Harry. Se però sulla busta c'era scritto solo il suo nome, senza il cognome, allora non c'erano problemi. «Da dove arrivava la lettera?» domandai. «Da New York. Lei vive lì, credo.» New York. Era stato Tatsu a mandarcela, dopo averle detto che ero morto, per proteggerla dal sospetto che potesse ancora essere in possesso del cd-rom che suo padre aveva rubato a Yamaoto e che documentava la vasta rete di corruzione esistente in Giappone con prove sufficienti a far cadere il governo. Il trasferimento a New York era stato probabilmente una scelta saggia, per lei. In America stava facendo carriera. Lo sapevo perché mi tenevo informato. Harry mise una mano in una tasca posteriore dei pantaloni e ne estrasse un foglio di carta ripiegato. «Ecco», disse, porgendomelo. Lo presi e aspettai un istante prima di dispiegarlo, senza curarmi di quello che Harry avrebbe pensato della mia esitazione. Quando mi accinsi a leggerlo vidi che era scritto in giapponese con mano sicura e aggraziata, forse un'eco delle lezioni di calligrafia seguite da bambina, oltre che un riflesso della sua personalità. Haruyoshi-san, a New York fa ancora freddo, e io non vedo l'ora che arrivi la primavera. Penso a Tokyo, dove presto sbocceranno i fiori di ciliegio, e me la immagino bellissima. Di certo avrai ricevuto anche tu la triste notizia della morte del nostro comune amico Fujiwara-san. Mi hanno lasciato intendere che la sua salma è stata riportata negli Stati Uniti per essere sepolta. Io speravo di portare sulla sua tomba una simbolica offerta al suo spirito, ma sfortunatamente non sono riuscita a sapere dove si trova. Se tu dovessi avere informazioni al riguardo e volessi mettermene al corrente, te ne sarei sinceramente grata. Puoi rintracciarmi all'indirizzo che ho trascritto sopra. Spero vivamente che tu stia bene nel fisico e nello spirito. Ti ringrazio in anticipo per la tua sollecitudine. Tua,
Kawamura Midori La rilessi, lentamente, e poi ancora. Dopo di che ripiegai il foglio e lo restituii a Harry. «No, no», disse lui, protendendo le braccia con i palmi delle mani in avanti. «Tienila tu.» Non volevo fargli capire quanto ci tenevo, ma annuii e infilai la lettera in un taschino interno del blazer che indossavo. Segnalai al barista che era il momento giusto per un altro Lagavulin. «Le hai risposto?» gli domandai. «Sì, le ho scritto che so esattamente quello che sa lei, nient'altro.» «E da allora hai più avuto sue notizie?» «Solo un biglietto di ringraziamento. Mi ha chiesto di tenerla informata, nel caso avessi saputo qualcosa, e ha promesso di fare lo stesso.» «Tutto qui?» «Sì.» Mi domandai se Midori ci avesse creduto. Se non avesse ringraziato Harry per la risposta alla sua lettera, sarebbe stato il segno che non ci era cascata, perché, altrimenti, il suo stile non le avrebbe consentito di non rispondere. Il biglietto di ringraziamento, però, poteva anche essere stato inviato in modo automatico. E poteva persino essere una finta, per indurre Harry a crederla soddisfatta, mentre lei non lo era affatto. «Stronzate», commentò una parte di me. «Midori non è così.» Poi, con un sorriso, un'altra parte di me: «Non è come te, vuoi dire.» Non c'era nulla di finto in Midori, mi resi conto, e questa improvvisa consapevolezza mi fece male. L'ambiente che per troppo tempo ho frequentato mi ha costretto a presumere sempre il peggio. Se non altro, ogni tanto mi ricordo ancora di provare a resistere al condizionamento. Non aveva importanza. C'erano troppe cose strane nella storia del cdrom e della mia scomparsa, e lei era troppo intelligente per non averle notate. Ci avevo riflettuto a lungo, nell'ultimo anno, ed ero convinto di sapere quale fosse la sua opinione al riguardo. Dopo quello che era accaduto tra noi, i dubbi sarebbero stati minimi, all'inizio. Non c'era nulla, però, che potesse frenarne la crescita. «In fondo», doveva aver pensato Midori, «il contenuto del cd-rom non è mai trapelato.» La responsabilità di questo era di Tatsu, non mia, ma lei non poteva saperlo. Lei sapeva solo che l'ultimo desiderio di suo padre non era stato esaudito, e che la sua morte, a conti fatti, non era servita a nulla. Si sa-
rebbe nuovamente domandata come facessi io a sapere dove trovare quel cd-rom a Shibuya, avrebbe riesaminato le mie spiegazioni, le avrebbe trovate incoerenti. E allora avrebbe cominciato a riflettere sulla tempistica della mia comparsa, immediatamente dopo la morte di suo padre. Midori sapeva che io avevo una vita nascosta, pur non avendo mai scoperto nulla di preciso al riguardo. Ero della CIA? O appartenevo a una delle fazioni politiche giapponesi? In ogni caso, dovevo avere a che fare con un'organizzazione capace di fare apparire naturale la morte di un uomo assassinato e di insabbiare la questione in modo ragionevolmente efficace. Sì, con tutti questi misteri irrisolti e senza la possibilità, da parte mia, di rassicurarla sull'autenticità della nostra storia, sapevo che alla fine lei avrebbe concluso di essere stata usata. Io, nei suoi panni, l'avrei pensata allo stesso modo. «Venire a letto con me è stato puro opportunismo», doveva aver concluso: «"Certo, perché non spassarsela un po', mentre la uso per ottenere il cd-rom? Poi, quando l'avrò convinta con l'inganno ad aiutarmi, potrò sparire."» Di certo doveva aver respinto questa conclusione, ma sarebbe stato difficile, per lei, scrollarsi di dosso quella sensazione. E di certo si rifiutava di credere a un mio coinvolgimento nella morte di suo padre, ma non sarebbe stata in grado di sbarazzarsi del sospetto. «Mi sono mosso bene?» domandò Harry. Io scrollai le spalle. «Meglio di così sarebbe stato impossibile. Secondo me, però, lei non l'ha bevuta.» «Credi che lascerà perdere?» Questo era l'interrogativo a cui immancabilmente ritornavo. Non ero mai riuscito a risolverlo. «Non lo so», risposi. C'era anche un'altra cosa che ignoravo, una cosa che non avevo alcuna intenzione di condividere con Harry: non ero certo di volere che lei lasciasse perdere. Che cosa gli avevo appena detto? «Non puoi vivere per metà alla luce del sole e per metà nell'ombra.» Ero io il primo a dover seguire il mio stramaledetto consiglio. 4. Salutai Harry più o meno all'una. Il metrò aveva già chiuso, cosicché lui dovette prendere un taxi. Disse che tornava a casa ad aspettare Yukiko. Provai a figurarmi una giovane e avvenente hostess che, dopo aver accumulato in una notte di mance l'equivalente in yen di mille dollari in uno
dei locali più esclusivi di Tokyo, con una grande varietà di ricchi uomini d'affari e politici tra cui scegliersi un amante, correva a casa di Harry dopo il lavoro. Non ci riuscivo proprio. «Non essere così cinico», pensai. D'istinto, però, quella storia non mi convinceva, e io del mio istinto avevo imparato a fidarmi. «È ancora presto. Va' a dare un'occhiata. È sulla strada per tornare all'hotel.» Se però Harry avesse cambiato idea e, invece di andare a casa, fosse passato dal Damask Rose, mi avrebbe scoperto a curiosare nella sua vita. Magari non ne sarebbe rimasto sorpreso, ma non gli avrebbe certo fatto piacere. Le probabilità che Harry decidesse un simile cambiamento di programma, però, visto che Yukiko lo avrebbe comunque raggiunto a casa sua nel giro di un paio d'ore, erano minime. Era un rischio che valeva la pena di correre. Nogizaka, inoltre, distava soltanto una manciata di chilometri. Che problema c'era?! Da un telefono pubblico, chiesi informazioni al servizio abbonati, ma in elenco non risultava nessun Damask Rose. Be', Harry l'aveva detto che non facevano pubblicità. Potevo sempre andare a dare un'occhiata. Raggiunsi Nogizaka a piedi e mi misi a passeggiare su e giù lungo la Gaienhigashi-dori finché non trovai il locale. Ci volle un po', ma alla fine ci riuscii. Nessuna insegna; solo una piccola rosa rossa su un tendone nero. Ai lati dell'ingresso c'erano due neri enormi che avrebbero fatto la loro bella figura come lottatori di suino. Indossavano abiti di ottima fattura e, date le dimensioni, creati su misura. Nigeriani, probabilmente, che - grazie alla loro mole, alle abilità manageriali e alla relativa facilità con la lingua sono una delle poche comunità straniere integratesi in Giappone, sia come personale di medio livello sia come buttafuori e guardaspalle nel settore dello spettacolo. Il mizu shobai, ossia l'ambiente dello spettacolo e del piacere, è uno dei pochi in cui il Giappone può ragionevolmente vantare un certo grado di internazionalizzazione. Mi fecero un inchino e mi aprirono i due battenti della porta a vetri del locale, rivolgendomi ognuno un baritonale irasshaimase. Benvenuto. Uno di loro mormorò qualcosa in un microfonino fissato con discrezione al bavero della giacca.
Scesi una breve rampa di scale. Un giapponese rubizzo dall'aria gioconda, probabilmente sulla quarantina, mi accolse in un piccolo vestibolo. Dalla sala proveniva un mega-mix di techno-pop giapponese. «Nanmeisama desho ka?» mi domandò Mr Rubizzo. Quanti? «Uno solo», risposi in inglese, mostrando un dito. «Kashikomarimashita.» Certo. Con un cenno mi invitò a seguirlo. La sala era rettangolare, delimitata su due lati da palchi estremamente semplici, con una pertica di ottone al centro e pareti a specchio sullo sfondo. Uno dei palchi era occupato da una ragazza alta e dai capelli lunghi e biondi, in tacchi alti e tanga verde. Danzava con movenze un po' troppo sussultorie per i miei gusti, ma riusciva comunque a catalizzare l'attenzione di gran parte degli avventori. «Dev'essere russa», pensai. Corporatura forte e seno grande. Una prelibatezza, in Giappone. Harry non aveva fatto parola dello spettacolo dal vivo. Forse, per imbarazzo. La sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto si fece più acuta. Sull'altro palco era in scena una ragazza che sembrava un miscuglio di giapponese e mediterraneo o latino. Un miscuglio bellissimo. Aveva quei capelli neri simili a seta che molte donne giapponesi amano deturpare tingendoli con il chapatsu, portandoli corti e pettinandoli da una parte. Anche il taglio degli occhi era giapponese, e di corporatura era piuttosto minuta. Ma la sua pelle, liscia e dorata come caramello fuso, alludeva ad altre radici, forse africane o mulatte. Anche il seno e i fianchi -deliziosamente pieni e vagamente incongrui rispetto alla struttura fisica dalle proporzioni più giapponesi - suggerivano origini almeno in parte straniere. Si muoveva bene aggrappata alla pertica: si afferrava in alto e sollevava il corpo in posizione orizzontale, per poi scendere a spirale fino a terra al ritmo della musica. C'era una vitalità autentica nei suoi movimenti, e lei sembrava del tutto indifferente al fatto che il pubblico fosse quasi interamente concentrato sulla bionda. Mr Rubizzo mi indicò una sedia e un tavolo liberi al centro della sala. Dopo l'occhiata di routine per accertarmi che la postazione concedesse un'adeguata visuale sull'ingresso, mi accomodai. Non mi dispiacque neppure il fatto che quel tavolo godesse di un'ottima prospettiva sul palco dove si stava esibendo la ragazza dai capelli scuri. «Wow!» esclamai, guardandola. «Già, è davvero splendida», ribadì Mr Rubizzo, in inglese. «Le andrebbe di conoscerla?»
La osservai ancora per un attimo prima di rispondere. Non avevo voglia di impelagarmi con ragazze giapponesi. Sarebbe stato più facile instaurare un rapporto e, di conseguenza, ricavare informazioni chiacchierando con una straniera e presentandomi come straniero. Alla fine, annuii. «Lo dirò alla ragazza.» Mi porse la lista dei drink, fece un inchino e si allontanò. La lista era scritta su un unico foglio di spessa pergamena color crema, su due colonne, in un'elegante grafia giapponese, con una piccola e discreta rosa rossa a piè di pagina. Restai sorpreso nel notare che comprendeva un'ampia gamma di whisky single malt. Uno Springbank invecchiato venticinque anni che avevo cercato a lungo. E un Talisker altrettanto invecchiato. Sarei anche potuto rimanere lì un bel po'. Quando arrivò la cameriera, ordinai lo Springbank. Diecimila yen al bicchiere. La vita, d'altronde, è breve. Le ragazze al lavoro come hostess erano all'incirca una dozzina. Per metà erano giapponesi; le altre sembravano europee. Tutte attraenti e vestite con gusto. La maggior parte era già alle prese con i clienti, ma ce n'erano alcune libere. Nessuna di queste, però, si avvicinò al mio tavolo. Mr Rubizzo doveva averle informate che io avevo già fatto la mia scelta. Molto efficiente. Al tavolo accanto al mio era seduto un giapponese circondato da tre hostess adulanti. D'acchito, questo tizio pareva giovane, con denti bianchissimi e capelli neri pettinati all'indietro su un viso abbronzato e privo del benché minimo segno. A guardarlo più da vicino, però, si vedeva che il suo aspetto era fasullo. I capelli erano tinti, l'abbronzatura frutto di una lampada solare, il viso immacolato probabilmente dovuto al Botox e alla chirurgia plastica, i denti capsule di porcellana. Le droghe, il coltello, persino il seguito di giovani donne attraenti dagli adoranti sorrisi ben pagati servivano solo a sostenere quel vacillante muro di rimozione con cui cercava di negare le inevitabili ingiurie della vecchiaia e della morte. La musica tedino sfumò, e la ragazza dai capelli neri atterrò vorticando lentamente per l'ultima volta, le gambe avvinte al palo, la schiena inarcata e la testa rivolta all'indietro verso la platea. Anche la bionda stava concludendo la sua performance, anche se in modo meno spettacolare. Il pubblico applaudì. La cameriera mi portò lo Springbank, simile ad ambra luccicante nel cristallo. Avvicinai il bicchiere alle narici, chiusi gli occhi per un attimo e in-
spirai un'aria fruttata di mare pulito. Bevvi un sorso. Salso e salmastro, certo, ma non mancava un vago accenno di frutta. Il retrogusto era secco e persistente. Non male per un liquore invecchiato venticinque anni. Bevvi un altro sorso e mi guardai intorno. Non ebbi la benché minima sensazione di pericolo. «Questo posto potrebbe essere tranquillo», pensai. Il locale aveva sicuramente dei legami con la malavita organizzata, ma quella era la regola nel mizu shobai, e non solo in Giappone bensì in tutto il mondo. Forse Harry aveva semplicemente avuto fortuna. «Forse.» Pochi minuti dopo, da dietro il palco comparve la ragazza dai capelli neri. Scese alcuni gradini e venne verso di me. Aveva indossato un abito da sera nero senza spalline. Un sottile braccialetto di diamanti le cingeva il polso sinistro. «Il dono di un ammiratore», pensai. Immaginai che ne avesse una schiera. «Posso accomodarmi?» domandò. Il suo giapponese era leggermente ravvivato da un'inflessione calda, forse spagnola o portoghese. «Prego», risposi io in inglese, alzandomi in piedi e aiutandola a prendere posto. «Va bene se parliamo in inglese?» «Certo», rispose lei. «Credevo che... Sei americano?» Annuii. «I miei genitori sono giapponesi, ma io sono cresciuto in America. Mi sento più a mio agio quando parlo inglese.» Da dietro sospinsi leggermente la sua sedia, mentre lei si accomodava. Il vestito era allacciato sulla schiena per mezzo di stringhe intrecciate. Negli interstizi la sua pelle liscia risplendeva. Mi sedetti accanto a lei. «Mi è piaciuto molto il tuo spettacolo», dissi. Sapevo che dovevano averglielo già detto migliaia di volte, e il suo sorriso ne fu la conferma. Il suo sorriso sembrava dire: «Ovvio che ti è piaciuto.» A me andava bene così. Volevo che lei sentisse di avere la situazione sotto controllo e si convincesse ad abbassare la guardia. Avremmo bevuto un paio di bicchieri, ci saremmo rilassati e ci saremmo conosciuti un po' più a fondo; solo allora io avrei cercato di sondarla per scoprire quel che davvero mi interessava. «Come mai a Tokyo?» mi domandò. «Affari. Sono un contabile. Una volta all'anno vengo in Giappone per incontrarmi con alcuni clienti della società per cui lavoro.» Era un'ottima copertura. Nessuno insiste a farti domande sul tuo lavoro, se racconti di essere un contabile. Temono che tu possa rispondere davvero.
«Io, comunque, mi chiamo John», aggiunsi. Lei mi porse la mano. «Naomi.» Le sue dita mi parvero piccole, nella mia mano, ma la stretta era salda. Cercai di indovinare che età avesse: trent'anni al massimo, probabilmente meno. Sembrava giovane, ma l'abito e i modi erano estremamente sofisticati. «Gradiresti qualcosa da bere, Naomi?» «Tu che cosa stai bevendo?» «Una cosa speciale, se ti piacciono i single mali.» «Adoro i single malt. Soprattutto quelli invecchiati di Islay. Si dice che gli anni ne spengono il fuoco, ma ne conservano il calore. E questo a me piace.» «Sei in gamba», pensai, guardandola. Aveva una bocca bellissima: labbra piene; gengive rosa splendenti; denti bianchi e perfettamente allineati. Gli occhi erano verdi. Sul naso e intorno a esso si intravedeva un piccolo ventaglio di lentiggini, appena percepibile sulla pelle color caramello. «Quello che sto bevendo non è di Islay», dissi, «ma ha comunque un po' del gusto dell'isola. Fumo e torba. È uno Springbank.» Lei sollevo le sopracciglia. «Quello invecchiato venticinque anni?» «La conosci bene, la lista dei drink, eh?» dissi, annuendo. «Te ne ordino uno?» «Dopo una notte trascorsa a bere Suntory annacquato? Sarebbe fantastico.» Fantastico, eccome! Il suo compenso prevedeva anche una percentuale sulle consumazioni dei clienti. Un paio di botte da diecimila yen, e la serata poteva considerarsi più che proficua. Ordinai un altro Springbank. Lei mi rivolse qualche domanda: come mai ero un tale esperto di whisky single mali; in quale città degli States abitavo; quante volte ero stato a Tokyo. Si trovava bene nel suo ruolo, e io la lasciai recitare. Finito il primo giro, le domandai se avesse ancora voglia di bere. Lei sorrise. «Stai pensando a un Talisker.» «Ehi, sai leggere nel pensiero!» «Conosco la Usta. E so che cos'è il buon gusto. Sì, lo bevo volentieri.» Ordinai due Talisker. Erano eccellenti: corposi e pepati, con un retrogusto che durava in eterno. Bevemmo e chiacchierammo un altro po'. Quando anche il secondo drink fu quasi finito, cominciai a cambiare argomento.
«Di dove sei?» le domandai. «Non sei giapponese.» Quest'ultima osservazione la proposi esitando, per sembrarle inesperto in questo genere di cose. «Mia madre era giapponese. Io sono brasiliana.» «Che mi venga un colpo», pensai. Avevo in programma un viaggio in Brasile. Un lungo viaggio. «Brasiliana di dove?» «Bahia.» «Di Salvador?» le domandai, per capire da che città venisse. «Sì!» esclamò, con il primo sorriso sincero della serata. «Come mai conosci così bene il Brasile?» «Ci sono stato diverse volte. La società per cui lavoro ha clienti in tutto il mondo. Un pae brasileiro e uma mae japonesa... è urna combinaçào bonita», dissi, facendo appello al portoghese che avevo studiato con le audiocassette. Un padre brasiliano e una madre giapponese... è una bella combinazione. Gli occhi le si illuminarono e le labbra le si schiusero a formare una O perfetta. «Obrigado!» rispose. Grazie. E poi: «Você fala português?» Parli portoghese? Fu come se la persona reale si fosse improvvisamente riappropriata del corpo della hostess. I suoi occhi, la sua espressione, la sua postura si ravvivarono, e io percepii di nuovo quell'energia vitale che l'aveva animata durante lo spettacolo. «Solo un po'», risposi, tornando all'inglese. «Sono portato per le lingue e cerco sempre di imparare qualcosa dovunque vado.» Lei scosse la testa lentamente e mi guardò come se solo in quell'istante mi avesse visto. Bevve un sorso del suo whisky e lo finì. «Ti va di berne un altro?» le domandai. «Sim!» rispose lei in portoghese, senza esitazioni. Sì! Ordinai altri due Talisker e poi le dissi: «Raccontami del Brasile.» «Che cosa vuoi sapere?» «Parlami della tua famiglia.» Si appoggiò all'indietro e accavallò le gambe. «Mio padre è un brasiliano di sangue blu, di una delle famiglie più vecchie. Mia madre era giapponese di seconda generazione.» Nel crogiolo delle popolazioni che vivono in Brasile ci sono all'incirca due milioni di abitanti di origine giapponese, per effetto dell'ondata migratoria iniziata nel 1908, ai tempi in cui il Brasile abbisognava di manodope-
ra e il Giappone imperiale cercava di creare comunità giapponesi in varie parti del mondo. «È da tua madre, allora, che hai imparato il giapponese...» Lei annuì. «Il giapponese da mia madre, il portoghese da mio padre. Mia madre è morta quando io ero piccola e mio padre ha assunto una governante inglese per farmi imparare anche l'inglese.» «Da quanto tempo vivi in Giappone?» «Tre anni.» «Sempre a lavorare in questo club?» Lei scosse la testa. «È solo un anno che lavoro qui. Prima insegnavo inglese e portoghese qui a Tokyo nell'ambito del JET.» Il Japan Exchange and Teaching, o JET, è un programma finanziato dal governo per promuovere l'arrivo in Giappone di stranieri con il compito di insegnare la loro lingua d'origine. A giudicare dalla diffusione media della lingua inglese tra i giapponesi, il JET doveva funzionare piuttosto bene. «Hai imparato a ballare tenendo lezioni di lingua?» le domandai. Lei scoppiò a ridere. «Ho imparato a ballare ballando. Quando sono arrivata qui, un anno fa, ero così imbarazzata che quasi non riuscivo a muovermi, sul palco.» Io sorrisi. «Si fa fatica a immaginarlo.» «Te lo assicuro. Sono cresciuta in una famiglia molto per bene. Non avrei mai pensato di fare una cosa del genere, da grande.» La cameriera ci raggiunse con due bicchieri di cristallo-i due Talisker - e due bicchieri d'acqua. Naomi, dimostrando esperienza, versò una goccia d'acqua nel whisky, roteò una sola volta il bicchiere e se lo portò all'altezza del naso. Aveva evidentemente abbandonato la maschera da hostess, perché altrimenti avrebbe atteso il via libera dal cliente prima di bere. Facevamo progressi. «Mmmm», mugolò lei. Brindammo e bevemmo. Lei socchiuse gli occhi. «Ah», disse lei, «che buono...» Io sorrisi. «Come ci sei arrivata al celeberrimo Damask Rose?» Lei si strinse nelle spalle. «Nei primi due anni in Giappone, il mio salario annuo era di circa tre milioni di yen. Alla sera davo qualche lezione per arrotondare. Uno dei miei studenti mi ha detto che alcuni suoi conoscenti stavano per aprire un locale dove avrei potuto guadagnare molto di più. Sono venuta a dare un'occhiata, ed eccomi qui.» Tre milioni di yen all'anno: più o meno venticinquemila dollari. «Be', di-
rei che il miglioramento è notevole», dissi, guardandomi in giro. «È un buon posto. Guadagniamo soprattutto con la lap dance per clienti singoli. Solo ballare, senza toccare. Se vuoi, dopo ti faccio vedere, ma senza fretta.» La lap dance era il suo pane quotidiano. Il fatto che ci avesse pensato solo di sfuggita mi parve un ulteriore ottimo segno. La guardai. Era davvero deliziosa, ma io ero lì per altre ragioni. «Magari più tardi», dissi. «Mi piace molto parlare con te.» Lei sorrise, forse lusingata. A giudicare dalla sua espressione, il mio atteggiamento dev'esserle parso una boccata d'aria fresca. Bene. Ricambiai il sorriso. «Parlami ancora della tua famiglia.» Bevve un altro sorso di Talisker. «Ho due fratelli più grandi. Sono tutt'e due sposati e lavorano nell'azienda di famiglia.» «Di che si tratta?» «Agricoltura. La tradizione di famiglia prevede che i maschi entrino nell'azienda.» La risposta mi sembrò deliberatamente vaga. Per quel che ne sapevo, poteva trattarsi di caffè, tabacco, canna da zucchero o una combinazione delle tre cose. O ancora di patrimoni immobiliari. Aveva lasciato intendere che la sua famiglia era ricca, ma con molta discrezione. «E le donne che cosa fanno?» domandai. Lei rise. «Le donne studiano qualcosa di banale al college, per avere l'istruzione necessaria a diventare brave conversatrici alle feste, dopo di che si sposano con i rampolli delle famiglie giuste.» «A quanto pare, tu hai fatto una scelta diversa.» «Fino al college ci sono arrivata - ho studiato storia dell'arte - ma mio padre e i miei fratelli volevano che subito dopo io mi sposassi, e io proprio non mi sentivo pronta.» «Perché sei venuta proprio in Giappone?» Lei guardò verso l'alto e serrò le labbra. «È sciocco, lo so, ma ogni volta che qualcuno parla giapponese, mi sembra di sentire mia madre. Inoltre, cominciavo a perdere l'uso di questa lingua che lei mi ha insegnato quand'ero bambina, e mi sembrava di perdere una parte di lei.» Per un istante mi venne in mente mia madre. Era morta mentre io ero in Vietnam. «Non è affatto sciocco», dissi. Restammo per un po' in silenzio. «Adesso!» pensai. «Ti piace lavorare qui?» le domandai.
Lei si strinse nelle spalle. «Non mi lamento. Gli orari sono assurdi, ma si guadagna bene.» «E i gestori vi trattano bene?» Scrollò nuovamente le spalle. «È gente tranquilla. Nessuno ci forza a fare cose che non vogliamo fare.» «In che senso?» «Be', sai com'è, quando fai la lap dance trovi sempre il cliente che chiede qualcosa in più. Se i clienti sono soddisfatti, tornano e spendono tanti soldi. Perciò in molti posti come questo i gestori fanno pressione affinché le ragazze esaudiscano i desideri dei clienti e facciano anche altre cose.» Adottai un'espressione adeguatamente preoccupata. «Altre cose?» Lei liquidò l'argomento con il cenno di una mano. «Niente», disse. Dovevo cambiare approccio! «E le altre ragazze?» domandai, guardandomi intorno. «Da dove vengono?» «Oh, da tutto il mondo.» Indicò una bellissima ragazza alta e castana che indossava un lungo abito rosso di paillettes e stava ammaliando Botox Man. «Quella è Elsa, dalla Svezia. E quella è Julie, canadese. La ragazza che ballava sul palco di fronte al mio si chiama Valentina ed è russa.» «E le giapponesi?» «Quelle sono Mariko e Taeka», disse, indicando due ragazze minute sedute a un tavolo in un angolo della sala che avevano appena detto o fatto qualcosa di spiritoso, suscitando le risate dei loro due clienti, probabilmente americani e chiaramente sbronzi. Naomi si guardò in giro e aggiunse: «Non vedo Emi né Yukiko. Forse si stanno preparando per salire sul palco.» «Mi sembra un ottimo assortimento», osservai. «Andate d'accordo?» Lei si strinse nelle spalle. «È come dappertutto. Di alcune colleghe sono amica; ce ne sono altre, invece, che non mi fanno impazzire.» Sorrisi, come per prepararmi a un po' di pettegolezzo. «Di chi sei amica? E quali sono quelle con cui non vai d'accordo?» «Be', io vado d'accordo praticamente con tutte.» Era una risposta evasiva a una domanda che aveva un altro obiettivo. La sua freddezza era ammirevole. La musica house sfumò e fu sostituita da un'altra dose di techno-pop giapponese. Nello stesso istante, due ragazze in topless e tacchi alti comparvero in scena, una per palco. «Ecco, quella è Emi», disse Naomi, indicando la bella e formosa ragazza sul palco più lontano. Poi, voltandosi, fece un cenno verso il palco più vi-
cino. «E quella è Yukiko.» Eccola, finalmente! La osservai: era alta, e i suoi capelli nerissimi, alla luce dei riflettori che illuminavano il palco, sfavillavano come un liquido sotto la luna. Ricadevano a onde sulla morbida linea delle sue spalle, oltre le ombre alluvionali dei suoi fianchi e intorno alla curva del sedere. Aveva una struttura fine e una pelle bianca e delicata, zigomi alti e un seno piccolo e proteso verso l'alto. Con i capelli raccolti e un vestito adatto sarebbe sembrata la cortigiana più raffinata del mondo. «Come può una ragazza del genere stare con Harry?» pensai. «È assurdo.» «È bella», dissi, spinto dalla sensazione che quella apparizione esigesse un qualche commento. «Sono in molti a pensarla come te», disse Naomi. C'era qualcosa di insinuante in questa osservazione così deliberatamente vaga. «E tu non lo pensi?» domandai. Lei fece spallucce. «Non è il mio tipo.» «Ho l'impressione che non ti sia simpatica.» «Diciamo che lei è disposta a fare cose che io non faccio.» Con Harry? «Sarei un bugiardo se ti dicessi di non essere curioso.» Lei scosse la testa, e io capii di trovarmi di nuovo in un vicolo cieco, nonostante i tre whisky. Figlia della Neve, eccome! C'era qualcosa di gelido e di calcolato nella bellezza di quella ragazza. C'era qualcosa di strano, ma come fare per dirlo a Harry? Mi immaginai la conversazione. «Harry, sono andato al Damask Rose per verificare quello che mi avevi detto. Credimi, quella ragazza è troppo raffinata per te. E poi, in generale, ho avuto una brutta sensazione. Stai alla larga.» Sapevo bene quale fosse la condizione mentale di Harry: lei doveva sembrargli la cosa più bella che gli fosse mai capitata in tutta la sua vita, e qualunque cosa o persona minacciasse questa piacevole sensazione sarebbe stata ricondotta a cause di comodo o ignorata. Il consiglio di un amico si sarebbe rivelato inutile. O peggio. Non avrei cavato altro da Naomi. Avrei fatto qualche ricerca supplementare al mio ritorno a Osaka. Harry era un amico, e io glielo dovevo. Scoprire le vere intenzioni di quella ragazza non sarebbe stato difficile. Convincere Harry sarebbe stato tutt'altro paio di maniche. «Vuoi stare a guardarla?» domandò Naomi.
Io scossi la testa. «Scusami. Stavo pensando ad altro.» Parlammo ancora un po' del Brasile. Lei mi raccontò della grande varietà etnica e culturale, data dal particolare miscuglio di europei, indiani, giapponesi e africani occidentali; dell'atmosfera di allegria, della musica e dello sport; delle ricchezze e delle povertà estreme del paese; e soprattutto della sua bellezza, con le migliaia di chilometri di coste spettacolari, le vaste pampas al sud, l'inesplorato bacino verde dell'Amazzonia. Molte di queste cose le sapevo già, ma fu piacevole ascoltarla e guardarla mentre parlava. Pensai a quello che mi aveva detto di Yukiko. «Diciamo che lei è disposta a fare cose che io non faccio.» Significava soltanto che Yukiko era in quel giro da più tempo. E l'innocenza è così fragile... Avrei potuto chiedere a Naomi un numero di telefono, dicendo che la mia permanenza a Tokyo si sarebbe prolungata, o qualcos'altro del genere. Naomi era troppo giovane, ma mi ero trovato bene con lei. Suscitava in me emozioni confuse: un senso di affinità per il fatto di essere entrambi sanguemisto e di avere sofferto da bambini; un istinto paterno che mi spingeva a proteggerla dagli errori che avrebbe commesso; un mesto desiderio sessuale che era, in realtà, un'elegia per Midori. Si stava facendo tardi. «Ti dispiace se tralasciamo la lap dance?» le domandai. Lei sorrise. «Figurati...» Mi alzai per andarmene, e lei si alzò con me. «Aspetta», mi disse. Prese una penna. «Dammi la tua mano.» Io le porsi la sinistra. Lei la afferrò e cominciò a scrivermi sul palmo. Scriveva lentamente. Le sue dita erano calde. «Questo è il mio indirizzo e-mail privato. Non lo do mai ai clienti; ti prego, perciò, di non distribuirlo in giro. La prossima volta che vai a Salvador, fammelo sapere: ti svelerò qualche bel posto da visitare.» Sorrise. «E se ripassi da Tokyo, sarei felice di avere tue notizie.» Sorrisi guardandola negli occhi verdi, e il mio sorriso mi parve stranamente triste. Forse, però, lei non si accorse di nulla. «Non si sa mai», dissi. Uscendo, pagai il dovuto in contanti. Prelevai un bigliettino pubblicitario del locale e salii le scale senza voltarmi indietro. L'aria del primo mattino, a Nogizaka, era fredda e leggermente umida. Le luce dei lampioni formava a terra pozze giallastre. IL marciapiede era
umido di rugiada urbana. Tutt'intorno, Tokyo dormiva senza sogni, indifferente. «Addio...» pensai, e mi avviai a piedi verso l'albergo. 5. Andai diritto a letto, ma non riuscii a dormire. Continuavo a pensare a Harry... A Harry e a Yukiko. C'era qualcosa di strano, ne ero certo. Che cosa voleva quella ragazza - o la gente per cui lei lavorava - da uno come Harry? Immaginai che Harry si fosse fatto dei nemici con una delle sue acrobazie da hacker. Se anche ciò fosse stato vero, però, risalire a lui non era così semplice. Inoltre, a quale scopo mettergli alle costole la ragazza? Harry mi aveva detto di avere conosciuto Yukiko una sera che il suo capo l'aveva portato al Damask Rose per «festeggiare». Se la ragazza era una spia, allora il capo di Harry doveva essere complice della fregatura. Ci rimuginai a lungo. Considerai l'opportunità di indagare sul boss di Harry. Avrei potuto cercare di scoprirne il nome e l'indirizzo, per poi intercettarlo una mattina, per strada, mentre andava al lavoro. Allettante, ma se anche avessi trovato le informazioni che mi servivano, l'incidente avrebbe creato problemi a Harry. Niente da fare. «Okay, cambiamo approccio.» Magari Harry suscitava l'interesse di qualcuno solo come tramite per arrivare a me. «Nessuno sa dei miei rapporti con Harry», pensai. «Neanche Tatsu.» C'era Midori, però. Lei conosceva l'indirizzo di Harry. Gli aveva mandato una lettera. «No, non mi convince.» Mi alzai e mi misi a camminare avanti e indietro per la stanza. Midori aveva delle conoscenze nel mondo dello spettacolo. Poteva averle utilizzate per mettere qualcuno alle calcagna di Harry nella speranza di trovare me? Pensai all'ultima notte che lei e io avevamo trascorso all'Imperial Hotel, a come, a un certo punto, ci eravamo trovati in piedi, io ad abbracciarla da dietro con le dita intrecciate alle sue, mi tornò in mente il profumo dei suoi capelli, il suo sapore. Scacciai i ricordi. Mi resi conto di non avere, al momento, gli elementi per stabilire chi ci fosse dietro l'improbabile storia d'amore di Harry. Perciò, lasciai da parte
Midori e provai a concentrarmi sul movente, invece che sul mandante. Io sono un bersaglio difficile da colpire perché non ho punti fermi nella vita - né occupazione né indirizzo né soci conosciuti - da sfruttare per arrivare a me. Se davvero qualcuno era riuscito a stabilire un legame tra Harry e me, costui allora un punto di riferimento se l'era procurato. E molto probabilmente ne avrebbe approfittato. Doveva esserci qualcuno che sorvegliava Harry. Non solo attraverso Yukiko. Qualcuno di certo lo teneva d'occhio. Quando l'avevo incontrato al Teize, però, nessuno l'aveva seguito. Così, almeno, mi aveva detto lui. In ogni caso, all'uscita, nessuno aveva seguito me. Decisi di tentare un esperimento. Era un po' rischioso, ma non come la prospettiva di parlare apertamente con Harry della sua situazione, data la sua attuale condizione psicologica. A questo scopo, avrei dovuto trattenermi a Tokyo una notte in più del previsto. Nessun problema. Nel periodo che aveva preceduto l'eliminazione del sollevatore di pesi avevo soggiornato in una serie di anonimi alberghi della città - mai più di una settimana per albergo, per non attirare troppo l'attenzione - e la prenotazione al New Otani, dove risiedevo al momento, era valida per altre tre notti. Guardai l'orologio digitale posato sul comodino. Erano le quattro di notte passate. Cristo, cominciavo a fare gli orari del mio amico malato d'amore. L'avrei chiamato verso sera, quando saremmo stati entrambi svegli, e lui - con Yukiko al Damask Rose - presumibilmente solo. A quel punto, in base al risultato del mio piccolo esperimento, avrei deciso come parlargli. Tornai a letto. L'ultimo pensiero, prima di scivolare nel sonno, lo riservai a Midori e al suo desiderio, rivelato nella lettera scritta a Harry, di portare un'offerta al mio spirito. Mi svegliai rinfrancato. A una cert'ora avrei chiamato Harry e fissato con lui un appuntamento per la serata. Prima, però, volevo definire un SDR che gli avrei chiesto di eseguire per raggiungere il luogo dell'incontro. Per determinare l'SDR impiegai buona parte del pomeriggio. Ogni elemento andava studiato con cura, se volevo che quel percorso precauzionale non risultasse inutile. Doveva dipanarsi in zone della città che Harry già conosceva, perché lui non avrebbe avuto il tempo per impratichirsi. Inoltre, in coincidenza di certe svolte, anche il tempismo avrebbe avuto la sua
importanza, e in fase di preparazione dovetti percorrere a piedi sia il tragitto previsto per Harry sia il mio, per accertarmi che si incrociassero secondo i miei piani. Lungo la strada, presi attentamente nota di tutto su alcuni fogli di carta bianca che avevo comprato. Quando ebbi finito, mi fermai in un caffè, approfittandone per redigere una mappa annotata su un unico foglio. Quindi, raggiunsi Shin-Okubo, a nord di Shinjuku, roccaforte della mafia coreana, dove tra medici senza licenza e negozi privi di insegne, nascosti all'interno di edifici fatiscenti, potei acquistare in contanti un cellulare clonato senza dover presentare documenti di identità. La tappa successiva fu Iikura, il quartiere in cui abitava Harry, subito a sud di Roppongi, dove, non lontano dal suo appartamento, trovai un Lawson's, un super-mercatino di fascia bassa che faceva proprio al caso mio. Indugiai nel settore dei giornali e infilai la mappa ripiegata in una delle riviste lì esposte. Lo chiamai da un telefono pubblico alle sette di sera. «Sveglia, dormiglione!» gli dissi. «Ehi, che succede?» mi domandò. «Non credevo di risentirti così presto.» Non aveva la voce assonnata. Forse si era alzato prima del solito per salutare Yukiko, prima che lei andasse al lavoro. «Sentivo la tua mancanza», dissi. «Sei solo?» «Sì.» «Ho bisogno di un favore.» «Di' pure.» «Sei libero in questo momento?» «Sì.» «Bene. Ho bisogno che tu esca e mi chiami da un telefono pubblico. Ce n'è uno vicino al Lawson's in Azabu Iikura Katamachi, sulla sinistra guardando il negozio. Usa quello. Ti do il mio numero.» «Questa linea è sicura, lo sai.» «Non si sa mai. È una cosa importante.» Utilizzai il nostro solito codice per dargli il numero. Dieci minuti dopo, il mio cellulare squillò. «Allora, cosa c'è di così importante?» mi domandò. «Ho il sospetto che tu possa avere qualcuno alle costole.» Ci fu un breve silenzio. «Stai scherzando?» «Smettila di guardarti alle spalle. Se in questo momento c'è qualcuno
che ti sta seguendo, non deve accorgersi di nulla. In ogni caso, non potresti vederli.» Altro silenzio. Poi: «Non capisco. Con tutta l'attenzione che ci metto...» «Lo so.» «Da cosa nasce questo sospetto.» «Non al telefono.» «Vuoi che ci incontriamo?» «Sì, ma prima devi recuperare una cosa. Ho infilato un biglietto tra l'ultima pagina e la copertina della penultima copia di "Tv Taro" di questa settimana nel Lawson's che hai di fronte. Entra e recupera il biglietto. Fa' in modo di sembrare naturale, se c'è qualcuno nei paraggi. Prendi un cartone di latte, del cibo in scatola, come se stessi facendo una piccola spesa per una cenetta solitaria. Dopo di che porterai tutto a casa, lascerai passare mezz'ora e poi uscirai per chiamarmi da un altro telefono pubblico. Preparati per una camminata di due ore.» «Okay.» Passò la mezz'ora concordata, e il mio cellulare squillò di nuovo. «Trovato?» domandai. «Sì. Ho capito cos'hai in mente.» «Bene. Segui il percorso segnato. Esci alle otto e mezzo in punto. Quando avrai finito, aspettami nel posto che ti ho indicato sul biglietto. Sai già come interpretare questa indicazione.» La mia allusione alla necessità di «interpretare» serviva a ricordargli di non prendere alla lettera il luogo indicato, bensì di consultare le pagine gialle di Tokyo e utilizzare il nostro sistema abituale per determinare l'effettivo luogo dell'incontro. Se davvero qualcuno stava seguendo Harry e avesse per caso deciso di fermarlo in quel momento, gli avrebbe, trovato addosso il biglietto, avrebbe letto il luogo dell'incontro lì indicato e mi avrebbe teso un agguato nel posto sbagliato. «Ho capito», disse. «Sta' tranquillo. Non c'è niente di cui preoccuparsi. Quando ci vediamo, ti spiego tutto. E non ti inquietare se arrivo con un po' di ritardo.» «D'accordo. Ci vediamo dopo.» Riagganciai. Harry non era sorvegliato, quando ci eravamo incontrati al Teize, ma questo non significa che in precedenza non lo fosse. Gli avevo insegnato a cominciare gli SDR in modo poco evidente, comportandosi normalmente, per convincere eventuali pedinatori ad abbassare la guardia. Questo tipo di
atteggiamento, però, andava bene solo all'inizio. Andando avanti, questa procedura deve farsi più aggressiva e tendere meno a convincere gli inseguitori che a costringerli a tradirsi. Si scende dal metrò e si aspetta finché la banchina non è deserta, dopo di che si sale sul treno che va nella direzione opposta. Si svoltano angoli e ci si ferma per vedere se subito dopo qualcuno gira lo stesso angolo in fretta e furia. Si fa ampio uso di scale mobili, che costringono il sorvegliante a stare addosso al sorvegliato, se non vuole farsi seminare. E così via. In sostanza, meglio fare la figura dell'agente segreto in missione che guidare i cattivi alla fonte che si vuole proteggere. Harry, venendo al Teize per incontrarmi, doveva aver osservato questa procedura. E con l'intensificarsi dei suoi stratagemmi anti-pedinamento, i suoi inseguitori si erano trovati a dover scegliere se farsi scoprire oppure lasciar andare la preda per non metterla in allarme e ritentare un'altra volta. Se costoro avessero optato per la seconda soluzione, anche in quel caso Harry si sarebbe presentato pulito all'incontro, ignaro di essere stato seguito fino a poco prima. Inoltre, vedendolo adottare quelle sfacciate tattiche anti-pedinamento, i suoi inseguitori avrebbero dedotto che Harry aveva qualcosa da nascondere, forse proprio la cosa che loro stavano cercando. In tal caso, dovevano aver intensificato la sorveglianza. L'esperimento di quella sera doveva servire appunto a stabilire se fosse davvero il caso di preoccuparsi. Il percorso che avevo scelto era concepito per attirare i presunti pedinatori di Harry in un circuito all'interno dell'Ebisu Garden Palace, un centro commerciale a più piani che mi avrebbe offerto svariate opportunità di osservare, senza essere visto, sia lui sia chi lo tallonava. La procedura da me ideata era abbastanza aggressiva da permettermi di individuare un inseguitore, ma non tanto da metterlo in allarme, se non alla fine, quando Harry si sarebbe dovuto allontanare di corsa, mentre io, da dietro, mi sarei avvicinato al pedinatore. Alle otto mi avviai verso il ristorante Rue Favart, all'angolo di Ebisu 4chome, di fronte al Sapporo Building. Arrivai con un certo anticipo, per essere certo di sedermi a uno dei tre tavoli accanto alla finestra, al secondo piano del ristorante, e godere così di un'adeguata visuale del marciapiede sottostante, dove entro breve sarebbe passato Harry. Se i tavoli fossero stati già occupati, avrei potuto aspettare che se ne liberasse uno. Inoltre, avevo fame, e il Rue Favart, con la sua eclettica varietà di piatti di pasta e panini era il posto ideale per fare rifornimento. Ci ero già stato più volte,
quando abitavo a Tokyo, e non vedevo l'ora di tornarci. Seguii una cameriera per le scale fino al secondo piano, approfittandone per osservare il vistosissimo arredamento, con pareti verde acido, su cui campeggiavano enormi fiori dipinti, e tavoli e sedie non coordinati, in legno, metallo e plastica. I tavoli accanto alla finestra, in effetti, erano occupati, e io dissi alla cameriera che avrei atteso di buon grado pur di avere il privilegio di godere di quella splendida vista. Mi accomodai su un piccolo divano e bevvi un caffè freddo, osservando gli allucinogeni soffitti disseminati di scarafaggi, libellule e altri insetti dipinti. Dopo mezz'ora, le due impiegate che occupavano uno dei tavoli da me ambiti se ne andarono e io presi il loro posto. Ordinai un risotto ai funghi shiitake e un minestrone, chiedendo cortesemente di fare presto, perché speravo di essere al cinema per le nove e mezza. Avrei dovuto andarmene di lì subito dopo il passaggio di Harry, e la tempistica doveva essere perfetta. Pensai al da farsi nel caso in cui il mio esperimento avesse dato esito positivo, se avesse cioè confermato che Harry era sorvegliato. La risposta dipendeva in larga misura dall'identità e dal movente dei pedinatori di Harry. La mia prima preoccupazione era quella di evitare che qualcosa potesse interferire con la mia partenza; il «lavoro» per conto di Tatsu l'avevo fatto, e ora dovevo sbrigarmi. Tutto doveva svolgersi secondo i miei piani, quand'anche ciò avesse significato lasciare Harry da solo. Il risotto era ottimo, e io avrei voluto avere più tempo a disposizione per gustarlo come si deve. Invece, mangiai in fretta, con gli occhi sempre fissi sulla via sottostante. Quando ebbi finito, controllai il mio orologio. Restava appena il tempo per una delle famose cioccolate calde del Rue Favart, un preparato denso di cacao puro con fiocchi di panna montata, di cui il ristorante prepara al massimo venti tazze al giorno. Ne ordinai una e la assaporai, aspettando e guardando fuori dalla finestra. Poco dopo le nove avvistai Harry, intento a muoversi in senso orario dalla stazione di Ebisu verso la Kusunoki-dori. Procedeva alla svelta, come gli avevo chiesto di fare. A quell'ora della sera, Ebisu era frequentata perlopiù da persone in cerca di piacere attratte dai bar e dai ristoranti raffinati del Garden Court Complex. Il ritmo della zona, perciò, era piuttosto rilassato. Chiunque avesse cercato di tenere il passo di Harry si sarebbe trovato fuori sincrono rispetto alla velocità media e sarebbe perciò balzato all'occhio. Scorsi il primo probabile candidato quando Harry svoltò a destra in Ku-
sunoki-dori, all'altezza del chiosco della polizia di Ebisu 4-chome. Un giovane giapponese in abito blu navy, sottile di corporatura, gel sui capelli e occhiali dalla montatura di metallo. Seguiva Harry a una decina di metri di distanza, sul lato opposto della strada: un'ottima tecnica, dato che le persone, in genere, fanno caso soltanto a quel che accade esattamente alle loro spalle. Non potevo ancora esserne certo, ovviamente, ma la posizione, i modi e il passo di quell'uomo mi insospettirono. Harry proseguì allontanandosi dalla mia postazione. A quel punto, nella sua scia, ma molto più indietro, comparvero due gruppi di giovani giapponesi, che però scartai subito: erano troppo rilassati e troppo giovani. Dopo di che notai un bianco piuttosto corpulento, dal vestito scuro e dal passo spavaldo tipicamente americani, che camminava veloce lungo il marciapiede. Poteva essere un uomo d'affari residente al vicino Westin Hotel e in ritardo a un appuntamento. Oppure no. Lo iscrissi tra i sospetti. Harry scomparve dietro i rami di un kusunoki, varietà di pianta da cui quella via prendeva il nome. Anche il giapponese scomparve. Concentrai la mia attenzione sull'americano, che nel frattempo si era fermato, come se avesse maturato un improvviso interesse per uno dei volantini raffiguranti le persone ricercate appesi su un lato del chiosco della polizia. «Ah-ha! Beccato.» Un attimo dopo ricomparve Harry: si muoveva in senso opposto, e sull'altro lato della via, rispetto a prima. Si fermò per studiare la mappa all'angolo dell'incrocio, di fronte al Sapporo Building e nel punto diagonalmente opposto rispetto al chiosco della polizia, dove l'americano - che all'improvviso non sembrava più tanto di fretta - coltivava il suo nuovo interesse per i più importanti latitanti del Giappone. L'inversione a U di Harry era stata solo moderatamente aggressiva, non così provocatoria - pensai - da indurre gli inseguitori a mollare la presa. Non avrebbero avuto l'impressione di essere stati scoperti. Non ancora, almeno. «Vediamo...» Harry girò a destra in Platanus Avenue. L'americano non si mosse. Un attimo dopo il giapponese ricomparve dalla parte opposta del mio campo visivo. Quando questi girò a sua volta in Platanus Avenue, anche l'americano lo seguì. Aspettai un altro minuto per assicurarmi che il mio radar personale non segnalasse altre presenze. Mi alzai e scesi le scale fino al pianterreno, dove pagai e ringraziai il ge-
store del locale per l'eccellente cena. Quindi, attraversai l'interno del Garden Court Complex e presi una rampa di scale che, all'altezza del primo piano, portava a un passaggio scoperto. Mi affacciai al parapetto in pietra, situato di fronte al palazzo per uffici della Garden Court Tower, come una sentinella di guardia a un castello, osservando il traffico pedonale dello spiazzo sottostante. Sapevo che Harry aveva imboccato uno dei sottopassaggi che sfociano su quello spiazzo e che stava indugiando davanti a qualche vetrina per darmi il tempo di raggiungere la mia postazione. Dopo alcuni minuti lo vidi sbucare sotto di me e poi allontanarsi attraversando lo spiazzo in diagonale. Se avessi voluto, avrei potuto sistemarmi dalla parte opposta dello spiazzo, in modo tale che Harry e i suoi inseguitori venissero verso di me, ma ormai ero sicuro al novanta per cento di avere individuato i pedinatori, e non era necessario rischiare offrendo loro l'opportunità di scorgermi. E infatti comparvero anche loro, disposti ai lati e alle spalle di Harry come i vertici della base di un triangolo scaleno in movimento. Notai che il giapponese si stava guardando intorno, scrutando le vetrine dei negozi e dei ristoranti affacciati sullo spiazzo e le persone appoggiate al parapetto del passaggio sopraelevato. Lo vidi girarsi da una parte e dall'altra e io, pur sapendo di non risaltare in alcun modo in mezzo a quella folla, arretrai di qualche passo per non concedergli neppure l'opportunità di inquadrarmi di sfuggita. Il giapponese dimostrava una competenza discreta, anche se in questo caso inutile, in fatto di contro-sorveglianza. Aveva chiaramente capito che Harry lo stava guidando lungo un percorso circolare, con una tattica classica che consente, a chi osservi la situazione da fermo, molte opportunità di individuare eventuali pedinatori. Io, però, avevo previsto questa reazione, e da lì in poi avevo tracciato un percorso abbastanza diretto fino al punto in cui Harry sarebbe uscito di scena per lasciare spazio alla mia comparsa a sorpresa. Aspettai una decina di secondi, dopo di che tornai ad affacciarmi sullo spiazzo. Harry aveva appena raggiunto il culmine della rampa che l'avrebbe condotto all'esterno dello spiazzo, verso la passerella sopraelevata della stazione di Ebisu. Il giapponese e l'americano mantennero le rispettive posizioni alle sue spalle. Io osservai finché non furono tutt'e tre usciti dal mio campo visivo e aspettai un po' per accertarmi che non ci fossero altri inseguitori. Non vidi nessun altro, e la cosa non mi meravigliò: se fossero stati più numerosi, i pedinatori, rendendosi conto di essere stati portati a spasso
lungo un cerchio, si sarebbero scambiati la posizione, per sottrarsi all'eventuale contro-sorveglianza. Dato che questo non era avvenuto, potevo essere quasi certo che gli inseguitori fossero solo due. Consultai il mio orologio. Mancavano quindici minuti. Percorsi il sottopassaggio del metrò fino al Westin Hotel, dove presi un taxi che mi portò alla vicina Hiro. Harry e i suoi due ammiratori stavano convergendo nello stesso posto, e il tragitto in taxi mi avrebbe permesso di precederli per accoglierli. Dissi al tassista di lasciarmi sulla Meiji-dori, dove mi imbucai in uno Starbucks. «Che cosa desidera?» mi domandò in giapponese la ragazza che lavorava al banco. «Solo un caffè», dissi. «Doppio. E bollente, se è possibile.» «Guardi, il caffè scende a una temperatura di novantotto gradi centigradi e viene servito a ottantacinque. Non si può fare altrimenti.» «Cristo, li addestrano per bene, qui, i dipendenti», notai meravigliato. «Capisco. Il fatto è che ho freddo. Vorrei proprio qualcosa di caldissimo, per scaldarmi con il vapore. Un tè?» «Ah, il tè è davvero bollente. Non deve colare dalla macchina: viene fatto e servito a novantotto gradi centigradi.» «Fantastico. Prendo un Earl Grey grande.» Mi preparò il tè e lo posò sul banco accanto alla cassa. Pagai e mi avviai verso un tavolo con il mio tè. «Aspetti», disse la ragazza. Mi passò un secondo bicchiere. «Questo servirà a tenerlo caldo.» Sorrisi riconoscente a quella sua sollecitudine. «Grazie», dissi. La sosta era durata, tutto compreso, circa quattro minuti. Proseguii per qualche centinaio di metri sul lato destro della via fino a un piccolo parcogiochi, dove mi sedetti su una panchina d'angolo. Posai il tè e con il cellulare clonato mi accertai che il taxi che avevo chiamato fosse lì ad attendermi. C'era, e io dissi alla centralinista che il cliente sarebbe arrivato nel giro di qualche minuto. Cinque minuti dopo vidi Harry che procedeva nella mia direzione. Eseguì una svolta a sinistra in una via senza nome che lo avrebbe portato in una zona residenziale piuttosto silenziosa. Non esattamente il posto in cui sia facile trovare un taxi. Fortunatamente, però, Harry sapeva che ne avrebbe trovato uno ad aspettarlo. Ai suoi due amici, invece, sarebbe andata malissimo.
Subito scorsi anche loro, uno per marciapiede. Era l'americano quello in posizione più avanzata, sul mio lato della via. Attraversò e seguì Harry in quella zona appartata. Dieci secondi dopo, anche il giapponese si avviò dalla stessa parte. Io presi il mio tè e mi accodai. Cinquanta metri a sinistra, cinquanta a destra e poi altri cinquanta a sinistra. Quelle vie erano incredibilmente strette, delimitate da muri bianchi di cemento. Quasi un labirinto. Proseguii lentamente. Non riuscivo a vederli, per via della distanza, ma sapevo dove stavano andando. Tre minuti dopo, poco più avanti, sbucò un taxi che svoltò nella mia direzione. Guardai all'interno e vidi Harry; ero felice di constatare che quella parte del piano era filata liscia. Se fossero sorti degli inconvenienti, Harry avrebbe fatto dietrofront e avrebbe continuato a camminare, mentre io avrei improvvisato. Io, invece, speravo che la fulminea e per certi versi plateale fuga della loro preda inducesse i due inseguitori a un'estemporanea consultazione. Il mio compito sarebbe stato più semplice se fossi riuscito a sorprenderli insieme. Io e Harry non ci rivolgemmo nessun cenno d'intesa, quando il taxi mi passò accanto. Io proseguii a piedi, svoltando a destra nella via da cui era sbucato il taxi. Questa via era lunga una cinquantina di metri e alla fine svoltava a destra ad angolo retto. Di Starsky e Hutch neanche l'ombra. Nessun problema. Il posto in cui Harry li aveva lasciati era un vicolo cieco. Raggiunsi il termine della via e svoltai a destra, ed eccoli lì, a una dozzina di metri da me. Il giapponese mi rivolgeva il fianco sinistro. Stava parlando con l'americano, che invece era rivolto verso di me, con una sigaretta spenta che gli penzolava dalle labbra. Teneva un accendino a mezz'altezza e ci dava dentro con la rotella, nel tentativo di farlo funzionare. Io mi sforzai di mantenere un'andatura indifferente, come se fossi un pedone qualsiasi. Il battito del mio cuore cominciò ad accelerare. Me lo sentivo pulsare nel petto e dietro le orecchie. Dieci metri. Con il pollice tolsi il coperchio di plastica dal bicchiere di carta e lo sentii rotolare oltre il dorso della mia mano. Sette metri. L'adrenalina stava rallentando la mia percezione della scena. Il giapponese si girò dalla mia parte. Mi guardò in faccia e cominciò a spalancare gli occhi. Cinque metri. Il giapponese allungò un braccio verso l'americano, un gesto che mi parve concitato nonostante la mia visione rallentata. Afferrò l'americano per un braccio e si mise a tirare.
Tre metri. L'americano alzò gli occhi e mi vide. Aveva ancora la sigaretta che gli pendeva dalle labbra. Non diede il minimo segno di avermi riconosciuto. Due metri. Puntai verso quei due e slanciai in avanti la mano che reggeva il bicchiere. Il suo contenuto - tè Earl Grey bollente - raggiunse l'americano in pieno volto e al collo. Lui sollevò immediatamente le mani e cominciò a strillare. Mi voltai verso il giapponese. Aveva gli occhi strabuzzati e muoveva la testa da destra a sinistra e viceversa nel più universale dei gesti di diniego. Sollevò poco a poco anche le mani, come per proteggersi. Io lo afferrai per le spalle e lo sbattei contro il muro. Sfruttando lo slancio, feci un passo in avanti e lo colpii con una ginocchiata in mezzo alle gambe. Lui si piegò in due con un grugnito. Tornai a occuparmi dell'americano. Era piegato in avanti e barcollava, le mani a coprirsi la faccia. Lo presi per il colletto della giacca e per il fondo dei pantaloni e lo scaraventai di testa contro il muro, usandolo come un ariete. All'impatto il suo corpo fu scosso da un tremito e si accasciò al suolo. Il giapponese era disteso su un fianco e boccheggiava, tenendosi le palle tra le mani. Lo sollevai per il bavero della giacca e lo spinsi nuovamente contro il muro di spalle. Guardai a sinistra e a destra. C'eravamo solo noi tre. «Chi siete?» gli domandai in giapponese. Lui rantolò, prossimo a vomitare. Aveva chiaramente bisogno di riprendersi un attimo. Serrandogli la gola con la mia mano sinistra, lo tastai per accertarmi che non fosse armato; quindi, gli controllai le tasche e le orecchie per verificare che non fosse collegato via audio con qualcuno. Era pulito. Infilai una mano nella tasca interna della giacca e prelevai il portafogli. Lo aprii, e il tesserino d'identificazione era lì in bella vista, infilato in una custodia laminata. Tomohisa Kanezaki, vice segretario, affari consolari, ambasciata americana. Sullo sfondo, l'aquila calva, simbolo del dipartimento di Stato americano, mostrava sfumature azzurre e dorate. Quei due, dunque, erano agenti della CIA. Intascai il portafoglio del giapponese per esaminarlo con più calma in un altro momento. «Tirati su, Kanezaki-san», dissi, passando all'inglese, «se non vuoi che ti faccia male veramente.»
«Chotto matte, chotto matte», ansimò lui, sollevando una mano per accompagnare la sua richiesta. Aspetta un attimo, aspetta un attimo. «Setsumei suru to yakusoku shimasu kara...» Ti assicuro che posso spiegarti tutto, ma... Parlava giapponese con l'accento americano. «Usa pure l'inglese», gli dissi. «Non ho tempo di darti lezioni di lingua.» «Okay, va bene», disse lui. Il fiatone gli era un po' passato. «Mi chiamo Tomohisa Kanezaki. Lavoro all'ambasciata americana a Tokyo.» «Questo lo so già. Ho appena curiosato nel tuo portafogli. Perché seguivate quell'uomo?» Trasse un respiro profondo e sogghignò. Gli occhi gli lacrimavano per la botta ai coglioni. «Stavamo cercando di rintracciare te. Tu sei John Rain.» «E per quale ragione mi stavate cercando?» «Non lo so. I parametri che mi hanno dato...» Gli strinsi con forza la gola e avvicinai la mia faccia alla sua. «Non mi interessano i tuoi parametri. L'ignoranza non ti servirà a nulla, stasera. Mi sono spiegato?» Lui cercò di divincolarsi. «Che cazzo! Fammi respirare un attimo, okay? Come faccio a parlare se mi soffochi?» Restai sorpreso dal suo coraggio. Sembrava più infastidito che spaventato. Capii che il ragazzo non si era reso conto di quanto fosse grave il guaio in cui si era cacciato. Se non mi avesse detto quello che mi interessava, sarei stato costretto a fargli cambiare atteggiamento. Lanciai un'occhiata al suo amico, ancora riverso a terra, e tornai a guardarlo. «Parla, svelto!» gli ordinai. «Io dovevo solo localizzarti. Mi hanno detto esplicitamente di evitare qualsiasi contatto.» «E che cosa doveva succedere, una volta che voi mi aveste localizzato?» «Devi chiederlo ai miei superiori.» «Tu, però, sai come mi chiamo.» «Sì, te l'ho detto.» Annuii. «Allora, sai anche come finirai se le tue risposte non mi soddisferanno.» Sbiancò in volto. Evidentemente, stava cedendo. «Chi è lui?» domandai, accennando con la testa all'americano steso. «Scorta diplomatica. I parametri... Mi avevano detto che in nessun caso dovevo rischiare di incontrarti a quattr'occhi.» Una guardia del corpo? Sembrava plausibile. L'americano non mi aveva
riconosciuto, questo era certo. Il suo compito, probabilmente, era solo quello di proteggere e sorvegliare il pedinatore. O magari era il killer. La CIA ricorre spesso ad agenti indipendenti per i lavori sporchi, a gente come me. L'americano poteva essere uno di questi. «Per quale ragione dovevi evitare di incontrarmi a quattr'occhi?» domandai. «Perché tu sei pericoloso. Abbiamo un dossier sul tuo conto.» Il dossier creato da Holtzer. Giusto. «Parlami dell'uomo che stavate seguendo», dissi. Lui annuì. «Si chiama Haruyoshi Fukasawa. È l'unico tuo socio conosciuto. Stavamo seguendo lui per arrivare a te.» «Va' avanti.» Mi rivolse uno sguardo gelido, come se fosse preparato a resistere. «Non so altro.» Il suo collega, tra un gemito e l'altro, stava cercando di rialzarsi sulle ginocchia. Kanezaki lo guardò, e io intuii il suo pensiero: se il suo socio si fosse rialzato, io avrei avuto difficoltà a controllare entrambi. «Tu non vuoi dirmi quello che sai, Kanezaki», dissi. «Adesso ti faccio vedere una cosa.» Feci un passo verso il socio americano, che a quattro zampe, rivolto verso di noi, biascicava qualcosa di incomprensibile. Mi chinai, gli afferrai il mento con una mano e il lato della faccia con l'altra mano, imprimendo alla sua testa una brusca e fatale torsione. Il collo si spezzò con un rumore sinistro, e l'americano ricadde definitivamente a terra. Lasciai andare la testa dell'americano e tornai da Kanezaki. Aveva gli occhi fuori dalle orbite che continuavano a passare da me al cadavere e viceversa. «Oh, cazzo!» bofonchiò. «Oh, cristo santo!» «È la prima volta che vedi una cosa del genere, eh?» domandai, con un tono deliberatamente noncurante. «Dopo un po' di volte, fa meno effetto. Naturalmente, la prossima volta toccherà a te.» La sua faccia, già bianca, sbiancò ulteriormente, e io per un attimo ebbi il dubbio che potesse svenire. Dovevo tener viva la sua attenzione. «Kanezaki! Stavi parlando di Haruyoshi Fukasawa. Dicevi di sapere che è un mio socio... Continua, prego.» Lui inspirò a fondo e chiuse gli occhi. «Sappiamo... sappiamo che lo conosci perché abbiamo intercettato una lettera.» «Una lettera?» Spalancò gli occhi. «Fukasawa ha spedito a Midori Kawamura, a New
York, una lettera in cui parlava di te.» Maledizione! pensai sentendo pronunciare il nome di Midori. Sembrava impossibile liberarsi di quella gente. Sono come il cancro: tu credi di averlo asportato, ma quello prima o poi ritorna. E si diffonde, colpendo le persone che hai intorno. «Va' avanti», dissi, accigliato. «Gesù Cristo! Ti giuro che non so altro!» Se fosse precipitato nel panico più assoluto, non sarei riuscito a cavargli più nulla di utile. Il giochetto consisteva nel fargli paura, ma non al punto da spingerlo a inventarsi qualunque cosa pur di compiacermi. «D'accordo», dissi. «Finora mi hai spiegato soltanto il come. Adesso devi dirmi il perché. Perché mi stavate cercando?» «Ascolta... Io non posso parlare, lo sai...» Gli serrai la gola di brutto. Strabuzzò gli occhi al massimo. Infilò una mano tra i miei avambracci è tentò di far leva per allentare la presa. Poteva essere una tecnica che gli avevano insegnato a un qualche corso di autodifesa personale organizzato nei weekend dalla CIA. Notevole, da parte sua, ricordarsene sotto pressione. Peccato, però, che non gli sia servito a nulla. «Kanezaki», dissi, mollando la presa per fargli prendere fiato, «tra un minuto potrai essere ancora vivo oppure morto, steso accanto al tuo amico. La tua sorte dipende interamente da quello che mi dirai nel prossimo minuto. E ora parla.» Con la mano con cui gli tenevo il collo lo sentii deglutire. «Okay, d'accordo», disse. Si decise a sciogliere la lingua. «Sono dieci anni che il governo degli Stati Uniti preme sul Giappone affinché riformi il suo sistema bancario e rimetta in ordine le finanze. E da dieci anni a questa parte le cose non fanno che peggiorare. L'economia nazionale dà i primi segni di cedimento, ormai. E se le cose continueranno così, il Giappone sarà il primo a crollare, ma finirà per trascinare con sé il Sudest asiatico, l'Europa e infine anche l'America. Il paese ha bisogno di riforme. Gli interessi, però, sono tali e tanti che le riforme risultano impossibili.» Lo guardai. «Ti restano quaranta secondi. E direi che non stai andando molto bene.» «Va bene, va bene! Alla sede della CIA di Tokyo è stata affidata la missione di promuovere queste riforme e di rimuovere eventuali impedimenti. Il nome in codice dell'operazione è "Crepuscular". Sappiamo quel che hai fatto come free-lance. Credo... credo che i miei superiori vogliano chiederti di collaborare con loro.»
«Per fare che cosa?» domandai. «Per rimuovere gli impedimenti.» «Tu, però, non ne hai la certezza, vero?» «Ascolta: sono tre anni che lavoro per la CIA. Molte cose non me le dicono, ma se uno conosce la tua storia ed è al corrente dell'operazione Crepuscular non ha bisogno di molte altre informazioni per capirlo.» Lo guardai, valutando le opzioni a mia disposizione. Ucciderlo? I suoi superiori non sarebbero riusciti a spiegarselo, ma avrebbero potuto facilmente immaginare un mio coinvolgimento. E se anche non fossero riusciti a scovare me, sarebbero potuti arrivare a Harry e a Midori. No, uccidere quel ragazzo non sarebbe servito a togliermi la CIA dai piedi. Né l'avrebbe tolta dai piedi di Harry e di Midori. «Prenderò in considerazione la tua proposta», gli dissi. «Puoi riferirlo ai tuoi superiori.» «Io non ti ho proposto niente. Le mie erano solo congetture. Se i miei superiori vengono a sapere che ho parlato con te di queste cose, mi rispediscono a Langley a fare l'impiegato.» «Veditela tu, con loro. Se deciderò di accettare, sarò io a mettermi in contatto con voi. Anzi, con te. Se invece deciderò altrimenti, il mio silenzio equivarrà a un no. Inoltre, voi dovrete smettere di cercarmi, soprattutto attraverso altre persone. Se scopro che non vi siete attenuti a questa condizione, me la prenderò con te. Capito?» Fece per dire qualcosa, ma fu interrotto da un conato. Fui lesto a togliermi di mezzo. Lui si girò da una parte e vomitò. Lo interpretai come un segno d'assenso. Tornai a piedi a Ebisu e presi la linea Yamanote fino a Shibuya. Lì imboccai l'uscita della Miyamasuzaka che sfocia in corrispondenza di Shibuya 1-chome, per poi raggiungere, di nuovo a piedi, il caffè Hatou. Quando vivevo a Tokyo, questo locale senza vetrine, con i pavimenti, i tavoli e il lungo bancone in legno di hinoki scuro, i raffinatissimi servizi di porcellana con tazze e piattini a centinaia e le bevande preparate con estrema cura, era quanto di più simile a una meta regolare io potessi ammettere. Mi mancava. Entrai dalla porta al livello della strada. Il barista mi accolse con un fioco irasshaimase, ma non alzò gli occhi nella mia direzione. Continuò, invece, a versare acqua bollente da un bricco d'argento su un filtro sospeso sopra una tazzina di porcellana azzurra. Era inclinato da una parte, cosic-
ché il suo occhio si trovava alla stessa altezza del bricco, e con il braccio tracciava dei piccoli cerchi nell'aria in modo da versare l'acqua sul filtro in modo uniforme. Pareva stesse dipingendo o dirigendo un'orchestra in miniatura. Era un piacere vedere la dedizione e l'abilità di quell'uomo, e io non potei fare a meno di guardare. Quando ebbe finito, mi fece un inchino e salutò di nuovo. Io ricambiai il suo gesto e mi inoltrai nel locale. Girai a sinistra al termine della sala a forma di L e vidi Harry seduto a uno dei tre tavoli in fondo. «Ehilà», disse, alzandosi e tendendomi la mano. Io gliela strinsi. «Mi fa piacere che tu abbia trovato il posto.» Harry annuì. «Le tue indicazioni erano precise.» Guardai il tavolo, che era deserto a parte un bicchiere di acqua ghiacciata. «Niente caffè?» «Non sapevo quando saresti arrivato, perciò ho ordinato due tazzine di una miscela di caffè che si chiama Nire. Ci vuole mezz'ora per prepararlo. Ho pensato che potesse piacerti: la cameriera dice che è "incredibilmente intenso"...» Sorrisi di nuovo. «Infatti, ma non so se sarà di tuo gusto.» Harry si strinse nelle spalle. «Mi piace provare cose nuove.» «Yukiko», pensai. Ci sedemmo. «Allora? Che cosa hai scoperto?» mi domandò. Presi il portafogli di Kanezaki e lo feci scivolare sul tavolo. «Ti stavano seguendo», dissi. Aprì il portafogli e vide il tesserino di identificazione. «Oh, cazzo!» sospirò. «CIA?» Annuii. «Ma com'è possibile? E perché, poi?» Gli riassunsi la mia conversazione con Kanezaki. «A quanto pare, seguivano me solo perché erano interessati a te», osservò lui quando ebbi finito. Io annuii lentamente. «Così pare.» «Sarei curioso di capire se sanno qualcos'altro di me, a parte il fatto che sono in qualche modo in rapporto con te.» «Chi può dirlo? Magari hanno fatto qualche controllo incrociato con le altre agenzie e hanno scoperto che hai lavorato per la NSA. Non sempre, però, sono così pignoli.» «Sono stati bravi a rintracciarmi attraverso quella lettera. Sono stato imprudente a spedirla.»
«Dev'esserci sotto qualcos'altro. La lettera, di per sé, non è abbastanza. Non ho avuto il tempo di chiedere.» Restammo in silenzio per un po'. Quindi, Harry disse: «Forse è abbastanza. L'ho firmata soltanto con il mio primo nome, ma i miei genitori hanno scelto tre kanji, invece dei soliti due.» Con la mano tracciò i caratteri che significavano «primavera», «generosità» e «ambizione», uno spelling insolito per un nome comune. «Devono aver sorvegliato anche Midori», dissi. Lui annuì. «Già. Lei era un, punto di contatto noto. Probabilmente, l'hanno pedinata e le hanno controllato la posta, nella speranza che ricevesse notizie da te. E invece hanno trovato me.» «Mi sembra plausibile», dissi. «Inoltre, ho spedito quella lettera dalla posta centrale di Chuo-ku, che non è lontano da dove lavoro. Avranno controllato il timbro postale e potrebbero averlo utilizzato come punto di partenza per muoversi da lì a trecentosessanta gradi. È stata una sciocchezza: avrei dovuto spedirla da un posto più fuori mano.» «La prudenza non è mai troppa», dissi, guardandolo. Lui sospirò. «Adesso dovrò traslocare di nuovo. Non tollero l'idea che sappiano dove abito.» «Tieni presente che sanno anche dove lavori.» «Non importa. Ormai lavoro perlopiù a distanza. Quando dovrò per forza andare in ufficio, farò un SDR particolarmente attento.» «Avresti dovuto già farlo, o no?» «Mi dispiace. Forse non ci ho messo tutta l'attenzione necessaria. Quando vengo agli appuntamenti con te, però, puoi stare sicuro che prendo tutte le precauzioni del caso.» Era un problema inevitabile. All'interno delle reti informatiche Harry era totalmente imprendibile, ma nel mondo reale era perlopiù un civile. Un punto debole nelle mie difese. Mi strinsi nelle spalle. «Se così non fosse, quei tizi sarebbero già arrivati a me. Al Teize, magari, o in qualche altro posto. Con i tuoi movimenti te li sei scrollati di dosso.» Lui ne fu un po' risollevato e disse: «Non credi che io sia in pericolo, vero?» Ci pensai su. Non gli avevo ancora detto che il socio di Kanezaki non era sopravvissuto al nostro incontro. Decisi di colmare quella lacuna. «Merda», dissi. «Proprio a questo mi riferivo. E se quelli vogliono ven-
dicarsi?» «Non credo che se la prenderebbero con te. Se fosse una storia da yakuza, sarebbe diverso: potrebbero prendere di mira i miei amici per stanarmi. In questo caso, è con me che ce l'hanno. Tu non rappresenti una minaccia, per loro. Inoltre, è raro che usino guardie del corpo interne. Al congresso non piacerebbe. Per questo hanno bisogno di gente come me.» «E la polizia? Un taxi è venuto a prendermi proprio nel punto in cui verrà ritrovato il cadavere.» «Kanezaki farà un paio di telefonate, e il cadavere sparirà prima che qualcuno possa inciamparvi. E se anche la polizia si fosse incuriosita, su quali elementi avrebbe potuto contare? Se anche fossero riusciti a trovare il tassista, questi non saprebbe fornire altro che un nome falso e la generica descrizione di una persona intravista a malapena nella penombra. Giusto?» «Credo di sì.» «Devi comunque continuare a stare in guardia», dissi. «Di quella ragazza che frequenti, Yukiko, sei sicuro di poterti fidare?» Lui mi guardò. Dopo una breve pausa, annuì. «Se con questa ragazza ci passi le notti, lei sa dove abiti, e questo è certamente un punto debole nelle tue difese.» «Sì, ma lei non ha nulla a che fare con quella gente...» «Non si può mai davvero sapere, Harry. Mai.» Ci fu una lunga pausa, questa volta. Alla fine Harry disse: «Non ce la faccio a vivere così, come vivi tu». Nella mente mi balenò un pensiero: «Forse avresti dovuto pensarci prima di lasciarti invischiare nella mia vita.» Non sarebbe stato giusto, però. Né particolarmente utile. La cameriera portò le due tazzine di caffè e le posò sul tavolo con una grazia estrema, quasi si trattasse di inestimabili capolavori. Fece un inchino e se ne andò. Bevemmo il caffè. Harry manifestò il suo apprezzamento, ma notai un certo sforzo da parte sua. Di solito, mi prendeva in giro per le mie raccomandazioni gustative. Non potei fare a meno di osservare quel cambiamento, ma non ci badai. Chiacchierammo del più e del meno. Finito di bere il caffè, ci salutammo e io mi apprestai a percorrere la strada tortuosa che mi avrebbe riportato in albergo. Ero proprio sicuro che Harry non avesse nulla da temere da parte della CIA? Quasi. Quanto a me, il discorso era diverso. Forse era vero, come
aveva detto Kanezaki, che mi stavano cercando per avere il mio aiuto. Forse, però, volevano solo farmela pagare per quel che avevo fatto a Holtzer. Non c'era modo per appurarlo. In ogni caso, il fatto che io avessi eliminato la scorta di Kanezaki non mi avrebbe certo reso più simpatico ai loro occhi. E poi c'era Yukiko. C'era qualcosa che non mi convinceva, in lei, ma non avevo modo di sapere se fosse in contatto con la CIA o con qualcun altro. Rientrato in albergo, mi distesi a letto e rimasi a fissare il soffitto, di nuovo insonne. «Dunque, Midori non c'entrava», pensai. «Era la CIA, non Midori. Proprio un bel premio di consolazione!» «Basta. Lasciamo perdere.» All'improvviso, rispetto alla sera precedente, mi scoprii meno sicuro del fatto che quella sarebbe stata la mia ultima notte a Tokyo. Fissai il soffitto a lungo prima di sprofondare nel sonno. 6. L'indomani mattina presi un treno superveloce e tornai a Osaka. Arrivai nel primo pomeriggio alla brulicante stazione di Shin-Osaka e, con mia grande sorpresa, mi ritrovai contento di essere lì. Forse cominciavo a essere stanco di dormire in albergo. O forse aveva a che fare con la consapevolezza di dover partire di nuovo, questa volta per sempre. Ero sicuro di potermi considerare al sicuro, una volta lasciata Tokyo, ma le due ore e mezzo di viaggio non mi avevano concesso neppure un'occasione per guardarmi indietro. Due ore e mezzo sono un tempo infinito per i miei standard, soprattutto in considerazione del recente incontro con Kanezaki e company, cosicché seguii un percorso adeguatamente contorto prima di prendere il metrò della linea Tanimachi fino a Miyakojima, dove tornai in strada passando per l'uscita A4. Senza particolari ragioni, svoltai a sinistra aggirando il chiosco della polizia all'incrocio con la Hon-dori, facendomi largo tra le centinaia di biciclette dei pendolari ammassate tutt'intorno all'uscita della stazione. Avrei anche potuto svoltare a destra, passando davanti al liceo locale in direzione del fiume Okawa. Uno dei motivi che mi avevano indotto a cercare casa nei palazzi alti di Belfa era il fatto che la zona era raggiungibile da ogni direzione.
Svoltai a sinistra all'altezza della Kita-dori e poi a destra imboccando una via a senso unico. Infine, di nuovo a sinistra. Muovendomi controcorrente rispetto al traffico avrei compromesso qualsiasi tentativo di pedinamento, con veicoli a motore o meno. E a ogni svolta avevo la possibilità di guardarmi intorno senza dare nell'occhio, inoltrandomi per vie sempre più strette e silenziose. Chiunque avesse avuto intenzione di seguirmi a piedi, avrebbe dovuto tenermi d'occhio da vicino per non farsi seminare. C'erano dozzine di palazzi alti, nella zona, e a rendere inefficace qualsiasi pedinamento non ravvicinato si aggiungeva il fatto che la mia meta poteva essere appunto uno di questi edifici. Per certi versi il quartiere era un classico esempio di pessima urbanistica. C'erano condomini in vetro e acciaio di fronte a parcheggi fatti di montanti e coperture in metallo ondulato. Case monofamiliari appollaiate accanto a fonderie e stabilimenti per il riciclaggio dei rifiuti. Una nuova scuola a più piani distoglieva la sua fiera facciata di granito dall'edificio vicino - il relitto diroccato di un'autofficina - come un figlio ingrato da un genitore sofferente. Ai residenti, del resto, quel caos non dispiaceva. Anzi, si notavano dappertutto i segni dell'orgoglio che gli abitanti del luogo nutrivano per le loro case. La monotonia del macadam e del metallo corrugato era spezzata da piccoli squarci di bambù in vaso, lavanda e girasoli. Da una parte c'era un tumulo di rocce vulcaniche accuratamente disposte, altrove una composizione di coralli secchi. Una casa aveva nascosto quello che sarebbe stato un orribile muro in ferrocemento con un delizioso e curatissimo giardino di datura, salvia e lavanda. Io abitavo al trentaseiesimo piano di uno dei due grattacieli gemelli di Belfa, in un appartamento d'angolo con tre camere da letto. Era più grande del necessario, e la maggior parte delle stanze era inutilizzata; mi piaceva, però, abitare all'ultimo piano, dominare la città dall'alto. Inoltre, al momento di affittarla, avevo pensato che potesse essere utile prendere una casa che non corrispondesse alle necessità abitative, presumibilmente minime, di un uomo solo e da poco scomparso. Tutto sommato, però, l'avrei fatto comunque. Mi piace vivere in posti come Belfa perché è pieno di genitori, per definizione attenti a qualsiasi presenza estranea: e se loro finiscono per accettarti, diventano un'inconsapevole ma efficace barriera contro eventuali imboscate. In realtà, però, so bene che ci sono anche altre ragioni. Non ho una famiglia, e non l'avrò mai, e l'attrazione che questi ambienti esercitano
su di me dipende non solo dalle esigenze di sicurezza operativa, bensì anche da una forma di sicurezza diversa e complementare. Un tempo, evidentemente, non avevo bisogno di queste cose e, anzi, mi sarebbe sembrata ridicola e persino un po' disgustosa l'idea di vivere come una specie di vampiro psichico, come un fantasma sfaccendato che osservi inutilmente da dietro uno specchio con occhi sconsolati la vita normale che il destino gli ha negato. È una cosa che ti stravolge le priorità. Da un telefono pubblico mi misi in comunicazione con una casella di posta vocale collegata a uno speciale telefono installato nel mio appartamento e dotato di un dispositivo attivabile con il rumore e di un altoparlante sensibilissimo che funziona anche da trasmittente. Se qualcuno entra nel mio appartamento ignorando il codice che disattiva il dispositivo incorporato nel telefono, l'apparecchio stabilisce silenziosamente una connessione con una casella di posta vocale e mi informa in anticipo e a distanza dell'arrivo di visite inattese. Proprio un'apparecchiatura simile, a Tokyo, mi aveva salvato da un agguato organizzato da Holtzer, perciò era una precauzione che non mancavo mai di prendere. Negli ultimi giorni, da Tokyo, avevo controllato la casella di posta vocale ogni giorno e l'avevo sempre trovata vuota; ne dedussi che durante la mia assenza al mio appartamento di Osaka non si era presentato nessuno. Dal telefono pubblico percorsi a piedi il breve tratto fino al quartiere di Belfa. Su un Campetto alla mia destra era in corso una partita di softball. C'erano anche dei bambini che giocavano a calcio, presso un giardino con sculture di granito situato di fronte al mio palazzo. Un vecchio mi passò accanto in bicicletta, con un gaudente nipotino appollaiato sul manubrio. Utilizzai l'ingresso principale, avvicinandomi come sempre in modo che la telecamera di sicurezza mi inquadrasse soltanto di schiena. Certe precauzioni erano routine, ma - come aveva sottolineato Tatsu - le telecamere sono dovunque, ed è impossibile individuarle tutte. Presi l'ascensore fino al trentaseiesimo piano e percorsi il corridoio fino al mio appartamento. Controllai il pezzetto di scotch trasparente che avevo applicato in fondo alla porta e lo trovai intatto, ancora attaccato allo stipite. Come avevo cercato di insegnare anche a Harry, ogni difesa dev'essere dotata di più livelli. Aprii la porta ed entrai. Era tutto a posto, come quando ero partito. Il che non significa granché. A parte il futon e il comodino in una delle camere da letto, c'era un divano in pelle verde oliva - nuovo, malgrado le apparenze, e sistemato contro la parete rivolta a ovest - dove a volte mi sedevo a
guardare il tramonto. Il pavimento di legno levigato era coperto da un enorme tappeto Gabeh, le cui superfici verdi e blu erano punteggiate da una dozzina di capricciose chiazze color crema, intese forse a rappresentare delle capre in una scena pastorale, e la cui consistenza morbida e compatta doveva aver spinto i nomadi che li producevano a utilizzarli come materassi. Una massiccia scrivania con doppia fila di cassetti che era arrivata in Giappone dall'Inghilterra, il ripiano dominato da un inserto di pelle nera consumato al punto giusto dalla pressione delle penne che per più di un secolo si erano mosse sulla sua superficie per regolare affari transoceanici; trasmissione di notizie di eventi lieti o luttuosi, auguri, felicitazioni, condoglianze o rimpianti che, al momento di raggiungere i destinatari, potevano anche essere vecchi di settimane. Una poltrona Aeron di Herman Miller, complicatissima ma incredibilmente comoda, che avevo acquistato per sfizio da un'azienda della Bit Valley dì Shibuya, fallita poco tempo prima. Sulla scrivania un Mac G4 e un lussuoso monitor 23 pollici a schermo piatto di cui non avevo fatto parola con Harry, perché lui credeva che io fossi rimasto all'epoca dei transistor e non c'era motivo di spiegargli che anch'io, ogni tanto, avevo l'esigenza e la capacità di rinchiudermi al riparo di un firewall. Di fronte al divano c'era un home theater Bang & Olufsen con un lettore cd a sei scomparti. Accanto a questo, una libreria con una corposa collezione di cd - jazz, soprattutto - e la mia modesta biblioteca, che comprende un certo numero di libri, alcuni dei quali piuttosto antichi e oscuri, sulle arti marziali, pieni di informazioni su tecniche di combattimento troppo pericolose per essere contemplate dal moderno judo (presa alla spina dorsale, torsioni del collo e affini) e perciò perlopiù ignote. Ci sono anche alcuni volumi di filosofia ampiamente compulsati: Mishima, Musashi, Nietzsche. E poi c'è una notevole quantità di piccole pubblicazioni che ogni tanto richiedo a certe strane case editrici americane: libri illegali in Giappone - e in tutti gli altri paesi privi della devozione che gli Stati Uniti riservano alla libertà di parola - che io riesco comunque a procurarmi con metodi appresi su quegli stessi volumetti. Ci sono testi sulle ultime novità nel campo dei metodi e delle tecnologie di sorveglianza; sulle tecniche investigative della polizia e sulla scienza applicata alla lotta contro il crimine; sull'acquisizione di identità fasulle; sulla creazione di conti bancari off-shore e di caselle postali anonime; sulle tecniche di travestimento e di evasione; su metodi e strumenti per l'effrazione e lo scasso; e su tutta una varietà di argomenti connessi. Ovviamente, nel corso degli anni ho sviluppato una certa compe-
tenza in tutti questi campi, ma non ho in programma di scrivere un repertorio didattico delle mie esperienze. Al contrario, leggo queste pubblicazioni per avere un'idea di quello che i miei antagonisti potrebbero sapere, per capire in che modo questa gente potrebbe ragionare, per prevedere le modalità e i luoghi dei loro agguati, per poter adottare le adeguate contromisure. L'unico arredo che potesse dare nell'occhio era un manichino in legno per gli allenamenti di wing chun, delle dimensioni di un uomo grande e grosso, che avevo piazzato al centro della stanza del tatami, altrimenti deserta. Se l'appartamento fosse stato occupato da una famiglia, quel posto sarebbe stato probabilmente destinato al kotatsu, un tavolo basso ornato da una sorta di pesante «gonnellino» lungo fino a terra, sotto il quale viene sistemato un braciere elettrico utile a scaldare i piedi scalzi della famiglia che intorno a esso si riunisce, con le gambe comodamente protette dal «gonnellino», per spettegolare alle spalle dei vicini, per controllare le bollette o, magari, per programmare il futuro dei figli. Il manichino di legno, però, mi era senz'altro più utile. Avevo fatto judo per quasi tutto il quarto di secolo che avevo trascorso in Giappone, e questa disciplina mi era sempre piaciuta per via del rilievo che assegnava agli atterramenti e al combattimento al suolo. Poiché Holtzer e la CIA erano riusciti a stabilire un collegamento tra me e il Kodokan di Tokyo, avevo ritenuto troppo pericoloso iscrivermi alla filiale di Osaka; sarebbe stato come se una persona sottoposta a protezione da parte dell'FBl avesse deciso di riabbonarsi alle stesse oscure riviste che gli piacevano quando viveva alla luce del sole. Il manichino mi aiutava a conservare i riflessi pronti e il taglio delle mani indurito dai calli, oltre a consentirmi di provare alcuni dei colpi e delle prese che, quando facevo judo, avevo in qualche misura trascurato. Sarebbe stato un ottimo argomento di conversazione, se mai qualcuno fosse venuto a trovarmi. Nei giorni seguenti mi diedi da fare per preparare la mia partenza da Osaka. Affrettarsi troppo sarebbe stato un errore: gli spostamenti sono il momento di massima vulnerabilità; inoltre, se fino a quel momento nessuno era riuscito a rintracciarmi, le cose sarebbero potute cambiare nel caso avessi improvvisamente iniziato a condurre una vita meno ermetica. Tatsu si era quasi certamente premunito contro mie eventuali accelerazioni e mi avrebbe seguito. Di contro, se me ne fossi rimasto tranquillo, lui si sarebbe forse rilassato, concedendomi l'opportunità, al momento giusto e nelle condizioni più propizie, di seminarlo per sempre. Nell'immediato non ave-
va motivo di venirmi a cercare, cosicché il rischio minore, per me, sarebbe consistito nel prendere tempo e organizzare le cose nel migliore dei modi. Mi ero deciso per il Brasile, ed era tempo che approfondissi lo studio del portoghese, rivelatosi così utile con Naomi. Hong Kong, Singapore, altre località asiatiche e, forse, persino alcune città degli Stati Uniti sarebbero state una scelta decisamente più ovvia, diversamente dal Brasile. E se a qualcuno fosse venuto in mente di cercarmi laggiù, non sarebbe comunque stato facile trovarmi: la numerosissima comunità di origine giapponese era inserita in tutti i campi della vita pubblica di quel paese, e l'arrivo di un giapponese in più non avrebbe attirato la benché minima attenzione. Rio de Janeiro - città di cultura, dall'ottimo clima, meta di passaggio per vaste schiere di persone, perlopiù turisti - avrebbe fatto al caso mio. A livello mondiale, Rio non è tra le città più frequentate da agenti segreti, terroristi e Interpol; non mi sarei quindi dovuto preoccupare di avvistamenti accidentali, reti di telecamere di sorveglianza e altri nemici naturali del fuggiasco. Avrei persino avuto l'occasione di tornare a praticare il judo o, almeno, uno dei suoi derivati. Prendendo spunto da un antenato del judo il jujitsu, introdotto in Brasile dagli immigrati giapponesi - la famiglia brasiliana dei Gracie aveva sviluppato un tipo di lotta che è probabilmente il più sofisticato mai esistito al mondo, seguito con fanatismo quasi religioso in Brasile e ormai diffuso in tutto il mondo, Giappone compreso. Oltre al posto giusto avevo a disposizione un'identità alternativa a prova di bomba, che avevo creato e coltivato per molto tempo, nell'eventualità di dover un giorno sparire e nascondermi più del solito. Circa un decennio prima, mentre sorvegliavo un burocrate che avevo l'incarico di uccidere, ero rimasto colpito nel vedere che quell'uomo, all'aspetto, mi assomigliava tantissimo: l'età, l'altezza, la corporatura... Neppure la faccia era tanto diversa. Quel tizio, per giunta, aveva un nome fantastico: Taro Yamada, l'equivalente giapponese di John Smith. Avevo fatto un po' di ricerche e avevo scoperto che Yamada-san non aveva parenti stretti. A quanto pareva, nessuno avrebbe sentito particolarmente la sua mancanza se un giorno gli fosse capitato di scomparire. Sono molti i libri che spiegano come fare per crearsi una nuova identità usando il nome di una persona defunta, ma l'operazione è possibile solo in assenza di un certificato di morte. Se in un modo o nell'altro intervengono le autorità - come, per esempio, quando una persona muore in ospizio o in ospedale e viene poi sepolta o cremata (tutte cose che a pensarci bene accadono piuttosto di frequente) o se qualcuno denuncia la scomparsa della
persona in questione - viene immancabilmente prodotto un certificato. La stessa cosa accade se un parente vuole mettere le mani su una qualsiasi parte del patrimonio del defunto, nel qual caso si ha a che fare con il passaggio di proprietà di beni materiali e personali e, probabilmente, con un testamento autentico. E se si decide di procedere comunque, anche qualora si riesca ad acquisire ulteriori elementi di rassomiglianza con il defunto, il nuovo documento di identificazione risulterà fatalmente difettoso; infatti, non appena si decide di presentare domanda per una patente di guida o per un prestito, di cercarsi un lavoro, di chiedere un rimborso fiscale o di attraversare una frontiera - non appena, insomma, si tenterà di fare una qualsiasi delle cose per cui ci si è procurati la nuova identità - sul monitor di qualcuno si manifesta un qualche segnale d'allarme, e si finisce per essere accuratamente fregati. E acquisire l'identità di una persona vivente? Funziona bene a breve termine - per piccoli imbrogli noti anche come «furti di identità», anche se sarebbe più preciso chiamarli «prestiti di identità» - ma a lungo andare è improponibile. Chi risponderà delle nuove carte di credito? Dove verranno mandate le bollette? Niente da fare. E usare l'identità di qualcuno che, poniamo, è scomparso per qualche ragione, sempre che si sia a conoscenza di una persona del genere? Okay, ma come fare se questa persona aveva dei debiti? E se era uno spacciatore? Già, perché se aveva qualcuno alle calcagna, questo qualcuno si metterebbe a cercare te. E poi come comportarsi se Mr Scomparso si rifà vivo? Naturalmente, se si sa di qualcuno che è morto perché lo si è ucciso personalmente, la cosa è un po' diversa. Certo, bisogna sbarazzarsi del cadavere, in modo tale che non possa più essere trovato: un lavoro rischioso e truce di cui non tutti sono capaci. Se ci si riesce, però, e si ha la certezza che nessuno denuncerà la morte o la scomparsa, a quel punto si ha in mano qualcosa di potenzialmente prezioso. Se poi sai per certo che la vittima ha una storia creditizia senza macchia perché hai continuato a pagare le bollette intestate a suo nome, puoi praticamente considerarti a posto. Perciò, avevo portato a termine la missione contro il povero signor Yamada, ma al committente non lo avevo detto. Gli avevo bensì raccontato che l'obiettivo sembrava scomparso. Forse aveva subodorato che qualcuno aveva messo una taglia su di lui. Il mandante dell'omicidio, allora, aveva ingaggiato un investigatore privato che aveva confermato la presenza di tutti gli indizi di una fuga precipitosa: un conto bancario estinto e altre questioni personali efficientemente sbrigate; la posta dirottata verso una
casella postale all'estero; guardaroba semivuoto e assenza, nell'appartamento della vittima, di altri effetti personali. Ovviamente, ero stato io a occuparmi di tutto. Il cliente mi aveva detto che per i suoi scopi il fatto che Yamada fosse morto o scomparso non faceva differenza, e che non dovevo preoccuparmi di cercarlo per portare a termine la missione. Ero stato comunque pagato per i miei sforzi - nessuno vuole suscitare in persone come me la sensazione di essere state trattate ingiustamente - e la questione si era risolta così. Anche il mio cliente, di lì a poco, era andato incontro a una fine sfortunata, ed era passato un tempo sufficiente a consentirmi di resuscitare Yamada-san, aprendo a suo nome una piccola agenzia di consulenza, pagando le tasse e adottando un adeguato indirizzo postale, facendo debiti e rifondendoli, tutte quelle cose, cioè, che messe una accanto all'altra formano l'esistenza assolutamente anonima, ma altrettanto legittima, di un membro della società. Non dovevo fare altro, dunque, che ammantarmi dell'identità di Yamada e cominciare una nuova vita. Prima di tutto, però, Taro Yamada doveva compiere alcune di quelle operazioni che chiunque, nella sua posizione, avrebbe organizzato dopo aver deciso di chiudere una fallimentare attività di consulenza per trasferirsi in Brasile a insegnare ai giapponesi di terza generazione la lingua dimenticata dei loro antenati. Gli serviva un visto, un conto corrente regolare - diverso dagli altri, irregolari e off-shore, di cui pure dispongo - un aiuto per trovare casa, un ufficio. Si sarebbe ufficialmente stabilito a San Paolo, dov'è concentrata quasi la metà della popolazione di origine giapponese, e questo avrebbe ulteriormente complicato il compito di rintracciarlo a Rio. Tutte le operazioni programmate sarebbero ovviamente risultate più semplici con l'aiuto del consolato giapponese a Brasilia, ma il signor Yamada preferiva sistemi meno formali e meno individuabili. Mentre organizzavo il trasferimento di Yamada in Brasile, lessi sui giornali di una serie di episodi di corruzione e mi domandai in che modo potessero inserirsi nella guerra che Tatsu conduceva nell'ombra contro Yamaoto. La filiale giapponese degli Universal Studios, a quanto pareva, aveva servito cibo scaduto da nove mesi, falsificandone le etichette, e alimentato una fontana con acqua contaminata da scarichi industriali non trattati. Il signor Donut, dal canto suo, aveva l'abitudine di rinforzare i suoi prodotti con carne contenente additivi proibiti. Alla Snow Brand Food, invece, avevano deciso di risparmiare qualche yen riciclando latte scaduto ed evitando di pulire le condutture degli impianti. Questo scandalo non ave-
vano potuto insabbiarlo: quindicimila persone erano rimaste intossicate. La Mitsubishi Motors e la Bridgestone erano state beccate in flagrante a nascondere difetti nella produzione di auto e pneumatici per evitare richiami da parte delle autorità competenti. L'episodio peggiore, però, sconvolgente anche per gli elevati standard giapponesi, riguardava la TEPCO, l'azienda elettrica di Tokyo, di cui si era scoperto che per vent'anni aveva falsificato relazioni sulla sicurezza nucleare. Queste relazioni avevano tralasciato di segnalare gravi problemi - tra cui alcune crepe nelle barriere di contenimento in cemento armato - verificatisi in otto diversi reattori. La cosa più impressionante, però, non erano gli scandali in quanto tali. Era la scarsa reazione della gente. Doveva essere scoraggiante, per Tatsu, e io mi domandai dove trovasse la forza di andare avanti. In altri paesi, rivelazioni del genere avrebbero scatenato una rivoluzione. E invece, nonostante gli scandali, nonostante la situazione economica, i giapponesi continuavano a rieleggere i soliti sospetti del partito liberal-democratico. La metà dei problemi su cui Tatsu indagava vedeva coinvolti i suoi diretti superiori, gente a cui lui, in un certo senso, doveva inchinarsi. Come si fa ad andare avanti, in presenza di un'ignoranza così deliberata, di un'ipocrisia così pervasiva? Perché si accaniva tanto? Leggevo i giornali e cercavo di immaginare in che modo Tatsu avrebbe interpretato le notizie; come avrebbe fatto, anzi, a dar loro una forma coerente. Non c'erano solo brutte notizie, mi sembrava. Anzi, nelle provincie si registravano sviluppi che dovevano essergli parsi incoraggianti. Kitagawa Masayasu aveva sconfitto i burocrati a Mie pronunciandosi contro la proposta di costruire una centrale nucleare. A Chiba, Domoto Akiko, un ex giornalista televisivo di sessantotto anni, aveva vinto le elezioni contro candidati sostenuti da imprese, sindacati e vari partiti politici. A Nagano, il governatore Tanaka Yasuo aveva bloccato la costruzione di dighe nonostante le pressioni della potente lobby edilizia giapponese. A Tottori, il governatore Yoshihiro Katayama aveva aperto gli archivi della prefettura a chiunque volesse consultarli, stabilendo un precedente che doveva aver fatto sobbalzare i suoi omologhi di Tokyo. Mi dedicai anche ad alcuni controlli sul conto di Yukiko e del Damask Rose. Come hacker, in confronto a Harry, sono un pivello, ma non potevo chiedergli aiuto senza che capisse che stavo indagando su di lui. Penetrando nell'archivio con le informazioni fiscali relative al Damask Rose scoprii il cognome di Yukiko: Nohara. Da qui fu facile reperire un'altra corposa massa di notizie. Aveva ventisette anni; era nata a Fukuoka;
aveva studiato all'università Waseda. Abitava in un appartamento sulla Kotto-dori, nel quartiere di Minami-Aoyama. Incensurata. Niente debiti. Nulla di significativo. Il locale risultò più interessante, e più opaco. Era di proprietà di una lunga serie di imprese off-shore. Ammesso che esistesse un qualche nome riconducibile alla proprietà del Damask Rose, si trovava di certo su un documento ufficiale al sicuro in una cassaforte, e non su un computer, dove forse sarei riuscito a scovarlo. La proprietà non desiderava essere ricollegata a quell'attività. Il che, di per sé, non era tanto strano. I business dove girano contanti sono sempre inclini alla riservatezza. Harry sarebbe certamente riuscito a sapere di più, su entrambi i fronti. Era un peccato non poterlo coinvolgere. Sarebbe bastato fornirgli le parole chiave e chiedergli di fare qualche ricerca. Era una seccatura, ma non avevo alternative. Magari l'avrebbe presa male, ma io non mi sarei trattenuto nei paraggi troppo a lungo. «E poi chissà...», pensai. «Magari mi sbaglio. Magari non troverà nulla.» Anche con Naomi i conti tornavano. Naomi Nascimento, cittadina brasiliana, arrivata in Giappone il 24 agosto 2000 nell'ambito del programma JET. Sfruttai il suo indirizzo elettronico per risalire a dove abitava: Lion's Gate Building, un complesso residenziale in Azabu Juban 3-chome. Nessun'altra informazione. Quando i miei preparativi per la partenza erano ormai a buon punto, mi ripromisi di visitare, nei dintorni di Osaka, i luoghi che sapevo di non poter mai più rivedere. Alcuni di questi erano identici a come li ricordavo dalle gite dell'infanzia: Asuka, il villaggio in cui ha avuto origine l'idea stessa del Giappone, con i tumuli sepolcrali da tempo deserti e le superfici incise da immagini soprannaturali di animali ed esseri semi-umani, i cui artefici e il cui significato sono andati perduti nell'ondeggiare senza tempo delle risaie circostanti; Koya-san, la montagna sacra, dove si ritiene sia sepolto Kobo Daishi, la figura più rilevante della storia religiosa del Giappone che, secondo la leggenda, si aggirerebbe in meditazione, tutt'altro che morto, per la grande necropoli sul monte, e la cui veglia è scandita dai mantra intonati dal monaci tra le tombe antiche ed eterne come insetti estivi nei boschi primordiali; e Nara, che per un breve periodo, circa tredici secoli fa, fu capitale della nuova nazione e dove, se si è abbastanza mattinieri da precedere le quotidiane alluvioni di turisti, può capitare di incontrare un vecchio solitario che con le spalle incurvate dal peso degli anni e le ciabatte ai piedi procede sull'acciottolato, eterno e ostinato come l'antica
città. Trovai strana quell'esigenza di dire addio a quei luoghi. In fondo, non erano mai stati miei. Già da bambino avevo capito che il fatto di essere mezzo giapponese significava anche essere, per metà, qualcos'altro. E quest'altra metà era... chigatte. E chigatte significa «diversa», ma anche «sbagliata». La lingua, come la cultura, non basta. Visitai anche Kyoto. Erano più di vent'anni che mi mancava l'occasione di andarci e restai di sasso nel vedere che la graziosa e animata metropoli della mia memoria era pressoché estinta e stava scomparendo come un giardino poco curato, invaso da insulse e industriose erbacce. Dov'era la fulgida vetta del tempio di Higashi Honganji, che si stagliava fra i tetti di tegole circostanti come il mento superbo di una principessa circondata dal suo seguito? Quella magnifica vista, che un tempo accoglieva i viaggiatori in arrivo, era stata cancellata dalla nuova stazione ferroviaria, un abominio che si spandeva su oltre mezzo chilometro di binari come un enorme pezzo di merda precipitato lì dallo spazio, così gargantuesco da non poter essere rimosso. Camminai per ore, meravigliandomi dell'entità dello scempio. Il tempio di Daitokuji era attraversato dalle auto. Il monte Hiei, luogo di nascita del buddhismo giapponese, era stato trasformato in parcheggio, e la sua sommità adibita a parco dei divertimenti. Le strade che un tempo erano fiancheggiate da antiche case di legno ornate di graticci di bambù erano ormai pacchiane accozzaglie di plastica, alluminio e neon, e le case di legno erano scomparse. Si notavano metastasi di cavi telefonici ovunque, orge di fili elettrici e, alle finestre di palazzi prefabbricati, panni stesi ad asciugare come lacrime di occhi dementi. Prima di tornare a Osaka, passai dal Grand Hotel, che è più o meno il centro geografico di Kyoto. Presi l'ascensore fino all'ultimo piano e mi ritrovai a osservare un panorama che - se si escludevano la pagoda Toji e un frammento del tetto del tempio di Honganji - consisteva di un'indistinta cancrena urbana. La vivace bellezza della città era stata ridotta a piccoli crocchi di profughi paurosi, come per effetto di un inspiegabile esperimento di apartheid. Mi venne in mente una poesia di Basho, il bardo girovago, che in occasione della mia prima visita a Kyoto mi aveva commosso. Mi trovavo con mia madre sul torreggiante spalto del tempio di Kiyomizu affacciato sulla città immobile, e lei, prendendomi la mano, mi aveva sorpreso recitando con il suo giapponese dall'accento americano:
Kyou nite mo Kyou natsukashiya... Sono a Kyoto, ma ho nostalgia di Kyoto... Il senso di quella poesia, però, un peana all'ineffabile e inesauribile struggimento, era mutato. Come la città, suscitava soltanto un'amara ironia. Sorrisi tristemente pensando che, se avessi avuto io qualcosa del genere, l'avrei curato meglio. «Ecco che cosa succede a fidarsi del governo», pensai. «La gente dovrebbe saperlo, ormai.» Sentii ronzare il mio cercapersone. Lo sganciai dalla cintura e vidi sul display un numero di telefono, insieme al codice che Tatsu e io avevamo concordato per identificarci a vicenda. In una certa misura mi aspettavo qualcosa del genere, ma non così presto. «Merda», pensai. «Il mondo è troppo piccolo.» Presi di nuovo l'ascensore fino a terra e uscii in strada. Trovato un telefono pubblico in posizione conveniente e sicura, inserii la carta pre-pagata e digitai il numero di Tatsu. Avrei potuto ignorare il suo richiamo, ma era difficile prevedere come avrebbe reagito. Sarebbe stato meglio capire quel che voleva, tenendo un apparente atteggiamento di collaborazione. Dopo il primo squillo, sentii la sua voce. «Moshi moshi», disse, senza presentarsi. «Ciao», dissi io. «Sei ancora lì?» «Che motivo avrei per andarmene?» gli domandai io in tono chiaramente sarcastico. «Dopo il nostro ultimo incontro, pensavo che potesse esserti tornata la voglia di... viaggiare.» «Infatti. Non mi sono ancora deciso, però. Credevo che lo sapessi.» «Sto cercando di rispettare la tua privacy.» Che stronzo! Anche quando era attivamente impegnato a rovinarmi la vita, Tatsu riusciva sempre a strapparmi un sorriso. «Te ne sono grato», risposi. «Vorrei vederti di nuovo, se non ti dispiace.» Io esitai. Lui sapeva già dove abitavo. Non avrebbe avuto bisogno di organizzare un incontro chissà dove se il suo unico scopo fosse stato quello di fregarmi. «Una visita di cortesia?» domandai. «Sta a te scegliere.»
«Vada per la visita di cortesia.» «D'accordo.» «Quando?» «Sarò in città stasera. Stesso posto dell'altra volta?» Esitai di nuovo. «Non so se riusciremo a entrare. C'è però un hotel, lì vicino, con un ottimo bar. Un posto che fa per me. Hai presente?» Mi riferivo al bar del Ritz-Carlton di Osaka. «Lo troverò.» «Ci vediamo al bar dell'albergo alla stessa ora dell'altra volta.» «Va bene. Non vedo l'ora di incontrarti.» Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: «Grazie.» Io riagganciai. 7. Tornai a Osaka con il treno Hankyu e andai subito al Ritz. Volevo raggiungere il luogo dell'incontro con qualche ora di anticipo, per accertarmi che non si trattasse di una trappola. Nell'attesa, ordinai un piatto di frutta e formaggio e bevvi tè Darjeeling. Tatsu fu puntuale, come sempre. E mi fece anche la cortesia di muoversi lentamente per dimostrarmi che non aveva intenzione di prendermi di sorpresa. Mi si sedette di fronte su una delle sedie imbottite. Si guardò intorno, soffermandosi sul rivestimento in legno chiaro delle pareti e sui candelieri e le lampade che le ornavano. «Ho di nuovo bisogno del tuo aiuto», disse dopo un po'. Prevedibile. E diretto, come al solito. Io, invece, lo avrei fatto aspettare, prima di rispondere. «Ti va un whisky?» gli domandai. «Qui servono un ottimo Cragganmore invecchiato dodici anni.» Lui scosse la testa. «Mi piacerebbe, ma il mio medico mi ha detto di evitare certi sollazzi.» «Non sapevo che dessi retta al tuo medico.» Tatsu serrò le labbra come per prepararsi a una dolorosa confessione. «Anche mia moglie comincia a essere piuttosto severa.» Lo guardai e sorrisi, leggermente sorpreso dall'immagine di quell'uomo duro e abilissimo che ubbidiva mansueto alla moglie. «Che cosa c'è?» mi domandò. Gli dissi la verità. «È sempre un piacere vederti, vecchio balordo!» Lui mi sorrise, e intorno ai suoi occhi si manifestò una ragnatela di ru-
ghe. «Kochira koso.» Anche per me. Chiamò la cameriera e ordinò una camomilla. Visto che lui non beveva, mi astenni anch'io dal Cragganmore. Un piccolo gesto di compassione. «Come dicevo», riprese allora Tatsu, «mi serve di nuovo il tuo aiuto.» Tamburellai sul mio bicchiere. «Non doveva essere una visita di cortesia?» Lui annuì. «Ti ho mentito.» Lo sapevo, e lui sapeva che io sapevo. Ciononostante, dissi: «Mi avevi detto che potevo fidarmi di te.» «Per le cose importanti, sì. E, comunque, una visita di cortesia non esclude che uno possa chiedere un favore.» «È davvero un favore quello che mi stai chiedendo?» Si strinse nelle spalle. «Ormai il tuo debito con me l'hai saldato.» «Un tempo mi facevo dare un sacco di soldi per fare certi favori.» «Mi fa piacere sentirti parlare al passato.» «Era il tempo verbale più corretto, fino a pochissimo tempo fa.» «Posso continuare?» «Se chiariamo subito che non sussistono obblighi...» Tatsu annuì di nuovo. «Te l'ho detto.» Si interruppe per pescare da una tasca del cappotto una scatola di mentine. La aprì e me la porse. Io scossi la testa. Lui prelevò una caramella e se la mise in bocca senza neppure chinare la testa per seguire con gli occhi l'operazione. Non era da lui distogliere l'attenzione da quello che gli accadeva intorno, e lo si vedeva dalle più piccole cose come dalle più significative. «Il sollevatore di pesi era un prestanome», disse. «È vero che aveva l'aria del bruto, ma in realtà apparteneva a una nuova generazione della criminalità organizzata giapponese. La specialità in cui si era dimostrato imprevedibilmente abile era la creazione di attività commerciali legittime e presentabili, dietro le quali le sue coorti meno progredite potessero nascondersi.» Annuii, perché avevo osservato quel fenomeno. La nuova generazione, dopo avere appurato che i tatuaggi, l'abbigliamento vistoso e i modi aggressivi consentivano un'ascesa sociale assai limitata, aveva deciso di sbarazzarsi della maschera criminale per lanciarsi nell'economia legale, nel settore immobiliare o nell'intrattenimento. La vecchia guardia, ancora legata alle droghe, alla prostituzione e al controllo sul settore edilizio, cominciava a fare affidamento sui più giovani per il riciclaggio del denaro, l'evasione fiscale e altri servizi. D'altra parte, i giovani si rivolgevano ai loro
predecessori ogni volta che la pressione della concorrenza economica poteva essere alleviata con il ricorso tempestivo a qualche tradizionale attrezzo del mestiere - corruzione, estorsione, omicidio - settore in cui la generazione più vecchia era sempre all'avanguardia. Era una divisione del lavoro per certi versi simbiotica, che avrebbe fatto arrossire d'orgoglio qualsiasi economista classico. «Il sollevatore di pesi aveva creato un sistema efficiente», riprese Tatsu. «Tutti i gumi tradizionali ricorrevano ai suoi servizi. La parvenza di legalità offerta da questo sistema stava rendendo i gumi sempre meno permeabili alle indagini e sempre più influenti a livello politico e nei consigli di amministrazione. Sempre più influenti nella nostra società, insomma. Il nostro comune amico, Yamaoto Toshi, dipendeva in misura crescente dalle attività del sollevatore di pesi.» Gumi significa «gruppo» o «gang». Nell'ambiente degli yakuza, questo termine denota le famiglie della criminalità organizzata, l'equivalente giapponese dei Gambino o degli immaginari Corleone. «Non capisco come la sua scomparsa possa creare problemi», dissi. «Qualcuno prenderà il suo posto.» «A lungo termine, hai ragione. Dove esiste una domanda sufficiente, alla fine si crea un'offerta. Nel frattempo, però, l'ambito dell'offerta è in crisi. Il sollevatore di pesi era essenziale al funzionamento ottimale della sua organizzazione. Non aveva allevato successori, perché temeva, come tutti gli uomini forti, che la presenza di un successore avrebbe reso più probabile la successione. Ora nella sua organizzazione si scatenerà un'aspra lotta. Affiliazioni e rapporti segreti verranno alla luce. L'influenza della criminalità sulle società regolari si attenuerà.» «Per un po'», dissi. «Per un po'.» Pensai a quel che Kanezaki mi aveva detto dell'operazione Crepuscular. «Ho avuto a che fare con un tizio della CIA, ultimamente», dissi. «Mi ha detto una cosa che potrebbe interessarti.» «Davvero?» «Il tizio si chiama Tomohisa Kanezaki. È un americano di origini giapponesi. Mi ha parlato dì un programma della CIA per "promuovere le riforme e rimuovere gli impedimenti". Un'operazione denominata "Crepuscular". Si direbbe che coincida con la tua missione.» Tatsu annuì e poi disse: «Parlami di questo programma.» Io cominciai a raccontargli quel poco che avevo scoperto. Presto, però,
capii. «Tu questo tizio lo conosci», dissi. Tatsu si strinse nelle spalle. «È uno dei due che hanno chiesto aiuto alla polizia metropolitana per rintracciarti.» «Chi è l'altro?» «Il successore di Holtzer a capo dell'ufficio CIA di Tokyo. James Biddle.» «Mai sentito nominare.» «È giovane per quella carica. Sulla quarantina. Forse fa parte di una nuova generazione alla CIA.» Gli raccontai del mio incontro con Kanezaki e con la sua scorta, tralasciando alcuni dettagli per non rivelare il coinvolgimento di Harry. «Come hanno fatto a trovarti?» mi domandò. «Io ci ho messo un anno intero, nonostante avessi a disposizione tutte le risorse locali, Juki Net e le reti di telecamere.» «Un buco nel mio sistema di difesa», ammisi. «Ho già rimediato.» «E questa Crepuscular?» chiese. «Ti ho detto tutto quello che so. Non conosco altri particolari.» Tatsu prese a tamburellare con le dita sul tavolo. «Fa niente. Dubito che Kanezaki-san possa averti detto cose che io ignoro.» Lo guardai, impressionato come sempre dall'ampiezza delle sue fonti di informazione. «Che cosa sai?» «L'amministrazione americana sta finanziando alcuni politici riformisti giapponesi. Si tratta dello stesso sistema adottato dalla CIA nel dopoguerra, quando sosteneva il partito liberal-democratico in quanto baluardo contro il comunismo. Solo che i percettori del denaro sono cambiati.» «E sulla "rimozione degli impedimenti" che cosa mi dici?» Tatsu si strinse nelle spalle. «Può darsi che a questo riguardo, come ha lasciato intendere Kanezaki-san, vogliano il tuo aiuto.» Io scoppiai a ridere. «A volte la presunzione di certa gente rasenta la megalomania.» Lui annuì. «Forse sospettano - a torto, certo - che tu abbia qualcosa a che fare con l'eliminazione di Holtzer. In ogni caso, ti conviene stare alla larga da loro. Sappiamo bene che di quella gente non ci si può fidare.» Sorrisi per quell'uso, probabilmente deliberato, del «noi» e del «loro», come se Tatsu e io fossimo soci. «Perfettamente d'accordo», dissi. «Veniamo al favore che volevi chiedermi.» Lui aspettò un attimo prima di parlare. «È un altro uomo-chiave di Ya-
maoto. Un uomo il cui aspetto rozzo nasconde un'ampia e sofisticata gamma di abilità.» «Chi è?» Mi guardò. «Un uomo nella cui mentalità non farai fatica a calarti. Un killer.» «Ah, davvero?» dissi, fingendo noncuranza. La cameriera portò la camomilla e la posò sul tavolo davanti a Tatsu, che sollevò la tazza e, prima di avvicinarla alle labbra, la protese verso di me a mo' di silenzioso brindisi. «È un uomo strano», disse, fissandomi. «A guardare la sua biografia, lo si potrebbe giudicare un bruto. Ha subito abusi da piccolo. Risse a scuola. Precoci sintomi di tendenze sadiche. Ha lasciato il liceo per darsi al sumo, ma non è riuscito a sviluppare una massa corporea sufficiente. Allora si è dedicato alla boxe tailandese, facendo una carriera breve e poco significativa. Più o meno cinque anni fa è entrato nel giro di uno sport in cui nessun colpo è escluso. Si chiama "Orgoglio". Hai presente?» «Certo», dissi. Il Pride Fighting Championship è uno sport che consiste in una combinazione di arti marziali praticata in Giappone, con tornei trasmessi in tv che si tengono più o meno ogni due mesi. L'idea fondamentale di questo sport è di disputare incontri di lotta in cui sia possibile ricorrere a qualsiasi disciplina marziale tradizionale: boxe, jujitsu, judo, karatè, kempo, kung fu, Muay Thay, sambo, wrestling. Il pubblico di questo genere di sport è andato aumentando di continuo, e con esso l'interesse per eventi correlati tipo King of the Cage in Gran Bretagna e Ultimate Fighting Championship negli Stati Uniti. Questo sport ha avuto diversi problemi con le autorità competenti, più inclini a tollerare un pestaggio all'ultimo sangue tra pugili che non una lotta da cui puoi salvarti battendo a terra con la mano. «Che cosa ne pensi?» mi domandò. Io scrollai le spalle. «I concorrenti sono forti. Ottime capacità, ottimo allenamento. E un bel po' di fegato, anche. Certi incontri che ho visto sono proprio al limite tra lo sport e un combattimento vero. Ma la storia della "lotta senza esclusione di colpi" è un semplice slogan. Finché non si decidono ad ammettere i morsi, le dita negli occhi e i colpi nelle palle e finché non dissemineranno il tappeto di arnesi utilizzabili come armi di fortuna, non sarà mai davvero tale.» «È interessante questa tua osservazione. Figurati che il tizio in questione sembra essersi posto proprio questo problema. Ha lasciato lo sport per en-
trare nel giro dei combattimenti clandestini a mani nude, dove davvero si lotta senza esclusione di colpi e dove spesso si combatte davvero all'ultimo sangue.» Avevo sentito parlare di questi combattimenti. Avevo persino conosciuto un tizio che li faceva, un certo Tom, americano, che per un periodo aveva fatto judo al Kodokan. Era un duro, ma insolitamente raffinato, che mi mise a parte di alcune interessanti e preziose riflessioni sulla filosofia del combattimento senza armi. Io l'avevo sconfitto a judo, ma non ero certo di poterlo battere in un contesto meno regolato. «A quanto sembra, quest'uomo aveva un notevole successo in queste sfide clandestine», disse Tatsu. «E non soltanto contro altri uomini. Anche in combattimenti contro animali. Cani, in genere.» «Cani?» domandai, sorpreso. Lui annuì con un'espressione torva. «Queste attività sono gestite dalla yakuza. Era inevitabile che le abilità del nostro uomo e la sua inclinazione alla crudeltà giungessero all'attenzione degli organizzatori, e che questi immaginassero per lui un impiego più utile di quei combattimenti con borsa in palio.» Io annuii. «Poteva uccidere a più ampio raggio.» «Esatto. E nell'ultimo anno è appunto quello che ha fatto.» «Hai detto che possedeva anche abilità più sofisticate?» «Sì, credo che sia capace di cose che, un tempo, pensavo fossero tuo patrimonio esclusivo.» Non commentai. «Negli ultimi sei mesi», riprese Tatsu, «ci sono state due strane morti, apparentemente qualificabili come suicidi. Le vittime erano entrambe alti dirigenti di banche prossime alla fusione con altri istituti. A quanto sembra, si sono entrambi gettati dal tetto di un palazzo.» Mi strinsi nelle spalle. «Da quel che ho letto di recente sulla situazione di bilancio delle banche, mi sorprende che siano solo due i suicidi. Me ne sarei aspettata una cinquantina.» «Venti o anche dieci anni fa, magari, sarebbe andata così. Al giorno d'oggi, però, in Giappone, l'espiazione mediante suicidio è più un ideale che una pratica.» Bevve un sorso di camomilla. «La giustificazione all'americana è decisamente più in voga.» «"Sono mortificato per gli errori commessi"», dissi, sorridendo. «In molti casi non arrivano neanche a dire: "Sono mortificato"; preferiscono formule tipo: "Purtroppo sono stati commessi degli errori..."»
«Tra un po' chiederanno di inserire la tangentomania tra le malattie professionali la cui cura è a carico dello stato.» Tatsu sogghignò. «No, non ancora.» Bevve un altro sorso. «Nessuno dei due saltatori ha lasciato un biglietto. E ho scoperto che erano entrambi preoccupati perché l'entità dei prestiti inesigibili dichiarati dalla controparte era notevolmente inferiore a quella effettiva.» «E con questo? Lo sanno tutti che i prestiti di quel genere sono molto più cospicui di quanto le banche e i governi siano disposti ad ammettere.» «Vero. Questi uomini, però, avevano minacciato di rivelare i dati reali per cercare di bloccare una fusione priva di una valida giustificazione economica, ma che era cionondimeno favorita da certe personalità di governo.» «Una mossa non particolarmente intelligente, a quanto sembra.» «Spiegami una cosa», disse Tatsu guardandomi in faccia. «Una domanda puramente accademica. È possibile, realisticamente, gettare qualcuno da un palazzo e far sì che sembri un suicidio?» La risposta era assolutamente affermativa, ma decisi di prendere Tatsu alla lettera e attenermi alla più pura accademia. «Dipende dall'accuratezza della successiva autopsia», dissi. «Poniamo che l'accuratezza sia massima.» «Con un'autopsia molto accurata, sarebbe difficile, ma pur sempre possibile. Il problema principale consiste nel gettare la vittima nel vuoto senza farsi vedere. Senza un motivo capace di attirarla sul tetto e senza la certezza che questa, prima o poi, ci vada spontaneamente, sul tetto bisognerà trasportarcela di peso. In tal caso, la vittima, qualora sia cosciente, farà un baccano infernale. Inoltre, se cercherà - com'è naturale - di divincolarsi, rimarranno tracce della colluttazione. La tua pelle sotto le sue unghie. Magari qualche capello tra le sue dita irrigidite. Altri particolari incompatibili con un gesto volontario. La vittima, infine, lotterà senza curarsi della propria incolumità, senza far caso al dolore, e quindi tu porterai i segni della lotta anche addosso. Non hai idea di quello che può fare un uomo cosciente di dover lottare per la propria sopravvivenza.» «Non sarebbe possibile legare la vittima?» «Restano i segni, anche se la vittima non oppone resistenza.» «E la vittima, in genere, un po' di resistenza la oppone...» «Tu non lo faresti?» «E ucciderla prima di buttarla giù?»
«Si può fare, ma è rischioso. Subito dopo la morte, il cadavere è soggetto a trasformazioni rapide. Il sangue ristagna. La temperatura cala. E gli effetti di una caduta su un cadavere sono diversi da quelli che si osservano su un essere ancora vivo. Il medico potrebbe notare alcune discrepanze. E poi c'è sempre il problema dei segni lasciati dalla vera causa del decesso.» «E se la vittima al momento della caduta è viva, ma priva di sensi?» «È questa la soluzione che sceglierei io. Se la vittima è priva di sensi, però, c'è il problema di trasportarla di peso. E portarsi in spalla settanta o ottanta chili a peso morto non è facile. Inoltre, se per metterlo fuori combattimento ricorri a una qualche droga, è probabile che l'autopsia ne individui le tracce nel sangue.» «E se si usa l'alcol?» «Se riesci a far bere la vittima fino a farle perdere i sensi, a quel punto sei a cavallo. Molti aspiranti suicidi bevono prima di premere il grilletto, perciò l'alcol non susciterebbe sospetti. Come fare, però, per convincere la vittima a bere così tanto?» Tatsu annuì. «I due che sono saltati nel vuoto avevano nel sangue una quantità di alcol da far perdere i sensi.» «Potrebbe essere andata come pensi tu. Oppure no. È questo il bello.» «Un'iniezione?» «Può darsi, ma per iniettare una tale quantità di alcol non puoi fare a meno di lasciare il segno evidente della puntura. Se poi trovassero l'alcol nel sangue, ma nessun residuo, poniamo, di Asahi Super Dry nello stomaco, non sarebbe un buon segno.» «Si può sempre organizzare una trappola. Una donna, magari, che carichi a dovere i drink e faccia bere la vittima più di quanto sia in grado di reggere.» «Potrebbe funzionare.» «Tu come agiresti?» «Sempre ragionando per ipotesi?» Mi guardò. «Ovviamente», disse. «Se ragioniamo per ipotesi, io cercherei di sorprendere la vittima a tarda notte, quando c'è in giro poca gente. A casa sua, magari, purché la vittima sia sola e io in condizione di arrivare sul posto senza essere visto. Mi vestirei da inserviente, perché nessuno bada mai agli inservienti, colpirei la vittima con un taser e la infilerei in un grosso carrello da lavanderia o in un bidone della spazzatura, a seconda di quello che si trova sottomano. Imbottirei il contenitore con qualcosa di morbido per evitare che la vittima possa
riportare contusioni incompatibili con la caduta. Somministrerei una scossa elettrica ogni quindici secondi, per assicurarmi che la vittima resti in silenzio, e questo, con la poca gente che ci sarebbe in giro, non dovrebbe risultare troppo difficile. Lo porterei sul tetto, lo porterei fino al bordo del cornicione e lo butterei giù. Così agirei io. Ragionando per ipotesi.» «Che cosa penseresti se trovassi una piccola striscia di plastica impigliata nel braccialetto dell'orologio della vittima?» «Che tipo di plastica?» «Tipo foglio, di un certo spessore. Del tipo che si compra a rotoli per proteggere mobili e altri oggetti di valore di grosse dimensioni.» Conoscevo diversi usi possibili per quel genere di plastica, e ci riflettei su un momento. «Il killer potrebbe aver fatto ubriacare la vittima. Tralasciamo per ora il modo. A quel punto, può averla avvolta nella plastica per evitare di lasciarle addosso delle tracce e, dopo averla trasportata fino al bordo del cornicione, ha afferrato un lembo della plastica con un forte strattone, e la vittima è rotolata fuori precipitando nel vuoto. Un lavoro pulito.» «A meno che, in qualche modo, la plastica non si impigli nel braccialetto dell'orologio della vittima.» «Non è impossibile, ma se è questo l'unico appiglio su cui puoi contare, allora sei messo male.» «C'è anche un testimone oculare, un lift che faceva la notte nell'hotel da cui è precipitata una delle vittime. Alle tre di notte, la stessa ora in cui, secondo il coroner, è avvenuto il decesso, questo testimone ha visto un inserviente entrare in un ascensore con un grosso carrello. Proprio la scena che hai appena descritto.» «Ha fornito una descrizione di questo inserviente?» «Con molti particolari. Una guancia sinistra sfondata, che risale ai tempi in cui faceva Muay Thay. Un insolito sfregio sull'altro lato della faccia, sotto l'occhio. Morsi di cane cicatrizzati. "Una faccia spaventosa", ha dichiarato. E direi che non gli si può dare torto.» «Scommetto che non c'è nessun inserviente, in quell'hotel, che corrisponda a questa descrizione.» «Indovinato.» «Che fine ha fatto il lift?» «È scomparso.» «Morto?» «Probabile.»
«Non c'è altro?» Tatsu si strinse nelle spalle. «Ci sono altri due casi, fuori Tokyo, di persone morte in circostanze simili. Entrambi familiari di un importante membro del parlamento.» Serrò la mascella, per poi allentarla. «Una delle vittime è un bambino.» «Un bambino?» Di nuovo, serrò e rilassò la mascella. «Sì, un bambino che non aveva mai manifestato il benché minimo problema a scuola. Nessun segnale che facesse pensare a intenzioni suicide.» Sapevo che anche Tatsu aveva perso un figlio piccolo, ma non gli chiesi nulla. «Se queste morti avevano lo scopo di mandare un messaggio ai superiori delle vittime», dissi, «il messaggio è forse un po' troppo sottile. Se i destinatari del messaggio penseranno che si tratti di suicidio, il loro comportamento non ne sarà influenzato.» Lui annuì. «Ho avuto modo di interrogare i responsabili di entrambe le banche. Hanno negato di avere mai avuto contatti che adombrassero ipotesi diverse dal suicidio. Mentivano entrambi.» Tatsu aveva fiuto per quel genere di cose, e io mi fidavo del suo giudizio. «Mi sorprende che tu non abbia preso in considerazione l'ipotesi di un mio coinvolgimento», dissi. Lui lasciò trascorrere una breve pausa, prima di rispondere. «Avrei anche potuto, ma se da un lato non pretendo di capire come tu riesca a fare quello che fai, dall'altro credo di conoscerti. Tu non uccideresti mai un bambino. Non in quel modo.» «Te l'ho detto chiaramente», assentii. «Lascia perdere quello che mi hai detto. Io sto parlando di quello che so.» Provai una strana gratificazione per quella sua dimostrazione di fiducia. «In ogni caso», proseguì, «alcuni tuoi movimenti rilevati dal sistema di telecamere di Osaka ti fornivano un alibi.» Sollevai le sopracciglia. «Come? Con le vostre telecamere riuscite a rintracciare me, ma non siete capaci di beccare uno che va in giro ad avvolgere le persone nella plastica e poi le butta giù dai tetti?» «Come ti ho già detto, la rete di sorveglianza è tutt'altro che perfetta. Inoltre, io non ho il controllo sul suo utilizzo.» Mi guardò. «E poi non sono l'unico ad avere accesso ai dati.» Finii il mio tè e chiesi alla cameriera di portarmi altra acqua bollente.
Restammo in silenzio fino al suo arrivo. Io presi l'elegante tazza di porcellana e guardai Tatsu. «Dimmi una cosa.» «Sputa.» «Queste domande... Tu conoscevi già la risposta, vero?» «Ovvio.» «Perché allora sei venuto?» Si strinse nelle spalle. «Mi sa che il nostro uomo è un individuo socialmente pericoloso. È capace di uccidere in qualsiasi circostanza. Io sto cercando di capire come agisce un essere del genere.» «Servendoti di me?» Tatsu annuì. «Non hai appena detto che non corrispondo al modello?» Il mio tono di voce risultò più brusco di quanto fosse nelle mie intenzioni. «Tu sei quanto di più simile a quest'uomo io abbia mai conosciuto. Perciò, sei la persona più adatta a dargli la caccia.» «Che cosa significa "dargli la caccia"?» «Lui è molto cauto nei suoi movimenti. Non è facile individuarlo. Ho qualche traccia, ma bisognerebbe seguirle.» Bevvi un goccio di tè, pensieroso. «Non capisco, Tatsu.» «Che cosa?» «Il primo tizio, quello che gestiva le attività di facciata, era un personaggio-chiave, d'accordo. Quest'altro, l'ammazza-cani, non è che un manovale. Perché non cerchi di incastrare Yamaoto e gli altri pezzi grossi?» «I "pezzi grossi", come li chiami tu, sono difficili da prendere. Troppe guardie del corpo, troppi sistemi di sicurezza, troppa visibilità. Yamaoto, in particolare, ha rafforzato le sue difese - per paura che tu possa dargli la caccia, credo - e ora è inaccessibile come il primo ministro. Inoltre, se anche fosse possibile incastrarli, ci sono molte altre persone come loro, nelle diverse fazioni, pronte a prendere il loro posto. Sono come i denti di uno squalo. Puoi strapparne uno, ma ce ne sono altre dieci file pronte a tappare il buco. In fondo, essere un pezzo grosso non è così difficile. Che cosa ci vuole? Un po' di acume politico. Una certa capacità di razionalizzazione. E l'avidità. Un profilo neanche tanto raro, mi sembra.» Bevve un sorso di camomilla. «E poi quest'uomo non è un semplice bruto. È spietato, è abile, è temuto. Un individuo speciale, la cui perdita sarebbe un grave colpo per i suoi capi.» «D'accordo», dissi. «Visto che da parte mia non sussistono obblighi, che
cosa mi offri?» «Non ho denaro da offrirti. E anche se ne avessi, dubito che potrei arrivare alle cifre che ti versavano Yamaoto e la CIA.» Forse stava cercando di provocarmi. Io feci finta di nulla. «Non vorrei sembrarti troppo esplicito, vecchio mio, ma tu mi stai proponendo di correre un rischio pazzesco. Sai bene che anche il solo fatto di andare a Tokyo comporta dei rischi per me.» Tatsu mi guardò. Per rispondere adottò un tono misurato, sicuro. «Non è da te credere che i tuoi problemi con Yamaoto e la CIA siano circoscritti a Tokyo», disse. Non capivo dove volesse andare a parare. «A Tokyo i rischi sono molto più concreti», replicai. «Te l'ho detto: Yamaoto si è sentito costretto a condurre un'esistenza molto più protetta dall'ultima volta che ti ha incontrato. Ha limitato di molto le sue uscite politiche; ha smesso di allenarsi al Kodokan; si muove solo se è circondato dalle guardie del corpo. A naso, direi che non è molto contento di queste restrizioni. Anzi, direi che è molto arrabbiato, soprattutto con chi è causa di questa situazione.» «Lo so da me che Yamaoto ha più di un motivo per eliminarmi», dissi. «So quello che vorrebbe farmi. E non è neanche soltanto una questione di affari. È il tipo di uomo che si sente umiliato e porta rancore: non dimenticherà tanto facilmente che io ho contribuito a sottrargli quel cd-rom.» «Ah, sì? E non è una cosa che ti tiene sveglio di notte?» «Se mi lasciassi togliere il sonno da queste cose, le occhiaie mi arriverebbero sotto i piedi. E poi Yamaoto può avere tutti i motivi che vuole. Io non gli concederò mai l'occasione di colpirmi.» Tatsu annuì. «Ne sono certo. Non volontariamente, almeno. Come ti ho già detto, però, io non sono l'unico ad avere accesso a Juki Net.» Lo guardai, domandandomi se le sue parole non nascondessero magari una velata minaccia. Tatsu non è mai troppo scoperto. «Che cosa vuoi dire, Tatsu?» «Dico solo che se sono riuscito a trovarti io, potrebbe riuscirci anche Yamaoto. E non è neanche l'unico impegnato nella ricerca. Anche la CIA, come sai, è ansiosa di incontrarti di nuovo.» Bevve un sorso. «Se fossi nei tuoi panni sentirei di avere due sole possibilità. La prima è rimanere in Giappone, ma non a Tokyo, e cercare di tornare alla solita vita. Questa è forse la scelta meno complicata, ma anche la meno sicura.»
Sorbì un altro sorso. «La seconda consiste nel lasciare il paese per rifarti una vita altrove. Questa è la via più difficile, ma garantisce una maggiore sicurezza. Il problema, in entrambi i casi, è che avrai lasciato alcuni conti in sospeso con gente che ti vuole male e che dispone di ramificazioni globali e di memoria di ferro; inoltre, non avrai alleati su cui contare.» «Non ho bisogno di alleati», dissi, ma la battuta sembrò fiacca anche a me. «Se decidi di lasciare il Giappone, possiamo salutarci da amici», dissi, «ma se oggi non posso contare sul tuo aiuto, mi sarà difficile, un domani, darti l'aiuto che potrebbe servirti.» Tatsu non era mai stato così esplicito. Pensai alla sua richiesta, incerto sul da farsi. Mollare tutto e scomparire in Brasile, nonostante i preparativi non fossero conclusi? Chissà... In realtà, però, mi inquietava il pensiero di lasciarmi alle spalle appigli che certa gente avrebbe potuto utilizzare per rintracciarmi. In effetti, nonostante Tatsu avesse tutto l'interesse a esagerare i pericoli posti da Yamaoto e dalla CIA, la sua valutazione non era tanto diversa dalla mia. In alternativa, avrei potuto sbrigare quest'ultimo lavoro e scrollarmelo di dosso, spiazzandolo per il tempo necessario a completare i miei preparativi. D'altra parte, quello che Tatsu mi offriva non era poco. Lui aveva accesso a persone e luoghi che neppure Harry, da hacker, riusciva a raggiungere. Qualunque cosa avessi deciso di fare dopo, Tatsu sarebbe stato un punto di riferimento utilissimo. Riflettei ancora un po' sulla questione e poi dissi: «Qualcosa mi dice che hai portato una busta.» Tatsu annuì. «Dammela», aggiunsi. 8. Portai la busta a casa mia, e fu lì che ne esaminai il contenuto. Mi sedetti alla scrivania e dispiegai le carte. Sottolineai alcuni passaggi. Annotai qualche pensiero a margine. Un po' leggevo, un po' scorrevo i fogli, cercando di cogliere il quadro d'insieme, il succo. Il mio uomo si chiamava Murakami Ryu. Su molte delle cose che Tatsu mi aveva in parte già illustrato, il dossier era dettagliatissimo, ma mancava di quel genere di particolari che a me servono per studiare a fondo una vittima predestinata. Dove abitava? Dove lavorava? Che abitudini aveva?
Quali manie? Quali percorsi obbligati? Chi frequentava? Nessuna notizia, o notizie troppo vaghe e, per il momento, inutili. Non era un fantasma, ma neppure un cittadino regolare. Questi, infatti, hanno un indirizzo, un posto di lavoro, un codice fiscale, un'auto immatricolata, cartelle cliniche. Il fatto che Murakami ne fosse apparentemente privo era di per sé un'informazione significativa. Poteva servire da cornice per un quadro che, però, non esisteva ancora. La mancanza di informazioni era indicativa di un atteggiamento assai prudente. Serio. Realistico. Era un uomo che non voleva correre rischi, che si muoveva con estrema attenzione: un uomo sui cui errori c'era ben poco da sperare. Sfogliai il dossier. Per quel che si sapeva dei suoi rapporti con la criminalità organizzata, aveva collaborato con molte famiglie diverse. Non operava in esclusiva per un unico gumi. Era un free-lance, un cane sciolto, legato a molti ambienti, ma senza farne parte. Come me. Gli piacevano gli hostess bar, evidentemente. Era stato avvistato in più di un locale del genere, tutti piuttosto di lusso, dove, diversamente da me, arrivava a spendere l'equivalente in yen di ventimila dollari a sera. Gli spendaccioni li si nota. Nel mio settore, «attenzione» significa «non essere notati». Segno di impulsività? Carenza di disciplina? Forse. In ogni caso, il suo comportamento non sembrava inquadrabile in un modello. Non avevo tracce da seguire. C'era qualcosa di poco chiaro, però, in quelle periodiche baldorie. Mi ripromisi di approfondire in un secondo momento e chiusi gli occhi, cercando di far emergere il quadro più generale. La lotta. Questa era una costante, ma le informazioni fornite da Tatsu sui luoghi e gli orari in cui quei combattimenti clandestini si svolgevano, nonché su chi fosse il patrocinatore di tali eventi, erano poco dettagliate. La polizia ne aveva interrotti alcuni, in luoghi sempre diversi. Il fatto che le forze dell'ordine si fossero messe a disturbare i combattimenti significava che non erano state pagate per non farlo. E da ciò si poteva dedurre che gli organizzatori erano disposti a perseguire la segretezza a costo di qualche saltuaria irruzione. Il che rivelava una certa astuzia, e forse anche un po' di taccagneria. Peccato, dal mio punto di vista. Se i poliziotti avessero preso dei soldi dagli organizzatori, qualche voce sarebbe girata, e Tatsu ne sarebbe stato al corrente.
«Concentrati sui combattimenti», pensai, cercando di mettere a fuoco la situazione. «I combattimenti... non sono un lavoro, per lui. Lui è un killer. Combatte per divertimento.» A quanto potevano ammontare le poste in palio? Quanto bisogna pagare per convincere due uomini a salire su un ring da cui entrambi sapevano che solo uno sarebbe uscito vivo? Quanta gente assisteva a questi spettacoli? Quanto si pagava per poter vedere due uomini impegnati in una lotta all'ultimo sangue? E quanti soldi si scommettevano? Quanto ci guadagnavano gli organizzatori? Il pubblico doveva essere poco numeroso. Altrimenti, si sarebbe sparsa la voce, e sarebbe arrivata la polizia. Entusiasti. Appassionati. Una cinquantina, magari. Calcolando cento o duecentomila yen a testa per entrare e la totale libertà di scommettere, doveva esserci un bel giro di soldi. Mi appoggiai allo schienale della mia poltrona Aeron, le dita intrecciate dietro la nuca, gli occhi chiusi. Calcolai l'equivalente di ventimila dollari al vincitore del combattimento, più un paio di migliaia di dollari come premio di consolazione allo sconfitto... se sopravviveva. In caso contrario, questi soldi andavano ai suoi secondi che dovevano, tra l'altro, sbarazzarsi del corpo. Spese generali assai limitate. L'organizzazione incassava, probabilmente, una cifra prossima agli ottantamila dollari. A Murakami piaceva combattere. Cristo, il Pride non gli bastava! Aveva bisogno di altro. E non si trattava di soldi. Il Pride, tra promozioni e payper-view, era sicuramente più remunerativo, sia per i vincitori sia per gli sconfitti. No, non erano i soldi che lo attiravano. Era l'eccitazione. La prossimità alla morte. Lo stato di alterazione mentale che puoi provare solo uccidendo un uomo impegnato con tutte le sue forze nel tentativo di uccidere te. Conosco bene questa sensazione. Mi affascina e mi repelle al tempo stesso. E so che nel caso di certi uomini - molti dei quali possono vivere ed essere fedeli alla propria natura solo come i più duri tra i mercenari più duri - diventa una schiavitù. Questi uomini vivono per uccidere. È l'unica cosa che li fa sentire vivi. Conoscevo un uomo del genere. Il mio fratello di sangue, Crazy Jake. Ricordavo bene come Jake andava su di giri dopo ogni missione. Avvampava letteralmente, e non solo il suo umore, ma anche il suo metabolismo. Sembrava quasi di vedere lo sfolgorio del calore emanare dal suo corpo. Quelle erano le sole occasioni in cui gli si scioglieva la lingua. Rac-
contava per filo e per segno com'era andata, gli occhi iniettati di sangue e la bocca piegata in un ghigno folle. E mostrava i trofei. Scalpi e orecchi. Quei trofei dicevano: «Loro sono morti! Io sono vivo!» A Saigon pagava da bere a tutti. E pagava le donne per tutti. Dava delle feste. Gli serviva un gruppo che festeggiasse con lui. «Io sono vivo! Quegli stronzi sono morti, e io sono vivo!» Mi sporsi in avanti e, premendo i palmi aperti sul ripiano della scrivania, aprii gli occhi. Le bevute al bar. Hai appena ucciso e sei sopravvissuto. Hai voglia di festeggiare. Ti hanno pagato in contanti. E festa sia! Sentivo di essere sulla strada giusta. I primi fugaci barlumi di luce, l'impressione di aver cominciato a capire come muovermi per avvicinarlo. Aveva la mania dei combattimenti. Era assuefatto all'eccitazione che si prova combattendo. Però era un uomo serio. Un professionista. Procedetti a ritroso. Di certo si allenava. E non in un volgare dojo di quartiere a tariffa mensile, insieme ai guerrieri della domenica. E neanche in posti più seri tipo il Kodokan, dove i judoka della polizia vanno a tenersi in forma. Gli serviva, e doveva aver trovato, qualcosa di più tosto. Se avessi trovato quella palestra, sarei arrivato anche a lui. Feci una passeggiata lungo il fiume Okawa. Chiatte stracariche di immondizia sonnecchiavano inerti sull'acqua verdastra. I pipistrelli piombavano in picchiata verso di me, a caccia di insetti. Alcuni ragazzini reggevano canne da pesca seduti su un parapetto di cemento, nella speranza di tirar fuori Dio solo sa cosa dalle melmose acque sottostanti. Approfittai di un telefono pubblico per comporre il numero che mi aveva dato Tatsu. Rispose al primo squillo. «Possiamo parlare?» gli domandai. «Sì.» «Il nostro uomo si allena per i combattimenti, ma non in un normale dojo.» «Credo che tu abbia ragione.» «Hai qualche informazione, al riguardo?» «Tutto quel che so è nel dossier che ti ho dato.» «Okay. Ti dico che cosa dobbiamo cercare. Un posto piccolo. Cinquecento metri quadrati, o giù di lì. Non in un quartiere di lusso, ma neanche troppo popolare. Un posto discreto. Senza insegne. Clientela selezionata.
Malavitosi, bikers, guardie del corpo. Gente con precedenti penali. Storie di violenza alle spalle. Mai sentito parlare di posti del genere?» «No, ma so dove andare a cercare.» «Quanto tempo ti serve?» «Un giorno. Magari un po' meno.» «Usa la bacheca elettronica per comunicarmi l'esito della ricerca. Fammi uno squillo sul cerca-persone quando hai finito.» «Contaci.» Riagganciai. Il segnale arrivò l'indomani mattina. Andai a consultare la bacheca elettronica in un Internet café di Umeda. Il messaggio di Tatsu conteneva tre diverse informazioni. La prima era un indirizzo: Asakusa 2-chome, numero 14. La seconda era che un individuo corrispondente alla memorabile descrizione di Murakami era stato visto entrare a quell'indirizzo. La terza era che il sollevatore di pesi da me ucciso era uno dei finanziatori di quella specie di dojo. La prima informazione mi indicava dove andare. La seconda mi diceva che ne sarebbe valsa la pena. La terza mi fornì qualche idea sul modo di intrufolarmi. Spedii un messaggio a Harry chiedendogli di controllare se la buonanima del mio collega sollevatore di pesi aveva per caso ricevuto sul cellulare qualche telefonata smistata dal ripetitore più vicino all'indirizzo di Asakusa. Sulla base delle informazioni fornitemi da Tatsu, mi parve assai probabile. In tal caso, avrei avuto la conferma del fatto che il sollevatore aveva frequentato quel dojo e, quindi, avrei potuto usare il suo nome come referenza. A Harry domandai anche se non fosse stato contattato di recente da qualche funzionario del governo americano. Inviai il mio messaggio alla bacheca elettronica e lo avvisai sul cerca-persone. Un'ora dopo fu il mio cerca-persone a squillare. Consultai la bacheca elettronica e scaricai il suo messaggio. Nessuna visita di funzionari IRS, con un emoticon sorridente accanto alla risposta. E un elenco delle conversazioni telefoniche del sollevatore di pesi smistate dal ripetitore di Asakusa 2-chome. Eravamo sulla strada giusta. Con lo stesso sistema dissi a Tatsu che sarei andato a dare un'occhiata e che gli avrei fatto sapere qualcosa. Gli chiesi di preparare una copertura per Arai Katsuhiko, l'identità che avevo usato per presentarmi alla palestra del sollevatore di pesi. Arai-san doveva risultare un provinciale, e questo avrebbe spiegato la mancanza di contatti locali. Un po' di prigione nella
provincia d'origine - per violenza, magari - sarebbe stato l'ideale. Qualche traccia di un impiego in una ditta locale - in un settore non direttamente sottoposto al controllo della criminalità -sarebbe tornata utile. Chiunque avesse deciso di controllare i miei dati - e se le cose fossero andate come speravo, ero certo che qualcuno l'avrebbe fatto - avrebbe trovato soltanto la storia di un uomo intenzionato a lasciarsi alle spalle un passato fallimentare, giunto in città per sfuggire a ricordi dolorosi e, magari, per ricominciare daccapo. A tarda sera presi un treno ad alta velocità e arrivai alla stazione di Tokyo intorno a mezzanotte. Scelsi di registrarmi all'Imperial Hotel di Hibiya, un albergo centrale che manca delle attrattive e del lusso del Seiyu Ginza, del Chinzanso o del Marunouchi Four Season, ma compensa ampiamente questa mancanza con le sue dimensioni, con l'anonimato che concede e con un gran numero di entrate e di uscite. L'Imperial era anche l'ultimo hotel in cui ero stato con Midori, ma la scelta fu i-spirata da motivi di sicurezza, non dai sentimenti. L'indomani mattina mi collegai alla bacheca elettronica. Tatsu mi aveva fornito l'identità che avevo richiesto, insieme alle indicazioni per trovare, alla stazione di Tokyo, la casella postale dove aveva depositato i documenti. Lessi il messaggio e, dopo averlo memorizzato, lo cancellai. Eseguii un percorso anti-pedinamento che si sviluppò all'interno della stazione di Tokyo, dove ritirai i documenti intestati ad Arai Katsuhiko, e si concluse alla stazione Toranomon della linea Ginza, la più antica del metrò di Tokyo. Da lì presi un treno per Asakusa, un quartiere nordorientale che fa parte di quello che resta dello shitamachi, il cuore dell'antica Tokyo. Asakusa 2-chome si trova a nord-ovest della stazione, cosicché io vi arrivai passando per il Sensoji, il complesso del tempio di Asakusa. Entrai dal Kaminarimon, la Porta del Tuono, che secondo le credenze protegge Kannon, la dea della misericordia, al cui culto questo tempio è dedicato. Mi ci avevano portato i miei genitori quando avevo cinque anni, e la lanterna di carta alta tre metri che orna quell'ingresso del tempio è uno dei miei ricordi più antichi. Mia madre aveva voluto che facessimo la fila da Tokiwado, che fa i cracker migliori del Giappone, per comprare il kaminari okoshi, la merenda tipica di Asakusa. Mio padre non voleva perdere tempo per una stupidaggine da turisti, ma lei lo aveva ignorato. I cracker mi erano sembrati meravigliosi - croccanti e dolci - e mentre li mangiavamo mia madre aveva continuato a ridere, dicendo: «Oichi, ne? Oichi, ne?» Buoni, eh?, finché anche mio padre aveva ceduto e si era messo a mangia-
re con noi. Davanti al tempio di Sensoji mi fermai e mi voltai a osservare il complesso. Tutt'intorno, turisti frementi, venditori ambulanti che incoraggiavano i potenziali clienti e scolaretti urlanti circondati dalle legioni di piccioni che di quel luogo hanno fatto la propria casa. Qualcuno stava agitando un barattolo da chiaroveggente, detto omikuji, pieno di monete da cento yen depositate nella speranza di ingraziarsi la sorte. Fui colpito da una voluta di incenso che esalava da un gigantesco okoro di ottone, dolce e acre allo stesso tempo. Intorno all'incensiere erano radunati crocchi di persone che attiravano i fumi verso le parti del loro corpo che speravano così, magicamente, di curare. Un vecchio con un cappello da pescatore ne raccoglieva intere nubi in grembo, ridendo di gusto. La guida di un gruppo di turisti cercò di organizzare una foto collettiva, ma ondate di passanti continuavano a ostacolare lo scatto. La gigantesca porta di Hozomon torreggiava silenziosa e torva, sdegnosa ma ormai abituata da decenni al clamore dei turisti, ai fotografi, al guano ammassato sui propri cornicioni come cera di candele. Procedetti verso ovest. Il frastuono si attenuò, sostituito da uno strano e deprimente silenzio che incombeva sulla zona come una cappa di fumo. Fatta eccezione per la frenetica attività di Sensoji, Asakusa portava i segni del grave declino decennale del Giappone. Proseguii guardandomi intorno con attenzione, per fotografare mentalmente la zona. Il parco dei divertimenti di Hanayashikì se ne stava imbronciato alla mia destra, con la sua ruota panoramica che girava inutilmente sullo sfondo del cielo cinereo. Lo spiazzo alle spalle della ruota era perlopiù occupato da qualche piccione migrato fin lì dal vicino tempio e i cui rari battiti d'ali riecheggiavano nel silenzio circostante. Qua e là, crocchi di barboni intenti a fumare sigarette di seconda mano. Un postino tolse alcune lettere dal fondo di una cassetta della posta e si allontanò di fretta, quasi temesse di contrarre la malattia che doveva aver decimato la popolazione della zona. Il proprietario di un bar sedeva ingobbito in fondo al suo locale deserto, in attesa di clienti spariti da un pezzo. Persino le sale di pachinko erano vuote, e la musichetta superficialmente gaia che ne usciva faceva un effetto bizzarro e ironico. Imboccai dal fondo la via che stavo cercando. Appoggiato a un muro c'era un ragazzo giapponese dalla struttura fisica imponente, la testa rasata e gli occhi nascosti da lenti scure. Lo identificai come una vedetta. Di certo, all'altro capo della via c'era il suo gemello.
Superai il tizio pelato e, dopo aver fatto alcuni passi, mi voltai con aria indifferente. Mi stava guardando, e parlava in una ricetrasmittente. La via era tranquillissima, e io non parevo uno dei pensionati del quartiere. La segnalazione era semplicemente la prassi: sta arrivando qualcuno che non so chi sia. Proseguii e trovai il posto che cercavo: un anonimo edificio a due piani dalla facciata in cemento. Il vecchio portone di metallo era munito di tre file di grossi catenacci orizzontali, probabilmente collegati a grosse sbarre di ferro sistemate sull'altro lato. Quei catenacci dicevano: «Non sono gradite le visite di estranei.» Mi guardai intorno. Dall'altra parte della via c'era una baracca cadente dalle finestre sfondate simili agli occhi incavati di un cadavere. Alla sua destra c'era una piccola lavanderia a gettone, con tre lavatrici e tre asciugatrici sistemate in due file ordinate le une di fronte alle altre, come se attendessero solo di essere portate via e gettate in una discarica. Le pareti erano ingiallite e decorate qua e là da poster mezzi scrostati. Il pavimento era cosparso di detersivo e di mozziconi di sigaretta. Appeso a una parete c'era un distributore automatico tutto storto che, per cinquanta yen al pacchetto, offriva detersivo a una clientela composta, probabilmente, da soli fantasmi. C'era un piccolo pulsante nero incassato nei mattoni color fango a destra del numero civico che cercavo. Lo premetti e aspettai. Uno sportello si aprì all'altezza della mia testa. Due occhi mi osservarono da dietro un fitto reticolo di metallo. Occhi leggermente iniettati di sangue. Mi guardarono, silenziosi. «Sono venuto per allenarmi», dissi in un giapponese senza fronzoli. Un attimo di silenzio. «Non ci si allena, qui», fu la risposta. «Sono un quarto dan di judo. Questo posto mi è stato consigliato da un amico.» Gli dissi il nome del sollevatore morto. Gli occhi dietro la grata si assottigliarono. Lo sportello si richiuse. Io aspettai. Passò un minuto, poi altri cinque. Alla fine, lo sportello si riapri. «Quand'è che Ishihara-san ti ha raccomandato questo posto?» domandò il proprietario di un altro paio di occhi. «Un mese fa, più o meno.» «Ce ne hai messo di tempo ad arrivare...» Mi strinsi nelle spalle. «Non ero in città.» Quegli occhi mi guardarono. «Come sta Ishihara-san?» «L'ultima volta che l'ho visto stava benissimo.» «Quand'è stato?»
«Più o meno un mese fa.» «E tu come ti chiami?» «Arai Katsuhiko.» Il mio interlocutore non batté ciglio. «Ishihara-san non mi ha mai parlato di te.» «Avrebbe dovuto?» I suoi occhi rimasero nuovamente impassibili. «Nel nostro club vige una consuetudine. Se un socio parla del club a un non-socio, contemporaneamente informa il club sul conto del non-socio.» Anch'io restai impassibile. «Non conosco le vostre consuetudini. Ishihara-san mi ha detto che questo posto avrebbe fatto al caso mio. Posso allenarmi o no?» Gli occhi di quel tizio si abbassarono verso la borsa da ginnastica che avevo con me. «Vuoi allenarti adesso?» «Sono venuto per questo.» Lo sportello si richiuse. Un attimo dopo il portone si aprì. Entrai in una piccola anticamera. Costruzione a blocchi di cemento. Intonaco grigio scrostato. Il proprietario degli occhi mi squadrò da capo a piedi. Non mi parve impressionato. Io non impressiono mai nessuno, sul momento. «Va bene. Allenati pure», disse. Era a piedi nudi, in calzoncini e maglietta. A occhio, un metro e ottanta per ottanta chili. Un po' troppo paffuto. Capelli a spazzola sale e pepe, sulla sessantina. Era ben oltre il culmine della sua parabola atletica, che pure doveva essere stata formidabile, ma aveva ancora l'aria del duro, poche chiacchiere, niente pose. «Sore wa yokatta», risposi io. Bene. Alle spalle del pacioccone, leggermente più a destra, c'era un esemplare più piccolo e secco, troppo scuro di pelle per essere un giapponese. Riconobbi i suoi occhi iniettati di sangue: gli stessi che per primi mi avevano fissato al mio arrivo attraverso la grata. Benché più sottile dell'altro tizio, quest'ultimo emanava un che di intenso e indefinibile. I piccoletti possono essere pericolosi. Non potendo contare sulle dimensioni fisiche per incutere paura, devono per forza imparare a combattere. Lo so perché, prima di colmare questa lacuna sotto le armi, ero uno di questi. Accanto all'anticamera c'era una stanza rettangolare, sette metri per dieci, che puzzava di sudore antico. Era in gran parte occupata da un tatami da judo. Una mezza dozzina di uomini muscolosi lo stavano utilizzando
per una sorta di randori, o di allenamento corpo a corpo. Non indossavano judogi, bensì pantaloncini e maglietta, come il tizio che mi aveva aperto la porta. In un angolo del tappeto un uomo si stava esercitando a colpire di gomito e di ginocchio un manichino dalle sembianze umane disteso a terra a faccia in giù. La testa, il collo e il torace del manichino erano praticamente mummificati da rinforzi di nastro adesivo. In un altro angolo, due pesanti sacchi di cuoio penzolavano all'estremità di grosse catene agganciate a due travi che spuntavano dal muro. Sacchi di notevoli dimensioni: non meno di settanta chili. Grossi come uomini. Un paio di tizi dal collo taurino e l'aria da yakuza se li stavano lavorando, senza guantoni, senza nastro adesivo, con colpi non tanto rapidi, ma duri, e il whap! whap! delle nocche sul sacco riecheggiava in quello spazio chiuso. La mancanza di nastro adesivo sui polsi e sulle dita suscitò il mio interesse. I pugili lo usano per proteggersi le mani, ma dopo un po' non si riesce più a farne a meno, e si disimpara a picchiare a mani nude. Persino Mike Tyson, una volta, si è procurato una frattura colpendo a mani nude un altro pugile durante una rissa notturna. In un combattimento vero, se ti rompi una mano, hai perso. E se combatti all'ultimo sangue, hai finito di vivere. Anche la mancanza del judogi era interessante, se si considera quanto è tradizionalista il Giappone. I puristi sostengono che allenarsi con il judogi sia più realistico, perché in fondo è raro che due persone combattano nude. Tuttavia, l'abbigliamento moderno - una maglietta, per esempio - è molto più prossimo alla nudità che all'aspetto del gi rinforzato e con cintura. Allenarsi soltanto con il gi, perciò, benché in linea con la tradizione, non è necessariamente il massimo del realismo. Segnali che qualificavano quella gente come estremamente seria. «Puoi cambiarti nello spogliatoio», disse il tizio sale-e-pepe. «Fa' un po' di riscaldamento, così poi potrai cimentarti nel randori. Scopriremo perché Ishihara-san pensava che questo posto fosse adatto a te.» Io annuii e mi avviai verso lo spogliatoio. Era un locale molto umido con il pavimento coperto da una lurida moquette grigia e una mezza dozzina di armadietti malconci sistemati ai lati di una porta dall'aria piuttosto massiccia, chiusa con una serratura a combinazione, che doveva aprirsi su un vicolo. Misi un paio di pantaloni di cotone da judo e una maglietta, ma lasciai la giacca da judo nella borsa. Meglio mescolare gli stili. Tornai nella sala principale e cominciai a fare stretching. Nessuno sembrava prestare attenzione a me, a parte il tipo dalla pelle scura che invece
mi osservò per tutta la durata dei miei esercizi di riscaldamento. Dopo una quindicina di minuti si avvicinò. «Randori?» mi domandò, con un tono che era più una sfida che un invito. Io annuii, sfuggendo al suo sguardo deciso. Nella mia mente, il nostro combattimento era già iniziato, e io, in genere, preferisco che il mio avversario mi sottovaluti. Lo seguii al centro del tatami, con aria vagamente sperduta e intimorita. Ci studiammo per un po', girando l'uno intorno all'altro in cerca di un varco. Con la coda dell'occhio notai che tutti i presenti avevano interrotto i loro esercizi per guardare noi. Gli afferrai il braccio destro con la mano sinistra e mi chinai in avanti per farlo volare sopra la mia schiena, con un'entrata tanto semplice quanto efficace che avevo imparato ai tempi delle mie risse al liceo, in America. Il mio avversario, però, era rapido: liberò il braccio, si rannicchiò e si mise a ruotare in senso orario, per sottrarsi al mio tentativo di entrata. Io cambiai immediatamente fronte d'attacco, sul suo lato sinistro, ma lui reagì anche in questo caso con prontezza. Nessun problema. Io stavo fingendo, per sondare le sue difese, e non avevo ancora svelato nulla delle mie capacità. Decisi di abbandonare l'atteggiamento offensivo e feci per rialzarmi. In quel preciso istante, vidi il suo bacino ruotare, percepii una macchia informe in movimento alla destra della mia testa. Gancio sinistro. «Whoa!» Frapposi di scatto la mia mano destra in un tentativo di parata e chinai la testa in avanti. Mi colpì alla nuca e ritrasse istantaneamente il braccio. Io arretrai rapido di un passo. «Kore ga randori nanoka? Bokushingo janaika?» gli domandai. Stiamo facendo un randori o un incontro di boxe? Mi mostrai più preoccupato di quanto non fossi: ho fatto un po' di boxe, e non sempre con i guantoni. «È così che si fa il randori, da queste parti», rispose lui con un ghigno. «Senza regole?» domandai, fintamente preoccupato. «Non mi convince molto.» «Se non ti convince, non venire qui ad allenarti, judoyaro», disse, e qualcuno tra i presenti scoppiò a ridere. Mi guardai intorno con l'aria di chi non si sente al sicuro, al solo scopo di controllare la situazione. L'adrenalina provoca una visione selettiva e concentrata. L'esperienza e il desiderio di sopravvivere la rendono ancora più acuta. Le fecce che vidi intorno al tatami esprimevano divertimento, non minaccia. «Non sono abituato a questo genere di cose», dissi.
«Allora, togliti dai coglioni», sibilò lui. Mi guardai intorno ancora una volta. Se fosse stata una trappola, non mi avrebbero affrontato uno alla volta. «D'accordo», dissi, aggrottando le sopracciglia come un pivello che cerchi di darsi arie da duro. Recitando la parte della vittima di un orgoglio idiota. «Facciamo come dici tu.» Riprendemmo a studiarci. Io registrai le sue finte. Gli piaceva attaccare con il piede destro. La sua scelta di tempo era piuttosto costante: un punto debole a cui, probabilmente, aveva sempre rimediato con la velocità. Gli piacevano i calci bassi. Piede destro piantato a terra davanti a sé, mezza rotazione della gamba sinistra per sferrare il calcio e ritorno in posizione di difesa. Mi colpì due volte in questo modo alla coscia destra. Faceva male, ma non aveva importanza. Di nuovo portò avanti il piede destro. Quando questo era a pochi millimetri dal tatami, è il mio avversario ormai totalmente convinto di poterlo piantare al suolo, io intervenni agganciandogli il collo da dietro con la destra, protendendomi con la sinistra ad afferrargli, sempre da dietro, la caviglia destra. Usai il suo collo per appoggiare il mio peso, trascinandogli la testa all'ingiù e facendogli perdere l'equilibrio. Mi scagliai con il gomito in avanti contro il suo torace. La sua caviglia era bloccata, e il suo corpo non poteva far altro che muoversi all'indietro, verso il tatami. Mentre lui cadeva, continuai a tenergli la caviglia, torcendogliela, e mi spostai in senso orario, in modo da atterrare rivolto dalla stessa parte del mio avversario. Presi la sua gamba tra le mie, tenendo la caviglia davanti a me. Con un unico, agilissimo movimento la serrai nel mio bicipite destro, afferrandogli le dita del piede con le dita della mia mano sinistra. Allo stesso tempo, esercitai una torsione in direzioni opposte. La caviglia si spezzò con uno schiocco simile al rumore di un martello sul legno duro. Liberato dai suoi ormeggi, il piede si inarcò paurosamente verso destra. I tendini e i legamenti si strapparono. Cacciò un urlo acutissimo e cercò di utilizzare l'altra gamba per scalciarmi e divincolarsi. I calci, però, erano fiacchi. Il suo sistema nervoso era sovraccarico di dolore. Io mi alzai in piedi e mi voltai verso il mio avversario, che aveva la faccia verde di chi è sul punto di vomitare, imperlata di un sudore oleoso. Si teneva il ginocchio della gamba rotta e guardava con gli occhi fuori dalla testa il piede che penzolava alla sua estremità. Inspirò brevemente; poi di nuovo, più a lungo; infine, lasciò andare un lungo gemito.
Le ferite alla caviglia fanno male. Lo so. Ho visto gente perdere i piedi sulle mine anti-uomo. Inspirò un altro po' di fiato e urlò di nuovo. Se fossimo stati soli, gli avrei spezzato il collo solo per farlo tacere. Mi guardai intorno, per capire se ci fossero guai in arrivo da parte dei suoi amici. Uno di questi, un adone dalla gamba lunga e dai capelli ossigenati e corti strillò: «Oi!» e venne verso di me. Ehi! Il tizio sale-e-pepe lo fermò. «Ii kara, ii kara», disse, spingendolo indietro. Smettila. Adone indietreggiò, ma continuò a fissarmi con ostilità. Sale-e-pepe si voltò e venne verso di me con un'espressione moderatamente divertita, se non addirittura sorridente. «La prossima volta che fai una presa articolare controllati un po' di più», disse, in tono neutro. Il tizio dalla pelle scura si contorceva. Adone e un paio di altri corsero in suo aiuto. Io mi strinsi nelle spalle. «Io l'avrei fatto, ma era stato lui a dire che si lottava "senza regole".» «Questo è vero. Credo che nessuno si sognerà più di proporti una cosa simile.» Lo guardai. «Mi piace questo posto. Mi sembrate persone serie.» «Infatti.» «Va bene, allora, se vengo qui ad allenarmi?» «Dalle quattro alle otto di sera, tutti i giorni. Anche di mattina si può lavorare, quasi sempre, dalle otto a mezzogiorno. Ci sono delle quote da versare, ma di questo parleremo un'altra volta.» «Sei tu che gestisci questo posto?» Lui sorrise. «Più o meno.» «Io mi chiamo Arai», dissi, con un leggero inchino. Qualcuno portò una barella. Il tizio dalla pelle scura digrignava i denti e piagnucolava. «Urusei na! Gaman shiro!» Taci! Devi sopportare! Lo rimproverò un collega. «Io sono Washio», disse il mio interlocutore, ricambiando l'inchino. «Lo sapevi che Ishihara-san è morto?» Lo guardai. «No, non lo sapevo.» Lui annuì. «Un incidente nella sua palestra.» «Mi dispiace. E la palestra è ancora aperta?» «Ora è gestita da alcuni suoi soci.»
«Bene. Anche se mi sa che prossimamente verrò più spesso da voi.» Lui sorrise. «Yoroshiku.» Non vedo l'ora. «Yoroshiku.» Mi trattenni per un altro paio d'ore. Adone mi lanciò qualche occhiata cattiva, ma per il resto si mantenne alla larga. Murakami non si fece vedere. La domanda di Washio sulla morte di Ishihara non era stata granché sorprendente e neanche tanto allarmante. Quella morte sembrava il frutto di un incidente. E se anche avessero avuto dubbi in proposito, non ci sarebbe stato motivo di considerarmi più sospetto degli altri frequentatori della palestra di Ishihara. Ovviamente, se al riguardo mi avessero fatto altre domande, magari insidiose, avrei sempre potuto cambiare idea. Mi presentai anche l'indomani, e il giorno dopo ancora, ma di Murakami nessuna traccia. Per me andava bene: era bello essere di nuovo a Tokyo, e con un po' di attenzione mi sarei potuto permettere di prolungare un po' il mio soggiorno. Inoltre, doversi allenare per lavoro è fantastico. Non è esattamente come fare l'allenatore di aerobica, ma è sempre meglio che passare le notti nel retro di un furgone per sorvegliare qualcuno, a bere caffè e a pisciare dentro taniche di plastica. Il quarto giorno passai di lì verso sera. Tre presenze consecutive nello stesso posto alla stessa ora erano il massimo che il mio paranoico sistema nervoso potesse tollerare. Restai sorpreso nel vedere che c'erano più o meno sempre le stesse facce. Alcuni di questi tizi facevano due sedute di allenamento al giorno. Mi domandai che cosa facessero per vivere. Malavitosi, probabilmente. Mafiosetti free-lance. Orari flessibili. Salutai Washio e alcuni altri tizi di cui avevo fatto la conoscenza e andai a cambiarmi nello spogliatoio. Uno dei sacchi era libero, e io cominciai con una serie di combinazioni di ginocchio e di gomito. Assalti da un minuto intervallati da trenta secondi di pausa. Per cronometrare mi affidai a un orologio che era appeso al muro. Quanto a forza e a rapidità ero ancora in gamba. Resistenza, idem. I tempi di recupero non sono più quelli di una volta, ma una costante assunzione di amminoacidi liquidi per i muscoli, di glucosammina per le giunture e di Gognamine per i riflessi fa il suo bell'effetto a quanto pare. Durante una pausa, notai che tutti i presenti avevano interrotto gli esercizi per concentrare l'attenzione altrove. L'atmosfera cambiò di colpo. Mi guardai in giro e vidi un tale con un orribile doppiopetto blu navy dai
risvolti enormi e dalle spalle esageratamente imbottite. Era accompagnato da due elementi grandi e grossi con l'aria da yakuza. Vista la mole e l'atteggiamento, li identificai come guardie del corpo. Dovevano essere appena arrivati. Il tizio in doppiopetto stava parlando con Washio, che ascoltava deferente e non senza un certo disagio. Io continuai a guardare, e mi accorsi di non essere il solo. Il nuovo arrivato sembrava alto un metro e settantacinque o poco più, ma aveva un collo enorme, cosicché quanto a peso doveva essere tra gli ottantacinque e i novanta chili. Le orecchie erano masse informi di tessuto cicatriziale che facevano impressione anche in Giappone, dove certe ferite sono piuttosto comuni tra judoka e kendoka. Washio stava facendo dei cenni verso alcuni degli uomini che fino a poco prima si stavano allenando. Il nuovo arrivato annuiva. Sembrava un esame. La pausa di trenta secondi era finita. Tornai a concentrarmi sul sacco. Gomito sinistro. Uppercut destro, Ginocchio sinistro. Daccapo. Dopo un minuto di colpi incessanti, interruppi l'esercizio. Washio e il nuovo arrivato stavano avanzando verso di me. Le guardie del corpo erano rimaste sulla porta. «Oi Arai», disse Washio quando furono a un paio di metri da me. «Chotto mate.» Fermati un attimo. Raccolsi da terra un asciugamano e mi asciugai la faccia. I due si avvicinarono ulteriormente, e Washio indicò l'uomo che gli stava accanto. «Voglio presentarti una persona», disse. «Uno dei soci di questo dojo.» Avevo già capito chi era. Come aveva detto Tatsu, la guancia sinistra era sfondata, mentre l'altra presentava un buco grosso quanto una palla da golf dai margini spaventosamente frastagliati. In quel punto doveva essere stato morso da un cane che, benché allontanato a forza, si era rifiutato di mollare la presa. Qualcosa mi diceva che il cane doveva avere avuto la peggio. Mi si rizzarono i peli sul collo, e un nuovo fiotto di adrenalina mi si propagò per le vene. La mia sensibilità al pericolo è raffinatissima, e quel tizio la stava facendo vibrare. «Arai desu», dissi, con un accenno di inchino. «Murakami da», disse lui con un cenno del capo e una voce simile a un ringhio. «Washio dice che sei in gamba.» Aveva un'aria dubbiosa. Io mi strinsi nelle spalle. «Ci sarà un combattimento, domani sera», riprese Murakami. «Ogni tan-
to ne organizziamo. Gli spettatori pagano centomila yen a testa, ma i soci del dojo entrano gratis. Ti interessa?» Centomila yen: avevo visto giusto sulle proporzioni economiche di quegli eventi. Inoltre, se quel tizio mi invitava senza problemi, qualcuno doveva aver fatto dei controlli sul mio conto. Tatsu, evidentemente, si era occupato con profitto dell'identità di Arai. Io mi strinsi nuovamente nelle spalle e dissi: «Certo.» Lui mi fissò con occhi vacui, come se stesse cercando di attraversarmi con lo sguardo, per scrutare al di là di me. «I combattimenti cominciano alle dieci in punto. Il pubblico arriva un po' prima per scommettere. L'indirizzo è Higashi Shinagawa 5-chome. Di fronte all'isola di Tennozu, sull'altra riva del canale.» «Nel quartiere del porto?» domandai. Quella zona fa parte di Tokyo, ma non l'avevo mai frequentata. Si trova a sud-est e ospita stabilimenti per la lavorazione delle carni e impianti per il trattamento dei liquami, centrali elettriche e magazzini all'ingrosso, tutti alimentati e ingrassati dal grande porto della capitale. Il vantaggio, immaginai, stava nel fatto che di notte era deserta. «Bene. Il numero civico è l'825. Un magazzino con la scritta TRASPORTI inscritta in un grosso cerchio sulla porta. Di fronte al Lady Crystal Yacht Club. Sulla destra venendo dalla monorotaia. Non dovrebbe essere difficile trovarlo.» «È fondamentale che tu non ne parli con nessuno», aggiunse Washio. «Ih ogni caso, entrano solo le persone invitate, e non vogliamo avere guai con la polizia.» Murakami concordò con Washio, ma con aria di sufficienza. Evidentemente, per Murakami, a quei ritrovi poteva presentarsi chiunque, purché si combattesse. Washio, invece, si occupava con tutta probabilità dell'aspetto logistico ed era il responsabile in caso di problemi. «Combatti anche tu?» domandai guardando Murakami. Per la prima volta, Murakami sorrise. I suoi denti anteriori erano troppo grossi e squadrati, e da ciò dedussi che doveva trattarsi di una protesi da quattro soldi. «A volte. Domani, però, no», disse. Aspettai, per accertarmi che non avesse altro da dire. Riflettei sulla possibilità che si trattasse di una trappola, ma se avessero voluto eliminarmi eravamo già in un posto più che adatto. Non era necessario convincermi a presentarmi altrove.
«Verrò di certo», dissi. Murakami si soffermò con lo sguardo su di me, con un sorriso che tardava a svanire, gli occhi ancora distratti, e poi si allontanò. Washio lo seguì. Esalai un lungo respiro e consultai l'orologio. Quando la lancetta dei secondi fu sul dodici, riattaccai con il sacco, per smaltire l'eccesso di adrenalina provocato dall'arrivo di Murakami. Un uomo spaventoso, senza dubbio. E non solo per la faccia rovinata. Anche se non fosse stato sfigurato, lo avrei riconosciuto. Emanava la stessa aura di morte che avevo imparato a conoscere, e a rispettare, con Crazy Jake. Le cicatrici visibili erano i segni meno importanti tra quelli che lo caratterizzavano per quel che era. Non avrei neanche voluto provare a eliminare un tizio del genere senza far uso di un fucile con mirino telescopico. In tal caso, però, sarebbe stato difficile farla apparire come una morte per cause naturali. «Al diavolo!» pensai. «I rischi sono una cosa. Questo sarebbe un suicidio.» Se proprio Tatsu lo voleva morto, gli avrei consigliato un commando di sei uomini armati fino ai denti. Per quanto disposto a fare qualcosa per guadagnarmi la benevolenza di Tatsu, in questo caso proprio non ne valeva la pena. Mi domandai se il mio vecchio amico sarebbe passato alle minacce. Probabilmente no. E se anche l'avesse fatto, io avrei semplicemente accelerato i miei piani per trasferirmi a Rio. I preparativi non erano ancora a punto, ma una fuga affrettata non sarebbe stata l'opzione peggiore semi fossi trovato preso tra una missione suicida e la pressione del Keisatsucho di Tatsu. Il giorno dopo, però, sarei andato al combattimento e avrei raccolto tutte le informazioni disponibili. Le avrei passate a Tatsu come premio di consolazione per il mio ritiro. La lancetta dei secondi superò il dodici. Sferrai un'ultima scarica di colpi con i gomiti e mi allontanai. L'adrenalina era perlopiù svanita, ma mi sentivo ancora teso. In genere, un po' di lavoro in palestra è l'ideale. In questo caso, no. Trovai un partner e provai gli attacchi di gambe per un'altra ora. Al che, dopo un po' di stretching, andai sotto la doccia. Mi rallegrai al pensiero che presto quella storia sarebbe finita. PARTE SECONDA
La musica ci rivela un passato personale di cui fino a un momento prima, eravamo ignari e ci spinge a piangere per sventure da noi mai patite, per torti da noi mai inflitti. Jorge Luis Borges 9. Quella notte camminai a lungo e senza meta per le vie di Tokyo. Ero inquieto e sentivo il bisogno di muovermi, lasciandomi trasportare dai flussi della metropoli. Vagai verso nord da Meguro, procedendo per vicoli e strade secondarie, per i vialetti deserti di parchi bui. C'era qualcosa in quella maledetta città che continuava ad attrarmi, a sedurmi. Dovevo andarmene. Avrei voluto esserne capace. E ci avevo anche provato... Ma ero di nuovo lì. Raggiunsi Hikawa Jinja, a Hiro, uno dei numerosi templi scintoisti che punteggiano la città. Di tutti i vasti e solenni spazi del genere, questo tempio, con la sua superficie di circa trenta metri quadrati, è uno dei più piccoli, anche se non certo il più piccolo in assoluto. Oltrepassai la vecchia soglia in pietra e mi ritrovai immediatamente avvolto da una piacevole oscurità. Chiusi gli occhi, chinai la testa in avanti e inspirai con il naso. Sollevai le mani davanti a me, tendendo le dita come un cieco che stia tentando di capire dove si trova. Eccola lì, appena oltre i limiti della percezione ordinaria... L'impressione che la città fosse viva, attorcigliata su sé stessa, stratificata e pulsante. E la sensazione di essere vivo a mia volta, in quanto parte di quella città. Aprii gli occhi e sollevai la testa. Il tempio sorgeva su un dirupo, e tra gli alberi, tutt'intorno, vidi le luci di Hiro e, più in là, di Meguro. Tokyo è così grande e sa essere così crudele e indifferente che il sollievo offerto dalle rare oasi che vi si trovano è di una dolcezza senza paragoni. C'è la quiete di templi come Hikawa, che infonde un umore cupo e meditativo; il conforto dei piccoli nomiya, gli abbeveratoi dì quartiere con due o, al massimo, quattro sgabelli davanti a un banco lungo meno di mezza por-
ta, presidiato da una mama-san senza età, che può essere di volta in volta consolante o rude, a seconda delle esigenze dei clienti, fornendo più aiuto e comprensione di qualsiasi divanetto da psicanalista; lo strano cameratismo anonimo degli yatai e dei tachinomi, chioschi che servono birra in enormi boccali e cibo grigliato allo spiedo e spuntano come funghi selvatici negli angoli più bui delle strade o all'ombra dei binari della sopraelevata, con le risate degli avventori che si propagano nella notte come piccole sacche di luce nel buio circostante. Avanzai in un'oscurità sempre più fitta e mi sedetti con la schiena rivolta verso l'honden, la struttura simmetrica dal tetto di tegole che ospitava la divinità di questo piccolo tempio. Chiusi gli occhi ed espirai a lungo, fino in fondo, e poi ascoltai per un po' il silenzio. Da ragazzino, in un negozio del mio quartiere, fui sorpreso a rubare una tavoletta di cioccolato. I due anziani proprietari del negozio mi conoscevano, ovviamente, e avvertirono i miei genitori. Quando mio padre si presentò da me per parlarne, io per paura della sua reazione negai tutto. Lui non si arrabbiò. Si limitò ad annuire lentamente, dicendo che la cosa più importante, per un uomo, è il coraggio delle proprie azioni; se manca questo, si è solo dei vigliacchi. Mi domandò se avessi capito. Allora io non compresi a fondo il senso delle sue parole, ma provai una vergogna bruciante e confessai. Mi accompagnò al negozio, dove io, in lacrime, domandai scusa. In presenza dei due anziani negozianti assunse un'espressione severissima, quasi furente, ma mentre ci allontanavamo, e io continuavo a piangere per la mia disavventura, lui sia pure per poco e goffamente mi strinse a sé, per poi posarmi con tenerezza la mano sulla collottola. Non ho più dimenticato quelle sue parole. So quello che ho fatto, e sono pronto ad assumermene la responsabilità. Il primo uomo che ho ucciso personalmente era un vietcong, vicino al fiume Xe Kong, al confine tra Vietnam e Laos. Uccidere «personalmente», in Vietnam, significava uccidere qualcuno con un colpo diretto in modo tale da non lasciare dubbi su chi fosse il responsabile materiale. Avevo diciassette anni. Ero in ricognizione con altri due uomini. Le pattuglie erano minuscole e la loro sopravvivenza dipendeva dalla capacità di operare non visti dietro le linee nemiche. Perciò, in ricognizione ci andavano solo gli uomini capaci di muoversi nella più assoluta segretezza. Per quelle missioni servivano dei fantasmi, più che dei killer.
Accadde all'alba. Ho un ricordo vivissimo di come fosse possibile vedere a occhio nudo la foschia che si levava dal terreno umido con l'intensificarsi della luce solare. Ho sempre pensato che il Vietnam fosse un paese bellissimo. Molti soldati lo odiavano perché non avrebbero voluto essere lì, ma io la pensavo diversamente. Eravamo in missione da due giorni, senza contatti con la base, e procedevamo verso il punto prestabilito, quando trovammo questo tizio, da solo, al centro di una radura. Ci bloccammo e lo osservammo da dietro uno schermo di alberi. Doveva essere un vietcong, perché aveva con sé un AK. Camminava avanti e indietro, come se stesse cercando di orientarsi. Immaginai che dovesse essersi perso. Aveva un'aria spaventata. Noi avevamo l'ordine di evitare qualsiasi contatto, ma anche il compito di raccogliere informazioni, e quel vietcong aveva con sé un grosso libro. Una specie di registro. Poteva essere un trofeo importante. Ci guardammo in faccia. Il capo-pattuglia mi fece un cenno. Io mi inginocchiai e puntai il mio CAR-15, seguendo il vietcong attraverso il mirino, in attesa che si fermasse. Passarono alcuni secondi. Sapevo di non avere fretta e volevo essere sicuro di non sbagliare. A un certo punto, anche il vietcong si chinò e posò a terra il fucile e il librone. Si rialzò e si sbottonò i pantaloni per pisciare. Dal punto in cui il liquido caldo toccava terra si alzava vapore. Lo tenni inquadrato nel mirino: mi colpiva il fatto che quell'uomo non avesse idea di quello che lo aspettava e pensai che era proprio un modo stronzo di morire. Quando ebbe finito e si fu risistemato i pantaloni, kapop!, lo stesi. Lo vidi cadere. Provai un incredibile sollievo: ce l'avevo fatta! C'ero riuscito! Ci sapevo fare! Mi avvicinai al punto in cui giaceva. Quando arrivammo, notai con sorpresa che era ancora vivo. Lo avevo colpito allo sterno, e dalla ferita al petto fuoriusciva un fischio. Era caduto sulla schiena, con le gambe larghe e scomposte. Il terreno, sotto di lui, cominciava già a scurirsi per via del sangue. Ricordo la sorpresa provata nel vedere che era giovanissimo. Sembrava un mio coetaneo. Mentre gli stavamo intorno senza sapere che fare, il pensiero di avere ucciso un ragazzo della mia età mi trapassò la mente come un proiettile. Sbatteva freneticamente le palpebre e ci guardava con occhi che guizzavano da una faccia all'altra. Si soffermò sulla mia, ed ebbi la sensazione
che avesse capito che ero stato io a sparargli. In seguito, avrei compreso che il motivo doveva essere più prosaico: probabilmente, stava cercando di farsi una ragione dei miei tratti orientali. Uno di noi slacciò una borraccia e gliela porse, ma lui non si mosse. Il suo respiro si fece più rapido e superficiale. Dagli angoli degli occhi gli sgorgavano le lacrime, e sussurrava con voce acuta e straziata parole che nessuno di noi riuscì a comprendere. Col tempo avrei scoperto che i feriti in battaglia, nell'agonia, spesso invocano la loro madre. Magari, il vietcong stava facendo questo. Lo guardammo. La ferita al petto smise di sibilare. E anche le palpebre smisero di muoversi. La testa ricadde sull'erba umida con una strana inclinazione, come se stesse ascoltando qualcosa. Gli restammo intorno in silenzio. L'iniziale senso di sollievo era svanito, rimpiazzato da una strana e intima tenerezza, accompagnata da un'improvvisa tristezza, così orrenda e pesante da farmi rantolare. «Aveva la mia età», pensai di nuovo. Non aveva l'aria cattiva. Sapevo che in un altro universo non ci saremmo mai trovati ad ammazzarci a vicenda. Saremmo diventati amici, magari, e lui non sarebbe morto nella giungla soffocato dal suo stesso sangue. Uno dei miei compagni si mise a piangere. L'altro si abbandonò a ripetute invocazioni. «Oh, Gesù! Oh, Gesù!» Vomitarono entrambi. Io no. Prendemmo il registro. Conteneva informazioni abbastanza interessanti sui pagamenti fatti dai vietcong ai capi di certi villaggi della zona e su altri tentativi di indurli a collaborare. In realtà, però, avevano un'importanza pressoché nulla. Un tizio, sull'elicottero che venne a raccoglierci, rise e disse che avevo perso la verginità. Nessuno parlò di come ci eravamo sentiti mentre guardavamo morire quell'uomo. In seguito, quando l'esercito dovette valutare la mia idoneità al SOG, il programma organizzato congiuntamente dalle forze speciali e dalla CIA, lo psichiatra mostrò un acuto interesse per la mia prima esperienza omicida. Il fatto che non avessi vomitato gli sembrò degno di nota, così come il fatto che le «emozioni negative associate» fossero svanite. Oltre a questo, anche la mancanza di incubi fu considerata un pregio. In seguito, avrei scoperto di essere stato qualificato come parte di quel due per cento di militari capaci di uccidere ripetutamente, senza esitazioni, senza particolari condizionamenti, senza rimpianti. Non so dire se apparte-
nessi davvero a questa categoria: per me era più difficile che per Crazy Jake. Sta di fatto che quello fu il mio destino. La gente, in genere, non immagina quante esitazioni ha un soldato prima di uccidere, e quanti rimpianti, dopo averlo fatto. Questa gente, però, non si è mai trovata a dover uccidere uno sconosciuto a distanza ravvicinata. Chi ha ucciso in queste condizioni sa che l'essere umano prova una profonda e innata riluttanza a uccidere i propri simili. Credo esistano ragioni di tipo evoluzionistico all'origine dì questo sentimento, ma non ha importanza. Quel che importa è che lo scopo essenziale dell'addestramento di base per gran parte dei soldati consiste nell'impiego di tecniche di condizionamento per neutralizzare questa riluttanza. So che l'addestramento moderno ottiene questo risultato con spietata efficienza. E so anche che l'addestramento ha più effetto sulla riluttanza che sul rimpianto. Restai lì seduto a lungo a frugare tra i ricordi. Alla fine, cominciai a sentire freddo. Tornai all'hotel, non senza guardarmi alle spalle lungo il tragitto. Feci un bagno bollente e mi infilai uno degli yukata di cotone provvidenzialmente inclusi nel servizio. Sistemai una poltrona davanti alla finestra e restai seduto al buio a guardare il traffico che scorreva sulla Hibiyadori, venti piani più in basso. Pensai a Midori. Chissà che cosa stava facendo, in quel momento, dall'altra parte del mondo? Quando il traffico cominciò a diradarsi, andai a letto. Il sonno mi sopraffece poco alla volta. Sognai Rio de Janeiro, e mi sembrava lontanissima. 10. La sera dopo, per andare al combattimento, feci il mio consueto percorso anti-pedinamento. Quando fui certo di non avere nessuno alle costole, presi un taxi per la stazione della monorotaia di Tennozu. Da lì, proseguii a piedi. Faceva più fresco, nei pressi dell'acqua. C'era un marciapiede in riparazione, e un gruppo di segnali provvisori che invitavano alla prudenza - anzen daiichi! - oscillavano rigidi al vento, con cigolii da campane impazzite. Attraversai la massa color-ruggine del ponte di Higashi Shinagawa. Tutt'intorno vidi una rete di cavalcavia automobilistici e ferroviari, il cui cemento era annerito dall'annoso accumularsi di gas di scarico e la cui sagoma era così buia e fitta, sullo sfondo del cielo scuro, da conferire al terreno sottostante un aspetto vagamente catacombale. All'angolo di una via c'era un distributore automatico solitario la cui luce al neon vibrava come
un sempre più fievole SOS. Scorsi il Lady Crystal Yacht Club, un'insegna eufemistica che nascondeva con tutta probabilità un ristorante sull'acqua, e svoltai a sinistra. Alla mia destra, un altro cavalcavia, sotto il quale si vedevano dei magazzini; dall'altra parte un piccolo parcheggio, perlopiù vuoto. Al di là di questo un altro canale simile allo Stige. Trovai la porta del magazzino che Murakami mi aveva descritto. Era fiancheggiata da un paio di vasi di cemento invasi dalle erbacce. Una targa metallica sulla sinistra avvertiva del pericolo d'incendio. Dalla parete sottostante era colata della ruggine che pareva sangue secco uscito da sotto una benda. Mi guardai intorno. Al di là dello specchio d'acqua c'erano i grattacieli con gli uffici, gli appartamenti e gli hotel tutti illuminati, con i nomi dei proprietari al neon rosso e blu che lampeggiavano orgogliosi: JAL, JTB, il Dai-ichi Seafort. Era come se il terreno intorno a me fosse avvelenato e incapace di reggere la crescita di simili strutture. Alla mia sinistra c'era un varco nella lunga schiera di magazzini. Mi inoltrai e sulla destra vidi una porta che dalla strada non era visibile. All'altezza degli occhi c'era uno spioncino. Bussai e aspettai. Sentii muoversi un chiavistello, e la porta si aprì. Era Washio. «Sei in anticipo», disse. Io mi strinsi nelle spalle. È difficile che io sia puntuale. Non concedo a nessuno l'opportunità di prevedere i miei movimenti. Nelle rare occasioni in cui non ho scelta, preferisco sempre presentarmi con anticipo, per dare un'occhiata con calma. Se qualcuno ha intenzione di farmi la festa, io arrivo prima ancora dei musicisti. Sbirciai all'interno. Vidi un locale simile a una caverna, punteggiato da pilastri di cemento. Da un soffitto alto otto metri penzolavano lampadine a incandescenza protette da griglie di metallo. Le pareti erano rivestite di scatoloni fino a un'altezza di cinque metri. Su un lato c'erano due muletti che parevano giocattoli in rapporto alla vastità dello spazio. Un paio di chinpira in maglietta nera stavano sistemando sedie su ogni lato. A parte loro, non c'era nessuno. Guardai Washio. «È un problema?» Si strinse nelle spalle. «Non importa. Gli altri arriveranno presto.» Entrai. «Sei tu che controlli l'ingresso?» Lui annuì. «Se arriva qualcuno che non conosco, non lo faccio entrare.» «Chi combatte, stasera?»
«Non lo so. Io gestisco gli eventi. Non li organizzo.» Gli sorrisi. «Hai mai partecipato?» Luì rise. «No, sono un po' troppo vecchio per certe cose. Da giovane, magari, l'avrei fatto, ma questo genere di combattimenti è in voga da un anno, un anno e mezzo: un'epoca ben più recente dei miei esordi.» Pensai al suo atteggiamento mentre parlava con Murakami, come se fosse a rapporto davanti a un superiore. «La gente che frequenta il tuo club», dissi, «si allena per questi combattimenti?» «In parte.» «E di Murakami che cosa mi dici?». Domandai. «In che senso?» «Che cosa fa?» Washio si strinse nelle spalle. «Fa un mucchio di cose. Alcuni dei frequentatori del dojo li allena lui personalmente. A volte combatte lui stesso. E quando combatte lui, c'è sempre una grande affluenza.» «Perché?» «Murakami va sempre fino in fondo. E questo alla gente piace.» «"Fino in fondo"?» «Sì, è chiaro. Quando c'è Murakami, uno dei due lottatori muore. E Murakami, ovviamente, non ha mai perso.» Non ebbi difficoltà a crederlo. «Che cos'ha di così irresistibile?» domandai. Washio mi guardò. «Spero solo che tu non debba mai scoprirlo.» «È vero che combatte contro i cani?» Lui si bloccò. «Chi te l'ha detto?» Io scrollai le spalle. «L'ho sentito dire.» Un'altra pausa. E poi: «Non so se sia vero. So che frequenta i combattimenti clandestini tra cani. Lui li alleva: ha i tosa e i pit-bull americani. Anche i suoi cani sono delle macchine letali. Gli dà da mangiare polvere da sparo, li pompa di steroidi fino al collo. Diventano insofferenti e aggressivi nei confronti di tutto e di tutti. Una volta, a uno dei suoi cani, Murakami ha infilato un peperoncino japaleño nel culo, e questo naturalmente si è battuto come un demonio.» Bussarono alla porta. Washio si alzò in piedi. Io gli feci un piccolo inchino a mo' di congedo. Lui allungò una mano e mi prese per un braccio. «Aspetta. Prima devi darmi il tuo cellulare.» Io guardai la sua mano. «Non ce l'ho», dissi.
Washio mi squadrò con aria minacciosa. Io ricambiai lo sguardo. Gli avevo detto la verità, ma se anche gli avessi mentito ci sarebbe voluto ben più di una semplice occhiataccia per indurmi ad ammetterlo. La sua espressione si ammorbidì, e lui mollò la presa. «Non ti perquisirò», disse. «Qui dentro, però, nessuno può entrare con un cellulare o un cercapersone addosso. In troppi avrebbero la tentazione di chiamare qualcuno per raccontare quel che stanno vedendo. Non è sicuro.» Annuii. «Mi sembra saggio.» «Se uno dei buttafuori ti becca con un cellulare, ti concia per le feste. È bene che tu lo sappia.» Annuii e andai a piazzarmi in un angolo, per osservare l'arrivo delle persone. Riconobbi alcuni dei frequentatori del dojo di Washio. C'era Adone, in pantaloncini da fatica. Mi domandai se non fosse per caso tra i combattenti della serata. Restai in piedi nell'angolo prescelto, e la platea poco a poco si riempì. Dopo quasi un'ora vidi arrivare Murakami, seguito da due guardie del corpo diverse da quelle che si erano presentate con lui al dojo. Parlò brevemente con Washio, che si guardò intorno e indicò verso di me. Improvvisamente, mi resi conto di avere attirato l'attenzione di Murakami più di quanto avessi desiderato. Lo vidi dare di gomito ai suoi due tirapiedi. E con loro prese a muoversi verso di me. Nelle mie vene si propagò un flusso di adrenalina. Ne sentii l'effetto. Mi guardai intorno fingendo indifferenza, alla ricerca di un'arma improvvisata. A portata di mano non c'era nulla. I tre mi raggiunsero e si piantarono davanti a me, schierati, con Murakami leggermente più avanti degli altri. «Dubitavo di vederti», disse. «Mi fa piacere che tu abbia deciso di venire.» «Fa piacere anche a me», dissi, fregandomi le mani come se fossi ansioso di assistere allo spettacolo in programma. In realtà era una posizione di difesa camuffata. «Facciamo tre combattimenti o trenta minuti, a seconda di come capita. Così nessuno si lamenta dei soldi spesi. Le regole te le spiego dopo.» Non capivo perché fosse venuto a dirmi quelle cose. «Chi è che combatte?» domandai. Murakami sorrise. La protesi era bianchissima. Da predatore. «Tu», rispose.
Lo guardai e dissi: «Non credo proprio.» Il suo sorriso scomparve, e i suoi occhi si assottigliarono. «Non ho intenzione di perdere tempo, cazzo. Washio mi ha detto che ci sai fare. Mi ha detto che hai spezzato la caviglia a un tizio in meno di trenta secondi. Ora un amico di quel tizio vuole fartela pagare. E tu dovrai combattere.» Adone... Avrei dovuto immaginarlo. «Altrimenti?...» «Altrimenti puoi combattere contro tre avversari a mia scelta. E visto che sei così bravo farò in modo che siano armati di manganello. Il pubblico sarà contento. Per me non fa differenza.» Ero in trappola. Scelsi la via di fuga più semplice. «Combatterò contro l'amico di quel tizio», gli dissi. Gli occhi gli si raggrinzirono in una smorfia di allegria repressa. «Certo che lo farai.» «C'è altro che devo sapere?» Murakami fece spallucce. «Niente camicia, niente scarpe, niente armi. A parte questo, vale tutto. Non c'è un ring. Se ti avvicini troppo agli spettatori, saranno loro stessi a ributtarti in mezzo. Se si convincono che stai cercando di scappare, ti tireranno anche qualche pugno. La buona notizia è che il vincitore guadagna due milioni di yen.» «E chi perde?» Sorrise di nuovo. «Gli paghiamo le spese del funerale.» Lo guardai. «Io scelgo i soldi.» Lui rise. «Vedremo. Ora fa' attenzione. Combatterai per primo. Hai un quarto d'ora per prepararti. Questi due resteranno con te per aiutarti.» Girò i tacchi e se ne andò. Io guardai i due spaccaossa. Si tenevano a distanza, riducendo al minimo le mie possibilità di fuga. Se anche ce l'avessi fatta, però, c'erano altri uomini di guardia fuori dalla porta. Con Adone avrei avuto maggiori probabilità di cavarmela. Mi domandai quanti combattimenti fossero previsti. Un numero elevato di borse da pagare avrebbe ridotto i profitti degli organizzatori. Accantonai le domande e mi sfilai il blazer blu, la camicia e le scarpe. Alzai gli occhi e vidi che Adone stava facendo lo stesso. In me si agitò un che di maligno. Lo sentii nelle viscere, dietro il collo, nelle mani. Pensai a Musashi, il maestro di spada, che ha scritto: «Non devi pensare alla vittoria o alla sconfitta, bensì solo a trafiggere e a uccidere l'avversa-
rio.» Feci un po' di stretching e mi riscaldai sferrando pugni nel vuoto. Restrinsi il campo della mia attenzione. Il luogo in cui mi trovavo non aveva importanza. A quel punto ricomparve Murakami. «Andiamo», disse. Avanzai verso il centro di quell'antro. Adone era già lì che aspettava. Aveva le pupille dilatate, e gli tremavano le mani. Sembrava fatto, probabilmente di kakuseizai. L'amfetamina gli avrebbe dato una botta di energia a breve termine e lo avrebbe aiutato nella concentrazione. Decisi di dargli qualcosa su cui concentrarsi. Mi avvicinai a lui, rallentando il passo solo quando gli fui praticamente addosso. «Come va la caviglia del tuo amico?» gli domandai. «Mi sembrava che gli facesse male.» Lui mi fissava. Respirava rapido. Le pupille, due palloni neri. Kakuseizai, non c'era dubbio. «Riprovaci con me», disse, a denti stretti. «Ah, no», dissi. «Invece della caviglia, a te romperò il ginocchio.» Arretrai di mezzo passo e glielo indicai. «Questo qui.» Quell'idiota seguì con lo sguardo il mio dito proteso. Io stavo per colpirlo con un uppercut all'addome, ma Washio, che la sapeva lunga, aveva intuito tutto e si mise in mezzo. «Non si comincia finché non do il via», ringhiò, guardandomi. Io mi strinsi nelle spalle. Tentare non nuoce... «Uscirai da questo posto dentro un sacco nero, stronzo», sibilò Adone. «È una promessa.» Washio ci spinse lontano. La folla si tese all'improvviso come un cappio. «Sei pronto?» domandò Washio al mio avversario, che saltava sulle punte come un pugile iperattivo. Adone annuì guardandomi in cagnesco. Washio si voltò verso di me. «E tu sei pronto?» Annuii, senza distogliere lo sguardo da Adone. «Hajime!» gridò Washio, e intorno a noi si levò un boato. Adone fintò immediatamente un calcio, facendo poi un passo indietro e di lato. Due volte. Cominciammo a muoverci lungo traiettorie più o meno circolari. Capii subito le sue intenzioni. Per lui quello era di fatto il pubblico di casa. Di certo aveva degli amici tra gli spettatori. I nostri cerchi imprecisi ci avrebbero a poco a poco trascinato verso la gente, di cui sarei probabil-
mente diventato il bersaglio. La presenza degli amici, però, agiva anche come pungolo per il suo ego. «Doko ni ikunda?» dissi con aria di sfida, tornando verso il centro. «Koko da.» Dove vai? Io sono qui. Lui fece un passo avanti, che si rivelò insufficiente a colmare la distanza che ci separava. Le mie provocazioni l'avevano indotto a fare attenzione ai ginocchi. Temeva che potessi attaccarlo come avevo fatto con il suo amico e credeva, mantenendo le distanze, di essere al sicuro. Io abbassai la guardia di qualche centimetro e protesi leggermente in avanti la testa e il tronco. Lui appoggiò il peso sui piedi, e io riuscii quasi a sentirlo pensare: «Calcio!» E i suoi calci non erano male. L'avevo visto in allenamento. Se fossi stato in lui, avrei provato a tirare il combattimento per le lunghe, per cercare di fiaccare la mia resistenza, usando le lunghe leve per tenermi a distanza. Piantò davanti a sé il piede sinistro e con il destro sferrò un calcio di lato a mezza altezza. Il suo piede mi colpì alla coscia sinistra e tornò di scatto a terra. Provai una fitta di dolore e sentii il boato entusiastico della folla. Adone riprese a saltellare sulle punte. Era rapido. Non mi aveva dato il tempo di afferrargli la gamba. Dovevo fargli credere che la tattica dei calci potesse fare breccia, per indurlo a portare i colpi con maggiore spavalderia. I pochi millisecondi in più che tali colpi comportano avrebbero fatto la differenza. Di nuovo fece saettare la gamba. Mi colpì alla coscia come una mazza da baseball e in un attimo fu di nuovo a terra. La folla esultò. Nelle mie orecchie risuonava un ruggito. All'impatto, questa volta, il dolore fu più forte. Un altro paio di colpi del genere, e la mia gamba sarebbe stata fuori uso. Sapevo che il mio avversario stava pensando esattamente la stessa cosa. Arretrai di mezzo passo e mi raccolsi, offrendogli il fianco destro come a voler proteggere la gamba sinistra. Lo vedevo come al rallentatore, in piena adrenalina. Le sue narici fremevano, e i suoi occhi erano puntati nei miei come a volerli trafiggere. Avanzò senza staccare troppo i piedi da terra. Con la coda dell'occhio notai che il suo piede destro era piantato a terra più saldamente del sinistro. Il peso dell'Adone cominciò a spostarsi in avanti e verso sinistra. Il bacino si mosse per agevolare il calcio. Io trattenni la mia reazione d'istinto e mi costrinsi ad attendere quel mezzo secondo in più di cui avevo bisogno.
Il suo piede si staccò da terra e io balzai in avanti dimezzando la distanza tra noi. Lui si rese conto dell'errore e tentò di correggerlo, ma gli ero ormai troppo vicino. Parai il calcio con il fianco sinistro, mentre con il braccio sinistro afferrai il suo ginocchio destro proteso. Il pubblico esalò un sospiro. «Ohhh!» Lui fu svelto a improvvisare, afferrandomi il tricipite sinistro con la mano destra e puntando con la mano libera contro la mia faccia, le dita tese, alla ricerca degli occhi. Io serrai la presa sul suo ginocchio e appoggiai il peso sul mio piede sinistro avanzato, per premere sull'articolazione sfruttando l'appoggio del suolo. Lui saltellò all'indietro sulla gamba sinistra e provò a recuperare l'equilibrio, ma io di destro gli sferrai un uppercut nelle palle. Adone grugnì e cercò di divincolarsi. Io feci un lungo passo in avanti con il piede destro, chinandomi per passare con la testa sotto il suo braccio sinistro, e al contempo mollai la presa sul ginocchio. Lo aggirai e lo presi alle spalle, lo afferrai alla vita intrecciando le mani sul davanti, abbassai bruscamente il mio bacino e mi inarcai con forza all'indietro. Adone si inarcò sopra di me come l'ultima carrozza sulle montagne russe, e le sue gambe volarono in aria in maniera scomposta. Atterrò di collo e di spalle, mentre le sue gambe lo scavalcavano per effetto dello slancio che gli avevo impresso. Se avessi deciso di lasciare la presa in vita, lui avrebbe fatto una capriola completa. Io, però, non mollai, cosicché i suoi piedi tornarono a terra, lasciandolo di schiena. Da dietro gli afferrai la faccia con la mano sinistra e cominciai a spingergli la testa all'indietro, scuotendogliela con forza. Mi rialzai sul ginocchio destro, irrigidii il bacino e con l'avambraccio destro lo colpii alla gola completamente priva di difese, accompagnando la botta con tutto il mio peso. Sentii scrocchiare alcuni punti vitali: la cartilagine tiroidea e cricoidea e, probabilmente, anche i collegamenti spinali. D'istinto, si portò le mani alla gola, e il suo corpo cominciò ad agitarsi convulsamente. Io mi alzai in piedi e mi allontanai. Il pubblico, ormai, assisteva in silenzio. Vidi che il suo collo cominciava a gonfiarsi per via dell'ematoma dovuto alle fratture. Le gambe scalciavano, si contraevano e scattavano da una parte e dall'altra. La faccia di Adone diventò cianotica e sempre più stravolta al di sopra delle dita frenetiche. Nessuno fece nulla per aiutarlo. E, del resto, c'era poco da fare. Dopo qualche secondo, il suo corpo cominciò
a essere scosso da spasmi grotteschi, come sotto l'effetto di una scarica elettrica. Qualche secondo ancora e gli spasmi cessarono. «Yatta!» gridò qualcuno. Ho vinto. E la stanza si riempì di grida d'esultanza. La folla mi si radunò intorno. C'era gente che mi dava pacche sulle spalle, altri che mi prendevano la mano affinché gliela stringessi. Mi resi conto, senza poter far nulla, che in quella situazione un amico di Adone avrebbe potuto conficcarmi una lama nella schiena. Udii la voce di Washio. «Hora, sagatte, sagatte. Ikisasete yare!» Via, via! Lasciatelo respirare. Insieme a un paio di buttafuori venne verso di me per cercare di tenere a distanza la gente. Un tale mi diede un asciugamano che mi passai sul viso. Mi guardai intorno e vidi mazzette da decine di migliaia di yen che cambiavano proprietario. Arrivò anche Murakami. Stava sorridendo. «Yokuyatta zo», disse. Ottimo lavoro. Io lasciai cadere l'asciugamano. «Dove sono i miei soldi?» Lui pescò all'interno della sua giacca ed estrasse una busta rigonfia. La aprì per farmi vedere che era piena di banconote da diecimila yen, ma poi la richiuse e se la mise in tasca. «Sono tuoi», disse. «Te li darò più tardi.» Diede un'occhiata in giro. «Qualcuno potrebbe tentare di rubarteli.» «Dammeli adesso», dissi. «Più tardi.» «'Fanculo i soldi», pensai. Mi bastava il pensiero di essere vivo per sentirmi felice. Mi avviai verso il punto in cui avevo lasciato i miei abiti. La folla si aprì davanti a me in segno di rispetto. Qualche mano si protese qua e là per darmi una pacca sulle spalle. Murakami mi seguì. «I soldi sono tuoi. C'è solo un'ultima cosa, dopo di che li avrai.» «Vaffanculo.» Indossai la camicia e cominciai ad abbottonarla. Lui rise. «Okay, okay.» Prese la busta e me la gettò. La presi a due mani e vi guardai dentro. Sembrava a posto. Me la infilai in una tasca dei pantaloni e ripresi ad abbottonarmi la camicia. «Io volevo solo spiegarti», disse, «come fare per guadagnare dieci o anche venti volte la cifra che c'è in quella busta.» Lo guardai. «Ti interessa?»
«Ti ascolto.» Lui scosse la testa. «Non qui. Andiamo da qualche parte a festeggiare.» Sorrise. «Consideralo un regalo.» Mi rimisi le scarpe e mi chinai ad allacciarle. «Dove pensavi di andare?» «In un posticino di mia proprietà. Ti piacerà, vedrai.» Ci pensai su. Andando a «festeggiare» con Murakami avrei avuto l'occasione di raccogliere altre informazioni per Tatsu. Non vidi alcuna controindicazione. «D'accordo», dissi. Murakami sorrise. Vidi due tizi che richiudevano la cerniera del sacco nero in cui avevano infilato il cadavere di Adone. «Cristo!» pensai. «È gente davvero organizzata.» Lo caricarono su un lettino a rotelle e lo spinsero via. Sul ripiano sotto il lettino c'erano dei mucchi di lastre di metallo. Uno dei due necrofori aveva con sé un pezzo di catena, e io capii che avevano intenzione di zavorrare il cadavere e di farlo sparire in fondo a un canale. Il combattimento successivo andò per le lunghe. I due contendenti sembravano guardinghi e dovevano essersi tacitamente accordati sulla rinuncia a colpi potenzialmente mortali o a tecniche invalidanti. Dopo una decina di minuti, Murakami disse: «Questo spettacolo non merita di essere visto. Andiamocene.» Fece cenno alle sue due guardie del corpo, che uscirono con noi. Washio ci vide andar via e fece un inchino. All'uscita, in strada, c'era una Mercedes S600 nera dai finestrini oscurati. Una delle guardie aprì la portiera dietro. Sul sedile posteriore c'era un cane accucciato. Un pit-bull bianco dalle orecchie mozze, il corpo interamente fasciato da muscoli spessi. Portava una pesante museruola di cuoio, oltre la quale si intravedevano ferite e cicatrici da cui dedussi che si trattava di uno degli animali da combattimento di Murakami. La bestia mi guardò come se la punta intrappolata del suo muso fosse il mirino di un'arma da fuoco, e nei suoi occhi iniettati di sangue colsi l'equivalente canino della follia. Del resto, lo dicono tutti che i cani finiscono per assomigliare ai padroni. Murakami mi fece cenno di entrare. «Non preoccuparti», disse. «Non fa niente, se ha la museruola.» «Non importa. Entra tu per primo», dissi io. Lui rise e salì a bordo. Il cane si spostò per fargli spazio. Quando anch'io mi fui seduto, la guardia richiuse la portiera. I due gorilla presero posto davanti. Percorremmo la Kaigan-dori in direzione nord fino alla Sakurado-
ri e, di lì, alla Gaienhigashi-dori, a Roppongi. Nessuno proferì parola. Il cane, per tutto il tragitto, non smise un solo attimo di fissarmi. Attraversata la Roppongi-dori cominciai a interrogarmi. Quando ci avvicinammo all'Aoyama-dori, capii. Stavamo andando al Damask Rose. 11. Ogni residuo tentativo di credere che Harry avesse semplicemente avuto fortuna a trovare quella ragazza svanì all'istante. L'aria condizionata all'interno della Mercedes mi parve all'improvviso caldissima. Io, però, avevo un problema più urgente di quello legato a Harry. La volta che ero stato al Damask Rose avevo parlato in inglese, presentandomi come un cittadino americano che parlava poco e male il giapponese. E avevo anche usato un nome diverso. Dovevo decidere come risolvere la questione. Quando la Mercedes si fermò davanti al locale, dissi: «Ah, bel posto...» «Ci sei già stato?» domandò Murakami. «Una volta sola. Le ragazze sono fantastiche.» Le sue labbra si schiusero in un sorriso, lasciando intravedere i denti finti e troppo bianchi. «Ovvio. Le scelgo io.» L'autista venne ad aprirci, e noi scendemmo. Il cane restò dentro, ma continuò a guardarmi con quegli occhi da furia finché la portiera con il finestrino nero non fu richiusa. Sulla porta c'erano di piantone i soliti nigeriani. Fecero un profondo e ossequioso inchino a Murakami, sussurrando all'unisono: «Irasshaimase.» Quello sulla destra disse qualcosa nel microfono che aveva attaccato al bavero. Scendemmo i gradini. Il tipo dalla faccia rubizza che era lì anche l'altra volta alzò gli occhi e, quando vide. Murakami, deglutì a fatica. «Oh, Murakami-san, buonasera», disse in giapponese con un profondo inchino. «È sempre un piacere vederla. C'è qualche ragazza in particolare che lei desidera incontrare, stasera?» Sulla sua fronte si era materializzato uno spesso velo di sudore. Tutta la sua attenzione era concentrata su Murakami. Di me non si era neppure accorto. Murakami si guardò intorno. Alcune delle ragazze gli sorrisero. Evidentemente, si conoscevano. «Yukiko», disse.
«Harry», pensai io. Mr Rubizzo annuì e si voltò verso di me. «Okyakusama?» mi domandò. E lei? Il fatto che mi avesse parlato in giapponese faceva supporre che non si ricordasse della mia precedente visita, quando avevamo parlato in inglese. «C'è Naomi, stasera?» domandai, sempre in giapponese. Posto che ci fosse, sarebbe stato meglio incontrarla subito, perché in questo modo avrei avuto almeno un minimo di possibilità di controllare la conversazione. Se le cose fossero andate male, lei quantomeno non avrebbe avuto l'impressione che io avessi cercato di evitarla. Gli occhi di Mr Rubizzo si socchiusero come per effetto del vago ricordo di qualcuno che qualche settimana prima gli aveva chiesto di Naomi. Non potevo, però, esserne certo. Lui chinò il capo. «Gliela chiamo subito.» Avevo già deciso la scusa da accampare nel caso Naomi avesse fatto commenti sul mio cambio di nome o su altre incongruenze: ero sposato, e non volevo che a mia moglie potesse giungere notizia delle mie scorrerie notturne. Il fatto che pagassi in contanti e non con la carta di credito era compatibile con questa storia. Non certo la migliore giustificazione del mondo, ma dovevo pur rispondere qualcosa se lei avesse rilevato qualche stranezza. Mr Rubizzo prese due menu e ci accompagnò nella sala principale, non prima, però, di avere sussurrato qualcosa a una ragazza che, se non ricordavo male, si chiamava Elsa. A sua volta, Elsa richiamò l'attenzione di Emi, sfiorandole il braccio. Ci condusse fino a un tavolo d'angolo. Murakami e io ci sedemmo l'uno accanto all'altro, entrambi rivolti verso l'entrata. Vidi Emi avvicinarsi al tavolo dove Yukiko stava intrattenendo un altro cliente. Emi si sedette e le parlò all'orecchio. Un istante dopo Yukiko si alzò in piedi e, scusandosi, si allontanò. Elsa ripeté l'operazione al tavolo dove si trovava Naomi. Tutto come si deve. Yukiko venne verso di noi e, quando vide Murakami, sul suo volto si disegnò un sorriso felino. Subito dopo arrivò anche Naomi. Indossava un altro abito da sera nero, di seta questa volta, aderente in vita, ma quanto mai lasco nella parte superiore. Al suo polso sinistro luccicava il braccialetto di diamanti che avevo già visto. Mi riconobbe, e stava quasi per abbozzare un sorriso che abortì improvvisamente quando il suo sguardo passò da me a Murakami. Evidentemente
lo conosceva e, considerando la storia che le avevo raccontato, non si aspettava di vedermi in sua compagnia. Stava certamente tentando di spiegarsi quella visione incongrua, ma dal suo brusco cambiamento di espressione capii che c'era dell'altro. Aveva paura. Yukiko si sedette accanto a Murakami, di fronte a me. Si soffermò a guardarmi per un lungo istante; quindi, dopo aver dato una più rapida occhiata a Murakami, tornò a guardarmi. Le sue labbra si mossero come per alludere al più labile dei sorrisi. Murakami la fissò come se si aspettasse qualcosa di più, ma lei continuò a ignorarlo. Sentii crescere la tensione e pensai: «Meglio non scherzare con questo qui. Potrebbe saltargli la mosca al naso». Dopo di che, Yukiko si voltò nuovamente verso di lui e gli concesse un sorriso come a dire: «Volevo solo stuzzicarti un po', caro. Non essere così infantile...» La tensione si sciolse. Se esisteva una persona in grado di tenere a bada l'uomo che mi stava seduto accanto, questa probabilmente era Yukiko. Naomi si accomodò sull'unica sedia rimasta. «Hisashiburi desu ne», dissi. Da quanto tempo... «Un, so desu ne», rispose lei, con un'espressione più controllata. Già, proprio così... Poteva sembrarle strano che io parlassi in giapponese, visto che l'altra volta avevo insistito per parlare in inglese. Forse, però, poteva interpretarlo come un segno di rispetto nei confronti di Yukiko e Murakami. «Vi conoscete?» interloquì Murakami in giapponese. «Bene. Arai-san, ti presento Yukiko.» Naomi non ebbe la minima reazione udendo che avevo cambiato nome. «Hajimemashite», disse Yukiko. Poi, sempre in giapponese, aggiunse. «Mi ricordo di te. Sei venuto qui una volta qualche settimana fa.» Chinai leggermente la testa e ricambiai il saluto. «Anch'io mi ricordo di te. Sei una ballerina eccezionale.» Lei inclinò la testa da un lato. «Hai un'aria diversa, però.» Le mie due personalità - quella americana e quella giapponese - sono diverse, e io cambio atteggiamento a seconda della lingua che parlo e della veste in cui mi presento. Forse era per questo, e per l'agitazione causata dall'arrivo di Murakami, che Mr Rubizzo non mi aveva riconosciuto. Yukiko, invece, aveva percepito la differenza ma non riusciva a definirla. Mi passai le dita tra i capelli come a volerli lisciare. «Vengo or ora da un allenamento», dissi. Murakami sghignazzò. «Puoi ben dirlo.»
Arrivò una cameriera. Posò sul tavolo quattro oshibori - panni umidi e caldi con cui pulirsi le mani e, magari, la faccia - e una varietà di stuzzichini. Quando ebbe finito guardò verso Murakami e, conoscendo evidentemente i suoi gusti, domandò: «Bombay Sapphire?» Lui annuì appena e fece capire che anche Yukiko avrebbe preso la stessa cosa. La cameriera si volse verso di me. «Okyakusama?» domandò. Io guardai per un attimo Naomi. «Springbank?» domandai. Lei annuì, e io ne ordinai due. La vibrante metà latina di Naomi, che al nostro primo incontro era emersa con forza, si era ritratta nel guscio come una tartaruga. Che cosa avrà pensato di me? «Nome nuovo, nuova identità, nuovo amico della yakuza.» Tutti ottimi argomenti di conversazione, ma lei non vi fece il minimo riferimento. Perché? Se l'avessi incontrata per strada, per prima cosa mi avrebbe domandato: «Che cosa ci fai ancora a Tokyo?» Se mi fossi ripresentato con un nome diverso, sicuramente avrebbe chiesto spiegazioni. E se mi fossi messo a parlarle come un giapponese perfettamente madrelingua, avrebbe certamente osservato: «Non mi avevi detto che ti trovavi più a tuo agio con l'inglese?» La sua reticenza, perciò, era dovuta alla situazione. Pensai alla paura che avevo colto nello sguardo di Naomi nel momento in cui aveva adocchiato Murakami. Dipendeva da lui. Temeva di poter dire o fare qualcosa che attirasse l'attenzione di quell'uomo. Al nostro primo incontro avevo avuto la sensazione che lei sapesse più di quanto fosse disposta ad ammettere. La sua reazione alla vista di Murakami ne era la conferma. E se lei avesse avuto intenzione di smascherarmi, a quel punto lo avrebbe già fatto. La scelta di astenersene l'aveva in qualche modo resa mia complice, dando corpo a un segreto condiviso. Avrei potuto approfittarne. Yukiko prese un oshibori e pulì le mani di Murakami, fredda come un domatore intento a lavare un leone. Naomi mi porse il mio. «Arai-san è mio amico», disse Murakami, guardando prima me e poi le ragazze e sorridendo con i suoi denti fasulli. «Vi prego di essere gentili con lui.» Yukiko mi sorrise fissandomi a lungo negli occhi come a dire: «Se fossimo soli, ti farei vedere io come so essere gentile...» Con la coda dell'occhio vidi che Murakami se n'era accorto e si stava rabbuiando. «Non vorrei mai essere la causa della gelosia di un simile bastardo»,
pensai, anche in riferimento a Harry. La cameriera tornò con i drink. Murakami scolò il suo in un unico sorso. Yukiko fece altrettanto. «Ii yo», ringhiò Murakami. Buono. Yukiko posò il bicchiere sul tavolo con studiata eleganza. Murakami la guardò, e lei ricambiò lo sguardo, con un'espressione quasi plateale di noncuranza. Lo sguardo si protrasse piuttosto a lungo. Dopo di che lui sorrise e le afferrò una mano. «Okawari», disse, rivolto alla cameriera. Altri due drink. Fece alzare in piedi Yukiko e la attirò lontano dal tavolo. Vidi che la stava portando in una stanza accanto a uno dei due palchi. «Che cosa fanno?» domandai a Naomi in giapponese. Lei mi stava guardando. Con cautela, mi parve. «Una lap dance», rispose lei. «Si conoscono bene, a quanto pare.» «Già.» Mi guardai intorno. Gli altri tavoli erano occupati da gruppi di uomini giapponesi nella classica tenuta da sarariman. Nonostante il rumore di fondo, erano troppo vicini perché potessi conversare liberamente con Naomi. Mi sporsi verso di lei. «Non credevo di tornare», le dissi sottovoce. Lei socchiuse gli occhi. «Sono felice di vederti.» Non sapevo come valutare l'incongruenza tra la sua reazione istintiva e le sue parole. «Avrai un sacco di domande da farmi, immagino», dissi. Lei scosse la testa. «Voglio solo assicurarmi che tu stasera ti diverta.» «Credo di sapere perché ti comporti in questo modo», riattaccai io. Lei mi interruppe con un brusco cenno della mano. «Che ne diresti di una lap dance?» mi domandò. Il tono di voce era invitante, ma il suo sguardo era tra il serio e l'arrabbiato. La guardai, cercando di indovinare che cosa avesse in mente, e poi dissi: «Fantastico.» Raggiungemmo la stessa stanza in cui poco prima si erano ritirati Yukiko e Murakami. Appena oltre la porta c'era un altro nigeriano di guardia. Fece un inchino e spostò di lato un divanetto semicircolare dall'alto schienale, di fronte al quale c'era un divanetto identico. Entrammo, e il nigeriano, risistemò il divanetto semicircolare alle nostre spalle, cosicché ci ritrovammo all'interno di uno scompartimento circolare completamente imbottito. Naomi mi indicò i morbidi cuscini di quel divano. Io mi sedetti, guar-
dandola in faccia. Lei arretrò senza distogliere gli occhi dai miei. Le sue mani scivolarono verso la sua schiena, e udii il rumore di una cerniera. A quel punto, la sua mano destra si spostò verso la spallina sinistra del suo vestito e cominciò a farla scivolare giù lungo la pelle levigata della spalla. Da una delle mie tasche cominciò a giungermi una vibrazione. «Figlio di puttana...» Il segnalatore di microspie che mi aveva dato Harry. Continua, intermittente, continua. Significava che oltre alle cimici, c'erano anche le telecamere. Feci attenzione a non guardarmi in giro e a non fare altro che potesse suscitare sospetti. Aprii la bocca per dirle qualcosa, qualcosa di appropriato per l'eccitato beneficiario di un'incipiente lap dance. Lei, però, fece una smorfia, a metà tra l'accigliato e l'esasperato, che mi lasciò senza parole. Tolse il suo affusolato dito indice da sotto la spallina del vestito e puntò verso il soffitto. Quindi, inclinò leggermente la testa e avvicinò il dito all'orecchio. Colsi al volo il messaggio. C'era chi guardava e ascoltava. E non solo lì. Anche ai. tavoli. Ecco il perché delle sue strane risposte. Non poteva avvertirmi finché eravamo seduti al tavolo. Allo stesso modo si spiegava come mai quella sera lei fosse arrabbiata. Ero un semplice contabile americano come le avevo raccontato la prima volta o, quantomeno, un elemento neutro? In quel caso, il silenzio sarebbe stato l'atteggiamento per lei più sicuro. Avevo anch'io a che fare con Murakami, che la terrorizzava? In questo caso, il silenzio e ancor più l'avvertimento che mi aveva appena dato sarebbero stati rischiosi. L'avevo involontariamente costretta a una scelta. Al tavolo, però, il detector anti-microspie non aveva ronzato. Subito però capii perché: la presenza di Murakami. Sebbene i tavoli fossero sorvegliati, registratori e telecamere venivano spenti quando arrivava il capo. Doveva essere la regola, e io immaginai che nessuno avrebbe mai sgarrato, visto il rischio di essere scoperti da Murakami. E in occasione della mia prima visita, evidentemente, il sistema di sorveglianza non era ancora in funzione. Ecco perché il detector di Harry, in quella circostanza, non si era attivato. Infilai una mano in tasca per spegnere il dispositivo e annuii per segnalarle che avevo capito. Naomi finì di abbassarsi la spallina e sfilò il braccio, per poi ripetere l'o-
perazione dall'altro lato. Incrociò le braccia. Le narici le fremevano leggermente quando respirava. Si fermò per un istante e poi, sempre imbronciata, il corpo rigido, abbassò le braccia lungo i fianchi. Il vestito le scivolò giù oltre il seno e la pancia, arricciandosi sul bacino. «Puoi toccare con mano», disse. «Solo al di sopra dei fianchi.» Io mi alzai in piedi, guardandola fisso negli occhi. Le avvicinai la bocca all'orecchio. «Grazie per l'avvertimento», sussurrai. «Non ringraziarmi», sussurrò lei. «Non è che io avessi molta scelta.» «Io non sono amico di questa gente.» «Ah, no? Eppure staséra hai combattuto, o no?» «Come fai a dirlo?» «Hai la faccia graffiata, e ho capito benissimo la battuta di Murakami a proposito del tuo "allenamento".» Adone doveva avermi lasciato dei segni. Non me n'ero neanche accorto. «Sai dei combattimenti?» le domandai. «Lo sanno tutti. I lottatori, dopo aver combattuto, vengono qui e si vantano. A volte si comportano come se noi fossimo sorde.» «Non ci sono andato di mia volontà. Io mi alleno in un dojo, e della gente mi ha invitato. Non avevo idea di quel che avrei trovato. E alla fine ho scoperto che non ero stato attirato lì per mangiare, bensì per essere mangiato.» «Mi dispiace per te», sussurrò Naomi. «Se credi che io sia amico di questa gente», dissi, «perché mi stai parlando? Perché mi hai detto delle microspie e delle telecamere?» «Perché sono stupida, proprio come te.» Fece un passo indietro e mi guardò, con le mani sui fianchi e il mento proteso verso l'alto. Sollevò le sopracciglia e sorrise. «Hai paura di toccarmi?» La guardai in faccia. Io avevo bisogno di informazioni, non di una stramaledetta lap dance. «Hai paura persino di guardare?» incalzò, con un sorriso ammaliante. Sostenni il suo sguardo per un po', ma alla fine i miei occhi vagarono verso sud. «Ti piace quel che vedi?» domandò. «È okay», dissi dopo un istante, benché in realtà il mio giudizio fosse decisamente più lusinghiero. Lei si voltò e cominciò a spingere contro di me con il didietro, piegandosi leggermente in avanti, adattando la sua parte posteriore alla mia anteriore.
Mi resi conto, all'improvviso, che a quel gioco avrei potuto solamente perdere. Lei posò le mani sulle ginocchia e cominciò a muovere i fianchi da una parte e dall'altra. L'attrito prodotto dal suo culo assunse un'importanza crescente nella sfera della mia coscienza. «Ti piace?» domandò, guardandomi da sopra la sua spalla. «È okay», ribadii, con voce più profonda, questa volta, e lei scoppiò a ridere. «A occhio, direi che merito qualcosa di più di un "okay", o sbaglio?» «Voglio parlarti», dissi. Mi accorsi di averle posato le mani sui fianchi. Le tolsi. «E allora parla», fece lei, premendo ancora più forte contro di me. «Dimmi tutto quello che vuoi.» Stava cercando di portarmi fuori strada. Non aveva voglia di parlare, e io non sapevo come farle cambiare idea. Naomi inarcò la schiena e spinse il culo un po' più in alto. Un'ombra formava una pozza scura nel solco in fondo alla sua spina dorsale. «Tutto quello che vuoi», ripeté. L'ombra si coagulava e svaniva a ritmo con i suoi movimenti. «Smettila, maledizione!» sibilai a bassa voce. Le mie mani erano tornate a posarsi sui suoi fianchi. «Però ti piace», tubò. «E anche a me piace.» «Devo togliermi da questa situazione», pensai. Le mani, però, non le tolsi. Cominciai a muoverle, invece. Le vedevo come se fossero lontanissime. Il fruscio del tessuto contro la pelle risaltava in quell'ambiente chiuso. «Mi sta fregando», pensai. E poi: «Al diavolo! Dovrò pur comportarmi come un normale cliente, in una certa misura.» Mi abbassai, posando un ginocchio a terra e facendo scivolare le mani lungo la parte posteriore delle sue cosce, per poi rialzarmi di nuovo, sollevandole contemporaneamente il vestito sui fianchi. Portava un perizoma nero, e il vestito ondeggiava poco più in alto raccolto in fondo alla schiena. Afferrai il vestito con una mano come una briglia e con l'altra le afferrai il culo. «Solo al di sopra dei fianchi», disse lei sorridendo, leggermente rivolta all'indietro, con la sua voce fredda a fare da contrappunto alla vampa che avevo nella mente e nelle viscere. «Altrimenti, sono costretta a chiamare il sorvegliante.»
Provai un accesso di rabbia. «Devo mollare il colpo», pensai, «e uscire di qui alla svelta, come avrei dovuto fare prima che le cose si complicassero.» Le tolsi la mano dal culo e feci un passo indietro, ma la rabbia mi sopraffece. Senza mollare il vestito, ruotai il bacino e le mollai uno sculaccione sulla natica destra. Si udì uno schiocco violento, e lei lanciò un urlo, allontanandosi da me di scatto come per effetto di una scossa elettrica. Si girò di fronte, una mano sulla parte offesa. Aveva gli occhi spalancati, le narici che fremevano per lo spavento e la rabbia. Con la coda dell'occhio la vidi spostare il suo peso sulla gamba più arretrata e immaginai che stesse per tentare di colpirmi in mezzo alle gambe con l'altro piede. Lei, invece, indietreggiò. Allungò le braccia lungo i fianchi e sollevò le spalle e il mento, il ritratto della rabbia regale repressa. Mi squadrò. «Mo owari, okyakusama?» mi domandò, con l'aria più sprezzante di cui era capace. Abbiamo finito, onorevole cliente? «Era contrario al regolamento?» domandai, sorridendole e guardandola negli occhi. Lei si risistemò il vestito, infilando le braccia nelle spalline. Aveva il viso ancora congestionato dalla rabbia, e io non potei fare a meno di ammirare la sua compostezza e il suo autocontrollo. Riuscì a richiudere la cerniera senza bisogno di aiuto e infine disse: «Sono tre canzoni, ossia trentamila yen. Più la mancia del dieci per cento al sorvegliante. Ken!» Ken doveva essere il nigeriano, perché un attimo dopo il divanetto semicircolare ruotò sul suo cardine, e il nigeriano fece la sua comparsa. Estrassi il mio rotolo di banconote e pagai entrambi. «Grazie», dissi a Naomi. Ero raggiante come un cliente soddisfatto. «È stato... speciale.» Lei mi rivolse un sorriso che mi indusse a rallegrarmi del fatto che fosse disarmata. «Kochira koso», rispose. Il piacere è stato mio. Mi riaccompagnò al tavolo. Lungo il tragitto, riattivai il detector di Harry. Murakami e Yukiko erano lì ad aspettarci. «Yokatta ka?» mi domandò Murakami, mostrandomi i suoi denti falsi. Tutto bene? «Maa na», dissi io. Abbastanza. Lui prese Yukiko per mano e si alzò come per andarsene. «Discuteremo dei nostri affari un'altra volta», disse. «Quando?» «Presto. Ci vediamo al dojo.»
Non gli piaceva - come non piaceva a me - prendere appuntamenti. «Di mattina? Di sera?» gli domandai. «Di mattina. Presto.» Si voltò verso Naomi. «Naomi, shikkari mendo mite yare yo.» Abbi cura di lui. Naomi chinò la testa a significare che avrebbe certamente fatto come richiesto. Murakami e Yukiko se ne andarono. Un attimo dopo, il detector riprese a vibrare. Vibrazione continua: solo audio. Avevo indovinato, a proposito delle regole della casa. Naomi e io chiacchierammo per alcuni minuti a beneficio dei microfoni. Il suo tono era freddo e cortese. Io sapevo che il nostro piccolo incontro non si era risolto esattamente nel modo da lei programmato, ma era comunque riuscita a eludere le mie domande, e per lei, in fondo, era soprattutto questo l'importante. Probabilmente, stava dicendo a sé stessa che era finita con un pareggio, e che poteva accontentarsi. Ignorava, però, che quello era stato solo il primo round. Le dissi che ero sfinito e che dovevo andare. «Torna quando vuoi», disse, con un sorriso sarcastico. «Per un'altra lap dance come quella di prima?» domandai, ricambiando il sorriso. «Contaci.» Salii le scale e uscii sulla Gaienhigashi-dori. Quando fui in strada, sentii suonare un clacson. Vidi passare Yukiko alla guida di una BMW M3, con Murakami seduto al suo fianco. Salutò con la mano e scomparve sulla Aoyama-dori. Era appena passata la una. Il Damask Rose chiudeva alle tre. Naomi sarebbe tornata a casa dopo quell'ora. Avevo fatto un controllo via computer. Sapevo dove abitava: Lion's Gate Building, Azabu Juban 3-chome. Il metrò aveva già smesso di funzionare. Dubitavo che avesse un'auto: tenere un'automobile a Tokyo è troppo costoso, e in più c'è il metrò che arriva dappertutto. Per tornare a casa doveva per forza prendere un taxi. Presi anch'io un taxi fino alla stazione del metrò di Azabu Juban e poi girai intorno al 3-chome finché non trovai il palazzo in cui abitava Naomi. Tipica manshon di appartamenti di lusso, ferrocemento marroncino, nuovo e sontuoso. Ingresso immediatamente accessibile con doppia porta a vetri controllata elettronicamente. Telecamere di sicurezza montate sul soffitto appena oltre le vetrate. L'edificio sorgeva sull'angolo con un senso unico. Passai sul retro, dove trovai un ingresso secondario, più piccolo, meno esposto del primo, che
solo i residenti, probabilmente, usavano. Niente telecamere, lì. Quel secondo accesso complicava le cose. Se mi fossi appostato all'ingresso sbagliato, mi sarebbe sfuggita. Riflettei. Tutte quelle vie erano a senso unico, un tratto caratteristico di Azabu Juban. Se arrivava dal Damask Rose, il taxi sarebbe prima passato davanti all'ingresso secondario. Molto probabilmente, lei si sarebbe fatta lasciare lì. Se anche avesse proseguito, però, avrei avuto comunque il tempo di girare intorno al palazzo e intercettarla prima che lei entrasse. Bene. Mi guardai intorno alla ricerca del luogo più adatto all'appostamento. Di solito, quando tendo un agguato a qualcuno, punto alla massima invisibilità e sull'effetto sorpresa. Questo, però, vale se l'incontro dev'essere fatale. Con Naomi io volevo solo parlare. Se la spaventavo troppo, facendola sentire troppo vulnerabile, lei sarebbe corsa dentro, e io sarei rimasto con un pugno di mosche. C'era una piccola via perpendicolare che portava nel punto in cui mi trovavo e terminava, senza uscita, proprio accanto all'ingresso secondario del palazzo. La percorsi fino in fondo. Notai un tendone che aggettava dall'edificio alla mia sinistra, all'ombra del quale erano ammassati dei grossi bidoni di plastica per l'immondizia. Avrei potuto aspettare tranquillo in quell'angolo: se anche fosse passato qualcuno, difficilmente mi avrebbe visto. Controllai l'orologio. Quasi le due. Passai il tempo gironzolando per il quartiere. Incrociai non più di una mezza dozzina di persone. Alle tre la zona era ormai completamente deserta. Pensai a quello che avevo visto poco prima al Damask Rose. Tatsu mi aveva detto che Yamaoto, per gestire la sua rete di politici corrotti, faceva spesso ricorso al ricatto e all'estorsione. Mi aveva detto anche che il cd sottratto dal padre di Midori a Yamaoto conteneva, tra le altre cose, le immagini di certi uomini politici in posizioni compromettenti. Infine, sempre Tatsu mi aveva detto che Yamaoto e Murakami erano in combutta. Era probabile, perciò, che il Damask Rose fosse uno dei posti in cui Yamaoto filmava gli uomini politici in situazioni imbarazzanti. Questo significava che qualcuno, all'interno della rete di Yamaoto, aveva ora un filmato in cui compariva la mia faccia. Sarebbe stata una pessima notizia in ogni caso, ma il recente interessamento di Murakami complicava ulteriormente la situazione. Era piuttosto probabile che Murakami, in cerca di altre informazioni sul mio conto, mostrasse il video a qualcuno. Poteva addirittura mostrarlo a Yamaoto, che la mia faccia la conosceva.
Inoltre, per infiltrarmi nel dojo di Murakami, avevo speso il nome del sollevatore di pesi da me ucciso. Se avessero intuito con chi avevano a che fare, avrebbero magari anche capito che T'incidente" del sollevatore di pesi non era stato affatto un incidente. Cercai di ricomporre anche il resto del quadro. Yukiko, o per meglio dire gente più importante di lei al Damask Rose, forse addirittura Yamaoto in persona, stava cercando di infiltrarsi nelle difese di Harry. E loro erano interessati a Harry, solo in quanto lui poteva condurli da me. E la CIA? Anche loro stavano seguendo Harry. Secondo Kanezaki, sempre per arrivare a me. Il problema era il seguente: Yamaoto e la CIA lavoravano, per certi versi, insieme o la loro comunione di interessi era solo una coincidenza? Nel primo caso, qual era la natura della loro collaborazione? Altrimenti, qual era la natura di quel loro interesse? Forse Naomi mi avrebbe aiutato a trovare una risposta, semi fossi mosso nel modo giusto. Dovevo sbrigarmi, però. Anche ammesso che fosse semplicemente un tramite per giungere a me, Harry poteva essere in pericolo. E se Murakami avesse capito che sotto le mentite spoglie di Arai Katsuhiko si nascondeva John Rain, io e Harry avremmo avuto una bella gatta da pelare. Appena prima delle tre cominciò a piovere. Tornai alla svelta verso casa di Naomi e presi posizione nell'ombra accanto all'ingresso secondario. Ero al riparo, sotto il tendone, ma cominciava a fare freddo. La gamba, nel punto colpito da Adone, mi doleva. Feci un po' di stretching per sciogliere i muscoli. Alle tre e venti un taxi svoltò nella stradina. Lo osservai dalla mia postazione nascosta. Sul sedile posteriore c'era Naomi. Il taxi girò a sinistra e si fermò appena oltre l'ingresso secondario del palazzo. La portiera automatica posteriore si aprì di un filo, e all'interno dell'abitacolo si accese la lucina. Vidi Naomi che passava alcune banconote al tassista, il quale restituì delle monete. La portiera si spalancò e lei scese dal taxi. Indossava un cappotto nero lungo fino al ginocchio, di lana leggera o di cashmere, e se lo strinse addosso. La portiera si richiuse, e il taxi corse via. Lei aprì l'ombrello e si avviò verso l'ingresso. Io sbucai da sotto il tendone. «Naomi», dissi, a bassa voce. Si girò di scatto, e io la sentii inspirare spaventata. «Che diavolo?...» esclamò, nel suo inglese vagamente lusofono. Alzai le mani con i palmi rivolti in avanti. «Voglio soltanto parlarti.»
Lei si guardò alle spalle per un attimo, calcolando forse la distanza che la separava dalla porta e si voltò nuovamente verso di me, apparentemente più rilassata. «Io, invece, non voglio parlare con te.» Mise un'enfasi speciale nel pronunciare la prima e l'ultima parola, e il suo accento, per la concitazione, risaltò ancora più netto. «Non ti costringo, se non vuoi. Te lo sto semplicemente chiedendo.» Lei si guardò nuovamente intorno. Aveva un senso del pericolo molto spiccato. Generalmente, in presenza di una minaccia, le persone tendono a concentrarsi esclusivamente su di essa. E ciò le rende facili prede, nel caso in cui la suddetta minaccia sia in realtà solo una finta per colpire da un altro lato. «Come fai a sapere dove abito?» domandò. «Ho dato un'occhiata su Internet.» «Davvero? E ti pare che, con il lavoro che faccio, vado a mettere il mio indirizzo su Internet?» Mi strinsi nelle spalle. «Mi hai dato il tuo indirizzo e-mail. Con un minimo di informazioni di partenza, non hai idea di quante cose si possono scoprire.» I suoi occhi si assottigliarono. «Sei un maniaco?» Scossi la testa. «No.» La pioggia cominciava a intensificarsi. Pensai che, a parte il disagio fisico, quel tempo non era poi tanto una disdetta. Lei era all'asciutto, sotto l'ombrello; io ero bagnato e quasi in preda ai tremiti. Questo contrasto l'avrebbe fatta sentire in una situazione di vantaggio. «Sono nei guai?» domandò. Ne fui sorpreso. «Che genere di guai?» «Non ho fatto niente di male. Non sono implicata in niente. Sono solo una ballerina, okay?» Non capivo dove volesse arrivare, ma non volevo interromperla. «Non sei implicata», scimmiottai. «Non sono implicata! E non voglio esserlo. Io bado agli affari miei.» «Non sei nei guai, almeno non per quanto riguarda me. Ti assicuro che voglio soltanto parlare con te.» «Per quale ragione dovrei accettare?» «Perché ti fidi di me.» La sua espressione si fissò tra il divertito e l'incredulo. «Mi fido di te?» Io annuii. «Mi hai segnalato la presenza delle microspie al Damask Rose.»
Lei chiuse gli occhi. «Cristo, ero sicura che me ne sarei pentita!» «Però sapevi anche che avresti patito ben altra penitenza se non lo avessi fatto.» Lei scosse la testa lentamente, sconsolata. Era facile intuire quel che stava pensando. «Gli ho fatto un favore e adesso non riesco più a liberarmene. E lui è una fonte di guai, guai da cui voglio stare alla larga.» Mi spostai i capelli gocciolanti dalla fronte. «Non potremmo andare da qualche parte?» Lei guardò a destra e poi a sinistra. La via era deserta. «D'accordo», disse. «Chiamiamo un taxi. Conosco un posto che resta aperto fino a tardi. Là potremo parlare.» Trovammo un taxi. Io entrai per primo e lei subito dopo. Disse al tassista di portarci al 3-3-5 di Shibuya-ku, sul lato sud della Roppongi-dori. Sorrisi. «Stiamo andando al Tantra?» domandai. Lei mi guardò, forse un tantino esasperata. «Lo conosci?» «Esiste da tanto tempo. È un ottimo locale.» «Non credevo che lo conoscessi. Mi sembravi un po' troppo... anziano.» Io risi. Se sperava di provocarmi, aveva mancato il bersaglio. Non sarò mai sensibile a questa cosa dell'età. La maggior parte della gente che ho conosciuto da giovane è già morta. Il solo fatto che io stia respirando è per me motivo di vanto. «Il Tantra è come il sesso», dissi, con un sorriso indulgente. «Ogni generazione crede di essere la prima a scoprirlo.» Lei guardò altrove, e il viaggio proseguì nel più assoluto silenzio. Avrei preferito che il taxi, com'era mia abitudine, ci portasse in qualche posto da cui fosse facile raggiungere a piedi la vera destinazione, e non alla destinazione precisa. Date le circostanze generali della serata, però, giudicai sufficientemente bassa la probabilità che sorgessero problemi a causa delle carenze di Naomi sul piano della sicurezza. Pochi minuti dopo ci fermammo davanti a un palazzo per uffici privo di contrassegni. Pagai il tassista e scendemmo. Aveva smesso di piovere, ma la strada era vuota, quasi desolata. Se non avessi saputo dov'eravamo, mi avrebbe fatto uno strano effetto scendere in un posto del genere a quell'ora della notte. Alle nostre spalle, sopra una scala che portava in un seminterrato, c'era una «T» dalla luce fioca, unico segno esteriore dell'esistenza del Tantra. Scendemmo i gradini, varcando un paio di massicce porte di metallo, ed
entrammo in un foyer che conduceva a mo' di breve tunnel verso il locale vero e proprio. Comparve un cameriere che ci domandò a bassa voce se fossimo noi due soli. Naomi rispose di sì, e lui ci guidò all'interno. Le pareti erano marroni, di cemento, e il soffitto era nero. C'erano alcuni faretti, ma l'illuminazione del locale proveniva perlopiù dalle candele accese sui tavoli e negli angoli del pavimento di cemento dipinto a smalto. In alcune nicchie, qua e là, c'erano statue rappresentanti posizioni del kamasutra. Oltre a noi, c'erano cinque o sei gruppetti di persone, tutti seduti a terra su cuscini o sedie basse. La sala vibrava di conversazioni sommesse e di risate leggere. Da altoparlanti invisibili giungeva in sottofondo un tecno-pop arabeggiante. C'erano altre due stanze, oltre a quella, parzialmente nascoste da pesanti tende rosse. Domandai al cameriere se non ce ne fosse, per caso, una libera, e lui indicò quella più a destra. Guardai Naomi, e lei fece un cenno di assenso. Oltrepassammo la tenda e ci ritrovammo in una stanza simile a una piccola caverna o a una fumeria d'oppio. Il soffitto era basso e le candele creavano guizzanti giochi d'ombre sulle pareti. Ci accomodammo sui cuscini che c'erano a terra, distesi perpendicolarmente l'uno rispetto all'altra. Il cameriere ci portò la lista delle consumazioni e se ne andò senza dire una parola. «Hai fame?» le domandai. «Sì.» «Anch'io.» Mi strofinai le spalle. «E ho freddo.» Quando il cameriere tornò, gli ordinammo del tè bollente, le loro famose patatine Ayu e qualche involtino primavera. Naomi chiese anche un Highland Park invecchiato dodici anni e io la imitai. «Come fai a conoscere questo posto?» mi domandò Naomi, quando il cameriere se ne fu andato. «Te l'ho detto: esiste da un pezzo. Dieci anni, almeno. Anche di più.» «Tu, allora, vivi a Tokyo.» Pausa. «Ci ho vissuto. Fino a poco tempo fa.» «Perché sei tornato?» «Ho un amico che si è cacciato nei guai con gente del Damask Rose e non lo sa neanche.» «Che genere di guai?» «È quello che sto cercando di scoprire.»
«Perché mi hai raccontato tutte quelle frottole sul tuo lavoro di contabile?» Mi strinsi nelle spalle. «Ero in cerca di informazioni. Non aveva senso che io mi scoprissi.» Restammo in silenzio per alcuni minuti. Il cameriere ci portò quello che avevamo ordinato. Io cominciai con il tè. Mi diede una bella riscaldata. Quando passai all'Highland Park mi sentii ancora meglio. «Ne avevo proprio bisogno», dissi, appoggiando le spalle al muro, mentre dallo stomaco il calore si irradiava in tutto il corpo. Naomi prese un involtino primavera. «Sei stato davvero in Brasile?» mi domandò. «Sì.» Era una bugia, ma forse equivaleva moralmente alla verità. Del resto, non potevo dirle che stavo imparando tutto il possibile su quel paese perché meditavo di trasferirmici per sempre. Addentò un involtino e prese a masticare, la testa leggermente inclinata da un lato come se stesse pensando a qualcosa. «Stasera, quando ho visto con chi eri, ho pensato che magari avevi imparato qualche frase in portoghese solo per farmi parlare. Ho temuto di essere nei guai.» «No.» «Dunque, la prima volta non sei venuto per incontrare proprio me.» «Quella sera, quando sono arrivato, tu stavi ballando, e così ho chiesto di te. È stata una coincidenza.» «Se non sei un contabile americano, chi sei?» «Sono uno che... ogni tanto svolge dei servizi per della gente. Questi servizi mi costringono ad avere a che fare con un gran numero di attori sociali diversi. Sbirri e yakuza. Politici. A volte, persone che vivono ai margini della società.» «È questo che hai scritto sul tuo biglietto da visita?» Sorrisi. «Ci ho provato, ma il carattere risultava troppo piccolo per essere leggibile.» «Sei per caso un investigatore privato?» «In un certo senso.» Lei mi guardò. «Per chi stai lavorando adesso?» «Te l'ho detto: al momento, sto cercando di aiutare un amico.» «Perdonami, ma questa mi sembra una palla.» Annuii. «Ti capisco.» «Sembravi piuttosto a tuo agio con Murakami, poco fa.» «Ti ha dato fastidio?»
«Quell'uomo mi fa paura.» «E hai ragione.» Lei prese il suo Highland Park e si appoggiò al muro. «Ho sentito alcune storie raccapriccianti sul suo conto.» «Mi sa che sono vere.» «Tutti hanno paura di lui. Tranne Yukiko.» «E perché, secondo te?» «Non lo so. Riesce a esercitare su di lui un certo potere. Nessun altro ne è capace.» «Non ti piace neanche lei.» Lei mi fissò negli occhi e poi distolse lo sguardo. «Lei sa essere spaventosa quanto lui.» «Avevi detto che lei fa cose che tu non fai.» «Infatti.» «Qualcosa che ha a che fare con le microspie?» Si portò il bicchiere alle labbra e lo svuotò. Quindi disse: «Non ho la certezza che ci siano delle microspie; è un'impressione. Da noi vengono moltissimi clienti importanti: politici, burocrati, uomini d'affari. I proprietari del club incoraggiano le ragazze a parlare con loro, a estorcere informazioni. Tutte le ragazze pensano che le conversazioni siano registrate. E si dice che certi clienti vengano persino filmati, nelle salette della lap dance.» Stavo conquistando la sua fiducia. E dal modo in cui stava parlando capii che da lei avrei saputo altre cose. Un giocatore è capace di arrovellarsi per ore prima di decidere su quale opzione puntare - rosso o nero, poniamo - ma poi, quando il croupier fa girare la ruota, raddoppia o triplica la puntata per rinsaldare la propria convinzione di avere fatto la scommessa giusta. Se la scommessa fosse stata sbagliata, infatti, perché rinforzare in quel modo la puntata? Indicai il suo bicchiere. «Un altro?» Lei esitò, ma poi annuì. Io finii il mio e ne ordinai altri due. Le pareti vibravano alla luce delle candele. Quella saletta comunicava un senso di intimità e di calore, come un santuario sotterraneo. Il cameriere portò i nostri whisky. Quando se ne fu andato, guardai Naomi e le domandai: «Tu non hai niente a che fare con tutta questa storia?» Lei guardò nel suo bicchiere e lasciò passare diversi secondi. «Vuoi una risposta sincera o sincerissima?» domandò lei.
«Tutt'e due.» «Okay», disse. «La risposta sincera è no.» Sorbì un goccio di Highland Park. Chiuse gli occhi. «Quella sincerissima è... be'...» «"Non ancora"», aggiunsi io. Riaprì gli occhi e mi fissò. «Come fai a saperlo?» La guardai per un istante, rendendomi conto della sua angoscia ma anche dell'opportunità che questa mi offriva. «Sei stata subornata», dissi. «È un sistema, che consiste di tutta una serie di tecniche. Per riuscire anche solo ad accorgersi di esserne vittime bisogna essere molto più intelligenti della media. E ora, se vuoi, hai anche l'opportunità di fare qualcosa.» «Che cosa intendi dire?» Bevvi un sorso, osservando il liquido ambrato che risplendeva illuminato dalle candele. «All'inizio si procede lentamente. Si cercano i limiti della vittima e le si concede un po' di tempo, finché non si abitua. In breve, i limiti vengono superati. Mai, però, più di un piccolo passo alla volta. E sempre facendo credere alla vittima che sia una sua scelta.» La guardai. «La prima volta che ci siamo visti mi hai detto che al tuo arrivo al Damask Rose eri così timida da non riuscire praticamente neanche a salire sul palco.» «Sì, è la verità.» «Allora non avresti mai fatto una lap dance.» «Infatti.» «Ora, però, ci riesci.» «Già.» La sua voce si era ridotta a un sussurro. «E quando per la prima volta hai accettato di fare una lap dance, hai detto a te stessa che non avresti mai permesso a un cliente di toccarti.» «Sì, è vero», ammise, a voce ancora più bassa. «Ovvio. E potrei continuare. Potrei dirti dove sarai fra tre mesi, fra sei, fra un anno. Tra vent'anni, persino, se continuerai lungo questa china. Naomi, pensi davvero che sia tutto casuale? È una scienza. C'è gente molto esperta nell'arte di indurre la gente a fare domani quel che oggi appare impensabile.» A parte il respiro rapido, che le faceva fremere le narici, Naomi rimase perfettamente in silenzio, e io ebbi la sensazione che stesse trattenendo le lacrime. Io, però, dovevo affondare ancora un po' il colpo, prima di ritrarmi.
«Vuoi sapere quel che ti aspetta?» le domandai. Lei mi guardò senza dire nulla. «Sai già che le ragazze del Damask Rose vengono usate per ricattare i politici e cose del genere. Anche le tue colleghe ne parlano, ma non è tutto. Ti hanno fatto delle proposte, vero? Un approccio indiretto, ma non per questo meno efficace. Qualcosa tipo: "C'è un cliente speciale a cui piaceresti tantissimo. Vorremmo che tu andassi con lui e lo facessi divertire. Se sarà soddisfatto, ti pagheremo una cifra x." Magari, c'era anche una stanza d'hotel in cui volevano che tu lo portassi. Lì, avrebbero registrato e filmato l'incontro. Tu hai rifiutato, immagino. E loro non hanno insistito. Perché avrebbero dovuto? Sanno che prima o poi cederai.» «Ti sbagli!» ribatté lei all'improvviso, puntandomi contro un dito. Io la guardai. «Se davvero mi sbagliassi, tu non reagiresti così!» Mi fissò, con uno sguardo ferito e furioso, le labbra che si muovevano come in cerca delle parole giuste. Poteva bastare. Era il momento di verificare se il mio discorso aveva ottenuto l'effetto desiderato. «Ehi», dissi, suadente, ma lei tenne gli occhi bassi. «Ehi!» Posai una mano sulle sue. «Scusami.» Le strinsi per un attimo le dita e poi ritrassi la mano. Lei rialzò la testa e mi guardò. «Pensi che io sia una prostituta. O almeno che lo diventerò.» «Non lo penso affatto», dissi, scuotendo la testa. «Come fai a sapere tutte queste cose?» Era il momento di una risposta sincera, benché sufficientemente vaga. «Tanto tempo fa, e in un contesto diverso, mi sono trovato nella stessa situazione.» «Che cosa vuoi dire?» Per un istante, pensai a Crazy Jake. Scossi la testa: era un argomento che non avevo intenzione di affrontare. Restammo in silenzio per alcuni istanti. Poi lei disse: «Avevi ragione. Non avrei reagito così se quello che hai detto non fosse la verità. Sono cose su cui ho riflettuto molto, ma non ero mai riuscita a essere così sincera con me stessa.» Protese un braccio e mi prese una mano. La strinse con forza. «Grazie.» Provai uno strano miscuglio di emozioni: soddisfazione per la riuscita del mio stratagemma; comprensione per la situazione in cui si trovava; vergogna per avere approfittato del suo candore.
Inoltre, di base, ero sempre attratto da lei. Mi scoprii tremendamente ipersensibile al tocco della sua mano. «Non devi ringraziarmi», dissi, guardandola. Non mi ritrassi, però. Dopo un po', fu lei a ritirare la mano. «È vero che stai solo cercando di aiutare un amico?» la sentii domandare. «Sì.» «Ti aiuterei, se potessi, ma non so nient'altro.» Annuii, pensando a Yamaoto e alla CIA, interrogandomi sul loro rapporto. «Vorrei farti una domanda», dissi. «Quanti bianchi vengono al Damask Rose?» Lei si strinse nelle spalle. «Un buon numero. Più o meno tra il dieci e il venti per cento dei clienti. Perché?» «Ne hai mai visti in compagnia di Murakami?» Scosse la testa. «No.» «E con Yukiko?» «Non esattamente. Il suo inglese è pessimo.» Inutile. Non sapeva niente. Cominciavo a dubitare che potesse davvero essermi d'aiuto. Guardai il mio orologio. Erano quasi le cinque. Presto sarebbe sorto il sole. «Dovremmo andare», dissi. Lei annuì. Pagai il conto e ce ne andammo. Fuori era umido, ma non pioveva. I lampioni sulla Roppongi-dori creavano coni luminosi di foschia che vorticava lenta. Era tardissimo, appena prima che diventi presto, e le vie erano momentaneamente immerse nel silenzio. «Mi accompagni a casa?» domandò Naomi, guardandomi. Io annuii. «Certo.» Dopo dieci minuti, a metà della nostra camminata, riprese a piovere. «Droga!» imprecò lei in portoghese. «Ho lasciato l'ombrello al Tantra.» «Shoganai», dissi io, rialzandomi il bavero del blazer. Che vuoi farci? Accelerammo il passo. La pioggia si intensificò. Mi passai una mano tra i capelli e mi sentii colare l'acqua nella schiena. Quando mancava ancora mezzo chilometro, ci fu un tuono violentissimo e cominciò a diluviare. «Que merda!» esclamò lei, sorridendo. «Siamo proprio sfigati!» Ci mettemmo a correre, ma senza ottenere nulla. Arrivammo a casa sua
e ci infilammo sotto il portico che riparava l'ingresso secondario del palazzo in cui abitava. «Meu deus!» disse ridendo. «Non mi era mai capitato di infradiciarmi così!» Si sbottonò il cappotto zuppo d'acqua. Dopo di che mi guardò e sorrise. «Una volta che ci si è completamente bagnati, diventa persino divertente.» Dal suo vestito umido si levavano volute di vapore. «Stai evaporando», osservai. Lei si guardò, e poi tornò a fissarmi. Si ravviò alcune ciocche di capelli. «La corsa mi ha fatto sudare», disse. Io mi asciugai la faccia con una mano e pensai: «È ora di andare.» E invece restai. «Grazie per l'interessante serata», disse, dopo una breve pausa. «Non sei poi tanto male, per essere un maniaco.» Abbozzai un sorriso. «Me lo dicono tutti.» Ci fu uno strano silenzio. Poi, lei si avvicinò e mi cinse tra le sue braccia, affondando il viso contro la mia spalla. Restai sorpreso. D'istinto, anche le mie braccia si mossero ad abbracciarla. «Solo un po' di coccole», pensai. «Sono stato molto brusco con lei, prima. È giusto darle un po' di conforto.» In parte, mi resi conto che questo pensiero poteva suonare come una scusa. Non ci badai granché. Di solito me la cavo bene anche senza. Sentii le sue morbide forme, il suo calore condotto con nettezza elettrica dall'umidità dei nostri vestiti. Sentii il mio corpo reagire. E sapevo che anche lei lo sentiva. «Oh, merda.» Lei staccò la testa dalla mia spalla. La sua bocca era vicinissima al mio orecchio. Sentii dire: «Vieni di sopra.» L'ultima donna con cui avevo avuto una storia, mentre avrei dovuto considerarla una semplice pedina, era stata Midori. E ancora ne scontavo le conseguenze. «Non fare stupidaggini», pensai. «Non approfondire troppo. Non confondere il lavoro con i sentimenti.» I pensieri, però, erano sconnessi. Non c'era nessuno che li ascoltasse. «È una ragazza da bar. Non puoi fidarti di lei.» Quest'ultimo pensiero era tutt'altro che fondato. Nessuno l'aveva mandata da me: ero io quello che l'aveva seguita. Lei non aveva alcun dovere di avvisarmi della presenza delle microspie. Ero convinto nel profondo che
Naomi non stesse fingendo. Mi posò una mano sul petto. «Tu... è tanto tempo che stai da solo», disse. Mi venne in mente che forse, in parte, proprio per questo ero sopravvissuto così a lungo. «Come fai a dirlo?» domandai. «Si capisce. Lo vedo da come mi guardi.» Con la sua mano aumentò la pressione. «Lo sento dal tuo cuore», disse. Tra la sua mano sul petto e il suo bacino contro il mio, avrebbe potuto azionare un poligrafo. Guardai la strada al di là del portico. Pioveva di stravento. Le accarezzai una guancia. Chiusi gli occhi. Aveva la pelle umida per la pioggia, e io pensai alle lacrime. Lei sollevò la testa e io sentii la sua guancia posarsi contro la mia. Muoveva leggermente la testa su e giù, come se stesse seguendo una musica. Io tenni gli occhi chiusi e pensai: «Non farlo! Non essere stupido!» Sentivo il mio respiro fluire dal naso e filtrare tra i denti. Feci per ritrarmi, facendo scivolare la mia guancia all'indietro. Lei mi posò una mano sulla nuca per impedirmelo. Io spostai leggermente la testa. Gli angoli delle nostre bocche si sfiorarono. Sentii il suo respiro sulla mia guancia. E alla fine ci baciammo. Aveva la bocca calda e morbida. Le nostre lingue si avvinghiarono, e in quell'istante pensai: «Che testa di cazzo!» e allo stesso tempo: «Che meraviglia!» Le mie mani si fecero strada dentro il suo cappotto fino ai fianchi. Mi prese la faccia tra le mani e mi baciò con trasporto. Le strinsi i fianchi, facendo lentamente scorrere le mani verso l'alto fino al seno. Aveva i capezzoli turgidi sotto il tessuto umido del vestito. Il suo corpo emanava calore. Mi sfuggì un gemito, che suonò come una capitolazione. Lei si staccò e si mise a rovistare nella sua borsa. Pescò una chiave e mi guardò con quei suoi occhi scuri, il respiro affannoso. «Andiamo di sopra», disse. Si voltò e infilò la chiave nella serratura. La porta si aprì scorrendo di lato, e noi entrammo. Continuammo a baciarci anche in ascensore, durante il breve tragitto fino al quinto piano. Nel corridoio che conduceva al suo appartamento cercammo di spogliarci a vicenda.
Entrammo in casa, in un vestibolo al termine di un breve corridoio. C'era un soggiorno, appena più avanti. L'unica fioca illuminazione era il grigio riflesso della luce proveniente dall'esterno. Naomi chiuse la porta alle mie spalle e mi ci spinse contro. Riprese a baciarmi, avidamente, mentre con le mani mi sbottonava la camicia. Di norma non mi sento a mio agio se non ho avuto modo di dare un'occhiata al posto in cui mi trovo, ma quel corridoio stretto e la presenza di Naomi tra me e gli eventuali aggressori sarebbero stati comunque d'intralcio per un'imboscata. Non percepii alcun segnale di pericolo... Non di quel tipo, almeno. Tanto più che il dispositivo anti-microspie di Harry, per fortuna, taceva. Le tolsi con delicatezza il cappotto dalle spalle e lo lasciai ricadere ai suoi piedi. Lei mi baciò il collo e il petto, mentre con le mani si dava da fare con la mia cintura e i miei pantaloni. Io allungai le mani dietro la sua schiena e le aprii la cerniera del vestito. Spostai le spalline e l'abito scivolò a terra senza il minimo rumore. Nel frattempo, Naomi si tolse le scarpe scalciandole via. Fece per togliermi di dosso il blazer, ma la stoffa umida mi stava appiccicata. Me lo scrollai di dosso e mi tolsi anche la camicia. Lei, per un attimo, mi posò una mano calda sulla pancia come se volesse immobilizzarmi in quella posizione. Sentii, sul suo polso, la sottile e fredda striscia del suo braccialetto di diamanti. A quel punto, la sua mano si mosse verso il basso e cominciò a togliermi i pantaloni. La fermai per potermi sfilare, prima, le scarpe e le calze. Non mi piace starmene con le braghe calate all'altezza delle caviglie. Mi liberai dei pantaloni e con un calcio li tolsi di mezzo. Lei mi spinse di nuovo contro la porta, mi cinse il fondoschiena con entrambe le braccia e si strinse a me. Il suo seno e la sua pancia premuti contro di me erano caldi, morbidi, tremendamente invitanti, e in quell'istante smisi di preoccuparmi di ciò che quella storia mi sarebbe costata. E di quanto sarebbe potuta costare a lei. Le presi delicatamente il viso tra le mani e le tirai un po' indietro la testa. La guardai negli occhi. Nella debole luce di quell'anticamera parevano dotati di una loro intrinseca e dolce luminosità. Le sue mani scorsero lungo i miei fianchi, e lei si abbassò davanti a me. Io la guardai, respirando in modo più concitato. La porta era fredda contro la mia schiena nuda, ma poi la sua bocca mi inghiotti e per un attimo non sentii nient'altro.
Una mano di Naomi risalì lungo la mia pancia e io gliela strinsi per un attimo. Rovesciai la testa all'indietro contro la porta, con un sommesso rimbombo. Alcune ciocche dei capelli di Naomi mi sfiorarono una coscia, e io ebbi la sensazione di sentirne ogni singolo filo, come se fossero filamenti incandescenti. Con una mano percorsi il profilo di un suo orecchio, la curva della guancia, la linea della mascella. Espirai con forza, irrigidendo l'addome, finché i miei polmoni non furono completamente vuoti, dopo di che inspirai con altrettanta violenza dal naso. Infilai le dita sotto il suo mento e cercai di attirarla verso l'alto. Lei reclinò il capo e mi guardò. «Lasciami finire», disse. Io mi chinai, la afferrai sotto le ascelle e la rimisi in piedi. Quindi, facendole scivolare un braccio dietro il collo e l'altro sotto il sedere, feci un passo avanti e la sollevai da terra. Lei sorrise per la sorpresa e mi si aggrappò al collo con entrambe le braccia. «Avevamo lasciato una questione in sospeso», dissi io. Il soggiorno era adiacente a una piccola cucina e a una camera da letto appena più grande. Scelsi quest'ultima destinazione. Avevo la vaga percezione del mio pene eretto che, mentre avanzavo, oscillava davanti a me come il bastone di un cieco. C'era un futon a terra, appena oltre la porta della stanza da letto. Ci salii sopra e vi adagiai Naomi, dolcemente, sulla schiena. Lei lasciò andare lentamente le braccia e le mani che mi accarezzarono il collo le orecchie e la faccia. Io allungai le braccia verso il basso e cominciai a sfilarle il perizoma. Lei sollevò i fianchi, e le mutandine scesero, arrotolandosi lungo la curva del sedere. Gliele sfilai dalle gambe e le buttai da parte. Appoggiai le mani sul futon, una a destra e una a sinistra di Naomi, e cominciai a baciarle il collo, il seno, la pancia. Scesi fino alle pieghe dell'inguine. Lei mi afferrò per i capelli da dietro e tirò fino a farmi male, ma io la feci aspettare prima di darle quello che voleva. Quando la accontentai, lei espirò eccitata e tirò i miei capelli ancora più forte. Raccolsi le ginocchia e le afferrai il culo a due mani, sollevandola dal futon. «Isso, isso, continua», la sentii mormorare. Sentii anche l'altra sua mano muoversi verso la mia nuca. Guardai in su. I suoi addominali erano tesissimi, e il seno le tremava per il movimento della mia testa e delle mie mani. Me la presi comoda. Sapeva di pulito, di salmastro e di dolce. Le sue dita mi si infilavano tra i capelli, ora afferrando, ora tirando, a seconda di
come la toccavo. Feci con calma, anche quando la pressione delle sue mani cercava di indurmi ad accelerare. «Isso», continuava a ripetere lei. Le sue gambe si sollevarono dietro di me e si strinsero intorno alle mie orecchie, cosicché la sua voce cominciò a suonare improvvisamente lontana, come se io fossi sott'acqua. Le sue cosce si tesero ulteriormente, le sue nocche affondarono nel mio cuoio capelluto, finché a un certo punto il suo corpo non si sciolse, e nella stanza ritornò l'audio. Tornai a posarla sul futon e la guardai. La luce grigia della stanza si era fatta leggermente più intensa e faceva risaltare il verde degli occhi di Naomi. Senza pensarci, dissi: «Sei stupenda.» Lei si rialzò, mi prese la faccia tra le mani e disse: «Agora, venha aqui.» Adesso vieni qui. Mi avvicinai, e lei protese le braccia verso il basso per aiutarmi, ma io trovai da solo il modo di entrarle dentro. La accarezzai sotto le braccia e sul viso. Protesi il capo e chiusi gli occhi, come un tempo mi era stato detto di fare al momento di pregare. Sentii le sue labbra sul mio viso, che pronunciavano parole silenziose. Passò un minuto, forse due. Il nostro movimento sincronizzato, avanti e indietro, a poco a poco divenne più lento, simile alle onde che avanzano verso la spiaggia per poi arretrare. Ancora un po' e sarei venuto. Lei premette ancora di più la faccia contro la mia, e il bacio si fece più concitato. Io sentii come una vibrazione o un fremito quasi impercettibile sulle sue labbra e sulla sua lingua. «Agora mete tudo», disse, con la bocca appiccicata alla mia. Ora, dai, tutto. Si protese verso di me, senza più alcun freno. La baciai con forza, tenendole il viso stretto tra le mani. Lei sollevò le ginocchia e le caviglie, facendole scivolare lungo i miei fianchi. Cominciammo a muoverci più rapidamente. Lei si avvinghiò a me, incrociando le caviglie dietro la mia schiena. La sentii mugolare qualcosa in portoghese. La mia schiena si inarcò; puntai improvvisamente le punte dei piedi sul futon e mi lasciai andare a un lungo grido che avrebbe potuto, in pari misura, essere espressione di piacere o di dolore. Le forze mi abbandonarono e mi sentii improvvisamente pesante. Mi distesi sul futon accanto a Naomi, rivolto verso di lei, con una mano lievemente posata sulla sua pancia. «Isso, foi otimo», disse, voltando la testa verso di me. È stato bellissimo.
Le sorrisi. «Otimo», ripetei. Mi sentivo le membra di gelatina. Lei posò le mani sopra la mia e me la strinse. Restammo per un po' in silenzio. Dopo di che lei disse: «Posso farti una domanda?» La guardai. «Certo.» «Perché eri così riluttante, all'inizio? Si vedeva che ne avevi voglia. Ed era chiaro che anch'io ne avevo.» Io chiusi per un attimo gli occhi, civettando con il sonno. «Forse per paura.» «Paura di che cosa?» «Non saprei...» «Sono io quella che avrebbe dovuto avere paura. Quando hai detto che avevamo lasciato qualcosa in sospeso, per un attimo ho pensato che volessi metterti a sculacciarmi.» Sorrisi, con gli occhi ancora chiusi. «L'avrei fatto, se l'avessi meritato.» «Ti avrei fatto stare male.» «E invece mi hai fatto stare bene.» La sentii ridere. «Bene, ma non mi hai ancora detto di che cosa avevi paura.» Ci pensai un attimo. Il sonno stava calando su di me come una coperta. «Paura del coinvolgimento. Avevi ragione quando dicevi che è tanto tempo che sto da solo.» Lei rise di nuovo. «Come puoi avere paura del coinvolgimento? Io non so neanche chi sei.» A fatica riaprii gli occhi e la guardai. «Tra le persone che conosco, sei una di quelle che di me, in assoluto, sanno più cose», dissi. «Forse è questo che ti spaventa», ribatté lei. Se fossi rimasto un attimo di più, avrei preso sonno. Mi rialzai a sedere e mi passai una mano sulla faccia. «Fa niente», disse. «Lo so che devi andare.» Aveva ragione, ovviamente. «Ah, sì?» domandai. «Sì.» Poi, dopo un breve silenzio, aggiunse: «Mi piacerebbe rivederti, ma non al Damask Rose.» «Mi sembra saggio», concordai, ormai tornato alla mia consueta mentalità paranoica. Lei si rabbuiò per quella mia risposta. Io mi avvidi del mio errore e, sorridendo, cercai di correggermi. «Dopo questa notte, non credo che sarei più capace di rispettare la regola di non toccarti al di sotto dei fianchi.» Lei rise, ma la risata non mi parve del tutto serena. Andai in bagno e poi tornai nell'anticamera, dove mi rimisi addosso i ve-
stiti ancora bagnati. Erano freddi e appiccicosi. Lei mi raggiunse mentre stavo allacciandomi le scarpe. Si era pettinata i capelli all'indietro e aveva addosso una vestaglia di flanella scura. Restò a guardarmi per un lungo istante. «Proverò ad aiutarti», disse. Le risposi sinceramente. «Non so quanto tu possa fare, in realtà.» «Neanch'io lo so, ma ci voglio provare. Non ho voglia... Non ho voglia di ritrovarmi in un posto da cui non riesco più a tornare indietro.» Annuii. «Mi sembra un'ottima ragione.» Lei infilò una mano in una tasca della vestaglia e ne tirò fuori un pezzo di carta. Quando protese il braccio per porgermelo, io mi soffermai sul braccialetto di diamanti. Allungai una mano e la presi dolcemente per il polso. «È un regalo?» le domandai, incuriosito. Lei scosse piano la testa. «Era di mia madre», disse. Io presi il biglietto e vidi che c'era scritto un numero di telefono. Me lo misi in tasca. Le diedi il numero del mio cerca-persone. Volevo che avesse modo di contattarmi, nell'eventualità che avesse scoperto qualcosa al locale. Non le dissi «ti chiamo». Non la abbracciai per via dei vestiti bagnati. Solo un bacio fugace. Dopo di che mi voltai e me ne andai. Lungo il corridoio esterno raggiunsi la tromba delle scale. Lei - ne ero sicuro - stava pensando che non mi avrebbe mai più rivisto. E io dovevo ammettere che forse aveva ragione. Questa consapevolezza era sgradevole e deprimente come i miei vestiti bagnati. Prima di uscire dal palazzo, mi accertai che fuori non ci fosse nessuno. Per un attimo ripensai al modo in cui Naomi mi aveva abbracciato poco prima e mi parve un ricordo ormai remoto. Provavo uno spiacevole sentimento a metà tra la gratitudine e la nostalgia, venato di senso di colpa e di rimpianto. E come per un'istantanea illuminazione, che squarciò con gelida chiarezza la nebbia della mia stanchezza, capii quel che poco prima non ero riuscito a spiegare, neppure a me stesso, quando lei mi aveva domandato perché avessi paura. Proprio di questo avevo paura: del dopo, cioè del momento in cui mi sarei ritrovato a fare i conti con la certezza che tutta questa storia prima o poi sarebbe finita molto male. Uscii dall'ingresso secondario, perché lì non c'erano telecamere. Fuori
stava ancora piovendo. La prima luce dell'alba era grigia e fioca. Camminai con le mie scarpe fradice finché non trovai un taxi, da cui mi feci riportare in albergo. 12. Il giorno dopo, tramite il cerca-persone e la solita bacheca elettronica, mi misi in comunicazione con Tatsu, e stabilimmo di incontrarci al sento, cioè ai bagni pubblici, di Ginza-yu. Il sento, è una vera e propria istituzione in Giappone, anche se dopo la fine della guerra ha subito un progressivo declino, perché gli appartamenti nuovi erano dotati di vasca da bagno, e da necessità igienica è diventato più che altro un piacere. Il sento, tuttavia, come tutti i piaceri che hanno valore non solo per il loro effetto, bensì anche per il rituale che comportano, non scomparirà mai completamente. I lenti rituali dello strofinamento e dell'abluzione, e la condizione di profondo rilassamento che può derivare soltanto dall'immersione in un'acqua che il sempliciotto potrebbe definire bollente, implicano elementi di devozione, di festa e di meditazione che servono da necessario complemento a una vita degna di questo nome. Ginza-yu sorge a una distanza geografica e psicologica enorme dal paradiso dello shopping per cui il quartiere è in genere più noto, e quasi si nasconde all'ombra del cavalcavia della superstrada Takaracho, manifestando la propria presenza con un'unica e sbiadita insegna dipinta a mano. Aspettai in un portone sul lato opposto della strada, finché non vidi arrivare Tatsu a bordo di un'auto priva di contrassegni. Parcheggiò accanto al marciapiede e scese. Io aspettai che girasse l'angolo, diretto verso l'entrata laterale del bagno pubblico, e poi lo seguii. Un attimo dopo mi vide arrivare. Si era già tolto le scarpe e stava per infilarle in uno degli armadietti appoggiati alle pareti appena oltre la porta. «Di cosa si tratta?» chiese. Io mi ritrassi, come se avesse ferito la mia sensibilità. Mi guardò per un lungo istante e poi, sospirando, mi domandò: «Come va?» Io mi chinai e mi tolsi le scarpe. «Bene. È carino, da parte tua, domandarmelo. E tu?» «Benissimo.» «Tua moglie? Le tue figlie?» Non poté fare a meno di sorridere, sentendo evocare la sua famiglia. Annuì e disse: «Stanno tutte bene. Grazie.»
Gli sorrisi. «Quando saremo dentro, ti spiegherò.» Mettemmo via le scarpe. Io avevo già comprato gli accessori necessari nel negozietto di fronte - shampoo, sapone, spugna e asciugamani - e, mentre entravamo, diedi a Tatsu quel che gli serviva. Pagammo al proprietario il prezzo di quattrocento yen fissato dal governo (che poi interviene con adeguati sussidi), salimmo l'ampia scala di legno che conduceva agli spogliatoi, dove ci svestimmo, per poi oltrepassare una porta a vetri a scorrimento laterale fino alla zona-bagno vera e propria, che era completamente deserta - l'orario di punta, in questi posti, è quello serale - e, come lo spogliatoio, spartana nella sua totale mancanza di pretese: un semplicissimo e grande locale a pianta quadrata, dal soffitto alto, le pareti di piastrelle bianche da cui gocciolava il vapore condensato, alcune lampade al neon e, su una parete, una ventola per l'aerazione che sembrava ormai sfinita dalla sua lunga e perdente battaglia con il vapore. L'unica concessione a un'estetica non strettamente utilitaristica era un ampio e coloratissimo mosaico di Ginza 4-chome sulla parete che sovrastava la grande vasca. Ci sedemmo e cominciammo a strigliarci. Il segreto consiste nell'usare dei bassi mastelli di plastica per versarsi sulla testa e su tutto il corpo dolorose secchiate di acqua sempre più calda prelevata da appositi rubinetti. Se si usasse solo acqua tiepida, al momento di immergersi nella vasca, la temperatura risulterebbe insopportabile. Tatsu completò le operazioni di sfregamento con i suoi tipici modi bruschi ed entrò nella vasca prima di me. Io ci misi un po' di più. Quando ebbi finito, mi immersi anch'io. Subito sentii i miei muscoli che tentavano di ritrarsi dal calore, ben sapendo che nel giro di un attimo avrebbero smesso la loro resistenza infruttuosa per arrendersi al rilassamento. «Yappari, kore ga saiko da na?» dissi, mentre i benefici del bagno cominciavano a farsi sentire. Grandioso, eh? Lui annuì. «Un luogo insolito, ma ottimo, per incontrarsi.» Mi immersi un po' più a fondo. «Con tutto il tè che bevi, ho pensato che non ti sarebbe dispiaciuto un posto salubre come questo.» «Be', sei stato molto saggio. Io pensavo che fosse un modo per dimostrarmi che non avevi niente da nascondere.» Risi. Gli riferii in breve del dojo e dei combattimenti clandestini, nonché del ruolo svolto da Murakami nei due contesti. Espressi una mia valutazione sui punti di forza e sui punti deboli di Murakami: letale, per un verso, ma incapace di sottigliezze. «Credi davvero che i promotori di quei combattimenti lavorino in perdi-
ta?» mi domandò quando ebbi finito. Guardai la parete a mosaico con gli occhi socchiusi. «Stando a quel che ha detto Murakami, sì. Se conti tre combattimenti a serata, con una borsa di due milioni di yen per i vincitori, e aggiungi le spese, il loro bilancio è necessariamente in rosso. Se invece di combattimenti ne organizzano solo due o addirittura uno possono sperare al massimo in un rientro delle spese.» «E tu che cosa ne deduci?» Chiusi gli occhi. «Che non lo fanno per soldi.» «Già, ma allora ti domando: perché lo fanno? Quale beneficio gliene deriva?» Mi venne in mente il sorriso di quella dentiera predatoria. «Alcune delle persone coinvolte, Murakami per primo, sono davvero malate. Ho idea che si divertano.» «Questo è sicuro, ma non credo che il semplice divertimento possa giustificare la creazione e la gestione di questo genere di attività.» «Che cosa pensi, allora?» «Quando eri nelle forze speciali», mi domandò, accigliato e meditabondo, «come consideravate le persone che svolgevano una funzione essenziale per la vostra unità?» Io aprii gli occhi. «Come un plusvalore. Come un punto di riferimento. Come un rene extra.» «Appunto. Ora mettiti nei panni di Yamaoto. Quando aveva te, poteva tranquillamente eliminare chiunque si fosse mostrato insensibile alle sue offerte o invulnerabile al suo ricatto e chiunque costituisse una minaccia per il sistema da lui messo in piedi. Tu svolgevi una funzione essenziale. Quando gli sei venuto a mancare, Yamaoto deve aver capito che non è il caso di contare su una sola persona, per lo svolgimento di tale funzione. E deve avere deciso di generare un po' di ridondanza nel sistema.» «Anche nel caso che Murakami fosse stato in grado di sostituirmi benissimo da solo.» «Cosa che tu non sembri disposto a sottoscrivere.» «Dunque, il dojo gestito da Murakami...» «Sembrerebbe una sorta di corso di addestramento.» «Un corso di addestramento...», dissi io, scuotendo la testa. Vidi che mi stava guardando, paziente, come sempre Un passo più avanti. Alla fine, capii. «Assassini?» domandai. Lui sollevò le sopracciglia, come a dire: «Secondo te?»
«Il dojo è il corso propedeutico», dissi, annuendo. «E con questa prima fase di addestramento selezionano i soggetti più inclini alla violenza. L'esposizione quotidiana, per più di una volta al giorno, a quel regime serve a desensibilizzare ulteriormente i soggetti prescelti. Il passo successivo consiste nell'assistere a veri combattimenti all'ultimo sangue.» «Finché non si partecipa ai combattimenti...» «I combattimenti chiudono il cerchio. Sì, questo sistema è essenzialmente una forma di addestramento militare. Anzi, qualcosa di più, perché tra i soldati che passano per l'addestramento sono relativamente pochi quelli che finiscono per combattere e uccidere in prima persona. In questo caso, invece, diventare assassini faceva parte del processo di addestramento. E il personale così formato è composto soltanto dai sopravvissuti, ossia da coloro che meglio degli altri hanno saputo mettere a frutto quel che hanno imparato.» I conti tornavano. Il ricorso ad assassini specializzati non era neppure una novità. Nei secoli passati, gli shogun e i daimyo utilizzavano i ninja nelle loro lotte intestine. Mi ero imbattuto di persona in Yamaoto, circa un anno prima, e mi resi conto che questo paragone lo avrebbe certamente lusingato. «Riesci a capire in che modo questo tipo di iniziativa si inquadra nei piani a lungo termine di Yamaoto?» mi domandò. Scossi la testa. Era difficile pensare con quel caldo soffocante. Mi guardò come si guardano certi bambini un po' tonti, ma comunque simpatici. «Quali sono, in generale, le prospettive del Giappone, in questo momento?» mi domandò. «In che senso?» «Come paese. Come staremo tra dieci o vent'anni?» Ci pensai. «Non benissimo, direi. Ci sono problemi in quantità - deflazione, energia, disoccupazione, ambiente, crisi delle banche - e non mi pare che ci sia qualcuno in grado di affrontarli.» «Già. E fai bene a distinguere i problemi del Giappone - che sono comuni a tutti i paesi - dalla nostra impotenza a risolverli, che ci rende un caso assolutamente unico tra tutti i paesi industrializzati.» Mi stava guardando, e io intuii che cosa stava pensando. Fino a poco tempo prima io ero stato una delle cause di quell'impotenza. «La costruzione del consenso richiede tempo», dissi. «E spesso non ha mai fine. Il vero problema, però, non è la predisposizione culturale alla costruzione del consenso. Il problema più grave è la
natura della nostra corruzione.» «In effetti, ci sono stati diversi scandali, ultimamente», dissi, annuendo. «Automobili, nucleare, industria alimentare... Cioè, se non puoi fidarti neanche del signor Donut, di chi puoi fidarti?» Tatsu sogghignò. «Quello che è capitato nelle centrali nucleari della TEPCO è molto più grave di una disgrazia. I responsabili dovrebbero essere passati per le armi.» «Stai per chiedermi un altro "favore"?» Sorrise. «Devo fare più attenzione alla terminologia, quando parlo con te.» «Comunque», dissi, «i dirigenti della TEPCO si sono dimessi, o no?» «Sì, hanno dato le dimissioni. Gli ispettori responsabili dei controlli, invece, sono rimasti al loro posto, gli stessi che prendono una percentuale sui fondi stanziati per la costruzione e la manutenzione degli impianti nucleari e che si sono limitati a parlare pubblicamente dei rischi di cui erano a conoscenza da anni.» Si rialzò piano e si sedette sul bordo della vasca, per concedersi una tregua dal calore dell'acqua. «Sai bene, Rain-san», disse, «che le società sono come organismi, e nessun organismo è invulnerabile di fronte alle malattie. L'importante è che un organismo sotto attacco sappia creare una difesa efficace. In Giappone il virus della corruzione ha attaccato il sistema immunitario stesso, come in una sorta di AIDS delle società. Di conseguenza, il corpo ha perduto la capacità di difendersi. È questo che intendo quando dico che tutti i paesi hanno i loro problemi, e che solo il Giappone ha perso la capacità di risolverli. I manager della TEPCO danno le dimissioni, ma gli uomini incaricati nel corso degli anni di vigilare sulle loro attività restano al loro posto: succede solo in Giappone.» Pareva davvero giù di corda. Avrei voluto che non prendesse così sul serio quelle cagate. Se continuava così, gli sarebbe venuta un'ulcera grossa come un asteroide. Mi sedetti accanto a lui. «Lo so che le cose vanno male, Tatsu», gli dissi, cercando di ampliare la prospettiva, «ma, se parliamo di corruzione, il caso del Giappone non è certo unico nel suo genere. Qui, forse, le cose vanno un po' peggio, ma in America ci sono Enron, Tyco, WorldCom e schiere di analisti che pompano le azioni dei loro clienti per poter pagare le rate di un asilo come si deve per i propri figli...» «Sì, ma guarda la reazione che quelle rivelazioni hanno innescato nel sistema dei controlli in America», disse. «Si stanno tenendo audizioni pub-
bliche. Vengono approvate nuove leggi. I capi delle corporation finiscono in galera. In Giappone, invece, è l'indignazione a essere scandalosa. La nostra cultura sembra fortemente incline all'acquiescenza, ne?» Io sorrisi e porsi, a mo' di risposta, uno dei modi di dire più comuni della lingua giapponese. «Shoganai.» Letteralmente, non c'è niente da fare. «Già», assentì Tatsu. «Altrove dicono c'est la vie. Dove l'attenzione si concentra sulle circostanze. Solo in Giappone ci concentriamo sulla nostra incapacità di cambiare queste circostanze.» Si asciugò la fronte. «Insomma, considera questa situazione dal punto di vista di Yamaoto. Lui sa che, con il sistema immunitario fuori uso, alla fine l'organismo ospitante subirà un collasso catastrofico. Ci sono già state molte occasioni - finanziarie, ecologiche, nucleari - in cui ci siamo andati molto vicini, e prima o poi accadrà davvero: è solo questione di tempo. Un incidente nucleare che investirà un'intera città, magari. O un fallimento in serie delle banche con conseguente perdita di risparmi. Di qualunque cosa si tratti, questo cataclisma avrà finalmente la forza di scuotere l'elettorato giapponese dalla sua apatia. Yamaoto sa che il violento disgusto generato da un regime tende, storicamente, a generare una reazione estrema. È accaduto nella Germania di Weimar e nella Russia zarista, per limitarsi a due soli esempi.» «La gente, alla fine, voterà per il cambiamento.» «Già, ma il problema è: in quale direzione?» «Credi che Yamaoto stia cercando di collocarsi in modo da poter cavalcare l'imminente ondata di indignazione?» «Ovvio. Pensa al corso di addestramento per assassini gestito da Murakami. Consentirà a Yamaoto di estendere la sua capacità di intimidire e mettere a tacere. Questa capacità è una delle pre-condizioni di qualsiasi movimento fascista. Te l'ho già detto: Yamaoto è un uomo profondamente di destra.» Pensai ad alcune delle buone notizie provenienti dalle province di cui avevo letto sul giornale, e a come certi politici di quelle zone cominciavano ad alzare la testa di fronte ai burocrati e alle altre lobby corrotte, smascherando e contrastando i loro progetti di opere pubbliche che hanno praticamente seppellito il paese sotto una colata di cemento. «E tu stai lavorando per conto di politici senza macchia per assicurarti che Yamaoto non sia l'unico beneficiario dell'indignazione degli elettori?» gli domandai. «Faccio quel che posso.»
Traduzione: ti ho detto quel che è necessario che tu sappia. Io, però, sapevo che il cd-rom - praticamente un indice analitico della rete di corruzione messa in piedi da Yamaoto - sarebbe stato un inestimabile viatico per chi in quell'elenco non figurava. Mi figurai Tatsu che lavorava con i buoni, mettendoli in guardia, cercando di proteggerli. Disponendoli come pietruzze su una tavola da go. Gli parlai del Damask Rose e di come fosse evidentemente legato a Murakami. «Quelle donne vengono utilizzate per incastrare e ricattare i nemici di Yamaoto», disse Tatsu quando io ebbi finito. «Non tutte», dissi io, pensando a Naomi. «Infatti, non tutte. Ce ne saranno alcune che non sanno quel che accade, anche se probabilmente qualche sospetto l'avranno avuto. Certe attività Yamaoto preferisce gestirle alla luce del sole. In questo modo, è più difficile stanarle e colpirle. Ishihara, il sollevatore di pesi, era una pedina importante, a questo riguardo, ed è un bene che non ci sia più.» Tatsu si asciugò nuovamente la fronte. «È interessante che Murakami abbia, a quanto pare, un ruolo vitale anche riguardo le finalità dei mezzi di controllo accumulati da Yamaoto. Murakami, per il sistema di potere di Yamaoto, potrebbe avere un'importanza molto maggiore di quel che ho creduto in un primo tempo. Non mi stupisce che Yamaoto stia cercando di ampliare un po' il giro. Ha bisogno di ridurre la sua dipendenza da quest'uomo.» «Tatsu», dissi. Lui mi guardò, e io ebbi la sensazione che già sapesse quello che stavo per dirgli. «Non ho intenzione di eliminarlo.» Ci fu una lunga pausa. Tatsu atteggiò il viso alla più totale inespressività. «Capisco», disse, in tono sommesso. «È troppo pericoloso. Era già pericoloso prima; figurati adesso, che hanno la mia faccia filmata sulle videocassette del Damask Rose. Se quelle immagini finiscono in mano alla persona sbagliata, capiranno subito chi sono.» «A loro interessano politici, burocrati e affini. La possibilità che quel video arrivi a Yamaoto o a uno dei pochissimi membri della sua organizzazione che potrebbero riconoscerti, mi paiono remote.» «A me non sembrano affatto remote. In ogni caso, Murakami è un obiet-
tivo difficile, difficilissimo. Eliminare un uomo del genere facendola sembrare una morte naturale è quasi impossibile.» Lui mi guardò. «Allora, lascia pure che sembri morto per cause innaturali. La posta in gioco è troppo alta per non correre il rischio.» «Potrei anche farlo, ma non sono tanto bravo con il fucile da cecchino e non ho intenzione di piazzare una bomba, perché finirei per uccidere anche altra gente. A parte queste due opzioni, eliminare Murakami e farla franca mi sembra pretendere troppo.» Mi resi conto di essermi lasciato trascinare nella discussione di dettagli tecnici. Avrei dovuto dirgli di no e tenere la bocca chiusa. Altra lunga pausa. Poi lui disse: «Che cosa pensa di te, per quel che hai potuto capire?» Io inspirai a fondo l'aria umida e la ributtai fuori. «Non lo so. Da una parte, ha visto di che cosa sono capace. Dall'altra, io non emano vibrazioni di pericolo come lui. Lui, questa cosa, non riesce a controllarla, perciò non gli viene in mente che qualcun altro possa riuscirci.» «Dunque ti sottovaluta.» «Può darsi, ma non tanto. Uomini come Murakami non sottovalutano.» «Hai dimostrato di poterlo avvicinare. Io potrei procurarti una pistola.» «Te l'ho detto: gira sempre con almeno due guardie del corpo.» Subito mi pentii di averlo detto. In sostanza, stavamo già trattando. Una stupidaggine, da parte mia. «Mettili bene in fila», disse, «ed eliminali tutti e tre.» «Tatsu, tu non hai idea di quale istinto abbia quell'uomo. Lui non permette a nessuno di mettere in fila alcunché. Quando siamo scesi dall'auto davanti al suo locale, l'ho visto scrutare i tetti in cerca di cecchini. E ti assicuro che sapeva bene dove guardare. Si accorgerebbe dei miei tentativi di fregarlo da un miglio di distanza. Così come io mi accorgerei dei suoi. Scordatelo.» Tatsu si rabbuiò. «Come posso convincerti?» «Non puoi. Ascolta: questa proposta era già rischiosa all'inizio, ma io ero disposto a correre il rischio in cambio di quel che tu puoi fare per me. Ora, però, ho capito che il rischio è peggiore di quanto avevo immaginato, mentre la ricompensa resta identica. L'equazione, insomma, è cambiata. Il problema è questo.» Nessuno di noi parlò per un lungo intervallo. Alla fine, con un sospiro, fu lui a parlare. «Che cosa farai, allora? Sparirai dalla circolazione?» «Può darsi.»
«Non puoi farlo.» Io mi bloccai. Quando decisi di parlare, lo feci con una voce bassissima, poco più di un sussurro. «Non vorrai dirmi che tu potresti impedirmelo, vero?» Lui non batté ciglio. «Non ce ne sarà bisogno», rispose. «Sparire dalla circolazione non è da te. Sarebbe bello se tu lo ammettessi. Che cosa farai? Troverai un'isola deserta e passerai le giornate su una spiaggia a leggerti tutti i libri che ti sei perso? Ti iscriverai a un circolo di go? Ti anestetizzerai con il whisky quando i tuoi inquieti ricordi non ti permetteranno di dormire?» Se non fosse stato per il rammollente effetto del calore, avrei anche potuto arrabbiarmi. «Magari, potresti tentare con la psicoterapia», riprese Tatsu. «Al giorno d'oggi va di moda. Potrebbe servirti per fare i conti con tutte le vite che hai stroncato. E magari persino con quella che hai deciso di sprecare.» Lo guardai. «Tu stai cercando di abbindolarmi, Tatsu», gli dissi, a bassa voce. «A quanto pare, è necessario.» «Da te non me lo aspettavo.» Lui si accigliò. «Dici che potresti sparire dalla circolazione. Ti capisco, ma quel che sto facendo è importante e giusto. Si tratta del nostro paese.» Io sbuffai dal naso. «Non è il nostro paese. Io sono solo un ospite.» «Chi te l'ha detto?» «Tutte le persone che contavano qualcosa.» «Sarebbero felici di sapere che le hai ascoltate.» «Basta. Ho già saldato il mio debito con te. Sono a posto.» Mi alzai e mi risciacquai con l'acqua fredda sotto un rubinetto. Tatsu fece altrettanto. Ci cambiammo e scendemmo le scale. Appena usciti in strada, lui si voltò verso di me e disse: «Non ci rivedremo più, Rain-san?» Lo guardai. «Hai intenzione di mettermi i bastoni tra le ruote?» gli domandai. «No, purché tu sparisca davvero.» «Allora potremmo rivederci. Prima, però, deve passare un po' di tempo.» «Allora non c'è bisogno di dirci sayonara.» «Infatti.» Lui fece il suo solito sorriso triste. «Ho una richiesta da farti.» Anch'io gli sorrisi. «Con te, Tatsu, è sempre pericoloso accettare qualsi-
asi cosa in modo diretto.» Lui annuì, concedendomelo. «Domandati che cosa speri di ottenere sparendo dalla circolazione, e se questa scelta ti servirà davvero a ottenere quel che cerchi.» «Questo lo posso fare», dissi. «Grazie.» Lui mi tese la mano e io gliela strinsi. «De wa», dissi, a mo' di commiato. Allora, d'accordo. Lui annuì di nuovo. «Ki o tsukete», disse, un saluto che può essere tradotto con un innocuo «abbi cura di te», ma anche, più letteralmente, con un «fa' attenzione». L'ambiguità mi parve voluta. 13. Aspettai fino alle sette, quella sera, per essere certo che Yukiko fosse già uscita per andare al Damask Rose, dopo di che chiamai Harry. Gli avrei detto quel che era necessario sapesse. Glielo dovevo. Quello che avrebbe fatto dopo, una volta in possesso delle informazioni che gli avrei fornito, sarebbe stato affar suo, non mio. Stabilimmo di incontrarci in un caffè di Nippori. Gli dissi di arrivare con comodo. Lui capì al volo: visto che in giro ci sono quei ficcanaso della CIA, fa' un SDR molto accurato. Io, come mio solito, arrivai con largo anticipo e trascorsi l'attesa sorseggiando un espresso e sfogliando una rivista che qualcuno aveva lasciato sul tavolo. Dopo un'oretta arrivò Harry. «Ehi, ragazzo», gli dissi quando lo vidi. Notai che indossava una bella giacca di montone alla moda, e pantaloni di lana al posto dei soliti jeans. Si era anche tagliato i capelli. Aveva un aspetto quasi presentabile. Capii all'istante che non mi avrebbe ascoltato per nulla al mondo e fui persino sul punto di rinunciare a parlargliene. Non sarebbe stato corretto, però. Io gli avrei detto quello che dovevo; sarebbe toccato a lui, poi, decidere come - e se - approfittarne. Si sedette e, prima ancora che io potessi aprire bocca, disse: «Non preoccuparti. Escludo che mi abbiano seguito.» «Non è sottinteso?» Lui stava già spalancando gli occhi, ma poi capì che lo stavo soltanto stuzzicando. Sorrise.
«Hai un ottimo aspetto», dissi, con un'aria vagamente stupita. Lui mi guardò, nell'evidente tentativo di stabilire se si trattasse di un'ulteriore presa in giro. «Dici?» domandò incerto. Io confermai con un cenno del capo. «Si direbbe che tu sia stato da uno di quei costosissimi parrucchieri di Omotesando.» Harry arrossì. «Hai indovinato.» «Non arrossire. Qualunque cifra tu abbia pagato, ne è valsa la pena.» Lui arrossì ancora di più. «Smettila di scherzare.» «Sto scherzando solo in parte.» «Che cos'è successo?» «Perché dovrebbe essere successo per forza qualcosa? Magari è solo che avevo nostalgia di te.» Mi diede un'insolita occhiata da saputello. Avevo una vaga idea di chi potesse avergliela insegnata. «Ah, certo, anche io avevo nostalgia di te.» Non mi allettava la svolta che l'argomento Yukiko prometteva di imprimere alla conversazione e non avevo alcuna fretta di arrivarci. Arrivò una cameriera. Harry ordinò un caffè e una fetta di torta alle carote. «Hai avuto notizie dei nostri nuovi amici del governo, ultimamente?» gli domandai. «Niente di niente. Devi averli spaventati.» «Non ci conterei troppo.» Bevvi un sorso di espresso e lo guardai. «Abiti ancora nello stesso posto?» «Sì, ma sono quasi pronto a traslocare. Sai com'è... I preparativi richiedono tempo, se vuoi fare le cose come si deve.» Restammo in silenzio per un po', e io pensai: «Ci siamo.» «Hai in mente di passare del tempo con Yukiko nella tua nuova casa?» Lui mi guardò con estrema prudenza. «Può darsi.» «Allora, è inutile traslocare.» Harry trasalì e, sotto il nuovo taglio alla moda, fece la sua tipica faccia sbalordita. «Perché?» domandò, spiazzato. «Yukiko è coinvolta con della brutta gente, Harry.» Lui si rabbuiò. «Lo so.» Toccò a me mostrarmi sorpreso. «Lo sai?» Lui annuì, sempre accigliato. «Me l'ha detto lei.» «Che cosa ti ha detto?» «Mi ha detto che il locale dove lavora è gestito dalla yakuza. E con que-
sto? Vale per qualsiasi locale di un certo tipo.» «Ti ha detto che ha una relazione con uno dei proprietari?» «In che senso "ha un. relazione"?» «Nel senso di "relazione intima".» Harry stava tamburellando nervosamente a terra con un piede. Ne percepivo la vibrazione. «Non so nulla di quel che deve fare al club, e forse è meglio così.» Stava cercando di rimuovere. Stavo perdendo il mio tempo. D'accordo. Avrei cambiato il mio approccio e tentato un'altra volta. «Okay», dissi, «perdonami per avere tirato fuori l'argomento.» Lui mi guardò per un attimo, colto alla sprovvista. «Come fai tu a sapere queste cose?» mi domandò. «Hai forse curiosato nella mia vita a mia insaputa?» La domanda, in sé, non mi turbò, anche se probabilmente non era tanto lontana dal vero. La mia risposta non fu esattamente una bugia. Una verità incompleta, piuttosto. «Sono entrato casualmente in... relazione con lo yakuza che, a quanto ho capito, è il proprietario del Damask Rose. Un killer spietato che si chiama Murakami. È stato lui a portarmi lì. Si è capito subito che lui e Yukiko si conoscevano piuttosto bene. Li ho visti andare via insieme.» «Era questo che volevi dirmi? Se non ho capito male è il suo datore di lavoro. Sono andati via insieme... E allora?» «Apri gli occhi, idiota», avrei voluto dirgli. «Quella donna è uno squalo. Appartiene a un altro mondo, a una specie diversa. C'è qualcosa che puzza maledettamente, in questa storia.» Invece, gli dissi: «Harry, il mio istinto di solito non mi inganna, in questi casi.» «Be', io non ho intenzione di credere al tuo istinto più che al mio.» La cameriera portò il caffè e la torta di Harry e se ne andò. Harry diede l'impressione di non essersene neppure accorto. Avrei voluto dirgli dell'altro e aggiungere le considerazioni di Naomi a mo' di conferma, ma era chiaro che non sarebbe servito a nulla. Inoltre, non era necessario che Harry sapesse chi era la mia fonte di informazione. Feci un ultimo tentativo. «Il Damask Rose è pieno di microspie e telecamere. Il detector che mi hai dato stava fondendo l'ultima volta che ci sono stato. Mi sa che quel posto viene utilizzato per filmare e registrare certi uomini politici mentre compiono atti compromettenti.» «Anche ammesso che sia vero, non è detto che Yukiko sia coinvolta.»
«Ti sei mai chiesto se sia una coincidenza il fatto che tu abbia conosciuto quella ragazza più o meno nello stesso momento in cui scoprivamo che eri pedinato dalla CIA?» Mi guardò come se mi fossi bollito il cervello. «Vuoi dire che Yukiko potrebbe avere a che fare con la CIA? Ma dai...» «Pensaci», dissi. «Sappiamo che la CIA ti sta sorvegliando per cercare di arrivare a me. Ti rintracciano attraverso la lettera di Midori. E che cosa vengono a sapere, da quella lettera? Solo un nome dalla strana grafia e un timbro postale.» «E allora?» «Allora, la CIA non dispone al suo interno delle competenze necessarie per trarre qualche frutto da quel genere di informazioni. Hanno bisogno di risorse locali.» «E allora?» ripeté, petulante. «Allora, sanno di Yamaoto per via dei suoi legami con Holtzer. Gli chiedono aiuto. Lui mette i suoi uomini a controllare indirizzi di persone e società muovendosi a cerchi concentrici dall'ufficio postale di Chuo-ku. Magari riescono ad accedere ai database del fisco e scoprono che tra i dipendenti c'è un certo Haruyoshi. A quel punto dispongono del tuo nome completo, ma non riescono a scoprire dove abiti, perché tu fai attenzione a tenere segreta questa informazione. Cercano di seguirti all'uscita dal lavoro, magari, ma tu ti dimostri esperto di tecniche di sorveglianza, e loro falliscono nel loro intento. Yamaoto, allora, convince il tuo boss a portarti da qualche parte a «festeggiare», in un posto dove tu incontri una donna mozzafiato che riesce a scoprire dove abiti, per dar modo a loro di seguirti un po' più spesso, nella speranza che tu abbassi la guardia e li conduca da me.» «Perché allora continua a stare con me?» Lo guardai. Era una buona domanda. «Se il suo compito consisteva soltanto nel trovare il mio indirizzo, Yukiko sarebbe sparita dopo la prima volta che l'ho portata a casa. Invece, lei sta ancora con me.» «Magari, ha il compito di tenerti d'occhio, di studiare le tue abitudini, di raccogliere informazioni che possano aiutare i suoi mandanti a scovare me. Magari ascolta le tue telefonate, avverte qualcuno quando noi ci mettiamo in contatto. È un'ipotesi.» «Mi spiace, ma mi sembra un po' troppo campata in aria.» Sospirai. «Harry, non sei nella posizione ideale per essere obiettivo.
Questo devi ammetterlo.» «E tu, allora?» Lo guardai. «Che motivo avrei di inventarmi tutta questa storia?» Lui si strinse nelle spalle. «Magari hai paura di perdere la mia collaborazione. L'hai detto tu stesso che non si può vivere con un piede nell'ombra e l'altro alla luce del sole. Magari hai paura che io possa uscire allo scoperto e decidere di mollarti.» Sentii un accesso dì rabbiosa indignazione che soffocai. «Ascoltami bene, ragazzo», gli dissi. «Anch'io, nel giro di poco, ho intenzione di tornare a vivere alla luce del sole. E a quel punto non avrò più bisogno della tua "collaborazione". Perciò, quand'anche fossi un pezzo di merda egoista e bugiardo, quale tu, evidentemente, mi consideri, non avrei motivo di desiderare che tu rimanga nell'ombra.» Lui arrossì. «Scusami», disse un attimo dopo. Io feci un cenno con una mano. «Fa niente.» Lui mi guardò. «Dico sul serio: scusa.» Io annuii. «Okay.» Restammo in silenzio per qualche istante, dopo di che io dissi: «Ascolta: credo di poter immaginare che cosa provi per quella donna, okay? L'ho vista. È una che fa girare la testa.» «No, è molto di più...» disse Harry languido. Che babbeo. L'unica sua speranza, con quella troia glaciale, era che lei si avvedesse di quanto lui era inerme e cominciasse a farsi qualche scrupolo. Difficile contarci, però. «Il fatto è», dissi, «che non mi fa per niente piacere doverti mettere la pulce nell'orecchio. Però ti avverto, Harry: c'è qualcosa che non va, in questa storia. Tu devi stare attento. E non c'è nulla che possa farti abbassare la guardia come quei sentimenti che da qualche tempo si sono impadroniti di te.» «Ci penserò su, okay?» concesse lui dopo un po'. Non aveva, però, la faccia di chi ci avrebbe pensato veramente. Sembrava piuttosto intenzionato a tapparsi le orecchie con le mani. A ficcare sotto la sabbia la sua testolina rasata di fresco. A premere il tasto «Cancella» su tutto quello che gli avevo detto. «Stanotte la vedrò», disse. «Cercherò di stare attento. Terrò presenti i tuoi consigli.» Mi resi conto di avere perso il mio tempo. «Ti credevo più intelligente», dissi, scuotendo la testa. «Davvero.»
Mi alzai e, dopo avere posato un paio di banconote sul tavolo, me ne andai senza guardarlo. Raggiunsi a piedi la stazione ferroviaria, pensando a quello che poco prima avevo detto a Tatsu, a proposito di rischi e ricompense. Harry aveva - e avrebbe sempre avuto - molto da offrire, ma aveva smesso di prestare attenzione. La sua presenza nella mia vita comportava più rischi di prima. Sospirai. Due addii in una sola sera. Era deprimente. E non è che avessi esattamente un'agenda piena di amici... Non aveva senso, però, farsi prendere dal sentimentalismo. Il sentimentalismo è da stupidi. A conti fatti, Harry era diventato un peso, e io dovevo mollarlo. PARTE TERZA Dio... Quel bastardo non esiste. Samuel Beckett 14. Tornai all'Imperial, entrando dal lato di Hibiya Park. Per la mia mentalità, il posto in cui soggiorno, ovunque si trovi, è una potenziale strozzatura, il luogo ideale per un agguato, e il mio allarme salì di livello mentre attraversavo l'atrio per raggiungere gli ascensori. Scrutai automaticamente tutta l'area circostante, a cominciare dai posti a sedere che offrivano la vista migliore sull'ingresso e dai punti dove un commando dislocherebbe una vedetta. Non vidi nulla di preoccupante. Il mio radar si stabilizzò su un livello di allarme medio. Avvicinandomi agli ascensori notai una bellissima giapponese, poco più che trentenne, con i capelli neri iridescenti e ondulati che le arrivavano alle spalle, la pelle liscia e candida per contrasto. Portava dei jeans sbiaditi, mocassini neri e un maglione nero scollato a V. Era in piedi davanti agli ascensori e guardava proprio verso di me. Era Midori. «No», pensai. «Guarda meglio.» Dall'ultima volta che l'avevo vista, nascosto nell'ombra, al concerto che lei aveva tenuto al Village Vanguard di New York, mi era capitato molte volte di incontrare donne che, a prima vista, assomigliavano a Midori. In
quei casi, una parte della mia mente interveniva sempre ad aggiungere dettagli, forse desiderosa di credere che si trattasse davvero di Midori, e per un paio di secondi mi cullavo nell'illusione, prima di rendermi conto, a un esame più ravvicinato, che non era lei. Quella donna mi guardò. Le sue braccia, fino a quel momento conserte, cominciarono a dispiegarsi. Era Midori. Non c'era dubbio. Il mio cuore cominciò a correre. Nella mente mi scoppiò una raffica di domande: «Com'è arrivata qui? Come può essere lei? Che cosa ci fa a Tokyo? Come ha fatto a trovarmi? Chi poteva sapere che ero qui?» Scacciai le domande e cominciai a scrutare gli angoli meno in vista. Il fatto di avere appena avuto una sorpresa non esclude che possano essercene altre. Anzi, la prima sorpresa può essere una distrazione messa lì apposta, una trappola per sferrare al povero gonzo il colpo fatale. Non notai nessuno e nulla di strano. Nulla che potesse indurmi ad alzare il livello di allarme. Tutto a posto. Tornai a guardare la presunta Midori, quasi aspettandomi di scoprire, con quella seconda occhiata, di avere avuto un'allucinazione. Ma così non fu. Era proprio lei. Era lì in piedi che mi guardava. Aveva una postura rigida e, per certi aspetti, risoluta. Aveva gli occhi fissi su di me, ma il suo sguardo era indecifrabile. Mi guardai nuovamente intorno e poi, lentamente, mi avviai, fermandomi davanti a lei. Il rimbombo del mio cuore era così forte da farmi temere che lei potesse sentirlo. «Ehi, ripigliati!» pensai, ma non sapevo cosa dire. «Come hai fatto a trovarmi?» furono le parole che mi uscirono di bocca. La sua espressione era tranquilla, quasi distratta. I suoi occhi erano scuri. Emanavano il loro caratteristico e intoccabile calore. «Ho consultato un elenco di presunti defunti», rispose lei. Se la sua intenzione era quella di mettermi a disagio, ci era riuscita. Mi guardai di nuovo intorno. «Hai paura di qualcosa?» mi domandò amabilmente. «Sempre», risposi io, tornando a posare lo sguardo su di lei. «Paura di me? E perché mai?» Silenzio. «Che cosa ci fai qui?» le domandai. «Cercavo te.» «Perché?»
«Non fare lo stupido. So che non lo sei.» Il mio battito cardiaco cominciò a rallentare. Se sperava che io mi gettassi ai suoi piedi per effetto di quelle sue risposte vaghe, si sbagliava. Non sono il tipo, neanche con lei. «Vuoi dirmi come hai fatto a trovarmi?» le domandai. «Non lo so.» Altro silenzio. La guardai. «Bevi qualcosa?» «Sei stato tu a uccidere mio padre?» Il mio battito cardiaco riprese ad accelerare. La guardai per un lungo istante. Poi, con un filo di voce, ammisi. «Sì.» La fissai. Non distolsi gli occhi da lei. Midori restò in silenzio per un attimo. Quando parlò, la voce le uscì cupa e roca. «Non credevo che l'avresti ammesso. Non così facilmente, almeno.» «Mi dispiace», dissi, colpito da quanto suonassero ridicole queste mie parole. Lei serrò le labbra e scosse la testa, come a dire: «Stai scherzando...» Diedi un'ulteriore occhiata nell'atrio. Non notai nessuno che paresse intenzionato a nuocermi, ma c'era un gran viavai, e quindi era impossibile esserne certi. Volevo togliermi di lì. Se aveva dei complici, così li avrei stanati. «Perché non andiamo al bar?» dissi. Lei annuì senza guardarmi. Avevo in mente non il Rendezvous Bar, che si trovava al livello dell'atrio ed era sempre così affollato da risultare un disastro sul piano della sicurezza, bensì all'Old Imperial Bar, al piano rialzato. È un resto dell'Imperial originario, progettato da Frank Lloyd Wright e abbattuto nel 1968, ufficialmente in nome della sicurezza antisismica, ma in realtà in ossequio a una malintesa idea di «progresso». Per raggiungere il bar che avevo in mente avremmo dovuto attraversare l'atrio, prendere una rampa di scale e compiere diverse svolte lungo corridoi per lo più deserti con vari punti di fuga. Se Midori, consapevolmente o meno, fosse stata seguita, sarebbe stato difficile per i pedinatori restare al coperto senza perderci di vista. Prendemmo le scale che portavano al piano rialzato. A parte una decina di clienti seduti al ristorante, non c'era in giro nessuno. All'ingresso del bar, mentre attendevamo che ci dessero un tavolo, mi guardai alle spalle. Nessuno in vista. A quanto pareva, era sola. Ci sedemmo l'uno accanto all'altra in una delle alte postazioni semicirco-
lari invisibili dall'entrata. Se qualcuno avesse voluto accertarsi della nostra presenza avrebbe dovuto inoltrarsi nel locale e farsi vedere. Ordinai due bicchieri di Bunnahabhain invecchiato diciott'anni, uno dei tanti eccellenti single malt disponibili. Era una sensazione strana, date le circostanze, ma ero felice di essere all'Old Imperial. Senza finestre, con il soffitto basso, l'illuminazione fioca, l'atmosfera raccolta, intimo anche se molto spazioso, questo bar ha una sua aura storica, di gravità, che gli deriva forse dal fatto di essere l'unica reliquia del martirizzato progenitore dell'albergo. Al pari dell'hotel che lo ospita, l'Old Imperial Bar sembra essersi lasciato alle spalle i tempi d'oro, ma conserva un'austera bellezza e un fascino misterioso, come una gran dama esperta del mondo, dai molti amanti e dai molti segreti, che non ha più tutto lo splendore della sua esuberante giovinezza, ma neppure lo ha completamente perduto. Restammo seduti in silenzio fino all'arrivo dei drink. Dopo di che, lei disse: «Perché?» Io presi il mio Bunnahabhain. «Lo sai già. Sono stato ingaggiato per farlo.» «Da chi?» «Dalla gente a cui tuo padre aveva sottratto il cd-rom. La stessa gente che credeva che lui l'avesse dato a te. Quelli che hanno cercato di ucciderti.» «Yamaoto?» «Sì.» Mi guardò. «Sei un killer, vero? Quando si dice che il governo paga qualcuno per ammazzare la gente, si parla di te, giusto?» Io sospirai. «Più o meno.» Dopo un breve silenzio, lei domandò: «Quanta gente hai ucciso?» Io abbassai gli occhi sul bicchiere. «Non lo so.» «Non sto parlando del Vietnam.» «Non lo so», ripetei. «Non credi che sia comunque un po' troppo?» La dolcezza della sua voce rese quella domanda ancora più ostica. «Io non... Io ho dei principi. Niente donne. Niente bambini. Solo personaggi di primo piano.» Le parole mi rimbombarono sorde all'orecchio, come il mantra di un coglione, formula scaramantica improvvisamente priva di qualsiasi magia. Lei rise senza allegria. «"Ho dei principi." Sembri una puttana che si
vanta di non baciare i clienti con cui scopa.» Bruciava, ma non reagii. «Senza contare che il tuo amico della polizia metropolitana mi aveva detto che eri morto. E tu hai lasciato che ci credessi. Lo sai che ho sofferto? Lo sai che cosa significa?» «Anch'io ho sofferto per te», avrei voluto dirle. «Perché?» mi domandò. «Perché mi hai fatto questo? A parte quello che hai fatto a mio padre, perché?» Distolsi lo sguardo. «Dimmelo, maledizione», insistette lei. Io strinsi il bicchiere in una mano. «Volevo risparmiarti questa... consapevolezza.» «Non ti credo. E comunque un po' sapevo. Che cosa ho pensato, secondo te, quando ho visto che le prove della corruzione che mio padre aveva tentato di divulgare, non sono uscite sui media? E quando ho cercato senza successo di scoprire dov'eri sepolto, per venire in visita sulla tua tomba?» «Non immaginavo che quelle informazioni non sarebbero state divulgate», dissi, senza guardarla negli occhi. «Anzi, io credevo che sarebbero uscite. E a prescindere da questo, credevo che mi avresti dimenticato. Mi è capitato più volte di avere dei dubbi, ma che cosa avrei potuto fare, a quel punto? Ripresentarmi da te per provare a spiegarti? E se mi fossi sbagliato? Se tu fossi davvero riuscita a dimenticarmi, senza sospettare nulla, e avessi ripreso a vivere la tua vita, come io speravo?» La guardai. «Ti avrei fatto soffrire ancora.» Midori scosse la testa. «Non avrei sofferto, se tu ci avessi provato.» Ci fu un lungo silenzio. «Me lo dici o no come hai fatto a trovarmi?» Lei si strinse nelle spalle. «Il tuo amico della polizia metropolitana.» Io restai di sasso. «Sei stata contattata da Tatsu?» «Sono stata io a mettermi in contatto con lui. Più di una volta, in realtà. Lui, però, si rifiutava di dirmi alcunché. La settimana scorsa sono tornata a Tokyo e mi sono presentata nel suo ufficio. Ho detto alla receptionist che se Ishikura-san non avesse accettato di incontrarmi, mi sarei rivolta alla stampa e avrei fatto qualsiasi cosa pur di sollevare uno scandalo. E l'avrei fatto, lo sai. Non avevo intenzione di cedere.» Era stata brava, persino un po' imprudente. Tatsu non le avrebbe mai fatto del male, neanche in risposta a una minaccia, ma lei non poteva saperlo. Ulteriore segnale di quanto fosse disperata e arrabbiata. «Ti ha ricevuto?» le domandai.
«Non subito. Mi ha telefonato oggi pomeriggio.» Quel pomeriggio. Subito dopo il mio rifiuto di collaborare con lui, dunque. «E ti ha detto che mi avresti trovato qui?» Midori annuì. Come aveva fatto, Tatsu, a rintracciarmi di nuovo? Magari, grazie a quelle maledette telecamere. «Puoi vederne alcune. Non tutte», mi aveva detto. Certo, poteva utilizzare le telecamere per avere un'idea generale della mia posizione, dopo di che mandava i suoi uomini negli hotel della zona individuata, se necessario, con la stessa foto che è stata fornita alle telecamere ed elaborata con il software di riconoscimento facciale, per restringere ulteriormente il campo d'indagine. Avevo commesso una sciocchezza restandomene a Tokyo. Per il genere di avvertimento che mi ero ripromesso di dare a Harry, una telefonata intercontinentale sarebbe stata più che sufficiente. Che cosa poteva avere in mente quel bastardo di Tatsu? «Hai idea di quale possa essere la ragione per cui Tatsu ha deciso di incontrarti?» le chiesi. Lei si strinse nelle spalle. «Forse è stata la mia minaccia.» Ne dubitavo. Tatsu non la conosceva bene come la conoscevo io. Probabilmente, avrà pensato che lei stesse bluffando. «Tutto qui? Secondo te, non c'è altro?» «Forse. Può anche darsi, però, che avesse altre ragioni per incontrarmi. Ma che cosa avrei dovuto fare? Per dispetto, avrei dovuto rinunciare a venire qui da te?» «Direi di no.» E di certo anche Tatsu aveva fatto questo calcolo. Provai, per un attimo, un senso di fastidio nei confronti di quell'uomo e delle sue continue macchinazioni. Midori sospirò. «Mi ha detto che l'idea di lasciar credere che tu fossi morto è stata sua, non tua.» Per Tatsu, probabilmente, era un modo per tornare all'attacco con me. Sperava che io, mosso dalla gratitudine nei suoi confronti, avrei ucciso Murakami? «Che altro ti ha detto?» domandai. «Che tu l'hai aiutato a recuperare il cd-rom nella convinzione che lui lo avrebbe passato ai media.» «Ti ha detto perché ha deciso altrimenti?» Midori annuì. «Sì. Quelle informazioni erano così esplosive da poter fa-
re collassare il partito liberal-democratico spianando la strada a Yamaoto.» «A quanto pare, sei piuttosto aggiornata, eh?» «Sono lontanissima dall'essere aggiornata.» «E Harry?» le domandai un istante dopo. «Perché non hai provato con lui?» Lei distolse lo sguardo e disse: «Ci ho provato. Gli ho scritto una lettera. Mi ha detto che ti sapeva morto, ma che non aveva altre informazioni.» Dal modo in cui aveva distolto lo sguardo... capii che c'era qualcosa che mi aveva tenuto nascosto. «E gli hai creduto?» «Non avrei dovuto?» Ottima reazione, ma io ero sempre convinto che ci fosse dell'altro. «Ricordi l'ultima volta che ci siamo visti?» mi domandò. Era stato lì, all'Imperial Hotel. Avevamo passato la notte insieme. Il mattino dopo io ero uscito per andare a intercettare la limousine di Holtzer. Dopo di che avevo trascorso alcuni giorni nelle mani della polizia. Nel frattempo, Tatsu aveva detto a Midori che ero morto e che il disco era sparito. Fine. «Sì, me ne ricordo», risposi. «Mi avevi detto: "Torno stasera, non so bene a che ora. Mi aspetti?" Be', io ti ho aspettato per due giorni prima di essere raggiunta dal tuo amico Ishikura-san. Non c'era nessuno a cui potessi chiedere notizie.» La vidi alzare per un attimo gli occhi al cielo, come per distoglierli da ricordi che non voleva vedere. Forse per ricacciare giù le lacrime. «Non potevo credere che fossi morto», riprese. «Poi ho cominciato a domandarmi se davvero tu potessi essere morto. E se ipotizzavo che tu, in realtà, non lo fossi, non sapevo più che cosa pensare. A quel punto ho cominciato a dubitare di me. Ho pensato: "È impossibile che sia vivo. Non avrebbe mai potuto farmi una cosa del genere." Ma i miei sospetti non svanivano. Non sapevo se disperarmi per te o cedere al desiderio di ucciderti.» Si voltò a guardarmi. «Lo capisci o no quello che mi hai fatto passare?» mi domandò, con una voce ridotta a un sussurro. «Tu... tu mi hai torturato!» Con la coda dell'occhio la vidi passarsi rapidamente un pollice prima su una guancia e poi sull'altra. Guardai dentro il mio bicchiere. Che la vedessi piangere era sicuramente l'ultima cosa che desiderava. Dopo qualche istante mi voltai verso di lei. «Midori», dissi. La mia voce
risuonò cupa e mi fece uno strano effetto. «Impossibile esprimere a parole quanto sono mortificato. Se potessi tornare indietro, lo farei.» Restammo per un po' in silenzio. Pensai a Rio e dissi: «Per quel che può valere, stavo tentando di uscire dal giro». Lei mi guardò. «Fino a che punto ci hai provato? La maggior parte delle persone se la cava egregiamente senza bisogno di uccidere altra gente. Non deve sforzarsi, per non farlo.» «Nel mio caso, le cose sono più complicate della media.» «Perché?» Mi strinsi nelle spalle. «Al momento, le persone che conosco sembrano equamente suddivise in due gruppi: quelli che vogliono uccidermi e quelli che mi chiedono di uccidere.» «Anche Ishikura-san?» Annuii. «Tatsu ha dedicato la vita a combattere la corruzione in Giappone. Ha le sue risorse, ma i poteri contro cui sta lottando sono più forti di lui. Sta cercando di riequilibrare la partita.» «È difficile, per me, figurarmelo nei panni della brava persona.» «Non mi stupisce. Tu, però, vivi in un mondo diverso dal suo, e nel suo mondo non sempre è facile distinguere nettamente tra il bene e il male. Che tu ci creda o no, stava cercando di aiutare tuo padre.» E in quell'istante, all'improvviso, capii perché Tatsu l'aveva mandata da me. Non perché sperasse nel mio aiuto in cambio delle sue dichiarazioni a mia discolpa. Non solo, almeno. Sperava, soprattutto, che Midori finisse per vederlo come il continuatore della battaglia del padre e convincesse me ad aiutarlo. Sperava che io, rivedendola, fossi assalito dai sensi di colpa per l'omicidio di suo padre e mi dichiarassi disponibile a fare quello che voleva Tatsu. «Insomma, stavi "tentando di uscire dal giro"...» disse Midori. Annuii, convinto di andare incontro alle sue aspettative. Lei, invece, scoppiò a ridere. «È la tua forma di espiazione per tutto quello che hai fatto? Non sapevo che fosse così facile guadagnarsi il paradiso.» Forse non ne avevo il diritto, ma cominciavo a innervosirmi. «Ascolta: ho commesso un grave errore, uccidendo tuo padre. Ti ho già detto che mi dispiace e che tornerei indietro, se potessi. Che altro posso fare? Vuoi che mi cosparga di benzina e mi dia fuoco? Vuoi che vada a dare da mangiare agli affamati? Che cosa?» Lei abbassò gli occhi. «Non so.»
«Be', neanch'io lo so. Però ci sto provando.» «Quel bastardo di Tatsu!», pensai. Lui aveva previsto tutto. Sapeva che lei mi avrebbe messo in difficoltà. Finii il mio Bunnahabhain. Posai il bicchiere vuoto sul tavolo e lo guardai. «Voglio qualcosa da te», la sentii dire dopo un attimo. «Lo so», risposi, senza guardarla. «Ancora non so che cosa, di preciso.» Io chiusi gli occhi. «Lo so che non lo sai.» «Mi sembra incredibile il fatto di essere qui a parlare con te.» Mi limitai ad annuire. Ci fu un altro lungo silenzio, durante il quale passai in rassegna tutte le cose che avrei voluto dirle e che speravo potessero servire a qualcosa. «Con te i conti non sono ancora chiusi», disse. La guardai, incerto sul senso da attribuire a questa frase, ma lei proseguì. «Quando avrò capito che cosa voglio da te, te lo dirò.» «Ti ringrazio», dissi, in tono asciutto. «Così, se non altro, potrò prepararmi.» Lei non rise. «Sei tu il killer, non io.» «Giusto.» Lei continuò per un attimo a guardarmi in faccia e poi domandò: «Ti ritrovo qui?» Io scossi la testa. «No.» «Dove, allora?» «Sarà meglio che sia io a venire da te.» «No!» disse lei con un'improvvisa veemenza che mi sorprese. «Sono stufa di queste palle. Sei vuoi rivedermi, devi dirmi dove posso trovarti.» Io ripresi in mano il mio bicchiere vuoto e lo strinsi con forza. «Devo sparire», pensai. «Non c'è neanche bisogno di dirle niente. Non devo fare altro che posare qualche banconota sul tavolo e andarmene. Non la rivedrei mai più.» Sennonché, non avrei mai più smesso di rivederla. Sfuggire a quella situazione era impossibile. Sono talmente abituato ad avere poche speranze da avere perso qualsiasi difesa naturale di fronte al virus dell'emozione. Le speranze che nutrivo riguardo a Midori avevano preso piede dentro di me e, per quanto possa suonare ridicolo, non sembravo in grado di neutralizzarle. «Ascolta», le dissi, pur sapendo che era inutile. «È tanto tempo che vivo
in questo modo. E se sono sopravvissuto lo devo proprio a certi accorgimenti.» «Lasciamo perdere, allora», disse alzandosi in piedi. «D'accordo», risposi. «Puoi trovarmi qui.» Lei mi guardò e annuì. «Okay.» Dopo una breve pausa le domandai: «Hai intenzione di farti sentire?» «Perché? Te ne importa qualcosa?» «Temo di sì.» «Bene», disse lei, annuendo. «Vedremo se ti piacerà stare sulle spine.» Si voltò e se ne andò. Io pagai il conto e mi trattenni per un altro minuto, dopo di che me ne andai, utilizzando le uscite del seminterrato. Non potevo più restare all'Imperial. Il fatto che Midori sapesse dove abitavo avrei potuto accettarlo, se non fosse stato per la sua totale ignoranza sulle misure di sicurezza minime da adottare, e io non potevo ammettere che lei, senza rendersene conto, aiutasse qualcuno a rintracciarmi. Inoltre, volevo complicare un po' le cose anche a Tatsu. A quel punto, forse, non era neanche tanto grave che lui sapesse dove trovarmi, ma l'idea non mi aggradava. Sarei andato a stare nei più anonimi alberghi per uomini d'affari, uno diverso ogni sera. In questo modo mi sarei protetto da eventuali pedinatori di Midori, e Tatsu avrebbe faticato a starmi dietro. Naturalmente, la stanza all'Imperial l'avrei mantenuta. Sarebbe servito a ingannare Tatsu. Inoltre, a distanza, sarei riuscito a controllare la casella di posta vocale nel caso Midori mi avesse cercato. Avrei potuto farmi vedere di tanto in tanto, con estrema cautela, per salvare le apparenze. Tenni il capo chino e feci il possibile per evitare di offrire un'immagine chiara alle telecamere, ma non potei accertarmi dell'efficacia di queste misure. Mi sentivo in trappola. Claustrofobia. Non escludevo di filarmela. Di primo mattino, Osaka, Rio, finito. Sennonché non tolleravo l'idea che Midori potesse tentare di contattarmi e scoprire che me n'ero andato di nuovo. «Le sto già mentendo», pensai. «Ed è passata solo mezz'ora.» Forse, allora, sarei rimasto un altro giorno, due al massimo. Sì, poteva andare. Dopo di che, Midori e Tatsu avrebbero ricevuto mie notizie in cartolina, par avion. Feci alcuni movimenti bruschi e imprevedibili per accertarmi di non essere seguito. Quindi rallentai e vagai per la notte di Tokyo, senza meta e
senza curarmi di averne. Vidi due giovani furita, persone poco intraprendenti che avevano reagito alla decennale recessione giapponese abbandonando posizioni divenute peraltro indifendibili per accettare, in cambio, lavori come l'ultimo turno in qualche piccolo discount, dove provvedevano ai bisogni di altri abitanti della notte di Tokyo: genitori con le occhiaie in cerca di articoli per pulire la casa che, a causa degli orari di lavoro e degli impegni con i figli, non avevano potuto pulire durante il giorno; uomini solitari che ancora indossavano i vestiti da lavoro e soffrivano, nel cuore di quella città enorme, di una solitudine acuta al punto che neppure il narcotico dei talk-show notturni riusciva a indurli a rinunciare a qualche scorreria in cerca di altre forme di vita; altri furita, che. tornavano a casa dei genitori, dove ancora abitavano nel tentativo di far quadrare i loro magri conti, che avevano voglia, magari, di fumare una sigaretta in compagnia e scambiare qualche scialba battuta di spirito prima di andarsene a dormire fino a mezzogiorno e ricominciare, l'indomani, allo stesso modo. Incrociai lavoratori della nettezza urbana, gruppi di operai che lavoravano alla luce di lampade alogene per tappare le buche di vie immerse nel silenzio della notte, camionisti insonni che senza fare rumore scaricavano le loro merci su marciapiedi deserti e verande disabitate. Mi ritrovai dalle parti della stazione di Nogizaka e notai di essermi mosso, inconsciamente, verso nord-ovest. Mi fermai. Di fronte a me, c'era l'Aoyama Bochi, silenzioso e cupo, che mi attirava come un buco nero spalancato con una forza persino più intensa di quella esercitata dalla città circostante. Senza pensarci, attraversai la strada, scavalcando lo spartitraffico che la divideva. Mi fermai un istante davanti ai gradini di pietra, ma alla fine mi arresi e mi addentrai fra le tombe. Subito, i rumori della strada sottostante si fecero più lontani e sommessi, echi insensati di voci urbane la cui urgenza filtrava, senza riuscire a imporsi, nella necropoli-giardino. Dal punto in cui mi trovavo, il cimitero sembrava infinito. Si estendeva davanti a me come una città con la miriade di lapidi a fare da minuscole abitazioni senza finestre, disposte secondo una rigorosa simmetria: i lunghi viali dei morti. Mi inoltrai in quel buio consolante, lungo un vialetto di pietra coperto di fiori di ciliegio sparsi come neve tenebrosa alla luce dei lampioni che lo fiancheggiavano. Pochi giorni prima, quei fiori di ciliegio erano stati festeggiati dagli abitanti vivi di Tokyo, che si erano affollati lì a migliaia,
ebbri, per vedere riflesso nella fugace e vitale bellezza di quei fiori il pathos insito nella propria esistenza. Quei fiori, però, erano caduti; i festaioli si erano dileguati; persino la spazzatura prodotta dai loro bivacchi era stata diligentemente raccolta e rimossa; e la zona era di nuovo a uso esclusivo dei morti. Pensai a come Midori, una volta, avesse interpretato il concetto di mono no aware, un sentimento che, pur essendo spesso oscurato, durante la festa dei fiori di ciliegio, dal frastuono della massa ubriaca e dei televisori alimentati con generatori, rimane saldamente radicato in una delle culture da cui provengo. Lei l'aveva definito «tristezza della condizione umana». La ammiravo per la profondità di cui certe sue riflessioni erano il segno. Per me, invece, la tristezza è sempre stata sinonimo di amarezza, e temo che sempre lo sarà. Continuai a camminare, con un rumore di passi malinconico che rispettava il fitto silenzio in cui ero immerso. A differenza della città che lo circonda, l'Aoyama Bochi è immutabile, e io - malgrado i decenni trascorsi dalla mia ultima visita - non ebbi difficoltà a trovare quello che mi aveva attratto. La lapide era sobria e semplice e spiegava, in breve, che lì riposavano i resti di Fujiwara Shuichi, vissuto dal 1912 al 1960. Fujiwara Shuichi, mio padre, ucciso nelle sommosse che avevano scosso Tokyo in un'orribile estate quand'ero bambino. Mi fermai davanti alla tomba e mi inchinai profondamente e a lungo, con le mani giunte davanti al viso, secondo il convenzionale gesto di rispetto impiegato dai buddhisti nei confronti dei morti. Mia madre avrebbe voluto che io recitassi una preghiera, facendomi il segno della croce, e se fossi stato davanti alla sua tomba l'avrei fatto certamente. Per mio padre, però, quando era ancora vivo, questi rituali occidentali sarebbero sembrati un insulto. E tanto meno avrei voluto offenderlo in quella circostanza. Sorrisi. Era difficile sfuggire a quel genere di pensieri. Mio padre era morto. Malgrado tutto, mi astenni dal pregare. Attesi un istante e poi mi sedetti a terra con le gambe incrociate. Alcune tombe erano ornate di fiori, a vari stadi di freschezza o di decomposizione. Come se i morti potessero sentire i profumi. Tra le lapidi cominciò a sospirare una lieve brezza. Posai la fronte sui palmi delle mani e fissai il terreno ai miei piedi. Ognuno ha i suoi rituali per sentirsi in comunione con i morti, rituali più
influenzati dalle idiosincrasie individuali che dalla cultura di appartenenza. C'è chi visita i luoghi di sepoltura. Altri parlano con i ritratti o con le urne cinerarie posate sulla mensola del caminetto. Altri ancora si recano nei luoghi che i defunti amavano frequentare da vivi, formulano silenziose preghiere in luoghi di culto o fanno piantare alberi in località remote. Il denominatore comune, ovviamente, è la convinzione secondo cui i morti sono a conoscenza di quel che accade, possono udire le preghiere e assistere ai gesti e ai perduranti sentimenti di amore e di nostalgia che suscitano. A quanto pare, la gente ne trae conforto. Io, invece, a queste cose non credo. Non ho mai visto un'anima staccarsi da un corpo. Non sono mai stato tormentato da fantasmi. Non sono mai stato premiato, punito o toccato da viaggiatori del paese ignoto. So, per quel che ne possiamo sapere noi, che i morti sono morti e basta. Restai seduto per alcuni minuti, cercando di resistere alla tentazione di parlare, consapevole della stupidità di queste cose. Di mio padre non restava nulla. E anche ammesso che qualcosa fosse rimasto, era ridicolo immaginare che si trovasse proprio lì, a volteggiare sopra le ceneri e la polvere, a sgomitare tra le anime delle centinaia di migliaia di persone lì sepolte. La gente porta fiori e recita preghiere: si fa così per evitare lo sconforto che si prova se si riconosce che la persona cara se n'è andata. È più facile credere che questa persona possa ancora udirci e vederci e curarsi di noi. Guardai la lapide di mio padre. Era recente, in rapporto alla vetustà del cimitero - poco più di quarant'anni - ma era già annerita dall'inquinamento. Sul lato sinistro cresceva un velo di muschio. Senza pensarci, allungai una mano e feci scorrere le dita sui caratteri in rilievo che componevano il nome di mio padre. «Hisashiburi, papa», sussurrai, rivolgendomi a lui come fossi un ragazzino. Ero un ragazzino, del resto, quando lui era morto. Quanto tempo è passato, papà... «Perdonami, papà. Sono trent'anni che non mi confesso.» «Oh, piantala con queste cagate!» «Mi dispiace di non essere venuto a trovarti più spesso», dissi in giapponese, a bassa voce. «E di non avere pensato a te più spesso. Ci sono cose troppo dolorose che devo assolutamente tenere alla larga. Una di queste è il ricordo di te. La prima, anzi.» Tacqui per un istante e sondai il silenzio che mi circondava. «Tu, però, non puoi sentirmi.» Mi guardai intorno. «Che stupidaggine», dissi. «Tu sei morto. Non sei
qui.» Sprofondai di nuovo la testa tra le mani. «Vorrei riuscire a spiegarle», dissi. «Vorrei che tu potessi aiutarmi.» Midori era stata dura, con me. Cristo, mi aveva paragonato a una prostituta! Magari non aveva neanche tutti i torti. In fondo, l'omicidio è l'espressione estrema dell'odio e della paura, così come il sesso è la manifestazione estrema dell'amore e del desiderio. Inoltre, come nel caso del sesso, uccidere uno sconosciuto che non ha provocato in te alcuna emozione è intrinsecamente innaturale. Forse, un uomo che uccide uno sconosciuto può essere assimilato a una donna che con uno sconosciuto ha un rapporto sessuale. Un uomo che uccide a pagamento, forse, è come una donna che scopa a pagamento. Di certo, l'omicida vive la stessa riluttanza, lo stesso intorpidimento, gli stessi rimpianti. E si porta dietro la stessa ferita. «Ma è forse moralmente accettabile», dissi ad alta voce, «uccidere qualcuno che non si conosce, quasi sempre un soldato semplice come te, solo perché un governo ti autorizza a farlo? O sganciare una bomba da diecimila metri di quota per ammazzare i cattivi e seppellire, così facendo, donne e bambini sotto le macerie delle loro case, senza sentirti in colpa perché non hai visto il disastro che hai provocato? Io non mi nascondo dietro la gittata di un mortaio o dietro l'immagine da cartone animato che si vede attraverso il mirino a infrarossi di un fucile da cecchino, e neppure dietro le medaglie di cui, dopo, ti coprono per confermarti nella convinzione che il massacro da te compiuto era giusto. Queste sono illusioni di merda, una droga soporifera somministrata agli assassini dopo che hanno ucciso. Quello che io faccio non è tanto diverso da ciò che accade quotidianamente in tutto il mondo. Io, però, sono sincero.» Restai per un po' in silenzio, a pensare. «E perché non vederla in un altro modo?» dissi. «Il padre di Midori sarebbe morto comunque di cancro al polmone, con un'agonia ben più atroce di quella che gli ho causato io. Non vale più la regola "niente danno, niente colpa"? Anzi, praticamente gli ho fatto un favore. Cristo, in certe culture, il mio atto sarebbe stato considerato non tanto diverso dall'eutanasia. Midori dovrebbe quasi ringraziarmi.» A Osaka, per me, le cose erano andate bene, ragionevolmente bene. In retrospettiva, avevo l'impressione che la situazione avesse cominciato a degenerare da quando Tatsu si era rifatto vivo. Pensai all'opportunità di eliminarlo. C'erano decine di ragioni che mi in-
ducevano a non farlo. Il problema era che Tatsu cominciava a comportarsi come se lo sapesse, e questo non andava bene. Dovevo tornare a Osaka, ultimare i miei preparativi il più rapidamente possibile e poi filare. Tatsu se la sarebbe cavata da solo. Harry era un caso disperato. Midori aveva saputo quello che le interessava sapere. Naomi era dolcissima, ma aveva esaurito la sua funzione. Mi rialzai. Le gambe si erano irrigidite a contatto con il terreno freddo, e dovetti massaggiarle un po' perché il sangue tornasse a fluire. Feci un altro inchino alla tomba di mio padre e restai per un lungo istante a guardarla. «Jaa», dissi infine. «Arigatou.» Mi voltai e mi allontanai. 15. Il mattino dopo raggiunsi un telefono pubblico e chiamai Harry. Aveva fatto molto per me, nel corso degli anni, e io stavo male per come ci eravamo lasciati l'ultima volta. Sapevo di avergli dato fastidio, e la cosa mi infastidiva. Al telefono rispose una voce maschile sconosciuta. «Moshi moshi?» «Moshi moshi», dissi io, cominciando a preoccuparmi. «Haruyoshi-san irasshaimasu ka?» C'è Haruyoshi? Ci fu una pausa. «Lei è un amico di Haruyoshi?» domandò la voce all'altro capo del filo, in giapponese. «Sì. Tutto bene?» «Sono lo zio di Haruyoshi. Mi dispiace doverla informare che Haruyoshi è morto questa notte.» Serrai la presa sulla cornetta e chiusi gli occhi. Pensai all'ultima cosa che mi aveva detto. «Stanotte la vedrò. Cercherò di stare attento. Terrò presenti i tuoi consigli.» L'aveva vista, questo è certo. Ma non aveva tenuto presente proprio nulla. «Mi perdoni la domanda», dissi, con gli occhi ancora chiusi. «Potrei sapere com'è successo?» Un'altra pausa. «Pare che Haruyoshi abbia bevuto un po' troppo e sia salito sul tetto del palazzo in cui abita per prendere aria. A quanto sembra, si è avvicinato un po' troppo al cornicione e ha perso l'equilibrio.» Strinsi la cornetta ancora più forte. Non mi risultava che Harry bevesse. Di certo non era uno che esagerava. Anche se, spinto da Yukiko, sarebbe
stato capace di provare qualsiasi cosa. «La ringrazio», dissi. «Le faccio le mie più sentite condoglianze. Le sarei grato se potesse riferire del mio cordoglio ai genitori di Harry. Dirò una preghiera per la sua anima.» «La ringrazio», rispose la voce. Riagganciai. Il mio istinto mi diceva che quello che avevo appena sentito era la verità. Ciononostante, per accertarmene, telefonai alla stazione di polizia del suo quartiere. Al poliziotto che rispose mi qualificai come un amico di Haruyoshi Fukasawa, dicendo che avevo saputo di brutte notizie che lo riguardavano. Il poliziotto mi confermò che era morto. Una caduta. Un incidente, a quanto pareva. Mi disse che gli dispiaceva. Lo ringraziai e riagganciai. Restai lì per un attimo: mi sentivo malissimo e stranamente solo. Avevano ottenuto da lui quello che volevano e ora stavano cancellando le tracce. Non c'era più nulla che potessi fare per lui. Avevo cercato di aiutarlo, a tempo debito. Ormai, però, era troppo tardi. In un certo senso, era colpa mia. Sapevo che Yukiko era pericolosa, ma mi ero limitato a riferirgli i miei sospetti. Non avrei dovuto dirgli nulla, e avrei dovuto fare in modo che l'incidente capitasse a lei. Harry avrebbe sofferto, ma almeno sarebbe vivo. Stavo digrignando i denti e mi sforzai di smettere. Pensai alla felicità di Harry la prima volta che mi aveva parlato di lei, al suo imbarazzo, alla sua goffaggine, a quanto fosse chiaramente innamorato. Mi venne in mente il modo in cui quella gelida troia aveva ripetutamente stuzzicato e poi placato Murakami. Proprio come aveva detto Naomi: «È disposta a fare cose che io non faccio.» La immaginai intenta a fare ubriacare Harry, il cui organismo era poco abituato all'alcol. Immaginai Harry che beveva per farle piacere. Dopo di che lei doveva avergli proposto una passeggiata sul tetto, dove era appostato Murakami. O magari l'aveva fatto lei direttamente. Non sarebbe stato difficile. C'era stata tante volte, in quel palazzo. Ne conosceva sicuramente i ritmi e le abitudini; e conosceva di certo anche l'ubicazione delle telecamere a circuito chiuso. Inoltre, lui si fidava di lei. Nonostante i miei avvertimenti, da ubriaco poteva essersi avventurato spontaneamente fino al cornicione. Ma-
gari per ridere. Magari per sfida. Senza pensarci, sganciai nuovamente la cornetta intenzionato a sbatterla con violenza contro il telefono. Restai lì per un lungo istante con il braccio levato, il corpo tremante per via dello sforzo, nel tentativo di non fare scene che avrebbero potuto attirare l'attenzione di qualcuno. Alla fine, posai la cornetta. Chiusi gli occhi e inspirai a fondo, per poi espirare con forza. Ripetei la procedura più volte. Cercai un altro telefono e chiamai Tatsu. Gli dissi di controllare la bacheca elettronica, perché volevo incontrarlo. Quindi, da un Internet café gli comunicai l'ora e il luogo. Ci incontrammo al Café Peshaworl, un bar-caffetteria situato nel quartiere degli affari di Nihonbashi e da me molto apprezzato ai tempi in cui abitavo a Tokyo. Arrivai come sempre in anticipo e scesi i gradini che dalla Sakura-dori portavano nel soffuso ambiente del locale seminterrato. Il Peshaworl ha una pianta a I, e io presi posto all'estremità di uno dei suoi trattini orizzontali. Non ero visibile dall'entrata, ma potevo vedere il bancone, con la sua bilancia rossa d'acciaio utilizzata per misurare con precisione il caffè; le cuccume malconce per l'infusione, le cui rientranze, come quelle dei recipienti di distillazione dei migliori single malt, erano probabilmente ritenute la causa del gusto ineguagliabile delle miscele della casa; e tutte le curiose attrezzature, senza dubbio concepite al solo scopo di produrre le più rare miscele e il cui utilizzo doveva essere noto solo agli iniziati. Ordinai il Roa della casa e, in attesa dell'arrivo di Tatsu, ascoltai Monica Borrfors che cantava August Wishing. Subito dopo mezzogiorno, sentii il rumore della porta del locale che si apriva e si richiudeva, seguito dal familiare passo strascicato di Tatsu. Un attimo dopo fece capolino da dietro l'angolo e mi vide. Mi raggiunse e si sedette al tavolo quadrangolare sul lato adiacente al mio, così da poter parlare tra noi con la massima riservatezza. Biascicò un saluto e poi disse: «In considerazione del tuo recente incontro con Kawamura-san, due soli possono essere i motivi per cui mi hai convocato: ringraziarmi o uccidermi.» «Non è di questo che ho intenzione di parlare», ribattei. Mi guardò per un istante, senza parlare. Arrivò una cameriera, e lui ordinò un tè con latte, più per adeguarsi all'ambiente, mi parve, che per un effettivo desiderio. Mentre aspettavamo il suo tè, lui disse: «Spero che tu abbia capito la ra-
gione per cui l'ho fatto.» «Certo. L'hai fatto perché sei un maledetto manipolatore che crede fanaticamente al principio secondo cui il fine giustifica i mezzi.» «Mi sembri mia moglie.» Io non risi. «Non avresti dovuto coinvolgere di nuovo Midori in questa storia.» «Di questo non ho colpa. Io speravo che lei si rassegnasse a credere alla tua morte. Se avesse voluto crederci, avrebbe potuto farlo. Siccome, invece, non voleva crederci, avrebbe continuato a indagare comunque. È una ragazza piuttosto tenace.» «Mi ha detto che ti ha convinto minacciando di sollevare uno scandalo.» «Un bluff, probabilmente.» «Midori non bluffa mai, Tatsu.» «In ogni caso, le ho detto dove poteva trovarti perché era inutile, ormai, tentare di ingannarla. Anzi, lei non si è mai lasciata ingannare. E poi ho pensato che ti avrebbe fatto bene incontrarla.» Io scossi la testa. «Credevi davvero che lei potesse convincermi ad aiutarti?» «Certo.» «Perché?» «Lo sai anche tu, il perché.» «Parla chiaro, Tatsu.» «D'accordo. Che tu lo sappia o no, desideri dimostrarti degno di lei. Io ho il più profondo rispetto per questo tuo sentimento, perché sono molte le cose per cui Kawamura-san è degna di ammirazione. Tu, però, rischiavi di affrontare la questione nel modo sbagliato, e io ho deciso di offrirti l'opportunità di rendertene conto.» «Ti sbagli», dissi. «Perché sei qui, allora?» Lo guardai. «Ho deciso di aiutarti, ma questo non ha nulla a che fare con Midori.» Pensai a Harry per un i-stante e poi dissi: «Anzi, sarai tu ad aiutare me.» La cameriera portò il tè e si defilò. «Che cos'è successo?» mi domandò. Il mio istinto fu quello di non rispondergli, per proteggere Harry, come avevo sempre cercato di fare, ma quella cautela non aveva più senso. «Murakami ha ucciso un mio amico», dissi. «Un ragazzo che si chiamava Haruyoshi. Yamaoto stava tentando di usarlo; per arrivare a me, credo.
Quando si sono convinti di avere ottenuto quel che volevano, si sono sbarazzati di lui.» «Mi dispiace», disse Tatsu. Mi strinsi nelle spalle. «Ti va bene. Se non ti conoscessi, avrei anche potuto nutrire qualche sospetto su di te.» Mi pentii di quest'ultima frase non appena ebbi finito di pronunciarla. Tatsu aveva troppa dignità per abbassarsi a rispondere. «Comunque, voglio che tu faccia un controllo per me», dissi. «D'accordo.» Gli raccontai di come Kanezaki avesse seguito Harry, della lettera di Midori, che era stata il punto di partenza di tutto, di Yukiko e del Damask Rose. «Vedrò di trovare qualcosa», disse. «Grazie.» «Il tuo amico era... giovane?» Lo guardai. «Abbastanza.» Tatsu annuì con lo sguardo triste. Ripensai alla prima volta che mi aveva parlato di Murakami, a come la sua mascella fosse serrata e tesa mentre mi confidava che, secondo lui, Murakami era coinvolto in un infanticidio. Non potei fare a meno di domandare. «Tatsu, tu... avevi un figlio?» Calò un lungo silenzio, durante il quale lui si trovò a dover elaborare il fatto che io sapessi qualcosa della sua vita privata e a dover decidere in che modo reagire. «Sì», rispose dopo un po', annuendo. «Avrebbe compiuto trentadue anni lo scorso febbraio.» Le sue parole mi parvero soppesate e persino pronunciate con estrema attenzione. Mi domandai a quando potesse risalire l'ultima volta che ne aveva parlato. «Aveva otto mesi, appena svezzato», disse Tatsu. «Era da un pezzo che mia moglie e io non uscivamo insieme di sera, e così ingaggiammo una baby-sitter. Al nostro ritorno a casa, la baby-sitter era disperata, Il bambino le era caduto dalle braccia e aveva un livido sulla testa. Il piccolo aveva pianto, spiegò la ragazza, ma alla fine si era tranquillizzato. Stava dormendo, ci disse. «Mia moglie voleva portarlo immediatamente dal pediatra, ma dopo aver controllato, ci parve che dormisse sereno. "È inutile disturbare il sonno del piccolo", dissi io. "Se avesse dei problemi, non dormirebbe così." Mia
moglie desiderava credere che tutto fosse a posto, e fu facile perciò convincerla.» Bevve un sorso di tè. «Al mattino il bambino era morto. Il medico ci ha detto che aveva un ematoma subdurale. Ci disse che se anche fossimo corsi subito all'ospedale non ci sarebbe stato nulla da fare. Io, però, non posso fare a meno di tormentarmi, perché avevo la possibilità di scegliere, capisci? Ti sembrerà terribile, ma sarebbe stato più semplice, per me, se mio figlio fosse morto all'istante. O se la baby-sitter fosse stata meno corretta e non ci avesse detto nulla. Il risultato sarebbe stato lo stesso, ma la situazione sarebbe cambiata di molto.» Lo guardai. «Che età avevano le tue figlie?» gli domandai. «Due e quattro.» «Oh, Cristo...» mormorai. Lui annuì, senza minimamente curarsi di dar mostra di stoicismo mettendosi a discutere con me. «Perdere un figlio è la cosa peggiore che possa capitare», disse. «Non esiste un lutto più grande. Per molto tempo ho aspirato al suicidio, in parte per la speranza di potere in qualche modo ricongiungermi a lui, dargli conforto e proteggerlo. In parte per espiare le mie mancanze nei suoi confronti. E, certo, in parte anche per mettere fine alla mia sofferenza. Il senso del dovere nei confronti di mia moglie e delle mie figlie, però, ha prevalso su questi impulsi irrazionali ed egoistici. E io ho finito per considerare la mia sofferenza come la giusta punizione, il mio karma. Ciononostante, ogni giorno penso a quel mio figlioletto e mi domando se avrò mai l'occasione di rivederlo.» Restammo in silenzio per un po'. Da dietro il bancone giungeva il rumore della macinazione del caffè. «Elimineremo Murakami», gli dissi. «Io da solo non posso farcela, e neanche tu. Insieme, però, abbiamo qualche possibilità.» «Spiegami quello che hai in mente.» «Murakami, ogni tanto, si fa vedere al dojo, ma è impossibile sorvegliare quel posto. È in una stradina isolata con un traffico automobilistico e pedonale scarsissimo, priva di luoghi adatti agli appostamenti. Senza contare i due uomini di vedetta che ho incontrato arrivandoci.» Tatsu annuì. «Lo so. Ho mandato un mio uomo a dare un'occhiata.» «Lo immaginavo. In ogni caso, non è detto che la sorveglianza sia necessaria. Se io mi presento al dojo, qualcuno sicuramente avvertirà Murakami. E sarà a quel punto che noi lo inchioderemo.» Tatsu mi guardò. «Se Murakami ha ucciso il tuo amico perché ormai a-
veva ottenuto quello che voleva, è probabile che sappia chi sei.» «Appunto. Proprio per questo sono sicuro che, appena mi presenterò lì, qualcuno lo avvertirà. E se anche dovessi sbagliarmi, se loro non hanno capito chi sono, Murakami ha comunque detto che vuole parlarmi, proprio lì al dojo. Una volta o l'altra arriverà, e a quel punto io avvertirò te. Tu arriverai con degli uomini armati, lo arresterai e lo prenderai in consegna.» «Potrebbe tentare di sfuggire all'arresto», disse in tono asciutto. «Ah, certo. Un uomo del genere può opporre una resistenza molto forte. Ho l'impressione che l'uso di misure estreme sarebbe più che giustificato.» «Eccome!» «Anzi, dopo che lo avrete ammanettato, è persino possibile che un individuo, descrivibile a posteriori come "uno della banda di Murakami sfuggito alla cattura", spunti all'improvviso e gli faccia la festa.» Tatsu annuì. «Ho una mezza idea del luogo in cui potrebbe accadere una cosa del genere.» «Io andrò ad allenarmi per due ore alla volta», dissi. «Durante quelle due ore tu terrai in zona un certo numero di uomini pronti a intervenire al mio segnale.» Lui restò in silenzio per un attimo, dopo di che disse: «Non so se faccio bene a parlarne, ma può anche darsi che Murakami non si faccia vedere. Magari ha intenzione di subappaltare il lavoro a qualcun altro. In tal caso correresti un grave pericolo per nulla.» «Si presenterà», dissi. «Lo conosco. Se ha capito chi sono, vorrà portarsi a casa un mio souvenir, e io ho intenzione di darglielo.» 16. Pernottai in un piccolo albergo per uomini d'affari a Nishi-Nippori. Era abbastanza spartano da farmi rimpiangere il New Otani e l'Imperial, ma era un posto tranquillo, in una zona isolata della città, e mi parve abbastanza sicuro per trascorrervi la notte. L'indomani mattina, andai ad allenarmi al dojo di Murakami, ad Asakusa. Al mio arrivo, i presenti interruppero il loro allenamento e mi riservarono un profondo inchino collettivo, in segno di rispetto per come avevo ammazzato Adone. Da quel momento in poi, in decine di modi diversi, tutti assai sottili, fui trattato con una deferenza che sconfinava nel timore reverenziale. Persino Washio, più anziano di me e ben più addentro alle vicende del dojo, prese a utilizzare una quantità di forme verbali che indica-
vano come lui, ormai, mi considerasse un suo superiore. L'impressione era che Yamaoto e Murakami, qualunque cosa avessero scoperto sul mio conto, non ne avessero informato i loro sottoposti. Tatsu mi aveva fornito una Glock 26, l'arma con la canna più corta tra quelle che compongono l'eccellente gamma delle Glock calibro 9. Non era certo un'arma da Keisatsucho. Non riuscivo a immaginare dove potesse averla recuperata, visto il rigoroso controllo sulle armi vigente in Giappone, e non glielo domandai. Nonostante le sue dimensioni relativamente ridotte, non potevo tenerla addosso mentre mi allenavo. La lasciai, perciò, nella mia borsa, da cui decisi di non allontanarmi. Tatsu mi aveva dato anche un numero di cellulare da utilizzare per avvertirlo dell'arrivo di Murakami. Avevo registrato questo numero in modo da poterlo comporre premendo un unico tasto. Sarebbe bastato uno squillo, e poi avrei riagganciato. Vedendo comparire il mio numero sul display, Tatsu avrebbe convogliato verso il dojo tutti i suoi uomini presenti in zona. Murakami, però, non si fece vedere. Né quel giorno né il successivo. Cominciavo a innervosirmi. Non ne potevo più di dormire ogni notte in un albergo diverso. Della tensione dovuta alla presenza di tutte quelle telecamere. Di pensare a Harry, alla sua morte inutile e a quanto ero stato duro con lui poco prima che lo ammazzassero. Anche il pensiero di Midori continuava a tormentarmi: mi domandavo se si sarebbe fatta viva e, se sì, che cosa mi avrebbe chiesto. Andai al dojo per il terzo giorno consecutivo. Stavo cercando di prolungare il più possibile le mie sedute di allenamento, per concedere a Murakami più tempo per presentarsi, ma lui non si era ancora fatto vivo. Cominciavo a temere che avesse deciso di non farsi più vedere. E invece a un certo punto comparve. Io ero a terra, impegnato in alcuni esercizi di stretching, quando sentii suonare il campanello. Alzai gli occhi e vidi entrare Murakami, in giubbotto di pelle e occhiali neri fascianti, accompagnato dalle sue due guardie del corpo abbigliate più o meno come lui. Come sempre, al suo arrivo, l'atmosfera cambiò immediatamente: la sua presenza sollecitava, come una lieve scarica elettrica, l'istinto di sopravvivenza di chiunque gli stesse intorno. «Oi, Arai-san, yo», disse, muovendo verso di me. «Dobbiamo parlare.» Io mi alzai. «D'accordo.» Uno dei due guardaspalle si avvicinò. Feci per prendere la mia borsa, ma lui mi precedette. Afferrò la borsa e se la mise in spalla. «Questa la prendo io», disse.
Io feci finta di non avere nulla in contrario. Il cellulare, molto più piccolo della pistola, lo avevo addosso. Mi strinsi nelle spalle e dissi: «Grazie». Murakami accennò con il capo in direzione della porta. «Fuori.» La velocità della mia pulsazione raddoppiò, ma la mia voce rimase impassibile. «Come vuoi tu», dissi. «Giusto il tempo di fare una pisciata.» Raggiunsi il retro della palestra e mi infilai in bagno. Ero già così carico di adrenalina che non sarei riuscito a pisciare neanche se mi fosse scappata, ma non era quello il motivo per cui mi ero appartato. Ero in cerca di una qualche arma di fortuna. Dopo averla trovata, avrei avvertito Tatsu. Del sapone in polvere, magari, da gettare negli occhi di qualcuno, o il manico di uno spazzolone da spezzare per ridurlo alla misura di un manganello. Qualunque cosa potesse contribuire a migliorare la mia situazione disperata. Mi guardai intorno, ma non trovai nulla. Il sapone era liquido. Lo spazzolone, posto che lo avessero, lo tenevano da qualche altra parte. «Avrei dovuto pensarci prima... Che stupido!» Un'unica cosa. C'era un fermaporta di ottone avvitato alla parete, appena più in alto del pavimento. Mi chinai e provai a svitarlo. Era troppo vicino al pavimento perché potessi impugnarlo comodamente, era rivestito da almeno una decina di strati di vernice e sembrava vecchio quanto l'edificio. Non cedeva. «Merda», sibilai. Avrei potuto cercare di saltarci sopra, ma in questo modo avrei spezzato la punta che lo fissava al muro. Provai, allora, a fare pressione, con i palmi delle mani, prima da un lato e poi dall'altro. Su e giù. Sinistra, destra. Riuscii appena a smuoverla. «Maledizione! Ci sto mettendo troppo tempo!» Afferrai il fermaporta con il pollice e l'indice di entrambe le mani e ruotai, con tutta la forza che avevo, in senso antiorario. Per un attimo ebbi l'impressione che le dita fossero scivolate, ma poi vidi che la vite si era allentata. Svitai il fermaporta per intero e mi rialzai appena prima che la porta del bagno si aprisse. Era uno dei guardaspalle di Murakami. Mi guardò. «Tutto bene?» domandò, tenendo aperta la porta. Io nascosi il fermaporta in un palmo. «Devo solo lavarmi le mani. Vengo subito.» Il guardaspalle annuì e se ne andò. La porta si richiuse alle sue spalle, e io mi infilai il fermaporta nella tasca anteriore destra. Ovviamente, non avevo la certezza che volessero farmi la festa. Magari,
Murakami era semplicemente intenzionato a parlarmi di quello che gli era frullato in testa al Damask Rose. Questo, però, non aveva importanza. L'importante è riconoscere per tempo la realtà. Molta gente si rifiuta di credere che le minacce, gli agguati o la violenza in generale possano davvero concretizzarsi. A un certo livello, sanno che le cose stanno diversamente, ma continuano a negare l'evidenza finché non ottengono la prova definitiva. A quel punto, però, è troppo tardi. Se proprio devo sbagliare, spero sia per eccesso di pessimismo. Così, se sono in errore, posso sempre scusarmi. O mandare dei fiori. Se eccedessi in ottimismo, i fiori li manderebbero a me. Estrassi il cellulare e, dopo aver premuto il tasto corrispondente al numero di Tatsu memorizzato, uscii dal bagno. Subito notai che la palestra si era svuotata. C'erano soltanto Murakami e i suoi due tirapiedi, in piedi tra me e la porta. Avevano posato la mia borsa a terra, vicino all'entrata principale. Non vidi la pistola, perciò immaginai che durante la mia breve assenza non si fossero preoccupati di frugare nella borsa. «Che cosa succede?» domandai con noncuranza, come se fossi troppo stupido per rendermi conto che c'era qualcosa di molto strano e contassi su una risposta diretta di Murakami. «Niente. Tutto a posto», rispose lui, e insieme agli altri due mi venne incontro. «Abbiamo chiesto agli altri di aspettare fuori, per potere avere un po' di privacy.» «Ah, bene», dissi. Mostrai il cellulare. «Devo solo fare una telefonata veloce.» «Dopo», disse lui. Sperai che gli uomini di Tatsu fossero nei paraggi. Anzi, dovevano essere appena dietro l'angolo, per essermi d'aiuto. «Dici sul serio?» gli chiesi, guardandolo, per guadagnare tempo e permettere alla chiamata di arrivare a destinazione. «Ci metto un minuto.» «Dopo», ripeté Murakami. I due guardaspalle si dispiegarono ai suoi lati. Io abbassai gli occhi e vidi che la chiamata era stata inoltrata. «Come vuoi», dissi. Infilai le mani in tasca, riponendo il cellulare con la sinistra e impugnando il fermaporta con la destra. Avrei atteso che mi giungessero a tiro. Loro, però, si fermarono appena fuori dalla mia portata. Li osservai con uno sguardo innocuo e interrogativo, come a dire: «Ehi, ragazzi, di che cosa dovevate parlarmi?»
Murakami mi squadrò a lungo, prima di rivolgersi a me con un ringhio cavernoso. «Abbiamo un problema», disse. «Un problema?» «Sì, un problema, nel senso che tu non ti chiami Arai, bensì Rain.» Guardai in rapida successione prima l'uscita, poi i loro volti, uno per uno, e infine di nuovo l'uscita. Volevo indurli a credere che avessi intenzione di scappare. E l'avrei fatto, se avessi potuto. Poco, ma sicuro. «Prendetelo», disse Murakami. Il guardaspalle alla mia sinistra si slanciò in avanti. Io me lo aspettavo. Avevo già sfilato le mani dalle tasche e protesi il braccio sinistro come per bloccare il suo assalto. Lui abboccò e afferrò il mio avambraccio con entrambe le mani per immobilizzarlo, mentre il suo socio mi attaccava da destra. Io divincolai la mano che lui stava cercando di afferrarmi e gli bloccai il polso sinistro, sfruttando la presa per slanciarmi verso di lui. Sì aspettava che io tirassi nella direzione opposta e non fu abbastanza svelto da impedirmi di chiudere su di luì. Il fermaporta era già in aria, stretto nel mio palmo con la vite che spuntava tra l'indice e il medio come l'anello con sigillo più cattivo del mondo. Sferrai un rapido colpo di disturbo sul suo braccio sinistro bloccato, per poi mirare al collo, appena sotto il profilo della mascella. Non fu un colpo potente, ma la potenza non serviva; occorreva precisione, e quella non mancò. La vite affondò come un cavatappi ipodermico, e prima che lui potesse ritrarsi io la tirai con forza prima verso il basso e poi verso di me. Lui strillò e arretrò di scatto, portandosi d'istinto una mano sulla ferita, da cui il sangue usciva a fiotti. Da ciò dedussi di avere reciso la carotide. Emise un orribile gorgoglio e si portò anche l'altra mano alla gola, ma il sangue continuava a colare. Io ruotai verso destra. Il secondo guardaspalle si era fermato, incapace di capire che cosa fosse successo e scioccato da tutto quel sangue. Io spostai la parte puntuta del fermaporta tra l'indice e il pollice, impugnandolo come un coltello e mi avventai su di lui con il braccio proteso e l'arma troppo lontana dal mio corpo. Quando capì che non avevo in mano un machete, cercò di impadronirsi dell'allettante obiettivo rappresentato dal mio braccio. Io lasciai che mi prendesse un polso e poi finsi di volermi divincolare. Lui fece forza per resistere alla trazione e tese il ginocchio più avanzato, gli occhi e la sua attenzione interamente concentrati sull'arma. Sfruttando la nostra trazione uguale e opposta per acquistare slancio, sollevai il piede destro da terra pronto a colpirlo alla gamba più avanzata, all'altezza del ginocchio. Si av-
vide della mia intenzione all'ultimo istante e cercò di spostarsi, ma il suo peso era troppo sbilanciato. Il calcio centrò il bersaglio, e lui crollò a terra con un grido. Murakami era sempre lì a chiudermi la via d'uscita. Guardò con calma i due uomini a terra, uno che urlava e si contorceva sulla schiena, l'altro seduto con un'aria di grottesca mortificazione e le mani strette al collo da cui sgorgava sangue. Poi posò lo sguardo su di me. Sorrise, scoprendo la sua dentatura posticcia. «Sei in gamba», disse. «Non si direbbe, a vederti, ma sei in gamba.» «Il tuo amico ha bisogno di un dottore», dissi, ansimando. «Se non riceverà cure adeguate, morirà per l'emorragia nel giro di cinque minuti al massimo.» Murakami si strinse nelle spalle. «Credi che possa continuare a tenerlo come guardia del corpo dopo questa figuraccia? Se non fosse che è già ferito a morte, lo ucciderei con le mie mani.» Il primo assalitore, zuppo di sangue, fissò Murakami con un'espressione sgomenta. Aprì e richiuse la bocca, ma non emise alcun suono. E un attimo dopo si accasciò di lato senza un lamento. Murakami lo guardò e poi tornò a rivolgersi verso di me. Si strinse nelle spalle. «A quanto pare mi hai risparmiato la fatica», disse. «Dai, Tatsu! Dove cazzo sei?» Murakami aprì la cerniera del suo giubbotto e, in segno di rispetto, fece un bel passo indietro prima di sfilarselo. Se fosse rimasto appena più vicino, gli sarei saltato addosso non appena avesse avuto il giubbotto all'altezza dei gomiti, e lui lo sapeva. Guardò il fermaporta e la mia mano insanguinata che lo stringeva. «Vuoi che combattiamo armati?» mi domandò, con una voce da oltretomba. «D'accordo.» Mise mano a una tasca posteriore e ne tolse un coltello a serramanico. Premette leggermente il pollice sul manico, e la lama scattò in posizione. Dall'istantanea apertura semiautomatica capii che si trattava di un Kershaw, il classico coltello da strada, versione extra-lusso. Il filo della lama, lunga sui nove centimetri, era nero, rivestito di nitruro di titanio. Sulla base delle mie molte sgradevoli esperienze, sapevo che trovandosi disarmati alle prese con un avversario armato di coltello si hanno a disposizione quattro possibilità. La cosa migliore, se si può, è darsela a gambe. In seconda istanza, si può fare qualcosa che impedisca l'inizio della lotta.
La terza opzione consiste nel guadagnare un minimo di spazio per estrarre un'arma a gittata medio-lunga. In ultima istanza, ci si lancia addosso all'avversario, sperando di non beccarsi una coltellata fatale. Quale che sia il livello di preparazione di una persona, le sole opzioni realistiche sono queste, e non è che siano poi così efficaci, tranne forse la prima. Le tecniche del combattimento senza armi contro nemici muniti di coltello sono pura fantasia. Le persone che le insegnano non hanno mai avuto a che fare con un aggressore deciso e armato di una lama viva. La mia fase macho è passata da almeno un paio di decenni, e io sarei stato felicissimo di girare i tacchi e filarmela, se avessi potuto. Nello spazio chiuso del dojo, però, contro un avversario più giovane e probabilmente più veloce, la fuga non era certo la scelta più indicata, e io dovetti riconoscere che le probabilità di per sé infime di uscire illesi da uno scontro con una lama erano addirittura un miraggio. Guardai verso la mia borsa. Si trovava a una decina di metri di distanza, e le probabilità di riuscire a raggiungerla, aprirla ed estrarne la pistola prima che Murakami potesse trafiggermi erano praticamente nulle. Sorrise con il suo solito rictus predatorio. «Getta via la tua arma, e io getterò la mia», disse. Era davvero squilibrato. A me non interessava battermi con lui: volevo solo ucciderlo o fuggire in attesa di un'occasione più propizia. Forse, però, potevo cavarmela. «Vuoi spiegarmi che cosa succede?» gli domandai. «Getta via la tua arma, e io getterò la mia», ripeté. Era ora di cambiare approccio. Sapevo che alle mie spalle c'era un'ampia varietà di pesi. Avrei potuto tentare di raggiungerli prima che lui mi saltasse addosso. Se avessi trovato dei dischi metallici sparsi, avrei potuto utilizzarli come proiettili, per cercare di frenarlo e crearmi il varco necessario a impadronirmi della mia pistola. Una prospettiva decisamente poco rosea, se si considera che avevo di fronte un uomo dotato di riflessi tali da permettergli di combattere contro i cani, ma ero a corto di idee. «Gettala prima tu», dissi. «D'accordo. Vorrà dire che combatteremo armati», disse, e cominciò a muoversi verso di me. Lentamente, però, senza fretta. Io mi preparai a scattare verso i pesi alle mie spalle. In quell'istante, qualcuno bussò ripetutamente e con forza alla porta, e si sentirono risuonare le parole «Keisatsu da!» - Polizia! - urlate dentro un megafono.
Murakami ruotò leggermente la testa verso la porta, senza smettere, però, di tenermi d'occhio. Capii dalla sua reazione che l'improvviso bussare l'aveva sorpreso: non si aspettava che arrivasse gente. Bussarono di nuovo, pugni chiusi contro il metallo. E poi: «Keisatsu da! Akero!». Polizia! Aprite! Murakami e io ci guardammo per un lungo istante, ma io già sapevo quello che aveva in mente. Sarà anche stato pazzo, ma alla pelle ci teneva. Agitò il coltello verso di me. «Un'altra volta», disse. E si lanciò verso la stanza sul retro. Io mi lanciai verso la mia borsa, ma quando la raggiunsi lui era già nello spogliatoio e si era richiuso la porta alle spalle. Seguirlo lì dentro da solo sarebbe stato rischioso. Meglio aspettare i rinforzi di Tatsu. Corsi verso l'ingresso. La porta era bloccata da una serie di sbarre azionate a molla, e mi ci vollero alcuni secondi per comprendere il funzionamento del meccanismo. C'era un ingranaggio, al centro, che non cedeva. «Ecco, è quel dentello lì... Devo premere quello.» Premetti e girai la maniglia, e le sbarre rientrarono. Aprii la porta con una spallata e vidi, oltre la soglia, Tatsu e un altro uomo, entrambi con la pistola in pugno. «È dentro», dissi, con un cenno del capo. «C'è un'uscita di servizio di cui potrebbe servirsi. Ha un coltello.» «Ho già mandato un uomo sul retro», disse Tatsu. Fece un cenno al suo socio, e insieme entrarono. Io li seguii. Notarono i due uomini a terra, ma videro che non sarebbero andati da nessuna parte. Raggiungemmo il retro del dojo. Vidi il socio di Tatsu che si dirigeva verso il bagno. «Non è lì», dissi. «È qui, nello spogliatoio. C'è una porta che dà sul retro, ma lui potrebbe ancora essere qui dentro.» Presero posto ai due lati della porta, rannicchiandosi per ridurre al minimo la propria sagoma. Tenevano entrambi la pistola stretta al corpo all'altezza della vita, nella cosiddetta posizione del terzo occhio. Tatsu fece un cenno d'intesa e il suo compare, che si trovava dal lato della maniglia, allungò una mano e spinse la porta verso l'interno, mentre Tatsu teneva sotto tiro il varco che si apriva. Un altro cenno, e insieme entrarono, Tatsu per primo. Lo spogliatoio era vuoto. La porta che dava sulla strada era chiusa, ma il catenaccio era tirato indietro. «Lì», dissi. «È uscito di lì.» Pensai all'altro collega di Tatsu, quello che era andato ad appostarsi sul retro. Lui e Murakami erano sicuramente en-
trati in rotta di collisione. Si rimisero in posizione e uscirono in strada. Io li seguii di nuovo. Sul retro dell'edificio c'era un cortiletto, strapieno di bidoni della spazzatura, scatoloni vuoti e materiali da costruzione abbandonati. Un condizionatore d'aria arrugginito giaceva inutilizzato e inerte su un lato. Sul lato opposto, la carcassa di un frigorifero appoggiata di sbieco contro una parete corrugata, senza sportello, due ripiani che penzolavano come le budella di un animale sventrato. Il cortiletto sfociava in un vicolo. Nel vicolo trovammo il collega di Tatsu. Era disteso supino, con gli occhi aperti, la mano ancora stretta intorno alla pistola rivelatasi inutile. Murakami lo aveva squarciato e se n'era andato. Il terreno, intorno al poliziotto, era inzuppato di sangue. «Chikusho», sospirò Tatsu. Oh, cazzo. Si inginocchiò per accertarsi che quell'uomo fosse morto e poi usò il suo telefonino, mentre il suo unico collega rimasto perlustrava il vicolo. Notai, sul cadavere, l'assenza di ferite riconducibili a un tentativo di difesa: niente tagli sulle mani o sui polsi. Non era riuscito neppure ad alzare le braccia per proteggersi, figurarsi se poteva riuscire a sparare. Poveraccio. La pistola, forse, gli aveva dato una fiducia eccessiva. Un errore comune. In certe condizioni, come per esempio in un vicolo molto stretto, una lama può essere più veloce di una pallottola. Tatsu si rialzò in piedi e mi guardò. Parlò con calma, ma gli si leggeva la rabbia negli occhi. «È stato Murakami?» domandò. Annuii. «Quegli uomini, dentro, sono suoi amici?» Annuii di nuovo. «C'è una grossa Mercedes parcheggiata sul davanti. Immagino che sia arrivato con quella e che progettasse di andarsene allo stesso modo. Ora sarà costretto a ricorrere ai taxi e ai mezzi pubblici. Non può aver fatto questo», disse, indicando il collega senza vita, «senza essersi sporcato di sangue. Tra poco arriveranno i nostri uomini a perlustrare la zona. Abbiamo qualche possibilità di trovarlo.» «Ne dubito», obiettai. Le sue narici ebbero un fremito. «Uno dei due tirapiedi di Murakami, lì dentro, mi sembrava in condizione di essere interrogato», disse lui. «Anche questo potrebbe tornare utile.»
«C'era qualcun altro sul davanti, quando siete arrivati?» domandai. «Murakami ha mandato tutti a casa appena prima che voi arrivaste.» «C'erano diversi uomini, là fuori», disse. «Quando ci hanno visti arrivare si sono dispersi, e comunque non potevano aiutarci più di tanto. Non subito, almeno.» «Mi dispiace per il tuo collega», dissi, non sapendo che altro dire. Lui annuì lentamente, e per un attimo mi parve che la sua espressione cedesse allo sconforto. «Si chiamava Fujimori. Era una brava persona, capace e idealista. Più tardi dovrò informare la vedova.» Si raddrizzò, come per ricomporsi. «Ora raccontami alla svelta quello che è successo. Devi sparire prima dell'arrivo degli altri agenti.» Gli raccontai tutto. Mi ascoltò senza proferire parola. Quando ebbi finito, mi guardò e disse: «Ci vediamo ad Harajuku - da Christie, la sala da tè stasera alle sette. Non sparire. Non costringermi di nuovo a darti la caccia.» Conoscevo Christie. C'ero stato molte volte quando abitavo a Tokyo. «Ci sarò», dissi. «Dov'è la pistola?» «È dentro, in una borsa da ginnastica, vicino all'entrata principale. Mi piacerebbe tenerla.» Tatsu scosse la testa. «Proprio oggi mi hanno chiesto che fine ha fatto. Devo riportarla al suo posto o saranno guai. Forse riesco a procurartene un'altra.» «Te ne sarei grato», dissi, pensando all'aria fiduciosa con cui Murakami aveva sfoderato il suo Kershaw. Tatsu annuì e poi guardò il suo collega caduto. La sua mascella si irrigidì, per poi rilassarsi. «Quando l'avrò preso», disse, «gli farò fare questa stessa fine.» 17. Raggiunsi a piedi la Kototoi-dori e presi un taxi. Benché l'operatività degli uomini di Murakami fosse temporaneamente compromessa, loro sapevano che mi trovavo ad Asakusa, e la stazione del metrò sarebbe stata il luogo ideale per un agguato. All'incontro fissato da Tatsu mancavano più di sei ore, e in me si stava insinuando la strana sensazione di instabilità dovuta al fatto di non sapere dove andare o che fare. Caddi in preda a un accesso di quello che potrebbe
essere chiamato disturbo post-traumatico da eccessivo arrapamento, e considerai l'opportunità di telefonare a Naomi. L'avrei trovata a casa, a quell'ora; probabilmente, era sveglia da poco. Con Murakami alle costole, però, non era il caso di presentarmi in posti dove il mio arrivo potesse in qualche modo risultare prevedibile. Il mio cercapersone si mise a ronzare. Lo consultai e vidi un numero che non conoscevo. Composi il numero da un telefono pubblico. All'altro capo risposero al primo squillo. «Indovina chi sono?» mi domandò in inglese una voce maschile. Lo riconobbi. Era Kanezaki, la mia ultima conoscenza tra gli agenti della CIA. «Ti prego, ascolta quello che ho da dirti», supplicò. «Non riagganciare.» «Come hai fatto a procurarti il mio numero?» gli domandai. «Tabulati telefonici. Le telefonate fatte dai telefoni pubblici intorno alla casa del tuo amico. Io, però, non ho niente a che fare con quello che gli è successo. Io sono soltanto quello che l'ha scoperto. È per questo che ti ho cercato.» Riflettei. Se Kanezaki aveva modo di accedere ai tabulati dei telefoni pubblici, non era da escludersi che fosse davvero riuscito a rintracciare il numero del mio cercapersone. Harry aveva l'abitudine di contattarmi sul cercapersone dai telefoni pubblici nei dintorni del suo appartamento, dopo di che tornava a casa e aspettava la mia telefonata. Avendo a disposizione i tabulati, è possibile scorgere una costante: lo stesso numero composto da diverse cabine telefoniche di una certa zona. Se anche i numeri ricorrenti fossero stati più di uno, cosa peraltro assai probabile, sarebbe stato semplice procedere per esclusione fino a trovare quello giusto. Sì, era una possibilità che Harry e io avremmo forse potuto prevedére, ma ormai non aveva importanza. Chiunque fosse riuscito, come Kanezaki, a intercettare il mio numero, non avrebbe comunque ottenuto granché: solo il numero di un cercapersone. «Ti ascolto», dissi. «Dobbiamo vederci», disse. «Credo che potremmo aiutarci a vicenda.» «Ah, sì?» «Sì. Ascolta: così facendo, corro un grosso rischio. Tu, magari, credi che io sia implicato nella morte del tuo amico, e potresti cercare di vendicarti.» «Può darsi.» «Già, appunto. So anche, però, che tu potresti trovarmi comunque, prima
o poi. Perciò preferisco tentare di spiegarti come sono andate, secondo me, le cose, piuttosto che dovermi guardare le spalle per tutta la vita per paura di un tuo agguato.» «Che cosa proponi?» gli domandai. «Un incontro. Dove vuoi tu, purché sia un luogo pubblico. Sono sicuro che, quando avrai ascoltato quello che ho da dirti, mi crederai, ma temo che tu possa farmi qualcosa prima di darmi la possibilità di parlare. Come l'ultima volta che ci siamo visti.» Valutai l'offerta. Se si trattava di una trappola, due erano i sistemi praticabili per incastrarmi. Nel primo caso, ci sarebbe voluto qualcuno a coprire le spalle di Kanezaki, gente pronta a intervenire non appena io fossi comparso sulla scena. L'altra opzione consisteva nel proteggerlo a distanza, per mezzo di una trasmittente, secondo il metodo già seguito dalla CIA quando Holtzer, dopo avermi proposto un «incontro», aveva tentato di fregarmi. Quest'ultimo sistema era il più probabile, perché sarebbe stato più difficile, per me, individuare i colleghi di Kanezaki, se si fossero tenuti al coperto e a distanza. In questo caso, però, avrei potuto usare il detector antimicrospie che mi aveva dato Harry. Mentre per evitare il primo scenario sarebbe bastato incontrarsi in un posto deserto. «Dove sei, ora?» gli domandai. «A Toranomon. Vicino all'ambasciata.» «Conosci il Japan Sword? L'antico negozio di spade che c'è a Toranomon 3-chome, vicino alla stazione?» «Sì.» «Ci vediamo lì tra mezz'ora.» «Okay.» Riagganciai. In realtà, non avevo alcuna intenzione di andare al negozio di spade, nonostante mi piaccia, di tanto in tanto, passare a dare un'occhiata. Volevo, però, che Kanezaki e i suoi eventuali fiancheggiatori si appostassero lì, mentre io prendevo posizione in un luogo più sicuro. Presi una serie di taxi e di treni e arrivai alla porta Wadakuramon del palazzo imperiale. Con gli sciami di turisti, le batterie di telecamere di sicurezza e le falangi di poliziotti impegnate a proteggere le importanti personalità presenti nel palazzo, la porta Wadakuramon era il posto meno indicato per ammazzare qualcuno a pistolettate, posto che fosse questo il piano di Kanezaki e dei suoi compari. Convocandolo sul luogo dopo essermi appostato, avrei costretto gli eventuali collaboratori di Kanezaki a muoversi rapidamente, accrescendo le mie possibilità di individuarli.
Quando fui sul posto, chiamai Kanezaki con il cellulare che mi aveva dato Tatsu. «C'è un cambiamento di programma», dissi. Ci fu una pausa. «Okay.» «Ci vediamo alla porta Wadakuramon del palazzo imperiale, di fronte alla stazione di Tokyo. Vieni immediatamente. Io ti aspetto davanti alla porta. Tu vienimi incontro dalla stazione di Tokyo, in modo che possa assicurarmi che sei solo.» «Sarò li tra dieci minuti.» Interruppi la comunicazione. Presi un taxi sulla Hibiya-dori, perpendicolare al viale che porta dalla stazione di Tokyo al palazzo imperiale. Salii a bordo e chiesi al tassista di aspettare, spiegandogli che di lì a qualche minuto sarebbe arrivato un mio amico. Lui avviò il tassametro, e poi attendemmo in silenzio. Dieci minuti dopo vidi Kanezaki sopraggiungere dal lato concordato. Si stava guardando intorno, ma non mi vide. Abbassai di poco il finestrino. «Kanezaki», dissi, quando lui mi passò accanto. Lui sobbalzò e mi guardò. «Sali.» Il tassista aprì automaticamente la portiera. Kanezaki esitò: un taxi non era esattamente il luogo pubblico che lui aveva in mente. Alla fine si decise e prese posto accanto a me. La portiera si richiuse e il taxi partì. Dissi al tassista di portarci verso Akihabara, la mecca dell'elettronica a Tokyo. Guardai dietro di noi, ma non notai movimenti sospetti. Nessuno che si agitasse per non farsi seminare. Evidentemente, Kanezaki era solo. Allungai le mani e lo perquisii. Addosso aveva solo il cellulare, le chiavi e un nuovo portafogli. Il detector di Harry non emise segnali d'allarme. Chiesi al tassista di procedere per strade secondarie, per ridurre ulteriormente il rischio di essere seguiti. Scendemmo nei pressi della stazione di Ochanomizu, e da lì ci spostammo con una serie di rapidi movimenti in metrò e a piedi per avere la certezza di essere soli. Decisi di mettere fine a quel percorso anti-pedinamento a Otsuka, all'estremità nord della linea Yamanote. Otsuka ha l'aspetto di un quartiere, anche se non tanto raccomandabile, e offre un'ampia varietà di massaggi e di «alberghi dell'amore». A parte la gente che ci abita e ci lavora, sembra frequentato essenzialmente da uomini anziani in cerca di merce sessuale di fascia bassa. I bianchi sono rari, da quelle parti. Se gli eventuali pedinatori fossero stati i classici agenti CIA dalla pelle bianca, Otsuka avrebbe complicato loro le cose. Prendemmo le scale che portavano al ristorante Royal Host, al primo pi-
ano di un edificio di fronte alla stazione. Entrammo e ci guardammo intorno: famiglie, perlopiù, che per una volta avevano deciso di uscire a mangiare. Un paio di sarariman dall'aria stanca in fuga da una serata tra le mura domestiche. Nulla di strano. Ci sedemmo in un angolo che mi concedeva un'ottima vista sulla strada sottostante. Lo guardai. «Ora puoi parlare», dissi. Lui si strofinò le mani e si guardò intorno. «Cristo, se si viene a sapere quello che sto facendo...» «Risparmiami il teatro», dissi. «Che cosa vuoi?» «Non voglio che tu mi creda coinvolto nella morte del tuo amico», disse. «E voglio che uniamo le nostre forze.» «Ti ascolto.» «Bene. Per cominciare, credo... credo che qualcuno stia cercando di fregarmi.» «Che cosa c'entra questo con il mio amico?» «Lascia che ti spieghi tutto con ordine, dall'inizio. Poi deciderai tu, okay?» Annuii. «Va' avanti.» Si inumidì le labbra con la lingua. «Ricordi che ti avevo parlato di una certa operazione Crepuscular?» Arrivò una cameriera, e io mi resi conto di avere fame. Senza consultare il menu, ordinai un sandoichi all'arrosto e il loro piatto del giorno. Kanezaki chiese un caffè. «Sì, ricordo.» «Bene. Questa operazione è stata ufficialmente dichiarata chiusa sei mesi fa.» «E allora?» «In realtà, l'operazione prosegue, e sono io che la mando avanti, anche se i fondi sono stati tagliati. Il problema è che nessuno mi ha detto niente. E il denaro continua comunque ad arrivare. Da dove?» «Aspetta un attimo», dissi. «Va' piano. Come hai fatto a scoprire queste cose?» «Alcuni giorni fa il mio superiore, il capo della CIA a Tokyo, mi ha chiesto le ricevute delle spese effettuate nell'ambito dell'operazione.» «Biddle?» Kanezaki mi guardò. «Sì. Lo conosci?» «Ho sentito parlare di lui. Parlami delle ricevute.»
«È la prassi, alla CIA. Quando vengono stanziati dei fondi, il percettore deve firmare una ricevuta, senza la quale sarebbe troppo facile stornare parte del denaro.» «Vuoi dire che la CIA fa firmare delle ricevute per i pagamenti che effettua?» domandai incredulo. «È la prassi», ripeté lui. «E quelli firmano?» Kanezaki si strinse nelle spalle. «Non sempre, e non subito, comunque. Ci vengono insegnate delle tecniche speciali per abituare i nostri collaboratori all'idea. La prima volta non conviene neppure parlarne. La seconda volta gli dici che è una nuova prassi del governo degli Stati Uniti, introdotta per assicurarsi che tutti i collaboratori ricevano il denaro che gli spetta. Se il collaboratore esita, gli dici che non c'è problema, che si può provare a lasciare perdere e che gli farai sapere. La quinta volta lui è ormai assuefatto al denaro che gli porti, e allora gli dici che i tuoi superiori ti hanno strigliato per la mancanza delle ricevute e hanno minacciato di interrompere la collaborazione se lui non firma le carte. A quel punto gli passi le ricevute e gli chiedi di scarabocchiare qualcosa. La prima firma è illeggibile, ma poi, poco a poco, la grafia si fa più nitida.» «Okay. Biddle, insomma, ha preteso le ricevute», risposi. «Esatto. E io gliele ho date, ma la cosa mi è sembrata strana.» «Perché?» Kanezaki si massaggiò la nuca. «Quando l'operazione è stata avviata, mi avevano affidato anche la responsabilità di custodire tutte le ricevute. Io mi sono preoccupato per questa improvvisa richiesta da parte di Biddle, anche se lui mi ha assicurato che si tratta di ordinaria amministrazione. Allora ho fatto dei controlli con l'aiuto di alcuni miei amici di Langley... In forma riservata, ovviamente. E ho scoperto che nel caso di operazioni a quel livello di riservatezza nessuno può chiedere la documentazione, a meno che qualcuno non abbia inoltrato una denuncia presso l'ispettorato generale della CIA con accuse specifiche nei confronti di funzionari precisamente individuati.» «Come puoi essere certo che non sia accaduto proprio questo?» Kanezaki arrossì. «In primo luogo, perché non ce ne sarebbe motivo. Di irregolarità non ne ho commesse. E poi, se qualcuno mi avesse denunciato, il protocollo avrebbe imposto a Biddle di ascoltarmi alla presenza dei miei avvocati. L'appropriazione di fondi è un reato grave.» «D'accordo. Tu, allora, dai le ricevute a Biddle, ma la cosa ti pare stra-
na.» «Infatti. Mi sono messo a scartabellare tra i cablogrammi inviati nel quadro dell'operazione Crepuscular. Sono numerati in sequenza, e io mi sono accorto che ne mancava uno. Non me ne sarei mai accorto, se non mi fosse venuto in mente di controllare la sequenza numerica. Una cosa del genere normalmente sfugge, perché è difficile che qualcuno si metta a controllare la sequenza numerica dei cablogrammi: troppa fatica, tanto più che quel numero, di solito, ha poca importanza. Mi sono messo in contatto con la divisione est-asiatica della CIA, a Langley, e ho chiesto all'impiegata di leggermi al telefono il cablogramma mancante. Diceva che l'operazione Crepuscular era da considerarsi conclusa e che le attività relative andavano immediatamente interrotte perché i fondi stanziati erano stati convogliati verso altri obiettivi.» «Credi che qualcuno, ai piani alti, abbia sottratto il cablogramma per tenerti all'oscuro della conclusione dell'operazione?» domandai. «Sì», rispose lui, annuendo. La cameriera ci portò quanto avevamo ordinato. Io cominciai a divorare il sandwich. Kanezaki era loquace, e io volevo saperne di più. Presto saremmo arrivati a parlare di Harry. «Spiegami un po' questa operazione Crepuscular», dissi, tra un boccone e l'altro. «Che cosa vuoi sapere?» «Com'è cominciata, e come ne sei venuto a conoscenza, per esempio.» «Te l'ho già detto. Un anno e mezzo fa mi hanno detto che all'ufficio della CIA a Tokyo era stato affidato il compito di organizzare un'operazione riservata per sostenere le riforme e rimuovere eventuali ostacoli. Nome in codice: Crepuscular.» «Un anno e mezzo fa», pensai. «Hmm...» «Chi è stato, in origine, ad affidarti questo incarico?» gli domandai, anche se, dato il periodo a cui risaliva la faccenda, ero convinto di sapere quale sarebbe stata la risposta «L'ex capo dell'ufficio, William Holtzer.» «Holtzer...» pensai. «Le sue opere benefiche gli sono sopravvissute.» «Come te l'ha presentata?» gli domandai. «Cerca di entrare un po' nei particolari.» Kanezaki guardò alla sua sinistra, e questo, nella maggior parte dei casi, è un segnale neurolinguistico che allude al ricordo più che all'invenzione. Se si fosse voltato dall'altra parte, avrei dubitato del suo resoconto. «Mi ha
detto che l'operazione era riservatissima e altamente compartimentata, e che voleva fossi io a dirigerla.» «Qual era, di preciso, il tuo ruolo?» «Ricerca di potenziali collaboratori, pagamenti, gestione generale dell'operazione.» «Perché ha scelto proprio te?» Kanezaki si strinse nelle spalle. «Non gliel'ho domandato.» Soffocai una risata. «Ti è sembrato plausibile che Holtzer, nonostante la tua giovane età e la tua inesperienza, avesse intuito le tue capacità nascoste e deciso di affidarti un incarico così importante?» Lui arrossì. «Be', sì, più o meno.» Chiusi gli occhi per un istante e scossi la testa. «Mai sentito parlare di coperture? E di capri espiatori?» Il suo rossore si intensificò. «Forse non sono così stupido come credi», disse. «Che altro c'è?» «Holtzer mi disse che per sostenere le riforme sarebbe stato necessario sponsorizzare certi uomini politici di orientamento riformista graditi al governo degli Stati Uniti. La giustificazione era che, per competere nell'arena politica giapponese, occorrevano grandi quantità di denaro. Poiché è impossibile conservare il proprio seggio se non si hanno i soldi, presto o tardi i politici si lasciano corrompere perché hanno accettato denaro, o vengono eliminati perché lo hanno rifiutato. Noi dovevamo cambiare le carte in tavola con una fonte di denaro alternativa.» «Fondi distribuiti con tanto di ricevuta.» «Sì, questa è la prassi, come ti ho detto.» «Immagino che, una volta firmate le ricevute, i soldi vengono gestiti direttamente dal collaboratore in questione.» Kanezaki si strinse nelle spalle. «Ovvio.» Mi domandai, per un attimo, perché arruolassero certi pivelli appena usciti dal college. «Sarei curioso di sapere», dissi, «se esiste, secondo te, un motivo per cui qualcuno potrebbe avere interesse a disporre di documenti firmati e pieni di impronte digitali che attestano il versamento di denaro da parte della CIA.» Kanezaki scosse la testa. «Non è come credi», disse. «La CIA non ricorre al ricatto.» Scoppiai a ridere. «Ascolta, non voglio dire che non lo usiamo perché siamo bravi», ripre-
se con una serietà quasi comica. «Il fatto è che non funziona: è dimostrato. Lo si può utilizzare per ottenere una collaborazione a breve termine, ma a lungo andare è un mezzo di controllo inefficace.» Lo guardai. «Ti pare che la CIA sia un'organizzazione particolarmente rivolta al lungo termine?» «Ci proviamo, sì.» «Be', se non ti hanno denunciato per malversazione, e se credi che il ricatto sia estraneo alle pratiche della CIA, per quale ragione, secondo te, Biddle si interessa a quelle ricevute?» Lui abbassò lo sguardo. «Non lo so.» «E allora che cosa vuoi da me?» «C'è un'altra cosa che mi sembra strana.» Sollevai le sopracciglia. «La prassi prevede che, prima di incontrare un collaboratore, l'agente che si occupa del caso compili un modulo con tutti i particolari dell'incontro in programma: chi, dove, quando. Lo scopo è quello di avere un archivio consultabile da altri investigatori nel caso qualcosa vada storto. Dopo la richiesta di Biddle, io ho presentato un modulo con cui annunciavo per stasera il mio incontro con un collaboratore; in realtà non devo incontrare nessuno, ma ho lasciato in bianco lo spazio relativo al luogo dell'incontro.» «E ti hanno richiamato?» «Già. E questo è strano. Prima dell'incontro, nessuno dovrebbe preoccuparsi di questi moduli: sono destinati a servire in fasi successive. Anzi, la metà delle volte li compiliamo soltanto a incontro avvenuto. È una seccatura. E a nessuno è mai successo di essere ripreso per queste cose.» «Che idea ti sei fatto?» «Che qualcuno è molto attento a questi incontri.» «Perché?» «Non... Non saprei.» «Allora, non vedo come potrei aiutarti.» «D'accordo. È possibile che qualcuno stia tentando di raccogliere prove che dimostrino come io abbia continuato a gestire l'operazione Crepuscular da solo, anche dopo la sua conclusione ufficiale. Così, se dovesse trapelare qualcosa, Biddle potrebbe scaricare tutta la responsabilità su di me.» Mi guardò. «Forse, vogliono usarmi come capro espiatorio.» Magari, in fondo, il ragazzo non era poi tanto ingenuo. «Ancora non mi hai detto che cosa vuoi da me», dissi. «Voglio che tu faccia un po' di contro-sorveglianza per conto mio, stase-
ra, e poi mi racconti che cosa hai scoperto.» Lo guardai. «Sono lusingato, ma non faresti meglio a rivolgerti all'ispettore generale della CIA?» «E su che basi? I miei sospetti? E poi, per quel che ne so io, l'ispettore generale e il capo dell'ufficio CIA di Tokyo hanno frequentato Yale nello stesso periodo. Rifletti: l'operazione Crepuscular è stata chiusa sei mesi fa. A quel punto è diventata illegale a tutti gli effetti. E da allora in poi l'ho gestita io. Prima di affidarmi ai canali ufficiali, devo cercare di capire che cosa sta succedendo.» Tacqui per un istante. Poi dissi: «Che cosa mi offri in cambio?» «Ti dirò quello che so a proposito del tuo amico.» Annuii. «Se troverò convincente e utile quello che mi dirai, ti aiuterò.» «Siamo sicuri che poi non tenterai dì fregarmi?» Lo guardai. «Non puoi fare altro che correre il rischio.» Si imbronciò come un ragazzino convinto di avere appena avanzato una proposta ragionevole e ferito dalla scarsa considerazione ottenuta. «Okay», disse, dopo un istante. «L'ultima volta che ci siamo incontrati ti ho detto che avevamo identificato Haruyoshi Fukasawa come un tuo conoscente dopo aver intercettato una lettera che lui aveva spedito a Kawamura Midori. Dalla lettera avevamo scoperto soltanto il suo nome proprio, che è scritto con un'insolita combinazione di kanji, e il timbro delle poste centrali di Chuo-ku.» Il racconto sostanzialmente combaciava con lo scenario che Harry e io avevamo ricostruito. «Va' avanti», dissi. «Avremmo dovuto esaminare una massa enorme di materiale, se avessimo voluto sfruttare quelle due piccole informazioni. Anagrafe locale, archivi del fisco, cose del genere. Avremmo dovuto procedere a cerchi concentrici partendo dall'ufficio postale di Chuo-ku. Servivano manodopera e competenze locali.» Annuii, prevedendo il seguito. «E così avete affidato il compito a qualcun altro.» «Esatto. A un collaboratore dell'ufficio della CIA a Tokyo, un certo Yamaoto.» Cristo, praticamente era come se avessero messo una taglia sulla testa di Harry. Chiusi gli occhi e riflettei un istante. «Avete detto a Yamaoto qual era la ragione del vostro interesse per Harry?» Kanezaki scosse la testa. «No, è ovvio. Gli abbiamo detto soltanto che ci interessava scoprire dove abitava e dove lavorava una certa persona.»
«E poi che cos'è successo?» «Non lo so. Yamaoto ci ha procurato l'indirizzo che volevamo. Abbiamo pedinato Fukasawa con il massimo impegno, ma lui sapeva come sfuggire alla sorveglianza, e noi non siamo mai riusciti a stargli alle costole abbastanza a lungo da arrivare a te.» «Mi stai dicendo cose che, perlopiù, già so. Parlami della morte di Fukasawa.» «L'altro giorno sono andato a casa sua con una scorta per tentare come al solito di sorvegliarlo. Avevo detto a Biddle che non mi pareva una buona idea, visto com'era finito il nostro precedente incontro; che sarebbe stato estremamente pericoloso, per me, ma lui aveva insistito. In ogni caso, ho visto un insolito fermento. Auto della polizia e... una squadra di pulitori impegnati sul marciapiede davanti a casa di Fukasawa. Sono andato a dare un'occhiata e ho visto quello che era successo. Quando l'ho detto a Biddle, è sbiancato come un cencio.» «Il che significa?...» «La mia impressione è che fosse sorpreso e, insieme, contrariato. Se è vero che era sorpreso, significa che la responsabilità dell'omicidio non è sua. Io presuppongo che non si sia trattato di un incidente. Perciò restate soltanto tu e Yamaoto. E. fatto che tu sia qui, dispiaciuto per la fine di Fukasawa, mi induce a credere che tu e lui non aveste conti in sospeso. Il colpevole, perciò, dev'essere Yamaoto.» «Poniamo che tu abbia ragione. Perché lo avrebbe fatto?» Kanezaki deglutì. «Non saprei... Cioè, in generale, può darsi che ai loro occhi Fukasawa fosse diventato una minaccia o, magari, un intralcio, ma più in là di così non vado.» «Hai mai visto Fukasawa in compagnia di una donna?» Lui annuì. «L'abbiamo visto andare e venire più volte con una certa Yukiko Nohara, che lavora in un locale di Nogizaka, il Damask Rose.» Ci pensai su per qualche istante. L'istinto mi diceva che Kanezaki aveva ragione, ma non avevo modo di esserne certo. E comunque, per quel poco che mi aveva detto, non avevo intenzione di correre i rischi impliciti nel lavoro di contro-sorveglianza che mi aveva chiesto di fare. A Tatsu, però, forse interessava. E lui era in condizioni certamente migliori delle mie per sfruttare le scarne informazioni in possesso di Kanezaki. «Mi incontrerò tra qualche ora con una persona che potrebbe aiutarti a risolvere il tuo problema», dissi. «Qualcuno che può fare più di me.»
«Devo dedurne che ti ho convinto?» Lo guardai. «Ancora non ho deciso.» Ci fu una pausa. Poi Kanezaki disse: «Il mio portafogli.» Io sollevai le sopracciglia. «Dov'è?» mi domandò. Io sogghignai. «Non c'è più.» «C'erano dentro cinquantamila yen.» Annuii. «Appena sufficienti per un delizioso menu e un Rousseau Chambertin del 1985 in un ristorante di mio gusto. Ho dovuto metterci del mio per pagare il Vega Sicilia Unico del '70 che ho bevuto con il dessert. Perciò, la prossima volta che decidi di pedinarmi, portati dietro qualche yen in più, okay?» Lui avvampò. «Mi hai rapinato.» «Devi ringraziarmi: chi cerca di seguirmi, figliolo, di solito paga un prezzo ben più elevato. Ora vediamo se questo mio amico è disposto a darti l'aiuto di cui hai bisogno.» Lo portai da Christie Tea & Cake, il kissaten proposto da Tatsu come luogo d'incontro. Percorremmo a piedi il breve tratto che lo separava dalla stazione Harajuku. Il proprietario del locale, forse perché si ricordò di me e delle abitudini che avevo quando abitavo a Tokyo, ci accompagnò a uno dei tavoli dietro l'angolo della sala a L, dove eravamo perfettamente invisibili dall'esterno. Kanezaki ordinò un tè Assam. Io presi quello al gelsomino, per me e per il terzo convitato ancora assente. Dopo la giornata appena trascorsa, immaginai che avrebbe gradito una bevanda a basso contenuto di caffeina. Chiacchierammo del più e del meno, in attesa dell'arrivo di Tatsu. Kanezaki era stranamente su di giri, forse per il nervosismo indotto dalla situazione in cui si trovava. «Com'è che hai cominciato a fare questo lavoro?» gli domandai. «Sono un nippo-americano di terza generazione», rispose lui. «Sansei. I miei genitori parlano giapponese, ma in casa, con me, hanno sempre usato l'inglese, perciò della lingua giapponese conosco solo quel poco che ho appreso dai miei nonni. Quando ero al college ho partecipato a un programma di studio e soggiorno in Giappone, a Nagano-ken, e mi è piaciuto. Mi è servito per rientrare in contatto con le mie radici, mi spiego? Dopo di che ho seguito tutti i corsi di giapponese che ho potuto e ho fatto un altro periodo di studio-soggiorno. All'ultimo anno di università, al campus, ho conosciuto un reclutatore della CIA. Mi disse che la CIA cercava gente che
conosceva certe lingue in particolare: giapponese, cinese, coreano, arabo. «Perché no?» ho pensato. Ho superato i test e un esame approfondito sul mio passato, ed eccomi qui.» «E il lavoro corrisponde alle tue aspettative?» gli domandai con un lieve sorriso. «Non esattamente, ma le difficoltà mi stimolano. Forse sono più duro di quel che credi.» Pensai alla sua sorprendente mancanza di paura in occasione del nostro primo incontro, al modo in cui si era ricomposto dopo avermi visto uccidere il suo socio, e non ebbi nulla da obiettare. «Comunque», riprese, «la cosa più importante è che questo lavoro mi mette nella posizione di servire al meglio gli interessi di entrambi i paesi. Ed è stato proprio questo ad attrarmi, in principio.» «In che senso?» «Gli Stati Uniti vogliono che il Giappone faccia le riforme. E il Giappone ha un bisogno estremo di queste riforme, ma non dispone di risorse interne sufficienti a realizzarle. Perciò il gaiatsu da parte degli Stati Uniti è nell'interesse di entrambi i paesi.» Gaiatsu è la «pressione esercitata dall'esterno». Mi domandai per un attimo se vi fosse al mondo un altro paese, a parte il Giappone, in possesso di un termine specifico per denotare questo concetto. «Una visione piuttosto idealistica», dissi, senza riuscire, probabilmente, a nascondere la mia perplessità. Kanezaki si strinse nelle spalle. «Può darsi. Ormai, però, viviamo in un mondo unificato. Se l'economia del Giappone crolla, trascinerà con sé anche gli Stati Uniti. Perciò, le esigenze e il pragmatismo statunitensi coincidono con le esigenze del Giappone. Mi ritengo fortunato per il fatto di poter lavorare per il bene di entrambi i paesi.» Ebbi una fugace visione di quel ragazzo, di lì a una decina d'anni, nei panni del candidato a qualche alta carica. «Hai mai pensato a quello che faresti se fossi costretto a scegliere?» gli domandai. Lui mi guardò. «Io sono americano.» Annuii. «Insomma, finché l'America terrà fede ai propri ideali, per te dovrebbe andare tutto bene.» Il cameriere ci portò il tè. Un attimo dopo arrivò anche Tatsu. Il fatto di vedermi in compagnia di Kanezaki non provocò in lui il benché minimo segno di sorpresa. Aveva una gran faccia da poker. Kanezaki guardò prima me e poi Tatsu. «Ishikura-san», disse, sollevan-
dosi leggermente dalla sedia. Tatsu chinò il capo a mo' di saluto. «Ci avevi raccontato che era morto», gli disse Kanezaki, accennando a me con la testa. Tatsu si strinse nelle spalle. «All'epoca ne ero convinto.» «Perché, allora, non ti sei fatto sentire quando hai scoperto che era vivo?» Colsi una vaga traccia di divertimento nello sguardo di Tatsu. «Mi sa che è stato meglio così», fu la risposta. Kanezaki aggrottò le sopracciglia e annuì. «Può darsi che tu abbia ragione.» Guardai Kanezaki. «Raccontagli quello che hai raccontato a me», dissi. Kanezaki eseguì. Quando ebbe finito, Tatsu disse: «Direi che la spiegazione più plausibile per questa insolita catena di eventi è che Biddle, il capo dell'ufficio CIA di Tokyo, o qualcun altro dell'agenzia si sta preparando a trasformarti nell'Oliver North del XXI secolo.» «Oliver North?» domandò Kanezaki. «Sì», spiegò Tatsu, «quello dello scandalo Iran-Contra. L'amministrazione Reagan aveva deciso di aggirare un veto posto dal congresso al finanziamento dei contras nicaraguensi vendendo armi ai «moderati» iraniani per poi convogliare il denaro così raccolto verso i contras all'insaputa del congresso degli Stati Uniti. Oliver North era il membro del consiglio nazionale della sicurezza che si occupava della gestione ordinaria del programma. Quando questa storia è venuta fuori, i suoi superiori del consiglio e della Casa Bianca, per sfuggire al processo, hanno pensato bene di attribuire a lui la colpa di tutto, accusandolo di aver gestito quell'operazione a loro insaputa.» Kanezaki impallidì. «A questo scenario non avevo pensato», disse guardandosi a destra e a sinistra come per rifare il punto della situazione. «Oh, Cristo, hai ragione! Potrebbe essere una storia simile allo scandalo IranContra. Non so chi abbia promosso l'operazione Crepuscular, ma qualcuno l'ha dichiarata conclusa: forse la CIA o il consiglio nazionale della sicurezza o magari la commissione ristretta del senato sui servizi segreti. E l'ufficio CIA di Tokyo, invece, tramite me, continua a portarla avanti, con fondi che sfuggono al controllo del congresso... Oh, Cristo!» Avevo l'impressione che Kanezaki stesse figurandosi la scena di lui che giurava davanti a una speciale commissione del congresso creata per indagare sull'ultimo scandalo, seduto da solo, la mano levata, i deputati e i loro
collaboratori rigidi e falsi dietro i loro banchi di legno lucidato, i riflettori per le telecamere roventi e accecanti, e i suoi superiori tutti intenti a raccontare alla stampa di quel giovane e dotato agente della CIA che, per l'eccessiva determinazione, si era trasformato in un fuorilegge. Tatsu si voltò verso di me. «Ho qualcosa per te.» Io sollevai le sopracciglia. «Si tratta di Kawamura Midori. A quanto pare, nel tentativo di rintracciarti, aveva ingaggiato un'agenzia di investigazione privata giapponese. Molte di queste agenzie impiegano ex membri del Keisatsucho e di altre forze dell'ordine con cui ho mantenuto i contatti. Conosceva l'indirizzo del tuo amico e lo ha passato ai detective privati. Questi hanno tentato di seguirlo, ma a quanto pare non ci sono riusciti, perché lui si muoveva con estrema circospezione. Non sono riusciti a trovarti. Per questo, credo, Kawamura-san è venuta a trovarmi in ufficio minacciandomi di sollevare uno scandalo. Gli altri suoi tentativi di rintracciarti erano falliti.» Doveva aver usato soldi ereditati dal suo vecchio: il frutto della corruzione che aveva arricchito il padre e disgustato la figlia. E la cosa non era priva di un suo risvolto ironico. Pensai a come Midori mi fosse parsa evasiva all'Imperial. A quel punto, la ragione mi fu chiara. Aveva ingaggiato un investigatore privato per rintracciare Harry e non voleva dirmelo. «Queste agenzie di investigazione», domandai, «sono legate a Yamaoto?» «Non c'è il minimo dubbio.» «Ecco perché Yamaoto aveva piazzato Yukiko alle costole di Harry!» dissi, svelando infine l'arcano. «Non su richiesta della CIA: loro non gli avevano detto che Harry era collegato a me. Sono stati gli investigatori ingaggiati da Midori, a cui lei deve aver spiegato che Harry era solo un tramite per giungere a me. Quando Yamaoto ne è stato informato, ha deciso di tenere d'occhio la situazione direttamente e meglio di quanto potesse fare l'agenzia di investigazioni o la stessa CIA. Yukiko aveva il compito di stare addosso a Harry, di marcarlo stretto, per raccogliere informazioni che avrebbero potuto condurre Yamaoto fino a me.» Provai a figurarmi la dinamica. Yamaoto, probabilmente attraverso qualche intermediario, aveva detto al boss di Harry di portare il ragazzo a «festeggiare» con la scusa del cliente soddisfatto. Il capo di Harry non conosceva lo scopo di quella manfrina, bensì soltanto l'ora e il luogo in cui doveva presentarsi con Harry. Lì, ad aspettarlo, ci sarebbe stata Yukiko,
pronta ad attaccare bottone con la storia della configurazione del Macintosh e con uno sguardo da camera da letto. Harry ci era cascato come una pera matura. Si era portato Yukiko e quelli che la manovravano a casa e, di conseguenza, li aveva condotti fino a me. «Perché ucciderlo, però?» domandò Kanezaki. Mi strinsi nelle spalle, pensando al ringhio con cui Murakami aveva detto: «Tu non ti chiami Arai, bensì Rain.» «Mi avevano riconosciuto e sapevano dove trovarmi. A quel punto, non avevano più bisogno di Harry. Yukiko, inoltre, doveva avere scoperto alcune cose sul suo conto: che aveva lavorato per la NSA e che era un hacker molto abile. Evidentemente, hanno dedotto che fosse un mio uomo e hanno pensato bene di eliminarlo.» Ripensai a Harry e alla sua totale negazione della realtà, all'aggressività della sua reazione quando avevo ipotizzato che Yukiko volesse fregarlo. Sospirai. «Probabilmente, anzi, è stato proprio questo a svelare la mia vera identità», dissi. «Harry e io avevamo avuto una discussione a proposito della ragazza. Magari lui le ha raccontato che un amico, un tizio che era stato poco tempo prima al Damask Rose insieme a Murakami, gli aveva detto certe cose. A quel punto, forse, è bastato fare due più due per arrivare a me. O forse hanno mostrato a Yamaoto, che mi conosce, il video del Damask Rose con la mia faccia. Non ha importanza. Avendo ottenuto quello che volevano, hanno deciso che non c'era motivo di lasciare Harry in circolazione.» Calò un lungo silenzio. Alla fine, Tatsu disse, rivolto a Kanezaki: «Che cosa proponi di fare?» Tatsu sorrise. «Io sono del Keisatsucho.» «Esatto. Non è il caso che un uomo dell'FBI giapponese sorvegli l'incontro tra la CIA e un suo importante collaboratore giapponese.» «Credevo che l'incontro di stasera fosse fasullo, organizzato per verificare la tua tesi secondo cui ci sarebbe qualcuno che ti vuole male.» «Infatti, è fasullo. Ma ho compilato dei moduli come se fosse vero. Se vengo sorpreso con te, le conseguenze saranno identiche.» Tatsu si strinse nelle spalle. «Se qualcuno ci vede insieme, puoi sempre dire che stai cercando di convincermi a collaborare, facendo seguito al primo contatto che Biddle e tu avete avuto con me quando cercavate il nostro amico qui presente.» Kanezaki lo guardò. «Magari è vero che sto cercando di convincerti a collaborare.» «Tatsu sapeva già che l'avresti detto, ragazzo», pensai.
«Visto?» disse Tatsu. «Non è neanche tanto lontano dal vero.» Pensai a una vecchia massima da pokeristi: «Se guardandoti in giro, al tavolo da gioco, non riesci a trovare un gonzo, significa che il gonzo sei tu.» Restammo tutti a lungo in silenzio. Dopo di che Kanezaki esalò un lungo sospiro e disse: «Non mi capacito di quello che sto facendo. Potrei finire in prigione.» «Per avere incontrato un collaboratore potenzialmente fondamentale?» gli domandò Tatsu, e io capii che il patto era ormai siglato. «Giusto», disse Kanezaki, più a sé stesso che a qualcun altro. «Più che giusto.» Pensai a un altro detto: «Non c'è niente di più facile che vendere a un piazzista.» Tutto quell'addestramento per convincere i collaboratori a firmare le ricevute... Kanezaki aveva praticamente fatto l'elogio dell'abile agente che ci riusciva, ed ecco che senza neanche accorgersene inciampava nella stessa trappola. Pensai a certe raffigurazioni della catena alimentare, dove il pesce grosso viene ingoiato da un pesce ancora più grosso. Guardai Kanezaki e pensai: «Se non altro, Tatsu non ti tradirà. A meno che non vi sia assolutamente costretto.» 18. Decidemmo di muoverci, per consentire a Kanezaki di andare al suo appuntamento e a Tatsu di effettuare la contro-sorveglianza. Stabilimmo di rivederci da Christie di li a due ore. Prima di separarci, domandai a Tatsu se fosse riuscito a procurarmi un'altra pistola. Mi rispose di no. Passai un po' di tempo a frugare tra le anticaglie nel seminterrato del vicino Hanae Mori Building. I negozi erano chiusi, ma in vetrina ammirai le delicate opere in vetro di esponenti dell'art nouveau quali i fratelli Daum ed Emile Gallé della scuola di Nancy. Finii per perdermi in quei piccoli universi dipinti su vasi e bicchieri: un prato verde sorvolato dalle cavallette; mulini a vento addormentati sotto una coltre di neve; una foresta di alberi così sinuosi che parevano oscillare in quell'intaglio vitreo. Tornai da Christie con buon anticipo sul nuovo appuntamento, ma non aspettai all'interno, bensì passai in rassegna i luoghi che eventuali pedinatori avrebbero utilizzato per tenere d'occhio un avventore del locale, dopo
di che, mi appollaiai nel buio, come uno dei minacciosi corvi di Tokyo, in cima alla piccola rampa che si trovava alla destra del locale, per osservarne l'ingresso. Entrai solo dopo aver visto arrivare Kanezaki e Tatsu e dopo essermi assicurato che nessuno li avesse seguiti. «Ti stavamo aspettando», disse Tatsu quando li ebbi raggiunti. «Non volevo cominciare senza di te.» «Mi dispiace», dissi. «Sono stato trattenuto.» Lui mi guardò come se avesse intuito perfettamente la causa del mio ritardo e poi, voltandosi verso Kanezaki, disse: «Sono andato con due miei uomini a sorvegliare i dintorni del luogo del tuo appuntamento. Abbiamo scoperto un tizio che stava tentando di fotografare l'incontro.» Kanezaki strabuzzò gli occhi. «Fotografare?» Tatsu annuì. «E che cosa avete fatto?» domandò. «Abbiamo preso in custodia il fotografo.» «Oh, Cristo!» esclamò Kanezaki, immaginando probabilmente i titoli dei giornali dell'indomani. «Un arresto formale?» Tatsu scosse la testa. «No, informale.» «Chi è?» domandò Kanezaki. «Si chiama Edmund Gretz», rispose Tatsu. «È arrivato a Tokyo tre anni fa, nella speranza di sbarcare il lunario come fotografo free-lance, immortalando modelle in passerella. E invece si è ritrovato a dare lezioni di inglese in diverse aziende giapponesi. Alla fine, però, è riuscito a trovare gente interessata al suo talento di fotografo.» «La CIA?» domandò Kanezaki, sempre più pallido in volto. «Sì, ha vinto un appalto. Sei mesi fa è stato addestrato alle tecniche di sorveglianza e contro-sorveglianza e a una varietà di altre discipline arcane. Da allora la CIA lo ha contattato tre volte. In tutt'e tre le circostanze, lo hanno informato dell'ora e del luogo in cui certe persone si sarebbero incontrate e gli hanno chiesto di documentare l'incontro.» «Come faceva a capire chi erano i soggetti da fotografare?» «Gli hanno dato una foto di un uomo dai tratti giapponesi che sarebbe stato presente a tutti e tre gli incontri.» «Una mia foto.» «Indovinato.» Scossi la testa meravigliato e pensai: «Dovresti farti stampare la dicitura "capro espiatorio" sul biglietto da visita.» «E il mandante di Gretz è...» disse Kanezaki.
«Il capo dell'ufficio della CIA a Tokyo», concluse Tatsu. «James Biddle.» «La stessa persona che ha tanto insistito per avere quelle ricevute», dissi io. «Già», confermò Tatsu. «Immagino che il fotografo non sia stato in grado di aiutarvi a capire il perché, o sbaglio?» chiesi. Tatsu annuì. «Gretz è solo una pedina che sa usare la macchina fotografica. Non sa nulla. La sua preoccupazione più grande era che non rivelassimo a nessuno di averlo scoperto, perché avrebbe perso il suo remunerativo secondo lavoro e avrebbe rischiato l'espulsione dal paese.» «Non sei riuscito a cavargli nient'altro?» domandò Kanezaki. Tatsu si strinse nelle spalle. «I miei uomini non gliel'hanno domandato con gentilezza. Non credo che sapesse altro.» «Che cosa fa con le foto, dopo averle scattate?» chiese Kanezaki. «Le stampa e le consegna a Biddle», rispose Tatsu. Kanezaki tamburellava con le dita sul tavolo. «E Biddle che cosa se ne fa, di queste foto? Perché sta cercando di fregarmi?» «Forse conosco un modo per scoprirlo», disse Tatsu. «Di che si tratta?» Tatsu scosse la testa. «Non è il momento di parlarne. Dammi il tempo di fare alcune indagini. Ti farò sapere molto presto.» Kanezaki socchiuse leggermente gli occhi. «Perché mai dovresti aiutarmi?» domandò. Tatsu lo guardò. «Ho le mie ragioni per desiderare che non scoppi uno scandalo», rispose. «Tra queste, c'è la speranza che i riformatori che tu hai tentato di aiutare non vengano danneggiati dalla vicenda.» La tensione sul viso di Kanezaki si sciolse. Aveva paura. E un disperato bisogno di convincersi di avere almeno un amico. «Okay», disse. Kanezaki si alzò per andarsene. Infilò una mano in una tasca della giacca, estrasse un biglietto da visita e lo porse a Tatsu. «Contattami, per favore, appena scopri qualcosa di nuovo», disse. Anche Tatsu si alzò e diede, a sua volta, un biglietto da visita a Kanezaki. «Puoi contarci.» «Grazie», disse Kanezaki. Tatsu fece un profondo inchino e disse: «Kochira koso.» Altrettanto. Kanezaki mi rivolse un cenno e se ne andò. Aspettai un minuto, per lasciare a Kanezaki il tempo di allontanarsi, do-
po di che dissi: «Andiamo!» Tatsu capì al volo. Da ragazzo, a una festa, mi era capitato di fare a botte con un tipo e di avere la meglio. Il mio rivale se n'era andato, e io mi ero goduto la sensazione di essere un eroe. Purtroppo, però, il tipo era ricomparso mezz'ora dopo con due amici, e in tre mi avevano massacrato. La lezione mi sarebbe tornata utile. Avevo imparato che, a incontro finito, bisogna sempre andarsene, a meno che non si voglia offrire al nemico l'opportunità di attaccare. Ci avviammo a piedi verso la Inokashira-dori, l'immobile oscurità del parco Yoyogi alla nostra destra. «Com'è andata, oggi?» gli domandai lungo il tragitto. «Con la moglie del tuo uomo, intendo... La vedova.» Tatsu lasciò trascorrere diversi secondi prima di rispondere. «Fujimorisan», disse, e io non riuscii a capire se alludesse al collega caduto o alla moglie. «Da quando sono al Keisatsucho, solo tre volte mi sono trovato in questa situazione. Posso ritenermi fortunato.» Proseguimmo per un tratto in silenzio. «E con Murakami sei stato altrettanto fortunato?» domandai a un certo punto. Tatsu scosse la testa. «No.» «E con il tizio che hai interrogato?» «Nulla, per il momento.» «Perché volevi che ci incontrassimo, stasera?» «Volevo avere a disposizione tutte le mie risorse, nel caso ci fossero stati indizi significativi su Murakami.» «È un fatto personale, ormai?» gli chiesi. «Sì.» Camminammo per un po' senza dire nulla. Fui di nuovo io a rompere il silenzio. «Vuoi sapere una cosa?» dissi. «Ogni volta che mi convinco di averne ormai viste di tutti i colori, la CIA riesce immancabilmente a sorprendermi, per esempio ingaggiando un fotografo per incastrare gli stessi suoi agenti nell'eventualità che torni utile bruciarli. È davvero consolante.» «Non esiste nessun fotografo», disse Tatsu. Io mi fermai e lo guardai. «Che cosa?» Si strinse nelle spalle. «Me lo sono inventato.» Io scossi la testa e sbattei le palpebre incredulo. «Vuoi dire che Gretz non esiste?» «Un Gretz esiste, nel caso a Kanezaki venga in mente di controllare: un piccolo spacciatore di droga che mi è capitato di arrestare e che poi ho rila-
sciato. Ero sicuro che mi sarebbe tornato utile.» Non sapevo cosa dire. «C'è qualcosa che mi devi spiegare, Tatsu?» «Non granché, a dire il vero. Ho semplicemente fornito a Kanezaki ulteriori elementi per credere che le sue paure non sono mera paranoia, approfittandone al contempo per accreditarmi come amico.» «Perché?» «Avevo bisogno che lui si sentisse vittima di una trappola. Ancora non abbiamo informazioni sufficienti per decidere quali iniziative intraprendere. Voglio che si convinca di potersi rivolgere a me; anzi, dev'essere ansioso di farlo.» «Credi che qualcuno stia cercando di incastrarlo?» Tatsu si strinse nelle spalle. «Chi può dirlo? L'insistenza di Biddle sulle ricevute mi pare sospetta, così come la scomparsa del cablogramma, ma non pretendo certo di conoscere tutte le procedure burocratiche della CIA.» «Perché mai Biddle mostra tutto questo interesse per gli incontri di Kanezaki?» «Non lo so. Però non ha cercato di fotografarli. I miei uomini non hanno notato niente di strano sul luogo dell'incontro. O, per meglio dire, nessuno che avesse una macchina fotografica.» Mi stava parlando apertamente di questo suo doppio gioco, forse per farmi capire che si fidava di me. Gruppo ristretto e gruppo più ampio. Noi e loro. Riprendemmo a camminare. «Dunque, è stata una fortuna che il ragazzo sia venuto da me a parlarmi dei suoi sospetti.» «E che tu sia venuto da me. Devo ringraziarti, per questo.» Scossi la testa e poi dissi: «Che cosa sai dell'operazione Crepuscular?» «Quello che ci ha raccontato Kanezaki. Nient'altro.» «Tra i politici che ne hanno beneficiato... c'è, per caso, qualcuno che collabora con te? Quelli i cui nomi non comparivano nel cd-rom, magari.» «Qualcuno c'è.» «Che cosa è successo? Consultando il cd-rom hai scoperto che questi politici non facevano parte della rete di Yamaoto. E poi?» «Li ho messi in guardia. Mettendoli a parte di quello che sapevo su Yamaoto, sui suoi metodi e sui loro colleghi corrotti, li ho trasformati in bersagli più difficili da colpire.» «E tu sapevi che prendevano soldi dalla CIA?» «Sapevo di alcuni, non necessariamente di tutti. Dalla posizione in cui
mi trovo, non posso fare altro che sforzarmi di proteggere questa gente dalle pratiche estorsive di Yamaoto. Kanezaki, però, ha ragione quando dice che, nel sistema corrotto della politica giapponese, i politici onesti hanno bisogno di soldi se vogliono competere con i candidati finanziati da Yamaoto. E di soldi io non posso distribuirne.» Camminammo in silenzio per circa un minuto. Poi Tatsu disse: «Devo ammettere che sono rimasto di sasso quando ho saputo che questi politici riformisti sono così sprovveduti da firmare ricevute per i soldi ottenuti dalla CIA. Confesso di avere sottovalutato l'entità della loro dabbenaggine. Avrei dovuto immaginarlo. Come categoria, i politici sanno essere incredibilmente stupidi, anche quando non sono interessati al denaro. Se così non fosse, Yamaoto farebbe molta più fatica a tenerli in pugno.» Ci pensai su per un istante. «Perdona la domanda, Tatsu: non è che tutta questa storia, alla fine, è solo una perdita di tempo?» «In che senso?» «Anche ammesso che questi politici "onesti" abbiano degli ideali, che tu riesca a proteggerli da Yamaoto e che loro trovino il denaro necessario, sai bene che non cambierà nulla. I politici, in Giappone, sono un semplice orpello. Sono i burocrati quelli che mandano avanti la baracca.» «Il nostro sistema è strano, eh?» disse Tatsu. «Una sgradevole combinazione di storia nazionale e di ingerenze straniere. I burocrati sono senz'altro molto potenti. Sul piano dell'efficacia, però, discendono dai samurai, con tutto ciò che l'ereditarietà comporta.» Annuii. Dopo la restaurazione Meiji del 1868, i samurai erano diventati i servitori dell'imperatore, ritenuto diretto discendente degli dèi. Questa associazione aveva comportato l'acquisizione di uno status di enorme rilievo. «Poi, il sistema economico dei tempi di guerra ha affidato loro la gestione dell'industria», riprese Tatsu. «L'occupazione americana ha consolidato questo sistema, per consentire agli Stati Uniti di comandare attraverso la burocrazia, aggirando la classe politica eletta. Questo ha portato a un ulteriore aumento del prestigio e del potere della burocrazia.» «Il dominio instaurato dalla burocrazia sul Giappone mi è sempre sembrato una forma di totalitarismo.» «Lo è, infatti, ma si distingue perché non esiste una figura tipo Grande Fratello. È piuttosto il sistema nel suo insieme che funziona come il Grande Fratello.» «Proprio questo intendevo dire: a che serve proteggere un pugno di uomini politici eletti?»
«Al momento, forse, non serve a molto. Oggi i politici funzionano essenzialmente come intermediari tra i burocrati e gli elettori. Il loro compito consiste nell'assicurare ai loro sostenitori la fetta più grande possibile della torta amministrata dai burocrati.» «Come fanno i lobbisti negli Stati Uniti.» «Infatti. Sennonché i politici vengono eletti; i burocrati no. Ciò significa che, almeno in teoria, gli elettori possono esercitare un controllo. Se i cittadini eleggono dei rappresentanti allo scopo di limitare il potere della burocrazia, la burocrazia dovrà piegarsi, perché il suo potere è funzione del suo prestigio, e tale prestigio sarebbe a rischio se la burocrazia si opponesse a un inequivocabile pronunciamento politico dell'elettorato.» Non commentai. Capivo il suo ragionamento, ma temevo che i suoi piani fossero così a lungo termine da risultare, in definitiva, inutili. Per un po' proseguimmo in silenzio. Poi Tatsu si fermò e si voltò verso di me. «Vorrei che tu facessi due chiacchiere con Biddle, il boss della CIA qui a Tokyo», disse. «Sarebbe fantastico», risposi io. «Kanezaki dice che Biddle pareva sorpreso della morte di Harry, ma preferirei accertarmene di persona. Come faccio, però, ad arrivare a lui?» «Il capo dell'ufficio della CIA a Tokyo è conosciuto dal governo giapponese. Molti suoi movimenti sono noti al Keisatsucho.» Infilò una mano in una tasca della giacca e ne tolse una fotografia. Ritraeva un bianco tra i quaranta e i cinquant'anni, faccia lunga, naso pronunciato, capelli biondo cenere a spazzola soggetti a un incipiente diradamento, occhi azzurri dietro gli occhiali dalla montatura di osso. «Il signor Biddle, nei giorni lavorativi, ha l'abitudine di prendere il tè pomeridiano al Jardin de Luseine, a Harajuku. Al numero 2», disse. «Sulla Brahms-no-komichi.» «È un abitudinario?» «A quanto pare, il signor Biddle crede che la fedeltà a certe abitudini faccia bene allo spirito.» «Può darsi che abbia ragione», dissi. «Per il fisico, però, potrebbe essere una catastrofe.» Tatsu annuì. «Perché non vai a bere il tè con lui, domani?» Lo guardai. «Potrei anche farlo», dissi. Camminai a lungo, dopo avere salutato Tatsu. Mi concentrai su Mura-
kami. Cercai i punti di contatto, le intersezioni tra la sua fluida esistenza e il più concreto mondo circostante. Non c'era granché: il dojo, il Damask Rose, forse Yukiko. Sapevo, però, che per un po', o anche per molto, si sarebbe tenuto alla larga da tutto e da tutti, proprio come avrei fatto io. Sapevo, inoltre, che lui stava facendo lo stesso giochetto con me. Mi rallegrai pensando che, dal suo punto di vista, i miei punti di contatto con l'ambiente dovevano sembrare assai limitati. Eppure mi sarebbe piaciuto avere a disposizione la Glock di Tatsu. Di solito non mi curo di portarmi dietro un'arma vera e propria. Le pistole fanno rumore, e con gli esami balistici si può risalire dal proiettile sparato all'arma di cui, magari, uno non si è ancora sbarazzato. Inoltre, in Giappone, se si viene beccati con un'arma da fuoco addosso si finisce diritti in galera. Con i coltelli non è che vada poi tanto meglio. Una lama può fare un macello e imbrattarti da capo a piedi. Inoltre, se un poliziotto minimamente avveduto ti trova addosso un coltello anche piccolo, ti tratta come se avessi la pistola e non ti molla prima di aver approfondito la questione. Il fatto, però, che Murakami fosse in giro a cercarmi influenzava il rapporto rischi/benefici legato al possesso di un'arma. Mi domandai se Tatsu sarebbe riuscito a estorcere qualcosa di utile al tizio a cui avevo rotto il ginocchio. Ne dubitavo. Murakami aveva senz'altro previsto questa mossa di Tatsu e si era di certo cautelato contro qualsiasi rivelazione il suo uomo potesse fare sotto pressione. Forse Yukiko era a conoscenza di informazioni utili. Murakami si era sicuramente premunito anche su quel versante, ma valeva la pena provare. Soprattutto perché, dopo quello che era successo a Harry, Yukiko mi interessava a prescindere dal suo datore di lavoro. Me la immaginai, con i suoi capelli neri, il suo atteggiamento freddo e sicuro. Probabilmente aveva adottato delle precauzioni, dopo la morte di Harry. Forse era stato lo stesso Murakami a consigliarle prudenza. In ogni caso, non era un obiettivo troppo difficile. Ero in grado di avvicinarla. E sapevo anche come fare. Andai a Shinjuku, in un negozio di accessori per agenti segreti, dove comprai alcune cosette di cui avevo bisogno. Gli articoli in vendita facevano quasi paura: macchine fotografiche miniaturizzate e cimici per intercettazioni telefoniche. Pistole laser e gas lacrimogeni. Trapani con punta di diamante e grimaldelli. Disponibili, ovvio, «per soli scopi accademici». Mi accontentai di un manganello tattico ASP da agente segreto, una spaventosa spranga di acciaio nero che si riduceva a una lunghezza di venticinque
centimetri e si allungava fino a settantacinque con un semplice scatto del polso. La tappa successiva fu un negozio di articoli sportivi, dove comprai un rotolo di filo da pesca testato per pesi fino a quindici chili, del nastro bianco di quello usato per segnare la linea del traguardo, guanti, un berretto di lana, mutandoni lunghi e una borsa di tela. Terza fermata fu un drugstore, dove comprai della colonia di pessima qualità, un asciugamano e un pacchetto di sigarette con fiammiferi. Quindi, entrai in un negozio di abbigliamento, dove mi procurai un cambio d'abito poco ingombrante. Dopo di che passai da un negozio di articoli vari per acquistare una parrucca arruffata e una dentiera falsa e malconcia. Infine, in un negozio di articoli per imballaggio presi un rotolo di nastro adesivo trasparente da venticinque metri. «Shinjuku», pensai, come uno slogan pubblicitario, «per tutte le tue esigenze.» Mi imbucai in un altro albergo poco lussuoso, questa volta a Ueno. Puntai la sveglia del mio orologio a mezzanotte e mi coricai. Quando mi svegliai, mi infilai i lunghi mutandoni sotto i vestiti e mi fissai il manganello al polso con due giri di nastro adesivo. Inumidii l'asciugamano e dopo averlo strizzato lo infilai nella borsa di tela, insieme al resto del materiale che avevo comprato, per poi raggiungere a piedi la stazione, dove mi fermai a un telefono pubblico. Avevo conservato il cartoncino pubblicitario del Damask Rose che avevo prelevato in occasione della mia prima visita al locale. Lo estrassi e composi il numero. Rispose una voce maschile. Poteva essere Mr Rubizzo, ma non ne ero certo. «Hai, Damask Rose», disse la voce. In sottofondo si sentiva del pop giapponese, e io mi immaginai le ballerine sui due palchi del locale. «Salve», dissi in giapponese, salendo leggermente di tono con la voce per alterarla. «Potrebbe dirmi chi c'è stasera al locale?» La voce elencò una mezza dozzina di nomi. Tra questi, quello di Naomi. E anche quello di Yukiko. «Bene», dissi. «E resteranno tutte fino alle tre?» «Hai so desu.» Sì. «Bene», ripetei. «Ci vediamo dopo.» Riagganciai. Presi un taxi per Shibuya, dove eseguii un percorso antipedinamento che mi condusse a Minami-Aoyama. Ricordavo l'indirizzo di Yukiko da quella volta che, da Osaka, avevo cercato informazioni sul conto suo e di Naomi,
e non ebbi difficoltà a trovare il palazzo in cui abitava. L'entrata principale era sul davanti. Su un lato c'era l'entrata di un garage sotterraneo, accessibile solo da un cancello a grata metallica azionato da un lettore di carte magnetiche. Non c'erano altre vie d'uscita o d'entrata. Pensai alla sua M3 bianca. Posto che la sera in cui l'avevo vista sfrecciare a bordo dell'auto fosse la sua serata-tipo, quello doveva essere il mezzo con cui di norma andava al lavoro. Quella sera non sarebbe dovuta andare a casa di Harry, e Murakami era irreperibile o, comunque, doveva averle detto di stare alla larga. Tutto sommato, era abbastanza probabile che lei tornasse a casa poco dopo le tre. C'era un palazzo, accanto a quello dove abitava Yukiko, e i due edifici erano separati da un vicolo lungo e stretto. Mi inoltrai nell'ombra del vicolo e aprii la borsa con le mie mercanzie. Cominciai a cospargermi la zona intorno alle narici di acqua di colonia in dosi massicce. Dopo di che richiusi la borsa, la imboscai in un angolo e raggiunsi a piedi la vicina Roppongi. Non impiegai molto a trovare un barbone della misura giusta. Era seduto su un blocco di cemento all'ombra di uno dei cavalcavia della Roppongidori, accanto a un rifugio di cartone e di tela cerata. Indossava un paio di larghissime braghe marroni tenute strette da una cintura consunta, una lurida camicia a quadri con le punte del colletto abbottonate e un cardigan frusto che due generazioni prima doveva essere stato rosso. Mi avvicinai a lui. «Fuku o kokan site kurenai ka?» gli domandai, indicando il mio petto. Ti va di scambiarci i vestiti? Il barbone mi guardò per un lungo istante, come se fossi completamente svitato. «Nandatte?» mi domandò. Che diavolo stai dicendo? «Dico sul serio», dissi in giapponese. «È un'occasione che capita una sola volta nella vita.» Mi sfilai la giacca a vento di nylon che avevo addosso e gliela porsi. Lui la prese, incredulo, e senza dire una parola cominciò a togliersi i suoi stracci. Due minuti dopo ero io ad averli addosso. Nonostante l'abuso di acqua di colonia, la puzza era disgustosa. Lo ringraziai e tornai verso Aoyama. Tornato nel vicolo, estrassi dalla borsa la parrucca scompigliata e me la calcai in testa con l'aiuto del berretto di lana; dopo di che, mi ficcai in bocca la dentiera falsa. Accesi una sigaretta e la lasciai consumare, per poi cospargermi la faccia con un miscuglio di cenere e saliva. Accesi un fiammifero e mi diedi una rapida occhiata nello specchietto da dentista senza asticella che tengo attaccato al mio portachiavi. Mi riconobbi a malapena e
sorrisi con quella dentiera posticcia e marcia. Mi infilai i guanti e raggiunsi l'entrata del garage del palazzo di Yukiko. Portai con me il filo di nylon e il nastro adesivo trasparente, ma lasciai la borsa con tutto il resto nascosta nel vicolo. C'era una telecamera montata appena sopra il cancello del garage. Io feci un giro molto largo, per poi riavvicinarmi alla grata dal lato più lontano dalla strada. L'angolo dell'edificio sporgeva di alcuni centimetri, forse per ragioni puramente estetiche. Mi lasciai scivolare a terra, sfruttando la sporgenza come parziale riparo. Eventuali persone di passaggio non mi avrebbero visto. E se anche mi avessero scorto, mi avrebbero scambiato per un barbone, probabilmente ubriaco e addormentato. Il mio travestimento era un modo per ridurre al minimo il rischio che qualcuno, vedendomi, chiamasse la polizia. Chiunque si fosse avvicinato per vederci chiaro, sarebbe stato indotto dal mio aspetto e dalla puzza che esalavo a cacciarmi via e a finirla lì. Era tardi, e non c'era un gran viavai. Dopo circa un'ora, udii il rumore che aspettavo: un'auto che imboccava il vialetto del garage. Capii dal rumore che si era fermata davanti al cancello con il motore in folle. Mi figurai la persona alla guida nell'atto di abbassare il finestrino e di inserire una tessera magnetica nel lettore. Un attimo dopo sentii lo stridio meccanico della grata che si sollevava. Altri dieci secondi dopo, lo stridio si interruppe, e l'auto entrò nel garage. Lo stridio meccanico, a quel punto riprese. Contai fino a cinque - immaginando che la grata, per effetto della gravità, impiegasse meno tempo a scendere che a salire - e poi, sbucando di scatto dal mio nascondiglio, raggiunsi la grata in discesa e, sdraiatomi su un fianco, rotolai al di là di essa. Restando sdraiato per espormi il meno possibile, sollevai di poco la testa e mi guardai intorno. Quello spazio aveva la forma di un grande rettangolo. C'erano auto parcheggiate lungo tutt'e quattro le pareti, oltre a due file disposte al centro del locale. L'auto appena sopraggiunta approfittò di uno spazio libero in una delle due file centrali. Rotolai e mi rannicchiai, sempre tenendomi basso, dietro un'automobile vicina. Sul lato opposto a quello della grata d'ingresso c'erano gli ascensori e una porta su cui c'era scritto SCALE. Dall'auto appena arrivata scese una donna che raggiunse gli ascensori e premette un pulsante. Un secondo dopo le porte di un ascensore si aprirono per poi richiudersi subito alle spalle della donna. Mi guardai intorno. Pilastri di cemento in funzione di sostegno erano disposti a intervalli di pochi metri per tutto il garage. Non c'erano rampe, e
capii che il garage doveva essere a un solo piano. Dalle dimensioni e dall'ubicazione, invece, dedussi che veniva utilizzato esclusivamente dagli inquilini del palazzo soprastante. L'ideale sarebbe stato poter aggredire Yukiko nel momento in cui scendeva dall'auto, ma non sapevo quale fosse il parcheggio a lei riservato, e se mi fossi appostato nel luogo sbagliato, lei avrebbe potuto notarmi. L'unica alternativa era costituita dagli ascensori. Decisi di piazzarmi lì. Mi guardai intorno in cerca di telecamere. Scorsi soltanto un'enorme doppia installazione a circuito chiuso fissata al soffitto proprio davanti agli ascensori, una telecamera rivolta verso questi ultimi, l'altra a monitorare il garage. Fatta eccezione per i luoghi con particolari esigenze di sicurezza, dove i sistemi video a circuito chiuso vengono monitorati in tempo reale da guardie addette a questo compito, le telecamere a circuito chiuso registrano su nastri che vengono cancellati e coperti da altre immagini ogni ventiquattr'ore, a meno di incidenti che ne rendano necessario l'esame. In un edificio residenziale di quel tipo, era praticamente certo che non ci fossero addetti a sorvegliare il garage, a quell'ora. Di certo, però, l'indomani qualcuno avrebbe guardato le registrazioni, e mi rallegrai del mio travestimento. C'era una specie di guardrail metallico a U davanti all'entrata dell'ascensore, con tre stretti varchi a canalizzare l'afflusso. Sembrava un sistema per costringere all'uso dei montacarichi i residenti che dovevano trasportare oggetti di grosse dimensioni. A me sarebbe tornato utile per un altro motivo. Estrassi il filo di nylon e ne legai un'estremità al vertice sinistro della U metallica, all'altezza del mio ginocchio. Quindi srotolai il filo sul pavimento, facendolo passare davanti all'accesso situato nella parte bassa della U e davanti a quello sul vertice destro, in modo che ogni varco fosse coperto. Fissai il filo a terra con del nastro adesivo trasparente e poi mi avviai verso il pilastro più vicino, continuando a srotolare.. Mi accucciai e usando una delle chiavi attaccate al mio portachiavi tagliai il filo. Infilai il rocchetto in una delle tasche dei pantaloni, insieme al nastro adesivo, per poi avvolgere il filo in eccesso intorno a una delle mie mani guantate. Mi alzai in piedi e orientai lo specchietto da dentista in modo da poter tenere d'occhio l'ingresso del garage senza sporgermi da dietro il pilastro. Aspettai in quella posizione per circa un'ora. Due volte sentii il rumore della grata e controllai tramite lo specchietto. Nel primo caso arrivò una
Saab blu; nel secondo, una Nissan nera. La terza auto era bianca. Una BMW. Una M3. Il mio cuore cominciò ad accelerare. Espirai lentamente e tirai il filo di nylon. L'auto era sempre più vicina. Si fermò a un paio di metri da me. Aveva un ottimo parcheggio. Probabilmente pagava un sovrapprezzo, per questo. Sentii la portiera dell'auto aprirsi e richiudersi. E poi il chirp chirp della serratura elettronica che si bloccava. Guardai nello specchietto per accertarmi che si trattasse proprio di Yukiko e che fosse sola. Tutto come previsto. Portava trench nero e tacchi alti. Aveva una borsa a tracolla. Non era l'abbigliamento ideale per reagire o scattare, ma le stava benissimo. Vidi che nella mano destra stringeva una boccetta di metallo: Mace, immaginai, o spray al pepe. Una donna sola, in un garage, di notte... Probabilmente, era ordinaria amministrazione, per lei. Eppure avevo la sensazione che stesse pensando a Harry, e a me. Bene. Camminava con una certa fretta. La vidi avvicinarsi al perimetro del guard-rail di metallo. L'aria entrava e usciva dalla mia bocca a brevi e silenziosi flussi. Uno. Due. Tre. Tirai il filo con forza. Lo staccai dal punto in cui era fissato a terra con il nastro adesivo, sollevandolo in tal modo all'altezza delle caviglie. La sentii gridare di sorpresa, quando inciampò. Avrebbe anche potuto recuperare l'equilibrio, ma le sue eleganti scarpe con tacco giocarono a mio favore. Sbucai da dietro il pilastro appena in tempo per assistere alla sua caduta. Rimisi le chiavi in una tasca dei pantaloni e mi affrettai a raggiungere Yukiko. Quando le fui accanto, lei si era già rialzata a quattro zampe. Aveva ancora in mano la boccetta metallica. Le calpestai il polso e lei cacciò un urlo. Mi chinai e raccolsi quello che stringeva tra le dita. Diedi una rapida occhiata: oleoresin capsicum al 17 per cento. Spray al pepe. Roba buona. Intascai la boccetta e trascinai Yukiko dietro l'automobile più vicina, al riparo dalle telecamere. La spinsi contro la fiancata. Sembrava impaurita, ma non diede segno di avermi riconosciuto. Dato il mio aspetto, mi aveva probabilmente scambiato per un rapinatore o per uno stupratore. «Non ti ricordi di me, Yukiko?» le domandai. «Ci siamo conosciuti al Damask Rose. Sono amico di Harry. Lo ero, anzi.» Yukiko si fece pensosa per un attimo, nel tentativo di far quadrare i dati inviati dagli occhi con quelli provenienti dalle orecchie. Poi, però, mi rico-
nobbe. Spalancò la bocca, senza emettere alcun suono. «Dove posso trovare Murakami?» le domandai. Lei chiuse la bocca. Respirava rapidamente con il naso, ma a parte questo riusciva a mascherare benissimo la sua paura. La sua freddezza era quasi ammirevole. «Se vuoi vivere, devi dirmi quello che mi interessa», minacciai. Lei mi guardò senza dire nulla. Le sferrai un uppercut allo stomaco. Abbastanza forte da farle male, ma non troppo. Doveva essere in grado di parlare. Yukiko si piegò in due, boccheggiante. «Il prossimo arriverà sul tuo bel faccino», dissi. «E quando ti avrò rovinato il naso, i denti e gli occhi, avrai finito di ballare. Ora, dimmi: chi lo ha ammazzato? Tu o Murakami?» La sua risposta, in realtà, non aveva la minima importanza, per me. Del resto, non potevo certo fidarmi di lei. Volevo, però, concederle l'opportunità di invocare qualche attenuante, affinché si convincesse di poter sopravvivere, nel caso mi avesse indicato dove trovare il suo datore di lavoro. «È stato... è stato lui», rispose lei ansimando. «Va bene. Ora dimmi dove posso trovarlo.» «Non lo so.» «Ti conviene spremere le meningi.» «Non è facile trovarlo. Io non so come raggiungerlo. È lui che ogni tanto si fa vedere al Damask Rose.» Lei guardò alle mie spalle, verso l'ingresso del garage. Io scossi la testa. «So a che cosa stai pensando», dissi. «Se tu riuscissi a tirarla in lungo fino all'arrivo della prossima auto, io sarei costretto a fuggire e a lasciarti andare. O magari qualcuno ha visto tutto grazie a quelle telecamere e ora sta venendo ad aiutarti. In ogni caso, hai capito male. Se dovesse arrivare qualcuno e tu ancora non mi avessi detto quel che voglio sapere, ti ucciderei. Ora dimmi dov'è.» Lei scosse la testa. «Il tempo sta scadendo», dissi. «Voglio darti un'ultima possibilità. Se mi dici dov'è Murakami, ti lascio andare. Altrimenti, ti uccido. Qui, adesso.» Lei serrò le mascelle e mi guardò. Cristo, quant'era dura! Avrei dovuto immaginarlo, dopo aver visto come trattava Murakami, che era instabile come nitroglicerina. «Okay», dissi. «Hai vinto tu.» Le tirai un altro uppercut, abbastanza forte, questa volta, da causare dan-
ni seri. Lei si piegò in avanti esalando di colpo tutta l'aria che aveva nei polmoni. Io mi piazzai alle sue spalle, le posai una mano sulla testa e con l'altra l'afferrai per il mento, spezzandole il collo con un movimento secco. Prima ancora di toccare terra era già morta. Non avevo mai fatto una cosa del genere a una donna. Pensai per un attimo a quello che avevo detto a Naomi a proposito di subornazione, e a quello che aveva detto Midori parlando di espiazione. Eppure, oltre a notare con distacco la relativa facilità di quella manovra, dovuta alla minore massa muscolare della vittima, non provai nulla. «Salutami Harry», dissi. Prelevai la sua borsetta, per dare l'impressione che fosse rimasta vittima di una normale rapina, recuperai il filo di nylon e il nastro adesivo è salii per le scale fino al pianterreno. Uscii dal portone principale tenendo la testa bassa per sfuggire all'occhio della telecamera. Svoltai l'angolo e mi infilai nel vicolo, dove mi liberai del berretto e della parrucca e mi ripulii il viso dalla cenere con l'asciugamano umido. Mi svestii dei panni del barbone e dei mutandoni, e indossai i vestiti nuovi, per infilare il resto nella borsa, di cui passai mentalmente in rassegna il contenuto per accertarmi di non aver dimenticato nulla. Inspirai a fondo e tornai sulla Aoyama-dori. Percorsi alcuni isolati, mi fermai sotto un lampione ed esaminai alla svelta il contenuto della borsetta di Yukiko. Non trovai nulla di interessante. Percorsi la Roppongi-dori finché non trovai un gruppetto di barboni. Lasciai borsa e borsetta nei loro paraggi e proseguii, sfilandomi i guanti e gettandoli a terra. Della dentiera falsa mi sarei sbarazzato altrove. C'era pur sempre traccia del mio DNA, su quei denti fasulli, tanto più che non erano esattamente l'articolo che dei barboni di Tokyo avrebbero potuto riciclare. Svoltando in un vicolo, provai la boccetta di spray al pepe per verificare che funzionasse. Decisi di tenerla. Non appena Murakami avesse appreso di Yukiko, qualche difesa in più mi sarebbe servita. 19. Il pomeriggio del giorno seguente eseguii una procedura antisorveglianza che si concluse alla stazione Harajuku della Japan Railway. Uscii dalla stazione e lasciai che l'eterno fiume dei consumatori di merci hip-hop, abbigliati in modo che un extraterrestre avrebbe sicuramente tro-
vato di suo gradimento, mi trasportasse sulla Takeshita-dori, la mecca dello shopping per gli adolescenti di Tokyo. Solo a Tokyo una via traboccante di stranezze come la Takeshita-dori poteva sorgere accanto alle eleganti sale da tè e ai negozi di antiquariato della Brahms-no-komichi, e questo contrasto è uno dei motivi per cui Harajuku è sempre stata una delle zone di Tokyo che preferisco.' Tatsu mi aveva garantito che Biddle non usava guardie del corpo, ma non c'è niente di meglio di una verifica indipendente per farmi scendere la pressione arteriosa. Molti erano i possibili punti di accesso al Jardin de Luseine, e io li studiai tutti, cercando di capire dove avrei sistemato dei sorveglianti se avessi dovuto proteggere qualcuno che si trovava all'interno del ristorante. Procedetti a cerchi concentrici sempre più stretti finché non fui certo che fuori non ci fosse appostato nessuno. Tornai, allora, verso la Takeshita-dori, dove imboccai un vicoletto che passava proprio accanto al ristorante. Vidi Biddle attraverso l'enorme vetrata che si apriva sul lato del ristorante affacciato sul vicolo. Era seduto da solo e leggeva il giornale, sorseggiando qualcosa da una tazza di porcellana. Lo stesso uomo che avevo visto in fotografia, elegante nel suo completo monopetto blu gessato, con camicia bianca dall'ampio colletto è una cravatta rossa di reps. L'effetto d'insieme era fastidioso, ma non troppo: più britannico che americano; più amministratore delegato che capo delle spie. Era seduto a uno dei tavoli accanto alla vetrata, di profilo rispetto al vicolo, e mi parve perciò decisamente poco sensibile all'ambiente circostante: non capiva che una vetrata non rappresentava certo un ostacolo per un cecchino o per un qualsiasi pistolero; ragionava da civile più che da spia. Lo osservai in silenzio per qualche istante e immaginai una brillante intelligenza innata a cui lui probabilmente attingeva nelle occasioni in cui si scopriva inadeguato alle esigenze del mondo reale; scuole della Ivy League e una laurea che gli avevano insegnato tutto di anticamere e corridoi di palazzo e nulla di quel che accade in strada; un matrimonio senza passione ma dignitoso con una donna che, come previsto, gli aveva dato due o tre figli e l'aveva diligentemente accompagnato nella sua carriera, nascondendo il suo crescente senso di fallimento e di disperazione dietro sorrisi da festa mondana. Entrai al Jardin de Luseine. La porta si aprì e si richiuse con un nitido schiocco, ma Biddle non alzò neppure gli occhi per controllare chi fosse entrato.
Mi avviai sullo scuro pavimento di legno, sotto i candelieri art déco, tra i tavoli e le sedie d'epoca vittoriana, passando accanto a un grande pianoforte a coda. Solo quando mi fermai al suo tavolò Biddle si degnò di distogliere l'attenzione dalla lettura. Gli ci volle un mezzo secondo per riconoscermi. E a quel punto ebbe un sussulto. «Che diavolo...!» balbettò. Mi sedetti. Lui, di fronte a me, fece per alzarsi, ma io lo fermai posandogli saldamente una mano sulla spalla. «Resta seduto», gli dissi con voce sommessa. «Tieni le mani bene in vista. Sono qui solo per parlare. Se avessi voluto ucciderti, saresti già morto da un pezzo.» Strabuzzò gli occhi. «Che diavolo!...» «Calmati», gli dissi. «Mi cercavi? Eccomi qui.» Biddle espirò con foga e deglutì. «Scusami», disse. «Il fatto è che non mi aspettavo di vederti comparire così.» Aspettai. «D'accordo», disse lui dopo qualche attimo. «La prima cosa da dirti, forse, è che tutta questa storia non ha niente a che vedere con William Holtzer.» Non smisi il mio atteggiamento di attesa. «Del resto, non aveva tanti sostenitori. Nessuno sente la sua mancanza.» Avevo già intuito che Holtzer non sarebbe mancato neppure ai suoi familiari. Prolungai la mia attesa. «Quel che vogliamo... la ragione per cui ti cercavamo», riprese Biddle, «è che vorremmo proporti... ehm... di interferire con le attività di una certa persona.» «Un nuovo eufemismo», pensai. «Che meraviglia!» «Di chi si tratta?» domandai, per fargli capire che finalmente era sulla strada giusta. «Be', un attimo. Prima di parlarne, vorrei sapere se sei interessato.» Lo guardai. «Biddle, sai benissimo quanto sono selettivo al momento di decidere se "interferire" o meno con le attività di qualcuno. È evidente che, senza sapere di chi si tratta, non so dire se sono interessato o no.» «È un uomo. Un pezzo grosso.» Annuii. «Bene.» «"Bene" significa che sei interessato?» «Significa che, per il momento, non mi hai ancora indotto al più totale disinteresse.» Biddle annuì. «È uno che conosci. L'hai conosciuto di recente, mentre
teneva d'occhio un tuo amico.» Solo la mia antica abitudine all'autocontrollo mi impedì di mostrarmi sorpreso. «Dimmi chi è.» «Kanezaki.» «Perché?» Biddle si accigliò. «In che senso "perché"?» «Diciamo che le mie infelici esperienze con la tua organizzazione mi impongono di approfondire più del solito.» «Mi dispiace, ma non posso dirti altro.» «Mi dispiace, ma dovrai farlo.» «Altrimenti non accetterai la proposta?» «Altrimenti ti ucciderò.» Biddle sbiancò in volto, ma a parte questo il suo contegno non cambiò. «Non vedo che bisogno ci sia di passare alle minacce», disse. «In fondo, stiamo discutendo di affari.» «"Minacce"», ripetei, con aria pensierosa. «Sono sopravvissuto a lungo proprio individuando ed eliminando preventivamente ogni "minaccia". Perciò, questa è la mia offerta: convincimi a non considerarti una "minaccia", e io non ti ucciderò.» «Non ci credo», disse. «Sai chi sono io?» «Dimmelo, così lo faccio scrivere bello grosso sulla tua lapide.» Mi guardò male, ma dopo un momento disse: «D'accordo, ti dirò tutto, ma solo perché è utile che tu sappia, non certo a causa delle tue minacce.» Si portò la tazza di porcellana alle labbra e bevve. «Kanezaki è un fuorilegge. Gestisce un'operazione segreta che potrebbe causare imbarazzo su entrambe le sponde del Pacifico, se si dovesse venire a sapere della sua esistenza.» «L'operazione Crepuscular?» domandai. Biddle restò di stucco. «Tu sai...? Come fai a sapere? Te l'ha detto Kanezaki?» «Che testa di cazzo!» pensai. «Qualunque cosa sapessi, ora me ne hai dato conferma.» Lo guardai. «Biddle, come credi che abbia fatto a salvare la pelle per così tanto tempo in questo pericoloso campo lavorativo? Mi preoccupo sempre di sapere in anticipo quali sono gli affari in cui vado a cacciarmi e se i benefici che ne traggo compensano il rischio da correre. È così che me la cavo e soddisfo i clienti.» Gli diedi il tempo di elaborare la mia visione del mondo.
«Che cosa sai dell'operazione Crepuscular?» mi domandò a un certo punto, cercando di farsi più furbo. «Un sacco di cose. Ora dimmi: perché hai deciso che Kanezaki è diventato un intralcio? Da quel che avevo capito, fino a poco tempo fa era il tuo pupillo.» Biddle arricciò il naso, come se avesse sentito un odore sgradevole. «Lui si crede un piccolo genio. Mi perdonerai, però, se dico che il fatto di avere un po' di sangue giapponese non conferisce automaticamente una speciale conoscenza di questo paese.» Scossi la testa, per fargli capire che non mi sentivo offeso dal suo commento. «La conoscenza di questo paese, come di qualsiasi paese, richiede anni di studio, esperienza, sensibilità», disse. «Quello sbarbato di Kanezaki, invece, crede di sapere già abbastanza da poter concepire e gestire una sua personale politica estera.» Annuii per mostrarmi d'accordo con le sue affermazioni, e lui riprese a parlare. «C'era questa operazione, insomma, che è stata dichiarata conclusa sei mesi fa. Non dico di essere contento di questa conclusione, ma le mie opinioni personali in materia sono irrilevanti. Quel che importa è che Kanezaki ha continuato a mandare avanti l'operazione da solo.» «Posso immaginare che questo abbia creato dei problemi», dissi. «Già, ed è un peccato, per tutta una serie di motivi. Kanezaki ci mette molta passione e non è privo di talento, ma questa operazione dev'essere interrotta, prima che causi danni irreparabili.» «Che cosa vuoi che faccia?» domandai. Biddle mi guardò. «Vorrei che tu... Ascolta: ho saputo che operi in modo che queste cose sembrino dovute a cause naturali o accidentali.» «Infatti», dissi, notando che dal «noi» iniziale era passato a parlare in prima persona. «Bene. Vorrei che tu intervenissi proprio in questo modo. C'è una tariffa standard?» «Per un agente CIA? Sarebbe molto alta.» «Non c'è problema. Quant'è?» Era così ansioso di concludere l'accordo, che ebbi quasi la tentazione di fregarlo, cioè di farmi dare i soldi, per poi dirgli: «Sayonara, coglione.» E non avevo ancora deciso di non farlo. Avevo, però, qualche altra domanda da porgli.
«C'è una cosa che volevo sapere», dissi, aggrottando la fronte e sforzandomi il più possibile di assomigliare al tenente Colombo. «Chi ti ha parlato di me? Come fai a conoscere i miei metodi?» «La CIA ha un dossier sul tuo conto», rispose. «Si tratta di informazioni raccolte in gran parte da Holtzer.» «Ah», dissi io, «certo. I conti tornano. E quando hai cominciato a cercarmi era per propormi questo stesso lavoro?» Non poteva immaginare che io sapessi della sua presenza al fianco di Kanezaki, la prima volta che quest'ultimo aveva avvicinato Tatsu per chiedergli dove fossi. Era una domanda trabocchetto. Lui, però, non ci cascò. «No», disse. «In origine, l'idea era di coinvolgerti nell'operazione Crepuscular, ma ora è tutto finito. Potrebbe saltar fuori qualcosa più avanti, ma per il momento ho solo bisogno che tu faccia il tuo solito lavoro.» Annuii. «È strano, però. Tu, in fondo, avevi mandato Kanezaki a cercarmi, no?» «Sì», ammise. Aveva un'aria estremamente cauta, come se già temesse per la mia domanda successiva e stesse pensando a una possibile risposta. «Be', non è strano che adesso tu mi venga a chiedere di «interferire» con le sue attività?» Biddle scosse la testa. «Lui aveva solo il compito di localizzarti, non di prendere contatto. Ero io quello che doveva incontrarsi con te.» Sorrisi, intravedendo la verità. «Avevo letto il tuo dossier», disse. «Immaginavo che se ti fossi reso conto di avere qualcuno alle costole ti saresti sentito minacciato e avresti agito di conseguenza.» Mi scappò quasi da ridere. Biddle aveva sperato di ottenere il suo scopo senza pagare. «E del tizio che lo accompagnava che cosa mi dici?» domandai. «Kanezaki mi ha raccontato che era una scorta diplomatica.» «Infatti. Che cosa vuoi sapere?» «Perché hai fornito una guardia del corpo a una persona che speravi venisse uccisa?» Biddle serrò le labbra. «Un'operazione di sorveglianza in solitaria contro uno come te è impossibile. Kanezaki aveva bisogno di un collega. Ho cercato al di fuori della CIA, qualcuno che non avesse idea di quello che stava succedendo.» «Una pedina sacrificabile.»
«Puoi vederla come ti pare.» «Biddle», dissi, «comincio ad avere l'impressione che per te si tratti di una questione personale.» Ci fu un lungo silenzio, dopo di che lui disse: «E se anche fosse?» Mi strinsi nelle spalle. «Per me non fa differenza, purché mi si paghi. Però cominciamo male. Prima mi hai detto che Kanezaki è un fuorilegge, che le sue attività potrebbero causare imbarazzo su entrambe le sponde del Pacifico. Ora, invece, sembra che l'imbarazzo sarebbe molto più localizzato.» Biddle mi guardò. «Quello che ti ho detto è la verità, ma è anche vero che ho delle ragioni personali. Che cosa credi che mi capiterebbe, in quanto diretto superiore di Kanezaki, se si venisse a sapere delle sue attività segrete?» «Finiresti in una tempesta di merda, probabilmente, ma non vedo come il suicidio di Kanezaki possa risolvere i tuoi problemi. Non esistono prove delle sue attività, ricevute di pagamenti o cose del genere?» Lui socchiuse gli occhi. «Mi sto occupando anche di questo», disse. «Certo, tu la sai più lunga di me. Era solo per parlare. Comunque, dove credi che li prendesse i soldi, Kanezaki, per mandare avanti l'operazione Crepuscular dopo che in alto loco avevano chiuso i rubinetti? Immagino si tratti di somme piuttosto cospicue...» Biddle guardò alla sua destra. Il suo sguardo diceva: «Devo sbrigarmi a trovare una risposta.» «Non saprei», rispose. «Se continui a mentirmi», dissi, in tono suadente, «non potrò fare a meno di considerarti una minaccia.» Mi guardò per un lungo istante, dopo di che disse: «Va bene. Kanezaki prendeva i soldi da un certo Fumio Tanaka, un tale che ha ereditato una fortuna e ostenta simpatie politiche di destra. Non mi pare, però, che abbia rilevanza per il nostro affare.» Tacqui, come se stessi pensandoci su. «Be', se anche Kanezaki sparisce dalla circolazione, resta pur sempre Tanaka, o no? Perché non vuoi che "interferisca" anche con le sue attività?» Biddle scosse la testa con decisione. «No», disse. «Non sarà necessario. Ti ho chiesto aiuto per una questione particolare e ti pregherei di darmi una risposta limitatamente a tale questione.» «Devi dirmi come fare per mettermi in contatto con te», dissi. «Allora, accetti?»
Lo guardai. «Prima voglio riflettere sulla tua storia. Se mi convinco di poter lavorare con te senza correre rischi, te lo farò sapere.» Biddle prese da una tasca una Mont Blanc Meisterstück, svitò il cappuccio e scarabocchiò un numero su un tovagliolo di carta. «Mi trovi a questo numero», disse. «Ah, un'ultima cosa», dissi, prelevando il fazzoletto. «Di recente, il tizio che avete usato per tentare di arrivare a me, Haruyoshi Fukasawa, è morto.» Biddle deglutì. «Lo so. Kanezaki mi ha informato.» «Che cos'è successo, secondo te?» «Da quel che mi ha detto Kanezaki, sembrerebbe un incidente.» Annuii. «Il fatto è che Fukasawa era mio amico. Non era un gran bevitore, eppure risulta che fosse pieno quand'è caduto dal tetto. Strano, no?» «Se credi che siamo i qualche modo coinvolti in questa storia...» «Magari sai dirmi chi è stato.» Guardò di nuovo verso destra. «Non lo so.» «Voialtri stavate seguendo Harry, e io so che la sua morte non è stata un incidente. Se non hai altro da aggiungere, dovrò prendere in considerazione l'ipotesi che siate stati voi.» «Te l'ho detto: non so chi sia stato. Ammesso e non concesso che non sia stato un incidente.» «Come avete fatto a scoprire l'indirizzo di Harry?» Mi ripeté la storia della lettera di Midori, già raccontata da Kanezaki. «Se gli unici elementi a disposizione erano quelli», dissi, «devi aver fatto ricorso a manodopera locale.» Mi guardò. «Evidentemente, sai molte cose, ma io non ho intenzione di confermare o smentire alcunché riguardo a questa storia della manodopera locale. Se credi che questa manodopera locale possa essere coinvolta nella morte del tuo amico, io non posso fare nulla per aiutarti. Come ti ho già detto, non so nulla.» Non sarei riuscito a cavargli nient'altro in quel contesto. Sarebbe stato diverso se fossimo stati soli. Mi alzai e prima di andarmene dissi: «Mi farò sentire». Tatsu e io avevamo stabilito di vederci al parco Yoyogi, dopo il mio incontro con Biddle. Andai all'appuntamento adottando le consuete precauzioni. Lui era lì ad attendermi, seduto su una panchina sotto uno degli innumerevoli aceri del parco, e leggeva il giornale, simile ai pensionati della
zona che passavano la giornata allo stesso modo. «Com'è andata?» mi domandò. Lo misi al corrente di quello che avevo saputo da Biddle. «Tanaka lo conosco», disse quando ebbi terminato. «Negli anni Venti suo padre ha fondato un'impresa elettronica che è sopravvissuta alla guerra e, in seguito, si è molto ingrandita. Tanaka, alla morte del padre, ha venduto tutto e da allora vive di rendita. Si dice che, per essere un uomo sulla settantina, abbia una libido enorme. Pare anche che abusi di codeina e di altri narcotici.» «E sul piano politico?» «Nulla, per quel che ne so io.» «Perché, allora, dovrebbe finanziare un'operazione CIA a favore dei riformatori?» «Vorrei che tu mi aiutassi a scoprirlo.» «Perché?» Mi guardò. «Mi serve uno sbirro cattivo. E forse riusciamo a trovare una traccia che ci porti da Murakami.» «Nessuna novità dal tizio che avete preso in custodia?» Tatsu scosse la testa. «Il problema è che ha molta più paura del suo capo che di noi. Sono sempre rimasto colpito, però, dal modo in cui cambia l'atteggiamento di una persona dopo quarantotto o settantadue ore che non dorme. A quel punto, potremmo apprendere qualcosa.» Prese il suo cellulare e digitò un numero. Fece qualche domanda. Ascoltò. Diede istruzioni. E infine disse: «So da. So da. So.» Esatto. Esatto. Sì. Interruppe la telefonata e si voltò verso di me. «Sta arrivando un mio uomo a prenderci. Ci porterà da Tanaka, che abita a Shirokanedai.» Shirokanedai è probabilmente il quartiere più lussuoso di Tokyo. C'è un'atmosfera rilassata e di classe, in quella zona. Le donne del quartiere, note in città come shiroganeze, sembrano a loro agio nell'immancabile pelliccia mentre portano a spasso i loro barboncini o i loro pomeri tra un tè, lo shopping e l'appuntamento dal parrucchiere; gli uomini, sicuri al volante delle BMW e delle Mercedes che li portano ai loro remunerativi posti di lavoro; i bambini, rilassati, spensierati, ancora del tutto inconsapevoli del fatto che il loro quartiere, a Tokyo e in qualsiasi altro posto, è l'eccezione più che la regola. L'uomo di Tatsu venne a prelevarci come previsto e ci accompagnò, in dieci minuti, a Shirokanedai. Tanaka abitava in un'enorme villa a due piani in Shirokanedai 4-chome,
proprio di fronte all'ambasciata dello Sri Lanka. A parte le dimensioni, le caratteristiche che più balzavano all'occhio erano le auto parcheggiate nel vialetto d'accesso: una Porsche 911 GT bianca con spoiler gigante e Una Ferrari Modena rosso fuoco. Erano entrambe immacolate e lucenti, e io mi domandai se Tanaka le guidasse davvero o si limitasse piuttosto a esibirle a mo' di trofei. La proprietà era recintata e sorgeva su un appezzamento sopraelevato; nel complesso, faceva l'effetto di un castello affacciato sulle più povere abitazioni circostanti. Tatsu e io scendemmo dall'auto e varcammo il cancello che non era chiuso a chiave. Tatsu premette un pulsante accanto alla porta d'ingresso producendo, all'interno, un prolungato e baritonale scampanio. Un attimo dopo, la porta fu aperta da una bella ragazza. Doveva essere del Sudest asiatico - filippina, forse - e indossava la classica tenuta nera e bianca da cameriera, con tanto di crestina di pizzo bianco a ornare i capelli raccolti. «Posso esservi utile?» domandò, guardando prima Tatsu e poi me. «Sono Ishikura Tatsuhiko, capo-dipartimento del Keisatsucho», disse Tatsu, mostrando il suo tesserino. «Vorrei parlare con Tanaka-san. Potrebbe chiamarlo?» «Avevate un appuntamento?» «No», rispose Tatsu, «ma sono sicuro che sarà felicissimo di vedermi.» «Un attimo solo, prego.» Richiuse la porta, e noi aspettammo. Un attimo dopo la porta si riaprì, ma questa volta comparve un uomo. Lo riconobbi all'istante: il tizio che avevo notato al Damask Rose, quello dall'aspetto chimicamente e chirurgicamente ringiovanito. «Sono io, Tanaka», disse l'uomo. «Come posso esservi d'aiuto?» Tatsu mostrò nuovamente il tesserino. «Vorrei farle alcune domande. Per il momento, il mio interesse nei suoi confronti è marginale, del tutto informale. La sua indisponibilità a collaborare, però, potrebbe indurmi a cambiare idea.» Tanaka rimase impassibile, ma la rigidità del suo corpo e l'inclinazione della testa lasciavano intendere che la sua attenzione era tutta per Tatsu. Nonostante tutti gli avvocati che certamente aveva alle sue dipendenze, nonostante la quantità di sicofanti e tirapiedi a sua disposizione, quell'uomo aveva paura dei guai seri, di quel genere di guai seri che doveva avere appena intravisto guardando Tatsu negli occhi. «Ma certo... Prego, entrate», ci disse. Ci togliemmo le scarpe e lo se-
guimmo lungo l'ingresso circolare dal pavimento di marmo a scacchi bianchi e neri. In fondo a questo passaggio c'era una scala a chiocciola; ai lati, copie di statue greche. Entrammo in una stanza rivestita di mogano, le cui quattro pareti erano interamente occupate da librerie. Come le auto nel vialetto, si aveva l'impressione che quei libri fossero spolverati spesso, ma mai consultati. Tatsu e io ci sedemmo su un divano di pelle bordò. Tanaka si sedette di fronte a noi, in una poltrona coordinata. Ci domandò se desiderassimo qualcosa da bere o da mangiare. Noi declinammo l'offerta. «Non ho capito come si chiama il suo collega», disse Tanaka, guardando verso di me. «La sua presenza, qui, è informale come la mia, per il momento», disse Tatsu. «Spero che si possa continuare così.» «Certo», disse Tanaka, tralasciando, a causa del crescente nervosismo, il fatto che Tatsu non aveva risposto alla sua domanda. «Certo. Ora, dite pure: in che cosa posso servirvi?» «C'è qualcuno che sta tentando di coinvolgerla in un'operazione dei servizi segreti americani mirante a finanziare certi uomini politici giapponesi», disse Tatsu. «Per meglio dire, io so per certo che lei è coinvolto in questa operazione, ma sono altrettanto convinto del fatto che lei non ne è il responsabile. Lei, però, ora dovrebbe corroborare questa mia convinzione con dei fatti.» L'abbronzatura di Tanaka svanì all'istante. «Io credo... Credo sia meglio che mi consulti con i miei legali.» Mentre pensavo a come avrei potuto ucciderlo, lo guardai in modo da farmi leggere nel pensiero. «Equivarrebbe a una totale mancanza di disponibilità», dissi. Tanaka guardò me e poi Tatsu. «Il denaro non è mio. Non proviene da me.» «Bene», disse Tatsu. «Si spieghi.» Tanaka si inumidì le labbra. «Questa conversazione rimarrà tra noi?» chiese Tanaka. «Se viene a saperlo chi dico io, le cose si metterebbero molto male, per me.» «Finché lei si mostrerà disponibile», disse Tatsu, «non avrà nulla da temere.» Tanaka mi guardò come a chiedere conferma. Io sorrisi e gli dissi che in segreto speravo nella sua mancanza di disponibilità, per potergli mettere le mani addosso.
Tanaka deglutì. «D'accordo. Sei mesi fa mi è stato chiesto di mettermi in contatto con un tale che lavora all'ambasciata degli Stati Uniti. Un certo Biddle. Mi hanno spiegato che Biddle rappresentava certi poteri intenzionati a garantire una fonte di finanziamenti elettorali per certi politici riformisti.» «Chi gliel'ha detto?» domandò Tatsu. Tanaka lo guardò, ma poi abbassò lo sguardo. «La stessa persona che mette i soldi per questa operazione.» Tatsu lo guardò. «La pregherei di essere più preciso.» «Yamaoto», sussurrò Tanaka. E poi aggiunse: «Vi prego, io sto collaborando. Questa conversazione deve assolutamente restare tra noi.» Tatsu annuì. «Vada avanti», disse. «Mi sono incontrato con Biddle e gli ho detto, come mi era stato chiesto di fare, che il Giappone aveva bisogno di riforme politiche radicali e che io ero determinato a contribuire in qualsiasi modo possibile. Da allora ho fornito a Biddle un centinaio di milioni di yen da distribuire ai politici.» «Questa gente è vittima di una trappola», disse Tatsu. «Io voglio smascherare i responsabili.» Tanaka lo guardò. «Io ho soltanto seguito le istruzioni», disse. «Non sono propriamente coinvolto.» «Capisco», disse Tatsu. «Il suo atteggiamento mi sembra costruttivo. Ora vada avanti.» «Per tre mesi ho pagato Biddle in contanti senza chiedergli nulla in cambio. Poi ho fatto finta di temere di poter essere stato truffato. "A chi finiscono, in realtà, questi soldi?", gli ho domandato. "Se non me lo dice, io smetto di finanziare l'operazione!" All'inizio ha cercato di resistere. Poi mi disse che io, probabilmente, conoscevo già questa gente, che sarei riuscito a individuarle anche solo leggendo i giornali. Alla fine, ha fatto i nomi. Io mi sono finto soddisfatto e gli ho dato altri soldi. Dopo di che ho ricominciato a mostrarmi paranoico. Gli ho detto: "Lei mi sta imbrogliando. Deve dimostrarmi che il mio denaro arriva veramente alle persone che ne hanno bisogno e non si ferma nelle sue mani!" Anche in questo caso, ha tentato di discutere, ma alla fine si è deciso a rivelarmi il luogo e la data di un incontro e poi di un altro.» «Gesù Cristo», pensai. «Di quanti incontri Biddle le ha dato notizia?» domandò Tatsu. «Quattro incontri.» «E lei che ne ha fatto di queste informazioni?»
«Le ho passate a... alla persona che mi forniva i soldi, secondo le istruzioni ricevute.» Tatsu annuì. «Mi dia i nomi dei partecipanti a questi incontri e le date in cui si sono svolti.» «Non ricordo le date esatte», rispose Tanaka. Io sorrisi e diedi l'impressione di volermi alzare. Tanaka sussultò. Tatsu mi posò una mano su un braccio come per frenarmi e disse: «Sia il più possibile preciso.» Tanaka recitò quattro nomi. Il luogo dell'appuntamento un campo da baseball. Io mi rimisi comodo. «Ora mi dica tutti gli altri nomi che ha appreso da Biddle», incalzò Tatsu. Tanaka obbedì. Tatsu non prese appunti; evidentemente, quei nomi li conosceva. «Molto bene», disse, quando Tanaka ebbe finito. «Lei è stato molto disponibile, e io non vedo ragione di parlare con chicchessia di questa nostra conversazione. Naturalmente, se dovessi avere bisogno di altre informazioni, potrei rifarmi vivo. Sempre con la massima discrezione.» Tanaka annuì. Non dava l'impressione di stare granché bene. La cameriera ci accompagnò alla porta. Fuori c'era l'auto ad attenderci. Salimmo a bordo e ci allontanammo. Chiesi di essere lasciato alla vicina stazione Meguro della Japan Railway. L'autista di Tatsu ci portò dove richiesto e attese in auto mentre io e Tatsu, all'esterno, cercavamo di tirare un po' di somme. «Che cosa ne pensi?» gli domandai. «Ha detto la verità», rispose Tatsu. «Può darsi, ma chi è stato a metterlo in contatto con Biddle?» Si strinse nelle spalle. «Probabilmente, un informatore della CIA, qualcuno che intrattiene rapporti con Yamaoto. Biddle stava passando in rassegna questi confidenti in cerca di un sostenitore dell'operazione Crepuscular, e Yamaoto è sicuramente venuto a saperlo.» «E Yamaoto ha certamente intravisto l'opportunità di volgere l'operazione a proprio favore.» Tatsu annuì e disse: «Che cosa credi che abbia fatto, Yamaoto, avendo saputo in anticipo del luogo e del momento dei quattro incontri avuti da Kanezaki con i suoi collaboratori?» Scrollai le spalle. «Avrà piazzato degli osservatori con microfoni parabolici, teleobiettivi e videocamere.»
«Lo credo anch'io. Ora, poniamo che Yamaoto abbia una registrazione audio e video di quegli incontri. Che valore ha questo materiale, per lui?» Ci pensai su un attimo. «Gli serve per ricattare, perlopiù. "Fa' come ti dico, o consegnerò il materiale ai media."» «Già, questo è il metodo prediletto da Yamaoto. Ed è estremamente efficace, se si tratta di rapporti extra-matrimoniali, di rapporti omosessuali con minorenni o di altri comportamenti socialmente inaccettabili. Ma in questo caso?» Ci ripensai. «Credi che la registrazione audio e video degli incontri con Kanezaki non sia abbastanza compromettente?» Tatsu si strinse nelle spalle. «L'audio forse sì, se la conversazione registrata è sufficientemente approfondita. Ma il video, in questo caso, non è così vergognoso: si tratta soltanto di un politico che confabula con un uomo, giapponese all'aspetto, in un luogo pubblico.» «Il problema è che nessuno conosce Kanezaki», dissi, cominciando a intuire. Tatsu mi guardò, in attesa che completassi il puzzle. «Hanno bisogno che Kanezaki diventi un personaggio noto», dissi. «Devono riuscire a sbattere la sua faccia sui giornali. A quel punto, anche le foto degli incontri acquisterebbero valore.» Tatsu annuì. «E come si può fare per ottenere questo risultato?» mi domandò. «Che mi venga un colpo», dissi, quando finalmente capii. «Biddle stava facendo il gioco di Yamaoto. Ha tentato di trasformare Kanezaki nel proprio capro espiatorio, attribuendogli per intero la responsabilità dell'operazione Crepuscular, in modo da avere a disposizione, nel caso si fosse scoperto qualcosa, un "cattivo" da accusare di ogni misfatto. A quel punto, però, se Kanezaki diventa famoso come lo strumento delle trame della CIA, anche i politici fotografati con lui finiranno nella polvere.» «Esatto. Biddle non può più bruciare Kanezaki senza bruciare, con lui, anche i riformisti che vorrebbe proteggere.» «Proprio per questo lo vuole morto», dissi. «Un bel suicidio capace di evitare lo scandalo.» «Biddle, nel frattempo, distruggerebbe le ricevute e ogni altra prova dell'esistenza di Crepuscular.» Riflettei per un attimo. «C'è qualcosa che non quadra, però.» «Ah, sì?» «Biddle è un burocrate. In circostanze normali non ricorrerebbe all'as-
sassinio. Evidentemente, è disperato.» «Esatto. E qual è la causa di questa disperazione?» Lo guardai e capii che aveva già indovinato. «Ragioni personali, cioè non istituzionali.» «Appunto. La domanda, perciò, è la seguente: qual è la posta personale in gioco, per Biddle?» Ci pensai. «Imbarazzo professionale? Problemi di carriera nel caso in cui Kanezaki fosse smascherato e l'ufficio CIA di Tokyo dovesse essere coinvolto in uno scandalo?» «Anche questo, certo, ma c'è dell'altro.» Scossi la testa, incapace di capire. «Perché, secondo te, Biddle aveva tanta fretta di recuperare le ricevute e di "suicidare" Kanezaki con il tuo aiuto?» Di nuovo scossi la testa. «Non lo so.» Tatsu mi guardò, forse leggermente deluso dalla mia incapacità di seguirlo. «Yamaoto tiene in pugno Biddle come faceva con Holtzer», disse. «In entrambi i casi, si è inventato dei collaboratori che Holtzer e Biddle ritenevano affidabili. Questi due hanno vissuto di gloria riflessa sfruttando le informazioni fornite dai "collaboratori". Dopo di che Yamaoto, nel momento per lui più propizio, ha rivelato loro, in privato, come fosse riuscito a fregarli.» Immaginai la conversazione di Yamaoto con Biddle: «Se si viene a sapere che i tuoi "collaboratori" sono degli infiltrati, la tua carriera è finita. Se collaborerai con me, invece, tutto sarà messo a tacere. Anzi, farò in modo che tu ottenga altri collaboratori e altre informazioni, cosicché la tua stella brillerà sempre dì più.» «Ora ho capito», dissi. «Yamaoto, però, in una certa misura ha fatto male i suoi conti, perché Biddle è convinto di potersela cavare eliminando Kanezaki e tutte le altre prove dell'esistenza di Crepuscular.» Tatsu annuì. «Già. E noi che cosa ne deduciamo?» Riflettei. «Che questa operazione coinvolge un numero di persone insolitamente ridotto. Che a Langley non ne sanno nulla, perché altrimenti Biddle non potrebbe sperare di cavarsela eliminando Kanezaki e una manciata di documenti.» «Si direbbe, perciò, che Biddle abbia organizzato e gestito l'operazione Crepuscular di sua iniziativa. Ti ha detto che l'operazione è stata interrotta sei mesi fa, no?» Annuii. «E Kanezaki mi ha detto che ha scoperto un cablogramma in ri-
ferimento a questo.» «Biddle vorrebbe far credere che da un certo momento in poi Kanezaki ha mandato avanti l'operazione illegalmente. E dato che Tanaka ha trattato soltanto con Biddle, si direbbe che il cattivo sia proprio Biddle, che ha tentato di utilizzare Kanezaki come scudo inconsapevole.» «Yamaoto non poteva sapere che Crepuscular era stata ufficialmente dichiarata conclusa», dissi io, annuendo. «Probabilmente, credeva che l'iniziativa fosse nota ai superiori di Biddle a Langley. A quanto pare, però, i soli americani al corrente sono Biddle e Kanezaki.» Tatsu chinò la testa. «Proprio per questo Yamaoto non poteva immaginare che Biddle pensasse all'eliminazione di Kanezaki come a una possibilità di sottrarsi al ricatto.» «E Biddle non ha neanche tutti i torti», dissi, guardando Tatsu più da vicino. «Con la morte di Kanezaki, la prova del ricatto di Yamaoto perderebbe molta della sua forza. Questo significa che anche il tuo gruppo di riformisti sarebbe molto più al sicuro se Kanezaki uscisse di scena.» Tatsu si incupì, e io mi resi conto di provare gusto nel vederlo alle prese con quello che per lui era un dilemma morale. «Che cosa succederà ai riformisti che si sono incontrati con Kanezaki?» domandai. «Se lui viene smascherato, saranno in pericolo.» «Solo una parte di essi.» «Un numero passabilmente ridotto?» Mi guardò, intuendo dove volessi andare a parare. Malgrado ciò, non potei trattenermi. «Che cosa faresti se fossero cinque? E se fossero dieci?» Mi guardò storto. «Sono decisioni che si possono prendere solo caso per caso.» «Yamaoto non decide caso per caso», lo incalzai io. «Lui sa quel che c'è da fare e lo fa. È questo l'avversario che hai di fronte. Sei sicuro di essere alla sua altezza?» Tatsu socchiuse leggermente le palpebre. «Credi che io voglia essere "all'altezza" di un uomo del genere? La fine di Kanezaki non può cancellare il fatto che quei politici sono a loro volta colpevoli della loro attuale situazione. Né il fatto che le ragioni di Kanezaki sono fondamentalmente giuste. Né il fatto che quest'ultimo ha un padre e una madre che sarebbero distrutti dalla sua morte.» Chinai la testa, in segno di assenso. «Quei riformisti sono dunque spacciati?» domandai. Tatsu annuì. «Presumo che ormai Yamaoto li tenga in pugno. Ma devo
avvertire gli altri.» «E come ti comporterai con Kanezaki?» «Gli riferirò dei nostri colloqui con Biddle e Tanaka.» «Gli dirai che il suo capo ha cercato di fargli la pelle?» Tatsu si strinse nelle spalle. «Perché no? Il giovanotto si sente già in debito con me, e questo suo stato d'animo potrebbe tornarmi utile in futuro: rinforzare questo suo sentimento non può certo nuocere.» «E Murakami?» «Continuerò a interrogare l'uomo che abbiamo catturato, Magari, ci dà qualche informazione utile.» «Fammi sapere se ci sono novità. Voglio essere presente, se succede qualcosa.» «Anch'io», disse. 20. Controllai, da un telefono pubblico, la mia casella di posta vocale all'Imperial Hotel. Un'asettica voce femminile mi disse che avevo ricevuto un messaggio. Mi sforzai di non sperare, ma il tentativo si rivelò penoso. La voce femminile mi invitò a premere il tasto «uno» per ascoltare il messaggio. E così feci. «Ciao, Jun, sono io», disse la voce di Midori. Una pausa. E poi: «Non so se sei ancora in questo albergo e se sentirai questo messaggio». Altra pausa. «Vorrei vederti, stasera. Sarò al Body and Soul alle otto. Vieni, se puoi. Ciao.» La voce automatica mi disse che il messaggio era stato lasciato alle due e ventotto del pomeriggio e che avrei dovuto premere nuovamente il tasto «uno» per riascoltare il messaggio. Premetti una volta e poi ancora. C'era un che di disarmante nella naturalezza con cui mi chiamava Jun, diminutivo di Junichi. Nessuno mi chiama più Jun. Nessuno mi conosce più con questo nome. Già quando abitavo a Tokyo usavo con estrema parsimonia il mio vero nome, Junichi, dopo di che l'avevo abbandonato del tutto. «Ciao, Jun, sono io.» Un messaggio così normale... Quasi tutti, probabilmente, ricevono spesso messaggi simili. Mi sentivo come se il terreno sotto i miei piedi avesse assorbito una forza gravitazionale extra.
A quel punto intervenne la parte del mio cervello che per tanto tempo mi aveva salvato la pelle. «Ora e luogo. Potrebbe essere una trappola.» Midori, però, non era il tipo. Un'idea assurda. Ci pensai su. Per intercettare il messaggio occorreva innanzitutto sapere del mio soggiorno all'Imperial, conoscere il falso nome da me utilizzato ed essere capaci di inserirsi nel sistema di posta vocale dell'albergo. A parte Tatsu, che al momento non costituiva una minaccia, non c'era molta gente in grado di soddisfare queste tre condizioni. Comunque, una possibilità, per quanto remota, esisteva. Un'altra parte di me, però, ribatté: «Al diavolo!» Andai all'appuntamento con Midori. Seguii un percorso lungo e tortuoso, muovendomi perlopiù a piedi e osservando la città che sprofondava sempre più nell'oscurità. Tokyo, di notte, era così viva, così gravida di possibilità. Certo, è durante il giorno, tra i banchi di pedoni zigzaganti, i treni rombanti, la frenesia, il rumore, il traffico, che si ascolta la più nota tra le colonne sonore della città. Tokyo, però, è anche appesantita dal frastuono diurno e sembra felice, la sera, di potersi rifugiare nel crepuscolo per scrollarsi di dosso il peso della giornata. La notte prosciuga il superfluo e le distrazioni. Quando ci si muove per Tokyo di notte ci si sente sul punto di raggiungere quello che si è sempre desiderato. Di notte, si può sentire il respiro della città. Mi fermai in un Internet café per controllare sul sito del Body & Soul il programma musicale della serata. C'era Toku, un giovane vocalist e flicornista di ventinove anni la cui musica dalle venature soul si era già guadagnata una straordinaria reputazione. Avevo due cd di Toku, ma non lo avevo mai visto dal vivo. Era possibile che Yamaoto sapesse della presenza di Midori a Tokyo attraverso l'agenzia di investigazioni che lei aveva ingaggiato. Di conseguenza, era anche possibile che qualcuno - magari addirittura Murakami la stesse tenendo d'occhio. Nei dintorni del locale, controllai con estrema attenzione tutti i punti utilizzabili da eventuali aggressori. Nulla di cui preoccuparsi. Entrai alle otto e mezza. Il locale era pieno, ma l'addetto all'ingresso mi fece passare quando gli spiegai che ero amico di Kawamura Midori e che avevo appuntamento con lei. «Ah, sì», rispose. «Kawamura-san mi aveva detto che forse sarebbe arrivato qualcuno. Prego.» Midori era seduta all'estremità di uno dei due lunghi tavoli disposti parallelamente alle pareti e affacciati sullo spazio centrale, dove invece erano
sistemati i musicisti. Mi guardai intorno ma non notai potenziali minacce. Anzi, il pubblico era piuttosto giovane, perlopiù femminile, ed era lì per assistere al concerto di Toku, il quale, con il suo quintetto, stava eseguendo l'affascinante ed elegiaca Autumn Winds. Sorrisi nel vedere com'erano vestiti i musicisti: maglietta, jeans e scarpe da ginnastica. Avevano tutti i capelli lunghi, castano chapatsu. I loro coetanei, evidentemente, dovevano considerarla una gran figata. A me sembrava solo una cosa da giovani. Mi avvicinai al punto in cui Midori era seduta. Lei mi vide arrivare, ma non fece alcun cenno di saluto. Indossava un maglione nero a collo alto, aderente e senza maniche, di un cashmere leggero, che contrastava con la luminosità del suo viso e delle sue braccia. Si appoggiò all'indietro, e io vidi che portava un paio di pantaloni di pelle, ammorbiditi dagli anni e dall'uso, e stivali dal tacco alto. Fatta eccezione per un paio di brillantini ai lobi, era priva di ornamenti. Mi era sempre piaciuto il suo modo di non esagerare con i gioielli e con il trucco. Non ne aveva bisogno. «Non credevo che saresti venuto», disse. Si sporse verso di me, per poter sentire le mie parole nonostante la musica. «Temevi che io non avessi sentito il tuo messaggio?» Lei sollevò un sopracciglio. «Credevo che non ti saresti presentato, visto che avevo specificato l'ora e il luogo dell'incontro.» Era sveglia. Io mi strinsi nelle spalle. «E invece eccomi qui.» Non c'erano altri posti a sedere, e lei si alzò per appoggiarsi alla parete, accanto a me, quasi spalla contro spalla. Portò con sé il suo drink. «Che cosa stai bevendo?» le domandai. «Ardbeg. Sei stato tu a farmelo conoscere, ricordi? Ormai, è il sapore che associo a te.» «Mi stupisce, allora, che ti piaccia.» Lei mi guardò di traverso. «È un gusto dolceamaro», disse. Passò una cameriera e le ordinai un Ardbeg. Ascoltammo Toku che cantava di malinconia, solitudine e rimpianto. Il pubblico apprezzava molto. Al termine dello spettacolo, quando anche l'applauso si fu placato, Midori si voltò verso di me. Fui sorpreso nel vedere la sua espressione preoccupata e persino affettuosa. Subito, però, capii a che cosa fosse dovuta. «Hai... saputo di Harry, vero?» disse. Io mi limitai ad annuire. «Mi dispiace.»
Lasciai trascorrere un attimo. «È stato ucciso, lo sapevi? Gli investigatori che hai ingaggiato per sorvegliarlo hanno parlato con la gente sbagliata.» Midori restò di sasso. «Ma... mi avevano detto che era stato un incidente.» «Balle.» «Come fai a saperlo?» «L'ho dedotto. A un certo punto erano convinti di avermi trovato e hanno pensato di non avere più bisogno di Harry. Inoltre, l'hanno trovato pieno di alcol, e Harry non era un bevitore.» «Oh, mio Dio!» sospirò lei, portandosi una mano davanti alla bocca. La guardai. «La prossima volta sarà meglio che ti rivolgi ad agenzie investigative che prendono un po' più sul serio l'obbligo alla riservatezza.» Midori scosse la testa, con la mano sempre davanti alla bocca. «Scusami», dissi, abbassando lo sguardo. «Sono stato ingiusto. Non è colpa di nessuno, se non di chi l'ha ucciso. E di Harry, che avrebbe dovuto fare più attenzione.» Le fornii una versione edulcorata della storia del nostro amico, di come l'avevano incastrato e di come si era rifiutato di darmi ascolto. «Mi era simpatico», disse Midori, quando ebbi terminato. «Avevo il dubbio che mi avesse mentito, quando mi aveva detto che eri morto. Per questo ho ingaggiato quelle persone per sorvegliarlo. Però mi sembrava una brava persona. Era carino, timido, e ti ammirava molto.» Abbozzai un sorriso triste. Il necrologio di Harry. «Se fossi in te», dissi, «farei molta attenzione qui a Tokyo. Hanno perso le mie tracce, ma probabilmente torneranno alla carica. Se sanno che sei in città, potrebbero decidere di usarti. Come hanno fatto con Harry.» Ci fu un lungo silenzio. Fu lei a interromperlo. «Io, in ogni caso, domani riparto per New York.» Annuii lentamente, presagendo il seguito. «Non ci vedremo mai più», disse. Tentai un sorriso. Mi uscì, più che altro, una smorfia di rimpianto. «Lo so.» «Ho capito che cosa voglio da te», disse. «Ah, sì?» Midori annuì. «All'inizio credevo di volere vendetta. Non facevo altro che pensare a come ferirti, a come farti patire le pene che tu avevi inflitto a me.» Non ne ero certo meravigliato.
«E ti ho detestato anche per questo», proseguì lei, «perché ho sempre pensato che l'odio sia un'emozione spregevole. Disperata e, oltretutto, inutile.» Restai per un attimo in ammirazione dell'innocenza integrale che occorre per enunciare un simile principio in modo credibile e puro, e per un secondo gliene fui grato. Midori bevve un sorso di Ardbeg. «Da quando ti ho rivisto, però, è cambiato tutto. Un po' perché ho capito che tu hai davvero tentato di recuperare il cd-rom e di eseguire le ultime volontà di mio padre. Un po' perché ho capito che tu hai cercato, in quel modo, di proteggermi dalle altre persone interessate al cd-rom.» «In realtà, però, da che cosa è dipeso?» Midori distolse lo sguardo, volgendolo verso il punto in cui fino a poco prima i musicisti avevano suonato, ma poi tornò a guardarmi. «Ho capito chi sei veramente. Tu non vivi nel mondo reale. Non nel mio mondo, almeno. Sei una specie di fantasma, una creatura costretta a vivere nell'ombra. E ho capito che uno come te non è degno di essere odiato.» Essere degno di odio o essere odiato da lei erano due cose diverse. Mi domandai se se ne rendesse conto. «Provi pena, allora?» le domandai. Annuì. «Può darsi.» «Forse, allora, avrei preferito essere degno del tuo odio», dissi. Era un tentativo di sdrammatizzare, ma lei non rise. Mi guardò. «Ci resta soltanto questa notte.» Io fui sul punto di dirle di no. Stavo per dirle che, poi, ci avrebbe fatto troppo male. Alla fine, però, decisi che della sofferenza mi sarei preoccupato a tempo debito. Come avevo sempre fatto. Andammo al Park Hyatt, a Shinjuku. Lei aveva preso una stanza all'Okura, ma tornare lì insieme sarebbe stato troppo rischioso. Prendemmo un taxi. Lungo il tragitto fino all'albergo ci guardammo, ma nessuno dei due parlò. Mi registrai alla reception, e quando entrammo nella stanza lasciammo le luci spente. Ci parve naturale raggiungere le enormi finestre affacciate sull'agglomerato urbano di Shinjuku che risplendeva nella luce violetta circostante. Guardai la città da quella posizione privilegiata e pensai a tutto ciò che mi aveva condotto a quel preciso i-stante, a quel momento che io avevo immaginato e follemente desiderato tanto a lungo e che mi sforzavo di assaporare nonostante lo sentissi sfuggire senza rimedio.
A un certo punto, sentii che lei mi stava guardando. Mi voltai è, protendendo un braccio, seguii con le dita il profilo del suo viso e del suo collo, cercando di imprimere a fuoco ogni dettaglio nella mia mente, nella speranza di potervi attingere quando lei se ne fosse andata. Mi sorpresi a pronunciare il suo nome, piano, più volte, come quando sono solo e penso a lei. Lei, allora, si avvicinò e abbracciandomi mi tirò a sé con una forza sorprendente. Aveva lo stesso odore che ricordavo, di pulito, con una traccia di profumo che è tuttora un mistero, per me, e mi venne alla mente il vino, un vino lasciato lungamente a decantare e che si esita a bére perché dopo averlo bevuto non lo si potrà più pregustare. Ci baciammo a lungo, con delicatezza, senza fretta, in piedi accanto alla finestra, e io, a un certo punto, riuscii persino a dimenticarmi di quello che ci aveva portati lì quella sera e della ragione per cui l'indomani ci saremmo dovuti separare. Ci spogliammo a vicenda come avevamo fatto la prima volta, con concitazione; con rabbia, quasi. Mi tolsi il manganello dal polso, dove l'avevo fissato con il nastro adesivo, e lo posai da parte. Midori aveva di meglio da fare che chiedermi spiegazioni. Quando fummo finalmente nudi, Midori, senza smettere di baciarmi, mi spinse all'indietro verso il gigantesco letto matrimoniale. Urtai con le gambe contro il bordo e mi ritrovai seduto. Lei si chinò in avanti e, posando una mano sul letto e l'altra sul mio torace, mi fece distendere di schiena. Mi salì sopra a cavalcioni, con una mano ancora sul mio petto; l'altra, però, scese lungo il mio corpo per afferrarmi. Strinse per un secondo, abbastanza da farmi male. Poi, fissandomi con i suoi occhi scuri, e senza dir nulla, mi guidò dentro di sé. Cominciammo a muoverci piano, quasi esitanti, come due persone incerte sui reciproci moventi. Le mie mani percorsero il paesaggio del suo corpo, ora scorrendo ora soffermandosi in sintonia con il ritmo del suo respiro e con il tono della sua voce. Mi mise le mani sulle spalle, inchiodandomi con il suo peso, e cominciò a cavalcarmi con foga. Guardai il suo viso, il profilo disegnato dalla luce che proveniva dalle finestre, e sentii come un'intangibile afflusso di calore o di elettricità levarsi dai nostri due corpi congiunti. Tirai i piedi sul letto e per via del leggero cambiamento di posizione ebbi la sensazione di entrare più a fondo dentro di lei. IL suo respiro si fece più rapido e concitato. Io cercai di trattenermi, per non venire prima di lei, ma lei accelerò ulteriormente, muovendosi con sempre maggiore urgenza, e io ero sul punto di cedere. Midori emise un verso a metà tra un
ringhio e un mugolio e si chinò in avanti fino a sfiorarmi la faccia; mi fissò negli occhi e, venendo, mentre anch'io venivo, sussurrò: «Ti odio.» Vidi, allora, che stava piangendo. Si rialzò, ma tenne le mani puntate sulle mie spalle. Chinò la testa, cosicché il suo viso fu inghiottito dall'ombra. Era silenziosa, ma le sue lacrime mi cadevano sul petto e sul collo. Non sapevo che cosa dire né se fosse il caso di toccarla, perciò rimanemmo a lungo in quella posizione, finché lei non si alzò per avviarsi verso il bagno. Mi rialzai a sedere e aspettai. Pochi minuti dopo, Midori ricomparve con uno degli accappatoi bianchi dell'hotel. Mi guardò, ma non disse nulla. «Vuoi che me ne vada?» domandai. Lei chiuse gli occhi e annuì. «Okay.» Mi alzai e cominciai a rivestirmi. Quando ebbi finito, mi avvicinai a lei. «So che stai facendo grandi cose a New York», dissi. «Ganbatte.» Continua così. Lei mi guardò. «Che cosa hai intenzione di fare?» Mi strinsi nelle spalle. «Sai come siamo, noi creature della notte: devo trovare una roccia sotto cui acquattarmi prima che sorga il sole.» Lei si sforzò di sorridere. «E dopo?» Annuii, pensieroso. «Non lo so, di preciso.» Calò il silenzio. «Dovresti lavorare con il tuo amico», disse. «È l'unica cosa che fa per te.» «Buffo... Me lo dice sempre anche lui. Per fortuna non sono uno che crede ai complotti.» Il sorriso ricomparve, un po' meno forzato, questa volta. «Lui ha i suoi secondi fini. Io no.» La guardai. «Non so se crederti, dopo quello che mi hai appena detto.» Lei abbassò lo sguardo. «Scusami.» «Non c'è problema. Sei stata sincera. Anche se credo che nessuno sia mai stato sincero con me in quel modo o, almeno, in quelle circostanze.» Un altro sorriso. Era triste, ma almeno sembrava autentico. «Sono sincera anche adesso.» Sentivo il bisogno di farla finita. Mi avvicinai a lei abbastanza da sentire il profumo dei suoi capelli, il calore della sua pelle. Mi fermai lì per un istante, con gli occhi chiusi. Inspirai a fondo e poi espirai lentamente.
Utilizzai l'inglese per evitare l'irrevocabilità implicita nel giapponese sayonara. «Arrivederci, Midori», dissi. Mi avviai alla porta e, come d'abitudine, guardai fuori attraverso lo spioncino. Il corridoio era deserto. Uscii senza voltarmi indietro. 21. Mi aggirai per le stradine di Shinjuku in direzione est, cercando un posto dove trascorrere la notte e, soprattutto, riflettere su quel che avrei fatto l'indomani, quando mi fossi svegliato. Mi sforzai di non pensare ad altro. Era tardi, ma in giro c'erano ancora piccoli gruppi di persone che si muovevano come fosche costellazioni nello spazio deserto circostante: vagabondi e mendicanti, puttanieri e magnaccia; gente scoraggiata, emarginata, privata di tutto. Soffrivo, e non sapevo come fare per mandare via il dolore. Mi squillò il cercapersone. Ovviamente, pensai: «Midori.» Ma sapevo bene che non poteva essere lei. Non conosceva quel numero. E se anche glielo avessi dato, non lo avrebbe usato. Guardai il display, ma non riconobbi il numero. Trovai un telefono pubblico e provai a digitarlo. Dopo il primo squillo, rispose in inglese una voce femminile. «Ehilà!», disse. Era Naomi. «Ehilà», dissi. «Mi ero quasi dimenticato di averti dato questo numero.» «Ho fatto male ad approfittarne?» «Niente affatto. Sono solo un po' sorpreso.» Ero sorpreso, eccome. Il mio livello di allerta era improvvisamente salito di una tacca. Ci fu una pausa. «La serata, al club, era un po' morta, e io ho staccato con un po' di anticipo. Ti va di passare da me?» Era difficile immaginare una serata morta al Damask Rose, ma magari era vero. In ogni caso, mi sarei aspettato che lei proponesse di andare prima da qualche parte, per uno spuntino o un drink, non subito a casa sua. Il livello di allarme aumentò ulteriormente. «Certo», dissi io. «Se non sei troppo stanca.» «Ah, no, ho voglia di vederti.» Strano. Quel suo «ah, no» era sembrato quasi un «hanno». Un'incertezza che non poteva dipendere dalla sua abituale inflessione. Un messaggio? Un avvertimento?
Guardai l'orologio. Era quasi l'una e mezza. «Sarò lì tra un'ora circa.» «Ti aspetto con ansia.» La sentii riagganciare. C'era qualcosa di strano, anche se non avrei saputo dire che cosa. La prima stranezza era il fatto che fosse stata lei a cercarmi. Anche la storia secondo cui aveva smesso di lavorare prima del solito, però, era una stranezza, benché fosse probabilmente adatta a spiegare la prima. Il tono di Naomi mi era parso normale, ma c'era stato quell'inspiegabile inciampo di pronuncia. Il problema era il seguente: che fare, sapendo che si trattava di una trappola? Non era, infatti, un semplice sospetto: lo sapevo. Da un altro telefono pubblico telefonai a Tatsu. Trovai la segreteria telefonica. Riprovai. Niente da fare. Doveva essere impegnato in qualche appostamento o altro del genere. «In fondo, lui di giorno lavora», pensai. La cosa più sicura da fare, nonché la più furba, sarebbe stata di tenermi alla larga finché non avessi trovato dei rinforzi. La situazione, però, offriva un'opportunità, e io non volevo lasciarmela sfuggire. Presi un taxi fino ai margini di Azabu Juban. Sapevo come muovermi in sicurezza intorno a casa di Naomi perché avevo già controllato ogni angolo, la sera in cui l'avevo aspettata sotto la pioggia. Il palazzo situato nella viuzza perpendicolare a quella di Naomi, quello con il tendone e i bidoni di plastica per la spazzatura, era il luogo ideale. Quelli che mi aspettavano, chiunque fossero, si sarebbero appostati lì. Come avevo fatto io con Naomi. Mentre procedevo verso il termine della via che conduceva dietro il palazzo, sentii il rombo di una moto a due tempi che si avvicinava. Era uno scooter per il recapito pizze, con uno scomparto sul retro per tenere in caldo la merce e l'adesivo della pizzeria che offriva il servizio. Guardai bene, per accertarmi che non ci fosse altro da notare. Niente: un semplice ragazzino che tentava di racimolare qualche yen con un lavoro notturno. Si sentiva addirittura l'odore, della pizza. Mi venne un'idea. Gli feci cenno di fermarsi. Lui accostò. «Potresti farmi un favore?» gli domandai in giapponese. «Ti do diecimila yen.» Il ragazzo spalancò un po' gli occhi. «Certo», rispose. «Di che si tratta?» «Alla fine di questa via c'è un palazzo; sulla destra, arrivando da qui. C'è
un tendone, con una fila di bidoni della spazzatura su un lato. Dovrebbe esserci un mio amico, lì ad attendermi, ma vorrei fargli una sorpresa. Non potresti passarci davanti, dare una bella occhiata approfondita e tornare da me a raccontarmi quello che hai visto?» Spalancò gli occhi un altro po'. «Per diecimila yen? Certo, non c'è problema.» Presi il mio portafoglio e ne tolsi cinquemila yen. «Metà adesso e metà quando torni», dissi. Prese i soldi e filò via. Tre minuti dopo era di ritorno. «È lì», disse. «Proprio dove lei aveva previsto.» «Grazie», dissi, con un cenno del capo. «Mi hai salvato.» Gli diedi gli altri cinquemila yen. Lui li guardò per un attimo con un'aria incredula. Subito, però, la sua espressione si aprì in un enorme e solare sorriso. «Grazie», disse. «È stato un piacere! C'è qualcos'altro che posso fare per lei?» Sorrisi anch'io e scossi la testa. «Per stasera può bastare.» Mi parve leggermente deluso, ma poi sorrise di nuovo, come se si fosse reso conto di avere esagerato. «Okay. Grazie ancora», disse. Diede gas e si allontanò. Io staccai il manganello dal polso e lo impugnai con la destra. Con la sinistra estrassi la boccetta di spray al pepe che avevo preso a Yukiko. Mi mossi con la circospezione che avevo imparato a usare nelle ricognizioni ad ampio raggio ai tempi lei Vietnam, muovendomi rasente i palazzi, controllando ogni angolo, ogni punto caldo, e accertandomi che la via fosse sgombra prima di procedere oltre. Impiegai quasi mezz'ora per coprire i circa duecento metri che mi separavano dal luogo dell'agguato. Quando fui a tre metri, la copertura offerta dai bidoni della spazzatura era ormai così limitata da impedirmi di avanzare ulteriormente. Mi acquattai e aspettai. Passarono cinque minuti. Sentii il rumore prodotto dallo sfregamento di un fiammifero e poi vidi una voluta di fumo azzurrognolo levarsi appena dietro una fila di bidoni. Chiunque ci fosse, lì dietro, non poteva essere Murakami. Murakami non avrebbe mai fatto una simile scemenza. Mi rimisi lo spray al pepe in tasca e allungai il manganello al massimo, percuotendone la punta per accertarmi che le parti retrattili fossero fissate saldamente e poi stringendone l'impugnatura nel palmo della mano destra. Osservai una nuova nuvola di fumo e cronometrai un po' di inalazioni ed esalazioni. Aspettai l'inalazione giusta, un momento in cui la sua attenzio-
ne potesse risultare in qualche misura attenuata dalla voluttà dell'assorbimento di tutta quella buona nicotina. Dentro, fuori. Dentro, fuori. Dentro... Sbucai con un balzo da dietro il mio riparo e mi slanciai in avanti, con il manganello tenuto con la mano destra dietro la testa, come se stessi cercando di grattarmi la spalla sinistra, e la mano libera sollevata a protezione della faccia e della testa. Coprii in una frazione di secondo la distanza tra me e quell'uomo, che avevo scorto spuntando da dietro i bidoni. Era una guardia del corpo di Murakami, con un giubbotto di pelle nera, occhiali scuri e un berretto di lana con visiera a mo' di leggero travestimento. Aveva sentito un rumore improvviso e stava girando la testa verso di me, quando gli piombai addosso. Fece per aprire la bocca, e la sigaretta gli penzolò inutile tra le labbra. La sua mano destra si mosse verso una tasca del giubbotto. Io vidi ogni cosa come al rallentatore, con estrema chiarezza. Portando avanti il piede destro, gli tirai una manganellata su un lato della faccia; per l'impatto, la testa si piegò di scatto verso sinistra. Gli occhiali scuri volarono via, e la sigaretta gli cadde dalla bocca, rotolando come un bossolo di fucile, prima dell'esplosione di denti e sangue. Arretrò goffamente contro la parete e cominciò a scivolare verso il basso. Io mi avventai su di lui e gli puntai l'estremità inferiore del manganello sotto il mento, per frenare la sua caduta. «Dov'è Murakami?» gli chiesi. Gli venne su un conato grumoso di sangue. Mentre lui cercava di schiarirsi la voce e di riprendersi, lo perquisii. Gli trovai addosso un coltello Kershaw identico a quello che aveva Murakami e un cellulare con custodia alla cintola. Intascai entrambi. Feci pressione con il manganello sotto il suo mento. «Dov'è?» ripetei. Lui tossì e sputò. «Naka da», disse, le parole biascicate per via dei danni subiti. Dentro. «Dov'è l'altro tirapiedi come te?» Lui gemette e cercò di liberarsi con l'aiuto delle mani. Io gli affondai il manganello nel collo. Lui fece una smorfia e abbassò le mani. «Dov'è il tuo collega?» gli domandai. Lui inspirò e rantolò. «Omote da.» Davanti al palazzo. Era plausibile. Quella, quantomeno, era la copertura che avrei adottato io. Abbassai il manganello e con la punta lo colpii al plesso solare. Si piegò in avanti con un grugnito. Mi piazzai alle sue spalle, sollevai il manganello
all'altezza della sua gola e gli piazzai, al contempo, un ginocchio nella schiena. Mi inarcai all'indietro, attirandolo a me con il manganello e spingendo in avanti con il ginocchio. Si portò le mani alla gola per cercare di alleviare la pressione, ma era già troppo tardi. Gli avevo sfondato la laringe. Si divincolò in silenzio per un altro mezzo minuto e poi si accasciò addosso a me. Lo adagiai a terra e mi guardai intorno. Tutto tranquillo. Gli tolsi il cappello e il giubbotto e me li infilai. Cercai, lì a terra, anche gli occhiali scuri, e quando li ebbi trovati infilai anche quelli. Trascinai il cadavere nell'ombra e raccolsi persino la sigaretta ancora accesa, piazzandomela tra le labbra. Sbattei a terra il manganello per richiuderlo, lo infilai in una tasca del giubbotto e impugnai la boccetta dello spray al pepe. Sul lato anteriore del palazzo non c'erano, come sul retro, vie traverse in cui nascondersi, e quindi la situazione era meno favorevole agli appostamenti. C'era un unico posto utilizzabile, lo sapevo: il vicolo che delimitava un lato del palazzo, proprio dall'altra parte della strada. Passai sul davanti, con berretto, occhiali e sigaretta accesa. Tenni la testa bassa e lo sguardo fisso davanti a me, come presumibilmente erano soliti fare quei tizi per evitare testimoni e telecamere. Vidi l'altro guardaspalle di Murakami non appena ebbi girato l'angolo. Era vestito come il suo collega appena morto. Andai diritto verso di lui, con rapidità e decisione. Gli occhiali scuri che anche lui portava erano grandiosi come camuffamento leggero, ma per vederci di notte facevano schifo. Mi scambiò per il suo compare. Sbucò dall'ombra come per salutarmi o per capire come mai avessi abbandonato la postazione. Quando fui a tre metri da lui, lo vidi serrare le labbra perplesso. A due metri, cominciò ad aprire la bocca, come se avesse ormai capito che c'era qualcosa di decisamente strano. Arrivato a un metro, risolsi ogni sua perplessità riempiendogli la bocca di spray al pepe. Si portò le mani al volto e annaspò all'indietro. Io sputai la sigaretta, infilai la boccetta in una tasca del giubbotto e recuperai il manganello. Lo allungai e, da dietro, lo portai a due mani all'altezza della gola del mio avversario, come avevo fatto con il suo amico, esercitando in questo caso una pressione più forte. Provò ad artigliare il manganello e con i piedi cercò qualche appiglio, mentre io lo trascinavo all'indietro verso il vicolo, ma quando lo abbandonai nell'ombra era già morto. Lo perquisii e trovai un altro coltello e un altro cellulare. Lasciai perdere il coltello, ma il cellulare lo
presi. Richiusi e intascai il manganello, dopo di che raggiunsi il termine della via, dove trovai un telefono pubblico. Non sapevo se il telefono di Naomi fosse in grado di identificare il numero del chiamante, ma non osavo chiamare con uno dei cellulari sequestrati alle mie vittime. Naomi rispose al terzo squillo, con una voce incerta. «Sì?» «Ciao, sono io.» Breve pausa. «Dove sei?» «Ascolta: mi sa che stanotte non riesco a passare da te. Mi dispiace.» Altra pausa. «Va bene. Non c'è problema.» Sembrava risollevata. «Volevo solo avvertirti. Mi faccio sentire presto, okay?» «Okay.» Riagganciai e tornai sul retro del palazzo di Naomi. Mi appostai nell'ombra accanto al cadavere che avevo lasciato lì poco prima. Uno dei due cellulari che avevo in tasca si mise a vibrare. Lo tirai fuori e risposi. «Hai.» Udii il caratteristico ringhio di Murakami e sentii un afflusso di adrenalina nel mio sistema sanguigno. «Non viene», disse. «Sono giù tra un minuto. Avverti Yagi-san che si va.» Immaginai che Yagi fosse uno dei due che avevo eliminato. «Hai», ripetei. Murakami interruppe la comunicazione. Infilai il cellulare nel giubbotto. Estrassi di nuovo il manganello e lo tenni, ancora chiuso, nella destra. Con la sinistra impugnai la boccetta di spray al pepe. Il cuore mi rimbombava nel petto. Inspirai a fondo con il naso e trattenni per un attimo il fiato prima di buttarlo fuori. L'ingresso sul retro era la scelta più ovvia, la via meno trafficata. E non c'erano telecamere. Sapevo che sarebbe uscito di lì, proprio come avevo fatto io. Mi fermai ai margini della chiazza di luce diffusa da un lampione, dove Murakami mi avrebbe scorto senza però potermi vedere bene. Quanto più si fosse avvicinato, tanto maggiore sarebbe stato il fattore sorpresa. E la sorpresa era forse l'unico vantaggio su cui potevo contare, contro Murakami. Due minuti dopo sbucò dal portone sul retro. Io restai indietro appena fuori dal cono di luce, gli occhiali e il berretto calcato sugli occhi. Aveva con sé un cane che tirava al guinzaglio. Mi ci volle un attimo per
riconoscerlo, senza museruola: era il pit-bull bianco che ci aveva accolti sul sedile posteriore della sua auto dopo il mio combattimento con Adone. «Oh, cazzo...» Fui sul punto di girare i tacchi e di filarmela, ma è proprio la fuga a innescare gli istinti più primordiali del cane, e le probabilità che quell'animale mi raggiungesse e mi atterrasse da dietro erano troppo elevate. Me la sarei dovuta giocare. Murakami, se non altro, era in parte distratto dal cane. Quando mi vide, fece un rapido cenno d'intesa, ma subito guardò il cane che aveva cominciato a ringhiare. «Bel cagnolino», pensai. «Proprio un bel cagnolino del cazzo.» Mi vennero incontro. Murakami alzò di nuovo gli occhi verso di me, per poi tornare a guardare il cane. Quella cazzo di bestia si era messa ad abbaiare, con suoni secchi e ben distinti che partivano rombando dal profondo del torace. Murakami non pareva particolarmente turbato. Con la polvere da sparo e gli steroidi che mangiava, e le supposte di Alpo e di peperoncino jalapeño a mo' di dessert, quel cane abbaiava probabilmente anche al vento, e immaginai che Murakami ci fosse abituato o, addirittura, ne fosse contento. Si avvicinarono ulteriormente. Il cane cominciava a sfuggirgli, ringhioso e sempre più proteso in avanti. Murakami lo guardò. «Doushitanda?» disse. Che diavolo ti prende? Subito, però, cominciò a rialzare la testa. Non era così vicino come avrei voluto, ma sapevo che all'occhiata successiva avrebbe capito. Non avrei avuto un'occasione più favorevole. Mi lanciai verso di loro e con due passi li raggiunsi. Murakami reagì all'istante, mollando il guinzaglio e sollevando le mani a proteggere il tronco e la testa. Una reazione pronta, che io però avevo previsto. Ignorando il cane, che classificai come la minaccia minore, mi accucciai, protesi all'indietro il braccio destro per poi farlo scattare in avanti, a mo' di rovescio tennistico. Il manganello cominciò ad allungarsi. Nel momento in cui giunse a contatto con la caviglia di Murakami aveva già raggiunto la sua massima estensione. L'impatto dell'acciaio con l'articolazione fu una delle sensazioni più belle che avessi mai provato. Se l'avessi mancato, sarei morto nel giro di un paio di secondi. Non fallii. Sentii l'osso infrangersi sotto l'acciaio, e Murakami lanciò un urlo. Un istante dopo vidi il cane bianco proiettato contro di me come un
missile da crociera. Riuscii a sollevare il braccio sinistro davanti alla gola. Il cane, avventandosi contro di me, lo addentò appena sopra il polso. Sentii una vampata di dolore. L'impatto mi fece cadere all'indietro. Se fossi rimasto a terra con quella bestia addosso, gli addetti alla pulizia della strada non avrebbero più trovato neanche i brandelli, del mio corpo. Un po' per istinto, un po' per la preparazione da judoka, sfruttai lo slancio impresso dal cane per trascinarlo con me in una capriola all'indietro che mi portò a poggiare di nuovo su entrambi i piedi, in posizione accosciata. L'animale continuava a serrarmi il braccio tra i denti, ringhiando e scuotendo con violenza la testa, senza mai mollare la presa, come gli era stato insegnato. Il braccio, intanto, non me lo sentivo più. Cercai di sollevare il manganello per spaccarglielo sul cranio, ma non ce la feci. Le unghie del cane sfregavano a terra, mentre l'animale cercava appigli con le zampe, un punto su cui fare leva per gettarmi con le spalle al suolo. Lasciai cadere il manganello e con la mano sana cercai, alla cieca, i testicoli del cane. L'animale si scansò prima a sinistra, poi a destra, avendo intuito quale fosse il mio obiettivo. Riuscii ugualmente ad afferrarglieli e li tirai verso il basso, più forte di quanto avessi mai tirato alcunché in tutta la mia vita. La mandibola si allentò e io riuscii a liberare il braccio. Mi rialzai in piedi. Il cane restò a contorcersi per un attimo, ma poi si rialzò anche lui. Riprese a ringhiare, fissandomi con gli occhi iniettati di sangue. Guardai la mia mano sinistra. Era stretta intorno alla boccetta dello spray al pepe con una determinazione da rigor mortis. I tendini dovevano essersi bloccati in quella posizione per la pressione del morso. I muscoli del cane si tesero, in preparazione al balzo. Presi la boccetta con la mano sana. Il cane mi si avventò contro. Io ruotai la boccetta verso il suo muso e premetti il pulsante. Udii il consolante rumore di un'esalazione di gas sotto pressione, e una nube rossastra investì in pieno il muso del cane. A causa dello slancio finì comunque per venirmi addosso, gettandomi a terra, ma si contorceva e sbavava, ormai incapace di attaccare. Mi tolsi da sotto quella massa in preda agli spasmi e, rotolando, mi sistemai in posizione accosciata. Il cane si torceva a terra e strofinava freneticamente il naso sull'asfalto, come a volersi liberare della causa di quell'agonia. Mi avvicinai con la boccetta in pugno e, quando il cane voltò verso di me il suo muso starnu-
tente, gliela puntai diritta nelle narici, premendo subito dopo il pulsante. Dalla boccetta emanò un'ultima densa nube e poi, all'improvviso, si rivelò vuota, completamente esaurita. Poteva bastare. Il corpo del cane sprofondò in una serie di spasmi così atroci da fare sembrare uno scherzo, al confronto, le sofferenze patite fino a quel momento. L'irritante a base di oleoresin capsicum non è mortale, in genere, ma ebbi la sensazione che una dose concentrata come quella sniffata dal cane potesse rappresentare l'eccezione alla regola. Guardai verso Murakami. Era in piedi, ma il suo peso era interamente spostato sull'unica caviglia sana. Nella mano destra, tenuta vicina al corpo, stringeva il suo coltello Kershaw. Guardai a terra e vidi il manganello. Lo raccolsi con la mano sana e mi avvicinai a lui, con il braccio sinistro che penzolava inutile. Murakami ringhiava cupo, in modo non tanto diverso dal suo cane. Gli girai intorno con cautela, costringendolo a cambiare posizione e cercando di sondare i limiti della sua mobilità. Sapevo che il colpo da me assestato alla sua caviglia era stato durissimo, ma sapevo anche che Murakami poteva cercare di esagerare la gravità del danno per indurmi ad accelerare un po' troppo i tempi. Se fosse riuscito ad afferrare il manganello o a penetrare in altro modo nella mia guardia, il suo coltello e le sue due braccia, ancora sane, sarebbero state più che sufficienti per avere la meglio. Decisi, perciò, di temporeggiare. Feci alcune finte con il manganello. Prima a sinistra, poi a destra. Girai tenendomi dalla parte della sua mano armata di coltello, per evitare che con la mano libera potesse afferrarmi troppo facilmente e per continuare a farlo muovere, al fine di affaticare la sua caviglia. Lasciai che prendesse le misure delle mie finte a sinistra e a destra, dopo di che affondai un colpo al centro, mirando direttamente al volto e al collo di Murakami. Lui parò l'affondo con la mano libera, cercando di agguantare il manganello, ma io me l'aspettavo, e feci in tempo a sottrarre la mia arma alla sua presa. Poi, con altrettanta rapidità, di rovescio, la utilizzai per colpirlo sul lato del cranio. Lui si piegò, posando un ginocchio a terra, ma io non mi avventai su di lui. Avevo la sensazione che stesse fingendo per indurmi ad attaccare, annullando così il vantaggio offerto dalla maggiore lunghezza del manganello. Murakami perdeva sangue dalla testa. Mi guardò, e io, per una frazione di secondo, vidi balenare nei suoi occhi la paura, simile a uno scroscio di
pioggia di stravento. I suoi stratagemmi non avevano funzionato, e lui lo sapeva. Sapeva che avrei puntato a sfiancarlo, a logorarlo sistematicamente, e che non avrei commesso stupidi errori che lui potesse sfruttare. La sua unica possibilità era un tentativo disperato. Continuai a girargli intorno, pronto a reagire. Lo lasciai avvicinare leggermente, abbastanza da suscitare in lui una piccola speranza. Fintai e schivai, costringendolo a fare pressione sulla caviglia rotta. Murakami ansimava, ormai. Con un fragoroso kiai si avventò su di me, allungando la mano libera nel tentativo di afferrarmi per il bavero e di tirarmi, poi, verso il coltello proteso. La caviglia, però, rallentò i suoi movimenti. Io feci un lungo passo all'indietro, spostandomi contemporaneamente di lato, e gli calai il manganello sull'avambraccio. Privilegiai la precisione e la rapidità, rispetto alla forza, ma fu ugualmente una botta notevole. Murakami ululò di dolore, mentre io eseguii altri due passi all'indietro per poter valutare con più obiettività il danno inflitto. Lui si portò il braccio ferito al petto e mi guardò. Sorrise. «Dai», disse. «Sono qui. Vieni a finirmi. Non aver paura.» Io continuai a girargli intorno, insensibile alle sue provocazioni. «Il tuo amico gridava, mentre volava giù», disse. «Lui...» Gli fui addosso con un solo passo e gli affondai il manganello in gola. Lui sollevò il braccio ferito per tentare di afferrarlo, ma io l'avevo già tirato indietro. E così facendo mi acquattai, per sferrargli un'altra manganellata alla caviglia. Con un urlo, Murakami cadde in ginocchio. Mi appostai alle sue spalle, al riparo da eventuali assalti. «Gridava più o meno così?» ringhiai, abbattendogli il manganello sul cranio a mo' di ascia. Murakami cadde su un fianco, ma cercò subito di recuperare l'equilibrio. Lo colpii di nuovo. E poi ancora. Dalla testa gli sgorgava il sangue a fiotti. Mi resi conto che stavo urlando. Non so che cosa, però. Lo riempii di mazzate finché non cominciai a sentir male al braccio e alla spalla. Quindi, indietreggiando di un lungo passo, mi lasciai cadere in ginocchio, con il fiato grosso. Guardai verso il cane e vidi che era immobile. Presi fiato per qualche secondo. Cercai di richiudere il manganello retrattile, ma non ci riuscii. Diedi un'occhiata e subito capii perché: a furia di
colpi, quella sbarra d'acciaio era ormai tutta deformata. Cristo. Mi alzai in piedi e trascinai il corpo esanime di Murakami sotto il tendone, dove giacevano anche i resti di uno dei suoi amici. Trascinarlo con una sola mano fu una faticaccia, ma ci riuscii. Con il cane fu più semplice. Estrassi i cellulari, li ripulii per bene e li mollai a terra. Idem con gli occhiali scuri e con il manganello. Non avevo voglia di farmi beccare con una spranga da ottanta centimetri le cui deformazioni combaciavano perfettamente con il cranio di una delle vittime. Mi sfilai anche il giubbotto di pelle e lo distesi su quel macello. In alcuni dei bidoni della spazzatura si era raccolta dell'acqua piovana: la utilizzai per sciacquare un po' i dintorni, in modo da rendere le tracce di sangue un po' meno evidenti, e quand'ebbi finito ripulii con cura anche i bidoni che avevo toccato. L'ultima tappa fu l'ingresso principale del palazzo, dove trovai la sigaretta che avevo sputato prima di eliminare il secondo guardaspalle. La spensi e ne intascai il mozzicone. Mi avvicinai al citofono e suonai a casa di Naomi. Un attimo dopo udii la sua voce. «Chi è?» Era spaventata. Per un attimo faticai a ricordare come avevo detto di chiamarmi, quando l'avevo incontrata la prima volta al Damask Rose. Poi però mi tornò in mente: mi ero presentato con il mio vero nome, John Rain. «Sono io», dissi. «John.» La sentii respirare. «Sei solo?» domandò. «Sì.» «Bene. Vieni su, allora. Sbrigati.» Il portone ronzò e io lo aprii. Tenni la testa china, per non risultare riconoscibile agli occhi degli investigatori che l'indomani avrebbero certamente visionato le registrazioni video. Salii a piedi fino al quinto piano e, quando fui sulla porta dell'appartamento di Naomi, bussai piano. Vidi svanire, per un attimo, la luce dietro lo spioncino. Subito dopo, la porta si aprì. Naomi restò a bocca aperta, vedendomi. «Oh, meu Deus», disse. «Meu Deus, che cosa è successo?» «Li ho incontrati mentre se ne andavano.» Lei scosse la testa e sbatté le palpebre sconvolta. «Su, vieni avanti.» Entrai nel genkan, e lei richiuse la porta alle mie spalle. «Non posso restare», dissi. «Presto qualcuno li troverà, e a quel punto il quartiere si riempirà di poliziotti.» «Qualcuno li troverà...» ripeté, mentre il suo viso si rapprendeva in un'e-
spressione di consapevolezza. «Tu... li hai uccisi?» Scosse la testa, come se faticasse a crederci. «Oh, merda!» «Spiegami: che cosa è successo?» Naomi mi guardò. «Sono venuti a cercarmi al club, stasera. Mi hanno ordinato di seguirli, senza spiegarmi dove fossimo diretti. Ero terrorizzata. Mi hanno costretta a portarli qui, in casa mia. Murakami aveva con sé un cane e mi ha detto che me lo avrebbe aizzato contro se non avessi fatto quello che voleva.» Mi guardò, e mi parve inquieta per via di quel che io avrei potuto pensarne. «Fa niente», dissi. «Va' avanti.» «Diceva di sapere che tu e io ci vedevamo anche fuori dal Damask Rose ed era sicuro che io avessi un modo per contattarti. Mi ha costretto a chiamarti e a dirti di venire qui.» «Probabilmente, era un bluff», dissi. «Magari, le microspie erano in funzione quando mi hai dato il tuo indirizzo e-mail, e lui ha preso spunto da questo per fare un tentativo. O forse Yukiko aveva notato qualcosa e gliene aveva parlato, ma non ha più importanza.» Naomi annuì. «Mi ha domandato in che lingua parliamo, io e te, in occasione dei nostri incontri. Perlopiù in inglese, gli ho detto. L'inglese di Muratami non era un granché, ma mi ha detto che se avesse sentito qualcosa di strano, qualcosa che potesse assomigliare a un avvertimento, mi avrebbe data in pasto al cane. Mi stava addosso e ascoltava. Temevo che tu, se io avessi tentato di avvertirti, potessi dire qualcosa di compromettente, e a quel punto per me sarebbe stata la fine. Io, però, ho cercato di farti capire, in un modo praticamente impercettibile, tale da indurti a non rispondere esplicitamente. Te ne sei accorto?» Annuii. «"Quell'ah, no"», dissi, con la stessa strana pronuncia che aveva usato lei. «Sim. Mi dispiace di non avere potuto fare di più. Avevo troppa paura. Mi avrebbe scoperto.» Sorrisi. «Sei stata perfetta», dissi. «Hai fatto la cosa giusta. Obrigado.» Io mi stavo tenendo il polso sinistro fermo al petto. Lei lo vide e domandò: «Che cosa è successo al tuo braccio?». «È stato il cane di Murakami.» «Cristo! Come ti senti?» Guardai il mio avambraccio. Il giubbotto di pelle aveva impedito ai denti di lacerare la pelle, ma la zona era livida e incredibilmente gonfia, al punto
da indurmi a credere che ci fosse qualcosa di rotto. «Passerà», dissi. «Io sono preoccupato per te, piuttosto. C'è appena stato un triplice omicidio sotto casa tua. Non appena i corpi verranno ritrovati, la polizia sequestrerà le registrazioni di tutte le telecamere a circuito chiuso dei palazzi della zona. Vedranno che sei uscita da un'auto in compagnia di un tizio con un cane bianco, lo stesso cane che al momento è lì a raffreddarsi insieme al suo padrone a pochi metri dal palazzo in cui abiti. Ti faranno un mucchio di domande.» Naomi mi guardò. «Che cosa dovrei fare?» «Se ti prendono, dovrai dire la verità. Certo, non ti conviene dire che poco fa mi hai aperto la porta, perché diventeresti mia complice. Non devi negare, però, che qualcuno è salito fin qui e ha cercato di entrare. Vedranno anche me nelle immagini registrate, anche se ho fatto attenzione a non mostrare la faccia.» Naomi annuì. «Okay.» «Il tuo problema, però, non è la polizia, bensì la gente in affari con gli uomini che sono venuti qui stasera. Ti cercheranno: per vendetta, per arrivare a me o per entrambe le cose.» Il suo viso color caramello impallidì come un cencio. «Mi avrebbe ucciso, vero?» disse. Annuii. «Se mi fossi fatto vedere come lui sperava, avrebbero ucciso me e poi anche te in quanto testimone e potenziale pericolo. Il mio mancato arrivo ha ridotto la tua pericolosità. Per loro, a quel punto, ucciderti era più un problema che altro. Tutto qui.» «Meu Deus», disse, deglutendo. Era pallidissima. «Fa' una valigia», le dissi. «Alla svelta. Poi prendi un taxi e va' a Shinjuku o a Shibuya, in qualche posto dove c'è ancora gente in giro. Lì chiamerai un altro taxi. Prendi una stanza in un "hotel dell'amore", dove la registrazione è automatica. Usa soldi in contanti; niente carta di credito. Dovrai salire sul primo treno per Nagoya o per Osaka, una città che abbia un aeroporto internazionale. Prendi il primo volo per l'estero. Fuori dal Giappone sarai al sicuro, e potrai tornartene a casa tranquilla.» «A casa?» Annuii. «In Brasile.» Lei restò in silenzio per un lungo istante. Quindi, prese la mia mano sana tra le sue. Mi guardò. «Vieni con me», disse. Guardando quegli occhi verdi, pensai quasi di poter accettare. Ma resistetti alla tentazione.
«Vieni con me», ripeté Naomi. «Anche tu sei in pericolo.» Credo di aver accennato un sorriso, per l'ironia della sorte, per gli scherzi che il destino certe volte ci gioca, perché lei mi domandò: «Che cosa c'è?» Scossi la testa. «Non posso muovermi, ora. E se anche potessi, per te sarebbe troppo pericoloso viaggiare con me. Tu va'. Io troverò un modo per mettermi in contatto con te a Salvador, quando ci sarai arrivata.» «Lo farai davvero?» «Sì.» Ci fu una lunga pausa. Poi, guardandomi, Naomi disse: «Non credo che verrai. Non importa. Però, ti prego, fatti vivo e dimmelo chiaramente. Non lasciarmi ad aspettare, nel dubbio. Non farmi questo.» «Mi farò vivo», le assicurai. «Non so esattamente dove sarò, ma puoi rintracciarmi attraverso mio padre, David Leonardo Nascimento. Lui saprà sicuramente dove trovarmi.» «Vai, ora», dissi. «Non hai molto tempo.» Mi voltai per andarmene, ma lei mi fermò e si avvicinò. Mi accarezzò il viso e mi baciò con forza. «Ti aspetterò», disse. 22. Mi allontanai da lì a piedi. Non volevo essere visto, neppure da un anonimo tassista. Mi diedi una ripulita in una sauna aperta tutta la notte, mi fermai in un drugstore per comprare dell'ibuprofen, ingoiandone all'istante sei compresse senza acqua. Il braccio mi pulsava. Infine, trovai un albergo a Shibuya e sprofondai in un sonno semicomatoso. Fu il ronzio del mio cercapersone a svegliarmi. Si era infiltrato nel mio sogno come il rumore di un cancello automatico da garage, per trasformarsi poi in squillo di cellulare; quando mi svegliai, finalmente, lo riconobbi per quello che era. Controllai il display. Era Tatsu. Alla buon'ora, cazzo. Uscii, trovai un telefono pubblico e lo chiamai. Era già mezzogiorno. «Tutto bene?» mi domandò. Doveva aver saputo della carneficina. «Mai che ci sia uno sbirro in giro, quando ce n'è bisogno», dissi io.
«Ti chiedo scusa.» «Se mi avessero ucciso, non avrei potuto scusarti. Date le circostanze, però, voglio essere generoso. Mi servirebbe un dottore: ho un braccio rotto.» «Te lo trovo io. Possiamo vederci subito?» «Sì.» «Dove ci siamo separati l'ultima volta.» «Okay.» Riagganciai. Eseguii un percorso anti-pedinamento che mi portò alla stazione di Meguro. Tatsu e Kanezaki mi aspettavano ai tornelli. «Ah, bene», pensai. «Ci mancava proprio, quest'altra sorpresa.» Li raggiunsi. Tatsu mi prese da parte. «L'ipotesi è che sia in corso una guerra tra bande», mi disse. «Una lotta interna alla yakuza che presto esploderà.» Lo guardai. «Hai saputo, vero?» Lui annuì. «E allora?» dissi. «I tuoi genitori non ti hanno insegnato a ringraziare?» La sua espressione si mutò in un sorriso stupito, e a quel punto mi diede una pacca sulle spalle. «Grazie», disse. Guardò il mio braccio, che tenevo innaturalmente stretto al corpo. «Conosco uno che può darti un'occhiata. Sono certo, però, che prima vorrai sentire quello che ha da dirti Kanezaki.» Raggiungemmo un caffè che si trovava di fronte alla stazione. Ci sedemmo e, dopo le ordinazioni, Kanezaki attaccò: «Ci sono novità sulla morte del tuo amico. Non è molto, ma tu mi hai aiutato, come avevi promesso, e quindi mi sento in dovere di parlartene». «Ti ascolto», disse. Kanezaki guardò Tatsu. «Ehm, Ishikura-san mi ha informato degli incontri con Biddle e Tanaka. Mi ha detto che Biddle ti ha chiesto di eliminarmi.» Si interruppe per un instante. «Grazie per non aver accettato», disse. «Doitashimashite», dissi, scuotendo lentamente la testa. Non parliamone neppure. «Dopo il nostro ultimo incontro», riprese Kanezaki, «ho cercato altre informazioni da usare contro Biddle ed ero intenzionato a fargli sapere che non avrei esitato a usarle se lui mi avesse minacciato.» «È svelto a imparare, il ragazzo», pensai. «Che cosa hai fatto?» «Gli ho piazzato delle microspie nell'ufficio.»
Lo guardai, metà sorpreso, metà impressionato dalla sua evidente audacia. «Hai piazzato delle microspie nell'ufficio del tuo capo?» Lui sorrise compiaciuto, con la sua faccia da giovane, e per un attimo mi fece pensare a Harry. «Sì. Il suo ufficio viene passato al setaccio ogni ventiquattr'ore, a un'ora fissa. Al quartier generale ho seguito il corso di effrazione e scassinamento: entrare, perciò, non è stato un problema.» «Sistemi di sicurezza davvero notevoli...» dissi. Kanezaki si strinse nelle spalle. «I sistemi di sicurezza, di solito, sono efficaci contro le minacce esterne, non contro quelle provenienti dall'interno. In ogni caso, io posso muovermi con una certa facilità, e così le microspie, oltre a piazzarle, ho potuto anche toglierle, per evitare che venissero trovate.» «Hai intercettato qualcosa a proposito di Harry?» domandai. Lui annuì. «Ieri Biddle era al telefono con qualcuno. Sono riuscito ad ascoltare solo metà della conversazione, ma ho capito che stava parlando con qualche pezzo grosso, perché era tutto un "sissignore" e "nossignore".» «Che cosa diceva?» «Diceva di non preoccuparsi, perché il filo seguito per arrivare a te era stato reciso. Non c'erano tracce.» «Non è granché.» Kanezaki si strinse nuovamente nelle spalle. «A me pare la dimostrazione definitiva del fatto che la morte del tuo amico non è stata un incidente.» Lo guardai, e quel che lui vide nei miei occhi lo fece trasalire. «Kanezaki», dissi, «se mi rifili anche la più piccola stronzata per indurmi ad agire contro il tuo capo, ti avverto che stai commettendo l'errore più grave della tua vita.» Impallidì leggermente, ma per il resto mantenne la calma. «Lo so. Non ti sto rifilando stronzate e non ho intenzione di manipolarti. Avevo promesso, in cambio del tuo aiuto, che ti avrei informato se avessi scoperto qualcosa a proposito del tuo amico, e tu mi hai aiutato. Io sto solo tenendo fede al mio impegno.» Tenni gli occhi fissi su di lui. «Nient'altro riguardo a chi avrebbe reciso il filo?» Kanezaki scosse la testa. «Nulla di esplicito, ma la conversazione era incentrata su Yamaoto, perciò credo lo si possa dedurre facilmente.» «Deduciamolo, allora.» A quel punto, intervenne Tatsu. «A quanto pare, tra Biddle e Yamaoto c'è un rapporto diverso da quello che io avevo immaginato. Per certi versi, sembrano più colleghi che antagonisti.»
«Che c'entra questo con Harry?» domandai io. «Origliando, ho scoperto, tra l'altro, che Biddle medita di passare le ricevute a Yamaoto.» Il cameriere ci portò il caffè e si allontanò. «Non capisco», dissi. «Credevo avessimo stabilito che il governo degli Stati Uniti intendeva sostenere le riforme in Giappone, e che la riforma di Yamaoto, invece, sarebbe un pericolo mortale.» «Infatti», disse Kanezaki. «Tu, però, hai appena detto che stanno lavorando fianco a fianco.» «Così ho capito.» «Se è così, Biddle potrebbe essere coinvolto nella morte di Harry, ma in che termini?» «Non saprei.» Guardai Tatsu. «Se la CIA sta collaborando con Yamaoto, lo scopo può essere solo quello di fregare i tuoi riformatori. E le ricevute, al momento, sono ancora nelle mani di Biddle.» Tatsu annuì. «Dobbiamo recuperarle prima che le passi a Yamaoto.» «C'è dell'altro, oltre alle ricevute», dissi. «Stando a quello che ci ha detto Tanaka, dobbiamo presumere che ci siano registrazioni audio-video degli incontri tra Kanezaki e i politici. Che cosa intendi fare, a questo riguardo?» «Non possiamo fare nulla», rispose Tatsu. «Ne abbiamo già parlato: i politici filmati nel corso dei loro incontri con un agente della CIA sono compromessi. Quelli implicati solo attraverso le ricevute si salveranno.» «Che vuoi dire?» «Solo una piccola parte dei politici riformisti compare nei film e nelle foto. Yamaoto, probabilmente, intende cominciare a rovinare questi. Poi, nel pieno del conseguente scandalo mediatico, divulgherà anche le ricevute. L'opinione pubblica non farà troppo caso al fatto che per questa seconda ondata di politici mancherà la riprova delle immagini o di registrazioni audio.» «Dunque, se è vero che Yamaoto è in grado di bruciare i politici da lui filmati...» «...dovrà, per il momento, limitarsi necessariamente a questi. Se recuperiamo le ricevute dei pagamenti, possiamo limitare i danni.» «Okay. Come facciamo a recuperare le ricevute?» «Biddle le tiene in cassaforte», disse Kanezaki. «Ne parlava nella telefonata che ho intercettato.» «Tu, ragazzo, ti intenderai di grimaldelli e serrature», dissi, «ma una
cassaforte è un'altra cosa.» «Non sarà necessario forzarla», disse Tatsu. «Biddle svelerà la combinazione.» «Ah. Hai intenzione di convincerlo con le buone?» Tatsu scosse la testa. «Ho pensato che sarebbe meglio se te ne occupassi tu.» Ci pensai su un attimo. Non mi dispiaceva l'idea di parlare con Biddle di Harry, in un contesto meno esposto di quello in cui ci eravamo incontrati la volta precedente. Soprattutto per verificare se davvero lui e Yamaoto operavano d'intesa; in caso affermativo, infatti, il suo coinvolgimento nella morte di Harry sarebbe risultato assai probabile. Di Murakami e di Yukiko mi ero già occupato, ma evidentemente restava ancora qualcosa da fare. «D'accordo», dissi. «Ci penso io.» «Posso aiutarti nei preparativi...» cominciò a dire Kanezaki. «No», lo interruppi scuotendo la testa. Avevo già deciso come muovermi. «Me la cavo da solo. Basterà che tu sia in grado di accedere all'ufficio di Biddle quando te lo chiederò.» «Okay», disse Kanezaki. Lo guardai. «Perché ti prendi questa briga? Se la CIA ti scopre, passerai per traditore.» Lui rise. «È difficile che uno si preoccupi di questo, se ha appena scoperto che il suo capo ha ingaggiato qualcuno per eliminarlo. Inoltre, l'operazione Crepuscular è conclusa. Ricordi? Per quel che mi riguarda, il traditore è Biddle. Io sto solo cercando di rimettere le cose a posto.» Tatsu mi portò da un medico di sua conoscenza, un certo Eto. Molti anni prima, Tatsu gli aveva fatto un favore, e il dottore - persona della cui discrezione si poteva essere certi - era in debito con lui. Eto non fece domande. Osservò il mio braccio e disse che avevo l'ulna fratturata. Me la rimise a posto, mi ingessò e mi prescrisse un analgesico a base di codeina. La ricetta era scritta su normale carta intestata dell'ospedale Jikei. Osservai la firma e notai che era illeggibile. Nessuno sarebbe riuscito a risalire a lui. Subito dopo, telefonai a Biddle. Gli dissi che avevo deciso di accettare la sua proposta e che avrei eliminato Kanezaki. Stabilimmo di incontrarci quella sera alle dieci per discutere i dettagli. Mi recai in un altro negozio per spie, a Shinjuku. Comprai un dispositivo per la visione notturna ad alta definizione, con funzione di ingrandimento
binoculare, e un altro manganello ASP, un oggettino a cui da qualche tempo ero sempre meno disposto a rinunciare. Quindi, mi fermai in un negozio di articoli sportivi, dove comprai una felpa di cotone nero pesante con un paio di pantaloncini coordinati e scarpe da jogging. Non fu facile trovare le scarpe giuste - il negozio, praticamente, ne aveva solo di multicolori o a tinte sgargianti -ma alla fine ne scovai un paio abbastanza scure. Prima di uscire dal negozio asportai le strisce catarifrangenti che il produttore aveva saggiamente piazzato in corrispondenza dei talloni per rendere i podisti più visibili di notte. Il rischio di essere investito da un'automobilista poco attento era l'ultima delle mie preoccupazioni. Avevo detto a Biddle di raggiungere la parte del cimitero di Aoyama Bochi sulla Kayanoki-dori entrando dalla Omotesando-dori; di lì avrebbe dovuto percorrere una cinquantina di metri. Sulla sua sinistra, a quel punto, avrebbe visto un obelisco che è la struttura più alta di tutto il complesso. Avrebbe dovuto aspettarmi lì. Alle otto di sera, quando ritenni che fosse buio a sufficienza, mi inoltrai nel cimitero dal lato della Gaiennishi-dori, evitando gli ingressi normali, per timore che potesse esserci qualcuno ad aspettarmi. Strano posto per andare a correre, ma non inaudito. Non appena fui all'interno del cimitero, indossai il visore notturno. Riuscivo a vedere ogni lapide e ogni cespuglio immersi in una luce verde. Vidi dei pipistrelli che veleggiavano tra gli alberi, un gatto che sbucava circospetto da dietro una tomba. Mi piazzai vicino all'obelisco, all'interno di una cappella a forma di tripla pagoda che offriva un ottimo nascondiglio e una visuale a trecentosessanta gradi. Biddle si presentò alle dieci in punto. Sul lavoro era puntuale come quando andava a prendere il tè. Lo guardai mentre si avvicinava all'obelisco. Indossava un impermeabile aperto sopra un completo con cravatta che faceva molto agente segreto. Per dieci minuti, grazie al visore a infrarossi, scrutai il perimetro del cimitero finché non fui certo che fosse solo. A quel punto, uscii dal mio nascondiglio e mi diressi verso di lui. Lui non si accorse del mio arrivo finché, giunto a pochi metri, non gli parlai. «Biddle», dissi. «Cristo!», disse lui, sobbalzando e voltandosi verso di me. Lo vedevo sbattere le palpebre nel buio. Nel bianco-verde dell'immagine a infrarossi, notai ogni sfumatura della sua espressione.
Il detector di Harry, nella mia tasca, non segnalava microspie. Con il braccio sano estrassi il manganello da una delle tasche dei pantaloncini. Biddle, al buio, non se ne avvide. «C'è un piccolo problema», dissi. «Di che si tratta?» «Ho bisogno che tu mi convinca del fatto che tu non hai niente a che fare don la morte di Haruyoshi Fukasawa.» In quel bagliore verdastro lo vidi corrugare la fronte. «Ascolta: ti ho già detto...» attaccò. Allungai il manganello con uno scatto del polso e glielo tirai di rovescio contro una tibia, trattenendo un po' il colpo, perché non era ancora il momento di rompergli qualcosa. Biddle strillò e cadde a terra, tenendosi la gamba colpita. Lo lasciai lì a rotolarsi per un minuto, durante il quale scrutai attentamente i dintorni. A parte Biddle, tutto taceva. «Smettila di fare rumore», gli dissi. «Sta' zitto, altrimenti ti faccio tacere io.» Digrignò i denti e guardò verso il punto da cui era giunta la mia voce. «Maledizione, ti ho detto tutto quello che sapevo», disse, ansimando. «Non mi hai detto che lavori con Yamaoto. E che sei tu, non Kanezaki, quello che tiene in piedi l'operazione Crepuscular.» Mi cercava nel buio con gli occhi spalancati. «È Kanezaki che ti paga, vero?» gemette. Ci pensai su un attimo. «No. Non c'è nessuno che mi paga. Per una volta sto facendo una cosa solo perché ho voglia di farla, anche se dal tuo punto di vista non direi che questa sia una buona notizia.» «Be', posso pagarti io. La CIA. Il mondo è cambiato, e noi - te l'ho già detto - vorremmo che anche tu ne facessi parte.» Gli sghignazzai in faccia. «Sembri uno di quei cartelloni per il reclutamento... Ora, però, parlami di Yamaoto.» «Dico sul serio: dopo l'11 settembre, la CIA ha bisogno di gente come te. È questo il motivo per cui ti cercavamo.» «Ti ripeterò la domanda. Gratuitamente. Però è l'ultima volta. Se non mi risponderai, la botta che ti ha appena atterrato ti sembrerà una carezza.» Ci fu un lungo silenzio, dopo di che Biddle disse: «D'accordo». Si rialzò lentamente in piedi, caricando il peso sulla gamba ancora illesa. «Yamaoto ha i suoi interessi, e noi abbiamo i nostri. C'è una temporanea convergenza, nient'altro. Un'alleanza tattica.» «A quale scopo? Credevo che l'operazione Crepuscular dovesse servire
ad aiutare i riformisti giapponesi.» Lui annuì. «A lungo termine, agli Stati Uniti le riforme farebbero comodo, ma creerebbero anche qualche problema. Il Giappone è il più grande creditore del mondo. Ha circa trecento miliardi di dollari investiti negli Stati Uniti in soli buoni del tesoro. A brève termine, le riforme significherebbero la chiusura delle banche giapponesi che, prese d'assalto dai clienti intenzionati a recuperare il loro denaro, sarebbero costrette a riportare in patria i capitali investiti all'estero. Se poi le riforme funzioneranno, e la situazione economica migliorerà, le imprese attive sul mercato giapponese diventeranno più attraenti, e le banche giapponesi riporteranno in patria i loro investimenti europei e americani, per ottenerne un maggiore profitto.» Si era ripreso con estrema abilità. Forse lo avevo sottovalutato. «Insomma, i pezzi grossi del governo degli Stati Uniti, per il momento, preferiscono mantenere lo status quo», dissi. «Noi preferiamo parlare di "stabilità"», disse, provando, con una smorfia di dolore, a poggiare un po' di peso sulla gamba ferita. Controllai la zona circostante. Tutto tranquillo. «Perché lo status quo serve a tenere tutti quei miliardi dì yen parcheggiati al sicuro negli Stati Uniti, dove fungono da pilastro dell'economia americana.» «Esatto. A metterla giù piatta, l'America è assuefatta al continuo afflusso di capitali stranieri che servono a finanziare il deficit pubblico, e buona parte di questi capitali proviene dal Giappone. Ci sono cose che il governo degli Stati Uniti non vuole cambiare.» Io scossi la testa. «Non l'hai messa giù tanto piatta. Al contrario. L'America è assuefatta al petrolio a basso prezzo, e per soddisfare le proprie esigenze sostiene regimi brutali in Medio Oriente. Se il governo degli Stati Uniti sostiene elementi corrotti anche in Giappone per garantirsi il continuo afflusso di capitali, in fondo è semplicemente coerente.» «Potrebbe essere come dici. In ogni caso, io non faccio politica: eseguo gli ordini.» «È per questo, dunque, che l'operazione Crepuscular è stata interrotta sei mesi fa», dissi. «Una qualche fazione rampante all'interno del governo degli Stati Uniti deve avere deciso che il sostegno alle riforme in Giappone non è nell'interesse dello Zio Sam.» «Al contrario», disse. Mosse le mani per infilarle nelle tasche dell'impermeabile. «Tieni le mani bene in vista», gli dissi, secco. Lui sobbalzò. «Scusa. Il fatto è che ho un po' freddo. Ma tu come fai a
vedere? Qui è buio pesto.» «Che cosa significa "al contrario"?» «Crepuscular non ha mai avuto lo scopo di promuovere le riforme. Era sin dall'inizio un sistema per subornare i riformatori. Chi ha ordinato di interromperla è un sostenitore delle riforme. Non certo un realista, però.» «Tu, invece, saresti uno dei realisti...» Lui si irrigidì leggermente. «Esatto. Insieme a una serie di istituzioni che decidono la politica estera americana. Quelle senza paraocchi, al riparo dalla pressione democratica. I politici spingono il Giappone verso le riforme perché non capiscono quello che sta succedendo. E quello che succede va ben oltre le riforme giapponesi. Cinque o dieci anni fa si sarebbe potuto fare, forse. Ora, però, è troppo tardi. I politici, in America, parlano sempre di "prendere il toro per le corna" e di "cura da cavallo", ma non capiscono che, se ci provano, le corna di questo toro finiranno per trafiggerli. Che il paziente è troppo debole, e un'operazione lo ucciderebbe. Non c'è più speranza di guarigione; sarà meglio passare al tentativo di lenire il dolore.» «È una storia commovente, dottor Kevorkian, ma io sono pronto per il finale.» «Il finale?» «Sì, quella parte che dice: "Ecco la combinazione della mia cassaforte."» «La combinazione... Ah, no! No, no, no», disse, con voce sempre più allarmata. «Come ha potuto convincerti a fare questo? Che cosa ti ha detto? Che quei riformatori sono degli eroi? Cristo, sono identici a tutti gli altri politici di questo dannato paese: egoisti e venali. Kanezaki non ha idea di quel che sta facendo.» Lo colpii nuovamente con il manganello alla gamba già menomata. Lui urlò e ricadde a terra. «Sta zitto», gli dissi, «altrimenti ti faccio lo stesso lavoro alle braccia.» Lui strinse i denti e rotolò sulla schiena, tenendosi la gamba con una mano, mentre con l'altra cercava inutilmente di proteggersi il viso da un nuovo affondo. «Ti avevo detto di non costringermi di nuovo a ripetere le domande», dissi. «Ora sputa l'osso, o non potranno ricorrere neanche all'impronta dei denti, per identificarti.» Alla luce verdognola del visore notturno vidi la sua mascella serrata. Gemeva, stringendosi la gamba. Alla fine disse: «Due volte trentadue a sinistra, una volta quattro a destra, dodici a sinistra.» Estrassi il cellulare e premendo un solo tasto chiamai Kanezaki. «Sì?» lo
sentii dire. Gli ripetei il numero che mi aveva dato Biddle. «Resta in linea.» Passarono alcuni secondi. «Sono entrato», disse. «Riesci a trovare quello che cerchi?» Sentii un fruscio di carte. «Altroché!» rispose Kanezaki. Interruppi la telefonata. «C'è una lapide a un metro da te sulla destra», dissi a Biddle. «Puoi usarla per rialzarti in piedi.» Si trascinò dalla parte giusta e si rialzò lentamente in piedi, appoggiandosi alla lapide. Si accasciò su di essa, ansante, la faccia madida di sudore. «Sapevi che avrebbero ammazzato Harry, vero?» dissi. Lo vidi scuotere la testa. «No.» «Però lo sospettavi.» «Io ho sospetti su tutto. Sono pagato per questo. Sapere, però, è una cosa diversa.» «Perché mi hai chiesto di eliminare Kanezaki?» «Credo che tu lo sappia già», disse, con un ritmo respiratorio meno concitato. «Se quelle ricevute venissero usate, qualcuno dovrebbe assumersene la responsabilità. E a quel punto converrebbe che questo qualcuno non fosse più in giro a raccontare la sua versione dei fatti.» «Kanezaki è ancora in pericolo?» Biddle sghignazzò mestamente. «Se le ricevute spariscono, no.» «Non sembri particolarmente turbato.» Si strinse nelle spalle. «Io sono un professionista. Non c'è niente di personale, in tutto questo. E spero lo stesso valga per te.» «Che ne sarà dell'operazione Crepuscular?» Biddle sospirò e mi parve vagamente in ansia. «L'operazione Crepuscular è finita. Da sei mesi, ormai.» Stava recitando la versione ufficiale. Era normale che avesse recuperato così rapidamente la sua serenità. Sapeva di non dover subire conseguenze personali di carriera. Lo guardai a lungo. Pensai a Harry, a Tatsu, ma soprattutto a Midori. Alla fine dissi: «Ti lascerò andare, Biddle. Sarebbe più saggio ammazzarti, ma non lo farò. Ciò significa che sei in debito con me. Se tu cercherai di saldare il tuo debito intromettendoti di nuovo nella mia vita, verrò a cercarti.» «Ti credo», disse. «Quando saremo fuori di qui, stasera, la questione sarà chiusa per sem-
pre. D'accordo?» «Noi abbiamo bisogno di te», disse. «Un posto per te ci sarà sempre.» Attesi per un istante immerso nel buio. Biddle si rese conto di non avere risposto alla mia domanda. Lo vidi trasalire. «D'accordo», disse a voce bassa. Io mi voltai e me ne andai. La via per uscire di lì se la sarebbe trovata da solo. Il giorno dopo mi incontrai con Tatsu in un viale assolato, all'ombra di un acero del parco Yoyogi. Lo misi al corrente di quello che avevo saputo da Biddle. «Kanezaki ha recuperato le ricevute», mi disse. «E le ha prontamente distrutte. È come se non fossero mai esistite. Dopo tutto, l'operazione Crepuscular è stata interrotta sei mesi fa.» «Quel ragazzo è ingenuo, ma è in gamba», dissi. Tatsu annuì, lo sguardo per un attimo malinconico. «È buono di cuore.» Sorrisi. Difficilmente Tatsu ammetterebbe che qualcuno possa essere buono di testa. «Mi sa che ancora non ha mostrato il meglio di sé», dissi. Lui si strinse nelle spalle. «Voglio sperarlo. Recuperare quelle ricevute è stata una fortuna, ma di cose da fare ne restano molte.» «Si può fare fino a un certo punto, Tatsu. Ricordalo.» «Qualcosa, però, dobbiamo fare, ne? Non dimenticare che il Giappone moderno è nato dalla presa del palazzo imperiale di Kyoto da parte di samurai che hanno dichiarato la restaurazione dell'imperatore Meiji. Forse, una cosa del genere potrebbe accadere di nuovo. Una rinascita democratica, magari.» «Magari», dissi io. Mi guardò. «Che cosa farai, Rain-san?» Io guardai gli alberi. «Ci sto pensando.» «Lavora con me.» «Ti si è incantato il disco, eh, Tatsu?» «Ecco che parli di nuovo come mia moglie.» Scoppiai a ridere. «Che effetto fa avere partecipato a qualcosa di più grande di te?» mi domandò. Sollevai il mio braccio imbragato e ingessato. «Ecco, l'effetto che fa», risposi.
Lui sorrise con la sua solita faccia triste. «Questo significa soltanto che sei ancora vivo.» Mi strinsi nelle spalle. «In effetti, meglio così.» «Se hai bisogno di qualcosa, in qualsiasi momento, fammelo sapere», disse. Mi alzai in piedi. Lui fece subito lo stesso. Ci inchinammo, ci stringemmo la mano. E io me ne andai. Camminai a lungo. In direzione est, verso la stazione di Tokyo, dove avrei preso il treno ad alta velocità che mi avrebbe riportato a Osaka. Tatsu sapeva come rintracciarmi, lì, ma per il momento non era un gran problema. Non sapevo che cosa avrei fatto, una volta lì. Yamada, il mio alter ego, era quasi pronto a partire, ma non sapevo ancora dove spedirlo. Sentivo il bisogno di mettermi in contatto con Naomi. Ne avevo voglia. Anche se non sapevo che cosa le avrei detto. Yamaoto era ancora in circolazione. Tatsu gli aveva inflitto un paio di duri colpi, ma quello era ancora in piedi. Probabilmente mi stava ancora cercando. Come la CIA, forse. Mentre camminavo, il cielo si rannuvolò. Il vento cominciò a scuotere i rami degli alberi di Tokyo, assuefatti all'inquinamento. Tatsu era su di giri. Mi domandai quale profondissima fonte alimentasse il suo ottimismo. Sarebbe piaciuto anche a me attingervi, ma ero troppo cosciente di Harry e della sua fine, di Midori e della nostra definitiva separazione, di Naomi e della sua attesa di una risposta incerta. Grosse gocce di pioggia cominciarono a percuotere la pelle di asfalto della città, i suoi occhi vitrei. Le poche persone munite di ombrello lo aprirono. Le altre corsero a cercare riparo. Io continuai a camminare. Provai a considerarlo un battesimo, un nuovo inizio. E forse lo era. Una resurrezione, ma solitaria. NOTA DELL'AUTORE I lettori che conoscono Tokyo e, in particolare, Roppongi e AkasakaMitsuke, sapranno che sono numerosi gli «hostess bar» e i «club per soli uomini» molto simili al Damask Rose; uno assolutamente identico, però, non c'è. Per il resto, i locali di Tokyo e di Osaka descritti in questo libro sono ritratti così come io li ho visti.
RINGRAZIAMENTI Alla straordinaria squadra transpacifica dei miei agenti e dei miei editor - gli agenti Nat Sobel e Judith Weber, della Sobel Weber Associates di New York, e Ken Mori, della Tuttle Mori di Tokyo, e gli editor David Highfill, della Putnam di New York, e Masaru Suzuki, della Village Books (marchio Sony) di Tokyo - per l'entusiasmo, l'intelligenza e l'appoggio che non hanno mai fatto mancare. Al mio caro amico e sensei Koichiro Fukasawa, della WasabiCommunications, per aver continuato a illuminarmi sul Giappone e i giapponesi, e anche per il grandioso sito web. A Evan Rosen, M.D., Ph.D., e a Peter Zimetbaum, M.D., entrambi della struttura medica di Harvard, per aver sopportato con pazienza le mie sgradevoli domande sulle implicazioni mediche delle tecniche omicide, per aver ammesso che il giuramento ippocratico potesse anche non applicarsi alla finzione e per aver aiutato John Rain in tutte le sue imprese con notevole competenza e capacità immaginative. A Lori Andreini, per i suoi consigli sul modo di vestire e di pensare delle donne sofisticate e sexy come Midori e Naomi, nonché per le sue utili osservazioni sul manoscritto. A Ernie Tibaldi, trentunenne agente veterano dell'FBI per aver generosamente condiviso con me la sua grande esperienza investigativa e nel campo della sorveglianza, per avermi segnalato molti ottimi libri e altre fonti di informazione, e anche per le sue utili osservazioni sul manoscritto. A Carla Mendes, per avermi aiutato ad approfondire la mia conoscenza del Brasile e dei brasiliani e per aver sovrinteso all'uso della lingua portoghese da parte di John Rain. A Marc «Animal» MacYoung e a Peyton Quinn, guerrieri filosofi, per i loro numerosi e interessantissimi libri, per i video sulla violenza e per le informazioni sull'etichetta di strada. In particolare, John Rain deve a MacYoung la sua concezione in tema di difesa disarmata contro avversari armati di coltello e a Quinn l'idea del «colloquio» con la potenziale vittima. A Masao Miyamoto, per il suo Straitjacket Society, libro orrendamente divertente da cui Tatsu ha tratto spunto per la sua descrizione della natura del Grande Fratello in Giappone. Al tenente colonnello Dave Grossman, per il suo inquietante e originalissimo libro, On Killing: The Psyhchological Cost of Learning to Kill in
War and Society, da cui ho tratto molti elementi utili a definire la storia personale e la psicologia di John Rain. Ad Alex Kerr, per il suo libro Dogs and Demons, meticolosa e documentata rassegna della corruzione giapponese e delle follie della burocrazia a cui mi sono ispirato per la definizione del contesto generale del romanzo. Ad Alan Eisler, Judy Eisler, Dan e Naomi Levin, Matthew Powers, Owen Rennert, David e Shari Rosenblatt, Ted Schlein, Hank Shiffman e Pete Wenzel per le utili osservazioni sul manoscritto e i molti fecondi suggerimenti che mi hanno fornito in corso d'opera. A Rick Kennedy e alla redazione di «Tokyo Q», che mi hanno fatto conoscere alcuni dei bar e dei ristoranti di Tokyo menzionati in questo libro. Ai proprietari dei seguenti esercizi, che è fantastico poter considerare alla stregua di miei uffici: Bar Satoh, Miyakojima-ku, Osaka; Café Borrone, Menlo Park, California; Las Chicas, Aoyama, Tokyo; biblioteca pubblica di Mountain View, California; These Library Lounge, Nishi Azabu, Tokyo. Soprattutto, però, a una grande editor, che è anche la mia più fiera sostenitrice e la mia migliore amica: Laura, mia moglie. FINE