Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA! Vita intrèpida di Ettore Muti. MON...
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Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA! Vita intrèpida di Ettore Muti. MONDADORI. 2002 Arnoldo Mondadori Editore S p A, Milano. Prima edizione ottobre 2002. INDICE. Quella notte a Fregene. Un fascista perfetto. L'avventura fiumana. L'incontro con Mussolini. Due colpi di pistola. La beffa di Addis Abeba. Dalla guerra di Spagna al vertice del partito. E' arrivato il castigamatti. La ricomparsa di Ara. La stagione degli inganni. Un cadavere ingombrante. Sette anni dopo. AMMAZZATE QUEL FASCISTA! La storia ammira i saggi ma esalta i coraggiosi EDMUND MORRIS, Theodor Rex. 1. QUELLA NOTTE A FREGENE. Ecco, Muti abita qui disse il brigadiere Barolat ai tre uomini in borghese che lo seguivano guardinghi con il mitra in pugno. La villetta bianca a un piano, situata al centro di un piccolo giardino circondato da una semplice rete metallica, era nascosta fra i pini e immersa nel buio e nel silenzio. Era infatti notte fonda. La notte fra il 23 e il 24 agosto 1943, e Fregene, benché si trovi a pochi chilometri da Roma, era ancora un lembo di costa allo stato naturale, solitario e selvaggio. Nessuna lottizzazione, nessun impianto turistico o balneare. Alla spiaggia si accedeva attraverso intricati sentieri che si incrociavano nella boscaglia, mentre l'abitato era costituito dalle baracche di legno di un villaggio di pescatori e da una manciata di modeste villette sparse nell'immensa pineta. "Di sicuro dormono tutti" soggiunse ancora, sottovoce, il brigadiere Barolat. Aveva il tono un po' risentito di chi non è troppo convinto di quello che sta facendo, e avrebbe continuato a brontolare se un "Ssst!" imperioso sibilato dal più autorèvole dei tre uomini non lo avesse fatto ammutolire. ll giovane sottufficiale, cui era affidato il comando del posto fisso dei carabinieri di Fregene, si era infatti rassegnato di malavoglia a fare da guida a quei misteriosi personaggi che appena mezz'ora prima lo avevano tirato giù dal letto. Era da poco passata la mezzanotte quando il piantone di servizio l'aveva destato con uno strattone: "Sveglia, brigadiere! Ci sono dei tizi in borghese che chiedono di voi". E lui si era vestito alla meglio per andare a vedere cosa diavolo volessero a quell'ora di notte. I "tizi" facevano parte della squadra di un commando speciale predisposto frettolosamente dal governo Badoglio. Era infatti impiegato per assolvere compiti particolari Pagina 1
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt nel quadro delle operazioni riservate rèsesi necessarie dopo il colpo di Stato che aveva provocato la caduta del regime fascista. Li comandava il tenente dei carabinieri Ezio Taddei, un ex ufficiale dei Granatieri di Sardegna arruolato dai servizi segreti e quindi trasferito nell'Arma. Egli aveva lasciato Roma con i suoi uomini poche ore prima, alla testa di una piccola autocolonna uscita dalla porta laterale dell'Autocentro del ministero dell'Interno di via Tommaso Campanella. Taddei e due suoi accompagnatori, tutti armati, ma in borghese, viaggiavano su una 1100 nera targata RE (Regio esercito). Erano seguiti da un'altra 1100, con a bordo i marescialli dell'Arma Alarico Ricci, Osvaldo Antichi e Pietro Loreti, da un autocarro con dodici carabinieri in uniforme e quindi da un'autoambulanza vuota guidata dall'agente di PS Mario Cella. Si trattava della stessa autoambulanza che meno di un mese prima, nel pomeriggio di domenica 26 luglio 1943, era stata utilizzata per trasferire l'ex Duce da Villa Savoia alla caserma degli allievi carabinieri di via Gallonio, dopo il drammatico colloquio con Vittorio Emanuele Terzo che aveva preceduto il suo arresto. Anche i tre sottufficiali della squadra avevano partecipato a quella delicata operazione e il maresciallo Antichi era appena rientrato da Ponza, dove aveva accompagnato Mussolini prigioniero. Procedendo con i fari oscurati, come prescrivevano le norme del tempo di guerra, i quattro veicoli incolonnati avevano percorso le vie della capitale, rese deserte dal coprifuoco, per poi avviarsi lungo la via Aurelia. Poco prima della mezzanotte, il gruppo si era fermato davanti alla stazione dei carabinieri di Maccarese, e Taddei, documenti alla mano, si era qualificato al comandante, maresciallo Paolo Murittu, come un ufficiale dei servizi. Poi aveva presentato soltanto uno dei due uomini che lo accompagnavano, il maresciallo Ricci, qualificandolo semplicemente come "un sottufficiale della squadra presidiaria". Dell'altro non aveva fatto cenno: come se non esistesse. Costui era il più anziano dei tre: un tipo taciturno, basso, stempiato, sulla quarantina, che indossava una tuta kaki da meccanico e portava il mitra di traverso sul petto. "Devo eseguire un mandato di cattura nei confronti del tenente colonnello Ettore Muti" aveva spiegato Taddei a Murittu. "So che abita da queste parti. Dovete farmi accompagnare da lui." Ettore Muti, ex segretario del PNF, il partito nazionale fascista, nonché eroe di guerra superdecorato, era ben noto al maresciallo Murittu, non certo sorpreso dell'accaduto malgrado l'alzataccia notturna. In quei giorni turbinosi seguiti alla caduta del regime, molti gerarchi erano stati fermati per i consueti accertamenti, e quindi richieste del genere non erano per lui inconsuete. Ma Muti non risiedeva nella sua giurisdizione, aveva spiegato Murittu al tenente Taddei, bensì nella vicina Fregene e di lui si era sempre occupato il brigadiere Franco Barolat, comandante del posto fisso dell'Arma situato in quella frazione. Poi, ben lieto di passare ad altri quella che il suo fiuto di vecchio carabiniere gli garantiva essere una patata bollente, aveva messo a disposizione di Taddei i carabinieri Antonio Contiero e Salvatore Frau affinché gli facessero strada in bicicletta ponendosi in testa alla colonna. Prima di muoversi, il tenente Taddei aveva ordinato all'agente Cella di sostare con l'autoambulanza nella borgata in attesa di istruzioni, poi il convoglio si era avviato a fari spenti dietro le due guide in bicicletta. Un quarto d'ora dopo giungevano a destinazione. A differenza di Murittu, il brigadiere Barolat, quando fu informato dei fatti, non nascose la propria sorpresa: quello schieramento di forze gli pareva francamente esagerato. "Sua Eccellenza Muti non ha mai dato problemi" osservò un po' risentito. "Basta mandarlo a chiamare e lui Pagina 2
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt viene... L'ho già fatto altre volte, anche se a un'ora più decente..." Ma Taddei non aveva tempo da perdere. "Risparmia il fiato e fai strada" tagliò corto e Barolat capì che non era il caso di insistere. Si avviò borbottando nel buio, aggiustandosi alla meglio l'uniforme che aveva frettolosamente indossato, mentre il tenente Taddei ordinava a bassa voce agli uomini appiedati che lo seguivano di non parlare, di non accendere sigarette e di tenere le armi pronte all'impiego. Giunti davanti alla villetta silenziosa, dopo il percorso di poche centinaia di metri che li separava dal numero civico 12 di via Palombina, Taddei predispose i suoi uomini attorno alla casa con le armi in pugno, sibilando i suoi ordini come se si accingesse ad assaltare un fortilizio nemico. Poi ordinò al brigadiere, che aveva assistito a quelle manovre precauzionali con malcelata perplessità, di bussare alla porta e di farsi riconoscere. Erano le due di notte del 24 agosto 1943. Per qualche minuto nessuno rispose. Poi una luce si accese nell'ingresso. "Chi è?" urlò una voce assonnata. "Sono il brigadiere Barolat" rispose il sottufficiale. "Aprite per favore. L'attendente di Muti, l'aviere Giovanni Marracco, detto "Masaniello" , spalancò l'uscio senza un attimo di esitazione. Conosceva da tempo Barolat e non poteva avere sospetti. "Ti sembra l'ora di svegliare la gente? protestò amichevolmente, ma subito dovette farsi da parte sotto la spinta dei tre uomini che entrarono in casa armi alla mano. "Ho un mandato di cattura per il colonnello Muti" annunciò Taddei. "Vallo a chiamare". Muti intanto si era svegliato. Comparve sull'ingresso della sua camera a torso nudo, con indosso soltanto i pantaloni azzurri del pigiama. Era sorpreso, ma non spaventato. "Che cazzo succede? imprecò in dialetto romagnolo osservando gli uomini armati. Poi riconobbe Barolat e gli sorrise: "Brigadiere, le sembra questa l'ora di svegliare i cristiani? . La risposta gli giunse dal tenente Taddei che gli si parò davanti esibendo la tessera di riconoscimento: "Sono un tenente dell'Arma. Ho l'ordine di arrestarvi". Muti lo guardò sbalordito, ma trovò anche la forza di fare dello spirito: "Da quando in qua si manda un tenente ad arrestare un ufficiale superiore? osservò con un mezzo sorriso. La norma, infatti, avrebbe previsto quantomeno l'impiego di un parigrado. Forse Muti avrebbe voluto chiedere altre spiegazioni, ma dopo essérsi reso conto che quegli uomini armati e minacciosi stavano facendo sul serio, si rassegnò con una scrollata di spalle: "Va bene. Verrò con voi. Datemi il tempo di vestirmi. Egli era ancora calmo e sicuro di sé: in quegli ultimi giorni, molti gerarchi fascisti più compromessi di lui erano stati fermati e poi rilasciati dopo una banale dichiarazione di lealtà verso il nuovo governo. Non aveva quindi nulla da temere. D'altra parte, anche il suo amico Carmine Senise, nuovo capo della polizia, gli aveva detto di stare tranquillo, che nessuno ce l'aveva con lui. Appena due o tre giorni prima, lo stesso maresciallo Badoglio, nuovo capo del governo, l'aveva rassicurato e intrattenuto molto cordialmente. Prima di salutarlo gli aveva persino sfiorato la guancia con un buffetto affettuoso. Quando Muti si mosse per rientrare nella sua camera, Taddei fece l'atto di seguirlo, sempre con il mitra imbracciato. L'altro cercò di fermarlo. "Vi prego" disse con tono spazientito. "Nel mio letto c'è una signora... Il tenente fu irremovibile. "Mi dispiace" replicò "ma ho l'ordine di non perdervi di vista. Muti gli lanciò un'occhiata seccata: il tono arrogante di quel giovane ufficiale lo stava innervosendo. "Tenente, non dimenticatevi che Pagina 3
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt state parlando a un colonnello protestò, ma tutto fu inutile e Taddei lo seguì nell'interno. Seduta sul letto, avvolta in una camicia di seta, c'era una giovane donna spaventata e bellissima (che sarà in seguito identificata come la cittadina cecoslovacca Edith Fischerowa, nata a Banska Bistrizce il 4 maggio 1921), la quale, sotto il nome d'arte di Dana Havlowa, aveva riscosso in Italia un grande successo di pubblico quale soubrette dell'applaudita compagnia di riviste di Odoardo Spadaro. Rassegnato all'indesiderata presenza dell'intruso, Ettore Muti si rinfrescò il viso con dell'acqua di colonia e, dopo essersi pettinato con cura, tolse dall'armadio la sua uniforme estiva di tenente colonnello della Regia aeronautica. Sul petto della giubba spiccavano quattro file di decorazioni. Taddei intervenne con un gesto di disapprovazione. Sarebbe più consigliabile l'abito borghese" osservò. Muti ribatté con una scrollata di spalle: "Io mi vesto come mi pare , poi si calò i pantaloni del pigiama per indossare l'uniforme. Anche gli altri di casa si erano nel frattempo svegliati e sull'ingresso erano comparsi la cameriera Concettina Verità e l'imprenditore romagnolo Roberto Rivalta, uno scapolone quarantenne, coetaneo di Muti, da sempre suo amico fraterno e compagno di avventure e di baldorie. Pochi minuti dopo riapparve anche Muti che ordinò a Concettina di preparargli il nécessaire per radersi. Poi, dopo averle consegnato alcuni biglietti da cento lire per le spese domestiche, scrisse su una scatola di cerini il numero telefonico del colonnello Aliprandi, suo amico e capo di gabinetto al ministero della Marina. "Telèfonagli appena fa giorno" ordinò alla donna "e infòrmalo di quanto è accaduto." Poi si rivolse a Taddei: "Ora sono pronto. Possiamo andare". Quel giovane ufficiale arrogante e i suoi due silenziosi accompagnatori non l'avevano turbato più di tanto. Nella sua vita spericolata di moderno soldato di ventura Muti aveva affrontato situazioni assai più difficili. Prima di avviarsi verso la porta salutò con un sorriso l'amico Rivalta, baciò sulla guancia la giovane amante, si calcò in testa il berretto inclinandolo sulla sinistra per assumere la consueta aria spavalda e uscì nel buio seguito dalla sua taciturna scorta. Aveva fretta di risolvere quella strana faccenda. 2. UN FASCISTA PERFETTO. Ettore Muti aveva tutte le caratteristiche del "fascista perfetto" idealizzato dalla retorica del regime. Se Mussolini avesse potuto indicarne l'archètipo, certamente lo avrebbe scelto come modello. Muti infatti era bello, robusto, coraggioso, violento, sciovinista e spaccone. Di cultura modesta, più del libro amava il moschetto; le sfide con la morte lo affascinavano e la virilità senza aggettivi era la sua religione. Ruvido e cameratesco con gli uomini, si mostrava galante, rapace e irresistibile con le donne. Votato all'avventura per l'avventura senza pregiudizi ideologici o freni morali, era sempre pronto a correre dove bisognava menar le mani, e infatti non si perse mai una guerra, una rivoluzione o una semplice bravata. D'altronde, "vivere pericolosamente" era stato il suo motto ancora prima che Mussolini lo scegliesse come viatico dell'homo NOVUS che il regime intendeva forgiare. Di temperamento ribelle, trasgressivo e anticonformista, Muti disprezzava la vita còmoda e il panciafichismo borghese. Uomo d'azione e non di pensiero, non sopportava le scartoffie, i contraddittori, i bizantinismi, i sottintesi, le manovre sottobanco, il carrierismo e soprattutto i cacadubbi. Per lui non esistevano zone grigie: se una cosa non era bianca doveva per forza essere nera. Insomma, Pagina 4
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt un uomo con molto fegato e poco cervello, come scriverà di lui Galeazzo Ciano, sconcertato dalla sua ingenuità, dalla sua avventatezza, ma anche dalla sua specchiata onestà. Un tipo siffatto era ovviamente destinato a diventare fascista, ma da ragazzo, quando il fascismo non esisteva ancora e il giovane Mussolini, suo conterraneo e suo futuro idolo, predicava la rivoluzione socialista, l'indisciplinato studente Ettore Muti veniva semplicemente considerato un simpatico lavativo che tutti avrebbero voluto avere come compagno, ma nessuno come figlio o come marito della propria figlia. Nato a Ravenna il 22 aprile 1902, già dalla scelta del suo nome si poteva intravederne il destino: mamma Celestina Ghepardi, donna ambiziosa, di nobili natali e animata da sacro fuoco patriottico, gli aveva imposto quello di Ettore, ispirandosi non al malinconico figlio di Priamo ma all'eroico Fieramosca, trasformato dalla retorica risorgimentale in un paladino dell'italianità. Il padre di Ettore era invece di pasta diversa, non si occupava di politica e non coltivava sogni ambiziosi per il suo unico figlio maschio: un "posto fisso" al servizio dello Stato era per lui il traguardo più ambito. Si chiamava Cesare ed era un impiegato comunale modesto e incolore. Dominato dalla forte personalità della moglie, non eserciterà alcuna influenza sull'educazione del ragazzo, interamente affidato alle cure della madre e delle sorelle maggiori Linda e Maria. Coccolato da tre donne adoranti, Ettore crebbe come un piccolo dèspota cui tutto era perdonato, accentrando l'attenzione, l'amore e le speranze del piccolo e mediocre mondo femminile che lo circondava. Gli esperti di psicologia sono soliti sostenere che un ragazzo allevato fra sole donne è destinato a sviluppare un carattere debole ed effeminato, ma se questo teorema può forse essere valido per altri, certamente non lo fu per Muti. A tredici anni, quando frequentava le scuole tecniche di via Baccarini, era già un maschiaccio che primeggiava nelle baruffe e scarseggiava negli studi. A scuola infatti era il classico alunno dell'ultimo banco inviso agli insegnanti, ma ammirato dai compagni e dalle ragazzine. Alto, robusto e bello più del normale, a mano a mano che cresceva assomigliava sempre più a quei divi messi in voga dal cinema muto e rispondenti all'atletico modello del "ragazzone americano" dalle spalle quadre, dal sorriso spavaldo e dallo sguardo tenebroso. La sua bellezza aveva soltanto una pecca. Gli incisivi superiorl gli erano cresciuti stranamente distanziati e rendevano meno gradevole il suo sorriso. In seguito, quando i mezzi glielo permetteranno, Muti si farà costruire da un abile odontotecnico un piccolo apparecchio per nascondere questo difetto. Si trattava in pratica di due denti finti, inseriti fra quelli veri, che gli consentivano di scherzarci sopra e di vantarsi di avere in bocca trentaquattro denti invece dei normali trentadue. Prima ancora di modificare il proprio aspetto con la pròtesi dentaria, Muti aveva subìto un altro curioso cambiamento, di natura anagrafica. Il suo vero cognome infatti non era Muti, ma Muty, e quella "y" finale, così poco italiana, era stata a lungo un cruccio per mamma Celestina, infervorata di patriottismo e di irredentismo. Per papà Cesare non era stato comunque troppo difficile accontentare l'irrequieta consorte. Essendo impiegato presso l'ufficio anagrafe del comune di Ravenna, aveva provveduto lui stesso, senza ricorrere alle complicate autorizzazioni giudiziarie, a cancellare l'esotica "y" per sostituirla con una italianissima "i". Questa singolare iniziativa si rivelò utile molti anni dopo, quando Ettore Muti, diventato un potente gerarca fascista, cominciò a essere assediato da presunti "parenti", che spuntarono come funghi da ogni parte d'Italia per postulare favori e raccomandazioni. In quell'occaPagina 5
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sione, infatti, si trincerò dietro l'originaria "y" finale mandando via a mani vuote tutti i Muti che finivano in "i". D'altra parte, Ettore non peccò mai di nepotismo e rifiutò sempre le piaggerie. Si infischiava delle tradizioni familiari e così pure dei tentativi di nobilitare la sua stirpe, che invece mamma Celestina non si stancava di incoraggiare. Una volta, per esempio, uno storico locale scovò negli archivi ravennati un canonico di nome Muty ucciso nel 1825 da un colpo di fucile destinato al cardinale Agostino Rivarola, il famigerato legato pontificio che aveva messo a ferro e fuoco la Romagna papalina al tempo dei primi moti risorgimentali. Fiero della sua scoperta, lo storico non esitò a segnalarla a Ettore Muti dimostrando che quel prete era un suo prozio. Questi però non apprezzò la segnalazione. "Ma che canonico d'Egitto!" commentò con un'alzata di spalle. "Io non ho preti in famiglia." Era infatti un romagnolo rivoluzionario e mangiapreti degno delle migliori tradizioni locali. La famiglia Muti abitava in corso Garibaldi, davanti alla caserma di cavalleria di Santa Maria della Porta, e il piccolo Ettore spesso scappava di casa per assistere alle esercitazioni dei soldati. Gli squilli di tromba, l'alzabandiera e gli altri riti militareschi lo affascinavano. Nutriva una vera passione per le uniformi e il suo gioco preferito era quello della guerra. Con gli altri amici del quartiere aveva formato una piccola banda di tipo militare che si ispirava nelle azioni e nei gesti alle imprese eroiche dei protagonisti di uno dei più diffusi giornaletti dell'epoca. Si trattava del settimanale "L'Esploratore", il cui eroe più popolare era un ragazzo di nome Gim, sempre al centro di episodi avventurosi che si concludevano immancabilmente col trionfo del tricolore. Muti, che ne era un assiduo lettore, pretese di essere chiamato "Gim" da tutti i suoi compagni, e quel soprannome lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Così come in famiglia, il ragazzo primeggiava anche fra i compagni. Più alto e più robusto dei suoi coetanei, Gim era immancabilmente il capobanda e non esitava a fare a botte con chi osava contestarne la supremazia. Voleva che tutti lo imitassero nell'ardimento e imponeva alla sua cricca "prove di coraggio esagerate, per non dire criminali. Una volta, a un ragazzo che voleva entrare nel suo gruppo, disse: "Per dimostrare il tuo coraggio tira forte con le dita la pelle del collo, te la trapasserò con la mia carabina Flobert". Il poveretto obbedì e l'altro sparò sul serio. Il medico che curò il ferito non riuscì a capire come avesse fatto il piccolo proiettile a perforargli in due punti il collo senza lèdere organi vitali. Più tardi, chiamati dal padre del ferito, intervennero anche i carabinieri, i quali, considerata l'età del giovane delinquente, si limitarono a sequestrargli la carabina. Di solito, comunque, Gim amava scherzare e buttare in gioco anche gli episodi più seri. Dopo le baruffe non portava rancore e spesso gli bastava un sorriso, una battuta di spirito o un abbraccio per farsi perdonare. Sapeva prendere tutti per il verso giusto giocando sul suo innegabile fascino e sulla simpatia che emanava la sua persona. Anche in casa era così: una risata, una trovata, una spavalderia, impedivano sempre, al momento buono, di intervenire contro di lui col giusto rigore. D'estate la famiglia Muti trascorreva la villeggiatura a Piangipane, un paesino della Romagna dove abitavano i nonni materni e dove il ragazzo si scatenava fino a diventare la disperazione dei contadini. Armato del suo inseparabile fucile Flobert, gironzolava per i campi dando la caccia a tutto ciò che si muoveva: lucertole, passerotti, bisce, ratti e galline. Queste ultime, dopo averle catturate, le portava in un solaio dove aveva allestito una sorta di sala di tortura e si divertiva a spennarle vive o a impiccarle Pagina 6
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt mettendo in opera un complicato congegno. Crudele come tutti i ragazzi, si divertiva ad assistere alla loro agonìa. Nonostante le sgridate, Ettore era molto affezionato al nonno, un ex garibaldino dal quale si faceva cantare sino all'esaurimento tutte le canzoni di guerra di sua conoscenza. Ma, pur amandolo, non mancava di combinargli scherzi atroci. Come quando, approfittando dei suoi momenti di distrazione, segò di un centimetro al giorno il bastone sul quale si appoggiava, ridendo poi a crepapelle quando il povero vecchio perdeva l'equilibrio senza capirne la ragione. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, l'incorreggibile dìscolo cominciò ben presto a far parlare di sé anche nella sonnolenta Ravenna, rendendosi protagonista di fatti e di episodi che, visti oggi, diventano addirittura significativi. A quel tempo la situazione dei lavoratori della terra delle campagne romagnole, già esplosiva, ancora non si ripercuoteva nel centro cittadino dove la vita scorreva tranquilla. I partiti di sinistra (il partito socialista e quello repubblicano, il primo votato dai braccianti, il secondo dai mezzadri e dai piccoli proprietari) che egemonizzavano la vita politica, essendosi da tempo inseriti nel governo locale, si erano istituzionalizzati ed esercitavano di conseguenza una funzione conservatrice. Il "ribellismo" fermentava più nelle file della destra, dove studenti, giovani borghesi e figli di papà movimentavano l'ambiente con dimostrazioni patriottiche che con l'avvicinarsi della guerra diventarono sempre più rumorose. Anche in Romagna, come nel resto dell'Italia, stava infatti crescendo una generazione di giovani, che poeti e poetastri sciovinisti ubriacavano di retorica patriottica esaltando il "mito degli eroi, delle armi invitte", degli "acciai rilucenti e così via, alimentando nei loro animi la voglia di potenza, di ardimento, di combattentismo e di guerra. Una guerra che veniva invocata come un lavacro purificatore e che invece li porterà a dissanguarsi nelle trincee del Carso e sulle rive del Piave. Ettore Muti era troppo giovane per appartenere a questa generazione, ma deve aver orecchiato, sia pure confusamente, le nuove istanze che si levavano attorno a lui, di cui forse afferrò soltanto l'aspetto più confacente al suo temperamento. Ossia l'esaltazione del gesto distruttivo, dell'eroismo personale, del militarismo, del patriottismo e di tutti quei "sacri ideali" per i quali era giusto morire. Una prova singolare del suo precoce ribellismo e della sua visione del mondo, il dodicenne Ettore la fornì nell'autunno del 1914 quando, terminato il ciclo delle sei classi elementari, i suoi genitori lo iscrissero alle scuole tecniche. A quell'epoca, la prima guerra mondiale era già scoppiata, ma coinvolgeva soltanto le grandi potenze europee: l'Italia era ancora neutrale, anche se le fibrillazioni delle fazioni interventiste già la scuotevano, trovando un fertile terreno fra gli studenti delle scuole superiori. Un mattino il suo professore di lettere, un socialista moderato e neutralista, dopo aver indottrinato i propri ragazzi con un fervorino umanitario e pacifista, assegnò loro il seguente tema: "Lo studente esemplare". Muti si mise al lavoro di buona lena e riempì quattro paginette descrivendo con espressioni appropriate la figura del classico studente che l'insegnante aveva indicato come modello. Ossia disciplinato, studioso, bravissimo in tutte le materie, senza grilli per la testa, voglioso di benmeritare e sordo alle lusinghe dei cattivi compagni che marinavano le lezioni per correre in piazza a gridare "Viva la guerra". Ma, terminato lo svolgimento, Muti aggiunse in stampatello un irriverente giudizio finale: "QUESTO PERO' NON E' UN RAGAZZO, MA UN ABORTO DI NATURA". Il tema del giovane ribelle fece scalpore non solo nell'ambiente scolastico. Il consiglio dei professori espresse il Pagina 7
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt proprio biàsimo e decretò due giorni di sospensione per il responsabile. Fu convocata anche mamma Celestina la quale, tuttavia, non si dimostrò particolarmente turbata e non nascose una certa fierezza per quel suo ragazzone scanzonato che osava infrangere le regole del perbenismo borghese. Dell'episodio si parlò anche in città e non mancarono le approvazioni degli ambienti nazionalisti che interpretarono quel gesto come una patriottica protesta contro un sistema scolastico decadente teso a smorzare ogni valore spirituale nell'animo dei giovani. Lo studente "non" esemplare intanto gongolava. I sottintesi apprezzamenti lo inorgoglivano e alimentavano in lui quella voglia di mettersi in mostra e di farsi ammirare per le bravate commesse che diventerà in seguito la sua principale caratteristica. Tornato a scuola, Muti non modificò affatto il proprio comportamento, e l'obiettivo dei suoi tiri mancini continuarono a essere quei compagni che lui considerava "aborti di natura", ossia i primi della classe e gli sgobboni. Li tormentava a ogni occasione contando sulla propria forza fisica. Una volta ingerì il contenuto del calamaio di un compagno più bravo di lui per impedirgli di portare a termine il compito. Un'altra rubò il registro di classe procurandosi di nuovo una sospensione dalle lezioni. Il 24 maggio 1915, data in cui l'Italia entrò nel conflitto mondiale, Ettore Muti, tredicenne da poco più di un mese, era un ragazzo dal fisico robusto che sembrava più adulto della sua età. Come si è detto, la guerra lo entusiasmava; seguiva con attenzione i resoconti dei giornali e non perdeva occasione per disertare le lezioni e correre in piazza a gridare "Abbasso l'Austria" e "Viva Trieste italiana". A scuola, naturalmente, andava sempre peggio. La computisteria non lo ispirava e passava il tempo a disegnare sui quaderni cannoni e mitragliatrici. D'altronde, la gente non parlava che della guerra e la partecipazione dell'Italia al conflitto aveva accentuato la sua irrequietezza. Quando andava alla stazione a vedere i soldati che partivano per il fronte, in cuor suo li invidiava. D'altra parte, anche Gim, il protagonista del suo giornaletto preferito, aveva indossato il grigioverde e ora combatteva eroicamente contro i "cattivi" che vestivano l'uniforme austriaca. In classe l'atmosfera era mutata. Il combattentismo faceva presa sull'animo dei ragazzi, ma un po' meno su quello degli insegnanti. Gli scontri fra pacifisti e interventisti erano frequenti e fu proprio in seguito a uno di questi incidenti che il nostro Gim si giocò l'anno scolastico. Non è del tutto chiaro come siano andate le cose e la versione originale dei fatti sarà in seguito sommersa dalla leggenda secondo la quale il ragazzo Muti sarebbe insorto per contestare certe affermazioni disfattiste del suo insegnante. Il fatto è che il ragazzo ebbe uno scontro col professore. Questi impugnò minacciosamente la classica bacchetta (a quell'epoca le punizioni corporali non erano proibite), ma Muti fu più rapido di lui e lo mise KO con un diretto alla mascella. Il riprovevole episodio rappresentò la goccia che fa traboccare il vaso: il consiglio dei professori questa volta non diede ascolto alle suppliche di mamma Celestina e decise di liberarsi definitivamente dell'incorreggibile allievo. Ettore Muti fu infatti espulso da tutte le scuole del regno. Per alcuni mesi lo studente ribelle vagabondò per le vie di Ravenna frequentando compagnie di ragazzi più grandi e balordi al pari di lui. Di malavoglia seguiva le lezioni private impostegli da papà Cesare che, nel contempo, si affannava a compilare ricorsi con la sua bella calligrafia, nella speranza di veder condonata al proprio ragazzo quella radiazione che minacciava di mettere in forse il suo futuro. Gim, da parte sua, neppure si rendeva conto della gravità della situazione in cui era venuto a trovarsi. La Pagina 8
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt commentava con spavalderia, si atteggiava a vittima di un sopruso e si vantava di quel suo gesto di ribellione che anche mamma Celestina sembrava approvare. Il ragazzo cominciava così a dar prova di un carattere violento che nessuno si era preoccupato di modificare: l'uso della forza iniziava ad apparirgli come l'unico mezzo efficace a sua disposizione per ottenere ciò che voleva. Si avviava insomma su una strada pericolosa da cui sarebbe stato ancora possibile distoglierlo, visto che in fondo era generoso e di buon cuore. Ma erano tempi brutti: l'Europa intera annegava in un bagno di sangue, le nazioni cercavano di risolvere con la guerra i loro problemi, la propaganda bellicista infiammava gli animi, e i giovani dal sangue bollente, di qualsiasi idea, e anche quelli come Muti, privi di ogni idea, si sentivano prudere le mani. Il primo anno del conflitto non si era ancora concluso quando il ragazzo mise in atto un progetto che forse coltivava da tempo. Una notte di dicembre del 1915 scappò di casa "per andare a fare la guerra", come scrisse su un biglietto d'addio lasciato alla mamma. Viaggiò con mezzi di fortuna o con le tradotte militari e in pochi giorni raggiunse la zona di operazioni in Cadore, dove riuscì facilmente a mescolarsi alle truppe fingendo di essere uno dei tanti profughi che si aggiravano nelle retrovie. Rimase con i soldati per alcune settimane prestandosi come garzone nelle caserme e nelle cucine. Aveva architettato di procurarsi un'uniforme sottraendola di notte a qualche caduto e di unirsi ai soldati avviati verso il fronte. Ma il suo sogno guerriero fu infranto dai carabinieri che, insospettiti dai suoi atteggiamenti, lo fermarono nei pressi di Udine e lo condussero a Cormons, dove aveva sede il comando di Stato maggiore, per procedere alla sua identificazione e quindi rispedirlo a casa. Il caso volle che la pattuglia che lo scortava incontrasse per strada il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell'esercito italiano, il quale, incuriositosi, conversò paternamente per alcuni minuti col piccolo prigioniero. Riguardo al loro colloquio la leggenda ha certamente oscurato la verità. In seguito, infatti, si è raccontato che Cadorna, dopo aver ascoltato commosso le proteste del ragazzo che voleva andare a fare la guerra, avrebbe commentato: "La guerra? Ma se hai appena quattordici anni!" E l'altro, pronto: "La piccola vedetta lombarda ne aveva uno meno di me". Molto probabilmente questa versione deamicisiana dell'episodio è stata inventata da uno dei tanti apologeti del gerarca fascista. E certo comunque che Cadorna, invece di tirargli le orecchie, lo lodò pubblicamente indicandolo come esempio agli altri soldati. Ritornato a Ravenna, il fuggiasco non trovò l'accoglienza che si meritava, né una giusta e appropriata punizione. "Credevo di essere molto in collera con lui," racconterà sua madre molti anni dopo "invece dalle mie labbra non uscì nemmeno un rimprovero e lo abbracciai innumerevoli volte, singhiozzando di commozione, per la felicità di averlo di nuovo con me. Lui mi raccontò sorridente la sua bella avventura e mi confidò che non si era mai divertito così tanto in vita sua. Gli piaceva fare il soldato. Il mio Ettore era nato con la divisa." Con una madre così, vien fatto di pensare, difficile che l'irrequieto Gim non ci riprovasse. E infatti fu quanto accadde poco più di un anno dopo. Questa volta organizzò la sua fuga con maggiore attenzione. Si procurò infatti i documenti di un amico più anziano di lui, che aveva deciso di non rispondere alla chiamata alle armi e sulla cui identità Muti mantenne il massimo riserbo per non comprometterlo (in tempo di guerra i disertori venivano fucilati). Poi, dopo aver falsificato quelle carte in maniera alquanto abborPagina 9
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt racciata, ritornò nel Cadore e si presentò al comando militare situato in zona di operazioni. Arruolarsi non gli fu difficile. Non aveva ancora compiuto quindici anni, ma essendo alto e aitante, ne dimostrava almeno diciotto, quanti ne risultavano dai documenti posticci. Comunque nessuno trovò nulla da ridire: la sua prestanza fisica ingannò gli esaminatori. Per giunta, l'esercito aveva un tale bisogno di uomini che non si guardava troppo per il sottile. Preso in forza nel sesto reggimento di fanteria della brigata Aosta, la recluta fu spedita direttamente al fronte dopo poche settimane di addestramento, e per alcuni mesi il ragazzo-soldato esperimentò con abnegazione ed entusiasmo le durezze della vita militare come fante tra i fanti. Ma non era ancora contento: lui voleva fare la guerra, combattere. I servizi di retrovia, i noiosi turni di guardia e il dispotismo dei sergenti non si confacevano al suo temperamento ribelle. Così, quando pochi mesi dopo, nella primavera del 1917, il capitano Baseggio costituì i primi reparti d'assalto in cui potevano arruolarsi soldati di ogni arma e di ogni età, fu tra i primi a offrirsi volontario. Il nuovo ambiente in cui il ragazzo venne a ritrovarsi era quello da lui sempre sognato: poca disciplina, tanto entusiasmo, forte cameratismo tra ufficiali e soldati, razioni speciali di cibo, soprassoldo, alcol e sigarette, oltre a una voglia comune di menar le mani. Essendo tutti volontari, i componenti delle truppe d'assalto erano infatti delle autentiche pellacce pronte ad affrontare qualsiasi rischio e capaci di compiere le azioni più temerarie. Originariamente il reparto aveva assunto il nome di "Compagnia esploratori della morte", ma in seguito i suoi componenti furono chiamati semplicemente "Arditi". In un primo tempo, essi vennero impiegati per rapidi colpi di mano a raggio limitato o per improvvise scorrerie nelle trincee nemiche. Più tardi, essendo aumentati di numero, furono raggruppati in reparti di ordine superiore fino a formare una divisione, e impegnati in vere e proprie operazioni offensive ad ampio raggio. L'armamento individuale degli Arditi era costituito dal moschetto, dal pugnale e dalle bombe a mano; quello di reparto disponeva di mitragliatrici Fiat 1914, di pistole mitragliatrici, di lanciatorpedini e di lanciafiamme. Tutte armi nuove, pratiche e maneggevoli, che entusiasmavano quei soldati spericolati. Anche l'uniforme distingueva gli Arditi dagli altri fanti: giubba grigioverde aperta sul petto, fiamme nere come mostrine e ancora fez con nappa, maglione, cravatta e fasce gambiere, pure di colore nero. Un colore che andrà molto di moda di lì a pochi anni... Persino i motti scelti dai vari reparti ("Disperata", "Me ne frego", "Se non son matti non li vogliamo", ecc.) dopo la guerra confluiranno interamente nel lessico fascista insieme al funebre armamentario di teschi, di tibie incrociate e di altri simboli mortuari che gli Arditi esibivano nelle loro uniformi fuori ordinanza. Diventato la mascotte del Primo reparto d'assalto, Muti si distinse subito per uno straordinario coraggio che rasentava la sventatezza. "Pugnale fra i denti e bombe a mano" , come diceva la canzone degli Arditi, Gim affrontava quasi quotidianamente la morte con incosciente spavalderia. Rotto a tutte le astuzie del combattimento, maneggiava ogni tipo di arma con l'abilità di un veterano. Aveva finalmente trovato il suo mestiere: la guerra. Gli piaceva il combattimento, e al termine di ogni operazione partecipava felice con gli adulti alle colossali bisbocce che i comandi tolleranti consentivano e incoraggiavano per mantenere sempre su di giri il morale di quei soldati d'élite. Le imprese compiute dall'adolescente Muti (il più giovane in assoluto del reparto) furono veramente innumerevoli, tanto che si conquistò ben presto l'ammirazione dei camerati e dei superiori. Quell'eroico ragazzone sempre pronto per ogni azione spavalda Pagina 10
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sprizzava simpatia da tutti i pori e gli anziani lo trattavano ormai da pari a pari. Da Sdricca di Manzano, dove aveva sede il suo reparto, Muti si spostò su varie zone del fronte dove la lotta era più intensa. Combatté a Grigno, vicino a Trento e partecipò alle azioni di Col Berretta e di Col Moschin, ma la sua impresa più rischiosa la visse sulle rive del Piave nel giugno del 1918, durante la furiosa battaglia del Solstizio. Il giovane era entrato a far parte di un gruppo speciale di "Arditi nuotatori" che poi saranno ribattezzati i "caimani del Piave". Il loro addestramento era stato durissimo: per allenarsi, erano spesso costretti a rimanere in acqua anche sedici ore al giorno. Una notte i "caimani" attraversarono il fiume a nuoto per attaccare le posizioni austriache, ma l'effetto sorpresa non impedì al nemico di reagire, tanto che ne seguì uno scontro cruento, all'arma bianca, che si concluse in un bagno di sangue. Degli 800 Arditi che erano partiti, ne tornarono alla base appena 22. Muti si trovava fra questi. I superstiti dell'eroico episodio furono naturalmente citati all'ordine del giorno e il giovane Muti venne segnalato al comando per il suo comportamento temerario. "Lanciava le bombe come se fosse impegnato in una sassaiola," raccontarono ammirati i suoi compagni "poi continuò a lottare a colpi di pugnale." Ce n'era abbastanza per una decorazione sul campo, e infatti il suo comandante lo propose per la medaglia d'argento. Fu a questo punto che per l'eroico Gim cominciarono i guai. "Io non voglio medaglie" dichiarò con una scrollata di spalle, quando ne fu informato. "Le medaglie non mi interessano" ribadì con fermezza. E insistette nel suo inspiegabile rifiuto anche al momento di essere convocato dai superiori. Lo strano atteggiamento di colui che era destinato a diventare il soldato più decorato d'Italia suscitò sorpresa e anche sospetti. Nessuno riusciva a spiegarsi il motivo della sua ostinazione. La medaglia è il premio più ambito dai combattenti, perché lui la rifiutava? L'interrogativo restò a lungo in sospeso e poiché Muti seguitava a rimanere trincerato in un silenzioso diniego, i suoi superiori, ormai certi di trovarsi di fronte a una sorta di anarchico ribelle e nemico delle istituzioni, passarono dalle lusinghe alle minacce. D'altra parte, rifiutare una decorazione significava offendere tutti i decorati al valor militare, pertanto, se il giovane Ardito continuava a respingere la medaglia doveva giocoforza essere deferito alla corte marziale. In realtà Muti non voleva essere decorato semplicemente perché era consapevole che le pratiche previste dalla procedura per l'assegnazione avrebbero rivelato il suo segreto. Ossia che era un minorenne e che si era arruolato con l'inganno utilizzando i documenti di un disertore. Si trovava insomma di fronte a un dilemma estremamente serio: se accettava la medaglia avrebbe smascherato l'amico disertore, che sarebbe stato certamente fucilato, se la rifiutava finiva sotto processo per vilipendio alle istituzioni militari. Alla fine, malgrado Muti continuasse a rifiutare ogni spiegazione, la verità, almeno in parte, venne a galla. Il disertore non fu smascherato, ma si scoprì la sua minore età. Di conseguenza, Muti fu rispedito a casa accompagnato dai carabinieri come un qualsiasi dìscolo. Senza medaglia e senza alcun riconoscimento di sorta. Nel foglio matricola di Ettore Muti, ancora conservato presso il ministero della Difesa, si legge questa singolare annotazione, riguardante la sua partecipazione alla prima guerra mondiale: Muti Ettore, classe 1902, Distretto militare di Ravenna. In forza al Sesto Reggimento Fanteria - Rep. Arditi - tra l'ottobre e il novembre del 1917 partecipò a numerose azioni e, in particolare, all'azione di Pagina 11
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Col Berretta. Il medesimo, in forza al 20esimo reparto d'Assalto, nel giugno del 1918, partecipò alla battaglia del Piave meritandosi una proposta di medaglia d'argento. A questo punto, sottolineata in rosso, la nota così prosegue: I suaccennati periodi non vanno tuttavia considerati come servizio militare a nessun effetto trattandosi di servizio compiuto anteriormente al compimento del 17esimo anno di età. E pertanto, il medesimo non è dispensato dal compiere la ferma di leva quando la sua classe sarà chiamata alle armi. 3. L'AVVENTURA FIUMANA. Veterano, ma minorenne, Ettore Muti rientrò di malavoglia nell'angusto ambiente provinciale della sua Ravenna. Mamma Celestina, che lo aveva accolto a braccia aperte piangendo di gioia, ora lo esibiva con fierezza quando la domenica mattina l'accompagnava in chiesa per la messa insieme a Linda e Maria, fiere anch'esse di quel fratello che suscitava gli sguardi ammirati delle loro amiche. Le imprese compiute dal giovanissimo volontario avevano fatto ben presto il giro della città. Il Carlino" aveva pubblicato una sua fotografia in divisa da Ardito facendola seguire da un lungo articolo che esaltava il valore e il patriottismo del "più giovane soldato d'Italia". Il sindaco e le autorità lo avevano elogiato in pubblico additandolo come esempio alle giovani generazioni, e lui aveva accolto gli allori fingendosi sorpreso e ammiccando agli amici che lo applaudivano con l'aria di chi pensa di non aver fatto nulla di eccezionale per meritarsi tanti onori. In famiglia soltanto suo padre non si era unito al coro trionfale che aveva salutato il ritorno del reduce vittorioso. Agli occhi del modesto impiegato comunale, quel figlio scapestrato, senza arte né parte, rappresentava un serio problema. Refrattario agli entusiasmi della moglie e delle figlie, Cesare Muti non si era montato la testa. Al contrario, aveva gettato acqua sul fuoco esercitando quel poco di influenza di cui disponeva per indurre la sua famiglia a rientrare nell'ambito tranquillo della normalità piccolo borghese. Si era infatti limitato a sfruttare i "meriti patriottici del figlio per inoltrare l'ennesimo ricorso affinché gli venisse abrogata l'espulsione che lo bandiva da tutte le scuole del regno. Papà Cesare non si era mai rassegnato a quella vergogna. Uomo con i piedi per terra, unicamente preoccupato di far quadrare il bilancio e di tirare avanti dignitosamente, aveva compiuto ogni sforzo possibile perché fosse consentito a suo figlio di riprendere gli studi per guadagnarsi il classico "pezzo di carta" che avrebbe garantito il suo futuro. Il "pezzo di carta" era la licenza tecnica, un titolo di studio secondario che, tuttavia, in un'epoca in cui solo a pochi privilegiati era consentito frequentare l'università, rappresentava l'indispensabile lasciapassare per ottenere un impiego dignitoso. Com'era facile prevedere, questa volta il ricorso fu accolto. Nell'atmosfera esaltata dell'immediato dopoguerra pochi presidi avrebbero avuto l'audacia di respingere un ex Ardito che voleva tornare agli studi dopo aver combattuto per la difesa della patria. Gim tornò dunque fra i banchi di scuola. Grande e grosso com'era e, per giunta, reso ancor più spavaldo dai suoi trascorsi guerrieri, non riuscì, ammesso che lo desiderasse, a riadattarsi all'ambiente scolastico, alle sue regole, alla sua disciplina. Gli insegnanti osservavano perplessi e intimoriPagina 12
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt ti quel ragazzone estroverso che per i suoi compagni non rappresentava certamente un modello da imitare. Costoro tuttavia lo ammiravano, si divertivano con le sue burle e lo ascoltavano rapiti quando raccontava le vicende da lui effettivamente vissute e da loro invece soltanto sognate leggendo i giornaletti d'avventura. Gim era ancora diciassettenne, eppure la guerra lo aveva provvisto di un bagaglio d'esperienze eccezionali anche per un adulto. Aveva combattuto in prima linea, aveva assaltato le trincee nemiche con la baionetta in canna, aveva visto la morte in faccia e aveva anche ucciso... sì, ucciso molti nemici. "Neppure ricordo quanti si schermiva con un'alzata di spalle. "Forse una dozzina, forse qualcuno di più..." Ma non erano soltanto storie di guerra quelle che Gim raccontava. Anche in retrovia aveva fatto esperienze stimolanti che i suoi coetanei gli invidiavano: la vita di caserma, le marce forzate, i gavettoni, i cicchetti dei sergenti, le esercitazioni con ogni tipo di arma, le grandi bevute di grappa, distribuita gratuitamente prima di ogni assalto, e ancora le colossali bisbocce ad azione compiuta, la conta malinconica dei camerati caduti, i brindisi alla loro memoria e, come corollario finale, l'immancabile visita al casino... Il casino era il luogo più agognato dai ragazzi di allora, ma anche il più irraggiungibile per chi non avesse compiuto il ventunesimo anno. Per l'Ardito Ettore Muti, invece, la minore età non aveva mai rappresentato un problema e gli era stato possibile entrare e uscire da quei luoghi proibiti senza esibire i documenti. "Il grigioverde" spiegava spavaldo "era la mia carta d'identità." Ora un tipo simile, smessa l'uniforme e appeso il fucile al chiodo, era tornato a scuola per far contenti i genitori. Ma non poteva durare... Intorno a lui, intanto, l'Italia ribolliva. La guerra aveva lasciato il paese prostrato sul piano economico e in preda a violenti scontri sociali. Anche le estenuanti trattative per la pace alimentavano il malcontento. Prendeva piede la convinzione che gli antichi Alleati congiurassero contro l'Italia allo scopo di privarla dei compensi che le spettavano per aver contribuito in maniera determinante al conseguimento della vittoria. D'altra parte, i costi della guerra erano stati altissimi: 600.000 morti, mezzo milione di mutilati e migliaia di ex combattenti da reinserire in un sistema sociale che gli avvenimenti bellici avevano devastato. L'inflazione galoppava, il costo della vita si era quadruplicato e le industrie, patologicamente enfiate dai consumi di guerra, invece di offrire nuovi posti di lavoro erano costrette a ridurre quelli esistenti. Da parte loro, gli Alleati che ci avevano rifornito di materie prime per alimentare il nostro sforzo bellico, avevano dimezzato o interrotto del tutto l'invio del carbone, del grano e delle altre necessarie forniture. Invano i nostri delegati alla Conferenza di pace di Versailles avevano protestato paventando una "morte economica" dell'Italia che avrebbe provocato immancabilmente una rivoluzione, com'era accaduto in Russia e come minacciava di accadere anche nei paesi usciti sconfitti dal conflitto. L'argomento non era valso a nulla: l'egoismo nazionale prevaleva su tutto e ciascuno si preoccupava di portare acqua al proprio mulino. L'indifferenza manifestata dagli ex Alleati nei nostri confronti aveva perciò contribuito a creare un senso di frustrazione tra i fautori della guerra e un desiderio di rivalsa tra quelli che l'avevano osteggiata. A sinistra, intanto, gli echi della trionfante Rivoluzione d'Ottobre avevano infiammato gli animi e innestato una volontà di emulazione. "Vogliamo fare come in Russia!" gridavano nelle piazze i dimostranti seminando sgomento e terrore negli ambienti borghesi e tanta rabbia fra gli ex combattenti, spesso svillaneggiati e derisi. A destra, invece, stava maturando la reazione. La paura del bolscevismo inPagina 13
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt combente terrorizzava gli ambienti borghesi, mentre il partito nazionalista accusava gli Alleati di ingratitudine dirottando il malcontento generale contro le ingiustizie vere o presunte che venivano consumate ai nostri danni sui tavoli di Versailles. Insoddisfatti dei risultati ottenuti e convinti che l'Italia potesse ancora affermarsi come grande potenza, i nazionalisti rivendicavano espansioni territoriali a spese di altre nazionalità e applaudivano Gabriele d'Annunzio, che era diventato il loro punto di riferimento raccogliendo attorno a sé sostenitori e militanti delle provenienze più diverse. In questa generale confusione, l'ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini aveva fondato nel marzo del 1919 i Fasci di combattimento, un movimento di protesta che già nel nome portava impressa la propria identità, o per meglio dire la propria indefinibilità ideologica. Nel primitivo programma mussoliniano c'era infatti di tutto: acceso patriottismo, esasperato nazionalismo, ma anche istanze socialiste, come la terra ai contadini, la conquista delle "otto ore , la partecipazione operaia alla gestione delle aziende, il voto alle donne, la pregiudiziale repubblicana e così via. Insomma, un programma che accontentava chiunque, che lasciava aperte tutte le porte e che sanava tutte le sue contraddizioni nel combattentismo, ossia nella promessa dell'azione. Fascista ante litteraln per mentalità e comportamento, Muti aveva subito risposto all'appello di Mussolini. Si era iscritto ai fasci già nell'aprile del 1919, non tanto per convincimento politico (lui infatti si definiva un repubblicano mazziniano), quanto per il fatto che i fascisti, quasi tutti ex combattenti delusi al pari di lui, parlavano un linguaggio che gli era familiare ed erano propensi a passare alle vie di fatto anziché perdere tempo fra dibattiti e conferenze. Muti, infatti, difficilmente si recava ai comizi, mentre era sempre pronto a correre dove bisognava menar le mani. In quel momento, tuttavia, era ancora Gabriele d'Annunzio il leader nazionalista più prestigioso: l'ex socialista di Predappio si accontentava di crescere alla sua ombra. Di conseguenza, il giovane Muti guardava con maggiore interesse verso la veneziana "Casetta rossa", nella quale il Vate aveva stabilito il suo pittoresco quartier generale, che non verso il "covo" di via Paolo da Cannobio, a Milano, dove l'ancora oscuro Mussolini cominciava a tessere le sue trame. D'altra parte, a differenza di quest'ultimo che non poteva vantare un passato eroico, il Poeta-soldato, protagonista di leggendarie imprese di guerra, era l'"uomo del giorno , e la personificazione stessa del combattentismo. Con la caratteristica benda nera sull'occhio ferito (in seguito la sostituirà con un occhio di vetro), il petto ricoperto di decorazioni e l'oratoria fiammeggiante, d'Annunzio esercitava un forte richiamo su uomini che, abituatisi in trincea a menar le mani, stentavano a riadattarsi alla normalità e non cercavano che dei pretesti per sfogare il proprio scontento. Autonominatosi "comandante, il Poeta scorrazzava per l'Italia pronunciando discorsi incendiari, ricoprendo di insulti il governo "rinunciatario e prendendo particolarmente di mira il primo ministro Francesco Saverio Nitti, da lui ribattezzato sprezzantemente "Cagoia. Analogamente a tanti ex combattenti disoccupati e senza prospettive, d'Annunzio si era infatti rassegnato male alla pace, anche perché, come scrittore e poeta, sentiva di aver ormai dato il meglio di sé. Solo l'azione gli poteva consentire di rimanere un protagonista e la Conferenza di pace di Versailles, con i suoi intrighi ai danni dell'Italia, gli forniva tutti i pretesti necessari. Interpretando l'amarezza dei reduci, il Vate "imaginifico" sapeva trovare le parole acconce per riscaldare gli animi. Condiva infatti i suoi discorsi con frasi lapidarie e citazioni latine, spesso Pagina 14
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt incomprensibili, ma di effetto (Memento audere sempre, ricorda di osare sempre, era il suo motto preferito) per invitare gli ex combattenti a riprendere in pugno le armi "per amore di Cristo" e per combattere "il banco dell'usuraio". Aveva coniato anche un grido di guerra di sua invenzione: "Eia! Eia! Alalà , che non significava nulla, ma che sarà destinato a rintronare per vent'anni le orecchie degli italiani. Tuttavia la figura retorica più suggestiva coniata da d'Annunzio per eccitare la fantasia degli ex combattenti fu quella della "vittoria mutilata". Mutilata, spiegava, perché gli ex Alleati recalcitravano a riconoscere gli impegni assunti nei confronti dell'Italia con l'allora famoso e controverso patto di Londra. Questo patto, firmato segretamente il 26 aprile 1915 dai nostri governanti, stabiliva infatti che, se l'Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese (come poi effettivamente accadde), al termine del conflitto avrebbe ottenuto il Trentino, l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l'Istria e la Dalmazia. A guerra finita però - sebbene il generale Pietro Badoglio si fosse affrettato a occupare militarmente tutti i territori assegnati - avevano avuto inizio le contestazioni e i distinguo. La Serbia si era immediatamente opposta all'italianizzazione della Dalmazia, mentre l'Inghilterra, e soprattutto la Francia, da sempre interessata a esercitare la propria influenza nei Balcani, propendevano a darle ragione, dimentiche di quanto era stato stabilito a Londra. A complicare le cose era poi sopraggiunto Thomas W. Wilson. Il presidente degli Stati Uniti, essendo entrato in guerra soltanto nel 1917, non si sentiva impegnato dal patto di Londra, anzi, a dire il vero, non era neppure stato informato della sua esistenza. Per giunta, da buon americano di mentalità quacchera, animato da principi puritani e fortemente risoluto ad anteporre la "morale" alla "ragion di Stato", aveva addirittura fissato in "14 punti" e "4 principi gli scopi che l'America si prefiggeva. Molti di questi "punti e di questi "principi erano risultati fin dal primo momento chiaramente utopistici e comunque fortemente contrastanti con le ciniche regole della Realpolitik adottata dalle cancellerie europee. Ma nel 1917, quando le sorti della guerra volgevano a favore degli imperi centrali e l'intervento americano era ritenuto disperatamente necessario, nessuno li aveva contestati. Ora però essi pesavano gravemente sui tavoli di Versailles e in particolare a danno della questione italiana. Infatti, uno dei "punti" diceva: "La rettifica delle frontiere italiane sarà fatta secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili", mentre un "principio" stabiliva: "I popoli non devono più essere barattati dai governi come un gregge o usati come pedine di un gioco di scacchi". Tutte queste nobili affermazioni, certamente condivisibili in teoria, in pratica frustravano soprattutto le ambizioni espansionistiche del governo di Roma. Infatti Wilson si era fermamente opposto a che oltre un milione di slavi venissero trasferiti "come un gregge" entro i confini italiani. L'opposizione serba, l'ambiguità franco-inglese, cui si era aggiunta l'"utopia" wilsoniana provocarono una reazione a catena che rese più aspro il contrasto e più difficile la posizione dei delegati italiani alla Conferenza. Seguirono giornate convulse senza che si riuscisse a fare un passo avanti. A complicare ulteriormente la delicata operazione contribuì a questo punto l'incauto presidente americano, che si comportò come il classico elefante in una cristalleria. Pensando ingenuamente di tagliare la testa al toro, Wilson prese addirittura la sconcertante iniziativa di scavalcare il governo di Roma e di rivolgersi direttamente al popolo italiano con un manifesto nel quale, con insopporPagina 15
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt tabili toni paternalistici, lo esortava alla moderazione, al rispetto delle altre nazionalità e a rinunciare alle sue ambizioni territoriali. Questo gesto sconsiderato era ovviamente contrario a tutte le regole della diplomazia e anche a quelle della buona creanza. In pratica Wilson trattava gli italiani da scolaretti disobbedienti invitandoli a rimettere la testa a posto e a sconfessare il proprio governo. Come si può immaginare, lo sconcertante manifesto wilsoniano sortì l'effetto opposto. Non solo i nazionalisti, ma anche i socialisti, i cattolici e tutti coloro che venivano sprezzantemente definiti "rinunciatari", condannarono l'interferenza americana e si associarono alla generale indignazione. I delegati italiani abbandonarono clamorosamente i tavoli della Conferenza, mentre nelle piazze d'Italia divampava la protesta popolare alimentata dall'oratoria vibrante del Poeta-soldato che, con lessico tribunizio, inveiva contro il presidente americano che "con la sua bocca piena di falsi denti e di false parole" osava impartire lezioni "a una nazione vittoriosa, anzi alla nazione più vittoriosa, anzi alla salvatrice di tutte le nazioni". La polizia e i carabinieri ebbero un bel daffare per proteggere le rappresentanze diplomatiche non solo statunitensi, ma anche inglesi e francesi, dalla furia dei dimostranti. Dal canto loro, non contenti di rivendicare i territori promessi, i nazionalisti approfittarono della confusa situazione per allungare il tiro, facendo esplodere la "questione fiumana". A differenza di Trieste, Pola e Zara, la città di Fiume non era stata inclusa nel "pacchetto delle rivendicazioni italiane presentato a Londra nel 1915. Peccando di ottimismo, i convenuti erano infatti partiti dal presupposto che l'impero asburgico sarebbe comunque sopravvissuto al conflitto e di conseguenza, ferma restando l'assegnazione di Trieste e Pola all'Italia, si rendeva necessario lasciargli almeno Fiume come unico sbocco nell'Adriatico. Ma a guerra finita, l'impero austroungarico si era totalmente decomposto: i vari stati che lo componevano avevano riconquistato la propria autonomia e Fiume era stata occupata dalle truppe iugoslave provocando la reazione degli irredentisti, che ora reclamavano l'annessione della città all'Italia accampando la ragione che questa era un centro "etnicamente italiano". Per la verità, ciò non era del tutto esatto: gli italiani rappresentavano soltanto la metà della popolazione, ma costituivano tuttavia la componente più attiva e culturalmente più avanzata. In seguito, la situazione si era fatta sempre più incandescente finché, il 17 maggio 1919, parlando dal Campidoglio, d'Annunzio aveva invitato i fiumani a insorgere. Agli incitamenti del Poeta aveva fatto eco Mussolini, volato direttamente a Fiume per tenere un tumultuoso comizio al teatro Verdi. Per evitare che la città si trasformasse in un campo di battaglia, le truppe d'occupazione iugoslave erano state nel frattempo costrette ad allontanarsi da Fiume. Al loro posto, per mantenere l'ordine, era stato inviato un contingente interalleato, comandato dal generale italiano Francesco Grazioli, e composto di soldati inglesi, francesi e americani, nonché di un forte nucleo di Granatieri di Sardegna. A questi ultimi, su cui si accentravano naturalmente le speranze degli irredentisti, si era successivamente affiancata una formazione paramilitare, chiamata Legione fiumana, capeggiata dal dalmata Host Venturi, un ex ufficiale che aveva combattuto come volontario di guerra negli Arditi e che ora comandava le organizzazioni nazionaliste dell'Istria e della Dalmazia. L'estate del 1919 fu caratterizzata a Fiume da un'ondata di violenze. Ai primi di agosto si verificò anche uno scontro armato, senza precedenti, fra soldati francesi, filoiugoslavi e militari italiani appoggiati dai legionari fiumani. Pagina 16
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Quel giorno, per la prima volta, il sangue scorse per le strade e alla fine della sparatoria sette soldati francesi rimasero sul terreno. Il tragico episodio rimbalzò naturalmente sui tavoli di Versailles provocando la rabbiosa reazione del capo del governo francese Georges Clemenceau, il quale, per la spigolosità del suo carattere, era soprannominato "il tigre. Questi definì platealmente gli italiani "un popolo di assassini, e le conseguenze politiche e diplomatiche che ne seguirono si possono facilmente immaginare. Il governo italiano fu costretto a scusarsi e i francesi ne approfittarono per ottenere da una commissione d'inchiesta interalleata, nominata a seguito dei disordini, che venisse ordinato lo scioglimento della Legione fiumana e l'allontanamento dei soldati italiani dalla città. Il governo italiano, reso debole anche dai rivolgimenti interni, non trovò la forza di reagire e fu costretto ad accettare la pesante umiliazione. I primi a partire furono i Granatieri di Sardegna. Al fine di evitare le prevedibili manifestazioni di protesta, il comando aveva disposto che la partenza avvenisse in piena notte, ma i nostri soldati si erano ribellati rifiutando di andarsene in sordina "come ladri. Alfine si trovò un compromesso e la partenza fu fissata per l'alba del 25 agosto. Precauzione inutile: già a quell'ora, mobilitata dal suono della campane, la cittadinanza italiana si era riversata per le strade col proposito di trattenere i soldati. "Granatieri, non abbandonateci urlava la folla. "Non lasciateci in mano ai croati. Si verificarono anche scene strazianti. Mentre una pioggia di fiori cade a sui nostri soldati in marcia, questi furono improv v isamente costretti a fermarsi. Le donne in lacrime avevano steso per terra un gigantesco tricolore e ora gridavano: Non calpesterete la nostra bandiera. Soltanto dopo alcune ore di trattative, i soldati ripresero la marcia. Ma non andarono molto lontano. Si fermarono infatti a Ronchi, piccola cittadina carsica, dove il malcontento dei militari prese corpo trasformandosi in un vero e proprio ammutinamento. Pur essendo consapevoli di rischiare la corte marziale, llfficiali e soldati, applauditi e incoraggiati dai legionari fiumani che li avevano seguiti, decisero infatti di organizzare una spedlzlone per riprendere la città contando di provocare una generale insurrezione. Mancava però un capo. E subito, il pensiero di tutti corse a Gabriele d'Annunzio, che si trovava a Venezia in attesa degli eventi. Il giorno dopo, il Poeta fu raggiunto dal comandante dei granatieri, il maggiore Rejna, latore di un disperato appello: Fiume era in pericolo. Affidare la città a un corpo di polizia interalleato sotto controllo inglese, com'era stato stabilito a Versailles, significava consegnarla agli iugoslavi, già pronti a compiere il colpo di mano. Era dunque necessario prevenirlo. La Legione Fiumana era mobilitata e gli insorh potevano contare anche sulla solidarietà degli altri reparti militari dislocati in zona di occupazione. Solo un gesto di forza, sostenevano gli insorti, poteva risolvere l'indegno mercato che gli Alleati stavano facendo di Fiume. D'Annunzio non si fece ripetere l'invito. Non aspettava altro. Dopo avere telegraficamente annunciato a Mussolini la sua decisione ("Caro camerata, il dado è tratto. Domani mattina prenderò Fiume con le armi"), la mattina del 12 settembre partì da Ronchi con i granatieri di Rejna, i legionari di Host Venturi e con un migliaio di volontari raccolti strada facendo. In prossimità di Fiume, la colonna fu fermata dalle truppe del generale Pittaluga, che aveva sostituito Grazioli come governatore della città. Questi affrontò il Poeta intimandogli "in nome del Re e della Patria" di ntirarsi. "Se lo considerate vostro dovere, sparate qui!, ribatté d'Annunzio offrendogli il petto ricoperto di medaglie. Invece di sparare, Pittaluga si gettò fra le sue Pagina 17
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt braccia gridando: "Viva Fiume italiana! e i soldati dell'una e dell'altra parte fraternizzarono esultanti. Il giorno seguente Gabriele d'Annunzio poteva affacciarsi al balcone del municipio della "città redenta" per annunciare con un sonante discorso di averne preso possesso in nome dell'Italia: "Italiani di Fiume. Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà. Nel mondo folle e vile vi è solo una cosa pura: Fiume. Una sola verità Fiume. Un solo amore: Fiume . Secondo la leggenda, Ettore Muti, infiammato dalle parole del Comandante riportate da tutti i giornali, non seppe resistere all'appello e fuggì nuovamente di casa per raggiungere con altri ex combattenti la "città olocausta". La realtà è invero più prosaica. Completamente digiuno di cultura e sordo alla mistica dannunziana, Gim scappò per la terza volta semplicemente perché a Fiume c'era da menar le mani e lui non aveva alcuna voglia di tornare sui banchi di scuola. Fuggì in compagnia di cinque scapestrati più grandi di lui, tutti ex Arditi, dopo che si erano impadroniti di una barca a vela. Contavano di attraversare l'Adriatico, ma il maltempo li costrinse a prendere terra a Chioggia, da dove proseguirono in treno. Raggiunta la meta, per il veterano minorenne non fu difficile arruolarsi: questa volta nessuno gli chiese i documenti. Era il 19 settembre 1919. A Ravenna stava per avere inizio l'anno scolastico. Ettore avrebbe dovuto frequentare la terza tecnica per conseguire il diploma agognato da suo padre. Un traguardo che non riuscirà mai a raggiungere. A Fiume, Ettore Muti ritrovò l'atmosfera stimolante dell'ambiente militare che aveva tanto rimpianto durante mesi di forzata smobilitazione. E anche qualcosa di più: maggiore libertà, scarsa disciplina, grande entusiasmo, esaltazione della violenza, cameratismo virile e trasgressioni sessuali. Insomma, il posto adatto per un giovane spavaldo e spregiudicato che cercava l'avventura per l'avventura, anche se opportunisticamente ammantata di amor patrio. A Fiume succedeva di tutto e il contrario di tutto. In pochi giorni, i mille legionari che si erano mossi da Ronchi al seguito di d'Annunzio erano diventati più di diecimila. Si trattava di volontari che avevano risposto all'appello del Poeta per motivazioni fra le più disparate. C'erano fascisti e socialisti, anarchici e reazionari, intellettuali e proletari, monarchici e repubblicani, futuristi e passatisti, idealisti e avventurieri, mascalzoni e galantuomini, tutti accomunati in un guazzabuglio ideologico che poteva sfociare nelle direzioni più impensate. Non a caso, infatti, quanto stava accadendo a Fiume veniva osservato con interesse sia dagli osservatori di destra sia da quelli di sinistra. I primi erano affascinati dall'esasperato nazionalismo e dalla retorica sugli "immancabili destini della patria imperiale" con cui il Poeta-soldato condiva i suoi discorsi. Sull'altro fronte, anche Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, futuri fondatori del partito comunista italiano, applaudivano d'Annunzio per le sue confuse aperture sociali. D'altronde, lo stesso Lenin non aveva forse dichiarato al Congresso di Mosca che "il movimento fiumano è perfettamente e profondamente rivoluzionario"? Persino il vecchio carismatico leader degli anarchici, Errico Malatesta, vi aveva aderito. Conquistata Fiume, d'Annunzio aveva assunto a tutti gli effetti l'atteggiamento di un capo di stato, e di uno stato in guerra con tutti, Italia compresa. I soldati italiani presenti e gli equipaggi delle navi ancorate nel porto si erano posti ai suoi ordini, mentre i reparti alleati erano stati per qualche tempo consegnati nelle caserme e sucPagina 18
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt cessivamente costretti ad andarsene alla chetichella. Fiume rappresentava ora uno "stato autonomo interamente affidato al governo, e all'arbitrio, del Comandante. La città viveva in perpetua agitazione con adunate e comizi a getto continuo. Lo stesso d'Annunzio ne faceva uno al giorno, a volte anche due. Praticamente, governava sulla pubblica piazza interrogando dal balcone la folla che vi bivaccava: "A chi Fiume?". "A noi!" rispondeva il coro. "A chi l'Italia?" A noi!" Oltre che dei volontari e degli avventurieri, Fiume diventò anche la Mecca di agitatori politici di ogni stampo, come il socialista Alceste De Ambris, l'egiziano Zaghul Pascià, l'irlandese O'Kelly, il bolscevico ungherese Béla Kun. Ciascuno di essi esponeva in piazza le proprie scombinate teorie e il Poeta, purtroppo, li ascoltava. Fu infatti sotto la loro influenza che d'Annunzio elaborò la famosa e fumosa "Carta del Carnaro la quale, per la verità, fu anche molto apprezzata da Lenin, benché si trattasse di un papocchio in cui erano state travasate le confuse concezioni politiche del Comandante e dei suoi esaltati ispiratori. Fra l'altro, la Carta stabiliva che il potere doveva essere gestito dai migliori", che la vita era bella e degna di essere magnificamente e severamente vissuta" che la religione nazionale dovevano essere la Bellezza e l'Armonia, che la ginnastica e il canto erano doveri sociali, che bisognava parificare i sessi e ammettere il divorzio. Al libero amore, etero o "omo, non andavano posti limiti oltre... "quelli estetici. Anche i legionari erano stati organizzati secondo le volontà del Comandante, che ne aveva dettato le uniformi e i rituali. Erano di rigore la camicia nera istoriata di teschi, il saluto romano, il pugnale alla cintura, l'inno Giovinezza, Giovinezza e il grido di "Alalà! per salutare il "Duce, ossia lui, il Poeta, non l'altro ancora da venire. Poi c'era il "Presente! da urlare coralmente quando si commemorava un camerata caduto e infine l'A noi!" con cui si concludeva ogni appello. Chi rammenta i rituali fascisti troverà qui la fonte alla quale in seguito si abbevereranno i plagiari coreògrafi del regime. D'Annunzio aveva anche un rivale altrettanto immaginifico, Filippo Tommaso Marinetti, arrivato tra i primi a Fiume, da dove però sarà presto cacciato per decreto dello stesso Comandante. Il poeta futurista che celebrava la guerra come "sola igiene del mondo", ed esaltava la "sinfonìa degli shrapnel era molto popolare in citta, tanto da fare ombra al vate. Questi infatti non lo poteva soffrire: lo chiamava il "cretino fosforescente". Ogni giorno Marinetti, unico legionario a non indossare l'uniforme, sempre elegantissimo, con bombetta e bastone, si esibiva per le vie del centro all'ora dell'aperitivo. Rivolgendosi alla piccola folla di curiosi che sempre lo attorniava, declamava i suoi versi o esponeva le sue strampalate tesi futuriste e rivoluzionarie. Nemico del perbenismo borghese invitava i giovani "a disprezzare tutti i diplomi accademici ed a liberarsi dalle pressioni tradizionali della famiglia". Nemico della sintassi, predicava l'abolizione degli aggettivi, degli avverbi, della punteggiatura e invitava gli ascoltatori a "sputare ogni giorno sull'Altare dell'Arte". Nemico giurato della Chiesa, reclamava l'espulsione del papa e lo "svaticanamento" dell'Italia. Nella babele fiumana c'era proprio di tutto. Ragazzi esaltati come il giovane Muti e vecchietti arzilli in camicia rossa da ex garibaldini; gentildonne raffinate e puttane dichiarate, spesso non facilmente distinguibili le une dalle altre, e tanti coniugi in crisi precipitatisi subito a Fiume alla notizia che vi era consentito il divorzio. Naturalmente non mancavano gli eroi di guerra che la pace aveva costretto all'inazione. C'era Guido Keller, l'asso dell'aviazioPagina 19
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt ne che, oltre alle bombe sganciate sulle trincee austriache, aveva anche lanciato un orinale sul tetto di Montecitorio. Non mancavano neppure gli omosessuali intraprendenti che già progettavano di istituzionalizzare le loro pratiche come accadeva fra i legionari nell'antica Grecia. L'"amore greco" infatti trionfava, sia pure confinato entro i "limiti estetici" stabiliti dalla Carta del Carnaro, mentre la "droga ravvivante", ossia la cocaina, che soprattutto gli aviatori avevano cominciato a fiutare durante la guerra per reggere meglio allo stress del combattimento, ora scorreva in proporzioni assai più vaste. L'estetismo era insomma diventato quasi una regola di vita. D'altra parte, d'Annunzio non aveva forse espresso la volontà di voler forgiare a Fiume un "popolo di esteti"? Il raffinato Guido Keller, per esempio, si nutriva di petali di rose canditi rifiutando altri cibi. Il suo intimo amico Giovanni Comisso, legionario fiumano e giovane scrittore non ancora consacrato dalla gloria, ricorderà in seguito che a Fiume "tutto si osava, sia nei piaceri che nei peccati", evocando con nostalgia quei giovani Arditi "dai corpi michelangioleschi che si rivoltavano e si abbandonavano sul fianco, docili, mesti, furbeschi e compiacenti". A quanto risulta, il legionario Ettore Muti, benché qualche esteta lo avesse già definito "un Perseo di Cellini vestito da soldato, non trasgredì mai alle regole maschiliste cui rimase sempre fedele. Il suo disprezzo per i "busoni" era d'altronde proverbiale: in seguito ne fornirà un'ampia prova anche allo stesso Mussolini. Al clima orgiastico che lo circondava, Gim preferiva la libertà di avventura offertagli da quell'ambiente. Pur amando d'Annunzio, era completamente sordo al mistico decadentismo del Poeta, sghignazzava divertito di fronte ai suoi esibizionismi e irrideva tutto l'orpello di cui si attorniava. Anche Muti, per la verità, era un esibizionista, ma di tutt'altra specie: amava soltanto l'azione e in questa soltanto intendeva distinguersi. Il problema principale della "Reggenza del Carnaro" così d'Annunzio aveva ribattezzato il suo piccolo "regno era rappresentato dalla necessità di procurare cibo alla popolazione. Il generale Badoglio, al comando dell'intero settore, aveva infatti imposto il blocco della città ed era perciò difficile farvi giungere gli indispensabili vettovagliamenti. Si sperava così di indurre il Comandante ad arrendersi per fame. Quel progetto non era del tutto campato in aria e per qualche tempo i viveri scarseggiarono. Ma in seguito entrarono in funzione vari canali clandestini di rifornimento favoriti dagli ambienti politici ed economici che sostenevano il movimento dannunziano. Talvolta erano gli stessi legionari a provvedere alla bisogna attraversando di notte, in piccoli gruppi, la linea del blocco per compiere spericolate scorrerie nei depositi del Regio esercito. Ettore Muti si rivelò ben presto il più audace degli scorridori. Una volta, da solo, riuscì a trafugare un vagone ferroviario carico di lardo; un'altra, con pochi compagni, occupò per qualche ora una caserma per impadronirsi di viveri, armi e altri materiali. In seguito organizzò un'incursione degna di figurare in un film western. Improvvisatisi cowboy, Muti e i suoi compagni riuscirono a catturare un'intera mandria di muli dell'esercito italiano, che fu successivamente "offerta" al Comandante durante una spettacolare parata attraverso le vie della città. Fino a quel momento, l'avventuroso Gim aveva visto d'Annunzio soltanto da lontano, mentre parlava dal solito balcone. L'occasione che gli consentì di farsi conoscere personalmente non tardò tuttavia a presentarsi. Una mattina Muti era di guardia alla polveriera quando il Comandante si presentò all'ingresso per compiere di sorpresa Pagina 20
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt un'ispezione. "Parola d'ordine" gli intimò la sentinella. "Sono il Comandante..." ribatté piccato il Poeta. E che si trattasse di d'Annunzio non potevano esserci dubbi: la sua caratteristica uniforme, il monocolo, le medaglie e tutto il resto avrebbero convinto anche un cieco. Ma il ragazzo non si scompose: "Al fronte ho imparato a non fidarmi di nessuno" dichiarò con fermezza. "Senza parola d'ordine, di qui non si passa. " Se era un trucco per distinguersi - e certamente lo era esso ottenne il risultato sperato. D'Annunzio, piuttosto risentito, riuscì a passare solo dopo l'intervento di un ufficiale. Più tardi, compiuto il giro d'ispezione, il Poeta sostò ancora davanti alla sentinella. "Quanti anni hai?" gli chiese. "Diciassette. " "E tu vorresti farmi credere che sei stato al fronte..." osservò incredulo d'Annunzio. "Sissignore. Ero negli Arditi" ribatté Muti energicamente mantenendosi irrigidito sull'attenti. Incuriosito, il Comandante rivolse altre domande alla giovane sentinella. Poi, dopo essersi sfilato un guanto con gesto teatrale, lo porse al suo interlocutore. "Voglio conoscerti meglio" gli disse. "Domani vieni da me. Questo guanto sarà il tuo lasciapassare. Ettore Muti si conquistò definitivamente l'ammirazione del Comandante durante una delle tante "prove di coraggio" che i volontari dovevano affrontare per ottenere la qualifica di "legionario compiuto. Il regolamento, anch'esso partorito dalla fervida fantasia del Poeta-soldato, stabiliva infatti che un legionario diventava "compiuto" soltanto dopo aver dimostrato di essere esperto nel "correre, saltare, nuotare, lottare, scagliar pietre, sollevare pesi, cavalcare, fischiare, cantare, ballare, passare attraverso le fiamme e gettarsi giù dall'altezza più disperata...". Quel giorno la prova di coraggio consisteva nel lanciarsi su un telone disteso sotto un edificio alto cinque piani. Muti vinse su tutti gettandosi addirittura dal tetto e d'Annunzio, ammirato per la sua prodezza, gli inviò come premio una rutilante lettera autografa in cui si leggeva: "Voi siete l'espressione del valore sovrumano, un impeto senza peso, un'offerta senza misura, un pugno d'incenso nella brage, l'aroma di un'anima pura. Muti mise in tasca il messaggio vergognandosene anche un poco per via di quella prosa troppo reboante. Ma poi lo inviò a sua madre che lo mise in cornice. Da quel momento il Vate prese a ben volere quel ragazzo ardimentoso. Lo ribattezzò "Gim dagli occhi verdi", anche se in realtà erano color nocciola, e lo volle spesso con sé per affidargli incarichi di fiducia. Oltre alle scorrerie dei "violatori del blocco", per assicurare i rifornimenti, d'Annunzio aveva organizzato anche una flottiglia di corsari da lui ribattezzati "uscocchi", dal nome degli antichi pirati della Dalmazia, i quali, a bordo di piccole imbarcazioni, compivano saccheggi nei centri rivieraschi vicini o abbordavano le navi di passaggio. Le loro imprese spericolate, decantate e ingigantite dalla stampa italiana, davano a Fiume un alone salgariano, da "covo della filibusta, che non poteva non colpire l'immaginazione. Gim, che, messo da parte il giornaletto dell'"Esploratore", era diventato un appassionato lettore delle avventure del Corsaro Nero, fu naturalmente fra i primi ad arruolarsi negli "Arditi del mare. Partecipò infatti a numerose spedizioni piratesche che consentirono la cattura di alcuni piroscafi, fra i quali l'ungherese Baron Fehérwary che trasportava grano, nonché una nave italiana carica di armi destinate a rifornire l'"Armata bianca" antibolscevica di stanza in Crimea. Ma la sua impresa più Pagina 21
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt clamorosa fu la cattura del Cogne, un piroscafo di 12.000 tonnellate della società Ansaldo. Nel settembre del 1920, con altri sei uscocchi comandati dal tenente di vascello Romano Monzutto, Ettore aveva raggiunto il porto di Catania e qui si era poi imbarcato clandestinamente sul suddetto piroscafo diretto in Argentina. I sette pirati, nascostisi nel tubo dell'elica, vi trascorsero l'intera notte in condizioni piuttosto scomode. Il mattino seguente, un paio d'ore dopo che il Cogne ebbe doppiato Capo Passero, essi uscirono dai loro nascondigli e, armi alla mano, immobilizzarono il comandante e gli ufficiali, mentre l'equipaggio faceva causa comune con loro. Diventati padroni della nave, gli uscocchi ammainarono la bandiera nazionale per inalberare quella corsara con i colori della Reggenza, poi, dopo aver cancellato il nome dalle fiancate onde ingannare gli eventuali inseguitori, invertirono la rotta e misero la prua in direzione di Fiume. La cattura del Cogne sollevò un clamore enorme. La stampa internazionale esaltò l'impresa ingigantendola forse a dismisura. Cosicché, quando il Cogne entrò nel porto fiumano trovò ad attenderlo una folla enorme che si era riversata sulle banchine per festeggiare i pirati vittoriosi e la loro magnifica preda. Lo stesso Comandante li accolse sul molo per congratularsi personalmente con loro. La nave trasportava automobili, orologi svizzeri, stoffe di seta e di cotone e altro materiale di pregio, ma di difficile utilizzazione in una città che aveva soprattutto bisogno di generi alimentari. Secondo una stima, il valore della merce si aggirava intorno ai 200 milioni di lire, una somma enorme, e d'Annunzio si rivolse direttamente al governo italiano per chiedere un riscatto di 20 milioni in cambio della restituzione del bottino. I patteggiamenti durarono alcune settimane. Il governo era restio a scendere a patti con i ribelli, ma alla fine una catena di industriali guidati da Senatore Borletti, proprietario della Rinascente e amico personale del Poeta, raggiunse l'accordo pagando un riscatto di 12 milioni che, a quel tempo, era una somma più che considerevole. Dopo questo episodio, Ettore Muti conquistò maggiore considerazione fra i legionari. Anche gli anziani lo rispettavano e quando d'Annunzio lo promosse Inotl proprio "sergente , accettarono senza discutere di sottoporsi ai suoi ordini. Di questo periodo eroico trascorso a Fiume, Muti conserverà sempre un vivissimo ricordo e per d'Annunzio un affetto particolare. Dopo l'impresa del Cogne, il Poeta gli donò una sua fotografia con la seguente dedica "A Gim, piccolo filibustiere, il grande filibustiere Gabriele d'Annunzio . Ancora alcuni anni dopo, nel 1924, il Poeta lo ricorderà affettuosamente in una lettera inviata a Manlio Barrili, l'ufficiale addetto alla persona del maresciallo Armando Diaz. Per ringraziarlo di certi pesci rossi da lui ricevuti in dono, gli scrisse con tono scherzoso: Dopo sì breve soggiorno nelle acque pur salutevoli del Vittoriale, i pesci che tu mi hai portato da Milano sono, ahimè, divenuti incolori e melensi. Interrogo i rei innocenti sulle ragioni della loro metamorfosi repentina, ma essi rimangono muti, muti, muti. Non già come il nostro Ettore da Raverma, il nostro giovanissimo Uscocco - ricordi legionario? - Muti nec mutus, Muti non muto, tutto pronto di lingua a rintuzzare le offese del calunniatore contro la Città assediata, quanto audace nel saccheggiare i pingui magazzini dell'ottavo corpo d'armata per rifornire la Città affamata. La Reggenza del Carnaro sopravvisse per sedici mesi e si concluse malinconicamente nel dicembre del 1920 quando Italia e Iugoslavia, con il trattato di Rapallo, si accordarono sulla definizione dei confini e dichiararono Fiume Pagina 22
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt "città libera". Nel frattempo, d'Annunzio era stato abbandonato dai suoi alleati, compreso Mussolini, stanco delle stramberie del Poeta. Benché isolato, il Comandante era comunque deciso a finire in bellezza. "Eccoci di nuovo soli," proclamò dal solito balcone "soli contro tutti col nostro solitario coraggio." Ma la grande ubriacatura fiumana si stava ormai esaurendo. Molti legionari avevano già fatto fagotto e la cittadinanza era desiderosa di riconquistare la normalità. Il 24 dicembre il maresciallo Enrico Caviglia, cui era stato ordinato di occupare la città, lanciò un ultimatum al quale, al contrario di Garibaldi, d'Annunzio rispose con un sonoro "Disobbedisco". Era ancora deciso a resistere. Lanciò persino un appello ai soldati dell'esercito regolare in cui, parafrasando Nelson, li ammoniva che "l'Italia si aspetta che nessilno faccia il proprio dovere. A questo punto, rivelatosi vano ogni tentativo di ottenere una pacifica composizione della vertenza, Caviglia ordinò l'attacco provocando quello che poi d'Annunzio definirà il "Natale di sangue, costato la vita a un centinaio di italiani, dell'una e dell'altra parte, impegnati nella lotta fratricida. L'avventura fiumana era terminata. Gli ultimi legionari abbandonarono la città indisturbati, d'Annunzio vi rimase, indisturbato anche lui, per alcune settimane. Poi finalmente la lasciò. E la lasciò, così commentò malignamente l'odiato Cagoia, "come aveva sempre lasciato tutte le sue donne: in miseria. Ettore Muti non aveva partecipato al "Natale di sangue. Pochi giorni prima era dovuto correre a Ravenna per l'improvviso aggravarsi delle condizioni di salute del padre, che morì il 28 febbraio 1921. Dopo le esequie, la madre e le sorelle si trasferirono in una piccola casa di campagna a Santerno, mentre lui rimase solo in città. Nei mesi che seguirono, la sua biografia presenta uno sconcertante "buco nero che, per comprensibili ragioni, gli agiografi del futuro gerarca non hanno voluto colmare. Risulta, per esempio, che lavorò per un brevissimo periodo come impiegato della locale Cassa di Risparmio. Racconterà infatti sua madre moltissimi anni dopo: "Nell'ingenua speranza di distrarre il nostro Ettore dalla sua pericolosa passione, il mio povero Cesare lo aveva raccomandato al direttore della banca affinché lo aiutasse a mettere giudizio. Ma l'esperimento fallì dopo pochissimi giorni. Con tono protettivo e divertito, mamma Celestina spiegò al giornalista anche le cause di quel rapido fallimento. "Il suo capufficio" spiegò "si era molto meravigliato della rapidità con cui il mio Ettore risolveva complicatissimi calcoli. E quando volle conoscere quale fosse il suo sistema, mio figlio gli rispose tranquillo: "E' semplicissimo", e per dargli un esempio immediato, guardò un lungo elenco di cifre, tirò le somme in un baleno, scrisse a caso il totale e poi concluse convinto: "Sarà press'a poco così..."." Celestina Muti rilasciò questa testimonianza al settimanale "Oggi" nel febbraio del 1958, ossia quindici anni dopo la morte del figlio. Il tempo, dunque, aveva certamente addolcito i ricordi di una madre adorante e protettiva nei riguardi della memoria del figlio. E' tuttavia certo che il neobancario Ettore Muti fu licenziato piuttosto bruscamente, forse per i motivi da lei indicati, forse, più probabilmente, perché l'ex legionario fiumano, considerato il suo temperamento e la sua spavalderia, non aveva la minima voglia di dedicarsi a un'attività sedentaria che richiedeva l'uso del cervello e non delle mani. Ma nel "buco nero" della biografia di Muti si nasconde un altro episodio che Celestina preferì evidentemente dimenticare. Risulta infatti che dopo il trasferimento della sua famiglia a Santerno, Ettore vendette senza avvertire nessuno la casa in città, poi ripartì per Fiume dove rimase a lungo senza dare notizie. Sua madre, rientrata alcuni mesi dopo a Ravenna, ebbe così l'amara Pagina 23
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sorpresa di vedersi sbarrare l'uscio di casa dai nuovi proprietari e fu costretta a cercarsi un appartamento in affitto. 4. L'INCONTRO CON MUSSOLINI. Ettore Muti tornò definitivamente a Ravenna agli inizi del 1922. Non aveva ancora compiuto vent'anni, ma possedeva tutti i requisiti necessari per affermarsi negli ambienti fascisti dove gli uomini maneschi come lui trovavano pane per i loro denti. Disponeva anche delle conoscenze giuste. A Fiume aveva avuto modo di farsi notare da personaggi destinati a svolgere ruoli direttivi nel movimento fascista. Tale movimento, da fermento anarcoide qual era stato agli inizi, stava rapidamente trasformandosi in un partito d'ordine e, soprattutto in Emilia, godeva già dell'appoggio dei grandi proprietari terrieri. A differenza di Bologna e di Ferrara, a Ravenna i fascisti non erano ancora molto forti, benché Muti avesse dato vita a una "squadra d'azione", composta da una ventina di ex combattenti e resasi protagonista di scorrerie e di clamorose bravate. Suo compagno inseparabile era un certo Corrado Baldassare, detto "Pel e oss" (lui però lo chiamava "Pelle"), insieme al quale scorrazzava per la campagna in sella a una Harlev Davidson che guidava spericolatamente com'era sua abitudine. L'attivismo di Muti non era tuttavia apprezzato dai capi fascisti locali che si comportavano ancora in modo molto prudente e volevano evitare screzi soprattutto con il potente partito repubblicano, con il quale, anzi, intendevano allearsi per far fronte comune contro i socialcomunisti. Fu infatti sfidando le ire del suo stesso partito che Muti, insieme all'inseparabile Pelle e a un manipolo di facinorosi, andò a disperdere una manifestazione democratica ricorrendo anche al lancio di bombe a mano. Tale episodio, oltre al biasimo dei fascisti moderati, gli procurò anche una serie di denunce e un mandato di cattura, che lo costrinse per qualche tempo a vivere alla macchia. Nel frattempo l'astro del suo conterraneo "Muslen", Mussolini, stava levandosi all'orizzonte e Muti, desiderando conoscerlo, si recò un giorno a fargli visita nel "covo" milanese di via Paolo da Cannobio dove il futuro Duce aveva ancora il suo quartier generale. L'incontro sortì un felice risultato. Mussolini provò istintivamente una calda simpatia per quel giovanotto estroverso, simpatico e spaccone che gli ricordava la sua natia Romagna. Conversò a lungo con lui esprimendosi in romagnolo stretto (una consuetudine destinata a durare nel tempo) e poi lo invitò in un'osteria di via Castel Morrone dove abitualmente consumava i pasti. Davanti a una scodella di pasta e fagioli, unica portata del modesto pranzo, Mussolini ascoltò divertito i racconti di guerra del ragazzo e le sue ironiche osservazioni sulle fantasiose rodomontate di quel matt da ligher di Gabriele d'Annunzio. Risero insieme e alla fine di quella piacevole serata, l'intrepido Gim fu completamente conquistato dal carisma di Mussolini. Dal canto suo, il futuro Duce manifesterà per il giovane conterraneo una predilezione così scoperta da dare origine alla leggenda secondo la quale Ettore Muti sarebbe stato un suo figlio illegittimo. Pur non corrispondendo assolutamente alla verità, questa curiosa diceria contribuirà a rafforzarne il mito. Il destino correva rapido in quegli anni. La pianura Padana, da Cremona a Ferrara e fino all'Adriatico, era il teatro di una guerra civile. Quasi ogni giorno e dovunque esplodevano risse e agitazioni che spesso insanguinavano Pagina 24
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt le strade. Per l'Italia si preparavano tempi nei quali i giovani spregiudicati e violenti come Muti avrebbero avuto il sopravvento. Imperava infatti il giovanilismo. "Giovinezza, giovinezza! Primavera di bellezza" cantavano gli squadristi che davano l'assalto alle Case del popolo. Di conseguenza, i vent'anni di Muti non rappresentavano un ostacolo per affermarsi nel movimento e per guadagnarsi il rispetto anche dei più anziani. D'altra parte i ras più famosi del momento non erano molto più vecchi di lui. Italo Balbo aveva ventisei anni, Dino Grandi ventisette, Roberto Farinacci ventinove e l'"anziano" Mussolini non ne aveva ancora compiuti quaranta. Nella primavera del 1922 i tempi erano ormai maturi per la spallata finale. Nell'Emilia ribollente, a Bologna, Ferrara e Cremona dominavano già le squadre d'azione di Grandi, Balbo e Farinacci. Soltanto Ravenna non era stata ancora "conquistata". La città, d'altra parte, non rappresentava terra facile per lo squadrismo fascista. I fittavoli e i braccianti che lavoravano nelle terre di bonifica intorno alla città avevano già raggiunto un livello altissimo di organizzazione, i cui pilastri erano rappresentati dalla potente Confederazione delle cooperative, fondate venti anni prima da Nullo Baldini e diventate il fiore all'occhiello del socialismo italiano. Se nelle campagne i "rossi" erano fortissimi, in città dominavano i "gialli", ossia i repubblicani, contro i quali i fascisti non potevano usare metodi troppo radicali. Il partito e le cooperative repubblicane contavano infatti nelle loro file numerosi ex combattenti ed elementi del ceto borghese che risultavano del tutto inattaccabili rispetto alle consuete accuse di sovversivismo o di scarso patriottismo, con le quali gli squadristi giustificavano le loro spedizioni punitive a danno dei "bolscevichi" . In un primo tempo, i fascisti più accorti tentarono persino di far leva sulle posizioni antisocialiste molto diffuse nel partito repubblicano per dar vita a una sorta di alleanza, ma il tentativo non diede esiti positivi. Socialisti e repubblicani continuarono tuttavia a combattersi fra loro: sottovalutando il pericolo incombente, si illudevano che il movimento fascista fosse un fenomeno passeggero destinato a non lasciare tracce nella vita politica nazionale. Anche l'ambiente fascista ravennate era profondamente diviso. A differenza delle altre città dove un unico ras deteneva il potere (come Balbo a Ferrara, Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona e così via), a Ravenna non esisteva un ras unanimemente riconosciuto. Il movimento fascista si articolava in due o tre linee d'azione guidate da piccoli ras, col loro contorno di fedelissimi, che si odiavano ancora di più di quanto odiassero il nemico comune. Secondo l'organigramma del partito, il capo dei fascisti ravennati era il federale Giuseppe Frignani, un modesto impiegato di banca dal quale dipendevano Ettore Muti e Renzo Morigi. Ma i tre non si amavano, anzi resteranno sempre divisi da profondi rancori e sorde gelosie, dando adito in seguito a gravi sospetti che vale la pena anticipare. Giuseppe Frignani, che diventerà presidente del Banco di Napoli e sottosegretario alle Finanze, e Renzo Morigi, futuro vicesegretario del partito fascista e acclamato olimpionico del tiro con la pistola, svolsero, come vedremo, un ruolo ambiguo nell'attentato di cui restò vittima Ettore Muti il 13 settembre 1927. Riguardo a Giuseppe Frignani va inoltre segnalata una sconcertante coincidenza che non mancherà di insospettire. Al fratello Giovanni Frignani, tenente colonnello dei carabinieri, verrà infatti affidato il compito, il 24 agosto 1943, di far prelevare Ettore Muti nella sua villetta di Fregene. Ma torniamo alla Ravenna del 1922. Ettore Muti, oltre a essere il più giovane del "triumvirato, era anche il capo Pagina 25
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt dell'ala più dura degli squadristi. Ostile agli intrighi e agli intrallazzi dei due autorevoli camerati, si divertiva a romper loro le uova nel paniere prendendo delle iniziative personali destinate a frantumare accordi e compromessi. L'irrefrenabile Gim non si comportava così per calcolo o per convenienza politica. Non era nel suo carattere: obbediva semplicemente al proprio istinto, alla voglia di "far baracca". Una sera, per esempio, mentre nella sede del fascio i presenti stanno commentando le notizie giunte da Sant'Arcangelo di Romagna, dove si sono riuniti tutti i capi socialisti della zona, Muti con aria annoiata si alza e domanda ad alta voce: "Chi vuol venire con me a Sant'Arcangelo a rubargli la bandiera rossa?". I più lo guardano perplessi, ma Pelle e un certo "Panzon" sono pronti a seguirlo. Saltano su una motocarrozzetta e si precipitano nel paese. Giunti davanti alla sede socialista, Muti, senza perdere tempo, sfonda una finestra e con la pistola in pugno irrompe nella sala affollata. Poi, dopo aver spento con un colpo il lume a carburo, velocissimo, fra lo stupore dei presenti annichiliti, strappa la bandiera dalla parete, spara per aria qualche altro colpo intimidatorio e quindi fugge via a precipizio verso Ravenna con la bandiera rapita. Se queste azioni spavalde rendevano l'audace Gim sempre più popolare fra gli squadristi, i capi più autorevoli dei fasci cominciarono invece a temere che il ragazzo crescesse troppo in fretta. Da parte sua, Muti, avendo intuito la causa dell'ostilità e dei silenzi creatisi intorno a lui, sottolineava a ogni occasione di non ambire ad assumere posizioni di comando. Tutto inutile: il suo prestigio aumentava e l'ostilità dei suoi avversari anche. A metà luglio del '22, l'evento che ne favorì definitivamente l'affermazione fu la rottura del cosiddetto "fronte dei barrocciai". Per comprendere l'importanza di questo episodio occorre ricordare che all'epoca i barrocciai, come oggi i camionisti, rappresentavano il centro nevralgico degli scambi commerciali, essendo il barroccio il principale mezzo di locomozione. Si trattava insomma di un fortissimo sindacato e i barrocciai spesso ne approfittavano per reclamare privilegi o per imporre piccole prepotenze. Questo stato di cose era perdurato fino a quando Muti, con la sua squadra, ora con le minacce ora col manganello, era riuscito in varie occasioni a contrastarli. Per esempio, aveva tolto loro il brutto vizio di camminare al centro della strada, o di procedere lentamente, appaiati, per non cedere il passo alle macchine dei "signori o alla concorrenza "motorizzata". Più volte era intervenuto con i suoi squadristi per sciogliere manifestazioni di protesta, ma in seguito, usando una volta tanto il cervello invece della forza, conseguì anche un successo politico. Ottenuta dall'Associazione agraria la promessa di affidare ai transfughi il monopolio del trasporto dei raccolti, Muti riuscì infatti a spezzare il sindacato e a organizzare un nucleo di "barrocciai fascisti" guidato da un certo Giovanni Balestrazzi. Com'era facile immaginare, la scissione di Balestrazzi provocò duri scontri fra i barrocciai. Tutte le sere in Borgo Saffi, uno dei più popolari quartieri di Ravenna, tra i membri delle due organizzazioni scoppiavano tafferugli che la polizia faticava a sedare. Fu durante uno di questi scontri, più violento degli altri, che Balestrazzi venne ucciso e la situazione si fece incandescente. Gli squadristi inferociti chiedevano vendetta, mentre i dirigenti fascisti locali gettavano acqua sul fuoco perché consapevoli che il rapporto di forze non era in loro favore. Ma Muti non si perse d'animo: ignorando gli inviti alla prudenza, prese personalmente l'iniziativa di inviare un messaggio a Italo Balbo per chiedere il suo intervento. L'indomani le squadre ferraresi e bolognesi si riversarono in città mentre l'Alleanza del lavoro proclamò lo sciopero generale. Pagina 26
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Il 26 luglio 1922 Ravenna ribolliva. La città era praticamente in stato d'assedio. Muti, che si era già conquistato la stima di Balbo, anche questa volta giocò d'astuzia: convinse infatti il ras di Ferrara ad attuare uno di quei suoi scanzonati colpi di mano di cui già a Fiume si era rivelato un fantasioso inventore. Si trattava di "rapire dall'ospedale il corpo di Balestrazzi e poi sfruttare il cadavere per una spettacolare iniziativa. "Il nostro eroico camerata" promise Muti a Balbo "servirà la causa fascista anche dopo morto." Il macabro progetto fu attuato nel modo seguente. Muti e alcuni dei suoi si impadronirono del cadavere di Balestrazzi e lo trasferirono nella Casa del fascio dove gli fu approntata una camera ardente. Successivamente Balbo telefonò al prefetto per annunciargli che l'indomani sarebbe stato celebrato un solenne funerale fascista e lo pregò di provvedere affinché la forza pubblica fosse presente in modo massiccio per evitare eventuali disordini. Benché stupito che proprio Balbo chiedesse la protezione della polizia, il prefetto accolse volentieri quella richiesta e il giorno dopo quasi tutte le forze dell'ordine si schierarono lungo il percorso che il funerale doveva seguire. Fu a questo punto che scattò la beffa escogitata da Muti. Approfittando dell'assenza della polizia impegnata a proteggere la "mesta cerimonia", egli assaltò con la sua squadra l'incustodita Casa del popolo repubblicana e, dopo averla occupata, vi si barricò all'interno. Nei giorni che seguirono, mentre Balbo stava trattando di malavoglia una sorta di armistizio con i repubblicani (Grandi, inviato dallo stesso Mussolini, era giunto appositamente a Ravenna per suggerire un patto di pacificazione), giunse la notizia che un altro fascista era stato ucciso in provincia. La reazione fu immediata e sanguinosa. Balbo, incurante degli inviti alla prudenza suggeriti dallo stesso Mussolini, impose senza discutere il suo punto di vista ("Qui comandiamo noi," gli telegrafò risentito "e qui si giocherà la partita decisiva"). Scatenò infatti gli squadristi contro l'albergo Byron, che ospitava la sede della Confederazione delle cooperative socialiste, ordinando loro di procedere alla sua completa distruzione. La lotta fu lunga e durissima. Ci furono morti e feriti ed Ettore Muti non mancò di distinguersi, come al solito, per audacia e sprezzo del pericolo. Al termine degli scontri in città gli squadristi potevano cantare vittoria: il palazzo delle cooperative era ridotto a un cumulo di rovine fumanti e undici socialisti giacevano sul terreno. La "conquista di Ravenna" segnò una tappa importante per il movimento fascista. Gli storici la giudicano addirittura più determinante della marcia su Roma. Balbo infatti non si accontentò di quella vittoria, ma ne approfittò per trasferire la lotta nelle campagne dove era più radicata la volontà di resistenza alla violenza fascista. Anche in questa occasione ricorse all'inganno. Minacciando di mettere a ferro e fuoco tutte le case dei socialisti di Ravenna, ottenne dal questore un certo numero di camion che, a quanto disse, gli sarebbero serviti per riportare a casa i suoi squadristi. Invece, appena gli furono consegnati, li utilizzò per organizzare una seconda offensiva. Nacque infatti così la famosa e famigerata "colonna di fuoco" che partì da Ravenna il 29 luglio e seminò terrore e distruzione nelle campagne emiliane. Ecco, per esempio, come lo stesso Balbo descrisse nel suo diario questa spedizione: Siamo passati da Rimini, Sant'Arcangelo, Savignano, Cesena, Bertinoro, per tutti i centri e le ville di Forlì e la provincia di Ravenna, distruggendo e incendiando tutte le case rosse, sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. E stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e di fumo. Pagina 27
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Tutta la pianura di Romagna, fino ai colli, è stata sottoposta alla esasperata rappresaglia dei fascisti, decisi a finirla per sempre con il terrore rosso. La marcia impetuosa della "colonna di fuoco" si infranse contro la resistenza degli antifascisti di Parma, i quali, comandati dal deputato socialista Guido Picelli, diedero prova di grande ardimento. Lo stesso Balbo, forse per mitigare l'amarezza della sconfitta, ne riconobbe il valore. "Avversari così decisi scrisse a Mussolini "non ne avevamo ancora incontrati e meritano, nonostante tutto, la nostra leale considerazione: sono bei combattenti." Ma ormai i giochi erano fatti. La prova di forza operata da Balbo, per sua personale iniziativa, segnò una svolta decisiva nella lotta per la conquista del potere. "Mussolini come testimonierà Dino Grandi "colse al volo il suo messaggio e, modificando improvvisamente le sue modeste aspirazioni parlamentari, cominciò a tessere le trame di quella che sarebbe stata l'insurrezione armata dell'ottobre del 1922, ossia la marcia su Roma." La marcia su Roma del 28 ottobre, tanto mitizzata dalla propaganda fascista, fu in effetti una colossale scampagnata. Non si registrarono incidenti, non ci furono "martiri" e nessuno dei circa sessantamila fascisti che costituivano quell'armata Brancaleone lamentò un solo graffio. Tutto era già predisposto e filò liscio come l'olio. Naturalmente, anche Ettore Muti partecipò all'impresa. Era partito da Ravenna qualche giorno prima, al comando di un manipolo di squadristi, per raggiungere Napoli dove era stata organizzata la rassegna nazionale delle camicie nere. Il 26 ottobre, quando, dopo il discorso di Mussolini nel teatro San Carlo, migliaia di squadristi si riversarono in piazza del Plebiscito gridando "A Roma! A Roma!", Muti era fra loro e della sua incruenta marcia ricordava divertito soltanto la parata della cavalleria fascista guidata da Giuseppe Caradonna, comandante delle squadre d'azione della Puglia, e scimmiottava, fra matte risate, il grido che lanciavano gli squadristi a cavallo quando compariva il loro capo: "Per don Ciccio, eia, eia, allallà!". E sottolineava quell'"allallà", con la doppia "l" tentando di imitare la pronuncia dei fascisti baresi. A Roma Ettore Muti rimase poco. "Neanche il tempo di andare con gli altri a fare baldoria in casino precisava con finto rammarico. La stessa sera del 28 ottobre, gli era stato infatti ordinato di tornare in gran fretta a Ravenna dove la situazione si presentava critica. Deciso a resistere, il prefetto, dopo aver rifiutato ogni presa di contatto con i capi fascisti, aveva concentrato attorno al palazzo del governo due compagnie di guardie regie dotate di mitragliatrici e di un'autoblinda. Occorreva perciò agire subito e, la notte del 29, Muti non perse tempo: dopo essersi impadronito dell'autoblinda, assaltò con i suoi uomini la prefettura cogliendo le guardie regie nel sonno e costringendole alla resa. Conquistato l'edificio, "esonerò il prefetto dal suo incarico e lo invitò a ritirarsi nella sua abitazione privata, quindi provvide a prendere sotto il proprio controllo la questura, le sottoprefetture della provincia, gli uffici telegrafici e le stazioni ferroviarie. Il locale comando militare, non avendo ricevuto da Roma alcuna direttiva, si limitò a consegnare i soldati nelle caserme lasciando che Ettore Muti si impadronisse della città fra gli applausi delle sue non troppo numerose camicie nere. Per molti giovani dello stampo di Ettore Muti la conquista fascista del potere corrispose con il ritorno alla noiosa normalità di tutti i giorni. Il fascismo non era più un movimento, un ideale che imponeva di "credere, obbedire e combattere", secondo il fortunato slogan coniato da Pagina 28
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Mussolini: stava diventando un regime, o meglio, si identificava con lo Stato stesso. Essere fascisti, insomma, non significava più indossare la camicia nera, partecipare alle spedizioni o dare prove di spericolatezza. Adesso non si doveva più combattere, ma solo credere e, soprattutto obbedire, accettando una disciplina e una rigida gerarchia di comando. Troppo vecchio per riprendere gli studi, troppo giovane e irrequieto per irreggimentarsi e comunque senza arte né parte, per il nostro Gim dalla testa calda si aprivano tempi difficili e tristi. Lui avrebbe continuato volentieri a menar le mani. Era un combattente nato e la pace non faceva per lui. Continuava a sognare l'avventura: fra una scrivania e una trincea non avrebbe esitato nella scelta. Infatti cominciò subito a guardarsi intorno per cercare il luogo più adatto dove poter sfogare il suo temperamento. Con l'inseparabile Pelle progettò di arruolarsi nella Legione straniera, poi cambiò idea, irretito da un certo Matteucci, un fascista che lavorava per i servizi segreti iberici e incaricato di sventare un complotto comunista che si stava preparando in Francia contro il governo spagnolo. Egli era già pronto a partire per Parigi quando il provvido intervento dei servizi italiani lo indusse a desistere dall'impresa smascherando le intenzioni truffaldine del Matteucci. Tornato giocoforza alla noiosa vita di tutti i giorni, Muti era più deluso e scontento che mai, quando Italo Balbo lo mandò a chiamare. L'ex ras di Ferrara aveva fatto carriera: Mussolini lo aveva nominato luogotenente generale della Milizia, una formazione paramilitare destinata a diventare il ricettacolo degli squadristi disadattati o bisognosi di una sistemazione. Balbo, che non si era dimenticato del suo giovane compagno di lotta, offrì dunque a Muti ciò che faceva per lui: un'uniforme, dei galloni e un buon stipendio. La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, meglio conosciuta con la sigla MVSN, che Muti, con perfida autoironia, amava parafrasare in "Mai Visto Sudare Nessuno offriva ai suoi adepti molti privilegi, poco lavoro e tantó tempo libero. Fondato nel 1923, il nuovo corpo armato era interamente composto da volontari provenienti dalle cosiddette squadre d'azione, ossia dagli ex squadristi di età compresa fra i diciassette e i cinquant'anni. A differenza del Regio esercito, che dipendeva dal re, la Milizia era agli ordini del capo del governo, ossia di Mussolini, e costituiva una sorta di "guardia armata della rivoluzione" il cui compito principale era la difesa del regime fascista. Si trattava in effetti di un esercito politico che si poneva al fianco della polizia, dei carabinieri e dell'esercito regolare costituendone un ibrido doppione. C'erano infatti reparti militari addestrati al combattimento e altri addetti ai servizi di polizia, come la Milizia confinaria, la Milizia stradale, la Milizia ferroviaria, la Milizia portuaria e così via. Inutile precisare che la MVSN consentiva al regime di controllare ogni aspetto della vita politica italiana e tutti i gangli vitali dello Stato. Hitler la prenderà a modello quando, conquistato il potere in Germania, costituirà le SS. Questo esercito di regime si distingueva dall'esercito regolare anche negli aspetti esteriori. Invece della camicia grigioverde, i militi indossavano la camicia nera, al posto delle stellette portavano dei piccoli fasci littori, ricevevano paghe superiori e la gerarchia del comando era contraddistinta da gradi desunti da quelli in uso nell'antica Roma. Capo manipolo corrispondeva a tenente, centurione a capitano, seniore a maggiore, console a colonnello e luogotenente a generale. Gli ufficiali della Milizia godevano di un altro privilegio negato a quelli del Regio esercito. Lo squadrista poteva ottenere i galloni anche se privo di un qualsiasi titolo di studio e delle altre prerogative richieste dal Pagina 29
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt regolamento militare. Gli bastava infatti affrontare una serie di esami integrativi per superare i quali valevano, più della cultura, le attitudini al comando e i "titoli personali", ossia i precedenti squadristici del candidato. Ettore Muti, per esempio, al momento del reclutamento, fu promosso seduta stante seniore della Milizia portuaria. Ma va anche detto che in caso di mobilitazione generale, il regolamento stabiliva che l'ufficiale della Milizia richiamato alle armi nel Regio esercito doveva rinunciare al suo grado e riassumere quello che aveva raggiunto durante il servizio militare. Con indosso una divisa e la pistola alla cintura, Ettore Muti si sentì di nuovo a suo agio. Tanto per cominciare, appena ebbe un po' di denaro tra le mani, si comprò una Bugatti. Una macchina da corsa, azzurra, scoperta, di quelle basse di linea e col piccolo radiatore a ferro di cavallo che superavano gli allora mitici "cento all'ora" e che per molti suoi coetanei rappresentava un sogno irraggiungibile. Ben presto, il bolide azzurro di Muti diventò famoso su tutte le bianche e polverose strade di Romagna: si annunciava da lontano con un turbine di polvere che si sollevava tra i bassi vigneti, tra il verde del grano e della canapa; si udiva un rombo e poi lo si vedeva passare come un lampo, sempre di corsa, sempre sprezzante del pericolo. La morte continuava a sfiorarlo come se lui la cercasse costantemente. Le pattuglie dei carabinieri osservavano perplesse le sue acrobazie, ma non osavano fermarlo e alzavano le spalle, impotenti di fronte alle proteste dei contadini che lamentavano le stragi di polli e di galline compiute da quel diavolo scatenato. Uscì anche di strada varie volte, investì carri e carretti e persino qualche sventurato passante, ma senza provocare danni irreparabili. Muti era così spericolato che quasi tutti i suoi amici erano restii a provare al suo fianco l'emozione dei "cento all'ora" che lui offriva generosamente. Soltanto Pelle non si faceva pregare ed era diventato uno specialista di incidenti automobilistici. Raccontava che, quando andava con Muti, teneva i piedi puntati contro il fondo dell'abitacolo, pronto a prendere lo slancio: all'avvicinarsi del pericolo si spingeva all'indietro con un colpo d'anca e si lasciava catapultare fuori. Un volo, un salto mortale e il più delle volte Pelle si ritrovava illeso e addirittura in piedi in mezzo alla strada. Ma i momenti peggiori erano gli attraversamenti dei passaggi a livello. Muti aveva deciso che per lui le sbarre non esistevano e ci passava sotto grazie alla linea bassa della sua Bugatti, piegando la testa e spingendo a tutto gas. Più volte il treno lo sfiorò fischiando, ma lui non perdette mai quella rischiosa abitudine. Ecco come viene ricordato Ettore Muti da Fidia Gambetti (un giovane intellettuale fascista approdato in seguito sulla sponda comunista) nel suo libro Gli anni che scottano: Uno di questi giorni è passato a rotta di collo anche da queste parti lo squadrista ravennate che scorrazza a cento all'ora giorno e notte per le strade della Romagna al volante della Bugatti azzurra da corsa, seminando il panico negli abitati che attraversa, facendo strage di polli, tacchini, oche, porcellini di latte, cani, gatti, agnellini lungo le strade della campagna. Io l'avevo già veduto, so chi è. Alto e robusto con una bellissima faccia da bambino, due occhi verdi malinconici e un po' cattivi, non ha ancora vent'anni. Il suo nome è Ettore Muti. Per questa gente è semplicemente uno che viene da un altro mondo, passa senza fermarsi come una meteora e prosegue per un altro mondo. Ai suoi impegni di seniore della Milizia, Muti non dedicava che poche ore al giorno, ma il suo assenteismo sfacciato non gli impediva di far carriera. Già nel 1924, a ventidue anni, otteneva i galloni da console, ossia da colonnello e gli Pagina 30
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt veniva affidato il comando dell'81esima legione della MVSN Alberico da Barbiano di Ravenna. Adesso era veramente un pezzo grosso. La ricca borghesìa gli apriva le porte dei salotti più esclusivi e frequentava i circoli eleganti dove si davano convegno le ragazze da marito, le famiglie più in vista della città e le intraprendenti Bovary locali. Fra queste ultime era soprattutto l'affascinante Gim a mietere successi. La "dolce vita" ravennate, però, non gli procurava le emozioni forti che continuava a rimpiangere, perciò si consolava combinando scherzi e mattane con la sua allegra brigata. Durante un carnevale, inventò un gioco che procurava un piacevole brivido alle signore. Ai veglioni portava con sé una bombetta piena di etere che spruzzava a tradimento dentro le scollature più profonde degli abiti da sera o sulle spalle nude delle dame: un gridolino, un sorriso e il gioco era fatto. Scherzi da ragazzo, o meglio, da vitellone, poco adatti per un autorevole console della Milizia, ma lui, che gli amici continuavano a chiarnare el matt, riusciva facilmente a farsi perdonare. In questo clima Muti trovò anche il tempo per sposarsi. Era il 1925. Si innamorò di una delle più belle ragazze di Ravenna, Fernanda Mazzotti, figlia del presidente della Cassa di Risparmio, alta, bionda, affascinante e intelligente. Anche lei era una spericolata. Accettava di correre con lui sulla famosa Bugatti, si divertiva a sparare con la pistola e, da ragazza emancipata, usciva anche di notte per andare a un ricevimento a Ferrara o a una festa a Riccione. In casa di Fernanda, però, questa unione non era gradita. L'autorevole e ricco commendator Mazzotti non si era lasciato impressionare dall'uniforme che Muti indossava. Lo considerava, a ragione, un inaffidabile scapestrato. Simpatico, certamente, ma non desiderabile come genero. Le pressioni paterne non ebbero tuttavia effetto alcuno. Fernanda era innamorata e decisa, tanto che, alla fine, riuscì a strappare il consenso di convolare a nozze. Ma ecco come lo stesso Muti riferì in seguito a Italo Balbo e a Nello Quilici, amico intimo di Balbo e direttore del "Corriere Padano", come si svolse il suo colloquio con l'austero padre di Fernanda. E' il giornalista Quilici che scrive: Io entro, racconta Muti, e dico Buongiorno. Il Mazzotti dice: "Buongiorno. A cosa debbo l'onore della sua visita?". E io: "Oh! Niente. Sono venuto per sposare Fernanda . Lui fa un salto nella seggiola. "Come," dice "Fernanda? Sposare mia figlia? Lei?" "Sì, si risposi io. "Noi siamo già d'accordo." "Ma io no!" rispose il commendatore Mazzotti. Io mi alzai e lo guardai per bene in faccia e dissi: "Se me la dà, va bene, se non me la dà, me la sposo lo stesso... Fra tre mesi". A questo punto intervenne la signora Mazzotti che commentò con un mezzo sorriso: "Tre mesi? Perché non uno?". E io: "Ha ragione signora, me la sposerò entro un mese". E uscii. Si sposarono effettivamente il mese dopo. All'uscita dalla chiesa passarono sotto un arco di pugnali fieramente branditi da una dozzina di squadristi, poi si recarono al pranzo nuziale cui erano state invitate oltre duecento persone, in parte austeri borghesi, in parte squadristi scalmanati. Gli sposi andarono a vivere in via del Cerchio, nella bella casa paterna di lei. Muti, come sappiamo, aveva venduto la propria e viveva ancora in affitto con la madre e le sorelle. "Questo è il più bel giorno della mia vita dichiarò Ettore uscendo dalla chiesa, ma la sera dopo era già a far baldoria con gli amici. Fin dai primi giorni non si rivelò un buon marito. Aveva voluto quel matrimonio per scommessa (lui scommetteva su tutto, anche sulla vita) e forse per ripicca nei confronti del commendator Mazzotti che si ostinava a negargli la mano della figlia. Ma, raggiunto lo Pagina 31
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt scopo, questo perse ogni interesse ed egli non tardò a sentire il richiamo della... foresta, senza vincoli e senza responsabilità. "Non sono il tipo da tenere al guinzaglio" si vantava con gli amici di baldoria. Fernanda si era rassegnata a quella situazione, per orgoglio nei confronti dei genitori che non mancavano di ricordarle le loro fosche previsioni e anche perché, come tutte le mogli deluse, sperava che, prima o poi, il suo Ettore avrebbe messo la testa a posto. Fingendosi donna emancipata, accettava infatti lo strano ménage con signorilità. Sorrideva per le scappatelle del marito e accettava persino le vacanze separate: lei a Riccione (che la presenza dei Mussolini aveva trasformato rapidamente in un centro balneare mondano), lui preferibilmente in Cecoslovacchia dove pare che gli amanti latini andassero di moda. A casa, quando c'era, Muti si divertiva a sparare con la carabina o con la pistola. Dietro la casa si apriva un bel cortile, intimo e fiorito, chiuso sul fondo dalle vecchie mura della chiesetta di Sant'Agata, che lui aveva trasformato in una sorta di piazza d'armi. I vicini non osavano protestare: Muti faceva paura a tutti e, per giunta, godeva di un'assoluta impunità: le poche volte che era stato richiesto l'intervento dei carabinieri, questi se ne erano dovuti andare con la coda fra le gambe. Il suo bersaglio preferito era la grondaia della chiesa che il parroco doveva pazientemente cambiare almeno una volta all'anno, ma anche i comignoli e gli abbaini dell'intero vicinato portavano i segni delle sue irresponsabili sparatorie. Nel 1929 la coppia verme allietata dalla nascita di una bambina che fu chiamata Diana, ma il matrimonio era in crisi da un pezzo e la neonata non favorì il riavvicinamento da tutti auspicato. Muti già viveva lontano da Ravenna e Fernanda, perduta ogni speranza, si rassegnò a vivere sola, con la sua piccola, e a vederlo di tanto in tanto, quando occasionalmente rientrava in città. 5. DUE COLPI DI PISTOLA. Nel primo pomeriggio di venerdì 13 settembre 1927, il console Ettore Muti si trovava a Ravenna, in piazza Vittorio Emanuele II, al centro di un gruppo di gerarchi in uniforme. Doveva recarsi a Fiume come capo di una delegazione che avrebbe rappresentato la sua città in una cerimonia commemorativa. Qualche ora prima della partenza, era giunto nel porto per visitare la nave sulla quale doveva imbarcarsi e, notato il gran numero di corone affastellate sul ponte, dopo essersi affrettato a compiere il classico gesto scaramantico, aveva commentato: "Più che una festa, mi pare di andare a un funerale. Per giunta è anche venerdì...". Tornato in piazza, Muti si era unito agli altri camerati in attesa: mancava all'appello soltanto Renzo Morigi, il segretario della federazione, che stava terminando di farsi radere nella vicina barbieria. La piazza era semideserta e mentre i fascisti chiacchieravano fra loro, uno sconosciuto si avvicinò al gruppo con aria indifferente, poi estrasse improvvisamente una pistola e sparò per due volte contro Muti. Colpito al ventre e al braccio destro, questi crollò a terra senza un gemito fra i camerati sbigottiti. Poi, mentre nella piazza si registrava un fuggi fuggi generale, lo sparatore, approfittando della confusione, si allontanò con calma in direzione di via Rattazzi. Quella che accadde dopo fu questione di attimi: Renzo Morigi, richiamato dagli spari, sbucò dalla barbieria con la pistola in mano. Aveva ancora il collo avvolto nell'aPagina 32
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sciugamano e il viso insaponato. Fatti pochi passi, il segretario, da vero professionista, piegò un ginocchio a terra, impugnò l'arma con due mani, prese la mira e abbatté l'attentatore con fredda precisione. Seguirono di nuovo momenti di panico e si udirono altri spari. Tornata la calma, il cadavere dello sconosciuto giaceva sul selciato, mentre Morigi presentava una ferita alla gamba destra. Successivamente l'ucciso venne identificato per certo Lorenzo Massaroli, meglio conosciuto come "Babett d'Pezpan, abitava infatti nella vicina Piangipane, e gli vennero ritrovate indosso, oltre alla pistola Browning 7,65, un pugnale, un portafoglio contenente 19 lire, un distintivo di mutilato di guerra e due medaglie di bronzo raffiguranti Andrea Costa e Giacomo Matteotti le quali, ovviamente, lo qualificarono subito per un sovversivo. Il colpo al ventre ricevuto da Muti risultò gravissimo tanto che, appena giunse esanime all'ospedale civile, i chirurghi Rossi, Lesi e Soglieri, pur disperando di salvarlo, lo sottoposero con urgenza a un intervento di laparotomia. Invece il suo fisico eccezionale resistette, e a distanza di sole quarantott'ore Muti, dichiarato fuori pericolo, già pretendeva di rimettersi in piedi. Ci provò infatti, in un momento in cui non era sorvegliato, col risultato che i punti di sutura si strapparono e lui si ritrovò fra la vita e la morte per un altro paio di giorni. Un mese dopo era comunque in piedi e in ricordo di quel drammatico episodio gli rimarrà una lunga cicatrice verticale al posto dell'ombelico. Questa particolarità anatomica gli consentirà in seguito di prodursi in una delle sue consuete spacconate. "Non solo ho trentaquattro denti osservava compiaciuto "ma sono anche l'unico uomo senza ombelico, come Adamo. L'attentato contro Ettore Muti "a opera di sovversivi" fu naturalmente esecrato dalla stampa nazionale. La propaganda fascista esaltò il virile coraggio del ferito e Mussolini gli fece pervenire il seguente telegramma: "Console Ettore Muti - comandante 81esima Legione - Ospedale civile di Ravenna - Giungavi mio fervidissimo augurio. Sangue versato vi rende sacro alla causa della Rivoluzione". Renzo Morigi, "l'eroico salvatore", fu decorato di medaglia d'argento al valore. Tutto chiaro? Niente affatto. Anche se l'inchiesta fu formalmente chiusa con sconcertante rapidità, i primi sospetti erano già cominciati a circolare immediatamente dopo il sanguinoso episodio. Molti infatti non credevano all'attentato politico ed erano piuttosto propensi a ritenere che si trattasse di una resa di conti tra fascisti. L'intera città era infatti a conoscenza delle feroci lotte intestine che dilaniavano il gruppo dirigente. D'altra parte, non era neppure difficile ravvisare più di un parallelismo tra questo episodio e quanto era accaduto appena un anno prima, il 31 ottobre 1926, a Bologna. In quell'occasione, lo stesso Mussolini aveva subito un misterioso attentato poi attribuito all'anarchico quindicenne Anteo Zamboni, il quale era stato ucciso, o meglio, linciato dagli squadristi presenti, pochi istanti dopo l'avvenuta aggressione. Anche in quel caso, la repentina morte dell'attentatore aveva reso impossibile raccogliere la sua testimonianza. Lo stesso Muti, per la verità, pur avendo sempre mantenuto il più stretto riserbo, probabilmente nutriva dei sospetti. Infatti non manifestò mai gratitudine nei confronti del camerata Morigi suo salvatore, anzi, durante la convalescenza, dopo che il federale era andato a fargli visita con gli altri gerarchi, lo si sentì mormorare: E' venuto a vedere se muoio davvero. Ma, boia d'un mondo ladro, non gli darò questa soddisfazione!. Cosa sia effettivamente accaduto in piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza del Popolo), a Ravenna, in quel lontano Pagina 33
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt "venerdì 13, , forse non si saprà mai. Ma un bel po' di luce sul misterioso episodio l'ha gettata recentemente il giovane Nicola Buzzi con la sua tesi di laurea, molto precisa e documentata, sul fascismo ravennate. Buzzi sottolinea che Muti non era amato dai maggiorenti locali del partito e, in particolare, dal triumvirato che deteneva il potere a Ravenna, composto da Giuseppe Frignani, Renzo Morigi e Stefano Calvetti: il primo era il nuovo presidente della Cassa di Risparmio, il secondo segretario della federazione e il terzo podestà. I motivi dei rancori, più che politici, erano d'ordine personale ed economico. Muti era infatti il capo riconosciuto degli squadristi "duri e puri", prontissimi a menar le mani, ma fondamentalmente onesti e quindi nemici giurati dei "profittatori" e degli "imboscati" che non avevano mai conseguito meriti "sul campo, ma che avevano saputo abilmente trarre il proprio vantaggio dalle opportunità offerte dalla conquista del potere. A grandi linee si rifletteva a livello provinciale lo scontro che divideva sul piano nazionale i fascisti della "prima ora", spesso rozzi e incolti, da quelli dell'"ultima ora", più astuti e maneggioni. Una dicotomia più o meno mascherata che durerà sino al 25 luglio 1943 quando, caduto il regime, i fascisti "morbidi" prenderanno il largo verso lidi più accoglienti, mentre i "duri" andranno a immolarsi nel rogo finale di Salò. Nicola Buzzi ha scovato negli archivi di Ravenna anche i documenti e le denunce che rivelano l'aspro dissidio esistente tra i due gruppi. Muti infatti non si peritava di accusare Frignani di intrallazzi con gli agrari e di altre imprese affaristiche in combutta con Morigi e Calvetti. Spesso passava anche alle vie di fatto e i suoi scontri erano violenti e clamorosi. Il partito intervenne più volte per sopire la sua irruenza con la solita scusa che i panni sporchi andavano lavati in famiglia, ma lui, testardo, rifiutò sempre di allinearsi. Anche dopo il passaggio alla Milizia, col suo conseguente allontanamento dalla locale segreteria politica, Muti continuò la sua battaglia contro i faccendieri e i profittatori. L'avversario più insidioso dell'irruente console era Giuseppe Frignani, che aveva dimostrato straordinaria lungimiranza e scaltrezza politica già all'indomani della marcia su Roma. Conquistata la segreteria politica, si era successivamente autonominato presidente della Cassa di Risparmio, di cui era un oscuro dipendente, lasciando la segreteria al suo amico e fiduciario Renzo Morigi. Ma se Frignani era il più abile del terzetto, il più temibile era indubbiamente Morigi. Testa calda, sanguigno e spavaldo al pari di Muti, il nuovo segretario della federazione di Ravenna veniva considerato una sorta di pericolo pubblico. Prepotente, rissoso, amante delle armi e abilissimo nel tiro con la pistola (come si è già detto conquisterà in questa disciplina la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932), era soprannominato "la mitragliatrice umana. Quando alzava il gomito, cosa che secondo i rapporti dei carabinieri gli accadeva spesso, era capace di uscire in strada e di fulminare a una a una, con la sua pistola infallibile, tutte le lampade dell'illuminazione pubblica. La gente assisteva intimorita alle sue bravate, ma nessuno osava protestare. E' infatti inutile precisare che, come tutti i gerarchi, anche il federale pistolero godeva della più assoluta impunità. Per quanto riguarda l'attentatore di Muti, anche la sua figura risulta piuttosto sconcertante. Che Lorenzo Massaroli fosse un "sovversivo" non è stato assolutamente dimostrato, sebbene questo fosse l'unico punto sul quale le due fazioni fasciste si trovarono d'accordo. Infatti Babett d'Pezpan non era schedato e nel rapporto redatto dai carabinieri non si fa neppure cenno al ritrovamento nelle tasche dell'ucciso delle medaglie raffiguranti i due leader Pagina 34
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt socialisti Andrea Costa e Giacomo Matteotti. Sorge quindi il sospetto che queste "prove siano state aggiunte ad arte per attribuirgli una fede politica. Ma non è tutto. Massaroli era definito dai carabinieri "mentalmente instabile" per via di una serie di fallimenti delle sue attività commerciali che ne avevano alterato l'equilibrio psichico. Due anni prima aveva ottenuto la licenza per aprire una bottega di armi, polvere pirica e altri esplosivi (fatto piuttosto sorprendente se si fosse effettivamente trattato di un sovversivo pericoloso) fallendo comunque anche in questa impresa. In seguito Massaroli era stato assunto in uno zuccherificio su raccomandazione del podestà fascista Calvetti, ma aveva abbandonato di sua volontà questo impiego appena dieci giorni prima dell'attentato. A chi gliene chiese la ragione avrebbe risposto di non aver più bisogno di lavorare. Misteriosa era anche la provenienza dell'arma usata dall'attentatore. La Browning, infatti, risultava essere stata acquistata appena quattro giorni prima presso un'armerìa di via Cairoli, ma il commesso del negozio, Angelo Taroni, aveva "dimenticato di registrare il nome dell'acquirente. Un'omissione, questa, che suscita molte perplessità. Se è già inconcepibile che un "sovversivo" andasse a comprare una pistola in pieno centro cittadino, e ancora più inconcepibile che un commesso violasse le severe leggi fasciste "dimenticando" di registrare il nome dell'acquirente. E quindi assai più probabile, come osserva Nicola Buzzi nella sua puntuale ricostruzione dei fatti, che ad acquistare l'arma sia stato un personaggio provvisto dell'ascendente necessario per imporre al commesso di compiere quell'illegalità. In ogni caso il commesso Angelo Taroni non fu punito per la sua sconcertante dimenticanza. Se l'inchiesta sull'attentato venne chiusa rapidamente con la comoda formula del "complotto sovversivo" più lunga, più sorda e ricca di colpi bassi fu invece la polemica che imperversò all'interno del fascismo ravennate. Le due fazioni non si risparmiarono nello scambio delle accuse. Gli uni sostenevano la versione ufficiale, gli altri mettevano in dubbio persino la dinamica dell'episodio. Qualcuno tirò in ballo anche un terzo uomo, che avrebbe preso parte alla sparatoria nel corso della quale Morigi era stato colpito alla gamba. Altri sostennero invece che Morigi si era ferito da solo accidentalmente. Emerse anche un grave dubbio circa la paternità del colpo che aveva ucciso il Massaroli. Dal rapporto del maggiore dei carabinieri Umberto Roli, risulta infatti che l'attentatore fu freddato con un colpo alla testa; nel referto autoptico si legge invece che il cadàvere presentava due ferite d'arma da fuoco all'avambraccio sinistro e al torace destro "che non possono essere ritenute mortali " mentre sulla ferita alla testa campeggiava un troppo comodo "omissis". Facile quindi immaginare che a finire il Massaroli sia stato il classico colpo alla nuca. La complessa vertenza, che ci pare più che sufficiente per rivelare quanto fosse tòrbido l'ambiente fascista allora dominante a Ravenna, durò un paio d'anni. Lo stesso Mussolini se ne interessò e la direzione nazionale del partito inviò i suoi ispettori, ma non per fare chiarezza, bensì per aggiustare le cose e insabbiare definitivamente la scottante questione. Vincitore assoluto di quella lotta intestina risultò alla fine Giuseppe Frignani, la cui carriera in campo nazionale fu fulmìnea e coerente alle premesse. Da presidente della Cassa di Risparmio fu promosso, pochi mesi dopo, sottosegretario alle Finanze e, nel giro di un anno, diventò il potente direttore generale del Banco di Napoli, un incarico che conservò per molti anni governando fatti, cose e uomini dell'ambiente ravennate attraverso l'opera del suo fedele scagnozzo Renzo Morigi, il quale, più tardi, diventerà il "vice" di Achille Starace alla segreteria nazioPagina 35
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt nale del partito. A pagare il conto fu dunque Ettore Muti. Testardo come un mulo, tenace nei rancori e incapace di rassegnarsi alla sconfitta, continuò ostinatamente la sua lotta contro i "profittatori". Ma era troppo naif, troppo irruente e troppo poco diplomatico per sostenere l'ìmpari lotta contro lo scaltro Frignani; per giunta era anche incapace di destreggiarsi in mezzo ai trabocchetti della politica. Commise infatti molti errori e compì una serie di passi falsi che, alla fine, gli furono fatali. Denunciato da Morigi di "feroce anticlericalismo" per aver "aspramente criticato il Duce in occasione del concordato col Vaticano" e accusato da Frignani di avere "sparso voci tendenziose" ai suoi danni circa "certe operazioni del Banco di Napoli per il riscatto del giornale "Il Mattino", il console Muti fu sospeso per due mesi dal partito, privato del comando della legione e addirittura allontanato da Ravenna con la diffida di non rimettervi più piede. Rientrerà trionfalmente nella sua città soltanto molti anni dopo, quando, defenestrato Starace, Mussolini lo chiamerà, fra la sorpresa generale, alla guida del partito. Quel giorno, a Ravenna, saranno in molti a tremare, ma di questo parleremo più avanti. Verso la fine del 1929 l'esiliato Ettore Muti si trasferì a Roma, dove prese in affitto una villetta a Monte Mario con l'amico Mario Pezzi che gli fungeva anche da cuoco. Ufficialmente era disoccupato, ma gli avevano lasciato lo stipendio e persino l'attendente. Si riteneva comunque vìttima di una "porcheria" e non mancava di manifestare pubblicamente il proprio disappunto con la sua consueta strafottenza. "Mi hanno fatto un favore a sospendermi" affermava spavaldo. "Così avrò più tempo per divertirmi." Non aveva rispetto di nessuno. Quando venne convocato a rapporto dalla direzione del partito e richiamato all'ordine per le sue intollerabili esternazioni, reagì da par suo dichiarando di "infischiarsene di tutti, Mussolini compreso". La sua ribellione non gli procurò altri inconvenienti: evidentemente faceva ancora paura. La "porcheria" da lui subìta non aveva tuttavia modificato il suo umore. Appena giunto a Roma, Muti si era subito immerso nella "dolce vita capitolina. Anche se riceveva un buon stipendio, i soldi non gli bastavano mai. Quando aveva quattrini frequentava ristoranti di lusso e costosi locali notturni, quando era al verde evitava persino la mensa della Milizia. Bazzicava spesso i ministeri in cerca di vecchi camerati con cui "far baracca". Impetuoso e prepotente, rifiutava i "passi", allontanava con un gesto gli uscieri sgomenti e irrompeva senza farsi annunciare nello studio di qualche amico ministro, anche se erano in corso importanti riunioni. Lo slogan "me ne frego", coniato dai vecchi Arditi ed ereditato dagli squadristi, era diventato la sua regola di vita. Se ne fregava di tutti e, infatti, non rispetterà mai le consuetudini burocratiche che stavano ingessando il regime. A Roma, Muti aveva stretto amicizia con il figlio di Ettore Petrolini, anche lui ufficiale della Milizia, che gli faceva da guida nella Roma by night. Una sera, insieme a questi e a due accompagnatrici raccolte in un locale, girò in carrozza per le strade della città finché il tassametro non arrivò a segnare la somma che aveva in tasca. A questo punto licenziò il vetturino e si rifugiò in un albergo con tutta la compagnia. Vi rimasero per sette giorni fino a quando il suo amico Leandro Arpinati, sottosegretario agli Interni, non mandò a pagare il conto liberandolo dall'incomoda situazione. Muti neppure ringraziò il generoso camerata: per lui era naturale che si fosse comportato così: al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Grazie al figlio, era diventato amico anche di Ettore Petrolini, il suo comico preferito. Così, ogni tanto lo catturava e insieme andavano a mangiare all'Ulpia, un riPagina 36
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt storante presso il Foro Traiano, dove gli faceva ripetere fino all'esaurimento le canzoni e le barzellette del suo repertorio. La macchietta preferita da Muti era quella di "Gastone" e lui non si peritava di fare da spalla a Petrolini offrendo ai clienti del locale un numero unico davvero eccezionale. Era molto bravo anche nei giochi di prestigio e nelle imitazioni. Risultava irresistibile (anche perché era un "gioco proibito"), quando faceva la caricatura del Duce sottolineando le "s" sibilanti del suo caratteristico accento romagnolo (Mussolini non riuscì mai a dire "fascismo": diceva "fassismo"). Nella villetta di Monte Mario, Muti ospitò per qualche tempo una celebre cantante lirica in tournée nella capitale. La sua presenza nella villetta richiamò ben presto le attenzioni e le proteste dei vicini per i suoi monòtoni vocalizzi e anche per le feste rumorose che Muti organizzava con l'aiuto dell'amico Pezzi e dell'attendente rimasto al suo servizio per superiore concessione. Si era comprato un'auto usata, una 509 piuttosto sgangherata. Con quella macchina accompagnava la sua amica al Teatro dell'Opera, poi sedeva in platea e attendeva, il più delle volte dormendo, la fine della noiosa rappresentazione. Al momento di rientrare si verificavano facilmente situazioni imbarazzanti perché la vecchia 509 spesso rifiutava di mettersi in moto. Incitati dalle bestemmie di Muti, in maniche di camicia, i valletti del teatro accorrevano per aiutarlo a spingere, ma se i loro sforzi non erano sufficienti, lui con brusche maniere costringeva i passanti a "compiere il proprio dovere". Era un diavolo scatenato. La sua casa era sempre affollata di amici e di sconosciuti. Era capace di invitare a cena persone incontrate al bar un'ora prima. Era pròdigo e generoso, ma anche attaccabrighe e crudele. Con il suo attendente, magro e allampanato, che lui aveva ribattezzato scherzosamente "Panzon", come un suo vecchio amico di Ravenna, si comportava in modo balzano, a seconda dell'umore. Era capace di regalargli cento lire per una bella lucidatura di stivali e di pretenderne mille in prestito il giorno dopo. Si divertiva anche a inventare raffinate torture ai danni dell'attendente. Un pomeriggio Panzon tornò ubriaco dopo un pranzo nuziale. Entrato in casa si diresse nella stanza della soprano e le offrì una manciata di confetti sporchi di vino e di sudore. Lei li rifiutò sdegnata, lui insistette con rabbia e lei li rifiutò ancora. Offeso, l'ubriaco raggiunse urlando la sua camera e ritornò con la pistola in pugno: "Prendili o sparo" urlò minaccioso. Lei cominciò a urlare e lui a sparare. Sparò a lungo, in aria, mentre la povera cantante fuggiva terrorizzata. Una scena da western. Panzon stava ancora sparando quando sopraggiunse Muti che lo affrontò e lo stese con un paio di diretti. Successivamente, aiutato da Mario Pezzi, trascinò sul terrazzo l'ubriaco e lo lasciò, legato mani e piedi, sotto il sole di agosto. A sera, al ritorno da una gita a Ostia dove aveva creduto bene di portare l'amica a rinfrancarsi, Muti ritrovò Panzon più morto che vivo. Dovette telefonare all'infermeria della Milizia perché provvedessero al suo ricovero. Il soggiorno romano dell'indiavolato Gim è costellato di avventure incredibili e rischiose, dalle quali egli usciva impunito solo grazie alla sua posizione di "figlio prediletto" del partito (perché ancora lo era, malgrado la sua irrequietezza). Infaticabile nei divertimenti, era spesso protagonista di risse clamorose. Era capace di passare notti intere sfidando gli amici in gare di resistenza al vino, oppure sfidandoli nella lotta, a "braccio di ferro" o in altri violenti esercizi fisici. Era fiero dei propri muscoli e non perdeva occasione di mostrarsi a torso nudo. Le donne cadevano tutte ai suoi piedi e le sue storie d'amore erano spesso rapide e sconvolgenti. Una sola sembrò destinata a durare, ma ne parleremo in seguito. Adesso rievochiamo soltanto le sue bravate. Archiviata la passione per la cantante lirica, Muti Pagina 37
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt conquistò con il suo fascino virile una bellissima cecoslovacca che le informative dell'OvRA indicano soltanto con le iniziali N.S.B., precisando che si trattava della nipote "di un ex presidente di quella Repubblica". Costei era ricchissima e sommergeva l'amante di doni costosi che lui, completamente al verde, poteva ricambiare soltanto in natura. Una volta, in occasione del compleanno dell'amante, la donna chiamò Mario Pezzi e gli consegnò 4000 lire affinché comprasse tanti fiori da riempire la casa dell'amico. Era una cifra enorme e, conoscendo le condizioni economiche del suo compagno, Pezzi pensò bene di limitarsi a un solo garofano consegnando a Muti le restanti 3999 lire. Da parte sua, Ettore approvò l'operazione, poi ringraziò estasiato l'amante raccontandole che quella mattina, al risveglio, aveva creduto di essere morto tanti erano i fiori che inondavano la sua stanza trasformata in camera ardente. Intanto Muti passava da un'amante all'altra. Da Ravenna si era fatto spedire la sua vecchia Bugatti e con questa scorrazzava per l'Agro Romano o si avventurava per le vie del centro infischiandosene dei divieti e dei vigili che cercavano di farglieli rispettare. In un momento di abbondanza, vendette la Bugatti e acquistò una Maserati 2300 da corsa, di colore rosso, con la quale partecipò a diverse gare automobilistiche in cui ottenne modesti piazzamenti. Conduceva insomma una vita pazza e vagabonda. La sua casa era un porto di mare, offriva cena e alloggio ad amici vecchi e nuovi e continuava a tormentare il povero Panzon. Un giorno scaricarono nel villino una botte di vino inviato da un amico. Muti ordinò all'attendente di infiascarlo e l'altro, a forza di sorsi rubati, finì per ubriacarsi completamente, tanto che cadde in un sonno profondo lasciando che il vino inondasse la casa. Al suo rientro, Muti, trovando Panzon ancora addormentato nel lago di vino, afferrò, infuriato, la canna per annaffiare il giardino e praticò al disgraziato prima un lavaggio gastrico e quindi una rustica quanto efficace lavanda intestinale. Furono necessari dieci giorni di ricovero per rimetterlo in piedi. Durante la sua breve bohème romana, Muti visse una storia d'amore più intensa delle altre che, dopo una lunga interruzione, riemergerà sorprendentemente nel momento più drammatico della sua vita. Lei era una bella ragazza spagnola venuta in Italia con una borsa di studio per studiare canto. Si chiamava Araceli Ansaldo y Cabrera, era figlia del conte di Lerin, un grande di Spagna, e cugina del famoso giornalista genovese Giovanni Ansaldo, del quale era ospite a Roma. Aveva diciannove anni quando vide per la prima volta colui che romanticamente definirà "l'unico uomo della mia vita". Araceli era molto sentimentale. Forse fin troppo per un tipaccio come Muti, e infatti ne pagherà le conseguenze. Possedeva anche tutte le qualità (sangue caldo, passione, misticismo) che l'immaginario collettivo attribuisce alle donne spagnole. Ma ecco come lei stessa descrisse il primo incontro con Ettore Muti nel classico diario intimo che immancabilmente registrava le storie d'amore delle ragazze di una volta: Usciti dal teatro Quirino andammo a cenare nel ristorante "Roma" in piazza Poli. Ero seduta davanti all'ingresso, mentre mamma e Giovanni voltavano le spalle alla porta. E, ad un tratto, entrò lui... oh Dei! Fu come fosse entrata una grande potenza magnetica. Ero talmente emozionata che non riuscivo a capire se erano le sue vibrazioni ad essere entrate in me o le mie in lui. Mi fissò per un attimo. Il volto e la figura erano di una bellezza classica, una divinità dell'Olimpo. Alto, maestoso, elegante, i capelli castano-dorati e cortissimi sulle tempie, i suoi occhi di un colore fra la mandorla e il miele con i riflessi verdi ... Sedette di fronte a noi e capii che stava nascendo qualcosa di meraviglioso e doloroso insieme. Un secreto Pagina 38
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt que non era secreto yero que estaba en secreto... Con queste premesse, conquistare Ara (lui la chiamava così) fu per Muti come sfondare una porta aperta. Quella stessa sera, conoscendo Giovanni Ansaldo, andò a sedersi al loro tavolo, poi ottenne dalla madre il permesso di portare la ragazza ad ammirare le vetuste bellezze di Roma a bordo della sua Maserati e il resto lo si può immaginare. Qualche giorno dopo la mamma di Ara tornò a Madrid, il cugino Ansaldo al suo lavoro e la ragazza si trasferì nella villetta di Monte Mario. Vissero insieme per sette o otto mesi. Libero da ogni impegno (dalla famiglia che aveva lasciato a Ravenna si faceva vedere sempre più di rado), Ettore portò l'amica in giro per l'Italia facendole visitare i luoghi più belli che lei tanto adorava: Capri, Amalfi, Venezia, Cortina, Gardone... Un lungo itinerario romantico per una lunga luna di miele che pareva non avere mai fine. Finché gli fu possibile, Muti le tenne nascosto di essere sposato, ma quando alla fine Ara lo scoprì, riuscì felicemente a cavarsela col solito trucco cui ricorrono gli adùlteri con le amanti innamorate: "Non mi aveva detto nulla" lo giustificherà infatti Ara nel suo diario "per paura di perdermi e per non farmi soffrire ... Non mi perdeva, ma soffrivo, però continuai ad amarlo". L'amava anche lui? Chissà. Nel suo diario, Ara ha diligentemente trascritto le frasi più appassionate sussurratele da Ettore, da cui era rimasta particolarmente colpita. Considerato il personaggio cui vengono attribuite, sono frasi francamente sorprendenti. Eccone alcuni esempi: "Un giorno mi disse indicando la mia bocca con l'indice: Cuando esta vibora pica, no hay remedio en la botica" (Quando questa vipera morde, non esiste rimedio in farmacia). E un'altra volta: "Il nostro amore è registrato nella sinfonìa acustica del cielo, in questo altare di cristallo e luna che mi offri". Oppure: Colmerò il vaso fino all'èstasi e berremo insieme". E ancora: "Ho fatto un nodo di seta con i nostri due singhiozzi". Se autentiche, ma vi è più di un motivo per dubitarne, queste frasi rivelerebbero un'inaspettata e sorprendente vena poetico-sentimentale nell'animo di questo soldataccio rude e spregiudicato. Sul finire del 1932, due avvenimenti vennero a interrompere il loro amore. Ettore, superata la lunga "purga", fu richiamato in servizio nella Milizia portuaria e destinato al comando della legione di Trieste. Araceli, terminata la borsa di studio, dovette rientrare in patria. Si salutarono per l'ultima volta alla stazione Termini. Certamente si scambiarono le solite promesse e i soliti giuramenti di eterno amore, ma del loro commiato conosciamo soltanto la versione di Ara, che è questa: Appena partita da Roma alla volta di Genova, dove con mia madre avrei preso il treno per Barcellona, Ettore, in preda alla disperazione per non potermi portare con sé a Trieste, decise improvvisamente di raggiungermi a Genova in macchina per condurmi via con lui. Forse. Ma ancora una volta il destino separò le nostre strade. Un'ora prima che lasciassi Genova per Barcellona mi recapitarono il seguente telegramma: "Vettura avariata - stop - se non arrivo in tempo a Genova verrò a prenderti in Spagna - stop - Baci stop - Gim. Gim non andò in Spagna e Ara, cinque mesi dopo, partorì un figlio del cui arrivo Muti non era stato neppure informato. Un secreto che, per la romantica Ara, estaba el secreto. La loro storia d'amore sembrava conclusa, ma in realtà non lo era. A "riabilitare" Ettore Muti, e a farlo rientrare in servizio, era stato Costanzo Ciano. Il vecchio "eroe di Bùccari", diPagina 39
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt ventato nel frattempo un potente uomo politico, nonché consuocero di Mussolini per il matrimonio del figlio Galeazzo con Edda, aveva conosciuto "Gim dagli occhi verdi" ai tempi di Fiume, provando subito grande simpatia per quel ragazzo ardimentoso che gli ricordava la sua spericolata giovinezza. Informato della "porcheria" di cui era rimasto vittima, il conte Ciano ne aveva parlato con Mussolini e insieme avevano deciso di recuperarlo e di reintegrarlo nei ranghi della MVSN. A Trieste Muti rimase tre anni come console comandante della Milizia portuaria. Aveva preso in affitto un alloggio con il solito Pezzi, l'amico cuoco, e si annoiava a morte. La vita di caserma - ore e ore passate a tavolino, documenti da firmare, riviste e parate da organizzare - proprio non faceva per lui. Spesso balzava sulla sua Maserati e scompariva per giorni interi. Della noia mortale che lo affliggeva si sfogava con la madre, alla quale era sempre legatissimo. Spesso le esprimeva il suo disagio in versi, rivelando una vena poetica assai meno romantica di quella che gli attribuiva l'ormai dimenticata Araceli: Cara mamma, Qui non faccio quasi niente, E' una vita inconcludente, Vado sempre giù in caserma Allenandomi alla scherma Penso un poco ai miei diletti: Vecchie cose! Vecchi affetti! A Trieste Muti si era subito conquistato la fiducia e la stima degli inferiori, per via del suo carattere gioviale e cameratesco, ma non quella delle autorità locali perché non aveva perduto la pessima abitudine di dire le verità più sgradevoli in faccia a chiunque. Fra l'altro, le severe disposizioni da lui impartite per risanare il classico andazzo che caratterizzava la vita portuale, gli avevano alienato le simpatie di chi lucrava sui traffici doganali. La lotta al contrabbando, infatti, lui la faceva sul serio e distribuiva punizioni e cicchetti senza andare troppo per il sottile. Per dare l'esempio, rifiutava persino di fumare sigarette di contrabbando e guai a chi ne accendeva una in sua presenza. Continuava a odiare le parate, le messe in scena, le adulazioni e le smancerìe (lui le definiva "ruffianate") dei subalterni nei confronti dei superiori. Il suo spiritaccio ribelle era irrefrenabile. Un giorno, mentre si trovava al suo fianco sul palco d'onore in piazza dell'Unità, il Duce si tolse il berretto con l'aquila dorata e glielo passò con un gesto distratto, quasi di sufficienza, come fosse un cameriere. Muti, risentito, ripeté lo stesso gesto e passò il copricapo del Duce al gerarca a lui vicino. Mussolini, che se ne era accorto, si chinò verso di lui e gli bofonchiò nell'orecchio: "Questa volta un mese di fortezza non te lo leva nessuno". E infatti rimase chiuso trenta giorni nel carcere militare di Peschiera. Anche con i parigrado del Regio esercito Muti aveva sovente dei piccoli screzi. I militari di carriera, che si erano conquistati i galloni al prezzo di duri sacrifici, non accettavano volentieri il rapporto di parità con i colleghi della Milizia, ai quali quei distintivi erano stati concessi con sfacciata prodigalità. E non mancavano di arricciare il naso quando avevano l'occasione di confrontarsi con loro. Un giorno il console Muti venne invitato ad assistere alle finte manovre che si svolgevano sul confine iugoslavo alla presenza di Badoglio, allora capo dello Stato maggiore generale. Muti arrivò con tanto di carta topografica e, preso posto accanto a Badoglio, si mise a seguire attentamente i vari movimenti delle truppe divise, come d'abitudine, nel "partito rosso", invasore, e nel "partito azzurro", schierato in diPagina 40
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt fesa. Ben presto Badoglio si rese conto che il giovane console leggeva la carta topografica con notevole bravura e che, di tanto in tanto, faceva delle osservazioni intelligenti, da esperto stratega. Incuriosito, gli manifestò il proprio apprezzamento e poi chiese con un sorrisetto malizioso: "Mi scusi, console, ma lei che grado ricopriva nell'esercito?". E Muti, pronto: "Eccellenza, se glielo dico sviene". Andava spesso a Roma, anche se l'ambiente dei gerarchi non gli si confaceva. "Ci stiamo imbolsendo" si lamentava con gli amici. "Se el padron (Mussolini) non fa un'altra guerra siamo tutti fottuti." Per lui la guerra era l'unico antìdoto contro la noia. Un giorno, sul treno per Roma, gli capitò di sedere in uno scompartimento occupato da due turisti inglesi che nel 1918 avevano combattuto come aviatori sul fronte italiano. Si cominciò così a parlare di guerra e i due stranieri ebbero la cattiva idea di mettersi a criticare i piloti italiani. Muti non resistette a lungo. Dopo una battuta sugli aviatori italiani più pesante delle altre, gli saltò la mosca al naso: balzò in piedi, si qualificò come capitano dell'aeronautica italiana e mollò un paio di sberle all'inglese che l'aveva pronunciata. Ne conseguì una zuffa generale che fu alfine sedata dall'intervento della Milizia ferroviaria. Appena giunti a Roma, i due ufficiali britannici andarono a protestare alla loro ambasciata e occorsero alcuni giomi per tacitare l'antipatico incidente diplomatico. Quando raccontarono l'episodio a Mussolini, questi, che già cominciava a nutrire una certa antipatia per la "pèrfida Albione", approvò la reazione del suo vecchio squadrista e lo mandò a chiamare per congratularsi con lui. Poi gli chiese perché, pur non essendo pilota, si era qualificato come capitano d'aviazione. "Per poterli schiaffeggiare da parigrado" rispose Muti. "Del resto," aggiunse "se non sono ancora aviatore lo sarò presto. Intendo prendere lezioni per ottenere il brevetto." A Trieste Ettore Muti aveva conosciuto il duca Amedeo d'Aosta, allora comandante dell'aeroporto di Gorizia, ed erano diventati buoni amici. La personalità schietta e aperta del futuro "eroe dell'Amba Alagi" lo aveva rapidamente conquistato ed era stato lui, già esperto aviatore, a contagiarlo con la passione per il volo. Poco tempo dopo conseguì infatti il brevetto civile e, non contento, prese anche quello militare, rivelandosi sùbito un ottimo e spericolato pilota sia degli aerei da caccia che di quelli da bombardamento. Gli impegni non impedivano a Muti di dedicarsi alla vita mondana. Con Amedeo andava a fare i bagni ad Abbazia o in altre suggestive località della zona. Combatteva la noia intrecciando fugaci amori con le più vivaci signore della locale borghesìa o con turiste in cerca di amanti latini. Poche resistevano alle sue avance: era sempre quel che si dice "un gran bel fusto". Già a Ravenna le ragazze delle sue parti lo paragonavano a Guidarello Guidarelli, il bel guerriero la cui statua di marmo ha la bocca corrosa dai baci delle ammiratrici esaltate. Ora, a trent'anni, Gim sprigionava un fascino che ammaliava addirittura gli uomini... Gli capitò anche questa, infatti. Un giorno giunse nel porto di Trieste il lussuoso pànfilo di un principe reale saudita in visita ufficiale. Mussolini ordinò a Muti di andare a rendere omaggio all'illustre visitatore e lui, obbediente, si accinse alla bisogna accettando di buon grado un invito a pranzo sullo yacht principesco. I giornali dell'epoca, imbavagliati dalla censura, non rivelarono ciò che accadde a bordo, ma ugualmente l'episodio non mancò di destare clamore. Il principe rivolse all'ospite delle premure un po' troppo espansive e l'altro resistette finché gli fu possibile. Ma quando l'àrabo allungò le mani con intenzioni più che evidenti, Muti non riuscì a trattenersi oltre e sferrò un diretto alla mascella del principe che cadde a Pagina 41
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt terra KO. Il seguito lo si può facilmente immaginare. Il pànfilo àrabo levò le àncore, la missione fu interrotta e a Roma scoppiò un secondo incidente diplomatico che venne tacitato con fatica. A Muti toccò di nuovo andare a rapporto dal Duce, ma questa volta non si attendeva congratulazioni perché Mussolini era effettivamente seccato per l'incidente. Infatti lo rimproverò severamente. Per ammorbidirlo, Muti, esprimendosi in dialetto romagnolo, com'era solito fare con lui, cercò di giustificare la sua reazione e gli illustrò i gesti e le espressioni usate dal principe per "conquistarlo". La descrizione piuttosto hard finì per incuriosire Mussolini, il quale gli chiese divertito altri particolari piccanti. Poi, scuotendo perplesso la testa calva e alzati gli occhi al cielo, commentò quasi fra sé: "Che strano! A me queste cose non sono mai capitate. E Muti, con tono comprensivo: "Ma vo', Duce, an si miga un bell'oman coma me!" (Ma voi, Duce, non siete mica un bell'uomo come me). Nella primavera del 1935 Muti aveva già collezionato parecchie ore di volo ed era diventato un esperto pilota. I tempi, intanto, stavano cambiando: la guerra contro l'Etiòpia era nell'aria e lui la respirava felice a pieni polmoni. Era il pane che da anni andava cercando per i suoi denti. Si arruolò volontario prima ancora che scoppiasse il conflitto. Il 24 agosto 1935 così scrisse alla madre, in occasione del suo genetliaco che non dimenticò mai di festeggiare: Carissima mamma, che il mio augurio ti conservi in piena salute finché sarai vecchia bacucca e che ti rinnoverò ogni 24 agosto immancabilmente. Mi auguro che tu possa raccontare ai pronipoti questo fatto d'arme che sta per cominciare e che tu possa dir loro ciò che io ti racconterò, abbracciandoti, al mio ritorno. Sii allegra e forte come lo sono io e lo sanno essere le donne della nostra razza romagnola, figlia purissima di quella spartana. Da tempo le mire espansionistiche di Mussolini si erano accentrate sull'Etiòpia, unico stato indipendente ancora esistente in Africa e ancora disponibile per una conquista coloniale. Con l'Etiòpia, o meglio con l'Abissinia, perché era con questo nome che figurava nell'immaginario collettivo degli italiani, avevamo molti conti in sospeso. Nell'ultimo scorcio del secolo precedente, quando l'Italia crispina sognava di diventare una grande potenza coloniale al pari di Francia e Inghilterra, avevamo infatti già tentato di conquistarla, ma i nostri sforzi erano stati frustrati a Adua, dove le orde irregolari dell'imperatore Menelik avevano inflitto al nostro esercito un'umiliante sconfitta (l'unica subìta da un esercito europeo nel continente africano). Quella ferita sanguinava ancora e Mussolini intendeva riscattarla. Da tempo infatti affilava le armi e aveva preparato il terreno dando fiato a una pregnante campagna propagandistica dove il desiderio di rivincita per l'"onta" di Adua si mescolava alla volontà di conquista del mitico "posto al sole". Come si è detto, Ettore Muti fu il primo gerarca a offrirsi volontario, ma pretese di essere arruolato nell'Arma Azzurra". Accontentarlo non fu facile: si trattava ancora di una questione di galloni. Infatti, come si è accennato in precedenza, al momento della fondazione della Milizia, lo Stato maggiore generale delle forze armate, rivelando un'opportuna lungimiranza, aveva preteso che nel regolamento fosse stabilito che il milite in camicia nera, qualunque fosse il grado da lui raggiunto nei ranghi della MVSN, in caso di richiamo alle armi avrebbe riassunto quello a lui riconosciuto durante il regolare servizio militare. Ma a quale grado poteva aspirare il console Ettore Muti? A ben vedere, soltanto a quello di "soldato semplice", non esPagina 42
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sendogli stato riconosciuto il servizio militare prestato prima del compimento del diciassettesimo anno di età o, tutt'al più, a quello di "sergente ottenuto durante il servizio irregolare prestato come legionario fiumano. Insomma, un bel rompicapo per i burocrati del ministero della Guerra. Per risolverlo, Muti si era rivolto a Costanzo Ciano che già lo aveva aiutato a ottenere il comando di Trieste. Così gli aveva scritto alcuni mesi prima dell'inizio del conflitto: Eccellenza, l'attuale situazione creatasi ai confini delle nostre colonie dell'Africa Orientale fa presupporre l'imminenza di operazioni di carattere militare. Nell'eventualità che si concreti questa supposizione io desidero assolutamente essere di quelli che ne prendono parte attiva. Mi rivolgo pertanto all'E.V. affinché voglia interporre i suoi altissimi uffici onde ottenerne la mia partecipazione. Qualora non vi fossero impiegati reparti della Milizia lo scrivente sarà onoratissimo di parteciparvi come aviatore anche col grado già rivestito nei Reparti d'Assalto: quello di sergente. Il caso fu alfine risolto "politicamente con l'assegnazione al "console-colonnello Ettore Muti del grado di tenente di complemento. Il più giovane console della Milizia diventava così il più anziano tenente della Regia aeronautica. Lui comunque ne fu pienamente soddisfatto. 6. LA BEFFA DI ADDIS ABEBA. Di tutte le guerre volute dal Duce, quella d'Etiòpia fu certamente la più sentita dagli italiani. E fu anche il suo capolavoro. Mussolini riuscì infatti ad amalgamare quel miscuglio di sentimenti, di frustrazioni e di opportunismo che animava gli italiani e a trasformarlo nello schietto slancio di un popolo che rivendicava il diritto di emergere a dispetto di quei popoli ricchi, egoisti e ben pasciuti abituati a comandare in casa d'altri. Tutto insomma giocò a suo favore, compresa la scomposta reazione internazionale che ottenne il risultato di compattare ancor più gli italiani e di contagiare con l'entusiasmo nazionale persino gli avversari del regime. A scanso degli equivoci che potrebbero facilmente insorgere giudicando oggi i comportamenti di allora, sarà forse opportuno sottolineare in primo luogo che l'ètica del tempo era diversa. Nessuno, per esempio, si sorprendeva del fatto che i paesi europei ritenessero di avere il diritto di espandersi negli altri continenti, di dominare altri popoli e di obbligarli a obbedire alle loro leggi. Il colonialismo non era, come oggi, sinonimo di sopraffazione, sfruttamento e razzismo. Tutt'altro: le conquiste coloniali erano considerate conquiste della civiltà e le potenze europee erano giudicate "grandi" nella misura in cui erano grandi i loro imperi coloniali. Anche la cosiddetta "politica delle cannoniere, ossia l'uso della forza per placare l'irrequietezza dei popoli assoggettati, non era giudicata immorale, bensì una dolorosa, ma indispensabile necessità per salvaguardare gli equilibri precostituiti. Questa era la morale allora imperante e sarà il caso di tenerne conto prima di trinciare giudizi postdatati e suggeriti dal senno di poi. La politica estera di Mussolini si inquadrava in questa realtà. Se l'Italia intendeva conquistare il rango di grande potenza, doveva acquisire la forza militare necessaria per garantirsi la sicurezza, per rivendicare posizioni cui riteneva di avere diritto e anche per allargare i confini dei Pagina 43
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt suoi modesti possedimenti coloniali. Contemporaneamente al riarmo, il regime aveva avviato un'àbile azione di propaganda per mobilitare le masse contro la prepotenza dei nostri ex alleati che, dopo la fine della prima guerra mondiale, si erano spartiti il ricco bottino coloniale lasciando all'Italia soltanto "scarse briciole". Il mito della "vittoria mutilata" era tornato in auge in quegli anni. Mussolini, ormai saldo al potere, eccitava le folle plaudenti reclamando diritti veri o presunti e sollecitando una serie di motivazioni costanti, la più costante delle quali era il prestigio. L'Italia doveva diventare "uguale" alle altre grandi potenze e, riecheggiando il perenne tema dell'iniquo" trattato di Versailles, faceva sognare gli italiani elencando una serie di rivendicazioni (Nizza, Savoia, Tunisìa, Corsica, Malta, il Mare nostrum e, soprattutto, l'Abissinia "bagnata dal sangue dei nostri soldati") che le potenze "demogiudoplutocratiche", come lui le definiva, ora padrone del mondo, si ostinavano a negarci. "Ci sono paesi attorno all'Italia" declamava Mussolini dal famoso balcone di Palazzo Venezia "che hanno una popolazione inferiore alla nostra e un territorio doppio del nostro. E allora si comprende" proseguiva scandendo a una a una le parole con abilità oratoria "come il problema dell'espansione italiana nel mondo sia un problema di vita o di morte. Dico espansione: espansione in ogni senso, morale, politico, economico, demografico. L'immagine dell'Italia prigioniera nel "suo mare" colpiva la fantasia degli italiani. Come la colpiva la richiesta di un "posto al sole" dove inviare i nostri emigranti, fino ad allora costretti a trasferirsi in paesi stranieri. Per inculcare anche nell'animo dei giovani quanto fosse ingiusta la suddivisione del mondo, in tutte le scuole del regno erano state distribuite enormi carte geografiche nel cui ovale che racchiudeva il globo terracqueo veniva indicata con vari colori la vastità dei diversi imperi. Su tutti, primeggiava il "rosa" britannico, che dilagava dall'Africa all'Asia e all'Oceania quasi senza soluzione di continuità; poi veniva il "blu" francese, altrettanto immenso e quindi il "giallo" dei belgi o l'ìndaco" degli olandesi che ricoprivano estensioni territoriali pur sempre sproporzionate rispetto alle dimensioni della madrepatria. In questo contesto l'Italia faceva la figura della cenerentola. I nostri possedimenti erano colorati di "verde" e i ragazzi di allora non potevano non provare un senso di frustrazione e di dispetto osservando quelle tre macchioline verdi (indicanti le nostre colonie di Libia, Somalia ed Eritrea) simili a piccole isole semisommerse nello sconfinato oceano rosa e turchino che ricopriva il continente africano. Era infatti all'Africa che gli italiani ambìvano e ora Mussolini dava voce alle loro aspirazioni reclamando quel "posto al sole" che ci era stato negato dalla "pace esosa di Versailles. Ma non era soltanto la retorica della "vittoria mutilata" a risvegliare negli italiani vecchi rancori e antiche frustrazioni. Non era, o non era soltanto, l'azione di un paese che voleva legittimamente espandersi, a spese di uno stato barbarico e schiavista, per "portarvi la civiltà, per dare sfogo alla sua popolazione, lavoro ai suoi emigranti e gloria ai suoi soldati". Esisteva anche la memoria. In molte case erano ancora vivi i nonni che avevano combattuto a Adua o a Macallè, mentre nel folclore popolare sopravvivevano le vecchie canzoni di guerra che coinvolgevano i protagonisti della nostra sfortunata campagna africana del 1895 96, come il generale Baldissera, il colonnello Galliano, il maggiore Toselli, l'imperatore Menelik, la regina Taitù... Molti fischiettavano ancora i vecchi motivi ("O Baldissera, dagliele sode a quella gente nera..." Oppure: "O Menelicche, le palle son di piombo, non pasticche..."), anche se non erano canzoni beneauguranti viPagina 44
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sti i risultati catastrofici cui era andata incontro quella nostra sfortunata impresa. Come se tutto ciò non bastasse, a dare fiato alle trombe della propaganda colonialista aveva contribuito anche la Società delle Nazioni, l'ONU del tempo, che era dominata da Francia e Inghilterra. Appena Mussolini aveva accennato al proposito di impadronirsi dell'Etiòpia che, trovandosi situata fra l'Eritrea e la Somalia, rappresentava il boccone più ghiotto e più facile da ghermire, la Società aveva fatto muro schierandosi in sua difesa. L'Etiòpia era allora l'unico stato autonomo di un continente interamente dominato dalle potenze europee e, di conseguenza, pur essendo un paese "semibarbarico e schiavista , apparteneva alla Società delle Nazioni la quale si faceva garante della sua indipendenza. Innumerevoli erano stati i tentativi per indurre Mussolini a recedere dai suoi propositi, ma tutto si era rivelato inutile. Per frenare le sue mire espansionistiche nel giugno del 1935 la Società aveva inviato a Roma il ministro Anthony Eden, titolare del potente Foreign Office britannico, quale latore di un "pacchetto" di proposte alternative. Affidare a questo personaggio il compito di "ammansire" Mussolini non era stata una scelta intelligente. Eden era il classico gentleman britannico, elegante, compassato e con molta puzza sotto il naso. Insomma, la personificazione esatta dell'inglese dei "cinque pasti al giorno raffigurato dalla propaganda fascista. In lui, come scriverà Indro Montanelli, non si poteva dire "se predominasse di più l'ottusità e l'improntitudine o il disprezzo assoluto non tanto verso la politica italiana quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse". Fin dal loro primo incontro, i due uomini avevano provato un reciproco senso di repulsione. Quel "gelido figurino" non aveva nulla in comune con il "figlio del fabbro", il quale si tolse anche la soddisfazione di snobbare l'autorevole rappresentante di Sua Maestà britannica imponendogli mezz'ora di attesa in anticamera. Il loro colloquio fu rapido e raggelante. Eden riferì a Mussolini che la Società era disposta a consentire che l'Italia incamerasse l'Ogaden, una regione desertica al confine tra Etiòpia e Somalia. Niente di più. Mussolini gli rispose bruscamente "Io non sono un collezionista di deserti" e l'incontro si concluse senza lasciare àdito ad alcuna speranza. Dopo il commiato freddissimo, Mussolini si fece scappare anche una battuta mentre il raffinato ospite si allontanava. "Mai visto un cretino vestito così bene" borbottò. Era la rottura definitiva. Il 3 ottobre 1935 le avanguardie dell'esercito italiano varcavano il Mareb, un fiumiciattolo che segnava il confine fra l'Eritrea e l'Abissinia e che per molti italiani era "la frontiera della vergogna. Il dado era tratto. Cominciava la campagna d'Etiòpia. In risposta all'aggressione, la Società delle Nazioni, sotto l'impulso franco-britannico, decretò le sanzioni contro l'Italia. Vi aderirono 52 stati, ossia tutti i suoi componenti salvo l'Austria, l'Ungherìa e l'Albanìa (la Germania nazista non ne faceva parte). Si trattava, per la verità, di sanzioni non militari ma economiche, e il loro effetto risultò piuttosto blando, anzi, favorì la nostra economia aumentando la produzione nazionale. Ma sul piano emotivo ebbero sugli italiani un effetto enorme. Mussolini, che quanto ad abilità propagandistica non conosceva rivali, non si fece scappare l'eccezionale opportunità. Le "inique sanzioni" diventarono infatti il cavallo di battaglia della propaganda fascista. Con la conseguenza che un popolo tradizionalmente poco animato da spirito civico si ritrovò cementato nell'opposizione al ricatto, abilmente strumentalizzato, dello "strangolamento". Per la verità, non c'era neppure un gran bisogno di drammatizzare la vicenda. Anche al semplice uomo della strada balzava agli occhi l'iniquità" delle sanzioni. Appariva semplicemente asPagina 45
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt surdo che due potenze coloniali come Francia e Inghilterra, le quali si erano spartite fra loro il mondo intero, ora si mostrassero così intransigenti con l'Italia "proletaria e fascista" che reclamava il diritto di conquistarsi un "posto al sole". Un'altra clamorosa trovata propagandistica che infiammò gli animi fu la cosiddetta "Giornata della fede". Il 18 dicembre 1935, un mese dopo l'entrata in vigore delle sanzioni, gli italiani furono invitati a offrire "oro alla Patria" per superare le difficoltà finanziarie provocate dall'assedio economico. L'iniziativa registrò un successo senza precedenti, come dimostra la quantità d'oro raccolta (37 tonnellate). Tutte le spose d'Italia donarono le loro fedi nuziali (sostituite da altre realizzate con una lega di ferro) nel corso di solenni cerimonie. L'esempio fu dato dalla stessa regina Elena che offrì con grande solennità la propria, durante una cerimonia al Vittoriano, per attestare che la Casa Savoia sosteneva quella guerra voluta dal regime. Furono milioni gli italiani che donarono il loro aureo contributo con gesto "generoso e sentito", come testimonia Ruggero Zangrandi, imitati anche da personaggi illustri dell'antifascismo, come Benedetto Croce, che offrì la sua medaglietta d'oro da senatore. La clamorosa campagna propagandistica provocò nel paese un'ondata di xenofobìa economica, ma anche psicologica. I termini "leghista" e "sanzionista" assunsero un significato spregiativo, i prodotti stranieri furono boicottati e sostituiti con surrogati nazionali, il cotone, la "pura lana" inglese e il cachemire vennero rimpiazzati con le stoffe "nazionali", come l'orbàce sardo, o con quelle ricavate dal lino, dalla ginestra, dalla cànapa, e persino dal latte. Si procedette alla raccolta di rottami metallici per dare, oltre all'oro, anche l'acciaio. La bevanda più cara agli italiani - il caffè fu sostituita da un intruglio abissino piuttosto simile al tè, chiamato carcadè. Questa volontà di "fare da sé", a dispetto dei paesi sanzionisti - una concezione economica che avrebbe assunto il nome di "autarchìa" -, pur essendo per molti aspetti velleitaria, trovò una rispondenza profonda nel cuore degli italiani. Lo storico Chabod ha rilevato il grave errore inglese "di rendere popolare una guerra che altrimenti non lo sarebbe mai stata. Carlo Rosselli, èsule antifascista, scrisse che era necessario "riconoscere con franchezza virile che il fascismo, almeno sul piano interno, che è poi quello che più di ogni altro ci concerne, esce consolidato e rafforzato da questa crisi". Oltre a queste importanti motivazioni che avevano contribuito a rendere popolare la conquista dell'Abissinia, ce n'era infine un'altra che non deve essere sottovalutata: le medaglie... Il regime fascista aveva glorificato l'arditismo. Un uomo non era un uomo se non portava almeno una decorazione appuntata sul petto. Inoltre, una medaglia valeva più di un titolo di studio: favoriva le carriere e l'affermazione in politica. Chi aveva partecipato alla prima guerra mondiale aveva anche avuto la possibilità di meritarsi qualche decorazione, mentre gli squadristi avevano fatto man bassa di brevetti e di onorificenze. Ora, finalmente, anche ai giovani che non avevano fatto in tempo a combattere sul Piave o a "marciare" su Roma, la guerra d'Abissinia offriva l'opportunità di "coprirsi di gloria senza correre troppi rischi. I volontari furono infatti numerosi. Imitando l'esempio di Muti, corsero ad arruolarsi anche i gerarchi di mezza età. Si arruolarono, fra gli altri, il segretario del partito Achille Starace, Galeazzo Ciano, Roberto Farinacci, Giuseppe Bottai, Alessandro Pavolini, Piero Parini, Carlo Scorza, i figli di Mussolini, Vittorio e Bruno, e persino il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti. D'Annunzio no: era troppo vecchio. Pagina 46
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Anche nei confronti di questi volontari eccellenti il Regio esercito si dimostrò irremovibile e pretese l'applicazione del regolamento. Tranne Starace, che si era meritato gradi e medaglie nella prima guerra mondiale e poté quindi fregiarsi dei suoi antichi galloni di tenente colonnello, e il privilegiato Galeazzo Ciano che, pur non avendo mai vissuto un giorno da soldato, ottenne il grado di capitano, gli altri dovettero rassegnarsi ad accettare quello di tenente. L'afflusso degli alti papaveri del partito sul fronte abissino fu naturalmente esaltato dalla propaganda. I corrispondenti di guerra si sperticavano in complimenti ed elogi, tanto che le medaglie auspicate non tardarono a piovere sopra di loro. Tale eccessiva distribuzione sollevò critiche e commenti ironici fra le truppe che combattevano nelle pietraie dell'altipiano abissino. Gli alpini della "Pusteria" composero questa canzoncina irriverente, che il giornalista Paolo Monelli si divertì a trascrivere: Quando la pugna diventa pugnetta Ogni gerarca a partire s'affretta. Per ogni minimo stormir di vento Chiedono e ottengono medaglia d'argento. Solo a Starace, di tutti il più stronzo, Hanno dato quella di bronzo. Mussolini era pròdigo nell'elargire decorazioni per il regime, che aveva un gran bisogno di eroi. Tuttavia, pur non guardando troppo per il sottile, quando le richieste dei presunti eroi gli parevano eccessive, premeva il piede sul freno e cercava di vederci chiaro. Si comportò così anche nei confronti di Roberto Farinacci, il potente ras di Cremona che per qualche tempo gli aveva addirittura insidiato la leadership nel partito. Durante la campagna d'Etiòpia, questi era rimasto ferito e aveva perduto l'avambraccio destro. Il grave episodio si era verificato, affermava la motivazione, mentre il gerarca "istruiva volontariamente i legionari nell'uso delle bombe a mano": ora, per questo "atto di eroismo, Farinacci pretendeva niente di meno che l'ordine militare di Savoia o, in subordine, la medaglia d'oro. Perplesso di fronte a questa richiesta esagerata, Mussolini aveva ordinato una rapida inchiesta il cui risultato finirà per attribuire un tono grottesco all'intera vicenda. Ecco infatti il testo integrale del "rapporto al Duce" redatto da un maresciallo dei carabinieri in servizio a Dessiè: "Dalle indagini esperite risulta che S.E. Roberto Farinacci non si è sfracellato la mano durante una esercitazione volontaria, ma si è ferito mentre si dilettava a pescare con delle bombe a mano in un lago presso Dessiè. S.E. Farinacci si è anche molto adirato quando è stato informato che il tenente Ettore Muti lo ha soprannominato il Martin pescatore . Il gerarca mutilato non ricevette l'ordine di Savoia e neppure la medaglia d'oro. Dovette accontentarsi di quella d'argento. In Etiòpia Ettore Muti riceve il battesimo come pilota da combattimento e si rivela subito àbile, coraggioso e buontempone. Nessuno, naturalmente, ne avrebbe dubitato. Ritrova anche i suoi vent'anni, quell'atmosfera da caserma di cui aveva tanta nostalgìa e le vecchie "pellacce un po' ingrigite che, come lui, non hanno voluto perdere l'occasione di tornare a menar le mani. In attesa dell'inizio della nuova avventura, arricchisce il suo album di ricordi: si fa fotografare vestito da àscaro, da dubat, in groppa a un cammello, fra gruppi di ragazze ridenti o mentre è impegnato nella caccia grossa. Si diverte come un ragazzo in vacanza e gira curioso per le strade di Asmara. Nella cittadina eritrea, che Pagina 47
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt da un giorno all'altro è diventata il campo base, sciama un'umanità variopinta: sahariane kaki, caffettani multicolori, bustine inclinate, greche di generali, fez degli àscari, trecce unte delle ragazze tigrine, chiome ricciute, cappellini ancillari delle belle mulatte, turbanti, lobbie e chepì. Ogni incontro anticipa una rimpatriata. Ogni sera i veterani in franchigia si ritrovano nei piccoli cinema maleodoranti dove si proiettano vecchi film, o nei bar affollati e fumosi che ricordano loro le notti di Udine o di Fiume. Frequentatissimo è il "casino dei bianchi" che offre compiacenti sciarmutte a prezzi stracciati. I "servizi sono calmierati in un italiano approssimativo: "Brombillo 2 lire. Fico-fico 5 lire. C... non c'è. Muti si diverte da matti, prende ogni cosa allegramente, non rinuncia a far baldoria e fraternizza con tutti fregandosene dei gradi, della razza e delle gerarchìe. I suoi scherzi sono sempre pesanti, come le sue battutacce irriverenti che non risparmiano nessuno. Ama prendere di mira soprattutto i gerarchi pomposi venuti in cerca di facili allori. Lui, invece, gli allori se li conquista subito e meritatamente. Le sue azioni aeree spericolate sono una manna per i corrispondenti di guerra sempre a caccia di "imprese epiche" da raccontare ai lettori. Destinato alla 13esima squadriglia di bombardieri di base ad Axum, Muti compie alcune missioni rischiose anche sull'Amba Aradam, dove sono in corso aspri combattimenti. "Ha preso parte" si legge nella motivazione della sua prima medaglia "a sei voli di lungo raggio superanti i 600 km. Ha effettuato 40 atterraggi di fortuna in terreno infido. In due azioni belliche, nella valle dell'Aussa, ha avuto l'apparecchio colpito seriamente riuscendo tuttavia a rientrare alla base. Ha atterrato in più occasioni in territorio nemico, ivi pernottandovi tre volte, respingendo gli attacchi nemici con la sola difesa delle armi di bordo. E' atterrato per primo a Sardò, dove ha organizzato la difesa della località che non era ancora stata raggiunta dalle nostre forze armate." Nella motivazione non si fa naturalmente cenno ai richiami all'ordine e alle punizioni in cui incorre reiteratamente per le sue bravate. Siccome ama la caccia grossa, spesso si diverte ad atterrare oltre le linee per andare ad abbattere bestie feroci o timide gazzelle che poi carica sull'aereo portandole al campo, dove organizza "ranci" pantagruelici. In pochi mesi di guerra, il petto di Ettore Muti comincia così a ricoprirsi di medaglie: ne conseguirà una serie ininterrotta tanto da far invidia nel corso degli anni a Starace, il segretario del partito, che il Duce chiama scherzosamente "il mio medagliere". La prima medaglia ottenuta da Muti è comunque di bronzo ("quella che ho faticato di più a guadagnare" confiderà in seguito con spavalderia), poi ne arriveranno due d'argento e un paio di promozioni per merito di guerra, le quali, anche se i rischi affrontati non risultano eccessivi, lo collocheranno prima della fine della campagna abissina sull'"altare degli eroi". E' infatti universalmente noto che se da un lato le imprese aviatorie della nostra aeronautica in Abissinia risultarono decisive per l'annientamento delle forze nemiche, dall'altro furono favorite dalla totale impreparazione degli avversari a sostenere un conflitto bellico moderno. L'esercito etiopico non possedeva infatti una forza aerea. Difettava anche di una contraerea, giacché disponeva appena di poche decine di cannoncini Oerlikon, di fabbricazione svizzera, peraltro affidati ad artiglieri inesperti. "Per gli italiani non era una guerra, ma un gioco" commenterà in seguito, malinconicamente, il negus Hailè Selassiè. Tuttavia per nobilitare questo "gioco", i corrispondenti di guerra facevano tutto il possibile per eroicizzare i rischi del volo radente e Pagina 48
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt della cosiddetta "mischia aria-terra che esponeva i velivoli al fuoco della fucileria. Denunciavano inoltre, con finto orrore, la "slealtà" degli abissini che usavano le pallottole dum-dum, i proiettili esplosivi vietati dalle convenzioni internazionali (ma anche i gas erano vietati dalle convenzioni, eppure, a quanto si dice, i nostri vi ricorsero in qualche occasione). Il più esaltato dalla stampa nazionale era naturalmente Galeazzo Ciano, il golden boy del regime. Figlio di un eroe della Grande Guerra e genero del Duce, Ciano non poteva non farsi onore. Egli era partito volontario proprio per questo, e dietro esortazione dell'anziano genitore Costanzo, protagonista di missioni impossibili durante il primo conflitto mondiale: per esempio, insieme a Gabriele d'Annunzio, aveva attaccato con i suoi tre MAS la squadra navale austriaca, realizzando un'impresa immortalata poi dal poeta nella sua "beffa di Bùccari". Ora il vecchio soldato non nascondeva la speranza che il figlio si dimostrasse degno di tanto padre. Animato da questi "eroici" propositi, Galeazzo aveva cercato di farsi seguire in Africa da Orio Vergani, inviato principe del "Corriere della Sera", affinché provvedesse, come il Vate aveva fatto con il padre, a illustrare le sue gesta. Ma Vergani, che aveva una paura fottuta di volare, si era rifiutato e Ciano si era dovuto accontentare di Alessandro Pavolini, altra brillante penna del "Corriere", ma anche ambizioso astro emergente del regime. Pavolini, e non Vergani, fu dunque l'aedo di Galeazzo Ciano e svolse il suo compito tacitiano come l'eroe" desiderava. Riuscì infatti con cortigianesca abilità a glorificare le sue imprese e a trasformare in ardite missioni di guerra persino quelle che erano in realtà ciniche partite di caccia all'uomo. "Ciano" scriveva Pavolini "non amava le ricognizioni: ogni decollo senza bombe lo metteva di cattivo umore. Ogni volta che invece gli era dato di lasciare i comandi e di stendersi sul fondo dell'apparecchio a regolare la gràndine degli spezzoni tirandomi per una gamba, o a sbizzarrirsi di mitragliatrice o di carabina, in lui brillavano polso, occhio e brio." Al capitano Ciano era stato affidato il comando della 15esima squadriglia da bombardamento (ma, prudentemente, gli era stato affiancato come co-comandante il parigrado Giuseppe Casero, un esperto veterano) e sùbito erano corsi a schierarsi ai suoi ordini quelli che Muti definiva scherzosamente i cortigiani del "circolo Ciano". Ne facevano parte, fra gli altri, Roberto Farinacci e i due figli di Mussolini, Vittorio e Bruno. La squadriglia era stata ribattezzata La Disperata, dal nome dannunziano di una banda di squadristi toscani. "Un nome fiero e amoroso scriverà ancora l'aulico Pavolini "che si conviene alla squadra di un Ardito e anche alla donna di lui quando aspetta. Un nome, aggiungiamo noi, che Pavolini aveva scelto per ratificare il forzato inserimento del suo comandante nella tradizione squadristica e che Ciano aveva accettato con disinvoltura anche se non era mai stato né Ardito, né squadrista e neppure fascista della prima ora. La Disperata era composta di nove trimotori Caproni, sulla fusoliera dei quali ghignava il classico emblema fascista del teschio con le tibie incrociate. Pavolini le dedicò anche una poesia, che qualcuno mise in musica trasformandola nella canzone della squadriglia: O vecchia fiamma della Disperata Nascesti a Fiume, degli Arditi al canto, Di noi squadristi fosti segno e vanto, Ora t'abbiamo in Africa portata... Va detto comunque che, a parte la piaggerìa giornalistiPagina 49
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt ca, La Disperata si comportò onorevolmente in questa campagna. Dei suoi 90 componenti, 10 caddero in combattimento e 9 riportarono gravi ferite. Muti, come si è detto, non faceva parte del "circolo Ciano". Per caso o per ripicca, aveva preferito entrare in un altro "circolo", quello del duca Amedeo d'Aosta, anche lui comandante di una squadriglia. La loro amicizia, nata a Trieste, si era rafforzata in Africa. Il duca era un personaggio estroverso: faticava a mantenere l'austèro comportamento che si conviene a un principe di sangue reale e con Muti si trovava a suo agio. Quello scatenato romagnolo amante dell'avventura, beffardo, screanzato e irriverente lo divertiva e accettava da lui, con aristocratico fair play, la scarsa deferenza che questi gli dimostrava e le sue spontanee sgarberìe. Non si offese neppure quando quello spiritaccio gli rifiutò una cortesia, in verità non richiesta, ma certo desiderata... Muti, dopo aver razziato in un villaggio alcune galline, le aveva rinchiuse in una sorta di pollaio che si era costruito davanti alla sua tenda. E, ogni mattina, dava spettacolo. A torso nudo, con grida ed esclamazioni, raccoglieva le uova dalla calda paglia del pollaio, le palpeggiava felice e poi le sorbiva coram populo. Ingolosito, un giorno il duca manifestò il desiderio di avere anche lui delle uova fresche, sicché un suo premuroso ufficiale andò da Muti per chiedergli un paio di galline o almeno qualche uovo da donare a Sua Altezza. "Le galline sono mie fu la sua risposta "e non le darei neppure al Duce." Amedeo fece buon viso a cattiva sorte. Intanto le operazioni belliche andavano a rilento. Per dare all'impresa un'impronta interamente fascista, Mussolini aveva affidato il comando del corpo di spedizione al "quadrunviro" Emilio De Bono, un generale settantenne ricco di "meriti politici", ma non di capacità militari. Questi infatti si rivelò ben presto non all'altezza del compito e Mussolini, resosi conto dell'errore compiuto, non esitò a esonerarlo dal comando (sia pure dopo avergli indorato la pillola nominandolo maresciallo d'Italia) per sostituirlo con un comandante di prestigio e di solida esperienza proveniente dal Regio esercito, il generale Pietro Badoglio. Col nuovo comandante la situazione mutò rapidamente e il grosso delle forze abissine fu sbaragliato in varie battaglie. Anche l'aeronautica fece la sua parte, ma Muti non era contento. Quelle operazioni di routine, senza rischi e senza gloria, gli davano l'ùggia. Lui voleva distinguersi: cercava il colpaccio, la missione impossibile. A metà gennaio, quando era ancora molto lontana la conclusione del conflitto, compì alfine il suo colpo di testa più clamoroso. Di propria iniziativa e senza dir nulla a nessuno, volò col suo trimotore direttamente su Addis Abeba. Era la prima volta che "un'ala littoria", come scrissero estasiati i giornali, violava il cielo della capitale etiopica. Ma Muti fece di più: passò e ripassò a bassissima quota sull'aeroporto riuscendo persino a sfiorare per due volte il terreno in mezzo alle raffiche incrociate delle mitragliatrici che gli sforacchiarono l'apparecchio mettendo fuori uso anche un motore. Prima di rientrare alla base, Muti guidò il suo malconcio trimotore anche sopra il centro della città per un ultimo gesto di sfida. L'impresa "impossibile" suscitò sensazione in Italia e Muti entrò definitivamente nella leggenda. Elogi e riconoscimenti gli piovvero addosso da ogni parte. Mussolini lo definì, chissà perché, "un guerriero dell'Alto Medio Evo". Lui comunque sembrò non inorgoglirsi troppo: la falsa modestia era una caratteristica del personaggio. Scrisse infatti alla madre, che rimaneva il suo principale referente: Oggi sono tornato alla base da un'azione con uno dei motori colPagina 50
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt piti e con le ali e la fusoliera che sembravano un colabrodo. Avevo persino un ferito a bordo che perdeva molto sangue, ma che durante il volo non ha dato un lamento. Ho un equipaggio meraviglioso, cara mamma. Per questa azione e per alcune precedenti sarò decorato di medaglia d'argento. Tralasciò tuttavia di aggiungere che Badoglio, risentito per il suo gesto indisciplinato, gli aveva inflitto dieci giorni di rigore pur non opponendosi, in seguito, ad appuntargli la medaglia sul petto. Fu dopo quell'impresa che Ettore Muti venne invitato da Ciano a entrare a far parte della Disperata come "aggregato e lui accettò o fu costretto ad accettare. Non sappiamo con esattezza come si svolsero le trattative di quel trasferimento. Muti non aveva simpatia per gli snob del "circolo Ciano, tutti inchini, salamelecchi e cortigianerìe. Personalmente preferiva i tipi alla Balbo, rudi, coraggiosi, menefreghisti, ma non era tuttavia tanto ingenuo da sottovalutare i vantaggi che la protezione del "Successore" (così veniva definito Ciano, considerato l'erede del Duce) gli avrebbe garantito. Una versione dei fatti, a cui neppure Muti fece mai cenno, ma che forse è la più veritiera, attribuisce l'avvicinamento dei due personaggi all'intervento personale di Costanzo Ciano, al quale Muti doveva della gratitudine per il suo repechage nei ranghi della Milizia. Il vecchio eroe della "beffa di Bùccari" desiderava, come si è accennato, che il figlio fosse protagonista di qualche impresa ardimentosa e riteneva Muti il compagno ideale perché riuscisse a realizzarla. E così fu, infatti. Il volo di Ciano su Addis Abeba, definito da una stampa compiacente "la seconda beffa di Bùccari", non fu che una ripetizione di quanto Muti aveva fatto da solo qualche mese addietro, ma ebbe un riscontro propagandistico senza precedenti. L'impresa ebbe luogo il 30 aprile 1936, appena pochi giorni prima che le truppe di Pietro Badoglio entrassero vittoriose nella capitale. Con al fianco Ettore Muti, Galeazzo Ciano spinse il suo trimotore nel cielo sopra Addis Abeba senza incontrare ostacoli. Per rendere più clamoroso il suo gesto, era sua intenzione prendere terra nell'aeroporto e rapirne il comandante in modo da estorcergli non si sa quali informazioni su un'impossibile difesa aerea della capitale. Il tentativo comunque non riuscì a causa di un'inattesa reazione dei mitraglieri abissini che crivellarono l'apparecchio impedendogli di atterrare. A Ciano non restò che la consolazione di volare a bassa quota sulla città e di lanciare il gagliardetto della Disperata nella piazza centrale. La stampa nazionale diede tuttavia un rilievo eccezionale all'azione. Scrisse infatti Pavolini: L'apparecchio arrivò basso sopra il campo. La difesa non dava segni di vita. Già i pneumatici rimbalzavano sul terreno quando s'udì nel coro leggero dei tre motori a regime ridotto una tempesta di mitragliatrici. Annidati tutti intorno, i mitraglieri scioani disponevano da cento metri di un obbiettivo lento e facile. Venticinque proiettili perforarono la fusoliera, le ali, la carlinga: e nella carlinga sino il sottile cuscino di cuoio dove Ciano posava la schiena. Non c'era che da ridare gas e balzare in aria. Così fu fatto. Più divertente e, probabilmente, più veritiera è la versione dei fatti secondo Ettore Muti. A suo dire si era trattato di una bravata non molto diversa da quella da lui compiuta quando era andato a rubare la bandiera rossa dei socialisti di Sant'Arcangelo di Romagna. Solo che questa volta, invece della motocicletta, aveva usato l'aeroplano. Muti rievocò la vicenda anni dopo, mentre si trovava a Bengasi ospite di Italo Balbo, allora governatore della Libia. Il suo racconto fu ascoltato, e in seguito trascritto, dal Pagina 51
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt giornalista Nello Quìlici, padre del noto regista Folco e amico intimo di Balbo, accanto al quale trovò la morte quando il loro aereo fu abbattuto per errore dalla nostra contraerea nel cielo di Tobruch il 28 giugno 1940. Eccone la versione integrale: Tutti i giorni sentivamo al busìi [le bugie] di Radio Addis Abeba e mi davano noia. Così dissi a Ciano se voleva venire con me ad Addis Abeba a prendere quel d'al busìi [quello delle bugie]. La stazione radio era nel campo d'aviazione. Si trattava insomma di atterrare: il resto era elementare. Ciano doveva tenere a bada con la mitragliatrice di bordo gli abissini che avrebbero potuto attaccarci ed io sarei entrato nella stazione, avrei preso per il collo lo speaker e l'avrei portato sull'apparecchio. Invece una cannonata di Oerlikon ci beccò mentre eravamo a duecento metri da terra e ritornammo. Comunque andò meglio dell'altra volta quando quel vecc insansè [quel vecchio insensato, cioè Badoglio] mi diede dieci giorni di rigore, anche se poi el padron mi fece avere la medaglia d'argento. Questa volta me ne hanno data un'altra senza discutere. Da parte sua Galeazzo Ciano, anche lui decorato con una medaglia d'argento e consacrato eroe, andò sempre fiero dell'impresa di Addis Abeba. Nei salotti di Roma lo si sentirà per anni ripetere il racconto delle sue gesta, mentre in casa conservava e mostrava il sedile sforacchiato dai proiettili del famoso trimotore. Quel volo temerario aveva appagato il suo sogno. Finalmente, abbracciando il padre, poteva far tintinnare le proprie medaglie contro quelle di lui. L'epica impresa finì anche nei libri di scuola e persino sul palcoscenico dell'avanspettacolo. Ironizzando sul famoso jamais pronunciato dal Parlamento francese in risposta alle rivendicazioni territoriali di Mussolini, un autore teatrale, con sperticata piaggerìa, compose questa canzonetta che le soubrette cantavano in coro: Jamais, jamais, jamais... Marianna, Marianna, Se non mi dai la Tunisìa Io ti mando la fanterìa. Se non mi dai Nizza e Gibuti lo ti mando Ciano e Muti. Mamma mia, mamma mia, Non mandare Ciano e Muti Prendi pure Nizza e Gibuti, Ma nient'altro avrai da me. Jamais, jamais, jamais... Terminata la guerra d'Etiòpia, l'8 giugno 1936 Mussolini proclamò il ritorno dell'impero sui "fatali colli di Roma". Il giorno seguente nominò il trentatreenne Galeazzo Ciano ministro degli Esteri. Ora Ettore Muti aveva un amico al vertice del potere, ma, per la verità, non cercò di approfittarne. L'ambizione infatti non lo rodeva: si era innamorato dell'Africa e, da novello cincinnato, pensava di restarci per trasformarsi in colono. Aveva già organizzato fra gli indìgeni qualcosa che rassomigliava alle cooperative romagnole cui si deve lo sviluppo e l'incremento dell'agricoltura nella bassa padana. Sognava anche di organizzare un piccolo esercito coloniale per la difesa dell'Impero. Scriveva infatti in quei giorni a sua madre. "L'Africa mi piace. Ho trovato la terra che fa per me, cara mamma. Voglio restare qui. Chi mi vuol bene mi segua. Ma quel sogno romantico sopravvisse per poche settimane: un'altra guerra stava bollendo in pentola e lui non era certamente il tipo da lasciarsela scappare. 7. Pagina 52
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt DALLA GUERRA DI SPAGNA AL VERTICE DEL PARTITO. La guerra di Spagna fu una guerra diversa da tutte le altre. Fu sostanzialmente una guerra ideologica, o meglio, la guerra dell'antifascismo contro il fascismo, anche se in seguito registrò delle varianti. All'inizio, infatti, il quadro era chiaro: dalla parte nazionalista stavano i militari insorti, i falangisti, i banchieri, i latifondisti, i monarchici e il clero, che godevano dell'appoggio dell'Italia fascista e della Germania nazista; dalla parte repubblicana erano schierati i partiti democratici, gli intellettuali progressisti, i socialisti, gli anarchici e i comunisti, che erano sostenuti dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Unione Sovietica. Questa situazione, che anticipava, grosso modo, le alleanze che si sarebbero registrate più tardi nella seconda guerra mondiale, era tuttavia destinata a non durare a lungo. Mentre le potenze totalitarie mantennero e rafforzarono il loro impegno in favore degli insorti nazionalisti, Francia e Inghilterra, per non impegolarsi nel pasticcio spagnolo, lasciarono ben presto libero il campo all'Unione Sovietica, che ne approfittò per impadronirsi delle leve del potere riuscendo facilmente a trasformare il minuscolo partito comunista spagnolo nel partito egèmone della coalizione repubblicana. Sotto la guida di quest'ultimo, trasformatosi in un docile strumento del Comintern (l'Internazionale comunista diretta da Mosca), si costituirono in seguito le cosiddette "Brigate internazionali", formazioni militari composte di giovani volontari antifascisti di varia estrazione politica, ma comandate da un piccolo dèspota ideologico, il commissario politico comunista. Questa involuzione all'interno del fronte repubblicano sollevò critiche e proteste legittime fra i combattenti non comunisti, ma Stalin non esitò a trasferire in Spagna il sistema delle "purghe" già esperimentato in URSS per liquidare i cosiddetti "nemici del popolo". A indicare chi fossero questi "nemici" aveva poi provveduto lo stesso segretario comunista spagnolo José Díaz. I fascisti, i trozkisti e gli incontrollabili [leggi anarchici e socialisti]" aveva dichiarato al congresso del suo partito nel marzo del 1937 "sono i nostri tradizionali nemici e devono essere sterminati non solo in Spagna, ma in tutti i paesi civili." In Spagna tali premesse furono purtroppo rispettate. Ne seguì infatti una lunga serie di massacri, epurazioni e regolamenti di conti che dilaniò il fronte interno repubblicano e trasformò la guerra tra fascisti e antifascisti in uno scontro tra fascismo e comunismo con uno strascico di crisi personali, di esecuzioni sommarie, di coercizioni intollerabili e di bieche persecuzioni che finirono per favorire la vittoria dei nazionalisti. La crisi spagnola era iniziata ufficialmente a Melilla, nel Marocco spagnolo, il 17 luglio 1936, esattamente alle cinque della sera (l'ora classica delle corride). I militari del Tercio, la Legione straniera spagnola, erano insorti contro il governo repubblicano dando vita a un alzamiento militare, già opportunamente predisposto, che era rapidamente dilagato nella madrepatria sottraendo al controllo centrale varie regioni del paese. Questa insurrezione armata era da tempo nell'aria, ma la situazione era precipitata nel febbraio di quell'anno dopo la vittoria di stretta misura del Fronte popolare alle elezioni politiche. Il risultato elettorale aveva innescato una catena di disordini e di uccisioni da parte degli ultras dell'una e dell'altra parte, facendo precipitare il paese nell'anarchia. Registi dell'alzamiento militare erano stati i generali José Sanjurjo, Emilio Mola e Francisco Franco. Quest'ultimo, il meno famoso dei tre, ma politicamente il più astuto, ne diventerà poche settimane dopo il Pagina 53
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Caudillo indiscusso, per una serie di tragiche coincidenze che provocarono la morte improvvisa e accidentale degli altri due. Per avere ragione dei "rossi" (così venne subito definita la parte repubblicana), Franco si era immediatamente rivolto a Mussolini considerandolo il suo alleato naturale. Le sue richieste, per il momento, non erano eccessive: si sarebbe accontentato di un certo numero di aerei per favorire il trasferimento del Tercio dal Marocco in Spagna. Ma il Duce, sulle prime, si era mostrato riluttante a impegnare il suo prestigio - che la recente campagna d'Abissinia aveva portato alle stelle - in una vicenda il cui esito appariva ancora dubbio. Sfidare ancora una volta la Società delle Nazioni, che aveva imposto il blocco dei rifornimenti alle due parti in conflitto, gli pareva troppo azzardato. Ma in seguito, dopo che anche la Germania nazista si era schierata con i golpisti, si lasciò convincere da Galeazzo Ciano, deciso invece fin dall'inizio a gettarsi nell'avventura. Complessivamente l'Italia impiegherà nella guerra civile spagnola 50.000 "volontari", 80 aerei da caccia e da bombardamento, nonché centinaia di carri e di cannoni. Da parte sua, la Germania si limiterà a inviare soltanto mezzi e, in particolare, la famosa legione Condor, la quale, fra l'altro, si renderà responsabile della distruzione di Guernica, la prima città a essere rasa al suolo da un bombardamento aereo. Ma va anche sottolineato che l'indiretta alleanza italo-tedesca, provocata dal comune intervento al fianco dei nazionalisti spagnoli, generò i pròdromi dell'Asse Roma-Berlino e di quel tragico patto d'Acciaio che, pochi mesi dopo la conclusione della guerra civile spagnola, coinvolgerà l'Italia nel secondo conflitto mondiale con le conseguenze che tutti conosciamo. L'intervento italiano in Spagna fu interamente gestito da Galeazzo Ciano, e per il giovane ministro degli Esteri italiano rappresentò un primo severo esame che egli superò brillantemente, dando prova di grande abilità diplomatica. Ciano si era insediato a Palazzo Chigi da poche settimane portandovi una notevole intelligenza e una grande capacità di cogliere l'essenza dei problemi più complessi e di giungere a rapide decisioni. "Dispongo già dell'uomo giusto" era stata infatti la sua risposta appena Mussolini l'aveva posto di fronte all'esigenza di favorire il trasferimento in Spagna dei "mori" del Tercio. In quei giorni Gim era ancora deciso a fare il cincinnato. Stava appunto per rientrare in Abissinia dopo una breve licenza a Ravenna, quando un ordine di Ciano lo bloccò nell'aeroporto di Guidonia. "Ho del lavoro per te" gli annunciò il ministro, senza entrare nei particolari. "E' una missione rischiosa e delicata. Ci stai?" L'altro non esitò un istante: "Quando si comincia?". "Subito." "Io sono pronto: ho già con me i bagagli." Il giorno seguente Muti raggiunse in volo l'aeroporto di Elmas, in Sardegna, base segreta dell'operazione Spagna. Nel frattempo era stato informato su ciò che l'attendeva e la prospettiva di una nuova avventura aveva dissipato dalla sua mente ogni bucolico proponimento africano. Pretese soltanto che venissero trasferiti per via aerea a Roma tutti gli oggetti personali lasciati nella colonia: album fotografici, armi, scudi etiòpici, pelli di leopardo e alcuni animali catturati vivi, tra cui un formichiere e uno sciacallo. L'attendente Panzon avrebbe provveduto a sistemarli nell'accogliente pied-à-terre che Muti si era fatto costruire nel torrione di San Sebastiano, a Porta Metronia. Poiché l'aiuto militare italiano ai nazionalisti spagnoli doveva rimanere segreto onde evitare la condanna della Società delle Nazioni, i servizi avevano provveduto a mascherare l'operazione. Dalle ali e dalle fusoliere dei dodici Pagina 54
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt trimotori S. 81, i Pipistrello, da impiegarsi nella bisogna, erano stati cancellati le insegne e i distintivi nazionali. Anche i membri degli equipaggi avevano assunto nomi e documenti falsi. Ufficialmente, figuravano come mercenari arruolati nella quarta bandera del Tercio spagnolo. Il comandante della spedizione, il colonnello pilota Ruggero Bonomi, viaggiava col nome di Francesco Federici. Ettore Muti aveva scelto quello di Gim Valeri. Era nata così la prima formazione aerea di quella che sarà poi chiamata l'Aviazione legionaria. Il 30 luglio, addirittura in anticipo sulla data stabilita da Ciano, gli aerei decollano da Elmas, ma alla loro traversata non arride la fortuna. Il maltempo e i venti contrari scompigliano la formazione: un aereo cade in mare, altri due si schiantano nel Marocco francese e la cattura degli uomini dell'equipaggio, uno dei quali ha ancora in tasca i documenti della Regia aeronautica, rivelano gli scopi e la provenienza della missione. La stampa di tutto il mondo viene così informata che Mussolini sta aiutando Franco nella sua guerra contro il legittimo governo spagnolo. Ciò consentirà all'Unione Sovietica di giustificare il proprio intervento nel conflitto spagnolo e di inviare in appoggio dei repubblicani mezzi militari, rifornimenti e, soprattutto, abili "consiglieri" politici che ben presto diventeranno gli occulti registi dell'infiltrazione comunista nelle file delle forze governative. Dei nove trimotori arrivati a destinazione a Melilla, uno è pilotato dal capitano Gim Valeri, il quale entra subito in attività. A lui in particolare si deve il successo del trasferimento del Tercio nel territorio metropolitano. Le sue spericolate azioni di bombardamento lìberano infatti dall'insidia dei sommergibili il tratto di mare fra Ceuta e Algeciras. Anche le unità di superficie della marina repubblicana sono costrette ad allontanarsi. Muti attacca personalmente col suo aereo l'incrociatore Cervantes, spìntosi nella zona di operazioni, danneggiandolo gravemente sino a provocare il suo affondamento. Già al tramonto della prima giornata di guerra i "mori del Tercio e reparti di regulares possono sbarcare felicemente nella baia di Algeciras. Il nome di Muti non tarda a diventare popolarissimo persino nel campo avverso: il governo repubblicano mette addirittura una taglia sulla sua testa, mentre la stampa francese annuncia a lettere cubitali che sono stati "Muti e Bonomi a far passare l'esercito spagnolo dall'Africa alla Spagna . In trentadue mesi di ininterrotta campagna di guerra, Gim Valeri si rese protagonista di azioni belliche così temerarie che si esita a definirle suicide solo perché riuscì sempre a cavarsela grazie al suo eccezionale sangue freddo e alla sua abilità di pilota. Manovrando il suo pesante trimotore come fosse un aereo da caccia, scese a bassissima quota per mitragliare le truppe "rosse" fermando la loro avanzata verso Cordoba. Nel cielo di Oviedo sostenne per ventidue minuti un duello aereo contro dieci Rata, i caccia sovietici, abbattendone due e sganciandosi infine con le ali e la fusoliera sforacchiate. Sempre a Oviedo, spezzò l'accerchiamento della città bombardando incessantemente le forze assedianti. Alla conclusione del conflitto, risulterà essere l'unico legionario italiano che ha partecipato alla guerra di Spagna dal primo all'ultimo giorno e sarà ricompensato con una valanga di decorazioni: una medaglia d'oro italiana e una spagnola, cinque medaglie d'argento, oltre a numerose altre onorificenze militari, compresa la promozione a maggiore per meriti di guerra. Ma non basta. In Italia, dove il suo nome è tornato nella leggenda, lo promuovono luogotenente generale della Milizia, un grado che lo equipara a generale di corpo d'armata. Nella motivazione della sua medaglia d'oro si specifica, fra l'altro, che Muti ha compiuto in un anno Pagina 55
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt "400 voli di guerra (più di uno al giorno) e 160 azioni di bombardamento". E ancora si legge: "Più volte attaccato dai caccia avversari, si impegnava per 13 volte in aspri combattimenti in condizioni di assoluta inferiorità riuscendo sempre a respingere gli attacchi della caccia avversaria e concludendone vittoriosamente due con l'abbattimento in fiamme di due apparecchi nemici". Per ricevere la medaglia d'oro, Muti è stato richiamato momentaneamente in Italia ed è lo stesso Mussolini ad appuntargliela sul petto, davanti all'Altare della Patria, il 21 aprile 1938, anniversario del natale di Roma. Terminata la solenne cerimonia, egli si allontana, si toglie dal petto la medaglia e se l'infila distrattamente in tasca. A chi lo rimprovera per quel gesto, lui risponde spavaldo: "Mica la posso portare in giro come fosse la medaglia della prima comunione. I rituali del regime non sono mai stati di suo gusto e non vede l'ora di tornare a combattere. In Spagna, infatti, Gim ha ritrovato se stesso. La guerra gli serve come vàlvola per scaricare le sue inquietudini e le sue turbolenze. E' un istintivo: esplosivo nei suoi affetti, colto dall'ira perde spesso il lume della ragione. Le sue scenate sono memorabili. Chi lo segue nei voli di guerra non può dimenticarne la folle temerarietà. Compiuta un'azione, rientra alla base per rifornirsi di bombe e quindi via di nuovo ad affrontare spavaldamente altri rischi. Eroismo? Molte volte si tratta di inutili esibizioni di coraggio, di momentanee esaltazioni. Lui si diverte a fare la guerra, è felice di creare scompiglio, vuole spaventare e soprattutto stupire. La sua popolarità cresce di giorno in giorno. I giornalisti spagnoli l'hanno ribattezzato il "Cid aereo o il "Gaucho", quelli italiani lo definiscono il "Moschettiere del Duce", il D'Artagnan di Ravenna", il "Corsaro" e via di seguito, attingendo alle definizioni più esaltanti. A Siviglia, le ragazze impazziscono per lui. "Mi fermano per strada" scrive alla madre "per appuntarmi sul petto madonne, madonnine, santi e santini di ogni genere. Indossa le uniformi che più gli piacciono dando preferenza al casual fuori ordinanza. Abitualmente porta un fazzoletto rosso al collo: "Così, spiega spavaldo "se casco dall'altra parte, mi faccio passare per un compagno. Un giorno Muti viene a sapere che fra i "rossi" catturati c'è un famoso torero. "Non ho mai visto un torero in vita mia", dice "voglio conoscerne almeno uno. Glielo portano: si chiama Lorenzo Márquez e ha fama di essere un matador dal coraggio ineguagliabile. Gim rispetta il coraggio e simpatizza subito con lui, ma quando scopre che ha una paura matta di volare non perde l'occasione di combinargli uno dei suoi scherzi grossolani. Pistola alla schiena, lo costringe a salire sull'aereo, lo lega a un sedile e poi se lo porta in volo divertendosi un mondo nel vederlo piagnucolare come un bambino disperato. Muti ripete quella tortura per alcuni giorni di seguito, ma alla fine Márquez si conquista la benevolenza di Gim, che lo tiene presso di sé come "prigioniero personale". Finiscono per diventare buoni amici. Anche con i subalterni Ettore mantiene rapporti di cameratesca cordialità: difficilmente distribuisce "cicchetti", anzi protegge gli indisciplinati, se è consapevole che al momento opportuno potrà contare su di loro. I marocchini del Tercio lo adorano: divora con loro scodelle di cuscus e poi si diverte a rimpinzarli di vino e di prosciutto alla faccia di Allah. Difficilmente perde il buon umore. Un giorno gli dicono che il generale Mario Berti, comandante in capo del CTV (Corpo truppe volontarie), si lamenta per la mancanza di un'automobile. Lui lascia il campo, oltrepassa le linee nemiche, scova una macchina e con quella rientra alla base. Poi la invia al comando con un biglietto d'accompagnamento: "Omaggio al generale Berti". Fa altrettanto quando gli dicono che il Pagina 56
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt generale, volendo dare una festa, lamenta la mancanza di un grammofono. Rivalica le linee, ne ruba uno in un bar e lo manda a Berti con i relativi dischi. Il suo nome viene spesso citato dai bollettini di guerra, ma una sera Radio Barcellona, gestita dai repubblicani, lo attacca personalmente. In schietto dialetto romagnolo, lo speaker "rosso" (certamente un volontario antifascista) lo ricopre di insulti e di sfide: "Vieni a Barcellona se hai coraggio!" gli urla dal microfono. Lui non se lo fa ripetere due volte, parte per Barcellona e partecipa alle operazioni ancora in corso. Appena la città è conquistata, si precipita nella stazione radio in cerca dello sfidante. Per sua fortuna, lo speaker romagnolo è riuscito a scappare lasciando sul tavolo un ultimo testo dedicato a Muti che non ha fatto in tempo a trasmettere. I rapporti degli italiani con gli "alleati" tedeschi non erano idilliaci. Muti non sopportava il complesso di inferiorità che il comandante dell'aeronautica legionaria, generale Mario Bernasconi, dimostrava nei confronti del comandante della legione Condor, generale Hugo von Sperrle, e spesso se ne lamentava. Ma per dare un'idea dei rapporti fra italiani e tedeschi durante quella guerra, ecco una bella pagina tratta dal libro Il voltagabbana, di Davide Lajolo, allora volontario fascista in Spagna e successivamente comandante partigiano, dirigente comunista e direttore dell'"Unità". Il brano contiene anche un significativo ritrattino di Ettore Muti: ... Bruno s'era affezionato ad una ragazza del locale e quando lui arrivava voleva che stesse solo con lui. Pagava quanto bastava, ma non voleva dividerla con nessun altro. Dirigendosi verso di lei, un ufficiale tedesco la invitò a ballare. Lei guardò Bruno e lui disse di no. Il tedesco insisteva, l'aveva presa per mano e tentava di attirarla a sé. Bruno scattò in piedi e fece capire al tedesco di lasciar perdere. Questi scoppiò in una risata e trasse la ragazza con forza presso di sé. Stava abbracciandola per ballare quando Bruno gliela strappò dalle braccia e lo spinse lontano. Il tedesco barcollò come dovesse cadere, ma riuscì ad aggrapparsi ad un tavolo che poi sollevò nel tentativo di lanciarlo contro di noi. Fu un attimo. Balzammo in piedi e tutti gli altri ufficiali italiani ci imitarono. Anche i tedeschi fecero altrettanto ed iniziò una lotta furibonda. Un tedesco sparò un colpo di pistola contro il lampadario. Nel buio si sentivano sbattere i mobili, urla, tonfi sordi. Le ragazze si erano rifugiate dietro l'orchestra, i tedeschi urlavano ... Uscii da quel campo di battaglia con il collo dolorante per un poderoso colpo di bottiglia vibrato da uno degli "alleati". Appena tornò la luce, i tedeschi si ripresero istantaneamente dall'ubriacatura. Allineati vicino all'ingresso, come se dovessero essere passati in rivista, fecero un perfetto saluto militare e uscirono, come se quella di poco prima fosse stata una gara sportiva. Eravamo tornati ai nostri tavoli e la musica aveva ripreso a suonare quando la porta si aprì sotto la spinta di nuovi avventori. Erano cinque o sei ufficiali della nostra aviazione. Davanti giganteggiava un giovane maggiore bruno col viso aperto e il sorriso cordiale. Salutò tutti, poi venne al nostro tavolo e si presentò: era il maggiore Ettore Muti. Uno famoso. I suoi eroismi in Africa e in Spagna l'avevano reso popolare. Era l'aviatore più temerario del nostro corpo di spedizione. Si sedette al tavolo, si fece raccontare dove avevamo buscato tante ammaccature. Rideva forte, alla romagnola. "L'importante è farsi rispettare. Se possibile, darle e non prenderle. Questo vale per i nemici e anche per gli alleati." Schiacciò l'occhio per significare che sapeva di chi parlava e come parlava. Poi il discorso passò alla guerra, all'Italia. Muti era amico di Ciano, conosceva bene Mussolini, Bottai, Starace. Si diceva che al ritorno avrebbe avuto un posto di grande importanza. Quella sera era in vena di parlare franco. Disse che a lui i gradi servivano solo in guerra: in tempo di pace preferiva starsene a Rimini dove, diceva ammiccando, le donne erano meno complicate che altrove. Ci disse che a Roma non si era mai trovato a suo agio. SeconPagina 57
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt do lui si sarebbe dovuto cambiare la capitale. "Magari Bologna disse un tenente milanese. "Magari Milano" aggiunse Muti. "Un po' di ritorno alle origini non guasterebbe. Il ricordo di quello che erano allora farebbe bene anche ai gerarchi di oggi che si credono tutte aquile perché le portano sui berretti. Bisogna essere inflessibili, continuò Muti "nei princìpi e con gli uomini. Io non sono molto di libri. Mi sono sempre annoiato sulla carta stampata. Se si contmua così, torneranno a comandare quelli che hanno sempre comandato: i panciafichisti e le mezze seghe. Mussolini lo sa. Ma deve liberarsi di tutti i cicisbei che ha intorno. Certo ci vogliono anche le teste. I Bottai, i Gentile, i Ciano, ma non occorrono le banche. I ricchi non andranno mai verso i poveri se non per far loro l'elemosina. E qui, a rischiare, non sono venuti." E' stata quella l'ultima notte nella cittadina di Logrono. Il giorno successivo arrivò l'ordine di partenza per il nuovo fronte, quello di Teruel. L'entusiasmo suscitato dalle parole di Muti era valso a risolvere i miei dubbi ... Lo slancio purificatore di Muti era il tipo di fascismo che tornava a convincermi come ai tempi del GUF. Muti, come egli stesso ammetteva con franchezza, non era uomo di libri e neppure di penna, per questo preferiva servirsi del telegrafo. "Così non sei costretto a rispettare la sintassi" osservava ridendo. Dalla Spagna, comunque, scrisse alcune lettere a Ciano, il quale lo aveva incaricato di inviargli regolari informazioni sulla situazione spagnola. In esse, Gim non si rivela un grande scrittore e neanche un profondo osservatore. Più che informazioni, i suoi scritti sono una raccolta di pettegolezzi, che però servono a dare una certa idea dell'atmosfera di allora. Del generale Berti scrive: "E' un bel tipo: ha mandato a ritirare la sua roba e, fra l'altro, vi è un cavallo regalatogli da Franco. Ebbene, egli ha preteso, oltre il cavallo, trenta, dico trenta quintali di biada!!! E poi vorrebbe una cassaforte per custodire le cose riservatissime. La verità è che dentro ci sono due portasigarette d'oro massiccio acquistati dal CTV per regalarli agli spagnoli ... Queste, caro Galeazzo, sono le chiacchiere della serva però è sempre bene conoscere gli uomini anche attraverso queste piccole manifestazioni. Vi è un'altra questione spinosa," continua Muti "ed è quella dei giornalisti. Fra questi ci sono famosi filibustieri. I frequenti, per non dire quotidiani passaggi di frontiera, hanno consentito un tràffico illecito di valuta, di generi, di notizie e fotografie. L'autorità spagnola è seccatissima di questo andirivieni di gente che può benissimo fare a meno di andare sempre in Francia. Qui arrivano anche ogni giorno italiani spiantati e privi di mezzi che vogliono commerciare ecc. ecc. Sarebbe meglio mandarli in Abissinia a popolare l'Impero. Selezionare maggiormente i passaporti sarebbe oltremodo opportuno". In un'altra lettera, dopo che Berti era stato sostituito dal generale Gastone Gambara al comando del CVT, Muti si inserisce nella polemica scoppiata fra quest'ultimo e il generale Bernasconi, comandante dell'aeronautica legionaria. Così scrive a Ciano: Tu sai quanta sia l'ammirazione che io nutro per Bernasconi, eppure sono costretto ad insistere perché tu voglia considerare la situazione direi quasi insostenibile che deriva dalla sua permanenza qui. Critiche e commenti da parte di tutti. Aviatori in specie, italiani, tedeschi, spagnoli, portoghesi, poiché questa sua volente o nolente dipendenza da un generale di grado inferiore e di altra arma lo spinge a mettersi piuttosto alle dipendenze del generale Sperrle. Per ovviare a questi inconvenienti, poiché Gambara è l'ideale dei Comandanti, non vi è che una soluzione: richiamare Bernasconi ed a questo rientro fare seguire una sua promozione per merito di guerra ... Ti saluto con molto affetto e arrivederci (saluto romano!), Pagina 58
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt In un'altra missiva sono i rapporti con i franchisti ad attirare l'attenzione di Muti. Egli scrive ancora a Ciano: Voglio dirti che abbiamo passato dei brutti momenti ... Per fortuna i nostri soldati sono dei generosi, degli intrepidi e non conoscono termine al sacrificio. Credevo, avevo sempre creduto, che gli spagnoli fossero dei nobili decaduti, invece non sono altro che dei milionari falliti. Se ci succedeva un rovescio, certo non se ne sarebbero dispiaciuti. Credo ad ogni modo che questo possa servire una volta di più a considerarli per quello che valgono e per quello che vale la loro parola. Le battaglie di rottura del fronte se le asciughino loro, che noi sfrutteremo il successo. Il generale Orgaz, che è quello che non attaccò mentre noi eravamo impegnati a Guadalajara è oggi comandante di tutto il fronte dell'Est, mentre avrebbe dovuto essere fucilato. Dopo due anni e mezzo di guerra e un curriculum di combattente da Guinness dei primati, anche la ferrea salute di Muti cominciò a vacillare. Le esalazioni di benzina gli avevano indebolito la vista, ma solo l'idea di inforcare gli occhiali lo metteva di cattivo umore. "Non diventerò mai un quattr'occhi protestava. Per un certo periodo gli fu comunque impedito di volare e lui venne pervaso da un senso di stanchezza. "Per la verità, scriveva a sua madre da Salamanca "sarebbe proprio ora che in questo paese finissero di scannarsi uno con l'altro. Io penso che se finirà questa guerra, trovandomi ancora vivo e sano, potrei andarmene da qualche parte nel mondo, un po' lontano, con qualsiasi incarico; oppure tornare in colonia ove conto di prendere una concessione e vivere là tranquillamente e operosamente." Le parentesi meditative non avevano tuttavia infiacchito la sua tempra di combattente. Ettore non era certamente il tipo da restare con le mani in mano a ciondolare nei caffè di Salamanca quando ormai si approssimava la vittoria franchista. Riuscì infatti a ottenere il comando di un reparto corazzato del Tercio alla testa del quale entrò fra i primi a Madrid il 29 marzo 1939. Quello della guerra di Spagna fu certamente uno dei periodi più belli della sua vita avventurosa. Le gesta di cui era stato protagonista l'avevano reso famoso in mezza Europa suscitando una vastissima eco in Italia. I telegrammi di compiacimento, gli ordini del giorno e gli articoli di giornale e i panegirici gli fioccavano sul capo in misura tale da provocare le sue solite reazioni di rigetto. Perse le staffe quando gli giunse la notizia che i fascisti di Ravenna avevano organizzato una sottoscrizione per offrirgli un pugnale d'oro al suo ritorno in patria. Ecco cosa scrisse in proposito all'amico Pezzi: Se mi sei veramente amico, fa' di tutto per stroncare ì'iniziativa del pugnale d'oro. Io ti assicuro nel modo più assoluto che la cosa mi addolora e mi urta moltissimo. E' ora di finirla con queste buffonate: io non voglio diventare ridicolo a tutti i costi; e puoi dire senz'altro a quelli che intendono occuparsi di queste cose che, invece di gradire la cosa, io serberò loro la mia inimicizia. Perché se qualcuno mi manda un buon salame mi rallegro e me lo mangio, ma se si parla di altri regali prima di tutto non li accetto e poi mi ìrrito. Va bene così? Hai capito? Gli articoli, poi, mi sono odiosi e non voglio sapere nulla di queste pupazzate. Non vengo in Italia solo perché mi urta tutto questo. E te lo dico sul serio. Figùrati! Si può sapere cosa vogliono da me? Io non intendo passare da quello che sono a un essere ridicolo! E diglielo chiaro e tondo! Tu poi sei un ragazzo intelligente e queste cose le dovresti capire. Ti do la mia parola d'onore che se mi fanno una sottoscrizione per un pugnale o per qualsiasi altra cosa e se mi fanno altri articoli non vengo in Italia per almeno due anni, a costo di trovare da sistemarmi in Ispagna, cosa a me possibilissima. Pagina 59
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Idee, come si vede, molto chiare anche se espresse in un italiano piuttosto approssimativo. "Ecco dell'altro lavoro per Muti" deve aver pensato Galeazzo Ciano ascoltando Mussolini la sera del 28 marzo 1939. Si legge infatti nel Suo diario: Cade Madrid e, con la capitale, tutte le altre città della Spagna rossa. La guerra è finita. E' una nuova formidabile vittoria per il fascismo: forse, finora la più grande. Il Duce è raggiante. Indicando l'atlante geografico aperto sulla pagina della Spagna, dice: "E' stato aperto così per quasi tre anni, ora basta. Ma so già che devo aprirlo in un'altra pagina . Ha nel cuore l'Albanìa. In realtà era Ciano, assai piu di Mussolini, ad avere nel cuore l'Albanìa. Desiderava impadronirsene per il petrolio (che poi si scoprirà essere solforoso e di costosissima raffinazione) e perché avrebbe garantito all'ltalia il dominio dell'Adriatico. Ma anche e soprattutto per questioni di prestigio e di rivalsa nei confronti delle annessioni hitleriane nell'Europa centrale. Riteneva che agli occhi del mondo l'occupazione della povera Albanìa avrebbe controbilanciato quella della ricca Boèmia, compiuta pochi giorni prima dalle truppe tedesche. L'operazione, a ben vedere, non valeva la partita e Mussolini non ne era troppo entusiasta, ma alla fine, sia pure "senza allegria", come ammette lo stesso Ciano, aveva finito per dare il proprio consenso. Ottenuta l'autorizzazione del Duce, nonostante il parere negativo di Vittorio Emanuele Terzo, contrario a rischiare una grossa avventura "per prendere quattro sassi, Ciano decise di rompere gli indugi e di sua iniziativa mise a punto un progetto d'invasione per poi estrarre, come un prestigiatore dal cilindro, il campione cui affidare la preparazione del casus belli. Così annotava infatti il 2 aprile nel suo diario: Muti è rientrato a Roma da Madrid e mi preparo a spedirlo a Tirana, con una piccola squadra di uomini di sua immagine e somiglianza, per creare gli incidenti necessari, se il re Zog, nel frattempo, non avrà fatto la cortesìa di capitolare. Gli ho dato libertà di azione, con l'ordine preciso di rispettare la regina Geraldina e il bambino, se sarà già nato. Suscitare il terrore durante la notte: alI'alba, buttarsi nei boschi in attesa dell'arrivo delle nostre truppe cercando possibilmente di impedire a re Zog, la ritirata verso il Mathi, ove potrebbe tentare una piccola resistenza. Il piano di Ciano fu portato assai avanti e Muti si recò effettivamente in Albanìa per prendere contatto con i fascisti locali che avrebbero dovuto partecipare alla sua azione terroristica. Ma poi le cose precipitarono e non ci fu bisogno neppure di creare degli incidenti per giustificare l'intervento. In ogni caso, Muti non restò con le mani in mano. Il 7 aprile, quando venne diramato l'ordine d'occupazione, fu il primo ad atterrare nell'aeroporto di Tirana mentre le nostre truppe erano ancora sulla costa. Aveva condotto con sé dei giornalisti, segno evidente che non si aspettava gravi pericoli. Infatti tutto si svolse rapidamente e senza rischi di sorta: in città si sbaraccava, re Zog stava fuggendo e lui pensò di occupare senz'altro l'aeroporto. Poi raggiunse la reggia a bordo di una vettura e, fra lo sbalordimento della Guardia reale (che cedette le armi senza sparare un colpo), salì sulla torre del palazzo per ammainare la bandiera albanese e sostituirla con il tricolore. Da solo e senza incorrere in pericoli aveva occupato la capitale, guadagnandosi tanta gloria a buon mercato e la solita immancabile medaglia d'argento. Il giorno seguente, anche Galeazzo Ciano giunse a TiraPagina 60
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt na, felice dell'esito lusinghiero della "sua guerra. L'incontro con Muti fu, ovviamente, solenne e, subito dopo, il ministro degli Esteri italiano si mise al lavoro "per creare un Consiglio di governo, indire una Costituente per il 12 aprile e farle votare una decisione che sancisca l'unione personale dei due paesi conferendo a Vittorio Emanuele Terzo, re d'Italia ed imperatore di Etiòpia, anche la corona di Albanìa". Portare rapidamente a termine questa complessa operazione significò per Ciano circolare negli ambienti politici albanesi con le tasche piene di denaro. Ma la corruzione non era un metodo apprezzato da Muti. Che infatti non volle imitarlo. Lui, per "convincere la gente, preferiva altri modi, come dimostra il seguente episodio. Ritenendo indispensabile il favore del clero albanese, era stato organizzato un incontro fra una delegazione italiana guidata da Ciano e i massimi prelati locali, che avrebbero dovuto sottoscrivere un atto ufficiale di fedeltà all'Italia. Sulle prime i religiosi opposero un indignato rifiuto, ma cambiarono idea quando Muti estrasse dal fodero la sua pistola... Dopo l'Albanìa, Muti entra definitivamente a far parte della "covata di Ciano. L'ambizioso ministro degli Esteri da tempo diffida della vecchia guardia fascista: vuole circondarsi di uomini nuovi a lui fedeli per formare un proprio staff in vista del giorno in cui - lui ne è fermamente convinto - sarà chiamato a succedere al Duce. Forse sopravvalutando la propria influenza, forse sottovalutando lo spiritaccio indipendente di Muti, Ciano conta ciecamente sulla fedeltà del suo gregario, tanto che sta già puntando su di lui per collocarlo alla massima carica politica in sostituzione di Achille Starace, il segretario del partito che da tempo si è reso inviso ai connazionali. Refrattario agli intrighi della politica, Muti è intanto rientrato a Roma dove si gode il meritato riposo. Il suo astro sta salendo nel firmamento del regime. E' il soldato più decorato d'Italia, è il figlio prediletto del partito. Mussolini lo stima e lo ammira. A differenza degli altri gerarchi, è popolarissimo: gli italiani apprezzano il suo ardimento e la sua spontanea semplicità. Da tutto ciò consegue che molti potenti incominciano a temerlo e ad accarezzarlo. Non sono pochi, infatti, i personaggi che lo circondano di premure per ingraziarselo. Lui, comunque, non si monta la testa e continua a evitare come la peste i salotti romani e le conventicole. Dalla villetta di Monte Mario si è trasferito nell'accogliente appartamento ricavato nel torrione di Porta Metronia, sulla via Appia, che ha arredato lussuosamente con i trofei conquistati durante le sue campagne. Dispone persino di una saletta dove si fa proiettare i film western che più ama e dove ascolta i dischi dell'adorato Petrolini. I libri, invece, continuano a scarseggiare, fatti salvi quelli della serie salgariana del Corsaro Nero di cui è un appassionato lettore. Il suo medagliere cresce di giorno in giorno, ma lui trascura persino di allineare con ordine i nastrini che porta sul petto. Spesso ci scherza sopra, alla sua maniera. Una sera, durante un ricevimento, una bella dama gli chiede di potergli ammirare da vicino il magnifico petto, al che Ettore, pronto, ribatte: "A patto che io possa fare altrettanto: l'ammirazione è reciproca. Il compito di tenere in ordine le sue medaglie se lo è assunto l'amico Pezzi, il quale, dopo la consegna dell'ultima guadagnata in Albanìa, può contare sulla giubba del matt, come confidenzialmente continua a chiamarlo, la bellezza di 46 decorazioni. Troppe, indubbiamente. Muti non si cura nemmeno dei cordoni delle sciarpe d'onore che gli vengono assegnati: quando riceve quella della "commenda di San Marino", la regala al figlio di Pezzi e si diverte a vederlo girare per casa "bardato da cavaliere". Nel frattempo, in attesa di coronare il suo ambizioso progetto, Ciano Pagina 61
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt gli ha conferito la carica onorifica di "ispettore dei fasci all'estero". Ciò consente all'irrequieto Gim di andare in giro per l'Europa. Si reca più volte in Cecoslovacchia, dove "le donne sono più emancipate che in Romagna", in Germania, in Francia, oltre che in Spagna, da dove si è rifatta improvvisamente viva la sua antica fiamma. Sopravvissuta fra alterne vicissitudini alla guerra civile, la romantica Araceli Ansaldo y Cabrera gli ha infatti scritto, nell'estate del 1939, una lunga lettera, rivelandogli di aver avuto da lui un figlio il 14 dicembre 1931, denunciato all'anagrafe come Carlos Ettore Ansaldo. Ma ha taciuto il proprio indirizzo "perché non si sentisse obbligato nei suoi confronti". Incuriosito e un po' intrigato dallo sconcertante comportamento di Ara, Muti ha cercato di rintracciarla in Spagna, ma senza riuscirci. Poi ha lasciato perdere, affidando al console generale d'Italia in Spagna, Edoardo Nostini, il compito di proseguire le ricerche, che tuttavia non hanno avuto esito. Sempre nell'estate del '39, mentre tornavano a spirare venti di guerra, Muti si recò in visita di piacere a Trìpoli, ospite di Italo Balbo. Il celebre trasvolatore dell'Atlantico, la cui fama cominciava a fare ombra a Mussolini, era stato "confinato" nell'esilio dorato libico come governatore della colonia, che aveva trasformato in un fiorente giardino facendovi migrare centinaia di famiglie di agricoltori ferraresi. A Trìpoli, Balbo viveva come un principe orientale. Quando si annoiava, era capace di saltare su un aereo per andare a prendere l'aperitivo in via Veneto. Molto più spesso invitava i vecchi camerati in Libia e organizzava feste sontuose. Muti vi giunse in compagnia di Leo Longanesi, giornalista famoso e anch'egli romagnolo di Bagnacavallo. I tre amici se la spassarono per alcuni giorni e non si risparmiarono i soliti scherzi pesanti. Una volta andarono a visitare le òasi dell'interno a bordo di una macchina scoperta guidata da un autista in livrea e scortata da quattro motociclisti. Durante il tragitto, Muti convinse Longanesi, che era un "tappo" di un metro e mezzo come il nostro minuscolo sovrano, a farsi passare per re Vittorio Emanuele. Il trucco riuscì in pieno. Muti si autonominò aiutante di campo del re e gli indìgeni, tratti in inganno dalla grande vettura governativa e dal gesticolare servizievole di Muti e di Balbo, che si prestava volentieri al gioco, tributarono loro onori, regali, ovazioni e fantasie. Non contento di questo, Balbo che amava fare scherzi ancor più pesanti di Muti, giocò un altro tiro all'amico Longanesi. Quando ritornarono a Trìpoli, telefonò personalmente alla Stefani, la nostra agenzia di stampa, comunicando che il giornalista aveva perduto eroicamente la vita nel tentativo di portare in salvo una giovane connazionale che stava per annegare nel golfo della Sirte. La notizia rimbalzò su tutti i giornali e, naturalmente, tutti la presero per vera. Ne seguì una serie di condoglianze, di smentite e di precisazioni che fecero ridere a crepapelle i nostri protagonisti ai quali, evidentemente, tutto era permesso. Quando si trovava a Roma, Muti frequentava spesso Villa Torlonia, residenza del Duce. Era lo stesso Mussolini a chiamarlo come segno della sua benevolenza. Di solito lo invitava di buon mattino per tirare con lui di scherma. Gim, che non era un mattiniero, doveva compiere stoici sforzi per essere puntuale. Una volta arrivò con venti minuti di ritardo per colpa di Panzon, che non lo aveva svegliato alle 6.30, come gli era stato ordinato, perché alle 7 dormiva ancora. Fu l'amico Pezzi a tirare Ettore giù dal letto. Muti disponeva di pochi minuti per raggiungere Villa Torlonia, ma non volle rinunciare a punire l'infingardo. Prima di uscire, prese il vaso da notte e lo rovesciò sulla testa del dormiente. Quando giunse in ritardo all'apPagina 62
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt puntamento, trovò Mussolini che lo attendeva spazientito in palestra e, per scusarsi, gli raccontò com'erano andati i fatti infiorando il suo discorso di romagnolissimi insulti. Al particolare del vaso da notte, il Duce scoppiò in una risata e il suo malumore scomparve. Malgrado il temperamento estroverso, Muti non è tuttavia un superficiale. Lui rimpiange i tempi eroici del fascismo della "prima ora", l'arditismo, il combattentismo, il cameratismo e avverte che nel partito, come in Italia, qualcosa non va. Spesso la sua rabbia esplode clamorosamente: non ha peli sulla lingua e se ne frega di tutto. Mostra una sempre più marcata insofferenza per i ridicoli aspetti esteriori del regime. Litiga con gli imboscati, i gerarchi ambiziosi e i funzionari ingessati dall'etichetta. Starace è il suo bersaglio preferito. Ne critica e deride ad alta voce i formalismi, le ridicole esibizioni, il falso virilismo e diffonde divertito le pesanti barzellette che circolano sul suo conto. Secondo alcune segnalazioni riservate dell'OVRA, la polizia politica, in quei giorni Muti si sarebbe riavvicinato anche a Leandro Arpinati, il vecchio gerarca bolognese che Mussolini aveva esautorato e spedito al confino dopo i suoi duri scontri con Starace. Arpinati è, in un certo senso, un punto di riferimento dell'opposizione interna "di sinistra, che sogna una nuova rivoluzione capace di ripulire il regime indirizzandolo verso una vaga socialità. Parteggiare per Arpinati non è quindi consigliabile. Ma Muti, quando ha occasione di tornare a Ravenna, non nasconde le proprie simpatie per gli "arpinatiani. Li frequenta e condivide la loro volontà di fare piazza pulita degli affaristi che inquinano la purezza del partito. Nel frattempo la situazione internazionale sta precipitando Con il patto d'Acciaio, l'Italia è ormai legata mani e piedi alla Germania nazista, che palesa apertamente le proprie intenzioni aggressive. Alla fine dell'agosto 1939 il mondo è scosso da una notizia incredibile: Hitler e Stalin, i due nemici per antonomasia, hanno firmato un patto di non aggressione. Pochi giorni dopo, il primo settembre, l'esercito nazista invade la Polonia, subito imitato dall" alleata" Unione Sovietica che manda l'Armata Rossa a occupare la Lettonia, l'Estonia e la Lituania, oltre alle regioni dell'Est polacco. Francia e Inghilterra si schierano con la Polonia: sta per iniziare la seconda guerra mondiale, ma i fucili ancora non sparano. Francesi e tedeschi si limitano a scrutarsi attraverso le feritoie della linea Maginot e della linea Sigfrido. In questo frangente, Mussolini esita e prende tempo. Il patto d'Acciaio gli imporrebbe di schierarsi subito al fianco di Hitler ma lui escogita la formula furbesca della nonbelligeranza. Per il momento la guerra può ancora attendere. Ma per quanto? Frattanto Galeazzo Ciano ha continuato a tessere le fila per portare i suoi amici ai posti di comando e imprimere al regime una svolta che gli consenta di sganciare l'Italia dai vincoli del patto d'Acciaio. Il suo obiettivo primario è quello di scalzare dalla segreteria del partito l'inetto Starace, principale ostacolo alla realizzazione del suo progetto, per sostituirlo con Muti. Egli è naturalmente consapevole che questi è soltanto uno straordinario pasticcione, ma è convinto di riuscire a trasformarlo in un gregario obbediente. Cerca quindi di imporlo a Mussolini con un'abile e continua opera di persuasione e contro la volontà dello stesso interessato, il quale, per la verità, non è neppure informato di quanto gli sta per capitare. Il 4 ottobre Ciano annota nel suo diario: Mussolini mi parla per la prima volta in sei anni di liquidare Starace. Lo incoraggio su questa buona strada e si fa il nome di Muti per la successione. Muti è un valoroso e un fedele, ancora inesperto Pagina 63
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt della cosa pubblica, ma pieno di ingegno naturale e volitivo. Se verrà nominato potrà fare bene. Comunque, il successore di Starace avrà un grande successo iniziale, se non altro per il fatto che è il successore di Starace, così odiato e spregiato dagli italiani. Finalmente, il 31 ottobre, il progetto di Ciano trionfa. Il governo e le massime gerarchie militari vengono sconvolte da un radicale "cambio della guardia" deciso da Mussolini. Nel nuovo consiglio dei ministri sono entrati tutti gli amici e i protetti del giovane ministro degli Esteri, tanto che il governo verrà definito sottovoce il "gabinetto Ciano". Anche Starace, il cosiddetto "cane da guardia del regime, è stato silurato. Ettore Muti gli succede alla guida del partito. Mussolini ha liquidato il fedele servitore con questa lettera brutale: Caro Starace, la mia scelta è caduta definitivamente sul Muti, del quale vi allego il curriculum ritae. Un uomo che ha quattro guerre al suo attivo ha i numeri essenziali per reggere il partito. L'esperienza farà il resto. L'ultima guerra, quella di Spagna, conferisce alla nomina del Muti un significato speciale. Voi passate alla Milizia. Mussolini Non una parola di ringraziamento per il servizio prestato nel corso di nove anni. Quello stesso giorno, felice del successo raggiunto, Galezzo Ciano commentava così l'avvenimento: Il Duce narra di avere comunicato a Starace il siluro, ieri, in macchina, al ritorno da Pomezia. Starace ha reagito al nome di Muti ed ha cercato di varare alcuni federali, di quelli della sua covata. Ma il Duce non ha abboccato ed ha tenuto duro sul nome di Muti. Del resto, ha detto non ha potuto fare nessuna accusa circostanziata e degna di considerazione. Beghe di provincia. In fondo credo che Starace sia geloso di Muti perché ha più medaglie di lui. "Ho parlato a lungo con Muti," scrive ancora Ciano nel suo diario "e gli ho tracciato le direttive. Muti mi seguirà come un bambino: nonostante il mio crescente scetticismo sugli uomini, Muti è uno dei rarissimi che credo sincero. 8. E' ARRIVATO IL CASTIGAMATTI. "Vedrai, al massimo sarà questione di un anno", aveva scritto alla madre annunciandole senza grandi entusiasmi la sua nomina a segretario del partito. E ci azzeccò in pieno. A Ettore Muti quell'incarico non piaceva. Nemico delle scartoffie, della burocrazia, degli insulsi cerimoniali, lo aveva accettato sia per le insistenze di Ciano sia perché in cuor suo riteneva doveroso "ripulire certi angolini". Ma era consapevole della propria inadeguatezza. Tuttavia, il neosegretario si mise di buona lena al lavoro sottoponendosi di malavoglia alle regole di vita che il nuovo incarico gli imponeva: alle 8 in ufficio, alle 11.30 rapporto dal Duce e alle 14 ancora dietro la scrivania per restarvi incollato fino a tarda sera. Per tenere d'occhio il "bambino" che avrebbe dovuto seguirlo fedelmente, Ciano aveva prudentemente messo al fianco di Muti, come capo di gabinetto, Raffaele Casertano, suo collaboratore di fiducia, affinché lo guidasse e lo controllasse. Casertano non solo riferiva a Ciano ogni gesto del nuovo segretario, ma tutte le sere gli mandava la cartella contenente i documenti preparati per il consueto rapporto che Muti avrebbe presentato, l'indomani, a PaPagina 64
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt lazzo Venezia. Ciano li esaminava e, sempre all'insaputa del neosegretario, li rimandava indietro indicando quelli che era opportuno far vedere a Mussolini e quelli che era meglio nascondere o correggere. Il gioco durò a lungo, ma quando venne scoperto - e ciò accadde piuttosto presto perché Muti non era uno sciocco - egli non esitò un istante: cacciò Casertano e lo sostituì con Mario Carpinelli, un ufficiale della Milizia che godeva della sua fiducia. Per Ciano fu un'amara sorpresa: il "bambino" pretendeva di fare di testa sua e rivelava già dai primi giorni la sua tempra e uno spiritaccio ribelle che il "protettore" aveva evidentemente sottovalutato. Ciano fu costretto in seguito a inghiottire in silenzio altri bocconi amari, ma non poteva fare altrimenti. Muti era da tutti considerato una sua creatura: schierandosi repentinamente contro di lui, avrebbe dovuto ammettere l'errore compiuto nel caldeggiare la sua ascesa al vertice del partito. Si limitò quindi a prendere tempo e a scaricare il proprio disappunto sulle pagine del diario vergando, a futura memoria, annotazioni di questo tenore: Sono un po' preoccupato per l'azione di Muti. E' un ottimo ragazzo, ma ha più fegato che cervello. Vuole agire di sua testa e mi ascolta sempre meno. E' mal circondato ed è presuntuoso. Crede di avere sedotto Mussolini, e non capisce che quello è il più freddo giudice di uomini: non contraddice l'interlocutore, non discute e non prende mai di petto, ma consuma gli individui con una tecnica spietata. Muti crede di essere il gatto: invece è il topo. Non vorrei che avesse la vita effìmera e fugace di una metèora politica. Dal canto suo, l'altro si sfogava: "Ciano vuole sorvegliare me, che non ne ho affatto bisogno. Sarebbe più utile per lui che sorvegliasse i suoi amici e particolarmente quel marchese Pucci". (Nota: Emilio Pucci, futuro stilista di moda, era allora un valoroso ufficiale dell'aeronautica e amico intimo di Edda Mussolini). Le irriverenti parole giunsero anche alle orecchie del ministro degli Esteri e non valsero certo a migliorare i rapporti, ormai tesi, fra i due. L'arrivo di Ettore Muti a Palazzo Braschi, sede della direzione del partito, oltre a sorprendere lo stesso Muti, sconcertò anche chi ne conosceva l'inesperienza politica e la pochezza culturale. Ma l'antipatia che Achille Starace, durante la sua lunga permanenza alla segreteria, aveva polarizzato sulla propria persona era tale che la nomina del nuovo segretario fu accolta da tutti con un senso di sollievo. Il cambio della guardia diede inoltre la stura a una serie di barzellette (unico sfogo consentito agli oppositori in un regime dittatoriale) che prendevano di mira l'odiato ex segretario cui Mussolini, così si diceva, aveva affidato il compito di instivalare l'Italia. Alcune giocavano sulla vendetta del troiano Ettore che finalmente aveva sconfitto l'acheo Achille. Altre immaginavano l'invio a Starace, notorio nemico del "lei", della stretta di mano, degli scappellamenti e delle altre mollezze borghesi, di telegrammi di questo tono: "Mi congratulo vivamente con lei e le stringo affettuosamente la mano togliendomi il cappello". Ma anche al nuovo segretario fu attribuito un divertente telegramma immaginario. Eccolo: "Duce, renderò gli italiani come voi li volete. Muti". L'avvento del legionario pluridecorato al vertice del partito entusiasmò i vecchi fascisti "duri e puri", che vedevano in lui il loro campione, e galvanizzò i giovani fra i quali Muti era popolarissimo. Ma non tardò ad allarmare i gerarchi profittatori e arricchiti, che ne temevano l'irruenza, la spregiudicatezza e la conclamata intenzione di ripulire il partito dalle tante cariatidi che vi albergavano. Col suo istintivo Pagina 65
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt buon senso, Muti diede subito inizio allo smantellamento delle bardature da furerìa che il suo predecessore aveva adottato nella gestione del partito. Abolì i formalismi, ridusse per quanto possibile i melensi rituali, rendendoli più sobri e incisivi. Fin dai primi giorni, rivelò anche la misura del suo carattere. Proibì agli uscieri di chiamarlo "eccellenza". Se qualcuno gli si rivolgeva usando quel titolo, lui si guardava intorno fingendo di cercare quale pezzo grosso stesse arrivando. Quando si arrabbiava, bestemmiava come un turco e, ovviamente, in dialetto romagnolo. Un giorno che faceva molto caldo ricevette quattro federali a torso nudo e la cosa suscitò scandalo. Informato dell'accaduto, el padron gli diede una lavata di capo, e lui gli presentò sull'istante le sue dimissioni. Che furono respinte. L'arte oratoria non era mai stata il suo forte ("non sono un trombone: si scusava "io parlo come mangio", e infatti non pronunciò mai un discorso ufficiale. Continuava a disertare i salotti preferendo le brigate paesane. Naturalmente la Romagna era sempre nel suo cuore: una sera che un amico di Ravenna gli chiese udienza, gliela fissò per il mattino seguente, ma prima di attaccare il ricevitore si raccomandò: "Ven cun de pan rumagnol e cun di grassul" (vieni con del pane romagnolo e con dei ciccioli). E poiché l'altro temeva che fosse troppo tardi per trovare ciò che desiderava, lui tagliò corto: "Se i negozi sono chiusi, fanne aprire uno. Chiama la Giovanna, quella di piazza del Mercato, e dille che sono per me. Aveva il tatto di un elefante e del politico non possedeva né l'astuzia, né l'ipocrisìa, né la pazienza, né l'abilità. Una dimostrazione del proprio stile la diede a Napoli, durante un pranzo organizzato in suo onore dalla federazione del partito. Al termine del convito chiamò il cameriere, gli chiese il conto, poi lo divise per il numero dei commensali. Pagò quindi la sua parte di tasca propria, invitando i presenti a fare altrettanto, senza ricorrere come di consueto alle casse della federazione. E' facile immaginare i commenti inorriditi che seguirono. "Quello non durerà a lungo" osservò qualcuno maliziosamente. Ma al di là di questi aspetti folcloristici, Muti non mancò di attuare riforme importanti per rinnovare l'organizzazione anchilosata del partito. Durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo del 7 dicembre 1939 (che non tornerà più a riunirsi fino al 25 luglio 1943), il neosegretario ottenne varie e significative modifiche allo statuto, la più importante delle quali fu la liberalizzazione e la completa autonomia organizzativa di molte associazioni ed enti, come il CONI, le associazioni d'Arma e altre che, fino a quel momento, erano dipese direttamente dal segretario politico. Riuscì in tal modo a liberarsi non solo di una enorme mole di lavoro, ma anche degli impegni accentratori che il suo temperamento aborriva. Convinse persino Mussolini a tornare a una vecchia consuetudine dell'Italia liberale, ossia quella di scegliere i prefetti del Regno tra i funzionari di carriera e non tra i membri del partito. Clamorosa fu inoltre la sua proposta di aprire le porte del partito a tutti gli italiani, "salvo i casi di indegnità". Quel progetto venne naturalmente respinto, ma Muti ottenne che potessero iscriversi al partito tutti gli ex combattenti della prima guerra mondiale e tutti i legionari di Fiume, d'Etiòpia e di Spagna che ne facessero domanda. Quest'ultima iniziativa ebbe un successo incredibile e una massa enorme di nuovi iscritti entrò nelle file del PNF. Dall'ottobre del 1939 all'ottobre del 1940, cioè durante l'anno che il gerarca romagnolo tenne la segreteria, il numero degli iscritti al partito e alle varie organizzazioni dipendenti registrò un aumento mai riscontrato negli anni precedenti. Gli iscritti al fascio passarono da 2.633.000 a 3.620.000. Gli iscritti alla GIL (Gioventù italiana del littorio) da 7.900.000 a 8.500.000. Le donne fasciste da Pagina 66
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt 2.800.000 a 3.120.000. Per la verità, questo afflusso in massa, dovuto solo in parte a convinzione politica, finirà per diluire il partito facendogli perdere la fisionomia e lo spirito originari, ciononostante per Muti fu un successo. "Quando tutti gli italiani saranno fascisti," scherzava soddisfatto "del partito non ci sarà più bisogno ed io passerò alla storia per avere annullato il partito fascista." Il suo progetto di "ripulire gli angolini non era una trovata propagandistica: mostrò subito che faceva sul serio. Con un drastico cambio della guardia sostituì quasi tutti i dirigenti delle confederazioni sindacali e, poiché molti degli imbrogli scoperti erano da codice penale, deferì i responsabili all'autorità giudiziaria, infischiandosene dei pezzi grossi che intervenivano in favore dei gerarchi inquisiti. "Il partito" rispondeva "è una milizia dove vi sono a capo degli italiani che hanno maggiori oneri degli altri. Chi sbaglia deve pagare. La sua opera "purificatrice" continuò a lungo, malgrado i molteplici inviti a porvi freno per il timore delle ripercussioni e degli scandali. Dispose, fra l'altro, che coloro che ricoprivano cariche nel partito non potessero svolgere attività redditizie incompatibili con la loro funzione. Fedele al concetto che i posti dovevano essere assegnati a persone competenti, giunse persino a sostituire Giovanni Marinelli, da sempre segretario amministrativo del partito, con il dottor Montefusco, un funzionario apolitico proveniente dal ministero delle Finanze. Rivoluzionò anche il sistema di tassazione a favore delle opere di assistenza. Fino a quel momento, esse vivevano del contributo volontario elargito dagli industriali, mentre lui dispose che tale contributo fosse obbligatorio e fissato in proporzione al reddito del donatore. Più avanti, quando l'approssimarsi della guerra rese necessari il razionamento dei generi alimentari e la distribuzione delle tessere annonarie, Muti bollò l'ipocrisìa di certi gerarchi arricchiti che, con un "gesto patriottico, avevano offerto la loro tessera ai meno abbienti. "Se costoro possono fare a meno della carta annonaria," tuonò scandalizzato "significa che sono degli accaparratori e che hanno la cantina piena di provviste". E ne mise molti sotto inchiesta. Ma quelli che Muti prese maggiormente di mira furono i federali, ossia i responsabili del partito che dirigevano le federazioni provinciali. Dei 90 in carica al momento della sua nomina ne esonerò 75, sostituendoli con giovani efficienti, scelti fra coloro che avevano fatto la guerra d'Etiòpia o di Spagna. Le sue ispezioni in provincia erano rapide e senza il comodo preavviso che di solito precedeva l'arrivo dell'ispettore. Muti piombava nelle province quando nessuno se lo aspettava, spesso addirittura in aeroplano e non di rado combinava un quarantotto. Una volta, a Ferrara, arrivò all'improvviso alle 10 del mattino al Palazzo Littorio, ma il federale non era ancora arrivato. Lui non disse una parola e si sedette sui gradini in attesa del gerarca ritardatario. Inutile dire quel che accadde quando il poveretto, avvertito telefonicamente, arrivò trafelato e trovò il segretario del partito seduto davanti all'uscio... Davide Lajolo, che aveva conosciuto Muti in Spagna e allora lavorava nella federazione di Ancona, nel suo onesto libro di memorie, Il voltagabbana, descrive una di queste pirotecniche ispezioni: Non passarono molte settimane dalla nomina, che Muti fece un'ispezione anche nella provincia di Ancona. Il nuovo segretario del partito arrivò pilotando il suo aereo che usava per le ispezioni lampo. Contrariamente agli altri gerarchi, non fece alcun discorso. Appena mi vide, mi salutò e mi prese sottobraccio per dirmi: "Che discorsi e discorsi, è tempo di fatti. E poi tu sai che io non so dire Pagina 67
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt una parola senza infilarci in mezzo una bestemmia . Lo accompagnammo in Federazione. Vicari, il federale, era pallido e impacciato. Parlarono da soli per pochi minuti, poi Muti spalancò la porta del mio ufficio, spinse da parte le carte che avevo sulla scrivania, vi si sedette sopra e mi disse abbastanza forte che potesse sentire anche il federale dall'altra stanza: "Mi pare che ha già i capelli troppo bianchi quello di là. E' tempo di metterlo a riposo, che ne dici? Non ti sembra giusto cambiare ufficio?. Gli risposi con un no secco e deciso. Non si scompose. "Tra noi , continuò "non si fanno complimenti né riunioni per decidere. Il Duce mi ha dato carta bianca e io sono del parere che soltanto affidando il partito nelle mani dei legionari potremo fare qualcosa di serio. Dunque è cosa fatta. Riceverai da Roma l'incarico ufficiale." "Ti ripeto che non accetto. Non è il lavoro che voglio fare." Muti mi guardò sorridendo: "Hai sempre la malattia del giornalismo?". "Certamente." Va bene, allora ti manderò a dirigere un giornale." Poi si recò in Prefettura. Quando, al mattino, partito Muti, rividi il federale, aveva l'aspetto di un uomo al quale avessero fatto la grazia. Trasgredendo uno dei fogli d'ordine più impegnativi, mi strinse la mano e mi disse: "I poeti sono generosi. Al di là dell'episodio che mi riguardava e che denotava come Muti prendesse alla leggera certe decisioni sugli uomini e sugli incarichi politici, il fatto che avesse almeno rotto con gli atteggiamenti alla Starace e con la rituale retorica, era già un bel passo avanti. C'era di più: qualcuno dei profittatori del fascismo aveva finalmente paura. Nelle province, certi dignitari che avevano potuto nascondere dietro le aquile sempre più grandi sul berretto il loro opportunismo, ora stavano sul chi vive. In noi aumentava in quei giorni la speranza di poter andare sempre più in là nel rinnovamento, oltre i superficiali cambi della guardia. Un'altra testimonianza "in diretta" dell'attivismo inarrestabile del nuovo segretario ce la fornisce Fidia Gambetti, nel suo libro Gli anni che scottano, dove racconta: Ispezione senza preavviso del Segretario del Partito. Prima d'ora "senza preavviso non era che una formuletta; in realtà almeno ventiquattro ore prima, i federali venivano immancabilmente messi sul chi vive da una telefonata o da un telegramma. Questa volta invece l'improvvisata c'è stata sul serio e ha messo in subbuglio I'intera Federazione, tanto più che le visite di Muti in provincia hanno finora preceduto cambi della guardia. Vlsto da vicino, e non solo per la divisa bianca e gli stivaloni gialli, I'ex legionario fiumano somiglia piuttosto a un divo dello schermo che a un gerarca e, al suo fianco, Rodolfo Valentino potrebbe appena sostenere la parte del palafreniere. Taciturno e assorto, si siede sui tavoli, si rifiuta di presiedere riunioni e assemblee, di fare discorsi. Il federale se lo lavora abilmente e ogni tanto gli scocca una battuta assassina in dialetto romagnolo. Si ha l'impressione che Muti se ne freghi di tutto, che ne abbia abbastanza del Partito, dei ministri e persino del Duce. Sembra si sia ribellato alla tutela di Gano per fare e disfare di testa propria. Il guaio è che nella sua testa non c'è nulla e non sarà difficile giocarlo. Se altrove la nomina di Ettore Muti alla segreteria aveva destato sorpresa, a Ravenna seminò il pànico. I maggiorenti del partito, che avevano fatto espellere il camerata ribelle diffidandolo dal rientrare in città, ora tremavano sgomenti e disorientati. Come racconta Nicola Buzzi, questa atmosfera era palpabile durante la visita che il neosegretario fece in città pochi giorni dopo la sua nomina, il 12 novembre 1939. "Fu accolto in piazza Littorio gremita di fascisti, di reparti e formazioni armate delPagina 68
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt la GIL, dei reduci d'Africa e di Spagna e da entusiastiche acclamazioni al Duce." Durante tale visita egli si intrattenne in federazione con i suoi antichi antagonisti: Rambelli, allora segretario federale, Morigi e Calvetti, consiglieri nazionali. Da un rapporto della questura si rileva che, malgrado le voci circolanti sulla possibile sostituzione di Rambelli, "ricordando gli antichi attriti fra S.E. Ettore Muti ed i consiglieri nazionali Frignani, Morigi e Calvetti dei quali il federale Rambelli è l'esponente, S.E. Muti non ha adottato nessun provvedimento nei loro confronti". I "provvedimenti" li prese però pochi giorni dopo il prefetto, che "ritenne opportuno nel procedere alla rinnovazione di alcune cariche, di proporre persone che non avessero in passato dimostrato sentimenti di animosità verso S.E. Muti o fossero eccessivamente legati alla triade Frignani, Calvetti e Morigi". Caddero infatti le teste del podestà, del presidente della provincia e di altre autorità locali. Quanto a Rambelli, fu indotto a presentare le dimissioni per ragioni di salute, e di conseguenza, si legge nella nota informativa, "egli è stato dichiarato decaduto da Consigliere comunale ed ha così perduto ogni prestigio ed autorità". Tutti costoro furono in seguito sottoposti a un'inchiesta condotta dall'ispettore del partito Francesco Surace, che mise in luce malversazioni, ammanchi e ruberie di ogni genere, così da confermare, come lo stesso Surace riferisce, "le voci che circolavano a Ravenna e cioè che il Rambelli si sia servito della Federazione come di una ridotta, di un fortilizio per sostenere e difendere gli interessi personali propri e di una cricca che infestava il Ravennate. Tale cricca agiva con la protezione di note personalità politiche e bancarie (Frignani, Morigi, Calvetti, ecc.) e snaturava le funzioni degli enti economici e sociali istituiti dal Regime traendone lucri sfacciati". La drastica epurazione messa in atto dal nuovo segretario, sebbene ai giornali fosse proibito parlarne se non in maniera molto sfumata, fu favorevolmente commentata dalla "base" del partito e in generale dall'opinione pubblica. Finalmente era arrivato il castigamatti. Ma l'ondata di consenso in favore di Muti non tardò a preoccupare i vertici del regime. Il 28 gennaio 1940 Galeazzo Ciano scriveva nel suo diario: Mussolini è scontento a causa di Muti. Il Segretario ha preso alcuni provvedimenti disciplinari che hanno avuto una eco troppo forte e sono piaciuti negli ambienti antifascisti, cosa questa che ha indignato il Duce. "Bisogna fare come la Chiesa" ha detto "che non colpisce mai pubblicamente i suoi uomini. Una volta denunziai a Tacchi Venturi il vescovo di Jesi per pederastìa. Nonostante le prove schiaccianti, nessuna soddisfazione mi fu data lì per lì. Ma qualche anno dopo seppi che il colpevole era morto in oscurità a Frascati." Muti non usava i guanti di velluto nella sua opera di ripulitura perché sapeva di avere le mani pulite e di non tenere scheletri nascosti nell'armadio. E infatti non ne furono mai trovati. Tuttavia, contro di lui, non mancarono di giungere sul tavolo di Mussolini le solite lettere anonime, che il Duce leggeva e catalogava accuratamente. Nell'archivio della "Segreteria particolare del Duce", tuttora conservato praticamente integro presso l'Archivio generale dello Stato, vi sono infatti innumerevoli fascicoli di "rilievi a carico dedicati a tutti i principali esponenti del regime. Evidentemente Mussolini li custodiva per poterli utilizzare come forma di intimidazione o di ricatto contro i suoi gerarchi quando, per qualche ragione, qualcuno di loro osava alzare un po' troppo la testa. Tali fascicoli, che espongono un'interessante panoramica del sottogoverno fascista, offrono anche la posPagina 69
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sibilità di valutare già dalla misura del loro spessore il quoziente individuale di disonestà dei massimi esponenti del regime. Ebbene, quello di Muti è il più scarno di tutti. Salvo la consueta "spazzatura (pettegolezzi da bar, tantissimi segreti d'alcova e via dicendo), nella cartellina i "rilievi" più consistenti sono due. Il primo riguarda i rapporti amichevoli che Muti aveva conservato anche dopo la sua nomina a segretario politico con l'eretico Leandro Arpinati. Il secondo consiste in una lettera anonima, proveniente da Ravenna e indirizzata a Mussolini, secondo la quale Il Segretario Ettore Muti (a parte i suoi meriti come soldato) ha pensato di procurarsi una fortuna sempre in nome della Patria. Esso, naturalmente fra le quinte, ha trovato un amico il quale gli amministra ingenti capitali ... Questa persona è Attilio Monti, di Ravenna un fascista all'acqua di rose, ex commissario di Carburanti e ora proprietario di un grande deposito costiero di nafta del valore di circa 20 milioni. Da quanto risulta, Muti fu avvertito di questa denuncia anonima dalla stessa donna Rachele, la moglie di Mussolini, che non aveva mai nascosto la propria simpatia per quel romagnolo scatenato e intenzionato a ridare al partito la purezza delle origini. Fu lei a incoraggiarlo a cercare le prove per respingere le gravi accuse, ed Ettore, a quanto risulta, se le procurò addirittura "fracassando i vetri di un ufficio". Di più non è dato di sapere, comunque quando fu aperta l'inchiesta, si appurò che Attilio Monti "aveva ottenuto la concessione prima della nomina di Muti a Segretario politico", che tutto si era svolto regolarmente e che il nullaosta era stato "concesso proprio da una di quelle persone che avevano ispirato la denuncia anonima. Quanto alla "fortuna" che Muti si sarebbe procurato grazie all'amico Monti, non esiste alcuna traccia. Egli è morto povero e quando, come vedremo, dopo il 25 luglio 1943, si cercò di infamarne la memoria, non fu possibile trovare a suo carico il minimo addebito. Da parte sua, Attilio Monti, diventato dopo la guerra un potente petroliere, non negò mai la fraterna amicizia che lo legava a Ettore Muti e, anche nei tempi avversi, la mantenne sempre, sia nei confronti dell'amico scomparso che della sua famiglia. Il 10 giugno 1940, dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, Ettore Muti non esitò un istante a presentare le sue dimissioni da segretario per potersi arruolare volontario come aviatore. Forse non aspettava altro. Quei pochi mesi vissuti "dentro il fascismo gli avevano consentito di collezionare un numero incredibile di nemici e una serie considerevole di gaffe, ma anche di rafforzare la consapevolezza di essere inadeguato al compito affidatogli. La vita dietro una scrivania non era fatta per lui. Firmare documenti, esaminare scartoffie, constatare di persona gli affarismi e le lotte intestine che dilaniavano il partito, erano tutte cose che lo mettevano di malumore e gli procuravano un insopportabile senso di frustrazione. Meglio dunque tornare nella cabina di comando di un trimotore da bombardamento e volare libero nell'aria infischiandosi di tutto. La permanenza al vertice del regime, invece di ammorbidirlo, aveva esacerbato il suo spirito critico, e lui non ne faceva mistero. Indro Montanelli ha raccontato di una festicciola organizzata in casa di Muti quando questi era ancora in carica. Così scrive il giornalista: C'erano quasi tutti i suoi amici del "vecchio squadrismo romagnolo, e v'intervenne anche Longanesi, romagnolo pure lui. Che, quando rientrò a Milano, venne a raccontarmi, con gli occhi fuori della testa, la serata. "Mi aspettavo mi disse "che da un momento Pagina 70
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt all'altro irrompesse in casa l'OVRA, chiamata da qualche falso camerata, ad arrestarci tutti: neanche nei covi antifascisti più arrabbiati si erano sentite cose simili contro il fascismo. "E lui? chiesi. "Lui chi?" "Lui, Muti. "Ma non lo sai com'è fatto? Dapprima mi aspettavo che ci arrestasse lui stesso, invece aggiunse del suo e ne raccontò di tutti i colori." Le dimissioni di Muti non vennero accettate da Mussolini, ma solo per ragioni di opportunità. La sostituzione del segretario del partito il giorno stesso dell'entrata in guerra rischiava di essere interpretata in maniera sbagliata, meglio dunque fissare una scadenza più conveniente per avere il tempo di scegliere il suo successore. Di conseguenza, Muti venne accontentato soltanto a metà: gli fu concesso di arruolarsi volontario, ma dovette conservare la segreteria fino al "28 ottobre del 1940, 18esimo Era Fascista", giornata in cui si celebravano i riti più significativi del regime compresi i cosiddetti "cambi della guardia. IL 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma del 1922, era infatti la data più importante del calendario fascista, tanto che Achille Starace, con la sua manìa di fascistizzare l'Italia, aveva scelto quel giorno come capodanno dell'era fascista", imponendo la numerazione degli anni in cifre romane, accanto a quelli dell'era cristiana. Fino alla data prestabilita, Ettore Muti operò dunque su due campi diversi. Quando gli eventi lo richiedevano, lasciava il proprio ufficio affidandolo al reggente Pietro Capiferri e indossava l'uniforme di maggiore dell'aeronautica per raggiungere la base di Rodi, da dove eseguiva le sue missioni di guerra. Malgrado gli impegni militari, trovò anche il tempo di sponsorizzare e dirigere un'operazione propagandistica che avrebbe lasciato il segno. si trattava della "marcia della gioventù", che nell'estate del 1940 scaturì, quasi per combustione spontanea, dai Campi Dux della GIL, dove molti ragazzi trascorrevano periodi di addestramento premilitare. In quell'estate piena di speranze e di entusiasmo, questi giovani, infervorati dalla propaganda e desiderosi di impugnare le armi, lasciarono i loro accampamenti situati in varie regioni d'Italia per dirigersi a piedi verso Padova, dove avevano fissato una sorta di appuntamento. All'inizio i marciatori erano poche centinaia, suddivisi in gruppi disordinati e senza guida, ma in qualche giorno aumentarono progressivamente per l'afflusso di altri giovani accodatisi lungo il tragitto. Quando, il 16 settembre, dopo una marcia di centinaia di chilometri i vari gruppi si concentrarono negli stand della Fiera di Padova, il loro numero era salito a 24.000. Avevano tutti fra i sedici e i diciott'anni, e sebbene fossero esenti dall'obbligo di leva, chiedevano a gran voce di essere arruolati. Si erano infatti autonomamente organizzati in 24 battaglioni, indossavano l'uniforme degli "avanguardisti" della GIL e avevano anche ottenuto, grazie all'interessamento di Muti, di essere armati alla meglio con un fucile modello 91 e un pugnale. Muti era stato il primo a precipitarsi a Padova. L'ex Ardito imberbe del Piave e di Fiume aveva ritrovato fra quei ragazzi l'entusiasmo della sua spericolata adolescenza. Il 10 ottobre, accompagnato dal segretario del partito, Mussolini in persona venne a visitare il campo dei volontari e li passò in rassegna nel Prato della Valle davanti a una folla in delirio. Alla rumorosa manifestazione parteciparono anche folte rappresentanze delle organizzazioni giovanili fasciste provenienti da altri paesi europei. Ma i problemi sorsero quando, finita la festa, si trattò di decidere come impiegare quel numero incredibile di volontari. Da parte sua, Muti non nutriva dubbi: era logico e naturale che bisognava farne dei soldati. Ma la sua proverbiale faciloneria si infranse contro un muro di ostacoli insormontabili opposti Pagina 71
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt dall'alta burocrazia militare. Gli stati maggiori non hanno mai mostrato particolari simpatie per i volontari perché di solito sono troppo esuberanti, poco disciplinati e capaci soltanto di creare confusione. Per giunta si aveva difficoltà a vestirli, a calzarli e ad armarli, visto che nei depositi il materiale scarseggiava. La polemica fra Stato maggiore e segreteria politica durò settimane. Fallito il tentativo di assegnarli alla Milizia, l'esercito propose di inquadrarli nei propri ranghi, ma non come soldati, bensì come "premilitari da truppa di rincalzo". Quell'offerta fu giudicata umiliante e offensiva dai volontari, che protestarono vivacemente rendendosi responsabili anche di numerosi episodi di violenza. Nel frattempo, Ettore Muti era stato definitivamente esonerato dall'incarico di segretario del partito per essere sostituito da Adelchi Serena. L'esercito approfittò dunque dell'assenza del loro nume tutelare per sottoporre i giovani volontari a pesanti manovre di dissuasione e assottigliare così poco alla volta le loro file. Rispediti a casa i meno determinati e i minori di diciassette anni, i superstiti furono sottoposti a tante di quelle visite mediche e prove attitudinali che alla fine rimasero in poco più di duemila. Soltanto a costoro fu concesso di indossare l'uniforme e, inquadrati in due battaglioni, vennero mandati sul fronte libico, dove si comportarono eroicamente, soprattutto a Bir el Gobi. Nel frattempo, proprio alla vigilia della sua sostituzione, Ettore Muti era tornato a Rodi per portare a compimento una delle sue missioni "impossibili", da tempo meditata e pianificata. Il successo gli arrise in pieno e il 20 settembre 1940 il quartier generale delle forze armate diramò il bollettino numero 135: Nella notte sul 19 una nostra formazione da bombardamento pesante, composta da quattro S.82 comandata dal maggiore Ettore Muti, dopo un lungo volo di oltre 4500 chilometri, ha effettuato una azione offensiva sull'importante centro petrolifero dell'isola Bahrein, possedimento inglese nel Golfo Persico. L'obbiettivo, costituito da raffinerie, oleodotti, depositi e serbatoi di carburanti è stato efficacemente colpito dando origine ad incendi visibilissimi a grandissima distanza. Tutti i nostri velivoli sono rientrati alla base. Per ragioni di segretezza non furono forniti altri dettagli, ma si trattò effettivamente di un'impresa eccezionale. Da poche settimane l'aeronautica aveva messo a punto un tipo di bombardiere destinato a compiere missioni a lungo raggio. Era un trimotore S.82 costruito dalla SIAI-Marchetti e conosciuto col nome di "marsupiale" per via del marsupio, ossia di una sorta di gondola ventrale retrattile e di altre installazioni smontabili che gli consentivano di portare fino a 4000 chilogrammi di bombe e carburante. I motori erano muniti di scarichi con parafiamme per consentire il volo notturno. L'azione più prestigiosa compiuta dagli S. 82 fu appunto quella di Muti. Egli decollò con quattro "marsupiali" da Rodi alle 17 del 19 settembre. Ogni velìvolo portava nel marsupio 1500 chilogrammi di bombe ed era stipato di carburante. Il volo si svolse di notte, con i rischi connessi a un lungo raid compiuto su un territorio interamente nemico. Centrato l'obiettivo e superata ormai la "linea del non ritorno", Muti diresse la sua squadriglia verso l'Eritrèa, ancora in mano italiana, e atterrò a Zula per rifornirsi di carburante e rientrare felicemente alla base nei giorni seguenti. In circa sedici ore di volo aveva coperto oltre 4300 chilometri. Per questa operazione Muti ottenne un'altra medaglia d'argento e raggiunse un nuovo primato: quello mondiale di volo di guerra, detenuto fino a quel momento sempre dall'aeronautica italiana, una cui formazione di "marsupiali" aveva compiuto, pochi giorni prima, un percorso di Pagina 72
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt 3200 chilometri per colpire la piazzaforte di Gibilterra. Il 28 ottobre Ettore Muti, indossata l'uniforme di gala di console generale della Milizia, è di nuovo nel suo studio di Palazzo Braschi a Roma. Prima di passare le consegne a Adelchi Serena, deve compiere il suo ultimo dovere d'ufficio: consegnare a Mussolini la tessera del partito "Numero 1" e l'elenco degli iscritti, già predisposti su un vassoio d'argento. Sono presenti alla scena i suoi amici Pezzi e Carpinelli. Muti è nervoso e impacciato: si stringe la cintura, aggiusta di traverso il berretto, prende la tessera, la apre, la considera un istante e borbotta in dialetto: "Povero Muti... povero Muti... Guarda un po' cosa sei ridotto a fare... Ma se Dio vuole è finita!. Poi, riposta la tessera sul vassoio, posa questo sul palmo della mano imitando il gesto del cameriere, accenna un passo di danza, e quindi si avvia sculettando in punta di piedi ripetendo i versi di una poesia di Pascoli ritornatagli d'improvviso alla mente: "Va la tacchina con l'altrui covata.... Finalmente libero, Muti torna felice nel suo mondo di un tempo senza mai manifestare rimpianti. "Mi avevano messo nei pasticci facendomi fare il segretario del partito, ma per fortuna me la sono cavata confidava agli amici. "D'altra parte" aggiungeva "erano solo grane: l'unico vantaggio era che mi riparavano gli stivali consumati in quattro e quattr'otto. Dal 17 novembre 1940 al 15 gennaio 1941, Muti partecipò alla campagna di Grecia compiendo 36 incursioni e sostenendo diversi duelli aerei. Dopo la tragica notte di Taranto del 12 novembre 1940, durante la quale gli aerosiluranti inglesi misero fuori combattimento metà della nostra squadra navale, anche l'aeronautica italiana comprese, pur con imperdonabile ritardo, l'importanza dell'impiego del siluro col mezzo aereo. Frettolosamente, si procedette all'addestramento dei piloti e Muti fu tra i primi a dedicarsi a questa specialità. In breve, il suo nome entrò a far parte della ristretta cerchia dei "cacciatori di convogli", tra i quali figuravano il maggiore Vittorio Emanuele Buscaglia, il capitano Nino Zanetti, i tenenti Gioia e Rebez e altri valorosi, in gran parte caduti in combattimento o fatti prigionieri. Muti invece non fu mai abbattuto, anche se rientrò spesso alla base con l'apparecchio seriamente danneggiato. Partecipò con gli aerosiluranti a tutte le battaglie che la nostra squadra navale sostenne nel Mediterraneo, da quella di Punta Stilo a quella di Capo Teulada, da quella di Capo Matapan a quella di Pantelleria, registrando al suo attivo l'affondamento di un incrociatore, di alcuni piroscafi e di altre unità minori. Nel marzo del 1941, Muti era stato promosso tenente colonnello e assegnato al comando del 41esimo gruppo aerosiluranti, con base nel campo Condurrà di Rodi. Il motto della sua squadriglia era Usque ad ìnferos, fino all'inferno. E, in effetti, fu un vero inferno quello che Muti provocò a Haifa, in Palestina, centrando gli impianti petroliferi e provocando un incendio di proporzioni smisurate. Rientrando alla base, dal suo stesso aereo egli inviò a Mussolini un famoso marconigramma, che sarà poi riportato da tutti i giornali: "Se volete vedere il più grande incendio del mondo, venite a Haifa". Spavaldamente, Muti si firmò "Nerone" . Nei mesi successivi Gim compì altre innumerevoli azioni, ora contro i convogli britannici che cercavano di rifornire Malta, ora su Malta stessa, ora su Alessandria d'Egitto in appoggio alle forze di Rommel impegnate nel deserto. Passava indifferentemente dal bombardamento alla ricognizione e dalla ricognizione agli aerosiluranti. Eseguì anche varie missioni solitarie in Iraq, in Siria e in altre zone del Medio Oriente per paracadutare agenti segreti per conto dei servizi italiani e tedeschi. A ogni allarPagina 73
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt me era sempre fra i primi a decollare. Spesso anche in slip. Gli piaceva pilotare in costume da bagno: una vanità tipica del personaggio. Era l'aviatore più popolare e il soldato più decorato d'Italia: il suo nome figurava nel ristretto numero degli "assi della seconda guerra mondiale. In quei giorni Adolf Galland, l'asso" della Luftwaffe (180 aerei nemici abbattuti) confidò a Indro Montanelli: "Peccato che Muti ed io siamo alleati: un duello con lui non mi sarebbe dispiaciuto. Quando glielo riferii" racconta Montanelli "Muti ne fu lusingato: era chiaro che covava lo stesso rimpianto. Nell'aprile del 1941, a Rodi, Gim ricevette una lettera recante lo stemma di Casa Savoia. Era della principessa Maria José, la quale, secondo l'uso delle ragazze del tempo, si offriva come madrina di guerra dell'eroico aviatore. Era un gesto insolito per un membro della famiglia reale, dettato evidentemente da un moto spontaneo di personale simpatia. Emozionato e anche imbarazzato, Muti chiese una licenza e raggiunse Roma, dove si presentò a Mussolini per chiedere la sua autorizzazione. El padron, come in seguito racconterà Muti, lo ascoltò senza nascondere un sorrisetto malizioso. "Non è a me che devi chiedere il permesso, ghignò poi con tono equivoco "ma a suo marito il principe Umberto. Contento lui... La cerimonia del madrinato si svolse il 20 aprile 1941 nell'aeroporto di Ciampino. Maria José, in grigio, sfilò con un mazzo di fiori tra le braccia davanti a due schiere di aerei, salutò romanamente Muti, poi gli offrì l'omaggio floreale. L'altro, sull'attenti, notando che i fiori erano legati da un nastro appuntato con un spillo, prima di prenderli si finse imbarazzato e non rinunciò a una battuta: "Mi porteranno sfortuna, Altezza. "Perché? chiese stupita la principessa. "Perché c'è uno spillo. "E con questo? "Per scaramanzia devo pungerla. E' l'unico scongiuro." Sorridendo, Maria José gli porse regalmente il palmo della mano: "Punga pure. Muti, tolto lo spillo dal mazzo di fiori, la punse delicatamente facendole uscire una stilla di sangue che asciugò col suo fazzoletto riponendolo poi accuratamente nel taschino. "Lo conserverò come una reliquia concluse con un inchino galante. Questo episodio rimase impresso nella memoria di Muti che lo rievocava frequentemente con gli amici, spesso sogghignando: "Ohei, ragazzi. Ho perforato anche una principessa ! " . Verso la fine del 1942 i suoi problemi alla vista tornarono ad aggravarsi. Per qualche tempo temette addirittura di diventare cieco, ma si ostinò come un bambino capriccioso a non voler portare gli occhiali. Cambiò anche d'umore; ora le sue spavalderie erano spesso forzate e quasi sempre malinconiche. Oltre che dai problemi di salute, era angustiato anche dal precipitare degli avvenimenti. La guerra era ormai perduta e si profilavano tempi burrascosi. A El Alamein erano tramontate le speranze di Rommel di imprimere una svolta decisiva alle sorti del conflitto nello scacchiere africano. A Stalingrado le armate tedesche stavano segnando il passo, mentre gli americani si erano affacciati nel Mediterraneo dopo aver riconquistato il controllo delle rotte atlantiche, non più insidiate dagli U-Boot germanici. Dopo gli ultimi grandi successi riportati dalle forze dell'Asse nell'estate del '42, stava per iniziare l'inarrestabile ondata di riflusso. Esonerato definitivamente dal servizio attivo, Ettore Pagina 74
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Muti rientrò in patria per essere assegnato al quartier generale della Regia aeronautica. Fino a quel momento aveva compiuto complessivamente 1495 ore di volo di cui 1440 in azioni di guerra. Ricevette anche un'altra medaglia d'argento e due croci di ferro tedesche di prima e di seconda classe. 9. LA RICOMPARSA DI ARA. Fra il febbraio e il luglio del 1943, Ettore Muti soggiornò a lungo in Spagna per ragioni finora poco chiare. Secondo alcuni suoi biografi, vi si recava per adempiere a missioni segrete affidategli dal SIM, il Servizio informazioni militari, di cui era entrato a far parte dopo il suo esonero dal servizio attivo. La cosa, di per sé, non sorprende: la Spagna, come il Portogallo, la Svizzera e la Svezia, unici paesi europei ad aver conservato la neutralità durante il conflitto mondiale, era diventata un covo di spie ed è più che naturale che fosse frequentata dai nostri agenti. Tanto più che la Spagna, a differenza degli altri paesi, offriva ai servizi segreti dell'Asse un trattamento privilegiato. Il generalissimo Franco, infatti, pur essendo riuscito a restare fuori dalla guerra con legittimo disappunto di Hitler e di Mussolini, non poteva non manifestare la propria riconoscenza alle due potenze dell'Asse che avevano favorito in maniera determinante la sua conquista del potere. Di conseguenza, a Madrid i nostri agenti potevano tessere liberamente i loro intrighi godendo della tolleranza persino sfacciata della polizia. E non è tutto: il governo spagnolo aveva anche consentito all'Italia di impiantare una base segreta della Decima Mas nella baia di Algeciras, a meno di quattro chilometri da Gibilterra. Da qui i nostri osservatori controllavano l'andirivieni dei convogli nemici attraverso lo stretto, mentre gli arditi incursori della Decima vi organizzavano le loro puntate offensive contro le unità britanniche ancorate nel porto di Gibilterra. circa i compiti che sarebbero stati affidati a Ettore Muti "agente segreto, esistono varie versioni. Una di queste gli attribuisce l'incarico di compiere improbabili ricerche sulle apparecchiature radar di alcuni aerei alleati costretti ad atterrare in territorio spagnolo. Secondo un'altra versione, invece, Muti avrebbe ricevuto dal SIM il compito di indagare nell'ambiente diplomatico spagnolo e portoghese per accertare se fossero in corso contatti fra italiani e Alleati finalizzati a un eventuale armistizio. Questa spiegazione è certamente più accettabile dell'altra: l'Italia si trovava ormai in ginocchio, il regime era in crisi e a Roma tutti complottavano nella disperata ricerca di una via d'uscita. Non sorprende quindi che il SIM fosse interessato a fare chiarezza sugli intrighi spionistici che già si intessevano fra Madrid e Lisbona. ciò che invece sorprende è che per assolvere un compito così delicato sia stato scelto un personaggio come Ettore Muti, che certamente non difettava di coraggio e di ardimento, ma che era assolutamente privo per sua natura dell'astuzia, dell'intraprendenza e dell'esperienza necessarie per portare a termine una sofisticata operazione di spionaggio. La spiegazione della sua trasferta in Spagna va dunque cercata altrove. E forse l'abbiamo trovata. Dopo che si era rifatta viva per lettera nel 1939, la romantica Araceli Ansaldo y Cabrera scrisse altre volte al SUo antico e forse unico amore. Personaggio complesso e misterioso, con sconcertanti propensioni per l'arcano, Ara condusse a lungo un gioco complicato e intrigante. Evitando deliberatamente di rivelargli il proprio indirizzo, di tanto in tanto scriveva al suo Gim - come continuava a chiamarlo - ora per inviargli una foto del figlio Carlos Ettore Pagina 75
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt (che, fra l'altro, rassomigliava al padre come una goccia d'acqua), ora per informarlo dei progressi scolastici del ragazzo, ora per parlargli delle sue vicissitudini durante la guerra civile (la sua casa era stata bruciata dai "rossi", e con il figlio si era dovuta rifugiare a Melilla, in Marocco, presso un suo fratello, ufficiale dell'esercito franchista). Questo gioco del topo che si nasconde al gatto durò per qualche tempo e non sapremo mai se si trattò di un'astuta tattica muliebre per risvegliare un amore da tempo tramontato. A leggere le memorie di Ara, raccolte molti anni dopo dal giornalista Memmo Caporilli, sembrerebbe di no. Da quelle pagine emerge infatti un personaggio femminile a dir poco sconcertante: si direbbe che Ara abbia vissuto quegli anni di solitudine in mistica adorazione del suo Gim, fra strani presentimenti, percezioni extrasensoriali e persino contatti telepatici... Tutte cose che ci torna difficile accostare alla rude e prosaica personalità dell'oggetto del suo amore. Del quale, purtroppo, non conosciamo le reazioni poiché possediamo soltanto le poche e frettolose lettere che le inviò quando scoprì il suo indirizzo. La prima è datata 28 agosto 1940 e proviene da Rodi: Queridissima Araceli, finalmente ho avuto il tuo indirizzo. Molti anni fa un amico mi disse che ti aveva vista a Barcellona. Ti ho cercato più volte in quella città ma senza fortuna. Quando fu occupata, chiedevo a tutti di te, come a Saragozza, che è la tua città, dove sono stato otto mesi. Nulla. Desideravo moltissimo avere notizie tue e del ragazzo. E, sempre da Rodi, il 24 novembre 1941 le scrisse: Alla fine della guerra, se sarò ancora vivo mi farà piacere tornare in Spagna per un po' di tempo e farò tutto il possibile per vederti ... Mi dici che ti preme sapere perché ti cercavo, ma è chiaro: io desideravo rivederti, rendermi conto di quanto era accaduto e sistemare la cosa nel modo più favorevole per te e per me. Ti ho pensato tante volte e tu sei stata la mia compagna alata in tanti voli. Ma non occorre che te lo dica, queste cose tu le senti, tu le immagini, tu le sai. Ma dalla comunicazione della nascita di Carlo, senza il tuo recapito (el día 11 de diciembre por la manana ha nacido... ecc... te desea mucha suerte - Araceli - todavia lo recuerdo!) io non ebbi più nessuna possibilità di ritrovarti. Queste lettere, sinceramente affettuose, sono certamente di Muti, mentre i pensieri, le frasi e persino i versi che Ara gli attribuisce nelle sue memorie hanno un suono piuttosto falso. E' d'altronde difficile immaginare l'incolto eroe romagnolo, i cui interessi culturali non andavano oltre le avventure del Corsaro Nero o le gag di Petrolini, che si abbandona a lirismi di questo tenore: "Il nostro amore è registrato nella sinfonia acustica del cielo e in questo altare di cristallo e luna che mi offri. Di là ti amerò eternamente". Oppure: "Ora io sono cieco: vado a tentoni nel silenzioso parco della melanconìa". Se queste parole fossero veramente sue, significherebbe che Muti nascondeva a tutti, tranne che ad Ara, un lato romantico e decadente del proprio animo che nessuno avrebbe mai immaginato. Ma è probabile che Ara ci abbia messo del suo... D'altra parte, pur essendo certamente intrigato dalle lettere appassionate che gli giungevano dalla Spagna, Muti non era il tipo da macerarsi l'animo per questioni sentimentali. Maschilista ruvido e rapace, collezionava amanti con la stessa frequenza delle medaglie e le trattava con la stessa indifferenza. Non risulta che abbia mai vissuto una storia sentimentale duratura o particolarmente intensa. Era, per sua natura, un animale da preda istintivo e solitario. Persino con la famiglia, che rimase sempre a Ravenna, aveva rapporti sporadici, benché adorasse la figlia Pagina 76
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Diana alla quale scriveva lettere piene di affetto. Con le amanti, quando non era impegnato nelle sue imprese belliche, viveva storie rapide e tumultuose, che talvolta consumava in pochi giorni di "clausura nel suo buen retiro di Porta Metronia. Si può infatti affermare che, se in cielo non fu mai abbattuto dagli aerei nemici, a terra non venne mai travolto da passioni sentimentali. D'altra parte, come si è detto, il gioco ambiguo di Ara si protrasse per cinque anni. I cinque anni più importanti della sua carriera politica e se Muti fosse stato veramente interessato a rivederla, aveva i mezzi e il potere per farlo. Ma non lo fece. Soltanto nel gennaio del 1943, quando gli eventi lo costrinsero a rientrare a Roma con gli occhi ammalati, l'animo amareggiato e il morale depresso, tornò a pensare a lei. Ma cosa lo spinse a recarsi in Spagna è tuttavia difficile da spiegare. Certamente non fu, o non tu soltanto, l'amore per Ara. In quei giorni, infatti, Muti conviveva felicemente a Roma con la sua ultima conquista: una splendida ragazza cecoslovacca di ventidue anni dalle gambe lunghissime, di nome Dana Havlowa, soubrette ammirata e applaudita della compagnia di riviste di Odoardo Spadaro. E quindi probabile che le ragioni che lo indussero a partire siano state anche altre e molteplici. D'altra parte, la Spagna rappresentava allora la meta preferita dei ricchi gerarchi desiderosi di trascorrere una vacanza tranquilla lontano dai bombardamenti aerei e dalle dure difficoltà create dalla guerra. Era un'isola felice dove non esistevano l'oscuramento, il coprifuoco e tutte le restrizioni che affliggevano gli italiani. A Madrid il divertimento era garantito: i locali pubblici erano gremiti, le vie illuminate a giorno e i negozi ben riforniti di ogni genere voluttuario. Per giunta, i capi fascisti erano ospiti graditi e molti di loro, prevedendo l'approssimarsi del crollo delle impalcature ormai fràdice del regime, già ne approfittavano per trasferirvi le loro fortune e per prepararsi un rifugio sicuro per quando sarebbe giunto il momento di cambiare aria. Chissà se nella mente di Muti frullò un'idea del genere. L'uomo era in crisi, la riduzione del visus l'aveva costretto a rinunciare al comando del 41esimo aerosiluranti. Il suo rientro nella capitale aveva rinfocolato asprezze e antipatie (persino a Mussolini furono inviate lettere anonime per segnalare la sua incompatibilità al pilotaggio) e infatti venne trasferito al SIA, il Servizio informazioni aeronautiche, senza incarichi precisi. Frattanto, la guerra andava di male in peggio e l'atmosfera italiana diventava di giorno in giorno più opprimente. Già altre volte Muti aveva meditato di cambiare vita e di ritirarsi in un posto tranquillo, perché non farlo questa volta? La Spagna sarebbe stata per lui il rifugio ideale: il "Cid alato" continuava a esservi popolarissimo, poteva esibire la più alta decorazione militare, aveva amici influenti tra le alte cariche del governo e dell'esercito... Per non dire poi che lì l'attendeva, insieme al figlio, una donna che ancora l'amava. Comunque siano andate le cose, ai primi di febbraio del 1943 Muti decise di partire per Madrid. Considerata l'influenza che ancora esercitava, non gli deve essere stato difficile farsi affidare dal SIA una qualsiasi "missione segreta" per giustificare il suo viaggio. E infatti gli venne assegnato un compito imprecisato (le ricerche sul radar o sulle trattative segrete sono soltanto supposizioni mai documentate) da svolgere in Spagna e in Portogallo. Prima di partire telegrafò ad Araceli invitandola a farsi trovare col figlio il 27 febbraio a Madrid. Il comune amico Nostini, console generale d'Italia, avrebbe provveduto alla loro accoglienza. Ecco come Ara racconta quella giornata: Ci incontrammo al Palace Hotel di Madrid. Lo stavamo aspettando in albergo. Lo vidi uscire dall'ascensore accompagnato dal Pagina 77
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt console Nostini, che poi avrebbe provveduto a regolarizzare la nostra cuestión monetaria e avviare le pratiche per il riconoscimento di nostro figlio. Indossavo un vestito nero (che per un voto dovevo portare per due anni e non mangiare gelati), una giacca di pelle ed un cappellino sempre nero. Si avvicinò, ci abbracciò e ci baciò fortissimo, tenendoci tutti e tre insieme per alcuni minuti. Andammo in giro per la città parlando di tutto, facendo progetti per il futuro di Carlos e comprandoci un'infinità di cose. Gim ricordava quale era il mio profumo preferito, me lo regalò con un mazzo di fiori e mi donò anche un orologino di platino e brillanti. Adorava nostro figlio, era orgoglioso di lui e voleva occuparsi del suo sviluppo scolastico e fisico. Per questo incaricò Nostini di affidarlo al collegio di Madrid dell'Istituto di Cultura Italiana. Poi, inoltrandosi a poco a poco nel suo mondo onirico, continua: Giunti in camera, mi misi a sedere davanti a uno specchio, mi perdetti in esso e trovai il mio amore: s'era seduto su di un angolo della scrivania con una gamba che dondolava ritmicamente. Mi sorprese che fosse così silenzioso. Lo guardai ancora attraverso lo specchio. Cosa voleva dirmi? Cosa voleva che indovinassi? Mi concentrai: lui parlava alla mia mente. Era una trasmissione telepatica che non richiedeva l'uso delle parole. Risposi al suo pensiero e cominciai a pensare. Un'ondata di immagini si incrociavano nella mia mente e captai il messaggio. Mi volsi e lo guardai gridando il suo nome: GIM!!! Lui mi fissava con espressione càndida e chiese: "Che ti succede? Ti ammazzerò risposi. Con movimento felino si alzò in piedi e venne verso di me e con voce supplichevole disse: "No, amor mio, no. Pensa come farebbero le donne del mondo senza di me". E rivolto a tutte loro cominciò a declamare: "Piangete donne, lacrimate forte, che il povero Muti è condannato a morte". Mentre pronunciava quelle parole, si volse verso di me come volesse chiedere aiuto. In uno slancio di pentimento, senza parole, mi tirò dolcemente per un braccio fino a stringermi fortemente al suo petto, quasi implorasse in silenzio il mio perdono. E lui in cambio mi donò tutto il suo Amore. Un mese dopo, la romantica Ara era di nuovo incinta. Muti rimase a lungo in Spagna. Mise anche su casa a Madrid, in un elegante appartamento di via Jardin de San Federico 15, che poi rimase ad Ara e ai suoi figli. Aveva molto tempo a disposizione e quando non lo trascorreva con Ara e il loro ragazzo, frequentava gli ambienti politici e diplomatici spagnoli. Alcuni suoi biògrafi gli attribuiscono inoltre dei contatti con esponenti dell'ambasciata britannica, ma probabilmente non è vero. Se li ebbe, si trattò di incontri casuali in occasione di qualche ricevimento, ma privi di importanza. Chi lo vide quei giorni lo descrive come un uomo stanco e deluso dalla guerra che non nascondeva la propria animosità nei confronti di Mussolini. La sua cieca e ardente fiducia nel Duce si era da qualche tempo trasformata, se non in odio, in profondo rancore. Ne criticava anche la vita privata, sosteneva apertamente che a rammollirlo era stata "quella Petacci", gli attribuiva tutte le responsabilità per la pessima condotta della guerra e manifestava ad alta voce i suoi pensieri con motti taglienti, sempre a sfondo ironico, com'era suo stile. Un giorno, in casa di Ramón Serrano Suner, ministro degli Esteri spagnolo e cognato di Franco, incontrò Galeazzo Ciano in visita privata a Madrid. Si era verso la fine di giugno del 1943. La situazione italiana andava rapidamente peggiorando. I nostri soldati erano stati cacciati dall'Africa, le nostre colonie erano andate perdute, l'avventura in Unione Sovietica, ostinatamente voluta da Mussolini, si era risolta in un tragico disastro. Da un momento all'altro si attendeva l'invasione della penisola... Ciano non era più il golden boy del regime: era stato falciato dalla purga" efPagina 78
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt fettuata da Mussolini poco più di tre mesi prima, quando aveva rinnovato gran parte del governo. A suo genero, il Duce aveva tolto il dicastero degli Esteri per assegnargli l'incarico assai più modesto di ambasciatore presso la Santa Sede. Anche Ciano che, al contrario di Muti, si era battuto a suo tempo per impedire l'alleanza con la Germania, ora non nascondeva più la sua avversione per i tedeschi e si perdeva in critiche e recriminazioni. I due vecchi protagonisti della beffa di Addis Abeba" rinnovarono in Spagna l'antica amicizia che gli screzi degli ultimi avvenimenti avevano alquanto oscurata. Fra una corrida e uno dei tanti ricevimenti in loro onore, Ciano mise l'amico al corrente dei più recenti sviluppi della politica italiana e certamente lo informò di quanto stava bollendo in pentola al vertice del regime. Verso la fine di giugno, Muti fece una rapida puntata in Italia. Non se ne conoscono le ragioni, ma questo è soltanto il primo dei molti misteri che accompagneranno d'ora in poi i suoi movimenti. E' accertato che ebbe dei contatti con Badoglio e ciò appare piuttosto strano. Badoglio e Muti si conoscevano da tempo, ma non erano certamente in confidenza, anche se il vecchio Maresciallo piemontese non aveva mai nascosto di nutrire per quello scavezzacollo romagnolo una sorta di paterna simpatia. Perché dunque si incontrarono? Badoglio, in quel momento, era ufficialmente un "pensionato di settantadue anni che viveva in disparte da quando, nel 1940, Mussolini gli aveva tolto l'incarico di capo di Stato maggiore generale per sostituirlo con Ugo Cavallero. E' vero che il Maresciallo era da un pezzo in movimento contro il regime, ma Muti come faceva a saperlo? Il fatto è che a meno di un mese di distanza dal colpo di Stato, fra Badoglio e Muti si verificò uno scambio di idee e di informazioni. Lo prova un documento ritrovato di recente. Si tratta di una lettera autografa di Muti a Badoglio, datata "Roma, 27, 6, 21esimo [1943]" alla quale, evidentemente, era allegato un rapporto purtroppo scomparso. Eccone il testo: Eccellenza, a seguito del colloquio e della confidenza che mi avete gentilmente concesso, mi permetto inviarvi degli appunti e delle impressioni personali nella speranza che possano esservi utili. Non ritengo superfluo aggiungere che il mio giudizio o il mio esame è solo il frutto di otto anni passati nell'Arma e che durante tutto questo periodo ebbi rapporti amichevoli con tutti e che se sono stato un po' severo non lo feci per partito preso. Abbiatevi i miei più distinti saluti. Ten. col. pilota Ettore Muti Breve, ma significativa, la riposta di Badoglio: Caro Muti, vi ringrázio di quanto mi avete comunicato e che, al momento opportuno, potrà servire di buon orientamento. Vi ricambio i più cordiali saluti. Badoglio. Non è quindi da scartare l'ipotesi che nei giorni in cui a Roma si complottava da più parti in attesa del 25 luglio, il vecchio Maresciallo abbia avuto motivo di ritenere l'ex segretario del PNF un personaggio affidabile. D'altra parte, che Muti fosse già allora schierato apertamente contro il regime lo rivelano anche alcune sue affermazioni risalenti alla breve trasferta romana. Verso la fine di giugno, Muti si recò a visitare Dino Grandi nel suo ufficio di presidente della Camera. Erano presenti altri esponenti di spicco del regime, i quali informarono il visitatore circa il famoso ordine del giorno che si accingevano a presentare alla prossima riunioPagina 79
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt ne del Gran Consiglio del fascismo. Dopo averli ascoltati, Muti, tanto intrepido come soldato quanto sprovveduto come politico, si lasciò scappare una delle sue consuete spacconate: "Voi mi fate ridere con i vostri ordini del giorno bizantini. Se volete, risolvo io la questione rapidamente e il Duce ve lo faccio fuori questa sera: a l'amazz me. Più chiaro di così. Rientrato a Madrid, Muti vi rimase pochi giorni perché fu subito raggiunto dalla convocazione della riunione straordinaria del Gran Consiglio fissata da Mussolini per sabato 25 luglio. Ripartì quindi per Roma il 22, approfittando di uno dei pochi voli diretti verso la capitale italiana. Ara lo accompagnò all'aeroporto insieme al figlio e lui, dopo i saluti, promise che sarebbe tornato appena possibile. "Strana coincidenza" scriverà in seguito Ara, che alle coincidenze attribuiva sempre significati arcani: "Quando partii io dall'Italia il 10 settembre 1931, ero anche allora incinta di cinque mesi di Carlos. Ma ero io allora ad allontanarmi". A proposito della creatura in arrivo, Muti aveva già scelto il nome: "Se sarà femmina, le aveva fatto promettere manifestando la sua solita propensione per il romanzesco "la chiamerai Jolanda, come la figlia del Corsaro Nero". Lei manterrà la promessa. Muti lasciò Madrid con un aereo civile dell'Ala littoria e sembrava che la morte lo inseguisse. Viaggiare in tempo di guerra non era tanto semplice: l'aereo che decollò prima del suo venne abbattuto e precipitò nel Mediterraneo, il suo fu invece costretto a prendere terra a Marsiglia e lui dovette proseguire in treno. Lungo la strada si trovò sotto un attacco aereo e poi nel mezzo di uno scontro a fuoco fra tedeschi e partigiani francesi. Riprese più tardi il viaggio con mezzi di fortuna e finalmente giunse a Bologna, dove solo per un caso non trovò una camera all'hotel Bristol, in cui era solito pernottare. Quella stessa notte l'albergo fu distrutto da un bombardamento. Dopo una rapida visita a Ravenna per salutare la moglie e la figlia (tuttavia non trovò il tempo di arrivare a Sasso Marconi dov'erano sfollate la madre e le sorelle), Muti ripartì infine alla volta di Roma il 24 mattina sperando di giungere in tempo per la riunione del Gran Consiglio fissata alle 17.30. Ma, viaggiando in macchina, incontrò le consuete difficoltà del tempo di guerra: allarmi aerei, mitragliamenti, ponti crollati e riuscì a giungervi solo nella mattinata di domenica 25 luglio. Quando la riunione del Gran Consiglio si era ormai conclusa. 10. LA STAGIONE DEGLI INGANNI. Il 25 luglio 1943, a Roma, giunsero contemporaneamente a maturazione due distinti complotti di Stato che si proponevano di liquidare Mussolini. Di uno facevano parte i massimi gerarchi del regime, dell'altro i massimi capi militari, ma i congiurati del primo ignoravano che ne esistesse un secondo e viceversa, cosicché i due complotti procedettero appaiati ignorandosi a vicenda. Soltanto re Vittorio Emanuele Terzo era a conoscenza di entrambi e li aveva abilmente alimentati, giocando d'astuzia - se così possiamo dire, considerando i risultati disastrosi - su due tavoli, ora incoraggiando gli uni, ora blandendo gli altri e dispensando agli uni e agli altri assicurazioni e promesse che non avrebbe mai mantenuto. Il primo complotto era capeggiato da Dino Grandi, uno dei più alti esponenti del regime. Ex ministro degli Esteri e per molti anni ambasciatore a Londra dove vantava importanti amicizie, aveva raccolto attorno a sé i gerarchi più avveduti, convinti come lui che la sconfitta era inevitabile e che Mussolini rappresentava per l'Italia un'ingombrante zavorra. Incoraggiato dal re, Grandi aveva cominciato a Pagina 80
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt tessere la sua trama in attesa del momento propizio per programmare l'operazione più difficile: la liquidazione del Duce, ma non del regime. Il sovrano infatti, sia pure in forma piuttosto vaga, gli aveva fatto intravedere una continuazione edulcorata del fascismo guidata da un governo di cui lo stesso Grandi sarebbe stato il presidente. La congiura dei gerarchi stava maturando lentamente quando, il 10 luglio 1943, con lo sbarco degli Alleati in Sicilia, subì una brusca accelerazione. La successiva decisione di Mussolini di convocare la riunione del Gran Consiglio per il giorno 24 offrì infine ai congiurati l'opportunità di uscire allo scoperto e di presentare un ordine del giorno destinato a provocare la fine della dittatura. L'altro complotto, detto "dei militari", era guidato dal generale Vittorio Ambrosio, capo di Stato maggiore generale e fedelissimo di Casa Savoia. Questi, protetto dall'ombra discreta del maresciallo Pietro Badoglio e assistito dal ministro della casa reale Pietro Acquarone, si proponeva la liquidazione di Mussolini pur non avendo ancora predisposto un preciso piano d'azione. Per portare avanti il suo progetto, Vittorio Ambrosio si avvaleva della collaborazione attiva di due generali, Giuseppe Castellano e Giacomo Carboni. Quest'ultimo merita una presentazione più particolareggiata perché svolgerà un ruolo di primissimo piano nella misteriosa vicenda di cui sarà protagonista Ettore Muti. Figlio di un sardo e di un'americana, Carboni era allora il più giovane generale dell'esercito italiano e aveva navigato con grande abilità fra i servizi segreti e lo Stato maggiore, sempre distinguendosi più per le sue ottime qualità di carrierista che per quelle di grande soldato. In quel momento era comandante della difesa mobile di Roma, un incarico importantissimo che gli consentiva di scavalcare tutti i superiori per conferire direttamente con Ambrosio. Precedentemente aveva diretto il SIM (incarico che gli sarà riaffidato subito dopo il 25 luglio) e ciò gli aveva consentito di conoscere vita, idee, affarismi e amorazzi dell'intera "nomenclatura" romana e di raccogliere nutriti dossier che a personaggi del suo stampo potevano sempre essere utili. Generale ambizioso, amante dell'intrigo e dotato di un'intelligenza machiavellica di prim'ordine, Carboni risulterà al centro di tutte le trame ordite durante i cosiddetti "45 giorni di Badoglio. Ritornando ai due complotti concomitanti e rivisitando a distanza la svolta storica del 25 luglio, bisogna anche riconoscere che la congiura dei gerarchi, conclusasi con l'approvazione del famoso ordine del giorno di Dino Grandi che esautorò Mussolini da ogni potere, dimostrò una forte tensione morale e una genuina angoscia per le sorti della patria. Il loro pronunciamiento ebbe, insomma, una pàtina di nobiltà disinteressata, mentre il golpe tardivo dei militari risultò al confronto meschino, miope ed egoistico anche se, alla fine, ebbe la meglio poiché il sovrano sfruttò a vantaggio suo e dei militari i risultati del Gran Consiglio. Come andarono le cose è noto. La sera del 24 luglio il Gran Consiglio del fascismo, riunito a Palazzo Venezia nella Sala del Pappagallo, dopo una drammatica discussione protrattasi nella notte, aveva infine votato a maggioranza (19 su 28 presenti) l'ordine del giorno Grandi, che disponeva nella sostanza "l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali attribuendo alla Corona le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e invitava "il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re di assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono". Una formula costituzionale per invitare brutalmente Mussolini a presentare le proprie dimissioni. Pagina 81
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Successivamente, nel pomeriggio del 25 luglio, mentre Mussolini si accingeva a recarsi dal re, a Villa Savoia, per metterlo al corrente di quanto era stato deciso nella riunione del Gran Consiglio, scattò anche la congiura dei militari. Carboni e Castellano avevano convocato il generale Angelo Cerica, comandante dei carabinieri, e insieme avevano predisposto l'occupazione dei ministeri, dei centri di comunicazioni e scelto l'ufficiale di fiducia che avrebbe dovuto provvedere a prendere tutte le misure ritenute necessarie per il successo dell'operazione, compreso l'arresto dello stesso Mussolini. Questo ufficiale era il tenente colonnello Giovanni Frignani, comandante del Gruppo interno dell'Arma. E fu appunto Frignani, accompagnato dai capitani Raffaele Aversa e Paolo Vigneri e da otto carabinieri, a procedere materialmente all'arresto di Mussolini quando questi uscì da Villa Savoia dopo il suo ultimo colloquio con il sovrano, durante il quale era stato esonerato dalla guida del governo. Caricato sopra un'autoambulanza messa a disposizione dal commissario di PS Carmelo Marzano, anche lui uomo di fiducia di Carboni, un Mussolini ormai rassegnato alla sua sorte di... pensionato era stato trasferito nella caserma dei carabinieri di via Podgora. Qualche ora dopo il nuovo capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, gli aveva fatto pervenire una lettera nella quale gli spiegava di averlo trattato in quel modo nel "suo personale interesse, dicendosi pronto "a dare ordini per il vostro futuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare". Mussolini gli aveva risposto immediatamente per ringraziarlo "delle attenzioni riservategli" e per chiedere di poter "raggiungere la Rocca delle Caminate dove desidero stabilirmi con la mia famiglia". Concludeva poi la sua lettera assicurando che non avrebbe creato difficoltà e facendo voti affinché "il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine di Sua Maestà il Re del quale, durante ventun'anni, sono stato un leale servitore e tale rimango". Era il commiato di un uomo stanco che dissimulava con fatica il sollievo di essere stato estromesso da una partita ormai perduta. Mentre accadeva tutto questo, Ettore Muti era giunto a Roma. La città era ancora tranquilla e semiaddormentata sotto un sole torrido, che rendeva ancor più desolante quel pomeriggio domenicale. Soltanto i telefoni delle varie "stanze dei bottoni erano arroventati, ma l'opinione pubblica ancora ignorava l'accaduto: sarebbe stata informata soltanto a tarda sera, da un comunicato radio, che il "cavalier" Benito Mussolini si era dimesso ed era stato sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio. In attesa degli eventi, i congiurati si erano riuniti nel pomeriggio nello studio di Grandi a Montecitorio e vivevano momenti di grande apprensione. Ignoravano cosa fosse accaduto dopo la riunione del Gran Consiglio e temevano le reazioni di Mussolini. Già circolavano voci allarmanti, si diceva che erano stati allertati i battaglioni "M", fedelissimi del Duce, schierati attorno alla capitale, e che squadre speciali di fascisti avevano ricevuto l'ordine di sopprimere i diciannove "traditori". Soltanto Grandi era stato informato fin dal mattino - glielo aveva comunicato il sovrano - che Mussolini sarebbe stato sostituito da Badoglio, ma ignorava la decisione del suo arresto. Così, alla delusione di non essere il prescelto, si era aggiunta la paura per la propria sicurezza personale. Anche gli altri erano molto preoccupati e, più di tutti, lo era Galeazzo Ciano che, pur essendo stato lasciato libero di non votare, aveva insistito per firmare con gli altri l'ordine del giorno e ora temeva la vendetta del suocero. A chi lo consigliava di cambiare aria, aveva risposto: "E' inutile, tanto fra poche ore mi manda ad arrestare... Ma Pagina 82
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt poi aveva aggiunto speranzoso "il re gli toglie il potere e mi fa tirare fuori". Verso le cinque del pomeriggio, la cupa atmosfera d'attesa che regnava nella stanza del presidente della Camera fu improvvisamente rotta dall'irruzione di Ettore Muti. Questi indossava l'uniforme di tenente colonnello dell'aeronautica e portava notizie sconvolgenti, anche se non sappiamo da chi le avesse apprese, visto che era giunto da poche ore nella capitale. Scrisse infatti Ciano nel memoriale che presentò al processo di Verona: Mentre parlavamo con Grandi, salì Muti che aveva riconosciuto la mia macchina in basso e disse: "Sapete che lo hanno arrestato?". "Chi?" domandammo noi. "Mussolini, lo ha fatto arrestare il re a Villa Savoia. Io sono passato da... (non ricordo la strada) mentre un generale dei carabinieri portava via Carlo Scorza. Me lo ha detto Freddi, che piangeva. Rimanemmo grandemente sorpresi dalla notizia. Io mormorai: "Che guaio. E' il crollo di tutto: adesso ci ammanetteranno anche noi". Ora la paura paralizzava tutti gli ex gerarchi. Paura del re e paura dei tedeschi. Arrestando Mussolini e affidando il governo a Badoglio, il sovrano li aveva evidentemente beffati. Inoltre bisognava fare i conti con i tedeschi: come avrebbe reagito Hitler alla notizia della cattura del suo amico Mussolini? Muti non cercò neppure di rassicurare i presenti: la situazione era effettivamente grave e tutto poteva accadere. Invitò Ciano e tutti gli altri a trovarsi al più presto un rifugio poi, dato che Grandi era il più terrorizzato dei presenti, lo invitò a seguirlo: "Se vieni con me, ti porto al sicuro", gli disse gonfiando il petto carico di nastrini e sfiorando con la mano la fondina della pistola. L'altro lo seguì come un bambino. In seguito molti storici, ma soprattutto i fascisti della Repubblica sociale, che ne fecero un "martire della causa", sosterranno che Ettore Muti non tradì Mussolini e condannò il tradimento dei gerarchi. Ma se così fosse stato, come spiegare il suo comportamento di quel pomeriggio? Qualche settimana prima egli si era addirittura proposto come liquidatore del Duce (a l'amazz me) e ora si offriva come protettore del più odiato dei diciannove "traditori". Quella notte, comunque, Dino Grandi la trascorse effettivamente con Muti nel suo appartamento di Porta Metronia e il giorno seguente si trasferì con lui nella villetta che questi aveva da tempo preso in affitto a Fregene per trascorrervi le estati. Qui Grandi rimase nascosto alcuni giorni in attesa che i servizi segreti badogliani (il re aveva fretta di sbarazzarsi di un "creditore molesto) provvedessero a trasferirlo al sicuro in Portogallo. Passata la paura dei primi giorni, anche gli altri gerarchi compromessi poterono riacquistare una relativa tranquillità. Il governo Badoglio non desiderava vendette: per ottenere l'impunità era sufficiente presentarsi dal nuovo capo della polizia, Carmine Senise, giurare fedeltà al nuovo governo e mettersi "a disposizione di Sua Maestà". Invito che molti di essi accolsero immediatamente senza farsi pregare. Furono rimessi in libertà anche Scorza, Starace e i pochi altri fermati per le inutili misure preventive. Solo i gerarchi "irriducibili", come Roberto Farinacci, Alessandro Pavolini e Renato Ricci, rifiutarono l'umiliante dichiarazione di resa e preferirono rifugiarsi nell'ambasciata tedesca, da dove si provvide poi a trasferirli clandestinamente in Germania. Il più sfortunato di tutti fu Galeazzo Ciano. Ritenendosi ancora un privilegiato, egli si consegnò con la famiglia ai tedeschi, fiducioso che costoro avrebbero mantenuto la promessa di trasferirlo al sicuro in Spagna. L'ingenuo presuntuoso cadde così nella trappola. Tradotto Pagina 83
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt in Germania per ordine di Hitler, sarà in seguito consegnato ai fascisti di Salò per essere fucilato a Verona l'8 gennaio 1944 con altri quattro "traditori" del 25 luglio che non erano riusciti a mettersi in salvo. Muti invece rimase a Roma e non ebbe problemi. Dopo una franca conversazione con Carmine Senise, fu lasciato libero di circolare e, almeno apparentemente, non diede mai àdito ad alcun sospetto di sorta. Viveva abitualmente a Fregene con l'attendente Masaniello e la cameriera Concettina Verità. Dimèntico della romantica Ara rimasta a Madrid, aveva "recuperato" Dana, la bellissima soubrette cecoslovacca, la quale, terminata la tournée con Odoardo Spadaro, ora trascorreva con lui le vacanze estive. Spesso si faceva vedere in via Veneto, sostava nelle terrazze dei bar, incontrava amici e conoscenti. Forse per via dell'uniforme, che prudentemente continuava a indossare, nessuno osava disturbarlo. Anzi, un giorno, trovàtosi per caso in mezzo a una delle tante manifestazioni di gioia popolare per la caduta del fascismo, fu riconosciuto e festeggiato dai manifestanti. Evidentemente, la fama di "eroe dell'aria" ne aveva oscurato i precedenti politici. Difficile dire se Muti in quei primi giorni di "ritrovata libertà", come allora si diceva, abbia avuto degli incontri segreti. I suoi movimenti erano naturalmente controllati e quindi è possibile ricostruire le sue giornate. Non si sa per quale ragione, cercò di parlare con Umberto di Savoia, ma questi lo fece ricevere dal principe Aimone, fratello minore del duca Amedeo d'Aosta. I due scambiarono pochi convenevoli. Risulta tuttavia che Aimone abbia detto a Muti con tono compiaciuto: "Ha visto come è stato astuto il nostro sovrano? . Non si conosce la risposta dell'altro. Nei primi giorni di agosto il capo della polizia Senise, suo vecchio amico, gli combinò un incontro con Badoglio. Il loro colloquio fu cordiale e, secondo Senise, perfino amichevole. Badoglio aveva bisogno di un favore: i militi dei battaglioni "M", facenti parte della divisione corazzata ex Littorio, accampata alle porte di Roma e dotata dei potenti carri tedeschi Tigre, si ostinavano a non voler togliere dalle mostrine le "M" rosse per sostituirle con le stellette regolamentari. Poteva Muti intervenire col suo prestigio per indurli a cambiare idea? Muti ascoltò in silenzio la strana proposta, poi rise imbarazzato. "Eccellenza," disse "mi ci vede a compiere un'azione simile? Sono certo che quelli mi accolgono con fischi e pernacchie. Anche Badoglio sorrise e ritirò la sua estemporanea proposta. Ma non sembrava adirato, anzi, prese sottobraccio Muti e lo accompagnò lungo il corridoio. Prima di lasciarlo, lo colpì scherzosamente col pugno alla mandibola e gli disse: "Rèstatene pure tranquillo a Fregene. Avrò ancora bisogno di te. Verso la metà di agosto del 1943, a meno di un mese dalla caduta del fascismo, nel "Palazzo" romano regnavano confusione e paura. Con la sua famosa dichiarazione, "la guerra continua, pronunciata nell'assumere l'incarico di capo del governo, Pietro Badoglio aveva pensato di ingannare i tedeschi circa la sua volontà di mantenere fede all'alleanza e questi avevano fatto finta di crederci. In realtà, la reciproca sfiducia era totale, e sia gli uni che gli altri erano impegnati a interpretare una commedia degli inganni che sarebbe perdurata fino all'8 settembre. Gli emissari italiani, infatti, stavano già trattando segretamente la resa con gli anglo-americani, ma, per non insospettire i tedeschi, cercavano di convincerli della loro fedeltà all'alleanza reclamando ulteriori rinforzi per fermare l'invasione della Sicilia. Da parte loro, i tedeschi, fingendosi alleati zelanti, dislocavano le loro divisioni nell'intera penisola per trovarsi pronti quando sarebbe scattata l'operazione Alarico, che, ordinata da Hitler, prevedeva l'occupazione dell'Italia, la cattura dei Pagina 84
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt membri del governo e della famiglia reale, nonché la restaurazione del regime fascista. Per porla in atto, però, i tedeschi avevano bisogno di una giustificazione "politica" che altra non poteva essere se non il ritorno del Duce a Palazzo Venezia. Ma dov'era Mussolini? Di lui, dopo l'arresto, avvenuto a Villa Savoia nel pomeriggio del 25 luglio, non si sapeva più nulla. Invano gli agenti nazisti avevano tentato di individuare il nascondiglio in cui il governo Badoglio lo aveva relegato. In un paio di occasioni avevano anche tentato dei colpi di mano, prima a Ponza e poi alla Maddalena, dove Mussolini aveva effettivamente soggiornato, ma erano sempre giunti in ritardo: la preda era scomparsa e loro erano anche stati costretti a presentare scuse ufficiali e alquanto imbarazzate. Lo troveranno, come è noto, soltanto il 12 settembre, sul Gran Sasso, ossia quando, con l'armistizio dell'8 settembre, il "tradimento" italiano aveva preceduto il loro premeditato "tradimento". Mentre i servizi segreti giocavano a rimpiattino, a Roma si vivevano ore d'ansia. Il fatto che il regime si fosse sciolto come neve al sole senza un solo gesto di reazione sorprendeva un po' tutti. Pareva impossibile che i fascisti, con i tedeschi in casa pronti a dar loro una mano, se ne stessero quieti e rassegnati come conigli impauriti. Certamente, si pensava, stanno complottando per riconquistare il potere perduto. In effetti, anche se ciò può sorprendere, le cose stavano proprio così. Nessun gerarca aveva intenzione di muovere un dito in difesa del Duce: i più "animosi erano fuggiti in Germania, in attesa che i tedeschi cavassero il ragno dal buco, gli altri si erano affrettati ad allinearsi con il nuovo corso. Di complotti, insomma, neanche l'ombra. Dopo quasi sessant'anni di ricerche, con la valanga di memoriali e di testimonianze rese da tutti coloro che hanno avuto una qualsiasi parte negli affari pubblici di quei giorni, non è mai emerso nulla che autorizzi a pensare che i gerarchi, da soli o d'accordo con i tedeschi, stessero cercando di organizzare un secondo colpo di Stato per ricondurre Mussolini al potere. Non si menziona una prova, ma neppure qualche fragile indizio. E' accertato, tuttavia, che in quei giorni a Roma circolò negli ambienti più ristretti la voce di un imminente tentativo di restaurazione fascista. Ma quando si va a ricercare l'origine di questa voce, si scopre che essa proviene sempre da Badoglio. Era lui a informare il re del "complotto" attraverso il ministro Acquarone, era lui a mettere in allarme, attraverso Ivanoe Bonomi, i vari esponenti dei partiti antifascisti. Ed era sempre lui, infine, a informare coloro che avrebbero dovuto informarlo, ossia il capo della polizia Senise e il comandante dei carabinieri Cerica. Ma chi informava Pietro Badoglio? Le allarmanti segnalazioni sui preparativi del fantomatico complotto giungevano al Maresciallo attraverso il generale Giacomo Carboni, che lui stesso aveva collocato alla guida del SIM, in sostituzione del generale Cesare Amè. A questo punto affrontiamo il primo dei tanti misteri che popolano questa vicenda. Oggi sappiamo che non era in preparazione alcun complotto e quindi dobbiamo porci almeno due domande. Chi fu a inventarselo e a indicare persino i nomi dei congiurati? E per quale recòndita ragione? Secondo alcuni storici, si sarebbe trattato di una manovra di Badoglio per conservare la guida del governo. Il vecchio Maresciallo era informato che il sovrano intendeva sbarazzarsi di lui. A corte, infatti, si manifestava irritazione in particolare per la sua opera di defascistizzazione, che, per gli interessi della Corona, risultava troppo radicale. Il 16 agosto gli era anche giunto dal Quirinale il seguente promemoria, che aveva il tono di un ultimatum: L'eliminazione degli appartenenti al Partito fascista da ogni attiPagina 85
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt vità pubblica deve recisamente cessare. Ove il sistema iniziato perdurasse si arriverebbe all'assurdo di implicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del Re ... Non si esclude inoltre che la maggioranza degli ex fascisti vedendosi abbandonata dal Re e perseguitata dal governo, tra non molto ricomparirà nelle piazze in difesa della borghesìa per affrontare il comunismo, ma questa volta sarà decisamente orientata a sinistra e contraria alla monarchìa. Dopo un avvertimento di questo tenore, una richiesta di dimissioni appariva quasi inevitabile. A meno che il Maresciallo non fosse riuscito a giustificare la sua azione repressiva denunciando un complotto fascista che poneva in imminente pericolo non soltanto le sorti del paese, ma anche la vita stessa del re e dei suoi familiari. Come poi effettivamente accadde... Secondo altri storici, invece, l'inesistente complotto sarebbe stato il frutto di una manovra architettata dall'ambizioso generale Carboni per spaventare il vecchio Maresciallo, che non faceva mistero di essere attanagliato dal terrore di una reazione da parte dei fascisti e dei tedeschi. Carboni avrebbe agito in questo senso perché ambiva a sostituire Badoglio alla guida del governo. Tale ipotesi, per la verità, non è affatto azzardata: lo stesso Carboni non ne fa mistero nelle sue memorie. In esse, appunto, dopo aver esternato le sue preoccupazioni per il pericolo che correva il paese a causa della "pavidità invincibile di Badoglio e delle ambiguità del re, che continuava "a non volerne sapere di considerare il fascismo superato, il generale rivela che "un giorno Acquarone mi fece avvertire di avere urgente necessità di parlarmi. Mi recai nel suo ufficio dove trovai il consigliere del Re ansioso e corrucciato. Mi fece sedere e con voce stanca e irritata, dichiarò: "Con Badoglio non è più possibile andare avanti: non capisce niente. Prepàrati, perché uno di questi giorni il Re ti chiamerà e ti incaricherà di fare tu il nuovo Governo!". Risposi: "Se devo sostituire Badoglio bisogna romperla con i tedeschi e tenere una condotta chiara con i fascisti". Ma il Re non mi chiamò e non fece il nuovo Governo. Una tesi, comunque, vale l'altra ed è anche probabile che le due manovre abbiano preso forma contemporaneamente in un complicato gioco d'astuzia. Data dunque per scontata l'esistenza del "complotto", occorreva ovviamente indicare chi fossero i presunti congiurati, e il SIM di Carboni non tardò a scodellarli sul tavolo di Badoglio. Ecco i nomi: Ugo Cavallero, ex capo di Stato maggiore generale (e nemico personale del Maresciallo), Enzo Galbiati, ex comandante della divisione corazzata ex Littorio, gli ex segretari del partito Achille Starace e Carlo Scorza e ancora Giuseppe Bottai, Ubaldo Soddu, Attilio Teruzzi e alcuni altri. Circa il capo dei congiurati non potevano esserci dubbi: Ettore Muti. Soltanto lui, il soldato più decorato d'Italia, possedeva la tempra e il carisma necessario per rincuorare i fascisti e porsi alla testa dei battaglioni "M" che, all'ombra dei loro potenti Tigre, bivaccavano alle porte della capitale. Purtroppo, Muti non ha lasciato testimonianze dirette sui suoi movimenti e sulle intenzioni che maturò durante i ventinove giorni trascorsi a Roma fra il 25 luglio e il 23 agosto, quando fu ordinato l'arresto dei "congiurati". Possiamo comunque tentare di ricostruirli attingendo a due fonti, certamente non attendibili, ma pur sempre significative: il memoriale di Carmine Senise, capo della polizia, e quello del generale Giacomo Carboni, capo del SIM. Ma prima di addentrarvisi è tuttavia opportuna una premessa. I memoriali sono sempre ingannevoli: salvo improbabili casi di volontario autolesionismo. Chi li redige, più che della verità storica si preoccupa soprattutto di salvare se stesso, e Senise e Carboni non hanno certamente trasgredito questa Pagina 86
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt regola. Sia l'uno che l'altro avevano infatti molti scheletri nascosti negli armadi che non volevano mettere in piazza. Per giunta, i due uomini non si amavano e nei loro scritti non si risparmiano frecciate velenose e giocano a scaricabarile. Il lettore è quindi avvertito: non si sorprenda nel leggere giudizi opposti e affermazioni contrastanti. Secondo Carmine Senise, Ettore Muti non complottò con i tedeschi. "Era da molto tempo in crisi spirituale" scrive nel suo memoriale "ed era divenuto avverso al fascismo e specialmente a Mussolini. Questo mi confidò egli stesso un anno prima del colpo di Stato: aggiunse anzi che aspettava la fine della guerra per liberare il Paese da Mussolini e dal fascismo ... Dopo il 25 luglio" continua Senise "Muti si ritirò a Fregene e di là mi telefonò per lamentarsi che i carabinieri lo stavano pedinando. Io interessai a suo favore il comandante dell'Arma e le ricerche cessarono. Allora Muti venne da me e mi ripeté i suoi sentimenti dichiarando che intendeva rimanere estraneo alla politica. Mi confidò anche che i tedeschi gli avevano offerto di condurlo in Germania, ma egli aveva rifiutato perché ciò ripugnava al suo onore di soldato. A mia volta gli chiesi se voleva incontrarsi col maresciallo Badoglio. Accettò compiaciuto e l'incontro fu cordialissimo. Ritornati nel mio ufficio, Muti mi disse che aveva avuto più volte occasione di incontrare il maresciallo Kesselring e il generale von Richthofen, e mi chiese se avesse poi dovuto evitare quegli incontri, qualora avessero potuto essere male interpretati. Mi parve sincerissimo e gli risposi che, non solamente non avevo nulla in contrario, ma poiché circolavano già le voci dei noti piani attribuiti ai tedeschi, egli avrebbe potuto rendere un vero servizio al Paese, se avesse cercato di sondare il generale tedesco e mi avesse poi fatto conoscere quanto poteva essere utile al Governo. Dell'incontro di Muti con Badoglio già sappiamo, ma a conferma di quanto scrive Senise, abbiamo rintracciato la sua conversazione con Muti, a suo tempo registrata dal Servizio speciale riservato (SSR), il potente organismo che intercettava tutte le comunicazioni telefoniche. Eccola: sono le 10.35 del mattino del 7 agosto 1943: Fregene. Parla il T.C. Aeronautica Ettore Muti. Roma. Dir. Gen. P.S. Parla S.E. Carmine Senise. Muti: Eccellenza, spero che lei vorrà perdonarmi per l'ardire di telefonarle; ma io so benissimo che lei è una delle poche persone oneste con le quali posso parlare con franchezza e serenità. Entrambi erano ex aviatori e condividevano con Muti la passione per il volo. Si noti l'uso del "lei" in contrapposizione al "voi" di Senise che ne faceva uso non per adeguarsi alle direttive staraciane, ma per vecchia abitudine meridionale. Senise: Per carità, colonnello! Io sono sempre a disposizione di tutti. In che cosa posso esservi utile? Muti: Lei che ben conosce i miei sentimenti nei riguardi di "quelle persone, non ignorerà certamente che ho preferito ritirarmi da tutto e starmene a Fregene. Non solo, ma che, soprattutto, ci tengo al mio onore di soldato e alla mia fede giurata in nome del sovrano. Senise: Di ciò sono pienamente convinto, altrimenti non mi sarei regolato con voi come mi sono regolato. Muti: Lo so e le sono immensamente grato e riconoscente. Aspetto solamente di dimostrarle la mia gratitudine. Senise: Io conosco solamente la giustizia e il dovere. Ma cosa vi succede? Muti: Sono discretamente informato che i carabinieri mi stanno cercando per un eventuale fermo preventivo. Ciò mi addolora moltissimo perché io sono un soldato, e certe cose preferirei non apprenderle indirettamente in quanto non sarei certamente io a rifiuPagina 87
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt tarmi davanti a un ordine legale. Anzi, le dico che se lei, in questo momento, mi ordina di presentarmi in questura o a Regina Coeli, salto in macchina e corro a Roma! Senise: Ma voi scherzate! Piuttosto non sarà una vostra impressione? Sapete, certamente alle volte... Muti: No, Eccellenza, se non fossi più che sicuro non l'avrei disturbata. Senise: State tranquillo che ne parlerò direttamente al comandante generale dei carabinieri, e se le cose stanno come mi avete detto, sarà provveduto immediatamente. Muti: Grazie, Eccellellza. Ero sicuro del suo interessamento. Come si è detto, Carmine Senise nel suo memoriale non risparmia di punzecchiare il generale Carboni, il quale "era un uomo intelligente, ma esulava dal suo compito e amava ingerirsi in affari di polizia politica invece che occuparsi delle informazioni militari che competevano al SIM". Ma fa anche intendere - come d'altronde risulta da altre fonti che l'ambizioso generale mirava molto in alto e che spesso irrideva Badoglio definèndolo "un vecchio dai riflessi ritardati, depresso, avvilito e, soprattutto, spaventato. Ma ecco cosa scrive di Muti il generale Carboni: Dopo il 25 luglio, Ettore Muti non aveva nascosto i suoi propositi di ribellione e lo si era visto circolare vestito in divisa con una grossa pistola al fianco e una grinta minacciosa. Si sapeva che teneva contatti con gli ex battaglioni "M" e con Kesselring e io, non appena ero stato nominato al SIM, avevo ricevuto da Badoglio particolari direttive di far sorvegliare Muti, da lui ritenuto pericolosissimo. La situazione si era tuttavia complicata perché Muti, audacissimo e non privo di abilità, sembrava godere delle simpatie del nuovo Capo della polizia, Senise, con cui si era messo in rapporti diretti e riusciva persino a conferire con Badoglio, il quale, avendo di Muti un vero terrore fisico, era incapace di rifiutare i colloqui allorché questi glieli sollecitava presentandosi d'improvviso al Viminale. Badoglio cercava di giustificare la sua debolezza dicendomi che in tal modo poteva controllare Muti e tenerlo a freno. Ma chi traeva vantaggi reali da questi incontri? Si trovavano a tu per tu un uomo vecchio, intimorito, dai riflessi ritardati, dominato dall'ansia di una preoccupata difesa, e un uomo giovane dai riflessi prontissimi, spregiudicato, àbile, il quale predisponeva questi colloqui di sua iniziativa e con un piano offensivo basato naturalmente sulle qualità negative del suo interlocutore. Premesso che Muti ebbe un solo colloquio con il Maresciallo e che gli accenni alla sua "pericolosità non trovano riscontro negli atti concreti da lui compiuti, Carboni nelle sue memorie insiste sul "terrore fisico" di Badoglio nei confronti di Muti. Sostiene fra l'altro che Muti "con un pugno di seguaci risoluti e il consenso dei tedeschi avrebbe potuto conquistare facilmente il potere". L'opera di persuasione del generale, circa il presunto complotto, giunse comunque a buon fine. "Un giorno racconta infatti Carmine Senise "il generale Carboni, che, senza motivo, si assumeva una parte che non gli spettava, annunziò al Maresciallo Badoglio di avere scoperto un complotto di fascisti i quali sarebbero stati d'accordo con i tedeschi per effettuare un colpo su Roma. Il colpo" continua Senise "avrebbe dovuto essere eseguito, se non ricordo male, il 25 agosto. Il Maresciallo mi comunicò la cosa; ma io gli dissi che a questo complotto non credevo affatto, non fosse altro che per la ragione che i tedeschi non avevano proprio bisogno del concorso dei fascisti, dei quali avevano assai relativa fiducia. Mi pareva strano inoltre che il SIM, dotato di mezzi assai più modesti della Polizia, fosse venuto a conoscenza di una cosa della quale la Polizia era completamente all'oscuro, nonostante la sorveglianza esercitata dal giorno del colpo di Stato sui fascisti. Il Maresciallo, però, ritenendo seria la notizia data dal SIM mi Pagina 88
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt disse di procedere prima della data indicata all'arresto in tutto il Regno dei fascisti pericolosi. Tra le persone da arrestare figurava anche Ettore Muti." Assai diversa e molto più drammatica suona, in proposito, la versione di Carboni. "Un giorno - si era intorno al 21, 22 agosto - scrive il generale - "Badoglio mi chiamò e senza preàmboli mi diede l'òrdine di far arrestare Muti per spionaggio e complotto contro lo Stato. Ero impreparato a ricevere questo ordine e non lo nascosi. Feci notare come l'arresto potesse tradursi in un conflitto perché Muti si recava ogni sera in una villetta nella pineta di Fregene, situata presso gli accampamenti dei paracadutisti tedeschi. La notizia sembrò allarmare Badoglio rendendolo nervoso e preoccupato, ma alla fine confermò l'ordine, dicendo che doveva essere eseguito dai carabinieri, perché solo di questi si fidava. "Il giorno seguente - continua Carboni - trovai Badoglio in preda a una crisi di incertezza. Era pieno di timori: che l'arresto di Muti poteva affrettare l'azione tedesca; che Muti poteva sottrarsi all'arresto; che dopo l'arresto non sapeva dove nasconderlo; che già era sempre più difficile tenere nascosto Mussolini; che, tanto, lui, Badoglio, sarebbe finito ucciso dai tedeschi; che il Re lo aveva messo in un bel pasticcio, ecc. ecc. Appariva depresso e avvilito come non lo avevo visto mai ... Più tardi mi chiese quali erano le ultime notizie sui contatti fra Muti e i tedeschi e gliele precisai. Badoglio esclamò: "Non si può più aspettare, se non lo arrestiamo subito quello ci fa la pelle a tutti". Gli esposi ancora una volta le modalità studiate col Comandante dei carabinieri generale Cerica e ripetei che il pericolo poteva consistere nella sorpresa di trovare dei paracadutisti tedeschi nella villa di Fregene; ma tale eventualità sembrava però da escludere perché Muti, abitando vicino agli accampamenti tedeschi, si considerava già sufficientemente tutelato ed amava essere libero nella villa, dove la sera giungeva sempre in compagnia di donne. "E se si difende?" domandò Badoglio. Risposi che il Comandante dei carabinieri era certo della fidatezza dei suoi uomini. Allora Badoglio rinnovò l'ordine di arresto, ripetendomi più volte: "Mi raccomando, mi raccomando. Se Muti ci scappa, tutto è finito"." Della "delirante paura" di Badoglio abbiamo altre testimonianze. Racconta Carlo Galli, allora ministro della Cultura popolare: Il 22 agosto decisi di andare da Badoglio per esporgli alcuni problemi. Affacciàtomi al suo ufficio, mi accolse dicendomi che aveva poco tempo. Lo guardai stupito e gli dissi che avevo da dirgli delle cose gravi e importanti. Irritato, Badoglio mi rispose: "ma lo sa lei che io mi trovo dinnanzi ad un complotto contro la sicurezza dello Stato?". Il tono e la voce del Maresciallo mi parvero esagerati anche se il fatto che mi denunciava fosse stato vero. Ebbi l'impressione di un eccesso di timore personale. Come il lettore avrà avuto modo di notare, le versioni di Senise e di Carboni non contrastano nell'attribuire a Badoglio l'ordine di arrestare Ettore Muti, bensì nella maturazione dell'ordine stesso. Secondo il capo della polizia, fu Carboni a spaventare Badoglio con la storia dell'inesistente complotto da lui attribuito a Muti; mentre Carboni sostiene al contrario di avere ricevuto "senza preamboli" dal Maresciallo l'ordine di arrestare Muti "per spionaggio e complotto contro lo Stato". Chi dei due sarà il più sincero? Fra l'ottimismo di Senise e il pessimismo di Carboni alla fine vinse quest'ultimo. Badoglio ordinò infatti ai carabinieri di arrestare il maresciallo Cavallero e gli altri "congiurati" (i quali, peraltro, saranno rimessi in libertà dopo un paio di giorni non essendo risultato nulla a loro càriPagina 89
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt co). Per l'esecuzione dell'arresto di Muti furono invece prese delle misure diverse. Di regola, risiedendo Muti a Fregene, l'operazione avrebbe dovuto essere affidata per competenza territoriale al maggiore Quarantelli, comandante del Gruppo esterno dell'Arma, ma Badoglio pretese invece che l'incarico fosse assegnato al comandante del Gruppo interno, tenente colonnello Giovanni Frignani, lo stesso che aveva assolto il delicato compito di arrestare Mussolini a Villa Savoia e del quale il Maresciallo si fidava ciecamente. Da parte sua, Frignani, come era già accaduto a Villa Savoia, avrebbe dovuto incaricare dell'esecuzione del mandato il capitano Paolo Vigneri. Invece, e non si sa per quale ragione, lo affidò al tenente Ezio Taddei, un ex ufficiale dei granatieri passato all'Arma dopo aver lavorato nei servizi segreti. Era un giovane trentenne, alto, robustissimo e noto per essere molto deciso nell'azione. Taddei, dopo aver organizzato la spedizione con la collaborazione del commissario Carmelo Marzano, capo dell'Autocentro del ministero degli Interni, la sera del 23 agosto partì per Fregene, con la sua squadra speciale, per eseguire la missione. Siamo così giunti alla notte fra il 23 e il 24 agosto, quando Ettore Muti, dopo essersi fatto arrestare senza opporre resistenza dal tenente Ezio Taddei, si addentrava nella pineta di Fregene scortato dai carabinieri e da un misterioso personaggio in tuta kaki, senza che neppure l'ombra di uno dei tanto temuti paracadutisti tedeschi comparisse all'orizzonte... 11. UN CADAVERE INGOMBRANTE. Il 24 agosto 1943, l'agenzia nazionale di stampa Stefani mise a rumore tutte le redazioni con il "lancio" del seguente dispaccio: Questa notte, nei dintorni di Roma, è deceduto l'ex segretario del disciolto partito fascista Ettore Muti, medaglia d'oro al valor militare della guerra di Spagna. La notizia apparve sui giornali dell'indomani con un titoletto su una colonna e senza una riga di commento. Il giorno successivo la Stefani eseguì un secondo "lancio" meno stringato del primo: A seguito di accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale, nel quale risultava implicato l'ex segretario del partik fascista Ettore Muti, l'Arma dei Carabinieri procedeva nella notte dal 23 al 24 corrente al fermo del Muti a Fregene. Mentre lo si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco colpi di fucile contro la scorta. Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga, ma, inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai carabinieri, decedeva. Un'altra informazione ufficiale, diramata alcune ore più tardi, contrastava con le precedenti: Stamane è stata trasportata all'ospedale militare del Celio con un'autoambulanza la salma del tenente colonnello Ettore Muti. Il Muti è stato colpito alla nuca da un colpo di arma da fuoco. L'autorità giudiziaria ha iniziato pronte indagini per far luce sulla misteriosa morte. Con queste tre comunicazioni scarne, contraddittorie e confuse veniva liquidato l'unico delitto eccellente compiuto in Italia durante i tormentati "45 giorni di Badoglio". Se qualcuno avesse avuto dubbi sulla fine di Muti, Pagina 90
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sarebbero certamente bastate quelle poche righe per far intendere che la verità era probabilmente l'opposto di quanto si voleva far credere. Ossia che si trattava di un omicidio comandato per togliere di mezzo un personaggio scomodo o pericoloso. Ma si era in tempo di guerra, la stampa era controllata, ai giornalisti non era consentito svolgere indagini e tutto venne sbrigato alla svelta e senza clamori. Si diede per scontato che Muti era stato ucciso mentre tentava la fuga; i risultati della frettolosa inchiesta non furono resi noti; nessuno rivelò qual era l'ente parastatale coinvolto nelle "irregolarità" e non furono naturalmente resi noti i nomi dei componenti la pattuglia mandata ad arrestarlo. Due giorni dopo Muti fu sepolto senza onori, sebbene si trattasse di un eroe di guerra. La salma era stata trasferita nottetempo al cimitero del Verano e venne tumulata alle 15 alla presenza di una ventina di persone, tra le quali la moglie, la figlia, le sorelle, qualche amico e due passanti che si erano uniti al mesto corteo quando avevano saputo che si trattava del funerale di Ettore Muti. A mamma Celestina, rimasta a Ravenna e già in ansia perché il 24 agosto, giorno del suo compleanno, non aveva ricevuto il consueto telegramma d'auguri che Ettore, ovunque si trovasse, non aveva mai dimenticato di inviarle, era stato detto che il figlio era morto a Bengasi, per cause di guerra (soltanto dieci anni dopo scoprirà, per puro caso, la verità leggendo un giornale). Si racconta inoltre che, mentre la bara veniva calata nella fossa, un aereo rimasto sconosciuto, dopo aver volteggiato sopra il cimitero, scese a bassa quota e lasciò cadere una corona di fiori. Ma di questo episodio, come della cerimonia funebre e del prosieguo delle indagini, non fu data alcuna notizia dai giornali e sul caso Muti cadde rapidamente il silenzio. Per il governo Badoglio quella sporca storia andava dimenticata al più presto. Negli ambienti più ristretti della capitale, però, la notizia della morte di Muti destò scalpore, proteste e risentimenti. Appena ne fu informato, il questore Benedetto Norcia, amico intimo dell'ucciso, sentendosi "colpevole" per aver stabilito i contatti fra Muti e Senise, presentò indignato le proprie dimissioni. Fu colto di sorpresa persino il capo della polizia, anche se la cosa appare piuttosto strana, considerato l'incarico da lui ricoperto. Ma che si sia trattato effettivamente di uno stupore sincero lo documenta un'infuocata telefonata mattutina intercorsa fra Carmine Senise e il ministro degli Interni Umberto Ricci. Questo è il testo integrale della conversazione registrata dallo SSR poche ore dopo la consumazione del delitto. Roma, 24 agosto 1943, ore 8.10. Parla S.E. Senise. Parla S.E. Ricci. Senise: Buongiorno, Eccellenza. Ricci: Caro Senise... Senise: Il questore mi ha informato che questa notte a Fregene i carabinieri hanno sparato su Muti che, vistosi circondato, è scappato. Ricci: Già... Senise: E voi credete che il Capo della polizia deve essere l'ultimo a ricevere una notizia del genere? Ricci: E' strano... Senise: Strano o non strano, io mi recherò immediatamente dal maresciallo Badoglio a presentargli le mie dimissioni! Ricci: Mah... Senise: Io sono un uomo tutto d'un pezzo e non ho mai macchiato il nome onorato che porto. Ho servito tutti i governi essendo un fedele servitore della Stato, ma non ho mai commesso carognate del genere! Anche al povero morto ho sempre cercato di venire incontro, perché, parlando tra noi, sono sempre stato convinto che, pur Pagina 91
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt trattandosi di un individuo esaltato, in confronto a tanti altri era un galantuomo. Ricci: Si è certamente esagerato. Senise: Siccome chi dovrebbe dare certi ordini è il Capo della polizia e quel fesso sono io, vorrei sapere chi leverà dalla testa della gente, per lo meno in gran parte, che la colpa è mia, mentre io, invece, non ne saccio proprio 'o riest 'e niente! Ricci: Calmatevi, don Carmine: Voi siete una persona al di sopra di ogni sospetto, e la morte del povero Muti sarà certamente dovuta a tragica fatalità. Comunque, appena arriva il Maresciallo, gli farò presente quanto mi avete riferito. Senise: Grazie e perdonatemi lo sfogo. Aria diversa si respirava invece quella mattina nello studio di Pietro Badoglio al Viminale. A portargli la notizia era stato il generale Giacomo Carboni, che nelle sue memorie, rievocando quell'incontro, sembra scandalizzarsi per la reazione soddisfatta del Maresciallo all'annuncio dell'uccisione di Muti. Non manca infatti di esprimere per l'accaduto sentimenti di contrizione e di pietà che appaiono, a dir poco, sorprendenti visto che era stato Carboni a convincere Badoglio dell'esistenza del "complotto", nonché a organizzare l'operazione di polizia conclùsasi poi a quel modo. Ma ecco cosa racconta Carboni: Quando la mattina, dopo avere ricevuto di buonora la relazione di Cerica, mi presentai al Viminale per comunicare la notizia a Badoglio, il Maresciallo non nascondeva la propria esultanza e la esprimeva con espansioni non in armonìa con il doloroso incidente verificàtosi, nel quale un soldato aveva perso la vita. Sul fatto egli fece pubblicare un comunicato di contenuto inopportuno, anche perché rivelava dell'acrèdine, e per il quale mi recai a protestare. Ne venne allora preparato un altro, che risultò peggiore del primo, ma che, fortunatamente, non venne diramato. Il Capo della polizia, Senise, tentò di inscenare sulla morte di Muti una strana e torbida manovra, tanto improvvisa da farla sospettare premeditata, e che troncai con un brusco intervento durante ulla riunione alla presenza del ministro Ricci. La "torbida manovra" sarebbe consistita nel fatto che il ministro Ricci, dopo la morte di Muti, aveva convocato nel suo ufficio i generali Cerica e Carboni e, in presenza di Senise, li aveva ammoniti a non procedere più per conto proprio, perché la direzione delle operazioni di polizia politica era di esclusiva competenza del ministro dell'Interno. "Dopo di che" racconterà Senise "il ministro Ricci pregò Carboni di comunicargli gli elementi raccolti a carico di Muti e le prove del "complotto" fascista da lui stesso denunciato. Ma Carboni rifiutò." Come si può facilmente dedurre da queste testimonianze contrastanti, uno dei due non raccontava la verità e si è portati a credere che il bugiardo non fosse il capo della polizia. Senise, come sappiamo, non riteneva Muti pericoloso e aveva sempre rifiutato di credere al fantomatico complotto fascista denunciato da Carboni. Ma a questo punto va anche detto, per correttezza, che il capo della polizia, pur ritenendo Carboni responsabile del "pasticciaccio" di Fregene, respingeva l'ipòtesi del delitto premeditato. "E' impossibile credere" osserverà infatti Senise nel dopoguerra, quando il caso sarà riesaminato "che se si pensava di sopprimere Muti, i carabinieri si regolassero con tanta superficialità e leggerezza, agendo di notte e in una pineta popolata. C'erano mille altri sistemi più comodi, meno chiassosi e infinitamente più sicuri per far trovare il cadavere di Muti in un luogo qualunque, con una sventagliata di mitra nel petto. Per la verità, a parte l'evidente gioco a scaricabarile messo in atto da Carboni, nonché le versioni ingarbugliaPagina 92
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt te e contraddittorie che vennero diffuse, forse si potrebbe anche condividere l'opinione del capo della polizia, secondo il quale l'uccisione di Muti sarebbe stata accidentale. Ma non si può non tener conto del momento particolare in cui si verificò il tragico episodio e della fretta e della paura che attanagliavano i suoi ispiratori. Il magistrato militare incaricato di condurre l'inchiesta era il colonnello Antonio Quartulli, un noto penalista richiamato alle armi nel 1942 e nominato procuratore generale del Tribunale militare territoriale di Roma. La mattina del 24 agosto, Quartulli fu convocato d'urgenza all'ospedale militare del Celio e condotto nella sala mortuaria dove giaceva, su un tavolo di marmo, il cadavere di un uomo di alta statura che indossava l'uniforme estiva di ufficiale dell'aeronautica. "Aveva quattro file di decorazioni sul petto" ricorderà Quartulli "e riconobbi immediatamente Ettore Muti." Dopo aver fatto spogliare il cadavere, il magistrato rinvenne della sabbia marina nei risvolti dei pantaloni e ne raccolse un campione. Poi esaminò a lungo il corpo constatando che non presentava tracce di violenza né segni di colluttazione. L'esame della testa rivelò invece una vasta ferita nella regione della nuca. "Due proiettili di mitra" preciserà l'esaminatore "avevano attraversato il cranio dal basso verso l'alto riunendosi così da formare un unico foro ed erano usciti insieme dalla fronte aprendo una vasta ferita e forando la visiera del berretto. Un foro "unico" di entrata era visibile anche sulla parte posteriore del berretto. "Stabilii" conclude Quartulli "che i colpi non erano stati sparati a bruciapelo." Volutamente o no, il magistrato trascurò di considerare un particolare sconcertante, che certamente non sarebbe sfuggito a un investigatore più attento o più volenteroso. Infatti, il foro "unico prodotto dai due proièttili" stava a dimostrare che i colpi, ammesso che non fossero stati sparati a bruciapelo, dovevano comunque essere stati messi a segno da una mano ferma su un bersaglio immobile: un uomo in fuga non può essere colpito nello stesso punto con tanta precisione. Ma questa "stranezza" non venne rimarcata. Non vennero neppure repertati i bossoli dei proièttili che certamente erano sparsi attorno al cadàvere. In seguito il magistrato militare si recò a Fregene. Dopo aver interrogato il brigadiere Barolat, comandante del posto fisso dell'Arma, che aveva fatto da guida alla squadra speciale del tenente Taddei, si recò al villino abitato da Muti in via Colombina. In casa c'erano soltanto la governante Concettina Verità e l'attendente Masaniello. Dana Havlowa, l'amante di Muti, e l'amico di lui Roberto Rivalta erano stati tradotti a Regina Coeli senza un preciso capo d'accusa. Ascoltati i testimoni e ricostruito lo svolgersi dei fatti così come abbiamo raccontato all'inizio di questo libro, Quartulli compì un sopralluogo nello spiazzo in cui era avvenuta l'uccisione. Al riguardo l'inquirente riferisce: Si trovava nel folto del bosco a circa cento passi dalla casa, e qui feci una scoperta interessantissima: constatai che a circa centocinquanta metri di distanza c'era un accampamento di una compagnia italiana, al comando di un capitano, che aveva piantato le tende colà per la difesa costiera. Poco lontano c'era anche una batteria tedesca agli ordini del capitano Schwarz. Nel punto in cui Muti era caduto, notai sabbia uguale a quella trovata nei pantaloni del morto. Sul terreno c'era ancora un grumo di sangue. Più tardi il magistrato interrogò il tenente Taddei il quale, dopo aver ricostruito il percorso compiuto quella notte, ripeté la versione ufficiale dei fatti, ossia che i carabinieri, fatti segno da colpi d'arma da fuoco provenienti dalla macchia, avevano reagito all'attacco e che Muti era stato ucciso mentre cercava di fuggire approfittando della situazione Pagina 93
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt confusa venùtasi a creare. Quartulli interrogò successivamente il tenente di fanteria Gugliotta, che faceva parte della compagnia accampata nella pineta. "Uditi degli spari," dichiarò l'ufficiale "il capitano mi mandò con una pattuglia a ispezionare la macchia e altrettanto fecero i tedeschi dalla parte del mare: temevamo un sbarco di americani. Durante l'ispezione incontrai Taddei: mi spiegò che Muti era stato ucciso perché fuggiva." Anche il comandante tedesco confermò di aver udito gli spari e di aver inviato i suoi uomini in perlustrazione, convinto che si trattasse di un tentativo di sbarco nemico, ma rifiutò di firmare il verbale dichiarando di non essere "autorizzato a sottoscrivere documenti che interessano gli italiani". Proseguendo gli interrogatori, Quartulli raccolse le deposizioni di tutti i carabinieri che avevano partecipato all'operazione notturna e "furono tutti concordi nel raccontare che mentre scortavano Muti ai margini del bosco, erano stati sparati dalla macchia alcuni colpi d'arma da fuoco. Un po' intimoriti, sapendo che i tedeschi si trovavano nei dintorni, s'erano buttati a terra. La notte era buia, senza luna: i carabinieri risposero al fuoco, accettando quello che sembrava l'inizio di un combattimento". "Ad un tratto - è sempre Quartulli che racconta - "il tenente Taddei, per timore che i suoi uomini si ferissero fra loro, ordinò il cessate il fuoco. Fu a questo punto che Muti fece un balzo, si mise a correre verso il bosco e una sventagliata di mitra dei carabinieri l'abbatté." Purtroppo il magistrato inquirente trascurò altri dettagli che sarebbero certamente risultati utili all'inchiesta. Per esempio, non ritenne necessario far cercare nella macchia i bossoli dei proièttili sparati dai presunti attaccanti e trascurò anche di esaminare le armi in dotazione ai carabinieri impegnati nella sparatoria. Quei militi erano tutti armati di moschetto modello 38: soltanto il tenente Taddei, il maresciallo Ricci e lo sconosciuto con la tuta kaki erano armati di mitra Beretta calibro 9 lungo. E Muti era stato ucciso da due colpi di mitra calibro 9 lungo... Fra i testimoni interrogati da Quartulli figurava anche il conte Ugo Sani Navarra, generale di corpo d'armata a riposo e senatore del regno. Sua figlia, presente ai fatti, rilasciò in seguito la seguente deposizione: Nell'agosto del 1943 abitavo con mio padre nel nostro villino di Fregene. Sapevo della presenza di Ettore Muti a cinquecento metri da noi, ma non l'avevo mai incontrato perché egli faceva vita molto ritirata e prendeva il bagno in un punto deserto della spiaggia. Mio padre ne parlava spesso con simpatìa trattandosi di uno dei più valorosi soldati d'ltalia. La prima volta che lo vidi fu un giorno poco prima del Ferragosto 1943. Il brigadiere Barolat del posto fisso di Fregene aveva detto a mio padre che Muti desiderava vederlo. Mio padre lo fece venire sùbito ed il colloquio si svolse nel giardino. Ricordo che Muti si lamentò di essere sottoposto a vigilanza e pregò papà di sentire a Roma se ci fosse qualcosa a suo riguardo. Mio padre si recò l'indomani dal Capo della polizia Senise e al ritorno disse che questi lo aveva rassicurato, mostrandogli un foglio di ex gerarchi ritenuti pericolosi e che il nome di Muti fra questi non figurava. Mio padre riferì a Muti tali assicurazioni e le comunicò anche al brigadiere Barolat il quale rimase meravigliato perché le assicurazioni di Senise contrastavano con l'ordine che egli viceversa aveva di continuare la vigilanza. Fino alla tragica notte fra il 23 e il 24 di Muti in casa non si parlò più. Il nostro villino è a pochi passi dal punto esatto in cui si svolse il fatto e quella notte fummo svegliati di soprassalto ai primi spari. Io udii un grido ed un vociare concitato che non distinsi, perché sùbito coperto da spari più intensi e da scoppi di bombe. Il primo pensiero fu che si trattasse di uno sbarco nemico. La sparatoria infine cessò e tutto tornò silenzio. Mia madre accese la luce e si affacciò alla finestra. Io ero dietro a lei e dalla strada udii una voce che diceva in piemontese: "Sono il brigadiere Barolat. Chiami il generale e Pagina 94
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt chiuda la finestra". Papà dormiva al piano di sotto ed era già uscito in giardino. A esso si fece innanzi un ufficiale, che si presentò come il tenente Taddei dell'Arma, il quale gli disse di essere stato attaccato dal bosco e che nel conflitto, mentre traduceva in stato di arresto l'eccellenza Muti, questi era caduto ucciso. L'ufficiale pregò mio padre di andare a riconoscere la salma. Mio padre rispose che avendolo loro arrestato sapevano bene di chi si trattasse e trovava curioso che chiedessero a lui il riconoscimento. Tuttavia mio padre si avvicinò al cadavere di Muti che giaceva riverso con ferite alla nuca. La faccia era sfigurata e imbrattata di sangue e di terra per cui, come ci disse poi, riconobbe Muti più dall'atletica corporatura e dall'uniforme che dal viso. Mio padre fu molto turbato da questo fatto che gli parve strano fin dal primo momento, tanto più che il tenente Taddei si introdusse in casa nostra salendo fin nelle nostre camere come se cercasse qualcuno che si fosse rifugiato da noi. Mio padre protestò energicamente per quanto era accaduto reclamando un'inchiesta che stabilisse come si erano svolti i fatti. Trovò strano che fosse stato mandato un semplice tenente ad arrestare un colonnello e che, dopo averlo arrestato, lo si portasse a zonzo per il bosco. Il gruppo con l'ufficiale si allontanò e rimasero due carabinieri a guardia della salma e uno nel nostro giardino. Il carabiniere rimasto da noi era Salvatore Frau, (nota: si tratta del mìlite che, insieme al commilitone Antonio Contiero, aveva fatto da guida, in bicicletta, alla squadra di Taddei, fine nota) palafreniere di papà che gli era stato assegnato da tempo, insieme al cavallo, dalla Caserma Pastrengo di Roma. Frau era tutto sconvolto e tremava sotto l'azione di un violento choc. Poiché io ero scesa in giardino, mi chiese delle sigarette che gli offrii. Nessuno di noi poté tornare a letto con l'ossessione di quel morto lì a due passi e con l'ìncubo nel cuore di una fosca tragedia che non appariva affatto chiara. Più tardi, verso le 4, io portai ai due carabinieri rimasti di guardia del cadavere una tazza di caffè. Erano pallidissimi e sostavano a distanza dal corpo di Muti sul quale intanto, per pietà, una signora che abitava vicino a noi aveva disteso una coperta. Quando cominciò ad albeggiare, quanti erano stati in un primo momento diffidati a non uscire e a chiudere le finestre, vennero fuori per constatare quanto era accaduto e fra questi ricordo il professor Enrico Sovena, il colonnello Bertoletti, il signor Calabresi e il signor Orazio Meneghin. Alle ore 5 arrivò un'autoambulanza che caricò il corpo di Muti allontanandosi poi velocemente. I carabinieri, compreso il nostro Frau, si allontanarono anch'essi. Mio padre era molto indignato. Egli in giardino aveva parlato con il carabiniere Frau il quale gli aveva raccontato tutti i particolari del fatto. Particolari che convinsero maggiormente mio padre della esistenza del dolo nella morte di Ettore Muti. Tanto più che è da escludere nella maniera più assoluta qualsiasi attacco di tedeschi o di altre persone. Non era vero che Muti avesse tentato di fuggire. Mio padre si ritirò nel suo studio a scrivere e ci disse che sarebbe poi andato a Roma per protestare. Alle ore 7 il carabiniere Frau fece ritorno da noi come di consueto per ricevere ordini. Gli fu detto di portare il cavallo alle 8. Il suo stato di abbattimento durava ancora e dava la sensazione che agisse come un autòma. Alle 8 Frau non venne; solo più tardi comparve il carabiniere Grazzini per avvertirci che Frau era scappato con il cavallo in preda a grande agitazione. Noi lo vedemmo ricomparire solo dopo che per un giorno e mezzo aveva vagato per la campagna intorno. Mio padre lo fece rientrare alla Caserma Pastrengo e il suo posto fu preso dal carabiniere Grazzini. Dichiaro infine di non avere mai visto nel gruppo il misterioso uomo in tuta kaki e ritengo si sia allontanato subito dopo il fatto. Gli spari nella notte avevano svegliato anche Uliva Marzi, che dormiva nell'abitazione sopra la sua bottega di alimentari. Anche lei pensò si trattasse di uno sbarco alleato che, in quei giorni, tutti in Italia si aspettavano da un momento all'altro. Quando scese dabbasso, i carabinieri le Pagina 95
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt chiesero delle coperte: "Mi spiegarono che servivano per coprire il cadavere di un poco di buono che era stato ammazzato mentre cercava di scappare. Uliva non aveva coperte a disposizione e i mìliti si accontentarono di un paio di sacchi di juta in cui era stato contenuto dello zucchero. Un altro testimone, Riccardo Berardi, che allora aveva diciassette anni, vide il cadavere di Muti accanto a un cespuglio. Era in uniforme, ma notò un particolare sconcertante: "Le mostrine erano state strappate e gettate per terra poco lontano, tanto che mi venne voglia di prenderle". Fra i capannelli che quella mattina si formarono nella pineta circolò con insistenza una voce che intensificò l'atmosfera di sospetto che già circondava l'accaduto. Prima degli spari, qualcuno aveva udito Muti gridare: "Ma che state facendo? Non sono forse tra italiani?". Nessuno tuttavia riuscì a individuare da quale fonte provenisse e Quartulli neppure la registrò nel suo rapporto. Nei giorni che seguirono il magistrato militare interrogò complessivamente 35 persone. L'ultimo a deporre fu il tenente colonnello Giovanni Frignani. Era il 7 settembre 1943. Il comandante del Gruppo interno dell'Arma confermò la versione ufficiale: il generale Cerica gli aveva impartito l'ordine di arrestare Muti, non di ucciderlo. Egli fece rilevare che i suoi uomini si erano comportati nella stessa maniera anche con altri personaggi maggiormente indiziati di Muti e che quindi non c'era stata ragione di agire in modo diverso nei confronti di quest'ultimo. Purtroppo, a differenza degli altri, Muti aveva cercato di fuggire e i carabinieri erano stati costretti a sparare... Il giorno dopo, 8 settembre 1943, con la proclamazione dell'armistizio, l'Italia intera precipitava nel caos. All'alba del giorno 9, la famiglia reale e il governo Badoglio al gran completo fuggivano da Roma per rifugiarsi a Brìndisi sotto la protezione degli Alleati, abbandonando il paese al suo destino. Tuttavia, malgrado la comprensibile confusione, Antonio Quartulli portò avanti la sua inchiesta, e così racconterà in seguito: Mi accingevo a recarmi dal generale Cerica, comandante dell'Arma, per interrogare anche lui, quando sopraggiunse l'armistizio. Il giorno 10, mentre ancora si combatteva a Porta San Paolo contro i tedeschi che penetravano a Roma, venne da me il tenente Taddei il quale mi disse che aveva deciso di mettersi in salvo e che l'archivio del suo comando era stato bruciato. Io portai il fascicolo nel mio alloggio privato di via Amba Aradam 22 dove conclusi il processo e preparai il decreto di archiviazione. Lo motivai affermando che Muti, arrestato perché sospettato di far parte di un complotto contro Badoglio, aveva tentato di fuggire. In forza del regolamento del 1931, che impone di usare le armi in casi simili, la legge era stata applicata. Verso la fine del mese, dopo che i fascisti erano tornati al potere, un commissario di polizia si presentò da Quartulli esibendo una lettera dattilografata di Alessandro Pavolini, segretario del neonato partito fascista repubblicano. In essa si ordinava al nuovo capo della polizia Tullio Tamburini di ritirare le carte del processo relative all'uccisione di Muti. Di fianco, Tamburini aveva scritto con una matita blu: "Si consegni subito l'incartamento". Ma il fascicolo in questione era già stato consegnato da Quartulli al generale Di Stefano, presidente del Tribunale militare, e depositato da questi in cancelleria dove venne infatti recuperato e consegnato agli emissari di Pavolini dal colonnello Battista, cancelliere capo del Tribunale militare. Dopo la costituzione della Repubblica sociale italiana, la morte di Ettore Muti fornì alla propaganda fascista una provvidenziale occasione per alimentare la campagna di odio e diffamazione contro i "traditori del 25 luglio" e contro il governo Badoglio che aveva portato l'Italia alla Pagina 96
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt "vergogna dell'8 settembre". La neonata repubblica aveva infatti un gran bisogno di "martiri, che tuttavia scarseggiavano, visto che, dopo il colpo di Stato del 25 luglio, tutti i gerarchi erano scappati come conigli o si erano precipitati da Badoglio e dal re a giurargli fedeltà. Almeno apparentemente, soltanto Ettore Muti aveva le carte in regola per essere collocato sull'altare dei martiri e degli eroi. La sua morte misteriosa, "a opera dei badogliani", ne forniva la ghiotta opportunità. Muti, inoltre, era il soldato più decorato d'Italia e anche il fascista più genuino e più popolare. Godeva di ampia simpatia in ogni ambiente. Non aveva partecipato alla congiura del 25 luglio (noi sappiamo perché, ma l'opinione pubblica allora lo ignorava) e quindi non figurava nell'elenco dei diciannove gerarchi "traditori" che avevano firmato l'ordine del giorno Grandi. Non mancava neppure il movente per la sua uccisione: c'era infatti la storia del "complotto", inventato di sana pianta da Carboni, ma che ora tornava comodo anche ai fascisti confermare. Muti, come sappiamo, non aveva complottato e appariva evidente che non aveva mai avuto intenzione di farlo (chi si appresta a rovesciare un governo, non si fa pescare il giorno prima a letto con una bella donna, indifeso e disarmato). Ma alla propaganda fascista non interessava andare troppo per il sottile. D'altra parte, ammettere l'esistenza di un complotto guidato da Muti, oltre a eroicizzare la sua figura, serviva anche a dimostrare che i buoni fascisti non erano rimasti abùlici e inoperosi durante i "45 giorni di Badoglio". E infatti numerosi gerarchi, desiderosi di riconquistarsi la verginità perduta, si erano affrettati a confermare quella tesi attribuendosi meriti e complicità che l'eroe scomparso non poteva più smentire. Di conseguenza, al castello di menzogne costruito dai badogliani se ne aggiunse un altro, costruito dai fascisti, che otterrà lo sconsolante risultato di rendere ancor più difficile, in futuro, una veritiera ricostruzione di quanto accadde la notte del 24 agosto nella pineta di Fregene. Gli emissari di Pavolini, che si erano precipitati nella Roma non ancora liberata a frugare negli archivi e a interrogare i testimoni, non cercavano le prove per accertare la verità, bensì quelle indispensabili per accreditare una versione dei fatti, opposta a quella ufficiale, ma altrettanto menzognera. La figura di Ettore Muti venne così mitizzata oltre ogni lìmite. Ignorando volutamente tutte le testimonianze relative alla sua crisi di coscienza e alla sua manifesta volontà di rinunciare a ogni attività politica, egli fu presentato come il primo caduto della guerra civile o, secondo quanto ha scritto Mario Cervi, come "il Matteotti" della Repubblica sociale. "Ora abbiamo anche noi il nostro Matteotti" commentavano infatti i giovani che accorrevano ad arruolarsi nell'esercito della RSI. Il suo martirio fu celebrato con grandi cerimonie e il suo sacrificio citato ad esempio. A Muti furono dedicate caserme, scuole, strade e piazze. Il suo ritratto fu esposto nelle scuole, nei negozi e in tutti gli uffici pubblici. A Milano, all'interno delle Brigate nere, venne anche organizzata una Legione autonoma Ettore Muti composta dai fascisti più arrabbiati che si renderanno responsabili di crimini atroci. Ravenna dedicò al suo eroico figlio eccezionali onoranze funebri. Per volontà di Mussolini, il 18 febbraio 1944 la salma dell'eroe venne riesumata dal camposanto del Verano, a Roma, per essere traslata e inumata nel tempio di San Francesco a Ravenna, dove sono conservate le spoglie di Dante Alighieri. Alla cerimonia parteciparono, oltre a una folla imponente, tutte le autorità militari e politiche della Repubblica sociale, nonché una folta rappresentanza di ufficiali tedeschi. Dopo la lettura di un commosso messaggio del Duce, Alessandro Pavolini pronunciò un apPagina 97
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt passionato elogio funebre dello scomparso. Al di là delle commemorazioni ufficiali, quando a Ravenna si apprese che a organizzare l'operazione di Fregene era stato il tenente colonnello Giovanni Frignani, ci fu anche chi avanzò l'ipòtesi di una vendetta privata. Tutti sapevano che l'ufficiale dei carabinieri era fratello di Giuseppe Frignani, il ras locale, nemico giurato di Muti, che aveva fatto carriera sotto il regime prima come direttore del Banco di Napoli e poi come sottosegretario alle Finanze. Ma questa pista non fu presa in considerazione neppure in seguito, anche perché il colonnello Frignani, arrestato dai fascisti subito dopo l'8 settembre, venne fucilato dai tedeschi alle Fosse Ardeatine con gli altri 335 martiri della nota rappresaglia nazista. Nei giorni che seguirono, il "caso Muti" continuò a essere il cavallo di battaglia della propaganda fascista. Di tanto in tanto i giornali annunciavano sconcertanti "rivelazioni" che alla lunga si rivelavano fallaci o strumentali. Ma il 6 luglio 1944 il "Corriere della Sera" fece un scoop clamoroso: era stato rintracciato un carabiniere che aveva partecipato alla cattura di Muti, il quale aveva rivelato, in un lungo memoriale, come effettivamente si erano svolti i fatti. Si trattava di Antonio Contiero, di Attilio e di Emma Tosetto, nato a Venezia il 6 giugno 1920. Carabiniere, figlio e nipote di carabinieri, dopo l'8 settembre era stato trasferito al Nord ed era entrato a far parte della GNR, la Guardia nazionale repubblicana, che aveva assunto le funzioni e assorbito tutte le stazioni degli ex carabinieri reali. Come si giunse alla stesura del suo memoriale non è molto chiaro. Secondo i giornali dell'epoca, il comando provinciale della GNR di Brescia, dopo aver appreso che nel vicino comune di Orzinuovi prestava servizio un mìlite che aveva partecipato alla spedizione culminata con la morte di Muti, aveva provveduto a raccogliere la sua testimonianza. L'interrogatorio era stato condotto dal capitano Giulio Lanciano. A questo punto occorre però precisare che la testimonianza del carabiniere sarà smentita nel dopoguerra quando il caso Muti, come avremo modo di vedere, verrà riesaminato in tribunale. In tale occasione si rintracciò infatti un testimone, di cui non si rese noto il nome, secondo il quale il Contiero era stato costretto sotto tortura dai fascisti a firmare quella falsa deposizione e subito dopo era stato fucilato. In realtà Contiero non venne fucilato, anche se lui, per paura o per altre ragioni, lo lasciò credere fino a quando non fu rintracciato in un paesino del Trevisano, dove abitava con la moglie e due figli. Contiero, tuttavia, non ammise e non negò i fatti ma, da buon carabiniere uso a obbedir tacendo, rifiutò di rilasciare altre dichiarazioni e continuò a mantenersi nel più assoluto mutismo, malgrado le sostanziose offerte dei rotocalchi che si contendevano le sue memorie. Un bel mistero, come si vede, su cui avremo occasione di tornare. Tale precisazione era comunque necessaria, data la delicatezza dell'argomento in questione. Appare infatti evidente che la fandonia della tortura e della fucilazione serviva a rendere inattendibile una testimonianza non estorta e quasi certamente spontanea e veritiera. Ecco il racconto di Antonio Contiero: Ero carabiniere in servizio alla stazione di Maccarese (Roma) dal 10 aprile 1943 al 9 settembre dello stesso anno. Alle ore 0.30 del 24 agosto (non ricordo se fosse il 23 o il 24) si presentò alla caserma un signore in borghese che si qualificò per il tenente Taddei dei carabinieri. Egli era accompagnato da un maresciallo della squadra speciale presidiaria di Roma, anch'egli in borghese, e da un altro uomo che indossava una tuta color kaki. I tre erano armati di fucile mitragliatore. Come si ricorderà, Taddei chiese di essere accompagnaPagina 98
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt to al posto fisso di Fregene comandato dal brigadiere Barolat, e furono scelti per la bisogna i carabinieri Antonio Contiero e Salvatore Frau. I due, in bicicletta, si misero in cammino, seguiti da una macchina dove avevano preso posto i tre sopraggiunti. Lungo la strada, al corteo si aggiunse un autocarro con a bordo una quindicina di carabinieri in uniforme. L'autoambulanza che faceva parte della colonna rimase invece in attesa a Maccarese. Giunti alla villa di Ettore Muti, il tenente ordinò di circondarla e di aprire il fuoco senza preavviso se si fosse aperta qualche finestra e qualcuno avesse tentato di scavalcarla per scappare. Circondata la villa, il tenente, il brigadiere Barolat, il maresciallo della squadra speciale e l'individuo in tuta si avvicinarono alla porta d'ingresso. Dopo avere bussato diverse volte, la porta fu aperta da un giovanotto che si qualificò per l'attendente. Io che ero poco lontano, udii perfettamente una voce dall'interno che domandava chi aveva bussato. Il brigadiere Barolat, facendosi avanti, rispose: Sono io Eccellenza, il brigadiere della stazione. L'Eccellenza Muti allora venne fuori in pigiama e notando la presenza di Taddei in abito civile e col mitra, seguito dagli altri due armati, domandò chi fossero. Il tenente si presentò esibendo la tessera di riconoscimento, quindi gli comunicò che doveva portarlo con lui. L'Eccellenza Muti allora, dopo avere fatto un gesto di impazienza, si ritirò nella sua camera per vestirsi, ma il tenente Taddei lo seguì nella stanza con Barolat, mentre il maresciallo, il tipo in tuta ed alcuni carabinieri fra i quali ero io, restammo nell'ingresso. In camera, mentre Muti si vestiva, potei udire il tenente che lo invita a a mettersi in borghese. Siccome l'Eccellenza insistette per indossare l'uniforme, il tenente soggiunse: Sarebbe meglio l'abito civile. Tanto le vostre medaglie adesso non contano più". Udii perfettamente l'altro rispondere "Tenente, ricordatevi che sono un colonnello! . Dopo qualche minuto eravamo tutti nel giardino della villa. Mentre gli uomini si adunavano, I'Eccellenza Muti, con le mani incrociate dietro la schiena e la sigaretta in bocca, si fermò a guardare lungamente il cielo stellato. Il tenente quindi ordinò di partire e ricordo perfettamente l'ordine di marcia: avanti Ettore Muti con al fianco destro il maresciallo della squadra speciale, a sinistra il carabiniere Salvatore Frau della stazione di Maccarese e alle spalle il famoso individuo in tuta kaki. Più indietro, alla distanza di dieci o quindici passi circa, seguiva il gruppo dei carabinieri del quale facevo parte anch'io, con al centro il tenente Taddei e il brigadiere Barolat. Giunti lontano un centinaio di metri dalla casa di Muti e precisamente dove la strada piegava a sinistra, il gruppo di testa fece una breve sosta evidentemente per imboccare nel buio la via giusta. In questo istante il tenente domandò: Che succede?" e il maresciallo della squadra speciale rispose: "Niente, sta' buono" e quindi proseguimmo. Dopo circa cinque minuti di cammino il tenente Taddei emise un fischio al quale rispose un altro fischio che partiva dal gruppo in cui si trovava Muti. Pochi istanti dopo sentimmo una raffica di pochi colpi di mitra seguita immediatamente da altre scariche. Alla prima raffica, siccome il tenente ci aveva avvertito che potevamo essere attaccati, ci siamo buttati tutti a terra. Io non vidi le fiamme della prima scarica perché ci colse all'improvviso (e dopo mi resi conto del motivo per cui non la vidi), ma vidi perfettamente le scariche successive, le cui fiamme, partendo dal gruppo di testa, erano rivolte verso destra e in aria. Mentre eravamo tutti a terra, il tenente Taddei lanciò due o tre bombe a mano - almeno ritengo sia stato il tenente - in direzione del gruppo di testa, ma un poco sulla sinistra. Per un momento rimasi convinto che fossimo stati attaccati, e feci fra me delle considerazioni sul fatto che il gruppo di testa sparasse verso destra mentre, a mio parere, l'attacco proveniva da sinistra. Dopo qualche istante però compresi perfettamente quello che era successo, per il fatto che il tenente, cessata la sparatoria, domandò ad alta voce: "Che cosa c'è?", al che il maresciallo della squadra speciale rispose con queste testuali parole: "Finestre chiuse: è andato a casa. Dopo questa risposta, il tenente si alzò e dette l'ordine di adunata. All'adunata era presente il maresciallo della squadra speciale e Pagina 99
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt il famoso individuo in tuta kaki e senza che nessuno avesse proferito parola ci avviamo tutti nella stessa direzione di marcia e dopo una ventina di passi trovammo a terra disteso bocconi Ettore Muti. A questo punto il maresciallo gridò, perché lo udissero tutti: "Siamo stati attaccati da destra ed è rimasto colpito l'Eccellenza Muti". Dopo un breve dialogo fra il tenente e il maresciallo della squadra speciale per stabilire da quale parte si fosse stati attaccati, il tenente, dopo avere constatato la morte dell'Eccellenza Muti, ordinò l'attenti pronunciando queste testuali parole: "Un minuto di raccoglimento per onorare un eroe e non un farabutto" In questo momento l'individuo dalla tuta kaki, che aveva la sigaretta accesa, fece l'atto di dare un calcio alla salma, al cui indirizzo pronunciò parole oltraggiose e quindi scavalcò il cadavere fermandosi a quattro o cinque passi di distanza continuando a fumare. Il tenente Taddei non fiatò a questo gesto. Terminato il minuto di raccoglimento, il tenente ordinò che quattro uomini rimanessero di guardia alla salma mentre il rimanente del gruppo si diresse, con le armi in posizione di pronto impiego, verso la sinistra della strada quasi volesse rastrellare il terreno. Effettivamente ritengo però che il tenente, informato dal brigadiere Barolat che eravamo vicini alla villa abitata dal generale Ugo Sani, volesse rassicurare lo stesso e informarlo dell'accaduto. Il generale difatti, appena informato, scese e visitò la salma domandando poi i particolari dell'incidente. Il tenente raccontò al generale di essere stato attaccato e che durante l'attacco era stato colpito e ucciso l'Eccellenza Muti. Siccome il generale continuava a chiedere come fossimo stati attaccati, il tenente rispose bruscamente che il giorno dopo si sarebbero fatti migliori accertamenti. Ho in mente un particolare, ma non so spiegare come mi sia rimasto in mente, e cioè che Muti fu colpito alle 2.30 precise. Rientrammo in caserma. Il tenente chiese di telefonare a Roma, ma gli fu risposto che vi era una sola linea diretta con la stazione di Maccarese. Mentre eravamo a bere guardai in faccia il famoso individuo dalla tuta kaki ed ebbi modo di constatare che si trattava di un criminale; almeno questa fu l'impressione che provai osservando i suoi lineamenti. Lasciammo il posto fisso verso le 3.30, il tenente direttamente alla volta di Roma, perché ritenne che avrebbe fatto più presto ad andare in macchina che a telefonare, e noi in bicicletta alla stazione di Maccarese. Dico noi per intendere io e il carabiniere Frau. Durante il tratto di strada non ci scambiammo che pochi monosìllabi. Giunti in caserma, il piantone, nell'aprire la porta, mi comunicò che aveva telefonato un ufficiale dell'Arma da Roma, credo fosse il comandante della compagnia interna, chiedendo notizie del tenente Taddei. Richiesi immediatamente la comunicazione ed ebbi al telefono un capitano al quale dissi che il tenente Taddei non gli aveva telefonato perché riteneva di fare più presto arrivando in macchina. Siccome il capitano mi chiese qualcosa che io non compresi, risposi con la seguente frase (perché in quel momento avevo la precisa sensazione che tutto quello che era successo non fosse altro che una messa in scena per giustificare l'uccisione di Muti): "Tutto bene, non è successo niente. Alla mia frase l'ufficiale domandò: "Cosa significa: non è successo niente?. Allora, per non fargli comprendere che ormai avevo capito tutto, rettificai: "Voglio dire che siamo stati attaccati e non abbiamo avuto vittime fra noi. La mattina dopo ho visto il carabiniere Frau il quale, come ho detto, si trovava sulla sinistra di Muti quando avvenne, posso dire, l'assassinio. Era alquanto sconvolto o, per lo meno, molto nervoso. Gli domandai che cosa avesse ed egli mi confessò che non aveva dormito tutta la notte; quindi ricordando l'accaduto, mi raccontò che appena il tenente emise il fischio, colui che rispose con l'altro fischio era stato il maresciallo della squadra speciale e dopo pochi istanti lo stesso maresciallo col gomito toccò il famoso individuo dalla tuta kaki il quale immediatamente alzò la canna del mitra sparando una raffica alla nuca di Ettore Muti. Subito dopo i due si misero a sparare in tutte le direzioni per simulare un attacco. Il carabiniere Frau fece anche la considerazione che, dopo averci obbligato a fare simili servizi (preciso, non a fare, ma a partecipare a simili servizi) si tentava anche di ammazzarci per completare la messa in scena. Ciò il Frau Pagina 100
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt osservava perché aveva avuto la netta sensazione che le bombe fossero state lanciate dal gruppo che era alle sue spalle. Quanto sopra lo ripetemmo anche al maresciallo comandante la stazione di Maccarese, Murittu Paolo, il quale dimostrò chiaramente di essere spoetizzato di quanto era avvenuto. Dissi al maresciallo che avrei avuto piacere di mettere a verbale quanto era accaduto e le nostre impressioni sull'accaduto stesso, facendo firmare il verbale dai tre carabinieri della stazione che avevano partecipato alla poco onorevole impresa. Questo perché pensavamo, io e gli altri miei due colleghi, che in un eventuale domani avremmo potuto mettere luce con un documento su un fatto che forse sarebbe rimasto impreciso. Il maresciallo non fu dello stesso parere per cui la cosa rimase sospesa. Qualche mese dopo la pubblicazione del "memoriale Contiero un altro scoop clamoroso mise a rumore gli ambienti della RSI. Era emersa un'altra prova, ancora più convincente della testimonianza dell'ex carabiniere, che indicava Badoglio quale mandante dell'omicidio di Ettore Muti. Si trattava di un biglietto autògrafo inviato dal Maresciallo al capo della polizia Carmine Senise, il cui contenuto, benché alquanto sibillino, poteva effettivamente essere interpretato come un ordine. Il biglietto era stato recuperato, almeno così si disse, fra le numerose carte che Badoglio aveva abbandonato sul tavolo del suo ufficio al Viminale, prima di fuggire con gli altri per Brindisi la mattina del 9 settembre. A pubblicare per primi la "prova regina del giallo di Fregene furono "Il Popolo di Alessandria" e il settimanale della Legione autonoma Ettore Muti "Siam fatti così". Ma la clamorosa notizia rimbalzò subito su tutti i giornali del Nord. Il biglietto, pubblicato in fotocopia nella sua forma originale e vergato a mano con l'inconfondibile calligrafia del Maresciallo, portava la seguente intestazione: "Il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio del Sabotino, Duca di Addis Abeba". Era datato "20 - agosta [agosta, non agosto] - 43". E questo era il testo: "Per S.E. Senise. - Muti è sempre una minaccia - Il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di preparazione. - V.E. mi ha perfettamente compreso. Badoglio". Come si è già detto, gli investigatori di Salò non guardavano troppo per il sottile, decisi come erano a far trionfare la loro verità. Infatti, il biglietto autògrafo non fu neppure repertato (poi scomparve del tutto) e vennero messe in circolazione soltanto delle fotocopie. Anche il testo, a ben vedere, risultava poco chiaro e di non facile interpretazione, ma su questo punto non si registrarono obiezioni. Gli esperti interrogati dai giornalisti fugarono infatti ogni sospetto ricordando la regola non scritta, ma da tutti rispettata, alla quale pare fossero soliti attenersi gli alti gradi dell'esercito quando dovevano diramare ordini particolarmente delicati. La quale regola suonava cinicamente così: un ordine ben dato deve responsabilizzare soltanto chi lo riceve. Questa sconcertante spiegazione placò anche i più dubbiosi. D'altra parte, durante la guerra di ordini siffatti ne erano stati diramati moltissimi dai comandanti superiori, per la disperazione dei subalterni così furbescamente responsabilizzati. Per fare un solo esempio, basterà ricordare che il 12 settembre, quando il capitano dei carabinieri Fajola, che custodiva Mussolini prigioniero sul Gran Sasso, vedendo sopraggiungere gli alianti tedeschi, chiese ordini a Roma, ottenne questa risposta pilatesca: "Comportarsi con la massima prudenza. Nessuno dunque dubitò della veridicità del biglietto e Badoglio venne direttamente chiamato in causa dai fascisti come il mandante dell'uccisione di Ettore Muti. 12. Pagina 101
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt SETTE ANNI DOPO. Sette anni dopo la sua morte, il "caso" Muti riesplose improvvisamente e in maniera clamorosa. Era il 1950, la guerra era finita da cinque anni e da due la Democrazia cristiana - dopo la vittoria elettorale del 18 aprile 1948 che aveva respinto la minaccia comunista - era al potere e lo sarebbe rimasta per l'altra metà del secolo. In questa atmosfera un po' ovattata, e comunque molto diversa da quella arroventata dell'immediato dopoguerra, anche i fascisti supèrstiti avevano ricominciato a farsi vivi con giornaletti semiclandestini, ricchi soprattutto di denunce e di recriminazioni relative a episodi accaduti nel recente passato. Il più battagliero di questi fogli si intitolava significativamente "Asso di bastoni" ed era diretto da Pietro Caporilli, un fascista irriducibile che non perdeva occasione di "bastonare" virtualmente tutti coloro che, a suo parere, avevano tradito Mussolini e favorito la sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Il suo obiettivo privilegiato erano naturalmente i famosi 45 giorni del governo Badoglio, nel corso dei quali, fra congiure, complotti e tradimenti, si era passati dal crollo del regime alla resa incondizionata e al ribaltamento delle alleanze. Ma è forse inutile aggiungere che queste denunce, quasi sempre infondate o strumentali, assai di rado superavano la ristretta cerchia dei lettori "nostalgici". Non prestare attenzione alle "provocazioni fasciste era d'altronde una regola cui si attenevano gli organi più importanti della stampa nazionale. Nella primavera di quell'anno, forse perché deluso dalla scarsissima eco ottenuta dalla sua ultima campagna contro il "tradimento" degli ammiragli, Pietro Caporilli decise improvvisamente di cambiare sistema. Per forzare i media a occuparsi delle sue "provocazioni , invece delle solite accuse generiche e inascoltate, chiamò direttamente in causa il maresciallo Badoglio accusandolo di essere il mandante dell'omicidio di Ettore Muti. Egli formulò tale accusa attraverso l'Asso di bastoni", ma la rese ancor più pregnante presentando un'articolata denuncia presso la Procura della repubblica di Roma. Tale clamorosa iniziativa non poteva non avere il risultato auspicato da Caporilli, ossia grande risonanza. E infatti così accadde: la stampa nazionale, che di solito ignorava le "farneticazioni" fasciste, dovette necessariamente registrare la grave accusa rivolta al protagonista del colpo di Stato del 25 luglio. Da parte sua, la Procura romana fu costretta - poiché si trattava di un atto dovuto - ad avviare contro Badoglio un'inchiesta giudiziaria che assunse rapidamente più vaste dimensioni. Il "caso, Muti tornò dunque di grande attualità. La notorietà del personaggio era infatti ancora molto viva e il mistero della sua morte rievocato dalla stampa non tardò a catturare l'interesse dell'opinione pubblica. I rotocalchi, allora numerosi e assai diffusi, si impadronirono della stimolante vicenda e la montarono adeguatamente, sguinzagliando i loro inviati alla ricerca dei personaggi che avessero svolto un ruolo qualsiasi nel "giallo di Fregene". La caccia al testimone non risultò sulle prime molto fruttuosa. Per esempio, nessuno scoprì che Muti aveva anche una "famiglia spagnola, che fu perciò lasciata in pace dai cacciatori di scoop. Gli italiani vennero informati della sua esistenza soltanto nel 1953, quando Araceli venne in Italia coi figli Carlos Ettore di ventidue anni e Jolanda, di dieci, per conoscere nonna Celestina e le sue figlie Linda e Maria, con le quali strinsero affettuosi e duraturi rapporti. Araceli e Jolanda rientrarono in Spagna dopo una breve vacanza, mentre il giovane Carlos Ettore si fermò a lungo Pagina 102
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt e partecipò persino alla campagna elettorale del MSI del 7 giugno 1953. Rientrato anche lui in patria, Carlos prestò servizio militare come paracadutista nell'esercito spagnolo, poi lavorò per alcuni anni come operatore cinematografico. E' morto a soli ventotto anni in una sciagura aerea accaduta in Cile. Anche sua sorella Jolanda ha lavorato nel cinema iberico interpretando alcuni film fra i quali El Cid e 55 giorni a Pechino, con Charlton Heston. Per lavoro ha anche conosciuto Sophia Loren. Nel 1994 Araceli e Jolanda sono tornate per l'ultima volta in Italia per donare al Museo dell'aeronautica Gianni Caproni importanti cimeli, lettere, documenti e fotografie appartenuti a Ettore Muti. Frattanto, mentre l'inchiesta sul "caso Muti" muoveva i primi passi, le ricerche dei testimoni avevano continuato a dare risultati negativi: gli sconvolgimenti degli ultimi anni di guerra avevano infatti disperso gran parte dei personaggi della tragedia di Fregene. Non fu possibile, per esempio, rintracciare Masaniello, l'attendente multiuso dell'ex segretario del partito e neppure la sua governante Concettina Verità. Introvabile risultò anche Dana Havlowa, sorpresa nel letto di Muti quando i carabinieri erano andati ad arrestarlo. La deposizione di Dana sarebbe stata probabilmente molto utile allo svolgimento dell'inchiesta, perché la bella soubrette cecoslovacca nascondeva certamente dei segreti. Risulta infatti che la giovane donna godeva di alte protezioni presso il comando tedesco. Probabilmente era una spia. Arrestata dai carabinieri dopo la morte di Muti e tradotta a Regina Coeli, fu liberata subito dopo l'8 settembre e autorizzata a trasferirsi in Spagna sotto il falso nome di Pilar Hernández La Rosa. Con questa identità, fra il 1943 il 1945 Dana viaggiò molto fra Madrid e Lisbona, che erano allora le capitali dello spionaggio internazionale, ma trovò ben presto anche modo di consolarsi della scomparsa dell'amante italiano. Appena tre giorni dopo averlo conosciuto, sposò Alberto Díaz López, un ricco uomo politico spagnolo dal quale divorziò nel 1945, al termine del conflitto mondiale, ricavandone una cospicua liquidazione. Stabilitasi successivamente a New York, l'affascinante avventuriera convolò di nuovo a nozze con il conte Manuel de Teffé, un miliardario messicano campione di corse automobilistiche. Col nuovo marito, la neocontessa lasciò gli Stati Uniti e si trasferì a Rio de Janeiro dove diventò rapidamente un'ammirata protagonista di quella che i brasiliani chiamano la societade carioca. Ma l'attendeva una brutta fine. Sparì infatti misteriosamente nel 1961 insieme a un altro messicano, di nome Leopoldo Hector Mendes, del quale si era follemente innamorata. Di lei non si seppe più nulla per molti anni, e della sua sorte si occupò a lungo la polizia brasiliana che svolse indagini anche in Italia. Si sospettava che fosse stata rapita e uccisa da agenti, forse israeliani, i quali le davano da anni la caccia per punirla dei tanti ebrei che lei avrebbe fatto arrestare dai nazisti durante la guerra. Si tratta però di un'ipòtesi mai confermata. Di certo sappiamo soltanto che le sue ossa vennero ritrovate in un fosso nel 1973. Ma se fu possibile identificarla e accertare che era stata uccisa a colpi di pistola, nessuno riuscì a scoprire il movente dell'omicidio. Quale sia stato il ruolo effettivo svolto da Dana al fianco di Muti, non lo sapremo mai. Continuando a scavare attorno al "giallo di Fregene", altri misteri venivano frattanto a galla rendendo sempre più appassionante la complessa vicenda. A quello relativo alla scomparsa di Dana Havlowa se ne aggiunse ben presto un altro, che riguardava Roberto Rivalta, l'amico di Muti sorpreso in sua compagnia nella villetta di Fregene. Le ricerche svolte sul suo conto rivelarono che anche lui aveva fatto una fine misteriosa. Arrestato dai carabinieri la sera del 24 agosto 1943 a Fregene, Roberto Rivalta fu tradotto a RePagina 103
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt gina Coeli. Liberato dopo l'8 settembre, e interrogato dalla polizia fascista, formulò un preciso identikit del misterioso personaggio con la tuta kaki che, secondo le prime risultanze, veniva indicato come il presunto killer di Muti (di mezza età, stempiato, con gli occhi chiari e l'inconfondibile accento napoletano). In seguito si persero le sue tracce, ma poi Rivalta ricomparve a Ravenna nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra. Viveva solo e ritirato nella sua villa sulla via Faentina, poco lontano dalla città e non risulta che abbia parlato con qualcuno della tragica vicenda di Fregene. Di rado si faceva vedere in giro e, a detta dei suoi conoscenti, aveva cambiato anche modo di vivere. L'ex compagno di baldoria di Ettore Muti, uno scapolone impenitente di quarantacinque anni, si era infatti trasformato in un personaggio riservato e religioso. Tutte le domeniche mattina, di buon'ora, usciva di casa per recarsi alla messa in una chiesa vicina. Fu appunto all'alba di una di queste mattine, pochi giorni dopo la Liberazione, che il suo corpo venne rinvenuto nel rigagnolo che scorreva accanto alla strada da lui percorsa abitualmente. La sua morte tuttavia non destò particolari emozioni: erano giorni difficili e nell'area del cosiddetto "triangolo rosso, trovare un cadavere per strada rientrava purtroppo nella normalità quotidiana. Ma chi aveva ucciso Roberto Rivalta? E perché? Questi interrogativi, ammesso che qualcuno se li sia posti, non ebbero mai una risposta. Il Rivalta presentava una vasta frattura alla nuca provocata da un corpo contundente e morì a seguito di questa ferita, dopo essere rimasto alcuni giorni in coma. Secondo alcuni testimoni, sul luogo dell'incidente era stato visto un veicolo militare, con a bordo degli uomini nell'uniforme dell'esercito badogliano, il quale si era poi rapidamente allontanato senza che fosse prestato soccorso alla vittima. La morte dell'imprenditore fu perciò frettolosamente attribuita a un infortunio stradale e non se ne parlò più. Risultato: un altro testimone in meno e un altro mistero in più. Mentre l'inchiesta della magistratura stentava a prendere il via, i rotocalchi continuavano a dare spazio ad altre rivelazioni che risultavano spesso fuorvianti o contraddittorie. Emerse così, attorno al "giallo di Fregene", un nuovo polverone che, confondendosi con quelli precedenti, sollevati prima dai "badogliani" e dopo dai "repubblichini", diede origine a un vòrtice turbinoso di versioni contrastanti, di accuse velenose e di difese imbarazzate in cui era sempre più difficile orientarsi. La mescolanza del vero col falso è sempre un ostacolo alla ricerca della verità. Eppure, malgrado tanta confusione, sarebbe stato ancora possibile venire a capo dell'intrigo. Infatti, anche se alcuni testimoni erano scomparsi, i principali protagonisti della vicenda erano tutti vivi e facilmente raggiungibili. Anzi, è forse il caso di aggiungere che per un magistrato dei nostri giorni, di quelli, per intenderci, che amano le luci della ribalta e che rivelano maggiore energia investigativa quando si trovano al cospetto di imputati eccellenti, quell'inchiesta sarebbe stata un invito a nozze. Ma i tempi di allora erano diversi e i magistrati anche. L'inchiesta sul caso "Muti-Badoglio" fu infine affidata al sostituto procuratore Giuseppe Rubino, un magistrato serio, corretto e riservato che si mise al lavoro adottando i metodi allora in uso, ossia i prudenti omissis, la massima riservatezza e tutte quelle rispettose cautele verso i testimoni importanti, i quali, come vedremo, se non impedirono, certo non favorirono la ricerca della verità. I "pilastri" sui quali si basava la denuncia di Caporilli apparivano a prima vista molto solidi e suscitarono grande curiosità fra gli italiani, in quel momento assai scarsamente informati sulla morte di Ettore Muti. Si trattava, com'è facile immaginare, della testimonianza dell'ex carabiniere Pagina 104
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Contiero e del sibillino ordine autògrafo di Badoglio a Senise, che già conosciamo. Ma al dottor Rubino della curiosità del pubblico importava poco o nulla, e si limitò ad avviare (forse di malavoglia, perché l'atto, anche se dovuto, certamente non era desiderato) la consueta routine degli interrogatori, senza forzare i tempi e concedendosi lunghi periodi di riflessione. Infatti, l'inchiesta si prolungherà per oltre un anno. Il primo a essere interrogato fu l'ottantenne maresciallo Badoglio il quale, avvalendosi della legge che consentiva a "prìncipi reali, cardinali e grandi ufficiali dello Stato" di scegliere il luogo dove poteva essere raccolta la loro deposizione, scelse la sua villa romana di via Bruxelles 59. Rubino vi si recò all'ora fissata e Badoglio non fece altro che ripetergli la versione ufficiale dei fatti, resa nota a suo tempo con il comunicato alla stampa del 24 agosto 1943. Il colloquio, poiché si trattò di un colloquio e non di un interrogatorio, fu pacato e cordiale e si protrasse per circa un'ora alla presenza degli avvocati del Maresciallo. Al termine, il magistrato dichiarò che Badoglio desiderava non si facesse chiasso sul suo nome, mentre i legali della difesa annunciarono che "non intendevano controquerelare" il Caporilli, che non avrebbero richiesto risarcimenti e che avrebbero combattuto le sue accuse solo "per giungere all'archiviazione della denuncia". Particolare interessante: nel corso del colloquio, nonostante l'opposizione dei suoi legali, il Maresciallo ammise che, forse, quel biglietto a Senise lo aveva effettivamente scritto, ma che non ricordava bene per quale motivo e che il suo significato doveva essere diversamente interpretato... Quando fu a sua volta interrogato dal dottor Rubino, Carmine Senise ammise invece di aver appreso di quel biglietto dalla radio della RSI, mentre si trovava prigioniero dei tedeschi, ma di non aver subìto alcuna conseguenza. Negò comunque di averlo ricevuto (come avrebbe fatto a riceverlo visto che il biglietto era stato trovato sul tavolo di Badoglio?), anche se non escludeva che il Maresciallo potesse aver effettivamente scritto quel "promemoria , senza poi trovare il tempo, in quelle giornate convulse, di farglielo recapitare. Mentre l'Asso di bastoni" continuava la sua campagna di stampa con un profluvio di rivelazioni sempre più sensazionali, gli interrogatori del dottor Rubino, intercalati da lunghi rinvii, riportarono sotto i riflettori della ribalta giornalistica personaggi da tempo dimenticati. Il generale Cerica, ex comandante dei carabinieri, ripeté di aver ricevuto l'ordine di arrestare Muti direttamente dal generale Giacomo Carboni e di averne affidato l'esecuzione al tenente colonnello Frignani. Da parte sua, Ezio Taddei, diventato nel frattempo capitano, non aggiunse nulla di nuovo. Semmai enfatizzò la rischiosità dell'operazione, a causa della presenza nella pineta di Fregene di militari tedeschi, i quali, a suo dire, "pullulavano attorno alla villetta di Muti" e avevano con lui "non documentate ma certissime relazioni". Infatti, affermò l'ufficiale, "i tedeschi ebbero sentore della decisione presa dal governo Badoglio e intervennero mentre stavamo catturando l'ex segretario del partito: essi spararono contro di noi, Muti cercò di fuggire, fu raggiunto da alcuni colpi e cadde ucciso". A proposito dell'accusa relativa all'uccisione di Muti, il capitano Taddei si concesse anche una battuta di spirito. "Se mi avessero dato l'ordine di sopprimere Muti," dichiarò al magistrato "avrei arrestato chi me lo ordinava, chiunque esso fosse e, invece che portarlo al Forte Boccea, dove avevo già personalmente condotto il maresciallo Cavallero, il generale Teruzzi e altri gerarchi, lo avrei accompagnato al manicomio." Anche in questo caso, il dottor Rubino si limitò ad ascolPagina 105
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt tare il teste e a verbalizzare la deposizione. Non risulta infatti gli abbia posto quesiti insidiosi o chiesto spiegazioni chiarificatrici, anche se, a ben vedere, neppure il più ingenuo degli investigatori si sarebbe risparmiato la seguente domanda: visto che la pineta "pullulava" di tedeschi, perché Taddei vi si inoltrò a piedi con i suoi uomini per portare Muti "a zonzo nel bosco", come aveva osservato il generale Sani? Non sarebbe stato meno rischioso trasferire Muti a Roma con gli automezzi a sua disposizione, così come aveva fatto con Rivalta e con la Havlowa? Ma di domande inevase e di interrogativi in sospeso, l'inchiesta condotta dal dottor Rubino appare stracolma. Anzi, si ricava la netta sensazione che il magistrato non avesse una gran voglia di portarla avanti e che facesse tutto il possibile per arginare la fastidiosa petulanza dell'Asso di bastoni", che continuava a sciorinare prove e controprove sul suo tavolo. Prendiamo per esempio la discussa testimonianza del carabiniere Contiero. All'inizio dell'inchiesta, essa fu subito definita inattendibile. "Un ex carabiniere che fu compagno di Antonio Contiero nella GNR" si legge nel dispositivo del magistrato "ha davanti a noi dichiarato: "Mi ricordo perfettamente Contiero, era un bravo ragazzo, taciturno e riflessivo; non amava parlare del suo passato. Una mattina di primavera del 1944 fu improvvisamente arrestato. Non riuscimmo in un primo momento a conoscere il motivo della sua cattura. In seguito, sapemmo che l'avevano ferocemente torturato, per giorni e per notti intere. Si volevano conoscere da lui particolari sulla fine di Muti; quando ebbero ottenuto tutto ciò che volevano, gli inquisitori obbligarono Contiero a firmare un verbale senza lasciarglielo nemmeno leggere. Subito dopo lo fucilarono" . Di fronte a una testimonianza di questo tenore pareva ci fosse poco da obiettare. Invece, sorpresa: l'Asso di bastoni" tornò alla carica dimostrando che Contiero era vivo e vègeto: nessuno lo aveva torturato né fucilato. Ora abitava con la moglie e due figli in un paese del Trevisano e bastava semplicemente convocarlo a Roma per conoscere dalla sua viva voce qual era la verità. Ma ciò non accadde, anzi, il poveretto venne lasciato in balìa dei giornalisti e alle prese con i rotocalchi che si contendevano le sue memorie con offerte molto cospicue di denaro. Lui comunque resistette a ogni tentazione: non parlò con nessuno (salvo forse con il comando dell'Arma che probabilmente gli impose il silenzio), non negò e non smentì la testimonianza che gli era stata "estorta", non fece altre rivelazioni e, in qualche occasione, non nascose di essere anche molto spaventato. Da parte loro, i giornali gli attribuirono parole non dette e azioni non fatte sollevando attorno a lui il solito polverone che consentì alla Procura di Roma di non interrogare il teste e di liquidare definitivamente la sua testimonianza con questa sconcertante ordinanza: "Le diverse e successive versioni dei fatti mostrano che Antonio Contiero affermò circostanze non vere, in parte da lui stesso ritrattate, in parte smentite dalle risultanze dell'istruttoria. Il comportamento equivoco del teste denota che egli merita scarsa o nessuna fede". Tolto di mezzo l'imbarazzante testimone, restavano comunque altri nodi da sciogliere prima di poter giungere all'auspicata archiviazione della scottante vicenda. Per esempio: era veramente esistito il misterioso personaggio in tuta kaki, indicato da Contiero e da Frau come il killer che aveva sparato alla nuca di Muti? Anche in questo caso, la prima risposta ufficiale fu negativa: per quante ricerche fossero state svolte, del personaggio in questione non era stata trovata traccia alcuna. Ma in soccorso, si fa per dire, degli inquirenti, giunse ancora una volta la puntuale precisazione del giornalista Caporilli. L'uomo in kaki non era Pagina 106
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt un fantasma, era un uomo in carne e ossa, con un nome e un cognome: Francesco Abate, agente di PS, originario di Napoli. Successivamente il dottor Coriolano Pagnozzi, un alto funzionario di polizia emigrato in Argentina dopo aver aderito alla Repubblica sociale, si farà vivo per spiegare la "stranezza" dell'impiego di un agente di PS in un'azione condotta dai carabinieri. Secondo Pagnozzi, l'uomo in tuta kaki era stato fornito dall'Autocentro del ministero dell'Interno, di cui era capo il dottor Carmelo Marzano, in quanto "i carabinieri non avrebbero mai accettato l'incarico di sopprimere Muti, anche perché l'Arma, per lunga e mai smentita tradizione, si è sempre rifiutata di dare i suoi uomini ai plotoni d'esecuzione, i quali sono sempre stati forniti dalla polizia, che aveva perfino nel bilancio un piccolo fondo per le gratifiche ai giustizieri e per il cognac ai morituri". Il presunto killer di Ettore Muti dunque esisteva e non ci sono dubbi che, volendo, sarebbe stato possibile rintracciarlo ma, evidentemente, neanche la sua testimonianza fu ritenuta indispensabile. Non si ritenne neppure necessario interrogare il commissario di PS Carmelo Marzano, che più volte abbiamo incontrato in questa vicenda e che, come sappiamo, collaborò attivamente col tenente colonnello Frignani per la cattura di Mussolini, di Muti e di altri gerarchi. D'altra parte, che Marzano abbia svolto in proposito un ruolo molto importante lo si deduce da quanto si legge nel diario del generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele Terzo. "Conversazione delicata con Sua Maestà" scriveva in quei giorni il generale. E aggiungeva: Metto in guardia il Sovrano circa un decreto che proprio in questi giorni dovrebbe essere sottoposto alla sua firma. Si tratta di una disposizione per il passaggio diretto nell'Arma dei Carabinieri, con il grado di maggiore o di capitano, di elementi provenienti dalla polizia. Il decreto, a quanto mi risulta, sarebbe stato predisposto per favorire il commissario Marzano, protetto da Acquarone, da Badoglio, da Cerica e da Ambrosio e vorrebbe essere un premio per la parte che Marzano ha avuto nell'arresto di Mussolini ... Sembra che qualcuno molto in alto abbia fatto a Marzano promesse concrete per quanto ha fatto e continua a fare in relazione all'epurazione degli elementi fascisti. Oltre ad essere stato un elemento di primo piano nell'operazione di Villa Savoia, ha avuto un ruolo importante anche nell'arresto di Muti, conclusosi in maniera così tragica. Per la cronaca, Marzano non ebbe quel "premio". Rimase infatti nella PS e in seguito, nel dopoguerra, fece una brillante carriera all'ombra dell'onorevole Fernando Tambroni il quale, negli anni Sessanta, lo nominò questore di Roma. Era candidato a diventare capo della polizia quando, per un banale bisticcio con un vigile urbano di nome Melone, venne a trovarsi in una situazione molto difficile che lo costrinse a dare le dimissioni. Tornando all'inchiesta del dottor Rubino, tutto andava avanti con una certa stanchezza. A togliere, per così dire, le castagne dal fuoco, provvide l'avvocato Ferruccio Liuzzi, difensore di Badoglio, con una clamorosa rivelazione. Più che un colpo di scena, fu un terremoto. Il famoso biglietto di Badoglio a Senise, di cui neppure i diretti interessati avevano osato mettere in dubbio l'autenticità e sul quale il giornalista Pietro Caporilli aveva basato la sua accusa, sottoposto all'attento esame del professor Franco Bartoloni, esperto perito callìgrafo, era risultato falso. Indiscutibilmente falso. Lo stesso Caporilli fu costretto ad ammettere di essere stato a conoscenza della sua contraffazione e di averlo ugualmente utilizzato nella convinzione che nessuno sarebbe riuscito a scoprirla. Tale clamorosa rivelazione fu per la difesa una grande vittoria e per l'accusa un colpo Pagina 107
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt mortale: se quel biglietto era falso, si convenne, anche tutto il resto doveva esserlo. Non restava quindi che archiviare la denuncia e rinunciare definitivamente alla ricerca di un'imbarazzante verità. Come nei romanzi d'appendice, per ricostruire la storia di questo biglietto bisogna fare alcuni passi indietro e risalire ai tempi della Repubblica sociale. Per svolgere la loro attività propagandistica, i fascisti di Salò avevano organizzato un ufficio falsi molto efficiente al quale si devono, fra l'altro, gran parte dei presunti carteggi fra Churchill e Mussolini, nonché altri documenti contraffatti che, confusi ad arte con altri indubbiamente autentici, furono nell'immediato dopoguerra al centro di complesse vicende giornalistiche e giudiziarie. L'idea di fabbricare una "prova per confermare il diffuso sospetto che fosse stato Badoglio a ordinare l'uccisione di Muti era venuta in mente al direttore del Popolo di Alessandria" Gian Gaetano Cabella. Questi aveva affidato il compito ai falsari delle Volpi azzurre (così si chiamava la centrale spionistica repubblichina), i quali, lavorando con grande abilità di forbici e di colla erano giunti alla composizione di un testo compromettente, riprodotto poi fotograficamente su un biglietto personale del maresciallo Badoglio. Come si ricorderà, l'apòcrifo era il seguente: "20 agosta - 43 - Per S.E. Senise - Muti è sempre una minaccia: il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di preparazione. - V.E. mi ha perfettamente compreso. Badoglio". Esso fu poi distribuito in fotocopia alla stampa, che lo diffuse senza sollevare il minimo sospetto, in quanto sia il senso sia la calligrafìa del Maresciallo lo rendevano assolutamente verosimile. Il perito callìgrafo Franco Bartoloni dimostrò invece la sua falsità dopo un esame lungo e minuzioso. Egli scoprì infatti che il "documento accusatore" era il frutto di un'operazione certosina compiuta dai falsari su un rapporto autògrafo di Badoglio a Mussolini, scritto ai tempi della campagna d'Abissinia e riprodotto in originale nel libro La guerra d'Etiòpia. Il falso autògrafo era stato compilato incollando frasi, parole e semplici lettere estrapolate dal rapporto autentico. Per esempio, il nome di Muti risultava composto dalla "Mu" di "Mussolini" e dalla "ti" di "tutti". Più difficile risultò formare la data. Perché "agosta" e non "agosto"? Semplicemente perché non fu trovata una "o" minuscola disponibile e vennero così utilizzate la "a" di "assetta", la "g" di "genti" e la finale "osta di "risposta". Non mancava neppure un particolare curioso dal significato sinistro. La frase "Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso" è la stessa che il barone Scarpia pronuncia nel secondo atto della Tosca per ordinare la fucilazione di Mario Cavaradossi. Evidentemente l'abile falsario era un melòmane. Terminava così, in una bolla di sapone, un'inchiesta durata circa un anno e seguita con appassionata attenzione dall'opinione pubblica. L'ordinanza di archiviazione fu depositata nella cancelleria del Tribunale di Roma il 18 agosto 1951 dal consigliere istruttore Mario Castaldi. Essa consisteva in 149 pagine dattiloscritte in cui si cercava di dare una risposta plausibile ai tanti interrogativi rimasti in sospeso, onde dimostrare l'estraneità di Pietro Badoglio all'accusa di aver ordinato l'uccisione di Ettore Muti. Rileggendola, si ricava tuttavia la sensazione che anche i giudici non fossero del tutto convinti che si trattasse, come essi stessi sostenevano, di una "disgraziata circostanza. Qua e là, infatti, emergono dubbi, osservazioni particolari e anche, par di capire, l'indicazione di altre piste che sarebbe stato necessario seguire per accertare la verità. "L'uccisione di Muti" osservano a un certo punto gli estensori "presta indubbiamente il fianco a varie critiche, sia sul modo come l'operazione fu condotta sia per i partiPagina 108
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt colari che portarono al tragico epilogo." Più avanti si dedica ampio spazio al ruolo (a nostro parere determinante) svolto nella vicenda dal generale Giacomo Carboni, che nel frattempo era stato eletto in Parlamento come "indipendente" nelle liste del PCI. A quanto risulta, non venne neppure chiamato a deporre. "Fu il generale Carboni, capo del SIM" si afferma infatti nell'ordinanza "a suscitare in Badoglio paura e sospetti sull'attività di Muti il quale, a suo dire, avrebbe fatto una specie di doppio gioco, tramando con i tedeschi per il rovesciamento del nuovo governo ... Certo è che solo Carboni ebbe a riferire al Maresciallo notizie di ciò che avrebbero tramato i fascisti con a capo Muti e Cavallero. Altri, infatti, all'infuori di Carboni, nulla sapevano di tali trame." Sul perché Carboni si fosse inventato questo complotto, l'ordinanza dei giudici non si sofferma. Ma noi ne conosciamo il motivo. Anzi, va sottolineato che anche dopo la "disgraziata circostanza l'ambizioso generale perseguì tenacemente il suo progetto di scalzare Badoglio da capo del governo per prenderne il posto. L'ultimo tentativo lo compì addirittura nel pomeriggio dell'8 settembre mentre il Consiglio della Corona era riunito per annunciare l'avvenuto armistizio. Avanzando una serie di pretesti, Giacomo Carboni propose infatti di rinviare l'annuncio al 12 settembre dopo la costituzione di un nuovo governo di cui lui stesso avrebbe assunto la guida. Quel tentativo estremo fallì semplicemente perché gli Alleati, stanchi delle nostre lungaggini, annunciarono unilateralmente l'armistizio mettendo gli italiani di fronte al fatto compiuto. Ma tutte queste considerazioni, che verosimilmente avrebbero forse potuto consentire di fare piena luce sul "giallo di Fregene, comportavano l'avvio di una seconda inchiesta che nessuno desiderava portare avanti. Meglio dunque chiudere la partita e rinunciare a scoprire chi, in quella tragica estate del '43, poteva avere ordinato: "Ammazzate quel fascista!". Il dispositivo di archiviazione si chiudeva con queste parole: Nessun mandato d'uccidere Ettore Muti, ex segretario del partito fascista, venne impartito da Pietro Badoglio, né da altri, nell'estate dei 1943. L'arresto del gerarca non fu dovuto all'iniziativa dell'allora Capo del governo, ma piuttosto alle sollecitazioni del generale Giacomo Carboni, commissario straordinario del servizio informazioni militari. La denuncia sporta il 21 agosto 1950 contro il Maresciallo dal direttore del settimanale "Asso di bastoni , Pietro Caporilli, va pertanto archiviata per manifesta infondatezza. Si chiudeva così, con una pagina oscura ed equìvoca, la vita spericolata, avventurosa e romanzesca di un fascista anòmalo che godeva di una vastissima popolarità anche fra gli italiani non fascisti. Non esistono dubbi che qualcuno abbia ordinato di uccidere Muti. Tuttavia è probabile che Badoglio non fosse a conoscenza di questo risvolto criminale. Ancora più probabile è che non ne abbia voluto sapere: quel delitto era una faccenda da servizi segreti. Ma i capi, anche se estranei o innocenti, restano sempre macchiati dai delitti commessi dai loro uomini. Mussolini non aveva ordinato l'assassinio di Matteotti, ma la storia glielo ha ugualmente attribuito. Così è capitato a Badoglio per l'affare Muti. FINE. RINGRAZIAMENTI. Desidero ringraziare in particolare Franco e Nicla Gabici per l'affettuosa assistenza. E ancora Antonella Alvisi della Poligrafici EditoPagina 109
Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt riale, Dante Bolognesi, direttore della Biblioteca A. Oriani di Ravenna, Luigi Malkowsky, vicedirettore della Biblioteca Classense di Ravenna, Paolo Nardi, Gianni Rivolta, F. Brunelli, il dottor Ugo Introini dell'Ospedale San Raffaele di Milano e l'amico Folco Quilici che, con apporti diversi, mi hanno aiutato a realizzare questo libro.
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