J.P. RYLAN
IL SANTUARIO DELLE TENEBRE (2007) "... In mezzo al Vuoto, laggiù Vemerin edificherà la sua città. Cinta di u...
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J.P. RYLAN
IL SANTUARIO DELLE TENEBRE (2007) "... In mezzo al Vuoto, laggiù Vemerin edificherà la sua città. Cinta di un cerchio di ferro e di rame, il suo nome sarà Anharra, il luogo dove i vivi e i morti si incontrano. Là il Re pazzo accumulerà i suoi tesori. Là sorgeranno dalle profondità le Tenebre, e verseranno nei suoi orecchi il veleno della loro oscena saggezza. Gli insegneranno a spingere lo sguardo oltre i confini della morte. E scivolerà nell'orrore, annichilito da ciò che avrà visto. Là, sotto la luce fredda della stella Nester, verrà chiuso a forza nella sua tomba. Non vivo e non morto attenderà per trenta secoli, finché l'astro non tornerà a specchiarsi nelle fontane del suo regno. Quando quella luce lo risveglierà, dando vita e artigli alla sua vendetta. Allora Vemerin si leverà dalla tomba, e la sua ombra scivolerà sulle terre dell'Impero, spargendo ovunque il seme della follia. Nel tripudio di una corte di mostri. Nessuno sulla sua strada. Se non la lama di un giovane eroe senza passato. Se non la scienza di un vecchio che sogna di impadronirsi del suo potere. Se non l'ostinazione di donne che cercano e danno amore. Saranno loro a difendere la causa degli uomini, e sulle pietre della città verranno scolpiti i loro nomi. Vargo, il senza passato. Che porta su di sé il peso di un antico tradimento. E Amnor di Mennon, l'inquisitore imperiale, il signore delle Afflizioni. E le due Sgualdrine, Shanda e Khaima, regine e vittime della bellezza. Ad Anharra la tremenda converranno dai quattro angoli del Vuoto. Ascolteranno i lamenti che accompagnano le sue notti. Percorreranno insieme la via del Dolore. Attraverseranno la Sala delle mille colonne, varcheranno i confini della tomba di bronzo. Assisteranno al ritorno di esseri terribili, che gli dei hanno creato per un gioco perfido: rivali degli uomini, destinati a sostituirli nel dominio della Terra.
Non conosco l'esito della lotta, il velo del futuro è troppo pesante sui miei occhi. Ma geme il mio cuore per loro, mentre fuggono dalla città maledetta, mentre i cavalli del Re alitano sui loro colli..." dalla Profezia di Kurghan, nelle Tavole della Biblioteca di Menthor 1 Ad Anharra cominciò la follia, là la follia conoscerà il suo termine. Là i vivi si aggirano fra le tombe, i morti devastano la terra. Cosa cercano tra le tue fontane prosciugate? Quali segreti trafugano dalle tue rovine? dalle Tavole, conservate nella Sala Negata della Biblioteca di Menthor Lo sperone di roccia vibrò sotto la spinta della possente macchina che era entrata in funzione. Tutta la corona metallica di Anharra avvampava alla luce del sole al tramonto e il suo bagliore si spandeva nella vallata, accendendo di riflessi rossastri le rocce vetrificate sul fondo del cratere. «Guardate!» gridò Vargo dalla cima della torre in cui lui e i suoi compagni avevano trovato rifugio. «La cinta delle mura interne ha cominciato a ruotare! Le porte stanno per aprirsi!» Erano fuggiti a briglia sciolta, raggiungendo quel vecchio punto d'osservazione, a nemmeno due miglia dalla città. Di lì avevano una vista perfetta delle mura e della pianura sotto i bastioni della città della follia. Il tremito del terreno si avvertiva distintamente anche da lontano. «È così» mormorò il vecchio Amnor, con gli occhi fissi allo spettacolo che si andava profilando. Sembrava trasognato, come se la sua mente fosse ancora sulla Via del Dolore, davanti alla tomba del Re pazzo. «Le truppe dell'Impero! Devono essersi accorti di quello che succede!» esclamò alle loro spalle il sergente Kon. Ai piedi della rupe la colonna degli imperiali si era arrestata davanti alla scarpata che saliva verso una delle porte. La nube di polvere sollevata dai
fanti e dai carri da battaglia durante l'avanzata rendeva difficile valutare le forze in campo. Anche i rumori, un impasto confuso di ordini gridati, squilli di tromba, ruote in movimento, nitriti, giungevano lontani e appena distinguibili nel frastuono metallico prodotto dalle mura. La truppa stava disponendosi in formazione d'attacco: ne erano un chiaro segnale il movimento frenetico degli stendardi delle staffette, che a tratti balenavano nel turbinio, e l'allargarsi degli uomini in grandi ranghi quadrati di lancieri, preceduti dalla doppia linea degli arcieri. Subito dietro si intravedevano gli addetti alle catapulte attorno alle grandi ruote delle macchine, curvi nello sforzo di spingerle in posizione di tiro. Altri andavano ammucchiando ai loro fianchi alte piramidi di pietre, prelevate nel terreno circostante. Ancora più indietro un lungo tiro di cavalli si avvicinava, trainando tra due ali di soldati un enorme ariete dalla punta rinforzata di bronzo. «Il Pugno dell'Imperatore!» aggiunse eccitato il sergente. «Si preparano ad attaccare il portale!» «Non sanno quello che li aspetta» mormorò ancora Amnor. Furioso, Kon si voltò verso di lui. «C'è la Guardia imperiale davanti a tutti! Quegli uomini sono allenati per ogni genere d'impresa. Possono spazzare via tutti i tuoi diavoli, vecchio!» «Credevo che quello che hai già visto lì dentro fosse stato sufficiente ad aprirti gli occhi. Ma sembri più cieco di loro» replicò beffardo Amnor, puntando la mano verso Anharra. «Là, sulla cupola della tomba.» Kon si volse nella direzione indicata. Al centro della cerchia di mura, proprio sopra i resti della cupola squassata dal terremoto, una nube ronzante si andava infittendo. Intanto lo stridore meccanico dei movimenti delle porte era cessato, sommerso da un nuovo rumore che Vargo non aveva mai udito prima. Era come se le viscere stesse della terra avessero preso a urlare, un ruggito di belva altissimo, che rimbalzava in mille echi nella piana pietrosa. A quel suono gli assedianti diedero segni di sbigottimento. I movimenti della truppa, che fino a un momento prima erano apparsi coordinati ed efficienti, si fecero più lenti e contraddittori. Gli uomini sembravano adesso intralciarsi a vicenda e alcuni settori della prima linea avevano preso ad arretrare, ostacolando l'avanzata dell'ariete. La macchina stentava a procedere, pur sotto la sferza dei conduttori dei cavalli, e più di un combattente, pressato dalla massa che si stringeva intorno, finì schiacciato sotto le sue ruote.
«La paura si sta impadronendo di loro» riprese Amnor. «Ne sento l'odore anche da qui. Stanno perdendo la testa.» «No, ce la faranno!» replicò il sergente Kon, ostinato. «Aspettate che mettano in azione le catapulte!» Pur in mezzo a una confusione crescente, gli addetti alle catapulte avevano seguitato a muovere le loro macchine, riuscendo ad allinearle di fronte ai bastioni di rame infuocato. Si vedevano distintamente gli ufficiali segnalare con le loro bandiere l'ordine di tiro e i serventi agire con tutte le forze sugli argani di caricamento. Lentamente i bracci mobili scendevano verso terra, mentre le molle elastiche si contraevano allo spasimo, accumulando energia per il tiro. A un nuovo ordine gli uomini, piccole sagome appena riconoscibili per la distanza, sollevarono le pietre caricandole nei cesti, poi quasi all'unisono i bracci furono liberati e si scagliarono verso l'alto. Come serpenti spuntati dal fango i macigni si innalzarono, risplendendo al sole e riempiendo di sibili l'aria. Raggiunsero il culmine della loro parabola, poi ridiscesero rapidi verso il bersaglio, colpendo con violenza la superficie metallica delle mura. In quel momento l'urlo della città si interruppe. La sua massa sembrò contrarsi su se stessa aspettando di ricevere il colpo. Quando fu raggiunta dai macigni tutta la struttura risuonò come una enorme campana, emettendo una nota profonda gridata all'infinito. Ma non era un grido di dolore, l'urlo d'agonia di un animale ferito a morte. Al contrario, era il grido di rabbia di un drago risvegliato da un sonno di secoli. Vargo seguiva l'azione, i muscoli tesi allo spasimo come se fosse anche lui tra i combattenti. I colpi delle catapulte non sembravano aver prodotto alcun danno. Solo le mura percosse sembravano vibrare in alto, come l'orlo di una tazza smisurata. La nuvola sulla cupola pareva impazzita. «La città risponde!» gridò Amnor. Lentamente tutte le porte della città cominciarono a muoversi, tra il gemito del metallo lacerato e le cascate di ossido che si staccavano dai cardini immobili da trenta secoli. Gli immensi blocchi di metallo avevano preso a ruotare, prima impercettibilmente e poi sempre più decisi, aprendo fessure di tenebra nella superficie incandescente delle mura. Sembrava che una gigantesca ascia invisibile stesse tagliando il metallo: poi, come se molle nascoste fossero entrate in azione, con un frastuono
pauroso le porte si spalancarono di colpo, e cento bocche si aprirono contemporaneamente. L'ultima parte del movimento si era svolta con tanta rapidità che molte ante erano rovinate al suolo al termine della loro corsa, strappando i cardini millenari, incapaci di sopportare la spinta. Gli attaccanti assistevano attoniti a quello spettacolo. Dapprima avevano salutato con grida di giubilo la comparsa delle prime aperture, che molti evidentemente avevano attribuito all'esito dei colpi. Ma adesso cominciava a farsi strada tra loro la sensazione di aver scatenato qualcosa di incontrollabile: all'improvviso tutte le leggende e dicerie sulla città maledetta dovevano essergli tornate in mente, spegnendo le urla di vittoria. Gli ufficiali sembravano preda di quella stessa paralisi, e si aggiravano intorno alle catapulte lanciando ordini contraddittori e inutili. Solo pochi sembravano aver mantenuto il controllo dei nervi, e cercavano di riportare alcune macchine in posizione di tiro. Intanto qualcosa stava avvenendo intorno alle porte spalancate. Al loro interno erano comparse spesse volute di nebbia grigiastra. Dentro si intravedeva una miriade di corpi più scuri, un popolo di ombre indefinite che si ammassavano una sull'altra. Una massa torbida, che cresceva gonfiandosi intorno alle aperture, ondeggiando e ribollendo come un corpo vivente, in attesa di un segnale. Poi di colpo, simile a un'inarrestabile colata di fango, quella massa prese a rotolare giù lungo le cento rampe delle porte, divorando lo spazio aperto che la separava dalla prima linea dell'armata imperiale. Anche la nuvola ronzante che si ammassava intorno alla tomba di Vemerin aveva preso a muoversi nella stessa direzione, accompagnando dall'alto con il suo terribile clamore di elitre l'avvicinarsi della nebbia sul terreno. Ostacolati dal terrore evidente che serpeggiava tra le loro file, i soldati cercavano di mantenere la posizione di combattimento. Le catapulte tornarono a scagliare i loro colpi, mirando questa volta non più alle mura ma alla nebbia in avvicinamento. I macigni si abbattevano sibilando, colpivano con uno schianto il terreno pietroso e rimbalzavano esplodendo in schegge e trascinando con sé brandelli urlanti di quelli che tentavano di avvicinarsi. Ogni colpo apriva uno squarcio nella massa, ma questo subito si richiudeva, colmato da una nuova colata dalle bocche della città. Era come colpire con la lancia una pozza d'acqua fangosa, pensò inorridito Vargo. Anche gli arcieri stavano saettando disperatamente i nemici. Qualche ombra si abbatteva a terra sotto i colpi, ma erano gocce nel mare. Il giovane vide
la prima linea raggiungere il fronte dei soldati, il tumulto scomposto che si era acceso. Gli uomini lottavano con disperazione, ma inutilmente. Per pochi istanti lo scontro si trasformò in un turbinio frenetico di combattimenti individuali, spade e lance contro spade, artigli e denti. Poi con sgomento Vargo si rese conto che la prima linea degli imperiali aveva semplicemente cessato di esistere. Come se una bestia immane avesse divorato a morsi interi reparti, l'onda delle ombre si stava aprendo la strada nel quadrato delle truppe, puntando verso il centro dello schieramento. Vargo vide una dopo l'altra le catapulte inclinarsi e abbattersi a terra, fatte a pezzi. L'impeto degli assediati, che nella prima fase era apparso travolgente, adesso stava rallentando. Ma non era a causa della resistenza degli imperiali: i corpi dei soldati uccisi avevano cominciato ad accumularsi sul terreno, ostacolando l'avanzata del nemico. Lentamente il livello dei combattimenti andava salendo, a mano a mano che i corpi si ammucchiavano e gli spauriti difensori arretravano arrampicandosi con disperazione sui cumuli dei cadaveri, cercando di organizzare una nuova linea di difesa che subito crollava, costringendo i pochi superstiti ad arretrare ancora. Ormai il campo di battaglia era ridotto a una terribile isola di cadaveri, circondata dalle ondate ribollenti delle ombre. Una piramide al cui vertice sventolavano ancora le bandiere imperiali, con le fiamme argentee dell'Arconte di Menthor. Stretti tra i nemici e i corpi dei loro compagni ancora vivi alle spalle, gli uomini della Guardia morivano in piedi, offrendo con i loro corpi un estremo riparo ai loro compagni spauriti. Per un momento la situazione parve congelarsi in un impasto convulso di morte e vita: poi, con un rombo, la nuvola degli esseri volanti calò dall'alto sui superstiti. Un pulviscolo si alzò nell'aria, accompagnato da grida di orrore che si facevano sempre più flebili. Gli ibridi scendevano sugli uomini della Guardia afferrando le loro teste e staccandole dal collo con gli artigli, incuranti dei deboli tentativi di resistenza che si alzavano dall'ammasso dei moribondi. Impreparati a quell'assalto, e privi di qualsiasi arma che consentisse di difendersi da un nemico che colpiva dall'alto, i superstiti in preda al terrore avevano perso ogni capacità di reagire, e il panico aveva portato con sé la follia. Adesso lottavano anche tra di loro, cercando di ripararsi uno dietro il corpo dell'altro, favorendo spesso la morte del compagno per allungare di un solo istante la propria vita.
Tutta l'aria intorno era pervasa del rumore terribile della lotta, delle urla di terrore e di agonia, dei versi gutturali degli ibridi che calavano scambiandosi i loro richiami inumani. Ma c'era anche qualcos'altro. Un suono diverso, una voce che sembrava gridare qualcosa, sovrastando quel frastuono orrendo. A Vargo parve di riconoscere una sagoma umana, alta e snella, che avanzava a grandi passi tra i caduti fatti a pezzi e le teste mozzate dal furore del combattimento. Una donna rivestita soltanto da una sottile trama di segni, che velavano appena il suo corpo nudo con un intrico di parole incomprensibili. Una donna che cancellò dalla mente del giovane il ricordo di ogni altra donna. E di colpo nella sua mente tutta la tensione con cui stava seguendo la battaglia si sciolse. I muscoli delle dita contratte intorno alla spada allentarono la stretta. Sentì il suo corpo riscaldarsi, il cuore in preda non più alla lotta, ma a un'emozione diversa, che aveva conosciuto poche volte nella sua vita. Forse una sola, pensò, mentre il ricordo amaro della figlia del Duca di Verennia si sovrapponeva a quell'immagine lontana. Che lo chiamava, che lo implorava di raggiungerla. La figlia di Vemerin! Come poteva essere laggiù, se l'avevano lasciata ancora chiusa nel suo sarcofago, insieme ai cavalli all'ingresso della torre? Si guardò intorno, per scoprire se anche i suoi compagni avevano visto la stessa cosa. Ma non c'era nessuno accanto a lui. Aprì la bocca per gridare, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Tutta la torre sembrava raggelata in un silenzio irreale. Avvertì una mano che lo afferrava alla spalla, scrollandolo con forza. Poi una voce conosciuta gli sussurrò all'orecchio: «Svegliati! C'è qualcosa che devi vedere». Khaima era in ginocchio accanto a lui e continuava a scuoterlo per strapparlo all'incubo. «Svegliati! Ti stai lamentando come un bambino! Dobbiamo capire che cosa ha in mente quel maledetto!» fece la ragazza, indicando qualcosa poco distante. Vargo sobbalzò, la fronte madida di sudore. Sentiva le mascelle contratte nel grido, e l'eco delle urla intorno a sé. Frastornato dalle visioni mosse qualche passo, per accertarsi che le mura della torre intorno a lui fossero reali. Il ricordo di quello che era accaduto era ancora vivido in lui: quando aveva violato con i suoi compagni il segreto di Anharra, il risveglio di Vemerin dal suo sonno secolare, l'attacco sotto le mura con cui l'armata di
vivi e di morti del Re pazzo aveva fatto strage delle truppe imperiali. E la figlia del Re, colei che portava tatuato sul corpo il segreto della orrenda potenza del padre, che avevano strappato al suo sepolcro. Cercò di mettere a fuoco lo sguardo verso il punto che la ragazza gli indicava, nel crepuscolo violetto dell'alba ancora lontana. Amnor era in piedi, accanto al sarcofago della figlia di Vemerin. Aveva strappato via la tela che lo proteggeva, e se ne stava immobile, intento a scrutare gli arabeschi che i tatuaggi ricamavano sul corpo della donna con un'espressione indecifrabile. Il suo sguardo sembrava trapassare la superficie del corpo, per cercare qualcosa all'interno. O in una dimensione ancor più profonda, uno spazio mentale in cui sembrava esser precipitato e da cui tutti gli altri erano esclusi. Vargo guardò anche lui, scosso da un fremito. Era proprio lei la donna del suo sogno, l'immagine che era comparsa come un fantasma nella strage sotto le mura di Anharra, accendendo i suoi sensi di desiderio. Un cadavere, pensò con raccapriccio. Vargo afferrò il vecchio per una spalla, scuotendolo. Solo allora Amnor parve accorgersi di quello che accadeva intorno a lui. Aveva ancora i polsi stretti dai legacci con cui lo avevano imprigionato al momento della fuga dalla città. Dette un paio di strappi rabbiosi alle corde senza guardare, come se non si rendesse conto di cosa gli impediva i movimenti. Poi alzò i pugni all'altezza degli occhi. «Liberami» mormorò rauco. Vargo esitò un istante. «Là, nella tomba. Cosa hai visto?» chiese invece. Il vecchio scrollò ancora una volta con violenza i pugni. Sul suo volto apparve per un attimo la stessa espressione di orrore che il giovane vi aveva scorto nel sepolcro di Vemerin, quando Amnor aveva guardato attraverso lo smeraldo delle Tenebre. Lo vide coprirsi il volto con le mani, scivolando a terra sulle ginocchia. Vargo seguiva sconcertato le sue mosse. Ma subito, con una trasformazione repentina, Amnor sembrò tornare padrone di sé. Scosse con energia le spalle, risollevando il capo. «Ho visto... ho visto...» ripeté. Poi serrò i pugni, come se fosse stato preso da un'ira improvvisa. «Ombre» esclamò ancora. «Un tempo troppo breve... Ho fallito, Vargo. Per tutta la vita ho atteso quel momento. Sapere, è questo che mi ha spinto fino ad Anharra. Non i suoi tesori, le sue geometrie incredibili. Le sue fontane malate. Ma l'occasione di sapere, l'ultima
che mi era offerta sulla terra. Non ho avuto la forza di affrontare l'orrore. Ne ho scorto solo il volto velato. Ma ascoltarne il canto, sedermi tra le Tenebre e attingere alla loro sapienza, immergermi nella loro lezione... solo Vemerin ha osato tanto, a me è mancato l'ultimo coraggio. Ho fallito» mormorò. «Vemerin è stato distrutto da quella lezione di orrore. Non ricordi le storie che si narrano di lui, della sua saggezza e giustizia? Ha trasformato il suo regno in un coro di morti. La sorte ti ha fermato sul suo confine. Se fossi andato più oltre ora saresti solo un altro strumento della perfidia delle Tenebre. Quello cui abbiamo assistito è il più terribile degli avvertimenti: l'armata del Re non è spenta, ma si appresta a dilagare per tutte le terre dell'Impero. Ne hai visto anche tu la straordinaria potenza: dobbiamo tentare di fermarla a qualunque costo» disse Vargo deciso. «Non c'è modo di opporsi alla sua forza» replicò sommessamente il vecchio. «No! C'è un modo! Il Canto che chiude le porte, quello che Vemerin stesso ha scritto sul corpo della figlia» replicò animatamente Vargo, indicando con la spada il sarcofago. «È quella la nostra speranza, la nostra ultima arma. Non siamo perduti. Ma tu devi essere dalla nostra parte, nello scontro che verrà. Dalla parte degli uomini.» Percepì un movimento alle sue spalle. Anche Shanda si era svegliata, e aveva seguito l'ultima parte del loro discorso. La ragazza venne a stringersi al suo fianco, con movimenti dolci da gatta. Ma la sua attenzione era tutta per Amnor. Khaima continuava a fissarlo, diffidente. «Non ascoltare questo vecchio, Vargo!» disse con asprezza. «Ci ha già tradito una volta. E sono sicura che aspetta solo l'occasione per consegnarci tutti all'inferno!» «Sono stato io a tirarvi fuori dalla città» si limitò a replicare pacato Amnor. «E solo io potrò decifrare il testo del Trentesimo Canto» concluse con un'alzata di spalle. «Abbiamo bisogno di lui» disse Vargo dopo un attimo di esitazione. Il ricordo del voltafaccia tra le mura della tomba di Vemerin, della ferocia con cui il vecchio aveva assassinato il Cantore impedendogli di ricacciare il Re pazzo tra le ombre gli bruciava ancora. Eppure Amnor aveva detto la verità: erano costretti a fidarsi. Inserì la punta della spada tra i polsi del vecchio e troncò i legacci con un colpo netto. Mentre Amnor si liberava dei resti delle corde il giovane passò la spada nell'altra mano e tese la de-
stra verso di lui. «Scegli tra la spada e la mia mano» disse accorato. «Stringila, e tutto sarà dimenticato.» «Oppure?» «Oppure sarà la tua morte, qui tra queste pietre. O più tardi, se oserai tradirci di nuovo.» Il vecchio chinò la testa. «Non la temo, amico mio.» Esitò ancora un istante, poi lentamente tese la destra afferrando quella del giovane. «Abbiamo stretto un patto, quando partimmo alla volta di Anharra. È il destino che ci ha chiamato tra le sue mura. Il mio, ma anche il tuo, Vargo. Il nostro cammino proseguirà unito, finché non saremo di nuovo al cospetto del Re. Lì le nostre strade forse si separeranno di nuovo. Ma fino a quel momento staremo dalla stessa parte.» Vargo si sforzò di leggere dietro le parole le reali intenzioni del vecchio. Sentiva salda la stretta della sua mano, e lo sguardo con cui lo fissava sembrava sincero. Eppure qualcosa gli sfuggiva. «Riesci a capire che cosa dice il Canto? Quei tatuaggi sulla sua pelle?» chiese ansioso, riponendo la spada. Il vecchio non rispose subito. «No» disse poi con un moto di stizza. «Non ancora.» «Non ancora? Quella lingua è morta da secoli!» esclamò sarcastica Khaima, che non pareva per nulla toccata dalla scena. «Anche i membri del Collegio degli Arcani non la ricordano più! E tu hai ucciso il Cantore, l'unico che sapesse intonarla!» Amnor posò sulla giovane uno sguardo indifferente. «Ce lo dirà lei» esclamò poi con la sua voce sonora, di nuovo piena di quella perfidia sottile che l'animava il primo giorno che Vargo l'aveva conosciuto. «Lei?» disse beffardo Kon, che si era avvicinato a sua volta gettando uno sguardo sprezzante al sarcofago. «È soltanto un ammasso di muscoli rinsecchiti, e pelle e ossa marci. Solo per qualche magia ha ancora l'apparenza di un essere completo! La sua bocca è solo una ferita cucita per trattenere la paglia di cui è riempita. Ti fai beffe di noi!» Per un attimo Vargo dubitò che il sergente avesse ragione. Forse Amnor li stava ingannando di nuovo. Strinse i pugni, cercando di vincere l'istinto di afferrare il vecchio per il collo e di fare giustizia della sua perfidia. Ma si trattenne: Amnor era quello tra loro che meglio aveva visto almeno per un attimo l'orrenda realtà delle Tenebre. Forse aveva appreso qualcosa che avrebbe potuto salvarli. Salvare tutti gli uomini, se avesse voluto. Se avesse voluto. Stava per aggiungere qualcos'altro, quando il vecchio
lo interruppe. «Non è morta» mormorò deciso. «Le arti immonde di suo padre hanno agito su di lei, è vero. Ma non per l'inutile scopo di conservare il suo corpo. Quelle arti andavano ben oltre la vostra immaginazione: Vemerin ha salvato il suo soffio vitale, fermandolo in un sonno senza tempo. Guardatela! Ma guardatela con gli occhi della mente!» Vargo si chinò titubante sul cristallo, sul volto ancora bellissimo della donna. Un leggero alone di vapore lo offuscava nel punto dove le sue labbra si erano avvicinate alla superficie trasparente. Roteò delicatamente le dita per cancellare i segni del proprio respiro, ma il vetro restava opaco. Stupito ripeté l'operazione, ancora senza risultato. Amnor aveva seguito i suoi gesti con occhio critico. «È inutile che ti sforzi. Non è il tuo respiro quello che appanna il cristallo.» Improvvisamente Vargo si rese conto della realtà: era la donna che respirava, all'interno della sua teca di cristallo. Con intervalli lunghissimi, tanto da passare inavvertiti a un esame meno minuzioso di quello del vecchio, il suo petto si sollevava impercettibilmente, e il soffio del respiro, appena permeato dell'umidità della vita, fuoriusciva dalle labbra socchiuse. «È... è viva...» mormorò Vargo, vincendo a stento lo sbalordimento. «Dobbiamo liberarla!» Senza riflettere si era precipitato a tentare con le dita le connessioni tra le lastre di cristallo, cercando di separarle con tutta la sua energia. Ma sentì la morsa ferrea di Amnor, che lo tratteneva. «No, non così. Se Vemerin sottopose sua figlia a questo incanto, è certo perché voleva che prima o poi tornasse alla vita, per sedere accanto a lui nella sua gloria. Ma dobbiamo prima sapere come assecondare il suo risveglio. E non ne abbiamo idea. Non conosciamo il rito segreto che l'ha fermata nel tempo. Ricordi le altre donne nell'harem del Re? I loro corpi erano corrosi e prosciugati, un guscio vuoto consumato dal tempo. Ma lei no! La Figlia era l'unica a riposare in una teca, ed è certo quella barriera di cristallo che l'ha portata fino a noi intatta nella sua bellezza. Vemerin doveva aver previsto per lei un altro compito, nel suo disegno.» «E quale?» Amnor meditò per un attimo. «Io credo che fosse la sua arma più disperata. Ti ricordi cosa disse il Cantore? Sul suo corpo è scritto il Trentesimo Canto, quello che chiude le porte. Quando Nester avesse segnato il tempo esatto del suo ritorno, il Re voleva ritrovare non solo la sua armata e la voce dei suoi terribili consiglieri, ma forse anche un mezzo per difendersi dalla potenza che egli stesso aveva scatenato.»
Vargo continuava a fissare le fattezze straordinarie della donna. «Ma fu lui a porsi al loro servizio, ad abbeverarsi al loro consiglio!» «È così. Ma forse nella sua mente ormai abitata dai fantasmi sopravviveva una scintilla dell'antica saggezza. Forse nella convulsione del suo regno che precipitava nell'orrore, qualcosa lo spinse a predisporre una via di salvezza per quando fosse tornato.» Il sergente e le Sgualdrine avevano seguito il ragionamento, senza troppa convinzione. Khaima restava la più diffidente. Sputò in terra con disprezzo, poi attaccò di nuovo Vargo. «Ma hai visto anche tu quello che ha costruito nella sua città! Devi essere pazzo a credere che il Re possa aver predisposto qualcosa per la salvezza degli uomini! Lui, che ne era diventato il primo nemico! Non dare retta a questo stregone: lui e la mummia sono della stessa razza! Se è vero che il cristallo la protegge, allora rompilo e bruciamo tutto, ti dico!» In quell'istante il cielo scuro sopra le loro teste si accese di una luce violenta. Una pioggia di bolidi fiammeggianti stava discendendo verso terra, riempiendo la notte di strisce di fuoco. Vargo aveva già visto delle meteore nelle notti di mezza estate. Ma mai un fenomeno di quella intensità. Tutta la volta era ricamata dalle scie luminose, che si intrecciavano tra loro in una trama abbagliante. Intorno la notte sembrava essere terminata di colpo, in un'alba priva del sole. Le montagne lontane erano perfettamente visibili, e anche il cerchio rossastro delle mura di Anharra, al centro del grande cratere, riluceva di uno splendore metallico. La pioggia di stelle scendeva veloce: i primi bolidi si abbatterono sul terreno con un brontolio lontano, che si trasformò in un rombo a mano a mano che gli impatti si facevano più fitti e più vicini. La terra sotto i loro piedi aveva ripreso a tremare, come per una scossa di terremoto. Una delle meteore cadde a non più di mezza lega di distanza, facendo sobbalzare anche le rocce vicine. I cavalli, risvegliati di colpo, avevano preso a nitrire, impazziti per la paura. Amnor, gli occhi levati al cielo, osservava con interesse spasmodico il fenomeno. Anche Kon sembrava spaventato. Shanda era corsa a rifugiarsi tra le braccia della compagna, pure lei con una smorfia di terrore stampata sul viso. Di colpo, come era iniziata, la caduta dei bolidi cessò. Le tenebre tornarono padrone assolute del cielo. Solo la stella Nester, con il suo fulgore,
restava visibile oltre la foschia notturna. «È come era scritto nelle Tavole» disse il vecchio. «Nester giungerà accompagnata dalle sue ancelle. Dallo stesso luogo da cui giunge la stella sono arrivate anche quelle pietre di fuoco. Manca ancora molto all'alba» aggiunse poi, dopo aver gettato uno sguardo verso l'orizzonte. Kon e Khaima erano intanto riusciti a placare le bestie. «È inutile attendere» disse il sergente. «Muoviamoci ora: a ogni istante perso quei mostri si avvicinano di più.» «Per andare dove?» chiese scorata Shanda. «Dobbiamo raggiungere il confine, la guarnigione di Hirush. E proseguire fino a Menthor, se serve» rispose deciso il sergente. «Devo avvertire i miei uomini di quello che è successo, perché si preparino a un nuovo scontro. Questa volta ci sarò anch'io, e andrà diversamente! È sempre diverso, con Kon!» aggiunse, in preda a un'improvvisa allegria, ammiccando alla ragazza. Khaima gli gettò un'occhiata di disprezzo, poi si rivolse a Vargo. «Come faremo ad attraversare di nuovo il deserto? Non abbiamo né cibo né acqua. Questo energumeno pensa che sopravvivremo con la sabbia, una volta passate le montagne? E poi non è questo che dobbiamo fare.» «Che vuoi dire?» chiese urtato Kon. «La Regina Rossa ci ha incaricato di seguire quei due non certo per il loro fascino. Ma per mettere le mani sul tesoro di Vemerin. Questa roba qui» la ragazza aveva inserito la mano sotto il suo corsetto di cuoio, e la ritrasse piena di pietre multicolori. «Ho fatto in tempo ad afferrarne una manciata, nella Sala del Trono. Ma è niente in confronto a quello che abbiamo visto.» «Vorresti tornare lì?» balbettò Shanda, intimorita da quella prospettiva. «Certo, sorella! E non lasciarti vincere dalle paure di questi uomini. Il compito che ci ha affidato la Regina è chiaro. E possiamo farcela. Vemerin è tornato in vita grazie all'opera di quel maledetto» seguitò, puntando la spada contro Amnor. «Ed è probabile che si muoverà con i suoi mostri per riconquistare il dominio del Vuoto. Noi attenderemo qui, nascoste tra queste rocce, e non appena la città sarà di nuovo deserta torneremo per eseguire il nostro compito.» «Tu sei folle, ragazza» disse pacato Amnor. «Di una follia così profonda che nemmeno la tua giovinezza può giustificare. Tu non hai visto quello che ho visto io. Quando Vemerin si muoverà tutto quello che attraverserà verrà cancellato dalla sua ira.»
«Soprattutto se avrà qualcuno ad aiutarlo! Bruciamo la strega che avete trascinato con noi!» gridò la ragazza, facendosi avanti e minacciando Amnor con la spada. «Avete visto il suo corpo, quei segni! C'è impresso il marchio del demonio!» Vargo con uno scatto si interpose. «Non è questo il momento di batterci tra noi! Nemmeno io mi fido del tutto di lui. Ma Amnor ha ragione: sarebbe una follia tornare ad Anharra senza aver prima decifrato il significato del Canto. E solo la figlia di Vemerin ne conosce il segreto. Dobbiamo risvegliarla dal suo sonno.» «Il vecchio ha confessato di non sapere come fare, nemmeno lui, con tutta la sua scienza! L'ho sentito bene!» insistette Khaima, astiosa. «Il Collegio degli Arcani, tra le montagne» replicò Amnor. «Temon, il loro maestro, è l'erede dei saggi che condivisero gli ultimi giorni di Vemerin su questa terra. Forse hanno tramandato tra loro i segreti della vita sospesa. Forse è là che potremo avere le informazioni che ci servono. Dobbiamo tornarci.» In lontananza, attraverso nubi di polvere sollevata dal vento, si intravedeva una sottile linea grigiastra. Le mura di Hirush erano poco più di un graffio nella monotona uniformità del deserto, rotta appena da qualche ciuffo di erbe spinose e da ammassi di rocce che spuntavano qua e là dalla sabbia. La piccola carovana continuava ad avanzare lungo la pista. Da qualche tempo i cammelli davano segno di eccitazione, come avvertendo nell'aria l'odore del caravanserraglio e dei loro simili che già vi avevano trovato rifugio. Erano appena una ventina di bestie, con un piccolo carico di stoffe e paccottiglia da scambiare con i nomadi del Confine. Soltanto due animali erano adibiti al trasporto di uomini, e sulle loro groppe arcuate portavano legate le strette lettighe coperte su cui avevano preso posto alla partenza i due soli passeggeri della carovana. Uno dei due, un mercante di schiavi carico di gioielli come una donna di malaffare, non aveva fatto altro che sporgersi continuamente per lamentarsi con i cammellieri o gli uomini della scorta di ogni sorta di fastidi. La sua voce querula era diventata una sorta di odioso sottofondo al passo strascicato delle bestie, fino a confondersi quasi con il paesaggio stesso. L'altro, un uomo alto, sempre coperto da capo a piedi dal mantello da viaggio, nonostante il caldo feroce del deserto, non aveva praticamente
aperto bocca per tutto il tempo. Anzi, non aveva quasi mai abbandonato la sua portantina, consumando sotto il piccolo tendaggio anche l'unico pasto serale. Solo una volta lo aveva visto, in piena notte, allontanarsi di qualche passo dalla carovana ed estrarre dalla sua sacca un astrolabio. L'uomo si era concentrato per alcuni lunghi attimi sull'osservazione del cielo notturno, poi era rapidamente tornato a riporre il suo strumento, nascondendosi di nuovo sotto il cappuccio. Il giovane era appena riuscito a intravedere un volto barbuto e il lampo di due occhi accesi. Dopo quell'episodio, avvenuto una settimana prima, l'uomo era tornato quasi invisibile. Ma il suo comportamento non aveva suscitato una curiosità particolare negli uomini della carovana, avvezzi a non porsi mai troppe domande né sul carico né tantomeno sui viaggiatori che si aggregavano sulla strada del Confine. C'era solo un motivo che poteva spingere un uomo o una donna a dirigersi da quella parte: il desiderio di sparire. E non c'era nulla di strano che cominciassero a farlo ancor prima di varcare le porte di Hirush, quasi volessero trasformarsi in anticipo in spettri incolori simili a quelli che già l'abitavano. Eppure quell'uomo aveva qualcosa di diverso, pensava tra sé il giovane. Forse era la qualità delle sue vesti, più sontuose rispetto alla media di quelle degli altri. O il suo modo nervoso e insieme sicuro di muoversi, che lasciava intuire una notevole forza fisica. O forse era quello che gli aveva visto fare: la sua continua osservazione delle stelle molto più accurata di quanto non fosse il semplice orientarsi istintivo dei cammellieri. Solo a Menthor esistevano strumenti come quello che gli aveva visto balenare tra le mani. Più volte era stato attratto dall'idea di affrontarlo, per soddisfare la curiosità. Ma ogni volta il caso o le incombenze legate al suo compito lo avevano trattenuto. Insieme con altri due uomini aveva accettato di fare da scorta alla carovana, per proteggerla dai predoni soprattutto nell'ultimo tratto di via, attraverso il deserto. Ma non si fidava dei suoi compagni: con le loro facce da tagliagole sembravano più dei predoni essi stessi, che non dei mercenari al servizio delle compagnie di mercanti. Tuttavia non aveva avuto possibilità di scelta: anche lui era uno degli spettri di Hirush, con poche speranze e il desiderio di farsi notare il meno possibile. Forse però c'era ancora tempo: al tramonto sarebbero entrati nella città. Spronò il cavallo e si avvicinò alla portantina dell'uomo misterioso, deciso a scostare il tendaggio per richiamare la sua attenzione. Stava per
allungare la mano quando qualcosa lo trattenne. Un fischio sonoro, seguito da una salva di suoni simili. Le bestie avevano preso a emettere il loro verso caratteristico. I sibili erano sempre più forti, come se gli animali si eccitassero l'un l'altro. Pensò di nuovo al caravanserraglio, ma la città era ancora troppo lontana perché potessero davvero avvertirne la presenza in un modo così deciso. Le bestie erano tutte femmine, le uniche che venivano impiegate nei lunghi viaggi, per la loro docilità. C'era solo un motivo possibile per tutta quella eccitazione: dovevano aver sentito l'odore di un maschio nei pressi. Poteva trattarsi di una bestia selvaggia, o fuggita da qualche allevamento. Oppure... Si guardò attentamente intorno. Nella pianura immensa, ancora sufficientemente illuminata dal sole calante, non si scorgeva nulla. Ma a qualche centinaio di passi si levava un ammasso di rocce, la cui ombra lunghissima arrivava ad attraversare la pista a pochi passi dal primo cammello. Fece un cenno di allarme al più vicino dei due mercenari, indicandogli il punto, intanto cercava con gli occhi l'altro. Lo vide più indietro, quasi al termine della lunga fila di animali, intento apparentemente a conversare con uno dei cammellieri. «Fermatevi!» gridò agli uomini in testa alla colonna, spronando per raggiungerli. «C'è qualcuno appostato dietro le rocce!» Il suo grido di allarme aveva sovrastato i versi delle bestie, mettendo in agitazione i cammellieri. Allarmati, gli uomini si affrettarono a tirare le briglie degli animali, cercando di trattenerli dal puntare verso le rocce, come avevano già iniziato a fare. In quel momento da dietro il nascondiglio emersero rapidi una mezza dozzina di dromedari, cavalcati da altrettanti uomini dalle spade sguainate. Il gruppo si lanciò verso la carovana, preceduto dalle ombre stampate sulla sabbia come lance puntate verso di loro. Il giovane aveva intanto raggiunto la testa, risalendo la frotta dei cammellieri che stavano correndo via impauriti. Controllò rapido la posizione degli altri due suoi compagni: uno lo aveva seguito da presso, il secondo restava ancora verso la fine della carovana. Gli lanciò un grido di richiamo, snudando a sua volta la spada e lanciandosi contro gli aggressori. Erano cinque, in groppa a dromedari. Mentre il cavallo sotto di lui divorava lo spazio calcolò rapidamente le sue possibilità: i suoi avversari si erano allargati a semicerchio, e puntavano diretti contro di lui, contando di schiacciarlo facilmente con il loro numero. Se i suoi due compagni si
fossero affiancati subito la situazione sarebbe stata meno sfavorevole, ma verificò con la coda dell'occhio come quelli si tenessero ancora a distanza, senza troppo entusiasmo di seguirlo nella carica. Quei due cialtroni sarebbero sicuramente fuggiti, pensò, lasciando lui e tutta la carovana alla mercé dei ladroni. Era nettamente in svantaggio, sia per il numero sia per la maggior altezza dei dromedari rispetto al suo cavallo, cosa che lo avrebbe costretto a combattere dal basso verso l'alto. Poteva contare solo sulla sorpresa e sulla maggiore agilità del cavallo rispetto alle bestie montate dagli altri. Continuò a puntare deciso al centro del gruppo, contro quello che sembrava il capo. Poi, giunto quasi a ridosso dei suoi avversari, con un colpo deciso del morso fece scartare il cavallo a destra, puntando verso l'ultimo uomo della linea. I predoni, sorpresi dalla sua mossa, reagirono con un attimo di ritardo. Li vide cercare di correggere la loro traiettoria ma così facendo si strinsero l'uno contro l'altro, intralciandosi a vicenda. Arrivò sul suo bersaglio quando gli altri erano ancora lì a cercare di riallinearsi nella nuova direzione. Abbassò la spada con un colpo furibondo, che raggiunse l'uomo alla spalla, troncandogli un braccio di netto e rovesciandolo di sella. Poi lasciò che il suo cavallo superasse la linea degli avversari, prima di richiamarlo con uno strappo di redini. Adesso si trovava alle spalle dei suoi assalitori. Si protese dalla sella e menò un fendente contro il più vicino, raggiungendolo alla schiena, là dove cessava la rozza armatura di vimini intrecciati che gli copriva il busto. Le vertebre del collo, percosse dalla lama, si schiantarono con uno schiocco sinistro, mentre l'uomo con un grido strozzato seguitava la sua corsa per rovinare a terra pochi passi più avanti. Intanto però gli altri tre erano riusciti a voltarsi. Si trovò contro tre spade. L'uomo al centro gridò qualcosa in una lingua incomprensibile, poi si gettò su di lui per primo. Per un attimo il giovane ebbe l'impressione che l'uomo avesse urlato a qualcuno dietro le sue spalle, ma la necessità di parare il colpo gli impedì di voltarsi a vedere. Forse erano i suoi compagni che finalmente si facevano avanti, pensò rispondendo al colpo e parando poi la stoccata inferta da uno degli altri due. Un nitrito violento e uno scarto del suo cavallo lo costrinsero ad afferrarsi al pomo della sella. La bestia, colpita al collo da un fendente del terzo aggressore, si era impennata scalciando. Il giovane sentì la sella scivolargli sotto, mentre l'animale ferito a morte si abbatteva a terra. Con uno scatto disperato riuscì all'ultimo a balzare via, evitando di restare
imprigionato con la gamba sotto il cavallo, ma finendo a tiro dei tre predoni. La caduta lo aveva leggermente tramortito. Facendo appello a tutte le sue forze tornò subito in piedi, cercando di non venire calpestato dal dromedario che il capo dei predoni stava conducendo a forza su di lui. Menò un colpo violento al garretto della bestia, azzoppandola, poi si volse scattando di corsa, in cerca di aiuto dagli altri due suoi compagni. Quei dannati dovevano pur essere da qualche parte, bestemmiò tra sé, non vedendo nessuno vicino. Percorse pochi passi avanzando a fatica sulla duna sabbiosa, sentendo alle spalle il soffio dei dromedari che gli stavano addosso. Schivò con uno scarto una lama che gli sfiorò la testa, poi l'urto violento di una delle bestie lo gettò al suolo. Riuscì a evitare con una piroetta su se stesso di essere calpestato dagli zoccoli, poi affondò la spada nel ventre dell'animale, rialzandosi coperto dal fiotto di sangue caldo che era zampillato dalla ferita. Vide due dei predoni, atterrati, che si stavano rialzando a loro volta, diretti ancora contro di lui, mentre il terzo continuava a fare evoluzioni in sella cercando di colpirlo. Respinse il primo con un calcio al ginocchio. Sentì le ossa dell'articolazione che si spezzavano, accompagnate da un grido di dolore, che si trasformò in un singulto nel momento in cui la sua spada penetrava nel collo dell'uomo. Poi allungò di punta dietro le sue spalle, trafiggendo il secondo che aveva cercato di attaccarlo da dietro. Il terzo uomo, l'ultimo ancora in sella, voltò con uno strappo il dromedario e si dette alla fuga. Coperto di sangue, il ragazzo si piegò sulle ginocchia, respirando affannosamente per riprendere le forze. Sentiva le tempie ronzare per la tensione, il cuore in tumulto. Poi stringendo i denti si rimise in piedi, seguendo con gli occhi la sagoma dell'ultimo predone che spariva nelle ombre del crepuscolo. Si volse verso la carovana, in cerca degli altri due mercenari, ma non vide nessuno. I cammellieri, fuggiti per cercare scampo, si stavano riavvicinando, intenti a rimettere infila le loro bestie che si erano scompaginate, e vagavano per le dune senza meta. «Quei bastardi se la sono data a gambe, come sospettavo» masticò il giovane fra sé, mentre tornava zoppicando verso la carovana, cercando di ripulirsi alla meglio il volto dal sangue di uomini e animali che lo copriva.
«Fortuna che almeno non erano d'accordo con i predoni!» L'uomo avvolto nel mantello si guardò rapido intorno, accertandosi che nessuno lo stesse osservando. Spinse con il piede il corpo del mercenario, facendolo rotolare giù dalla duna, poi ripulì la lama immergendola ripetutamente nella sabbia, finché l'acciaio tornò a risplendere. La ripose nel fodero nascosto sotto la veste, e si volse verso la pista, dove i cammellieri avevano quasi finito di riunire le bestie, tra grida e colpi di bastone. Senza fretta si avvicinò a uno degli uomini, arrestandosi a osservarlo mentre finiva di legare la cavezza di un cammello alla sella di un altro. «Quel giovane» disse poi, accennando a chi aveva salvato la carovana. «Come si chiama?» «Vargo, credo. È così che l'ho sentito chiamare dagli altri due. Spariti. Scappati via come topi» rispose l'uomo, sputando a terra con aria sprezzante. «Quelle carogne! E come hanno voluto esser pagati, per difenderci! L'hanno mandato avanti da solo: scommetto che se fosse morto ci avrebbero venduti tutti!» «O peggio. A volte il comportamento degli uomini è imprevedibile» riprese il primo, continuando a osservare il giovane. «Vargo... Ho già sentito questo nome. Il coraggio è una merce preziosa. Un dono degli dei. Deve essere messo a frutto.» L'altro lo fissò perplesso, interrogandosi sul senso di quelle parole. Ma l'uomo si voltò, inerpicandosi di nuovo sulla sua portantina, e tirando le tende sopra di sé. Il giovane percorreva le strade di Hirush, scivolando lungo le mura scalcinate delle catapecchie che si addensavano dalle parti del caravanserraglio. Vide più avanti la porta spalancata di una taverna. Sentiva ancora in gola la polvere del deserto e il sapore dolciastro del sangue che aveva assaggiato nello scontro. All'improvviso fu preso da un desiderio spasmodico di dimenticare tutto, di cancellare almeno per una notte il peso di pensieri e ricordi che lo opprimevano. Nella borsa gli sembrava di sentire il tintinnio delle monete che il capo carovana gli aveva consegnato non appena raggiunte le mura della città. Lì cessava il suo servizio. E non sarebbe entrato con la carovana, per motivi che non desiderava spiegare, ma che l'uomo aveva di certo intuito. Aveva aggiunto anche un piccolo premio, con parole di gra-
titudine. Ma nei suoi occhi a Vargo era parso di cogliere un lampo inquieto, come se in fondo fosse ben contento di liberarsi di lui. Adesso sentiva la testa ronzare, con tutta la stanchezza del viaggio che si abbatteva di colpo sulle sue spalle. Entrò nella stanza bassa e fumosa, e si sedette in un angolo, al riparo di una grossa trave di sostegno. Chiese del sidro, poi, mentre un'inserviente sporca si avvicinava con una caraffa e una coppa di stagno, depose sul tavolo la sua borsa e ne estrasse le sue tavolette per scrivere. Non aveva nessuna idea precisa. Soltanto il desiderio di fermare sulla cera le parole che non poteva riferire a nessuno, i sentimenti che da anni portava chiusi nel petto. Parole scritte mille volte, e mille volte poi cancellate con un colpo di calamo sulla cera. Forse sempre le stesse, un nome, un amore perduto. Tutte parole inutili, ma le sole che ancora lo legavano alla vita. Sull'uscio della taverna era apparso un uomo alto, la testa affondata nel cappuccio del mantello. Entrò e mosse qualche passo in giro, prima di andarsi a sedere silenzioso alla stessa tavola del giovane, a un paio di posti di distanza. Si lasciò scivolare il cappuccio sulle spalle, come se avesse finalmente deciso che era giunto il momento di rivelarsi. 2 Una pioggia tiepida e fangosa aveva preso a scendere, rendendo viscide le pietre della landa. Vargo si strinse nel mantello, cercando riparo. Anche le bestie sembravano turbate da quel fenomeno. Scrollavano le teste, nitrendo e strappando i morsi, come se volessero sfuggire al controllo degli uomini. «Che hanno questi dannati animali?» borbottò il sergente, colpendo con un pugno deciso il collo del suo cavallo. L'animale rispose con un nitrito di dolore, impennandosi e tentando di disarcionare il suo padrone. Kon reagì d'istinto, aggrappandosi al suo collo e serrandolo in una morsa di ferro. «Vedremo chi comanda, bestiaccia! A costo di strozzarti...» Shanda, che era anche lei intenta a proteggersi dalla pioggia con il suo mantello, aveva seguito la scena. Balzò a terra di slancio, precipitandosi ad afferrare le briglie che erano sfuggite dalle mani del sergente e gettando un lembo del mantello sulla testa dell'animale. Intanto andava sussurrandogli qualcosa all'orecchio. Il cavallo sembrava ascoltare le parole della ragazza.
Emise ancora uno o due nitriti rabbiosi, poi parve tranquillizzarsi, tornando a piantarsi sulle quattro zampe. Continuava a scrollare la testa sbuffando, ma adesso pareva aver dimenticato la pioggia che continuava a cadere. «Questi animali ci saranno preziosi. Molto più di te» sibilò la ragazza al sergente. «Impara ad averne cura: non sono carogne inutili come i tuoi soldati!» Kon borbottò qualcosa, confuso. «Che ne so di queste bestiacce. La guerra è cosa da uomini, si fa per terra, con le nostre gambe. Questi li usiamo solo per mangiarceli, quando serve.» Anche il cavallo su cui avevano legato il sarcofago dava segni di nervosismo. Vargo cercava di trattenerlo per il morso, ma con meno successo della ragazza. L'animale continuava a scalciare, minacciando di liberarsi del suo peso. Il giovane si affrettò a serrare i nodi, mentre Shanda accorreva a tranquillizzare anche quello con la sua arte. «Guardate, ecco le tracce della strada di basalto: seguiamole, ci riporteranno al Collegio» fece Khaima, indicando le lastre scure che erano tornate ad apparire tra le sabbie del deserto. Lontano, verso l'orizzonte, la cresta della catena montuosa che circondava la piana di Anharra chiudeva la visuale con il suo profilo di denti aguzzi. Spronarono le loro cavalcature. Adesso che gli zoccoli avevano preso a martellare le antiche pietre anche le bestie sembravano più tranquille, come se percepissero di essere sulla via del ritorno. Procedevano in silenzio, gettandosi di continuo lo sguardo alle spalle, verso il cielo, nel timore di veder qualcosa giungere dall'alto. La pioggia di fango si fece più rada, poi si interruppe. Di tanto in tanto un brontolio lontano giungeva dalle montagne, e una leggera vibrazione continuava a scuotere la terra sotto di loro. «Dev'esserci stato un terremoto, più avanti» rifletté Amnor. Salivano ormai da più di un'ora, e la strada si andava facendo sempre più ripida. «Dovremmo essere quasi al passo» disse Vargo. «Il Collegio non è lontano.» Stava per aggiungere qualcosa, quando un nuovo fremito del terreno gli mozzò le parole in bocca, costringendolo ad afferrarsi al collo del suo animale per restare in sella. Una catena di schianti sordi esplose tutto intorno, mentre le pietre della strada si sollevavano e una profonda fenditura si apriva lungo la parete rocciosa. Grandi blocchi di roccia, staccatisi dalle creste che coronavano il passo, si abbattevano a terra sollevando una cortina di polvere che celava alla vista la strettoia.
Vargo trattenne il suo cavallo con uno strappo, incerto sul da farsi. Poi spronò di nuovo, approfittando del fatto che i crolli sembravano essere terminati. «Seguitemi. Presto! Dobbiamo approfittare di questo momento! La prossima scossa potrebbe essere anche più violenta!» Guidati dal giovane anche gli altri si gettarono nella fenditura, facendosi strada attraverso il muro di pulviscolo e terra, mentre l'eco della scossa continuava a rimbalzare tra le pareti rocciose. Procedendo alla cieca, guidato solo dall'istinto e dal vago ricordo della strada già percorsa, Vargo sbucò finalmente nel vasto spazio circolare intorno a cui si ergeva il grande anfiteatro del Collegio. Ma subito si arrestò, percependo d'istinto la presenza di un pericolo. Le pareti a picco, traforate dalle innumerevoli aperture, erano completamente annerite dalle tracce di un fuoco violento che doveva essere arso a lungo, calcinando completamente tutte le aperture. Un silenzio di morte gravava su tutto lo spazio, pervaso dal puzzo acre e violento di carne bruciata. Sbigottito Vargo balzò a terra, correndo verso il centro dello spiazzo. La Fonte del Ricordo era distrutta, e la corona di pietre che circondava la polla era ridotta in frantumi sparsi tutti intorno. Non c'era più traccia dell'acqua che vi aveva visto sgorgare, ridotta a una tenue macchia d'umidità che si perdeva nel terreno. Anche le due Sgualdrine erano balzate a terra, le armi in pugno, e si aggiravano allarmate in cerca di una spiegazione. Il sergente Kon si guardava intorno perplesso. «Che posto è questo?» chiese. «E cosa è successo?» Solo il vecchio Amnor sembrava perfettamente padrone di sé. Dopo aver lanciato anche lui uno sguardo tutto intorno scrollò le spalle. «Dovevamo aspettarcelo. La legione di Vemerin è arrivata prima di noi, a portare la vendetta del Re. Fortuna che siamo arrivati solo adesso. Altrimenti avremmo fatto anche noi la stessa fine» disse pacatatamente, indicando qualcosa disteso accanto ai resti della fonte. Vargo guardò nella direzione indicata. Mescolati alle pietre smosse riconobbe con raccapriccio dei frammenti di corpi umani. Si avvicinò per vedere meglio. Quegli uomini, o meglio quello che restava di loro, non sembravano essere stati uccisi con qualche genere di arma: i frammenti dei corpi apparivano lacerati come se una belva avesse infierito su di loro con denti e artigli, strappando via a brani la carne ancora viva. Pozze di sangue si erano seccate, lasciando soltanto un alone orrendo che macchiava la pietra. Tutto il luogo era stato ridotto a un mattatoio, pensò con un brivido
Vargo. «Che facciamo adesso?» chiese Kon, che aveva visto anche lui. «Dobbiamo allontanarci in fretta, prima di fare la stessa fine! Chi era questa gente? Dove mi avete portato?» «No, trascorreremo la notte qui» replicò deciso Vargo. «Abbiamo bisogno di riposo, noi e le bestie. Ormai quei mostri hanno fatto il loro lavoro, e non torneranno. Cerchiamo rifugio dentro il Collegio. Là ci sono ancora alcune delle corde che servivano a salire fino alle caverne. Provo io a salire per primo.» Senza attendere altro il giovane corse verso un canapo che, anche se segnato dalle tracce del fuoco, dava l'impressione di essere ancora solido. Lo saggiò con un paio di forti strappi, poi si afferrò deciso, cominciando a salire verso la bocca scavata nella roccia. Sotto di lui i compagni seguivano con trepidazione le sue mosse. Vargo saliva rapido, aiutandosi con la stretta delle gambe intorno al canapo. Per un paio di volte ebbe l'impressione che la corda accennasse a cedere, ma poi con un ultimo sforzo riuscì a raggiungere l'apertura e ad afferrarsi con le dita al bordo. Si issò ancora, fino a sollevare la testa e a guardare dentro. Una cavità completamente annerita dal fuoco, in cui non si riusciva a riconoscere nulla si offrì al suo sguardo. Tutta la sala dell'antico Capitolo era stata ridotta a una caverna arsa, simile al ventre di una fornace. Molte delle colonne che un tempo avevano scandito lo spazio erano state spezzate e i loro tronconi si ergevano ancora dal pavimento o pendevano dalla volta come denti infranti. L'oscurità era però totale. Ci sarebbero volute le torce che avevano nei bagagli, per inoltrarsi anche solo a pochi passi dall'apertura. Vargo si guardò intorno in fretta, in cerca di qualcosa che potesse favorire la salita degli altri. Ma non c'era nulla: anche loro avrebbero dovuto seguire la sua stessa strada per raggiungerlo. Si protese fuori della bocca, richiamando la loro attenzione. «Bisogna passare da questa parte! Legate i cavalli e cercate di dare loro dell'acqua. Forse sotto le macerie la fonte è ancora attiva! Intanto legate alla corda qualcuna delle torce, le tirerò su!» Attese che una delle ragazze cercasse nella sacca della sella quello che aveva richiesto; poi, non appena lei ebbe assicurato un fascio di torce alla corda, la tirò rapidamente verso l'alto. Estrasse dalla borsa che portava alla cintura il suo acciarino e colpì ripetutamente la pietra focaia, infiammando l'esca. Soffiando delicatamente
sulla brace che si era formata sviluppò una tenue fiammella, sufficiente ad accendere lo stoppaccio resinoso. Sollevò in alto la torcia, proiettando tutto intorno un cerchio di luce tremolante. Un tratto della caverna annerita apparve in tutta la sua cupezza. Il fuoco aveva attaccato profondamente le pareti dell'ambiente, come se grandi fascine fossero state arse per distruggere tutto. Ma Vargo non vedeva in terra nessun resto di legna carbonizzata. Era come se quel fuoco fosse salito direttamente dall'inferno, o fosse stata bruciata qualche materia che si era completamente combusta senza lasciare alcuna traccia. Vargo aveva sentito parlare sul Confine, durante i suoi anni di servizio nella Guardia, di un liquido straordinario che sgorgava direttamente dalla terra nel Vuoto, e che aveva la proprietà di bruciare sviluppando un calore tremendo. Forse lì le armate di Vemerin avevano usato qualcosa di simile, si disse. O forse erano state le arti magiche del Re a produrre quella devastazione, senza che la natura vi prendesse parte in alcun modo. Continuò ad avanzare verso il centro della sala. Di tanto in tanto la luce della torcia rivelava le forme del grande mosaico che adornava il pavimento: una miriade di tessere multicolori affumicate e allentate dal fuoco, che adesso scivolavano sotto il suo passo come la ghiaia scomposta di un fiume. L'antica mappa della tomba di Vemerin era stata danneggiata, ma la sua immagine ancora sopravviveva in massima parte, quasi che la memoria del Re fosse venuta a imporsi ancora una volta con il ferro e il fuoco. Senza volerlo, la sua attenzione fu attratta da un piccolo settore che era rimasto intatto. Gli parve di rammentare il luogo reale della città a cui quel frammento si riferiva: una lunga strada fiancheggiata da statue colossali, la Via del Dolore. Era strano che proprio la rappresentazione del luogo più orribile fosse sopravvissuta: forse era un segnale degli dei, lasciato lì per trarne qualche auspicio. «È tutto distrutto» mormorò Vargo. «Ma dove sono gli altri del Collegio?» Amnor, ora accanto a lui, si guardava intorno. «Devono essere fuggiti, in qualche modo. Non c'è traccia di loro, e in basso c'erano soltanto alcuni corpi. Troppo pochi, rispetto al loro numero...» «Dobbiamo cercarli. Forse i sopravvissuti sono nascosti nelle gole qui intorno. A meno che la Legione non li abbia catturati» replicò con un brivido il giovane. Il vecchio annuì. «Stavo pensando anch'io la stessa cosa. Ma se è così,
nelle mani del Re stanno andando incontro alla più feroce delle punizioni. Vemerin ha atteso per trenta secoli di vendicarsi.» Vargo stava per replicare quando sentì la voce del sergente che gridava: «Vieni a darmi una mano, bamboccio! Non posso fare tutto da solo!». Si volse verso l'ingresso della caverna. Le luci tremolanti di altre torce stavano a indicare che anche gli altri dovevano essere saliti. Tornò indietro: il sergente era fermo presso l'imboccatura, e stringeva tra le mani il canapo. «Vieni ad aiutarmi con questo dannato sarcofago! Non possiamo lasciarlo giù, visto che è tanto prezioso.» Il giovane si affrettò ad afferrare anche lui la corda. Kon se l'era fatta passare dietro la schiena, e se ne stava con i piedi puntati contro il bordo dell'ingresso, in attesa. Vargo cominciò a tirare con tutte le sue forze. Anche Amnor dette un primo strappo deciso, rivelando ancora una volta la sua forza insolita. Lentamente la teca di cristallo prese a salire lungo la parete di roccia, finché la videro apparire all'altezza dell'apertura. «Tiriamola dentro, forza» gridò Amnor, protendendosi verso il carico e afferrandolo per uno dei bordi decorati di bronzo. «E adesso trasportiamola in un luogo più sicuro. Abbiamo bisogno di riposo, e di mangiare qualcosa. Forse la sala del refettorio è stata risparmiata, e troveremo delle provviste.» «Da quella parte. Se ricordo bene, oltre il tempio c'era un camminamento che conduceva alle altre celle dei monaci» disse Vargo. Riprese brevemente fiato, poi con un cenno agli altri tornò a sollevare sulle spalle la parte anteriore del sarcofago, mentre il sergente innalzava il retro. Quindi si mosse nella direzione indicata, seguito dagli altri. Sul fondo della sala c'era un cassone. Dentro trovarono degli orci che contenevano un liquido simile al vino. Di certo non proveniva dall'uva, ma anche se era stato fatto con chissà quali frutti si gettarono su di esso per placare la sete. C'era anche qualche forma di pane raffermo, che egualmente sparì in pochi attimi. Vargo stava cercando in giro per vedere se ci fosse ancora qualcosa da mettere sotto i denti, quando i suoi orecchi furono colpiti da un rumore sordo che proveniva da una delle celle vicine. Immediatamente richiamò l'attenzione degli altri. Era come se un grosso corpo si muovesse disordinatamente, urtando e scuotendo il pavimento della cella. Vargo sfoderò la spada e si avvicinò cauto, allungando la torcia sopra di sé per vedere di cosa si trattava. Oltre il varco si apriva una nuova sala scavata nella roccia, molto più
grande delle altre celle. Qui la visibilità era migliore: una parte della volta era franata, e dalla frattura nella roccia filtrava un raggio di luce sufficiente per scorgere una massa informe che si agitava sul pavimento in preda a un moto convulso. Il corpo, della grandezza di un vitello, sobbalzava e si agitava come se cercasse di rimettersi in piedi dopo una caduta. Vargo si arrestò sulla soglia, raggelato dall'orrore: a mano a mano che i suoi occhi si abituavano a quella luce crepuscolare, le fattezze di quello che aveva davanti si facevano più nette. E insieme totalmente insensate. Di colpo gli tornò alla mente l'orrore che per un istante aveva contemplato nella Torre degli Ibridi: qui però la creatura di Vemerin non era un corpo morto abbandonato ai secoli, ma qualcosa di vivo, che scalciava sul pavimento di pietra. Dietro di lui i suoi compagni si erano ammassati e guardavano in preda alla sua stessa angoscia. Il rumore che avevano sentito era causato da un'ala membranosa che si agitava con energia folle, cercando di imprimere al corpo uno slancio verso l'alto. Ma l'altra, piegata con un angolo innaturale, giaceva immobile, trascinata come una vela sgonfia sulla pietra. Nel punto dove in un corpo normale ci sarebbe stata la clavicola, uno spezzone di lancia spuntava dalla pelle rugosa dell'essere lasciando intravedere l'osso dell'ala spezzato. L'essere agitava le forti braccia dotate di artigli come se volesse colpire rabbiosamente l'aria intorno a sé ma l'ampiezza stessa delle ali ostacolava il suo tentativo di spiccare il volo. Dovevano essere giorni che era in preda a quella furia inutile, cieca, dettata soltanto dall'istinto di sollevarsi in aria per tornare a servire il suo creatore e a distruggere i suoi nemici. Passato il primo momento di sbigottimento, Vargo vide Khaima che incoccava rapida una freccia, facendo segno con gli occhi alla sua compagna di imitarla. «In fondo questi monaci non erano così arrendevoli come sembravano! Presto, sorella! Finiamolo!» Ma prima che la ragazza potesse tendere a fondo il suo arco, la mano decisa di Amnor era intervenuta a deviare la sua linea di tiro. La freccia sibilò via senza forza, perdendosi in alto sopra il bersaglio. Poi il vecchio anticipò la reazione infuriata della ragazza. «Non bisogna ucciderlo! Abbiamo l'occasione di catturarne uno vivo, e voglio avere la possibilità di studiarlo. Cerchiamo piuttosto qualcosa per immobilizzarlo!» Mantenendosi sempre a distanza di sicurezza dal mostro, che adesso, percependo la presenza di un pericolo, aveva raddoppiato i suoi sforzi inutili, gli umani si dettero un'occhiata intorno. Da un lato dello spacco nella volta pendeva una rete di corde intrecciate, che un tempo forse era servita
a sorreggere qualche tipo di velario per schermare la sala dai raggi del sole. Quando gli ibridi avevano fatto irruzione nel tempio la struttura era stata lacerata dalla loro furia, ma ne restava ancora un ampio tratto ancora integro. Vargo aggirò la bestia, sempre attento a non entrare nel raggio d'azione dei suoi artigli, e giunto sotto la rete si aggrappò con tutte le forze a un angolo che pendeva fino a sfiorare il pavimento, trascinandone i resti con sé. Poi rapidamente ne raccolse quanto più poté tra le braccia, tornando rapido dai suoi amici. «Sembra solida» fece Amnor, dopo averne saggiato la resistenza. «Avanti, afferratene ognuno un angolo e cerchiamo di immobilizzarlo.» Cautamente il gruppo si mosse verso l'ibrido che continuava a sobbalzare violentemente. Quell'orrore che doveva essere la sua testa si protendeva verso di loro, cercando di seguire i loro movimenti mentre raddoppiava i suoi sforzi. Quando la rete, lanciata a più mani con un rapido volteggio, si abbatté su di lui imprigionandolo, emise un urlo strozzato, differente da qualunque verso di animale Vargo avesse mai udito in vita sua. Poi si agitò ancora, ma i suoi movimenti scomposti non facevano altro che avvolgerlo ancor di più nella rete. Quando parve definitivamente in trappola, Vargo e Kon si lanciarono sulla rete, afferrandone gli orli e trascinandolo con forza, come un enorme pesce arpionato. L'ala continuava a muoversi con disperazione, come se nel pericolo l'essere mostruoso affidasse alla memoria del volo ogni residua speranza di salvezza. «Portatelo sul tavolo del refettorio!» gridò Amnor. «E cercate qualcosa per immobilizzarlo!» «C'è una specie di fucina, qui accanto!» rispose Shanda, che aveva assistito alla cattura in disparte. Ma sul suo bel viso, ancora contratto in una smorfia di orrore, si stava facendo strada un'espressione crudele. «Ho visto dei martelli. E dei chiodi!» «È quello che ci serve» fece Amnor, mentre aiutato da Vargo e dal sergente era riuscito a sollevare il corpo imprigionato sul tavolo. Poi, raccolti nella mano i lunghi chiodi da ferratura e il martello che la ragazza gli aveva porto, si chinò a osservare più da vicino la loro preda. Da sotto le maglie della rete il mostro ricambiava il suo sguardo con incredibile ferocia. I suoi quattro occhi, posti ai lati della fronte, saettavano in giro muovendosi in modo indipendente, come quelli dei rettili. Ma il vecchio non sembrava turbato da quello che vedeva. «Amico mio, stai per conoscere le arti dell'Afflizione» lo sentì mormorare a bassa voce
Vargo. Poi il vecchio sollevò il braccio e conficcò con un colpo deciso uno dei chiodi nella carne del mostro. Un urlo inumano fece seguito al suo gesto. Ma incurante della reazione del prigioniero, Amnor continuava a piantare chiodi nel suo corpo, passando carne e tendini e configgendoli quindi nel legno massiccio. «Per dio, vecchio!» esclamò a un tratto il sergente. «Sembra che tu non abbia fatto altro in vita tua, che inchiodare dei disgraziati a una tavola!» «Ho fatto anche questo. Adesso potete rimuovere la rete.» Ancora sconvolto da quello che aveva visto, Vargo obbedì meccanicamente. L'ibrido continuava a urlare di dolore, ma non sembrava più in condizione di nuocere. Solo la testa si agitava, sbuffando e scuotendosi. Amnor lo osservò freddamente, poi dopo aver scelto uno dei chiodi più lunghi ed esaminato con attenzione il suo collo, piantò deciso il ferro attraverso i due grossi tendini che trattenevano la testa al busto massiccio. L'essere emise ancora un mugolio disperato, ma era evidente che il chiodo aveva reciso le sue corde vocali. «Lasciatemi solo con lui, adesso» disse Amnor. «Che cosa vuoi fare, vecchio?» replicò sospettosa Khaima. «E perché da solo? Non mi fido di te, dopo quello che hai fatto al Cantore!» Amnor esitò un istante, poi annuì. «E allora restate, se ci tenete tanto. Ma quello che sto per fare non è adatto a cuori teneri come i vostri.» «I nostri cuori non sono tanto teneri, vecchio; credevo che te ne fossi già accorto.» «Va bene. Allora non disturbatemi. Devo sapere come sono fatti questi esseri, se vogliamo avere una speranza di sconfiggerli. Devo sapere...» aggiunse poi ancora, come parlando a se stesso. Amnor aveva estratto dalla cintola il suo pugnale. Si avvicinò al corpo che ancora sussultava e infisse deciso la punta dell'arma nella pelle rugosa. La lama penetrò di un pollice scarso, poi la mano del vecchio spinse verso il basso, aprendo una fenditura verticale da cui prese a eruttare un liquido scuro e denso. Quando il taglio ebbe raggiunto la lunghezza di un piede circa, il vecchio prese a spingere con la lama sui lembi di pelle tagliata, in modo da mettere allo scoperto i tessuti sottostanti. Vargo aveva assistito alla mossa con un'espressione di ribrezzo. «Ma almeno uccidilo prima, vecchio!» esclamò disgustato, sfoderando la spada e apprestandosi a colpire il mostro che mugolava disperato. La mano di Amnor scattò a fermarlo, afferrandogli il polso con una morsa ferrea. «Deve essere vivo, se voglio capire la funzione dei suoi organi.
Vi avevo avvertito che non era uno spettacolo per femmine» aggiunse beffardo. «A che ti serve saperlo?» Amnor seguitava a incidere, incurante delle loro osservazioni. «È stato Vemerin a realizzare questi orrori. In qualche modo deve aver scoperto il segreto per dare vita alla materia inerte. Questo essere è il frutto dell'accoppiamento di un umano con animali giunti direttamente dall'inferno. Eppure le sue parti non si scagliano l'una contro l'altra, ma anzi convivono in un meraviglioso esempio di efficienza. Voglio sapere...» «Meraviglioso, vecchio?» gridò Shanda che pur tenendosi a distanza non riusciva a distogliere lo sguardo da quello spettacolo. Senza tregua, incurante degli scatti disperati dell'essere che cercava di strapparsi dai chiodi, Amnor continuava a incidere la possente cassa toracica, mettendo a nudo gli organi interni. La sua mano dirigeva la lama con perizia, come se fosse abituato a quel tipo di operazioni. «Devi essere stato un gran macellaio, vecchio!» gridò Khaima. «Era il medico dell'Imperatore, non dimenticartelo» le rispose beffarda Shanda. «Non vorrei essere uno dei tuoi pazienti!» Amnor non ascoltava, completamente immerso nella sua opera. Si arrestò solo un attimo a detergersi con il palmo della mano il sudore che gli colava dalla fronte, poi, sollevando con il pugnale un fascio di muscoli, non riuscì a trattenere un'esclamazione. Là dove negli esseri umani sarebbe apparsa la gabbia delle costole, l'ibrido presentava una sorta di grande scudo osseo, simile al guscio di una tartaruga. «Guardate» disse Amnor, ammirato. «Se anche sulla schiena, come credo, c'è una struttura simile, è pressoché impossibile sconfiggerlo con le armi degli uomini.» Sollevò di scatto il suo pugnale, colpendo con tutte le sue forze. La punta scivolò sullo scudo, lasciando soltanto una piccola scalfittura. Il vecchio colpì ancora, con lo stesso risultato. «Tutti i suoi organi vitali sono protetti da questa corazza naturale. Nemmeno una balista riuscirebbe a sfondarla» osservò Vargo scoraggiato. La testa del mostro continuava a scrollarsi con violenza, mentre le sue fauci scattavano azzannando l'aria intorno a sé, nel tentativo di afferrare qualcuno degli esseri che lo stavano torturando. I quattro occhi si muovevano frenetici, ciascuno in modo indipendente dagli altri. Vargo sentiva su di sé quello sguardo feroce, eppure in qualche modo reso più umano dal dolore che doveva provare. Per un attimo si sentì invadere da un senso di
pietà: sì, sotto quella apparenza perversa c'era qualcosa in quello sguardo ottenebrato dalla sofferenza che richiamava un'eco della sua parte umana. Fu preso dall'orrore per quello che stavano facendo. Ma Amnor, come se avesse intuito i suoi pensieri, alzò lo sguardo su di lui, fissandolo freddamente. «Le Tavole dicono che sei destinato a essere imperatore, amico mio. E allora impara la prima regola del regno: sapere! Saper essere terribile!» «Ma il tuo sapere è solo un'oscena conoscenza dei modi di infliggere il dolore! Non è questo che voglio, se davvero il destino ha scelto me per guidare i miei simili!» Il giovane puntò il dito verso lo squarcio sanguinolento sul torace della bestia. Ma Amnor scoppiò nel suo riso crudele. «Come credi che si sia retto l'Impero di Menthor, che tu vuoi salvare? Se alla Loggia delle Afflizioni io non avessi studiato ogni fibra del corpo umano, per intenderne i più segreti legamenti, le connessioni nervose, il modo in cui infliggere il dolore ai suoi gangli più nascosti, in qual modo questa costruzione del tempo e della debole volontà degli uomini avrebbe potuto resistere nei secoli? Se io non avessi trovato il modo di condurre la disperazione del corpo fin sui confini dell'anima stessa, da tempo immemorabile la compagine degli uomini sarebbe precipitata nel caos di una lotta di tutti contro tutti, senza ordine e volontà.» «Un ordine fondato sul terrore e la disperazione. Questa è la strada percorsa da Vemerin. La strada che lo ha condotto alla sua cieca follia!» «Questa è la sola strada. Nester è vicina al suo culmine, il Re sta richiamando la Legione. Tra pochi giorni, forse già questa notte stessa, la sua armata si scatenerà verso la Porta. Le Tenebre canteranno con suono terribile, e il bronzo della saracinesca si fonderà con la loro voce, aprendo il passo alla follia. Vemerin dilagherà nelle terre dell'Impero, travolgendo tutto quello che incontrerà al suo passaggio. Non saranno le mura di Menthor, la loro sterile barriera di pietre a fermarlo. Solo se trovassimo un modo di rendere inoffensiva la punta di lancia del suo esercito, l'Orda degli ibridi, avremmo una speranza.» «Ma hai constatato tu stesso come questo essere sia immune alle ferite delle armi.» Amnor annuì, facendosi scuro in volto. Con uno scatto furioso tornò a colpire con tutte le sue forze l'ibrido, imprecando contro di lui. «Eppure devi avere un punto debole!» gridò. Poi, preso da un pensiero improvviso: «Oppure... se capissi davvero come sei fatto, anche se la tua
natura rifiuta di rivelarlo... gli occhi...». Sempre seguendo la sua misteriosa intuizione Amnor si mosse lungo la tavola, incurante degli artigli scattanti della bestia che arrivavano a sfiorarlo nel tentativo cieco di colpire. «I tuoi occhi... che cosa vedono?» Senza attendere altro Amnor allungò la mano verso l'ascia di Kon, strappandogliela dalla cintura. Poi la sollevò e con precisione la calò sulla testa del mostro, appena sopra la prima coppia di occhi. Al primo colpo il teschio risuonò come una campana, poi il vecchio tornò ad alzare l'arma e affondò un secondo colpo ancor più violento. Questa volta la lama vinse la resistenza dell'osso, penetrando profondamente nella testa dell'ibrido. Con furia Amnor prese a spingere sul manico dell'ascia, facendo forza fino a far saltare via la volta del cranio e mettendone allo scoperto il contenuto. Poi, mentre l'ibrido ancora vivo continuava a dibattersi, si chinò avidamente per osservare da vicino la materia cerebrale. «Ecco... ecco dove è nascosta la tua origine umana...» mormorò. Nella cavità della testa si riconosceva una massa grigiastra, straordinariamente simile al cervello di un uomo. «Non ha la mente di un bruto... Vemerin è stato saggio...» Vargo a sua volta si era avvicinato per vedere meglio. Non capiva l'esaltazione del vecchio, per quella che gli sembrava solo una beffa oscena del Re folle. «Non capisci, Vargo? Gli ha dato la forza della più straordinaria delle belve... Ma gli ha lasciato l'impronta della nostra mente...» «Perché?» gridò il sergente, che finora era rimasto in silenzio, con una maschera schifata sulla faccia. Amnor si volse appena dalla sua parte, come se solo adesso si accorgesse della presenza dell'uomo. Poi tornò a fissare l'ibrido che si dibatteva. «Se gli avesse dato anche la mente di una belva sarebbe stato incontrollabile. Così invece gli ha inflitto tutte le nostre debolezze...» «Debole? Questo demonio?» si intromise Khaima. «Sei pazzo?» «Nella mente è la sua eredità umana, il suo limite. Ha paura... e può essere ingannato...» proseguì Amnor enigmatico, senza badarle. «Può essere ingannato...» ripeté. «Forse è questa la strada...» Improvvisamente, come se tutta la tensione e la fatica accumulata gli fosse precipitata addosso di colpo, Amnor si accasciò sulla nuda pietra, madido di sudore. L'ascia ancora bagnata del sangue dell'essere gli scivolò dalle dita, piombando a terra con un frastuono metallico che fece sobbalzare gli altri. Tutta la straordinaria energia nervosa che lo aveva sorretto fino
a quel momento sembrava scomparsa di colpo. Volgeva intorno la testa, lo sguardo vacuo come se un'improvvisa cecità lo avesse colpito e non distinguesse più nulla di quello che lo circondava. «Che hai visto, vecchio? Parla!» urlò Khaima. Ma Amnor sembrava non sentire le parole che la ragazza gli gridava all'orecchio. Poi, lentamente, si scosse dal suo torpore. «Se avessi tempo... anch'io potrei tentare questa strada...» «Vorresti anche tu chiamare sulla terra qualcuno di questi mostri? Non ti basta il nugolo che ha devastato questo tempio?» sibilò Khaima. La mano della ragazza era contratta sull'elsa della spada. Per un momento Vargo lesse nei suoi occhi la decisione di farla finita con il vecchio. Allora mosse un passo avanti, interponendosi tra i due. «Non è il momento di regolare i nostri conti. Dobbiamo restare tutti dalla stessa parte, la parte degli uomini.» Khaima si rilassò, ma era evidente dalla contrattura delle mascelle come dovesse aver fatto ricorso a tutta la sua forza di volontà per non seguire l'istinto di colpire. Amnor invece pareva completamente insensibile a quello che avveniva intorno. Si riprese, mentre il suo sguardo riguadagnava la solita freddezza. «Aspettate» disse. «C'è qualcosa che non avevo notato.» Gli altri lo videro muoversi rapido verso il fondo della sala. Sembrava cercare qualcosa nella parete di pietra, intorno a una fessura che la tagliava verticalmente per tutta la sua lunghezza. Anche Vargo, seguito dagli altri, si diresse da quella parte. Quando fu vicino, si accorse che quello che aveva attirato l'attenzione del vecchio non era una semplice crepa: in realtà si trattava di una profonda nicchia nella parete, in cui si intravedeva l'inizio di una scala scavata nella roccia. «C'è ancora qualcosa, di sopra» disse Amnor. «Forse altre stanze, forse il Collegio è molto più grande di quanto crediamo.» Anche Vargo era giunto alla base della scala. Allungò il collo per vedere qualcosa oltre il termine dei gradini, ma riuscì a vedere soltanto una nuova grande apertura fuligginosa. Deciso si incamminò su per la rampa. La scala immetteva in una nuova sala circolare, simile a quella del piano inferiore. Anche qui il colmo della volta era sorretto da un pilastro di pietra che sorgeva dal pavimento fino a conficcarsi nella copertura di roccia. Gli sembrava di vedere qualcosa, ammassato vicino alla base del pilastro. Fece un passo avanti, cercando di farsi luce con la torcia, ma la fiamma non faceva che ondeggiare su uno strato compatto di pietra calcinata. Fu allora che il suo piede urtò qualcosa.
Si ritrasse d'istinto, in preda al ribrezzo. Era il torso decapitato di un uomo, privo delle braccia e troncato all'altezza della vita. Le costole spezzate spuntavano da quel moncone come macabro segnale del colpo tremendo che l'aveva ridotto in quelle condizioni. Vargo stava ancora chiedendosi che cosa potessero significare quei resti, quando la luce della torcia illuminò una grande massa. Attorno alla colonna centrale della sala, rimasta in piedi, era ammonticchiato qualcosa. Si avvicinò, cercando di vedere meglio, ma fatti pochi passi si arrestò inorridito. Addossati alla colonna i corpi di decine di monaci, semicarbonizzati, se ne stavano in un mucchio informe, serrato da una cinta di ferro che li aveva stritolati prima che il fuoco giungesse a completare l'opera. Il metallo era penetrato nei corpi, tagliando praticamente in due i più esterni del mucchio, e soffocando quelli dietro i primi, schiacciando costole e spezzando vertebre. Una terribile esecuzione di gruppo, che aveva cancellato in un colpo solo dalla terra tutti i discendenti dei traditori di Vemerin. Le fiamme avevano distrutto le maschere con cui in vita quegli uomini avevano nascosto i loro volti dal morbo della maledizione. E il fuoco, paradossalmente, aveva cancellato la loro bianca uniformità, scolpendo nelle carni aggredite dalle fiamme dei tratti diversi. Era come se solo al momento della morte quegli uomini avessero recuperato una loro spaventosa identità. D'istinto Vargo si era portato una mano alla bocca per vincere il terribile fetore di carne bruciata. Mosse ancora qualche passo in avanti, poi si volse di scatto, avvertendo una presenza accanto a sé. Khaima l'aveva seguito, e se ne stava anche lei a osservare la scena, un lembo della sciarpa sollevato a proteggersi le narici. «C'è anche il loro maestro» mormorò con una punta di disprezzo nella voce, accennando a una delle statue contorte. Vargo riconobbe in uno dei corpi al centro del mucchio i resti dell'abito diverso che aveva indossato Temon. «Non se la sono cavata poi troppo bene» seguitò la ragazza, sempre con il suo tono di sufficienza. Mentre passavano accanto al mucchio dei cadaveri, Vargo gettò un'occhiata ai suoi compagni. Amnor osservava lo spettacolo impassibile, mentre Shanda aveva emesso un singhiozzo di terrore. Vide con la coda dell'occhio la sua compagna che l'afferrava protettiva per le spalle, provando a rincuorarla con un bacio. Ma la giovane continuava a smaniare, accennando a voler tornare indietro. Allora Khaima le allungò uno schiaffo, scuotendola.
«Smettila con questa manfrina!» gridò. «Non voglio che tu dia spettacolo a questi uomini! Che direbbe la Signora Rossa?» Shanda si massaggiò la guancia con aria contrita. Amnor si mosse verso la massa dei corpi. Esaminava i loro volti contratti come cercando qualcosa in quelle fattezze distorte. Poi, inaspettatamente, lo videro arrampicarsi sul mucchio e procedere faticosamente verso il centro, calpestando senza ritegno i corpi carbonizzati che si spezzavano sotto il suo peso. Quando fu giunto in prossimità dei resti di Temon, Amnor si fermò un attimo a esaminarne il volto, poi estrasse il pugnale e lo incuneò tra le mascelle serrate del cadavere, schiudendole a forza. Vargo aveva l'impressione che stesse cercando qualcosa nella sua bocca. Lo vide esaminare con attenzione la cavità delle fauci, poi il vecchio si voltò e percorse a ritroso il suo cammino, fino a balzare di nuovo a terra accanto a loro. Aveva una strana luce negli occhi, come se stesse riflettendo intensamente su quello che aveva visto. «Perché Vemerin ha voluto questo?» chiese all'improvviso Amnor, come parlando a se stesso. «Cosa?» «La distruzione degli eredi del Collegio. Perché ha scatenato le sue belve contro di loro? Per la seconda volta?» «Forse il ricordo del loro tradimento lo ha tormentato per i trenta secoli del suo sonno» azzardò Vargo. Il vecchio scosse la testa, perplesso. «No, amico mio. Non hai visto la ferocia con cui hanno infierito sulle cose, oltre che sui corpi? No, cercavano qualcosa.» «E cosa?» «Qualcosa che i monaci dovevano aver portato con loro, e che costituiva un pericolo per il Re. Non ricordi che cosa ci disse Temon, il loro capo? Quello che abbiamo visto tatuato sui corpi delle sue donne nell'harem di Anharra?» «I Canti delle Tenebre? Il rito con cui si evocano dal profondo quelle divinità, ma anche quello con cui le si respinge nell'inferno. E pensava di trovarli qui?» «È possibile. Qualcuno dei membri del primo Collegio forse riuscì a sfuggire alla prima strage, portando con sé dei documenti dell'antico regno. Chissà, magari ebbero il tempo di fare una copia dei canti. Ricordi l'archivio saccheggiato di Anharra? Forse non è andato tutto distrutto, forse potremmo trovare qualche cosa che ci sia utile.»
«Ma anche se fosse esistita una copia dei Canti, gli stessi monaci non erano più in grado di comprenderla. Temon ci disse che il ricordo di quegli avvenimenti sopravviveva confuso nelle loro menti, e soltanto con l'aiuto dell'acqua del Ricordo erano in grado di richiamare appena qualche frammento dell'antica conoscenza!» «Sì. Ma se potessi mettere le mani su quegli scritti, io sarei in grado di decifrarli! Dimentichi la notte che passai nella Sala Negata, nella Biblioteca di Menthor?» «Quella che hai dato alle fiamme!» Amnor chinò il capo per un attimo, poi lo rialzò con uno scatto di alterigia. «E ho fatto bene! Nessuno dovrebbe mai aver conosciuto quei segreti. Ma non è questo di cui abbiamo bisogno. Abbiamo la figlia del Re, e sul suo corpo è segnato il Trentesimo Canto, quello che chiude le porte. Lo strumento per rigettare le Tenebre nell'abisso da cui sono salite, il modo per privare Vemerin della fonte del suo potere» seguitò Amnor, indicando il sarcofago di cristallo. «Ma le sue parole sono scritte nella lingua perduta, di cui anche i monaci non avevano che un ricordo confuso.» «È per questo che dobbiamo cercare i loro archivi segreti. Deve esserci il modo di imparare la lingua dei demoni!» Vargo si guardò intorno, sconsolato. «Ma è stato tutto distrutto. Anche se quei documenti erano stati conservati, gli ibridi devono essersene impadroniti.» Amnor scosse la testa. «No. I mostri non hanno trovato quello che cercavano, ne sono certo.» «E come fai a dirlo?» Il vecchio additò la massa dei corpi stretti alla colonna. «Il modo in cui li hanno uccisi. Non c'è l'orma di una ferocia cieca, come sui corpi dei pochi sorpresi all'aperto. C'è un motivo per cui sono stati eliminati in quel modo. Sono stati addossati alla colonna, con Temon al centro, in modo tale che sotto la stretta della cinta di ferro egli fosse l'ultimo a morire. Pensavano che assistendo allo strazio dei suoi compagni avrebbe finito per parlare. Ma non lo ha fatto, ed è solo allora che l'Orda ha distrutto tutto con il fuoco, nella speranza che il segreto che era sfuggito loro non potesse essere mai di nessun altro.» «Ma come fai a esserne così certo? Temon potrebbe aver ceduto, all'ultimo. In fin dei conti era un uomo come tutti gli altri!» «No. Ho esaminato il suo corpo. Si è mozzato la lingua per non parlare.
E quindi il segreto del Collegio deve essere ancora qui.» «Ma dove?» chiese Vargo. «Deve essere qui. Nascosto. Questa montagna è scavata come un termitaio.» Vargo girò gli occhi tutto intorno. I pilastri che scandivano la sala del Capitolo si susseguivano gli uni agli altri con un ritmo regolare, che non sembrava celare nulla. «Ma abbiano esplorato tutte le cavità del Collegio. Non c'è nulla.» Anche il vecchio si volgeva intorno nervoso. Si spostò verso il centro della sala, toccando in più punti alcuni pilastri, in cerca di qualche leva o meccanismo che azionasse un'apertura nascosta. Poi si arrestò con un gesto d'impazienza. «Così non troveremo nulla. Se individuare l'ingresso fosse semplice ci sarebbe riuscita anche l'Orda. Ameno che...» Aveva abbassato a lungo lo sguardo a terra. «Abbiamo cercato dappertutto... Però non abbiamo pensato al luogo più ovvio.» Vargo aveva seguito le mosse di Amnor. Gli pareva di seguire il filo delle idee dell'altro. «Certo... sotto i nostri piedi. Nella massa di roccia che sostiene la parte abitata c'è spazio per qualunque cosa!» «Giusto!» osservò meditabondo Amnor. Il suo sguardo si era concentrato sul grande mosaico che si sviluppava lungo tutta la superficie. «Questo disegno...» «Riproduce la pianta della tomba di Vemerin, ad Anharra. Ce lo disse Temon» completò il suo pensiero Vargo. «E infatti ne è una copia straordinariamente fedele... Ecco la traccia del grande tamburo di bronzo... con i suoi colossi a fermarne l'apertura... E qui il varco che immetteva nel corridoio di accesso...» Parlando, il giovane si spostava lungo la cornice esterna del disegno, illustrando le varie zone a mano a mano che le raggiungeva. All'improvviso si bloccò, portando la mano alla fronte. Anche Amnor si era immobilizzato alla sua reazione. «Cosa stai facendo?» mormorò il vecchio. «Ho già visto questo...» «Cosa?» «I membri del Collegio, la loro singolare processione lungo il perimetro del mosaico!» Vargo ricordò improvvisamente l'episodio. Guidati dal Primo, tutti i monaci si erano allineati in cerchio intorno al disegno, salmodiando il loro rituale. Poi, mentre le preghiere si trasformavano in urla convulse, avevano
preso a girare intorno, arrestandosi di tanto in tanto con delle soste che sembravano regolate dal ritmo del canto. «Temon ci disse che celebravano il seppellimento di Vemerin...» «Ma se quel canto avesse avuto anche un altro significato? Per esempio se fosse stato un mezzo per conservare il ricordo di qualcosa. Di un segreto.» «La chiave per aprire la caverna nascosta? Ma non siamo neppure sicuri che esista davvero!» «Esiste, ti dico! Io l'ho vista!» replicò deciso Amnor. Poi, di fronte allo sguardo scettico del giovane: «L'ho vista con gli occhi della mente. I soli che vedono davvero. Quello che colpisce i nostri sensi è un'ombra fragile del vero, soggetta alle mille incertezze della nostra imperfezione di uomini. Ma quello che vede la mente è la verità nella sua purezza. Vieni con me!». Amnor si guardò intorno, poi si mosse rapido verso un punto del grande disegno. «Ecco, è qui che si snodava la processione. Ed ecco il segno del suo passaggio.» Vargo si avvicinò, guardando anche lui il punto indicato. Sulle pietre multicolori che componevano il disegno si intravedeva una leggera depressione, più lucida del resto delle tessere, che si sviluppava in senso circolare. «Ecco la traccia lasciata dai piedi degli oranti. Per secoli e secoli i primi fuggiaschi da Anharra e poi i loro successori si sono mossi in cerchio scavando lentamente la pietra. Proviamo a seguirne il sentiero!» Amnor raccolse una torcia. Dopo averla rapidamente infiammata, cominciò a muoversi lungo il percorso segnato dall'usura dei passi, esaminandolo con attenzione e soffermandosi più volte. «Ecco, guarda qui. E lì! E anche più avanti!» Vargo si chinò a osservare. Lungo la traccia c'erano dei punti in cui la macchia più lucida si allargava, formando delle piccole isole lungo il cerchio. «In questi punti i monaci sostavano, quando il ritmo del canto glielo richiedeva. È in questo modo che per secoli si sono tramandati una regola.» «Ma non c'è nulla! Anche noi adesso abbiamo ripercorso la loro stessa via, e non c'è traccia di aperture!» Amnor annuì pensoso. «È vero... sarebbe stato troppo facile» mormorò mordicchiandosi il labbro inferiore. «A meno che il segreto dell'apertura non sia nel peso...»
«Che vuoi dire?» «Compiendo il rito, il ritmo del canto li guidava fino alla fine: quando ognuno di loro si sarebbe ritrovato sul punto definito... Quante sono le soste?» Vargo ripercorse rapido il cerchio. «Sei.» «E noi siamo solo in cinque... Ma possiamo tentare lo stesso! Aiutami ad ammucchiare delle pietre qui, dove prendeva inizio la processione.» Intuendo quello che il vecchio aveva in mente Vargo si affrettò ad accumulare i frammenti di uno dei pilastri spezzati nel punto indicato. «E voi avvicinatevi, presto!» Il sergente e le Sgualdrine avevano seguito fino a quel momento le loro mosse in silenzio. «Che hai in mente, vecchio?» chiese sospettosa Khaima, senza accennare a muoversi. «Avanti ragazze, disponetevi nei punti che vi indico» tagliò corto Vargo. «E tu sergente, laggiù.» I cinque raggiunsero le posizioni indicate. «E adesso...» cominciò a dire irridente Shanda. Improvvisamente qualcosa cedette sotto i suoi piedi. Emise un grido di sorpresa, mentre abbassava lo sguardo. Un gruppo di tessere aveva preso a sprofondare lentamente. Gridò ancora per attirare l'attenzione dei suoi compagni. Ma anche gli altri si trovavano nella stessa situazione: sotto di loro il pavimento di pietra stava cedendo. «Restate al vostro posto!» urlò imperioso Amnor. Intanto un rumore stridente di parti metalliche in movimento saliva dalle profondità a rompere il silenzio della sala. «Aspettate!» gridò ancora il vecchio. Il frastuono metallico andava aumentando d'intensità. Poi il pilastro al centro della sala cominciò a sollevarsi, rientrando rumorosamente nella volta di pietra e rivelando di essere scolpito interamente dalla base in giù da una spirale di gradini, che si avvitavano verso il basso. «Ecco!» gridò Amnor. «Ecco l'accesso alla camera segreta!» Senza attendere la reazione dei suoi compagni si mosse verso la scala, precipitandosi giù per la rampa e scomparendo alla vista. Vargo si era mosso immediatamente per seguirlo. Anche Khaima scattò verso l'apertura, richiamando la sua compagna. «Svelta, sorella! Se là dentro c'è qualche tesoro, le figlie della Signora Rossa devono avere la loro parte!» Ai piedi della scala si apriva un ampio spazio, immerso nelle tenebre. Alla luce delle torce videro di essere scesi in una specie di pozzo di pietra, alle cui pareti era addossata una serie di alti scaffali, che ne scandivano la
forma circolare come colonne di un tempio. Negli intervalli svettavano sette monoliti di marmo bianchissimo. Centinaia di rotoli di pergamena giacevano ancora allineati nei diversi scomparti, insieme a montagne di tavolette di terracotta coperte dei segni dell'antica lingua. Numerosi rotoli giacevano in terra, come se qualcuno li avesse consultati in fretta, senza avere il tempo di riporli in ordine. Forse l'attacco aveva interrotto il lavoro di qualche copista. Oppure, pensò Vargo, qualcuno negli ultimi istanti aveva cercato inutilmente l'informazione che potesse salvare ancora il Collegio. Amnor era in preda all'eccitazione, gli occhi accesi da una luce di trionfo. «Pensa, Vargo!» gridò a un certo punto in preda all'entusiasmo. «Come speravo, gli antichi membri del Collegio riuscirono a portare con loro gli archivi della città maledetta, quando fuggirono! Qui forse troveremo la spiegazione di quello che accadde, e forse come combattere il Re folle!» «Ma ci vorrebbero degli anni per esaminare tutte queste carte!» Un'ombra di perplessità oscurò di colpo lo sguardo del vecchio, come se, passato l'entusiasmo per la scoperta, si rendesse conto anche lui delle difficoltà. «Hai ragione. Eppure dobbiamo tentare, o saremo perduti.» Osservò rapidamente le pergamene che giacevano in terra, quindi si gettò a esaminare quelle ancora sui ripiani. Ne scorreva in fretta il contenuto, poi le gettava via eccitato, passando alle successive. A mano a mano che procedeva la sua espressione si faceva sempre accesa e più entusiasta. «Vargo, quale tesoro incredibile è conservato qui dentro! Guarda!» gridò, srotolando davanti agli occhi del giovane una delle pergamene, dove l'inchiostro dell'antico copista aveva tracciato lo schema di un complesso meccanismo. «Il segreto dei dragoni del Re pazzo! Ah, se avessimo tempo!» seguitò. Il vecchio seguitava a fissare avido la fitta trama di segni. Poi accartocciò il foglio con un'imprecazione rabbiosa, mentre le braccia gli ricadevano pesantemente lungo i fianchi. «A Menthor... le fucine imperiali... lì si potrebbe. Forse.» Per un momento si immobilizzò, scuotendo la testa. Poi di colpo parve rianimarsi, mentre i suoi occhi correvano alle stele di marmo. Si mosse rapido verso quella più vicina, seguito dal giovane. «Che cos'è...» mormorò tra sé, sfiorando con una mano la fitta trama di arabeschi che ne copriva la superficie. «Sembra una qualche forma di scrittura» disse Vargo. «Ma i caratteri sono incomprensibili. Cosa potrebbe significare?»
Invece di rispondere Amnor continuava a scrutare i segni, le labbra serrate tra i denti. Poi il suo volto si illuminò. «Conosco questa lingua. Nella Biblioteca di Menthor, tra gli scritti più antichi, ho visto... È la lingua con cui si dice che gli dei abbiano conversato con gli uomini agli albori dei tempi» esclamò a un tratto. «Non è del tutto incomprensibile: guarda!» Il vecchio tese il dito verso un punto della superficie. «Questi segni paiono fronde strappate all'albero della vita: rune, è così che furono chiamate. La scrittura segreta, che svela e nasconde.» «Che cosa dice?» esclamò ansioso Vargo. «Sembra una celebrazione... le gesta di Vemerin nel Vuoto, le sue conquiste... E poi, aspetta. C'è un accenno alle potenze che lui venerava, sì, le Tenebre... Parla delle Tenebre, di come egli si è seduto accanto al loro trono...» «Ma tutto questo lo sappiamo già, come può aiutarci?» «Non può, a meno che... a meno che quello che è comprensibile non sia che la traduzione di qualcosa di più antico... Ecco cos'è! È il testamento di Vemerin! Quello che il Re voleva che fosse conosciuto dalle future generazioni: la storia delle sue imprese contro i sette Popoli del Vuoto. Come il Re pazzo li soggiogò.» «Le tribù che abbiamo incontrato nel deserto» esclamò con rancore Khaima, che aveva seguito il discorso dietro le loro spalle. «Quei barbari che hanno messo a morte la nostra sorella, alle colline insanguinate...» «E le luci che abbiamo visto convergere dalle montagne nella piana di Anharra! Essi tornano sotto le bandiere del Re pazzo» aggiunse Vargo cupo. «Ma perché una celebrazione delle sue gesta? E perché il Collegio avrebbe conservato la memoria delle sue stragi?» Anche Amnor sembrava perplesso. «Già. Non sembra avere senso. I peggiori nemici del Re che conservano nella pietra la memoria della sua gloria...» Il vecchio si mosse, scivolando rapido da una stele all'altra, fino a fermarsi davanti alla settima. «Una lapide per ognuna delle sue vittorie. Ma ricordi cosa ci disse Temon? Che uno dei Popoli si era ribellato, resistendo eroicamente a Vemerin? Forse queste pietre non sono la storia del suo trionfo, ma quella della sua disfatta! Leggi!» Vargo si concentrò sulla lapide. Ma la sua conoscenza incerta dell'antica lingua gli consentiva di comprendere solo qualche parola di quello che c'era scritto. Si volse verso il vecchio, in cerca d'aiuto. Amnor era intento a decifrare la scrittura. Il tremolio delle labbra e la
concentrazione dello sguardo provavano lo sforzo di comprendere. Poi il suo volto si illuminò. «Sì, è la storia del Popolo Ribelle!» Khaima si strinse nelle spalle. «Perché affannarci con una razza di spettri? In che può aiutarci, se nemmeno seppe aiutare se stessa? Non ricordate quello che ci disse Temon, quando gli riferimmo della Chiesa delle Tenebre, quella che abbiamo trovato poco oltre la Porta sul Vuoto?» «Che lì i ribelli avevano affrontato la Legione scatenata da Vemerin sulle loro tracce» si intromise Shanda. «E il mucchio di ossa che abbiamo trovato conferma il loro destino» concluse con un brivido, al ricordo dello scempio. Amnor annuì, grave. «Ma c'era un motivo per la sua ferocia» disse, scorrendo il dito su una nuova serie di segni. «I capi di quel Popolo gli avevano strappato un segreto che poteva essere mortale per lui: il segreto della Luce!» «Il segreto della Luce? Che vuol dire?» «Non è facile intendere questo passo... Sembra che si parli di una pietra magica...» «Lo Smeraldo che il Re si fece incastonare nell'orbita? Ma era in suo possesso, nel sepolcro di Anharra! L'abbiamo visto! Tu stesso hai guardato attraverso di esso!» Il vecchio scosse la testa. «No, non è quello. Erano due le pietre che i sapienti della sua corte crearono per sostenerne il potere. Lo Smeraldo, e un secondo cristallo. Un rubino.» «E a cosa doveva servire?» «La lapide non lo rivela. Luce... forse era il mezzo per ridestare coloro che il Re incatenò al sonno dei secoli.» Vargo alzò d'istinto gli occhi alla volta di pietra, oltre la quale giaceva il sarcofago della figlia del Re. Amnor annuì, leggendogli nel pensiero. «Sì, forse con quella pietra sarebbero stati in grado di strapparla al suo sonno. Era questo che temeva Vemerin.» Vargo tornò a esaminare la stele. Era coperta di caratteri incomprensibili, constatò deluso. Ma tra alcuni blocchi di segni e per una larga superficie al centro la scrittura si interrompeva, lasciando il campo a una serie di disegni riconoscibili. Alcune erano delle semplici rappresentazioni, incise in uno stile arcaico e pesante, di uomini e donne colti in scene di caccia, o mentre peregrinavano a cavallo sullo sfondo delle pietraie del Vuoto. V'erano disegni di capanne e di più complessi edifici in muratura, e scene col-
lettive che sembravano rappresentare qualche cerimonia incomprensibile. Tutta la zona centrale era occupata poi dall'incisione di quella che sembrava una mappa, un grande spazio circolare ai bordi di una catena di montagne, con al centro il disegno di una città turrita, circondata da un'imponente cerchia di mura. «È la rappresentazione della valle maledetta al cui centro sorge Anharra!» disse Vargo dopo un rapido sguardo. «Sì. E questa è la catena di monti che la circonda e separa dal Vuoto» aggiunse Amnor, tendendo un dito verso un punto del disegno dei monti. «Ecco, questo è il luogo dove siamo ora, la sede del Collegio.» «Chissà perché i monaci decisero di conservare nella pietra la traccia di luoghi che conoscevano benissimo! Se almeno potessimo leggere cosa c'è scritto tra le incisioni!» «Aspetta!» riprese Vargo dopo un attimo di perplessità. «Certo, se questa fosse la mappa di Anharra sembrerebbe un'opera inutile... Ma guarda qui, in questo punto della catena montagnosa! I segni quasi si confondono tra le creste montane: è la riproduzione di un edificio! Qui, in questo passo!» Amnor si era proteso verso il punto indicato. Aguzzava la vista aggrottando le sopracciglia, come se volesse penetrare dentro la pietra del disegno. «Certo, hai ragione, è questo lo scopo della stele: tramandare l'origine del Popolo Ribelle, il luogo dove aveva... che cosa?» «Sembra la riproduzione di un tempio.» Khaima aveva allungato il collo alle spalle dei due uomini, per vedere a sua volta. Poi si ritrasse con un'alzata di spalle. «Ma a che serve ricordare gli dei di un popolo scomparso? È tutto inutile.» «Forse no...» mormorò il giovane. «Che vuoi dire? Sei impazzito? Hai visto anche tu la montagna di ossa nella Chiesa! E poi i resti della battaglia accanto al Lago Salato! Come può essere scampato qualcuno a quella strage?» «È vero...» mormorò ancora Vargo, riflettendo ad alta voce. «Ma ammettiamo che una parte di quel Popolo sia scampata, che in qualche modo sia riuscita a tornare nel suo rifugio tra le montagne... Oppure che qualcuno dei suoi clan fosse restato a custodire la casa dei suoi dei. E che essi siano sfuggiti alla rappresaglia di Vemerin finché il Re non fu serrato nella tomba dalla rivolta del Collegio. Forse hanno dato vita ad altre generazioni, nei secoli che seguirono. E potrebbero esistere ancora: ed essere a conoscenza dei segreti del Re!»
Amnor aveva seguito attento le parole del giovane. «Questo spiegherebbe perché il Collegio abbia conservato la memoria del suo nascondiglio nella cripta, e perché Temon e i suoi abbiano preferito una morte atroce piuttosto che confessare quello che sapevano.» Khaima scuoteva ostinata la testa. «Perché allora non ce lo hanno detto quando stavamo per salire alla città? Quei maledetti monaci hanno taciuto, invece di rivelarci un'informazione che avrebbe potuto esserci utile! Ci hanno spinto verso la morte, sogghignando sotto le loro maschere oscene! È bene allora che questi cani siano stati fatti a pezzi!» «No! Non ricordate l'acqua del Ricordo? Solo Temon, il Primo, era a conoscenza del segreto della cripta, ne sono certo. E saggiamente lo conservò anche con noi. Era certo che la nostra impresa avrebbe avuto un esito infausto, e non poteva rivelarci nulla! Come poteva essere certo che se fossimo caduti nelle mani del Re pazzo avremmo avuto la sua stessa forza d'animo?» Le Sgualdrine si scambiarono una rapida occhiata, poi Shanda distolse lo sguardo, imbarazzata. Anche Khaima pareva incerta. Amnor aveva seguito lo scambio di battute con aria ironica. «Credo che Temon abbia agito con saggezza, dopotutto. Sarebbe stato folle a mettere un segreto di trenta secoli tra le grinfie di due cortigiane avide. Ma adesso che facciamo?» «Cerchiamo i superstiti del Popolo!» disse animatamente Vargo. «Ma il luogo indicato sulla mappa è dalla parte opposta rispetto alla via per Menthor. Se si tratta di una falsa pista, corriamo il rischio di non riuscire ad arrivare nelle terre dell'Impero prima delle armate di Vemerin! Dall'esame dell'ibrido ho tratto qualche scoperta che potrebbe aiutarci a tentare una difesa contro l'Orda, se riuscirò ad avere l'aiuto del Cerchio delle Saggezze!» Vargo si era messo a fissare la stele. Poi con decisione estrasse la spada dal fodero sulle spalle, e cominciò a menare fendenti sulla pietra, cancellando in una nuvola di scaglie la traccia del nascondiglio. «Che fai, pazzo?» gridò Amnor cercando di fermarlo. Il giovane si sottrasse con energia alla stretta del vecchio, continuando imperterrito nella sua azione. Solo quando non vi fu più traccia del disegno si decise ad abbassare la lama. «Temon ha difeso il segreto con la sua vita. Adesso ne siamo noi i custodi, e nessuno deve poterlo conoscere. Come abbiamo scoperto noi l'ingresso segreto, qualcun altro potrebbe riuscirci. E nessuno deve farlo, almeno finché non saremo arrivati nel luogo indicato. Se il Po-
polo Ribelle esiste ancora, non possiamo non chiamarlo alla lotta. Io andrò là. Non voglio costringervi a seguirmi» aggiunse subito dopo. Gli altri si guardarono in silenzio. Poi dopo un lungo attimo prese la parola Amnor. «Nessuno conosce il futuro, né il destino che ci attende. Se sia meglio rispettare la tua decisione, oppure abbandonarti e cercare scampo verso Menthor, solo gli dei lo sanno. Ma noi siamo uomini e, come per ogni uomo, è solo la nostra forza che può sottomettere il destino. E dunque verremo con te.» «Ci muoveremo all'alba» concluse Vargo. Il brontolio lontano della pioggia di meteore spezzava il silenzio della notte. Vargo si sporse dall'apertura del Collegio, guardando verso l'orizzonte. Tutta la massa rocciosa aveva ripreso a tremare. L'aria era pervasa da un pulviscolo rugginoso che bruciava gli occhi. Un vento rabbioso spazzava tutta la gola, trascinando con sé nuvole pesanti che avevano oscurato completamente il cielo. Solo l'occhio violento di Nester, a picco sulle loro teste, sembrava avere la forza di superare il velo sporco che copriva tutto. Il fuoco del bivacco lanciava ancora qualche sprazzo di luce. Amnor gettò i resti del contenuto della sua tazza sulle braci, sollevando una leggera nuvola di vapore. «È tempo di riposare. All'alba dovremo rimetterci in cammino, e la strada che ci aspetta non sarà certo agevole. Queste nuvole non promettono niente di buono.» «Si sta per scatenare una tempesta?» Il vecchio scosse la testa. «Ho già visto qualcosa di simile, nelle terre d'Oriente.» Protese la mano fuori, e afferrò tra le dita qualche particella del pulviscolo, portandola alle narici. «Zolfo. E cenere. È come pensavo: dev'esserci una montagna di fuoco da queste parti, che si è risvegliata.» Poi alzò gli occhi al cielo. «O forse più d'una. Il fuoco della terra si sta risvegliando. Senti il suo ruggito?» disse, afferrandosi al bordo dell'apertura, per resistere al nuovo tremito violento che scuoteva la montagna. Accanto a lui Shanda aveva già allungato la sua coperta. La ragazza si distese languida, sbadigliando. Poi fece un cenno alla sua compagna, invitandola a raggiungerla. Khaima scivolò sotto la coperta, tirandosela fin sulla testa. «Faccio io il primo turno di guardia» dichiarò Vargo, gettandosi il mantello sulle spalle e afferrando la sua spada. Kon annuì con un grugnito. Il
sergente aveva seguito le mosse delle ragazze e sembrava riflettere su qualcosa. In quella giunse dal giaciglio delle Sgualdrine un risolino, seguito da un mugolio soffocato. «Non sono male quelle due, per niente» mormorò il sergente. «La bionda ti ha messo gli occhi addosso, bamboccio. Perché non vai a farle compagnia? Così io potrei lavorarmi l'altra. Ha due occhi che ti passano da parte a parte. Per non dire del resto. Mi piacciono quelle come lei, braccia e gambe forti come l'acciaio. È uno spasso averci a che fare. Mi ricordo una così, a Hirush: ho ancora sulla schiena i segni delle sue unghie. Ma anche lei ha addosso qualche segno dei miei!» concluse con una risata sguaiata. «Non credo che tu sia il suo tipo, sergente. È meglio che la lasci stare.» «Io sono il tipo di tutte, bamboccio. Tu, piuttosto. Che motivo hai di essere tanto schizzinoso? O sei uno di quelli cui non piacciono le donne? Perché se è così non hai che da dirlo, Kon non va tanto per il sottile, dopo tre mesi di deserto!» sghignazzò ancora il sergente. Il giovane aveva seguito con fastidio le battute da caserma dell'uomo. Sentì un'ira sorda montargli dentro. «Ti ho già dato una lezione, a Hirush» sibilò facendosi avanti. «Ma pare che non ti sia bastata.» Sentì la mano di Amnor che lo tratteneva per la spalla, poi la voce profonda del vecchio gli risuonò accanto. «Il giovane Vargo ama molto le donne, sergente. Ma, per strano che possa sembrare, egli appartiene alla strana razza di coloro che amano soltanto una donna alla volta. E questo in contrasto evidente con la natura e la ragionevolezza. Ma lui è fatto così. Quanto alla giovane bruna, anch'io consiglierei di astenersi dal tentare un assalto. Come vedete, non sembra affatto avere bisogno di noi.» Da sotto la coperta delle ragazze continuava a provenire un parlottio soffocato, mescolato a sospiri e gridolini di piacere. Kon digrignò i denti. «Quelle due sono un affronto a tutta la Guardia imperiale. Risolversela tra di loro quando avrebbero a disposizione me! Penso proprio che andrò a dirglielo di persona!» Aveva appena mosso un passo verso le due ragazze, quando con uno scatto Khaima emerse da sotto le coperte, seminuda e con le guance infiammate. Nella mano libera stringeva il suo pugnale. Lanciò uno sguardo minaccioso verso il sergente, mentre si alzava a sedere. Anche Shanda fece capolino, continuando a ridacchiare e fissando sfrontata Vargo. «Ho sentito quello che hai detto, sergente. E così io sarei la donna adatta a te» sibilò Khaima, uscendo del tutto allo scoperto.
Il sergente si era immobilizzato. Percorse con gli occhi il corpo snello e abbronzato della ragazza, mantenendo la stessa espressione di lussuria. Ma adesso sembrava improvvisamente meno sicuro di sé. Borbottò qualcosa, mentre lei continuava a sfidarlo. «Be', la vedremo» concluse alla fine, rinunciando ad avvicinarsi ancora. «Farò io il secondo turno» concluse rivolto a Vargo. Khaima rimase ancora un attimo in guardia, poi con una smorfia di disprezzo tornò a nascondersi sotto le coperte. Amnor puntò il dito verso il punto splendente sulle loro teste. «Ecco Nester, l'occhio maligno del demonio. Si è mossa ancora di due gradi, sulla volta celeste. È sempre più vicina.» «... La sua luce risplenderà nelle fontane avvelenate di Anharra...» mormorò assorto Vargo. «E Vemerin risorgerà dalla tomba. Lo abbiamo visto: il presagio di Temon si è avverato.» Il vecchio abbassò la testa, come se adesso cercasse nella pietra sotto i suoi piedi la forza per cancellare la luce che avvampava in alto. «Sì... anche questo era scritto nelle Tavole di Menthor. Quello che era stato predetto si avvera.» «Ma io non voglio arrendermi al libro del destino. Continuerò a combattere!» esclamò Vargo in risposta. Amnor volse lo sguardo su di lui. Per un momento i suoi occhi furono attraversati da un lampo ironico, come se si apprestasse a irridere l'ingenuità del suo compagno. Ma poi un pensiero diverso si impadronì di lui. «Eppure dovresti aver rispetto della profezia» disse. «Perché essa ti riguarda.» «Che vuoi dire?» domandò Vargo. Una curiosità inquieta lo animava. Ricordava adesso parole simili, che il vecchio aveva pronunciato durante la traversata del deserto. Un accenno a qualcosa che lo riguardava, e che in qualche modo lo legava alla vicenda di terrore e di morte cui stavano partecipando. Di colpo, sotto la fascia che gli stringeva la fronte, la cicatrice stellata che lo segnava tornò a bruciare, come se la ferita fosse stata inferta proprio allora. Senza pensare levò la mano a sfiorare il punto dolente, come a volerlo nascondere. Amnor aveva seguito il suo gesto. Gli parve che un sorriso lampeggiasse per un attimo sulle labbra del vecchio. «Sì, amico mio. Quel segno, che porti su di te dall'infanzia. Chi scrisse le Tavole lo indicò con queste parole:... Tutto ricomincerà quando il segno del destino entrerà in Anharra, portato da colui che non conosce la sua stirpe... E il principio avrà fine, e la fine principio. Un popolo che non conosce lo seguirà contro le tenebre,
si calerà con lui nell'abisso e ne farà ritorno. Mentre il cielo scenderà su di lui, egli scenderà verso un altro cielo...» Vargo aveva ascoltato con attenzione spasmodica quelle parole. Ma continuava a non intenderne il senso. «Quello. Sulla tua fronte. Era scritto che un uomo segnato dalla stella, un uomo privo di stirpe, sarà quello che guiderà il suo Popolo. Un popolo che ancora non conosce.» «Come è possibile che sia io la guida di un popolo che nemmeno conosco?» «Come è possibile che un uomo morto da trenta secoli si sia eretto in piedi a richiamare dai quattro angoli del Vuoto i suoi fedeli, per unirli alle sue schiere di spettri? Come è possibile che abbia nascosto i suoi segreti nella pelle stessa della sua creatura, e che questa adesso respiri di nuovo tra noi, immersa in quella vita di sogno di cui riusciamo a scorgere solo poche ombre?» mormorò in risposta Amnor. «È la potenza delle Tenebre che ha reso possibile tutto questo.» Poi con uno scatto si erse in tutta la sua altezza, puntando un dito verso il cielo. «Nester è solo un segno. La sabbia che scivola nella clessidra, annunciando l'arrivo del tempo. Ma sono gli uomini che riempiono questo tempo delle loro azioni. Una grande impresa ci aspetta, smisurata a paragone del solo impadronirci dei tesori di Anharra.» «Ma se quello che dici è vero, quella potenza è ancora intatta, e anzi sembra ribollire sempre più terribile, laggiù dove è il suo regno. Guarda!» In fondo alla piana che si estendeva a valle della catena rocciosa, al centro dell'antico cratere un barbaglio di luce rossastra indicava il picco dove sorgeva la città. Un anello fiammeggiante la circondava, come se le sue mura di rame fossero riscaldate da un fuoco intenso. E altre fiamme sorgevano dentro e intorno alla cinta. Vargo alzò gli occhi verso il costone di pietra che chiudeva tutto intorno la pianura. Un pulviscolo di luci brillava nella notte, come se tutte le stelle della galassia fossero scese sulla terra. Richiamò l'attenzione del vecchio su quel nuovo spettacolo. Amnor annuì, pensieroso. «Quei fuochi sono i bivacchi dei Popoli del Vuoto, che stanno accorrendo al suo richiamo. Ancora pochi giorni e un esercito di vivi e di morti sarà pronto a muovere verso le terre abitate dagli uomini. L'Impero conoscerà la sua fine, se non riusciremo a fermarli. E a volte mi chiedo se non sia meglio che questo accada.» Vargo ignorò quell'ultima battuta del vecchio. «La città risplende di fuochi. Servono da segnale alle masse che sono in movimento?»
Amnor scosse la testa. «I Popoli sanno bene dove dirigere la loro marcia. No, quei fuochi indicano che Vemerin ha riacceso le sue fucine. Ricordi il dragone che ci ha permesso di sfondare la porta della città?» L'immagine paurosa di quella macchina si accese nitida nel ricordo del giovane. Un brivido gli corse lungo la schiena, mentre ripensava alla potenza che la scienza occulta di Vemerin aveva compresso in quella massa di metallo. E adesso il Re si apprestava a forgiare altri di quei mostri? «Dobbiamo cercare di fermarlo!» gridò. «Torniamo alla città!» Aveva parlato senza riflettere, sull'onda dell'emozione. Ma subito si rese conto dell'enormità di quello che aveva appena detto. Erano riusciti a sfuggire a stento agli artigli di Anharra solo perché il risveglio del Re era stato tormentoso, e nel caos che lo aveva accompagnato erano riusciti a varcare i confini di ferro della città per la seconda volta. Affrontarli una terza volta sarebbe stata la morte certa: eppure, se quello che Amnor pensava era vero, il Re sarebbe stato presto in possesso di una forza invincibile. «Come faremo a sconfiggerlo, se scenderà in campo in compagnia di molte macchine come quella?» disse titubante. «A Menthor, alla Loggia delle Sapienze. Là potremo trovare qualcosa che ci consenta di opporci.» «I Sapienti dell'Imperatore? Loro conoscono la strada per sconfiggere la sua potenza?» Un'espressione di disprezzo calò sul volto di Amnor. «Quei presuntuosi ignoranti? Ti aspetti da loro qualche aiuto? E più facile che un secchio d'acqua prenda fuoco, piuttosto che qualcuno di loro sia in grado di comprendere il pericolo che grava su di noi. No, nessuno di quegli idioti può esserci utile. Solo i laboratori di cui dispongono e gli archivi delle varie Logge ci serviranno per realizzare una difesa. Ma dovremo prima strapparli alle loro mani.» Lo fissò negli occhi. «Per questo ho acconsentito a muovere verso Menthor. Non certo per avvertire la Guardia di quello che è accaduto. O per soddisfare i desideri della Signora Rossa, come vogliono le Sgualdrine. No, Vargo, noi torneremo nelle terre dell'Impero per proseguire la nostra ricerca. Per impadronirci del segreto della potenza di un uomo che sopravvive da trenta secoli. È questa la nostra avventura. Quella che abbiamo iniziato nella taverna di Hirush. E tu verrai con me, per essere al mio fianco quando sarò di nuovo di fronte a Vemerin.» Vargo aveva ascoltato assorto. Senza pensare toccò di nuovo la sua cicatrice. La voce del vecchio continuava a risuonargli nelle orecchie. E il sol-
co sulla sua pelle sembrò ridestare nelle dita che lo sfioravano un lampo di coscienza. Ancora non ricordava il segreto di quel segno. Ma sentiva che qualcosa si andava risvegliando in lui. Un'immagine nascosta, delle parole perdute. Fissò il vecchio. Amnor aveva distolto lo sguardo ed era tornato a osservare attento la città lontana. Vargo si chiese quando le loro strade si sarebbero divise. Quando si sarebbero trovati uno contro l'altro, per l'ultima volta. 3 «Maledetto.» L'uomo era incatenato a un pilastro di pietra, al centro della sala, che saliva fino a sostenere la crociera della volta. Su quello gravava tutto il peso della copertura, decorata con le immagini di un cielo stellato, uniche vestigia dell'antico uso della torre come osservatorio astronomico. Altre catene pendevano adesso a intervalli regolari dalle pareti, come tentacoli in attesa di stringere le membra di altri disperati nella loro morsa. «Maledetto» ripeté il prigioniero con un filo di voce. Il suo viso ridotto a una maschera di sangue riluceva sotto le fiamme delle fiaccole infisse in grandi torcieri che lo attorniavano, trasformandolo in un macabro idolo del dolore. L'unico altro uomo presente mosse di nuovo la mano sul suo volto, poi si ritrasse, come per contemplare l'esito del suo lavoro. Stringeva ancora il piccolo strumento di metallo con cui aveva inciso le palpebre del prigioniero. Alzò le spalle con sprezzo. «Nessuno che non sia maledetto varca la porta della Loggia delle Afflizioni» commentò freddamente. «Amnor di Mennon... traditore...» disse l'uomo incatenato. «Ti vedrò sprofondare all'inferno, gli dei di Khoran...» «Nessun dio entra qui dentro, Custode. Nessuno ascolta. Ma conoscevo il tuo desiderio di assistere al mio destino: per questo ora vedrai per sempre, vedrai anche arrivare la tua morte!» «Pietà...» Amnor scosse la testa. «L'Imperatore ha deciso che tu muoia. Ma prima vuole che io, il supremo inquisitore, ti strappi i nomi di tutti quelli che hanno congiurato per la sua rovina, tentando di avvelenarlo.» L'altro scrollò ancora le catene, più debolmente. Il cerchio di ferro che lo stringeva al collo aveva lasciato un segno vivido sulla sua carne. Respi-
rava a fatica. «Sono innocente! Non so nulla di cosa sia accaduto...» gridò ancora. «Sono state trovate tracce di veleno nei cibi del banchetto. Solo tu potevi arrivare alla sua mensa, scavalcando gli assaggiatori di corte. Ma poi la tua mano ha tremato. Forse per una donna!» riprese Amnor freddo. «Per una donna! L'Imperatore doveva essere solo... Non potevi immaginare che quella notte sua moglie si sarebbe trattenuta al banchetto!» «Ma non sono stato io! Non ne sapevo nulla!» «Lo so.» L'altro, con uno sforzo supremo, dette uno strappo disperato alle catene, cercando di raggiungere l'inquisitore. «Lo sai! Perché allora mi stai facendo a pezzi? Io, il Custode degli Scritti! Rivela la mia innocenza, liberami!» Amnor si allontanò di pochi passi, fino a uno sgabello che giaceva accanto a uno dei torcieri, poi lo trascinò davanti al prigioniero, sedendosi a poche spanne da lui. Di lì poteva sentire distintamente il puzzo che proveniva dalle sue carni martoriate. Un odore che conosceva bene. L'odore della giustizia, lo chiamavano gli inquisitori. Il segno che i prigionieri stavano cedendo, e la fragilità dei loro corpi era sul punto di sopraffare anche la più ferrea delle volontà. Trattenne un sorriso dentro di sé, poi riprese. «Lo so, perché sono stato io. Io ho avvelenato la sua mensa. E sempre io, il suo medico, l'ho salvato. Io ho suscitato i suoi sospetti verso di te. Io ho promesso che ti avrei strappato la confessione.» «Sei stato tu! Sei stato tu che hai sparso il veleno!» gorgogliò l'altro tra i denti spezzati. «Sei stato tu!» «Sì. Ma in tanti a corte avevano colto i tuoi sguardi scivolare sulle grazie dell'Imperatrice, la giovane Evirah di Verennia. Non mi è stato difficile insinuare nell'orecchio dell'Imperatore che la lussuria di un vecchio può spingere alle imprese più temerarie. Una donna, Custode. Il più antico movente del mondo per ogni crimine. Il tuo movente.» «Ma perché...» mormorò l'altro sbalordito. «Solo così l'Imperatore ti avrebbe messo tra le mie mani. Per farti confessare.» «Ma confessare... cosa... cosa? Maledetto, come posso confessare quello di cui sono innocente?» Amnor si protese fin quasi a sfiorare il volto del condannato con il suo. Poi scoppiò a ridere, impietoso. «Voglio che tu mi riveli come si entra
nella Sala Negata della Biblioteca. Ho letto le antiche Tavole, dove si parla del segreto che vi è custodito. Voglio conoscerlo.» La bocca del Custode si aprì in una smorfia stupefatta. «La Sala è sorvegliata giorno e notte dalla Guardia... Nessuno può accedervi... nessuno! Nemmeno i custodi della Biblioteca, nemmeno io, il loro capo! Da secoli è proibito entrarvi, da quando il Primo Imperatore la sigillò con il suo interdetto!» Amnor gli lanciò uno sguardo ironico. Poi estrasse da sotto le vesti un lembo di pergamena, avvicinandolo agli occhi dilatati del prigioniero. Quello si sforzò di leggere attraverso le lacrime di sangue che gli velavano la vista. «Dove hai trovato... questo?» mormorò. «In casa tua, dopo il tuo arresto. Sapevo che doveva esserci una prova dei miei sospetti. L'hai riconosciuta, vero? È la trascrizione di un frammento delle Tavole. Scritta di tuo pugno. Deve esserci un altro modo di entrare nella Sala, e tu lo conosci. Adesso me lo rivelerai.» L'uomo scosse disperatamente la testa, cercando di negare ancora. Ma le parole gli si affollavano in bocca in un viluppo incomprensibile. «... segreto...» riuscì a capire soltanto l'inquisitore. «Un segreto? Certo. E dovrai dividerlo con me. Se vuoi avere una speranza di salvezza.» Il Custode sembrava aver ripreso un po' di forze. Respirò profondamente. «Solo il primo Custode lo conosce. Io l'appresi dal mio predecessore, sul letto di morte. Ma noi giuriamo sulla nostra vita di conservarlo. Non te lo rivelerò» disse in un sussurro. «Hai giurato sulla tua vita. Ed è quello che il tuo giuramento ti costerà» rispose Amnor beffardo. «Ma hai appena cominciato a pagare. Quando hai sottoscritto il patto hai creduto di impegnarti solo per una morte; non per le cento che io ti infliggerò una dopo l'altra.» Il prigioniero cadde in preda a un tremito violento. Amnor spiava le sue reazioni con avidità, cogliendo i primi segni di cedimento. «Parla» disse ancora «e sarai salvo!» «Se te lo dico, mi lascerai andare?» mormorò dopo un lungo attimo l'altro, incerto. «Ma no, tu non mi lascerai vivere! So troppo della tua perfidia! Mi ucciderai comunque!» «Siamo l'uno nelle mani dell'altro. Non posso ucciderti prima di aver la prova della verità di quello che mi confiderai. Ti lascerò qui, e se quello che mi avrai rivelato servirà a compiere il mio disegno avvertirò che ti si venga a liberare. Io ho finito la mia vita a Menthor: un'altra esperienza mi
attende, in terre lontane. Non tornerò mai più qui. Non ho motivo per chiudere la tua esistenza, divenuta per me indifferente come tutto tra queste mura, una volta che avrò appreso i segreti della Sala!» L'altro continuava a fissarlo incerto. Poi annuì. «Nella casa dei Custodi, in un angolo del cortile. C'è un pozzo, da cui i guardiani della Biblioteca attingono l'acqua per le loro esigenze. Ma una delle pietre dell'anello, la settima a contare dal sostegno della carrucola, è mobile. Oltre si trova una scala che corre all'interno del pozzo, invisibile dall'alto. Se la discendi troverai a metà del percorso un'apertura. Da lì, una stretta galleria si addentra nelle viscere della terra. Seguila, e ti porterà fino a una seconda scala, che conduce nella Sala Negata. Ma sappi che la maledizione perseguita chi rompe il sigillo. Il mio destino ne è la prova.» Amnor aveva ascoltato in silenzio, con una luce di trionfo negli occhi. La sua mano si alzò lentamente, la lama apparve di nuovo tra le sue dita. Avvicinò l'arma al collo dello sventurato. Il Custode volse gli occhi nello sforzo spasmodico di seguire il movimento nonostante il cerchio che gli bloccava la testa. Un attimo prima di colpire Amnor si arrestò: gli era parso di cogliere un lampo beffardo nei tratti dell'altro, pur sconvolti dalla sofferenza. «No» disse poi, ritraendo il pugnale. «Forse è proprio quello che vuoi. Non ho ancora finito con te.» Amnor mosse un passo indietro, e si voltò. In quel mentre la porta della torre si spalancò di colpo, vomitando all'interno un gruppo di uomini in armi. I più vicini tesero verso di lui le lance che impugnavano, immobilizzandolo contro il pilastro. Poi il capo degli armati, un ufficiale della Guardia, si fece avanti, la spada in pugno. «Amnor di Mennon, medico di corte e primo inquisitore. Ti dichiaro in arresto!» «Come osate!» gridò l'inquisitore con voce arrogante. «Sto eseguendo il mio compito, la volontà dell'Imperatore. Voi intralciate la mia opera di giustizia!» «È la volontà dell'Imperatore che vi vuole in catene. Il vostro raggiro è stato scoperto, insieme con i resti del veleno ancora nascosto nelle vostre stanze!» L'ufficiale corse quindi con lo sguardo al Custode che pendeva sanguinante dalle catene. «E liberate subito questo innocente!» ordinò. «Dove sono le chiavi dei suoi ceppi?» aggiunse tendendo imperioso la mano. «Il serramento delle catene è nascosto nella pietra del pilastro, perché
nessuno riesca a liberarsi. Solo io ne conosco il funzionamento» rispose pacato Amnor. «E allora azionatelo, subito!» Amnor chinò appena il capo, in segno di obbedienza. Poi si fece accanto al pilastro, scivolando dalla parte opposta a quella in cui era incatenato il Custode. Smosse una delle pietre, e raggiunse una leva che vi era nascosta dietro. La afferrò con entrambe le mani e tirò con tutte le forze. I soldati avevano seguito incuriositi le sue mosse. La leva azionò un meccanismo nascosto, che si avviò con un rumore di catene lontane. Alcuni soldati si avvicinarono al prigioniero, pronti a raccoglierlo quando i serramenti si fossero aperti. Anche il loro comandante fissava inorridito le tracce di tortura sul volto dell'uomo. Si avvicinò ancora a lui impietosito. «Sbrigatevi, infame! Altrimenti...» La sua minaccia fu interrotta dal fiotto di sangue e materia cerebrale che lo aveva colpito. Inorridito, alzò gli occhi e vide il cerchio di metallo ritrarsi verso il pilastro, maciullando il cranio del Custode, che si abbatté privo di vita. In terra, a pochi passi da Amnor, si stava nello stesso tempo aprendo una botola mascherata. L'ufficiale vide l'inquisitore che con un agile salto raggiungeva l'apertura, ma prima di poter reagire fu costretto a balzare di lato, evitando per un pelo alcune grosse pietre che precipitavano a terra, dando il via con un rombo sordo al crollo dell'intera struttura. Il pilastro si ripiegò su se stesso, e un attimo dopo anche gli archi della volta, privi ormai di ogni sostegno, rovinarono verso il basso, travolgendo tutto nella loro corsa. Minata alla base, l'intera torre della Loggia delle Afflizioni si accartocciò su se stessa, trasformandosi in una montagna di macerie, da cui si levava una tempesta di polvere, mista alle urla disperate dei moribondi, sempre più fioche. Amnor strisciò lungo l'ultimo tratto della galleria che si restringeva, trascinandosi sulle mani e le ginocchia. La piccola lucerna che aveva con sé rischiarava appena il percorso, bruciando però la poca aria, che si faceva sempre più irrespirabile. Finalmente, proprio quando cominciava a temere che la confessione del Custode nascondesse una trappola mortale, il budello prese lentamente a farsi più ampio, e vide a una decina di passi il primo gradino della scala che avrebbe dovuto condurlo al piano della Biblioteca. Tirò un sospiro di sollievo. Forse il terrore che aveva saputo imprimere
nella mente del Custode aveva dato i suoi frutti. Con un ultimo sforzo raggiunse il pozzo della scala, riuscendo a rimettersi in piedi. Tutti i muscoli e le giunture urlavano di dolore per la posizione innaturale nella quale si era costretto lungo il percorso, ma l'eccitazione per quello che lo aspettava cancellava ogni sofferenza. Cominciò a salire lungo la rampa, facendosi luce con la lucerna alta sulla testa. In cima al pozzo non si vedeva però alcuna uscita. Raggiunse l'ultimo gradino solo per trovarsi il passo sbarrato da una solida lastra di pietra. Doveva trattarsi della chiusura della botola, ma non sembrava esserci alcun modo di sollevarla, constatò sconfortato dopo che ebbe provato con tutte le sue forze a spingerla, facendo leva con le spalle. Si abbandonò sull'ultimo gradino, riprendendo fiato. Intanto rifletteva. Il Custode conosceva il passaggio per antica tradizione, ma forse non si era mai avventurato personalmente lì dentro. Forse nei secoli l'apertura si era bloccata, magari per un crollo o per l'accumularsi di detriti. Sentiva il petto stretto in una morsa, peggiore di quando aveva temuto di soffocare: esser giunto a un passo dalla sua meta, e non poter completare il suo disegno! Essere beffato così dal destino! Si riscosse. Tornare indietro era impossibile, avrebbe significato gettare al vento tutte le sue speranze, oltre al rischio di cadere nelle mani della Guardia, che ormai doveva essere in allarme. Decise di fare un altro tentativo. Ma prima, preso da un'idea improvvisa, sollevò il vetrino della lucerna, avvicinando la fiamma al bordo della lastra. Vide con sollievo che la fiamma si agitava al soffio nascosto che giungeva attraverso la fessura. Dunque il passaggio dall'altra parte non era ostruito. Doveva esserci un modo... Ricominciò con pazienza a esplorare accuratamente la lastra. Poi ebbe un'intuizione. L'ostacolo aveva resistito fermamente alla sua pressione dal basso. Ma chi aveva previsto quel passaggio doveva averlo pensato come un'uscita d'emergenza dalla Sala Negata, non certo come una via d'accesso clandestina. Forse la botola si apriva spingendo dall'alto: in questo caso avrebbe dovuto tirare. La lastra non mostrava però alcun appiglio: stava ancora graffiandone la superficie con le unghie in cerca di una soluzione, quando avvertì una vibrazione nella pietra. La fessura su di un lato si era allargata di una frazione infinitesimale, mentre dall'altra parte la lastra sembrava essere ancor più profondamente incassata. Spinse allora con forza dalla parte che aveva cominciato a cedere e vide con gioia che la lastra ruotava su un perno nascosto, posto al centro della
botola. Aspettò che arrivasse in posizione verticale, poi infilò cautamente la testa nel passaggio. Vide una grande cavità oscura, in cui non si avvertiva la presenza di alcun essere vivente. Facendo leva sui gomiti si tirò fuori, fino a uscire dalla botola. Si trovava in un ambiente la cui vastità si percepiva anche al buio, grazie agli echi dei suoi movimenti rimandati dalle pareti lontane. Ravvivò la fiamma della lucerna, poi la sollevò sulla testa. Il raggio corse sul pavimento di marmo colorato, quindi impresse un fremito alle grandi lesene che decoravano le pareti. Si girò veloce su se stesso, per avere una rapida impressione di quello spazio. La prima reazione fu di estrema delusione. Si era aspettato una sala ancor più ricca delle altre, piena di centinaia di preziosi rotoli. Qui, nel cuore segreto della Biblioteca, avrebbero dovuto esserci quegli scritti che l'alterigia del potere del Primo Imperatore aveva sottratto alla conoscenza dei suoi sudditi. Scritti in cui era certo di trovare la risposta alle domande che lo avevano ossessionato per tutta la vita. Le opere degli antichi maestri, che avevano respirato la luce stessa della Creazione. Che avevano vissuto al tempo in cui gli dei davano forma alla vita, e che potevano averne carpito i segreti. Ma non c'era nulla! Tutta la sala risplendeva nella nuda pietra, nemmeno un singolo scaffale si ergeva contro le pareti. Assolutamente nulla! Corse verso la parete di fronte, illuminandola con la lucerna in cerca di possibili nicchie che potessero essere sfuggite a un primo controllo. Poi si trascinò lungo tutto il perimetro della sala, ripetendo minuziosamente il suo esame, mentre a ogni passo lo scoramento si faceva più profondo. Nulla, nemmeno il più piccolo frammento di pergamena. Sentì un'ira sorda montargli dentro, a mano a mano che un'ipotesi dolorosa si faceva strada dentro di lui. Dunque i custodi avevano violato l'interdetto, nel corso dei secoli. Avevano percorso la sua stessa strada, e avevano teso le loro mani indegne sui tesori, asportandoli e nascondendoli da qualche altra parte! Il volto dell'ultimo Custode, piagato dal dolore che gli aveva inflitto, gli comparve davanti. Adesso quella smorfia di sofferenza gli appariva come il sorriso beffardo di chi lo aveva giocato per sempre. Si portò una mano alla bocca, mordendosi a sangue per la rabbia. Con la morte quell'uomo si era sottratto definitivamente alle sue domande! Senza saperlo aveva assecondato il suo gioco, e la memoria del segreto era ormai per sempre
persa tra i frammenti del suo cervello sbranato dal ferro sotto le macerie della torre. Il dolore alla mano lo restituì a se stesso. Si sentì improvvisamente vuoto, come se ogni sentimento che lo aveva tenuto in vita fino a quel momento si fosse estinto. Barcollando si mosse verso il centro della sala, incespicando nei suoi stessi passi, poi si lasciò cadere a terra, completamente svuotato di ogni energia. Non avrebbe saputo dire quanto restò in quella posizione, attonito. Cercava di pensare al suo destino, adesso. Che avrebbe fatto? L'Imperatore era al corrente del suo tentativo di avvelenarlo, e avrebbe perseguitato la sua intera casata fino all'estinzione. Di certo già i suoi emissari si erano gettati ai quattro angoli dell'Impero per catturare ogni membro della famiglia dei Mennon, per spegnerne anche il ricordo. Alzò le spalle: era l'ultimo della sua stirpe, e finché fosse riuscito a mantenersi libero l'Imperatore avrebbe sempre avuto l'ombra di un Mennon sulla sua strada. Si scoprì a ridere. Tutto quello che aveva fatto era stato inutile, gettato al vento. La mano gli corse al pugnale che portava sotto la veste. Pensò per un momento di far cessare la tragedia che sembrava giunta all'ultimo atto. Ma poi lasciò la presa. Forse gli scritti segreti erano ancora da qualche parte. Forse qualcuno dei custodi conosceva il luogo. Forse poteva ancora continuare la caccia. «Posso raggiungere il Confine» disse a voce alta. «E di lì le terre dell'Esarcato, offrire i miei servigi ai ribelli. Avranno bisogno di macchine da guerra, della mia conoscenza...» Fissò alla luce della lanterna la propria mano, la pelle solcata di vene azzurrine, i nodi delle dita lunghe, dalle unghie rapaci. Una mano ancora forte, la mano di un uomo che poteva ancora combattere, che non era ancora pronto a bussare alla porta della morte. Sentì il petto tornare a scaldarsi. Si puntellò a terra per risollevarsi, con decisione. E le sue dita sentirono sotto i polpastrelli... qualcosa. D'istinto poggiò anche l'altra mano, raccogliendo la stessa sensazione. C'erano dei solchi sottili, sul pavimento, come se l'esatto gioco di intarsi delle pietre che lo ricoprivano si fosse sconnesso, aprendo delle fessure tra le tessere del mosaico colorato. La lucerna giaceva accanto ai suoi piedi. Colto da un'ispirazione istantanea la afferrò, dirigendone il raggio verso il pavimento. I solchi avevano
un andamento regolare, quello delle lettere dell'antico alfabeto di Menthor, allineate davanti ai suoi occhi. Tanto grandi da essere sfuggite al suo sguardo mentre le calpestava in cerca degli scritti inesistenti. Balzò in piedi, sollevando in alto la lucerna, con la mente eccitata dalla scoperta. Tutto il pavimento era coperto da una lunga iscrizione: era la Sala Negata stessa il libro che cercava! Con il cuore in gola ne cercò l'inizio, quasi ai piedi della parete opposta. ANHARRA LA SPLENDIDA CINTA DI FERRO E DI RAME SCRIGNO DI RICCHEZZE MAI VISTE RECINTO DI TERRORE DOVE I SOGNI SCACCIANO LA VEGLIA DOVE I VIVI E I MORTI SI DANNO LA MANO DOVE IL GIOCO DEGLI DEI CONOSCE LA SUA FINE ANHARRA FATTA DI PIETRA DI MARMO DI BRONZO LÀ VEMERIN DALL'OCCHIO DI SMERALDO HA ASCOLTATO I CANTI CHE SVELANO L'INDICIBILE LÀ DORME E SOGNA E ASPETTA COLUI CHE VUOLE SAPERE COLUI CHE TUTTO È DISPOSTO A SCOMMETTERE TUTTO È PRONTO A PERDERE E GUADAGNARE ANHARRA DOVE TUTTO INIZIA E FINISCE PERLA DEI MARI DI SABBIA SERPENTE OCCULTO FRA LE ROCCE ANHARRA CHE MAI DEVE ESSERE TROVATA Amnor si aggirava per la Sala, ripercorrendo lo scritto come se volesse imprimerselo nella memoria con la stessa forza con cui le antiche lettere erano state scolpite nella pietra. Poi con un brusco guizzo della testa si
arrestò. «Anharra... Dunque non era una leggenda» mormorò. «Ne ero certo! Il Re pazzo giace davvero nella sua tomba, in attesa di chi osi interrogarlo. Io! Io lo farò!» Tamburellò nervosamente sul pavimento di pietra. Nell'iscrizione non c'era alcun particolare relativo al luogo esatto dove sorgeva la città. Perla dei mari di sabbia. Poteva essere un'allusione al Vuoto. Ma non significava nulla: il Vuoto era un deserto interminabile, che nessuno aveva mai esplorato se non a poche giornate di viaggio dal Confine. Rilesse per la decima volta lo scritto, sperando di cogliere un'allusione nascosta sulla direzione da prendere. Ma anche alterando l'ordine delle parole, leggendole in verticale o al contrario, tentando tutte le permutazioni possibili non si otteneva alcun messaggio dotato di senso, diverso dal primo. Ma allora perché il Primo Imperatore aveva temuto tanto quella notizia, da decidere di celarla con il suo interdetto? Anharra era dunque la custode di un segreto tanto tremendo da voler cancellare anche la certezza della sua esistenza? Doveva trovare il modo per arrivare alle sue strade maledette. Ma prima c'era un'altra cosa da fare. Sulla sua fronte aggrottata le rughe si erano fatte più profonde. Prese a guardarsi intorno, in cerca di qualcosa che potesse essergli utile. Ma la stanza completamente spoglia non sembrava offrire nulla. Doveva raggiungere una delle altre sale, piene di manoscritti. L'unica porta della Sala Negata era di bronzo, sbarrata dall'interno da una pesante trave di quercia infissa su due grappe fissate agli stipiti. Le si fece accanto, accostando l'orecchio al metallo nel tentativo di cogliere qualche rumore dall'altro lato. Si sforzò di ricordare le posizioni degli uomini della Guardia. Ogni volta che aveva frequentato la Biblioteca aveva incrociato il drappello che eseguiva la ronda in prossimità della Sala Negata. Era certo che gli uomini seguissero sempre lo stesso percorso, prefissato da secoli. Se fosse riuscito a muoversi nell'intervallo tra un passaggio e l'altro del drappello... Non gli pareva di sentire nulla. Poi colse un rumore di passi cadenzato che si avvicinava, attutito dallo spessore della porta. Concentrandosi spasmodicamente udì il rumore aumentare ancora d'intensità, poi lentamente cominciare ad attenuarsi mentre i soldati continuavano il loro giro. Sfilò silenziosamente la barra dai suoi sostegni, deponendola a terra. Poi rapi-
damente afferrò l'anta massiccia, tirandola a sé in modo da aprire uno spiraglio. Quello che vide lo rincuorò: le schiene dell'ultima fila del drappello stavano proprio in quel momento sparendo dietro l'angolo del corridoio, proseguendo il giro intorno alla Sala Negata. Nascose la lucerna sotto la veste e uscì rapido, richiudendo con cura la porta alle sue spalle. Si allontanò velocemente di alcuni passi: la porta sembrava di nuovo perfettamente sbarrata, come era stata per secoli. Nessuno avrebbe notato nulla, si disse confortato mentre correva verso l'ingresso della sala più vicina. Aprì la nuova porta e si nascose dietro l'uscio. Sempre tendendo l'orecchio per scoprire se la Guardia stesse ritornando dal suo giro aprì il vetro della lucerna e, afferrato un rotolo di pergamena, ne accese una estremità. Poi, quando la fiamma viva cominciò a crepitare, lo gettò dentro uno degli scaffali e uscì in tutta fretta richiudendo la porta alle sue spalle. La guardia adesso doveva essere dall'altra parte della Sala Negata, e fra poco sarebbe riapparsa nel corridoio circolare. Corse dalla parte opposta rifugiandosi in una nuova sala, anch'essa piena di antichi manoscritti, e ripeté la stessa operazione. Quando anche qui il bagliore tra gli scaffali indicò che il fuoco aveva cominciato a fare il suo lavoro, scappò nella terza sala. Adesso il passo dei soldati era tornato a farsi sentire. Attese che il drappello si allontanasse di nuovo, poi scatenò un altro incendio e finalmente tornò di corsa verso la Sala Negata. Spinse la porta introducendosi all'interno, e tornò a sbarrarla con la trave di quercia. Poi si sedette in attesa. Poco dopo il rumore ben conosciuto tornò a farsi udire. Ma le sue narici coglievano già un odore di fumo acre, come di carne bruciata. Poi fu la volta di esclamazioni, e di urla d'allarme, insieme con il crepitio di fiamme violente, che infuriavano oltre la porta di bronzo. Volute di fumo entravano sempre più intense, insieme con il rumore e il frastuono di una confusione crescente. Sentì una lontana campana risuonare a martello. Mentre lo schianto di una delle travi del tetto che aveva ceduto lo raggiunse netto. Un sorriso beffardo gli increspò le labbra. Adesso sarebbe stato l'unico a conoscere il segreto, pensò mentre si introduceva di nuovo nella botola, tirandosi dietro la pietra di chiusura. Il piccolo gruppo risaliva sempre più lentamente lungo i tornanti della montagna. In basso scorreva un torrente, e a tratti si udiva il rumore di una
cascata. Vargo, in testa, continuava a osservare con attenzione il paesaggio roccioso tutto intorno. Avvertiva un senso di familiarità con quei luoghi, e insieme l'angoscia del ricordo che tornava sempre più vivo. Ormai dovevano essere prossimi alla sommità dell'immenso cratere dove sorgeva la città del Re pazzo. Già da qualche ora gli era parso di avvertire sulle creste montane la presenza di qualcuno, che seguiva silenzioso le loro mosse. Vide Khaima che si avvicinava. La ragazza gli indicò con la mano un punto sopra le loro teste. «Credo di aver visto qualcuno, lassù.» «Me ne sono accorto» rispose il giovane. «Ormai siamo entrati da parecchio nel territorio del Popolo Ribelle. Devono averci scorti e ci seguono. Veniamo dalla città maledetta, e non sanno se fidarsi. Ci stanno aspettando alla stretta, quando sarà più facile attaccarci. Fermati qui e resta con gli altri, è inutile trascinare tutti in un'imboscata.» «Che hai intenzione di fare?» «Andrò avanti da solo e cercherò di convincerli che abbiamo un nemico in comune. Non c'è motivo di combatterci tra noi.» «E credi che ti daranno ascolto?» fece lei, poco convinta.» «Non abbiamo altra scelta. E nemmeno loro. Spero soltanto di riuscire a convincerli. Aspettatemi qui, mentre io salirò verso la stretta.» «Veniamo con te» disse decisa Khaima, accennando alla compagna che si era avvicinata a sua volta. «È inutile e pericoloso. Inoltre, se non mi vedete tornare, avrete ancora la possibilità di trovare scampo verso Menthor» replicò Vargo. «Se fallisci saremo perduti comunque. La legione di Vemerin è a pochi giorni di cammino dietro di noi. Quando ci raggiungerà farà strage di tutti. E non potremmo certo fermarla noi due. E poi siamo le tue innamorate, non ti ricordi?» seguitò ironica. «Non ti lasciamo.» Anche Shanda annuiva, con il bel viso ostinato. Vargo capì che sarebbe stato inutile insistere. Lanciò un'occhiata agli altri due. Amnor sorvegliava attento le creste intorno, mentre il sergente era intento ad assicurare le corde che trattenevano il sarcofago all'ultimo cavallo. «Va bene, seguitemi tutti» ordinò, leggendo sui loro volti la stessa decisione. «E pregate gli dei di Khoran che i ribelli ci accolgano.» Spronò deciso, imitato dagli altri. Dopo una prima svolta del sentiero, la salita si fece impervia, e i cavalli stentavano a mantenere il passo tra gli spuntoni di roccia. Vargo era attento a ogni minima variazione del terreno. Gli pareva che delle ombre scivolassero dietro le rocce: poi, quando ormai
erano quasi arrivati alla cascata, un grosso tronco d'albero rovinò davanti a loro, sbarrando il cammino. Vargo balzò a terra, guardandosi intorno cauto. Non riusciva a vedere nessuno, ma la sensazione di essere osservato era sempre più forte. Il sentiero in quel punto sfiorava la cascata, per poi allontanarsene di nuovo, sparendo tra i picchi. Anche i suoi compagni erano smontati. Il rombo dell'acqua in caduta era l'unico rumore che spezzava il silenzio del luogo. Non un grido di uccelli, non un fruscio. Un'intuizione improvvisa lo spinse a esaminare meglio la massa d'acqua. Afferrò il cavallo per le redini e mosse qualche passo in avanti. Sotto l'arco della cascata si intravedeva uno stretto passaggio, che sembrava condurre da qualche parte. Facendo cenno agli altri di seguirlo Vargo si introdusse dietro la parete liquida. Sotto i suoi piedi uno stretto sperone di roccia consentiva a stento il passaggio. All'altezza della testa la roccia appariva scavata in più punti, come se una mano umana l'avesse lavorata per ampliare l'accesso. Comprese di aver avuto ragione e si spinse ancora avanti, sbucando finalmente all'aperto. Davanti a lui si stendeva una radura, al cui centro sorgeva un grande cubo di pietra nera, preceduto da una breve scalinata. Davanti, un macigno scolpito segnava l'ara dei sacrifici. Alle spalle della costruzione il terreno cessava di colpo, sparendo in un abisso roccioso. Sembrava che qualcuno avesse eretto in quel luogo una sorta di sentinella sull'abisso. Di lì, nelle notti serene, le lontane mura di Anharra con la loro luce rossa potevano essere osservate e maledette. Intorno all'ara una mezza dozzina di uomini, nascosti da una veste scura che li copriva da capo a piedi, se ne stavano inginocchiati, immersi in una sorta di preghiera silenziosa. Gli sconosciuti non sembravano averli notati. Vargo si fece più vicino, poi arrestò con uno strappo il cavallo, imitato dalle due ragazze. Alzò le braccia, tenendo le mani bene in vista. «Non siamo armati! Vogliamo parlare con i vostri capi!» gridò. Per tutta risposta, una lancia scagliata da una mano invisibile attraversò l'aria, configgendosi davanti ai suoi piedi. Sulla porta dell'edificio di pietra nera era apparso un nuovo personaggio, vestito in modo ben differente dai semplici abiti degli altri. Era coperto da capo a piedi da un mantello bordato di pelliccia, e in testa indossava una specie di mitria, da cui pendevano legati con catenelle dorate una miriade
di piccoli amuleti. Impugnava una lunga lancia, protesa verso di loro. «Chi siete?» gridò. «Non siamo vostri nemici. Veniamo da Anharra. La città si è risvegliata.» Una smorfia di terrore alterò per un attimo le fattezze dello sconosciuto. «Risvegliata? E chi è padrone della città? Chi regna adesso?» Vargo esitò un attimo. «Vemerin. La sua Legione.» Un fremito percorse di nuovo il volto dell'uomo. «Vemerin...» mormorò. «È impossibile. È morto da trenta secoli. Mi volete ingannare» riprese, di nuovo minaccioso. «No, credetemi!» gridò Vargo. Alzò la testa, e puntò il dito verso il bagliore sulle loro teste. «Nester è tornata! Conoscete la leggenda. La sua luce maligna annuncerà il risveglio del Re. Vemerin è tornato dalla tomba, noi l'abbiamo visto!» In quel momento, come se la stella volesse confermare le parole del giovane, una scossa di terremoto accompagnata da un lontano brontolio agitò la terra intorno. Imponenti blocchi di roccia si staccarono dalle creste, crollando lungo i dirupi con un fragore pauroso. I cavalli si impennarono per la paura, mentre anche gli uomini armati lottavano per mantenere il proprio equilibrio. «Mentite! Nessuno che l'abbia visto è ancora in vita. Voi siete solo l'avanguardia mascherata delle truppe dell'Impero. Ma non cadrò nella vostra trappola!» disse fissandoli negli occhi uno alla volta. Le sue pupille erano tanto chiare da apparire quasi di vetro. E il suo era lo sguardo di un folle. «No!» gridò Vargo, disperato. Sentiva che in quel momento si decideva il loro destino. Se non fosse riuscito a farsi credere sarebbero finiti senz'altro uccisi. Non potevano certo opporsi in cinque a un intero popolo, che di sicuro era in agguato tutto intorno. Come anni prima alla stretta di Kendor, per la seconda volta adesso un destino beffardo gli metteva tra le mani la sorte dei suoi amici. Ma stavolta non avrebbe fallito, giurò a se stesso. Piuttosto si sarebbe dato la morte per primo. «Posso provare quello che dico. Abbiamo con noi la testimonianza vivente che il Re è tornato!» «Mentite!» Khaima si era accostata. Allontanò furiosa la punta della lancia dell'uomo, con un colpo di spada. «Maledetto idiota, la figlia stessa di Vemerin è con noi! E il padre è sulle nostre tracce per ricongiungersi con il suo frutto perverso! Date ascolto a quest'uomo, che porta l'unica speranza di salvezza
per tutti noi!» gridò poi, puntando la lama verso il carico dell'ultimo cavallo. La reazione inattesa della ragazza sembrò sconcertare il sacerdote. L'uomo mosse qualche passo nella direzione indicata e allungò una mano sul panno che ricopriva il sarcofago, sollevandolo. Rimase un lungo attimo in contemplazione del corpo chiuso tra i cristalli, poi si volse a Vargo e alle due ragazze. «La figlia del Re? La figlia di Vemerin?» ripeté, come se volesse esser certo di aver compreso bene. «Proprio lei» rispose Vargo. «L'abbiamo strappata alle mura della città del padre. Aiutami, sergente» disse poi, cominciando sciogliere i nodi che assicuravano la cassa al cavallo. Kon si fece avanti, mettendo mano anche lui alle corde. Poi insieme sollevarono il sarcofago, deponendolo in terra. L'uomo aveva seguito le loro mosse con uno sguardo febbrile. «Mi chiamo Emeron» disse dopo un attimo. «Lo sciamano del Popolo. L'ultimo.» Con una mossa decisa afferrò il cappuccio di uno degli uomini immersi nella preghiera, tirandolo via. Apparve una testa rinsecchita dal tempo, con pochi capelli svolazzanti al vento. «I miei compagni sono tutti morti. Solo io resto a conservare le memorie del Popolo.» «Sei l'unico ancora in vita?» chiese Vargo sbigottito, tornando a osservare la strana immobilità di quei corpi immersi nella preghiera. L'altro risollevò il cappuccio, come per proteggere il suo compagno silenzioso. «Conosco la leggenda di cui parlate. Un uomo e una figlia verranno negli ultimi giorni. L'uomo non sarà suo padre, ma lo sposo di lei. E insieme guideranno il Popolo, e correranno verso la luce e la tenebra. E lei sarà la figlia del Re maledetto, e lui colui che ne prenderà il posto. Siete voi quelli che annuncia la leggenda?» «Sì, ne sono certo.» «È scritto che i Popoli della montagna e della pianura affronteranno insieme il loro destino. Seguiranno la figlia nell'abisso, e lo sposo nella luce. Non c'è nulla che possa fermare l'avverarsi dell'oracolo. La figlia del Re...» balbettò ancora. «Come è narrato dalle nostre leggende... Verrà la figlia e avrà il destino scritto sulle sue ossa, e non sarà viva, e non sarà morta...» Amnor aveva seguito con attenzione le mosse dello stregone. Lo fissava come se cercasse di leggere nella sua mente. L'uomo si accorse di essere osservato, e si volse verso di lui. «Un giovane che reca il marchio sulla fronte... due donne dai diversi colori. E tu, che per gli anni potresti essere il loro padre, tu che quarto tra loro sigilli la profezia... Chi sei, vecchio?»
Amnor si fece ancor più accosto allo stregone, fin quasi a sfiorarne il petto. Vargo vide che le sue labbra si muovevano appena, come se formulasse una frase a voce bassissima, in modo da non essere inteso da nessun altro. Lo stregone impallidì di colpo, poi fece un passo indietro alzando una mano come per proteggersi dalla sua vista. «Così è vero... È giunto colui che ha visto le Tenebre... I tempi sono compiuti.» L'uomo allargò le braccia. «La stella è tornata. Dopo trenta secoli da quando fu fatta strage dei nostri avi. Le loro voci chiamano. Adesso non resta che morire.» «No! Abbiamo ancora una speranza!» gridò Vargo gettandosi avanti e interponendosi tra lo stregone e gli altri. «La figlia! Al Collegio degli Arcani, nella cripta nascosta, c'era scritto che c'è ancora un popolo che conosce il segreto della resurrezione! Hai detto che la figlia non è viva, e non è morta: devi richiamarla con le tue arti! Perché solo lei è in grado di fermare il padre nella sua marcia di sterminio!» «Quella conoscenza che tu credi, e che fu dei nostri avi, sopravvive solo come pallido ricordo. E se pure fosse, se davvero il nostro sapere fosse in grado di ridestare colei che dorme, non temi che essa riuscirebbe soltanto ad accrescere la potenza di Vemerin, restituendo al padre il sostegno della figlia? In preda al sogno di una impossibile salvezza, in tal modo non faremmo che unire la prima perversione a un'altra. No, il nostro ciclo sulla terra è compiuto, voi stessi ne annunciate la fine.» Amnor tornò a parlare, stavolta a voce alta. «Io ho visto quello che ci attende. Nella tomba del Re pazzo, per un attimo i miei occhi furono folgorati dalla maestà di quelli che si celano nelle ombre. Tu parli di un ricordo remoto, che i membri del tuo Popolo sconfitto si sono tramandati nelle generazioni, finché è giunto a te come un'eco lontana. E credi che entrare nel nulla sia l'ultimo passo che vi attende, solo l'estremo anello di una catena di agonie. Pazzo! Vemerin non vi consentirà alcun riposo! Dilanierà le vostre anime con ferocia, condannandovi al martirio eterno nella sua Legione!» Lo stregone aveva ascoltato in preda a un tremito. Abbassò gli occhi, come se non potesse opporsi alle parole di Amnor. Ma poi si risollevò di scatto. «No, non lo farò» scandì lento. «Non richiamerò la carne stessa del Maledetto a una nuova vita. Non per questo è sopravvissuto il mio Popolo.» Poi levò un grido di dolore, simile all'ululato di una bestia ferita. D'istinto la mano di Vargo corse all'impugnatura della spada, preso dal
sospetto che il grido fosse un segnale d'allarme, una sorta di richiamo per qualcuno celato sul fondo del dirupo. «Questa canaglia cerca di tradirci!» sentì Khaima gridare accanto a lui. «Sta chiamando quelli che sono sulle nostre tracce!» «Ci penso io a fermarlo!» esclamò Shanda. La ragazza afferrò un dardo dalla faretra legata alla sua schiena e tese l'arco prendendo la mira. «No!» gridò Amnor, trattenendole la mano. «Non ucciderlo! È quello che vuole!» Lo stregone continuava a gridare: poi di colpo si mosse verso l'abisso, ma Amnor che lo seguiva da presso lo afferrò per un polso, con la sua stretta d'acciaio. Aveva uno strano sorriso sulla bocca, gelido e insieme di trionfo. «Non puoi seguire il tuo Popolo. Adesso sei solo.» L'uomo provò a divincolarsi con un lampo di disperazione negli occhi. Si dibatteva con tutte le sue forze, ma inutilmente. Anche Vargo era accorso, e aveva afferrato a sua volta l'uomo. «Adesso sei solo. L'ultimo della tua stirpe» ripeté Amnor. «Compi il rito!» L'uomo provò ancora a liberarsi, poi si afflosciò tra le braccia dei due che lo trattenevano, come se la sua volontà avesse ceduto. «Che gli dei della Luce abbiano pietà di noi» mormorò. «E salvino i miei fratelli sconosciuti.» «Quali fratelli? Di cosa parli?» sibilò Amnor. «Quando il nostro Popolo fu distrutto, i pochi superstiti si rifugiarono tra queste montagne, e qui siamo restati in attesa che l'orrore tornasse. Ma uno di noi, Athor il coraggioso, si impossessò della pietra della Luce e si avviò verso settentrione, e varcò le terre aride del Vuoto. Oltrepassò la Porta e raggiunse la lontana Menthor. Là visse nascondendo la sua origine, e conobbe una donna della città. Generò dei figli, che traevano dal suo sangue la stessa virtù antica. E i suoi figli si mescolarono con i Popoli della pianura, e da loro nacquero altre generazioni.» Poi chinò la testa. «Ma noi non lo seguimmo» disse accennando alle mummie immerse nella loro preghiera infinita. «Per conservare accesa la fiamma della memoria.» «Allora il seme della tua gente vive ancora» disse Vargo. «E vuoi tradire la tua stessa stirpe, rifiutando di richiamare in vita l'unica che forse può ricacciare indietro il tuo antico nemico?» Lo stregone sembrò colpito da quelle parole. Gettò ancora uno sguardo inquieto verso l'abisso, poi tornò a fissare il sarcofago. I suoi occhi brilla-
vano ancora d'odio, ma cominciava a farsi strada in lui l'incertezza. Sospirò profondamente. «La figlia di Vemerin. Sì, forse è giusto che tutto si compia. Solo lei conosce il modo di ricacciare le Tenebre... Ha ascoltato i suoi canti, deve conoscerli...» gridò poi all'improvviso, tornando a scattare in piedi come se di nuovo le sue membra fossero state percorse dalla sua misteriosa energia e mettendosi a tempestare il cristallo con il pomo del pugnale. Dentro la teca, assolutamente insensibile all'accesso di follia che si era scatenata a pochi pollici dal suo viso, la figlia di Vemerin continuava a giacere immersa nel suo sonno secolare. Vargo, dopo un primo momento di sbigottimento, si gettò a sua volta sul vecchio, cercando di fermare quell'azione inconsulta. Ma Emeron si divincolava sotto la sua presa come un forsennato, scalciando e tornando a colpire il cristallo con tutte le sue forze. Ci volle l'intervento di Kon e delle Sgualdrine per avere finalmente ragione della sua frenesia. Mentre gli altri lo trascinavano via, Vargo si chinò sulla teca. Una crepa sottile si era aperta proprio al centro della lastra superiore, appena sotto il punto offuscato dal respiro della donna. Intimorito Vargo credette di udire un fruscio sottile: dal piccolo varco l'aria esterna si stava infiltrando all'interno del sarcofago. Per un attimo quel suono gli dette l'impressione che la donna avesse davvero ripreso a respirare. «E allora sia fatto, se così dicono le Scritture» mormorò Emeron. Aveva estratto dalla cintura una piccola ascia d'argento. La sollevò, esponendo la lama ai raggi di Nester. «Ma occorre una vita per rendere una vita. Questo dicono le Scritture. Qualcuno che si perda perché ella sia salva. Chi cede la sua vita per lei?» chiese volgendosi in giro. «Chi si sacrifica?» «Non guardare noi, stregone» esclamò Khaima, avvolgendo le spalle della sua compagna con fare protettivo. «Per noi la strega può restare nella sua tomba fino alla fine dei secoli.» «E tu vecchio?» chiese Emeron rivolgendosi ad Amnor. «Tu che devi aver conosciuto nei tuoi lunghi anni tutte le gioie e le asprezze della vita. Sei pronto ad abbandonarla per seguire il tuo disegno? E voi, che ancora vi aprite il cammino con la spada, voi che siete giunti fin qui in cerca dei vostri fantasmi. Siete pronti?» Kon e Vargo si scambiarono una rapida occhiata. Poi Kon si ritrasse di un passo. «Non temo la fine. Ma l'aspetto sul campo, con le armi in pugno. Non così, sotto la lama di uno stregone, come una pecora al macello. Non è così che finirà il sergente Kon.»
Sul viso dell'uomo si accese un sorriso beffardo. «Chiedete che io violi la barriera dei morti. Eppure nessuno di voi è disposto a gettare uno sguardo oltre la soglia! Forse ha errato chi compilò le Tavole: ... verrà un eroe, e tutto spenderà per la salvezza degli uomini... Nemmeno tu, giovane che rechi sulla fronte il segno? Ha dunque mentito chi ti inferse quel simbolo di virtù?» Vargo aveva seguito immobile lo scambio di battute. Mosse un passo verso Emeron, che tendeva adesso l'ascia verso di lui. «Se questo è scritto nelle tavole del Destino, allora che la mia sorte si compia qui.» Alle sue parole Shanda si liberò dall'abbraccio dell'altra ragazza e si precipitò verso di lui. Il bel volto era deformato da un'espressione di terrore e insieme di rabbia. «Fermati, sei pazzo! Niente vale quello che vuoi fare! Finché viviamo, finché possiamo lottare, le Tenebre non hanno vinto! E tu sparisci, cane! Schiantati nel baratro, dietro la tua razza di folli!» Vargo mosse un altro passo avanti, vincendo con decisione gli sforzi con cui la ragazza cercava di trattenerlo. «Quando la figlia del Re si sarà risvegliata recatevi subito a Menthor.» Oltre il cristallo gli occhi della donna, pur nella loro vitrea immobilità, sembravano seguire in un loro modo segreto le sue mosse. Per un attimo Vargo ebbe l'impressione che anche il colore del suo incarnato si fosse fatto più acceso, come quello di una fanciulla che all'approssimarsi dell'alba senta dentro di sé i sogni svanire, mentre si avvicina il risveglio. Si immerse per un attimo nella contemplazione di quella bellezza, e un altro volto di donna emerse dal profondo della sua memoria, un volto chino su di lui che lo fissava con l'intensità di un amore disperato. Lo stregone alzò la sua lama, e cominciò a recitare un incantesimo. Parole incomprensibili fluivano dalle sue labbra, alternate ai suoni di un canto intonato a voce sempre più alta. L'uomo sembrava invocare qualcosa o qualcuno di invisibile, accennando ripetutamente alla testa del giovane con la lama della scure. Shanda singhiozzava, inutilmente consolata dalla compagna. Alle sue spalle Amnor si era fatto più vicino, come se fosse ansioso di non perdere nulla del rito. Anche Khaima si era mossa in avanti, accostandosi al sarcofago con un'espressione disgustata. Emeron percepì la sua presenza dietro di sé, e volse appena la testa. La ragazza si avvicinò ancora. Vargo aspettava il colpo. Durante il suo servizio nella Guardia aveva più
volte pensato a come sarebbe stata la sua fine. E più di una volta aveva scambiato ipotesi con Banthor e Vilma, davanti al fuoco dei bivacchi, con la spavalderia di chi cerca in fondo di esorcizzare una paura. Ma nessuno di loro, nemmeno nelle peggiori bravate eccitate dal sidro, aveva mai lontanamente immaginato una circostanza simile. Chissà che avrebbero detto i suoi amici, se avessero potuto sapere. Loro che erano scomparsi in una stretta di montagna. Lo avrebbero invidiato? Perché non erano lì ad accoglierlo? I suoi pensieri confusi furono interrotti da un singulto strozzato. Rialzò repentino lo sguardo, in tempo per vedere Emeron che lasciava cadere l'ascia, portandosi le mani alla gola trapassata da un dardo. Lo stregone compì un mezzo giro su stesso, brancolando con le mani come se cercasse di afferrarsi all'aria intorno, poi piegò le gambe. Khaima lo afferrò da dietro per i capelli, trattenendolo e spingendogli la testa contro l'incrinatura del cristallo, con un urlo di trionfo. «E allora che sia il tuo, stregone, il sangue che chiedi! Bel tiro, sorella!» L'arco di Shanda vibrava ancora tra le mani della ragazza. Ma tutto il suo corpo era in preda a un tremito incontrollabile. L'arma le scivolò di mano e con gli occhi dilatati corse verso Vargo, abbracciandolo. Amnor, superata la sorpresa, aveva lanciato un urlo. Si scagliò a sua volta minaccioso verso la giovane, imprecando. «Troppo presto, figlia di cagna! Non gli hai dato il tempo...» Khaima aveva lasciato andare il corpo dello stregone, che ruzzolò a terra. Poi a sua volta era balzata in avanti, con la piccola spada in pugno a difendere la compagna. «Non osare toccare mia sorella, vecchio! Se è tanto sciocca da amare quel bellimbusto saranno gli dei a punirla, non tu! E che la strega rimanga un fantoccio di stracci e di paglia. Ti dico che è meglio così!» Un grido attrasse in quel momento la loro attenzione. «Guardate!» gridava alle loro spalle il sergente, indicando il sarcofago. «Sta succedendo qualcosa!» Un fiotto di sangue si era sparso sul cristallo, filtrando giù in un rivolo sottile. Il corpo rimaneva immobile. Ma la macchia di vapore sul cristallo incrinato aveva preso ad asciugarsi, prova che l'aria esterna stava riempiendo la teca. Poi di colpo la donna spalancò la bocca, mentre il suo collo si contraeva all'indietro come alla ricerca spasmodica di aria. Il giovane sentì un rantolo soffocato. La bocca della donna si socchiuse
ancora di più e gli occhi si aprirono. Un bagliore tenue sembrò illuminare la sclerotica di un colore verdastro, mentre le pupille si dilatavano divorando le iridi. Il petto sobbalzò, e il tentativo di riempire i polmoni d'aria si ripeté. Sembrava un annegato che stesse riemergendo dalle profondità, e la superficie di cristallo fosse l'ultimo velo d'acqua che lo separava dalla salvezza. «Sta soffocando!» gridò Khaima, che aveva lasciato Amnor nella stretta del sergente ed era tornata ad avvicinarsi. La ragazza fissava lo spettacolo con un'espressione feroce, di paura e di curiosità insieme. «Lasciala tornare al mondo dei morti, per sempre!» ripeté, afferrando la mano di Vargo e cercando di trascinarlo lontano dal sarcofago. Vargo resistette, liberandosi con uno strattone. «No! Dobbiamo salvarla, invece!» disse. Era anche lui inorridito da quello che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Sentiva il cervello confuso, in preda a mille incertezze. Si guardò intorno, in cerca di suggerimenti dai suoi compagni. Ma anche gli altri sembravano paralizzati. Forse aveva ragione Khaima, doveva soffocare quella cosa innaturale che si stava risvegliando davanti a lui, violando la barriera che divideva i vivi dai morti. Ma poi gli occhi della donna che si dibatteva incrociarono i suoi, e di nuovo quella bellezza straordinaria gli penetrò nell'anima. No, non poteva lasciar morire per sempre quello splendore che aveva attraversato i secoli, per giungere in quell'angolo di deserto a sfidarlo. Era come se la figlia di Vemerin, in quella seconda agonia, avesse scelto proprio lui come arbitro del suo destino definitivo. Tutti i dubbi scomparvero in un istante, e la sua mano corse all'impugnatura della spada. Estrasse l'arma e cominciò a tempestare il sarcofago di colpi. «Aiutami!» gridò a Kon. Il cristallo resisteva tenacemente. Piccole scaglie trasparenti saltavano via a ogni fendente, ma la lastra continuava a restare integra. Anche il sergente si era unito ai suoi sforzi, e le loro lame strappavano suoni melodiosi, come se stessero percuotendo uno strano strumento musicale. L'incrinatura nella lastra andava lentamente allungandosi, fino a raggiungere da un lato la cornice di bronzo del sarcofago. Poi sotto un ultimo colpo di Vargo la nota melodiosa si trasformò in uno scricchiolio violento, e di colpo la lastra esplose in una miriade di frammenti, che si dispersero all'interno del sarcofago rivestendo il corpo nudo della figlia di Vemerin di una coltre iridescente. Per un lungo istante la pioggia di cristallo continuò a depositarsi, e niente sembrava accadere nel sarcofago. Poi con uno scatto felino il corpo sommerso dai vetri balzò a sedere, afferrandosi con i piccoli
pugni al bordo di bronzo, mentre le scaglie di cristallo le scivolavano di dosso. Vargo vide una miriade di tagli aprirsi sulla sua pelle delicata. Gocce di sangue apparivano su tutto il corpo, mescolandosi ai segni dei tatuaggi e trasformando la lingua segreta che la donna portava su di sé in qualcosa di ancor più misterioso e indecifrabile. Poi lei gettò indietro la testa, respirando a pieni polmoni. Restò a lungo in quella posizione, continuando a divorare l'aria attraverso la bocca spalancata, in cui la chiostra dei denti ancora bianchissimi sembrava vibrare per lo sforzo. Poi espirava dalle narici, che si dilatavano con un sibilo sottile. Lentamente tutti si erano fatti più vicini. Vargo avvertiva in modo confuso la loro presenza, assorto com'era nella visione di quello che accadeva davanti a lui. Anche nelle convulsioni che accompagnavano il suo risveglio, la bellezza di quella donna era stupefacente. Si volse appena a osservare con la coda dell'occhio le reazioni degli altri. Khaima stringeva per le spalle la sua compagna, come a proteggerla da quella visione, e le mormorava qualcosa all'orecchio. Il sergente se ne stava a bocca aperta, la spada ancora oscillante tra le mani. Ma era Amnor quello che sembrava il più colpito. Si era avvicinato fino a sfiorare il bordo del sarcofago. Poi Vargo lo vide scivolare lentamente a terra, in ginocchio davanti alla donna che seguitava a respirare affannosamente. Il vecchio aprì le braccia, come in un'invocazione. «Parla... parla!» esclamò con tono soffocato dall'emozione. La sua voce si spense in un gemito, in preda a un'emozione incontenibile. La figlia di Vemerin sembrò aver sentito quell'invocazione. Mentre il suo respiro andava facendosi più regolare prese a girare gli occhi intorno a sé, come se solo allora cominciasse a rendersi conto di quello che la circondava. La sua bocca si chiuse e riaprì più volte. Provava ad articolare qualche suono, ma sembrava che la sua mente fosse restata indietro rispetto al ridestarsi del corpo, e adesso cercasse faticosamente di raggiungere il tempo e il luogo del suo risveglio. Poi, all'improvviso, una serie di suoni uscì dalle sue labbra. Vargo ascoltò, sconcertato. Forse erano parole quelle che sentiva. Ma avrebbero potuto anche essere i suoni di una foresta primordiale, il fruscio dei torrenti, il canto di uccelli scomparsi. In mezzo a quei suoni indecifrabili compariva qui e là qualche sequenza di sillabe che gli ricordava una delle lingue che aveva sentito vagabondando sul Confine, dialetti antichi
sopravvissuti presso villaggi rimasti isolati dalla civiltà. Ma subito, appena gli pareva di essere sul punto di comprendere qualcosa, quelle frasi che adesso si stavano trasformando in un torrente di suoni eccitati precipitavano di nuovo nell'incomprensibilità più assoluta. L'unica cosa chiara era un nome, che lei ripeteva a intervalli, battendosi una mano sul petto: Athramala. Anche gli altri ascoltavano perplessi, tesi nello sforzo di comprendere. «Ma che sta dicendo, per gli dei di Khoran!» esclamò Khaima. La sua mano continuava a stringere la spada, come se fosse ancora pronta a scagliarsi verso la strega che tornava dalle ombre. «Athramala... è il suo nome!» azzardò Vargo. Poi credette di riconoscere un altro suono, sussurrato con un accento doloroso. «... Freddo...» Il corpo della donna, su cui le stille di sangue si erano coagulate come una cascata di rubini, era in preda a un tremito violento. Continuava ad aggrapparsi con tutte le sue forze al bordo del sarcofago, ma sembrava sul punto di scivolare di nuovo a terra. D'istinto Vargo si strappò dalle spalle il mantello e glielo avvolse intorno. Sentì sotto le mani, attraverso lo spessore caldo del panno, le forme del suo corpo. Sconvolto dal tremito, e insieme arrendevole al tatto. «... Freddo...» la sentì ripetere. «Presto, un fuoco!» gridò il giovane, mentre continuava a stringere la donna cercando di sostenerla in piedi. «Accendete degli sterpi, ha bisogno di calore!» Sempre tenendola stretta la sollevò di peso e la trascinò fuori dal sarcofago. Intanto Kon, vinto lo stordimento in cui tutti erano caduti, stava ammucchiando rapido una bracciata di rami secchi. Ne fece una piccola piramide, poi vi gettò sotto la torcia che una delle ragazze aveva acceso nel frattempo. Il legno resinoso avvampò scoppiettando e soffiando un vapore biancastro. Le fiamme fecero un effetto singolare sulla donna. Allungò le mani fuori del mantello, come se volesse afferrare le lingue rossastre, poi sciogliendosi dalla stretta di Vargo si lasciò scivolare a terra, accoccolandosi accanto al fuoco. Era tornata a chiudere gli occhi, ma la tensione sul suo volto si andava sciogliendo. La pelle prendeva colore, attenuando il contrasto con la scrittura che la ricopriva. Sembrava più in sé. Tornò a osservare tutto intorno, ma stavolta non era lo sguardo vacuo e trasognato di prima. Le sue iridi verdissime scrutavano i presenti cariche di una nuova luce. Poi i suoi occhi si fermarono sul sarcofago.
Sembrò sobbalzare, come se quell'oggetto le risvegliasse un ricordo doloroso. Ma l'effetto durò solo un attimo. Poi, inspiegabilmente, il suo sguardo tornò ad appannarsi come se una porta si fosse di nuovo chiusa nella sua mente. Riprese a mormorare la sua cantilena indecifrabile. «Dobbiamo trovarle delle vesti» disse Vargo, guardandosi intorno. «Forse nelle capanne del Popolo è rimasto qualcuno dei loro abiti.» Stava per muoversi in cerca del necessario, quando vide Shanda che tornava da una delle casupole tra le rocce, stringendo tra le braccia un mantello grigiastro. «Ci ho pensato io» disse la ragazza. «Anche se è morta, non è giusto che se ne resti nuda sotto lo sguardo di voi uomini. Strega o no, è sempre una di noi.» «Bene» disse ironica Khaima, seguendo con lo sguardo il giovane che assestava delicatamente il mantello intorno al corpo nudo della figlia di Vemerin. Dette di gomito alla compagna, che non staccava a sua volta gli occhi dalla scena, una piega furiosa sulla piccola fronte. «Sembra che tu sia destinata a combattere contro rivali invincibili, sorella. Prima la figlia di un duca, con la pelle lisciata dalle mani delle ancelle e dai bagni nel latte d'asina. E adesso un demonio dagli occhi verdi, con addosso ancora il fiato della tomba. Ha gusti insoliti il tuo innamorato!» concluse trionfante. Shanda per tutta risposta alzò le spalle. Sputò per terra, mormorando alcune parole a bassa voce e facendo rapidi gesti con le dita alla volta della figlia di Vemerin che si era accoccolata in terra, nascondendo la cascata di capelli neri sotto una piega del mantello. Ma Khaima non si arrese. «Non è con le fatture che te lo terrai stretto, sciocca. Uomini! A che servono? Guarda quel bestione laggiù» riprese additando il sergente che stava ammucchiando altri sterpi per il fuoco. «Si sente un condottiero, quando è tra la sua soldataglia» disse abbassando la voce. «Ma guardalo adesso» seguitò, e si mosse ancheggiando verso di lui. Gli si fece vicino, giocherellando per un attimo con la sua cintura. Poi, con un movimento sinuoso lento e studiato, si lasciò cadere accanto a lui, stiracchiandosi alla fiamma e rabbrividendo come se fosse in cerca di calore. Shanda la vide mormorare qualcosa all'orecchio dell'uomo, poi la ragazza si fece ancor più vicina, fino a sfiorarlo. Il sergente sembrava imbarazzato, e al tempo stesso profondamente colpito dalla vicinanza della ragazza. Mormorò a sua volta qualcosa, continuando confusamente a rinforzare il fuoco con altri sterpi. Khaima gli si fece ancor più addosso, poi con un gesto improvviso di-
schiuse le labbra carnose, e con la punta della lingua gli sfiorò un orecchio. Kon fu scosso da un tremito. Con un sorriso estasiato si chinò a sua volta sulla ragazza, allungando le mani sui suoi fianchi e cercando di baciarla. Uno scoppio di risa, accompagnato da un grido infuriato attrasse l'attenzione di Vargo. Khaima si era liberata dalla stretta del sergente, e adesso lo minacciava con la sua spada, continuando a ridacchiare. Incurante della lama, l'uomo infuriato l'aveva afferrata per le braccia, e la attraeva con forza verso di sé. Con uno scatto di reni la ragazza si divincolò, gettandosi a terra e scivolando in un lampo tra le gambe dell'uomo. Giunta alle sue spalle gli inferse un violento calcio nel sedere, poi balzò indietro, continuando a ridere e a minacciarlo con la spada. «Vedi, sorella?» gridò poi all'indirizzo di Shanda. «Perché non provi a fare lo stesso, con il tuo innamorato? Funziona sempre, ti dico!» Kon sembrava accecato dall'ira. Aveva a sua volta snudato la spada, muovendo due passi avanti. Vargo stava per intervenire, pensando che volesse uccidere la Sgualdrina, quando lo vide arrestarsi all'improvviso. Inaspettatamente Kon abbassò la spada e scoppiò a ridere a sua volta. «Non sei davvero meglio dell'altra strega, ragazza. Ma almeno le tue labbra sanno di vino, e non di antiche maledizioni. Hai sbagliato a farmi sentire il loro sapore, perché ormai sarai mia, prima o poi. Il sergente Kon ti pretende. E ti avrà.» Vargo si sedette accanto ad Athramala. Aveva in mano un pezzo di pane. Tese la mano incerto verso di lei, chiedendosi se la figlia di Vemerin fosse dopotutto un essere come loro, in preda ai morsi della fame. La donna dapprima non parve accorgersi della sua presenza. Continuava a sedere immobile, eretta, come se invece che su una roccia fosse assisa sul trono del padre. Il cappuccio del mantello le era sceso sulle spalle, mostrando una cascata di capelli neri come l'ala di un corvo. Attraverso le pieghe della stoffa si intravedeva la perfetta curva del fianco e la gamba dal ginocchio scolpito come una piccola coppa d'avorio. Poi, lentamente, si volse verso il giovane, fissandolo con i suoi occhi di smeraldo, che sembravano emettere una debole luminescenza nel buio come quelli di un animale selvaggio. Lo scrutò come se solo adesso si rendesse conto di non essere sola, poi con un brivido si strinse rapida il mantello intorno al corpo, celando la sua nudità. A Vargo era parso di cogliere un'ombra di rossore nel suo incarnato pallidissimo. «Chi sei?» la sentì chiedere con una voce colma di risonanze lontane,
come se la donna gli parlasse attraverso un velo d'acqua. «Chi siete tutti?» Vargo esitò un attimo. Da dove cominciare a spiegare la loro situazione? Che poteva dire a un essere che aveva dormito per trenta secoli, era sceso sulla soglia dei morti, e recava scritta sulla pelle la formula per ricacciare indietro l'inferno che aveva aperto le sue porte sulla terra? Che portava nella carne l'eredità del più grande Re di tutti i tempi, e insieme del più spaventoso? La donna continuava a fissarlo, immobile nella sua espressione interrogativa. Sembrava cercare qualcosa nella sua fisionomia, come se il giovane le ricordasse qualcuno. Poi, inaspettatamente, gli occhi scesero verso le sue mani. La sua bocca si dischiuse, e con un guizzo strappò via il pezzo di pane, curvandosi voracemente su di esso e prendendo a masticarlo con una furia bestiale. Sotto la luce fredda di Nester adesso il profilo di Athramala si stagliava in tutta la sua perfezione contro la roccia su cui si era appoggiata. Era immobile, sveglia. Solo gli occhi aperti e sfavillanti si muovevano con rapidi scatti nervosi, come se cercasse qualcosa nel buio intorno a sé. Vargo si era avvicinato. Si sedette a un passo da lei, osservandola affascinato. Aveva l'impressione che le tenebre non la intimidissero, ma anzi in qualche modo la confortassero. Poi, dopo un tempo che gli parve lunghissimo, anche le sue labbra cominciarono a muoversi. Emise un respiro profondo, ansimante, seguito da una serie di sibili, prima sordi e poi sempre più modulati, come si sforzasse di formulare parole in una lingua sconosciuta. Vargo credette che volesse ancora lamentarsi per il freddo, e si tolse di nuovo il mantello dalle spalle chinandosi per distenderlo sul suo corpo. Ma lei improvvisamente pronunciò una lunga serie di suoni, in tono accorato. Sembrava chiamare qualcuno dalle tenebre. Il giovane aveva interrotto il suo gesto a metà. Lei si voltò e di nuovo ripeté quelle parole, questa volta chiaramente dirette a lui. «Non capisco...» mormorò. Athramala ripeté la frase, questa volta in tono imperioso. Aveva sollevato la testa, gettando indietro con un gesto deciso la chioma dai riflessi violacei, e lo fissava con quella strana espressione che il giovane aveva notato al momento del suo risveglio: come se cercasse nelle sue fattezze un ricordo, l'immagine di qualcuno conosciuto. «Chi sei?» chiese ancora, nella lingua di Menthor. Ma subito tornò a pronunciare una serie di suoni incomprensibili, per poi aggiungere: «Voi
tutti: da dove venite?». Di nuovo le sue parole si fecero oscure. Vargo seguiva le sue frasi sforzandosi di riconoscervi qualcuna delle lingue che aveva incontrato nei suoi anni sul Confine. Ma solo qua e là gli riusciva di intendere alcuni termini. A volte si trattava di un dialetto delle tribù nomadi, a volte di parole che aveva sentito nei riti dei preti di Khoran, altre volte era un termine trovato sulle pagine degli antichi libri della Biblioteca. Sembrava che la donna mescolasse nel suo discorso le lingue di cento popoli e di cento epoche. Parlando si era alzata in piedi, e si volgeva intorno come se ancora cercasse qualcosa. Poi gli si avvicinò e tese la mano, sfiorandogli il volto con le dita come una cieca che volesse scoprire la forma di una presenza avvertita accanto a sé. A quel tocco un fremito attraversò ogni fibra del giovane. Avrebbe pagato qualunque cifra per capire quello che la figlia del Re gli stava dicendo. Ma fu lei ad aiutarlo, tornando all'improvviso a servirsi della lingua conosciuta. «Ti ho visto» disse distintamente. «Dove?» replicò senza pensare Vargo. «Nei miei sogni... Eri sulla prima di mille navi che varcarono il mare...» «Il mare... il Mare Interno?» chiese stupito il giovane. La donna non sembrò cogliere la domanda, presa ancora nel suo ricordo. «Mille navi, e tutti gli eroi di un popolo che verrà... fino alla spiaggia di una città dalle cento porte. Per cancellarla dalla terra. Sarai tu, nel ventre del cavallo...» Sempre più stupito il giovane si sforzava di dare un senso alle parole della donna. «Un cavallo?» «Sì, è questo che ho visto. E poi...» La figlia di Vemerin si arrestò di colpo, passandosi la mano sugli occhi. «Sì... Eri tu... nella sala del banchetto di un castello in una terra lontana. Quando per vendetta un intero popolo sarà cancellato... Ma dov'è mio padre? Perché non è qui ad accogliermi? Dove sono le mie ancelle? Le mie vesti, le colonne della mia reggia! I miei cani! Dove sono?» Tornò a guardarsi attorno, torcendosi le mani ansiosa. Era di nuovo in preda a un tremito violento, come se il freddo di trenta secoli fosse tornato a impadronirsi di lei. Vacillò sulle gambe, minacciando di cadere. Vargo la afferrò per le braccia, cercando di tenerla eretta. «Hai dormito, principessa» le gridò, scuotendola. «In un modo che non conosco, tuo padre ti ha trattenuto per tutto questo tempo sulla soglia della morte. E sei tornata...» La voce gli si spezzò in gola per l'emozione. Non riusciva a sostenere lo
sguardo della donna, che gli scavava dentro come un fuoco. «Sei tornata...» riuscì solo a ripetere. Athramala sollevò piano lo sguardo. «Ti ho visto. Eri tu. Tu hai combattuto il Re. Eri tu alla testa di chi lo ha assalito...» Una folata di vento freddo lo svegliò. Il cielo era oscurato da uno strato di nubi che nascondevano completamente le stelle. Solo Nester brillava oltre la coltre, illuminando appena la valle desertica con i suoi raggi. Cominciava a cadere qualche goccia di pioggia. Si avvicinò silenzioso al giaciglio delle Sgualdrine. Le due ragazze dormivano abbracciate, la testa bionda di Shanda appoggiata fiduciosa alla spalla di Khaima. Aveva la sensazione che stessero sognando, dalle leggere vibrazioni delle loro ciglia e da qualche suono emesso dalle loro labbra. Poco distante anche Kon giaceva immerso nel suo sonno pesante, vicino ad Amnor nascosto sotto il proprio mantello. Solo Athramala era in piedi, accanto alle bestie immobili. Avvertiva qualcosa di strano. Come se l'atmosfera, nonostante la tempesta che si stava scatenando, fosse vetrificata, immobile, senza nessuno dei piccoli rumori del deserto. Come se qualcosa di minaccioso avesse allontanato di colpo serpenti e roditori. Alzò gli occhi verso il cerchio di rocce dietro il quale avevano trovato riparo. Ed ebbe di nuovo la sensazione di qualcosa di strano. Poi all'improvviso la terra tremò sotto i suoi piedi, con un brontolio sordo. E allora vide con sgomento il gruppo di ombre che era apparso intorno. Aprì la bocca per lanciare un grido d'allarme, mentre la sua mano correva frenetica alla spada. Ma qualcosa tratteneva il suo grido nella gola, e anche la sua spada sembrava rifiutarsi di uscire dal fodero, per quanta fosse la forza con cui la tirava. I suoi piedi sembravano diventati di piombo. Le ombre si fecero più vicine. Erano forme confuse di uomini armati, ancora coperte dalle divise della Guardia. Ma gli apparivano come dietro un vetro sporco: le loro sagome erano polverose, i colori impastati in un grigio che sommergeva tutto. Si muovevano a stento, curvi sotto il peso delle loro vesti lacere, delle armature sfondate. Intravide qualcuno dei loro volti, teschi scarnificati da cui pendeva ancora qualche brandello di pelle. Nelle orbite vuote era come se si fosse rifugiata tutta la tenebra della notte. Pensò con orrore che le armate di Vemerin li avessero raggiunti. Dunque la loro fuga era stata inutile. Di nuovo tentò di urlare, per strappare al so-
gno i suoi compagni, ma ancora nessun suono uscì dalla sua bocca. Attorno alle braci del bivacco le sagome nascoste sotto le coperte continuavano a dormire. Due ombre si staccarono dal gruppo, che restava addossato alle rocce. Riconobbe con trepidazione i volti dei suoi due amici, segnati dai colpi che li avevano uccisi. «Banthor... Vilma...» riuscì finalmente a mormorare. I due spettri continuavano ad avvicinarsi, le spade piegate e spezzate in pugno. Di colpo la paralisi che aveva bloccato i suoi movimenti era scomparsa. Si ritrovò anche lui con la spada in pugno, pronto a fronteggiarli. Aveva reagito d'istinto, davanti al pericolo. Ma invece che dall'eccitazione del combattimento si sentì invadere da una grande tristezza. Aveva desiderato per anni di poter parlare con loro, giustificarsi per averli abbandonati... Anche nella tomba del Re pazzo, quando li aveva rivisti, avrebbe voluto parlare, spiegarsi. E invece adesso in quell'angolo di deserto tutto sarebbe stato affidato alla voce metallica delle spade. Fu sopraffatto dallo scoramento: se era venuta la sua ora, e lì in quell'angolo di deserto era destino che terminasse la sua vita, allora perché combattere con i suoi amici? Perché finire nel furore, invece che nella riconciliazione? Stava per abbassare la lama, e tendere il collo a quelle delle ombre. Ma poi qualcosa di profondo si risvegliò dentro di lui. Un istinto di conservazione invincibile, temprato dai lunghi anni di insegnamento alla Scuola delle Armi. L'obbligo di non arrendersi, di non cedere mai. Per non diventare anzitempo uno di quei cenci polverosi che gli erano apparsi davanti. "C'è un tempo per ognuno" si ricordò le parole del suo maestro. "E dovete rispettarlo. Non un giorno, non un'ora di meno. Perché, quando sarete scesi nel crepuscolo, quel giorno e quell'ora vi torneranno davanti con una nostalgia insaziabile. Dovete attendere in piedi la vostra ora." In piedi. Si mise in guardia, pronto allo scontro. Ma le due ombre non sembravano volerlo attaccare. Si fecero più vicine, poi quella che era stata Vilma gli parlò. "Ci rivediamo, Vargo." Lo spettro non aveva mosso la mandibola scarnita. Eppure la sua voce era risuonata nella mente del giovane chiara, con quella sfumatura di allegro disincanto che era stata la nota caratteristica di tutti gli anni che avevano diviso sul Confine. «Non vi ho tradito!» riuscì a gridare Vargo. «Lo sappiamo» rispose Banthor, che era rimasto un passo indietro. «Ma
il destino ci ha posto sulle rive opposte del fiume. Quello che è avvenuto non ha più importanza. Adesso siamo al servizio di un padrone più grande. Lasciaci riscaldare» disse l'ombra, tendendo le mani verso il fuoco che ancora emanava un tenue bagliore. «Sì, dacci un po' di questo calore, mentre parliamo.» Si sedettero accanto al fuoco, che con le sue lingue sconvolte dal vento sembrava dar vita alle rocce tutto intorno. Dopo un attimo di esitazione anche Vargo si lasciò cadere a terra. Se avesse allungato una mano avrebbe potuto toccare le loro membra. Ma un ribrezzo invincibile lo tratteneva dall'abbracciarli. «Che cosa volete da me?» «Nulla» rispose Vilma, con il suo sorriso timido. «Non c'è più nulla che possiamo scambiarci. Siamo sulla strada, come te. Quando ci rivedremo sarà per l'ultima volta.» «A Menthor... È lì che è diretto Vemerin?» Per un lungo istante non venne alcuna risposta dalle ombre. «Prima. E poi più oltre.» La terra tremò di nuovo. «Oltre? Dove?» «Dove ci incontreremo per l'ultima volta. Dove tutto è cominciato e tutto finirà.» «Dove?» insistette Vargo, protendendo le braccia verso di loro. Doveva quasi gridare, adesso, per vincere le raffiche di vento, sempre più rabbiose. Forse i due avevano risposto. Ma le loro voci si persero in uno scoppio di tuono. Una vampata azzurrina attraversò il cielo, abbattendosi a meno di un miglio di distanza. Quando la luce fu scomparsa, non c'era più nessuno accanto a lui. Solo Athramala, incurante della pioggia che aveva incominciato a cadere, sembrava aver visto tutto. 4 Un tremito scosse il palazzo, facendo scricchiolare pericolosamente tutta la sua struttura. La ragazza che stava versando da bere emise un urlo di paura, lasciando cadere a terra il prezioso vaso d'argento da cui attingeva il liquore, per precipitarsi tra le braccia della donna in piedi accanto al tavolo. «Che fai, piccola stupida!» disse benevola la Signora Rossa, accarezzando la testa della giovane. «È più di un mese ormai che la terra trema in questo modo!»
«Perdonate, signora! Non riesco a vincermi» replicò lei, continuando a stringere le palpebre con forza. Rimasero così per tutti i lunghissimi istanti della scossa poi, quando le stoviglie sul tavolo smisero di tremare, la ragazza si asciugò gli occhi e si sciolse imbarazzata dalla stretta. La Regina le allungò uno schiaffetto sulla guancia. «Credevo di avervi insegnato a dominare le vostre emozioni. E invece devo assistere a questo spettacolo.» «Ma siamo tutte terrorizzate, signora! Da quando la terra ha preso a tremare, e dal cielo cadono fiamme e cenere, come se andasse a fuoco l'intera volta celeste! E dicono che terribili tempeste stiano sconvolgendo la costa sul Mare Interno. Un mio amico che serve nella flotta imperiale mi ha detto che molte navi sono affondate, e che colonne di fuoco si alzano dalle isole dei vulcani, e tempeste di neve mai viste si sono abbattute sulle terre del Nord e...» La Signora Rossa tornò ad alzare la mano. Questa volta senza traccia della benevolenza di poco prima. «Smettila, stupida! O ti farò pentire di spargere tra le ragazze queste dicerie da vecchie superstiziose! Piuttosto, abbiamo notizie delle nostre figlie?» «Shanda e Khaima?» fece lei, trattenendo a forza un singhiozzo. Abbassò gli occhi a terra, timorosa. «Non se ne sa più nulla, da quando hanno attraversato la Porta sul Vuoto. Siamo tutte preoccupate per loro...» La Regina Rossa si volse verso la finestra, mordendosi le labbra. «Sta passando troppo tempo, ormai...» mormorò tra sé. Un'ombra inquieta le attraversò lo sguardo. Poi, come se solo allora si rendesse conto di non essere sola, si drizzò sulle spalle tornando al suo atteggiamento imperioso. «Sono le mie figlie più abili. Sapranno cavarsela, è solo questione di tempo e le vedremo tornare. Adesso dobbiamo pensare ad altro.» La donna allungò la mano, afferrando un foglio che giaceva aperto sul tavolo. «L'Imperatore ha deciso di celebrare il suo anniversario di matrimonio con un grande banchetto, e ordina che il Cerchio invii a palazzo un gruppo di voi, perché intrattenga i nobili e gli ospiti che giungeranno dalle province.» Le labbra le si contrassero in una piega beffarda. «E chiede anche il piacere della mia compagnia, questa volta. Era da tempo che la mia presenza a palazzo non era più richiesta...» «Forse la duchessa Evirah non gli riscalda più il letto come i primi giorni» suggerì la ragazza, maliziosa. La Signora Rossa mosse qualche passo, fino a una grande specchiera che
pendeva dalla parete. Si contemplò nel cristallo a lungo, passandosi la punta della lingua sulle labbra, con voluttà. «Il mio favore è facile perderlo, figlia mia. Ma per riconquistarlo occorre pagare, e molto. Con una moneta che l'Imperatore non immagina.» Le ragazze erano state radunate al centro della capanna di paglia, accanto al piccolo focolare che gettava una luce stentata con le sue fiammelle. Tremanti per il freddo, si stringevano nelle loro vesti di cotone grezzo, cercando un po' di calore l'una nella vicinanza dell'altra. Alcune erano poco più che bambine, con gli occhi ancora pieni del sonno a cui erano state bruscamente strappate. Altre, appena più grandi, mostravano già i primi segni della femminilità che presto sarebbe esplosa in loro. Ma tutte portavano impressi i segni inconfondibili della fame, che scavava i loro volti riempiendoli di ombre. «Tra poco verrà la Vestale» disse la donna anziana che sorvegliava il gruppo. «Rendetele onore, e sperate che scelga qualcuna di voi per il servizio al Tempio. Le fortunate andranno a Khoran, e presteranno i loro corpi perché gli dei dialoghino con gli uomini.» Una delle ragazzine, una bionda dall'espressione timida nel volto dominato da due grandi occhi azzurri, si accostò ancor di più all'amica che la teneva tra le braccia. «Che vuol dire, Khaima?» sussurrò. L'altra, poco più alta di lei, chinò la testa di riccioli neri verso il suo orecchio. «Non lo so, Shanda. Ho sentito solo delle voci, qualcosa che dicono le più grandi. Al tempio di Khoran gli dei talvolta appaiono agli uomini. E parlano loro in sogno, mentre essi dormono tra le loro braccia.» «Gli uomini dormono tra le braccia degli dei?» chiese stupita la bionda. L'altra le tirò i capelli, facendola sobbalzare. «Stupida! Sono le vestali che dormono con gli uomini, e i loro corpi fanno da tramite al dialogo con gli dei!» La bionda portò la mano alle labbra, con un'esclamazione di stupore. «E anche noi potremo fare questo?» L'altra alzò le spalle. «Se è destino. Ma forse stavolta non ci sceglieranno.» «Khaima, giura che andremo insieme! Che non mi lascerai portar via, se sceglieranno me!» La ragazza carezzò dolcemente la testa dell'amica. «Niente ci dividerà, mai.» In quel momento un rumore di passi risuonò oltre la rozza porta della
capanna. Poi l'uscio si spalancò e fecero il loro ingresso due uomini in armi, seguiti da una donna velata. Al loro apparire la vecchia si era prosternata in un inchino profondo, spingendo a terra per il collo le bambine più vicine a lei. Anche Sbanda e Khaima si inchinarono, continuando però a fissare di sottecchi la figura che muoveva verso di loro. La donna velata si avvicinò ancora, incurante del chiacchiericcio della vecchia che si profondeva in elogi delle sue ragazze. Adesso potevano vederla bene. La donna era alta, e le sue vesti sotto il mantello bianco erano leggere e trasparenti. Un'alta cintura le stringeva la vita appena sotto il seno. In mano aveva una bacchetta dorata. Cominciò a passare in rivista le ragazze, soffermandosi davanti a ognuna per osservarla nei particolari. Poi, dopo un rapido esame, passava oltre. Quando fu davanti a Sbanda parve più interessata. Allungò la mano e saggiò con le dita una ciocca dei suoi capelli, come un mercante che valutasse la qualità di un filo di seta. Poi con la bacchetta sollevò la veste della ragazza, mettendone a nudo il ventre. Sbanda d'istinto si tirò indietro, spingendo di nuovo in basso la veste. Poi lanciò un grido di dolore, sentendo sulla guancia il bruciore improvviso dello schiaffo della vecchia, infuriata per la sua insubordinazione. Dietro di lei Khaima aveva avuto un fremito, come se il colpo avesse ferito anche lei. La vestale era restata impassibile, limitandosi ad allontanare la vecchia con un gesto deciso. Poi tornò ad alzare la veste della ragazza, riprendendo la sua osservazione. Questa volta Shanda si limitò a chiudere gli occhi, aspettando nuda che l'esame terminasse. Quando la donna parve soddisfatta abbassò la bacchetta, e passò a osservare la sua amica. Fissò Khaima negli occhi, come se cercasse una risposta nello sguardo fermo della ragazza. Poi scosse appena il capo e passò oltre. A una a una tutte le ragazze vennero esaminate. Quando fu giunta all'ultima la vestale si rivolse alla vecchia. «Una sola, la bionda. Lavatela con cura, e fatele indossare la veste che vi consegneranno i miei uomini. Tagliate a zero i suoi capelli. Niente di quello che c'è qui dentro deve contaminare il Tempio. Domani all'alba un carro verrà a prenderla. Questo è per voi» aggiunse la donna, estraendo da sotto la veste un sacchetto e consegnandolo alla vecchia che lo prese profondendosi in ringraziamenti. La vecchia seguì con lo sguardo la vestale e i due armati che si allontanavano, accarezzando il sacchetto di monete. Poi lo nascose a sua volta
sotto la veste consunta e afferrò Shanda per un braccio. «Vieni con me, tu! Sei stata scelta» sibilò, con una punta di invidia velenosa nella voce. «Ma stanotte sei ancora la mia serva! Andiamo, ci sarà molto da fare per renderti decente. E voi altre andate a dormire, domani c'è il lavoro che vi aspetta. Voi siete degne soltanto del mio, di tempio!» aggiunse sghignazzando. Khaima seguì con gli occhi dilatati l'amica che veniva trascinata via piangente. Passando accanto al focolare la vecchia aveva colpito con un calcio la cenere, soffocando la debole fiamma. Nelle tenebre in cui era caduta la stanza Khaima sentiva i mormorii delle ragazze, che commentavano sommessamente l'accaduto. Tremando si trascinò fino al suo giaciglio di paglia, in un angolo, e si rannicchiò sotto la sua coperta di feltro. Poi, come faceva ogni notte, tese la mano verso il giaciglio accanto, cercando la testa dell'amica. Ma le sue dita afferrarono soltanto pochi fili di paglia. La luna, alta nel cielo, indicava che la mezzanotte era trascorsa da un pezzo. Nella lurida stanza al piano superiore Shanda se ne stava sdraiata in terra, singhiozzando silenziosamente. La coperta ruvida su cui giaceva le irritava la pelle della nuca rasata a zero. Le sue dita continuavano a muoversi sulla guancia, cercando i capelli perduti. Dall'altra parte di un paravento il ritmico russare della vecchia addormentata era l'unico rumore che spezzava il silenzio della notte. Con un singulto Shanda cercò di soffocare il gemito che le squassava il petto. Anche la vecchia sembrava agitarsi nel sonno. Sentì un mormorio, come se la donna stesse borbottando qualcosa in sogno, poi le sembrò di avvertire una presenza accanto a sé. «Shhh...» mormorò l'ombra, mentre con una mano le chiudeva la bocca. Nella flebile luce lunare che filtrava dalla finestra la ragazza riconobbe la sua amica, accucciata presso di lei. Una gioia improvvisa le esplose in petto, subito soffocata dalla paura. Indicò il paravento: se la vecchia si fosse svegliata e le avesse scoperte... Khaima accostò le labbra al suo viso, baciandola con tenerezza. Poi scivolò verso il suo orecchio. «Muoviti. Indossa la tua veste, ce ne andiamo.» «Ma la custode...» Khaima tornò a chiuderle la bocca con la mano. Passata la prima sorpresa, Shanda avvertì qualcosa di strano nelle dita che sentiva sotto le
labbra. Un sapore dolciastro, che stillava umido. «La vecchia non ci darà fastidio. Non darà più fastidio a nessuno» disse l'amica, alzando qualcosa verso i suoi occhi. Con un fremito Shanda riconobbe la lunga forca di rame con cui veniva rimestato il paiolo della cucina. Sentì il suo stomaco contrarsi: sulle punte c'erano ancora attaccati dei grumi scuri, come se l'attrezzo fosse appena uscito da qualche orrendo intingolo. «È morta...» «Sta ancora contando il suo denaro. E lo divide con il diavolo!» disse Khaima, abbassando la forca. «Ma che faremo adesso? Se ci prendono... siamo perdute!» esclamò la ragazza, rifugiandosi tra le braccia dell'amica. Quella si sciolse bruscamente, mostrandole ancora qualcosa. Shanda riconobbe il sacchetto che la vestale aveva consegnato alla vecchia. L'amica lo scosse, facendolo tintinnare. «Queste monete ci aiuteranno. Cercheremo di raggiungere il Confine, verso Hirush. Dicono che nessuno controlla le carovane che si dirigono verso il Vuoto. Nessuno ci cercherà, potremo farci dimenticare. Se restiamo insieme, non ci fermeranno.» «Ma che faremo laggiù?» balbettò la ragazza. Khaima le afferrò la testa, costringendola a fissarla negli occhi. Sentiva sotto le dita la pelle dell'amica, dolce e tiepida, sentiva l'odore delicato che saliva dal suo petto già formato. Sentì accendersi qualcosa dentro di sé, un calore diverso dalla tenerezza che aveva sempre provato per lei, da quando bambine si erano ritrovate insieme in quell'inferno. Di colpo si protese verso Shanda, baciandola con foga. L'altra accennò una timida reazione, ma poi si lasciò andare anche lei al bacio, come se la stessa passione si fosse accesa anche in lei. «Questo faremo» disse poi Khaima, riprendendo fiato. «Questo» seguitò, respirando di nuovo sulle labbra dell'amica. «Ma almeno ci faremo pagare. E non sarà per il piacere degli dei. Ma per il dolore degli uomini!» aggiunse con un ghigno. «Vieni! E copri quella testa indecente che ti hanno fatto!» aggiunse, avvolgendole un cencio intorno alla fronte. La ragazza si alzò, cercando di vincere il tremito che ancora le scuoteva i muscoli, poi silenziosamente raccolse le sue povere cose, una veste lacera e un paio di sandali di corda. Quindi si gettò sulle spalle il mantello che l'amica aveva raccolto accanto al giaciglio della vecchia, e la seguì verso la porta, tentando di evitare la pozza di sangue che si era allargata sul
pavimento di assi, e che stava già filtrando di sotto. Hirush risuonava del rumore di tutta la zona del Confine. Tra nugoli di polvere un'altra carovana era appena passata sulla strada. Accanto ai cammelli erano sfilati i loro conducenti, per lo più contrabbandieri che nascondevano tra le balle di merci innocenti carichi vietati di spezie e di armi, destinati ai nomadi del Vuoto. Le guardie di confine avevano gettato un'occhiata distratta, preoccupate solo di intascare il prezzo stabilito per la loro connivenza, e dopo il suono del coprifuoco erano rientrate nella torre di guardia. Anche gran parte della popolazione si era ormai ritirata al sicuro, dietro le porte serrate delle catapecchie. Poi, al sorgere della luna, le strade della città avevano preso a popolarsi di ombre furtive, che scivolavano lungo i muri cercando di confondersi con le pozze di oscurità che l'intrico di strade e vicoli offriva loro. Uomini in cerca di vino, per cancellare il peso dei giorni di marcia. Di gioco, per sfidare ancora una volta quella sorte che li aveva incatenati alle piste del deserto, e che un colpo fortunato avrebbe potuto rovesciare, dando un calcio alla tavola del destino. Uomini in cerca di donne. Una merce rara sul Confine, nonostante i richiami e le deportazioni che periodicamente l'Impero realizzava delle prostitute rastrellate nei bassifondi di Menthor. In una catapecchia accanto al serraglio, dove avevano trovato rifugio, Sbanda e Khaima aspettavano, sbirciando attraverso le assi sconnesse della porta. Ormai il denaro rubato alla loro custode si era quasi esaurito. Nei primi giorni avevano cercato di dare nell'occhio il meno possibile, restando nascoste durante il giorno e uscendo solo raramente la notte, per procurarsi di che sopravvivere. Ma adesso era venuto il tempo di affrontare la realtà. «Che facciamo, sorella?» chiese Sbanda, sconfortata. L'altra tardò a rispondere, l'occhio incollato alla fessura. Poi si volse di scatto, la faccia segnata da una smorfia. «Fuori è pieno di gente in cerca. Apriamo la nostra porta.» Aveva allungato la mano verso il chiavistello, ma prima che potesse azionarlo l'amica le si era stretta al fianco, trattenendola. «Aprire la porta... Ma sai che significa! Ce lo hanno spiegato chiaramente, al mercato...» «Certo, lo so. È come appendere una lanterna rossa alla finestra. Ma è
il momento di farlo» aggiunse, liberandosi dalla stretta e mostrandole il sacchetto di cuoio delle monete, ormai vuoto. «E chi...» mormorò Sbanda. L'altra le gettò un'occhiata sprezzante, che subito si trasformò in una smorfia. «Lo farò io, stupida. A chi pensavi? Tu siediti nell'angolo, e nasconditi sotto la coperta, come se dormissi. Penserò io a tutto» concluse, con una voce che si era fatta improvvisamente amara. Shanda con un fremito obbedì all'ordine. Si sdraiò e si tirò la coperta sin sulla testa, premendosi le mani sugli orecchi per non sentire. Ma anche così udì distintamente lo schiocco del saliscendi che si apriva. Passarono lunghi istanti di silenzio. Shanda sotto la coperta sentiva allentarsi la tensione. Forse non sarebbe venuto nessuno. Forse ancora per un giorno non sarebbe accaduto nulla. Forse... Un passo pesante ruppe il silenzio. Qualcuno aveva urtato con il piede la porta, spalancandola. Il rumore di passi si fece più vicino. Qualcuno era entrato, e si aggirava per la stanza. Poi una voce maschile disse qualche parola in tono basso. Shanda non riusciva a capire tutte le parole, pronunciate in quella strana lingua del Confine, che sembrava un impasto di tutte le lingue dell'Impero. Sentì l'amica che rispondeva qualcosa, cui l'uomo ribatté con un grugnito. Poi, dopo un nuovo, breve silenzio, un piccolo grido di dolore le ferì gli orecchi. Rapida si liberò della coperta, pronta a correre in aiuto di Khaima. Dall'altra parte della stanza, sul pagliericcio che fungeva da letto vide le forme confuse di due corpi avvinghiati, che si dibattevano in una sorta di lotta sotto la spinta dell'uomo, disteso sopra la sua amica. Con un singulto la ragazza tornò a sparire sotto la coperta, cercando di non sentire i rumori soffocati che giungevano dal pagliericcio. Erano passati solo pochi istanti, ma a Shanda era sembrato un tempo interminabile. Dopo un ultimo, pesante respiro dell'uomo, ogni rumore si era spento. Forse è tutto finito, pensò la ragazza sospirando di sollievo. Nuovi rumori suggerivano che l'uomo si stesse rialzando. Sentì di nuovo la sua voce roca che diceva qualcosa. «Devi pagare!» riconobbe distintamente la voce di Khaima. Sembrava alterata da qualcosa. Shanda si chiese cosa dovesse fare. Ma in quel momento una mano le strappò la coperta di dosso. C'era un uomo che torreggiava su di lei, fissandola con uno sguardo compiaciuto. «Mi era sembrato che non fossi sola, puttana» disse rivolgendosi a
Khaima, la coperta ancora stretta in mano. «Perché mi volevi nascondere questo bocconcino?» domandò, tornando a scrutare con aria d'intenditore le forme della ragazza. «È mia sorella. Non fa il mestiere. Devi pagarmi» sibilò Khaima avvicinandosi. Stava ancora ricomponendo la veste. Lanciò un'occhiata furtiva all'amica, poi tese la mano. «Il denaro. Quello che hai promesso.» «Piano ragazza, piano. Non penso di aver ancora finito. Sono lunghi i turni, alla torre. E non credo che quello che mi hai dato valga quello che chiedi. No, penso che assaggerò anche l'altra puttana, prima.» L'uomo allungò la mano e afferrò Shanda per un braccio, tirandola su a forza. La ragazza emise un grido di spavento. «Lascia mia sorella» gridò Khaima con una ferocia che colpì Shanda, nonostante la paura che si era impossessata di lei. L'uomo continuava a tirarla con forza verso il letto, incurante dell'urlo di Khaima. Le sembrò anzi che fosse scoppiato a ridere: una risata stridula, seguita da un'imprecazione. Shanda sentì la morsa al braccio che si scioglieva di colpo, e ne approfittò per balzare via, cercando di sfuggire alla presa. Ma l'uomo non sembrava volerla rincorrere: era restato in mezzo alla stanza, e oscillava sulle gambe fissando incredulo il manico del pugnale che gli sporgeva dal petto all'altezza del cuore. Con un grugnito doloroso lo afferrò, come se volesse strapparsi via l'arma, ma di colpo dalla bocca gli uscì un fiotto violento di sangue, e cadde rumorosamente a terra. Khaima era accanto a lui, gli occhi spiritati, una mano ancora contratta a sorreggere la veste intorno al corpo magro. Si chinò sul corpo agonizzante, che fremeva debolmente, e gli sottrasse rapida la borsa che portava alla cintura. Ne rovesciò il contenuto in terra: poche monete caddero, sporcandosi nella pozza di sangue che si era allargata sul pavimento, insieme con un foglio di carta ripiegata. Raccolse rapida il denaro, poi spiegò la carta. Shanda la vide farsi ancora più pallida. «Era un soldato della Guardia» mormorò Khaima, cupa. «Questa era la sua licenza...» Sbanda si portò le mani alla bocca, sconvolta. «Dobbiamo farlo sparire, o siamo perdute!» aggiunse Khaima, guardandosi intorno come cercando di riordinare le idee. Con un sussulto gli occhi le corsero alla porta. Era ancora semiaperta. Si mosse di scatto per richiuderla, ma una spinta violenta la spalancò di nuovo, respingendola. Altri due uomini erano apparsi sull'uscio. Quello più vicino la trapassò con uno sguardo acceso dal vino, poi si rivolse al compagno. «Abbiamo
fatto bene a seguire Manco, ha sempre buon occhio quando si tratta di puttane. E guarda qui, ne ha trovate due! Proprio il numero giusto!» Spinse via con una mossa del braccio la ragazza che cercava ancora disperatamente di richiudere la porta e si fece avanti, seguito dall'altro. Fece un paio di passi nella penombra, si arrestò dopo essere inciampato nel corpo riverso sull'assito, poi lanciò un'imprecazione, rendendosi improvvisamente conto dell'accaduto. «Che avete fatto, puttane!» gridò inferocito, colpendo con un manrovescio Khaima alla bocca, e scagliandola contro il muro tramortita. «E tu, finirai sulla forca, per aver assassinato un uomo della Guardia! Ma l'altra la ammazzo subito!» gridò ancora, muovendosi verso il corpo disteso della ragazza, e colpendola ancora con un calcio al ventre. Khaima semisvenuta emise un debole lamento, sollevando faticosamente le mani per cercare di proteggersi la testa dai prossimi colpi. Shanda si era gettata su di lei per farle scudo in qualche modo, ma anche lei fu raggiunta da un calcio al fianco che la lasciò a terra singhiozzante e senza respiro per il dolore. L'uomo stava per colpirle di nuovo quando fu fermato dal compagno. «Aspetta, non ammazzarle così! Manco si merita un ultimo spettacolo, come cerimonia funebre! Glielo dobbiamo, per tutte le donne che abbiamo diviso con lui. Un bel balletto dalla corda!» L'uomo sciolse la cintura di cuoio che gli stringeva i fianchi, poi si chinò su Khaima che gemeva debolmente e gliela passò intorno al collo. La tirò su con uno strattone, agganciando la cintura alla bassa trave del tetto. Appesa alla corda Khaima ebbe un guizzo, come se il dolore improvviso l'avesse rianimata. Cominciò ad annaspare, mentre con le mani cercava disperatamente di liberarsi dal cappio, oscillando in una sorta di balletto macabro sul cadavere della sua vittima. Nel movimento la veste era scivolata a terra, rivelando il suo corpo nudo, magro e segnato dai lividi della lotta. Uno dei due uomini le sputò addosso. «E Manco è morto per questa specie di ragno! Ma forse l'altra sarà un po' più adatta allo spettacolo!» Khaima stava perdendo le forze, il volto violaceo per l'asfissia. Le sue oscillazioni si facevano sempre più deboli: ormai non cercava nemmeno più di sciogliere il cappio, ma le sue dita arpeggiavano nell'aria in movimenti senza senso, come se il suo cervello non le controllasse più. Shanda, sconvolta, era scoppiata in singhiozzi disperati e cercava inutilmente di sfuggire alla presa dell'uomo che la tratteneva per correre verso l'amica.
«Adesso tocca a te andare al ballo, puttana» fece l'uomo, trascinandola verso la corda. Ma un grido lo fermò. Il suo compagno era caduto di traverso sul primo cadavere, colpito da una freccia che gli aveva trapassato la schiena uscendo per quasi un palmo dal petto. L'uomo corse con la mano alla spada, fissando qualcosa oltre la porta spalancata. Ma prima che potesse completare il movimento emise un grugnito, rovesciando la testa all'indietro sotto l'urto di una seconda freccia che gli si era piantata in fronte. Mentre anche lui finiva a gambe larghe sul mucchio, una voce argentina arrivò dalla porta. Due ragazze erano entrate, coperte da una leggera armatura di cuoio, gli archi ancora vibranti in mano. «Aiuta la tua amica, sorella» gridò una delle due a Shanda, indicando il corpo di Khaima che ancora si dibatteva debolmente. «E sbrigati, il Cerchio vi ha scelte.» Già dalle prime ore del mattino la piazza davanti al Palazzo imperiale era stata sgombrata a forza dei banchi dei venditori e dei gruppi di mendicanti che normalmente la occupavano. Masse di disperati coperti di stracci, accorsi a Menthor da tutte le parti dell'Impero in cerca di qualcosa per sopravvivere, erano finiti a trascinarsi nei vicoli dei quartieri bassi, nascosti come topi per sfuggire alle ronde della Guardia e ai periodici rastrellamenti che li bersagliavano per l'arruolamento forzato nei reparti di stanza sul Confine. Solo intorno al Palazzo, per un'antica consuetudine che risaliva ai primi imperatori, vigeva una sorta di zona franca. E i funzionari e i nobili che vi transitavano con le loro portantine potevano assistere allo spettacolo crudele di quanti, incuranti della sferza degli uomini di scorta, riuscivano ad avvicinarsi per tendere una mano in cerca di una moneta, e alle risse che ne seguivano. Anche l'Imperatore periodicamente vi si affacciava, per godere con i suoi cortigiani della prova della sua potenza e della sua generosità. Spesso avveniva quando era prossima qualche spedizione militare, e v'era la necessità di rinfoltire le linee destinate a sacrificarsi senza speranza contro i Ribelli. Allora la notizia della sua uscita veniva fatta circolare ad arte per attirare ancor più disperati, e sempre un reparto della Guardia veniva appostato nelle vicinanze in modo da catturare poi al tramonto quanti più uomini possibile tra quelli che erano accorsi. Tutti lo sapevano, ma la speranza di mettere le mani su un pezzo d'oro era talmente forte da vincere ogni timore.
Da giorni circolava la voce che l'Imperatore avrebbe celebrato l'anniversario del suo matrimonio con una grande festa. E subito i mendicanti si erano messi in moto. Ma stavolta non sembrava esserci accoglienza per nessuno. Liberata a colpi di bastone la piazza, un reparto della Guardia si era schierato nel mezzo, spalla contro spalla, creando un corridoio protetto per le portantine e i carri degli invitati che dal tardo pomeriggio avevano cominciato ad arrivare. Anche il carro della Signora Rossa, decorato da intagli dorati e dipinto della tinta scarlatta dell'Ordine, si era mosso dalla torre del Cerchio, seguito da un secondo veicolo. Dentro, al riparo delle tende di broccato che oscuravano i finestrini, la Signora Rossa se ne stava mollemente adagiata su un grande cuscino, intenta a carezzare distrattamente la testa della giovane favorita accoccolata ai suoi piedi. «Siamo in ritardo, Signora» disse a un certo punto la ragazza. «L'Imperatore non se ne avrà a male?» Il volto della Signora si contrasse in un sorriso ironico. «Abbiamo atteso tanto il suo invito, figlia mia» si limitò a rispondere. «È bene che il nostro arrivo allora non passi inosservato.» La donna sollevò un lembo della cortina, gettando uno sguardo fuori. Le tenebre erano scese sulla città, e da qualche attimo aveva ricominciato a piovere, la stessa pioggia fangosa dei giorni precedenti. Il ticchettio sul tetto del carro si andava facendo sempre più intenso, a mano a mano che il piccolo corteo avanzava lungo le strette vie dei quartieri bassi, risalendo attraverso piazze e angiporti, sottopassaggi e case malandate verso la collina del Palazzo. Le ruote sobbalzavano sul selciato diseguale imprimendo al carro una serie di sussulti appena attenuati dal molleggio. Poi all'improvviso sembrò che una mano gigantesca avesse afferrato il veicolo, minacciando di rovesciarlo. La Signora fece appena a tempo ad aggrapparsi a una delle colonnine che decoravano la finestra, evitando a stento di finire a terra. Un urlo di terrore della ragazza, che era stata sbattuta violentemente contro la fiancata, lacerò il silenzio dell'abitacolo. Il carro si era sollevato su un lato, continuando per un tratto su due sole ruote, tra i nitriti selvaggi dei cavalli. Finalmente ricadde in piano, con un gemito di tutta la struttura. La donna si affacciò imprecando contro la conduttrice, credendo che avesse fatto scivolare il carro sulla cunetta. Ma vide
con sgomento che tutto intorno le cime delle costruzioni ondeggiavano con forza, come alberi in preda alla tempesta. Le tegole di molti tetti si stavano infrangendo a terra, insieme con decine di mattoni di fango secco staccatisi dalle pareti, terrorizzando ulteriormente i cavalli imbizzarriti, che davano strappi frenetici al timone cercando di liberarsi. Poi, com'era venuta, la scossa terminò, lasciando dietro di sé una nube di polvere nell'aria e l'eco di un rombo sotterraneo che si allontanava. La ragazza a cassetta lottava per riprendere il controllo delle bestie, aiutata da altre sorelle del Cerchio che erano balzate a terra dal secondo carro. La Signora Rossa seguì i loro sforzi, finché non riuscirono ad avere ragione delle bestie e il viaggio poté riprendere. Finalmente, voltato un ultimo angolo, si trovarono all'imbocco della piazza. «Accendete subito tutte le luci dei carri» ordinò allora la donna. E subito le ragazze sedute sull'imperiale, al riparo dei loro mantelli cerati, si affannarono a infiammare tutte le lampade che decoravano gli angoli dei due carri. Simili a delle navi che si aprissero la strada in un mare oscuro i carri percorsero l'ultimo tratto, sotto lo sguardo incuriosito dei cerimonieri che attendevano davanti al portale. Centinaia di candele illuminavano a giorno la grande sala delle udienze. Le pareti di pietra quasi sparivano sotto gli arazzi e gli addobbi di fiori provenienti dai giardini imperiali. Anche le panche scolpite che normalmente occupavano lo spazio centrale erano state rimosse e allineate lungo i lati della sala. Solo il trono imperiale, uno scranno di bronzo sorretto dalle statue di quattro leoni a grandezza naturale, restava a indicare che quello era il luogo in cui gli imperatori di Menthor esercitavano il loro potere assoluto. L'Imperatore vi sedeva sopra, con un'aria annoiata che alterava spiacevolmente i tratti del suo volto ancora giovane, ma già segnato dall'indolenza e dalla lussuria. Al suo fianco, sulla stessa pedana di porfido che innalzava il suo trono sopra il livello della sala, un trono ligneo più piccolo, anche se finemente decorato da intagli dorati, ospitava la sua consorte, l'Imperatrice Evirah di Verennia. La giovane donna sedeva rigida, fissando un punto indefinito della sala. Uomini e donne della nobiltà sedevano a loro volta in silenzio sulle panche allineate, limitandosi a scambiarsi qualche commento a bassa voce di tanto in tanto, e a lanciare occhiate inquiete alla volta dell'Imperatore, cercando di decifrare i pensieri nascosti dietro la sua faccia rannuvo-
lata. Vicino all'Imperatrice, seduto al centro di un gruppo di uomini del suo clan, il Duca di Verennia fissava alternativamente la coppia, scorrendo con lo sguardo dall'una all'altro come in attesa di qualcosa. «Gli invitati sono ormai tutti arrivati» sussurrò uno degli uomini all'orecchio del Duca. «Che cosa aspettiamo?» «Manca ancora qualcuno. Avete curato che tutti abbiano trovato posto secondo il cerimoniale?» replicò il Duca, anche lui a voce bassa. Intanto scrutava con attenzione la massa degli invitati, allineati lungo le pareti in paziente attesa. «Secondo le vostre disposizioni. Rispettate alla lettera.» Il Duca annuì soddisfatto. Dall'altra parte della sala un gruppo di musici e di cantori aspettava nervosamente un cenno per dare inizio all'esecuzione. Finalmente dalla grande porta sul fondo riapparve il cerimoniere capo, seguito dalla Signora Rossa e da un piccolo corteo di figure velate. Un mormorio sconcertato si accese subito nella sala. I nobili commentavano tra loro imbarazzati quella vista, e più d'uno si era alzato istintivamente in piedi, quasi per accertarsi che i suoi occhi avessero visto il vero. Anche l'Imperatore sembrava colpito. Vinse il suo torpore, si alzò dal trono e mosse un passo avanti sulla pedana, per poi scendere di un paio di gradini. Intanto la Signora Rossa aveva continuato a procedere eretta attraverso la sala, incurante delle reazioni dei nobili, fino ad arrestarsi a pochi passi dal trono. «Grazie del vostro invito, maestà» disse con voce sonora, piegando un ginocchio e scendendo fin quasi a sfiorare la terra con il suo velo. Ma subito tornò in posizione eretta, mentre l'Imperatore scendeva un altro gradino della pedana. Evirah era restata immobile: solo con la coda dell'occhio sembrava sorvegliare le mosse del consorte. «Siamo lieti della vostra venuta, che speriamo allieterà il convito, e la celebrazione del nostro anniversario di matrimonio» disse l'Imperatore. «È molto che i nostri occhi non godono della vostra grazia. E di quella delle vostre figlie» aggiunse, lanciando un'occhiata perplessa alle figure completamente velate che erano rimaste in perfetto silenzio alle spalle della donna, allineate su due file. «È molto che vostra maestà, certo preso dagli impegni gravosi del governo, non ha sentito la necessità di goderne» rispose la Signora, accen-
nando a un nuovo inchino. «E quanto alla grazia delle mie figlie» aggiunse, rilevando quello sguardo ansioso, «essa non vi deluderà di certo. Ho chiesto io che fosse velata, affinché si rivelasse per prima soltanto ai vostri occhi. Esse hanno preparato per voi uno spettacolo in cui vedrete rifulgere tutta la loro abilità di danzatrici.» «Davvero... è quello che mi attendo. Vogliamo che questo giorno resti memorabile, come celebrazione del nostro anniversario. E che sia anche foriero di buona sorte sulla nostra discendenza. Che gli dei ancora tardano ad assicurare» aggiunse, lanciando uno sguardo freddo all'Imperatrice. «Chi può dirlo, maestà» replicò enigmatica la Signora. «A volte gli dei sono più sensibili alla bellezza che alle preghiere.» «E dunque si dia inizio alle danze» disse l'Imperatore, accennando con un gesto imperioso alla volta dei musici. «Aspettate, maestà, vi prego. E imploro anche la vostra pazienza, miei signori» lo interruppe la Signora. «Lo spettacolo che le mie figlie hanno preparato per voi richiede un accompagnamento particolare, che i vostri musici di certo non conoscono.» «Va bene. E chi provvederà?» «Io.» L'Imperatore sollevò lo sguardo sulla donna. «Voi? Non conoscevamo questi vostri talenti.» «La modestia della femmina spesso impone di celare all'uomo tutti i suoi ingegni. Ma la scoperta di questi è talvolta per il maschio la più piacevole delle sorprese» replicò suadente la Signora. «Va bene... eseguite, dunque.» «Scendete tra noi, maestà. È per voi che tutto questo è stato preparato.» L'Imperatore esitò un istante, muovendo rapido in giro la testa, come se aspettasse dai suoi cortigiani un incoraggiamento. Ma prima che quelli potessero accennare una qualunque reazione, sollevò deciso il capo, scendendo gli ultimi gradini fino a raggiungere il piano della sala. Intanto la giovane favorita aveva disteso in terra un grande cuscino di seta, e teso un liuto alla Signora. La donna si accoccolò sul cuscino, impugnando lo strumento. Eseguì un rapido arpeggio mentre le danzatrici velate muovevano all'unisono un passo avanti avvicinandosi all'Imperatore. «Che cosa avete in mente?» chiese ancora l'uomo, mentre si avvicinava a sua volta, fino a sfiorare le velate. Allungò la mano verso la più vicina, accennando a sollevare il velo che la nascondeva. Ma quella con una mossa improvvisa gli afferrò la mano, fermando la sua mossa. Un mormorio scandalizzato si era levato dagli astanti. Anche l'Imperato-
re appariva colto alla sprovvista. Ma prima che potesse dare sfogo all'ira che gli era esplosa dentro, di nuovo la voce suadente della Signora disse: «Pazientate, maestà. Esse vi sveleranno tutto. Ma con ordine. Eseguiranno per voi un'antica ballata. La ballata delle Sette Gioie Inattese». Senza dargli tempo di reagire la Signora arpeggiò di nuovo, poi attaccò una melodia dolce, che evocava suoni e sensazioni di terre e tempi lontani. Subito la prima danzatrice cominciò a volteggiare sollevandosi armoniosa sulle punte dei piedi nudi, e prendendo a ruotare intorno all'Imperatore, sfiorandolo con i suoi veli. Poi, mentre la musica continuava ad accompagnare le sue mosse eleganti, cominciò a sciogliere il velo, rivelando il succinto costume di raso bianco che la copriva appena, senza nascondere nulla della bellezza delle sue forme. L'Imperatore fissava estasiato le sei splendide giovani che continuavano a volteggiare intorno a lui, carezzandogli il volto con le dita agili come un volo di farfalle, e sfiorandolo con le anche. L'uomo appariva in preda a una eccitazione crescente, come se i suoi sensi si fossero improvvisamente risvegliati. Evirah, sempre immobile sul suo trono, sembrava non vedere nulla, una maschera gelida sul volto. Restava ancora una danzatrice velata. L'Imperatore rivolse il suo sguardo lussurioso su di lei. In quel momento la Signora aveva eseguito una pausa nella ballata. «E quella?» gridò eccitato l'uomo. «Quella?» disse la Signora allontanando la mano dalla tavola del liuto e indicando la giovane velata. «Quella è l'ultima delle beatitudini. Volete vederla?» «Certo. Lo ordiniamo.» «E allora sia come volete» rispose la donna, ricominciando ad arpeggiare. La velata balzò in avanti con uno scatto felino, piroettando sugli alluci, giungendo a un passo dall'Imperatore. Poi inarcò la schiena fino a scendere con il volto all'altezza delle ginocchia dell'uomo. Quindi con un movimento sinuoso, simile a un serpente che si sollevi da terra, risalì lungo il suo corpo sfiorandolo con il volto come se cercasse di saggiarne attraverso il velo un segreto sapore con la lingua. Quando fu tornata in posizione eretta, scagliò le braccia verso l'alto liberandosi contemporaneamente del velo che cadde ai suoi piedi, rivelando il suo corpo nudo. La sua pelle bianchissima mostrava per unica veste un tatuaggio che la ricopriva tutta, dalle dita dei piedi fino al volto dai tratti bellissimi.
L'Imperatore strabuzzò gli occhi, e dalle sue labbra uscì un mugolio strozzato. «Che vuol dire...» cominciò, con voce indignata. Il tatuaggio mostrava lo schema di un cadavere, come se il maestro che l'aveva eseguito avesse tratteggiato con la sua punta d'acciaio sul corpo della fanciulla tutti i nervi e le ossa nascosti dalla pelle d'alabastro. Non riuscì a proseguire la frase. Tra le mani della fanciulla era apparso un lungo pugnale. Con un rapido arco la lama balenò alla luce delle candele, poi scomparve nel collo dell'uomo, mentre intorno a lui la Signora e le altre danzatrici balzavano indietro, come per non essere contaminate da quello che stava accadendo. L'Imperatore portò le mani alla gola e mosse qualche passo barcollando, mentre un gorgoglio sanguinoso gli usciva dalla bocca, mescolato a una spuma anch'essa sanguigna. Poi allontanò le mani artigliando l'aria, come cercando un sostegno a cui afferrarsi. Un fiotto di sangue fuoriuscì dallo squarcio, irrorando di scarlatto la sua veste e schizzando la pelle della sua assassina, che era rimasta immobile dopo aver inferto il colpo e ne fissava impassibile le conseguenze. L'uomo ondeggiò ancora un paio di volte, poi crollò con un rumore sinistro sul pavimento di pietra, continuando a contorcersi debolmente. Mentre scivolava a terra la ragazza aveva afferrato la sua corona, impedendo che lo seguisse nella caduta, e la teneva sollevata all'altezza degli occhi. La Signora era arretrata ancora di un passo, allargando le braccia a proteggere le ragazze che si erano strette dietro di lei. Mentre l'Imperatrice sembrava paralizzata, il Duca di Verennia balzò in piedi e corse verso il gruppo al centro della sala. Scavalcò il corpo agonizzante, estrasse la spada e la sollevò sulla testa della Signora. Ma poi, invece di calarla e far vendetta, sempre con la lama levata si volse ai nobili, ancora inebetiti dallo spettacolo repentino. «Questa donna ha giustiziato un tiranno, che stava trascinando alla rovina l'Impero e tutti noi. Il simbolo del potere deve tornare in mani più degne» gridò con voce squillante, allungando la mano verso la corona che la ragazza continuava a tenere sollevata. Il Duca afferrò la corona, la osservò per un attimo alla luce della sala, poi con un gesto deciso se la poggiò sul capo. Quindi si volse deciso agli astanti che non avevano staccato un attimo gli occhi dalle sue mosse. «A me spetta il dominio, per l'antica legge di Menthor: come stirpe più nobile, e massimo tra i feudatari. Chi osa opporsi?» Un fremito corse attraverso le fila dei nobili. Molti si erano levati in pie-
di e si scambiavano osservazioni frenetiche sull'accaduto. Altri restavano in un silenzio sbigottito, ma qua e là si percepiva l'accendersi di atteggiamenti ostili, fatti di sguardi sospettosi e accenti adirati. Il Duca seguiva con grande attenzione l'evolversi della situazione, sempre accosto alla Signora Rossa e alle sue danzatrici. Prese per mano la fanciulla scheletro, e la offerse alla folla. «Questa è l'esecutrice della giustizia. Rendetele omaggio!» Il mormorio si fece più forte. Poi uno dei feudatari mosse un passo avanti, abbandonando il gruppetto con cui aveva confabulato fino a un momento prima. «Duca di Verennia!» gridò. «La vostra stirpe, il fatto che siate padre dell'Imperatrice: tutto indica in voi il più vicino all'Imperatore morto, e alla dignità imperiale che rivendicate. Ma proprio questa vicinanza avrebbe dovuto obbligarvi alla fedeltà verso l'uomo che avete assassinato. E adesso vorreste che noi celebrassimo in una sola volta un assassino di parenti e una sgualdrina omicida?» concluse con un gesto di scherno alla Signora Rossa e alla sua corte. «Una prostituta arbitra delle sorti dell'Impero?» La Signora non mostrò alcuna reazione a quelle parole. Si limitò a voltarsi appena verso il Duca, e a sussurrare qualche parola. Il Duca annuì con il capo. «E allora mi appello alla Legge! Che i capi dei clan votino sulla mia testa! Si tenga l'udienza, e ciascuno scelga secondo il proprio cuore. Tornate ai vostri posti, e inizierà la conta.» Rumoreggiando i nobili si mossero per tornare alle lunghe panche. Quindi uno dopo l'altro si sedettero, di nuovo al posto che il cerimoniale di corte assegnava a ognuno di loro. Il Duca aveva atteso che tutti si fossero seduti, scrutando livido i volti di ciascuno. Poi mosse verso il trono, guardando negli occhi la figlia, che non aveva perso una sola delle sue mosse. Ma quando fu soltanto a metà dei gradini della pedana, si volse ancora verso la sala. «Ciascuno esprima il suo voto, prima che io concluda la mia ascesa al trono. Quando essa sarà avvenuta, nessuno sulla terra potrà più trascinarmi in basso.» «Io sono contro di voi, Duca!» gridò l'uomo che aveva parlato per primo. «E alzino con me la mano coloro che non si piegano a questa follia sanguinaria!» Lentamente altre braccia cominciarono ad alzarsi, prima timidamente, poi con sempre maggior decisione a mano a mano che il loro numero si
andava infittendo. Il Duca e la Signora Rossa seguivano la scena impassibili. Le danzatrici continuavano a stringersi intorno alla loro padrona e avevano circondato la ragazza scheletro, quasi nascondendola alla vista con i loro corpi. «Non vedo opposizione alla mia volontà. Me ne compiaccio!» esclamò all'improvviso il Duca. Il suo interlocutore, che stava ancora contando il numero dei suoi seguaci, si volse di scatto. «Che cosa dite!» gridò furioso. «Ben ventiquattro baroni levano la mano al cielo, contro di voi!» «Non vedo nessuno. Solo spettri» scandì gelido il Duca, scuotendo la testa. Poi alzò la mano, come se anche lui volesse aggiungersi al numero dei votanti. Un torrente di grida esplose nella sala. Urla di sorpresa e di rabbia, che subito si spensero in gemiti di dolore. Da dietro gli arazzi e gli addobbi floreali, al segnale del Duca, erano apparsi non visti alle spalle dei votanti decine di uomini della Guardia, le grandi spade da esecuzione brandite a due mani. Poi all'unisono le lame scintillarono con un fruscio sinistro, troncando di netto le braccia alzate. La sala esplose in un vortice di uomini e donne impazziti dal dolore e dalla paura, che cercavano scampo ammassandosi disperati verso la porta d'ingresso. Ma anche lì erano apparsi uomini in armi, che rintuzzavano con le lance il tentativo di fuga. Gran parte dei feriti giaceva ormai rantolando a terra, alcuni già privi di sensi e i più forti che cercavano di fermare l'emorragia delle amputazioni. Le donne urlavano e si strappavano i capelli. I nobili che non avevano votato contro osservavano esterrefatti la scena, e si stringevano alle loro donne inebetiti. Il Duca dette un nuovo ordine secco e gli uomini della Guardia si lanciarono contro il mucchio dei feriti, finendo a colpi di lancia chi ancora si lamentava. Poi, con la rapidità di chi è avvezzo alla strage, afferrarono i caduti trascinandoli fuori dalla sala. Dopo pochi istanti solo un'orrenda scia di sangue restava a testimoniare quello che era appena accaduto. Il Duca aveva seguito attento l'operazione. «Suonate il mio inno!» gridò ai musici, tremanti sui loro strumenti. Poi risalì rapido verso il trono e si fermò davanti alla figlia, che era rimasta immobile per tutto il tempo. Si chinò dolcemente verso di lei, carezzandola sulla guancia pallida. «Come vedi ho rimediato al mio errore, figlia mia.» Quindi si voltò verso i cortigiani silenziosi lungo le pareti della sala. «E voi che siete con me, gioite con mia figlia della liberazione» gridò.
Uno dopo l'altro i cortigiani si allinearono, esitanti. Poi uno di loro sollevò il braccio destro e si percosse il petto ripetutamente. «La mia casa è con voi, maestà» disse con voce abbastanza ferma, volgendosi verso gli altri come se volesse studiare le loro reazioni. L'uomo accanto a lui imitò il suo gesto, e poi uno dopo l'altro tutti si unirono nel rituale di saluto. Il Duca li fissava con un'espressione indecifrabile. Poi lentamente la sua espressione si rischiarò, a mano a mano che l'ovazione si faceva generale. «Ebbene, compagni, avete fatto la vostra scelta. Ormai il vostro destino è legato alle sorti del mio casato. Riunite i vostri uomini: abbiamo poco tempo prima che la notizia si diffonda e dia modo al resto dei nostri nemici di organizzare una difesa contro il nostro volere. La Guardia sta già attaccando la rocca del più forte tra loro. Correte alle vostre case, levate i vostri uomini e attaccate le torri dei vostri vicini, distruggetele, sterminate chi vi si trova, spegnete la loro discendenza, fate schiave le loro donne. Io sin da ora vi investo qui del possesso ereditario di quello che conquisterete. Stanotte l'Impero cambierà forma, per sempre. E il volto che le nostre mani scolpiranno sarà quello dei prossimi mille anni.» «Lunga vita al Duca di Verennia, nostro Imperatore!» gridò l'uomo che per primo aveva applaudito alla strage. «E grazia eterna alla figlia sua, Evirali! Alle armi, e non lasciamo una sola testa sul suo collo!» 5 Erano in marcia da ore, salendo sempre più in alto lungo il sentiero che si inerpicava sulla barriera montagnosa che circondava la piana di Anharra. Un cratere circolare, vetrificato dalla caduta di un pezzo di cielo al tempo dei primi dei. Scagliata via dalla tremenda pressione tutta la vallata si era spostata verso l'esterno per molte leghe, sollevandosi in ondate incandescenti fino a formare un anello di rocce altissime che avevano isolato nei millenni la città dal deserto del Vuoto. Il sole era ormai calato oltre la cresta, e bestie e uomini erano spossati, bagnati fradici. «È ora di accamparci» disse Vargo, dirigendo verso un punto della roccia che si apriva come una terrazza naturale sull'abisso sottostante. «Fermiamoci al riparo di quello sperone. Là saremo protetti dall'acqua.» Da qualche ora una pioggia insolita cadeva su di loro. Gocce pesanti, simili a grandine tiepida, come se dal cielo avessero preso a scendere frammenti di una strana pietra porosa.
Amnor si fece sul bordo della terrazza rocciosa. Da quando era cominciato quel fenomeno non aveva fatto che scrutare il cielo, coperto di una spessa nuvolaglia grigia, che nel pomeriggio si era fatta più densa fino a velare quasi completamente il sole. Inspiegabilmente solo la stella Nester non sembrava indebolita: ormai era visibile anche di giorno, con una lucentezza sempre più forte. «Questa pioggia, e queste nuvole...» disse il vecchio, parlando tra sé. «Non sono un frutto del cielo. Scaturiscono dalla terra...» «Che vuoi dire?» chiese Vargo, mentre aiutava la figlia del Re a smontare e a sdraiarsi con le spalle alla roccia. La donna sembrava insensibile al movimento intorno, quasi fosse tornata al sonno della sua tomba di cristallo. Per un momento Vargo si distrasse, intento com'era ad assicurarsi delle condizioni di Athramala. Ma poi tornò subito a prestare attenzione al vecchio. Amnor fissava qualcosa lontano, oltre il bagliore che rosseggiava tra le mura della città distante. «Laggiù, sull'altro lato della catena» mormorò il vecchio puntando la mano avanti a sé. In più punti la cresta montana sembrava in fiamme: dalle rocce fontane di fuoco si alzavano zampillando verso il cielo, sollevando enormi colonne di cenere che si allargavano in alto riunendosi a formare la coltre nuvolosa che gravava su di loro. Amnor si chinò a raccogliere qualche grano di grandine. «È così. Dobbiamo accelerare il passo» disse cupo. «Sembra che il fuoco delle profondità abbia deciso di unirsi al Re pazzo per scacciarci dai suoi domini.» Anche gli altri si erano avvicinati a osservare, trascurando di liberare le bestie dai loro carichi. Shanda si strinse al fianco del giovane, in cerca di conforto. «Tieni le mani lontane da me!» gridò Khaima. Con una manata la ragazza aveva allontanato da sé il sergente, che le si era fatto vicino, cercando di abbracciarla con aria protettiva. Kon scoppiò a ridere, ritraendosi. «Se quel fuoco si avvicina avrai bisogno di qualcuno al tuo fianco, ragazzina. E chi meglio del sergente Kon?» sogghignò poi, tornando alla carica. Ma la ragazza lo respinse di nuovo, questa volta ancor più bruscamente. Nella sua mano era comparsa la corta spada, con cui punzecchiò ripetutamente il ventre massiccio dell'uomo. «Non osare, o sei morto!» Il sergente tornò a ridacchiare, stavolta meno sicuro di sé. «Scommetto che ne saresti capace. Va bene, c'è tempo per convincerti. Adesso cerchia-
mo di riposare, sono troppo stanco per strapparti quel giocattolo.» Khaima sbuffò sprezzante, poi tornò a sistemare il giaciglio per sé e la compagna, mentre anche Amnor, dopo aver lanciato un'ultima occhiata lontano, distendeva la sua coperta. «Fa' tu il primo turno di guardia, bamboccio!» concluse il sergente, nascondendo la testa sotto la coperta. In pochi attimi il respiro regolare rivelò a Vargo come tutti i suoi compagni fossero immersi in un sonno profondo. Solo Athramala era restata immobile, ancora appoggiata alla roccia, gli occhi verdissimi fissi nel buio. Il suo corpo aveva preso a vibrare come in preda a un tremito invincibile. Il giovane le si avvicinò per coprirla con il suo mantello. Ma quando le fu vicino si accorse che la donna era intenta a mormorare qualcosa: una litania ritmica, simile a una preghiera. «Che cosa stai dicendo?» chiese. Athramala si interruppe di scatto, volgendo gli occhi verso di lui. Mormorò ancora qualcosa di incomprensibile. «Non capisco...» disse Vargo, afferrandole con dolcezza il volto tra le mani. Non sapeva spiegare nemmeno lui il suo gesto, se non per il desiderio di sfiorare di nuovo quella pelle d'alabastro, sentire ancora la vita pulsare sotto le dita. O forse per interrompere quelle parole in cui risuonava l'eco di una lingua totalmente estranea, maligna. «È il canto delle Tenebre?» chiese poi, colto da un'intuizione improvvisa. «Sì» rispose la donna. A sorpresa si era espressa nella lingua di Menthor. «Io ho visto mio padre, seduto ai piedi delle Tenebre. Mentre loro versavano nei suoi orecchi il veleno delle loro parole. Ho ascoltato.» «Che cosa dicevano? Sei riuscita a sentirlo?» «Narravano delle ere antiche, dei mondi che ci hanno preceduto, di quelli che seguiranno. Insegnavano a mio padre la regola del male» disse ancora lei. «La regola... del male?» Athramala annuì. Continuava a fissare il buio con occhi sognanti. «Ho sentito quello che dicevano. Sin da bambina, nascosta tra le colonne della sala del trono, con i miei animali... ho sentito. Non sempre capivo quello che dicevano, con le loro voci armoniose. Ah, Vargo, come sono dolci e suadenti le loro voci, quando cantano le storie degli uomini e della loro infelicità! E dello splendore del regno oltre la soglia della morte, delle meraviglie che avrebbero portato quando il loro potere fosse stato ricostituito sulla terra. Mio padre ascoltava il loro canto, e intanto la sua mente si o-
scurava. Ho visto il suo amore per gli uomini raffreddarsi, farsi lontano, a mano a mano che procedeva nella conoscenza dei segreti delle Tenebre. Dentro di lui qualche cosa mutava, come se il seme maligno che avevano gettato dentro la sua anima avesse generato un rovo di pietra. Sì. Ho visto mio padre trasformarsi in pietra...» disse con un singhiozzo. Si era afferrata la testa tra le mani, e la scuoteva come se avesse voluto strappare con la forza il ricordo dalla sua memoria. «Sentiva che tutto intorno a lui si confondeva, che la sua mente stessa vacillava... E nel timore che le tremende verità che le Tenebre gli rivelavano potessero essere troppo ardue per trattenerle, prese a infliggere il tormento della memoria a quelli che lo circondavano. Riunì i sapienti della sua corte, il Collegio degli Arcani, e li costrinse a dividere con lui la conoscenza delle rivelazioni. Ma gli uomini si ribellavano a quel sapere: alcuni impazzivano, altri morivano per l'angoscia di quello che veniva loro rivelato. Allora infierì sulle sue mogli, stendendo sui loro stessi corpi come su una pergamena vivente i canti delle Tenebre. Così ho visto scendere le mie madri a una a una nella tomba, tra i gemiti dei loro corpi piagati...» Un singulto spezzò la voce della donna. Si abbandonò a un pianto dirotto, annaspando in giro come in cerca di aria. Vargo l'aveva afferrata dolcemente per le spalle, tirandola a sé. Athramala affondò la testa nel suo petto, sussultando per i singhiozzi. Il giovane sentiva un profumo arcano, come di fiori sconosciuti, che nasceva dalla curva della sua nuca, dalla pelle bianchissima che si scorgeva sotto l'onda dei capelli. Anche in quel punto il ferro del chirurgo, aveva tracciato i segni del tatuaggio. «E poi una notte venne da me» la sentì mormorare. Vargo continuava stringerla tra le braccia. Lentamente sentiva il suo corpo distendersi, i singhiozzi farsi più rari. «E mi fece questo!» Sentì Athramala irrigidirsi di nuovo. Aveva sollevato una mano davanti agli occhi, e fissava i segni tracciati sul dorso, come se li vedesse solo ora per la prima volta. Poi con una mossa inaspettata si morse la mano a sangue, quasi cercando di strappare via il tatuaggio. Il giovane le afferrò il polso, cercando di trattenerla. Per un momento temette che la follia che recava sul suo corpo le fosse entrata dentro. «Ma tu sei sopravvissuta!» gridò, mentre con dolcezza le strappava la mano dalla bocca. Poi, vinto da un impulso improvviso, chinò la testa su di lei, cercando le sue labbra. Sentì la donna che si abbandonava al bacio. Senza la durezza delle donne di Hirush, sottomesse ai loro uomini da un servaggio secolare. Né con
la ritrosia delle nobili di Menthor, abituate a calcolare gli effetti del loro amore. Athramala rispondeva al bacio con il calore morbido di chi abbia atteso un soffio di vita da tempo immemorabile, e stia tornando da un viaggio disperato. Vargo avvertiva un sapore mai sentito prima nella bocca di una donna. Gli parve che il corpo di Athramala crescesse sotto la sua stretta, come se una nuova vita entrasse in lei dalla bocca. Diventava più calda, più morbida. Sentì le mani della donna correre sul suo corpo, cercare i suoi muscoli sotto la veste. Poi Athramala lasciò scivolare la veste dalle spalle, stringendosi ancor più a lui, offrendosi con la stessa voracità con cui aveva divorato il primo pane dopo il suo risveglio. «Tu... il mio sposo...» mormorò mentre Vargo entrava in lei. Il giovane si risollevò a fatica, in preda alle vertigini. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era trascorso. Forse pochi attimi, forse ore. Intorno il silenzio più assoluto, che sembrava sommergere anche il respiro degli altri. Si guardò rapido intorno, cercando di scoprire se quello che era successo fosse stato notato. Ma ognuno giaceva sotto le coperte, apparentemente ignaro di tutto. Forse, si disse, quelle parole misteriose di Athramala erano un qualche rituale magico, capace di gettare nel sonno più profondo chiunque lo ascoltasse, forse... Ricoprì con delicatezza il corpo nudo della donna con la sua veste. Athramala non reagì. Si limitava a fissarlo attonita, come se non comprendesse nulla. Vargo era sconcertato da quell'improvviso mutamento, quasi la donna fosse ricaduta nel suo sonno di morte. «Le Tenebre...» la sentì dire inaspettatamente. «Le Tenebre? Cosa?» «Parlavano!» gridò lei, portandosi le mani agli orecchi con un'espressione disperata. Era come se quei suoni fossero tornati a sconvolgerle la mente, cancellando in lei ogni altro ricordo. «Che cosa dicevano?» «Cantavano con le loro voci mielate i destini degli uomini, e quello che sarebbe avvenuto nel loro eone. Di una donna rapita per amore, e di mille navi che salperanno per liberarla, dopo aver dato alle fiamme la città che la serrava tra le sue mura. Dell'eroe che le guidò, e che sarà ucciso dalla donna che attendeva il suo ritorno. Di suo figlio, che si macchierà le mani del sangue della madre, delle furie che lo perseguiteranno, della sua fuga...» Athramala si passò la mano sulla fronte, come per allontanare una nube
dolorosa. «Questo ho visto. Immagini, voci che mi accompagnavano nei secoli del mio sonno. E non so se tutto questo è già accaduto, o deve ancora comparire sulla terra. Se tutto questo ritornerà in eterno. Se l'uomo in fuga avrà la sua pace. Non sono sicura, Vargo!» gridò all'improvviso, abbracciandolo. «Narravano di eroi e delle loro donne... Ma c'era odio nelle loro voci, il desiderio di cancellare tutto questo. Che il mare non fosse mai solcato dalle mille navi, che tutto restasse polvere, che le spade degli uomini non fossero mai forgiate, che il loro destino restasse sogno. Questo volevano da mio padre!» Vargo annuì. «Vemerin avrebbe dovuto interrompere la generazione degli uomini... Sì, adesso capisco...» mormorò. Athramala lo strinse più forte. «Sì! Per questo gli rivelavano i loro segreti! Dissero di un'isola in mezzo al mare, regno di un grande re. Dove il suo architetto avrebbe eretto un labirinto per nascondere il frutto mostruoso dell'ira del dio del mare. E dell'eroe che sarebbe giunto da una terra lontana per spegnere nel sangue l'orrore nel labirinto, che avrebbe rapito l'amore della figlia del re, che poi avrebbe lasciato in lacrime, che avrebbe pagato la sua superbia con il sangue dei propri figli... E tutto questo non sarebbe dovuto accadere, sussurravano le Tenebre, doveva essere impedito!» La donna si interruppe per un attimo, come se cercasse di mettere a fuoco i suoi ricordi. Poi riprese. «Un Popolo lontano, i suoi cinque re. Che giocarono con i loro nemici il loro regno ai dadi, lo persero ed errarono venti anni mendichi sulle vie del mondo. Che persero anche la moglie che divideva i loro cinque letti. E della guerra che scatenarono contro i loro nemici per riconquistarla, della strage cui assistettero impassibili gli dei dai loro scranni celesti. E un altro Popolo, fratello di questo. Che dilagherà da oriente sui suoi cavalli e si arresterà in una foresta oscura, e lì costruirà i suoi templi, alleverà i suoi figli, seppellirà i suoi morti. E nascerà tra loro un eroe che ucciderà il dragone che guarda l'oro del fiume, rapirà l'oro ai suoi custodi immondi, conquisterà una donna guerriera per la brama del suo fratello, e sarà da lei odiato e ucciso... finché tutto il popolo dell'assassino sarà sterminato nel convegno di sangue, quando le porte del palazzo saranno chiuse sulla sala del convito, e le lame compariranno sulle tavole... E tutto questo non doveva accadere, doveva essere impedito!» «Tutto questo?» disse Vargo, che cercava di comprendere il senso di quel racconto. «E quando?» «Non lo rivelavano. Dicevano solo che questo avrebbero fatto gli uomi-
ni, se il Re non li avesse fermati. Questo volevano, in cambio del potere sull'oscurità che erano disposte a concedergli. E le loro voci erano piene di rabbia. Dicevano di un ragazzo, che un giorno avrebbe trovato una lucerna, nel deserto, e sarebbe diventato padrone dei demoni. Di un altro, che avrebbe solcato i cieli sul collo di un cavallo alato. Che sarebbe salito a strappare l'occhio di gemma dal volto di un dio, che avrebbe colloquiato con gli dei, che avrebbe salvato la sua città oppressa. E tutto questo sarebbe accaduto, e non doveva! Dissero di un viandante, che avrebbe risolto un triplice enigma sulla sua strada, che avrebbe ucciso suo padre senza riconoscerlo, gli avrebbe strappato il regno e senza riconoscerla avrebbe preso sua madre sul letto di nozze. Che sarebbe stato perseguitato dalla peste, che si sarebbe strappato gli occhi per non vedere più... E anche questo non doveva accadere! Un marinaio avrebbe bruciato la sua nave, trasformandone i resti in un grande cavallo. E nascosto nelle sue viscere avrebbe varcato mura insuperabili, e messo a fuoco la città nemica. E poi avrebbe affrontato tempeste e giganti con un occhio solo, sarebbe sfuggito al canto delle sirene marine, avrebbe rubato l'amore di una strega, e poi da vecchio, ripresa la via delle onde, sarebbe andato a morire in una terra lontana, ove nemmeno il respiro del mare era mai giunto. E nulla, nulla di tutto questo doveva accadere!» La voce della donna si era fatta quasi impercettibile. Vargo chinò l'orecchio verso le sue labbra, cercando di capire cosa avesse preso a mormorare. Athramala pareva terrorizzata dalla sua stessa voce. Il giovane tese ancor più l'orecchio. «Dicevano di un uomo che avrebbe lottato contro gli dei inferi per strappare la propria donna alla morte. Che sarebbe sceso lungo la via che conduce alla soglia dei morti. Che avrebbe vinto al gioco la sorte del suo amore, che l'avrebbe trascinata fuori, che l'avrebbe persa sulla via del ritorno, che sarebbe impazzito per amore e l'amore di donne impazzite lo avrebbe fatto a brani. Dicevano che anche questo sarebbe successo, se il Re non lo avesse impedito. E non doveva accadere! Aspettavano la notte, per impedirlo. Una notte lunga tre giorni...» Vargo attizzò di nuovo la fiamma del bivacco, che languiva. Dopo pochi istanti il fascio di rami e radici che aveva aggiunto cominciò a crepitare, lanciando intorno un nugolo di scintille, poi le fiamme si alzarono di nuovo dal piccolo cerchio di pietre. La figlia del Re si era seduta poco discosto. Il fuoco adesso la raggiun-
geva con la sua luce, tirandola fuori dall'ombra in cui sembrava voler trovare rifugio. I segni sul suo corpo erano tornati visibili, e il mantello che le era scivolato dalle spalle rivelava la curva piena del fianco, appena offuscato dalla trama della veste sottile. Vargo si sorprese a fissarla. Ma anche la donna sembrava cercare i suoi occhi, il verde delle iridi reso più intenso dai riflessi del fuoco. Le sue labbra vibravano, come se parlasse tra sé. Per un attimo Vargo ebbe l'impressione che lo stesse chiamando, e mosse un passo dalla sua parte, senza riflettere. A mano a mano che si avvicinava i suoni delle labbra si facevano più distinti: Athramala stava recitando qualcosa, una sorta di cantilena, in cui una serie di suoni si ripetevano a intervalli, tornando sempre uguali con piccolissime variazioni di altezza nel tono. La figlia del Re sembrava intenta a risalire una scala invisibile, trascinando con sé il suo dolore antico, fatto parole in quella specie di canto rivolto alle stelle. Vargo si avvicinò ancora, sin quasi a sfiorarla. Poi allungò la mano a sollevare il mantello da terra, per ripararla dal freddo pungente. Ma con uno scatto inatteso la donna gli afferrò la mano, interrompendo il suo gesto a metà. Aveva cessato di colpo di emettere suoni: lentamente lo attrasse verso di sé, portando le sue dita verso le labbra e baciandole. Quindi sollevò il viso verso quello del giovane, aprendo le labbra e socchiudendo gli occhi verdissimi, che parevano cercare una risposta dentro di lui. Dal suo giaciglio Shanda aveva seguito tutta la scena, nascosta sotto la coperta. Aveva gli occhi lucidi e si mordeva le labbra per soffocare i singhiozzi che le agitavano il petto. «Che stai facendo, sorella?» Khaima si era sollevata a sua volta, ed era scivolata accanto alla compagna, accarezzandole dolcemente una spalla. «Perché non dormi?» Shanda represse un nuovo singulto, scuotendo la testa. «La strega... si vuole impadronire anche di lui!» La ragazza cercava qualcosa tra le sue vesti ammonticchiate lì accanto. Quando ritrasse la mano stringeva un pugnale. «Che hai in mente?» disse di nuovo Khaima, trattenendola. «Non le permetterò di prenderselo!» L'altra le strinse più forte il polso, costringendola a deporre l'arma. «Sei pazza? Ti ho detto di non pensare a lui! E soltanto un uomo, come tutti quelli che hai conosciuto! E se la strega lo vuole, lasciaglielo pure. In fon-
do sono secoli che non prova più la stretta di uno di loro!» sibilò Khaima con un ghigno. Shanda cercò ancora con forza di divincolarsi. Ma Khaima la fermò di nuovo, questa volta colpendola con uno schiaffo violento. «Stupida! Ti ho detto di non pensare a lui!» Poi, vedendo le lacrime che avevano preso a scorrere sulla guancia della compagna, sembrò intenerirsi. Tornò ad accarezzarla, cercando di spingerla verso il giaciglio. Le si strinse accanto, continuando a carezzarla e provando a soffocare i singhiozzi cui senza più ritegno Shanda si era abbandonata. «Stupida... stupida...» continuava a mormorarle all'orecchio, cercando di placare la sua agitazione. «Lo sai che non c'è nessuno per noi... solo una per l'altra.» Lentamente i singhiozzi della ragazza si attenuarono, trasformandosi in un mormorio soffocato. Shanda si abbandonò alla stretta della compagna come un cucciolo, impaurito dalla solitudine e dal dolore che la circondava. Poi ogni rumore cessò, mentre le due ragazze scivolavano nel sonno. 6 Superata l'erta il sentiero scendeva nella valle sottostante, fino a confluire nella strada per Hirush. «Ci siamo» gridò Vargo indicando avanti a sé. «È pieno di gente» esclamò dietro di lui Amnor. «E non sembra una carovana di mercanti.» La lunga striscia grigia era occupata per tutta la lunghezza visibile da una folla che scorreva lenta in direzione di Menthor. Gruppi di uomini, donne e bambini avanzavano faticosamente, alcuni portando sulle teste o sulle schiene involti e fagotti, oppure trascinando slitte di fortuna legate con corde ai loro corpi come animali da soma. Ma la maggior parte procedeva senza alcun bagaglio, ammucchiandosi gli uni sugli altri e aprendosi una strada nella massa dei più lenti come se cercassero di sfuggire a un pericolo spaventoso alle loro spalle. Vargo e gli altri spronarono, divorando lo spazio fino alla strada. «Sembrano in fuga da qualcosa!» disse Shanda. Vargo annuì preoccupato. «Quello che temevamo. Sta già accadendo...» Nel punto esatto in cui le due strade confluivano stava passando un piccolo carro, trainato da un asino. Sopra di esso una donna con due bambini piccoli al fianco si sforzava disperata di spronare l'animale, cercando di tenere il veicolo sulla carreggiata tra le spinte incontrollate di quelli che si
affollavano intorno. Vargo la raggiunse con un ultimo balzo, arrestando il suo animale di fianco al carro. «Che cosa è successo? Da dove venite?» La donna pareva non aver sentito. Continuava inebetita a fissare la strada, gli occhi pieni di lacrime, vibrando macchinalmente sulla schiena dell'asino la corda che stringeva in pugno. Il giovane allungò una mano a scuoterla per la spalla, ma senza risultato. Mentre si volgeva intorno in cerca di qualcuno più disponibile a rispondergli, il più grande dei due bambini si alzò sul carro indicando qualcosa dietro di sé, verso il deserto. «Nostro padre è morto» disse con la sua vocetta infantile. «Venite da Hirush?» Il bambino lo guardò come se non capisse la domanda. «Non ha più la testa. L'ho visto» disse ancora, con una strana freddezza. «Tutti sono senza testa. Solo nostra madre ce l'ha ancora» aggiunse, fissando la donna come se fosse stupito che fosse ancora viva. «La nostra casa è bruciata, ma abbiamo il nostro asino» seguitò con una sorta di macabra soddisfazione. In quel momento un gruppo di uomini laceri si erano affiancati. Vargo si volse verso di loro, ripetendo la sua domanda. Uno di essi gli rispose. «Non sappiamo niente di Hirush, straniero. Noi siamo di un villaggio sul Confine. È entrato il diavolo nelle nostre case. Mostri, mostri usciti dall'inferno! Hanno distrutto ogni cosa con il loro fiato di fuoco! Quelli che vedi sono gli unici superstiti, si sono salvati solo quelli che erano per caso lontani nei campi!» Aveva il volto scavato dalla fatica, gli occhi lucidi per la febbre. Mentre parlava Vargo aveva notato lo sguardo ostile con cui l'uomo osservava le loro cavalcature, e le sacche legate alle selle. Con la coda dell'occhio vide che altri disperati si stavano avvicinando, stringendosi intorno a loro. Con un cenno silenzioso allertò Amnor, poi con uno strappo delle redini impennò il cavallo. Il possente petto dell'animale si levò sulle teste dei profughi, i quali arretrarono impauriti, dando il tempo a Vargo e ai suoi di scartare giù dalla strada. Il giovane staccò rapido un otre ancora semipieno dalla sella, e lo lanciò verso di loro. Poi, approfittando della lotta violenta che si era subito accesa tra gli uomini per mettere le mani sul prezioso liquido, i sei cavalieri si lanciarono nella cunetta che costeggiava la strada, risalendo al galoppo la colonna di profughi. «Non possiamo far nulla per loro, qui!» gridò Vargo agli altri. «Cerchiamo di raggiungere Menthor, secondo i nostri piani.» «Se le nostre bestie reggono lo sforzo, potremmo essere in vista della
città domani al tramonto» disse Amnor. «Dobbiamo farcela, a costo di sfiancarli!» A poco a poco si lasciarono alle spalle i fuggiaschi. Adesso si trovavano di nuovo immersi in un panorama desertico. Il cielo, coperto della nuvolaglia pesante che in pieno giorno attutiva la vampa del sole, cominciava a rivelare attraverso la foschia la luce intensa della stella Nester. In quel momento videro apparire all'orizzonte una serie di punti neri che ingrandivano lentamente. Dopo poco furono in grado di riconoscere un piccolo gruppo di cavalleggeri della Guardia che procedevano verso di loro. Quando li ebbero raggiunti il sottufficiale alla guida del drappello ordinò l'alt con un gesto imperioso, ponendo il suo cavallo di traverso sulla strada. «Da dove venite? Chi siete?» chiese l'uomo. «Pellegrini diretti al santuario» rispose prontamente Amnor, troncando in bocca la parola a Kon, che stava per dire qualcosa. «Ci sono degli sbandati, più indietro. Sembra che sia successo qualcosa, sul Confine» aggiunse, vago. L'uomo si tolse l'elmo, asciugandosi la fronte con il palmo della mano. «Quei maledetti ribelli. Sembra che abbiano razziato diversi villaggi, vicino al Vuoto.» «Anche Hirush?» L'uomo esitò un attimo. «Non lo sappiamo. Non abbiamo più notizie dalla città. Ho l'ordine di raggiungerla per ristabilire i collegamenti.» «E l'armata che è entrata nel Vuoto...» disse cupo Kon. «Ne sapete nulla?» «Dopo i primi giorni non sono giunte più le staffette. Speriamo che siano ferme a Hirush, per qualche motivo.» Kon si limitò ad annuire, mentre scambiava un rapido sguardo con gli altri. «La Guardia è stata posta in allarme?» si intromise Vargo. «Che sapete della Guardia?» «Anch'io sono stato arruolato, anni fa» rispose il giovane, vago. L'altro lo fissò sospettoso. Poi, come vinto da un improvviso desiderio di confidarsi, si avvicinò in modo che i suoi uomini non sentissero. «Se siete diretti al santuario di Khoran, andate lì senza passare per la città. Visto che sei stato dei nostri voglio avvertirti. C'è qualcosa nell'aria. Interi reparti della Guardia sono stati confinati nelle loro torri. Altri sono stati disarmati. Si dice che tutta l'armata sarà riorganizzata, quando tornerà la spedizione
dal Vuoto...» Vargo annuì. «Voglio ricambiarti il favore, amico. Sta' bene attento prima di entrare a Hirush. Non tornerà nessuno dal Vuoto. Da lì sta arrivando qualcosa che richiederà tutte le vostre forze.» L'altro lo aveva ascoltato stupito. Poi alzò le spalle. «Non ho paura dei ribelli. Ho avuto un ordine, e lo eseguirò. È così che fa la Guardia» replicò, dando ordine di riprendere il galoppo. «Stupidi uomini» sibilò Khaima dietro il drappello che spariva in lontananza. La strada si inerpicava ancora, scavalcando qualche piccolo dosso coperto di cespugli di rovi, intervallati a piccoli gruppi di conifere. Nelle ultime ore del viaggio qualcosa era progressivamente cambiato nell'atmosfera che li circondava. L'aspra aria asciutta del deserto era scomparsa, a mano a mano che si allontanavano dalle terre del Confine risalendo la via imperiale. Un sentore di umidità marina si andava facendo sempre più forte. La notte prima avevano bivaccato accanto alle mura di un serraglio, e al risveglio Vargo aveva sentito le vesti impregnate di salsedine, che i tenui raggi di un sole velato non riuscivano a cancellare. Menthor era vicina. E la strada diventava sempre più affollata. Più volte avevano incrociato altri drappelli di cavalleggeri della Guardia, e ormai le carovane dei mercanti erano diventate un flusso ininterrotto intorno a loro. «Non dev'essere tornato nessuno dal Vuoto, siamo i primi. Non sanno nulla» disse a un certo punto Amnor, accennando alla lunga fila di muli carichi di rotoli di stoffe. «Tutto è immerso nelle attività di sempre.» «Aspetta che portiamo la notizia di quello che è successo!» fece il sergente, incrociando con uno sguardo sprezzante i mulattieri che avanzavano tranquilli masticando foglie di munga. «Dobbiamo essere prudenti. Noi per primi» replicò Amnor, enigmatico. «Perché? Devono sapere tutti quello che si sta preparando. Dobbiamo organizzare una difesa. E la vendetta.» «Aspettiamo di essere dentro la città. Poi decideremo.» Il sergente voleva obiettare qualcosa, ma la sua voce fu soffocata da un tuono violento. Poi le nubi si aprirono, e la pioggia prese a cadere sempre più intensa. Vargo e le due Sgualdrine alzarono la testa al cielo, spalancando le labbra in cerca di refrigerio. Ma subito il giovane sputò le poche gocce che aveva ingoiato, imitato dalla ragazze che si affrettarono a coprirsi la testa con i cappucci. La pioggia era calda e fangosa, con un forte
sapore metallico. Sembrava che cadesse acqua mescolata a calce, come se le volte celesti avessero preso a franare sulla terra. «Cerchiamoci un riparo!» gridò Shanda. Affondava la testa nel cappuccio, tentando di salvare i capelli dalla fanghiglia. «Non voglio presentarmi alla Regina ridotta come una strega. Ne abbiamo già una con noi!» «No, dobbiamo continuare!» disse deciso Vargo, indicando qualcosa davanti a loro. Una lontana barriera si intravedeva nella tempesta, mentre tutto intorno le carovane dei mercanti si stavano sbandando, scivolando via dalla strada in cerca di spazi dove accamparsi. «Ecco le mura di Menthor! La guardia alla porta avrà poca voglia di esaminare con cura coloro che chiedono di entrare. Sarà più facile passare!» «È giusto» lo sostenne Amnor. «E poi dobbiamo affrettarci, ogni minuto di ritardo può essere fatale.» Vargo si volse verso la figlia di Vemerin, che cavalcava accanto a lui. La donna era ancora a capo scoperto, apparentemente insensibile al fastidio, con rivoli che le scorrevano sulle spalle dalle chiome intrise d'acqua. Il suo volto attonito si stava lentamente trasformando in quello di una statua di terracotta. Il giovane si allungò verso di lei, sollevandole con delicatezza il cappuccio sulla testa per proteggerla. Nel gesto la sua mano le sfiorò il volto, e per la prima volta gli parve di cogliere una qualche reazione. Gli occhi di Athramala, fissi verso l'orizzonte lontano, deviarono per un istante incrociando i suoi. E per un istante gli parve che riconoscessero qualcosa. Ma subito la donna tornò alla sua condizione abituale. Vargo si chiese cosa avesse visto, mentre controllava che le cinghie che la assicuravano alla sella fossero ben salde. Poi afferrò le briglie della cavalcatura, gridando agli altri di seguirlo. Raggiunsero la porta mentre la pioggia infuriava sempre più forte. Come aveva immaginato, la Guardia aveva trovato rifugio sotto l'arco e nelle baracche della corte interna. Alla loro vista due doganieri infastiditi si fecero avanti, bloccandoli. «Chi siete? Da dove venite? Che cosa trasportate nella città?» elencò meccanicamente uno dei due. Intanto l'altro osservava i loro cavalli. Palpò ripetutamente le piccole sacche da viaggio, come insospettito dal poco bagaglio che gli sconosciuti avevano con sé. «Mercanti da Hirush» rispose Amnor, scoprendo una parte minima del volto. «In viaggio con le nostre mogli.» «Mercanti? E dove sono le vostre merci?»
«Non veniamo per vendere, ma per comprare.» Il vecchio allungò la mano verso Khaima che gli si era affiancata, e le scoprì il volto con una risata. «Quando un uomo maturo come me commette l'imprudenza di sposare una donna giovane e bella come questa, ha bisogno ogni tanto di qualche gioiello per rafforzare la sua devozione. Non credi amico?» L'altro annuì, scoppiando anche lui in una risata. «Ti sei imbarcato in un'impresa rischiosa, vecchio. Guarda che occhi furbi ha la tua donna: avresti bisogno di tutti gli orafi imperiali per tenertela stretta!» Khaima assunse un atteggiamento falsamente pudico, ricoprendosi rapida il volto. «E anche voi dovete comprarvi la fedeltà delle vostre mogli?» seguitò l'uomo, passando a scrutare Vargo e Athramala. Gettò un'occhiata distratta a Vargo, poi sollevò gli occhi verso la figlia di Vemerin, e di colpo la sua espressione sarcastica si gelò. «Che diavolo ha sulla faccia questa?» esclamò, puntando il dito verso la sottile trama di tatuaggi che le ricopriva il volto. «Ha il vaiolo? È un'appestata?» gridò allarmato. A quel grido il suo compagno era sobbalzato. Dal corpo di guardia un uomo si sporse fuori, per vedere meglio. Indossava la divisa degli ufficiali e fece qualche passo avanti, fermandosi a una certa distanza, al riparo dell'arco della porta. La mano di Vargo sotto il mantello corse alla spada. Ma Amnor pronto replicò: «Non ha nulla! La moglie di mio nipote non riesce ad avere bambini. Gli avevo detto di non sposare questa troia sterile! I preti di Hirush le hanno scritto sulla pelle l'invocazione alla dea madre di Khoran, e adesso la portiamo al santuario perché qualcosa si smuova nel suo ventre. Anche se» si chinò verso l'uomo, ammiccando «a volte penso che sia piuttosto mio nipote a non fare il suo dovere!» Il doganiere spostò lo sguardo un paio di volte dalla donna a Vargo, poi scoppiò di nuovo nella sua risata volgare. «Eppure, vecchio, si direbbe che il giovanotto sia abbastanza in forze. Ma forse ha bisogno lui di salire dalla dea madre, per un po' d'aiuto.» Vargo ridacchiò a denti stretti, cercando di assumere l'aria di un provinciale imbarazzato. «E tu?» fece ancora la guardia, rivolto a Kon che chiudeva il gruppo accanto a Shanda. «Io sono qui soltanto per riempire le mie tasche ai tavoli da gioco del quartiere di Menora. E per ripassarmi qualcuna delle Sgualdrine che vivono qui. E mia moglie è giovane, ma è soddisfatta» concluse, accarezzando
con sprezzo la schiena di Shanda. «Pare che mi preferisca al bastone, dopotutto.» L'uomo ridacchiò di nuovo. «Va bene, potete passare» disse. «Menthor è già piena di miserabili: tre in più non faranno molto danno. E da quando ha preso a cadere questa dannata pioggia, le strade puzzano tanto che non potrete certo peggiorare la situazione. Versate tre pezzi d'argento per il permesso.» Amnor cercò nella borsa e ne estrasse il denaro richiesto, tendendolo alla guardia. «Possiamo entrare?» «Un momento» disse una voce aspra alle loro spalle. Vargo si volse di scatto. L'ufficiale si era avvicinato, e dopo aver dato un'occhiata distratta agli altri sembrava interessato alle fattezze di Kon. «Tu. Credo di conoscerti. Ti ho visto da qualche parte... Non sei un soldato della Guardia?» Kon esitò un istante di troppo, prima di reagire, aumentando i sospetti dell'altro. «Certo, adesso mi ricordo. Sei un sergente istruttore. Che fai con questi mercanti? E dov'è la tua divisa?» Vargo spronò il suo cavallo, interponendosi tra i due. Intanto valutava rapidamente se fosse il caso di continuare nella recita. Ma lesse nello sguardo del sergente che anche lui aveva riconosciuto l'ufficiale, e che era inutile continuare a negare. Scambiò allora un veloce segnale con Amnor e le Sgualdrine, perché fossero pronti a tutto. Poi si rivolse all'ufficiale. «È vero, quest'uomo è il sergente Kon, della Guardia. Anch'io sono un ex ufficiale delle truppe imperiali. Dobbiamo riferire urgentemente all'Imperatore di cose riservate. Lasciateci passare.» Intanto, richiamati dall'animazione, dal corpo di guardia cominciavano a uscire altri soldati, nonostante la pioggia battente. Kon dette uno strappo alle redini, facendo impennare il suo cavallo. Gli uomini che si affollavano intorno, allungando il collo curiosi, si arrestarono. «Sono il sergente Kon. Di ritorno dalla spedizione nel Vuoto. Mi metto a rapporto per riferire. Ho notizie importantissime per l'Imperatore» dichiarò Kon, scattato nella posizione di attenti alla vista dei suoi superiori. L'ufficiale più alto in grado scambiò una rapida occhiata con il suo collega, poi alzò una mano facendo cenno al sergente di arrestarsi. «Di quale Imperatore parli? Non c'è più l'Imperatore.» Vargo seguiva le loro mosse, preoccupato. Non c'era nell'atteggiamento di quegli uomini l'entusiasmo che ci si sarebbe potuti attendere di fronte a uno dei loro che tornava da un'impresa pericolosa. Il sergente mosse qual-
che passo verso la porta, e stava per varcarla quando l'ufficiale afferrò deciso il morso del suo cavallo. Il passo gli fu sbarrato da due soldati, che sembravano apparsi dal nulla. «Perché non è stata inviata una staffetta? Dove sono i tuoi uomini?» Senza esitare Kon riprese ad alta voce. «Le truppe al comando dell'Arconte sono state annientate. Credo di essere l'unico superstite. È importante che...» «Che diavolo stai dicendo, sergente? Le ultime notizie ricevute dicevano che l'avanzata nel deserto proseguiva senza trovare nessuna resistenza! Sei impazzito? O stai mentendo? Dove sono i tuoi uomini, ho detto. Riferisci subito, è un ordine!» Kon ebbe un attimo di esitazione di fronte alla reazione dell'ufficiale. Solo adesso si rendeva conto di non aver minimamente valutato le possibili reazioni alle incredibili notizie che recava. La sua voce si fece meno decisa. «Vi dico che devo passare...» «Arrestate quest'uomo!» gridò l'ufficiale sguainando la spada. «E prendete anche i suoi amici. Sono dei traditori, o delle spie dei ribelli.» La massa delle guardie si mosse verso il cavallo del sergente circondandolo. Vargo spronò la sua cavalcatura. Il petto dell'animale colpì l'uomo, rovesciandolo a terra. Intanto le due Sgualdrine avevano estratto le loro armi e preso a menare fendenti per aprirsi un varco. Proprio in quel momento un'esplosione violenta squarciò il cielo sopra le loro teste, e una folgore si abbatté sulla cima di una torre vicina. Il lampo abbagliante rese per un istante tutti ciechi. Nel disorientamento generale che ne era seguito Vargo fu il primo a reagire, riprendendo il controllo del suo cavallo che si era impennato per il terrore e cercando poi con tutte le forze di trattenere anche quello di Athramala. Approfittando dello sbandamento delle guardie, Shanda aveva scartato di lato, verso la porta. «Fuggiamo!» gridò, piegando con uno strappo deciso la testa del suo cavallo. «No! Dobbiamo entrare, se vogliamo una speranza di salvezza!» rispose Amnor deciso. Spronò a sua volta, infilandosi tra le guardie che erano tornate ad affollarsi intorno al sergente. Vargo si gettò dietro il vecchio, spostando con la massa del suo cavallo chi tentava di fermarlo, sempre tenendo strette le briglie della cavalcatura di Athramala. Si lanciarono in avanti, colpendo con le lame di piatto chiunque tentasse di sbarrare loro la strada. Mentre oltrepassavano la corte interna, Vargo si volse, per assicurarsi che tutti ce l'avessero fatta. Amnor e le tre donne
erano davanti a lui, ma il sergente, totalmente circondato dalle guardie, cercava disperatamente di liberarsi dai lacci che quelli gli avevano gettato addosso, mentre lo minacciavano con le lance. Vargo richiamò il vecchio, indicandogli quello che stava accadendo. Ma Amnor, ormai già lontano, esclamò, concitato: «Vieni via, è troppo tardi per tentare qualcosa!». «Avanti, cerchiamo rifugio nella casa del Cerchio!» gridò Khaima. «A lui penseremo più tardi. Dobbiamo mettere in salvo la figlia, visto che è tanto importante!» Vargo lanciò un'altra occhiata al sergente, appena in tempo per vedere che la Guardia lo aveva completamente immobilizzato e decine di mani lo stavano trascinando giù di sella. «Va bene, fate strada voi due!» Le Sgualdrine erano tornate a spronare le cavalcature, scattando in avanti lungo la strada che si dipartiva dalla porta. Vargo afferrò le redini del cavallo di Athramala e spronò a sua volta, trascinandosi dietro la donna. Anche Amnor li imitò, incitando a gran voce la sua bestia. Il gruppo si lanciò al galoppo attraverso le vie della parte bassa, incurante dei passanti e rovesciando parecchi banchi di mercanzia che si affollavano lungo i muri delle case, tra le imprecazioni di quanti riuscivano appena a evitare di essere travolti. Khaima, sempre in testa, richiamò l'attenzione dei compagni verso un porticato davanti a loro. «Ecco, di lì arriveremo prima.» Il gruppo si infilò di volata nello stretto passaggio coperto, su cui si apriva una miriade di piccole finestre, uno dei tanti alveari in cui viveva il popolo basso di Menthor. Erano grandi case a più piani, costruite ammassando uno sull'altro mattoni di fango secco. La pioggia continua scorreva sulle loro pareti, rendendole viscide come se fossero coperte di bava giallastra. Rivoli di fango disciolto piovevano dalle aperture, segno che l'acqua aveva cominciato a penetrare dai tetti e ne stava ormai minando anche l'interno. Vargo intanto, mentre dominava con energia il morso del proprio cavallo, non perdeva d'occhio la figlia di Vemerin, ad appena un'incollatura dietro di lui. La donna resisteva ai sobbalzi violenti della corsa tenendosi aggrappata con entrambe le braccia al collo della sua cavalcatura, i lunghi capelli oscillanti al vento della corsa come la vela di una nave nella tempesta. Il giovane era preoccupato: Athramala sembrava di nuovo in preda al
suo misterioso torpore e minacciava di crollare a terra da un momento all'altro. In quel momento il suo cavallo diede uno scarto violento, scivolando sul selciato con un nitrito di dolore. La bestia riuscì a mantenersi sulle quattro zampe, ma aveva preso a zoppicare vistosamente per il garretto spezzato. Senza attendere oltre il giovane trattenne appena lo slancio del proprio cavallo, in modo da consentire a quello della donna di affiancarsi, poi si protese verso di lei afferrandola con un braccio alla vita e traendola verso di sé. Mentre la deponeva sulla sella, la sua mano sentì distintamente attraverso la stoffa sottile della veste una strana sensazione di calore. Il corpo di Athramala bruciava per la febbre, ma non pareva sofferente. Appena al sicuro accanto a lui, la donna si era rilassata, lasciandosi andare e abbandonando la testa sulla sua spalla. Poi cominciò inaspettatamente a parlare, con una voce alta e chiara che sovrastava lo scalpitio degli zoccoli sull'acciottolato. Le parole gridate contro il suo petto sembravano entrargli dentro come una lama. «Non lasciarmi! Tu, il mio sposo!» disse Athramala, abbandonata tra le sue braccia. Una tempesta di emozioni lo invase. Ma poi con uno sforzo si riprese, sferzando il cavallo a più non posso. Se davvero il destino gli aveva assegnato quella donna come compagna, avrebbe lottato per lei fino alla morte. Sbucarono nella piazza in cui sorgeva la torre del Cerchio delle Sgualdrine. Il portale di quercia era sbarrato, e sull'arco d'ingresso sventolava l'insegna dell'Ordine. Khaima trattenne il cavallo stremato e balzò a terra correndo verso il portale, mentre il suo cavallo compiva ancora qualche passo esitante e poi rovinava a terra schiumando bava sanguigna dalla bocca. La giovane estrasse la spada e prese a picchiare furiosamente con l'impugnatura dell'arma contro le tavole. Intanto gridava il suo nome a squarciagola. Dapprima non ci fu alcuna reazione a quello strepito. Vargo sentiva il passo del suo cavallo farsi più incerto sotto il doppio peso. Si lasciò scivolare di sella sempre stringendo Athramala tra le braccia, mentre il cavallo compiva anche lui qualche passo di lato, per poi accasciarsi sul selciato, esausto. Intanto si sentiva qualche rumore dall'altra parte della barriera. Voci femminili, e lo stridio di qualcosa che veniva trascinato dietro la porta. Una fessura si aprì tra le ante, e il fiotto di luce di molte torce colpì il volto della ragazza che continuava picchiare con forza.
L'anta si spalancò di colpo e un gruppo di giovani donne, coperte dalle leggere corazze di cuoio dell'ordine, uscirono precipitosamente, impugnando i loro corti archi con le frecce incoccate. Si disposero a difesa della porta, puntando le armi contro gli intrusi. Una di loro, che sembrava guidare il piccolo gruppo, al posto dell'arco impugnava una torcia. La sollevò sulla testa, poi riconobbe Khaima con un grido di gioia e si precipitò ad abbracciarla con la mano libera. Intanto cercava con gli occhi tra gli altri, e di nuovo la gioia le illuminò il volto alla vista di Shanda che si era avvicinata. «Sorelle! Vi credevamo perdute! La Signora vi attende con ansia!» Anche le altre giovani si andavano affollando intorno alle due Sgualdrine, dopo aver rilasciato la tensione degli archi. «Dov'è la Signora? Conduceteci da lei. Abbiamo con noi qualcuno che deve conoscere» disse ancora Khaima, indicando Athramala tra le braccia di Vargo. «La Signora si è recata a Palazzo con sette delle sorelle. La aspetterete nelle sue stanze. Ma nessun uomo può accedere alla torre, lo sai» rispose l'altra. «Conosco il bando. Ma i tempi sono straordinari. Mi assumo io la responsabilità del loro ingresso.» «Ma sorella! Nessun uomo ha mai varcato questa soglia! Nemmeno l'Imperatore...» Senza rispondere Khaima si fece avanti decisa, ordinando con un cenno a Vargo e al vecchio di seguirla oltre il portone. Il gruppo passò tra le giovani armate, intente a consultarsi sconcertate. Più d'una era tornata a sfilare dalla spalla il proprio arco, incoccando di nuovo le frecce. Ma uno sguardo deciso di Khaima le fermò, mentre saliva con i suoi compagni verso la torre. Lontano, dalla parte dei quartieri alti, giungeva un bagliore diffuso, come se migliaia di torce avessero preso a bruciare nella notte. La pioggia sembrava aver smesso di martellare la città, sostituita da un vento inatteso. Dapprima si era annunciato con un sibilo lontano, ma ben presto il suo soffio crescente aveva preso a spazzare il cielo con violenza. Enormi nuvole scure provenienti da settentrione venivano trascinate in alto, a velocità incredibile. Vargo si sporse dalla bifora, cercando di vedere meglio. Aveva l'impressione che la tempesta, anziché scemare, stesse accumulando nuova forza, come se dal vicino Mare Interno i venti avessero preso a strappare
masse d'acqua per trascinarle nei cieli. Anche Amnor si era fatto accanto a lui. «La città è in preda alle fiamme» disse il vecchio, dopo un attimo. «Vemerin! La sua Legione è già arrivata alle porte!» esclamò terrorizzata Shanda, volgendo lo sguardo rabbioso verso Athramala. «Le notizie dei profughi lo davano ancora sul Confine. Come è possibile che la sua armata si sia mossa più velocemente di noi?» fece Vargo perplesso. «Non è possibile, infatti» replicò calmo Amnor. «Quelle luci vengono da incendi dentro la cerchia delle mura.» «Ma non ha fatto altro che piovere, negli ultimi giorni! Come è possibile che si sia scatenato il fuoco da solo?» «Non è un incendio fortuito. I roghi sono distinti, in parti diverse della città. Sono stati appiccati di proposito» disse ancora il vecchio. Come a confermare le sue parole, in quel momento un nuovo bagliore, prima appena percepibile nella foschia e poi rapidamente cresciuto d'intensità, era apparso a poche centinaia di passi di distanza. «È la torre del clan di Khitan» gridò Shanda. «Sta bruciando!» Da lontano si levava una colonna di fumo nero, che il vento portava verso la finestra mescolata a grida e strepiti appena udibili. Vargo tese gli orecchi. «Sono i rumori di uno scontro. C'è una battaglia in corso, laggiù. E forse anche gli altri fuochi sono roghi accesi dagli attaccanti. Che sta succedendo?» Khaima si mosse rapida verso la sorella che li aveva accolti sulla porta e che continuava a sorvegliarli in silenzio. «Parla! Dov'è la Signora? Siamo anche noi in pericolo? Bisogna prepararci alla difesa, se anche il Cerchio sta per essere attaccato! È l'Imperatore che ha dato ordine di eliminare i suoi oppositori?» «Nessuno minaccia il Cerchio! La Signora non ci ha detto nulla, solo che questa notte sarebbe stata trionfale per i destini del nostro ordine!» rispose quella, torcendosi i polsi per l'inquietudine. «Attenti!» gridò Shanda, con lo sguardo fisso sullo spazio della piazza immersa nell'oscurità. «C'è qualcuno che si sta avvicinando!» Nella via di accesso alla piazza era apparsa la luce di lampade, e saliva il rotolio di ruote sul selciato. Delle ombre avanzavano verso la torre. «Sono i carri della Signora!» gridò la ragazza. L'ombra confusa continuava ad avanzare, assumendo la forma del carro scarlatto, seguito da un altro veicolo. Dal basso venne il rumore stridulo del chiavistello nuova-
mente rimosso, e quello dei due carri che varcavano il portale, proseguendo la loro corsa nel cortile interno del fabbricato. Dopo pochi attimi la Signora Rossa fece il suo ingresso nella sala, contornata dallo stuolo delle sue figlie in armi. Lungo le scale qualcuna doveva averla informata dell'accaduto, perché appena varcata la porta si mosse rapida verso il centro della sala, indifferente alla presenza degli uomini, per arrestarsi di fronte ad Athramala. «Mi hanno detto che c'era tra voi una donna dal corpo segnato da parole misteriose. Una strega, mi è stato riferito. Se è così perché voi, figlie mie, l'avete condotta qui?» Shanda e Khaima si mossero insieme, gettandosi ai piedi della donna e abbracciandola alle ginocchia. La Signora stese sul loro capo una mano benevola, ma subito le afferrò rudemente, costringendole a rialzarsi. «Parlate! Mi racconterete dopo della vostra avventura nel Vuoto, e di quello che avete trovato. Ma se avete condotto qui una strega e due uomini, contravvenendo a ogni regola del Cerchio, dovete essere impazzite. O spinte da una ragione irresistibile. Rendetemi le vostre ragioni, o la mia punizione sarà terribile.» «Quella donna forse è davvero una strega, madre» disse Vargo, facendosi avanti e anticipando le due Sgualdrine. «Ma la scrittura che porta sul corpo è l'ultima speranza di salvezza per noi tutti. Quei segni costituiscono la sola memoria del trentesimo canto di Anharra. Il Canto che chiude la Porta.» «Anharra...» mormorò la Signora, come se quel nome avesse risvegliato un pensiero doloroso. Fissò lo sguardo per un attimo nel vuoto, poi tornò a concentrarsi su Vargo, come se lo vedesse ora per la prima volta. I suoi occhi percorsero il volto del giovane e si fermarono sulla cicatrice che aveva in fronte. «Dunque sei tu... e anche tu, Amnor di Mennon, signore delle Afflizioni» aggiunse volgendosi di scatto verso il vecchio. «E siete tornati dalla città del Re pazzo... Ho dunque agito per il meglio mettendo alle vostre calcagna le mie figlie migliori... Ma non vedo i tesori che avreste dovuto portare con voi, se siete stati davvero fin laggiù... Vedo solo una donna che nasconde il suo volto.» «Questa donna è la figlia del Re. La sua erede. La custode dei suoi orrori.» La Signora Rossa piegò di nuovo la testa verso Athramala. La figlia di Vemerin stava eretta in mezzo alla stanza, a capo chino, la testa e il volto
nascosti in una piega del velo. Di colpo, strappò via il cappuccio e alzò gli occhi, sgranandoli sulla Signora. Il verde del suo sguardo lampeggiò con tutta la sua forza. Per un tempo lunghissimo le due donne rimasero immobili a fissarsi, poi finalmente la Signora Rossa annuì lentamente. Sembrava intimidita, come se avesse letto negli occhi dell'altra un messaggio silenzioso, che solo lei era in grado di comprendere. Poi la donna dall'abito scarlatto fece un passo indietro, cadendo in ginocchio. Quindi allargò le braccia, chinando il capo. «Se tu sei la figlia del Re, che tu sia dunque regina di noi tutte.» Trascinate dall'esempio della loro Signora, anche le altre giovani del Cerchio scivolarono a terra una dopo l'altra, prosternandosi ai piedi di Athramala. Sconcertati, i due uomini erano restati immobili. Una delle Sgualdrine, alle spalle di Amnor, estrasse un pugnale puntandoglielo alla schiena. «Rendete omaggio alla maestà che ritorna!» gridò, costringendolo a piegare le ginocchia. Anche Vargo stava accennando a inchinarsi davanti alla donna, ma Athramala tese la mano, fermandolo. Aveva l'aspetto di una sonnambula. «Mi renderai omaggio in altro modo» sussurrò con la sua voce che veniva da lontano. «Ci siamo liberate di un tiranno, figlie mie» disse la Signora Rossa, fissando la finestra. Fuori nella notte i fuochi sembravano aumentare d'intensità. Interi quartieri erano ormai in preda all'incendio, e il forte vento che spazzava la città alimentava le fiamme con forza. «Domani, quando tutto questo sarà finito, coglieremo i frutti della vittoria.» Poi la donna si volse verso Athramala, che era rimasta in silenzio. «E tu, regina, ci guiderai verso i tesori di Anharra. Saremo noi le eredi della potenza e della ricchezza del padre tuo. Lasceremo queste inutili case al Duca di Verennia, perché ci giochi a fare l'Imperatore, e là riedificheremo un nuovo regno. Abbiamo atteso e lottato per secoli, affinché questo avvenisse. Sono stanca, figlie mie» disse ancora la donna, passandosi la mano sulla fronte. «È venuto il tempo che qualcuno prenda su di sé il peso della vostra guida. Se davvero costei è l'erede di Vemerin, ecco chi prenderà il mio posto.» Vargo si fece avanti con slancio, interrompendola. «Quello che dici è solo un sogno! È Anharra che sta venendo qui! E non per accogliere benevolmente i figli e le figlie degli uomini! Ma per distruggerci tutti! Guarda
laggiù, oltre le mura!» La Signora si volse verso il punto indicato, oltre il profilo merlato delle mura della città che tagliava l'orizzonte con la sua linea scura. Una miriade di fiammelle tremolanti erano apparse di colpo. La donna corrugò la fronte, nello sforzo di penetrare con gli occhi l'oscurità. «Che cos'è?» chiese poi con un filo di voce. «Quello di cui eravamo venuti ad avvertirvi! Nella speranza che fosse possibile ancora organizzare una resistenza! Se tutte le forze di Menthor si fossero coalizzate contro l'armata del Re, forse avremmo avuto il tempo di ricacciare le Tenebre che lo accompagnano nell'abisso da cui sono scaturite. Ma l'ambizione del Duca di Verennia ci ha perduti tutti! E voi avete assecondato i suoi disegni, preparando senza volerlo la nostra fine.» La Signora lo aveva ascoltato a denti stretti. Impallidì, poi tornò a guardare verso le tenebre lontane. «Che possiamo fare, allora?» mormorò torcendosi le mani. Di colpo sembrava aver percepito la realtà della situazione. Ma a un tratto il suo volto si illuminò di nuova speranza. «La figlia del Re!» esclamò, avvicinandosi ad Athramala. «Lei ci salverà!» La donna continuava a tacere. Durante lo scambio di battute non aveva fatto altro che fissare oltre la finestra, come se fosse in ascolto di un messaggio silenzioso che giungesse dal pulviscolo luminoso. Poi lentamente si volse verso la Signora, socchiudendo gli occhi. «Non vedo mio padre da secoli. E il suo volto è nella mia memoria solo un'ombra confusa, che forse ho sognato. Anch'io lo attendo, per sapere. Mi ha spinto nell'oblio, trenta secoli fa. Forse per amore, per risparmiarmi all'orrore. O forse per spazzare via dalla sua strada ogni traccia del suo sangue, che lo tratteneva tra gli esseri umani. Non so se lo riconoscerò. Non so più chi sia. Quando sarò davanti a lui...» Un brontolio sordo interruppe le sue parole. Sembrava un tuono lontano, che annunciasse la ripresa della tempesta. Ma subito si trasformò in un rombo spaventoso. Tutto l'edificio fu squassato da un tremito sempre più forte. Le pareti oscillarono con violenza, mentre il pavimento sobbalzava come un destriero impazzito. Dal tetto piovevano frammenti di muratura e uno dei lampadari precipitò a terra, sfiorando la Signora prima di infrangersi spandendo intorno le sue candele come un globo di fuoco. Vargo vide una delle travi in alto che si stava sfilando dalla muraglia e cominciava a scendere verso di loro. Con un balzo si gettò su Athramala, sottraendola allo schianto e trascinandola verso l'arco della porta, che sembrava resistere alle scosse.
Rimase lì per un tempo che gli parve interminabile, mentre il terremoto lentamente decresceva di intensità, fino a spegnersi nel brontolio cupo che l'aveva annunciato. Rapidamente si guardò intorno: la torre era attraversata da una serie di crepe profonde, e in alto solo poche travi erano ancora al loro posto. Una massa informe di tavole e mattoni gravava sulle loro teste, pronta a rovinare al prossimo movimento del terreno. «Riunite le vostre figlie, e preparatevi a fuggire» disse il giovane, aiutando Athramala a riprendersi. «Cercate di sottrarvi all'assedio: forse l'armata di Vemerin non ha ancora completamente accerchiato la città. Prendete la strada verso l'Esarcato e le terre dei ribelli. Hirush è già caduta, e tutto il Vuoto è in fiamme. I Popoli fedeli al Re sono in armi, inutile tentare da quella parte. Noi intanto cercheremo di trovare a Menthor tutti quelli che in qualche modo possono ancora combattere, per rallentare la marcia di Vemerin.» «Possiamo tentare verso il Mare Interno, cercare un imbarco verso le terre oltre le acque...» «No!» si fece avanti Amnor, deciso. «Non verso settentrione!» «Perché?» Il vecchio puntò una mano verso il cielo, indicando la stella Nester che sfolgorava come un occhio malato attraverso la coltre di nubi gravida di pioggia, con la forza di un piccolo sole. «Quella stella porta con sé qualcosa di maligno. Tutto questo è già avvenuto, e nelle Tavole è narrato di ciò che avvenne nell'altro suo passaggio. Tutto si ripeterà anche questa volta. Se quello che ho letto è veritiero, bisogna fuggire dal Nord, prima che il Nord venga da noi! I luoghi della terra stanno per mutare...» La Signora Rossa attese che Amnor completasse il suo discorso. Ma il vecchio sembrava immerso in una profonda riflessione. «Bene, sarà come dite» disse allora la donna. «Avrò bisogno di qualche ora per riunire le mie figlie. Poi, all'alba, ci muoveremo in cerca di scampo.» «Nel frattempo io mi recherò al Cerchio delle Sapienze» disse Amnor, «forse con l'aiuto dei saggi del Cerchio potrò realizzare qualcosa per difenderci: ho imparato molto, dallo studio delle armi di Vemerin.» «E io cercherò di liberare un amico» disse Vargo. «Il sergente Kon è stato imprigionato nelle segrete della Guardia. Abbiamo bisogno di lui, per quello che ci aspetta. La figlia del Re ci attenderà qui: tornerò da lei, prima che vi muoviate» disse, cercando lo sguardo di Athramala. La donna assentì. Poi i suoi occhi mandarono un bagliore. «Ti attenderò. Forse ho atteso solo te in questo tempo lunghissimo.»
Shanda contrasse le labbra in una smorfia amara. Poi si mosse di scatto verso la Signora Rossa, gettandosi ai suoi piedi. «Lasciami andare con lui, Signora!» implorò, stringendo la donna alle ginocchia. «Ha bisogno di me!» Anche Khaima si era fatta avanti. «Sì, lasciala andare con loro. Questi uomini non sarebbero nemmeno qui, senza di noi» disse ironica. «E lascia anche me, per proteggere questa stupida. Ti prego» aggiunse, inchinandosi a sua volta. La Signora esitò un attimo, poi tese le mani sulle loro teste, carezzandole con affetto. Alzò gli occhi su Vargo, lanciandogli uno sguardo allusivo. «Sapevo che è sempre pericoloso mandarvi per il mondo, figlie mie. A volte la natura è più forte, con il suo richiamo, di tutta l'antica saggezza del nostro ordine. Andate, se questo è il vostro destino. Ci rincontreremo, se così è scritto. Ma se questa è l'ultima volta che i miei occhi scendono su di voi, lasciate che imprima bene i vostri volti nel mio cuore» mormorò, chinandosi verso le due ragazze e baciandole lungamente sulla fronte. Si rialzò di scatto, voltando loro le spalle. «Andate» ripeté con voce cupa. Vargo lanciò un'ultima occhiata verso Athramala. Il suo cuore ebbe una stretta, notando il gesto della mano con cui la donna sembrava volerlo accarezzare. Sotto la pioggia fangosa che aveva ricominciato a cadere le sentinelle sulla cinta si sporgevano cautamente dagli spalti, intente a osservare lo spettacolo sconvolgente che era comparso come per incanto sotto i loro occhi. Migliaia di luci tremolavano come se l'intera volta celeste, oscurata dalla spessa coltre di nubi, fosse scesa sulla pianura che si estendeva sotto la collina di Menthor, verso le lontane terre del Vuoto. «Che facciamo, signore?» chiese timorosa una delle guardie all'ufficiale che accanto a lui osservava preoccupato il fenomeno. L'uomo scosse la testa incerto. «Non ci hanno dato nessun ordine... A Corte deve essere successo qualcosa. Una staffetta nel pomeriggio ci annunciava di stare pronti, e che avremmo ricevuto nuovi ordini nella notte... Ma non è arrivato nulla.» «Uomini che scendevano dal quartiere alto hanno detto che si stava combattendo, intorno al Palazzo imperiale...» «Forse c'è stata una rivolta.» «I ribelli? Sono riusciti a entrare? E come?» fece allarmato l'altro, guardandosi intorno in cerca di qualche segnale di pericolo. Ma sugli spalti non
si vedeva nulla: gli altri soldati della Guardia erano appostati in fila dietro la merlatura, le lance in pugno, anche loro in attesa. L'ufficiale sentiva le voci soffocate con cui gli uomini commentavano la situazione, parlottando tra loro. Forse quelle luci erano il segnale che la ribellione che divampava da anni nella regione di Kendor era straripata, e stava per scagliarsi contro di loro? Avvertiva il terrore che cominciava a serpeggiare tra la truppa. Doveva fare qualche cosa, se non altro per tenerla occupata. «Rafforzate i chiavistelli alla porta!» gridò. «Aggiungete una sbarra! E accendete i fuochi sotto le caldaie dell'olio.» Sapeva che era un ordine inutile: ci sarebbero volute ore per portare i grandi recipienti d'olio a una temperatura sufficiente da renderli pericolosi per un eventuale aggressore. E la pioggia battente non avrebbe certo accelerato il processo. Seguì con lo sguardo un gruppo di soldati che si accingevano a eseguire l'ordine, poi tornò a concentrarsi sull'oscurità davanti alle mura. Le fiamme sembravano essersi fatte più vicine, adesso i primi fuochi balenavano quasi ai piedi della lunga scarpata che portava al bastione. In quel momento un rombo sempre più forte venne a terrorizzare ancor di più gli uomini, poi tutta la collina sembrò oscillare come se una mano gigantesca l'avesse scossa per scrollare via di lì l'intera città. La muraglia tremò con una serie di scricchiolii paurosi, e per un attimo le due torri ai lati della porta si inclinarono l'una verso l'altra quasi volessero sostenersi a vicenda. L'ufficiale, in preda al panico, si era afferrato a una delle travi di sostegno delle insegne imperiali. Tra le sue mani il legno prima si contorse come un serpente e poi con uno schiocco secco si infranse precipitando oltre la muraglia, costringendolo a mollare la presa per non essere trascinato nel vuoto. Le grida di terrore degli uomini si sommavano all'urlo del terremoto, sovrastandolo addirittura in alcuni momenti. Ma la scossa sembrava interminabile. Anche se le oscillazioni adesso andavano attenuandosi, il rombo che le aveva accompagnate si stava facendo più forte, constatò l'uomo, che cercava faticosamente di rimettersi in piedi. Le cose intorno a lui stavano tornando a poco a poco all'immobilità naturale, ma quel rumore terribile sembrava avvicinarsi. Si sporse di nuovo verso l'esterno. Alla luce delle fiamme, pareva ora che grosse masse oscure stessero risalendo lungo la scarpata. Con orrore l'ufficiale piantò gli occhi
nelle tenebre per cercare di vedere meglio, imitato dai suoi uomini, poi si ritrasse con un gemito. Delle fauci enormi erano uscite dal buio, accompagnate da uno sbuffo violento di vapore. Il mostro divorò velocissimo lo spazio che ancora lo separava dalle mura, e un attimo dopo l'ufficiale sentì la struttura della porta tremare sotto l'urto violento del grande animale che l'aveva investita con tutto il suo peso. Sotto i suoi piedi, al di là del sottile camminamento in muratura che lo separava dalla corte della porta, le assi della porta si piegarono, spezzandosi poi con uno schianto. Gli altri soldati erano fuggiti dalle loro posizioni, e si affollavano intorno a lui in attesa di ordini, sconvolti dalla paura. L'ufficiale cercò di riordinare i pensieri, mentre dall'oscurità emergevano altri animali simili al primo, che rombando terminavano la corsa verso la muraglia. Uno di loro si era drizzato sulle zampe posteriori e sormontando l'arco della porta protese le fauci spalancate verso un soldato che si era attardato sul camminamento. L'ufficiale vide il balenio delle sciabole d'acciaio che spuntavano dalla mascella spalancata, poi la morsa si richiuse sull'uomo, maciullandolo e soffocando il suo grido straziato. Gli uomini erano impazziti per il terrore. Correvano avanti e indietro lungo il camminamento, urtandosi con violenza e cadendo di sotto con grida inumane. «Cercate di restare ai vostri posti!» gridò l'ufficiale con il fiato che gli restava. «Cercate...» La frase gli si spezzò in gola. Qualcosa era sceso di colpo dall'alto, artigliandolo alle spalle. Gli altri videro una massa oscura che ondeggiava nel vento, due grandi ali che spazzavano l'aria e qualcosa che afferrò la testa dell'uomo, strappandola con uno scricchiolio sinistro dal corpo. Mentre la massa risaliva trascinando con sé il suo trofeo, il tronco decapitato dell'ufficiale rimase per un attimo immobile. Il vento che gonfiava i suoi abiti dette l'impressione orrenda che il corpo facesse un macabro passo di danza, poi le sue gambe cedettero di colpo e rovinò a terra irrorando con un getto di sangue vivo i soldati che arretravano in preda al panico. Ma prima che qualcuno di loro potesse accennare una reazione qualsiasi, di nuovo dal cielo altre masse scure si erano avventate su quelli che ancora resistevano sul camminamento, in un vortice furibondo di artigli e ali impazzite. In un attimo gli ibridi avevano trasformato il posto di guardia in un car-
naio orrendo. Uccisi gli uomini, le belve infuriavano contro se stesse, cercando di sottrarsi l'un l'altra i macabri resti insanguinati. Sotto, il primo dragone era arretrato di alcuni passi, per poi tornare di nuovo con un ruggito a scagliarsi contro la porta. Percossa dal nuovo urto la struttura cedette di schianto, rovinando a terra e finendo calpestata dalle zampe del dragone che si infilava possente sotto l'arco, travolgendo nella sua marcia anche la controporta al di là della corte. Oltre si apriva una lunga via diritta, che saliva verso la collina del Palazzo. Il dragone percorse un centinaio di passi, prima di arrestarsi in una nuvola di vapore. Fece oscillare la testa nelle varie direzioni, cercando di identificare la propria meta con gli occhi di rubino. Dietro di lui altri dragoni avevano cominciato ad allinearsi in fila indiana e le loro corazze di piastre di bronzo risplendevano delle mille luci delle torce che si affollavano intorno ai loro corpi massicci. Sulla strada aperta dai mostri centinaia di uomini armati stavano sfilando attraverso il varco, allineandosi attorno alle grandi macchine, come se attendessero un ordine per dilagare attraverso il dedalo di viuzze che immetteva all'interno della città. Barbari scesi dalle montagne di Kendor, coperti soltanto da un perizoma di pelle, disertori del Confine nelle loro lacere vesti multicolori. Uomini dei Popoli del Vuoto, giunti al richiamo della stella Nester, per riunirsi al loro antico Re. E poi, avanti a tutti, la Legione. L'armata dei vivi e dei morti uscita dai sotterranei di Anharra, un impasto feroce di uomini e corpi disfatti, tenuti insieme solo dai legacci delle loro corazze rugginose. Esseri che erano stati uomini, e che mille battaglie avevano disperso ai quattro angoli della terra. Esseri che avevano montato una guardia silenziosa per trenta secoli alla tomba del loro sovrano, in attesa di sentire ancora la sua voce levarsi per richiamarli alla strage. Elmi che nascondevano orbite vuote, nasi scarnificati dai vermi, dita ridotte ad artigli, costole spezzate, che fuoriuscivano dai petti come lame giallastre: una massa che dilagava dalla porta nel regno degli uomini. Rapide le loro avanguardie erano penetrate nelle catapecchie di legno che sorgevano accanto alla porta, uccidendo chiunque vi si trovasse. Molti abitanti del quartière erano in strada, al momento dell'irruzione, chiamati fuori dallo sconvolgimento del terremoto. Erano stati semplicemente sommersi dall'Orda, calpestati e ridotti in polvere come se mai fossero esistiti. Gli altri, raggiunti nei loro letti, soprattutto le donne con i figli stretti al seno, erano stati fatti a pezzi prima che riuscissero a emettere anche solo
un grido. E adesso l'Orda aspettava. Immobile, sferzata dalla pioggia che scivolava su di essa accumulandosi in una pozza sempre più alta, sollevando volute di vapore dai fianchi roventi dei dragoni. Poi un grido infernale di acclamazione eruppe dalla massa. Una sagoma umana, alta, ricoperta di una corazza d'oro che gli nascondeva anche il volto sotto una maschera dello stesso metallo, era comparsa tra loro. «Vemerin! Vemerin!» risuonava il grido in mille voci, rimbalzava sugli scudi come tra le gole di una montagna, sempre più frenetico a mano a mano che l'alta figura avanzava aprendosi il passo nell'Orda, fino a raggiungere la testa dello schieramento. «Il Re! Il Re è tornato!» In una torre nei pressi un gruppo di uomini e donne terrorizzati assistevano alla scena, spiando dalle fessure delle finestre sbarrate. Una delle donne si accostò a suo marito, stringendo tra le braccia una coppia di bambini di pochi anni. «Che succede? Chi sono quei... quei diavoli?» L'uomo era vestito sommariamente, come chi fosse appena balzato giù dal letto. Sulla veste da camera portava ricamate le insegne del clan dei Kusmani, una delle famiglie più antiche e nobili della città. «Non lo so» rispose mordendosi le labbra per la tensione, dopo un ultimo sguardo verso la strada. «La porta deve aver ceduto. Oppure qualche traditore deve aver rimosso la barriera! Bisogna avvertire subito l'Imperatore. Che mandino la Guardia ad aiutarci! E presto, o saremo perduti. Voi due! Correte a Palazzo, e tornate con l'aiuto: noi cercheremo di resistere fino al vostro ritorno.» I due uomini del seguito si inchinarono rapidi, e dopo essersi scambiati un rapido sguardo d'intesa corsero verso la scala che immetteva alla porta della torre. Appena fuori si gettarono in una viuzza fangosa. Correvano a perdifiato, lanciando nel frattempo grida d'allarme alle finestre sbarrate che si affacciavano tutt'intorno. La pioggia martellava le loro teste nude, tormentando i corpi coperti solo di pochi stracci, ma proseguivano sguazzando nel fango lungo la salita che si faceva sempre più erta. A una svolta del vicolo un gruppo numeroso di uomini in armi sbarrò loro la strada. «Siano ringraziati gli dei di Khoran!» gridò uno dei due, riconoscendo le divise della Guardia imperiale e gettandosi verso di loro a braccia spalancate. «La porta ha ceduto, i ribelli stanno dilagando tra le mura... Sono
demoni! Demoni, bisogna dare l'allarme a palazzo!» L'uomo accennò a riprendere la corsa, ma il capo del drappello a quelle parole sguainò la spada. Poi con una mossa inattesa la puntò al petto dell'uomo, arrestandone lo slancio. «Siete del clan dei Kusmani?» chiese freddo, riconoscendo le insegne dei loro giubbetti di cuoio. «Tenete per l'Imperatore?» «Certo» rispose l'altro sconcertato. «Il nostro clan è da sempre il più fedele della famiglia regnante! Siete pazzi a chiedercelo? Vi dico che abbiamo bisogno di aiuto, la torre è circondata e può cedere da un momento all'altro!» «L'Imperatore è caduto. Domina Verennia!» replicò l'altro, sollevando di scatto la spada e abbattendola di taglio sulla sua testa. L'uomo si accasciò senza un gemito, in una pozza di sangue e fango. Il suo compagno aveva seguito la scena sbalordito. Aprì la bocca per dire qualcosa ma l'altro gli troncò la parola mettendogli la lama alla gola. «E tu, per chi tieni?» Gli occhi dell'uomo si allargarono a dismisura per lo spavento. Mugolò qualcosa, ma dopo un attimo la spada gli recise la giugulare. Con un urlo ferino si portò le mani al collo, cercando di trattenere il fiotto di sangue che schizzava dalla ferita. «Troppo tardi, amico. Non c'è tempo per cambiare bandiera» sghignazzò il suo uccisore, ritraendo la spada e spingendolo a terra con un calcio. Poi, rivolto ai suoi uomini: «I nostri devono già aver raggiunto la torre dei Kusmani. Presto vedremo un'altra bella torcia illuminare la città! Demoni! È così che ci ha chiamati!» seguitò con un altro ghigno. «Questi cani non hanno ancora visto nulla! Torniamo indietro, è inutile continuare verso la porta. Alle case dei Vinnar, c'è da fare giustizia! E la notte è ancora lunga» seguitò alzando gli occhi e schermandosi la fronte contro la pioggia. «Sembra che anche il cielo stia dalla nostra parte, e le ore non passino!» 7 Vargo scivolò silenzioso lungo la muraglia che circondava il palazzo. Si immerse nell'acqua del fossato alta fino alle ginocchia, aprendosi la strada attraverso i canneti che ne ricoprivano il fondo. Era arrivato all'angolo del torrione di levante, quando i suoi sensi tesi avvertirono un fruscio alle spalle. Si arrestò di colpo, gettandosi a terra con la spada in pugno, in attesa. Dopo pochi istanti le cime delle canne cominciarono a oscillare, poi la muraglia verdastra si aprì e apparve il volto ironico di Khaima, seguito
subito dopo da quello della sua compagna. «Non penserai che ti lasciamo andar solo! Ho sempre desiderato vedere le galere dell'Imperatore. Ne dicono meraviglie.» «Tornate indietro!» sibilò il giovane. «No, ti perderesti. Voi uomini non sapete mai cavarvela, quando c'è di mezzo una donna» si intromise Shanda, muovendo verso di lui con il suo passo ancheggiante. Quando gli fu accanto allungò una mano a carezzargli dolcemente il volto. «Non vorrai davvero liberarti di me?» In quel momento esplose una serie di tuoni, e subito dopo una nuova cascata di pesanti gocce fangose riprese a cadere. Lo spesso tappeto di nubi che oscurava totalmente il cielo assicurava che la tempesta sarebbe stata forte e duratura. Di sicuro le sentinelle si sarebbero ritirate nei loro posti di guardia, rendendo più agevole il suo compito. Le ragazze continuavano ad attendere una sua decisione, con aria di sfida. «E va bene» cedette. «Venite con me, visto che ci tenete tanto. Ma eseguite i miei ordini alla lettera, non è facile muoversi lì dentro. Dobbiamo tentare il tutto per tutto, e presto. Athramala non può essere lasciata sola troppo a lungo. Devo tornare da lei» aggiunse, cercando di reprimere l'inquietudine che lo attanagliava da quando si era separato dalla donna. A Khaima non era sfuggita l'ultima frase. Scoppiò in una risatina sarcastica, dando di gomito alla sua compagna. «Hai capito, piccola sciocca? Non può lasciarla sola... Quella donna deve avergli mangiato il cervello, se ne parla con tanta devozione. Così ti piace la strega...» aggiunse poi, cambiando improvvisamente tono. «Bene: tanto per cominciare, come facciamo a entrare?» «C'è una sola strada, escludendo la porta che è troppo sorvegliata. Intorno al muro di cinta c'è un camminamento per le sentinelle. E ogni dieci passi c'è un'apertura, una feritoia per osservare la muraglia, nel caso qualcuno tenti di scalarla. Dovremo passare da lì.» «Sei pazzo. Così finiamo proprio in bocca alle sentinelle. Sentiamo subito un altro bel piano» sghignazzò sottovoce Khaima. «Mi incuriosisce la tua fantasia.» «Vi ho detto che dovete seguire i miei ordini» replicò il giovane irritato. «Conosco la fortezza, ho servito per anni lì dentro. E conosco le abitudini della guardia. Non credo che siano cambiate. Le feritoie sì susseguono lungo tutto il perimetro, ma ce ne sono alcune vicine alle garitte delle sentinelle.»
«E allora?» «Come pensate che si svolga il servizio di guardia, con questo tempo? Le sentinelle cercheranno di restare il più possibile al coperto, e poi effettueranno rapide il giro di sorveglianza, preoccupate soltanto di rispettare la consegna, che è quella di scambiarsi l'allerta con il collega che arriva dall'altra parte. Il regolamento prevede che le due sentinelle debbano incontrarsi alla metà esatta della distanza tra due torrioni, ma sono certo che questa notte si guarderanno bene dal farlo: percorreranno ognuno la prima parte del proprio percorso e poi, quando saranno appena in vista del compagno grideranno l'allerta e torneranno indietro al riparo.» «Bei gaglioffi, i tuoi antichi compagni!» tornò a schernirlo Khaima. «E il fatto che le sentinelle, con le loro belle corazze lucide, abbiano paura della pioggia come dovrebbe aiutarci?» «C'è un angolo cieco/tra le feritoie. Un punto della muraglia che può essere sorvegliato solo dalla feritoia al centro del percorso. Ma sono sicuro che questa notte nessuno arriverà fin lì.» Khaima stava per replicare ancora qualcosa, ma a un tratto cambiò espressione. Si mordicchiò le labbra, pensosa. «Ne sei sicuro?» «Ragionevolmente. Ma non abbiamo altra possibilità.» «E come arriviamo lassù?» chiese la ragazza, additando gli spalti in alto. Intanto la pioggia andava aumentando d'intensità, rovesciando torrenti d'acqua che si raccoglievano nel fossato. «Se non ci sbrighiamo tra poco dovremo cominciare a nuotare!» osservò Shanda rabbrividendo. Vargo si aprì la visuale tra le canne e additò la scarpata della muraglia sopra di loro. «Cerchiamo di raggiungere la base del bastione, e di lì su per la muraglia. Il muro in questo punto è vecchio e corroso. Dovrebbe fornire appigli sufficienti per la salita.» Khaima guardò a sua volta. Poi fece un cenno di assenso, mantenendo la sua espressione dubbiosa. «Vai, noi ti seguiamo.» Il giovane aspettò che un nuovo fragore di tuono annunciasse un aumento della pioggia, poi furtivamente si fece strada tra le canne raggiungendo il muro. Come ricordava, i vecchi mattoni della muraglia erano consumati dal tempo. Molti erano spezzati, o erano caduti, e tra l'uno e l'altro il cemento era sparito, creando una serie di fessure cui era possibile aggrapparsi. Si afferrò al primo appiglio sopra la sua testa e cominciò faticosamente a issarsi. Sotto le sue dita i mattoni intrisi d'acqua tendevano a sfuggire alla presa, ma fortunatamente le fessure erano abbastanza ampie da consentirgli di
aiutarsi anche con i piedi nella salita. Salì rapido per alcune braccia, poi si fermò a riprendere fiato, mentre controllava attento le mosse delle ragazze. Shanda e Khaima gli erano da presso. Sfruttando la loro leggerezza e agilità lo avevano rapidamente raggiunto. «Restate sotto di me» sussurrò il giovane. «Adesso viene il difficile.» Sopra la sua testa c'era un cordolo rotondo, una cornice di pietra inserita tra i mattoni per rafforzare la struttura. Fino a quel momento si erano mossi protetti dall'oscurità, ma da lì in poi la parete appariva più luminosa, come se i raggi di Nester, nonostante la barriera delle nubi, la rischiarassero. Vargo tese l'orecchio tra i suoni della tempesta, per cercare di cogliere il grido delle sentinelle. Per un tempo lunghissimo non gli parve di sentire nulla. Le dita, contratte nella presa, erano in preda a fitte dolorose. Cominciava a chiedersi quanto ancora sarebbe stato in grado di resistere, quando finalmente gli giunse il grido della prima sentinella, seguito immediatamente dalla risposta del suo compagno. Attese ancora qualche istante, per esser certo che i due si fossero voltati e avessero cominciato a tornare indietro lungo il loro percorso. Poi con uno scatto di reni si spinse verso l'alto, aggrappandosi al bordo della balaustra. Con un altro scatto scavalcò l'ultimo ostacolo, lasciandosi cadere sul camminamento e appiattendosi a terra. Dalla sua posizione vedeva tra il muro d'acqua del rovescio le schiene dei soldati che si allontanavano diretti alle loro garitte. Si sporse di nuovo a segnalare il via libera alle due ragazze, che aspettavano ancora appese al cordolo. «Le celle sono nei sotterranei del bastione. Dobbiamo passare per la scala del torrione: ma prima bisogna mettere fuori combattimento le sentinelle.» In quella un grido esplose alla sua sinistra. Uno dei due armati si era voltato e li aveva visti, pur nella pallida luce della stella. Subito prese a correre dalla loro parte, brandendo la lancia. Il suo grido aveva attirato l'attenzione dell'altra sentinella, che si era girata e accennava a sua volta a tornare indietro. Vargo sfoderò la spada, pronto a scattare contro gli avversari. Le loro prime grida si erano perse nel frastuono della tempesta ma doveva a tutti i costi ridurli al silenzio, per evitare che qualcun altro li sentisse e desse l'allarme generale. «E come pensavi di cavartela, senza le tue innamorate?» disse Shanda, allungandogli una rapida carezza. «Per fortuna ci siamo noi» aggiunse,
togliendosi l'arco dalla spalla, imitata dalla sua compagna. Le due ragazze incoccarono gli archi, e con un tiro preciso colpirono entrambe il loro bersaglio. I due uomini emisero solo un lamento strozzato, riuscendo a percorrere ancora pochi passi trascinati dal loro slancio prima di abbattersi a terra. Vargo si morse le labbra, rattristato da quelle uccisioni che avrebbe voluto evitare. Correndo verso il torrione di sinistra scavalcò uno dei corpi. Il viso del morto, un ragazzo poco più che adolescente, sembrava già disfatto dalla pioggia. Sul tavolato della torre si apriva una stretta scala a chiocciola, che scendeva all'interno della fortezza. Facendo appello ai suoi ricordi Vargo si avviò lungo i gradini: se il sergente era stato imprigionato nelle segrete avrebbero dovuto raggiungere il sotterraneo, attraversando numerosi corridoi e posti di guardia. Non sarebbe stato facile, si disse preoccupato. Ma la buona sorte sembrava finalmente essere dalla sua parte. Continuavano a scendere di piano in piano senza incontrare nessuno, come se la fortezza fosse abbandonata. Dove erano finiti tutti? Anche gli alloggi degli ufficiali sembravano deserti. Tra i letti disfatti giacevano in disordine oggetti di vestiario e addirittura armi, quasi che i loro occupanti si fossero allontanati in fretta, senza preoccuparsi di nulla. Giunti al termine della scala si ritrovarono all'inizio del lungo corridoio delle celle, sbarrato da una cancellata chiusa. Una torcia che si stava spegnendo infissa in un anello al muro era l'unica luce. Vargo si afferrò con entrambe le mani al cancello, scuotendolo con forza. La serratura, anche se vecchia e rugginosa, sembrava solida. Lo scosse di nuovo, riuscendo soltanto a strappare un lugubre stridio ai suoi cardini. L'eco dei suoi sforzi non si era ancora spento, quando dal fondo del corridoio giunse in risposta una salva di imprecazioni. Riconobbe con sollievo la voce del sergente. Dunque Kon era ancora vivo! Anche Khaima aveva riconosciuto quella voce, e sembrava contenta, benché cercasse di nasconderlo sotto la sua maschera indifferente. «Coraggio, sergente! Siamo qui!» gridò il giovane. «Per tutti gli dei di Khoran, bamboccio! Cominciavo a credere che ti fossi dimenticato di me!» urlò ancora la voce lontana. «Questi maledetti mi hanno lasciato qui senza nemmeno un sorso d'acqua!» «Smettila di sbraitare, idiota!» gli gridò sulla voce Khaima. «Non c'è bisogno che lo sappia tutta la guarnigione!»
«Hai portato con te quelle due bellezze?» seguitò imperterrito il sergente. «Non vedo l'ora di strusciarmi un po' addosso alla bruna! Sbrigatevi!» Khaima stava per replicare qualcosa, ma Vargo la fermò, additandole la serratura. «Lascia perdere, aiutami piuttosto con questa» ordinò, cominciando a colpirne la chiusura con la spada. Il metallo gemeva sotto i colpi, mentre la Sgualdrina dal canto suo aveva afferrato una lancia che qualcuno aveva abbandonato in terra e faceva leva con tutte le sue forze attraverso le ante. Finalmente il metallo cedette con uno schianto, e i tre si lanciarono attraverso l'apertura. Trovarono Kon chiuso in una cella a metà del corridoio, incatenato con entrambe le braccia al muro. Era completamente nudo, a parte uno straccio che gli copriva i lombi e un cappuccio nero sul viso. Mentre Vargo faceva scorrere il catenaccio della grata le due ragazze si erano fermate a commentare il corpo sgraziato e irsuto dell'uomo. «Sei sicuro che valga la pena di liberare questa scimmia?» disse ridacchiando Khaima. «Non ho mai visto nessuno più orrendo. E io me ne intendo di uomini!» Shanda si unì all'irrisione della sorella. Kon, appena Vargo ebbe sciolto le sue catene, con un ruggito si strappò dalla testa il cappuccio, rivelando un volto segnato dai colpi ricevuti, gli occhi iniettati di sangue. Ma il suo spirito non sembrava per nulla depresso: battendosi un vigoroso pugno sul petto puntò diretto verso Khaima, cercando goffamente di abbracciarla. «Eri davvero tu, fiorellino! Gli dei di Khoran hanno deciso finalmente di ripagare la mia devozione!» «Sta' alla larga, buffone!» gridò lei, sottraendosi con agilità alla stretta. Il sergente stava per tornare alla carica, quando un rumore di passi e di voci concitate attrasse la loro attenzione. Dall'altra parte del corridoio era apparso un folto gruppo di uomini armati di lancia, che guardava minaccioso dalla loro parte. Vargo si mosse di scatto, ponendosi davanti agli altri per cercare di proteggerli. Il gruppo di uomini della Guardia si andava allineando rapido di fronte a lui, le armi in pugno. Decine di lance, tese verso di loro come una foresta di punte, stavano riempiendo tutta la stretta galleria con la loro mortale presenza. In un istante si trovarono chiusi tra la parete di pietra e un muro di punte d'acciaio. Vargo calcolò in fretta le loro possibilità. Troppo scarse per lasciare una qualsiasi speranza. Il sergente era disarmato, e le due ragazze sarebbero
riuscite a scagliare al massimo un paio di frecce nel tempo che la Guardia ci avrebbe messo per colmare la breve distanza che li separava. A quel punto le loro corte spade sarebbero servite a poco. Si rimproverò tra i denti per averle coinvolte in quell'impresa, mentre si preparava a giocare il tutto per tutto. Però l'istinto di sopravvivenza gli gridava dentro di non arrendersi. Sentì i muscoli contrarsi, mentre una vampata di calore gli correva sulla pelle. Gli allenamenti e gli scontri affrontati negli anni di servizio, scolpiti nella memoria profonda del suo corpo, adesso gli ritornavano alla mente dettandogli le prossime mosse senza che avesse bisogno di riflettere. Conosceva gli uomini che aveva di fronte. Un tempo era stato uno dei loro ufficiali. Questi che adesso lo scrutavano minacciosi attraverso le celate degli elmi erano per lo più giovani, ma appartenevano al suo stesso corpo. Non distingueva nessun elemento di grado superiore tra loro, nessuno che avrebbe potuto essere a conoscenza delle segrete tecniche dell'Accademia della Spada. Erano reclute, destinate non alla prima linea sul Confine, ma soltanto alla sorveglianza del castello e ad assicurare l'obbedienza dei sudditi verso l'Impero. Sapeva come erano stati addestrati, ed era certo di conoscere la tattica che avrebbero seguito. Come avevano già cominciato a fare, si sarebbero allargati cercando di chiuderli in un semicerchio, per poi attaccare tutti insieme. Una muta di giovani lupi, fianco a fianco per darsi coraggio l'un l'altro nel primo scontro reale della loro vita. Che per molti sarebbe stato anche l'ultimo, pensò in preda a un'angoscia improvvisa, mentre curvava impercettibilmente la schiena abbassando la spada fino a sfiorare con la punta il pavimento del sotterraneo. Era certo che il suo gesto sarebbe stato interpretato dai soldati come il segno dell'intenzione di arrendersi. La reazione fu quella che aveva sperato: un'onda eccitata percorse la selva delle lance, mentre i soldati muovevano avanti rassicurati. Intanto con la coda dell'occhio sorvegliava i suoi compagni, assiepati dietro di lui. Sperò che avessero intuito la sua prossima mossa. I soldati fecero ancora un passo avanti, mentre lui continuava ad abbassare la spada. Nel movimento la fila serrata delle lance si era ulteriormente scompaginata, e i più vicini stavano abbassando le loro armi per continuare a mantenerlo sotto tiro: sentì che era quello il momento. Con un balzo scattò in avanti, saltando sulle punte delle lance immediatamente davanti a lui, schiacciandole a terra sotto il proprio peso. Mentre
le aste si schiantavano colpì rapidamente i due soldati più vicini, affondando la punta nelle parti scoperte appena sotto gli elmi. Poi mentre quelli lanciavano urla di dolore, tra lo sconcerto degli altri che avevano assistito paralizzati dalla sorpresa, balzò sui loro corpi agonizzanti sollevandosi sopra le teste degli altri. Il senso di pietà di appena pochi attimi prima era scomparso, cancellato dal desiderio di sopravvivere. Una fredda ferocia agiva in lui, guidata dalla necessità di colpire prima che i suoi avversari potessero organizzare una nuova linea di difesa. Mentre spiccava un nuovo balzo colpì ancora, decapitando un altro soldato, che si abbatté in avanti trascinando con sé la lancia di chi gli stava accanto. Adesso era giunto in mezzo agli attaccanti, mentre quelli, sorpresi e impauriti si muovevano scompostamente per tornare a puntare le lance contro di lui, che ormai si trovava alle loro spalle. Il movimento caotico delle lunghe aste, nello spazio ristretto del sotterraneo, si era subito trasformato in un caos di urti e di intralci reciproci, che dava il tempo al giovane di colpire ancora ripetutamente alle spalle del drappello. Vargo mulinava furioso la spada, travolgendo i più vicini, che per la ristrettezza dello spazio non riuscivano a difendersi con le aste. Neppure i soldati più esterni rispetto allo scontro riuscivano a organizzare qualcosa di efficace, ostacolati dal timore di colpire i propri compagni. In quel momento Kon si scagliò a sua volta nella lotta, afferrando la lancia di uno dei caduti e mulinandola contro quelli che intanto erano riusciti a volgersi indietro verso il punto dello scontro. «Dannati imbecilli!» gridava il sergente, fracassando teste e braccia. La sua faccia ardeva di un'ira incontenibile. «Maledetti figli di puttana! È questo che vi hanno insegnato all'addestramento? Meritate di morire tutti!» Completamente frastornati i soldati stavano precipitando nel panico totale. Qualcuno tentava ancora di difendersi e di colpire a sua volta, cercando di aprirsi un varco nella selva di corpi che turbinavano senza più alcun senso, mentre più d'uno aveva gettato l'arma cercando scampo nella fuga. A un tratto, quando il sergente aveva quasi raggiunto Vargo al centro dello scontro, qualcuno gridò il suo nome. Era uno dei soldati caduti in terra, quasi un ragazzo con il volto coperto di sangue per un colpo, ma ancora vivo. «Kon! Sergente Kon!» ripeté disperatamente, mentre con la mano cercava di ripararsi da altri colpi. «Kon!» gridò di seguito qualcun altro, e poi quel nome fu ripetuto ancora, tra le grida di dolore. «Sergente! Fermatevi! Siamo noi, la vostra squa-
dra! Vi prego!» disse ancora qualcuno di loro, gettando a terra la lancia. Senza che fosse detto altro, la scena convulsa di un attimo prima sembrò gelarsi in un momento di immobilità totale. Vargo si era arrestato, la lancia ancora levata in alto per tornare a colpire, e anche il sergente si era fermato. Adesso per la prima volta era intento a guardare i volti degli uomini intorno a lui. «Voi?» esclamò stupito. «Dannate bestie, come avete osato attaccare me! Il vostro padrone in terra! E in quel modo da idioti, poi!» «Non sapevamo che eravate voi il prigioniero! Non vi abbiamo mai visto in faccia! E non sapevamo che fare!» disse ancora il giovane ferito, in tono accorato. «Siamo restati soli!» «Che vuoi dire?» chiese Vargo, facendosi largo tra i sopravvissuti ancora in preda allo sconcerto e chinandosi a sostenerlo. «Dove sono i comandanti della rocca?» «Non c'è più nessuno» risposero in coro altri, animatamente. «Gli ufficiali sembravano impazziti. Si sono battuti tra di loro, poi chi era ancora vivo è fuggito. Noi siamo restati qui, in attesa di ordini. Sergente, che dobbiamo fare? Dicono che qualcuno ha attaccato le mura esterne: che dobbiamo fare?» ripeté il ragazzo, soffocando a stento una smorfia di dolore. Un'ombra passò negli occhi del sergente. Sembrava pietà, pensò con stupore Vargo. Ma subito Kon tornò a imprecare all'indirizzo dei soldati. «Muovervi, bambocci! Questo dovevate fare! Non avete ordini? Un soldato della Guardia non ha bisogno di ordini per cercare il sangue! Non avete sentito il rumore delle spade, alle porte? Era lì che dovevate correre, dopo aver impiccato i vostri ufficiali, se cercavano di abbandonarvi!» Sputò per terra con disprezzo. «E io che credevo di aver fatto di voi dei guerrieri! Ma adesso pagherete tutto insieme. Allineatevi, sacchi di merda: ispezione!» gridò il sergente con quanto fiato aveva in corpo, colpendo a calci i feriti a terra per costringerli a rialzarsi. «Gli uomini di Kon vanno alla guerra! Un'armata di vivi e di morti ci aspetta alle mura, e prima di sera l'avremo fermata, altrimenti gli dei giocheranno a dadi con le nostre ossa! E qualcuno mi trovi una divisa: non voglio morire nudo come un verme!» Vargo osservò il sergente e la sua squadra che sparivano. Anche Khaima aveva seguito le loro mosse, parve al giovane con un inatteso lampo di commozione negli occhi. Accorgendosi che Vargo la stava osservando si riprese rapida, riassumendo il suo solito tono insolente. «Non vedranno nemmeno l'alba di domani.»
«Forse nessuno di noi la vedrà» disse lugubre Shanda, alzando gli occhi al cielo nero. «Amnor ha ragione, il cielo è immobile. La notte non passa» aggiunse con un brivido. «Se è destino che le nostre esistenze terminino al buio» replicò il giovane, «che almeno il nostro coraggio le illumini alla fine.» Khaima si volse verso di lui, ostentando un'ammirazione ironica. «Per gli dei! Hai parlato come un oracolo, amico. Faremo come dici tu!» sghignazzò. «E forse vivremo qualche ora di più di quegli altri pazzi.» La carovana dei saltimbanchi si era attendata appena fuori delle mura del caravanserraglio. Anche stavolta il prefetto, come sempre nelle fortezze sul Confine, aveva negato il permesso di invadere con giocolieri e funamboli lo spazio protetto da mura dell'avamposto, limitandosi a concedere l'autorizzazione di tenere spettacolo per tre giorni. I nomadi avevano arrestato i loro carri in cerchio ed eretto le loro tende. Poi, verso il tramonto, trombe e tamburi avevano preso a strepitare, per richiamare l'attenzione degli abitanti e dei mercanti di passaggio. Stracci colorati erano stati innalzati su lunghe pertiche, e oscillavano al caldo vento del deserto ostentando rozze immagini dello spettacolo che veniva offerto: animali selvaggi, donne discinte e mostri dalle terre lontane. «Preparatevi!» gridò un uomo dalle dita coperte di anelli d'argento, richiamando a sé le ragazze che sedevano sotto la tenda di uno dei carri. «E voialtri aprite le gabbie degli animali! Stanno arrivando!» Le porte della fortezza erano state aperte, e dal bastione era in arrivo una piccola folla di uomini e donne, scortati da un drappello della Guardia. L'uomo dagli anelli a quella vista sputò a terra con disgusto. «Poca gente. Poca fortuna.» Una donna accanto a lui fissava gli uomini armati, che infila si avvicinavano. «Ci sono più soldati che mercanti. Devono esserci di nuovo guai, sul Confine. Ma in fondo anche i soldati sono uomini» aggiunse indicando con il pollice le ragazze. «Vedrai che ce la caveremo. E poi c'è Kon, con il suo orso. Ai soldati piacciono sempre le prove di forza.» L'altro annuì, poco convinto. Poi si mosse rapido verso il gruppo dei militari che era giunto accanto al cerchio dei carri, inchinandosi fino a terra davanti all'ufficiale che guidava il drappello. «Onore agli eroi della Guardia!» gridò ostentatamente. «Grazia a colo-
ro che rendono sicure le nostre strade e lunghe le nostre vite!» L'ufficiale lo spinse di lato brutalmente, allungandogli un calcio nel sedere. «Smettila con le tue lusinghe, straccione. E prega i tuoi dei che lo spettacolo che ci offri valga la fatica di farci venire fin qui, se ci tieni che i tuoi carri non brucino.» L'uomo del circo si rialzò faticosamente, ostentando ancora lo stesso apparente buonumore. «Certo, certo! Vedrete cose che non avete mai visto! Donne mirabolanti, mostri inverosimili! La donna pesce del Mare Interno! L'uomo con due teste dell'Esarcato...» «E ricorda che metà delle offerte di questi ingenui» lo interruppe l'ufficiale, indicando la piccola folla di civili che stava sciamando tra le tende «spetta agli uomini della Guardia. Spetta a me.» L'altro tornò a inchinarsi rispettosamente. «È generosa la tua protezione, e sarà senz'altro fatto così. Ma aspetta di vedere quello che offriremo ai tuoi uomini! Forse tu stesso poi vorrai essere generoso con noi!» L'ufficiale alzò le spalle. «Da quella parte! C'è qualcosa che uomini forti come voi devono assolutamente vedere!» insistette l'uomo del circo, mostrando un piccolo spazio circondato da una staccionata di fortuna. Al centro della minuscola arena un ragazzo tarchiato teneva per la catena un grosso orso, che si stiracchiava pigramente ondeggiando la testa. La bestia sembrava infastidita dal legaccio di cuoio che le bloccava le mascelle: di tanto in tanto le zampe artigliate salivano a tentare di strapparla via, e ogni volta il ragazzo la distraeva con un violento strappo della catena fissata al suo collo. «Un ragazzo e un orso incatenato!» borbottò l'ufficiale, gettando un'occhiata distratta. «Ne girano a decine sul Confine.» «Ma nessuno è come mio figlio, ti assicuro, nobile ufficiale! Presta solo un po' d'attenzione.» L'uomo lanciò un rapido segno al ragazzo. Questi, colto il segnale, si inchinò alla truppa che si era assiepata intorno alla staccionata, poi si avvicinò alla bestia, intenta nell'ennesimo tentativo di liberarsi della museruola. Trafficò veloce con le dita intorno al collo dell'animale, aprendo il cerchio di metallo che lo stringeva, poi con uno strappo deciso sciolse il nodo che fermava la museruola. Un mormorio percorse il drappello dei soldati. L'orso, sentendosi libero, sembrava interdetto. Spalancò le mascelle, mettendo in mostra una chiostra di zanne lunghe più di un pollice, poi si levò sulle zampe posteriori. In piedi la belva sfiorava le cinque braccia di altezza e torreggiava sul
ragazzo come una quercia su un cespuglio di more. L'ufficiale contrasse le labbra in un fischio silenzioso, facendosi improvvisamente attento. Anche i suoi uomini si erano avvicinati, mescolandosi a un gruppo di mercanti già assiepati intorno alla staccionata. L'orso continuava a oscillare sulle zampe posteriori, grosse come due tronchi d'albero. Dalla sua bocca uscì un soffio violento, poi un mugolio che si trasformò in un bramito rabbioso. Un fremito visibile aveva percorso a quel suono gli spettatori, e più d'uno si era ritratto d'istinto dalla barriera. Anche i soldati si scambiavano occhiate perplesse. Il capo del circo aveva seguito la reazione con un'espressione soddisfatta. «È uno spettacolo terrificante, vero ufficiale? Pochi avrebbero il coraggio di mio figlio Kon» dichiarò orgoglioso, guardando di sfuggita la mano dell'uomo stretta intorno all'impugnatura della spada. L'altro lasciò subito la presa, con una smorfia indifferente. «Vedremo» si limitò a dire. Intanto nell'arena il ragazzo e l'orso continuavano a studiarsi. La bestia, sempre più nervosa, agitava le zampe anteriori come se volesse afferrare tra gli artigli la testa del ragazzo. Lui giocherellava spavaldo, facendosi avanti fino a farsi sfiorare, poi si ritraeva rapido con un salto. Pareva però che quel gioco non servisse che a far infuriare di più l'orso. Con un ruggito l'animale si gettò su di lui stringendolo tra le zampe e cercando di serrare le zanne intorno alla sua testa. Il ragazzo scivolando verso il basso si sottrasse alla stretta, poi, rivelando un'agilità insospettabile per il suo aspetto corpulento, scivolò tra le zampe massicce emergendo alle spalle della bestia. Tra gli oh di stupore della piccola folla con un salto si aggrappò al collo dell'orso, prendendo a stringerlo incurante dei ruggiti e degli strappi spaventosi con cui l'animale cercava di sottrarsi alla sua stretta. Quindi cominciò a tirare con tutte le sue forze, finché la belva fu costretta prima a piegarsi all'indietro e poi a lasciarsi cadere a terra. A quel punto il ragazzo afferrò il tratto di catena che ancora giaceva sulla sabbia e legò l'animale sdraiato, immobilizzandolo. Quindi si rialzò in piedi, inchinandosi per raccogliere l'applauso. Gli spettatori avevano seguito l'epilogo rapidissimo della vicenda con il cuore in gola. Dopo un momento si abbandonarono a un coro di grida esultanti. «Che ne pensate, ufficiale? Avete mai visto niente di simile?» chiese sornione il capo del circo. L'altro era rimasto immobile. Poi con un'alzata di spalle fece per andarsene. «Credi di impressionarmi, con il tuo orso ammaestrato? Che altro
c'è da vedere? Dove sono le donne?» «Orso ammaestrato? Mi offendi, ufficiale. L'orso è selvaggio come tutti i suoi simili. È stato catturato sulle colline di Kendor, e da allora non passa giorno che non cerchi di sbranare qualcuno, tanta è la rabbia per le sue catene che lo divora. Guarda qui» aggiunse l'uomo scoprendosi un braccio e mostrando una lunga cicatrice, «questa me l'ha fatta per essermi avvicinato troppo alla sua gabbia. Solo mio figlio riesce ad averne ragione.» «Levati dai piedi, straccione. Nessuno riuscirebbe a piegarlo a terra, se non fosse addestrato a lasciarsi incatenare. Credi che sia uno sciocco come questa gentaglia che viene qui a farsi vuotare le tasche da te e dai tuoi compari?» «Se vuoi credere questo, rispetto la tua volontà...» «Certo che lo credo. E voglio dimostrartelo, perché non te ne vada da qui convinto di aver gabbato gli uomini della Guardia. Dov'è il sergente Mitos?» Dal gruppo degli spettatori, che stavano ancora con gli occhi fissi sull'animale incatenato scambiandosi commenti animati, si staccò un gigante, e corse verso l'ufficiale. «Che comandi?» chiese. «Entra anche tu nell'arena, libera e poi incatena di nuovo quell'orso ammaestrato.» Il soldato lanciò un'occhiata incerta oltre la staccionata. Il giovane in quel momento stava rimettendo a posto la museruola della belva, vincendo a stento gli strappi e i ruggiti con cui quella si opponeva alla catena. «Non farlo, ufficiale! Stai mandando a morte quest'uomo!» esclamò allarmato il capo del circo. Senza alcuna incertezza l'altro si limitò a confermare il suo ordine con un brusco cenno della testa. Il sergente lanciò un'altra occhiata preoccupata alla belva, poi con un agile balzo superò la staccionata, atterrando a pochi passi da Kon. Il ragazzo cercò di sbarrargli il passo, allargando le braccia ma quello lo superò, tentando di scostarlo bruscamente dalla sua strada. Kon resistette alla spinta, con forza insospettata. Ma il sergente, infastidito da quella che gli pareva un'insolenza, lo colpì con violenza alla fronte con il suo guanto ferrato. Tramortito, il giovane Kon si piegò sulle ginocchia, lasciando andare la cima della catena. Sentendosi improvvisamente libero l'orso si sollevò sulle quattro zampe, scrollandosi violentemente di dosso il resto della ca-
tena che ancora lo stringeva. Poi, proprio quando il sergente Mitos era giunto a un passo da lui, si sollevò di nuovo eretto, con un bramito terribile. Il sergente era impallidito. Vide le zampe della belva tendersi verso di lui, mentre la bocca si spalancava minacciosa. L'uomo tentò d'istinto di proteggersi dall'assalto, provando a fermare le zampe con le mani protette dalle guantiere. Ma la forza smisurata dell'animale lo spinse via come un fuscello. Gridò di dolore sentendo gli artigli della bestia che gli penetravano la carne della schiena, poi gridò ancora più forte invocando aiuto, prima che il suo grido si mutasse in un lamento straziante quando le fauci dell'orso si richiusero intorno alla sua testa, maciullandogli la faccia. L'uomo barcollava nella stretta dell'orso come una bambola di pezza. La bestia inarcò la testa con un guizzo, strappando via una parte del volto del sergente. Poi lo lasciò andare, preparandosi ad attaccare di nuovo il corpo che si afflosciava al suolo con un grido soffocato. La folla aveva assistito inorridita all'evolversi rapidissimo degli eventi. Anche gli uomini della Guardia erano restati immobili, i pugni stretti allo spasimo sulle impugnature delle lance, senza sapere cosa fare. Solo Kon, ancora intontito dal colpo, stava accennando a una reazione. Mentre l'orso tornava ad avventarsi sul sergente, azzannandolo a una spalla, il giovane cercava di rimettersi in piedi. I suoi occhi ancora offuscati videro il volto dell'uomo ridotto a una maschera di sangue, con le ossa del teschio quasi tutte scoperte in una orrenda anticipazione della morte. Si gettò di nuovo sulla bestia, in una sorta di affannosa replica del numero che aveva eseguito solo pochi attimi prima. E di nuovo la sua forza straordinaria, unita all'esperienza nel combattimento con l'animale, riuscì a prevalere. «Ammazzate quella dannata bestia» riuscì a gridare l'ufficiale. Al suo ordine gli altri soldati parvero scuotersi dallo sbalordimento con cui avevano seguito il dramma, e si decisero finalmente a scavalcare la staccionata e a raggiungere l'orso che si agitava sotto la stretta possente di Kon. Vedendo la bestia impotente presero a trafiggerla con colpi di lancia ripetuti, gridandole addosso tutta la loro rabbia, che ancora odorava di paura. Mentre l'orso rantolava sotto i colpi, uno dei soldati che i compagni nella loro furia cieca avevano spinto lontano dalla carcassa rivolse la lancia intrisa di sangue verso Kon. Il ragazzo stringeva ancora la catena tra le mani, e fissava inebetito la sua bestia ormai morente. Nemmeno si accorse
che l'uomo, con gli occhi iniettati di sangue per la brama di vendetta, stava per colpirlo. Un grido disperato del padre lo smosse, consentendogli di evitare per un pelo l'affondo della punta. Il capo del circo si era gettato a terra davanti all'ufficiale, abbracciandogli le ginocchia. «Pietà, signore! Ammazza me! Ma lascia vivere il mio ragazzo!» Altri soldati, in cerca di qualcosa di vivo su cui sfogare la propria rabbia, si stavano affollando intorno al giovane, che scalciava disperato e respingeva con violenti colpi delle braccia le loro lance, cercando di tenere lontane le punte. «Pietà!» gridò ancora il padre. «Ammazza me!» L'ufficiale furente si liberò della stretta con un calcio. Seguì per un istante i suoi uomini che ancora non riuscivano ad aver ragione del ragazzo, poi come per un pensiero improvviso gridò che si arrestassero. «Non ammazzate quel bastardo! Il sergente Mitos è morto. Ma forse non abbiamo perso nel cambio. Ammansitelo, e trasportatelo alla torre.» Al suo ordine, uno dei soldati si gettò contro le gambe del giovane, facendolo crollare a terra. Poi tutti gli altri lo tempestarono di colpi con le aste delle lance, lasciandolo privo di sensi. Lì accanto il corpo dilaniato del sergente si spegneva con un ultimo gemito. «Arruolo il tuo bastardo, straccione» sogghignò l'ufficiale. «I ranghi della Guardia devono essere sempre coperti. E visto che se la sa cavare con gli orsi, non avrà problemi a spezzare le ossa a qualche recluta, per farne uno di noi.» 8 Era ripreso a piovere, con intensità anche maggiore. L'acqua fangosa e puzzolente di zolfo si stava accumulando nella parte bassa della città con rapidità crescente. All'improvviso una massa d'acqua scura si affacciò ribollendo all'altro capo della strada, scorrendo veloce verso di loro. Vargo si ritrovò immerso fino alla vita, mentre alle sue spalle le due Sgualdrine scivolavano contro le pareti di fango, lottando per rimanere in piedi. «La cisterna delle Terme! Ha ceduto!» sentì una voce gridare accanto a lui. La via era piena di uomini e donne in preda al terrore, che si trascinavano affannosamente cercando di vincere la resistenza della corrente che scendeva dall'alto. Qualcuno tentava ancora di portare sulle spalle un baule, un involto, un semplice fagotto di stracci. Una donna stringeva tra le
braccia il corpo piangente di un bambino. Ma la gente si limitava ad arrancare senza ordine, in cerca soltanto di uno scampo verso la parte alta della città. «Seguitemi!» gridò Vargo, facendosi largo tra i fuggiaschi. Sentì un rombo improvviso. Con una serie di schianti la torre sull'angolo della via aveva preso a inclinarsi, scivolando lentamente su un fianco fino a crollare, sbarrando la strada. La massa di macerie precipitando nell'acqua aveva sollevato un'ondata che si stava avventando con un muggito spaventoso verso di loro. D'istinto Vargo si aggrappò all'inferriata di una finestra che si apriva lì vicino. Seguendo il suo esempio anche Khaima si afferrò con tutte le forze. L'ondata si gonfiava, sommergendo tra grida di disperazione i disgraziati più vicini al crollo. Poi in un attimo la massa d'acqua fu sopra di loro, sbattendoli con forza terribile contro i muri delle case. Un attimo prima di essere sommerso, Vargo aveva riempito i polmoni d'aria. Vide che Shanda aveva perso la presa e allungò un braccio per trattenerla. Poi un incubo verdastro lo avvolse, passando sopra la sua testa. Per un tempo incalcolabile restò sotto, lottando con tutte le sue forze per non essere trascinato via e per non perdere la presa sul polso della ragazza. Un grosso pezzo di trave lo colpì al petto, mozzandogli il respiro. Gli pareva di non poter più resistere, ma continuava a lottare con la forza della disperazione. Poi di colpo si ritrovò con la testa fuori dell'acqua. Accanto a lui anche Khaima era riemersa, tossendo e vomitando boccate di liquido. Vargo sentiva ancora tra le dita il polso di Shanda, ma la ragazza non accennava a riemergere. Finalmente vide la sua testa bionda che riappariva tra la fanghiglia, pure lei tossendo e sputando. Intorno l'ondata aveva spazzato via tutti i fuggiaschi: qualche testa affiorava qua e là, e sopra lo sciabordio dell'ondata in allontanamento si sentivano solo pochi flebili lamenti. «Per gli dei di Khoran, che cosa è successo?» riuscì a dire finalmente Khaima. «Cosa è stato?» «Quello!» gridò il giovane, indicando davanti a loro. «State pronte!» Le macerie accumulate tremavano come per una scossa di terremoto. Frammenti di pietra venivano scagliati in alto, e tutta la massa si sollevava come se sotto ribollisse un vulcano. Poi di colpo un enorme corpo nero spuntò tra le pietre, spalancando la bocca irta di zanne ed emettendo il suo sibilo terribile. Un dragone si stava facendo strada tra le macerie, arrampicandosi con le zampe anteriori sui detriti per muovere dalla loro parte. Ur-
tò ancora con la spalla di piastre inchiavardate contro quel che restava della base della torre, trascinandone a terra l'ultimo troncone. Con uno stridore di metallo lacerato il drago colpì ancora la parete sull'altro lato, rovesciandola a terra e creandosi un passaggio. Poi le possenti zampe posteriori si inarcarono, sollevando tutta la sua massa sui resti del crollo. Torreggiando sopra di loro spalancò le fauci di nuovo, emettendo il suo urlo, accompagnato da getti di vapore biancastro che uscivano con violenza dai suoi fianchi. La testa si mosse un'altra volta, in cerca di qualcosa. Attraverso le finestre di rubino dei suoi occhi a Vargo parve per un attimo di intravedere l'ombra di chi era alla guida nell'interno. Trascinato dal suo stesso peso il dragone accennò a scivolare indietro sui resti della torre, poi con un urlo inumano dei meccanismi interni le zampe posteriori si fletterono, per imprimere di nuovo alla sua massa una possente spinta in avanti. La bestia metallica scavalcò l'ostacolo e ripiombò sulla strada. Ondeggiò violentemente tra nuovi getti di vapore, poi cominciò ad avanzare nell'acqua, sotto gli scrosci di pioggia. «Attente! Dobbiamo riuscire a scivolargli sotto!» gridò il giovane. Intanto ripassava freneticamente le istruzioni che aveva ricevuto da Amnor. Lo schema della macchina gli scorreva nella mente, una serie di immagini lampeggianti che adesso avevano preso la forma paurosa di un pericolo reale. Sperò che quegli antichi progetti corrispondessero davvero alla realtà. Si assicurò che le due ragazze lo seguissero, poi si gettò incontro al dragone, sguazzando disperatamente nell'acqua per cercare di raggiungere il suo obiettivo prima di essere individuato. Chi era alla guida doveva però averli visti. La testa del mostro cominciò a ruotare sul collo massiccio, e la chiostra delle zanne a sciabola tornò a spalancarsi. Per un attimo parve a Vargo di percepire il fiato rugginoso della bestia meccanica, mentre si infilava sotto di lei e con lo schianto di una saracinesca la bocca scattava a vuoto, solo poche spanne sopra le loro teste. Vargo si ritrovò sotto il ventre del dragone, gli orecchi assordati dal rumore della macchina che lo animava. Da quella posizione poteva vedere distintamente le grandi ruote dentate dietro le zampe, quelle che imprimevano il moto a tutto il suo corpo. Dalle piastre del rivestimento emergevano le grosse teste delle chiavarde che legavano gli elementi della corazza. Continuando a muoversi per evitare di essere travolto dalle zampe, cercò
affannosamente le valvole indicate da Amnor. Gli parve di riconoscerle, due per parte accanto alle ruote delle zampe posteriori. «Eccole!» gridò sforzandosi di vincere il rumore, indicandole alle due ragazze, che correvano curve accanto a lui. «Voi pensate a quelle di sinistra!» Si aggrappò alle teste delle chiavarde, cominciando a tirarsi su verso l'ingranaggio delle ruote. Le ragazze lo imitarono dall'altra parte. Il dragone sopra di loro continuava a muoversi in avanti, trascinando via a ogni passo brandelli di muro nella sua avanzata e oscillando violentemente. Vargo riuscì ad aggrapparsi alla prima delle due campane di bronzo che ricoprivano il meccanismo. Tenendosi stretto con un braccio alla struttura del dragone estrasse la spada e iniziò a tempestare di colpi la base della campana. Il bronzo però resisteva con tenacia ai suoi assalti, la campana si deformava appena ma restava salda nella sua posizione. Si volse a controllare le due ragazze aggrappate all'altra zampa. Facevano del loro meglio, ma neppure loro sembravano ottenere migliori risultati. Poi finalmente dopo un altro colpo una sottile fessura si aprì alla base della campana. Vargo inserì la punta della spada, cominciando a far leva con tutta la sua forza. Lentamente la fessura si allargò, finché con uno schianto la campana si staccò, precipitando. Sotto c'era una ruota, che azionava un rubinetto da cui uscivano fiotti di vapore bollente. Vincendo il calore e la resistenza della ruggine verdastra Vargo ruotò il rubinetto, chiudendolo. Poi, respirando affannosamente, attaccò la seconda campana. Intanto continuava a sorvegliare l'opera delle Sgualdrine. Anche le ragazze erano riuscite a tirar via la prima campana di protezione. «La ruota!» gridò loro. «Cercate di stringerla!» Khaima, incurante del rischio, aveva abbandonato la presa sulla struttura e si era aggrappata con entrambe le mani al rubinetto, cercando di chiuderlo utilizzando il suo stesso peso. Al di sopra del frastuono della macchina, Vargo riusciva a percepire le imprecazioni della ragazza. Poi gli giunse un grido di giubilo: Khaima doveva essere riuscita nel suo intento, perché la vide abbandonare il primo rubinetto e passare al secondo, aiutata dalla sua compagna. Tornò a concentrarsi sul suo obiettivo. Questa volta, conoscendo il modo, l'operazione fu più rapida. Invece di colpire a casaccio la campana si concentrò sul bordo, aprendo rapidamente una breccia e facendola saltare via. Poi serrò il secondo rubinetto. «Non ce la facciamo, Vargo! È bloccato!» gli giunse dall'altra parte la
voce di Khaima. D'impulso il giovane si aggrappò ai rilievi della corazza, cominciando ad avanzare verso le ragazze appeso sotto il ventre del mostro. «Qui! aiutaci!» gli gridò Khaima, quando le ebbe raggiunte. Erano aggrappate alla ruota del rubinetto e cercavano con tutte le loro energie di sbloccarlo. Il perno resisteva ostinatamente, forse a causa della massa di ruggine verde che lo ricopriva. Anche Vargo si aggrappò alla ruota, senza risultato. Intanto qualcosa sembrava cominciare a mutare nel comportamento del dragone sopra le loro teste. La macchina continuava a procedere con il suo moto possente, travolgendo ogni ostacolo che le si parasse davanti, sotto la spinta delle ruote che animavano le zampe. Ma l'urlo che fuoriusciva dalle sue fauci a intervalli regolari, e che fino a quel momento era sembrato un minaccioso urlo di battaglia, stava cambiando tonalità. Adesso erano grida sempre più brevi e frequenti, più simili a un allarme ripetuto. Mentre proseguiva nella sua lotta contro il rubinetto bloccato, Vargo fu preso dal timore che il dragone stesse invocando l'aiuto dei suoi simili. Che cosa avrebbero potuto fare se su di loro si fossero scatenati altri mostri come quello? All'improvviso la ruota cedette di un quarto di giro. Poi, tra il giubilo delle ragazze che seguitavano a spingere, la ruota scivolò sul suo asse di un'altra frazione, finché lentamente prese a stringersi scendendo lungo il perno. Le oscillazioni del mostro seguitavano violente. Da più parti getti di vapore avevano preso a sfiatare dai suoi meccanismi nascosti, fuoriuscendo senza ordine dalle connessioni tra le piastre. Le grida si erano trasformate in un ruggito continuo. La macchina continuava a procedere lungo la strada, ma la sua marcia sembrava adesso più un movimento cieco che un'avanzata vittoriosa. «Via!» gridò il giovane. «Cerchiamo di metterci al riparo!» Seguito dalle ragazze cominciò a scendere verso terra, sempre attento al movimento delle grandi ruote dentate. Con un ultimo balzo i tre ripiombarono nell'acqua, mentre il dragone scivolava via sulle loro teste, procedendo verso l'arco trionfale al termine del viale. Continuando a emettere getti di vapore il dragone si incastrò nel passaggio troppo stretto, senza avere più l'energia di aprirsi una strada nella muraglia. Il suo corpo massiccio vibrava e sussultava, mentre la coda frustava con violenza i muri intorno a lui. Allungò il collo verso l'alto, mentre la grossa testa dalle fauci spalancate continuava a emettere il suo grido.
Cautamente Vargo e le due ragazze si erano risollevati in piedi e osservavano lo spettacolo. In quel momento sembrava che nella ferocia della battaglia si fosse aperta una finestra: tutto era immobile, gelato sotto la spessa coltre di nubi attraversata soltanto dal chiarore velato della luce fredda di Nester. Anche il fiume che scorreva per le vie della città sembrava meno turbinoso, in attesa. Poi un fragore assordante squarciò il silenzio. Una sfera di fuoco e di fumo apparve sotto l'arco, nel punto in cui si era arrestato il dragone. I fianchi della macchina si allargarono, e un attimo dopo una colonna di frammenti metallici misti ad acqua e blocchi di pietra si alzò verso l'alto con una forza immane. Una ventata bollente li colpì. Vargo precipitò sotto le onde fangose, mentre attorno a lui tutto ribolliva sotto i colpi dei frammenti incandescenti che ricadevano affondando tra fiotti di vapore. Riemerse subito. Del dragone non restava che la parte posteriore, cui era ancora connessa la grossa coda a scaglie. Nelle orecchie intontite dallo scoppio sentiva le grida entusiaste delle due ragazze, che erano riemerse e si indicavano l'una con l'altra ridendo i resti della macchina. «Hai visto? Non è stato difficile! Possiamo distruggere questi maledetti come delle zucche mature!» Vargo cercava di riprendere fiato, e intanto pensava alla prossima mossa. «Sì, ci siamo riusciti» sentì rispondere Shanda. La ragazza trepidava ancora per lo scampato pericolo, ma sembrava meno entusiasta della compagna. «Ma a che serve? Ci sono centinaia di mostri come quello in giro per la città. Non possiamo sperare di distruggerli tutti. Per poco uno solo non ci ammazzava!» «È vero» fece il giovane. «Ma abbiamo avuto la prova che i piani in possesso di Amnor erano esatti. Queste macchine sono vulnerabili, dopotutto. Abbiamo ancora una speranza. Se riusciamo a organizzare una linea di difesa intorno al Palazzo, se qualche reparto della Guardia è ancora in grado di combattere, possiamo tentare di salvare almeno una parte della popolazione...» «Se! Se! Sei sempre pieno di speranze, Vargo» gli si rivolse triste Shanda. «Ma non dimenticare il tuo nome! Vargo del Nulla... Nulla, come la speranza che ci resta! Fuggiamo, piuttosto.» «Guardate, verso il Palazzo!» li interruppe Khaima con un urlo d'avvertimento. Vargo si volse dalla parte indicata dalla ragazza. In quel momento un turbine di vento aveva aperto uno squarcio tra le nubi. Intorno le costru-
zioni continuavano a decomporsi in cascatelle di fango. La città era ridotta a un ammasso putrescente, come una flotta naufragata che riemergesse dal fondo di una palude. Oltre i muri semidistrutti si scorgeva il tetto lontano del Palazzo imperiale, con le sue vaste terrazze dove un tempo sorgevano gli splendidi giardini pensili della corte. In alto sopra le tegole dorate della copertura si stava addensando una specie di colonna turbinante, che scendeva dal cielo fino a sfiorare la cima dell'edificio. «Gli ibridi! Scendono sul Palazzo» esclamò Khaima con raccapriccio. «C'è qualcosa che devo fare, ancora» mormorò Vargo, anche lui perso nella visione di quell'orrore. «Che cosa?» «Una... donna. Non posso lasciarla senza tentare almeno di trarla in salvo.» «Una donna? E chi è?» Vargo esitò un attimo, poi strinse i pugni. «Evirah, la figlia del Duca di Verennia. Ci siamo amati, un giorno... Prima che andasse sposa all'Imperatore. Non posso abbandonarla.» Khaima si volse verso di lui, con un'espressione beffarda stampata sul viso. «La tua innamorata è perduta, Vargo. Ormai niente può salvare la bella Evirah dalla sorte che il destino le prepara.» «Il destino sceglie per noi tutti. Ma fino a che avrò un respiro voglio seguire la mia strada. Non la abbandonerò a questa strage, se c'è anche solo una possibilità che sia ancora viva. Non me lo perdonerei mai...» aggiunse subito dopo, passandosi la mano sulla fronte come per scacciare via un'ombra. I volti di Vilma e Banthor, i compagni perduti per il suo tradimento, tornavano a emergere dal Vuoto, con il loro carico di sofferenza e rancore. «Voi lasciatemi, non vi chiedo di condividere altri rischi. Cercate di raggiungere la Signora Rossa, e se qualcuna delle vostre compagne è sopravvissuta, raggruppatele e tentate di uscire da Menthor. Ci ritroveremo sulla via per Khoran, se sarò ancora vivo.» Shanda lo fissò incredula. Di colpo gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia. «Ma quella donna ti ha già tradito una volta, idiota! È per lei che sei stato condannato all'esilio, è per lei che hai lasciato morire i tuoi amici più cari! Per una donna che nemmeno forse ricorda il tuo nome!» gridò infuriata. Con gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia avanzò a forza nell'acqua fino a raggiungerlo, e prese a tempestargli il petto di pugni. Aveva il volto rigato di lacrime, che colavano lungo le guance aprendo solchi più chiari
sulla pelle coperta di fango. «E adesso ci butti via come stracci vecchi, e vorresti andare là da solo. Per quella donna! Piuttosto ti ucciderò qui, io...» Vargo cercava di trattenerla, respingendola con dolcezza. Intanto scuoteva la testa. «Non è per amore... ma devo farlo. Ho giurato che non avrei abbandonato più nessuno che abbia bisogno di me. Mai. E adesso lei è sola, nel Palazzo attaccato dagli ibridi. Non posso lasciarla lì.» Anche Khaima li aveva raggiunti. La giovane afferrò delicatamente i polsi della sua compagna, mormorando qualcosa. Poi si voltò verso Vargo, la spada in pugno. Con uno scatto improvviso gli puntò la lama alla gola. «Questa pazza minaccia di ucciderti, ma le sue sono solo parole. Ci penserò io a farlo, invece, e sul serio, se pensi di andare da solo. Verremo anche noi! Voglio proprio vederla questa tua innamorata.» «Va bene» assentì Vargo. «Abbiamo cominciato insieme, insieme finiremo. Muoviamoci, dobbiamo arrivare prima che la Legione di Vemerin giunga a dar man forte agli ibridi. Allora sarà troppo tardi per qualunque cosa.» Ripresero ad avanzare lungo la strada in salita. Improvvisamente un sibilo esplose in alto, seguito da uno schianto che fece tremare il terreno sollevando un'ondata di fango. Subito il fenomeno si ripeté, e la coltre di nubi fu lacerata da una rete di strisce luminose, mentre una pioggia di frammenti infuocati si abbatteva intorno a loro. Vargo afferrò la mano di Shanda, trascinandola al riparo di un arco che si apriva a cavallo della strada. Cadde sulla fanciulla facendole scudo con il proprio corpo, poi si girò a controllare che anche la compagna fosse al sicuro. Khaima dal canto suo aveva appena sollevato sulla testa il piccolo scudo quando una pietra rovente lo colpì in pieno, strappandoglielo dal braccio. Cadde anche lei, imprecando per la violenza dell'urto. Schiacciata nel fango Shanda si dimenava per liberarsi. Subito si gettò sulla sorella, tirando un sospiro di sollievo al vederla rialzarsi dolorante ma illesa. La pioggia di fuoco aveva martellato i tetti delle costruzioni di fango crudo, e già molti focolai si scorgevano là dove le coperture di legno stavano prendendo fuoco. La caduta di pietre dal cielo sembrava terminata. Vargo si sporse fuori cauto dal riparo, poi con un cenno alle ragazze riprese la marcia. La strada continuava stretta tra le pareti di alti edifici, che cominciavano a bruciare come candele. La pioggia sembrava impotente contro le fiamme, e pareva anzi che per qualche misterioso motivo le alimentasse invece di combatterle. Come se dal cielo avessero preso a cadere pece e zolfo, e quelle che gli
erano sembrate pietre fossero in realtà i resti di stelle lontane, che si disfacevano in alto. Davanti a loro si intravedeva uno slargo tra le case. Quando furono vicini all'angolo dell'ultima casa percepirono un rumore di spade, mescolato a grida di rabbia e di dolore. Nella piccola piazza era in corso uno scontro feroce. Una massa urlante che brandiva asce e forconi, coperta delle vesti lacere della gente dei bassifondi, aveva circondato un piccolo gruppo, che si difendeva disperatamente contro il numero soverchiante degli assalitori. I combattenti al centro della mischia rispondevano colpo su colpo, ma già più di uno giaceva bocconi nel fango, trafitto dalle lance degli aggressori, e gli altri sembravano sul punto di cedere. Si trattava di una dozzina scarsa di uomini e donne, armati di spade e coperti da una leggera maglia di anelli d'acciaio, che però poco potevano contro le armi degli avversari. Al riparo dei loro piccoli scudi tentavano di deviare i colpi, e poi contrattaccavano con coraggio. Due degli assalitori, in preda a una ferocia scomposta, si erano gettati su una ragazza, raggiungendola alla schiena e inchiodandola contro la parete con una forca da foraggio. Poi uno dei due la finì con un colpo d'ascia. La giovane emise un flebile grido di dolore, crollando a terra mentre i due si voltavano contro un suo compagno che aveva tentato inutilmente di proteggerla. Anche quello, un giovane poco più che adolescente, venne raggiunto dai colpi. Vargo si fece avanti, la spada in pugno. Davanti a lui, isolata dalla sua gente, un'altra ragazza era alle prese con una specie di gigante, che la tempestava di colpi quasi giocando con lei come il gatto con il topo. La giovane si difendeva con disperazione: con un colpo di spada era riuscita a troncare il lungo raffio dell'avversario, ma l'uomo continuava a percuoterla feroce con il troncone dell'asta, usato come una clava. Con un balzo Vargo fu accanto a loro. Ma prima che potesse intervenire un colpo aveva raggiunto la ragazza alla testa, tramortendola nonostante il berretto imbottito che la proteggeva. Priva di sensi rotolò tra le gambe del giovane, mentre il gigante sollevava il troncone come uno spiedo, mirando alla sua schiena indifesa. Con un guizzo Vargo allungò la spada di punta, spezzando la mossa del gigante con una ferita mortale. Poi si volse verso il grosso degli assalitori, seguito dalle Sgualdrine che a loro volta si erano scagliate avanti. L'arrivo imprevisto di quei nuovi combattenti disorientò la folla inferoci-
ta. Forse pensando che il loro numero fosse molto più sostenuto, si scambiarono rabbiose grida di allarme, prima di darsi alla fuga in un vicolo laterale. Nei loro occhi lampeggiò ancora per un attimo lo sguardo avvelenato dal sidro. Vargo si chinò sulla ragazza svenuta, ponendole una mano sotto la schiena e sollevandola. Una massa di capelli rossi le copriva la fronte rigata di sangue, nascondendole il volto. Il giovane scostò i capelli, scoprendo un viso dai tratti armoniosi. In quel momento la ragazza riprese i sensi, sollevando di colpo le palpebre. Il giovane ebbe un sobbalzo. Le Sgualdrine dovevano aver avuto il suo stesso pensiero, perché esclamarono qualcosa all'unisono, additandosi l'una con l'altra la ragazza. I suoi occhi sembravano due cristalli di ghiaccio, di un grigio talmente chiaro da apparire quasi bianco alla scarsa luce di Nester. Lo stesso colore degli occhi dello sciamano tra le montagne, al Tempio degli eredi del Popolo Ribelle. Anche la giovane era trasalita: dapprima cercò di divincolarsi, temendo di essere tra le mani di uno degli assalitori, ma poi spalancò le labbra e la tensione dei suoi muscoli si allentò di colpo. Fissava Vargo chino su di lei, mentre un'espressione sorpresa si allargava sul suo volto. Il giovane sentì che si abbandonava fiduciosa alla sua stretta, mentre lui la aiutava a rimettersi in piedi. «Chi siete?» chiese Vargo ai compagni che si erano avvicinati. C'era anche in loro qualcosa di familiare, che li accomunava tutti: i volti allungati dai tratti regolari, le fronti alte e spaziose. E soprattutto gli occhi, di quello stesso indefinibile colore grigiastro, dai riflessi azzurrini. Anche loro parevano straordinariamente incuriositi dalla sua persona: uno allungò la mano fin quasi a sfiorare il suo volto, ma si trattenne all'ultimo. «Uomini» si limitò a dire. Intanto continuava a guardarlo, come se aspettasse qualcosa da lui. «Uomini?» «È così che ci chiamiamo da sempre, nella nostra famiglia. Da quando scendemmo dalle montagne. Stavamo cercando di raggiungere gli altri, quando ci hanno attaccati. Tutta la città sembra in preda alla follia. Ma tu. Tu, chi sei? Qual è il tuo nome?» Il giovane esitò un istante. «Il mio nome è Vargo. Ma non so chi sono, chi siano i miei antenati.» «Forse c'è chi può rivelartelo.» «Chi? Dimmelo!»
Fu allora che Vargo notò il medaglione che pendeva sul petto dell'uomo, legato al collo con una catenella dorata. Un cerchio su cui era incisa la forma di un sole raggiato. Invece di rispondere l'altro gli lanciò un'altra lunga occhiata, poi si voltò di scatto, raggiungendo i tre uomini che stavano ricomponendo il corpo della ragazza uccisa. Lo sollevarono sulle spalle e si mossero veloci verso una viuzza che scendeva verso i quartieri bassi, infilandosi nello stretto passaggio tra due case in fiamme. La giovane dai capelli rossi si attardò ancora un attimo. «Alla taverna dei Cervi, verso la porta di Hirush. È là che ci ritroviamo.» Allungò rapida il collo per baciarlo sulla guancia. «Grazie» mormorò. «Mi avevano predetto che un uomo senza stirpe mi avrebbe salvato, un giorno.» Poi anche lei si slanciò verso i suoi compagni, sparendo tra il fumo dell'incendio. Qualcosa brillava in terra, alla luce delle fiamme. Vargo si chinò a raccoglierlo: era un medaglione simile a quello indossato dall'uomo, che certo era appartenuto alla ragazza uccisa. Ripresero a correre, sguazzando nel fango. Gli sembrava di essere immerso nell'umidità da un tempo immemorabile, e il freddo gli stava penetrando nelle ossa. Vargo cominciava a non sentire più metà del suo corpo. Alzò gli occhi al cielo, per cercare di capire quanto mancasse ancora all'alba, nella speranza che quando il sole si fosse finalmente levato i suoi raggi avrebbero attenuato la morsa del gelo che si era fatto di colpo pungente. Le nuvole di cenere fangosa sulle loro teste ostacolavano la visione, ma qua e là attraverso stretti squarci nella massa scura si intravedevano piccole parti della volta stellata. Una di esse in particolare faceva da corona alla stella Nester, che rifulgeva come l'occhio di un dio maligno. L'astro sembrava essersi fatto ancor più vicino, mentre sciami di meteore avevano ripreso a cadere più lontano, incendiando l'oscurità con le loro scie fiammeggianti. Anche Khaima aveva alzato gli occhi al cielo. Fu lei la prima a lanciare l'allarme. «La notte... non passa!» «Che vuoi dire?» gridò la sua compagna. «Questo, guarda!» replicò lei, indicando una costellazione che si intravedeva bassa sull'orizzonte. «Le stelle sembrano immobili! Sono ore ormai che ci dibattiamo in questa pozza! E quelle stelle sono ancora là, dove erano poco dopo il tramonto!» Anche Vargo era arrivato alle stesse conclusioni. «La volta celeste...
sembra davvero essersi fermata!» «Vemerin ha il potere di fermare i cieli?» balbettò Shanda in preda a un improvviso terrore, appoggiandosi in cerca di sostegno a quello che restava di una parete, e abbandonandosi con tutto il suo peso sull'elsa della spada. «Allora siamo perduti.» Anche Vargo si era arrestato, disorientato. Tornò a guardare in alto, nella speranza di cogliere qualche segno che smentisse quell'affermazione. Ma nel cielo il tappeto delle nuvole si andava ricompattando, nascondendo ormai di nuovo tutta la volta celeste. Soltanto Nester continuava a brillare in alto, appena attenuata dagli spessi vapori. Di colpo ricordò le strane parole di Athramala, nel deserto: le Tenebre attendevano una notte lunga tre giorni, per il loro trionfo... Era iniziata davvero una notte eterna, in cui i cavalli delle Tenebre si sarebbero scatenati sulla terra calpestando quello che restava degli uomini? Anche se cercava di mantenere un atteggiamento sicuro e padrone di sé, Vargo avvertiva la stretta crescente del panico. Sentì il suo corpo cedere, le spalle incurvarsi sotto l'armatura, il peso della spada farsi insostenibile. Per un momento pensò anche lui di darsi per vinto, lasciarsi cadere nell'acqua e cedere finalmente al sonno e alla stanchezza. Le palpebre si erano fatte pesanti, un ronzio confuso invadeva i suoi orecchi. Per un attimo la sua mente scivolò in un sogno a occhi aperti. Di nuovo gli apparve quel volto lontano di donna, il ricordo che tornava a ossessionarlo dalla fanciullezza. Ma subito su quei tratti dolcissimi si sovrappose il volto segnato di Athramala: con un fremito tornò a spalancare gli occhi, riacquistando di colpo il senso del luogo. Afferrò per un braccio Shanda, che si era lasciata cadere. La ragazza sembrava inebetita. Vargo la schiaffeggiò per rianimarla. Poi si volse alla sua compagna: «Non sappiamo se quello che sta succedendo è il segno della fine. Ma finché avremo un alito di vita non dobbiamo arrenderci. Ci sono ancora degli uomini vivi, nella città! E dobbiamo cercare di salvarli! Guidarli verso uno scampo!». «Adesso dobbiamo pensare a noi, uomo!» fece Khaima con una smorfia. «E guidarli dove? Non vedi che tutto precipita?» gridò sobbalzando per un bolide fiammeggiante che si era schiantato poco distante, facendo sussultare la terra. «Anche il cielo ci sta cadendo sulla testa! A che serve dargli un'ora di vita in più?» «Anche un'ora può servire. Altrimenti come ci presenteremo al nostro giudice, se ci arrendiamo?»
«Quale giudice, uomo? I tuoi dei? Non c'è nessun giudice! Non c'è nulla! Se ci fosse pensi che avrebbe consentito questo?» La ragazza aveva immerso la mano nell'acqua, ritraendone un pugno di fango. Poi con un gesto rabbioso lo scagliò contro il cielo. «Se non c'è nulla, saremo noi i giudici di noi stessi.» «Ha ragione lui, sorella» fece improvvisamente Shanda. Sembrava essersi ripresa, e fissava il giovane con tenerezza. «Abbiamo cominciato questa strada insieme, insieme la termineremo.» «Sei la solita sciocca, sorella» replicò stizzita Khaima. «Sono tentata di lasciarti sola con lui! Ma tu sei troppo stupida per cavartela senza di me. E allora raggiungiamo il Palazzo, e vedrai che troveremo soltanto cadaveri ad aspettarci!» Senza attendere altro la ragazza si scagliò avanti, fendendo l'acqua con energia. Vargo e Shanda la seguirono animati da una nuova forza. La facciata del Palazzo imperiale portava i segni evidenti dell'ultima scossa di terremoto. Tutto un angolo della costruzione era franato, aprendo nella muraglia uno squarcio che affondava profondamente verso l'interno. Il crollo aveva trascinato con sé gran parte dei piani superiori. «Sembra deserto» disse Shanda avvicinandosi cautamente alla breccia. Là dove un tempo era alloggiato il corpo di guardia c'era adesso solo un cratere riempito dall'acqua che continuava a piovere dal cielo. Resti sparsi di armi e divise giacevano tutto intorno, ma non v'era traccia di esseri viventi. Solo qualche orrendo brandello umano straziato dalla rovina. «Sono morti tutti nel terremoto» disse Khaima, guardandosi intorno. «E se qualcuno è sopravvissuto deve essere fuggito via. È inutile restare qui.» «No, aspetta!» la fermò Vargo. Aveva colto un rumore in lontananza, dall'interno della costruzione. «Silenzio, ascoltate!» Tesero le orecchie nello sforzo di decifrare quei suoni appena percettibili. Poi Shanda per prima ruppe il silenzio. «È musica...» fece interdetta. «Sì» confermò Vargo. «Qualcuno sta cantando.» «Ma è impossibile...» «Eppure è così. Sembra provenire da qualche parte oltre il cortile.» Senza attendere altro Vargo penetrò attraverso l'apertura. Oltre i cumuli di macerie e di arredi sconvolti, si intravedeva lo spazio aperto di un cortile interno. A mano a mano che il gruppo avanzava i suoni si facevano sempre più forti, un impasto confuso di strumenti e voci umane. Erano appena entrati nel vasto cortile, quando dalla parte opposta videro
qualcuno precipitarsi verso di loro. Era una fanciulla vestita di bianco, il volto coperto da una maschera dalle fattezze di un cervo. Correva a perdifiato, come se cercasse di sfuggire a qualcuno. Vargo rapidamente le si fece incontro, e arrestò la sua fuga stringendola tra le braccia. La giovane si divincolò, perdendo la maschera. Vargo vide un volto pallido, dagli occhi dilatati che non sembravano vedere nulla. La giovane, sempre cercando di liberarsi, scoppiò in una risata spiritata, tempestando con i suoi piccoli pugni le braccia che la tenevano stretta. «Anche lei è impazzita!» esclamò Khaima afferrandola per i capelli e rovesciandole il capo all'indietro, in modo da poter scrutare i suoi occhi. «No» rispose Vargo, sempre cercando di trattenere la ragazza. «Non sentite l'odore delle sue labbra? È ubriaca di sidro.» «Bene! Si fa festa a Palazzo. E adesso che facciamo?» Vargo aveva allentato la presa. Sentendosi libera la giovane scoppiò in una risata isterica, fuggendo via. La videro correre attraverso il cortile, per poi perdersi sotto il portico. «Da quella parte» fece Vargo. «La musica arriva proprio da lì.» Ripresero il cammino. Di fronte a loro il porticato era interrotto da un arco. Anche qui la devastazione del terremoto aveva lasciato il segno. Alcune colonne erano franate, e parte della copertura era scivolata a terra spargendo intorno una pioggia di tegole infrante. Oltre l'arco si apriva una scala. La scossa l'aveva afferrata come una mano gigantesca, torcendola e spezzando come fuscelli i magnifici scalini di marmo bianco. La rampa adesso sembrava un percorso scosceso di montagna, reso ancor più aspro dai profili taglienti delle lastre spaccate. Il gruppo si incamminò per la salita, attirato dai suoni sempre più forti. In cima alla rampa la scala terminava in un ballatoio circondato da statue, che adesso giacevano infrante a terra. Vargo attraversò la distesa di teste e braccia mozzate, che parevano ancora contratte nel gesto di ripararsi dal terrore salito dalle viscere della terra. Al di là del grande spazio si intuiva un vuoto, su cui ondeggiavano trascinati dal vento i resti di quello che somigliava a un grande velario. Oltre il ballatoio sprofondava verso il basso una gradinata semicircolare, chiusa sul fondo da una quinta di pietra che riproduceva la facciata di un palazzo. «È il teatro di Corte» fece Shanda a bocca aperta. «E stanno... stanno...» «Sì, questi idioti stanno godendosi lo spettacolo» la interruppe astiosa Khaima, additando le persone sedute sulla scalinata, apparentemente intente a osservare quello che avveniva sul palco rialzato davanti alla scena.
Anche Vargo girava intorno lo sguardo, stupefatto. Nello spazio semicircolare sotto il proscenio c'erano almeno due dozzine di musici, la più parte con strumenti a fiato, flauti e buccine d'ottone, in prima fila. E dietro di loro altri uomini percuotevano le pelli di piccoli tamburi, altri ancora scuotevano sistri e campanelli, dando vita a un ammasso di suoni caotici e privi di senso. Era come se ciascun musico eseguisse un suo concerto personale, senza neppure accorgersi di ciò che avveniva intorno a lui. Sul palco lo spettacolo era anche più inatteso. Qui uno stuolo di danzatrici con la stessa veste bianca indossata dalla fuggitiva nel cortile, e come lei con il volto coperto da maschere che riproducevano il muso di animali della foresta, erano scatenate in una danza vorticosa, disarmonica, priva di qualunque grazia. Sembravano menadi in preda all'ebbrezza. Saltavano rincorrendosi da un lato all'altro della scena, come intente a una caccia o a uno scontro tra animali, di cui non si comprendeva però il senso. Ma era il pubblico sparso sui vari ordini di sedili lo spettacolo più inquietante. Gruppi di uomini e donne, coperti dei fastosi abiti di corte, sedevano rilassati, scambiando tra loro parole a bassa voce o bevendo dalle coppe che schiavi in movimento lungo le gradinate provvedevano a riempire attingendo da grandi crateri. Incuranti della pioggia che aveva ripreso a cadere dal cielo, continuavano a fissare la scena con passione, abbandonandosi talvolta a scrosci di applausi, per un nuovo salto acrobatico di una delle ballerine. La gradinata del teatro era stata spaccata anch'essa dalla scossa di terremoto. Una frattura la percorreva quasi nel centro, scendendo dall'altana dove si trovava Vargo fin quasi all'emiciclo dell'orchestra, alle spalle del primo ordine di posti, contraddistinti da troni di marmo dall'alto schienale. Il luogo riservato alla famiglia imperiale. I posti in quel momento erano occupati: al centro, coperto dal manto simbolo del potere di Menthor, un uomo sedeva assorto nello spettacolo. Accanto a lui una donna molto più giovane, ma anch'essa rivestita dei panni imperiali, poggiava languidamente la testa sulla sua spalla. «Evirah...» mormorò Vargo. «È lei la tua innamorata?» fece Shanda con una smorfia crudele. Incurante dei nobili seduti, scese rapida alcuni gradini, avvicinandosi al palco imperiale. Allungò il collo lanciando un'intensa occhiata alla donna, poi si voltò gridando ironica. «Non sembra granché, sotto quei panni splendidi! Un mucchietto d'ossa, e un muso da gatta in calore. La Signora Rossa non saprebbe che farsene, nelle sue case!»
L'Imperatrice volse appena la testa, guardando distrattamente la Sgualdrina. Poi dopo un attimo tornò a girarsi verso la scena, come se i suoi occhi non avessero visto nulla. Nemmeno gli uomini della Guardia, schierati alle spalle dei sovrani, si erano mossi. Una nuova salva di tuoni esplose in alto, accompagnata da un aumento della pioggia. Il vento agitava sempre più violentemente i resti del velario. Una delle sezioni, strappata via, si abbatté sulla scena, nascondendo nelle sue volute una parte delle danzatrici, tra gli applausi degli astanti che sembravano per qualche misterioso motivo trovare molto divertente l'accaduto. Poi improvvisamente la terra ricominciò a tremare, questa volta con violenza inaudita. Vargo sentì sotto i piedi che tutta la struttura del teatro sobbalzava come un cavallo imbizzarrito. La scossa continuava interminabile, allargando pericolosamente la crepa al centro della gradinata. Trascinati via dai sussulti molti degli spettatori erano ruzzolati giù per i gradini, e più d'uno con grida disperate era precipitato nella crepa. Gradatamente il terremoto andava scemando, come un tuono che si perde in lontananza. Con il cuore in gola Vargo cercava di mantenersi in equilibrio. Quando cominciava a sperare che la scossa fosse passata, improvvisamente ai suoi orecchi giunse da sotto un rombo sordo, accompagnato dopo un istante da altri sempre più vicini e violenti. Colse un movimento con la coda dell'occhio. Tutta la parte del teatro alla sua destra stava abbassandosi, come il ponte di una nave che lentamente discenda negli abissi. Di scatto afferrò Khaima per un polso, tirandola verso di sé. Poi lanciò un urlo a Shanda: «Le arcate sotto la platea! Stanno crollando, fuggi via!». Vide che le due ragazze si mettevano in salvo balzando sulla parte della gradinata che ancora resisteva, mentre tutti gli ordini di gradini oltre la crepa centrale finivano di sprofondare in un inferno di polvere e di grida soffocate. Vargo balzò verso Evirah, che stava scivolando verso la frana, e la trattenne per un polso. Con uno strappo energico la mise in salvo su un blocco di pietra della scalinata che sembrava ancora stabile, poi si volse verso il Duca. L'uomo, in piedi dall'altra parte del crepaccio, lo fissava con uno sguardo inebetito, cercando di mantenersi in piedi tra le scosse. Sembrava non capire quello che stava succedendo: dopo un attimo si volse ancora verso il palcoscenico, come se cercasse con gli occhi lo spet-
tacolo che era svanito con il crollo della scena. Poi tese le braccia verso la figlia. «Devi metterti in salvo! Vieni via con me» gridò Vargo alla ragazza. Evirah sembrava ancora sconvolta per la paura. Volgeva la testa affannosamente dal giovane al padre, come se non riuscisse a decidere chi scegliere. Poi si alzò in piedi correndo verso la voragine e lanciando un grido. «Padre, salvami da quest'uomo!» Vargo era annichilito dalla sorpresa. Balzò anche lui dietro la ragazza, afferrandola appena sul bordo. «Sei pazza? Sta crollando tutto!» Cercò nel suo sguardo un ricordo della luce che gli era sembrato di scorgervi al tempo del loro amore. E per un momento qualcosa di quel tempo riaffiorò: Evirah si abbandonò tra le sue braccia, mormorando qualche parola confusa. Ma subito tornò a divincolarsi nella sua stretta, fuori di sé. «Lasciami!» gridò ancora, gelida. «Non hai fortuna con le donne, amico!» disse Khaima alle sue spalle. «Sembra che preferiscano la morte alle tue carezze! Lasciala andare e occupiamoci di noi.» Vargo continuava ostinato a trattenere la donna. Pensò con tristezza a tutto quello che aveva sacrificato per lei, agli anni di esilio, alle sue colpe. Ma scoprì di non provare il dolore che si sarebbe aspettato. Senza riflettere allargò le dita: il volto di Evirah sembrava sparire, cancellato da quello di un'altra donna. Due occhi verdi che uscivano dalle profondità del tempo, le labbra che avevano cercato in lui la forza per tornare alla vita... Poi lo sguardo gli cadde di nuovo sul volto del Duca. E qualcosa nel suo aspetto lo raggelò. Era la prima volta che osservava quell'uomo da vicino. O forse... un ricordo lontano, questa volta dai tempi della sua fanciullezza. Aveva già visto quel viso. L'immagine di un uomo a cavallo che si chinava verso di lui afferrandolo, il dolore bruciante di un colpo che lo raggiungeva alla fronte... Nella concitazione la fascia che gli nascondeva la fronte era scivolata indietro, scoprendo la cicatrice. La sentiva pulsare, come se fosse stata inferta in quell'attimo. Sopraffatto da un pensiero improvviso, dimenticò la ragazza e mosse un passo indietro, tendendo i muscoli e raccogliendo tutte le sue forze. Quindi scattò in avanti, superando d'un balzo la crepa nella gradinata e atterrando dall'altra parte, a un passo dall'uomo. «Tu!» gridò. Il Duca aveva seguito le sue mosse senza emozioni apparenti, come se fosse ancora immerso nel suo sogno. Sollevò il mento, cercando di mettere
a fuoco l'immagine del giovane che gli era comparso davanti. Il suo sguardo scorreva sulle fattezze di Vargo, poi all'improvviso gli occhi parvero fermarsi sul suo marchio. «Il Nulla...» mormorò. «Perché ritorni adesso? Perché non sei rimasto nella Stretta di Kendor, con i tuoi compagni?» Nulla. Vargo del Nulla, il soprannome che lo aveva accompagnato per tutta la sua vita. Quel nome che nella nebbia del ricordo era associato al dolore e alla distruzione delle sue origini. «Sei tu!» gridò ancora il giovane. «L'uomo che ha spento la mia famiglia! E che mi ha segnato con il suo simbolo!» seguitò, indicando il grosso anello con il sigillo del sole, che brillava all'indice dell'uomo. «Non il mio!» rispose il Duca, alzando la mano lentamente e portandola all'altezza dei propri occhi. «Non il mio, ma dell'uomo cui lo strappai prima di seppellirlo tra le rovine della sua città. Avrei fatto meglio a lasciarti là, tra le ossa al sole di quelli della tua razza! I profeti mi avevano rivelato che la rovina della mia casata sarebbe arrivata da lontano, in compagnia di un bambino cui avessi prima tolto e poi restituito la vita. Non avevo capito, allora... Ma c'è tempo per rimediare!» gridò ancora, sguainando un corto pugnale da sotto la ricca veste da cerimonia e avventandosi contro Vargo. Il giovane, in preda al turbamento e all'ira per quello che aveva sentito, non reagì con la dovuta prontezza. Il Duca gli fu addosso con il braccio levato: sentì il colpo della lama che lo raggiungeva al petto, scivolando sopra il metallo in cerca della carne viva nell'apertura sotto l'ascella. Il morso doloroso dell'acciaio lo riscosse. Balzò all'indietro, evitando che il pugnale affondasse in profondità, poi sguainò la spada, riuscendo a parare il secondo colpo che il Duca aveva portato contro la sua gola. Con una spallata ricacciò indietro l'uomo, che in preda a un furore incontenibile seguitava ad assalirlo scompostamente. Poi lo colpì con un affondo al petto, passandolo da parte a parte. Il Duca emise un grido strozzato. Afferrò la lama con entrambe le mani, nel tentativo cieco di strapparsela via dal corpo, poi la sua bocca si aprì e un fiotto violento di sangue sgorgò fuori, mescolato a parole confuse. Quindi crollò sulle ginocchia, ancora aggrappato alla spada, scivolando lentamente in terra quando il giovane ebbe ritratto la lama. Un urlo straziante di Evirah lacerò gli orecchi di Vargo. La ragazza sconvolta fissava il corpo del padre. Poi mosse un passo avanti, come se volesse raggiungerlo, incurante del crepaccio tra loro. Tese le braccia e si lasciò andare nella
voragine, sparendo con un grido straziante. Le due Sgualdrine a loro volta erano saltate oltre la fenditura, raggiungendolo. Khaima si chinò su di lui, osservando la ferita al fianco da cui stillava un rivolo di sangue. «Sei stato fortunato, come tutti gli sciocchi. Avrebbe potuto ammazzarti» disse, sputando sul corpo del Duca che giaceva ai loro piedi. Poi rapida strappò un lembo della veste, tamponando la ferita. Shanda intanto si era chinata sul corpo dell'ucciso. «Così questo appartiene a te!» disse dopo un attimo, afferrando la mano del cadavere e sfilandogli dal dito il grosso anello. Lo esaminò brevemente, poi lo tese al giovane. Vargo meccanicamente se lo portò alla mano destra, e solo quando il prezioso cerchio ebbe stretto il suo dito avvertì la sensazione netta di come l'anello gli calzasse perfettamente, quasi fosse stato forgiato per lui. Fu distratto dalla risata ironica di Khaima, che aveva terminato di fasciare la sua ferita e lo osservava beffarda. «Dunque abbiamo l'erede del Duca di Verennia. O dobbiamo chiamarti nostro Imperatore?» disse inchinandosi platealmente. Anche Shanda si unì all'omaggio, ridacchiando. Intorno erano apparsi i superstiti della compagnia e i pochi tra gli spettatori ancora vivi. Barcollando per le scosse che si succedevano, una piccola folla di uomini e donne, nani, giocolieri e ballerine nei loro incredibili costumi si stavano affollando intorno a lui, terrorizzati. Poi, come a un ordine silenzioso, tutti si gettarono a terra, prosternandosi ai suoi piedi. «Vita al nuovo Imperatore!» gridò uno dei nani, trascinando tutti gli altri nell'acclamazione. «Hai anche una corte!» disse ancora Khaima, osservando con disprezzo la massa tremante che si affollava intorno. «Allontanatevi da qui!» ordinò Vargo. «Cercate di raggiungere la via per il Meridione: è là che si stanno radunando i sopravvissuti della città. Da lì cercheremo scampo, dopo...» «Dopo cosa?» fece ancora Khaima, irata. «Dopo cosa? Non vedi che tutto è perduto?» «No! Ci sono ancora gli eredi del Popolo Ribelle, da qualche parte! Quelli che abbiamo incontrato, che si chiamano uomini, tra di loro. Dobbiamo trovarli!» La Sgualdrina alzò le spalle. 9 Il Cerchio delle Sapienze sorgeva al centro di una piazza porticata, pro-
tetta tutto intorno da una muraglia di mattoni crudi. Dello stesso fango e blocchi di pietra era costituito l'edificio, diviso al suo interno in un vasto numero di sale dedicate alle diverse arti. L'acqua aveva intriso la superficie esterna dei muri, che cominciavano a sfaldarsi fluendo a terra in rivoli di fango. La torre conica dell'Osservatorio, che si innalzava oltre il tetto, svettava nel cielo nero. A circa due terzi della sua altezza un passaggio nella muraglia permetteva di raggiungere una scala esterna di legno che portava alla sommità. Amnor oltrepassò il portico e raggiunse la soglia della sala al piano terra dell'edificio, nascondendo il viso sotto un lembo del mantello. Ma nel vasto atrio della costruzione nessuno sembrava far caso a lui. Numerosi uomini erano chini su un tavolo, sul quale erano distese grandi mappe dei cieli. Sembravano intenti in una conversazione animata: a tratti le loro voci si trasformavano in un bisbiglio, poi il tono tornava a crescere e le voci si accavallavano una sull'altra, come per un diverbio. Il vecchio si avvicinò alle loro spalle, inosservato. Quindi si schiarì la voce, attirando l'attenzione dei presenti. «Sembra che i miei antichi colleghi non siano d'accordo tra di loro. E posso sapere qual è la questione che vi anima tanto?» Qualcuno si girò, gettandogli un'occhiata distratta. Ma subito un mormorio si accese tra i primi che l'avevano riconosciuto, comunicandosi subito agli altri. «Amnor! Amnor di Mennon! Tu qui? Hai sfidato il bando dell'Imperatore? Devi essere pazzo a tornare a Menthor!» gridò uno dei presenti, che il fasto delle vesti ricamate indicava come il capo del consesso. «Tra poco l'Imperatore avrà altro da pensare» rispose freddo il vecchio, con una punta di veleno nella voce. «E Menthor stessa è forse alle sue ultime ore. Non è questo che stavate discutendo tra voi? Sotto la tua augusta guida, maestro Kortos. Il mio erede.» «Noi... noi non lo sappiamo...» rispose l'altro. «Nessuno è in grado di spiegare quello che sta avvenendo.» «Nessuno che non abbia varcato la soglia della Sala Negata. O che non sia stato nelle terre del Vuoto, e non abbia visto quello che sta arrivando nei cieli» replicò Amnor. «Tu! Tu che hai dato la Biblioteca alle fiamme! Che hai disperso il sapere di secoli!» «Io che l'ho strappato all'oblio, vorrai dire!» «Per farne il tuo tesoro personale!»
«Fatemi vedere le vostre carte» replicò Amnor con un'alzata di spalle, spostando con rudezza il Gran Maestro. Si fece spazio tra gli uomini che ancora si affollavano intorno al tavolo, poi si chinò sulla mappa stellare. Qualcuno aveva segnato una linea rossa, che tagliava la rappresentazione della volta celeste come una ferita. «Da quanto state seguendo il moto della nuova stella?» «Sono ormai sei mesi che l'abbiamo avvistata, bassa sull'orizzonte. E ogni giorno sale un po' di più sulla volta celeste, crescendo di splendore» rispose titubante il Gran Maestro. «Sì, Nester sta tornando dalle profondità remote dei cieli.» «Nester? Non esiste quella stella di malaugurio. È solo una leggenda!» rispose l'altro con uno scatto d'insofferenza. «Una leggenda che è proibito anche solo ricordare!» «Una leggenda? E allora salite con me sulla torre, e vedrete!» Il Gran Maestro esitò un istante, scambiando uno sguardo furtivo con gli altri astronomi. I suoi compagni distolsero gli occhi, imbarazzati. «Allora? O non osate mettere a confronto le vostre opinioni con ciò che si vede?» Finalmente il Gran Maestro accennò con un gesto alla rampa di scale che conduceva in cima alla torre di osservazione. Lentamente il gruppo si mise in moto, risalendo scalino dopo scalino il fianco dell'imponente costruzione. Il vertice della torre era sormontato da una cupola di legno, su cui si aprivano ampie finestre. Strumenti ottici e una grande sfera armillare occupavano quasi per intero lo stretto spazio. Gli uomini si assieparono tra gli strumenti, mentre Amnor senza attendere altro pose l'occhio a un astrolabio di bronzo che pendeva da una catena appesa al colmo della cupola. Regolò l'altezza dell'asticella, puntandola verso il corpo luminoso che sfavillava in cielo, poi eseguì dei rapidi calcoli mentali. Gli astronomi seguivano con trepidazione le sue mosse. Anche il Gran Maestro non staccava gli occhi da lui. «Guardate» disse secco Amnor dopo che ebbe regolato lo strumento. «Nessun astro conosciuto ha mai raggiunto questa declinazione. La stella è in movimento verso di noi.» «Ma non può essere Nester!» replicò ostinatamente il Gran Maestro. «Quella stella non esiste, è soltanto una leggenda!» Proprio in quel momento, quasi a voler smentire le sue parole, una forte scossa di terremoto fece ondeggiare pericolosamente la torre. Fissandosi impauriti tra loro gli astronomi cercavano di mantenersi eretti, aggrappan-
dosi agli strumenti. Amnor lanciò loro uno sguardo di sfida. «Questo è solo l'inizio!» gridò, quando le oscillazioni accennarono a calmarsi. «Nel deserto del Vuoto il Re folle, Vemerin, si è risvegliato dal suo sonno secolare, ed è in marcia verso di voi, a rivendicare il suo Impero. Io l'ho visto!» «Che cosa? Vemerin?» rispose il Gran Maestro con un singulto. «Ma che dici... Vemerin è morto. Anzi, forse non è mai esistito!» Amnor scoppiò in una risata sarcastica. Il brontolio del terremoto si andava affievolendo, ma altri suoni si avvertivano in lontananza. Schianti striduli, rombi di grandi masse metalliche in movimento. E urla di furore e gemiti, nitriti di cavalli al galoppo, latrati, ringhi. Come se tutti gli esseri viventi stessero lottando furiosi tra di loro. «Il Re è alle vostre porte, pazzi! Le sue forze innominabili sciamano per le vostre strade come un fiume in piena, e tutto sarà cancellato dalla sua ferocia! E quell'astro è il segno del suo ritorno!» «Che cosa possiamo fare?» mormorò inebetito il Gran Maestro. Anche gli altri sembravano improvvisamente aver accettato la verità di quello che Amnor stava dicendo. Paure represse per secoli nel profondo delle coscienze tornavano improvvisamente a galla, con tutto il loro corteo di terrori innominabili. «Dobbiamo avvertire l'Imperatore... organizzare una difesa...» seguitò l'uomo dopo un attimo. «Quell'imbelle che siede sul trono non è in grado di opporre nulla alla perfidia che per trenta secoli si è nutrita del consiglio delle Tenebre.» I sapienti si scambiarono una rapida occhiata. «L'Imperatore che conoscevi è stato deposto» disse dopo una breve esitazione il Gran Maestro. «Il potere è nelle mani del Duca di Verennia, il Giusto.» Amnor si abbandonò a una risata crudele. «Il Giusto! L'ho conosciuto, quando servivo a corte! Un tiranno ambizioso quanto il suo predecessore era vile!» «Non è vero!» replicò l'altro, accigliato. «Quando il Duca avrà represso le ultime sacche di resistenza al suo potere, darà vita a un regno di pace e giustizia, per gli anni a venire!» «Pace e giustizia, come quelle che regnano nelle case in fiamme che ho visto nelle strade là fuori!» esclamò Amnor, battendo con il pugno sulla borsa che gli pendeva al fianco. «Adesso capisco da dove viene la follia che sembra essersi scatenata in tutta Menthor. Invece di raccogliere le forze per respingere l'assalto, sta infierendo. E voi vorreste essere complici di questo? Ribellatevi, e ponetevi ai miei ordini, come un tempo. Porto con me una speranza.»
«No!» replicò animatamente il Gran Maestro. «La Guardia imperiale sta rastrellando la città, in cerca di chiunque si opponga agli ordini del Duca. E noi abbiamo l'ordine di abbandonare il Cerchio, e raggiungerlo a Palazzo!» «Elimineremo la Guardia, se sarà necessario.» «Ma nessuno di noi può farlo, nessuno di noi è uso alla violenza...» «Non servirà, se qualcuno di voi può avvicinarsi a quegli uomini» replicò Amnor, accennando alla borsa che gli pendeva dalla cintura. Sciolse rapido i legacci ed estrasse una manciata di foglie giallastre. «Riconoscete questa pianta? Marcon, voi che siete della Loggia degli Erboristi. Di che si tratta?» Uno degli uomini si avvicinò. Afferrò tra le dita una delle foglie e la strofinò delicatamente tra i polpastrelli. Poi avvicinò le dita alla punta della lingua, saggiandone con attenzione il sapore. Subito sputò via, con un'esclamazione di disgusto. «È agave inferna! Dove l'avete trovata? È una pianta ormai estinta sulle terre dell'Impero!» «Cresce ancora robusta, là dove gli uomini non osano avventurarsi. Ne ho colta qualche fronda nel centro del Vuoto. Con questa possiamo avvelenare le razioni di vino che vengono fornite alla guardia della Sala.» «Ma non è possibile» si fece avanti un altro dei presenti. «Il vino della Guardia viene attinto a caso dai cucinieri dai tini della riserva imperiale, proprio per evitare che qualcuno alteri le razioni destinate agli uomini della sorveglianza.» Amnor lasciò passare un istante prima di rispondere all'obiezione. «Lo immaginavo. Ma anche se il loro vino è protetto, dovranno pur bere dell'acqua. Sarà necessario avvelenare tutta la riserva delle cisterne nelle fondamenta della reggia.» «Ma così avverrà una strage! Uomini, donne innocenti. E i loro bambini. Tutto il personale della corte attinge a quella riserva per i suoi pasti quotidiani. Voi ci chiedete di trasformarci in assassini!» «Io vi chiedo di fare quello che è necessario.» Un tremore vistoso si era impadronito del Gran Maestro. Si avvicinò ad Amnor, fissandolo negli occhi, il respiro affannoso che gli mozzava la parola. «Quando foste bandito credetti che fosse per la vostra arrogante sete di sapere. O perché aveste tramato contro l'Imperatore. O perché aveste attentato ai segreti del potere. Ma adesso capisco cosa si celava dietro quella inesplicabile condanna. Siete stato allontanato dal consesso degli uomini perché avete rimosso dalla vostra anima ogni eco di umanità. Non
anteporrò la nostra salvezza alla vita degli innocenti!» «Vecchio pazzo!» gridò Amnor snudando il pugnale che portava nascosto sotto la veste. «Cieco e ignorante come la nullità che hai servito per tutti i tuoi inutili anni! Hai voluto usurpare il mio posto in questo consesso! E allora precedimi anche sulla strada della morte!» Il Gran Maestro alzò d'istinto le mani al volto, cercando di proteggersi. Ma già l'arma di Amnor era scattata, colpendolo ripetutamente. L'uomo si piegò sulle ginocchia, poi stramazzò a terra con un lamento. Amnor si chinò brevemente su di lui per accertarsi che fosse morto, quindi tornò a ergersi in tutta la sua altezza. Gli altri membri del Cerchio, costernati, avevano fatto un passo indietro e lo fissavano incerti. Amnor ripulì l'arma con un lembo del mantello, poi si rivolse agli astanti terrorizzati. «Riprendo il posto che i miei meriti e la mia dottrina mi hanno destinato. Tra voi e sopra di voi. Chi non è pronto ad accettarmi come nuovo Gran Maestro?» Un mormorio soffocato percorse gli uomini, che continuavano a scambiarsi sguardi sconcertati. Poi, uno dopo l'altro, crollarono in ginocchio, chinando il capo verso Amnor in segno di deferenza. «Amnor di Mennon, per tutta la vita abbiamo cercato la conoscenza. Ma ne abbiamo afferrato soltanto dei frammenti confusi. Se tu sei colui che è destinato a dare loro una forma, allora ti accogliamo tra noi» disse quello che sembrava il più vecchio. «Ho camminato più di voi. Ma adesso le nostre strade si incrociano. Ho bisogno di voi, e soprattutto degli strumenti del Cerchio. E ora ditemi anzitutto quello che avete osservato nella volta celeste!» Gli astronomi si scambiarono una rapida occhiata, poi uno di loro si fece avanti. «Il Maestro ci ha impedito di condurre a termine le nostre osservazioni, troncandole con il suo interdetto. Avete sentito anche voi... Egli negava la leggenda di Nester... affermò che cercare nei cieli la sua conferma era soltanto un atto di arroganza e di blasfemia...» Amnor si volse sprezzante a contemplare il corpo dell'ucciso. «Due volte ha meritato la morte. Per la sua pavidità e per aver tradito il motto del Cerchio, che pure aveva giurato di rispettare: Tutto Conoscere! Ma voi, che cosa avevate visto?» «Il mio nome è Milon» disse di nuovo quello che aveva parlato. «Sono io che per primo recai la notizia del nuovo astro. E non solo di quello. I cieli sembrano di nuovo gravidi, come al tempo dei primi dei.» «Che volete dire?»
«Ho seguito il tragitto di Nester verso di noi, sin da quando i miei occhi riconobbero la sua fiammella nelle profondità del cielo notturno. La stella è cresciuta notte dopo notte, aprendosi una via a forza tra i corpi celesti, mentre la sua luce guadagnava in potenza. Mesi or sono essa ha sfiorato Thur, la stella gigante che con il suo bagliore giallo segna il confine dell'universo. E dal fianco di quella è scaturita una fiamma incandescente, che si è mossa verso di noi.» «Thur ha partorito un nuovo corpo celeste?» «Sì! Fiammeggiando ha scalzato dalla sua casa il pianeta rosso. Il quale adesso si trova nel quadrante più vicino, dove mai i suoi cicli lo avevano portato! E il figlio di Thur è scivolato per breve tempo al suo posto, ma la sua corsa continua ancora verso il Sole!» «E la Luna? La sua orbita?» Milon si guardò intorno inquieto, come se cercasse il conforto dei suoi confratelli. «Anche il moto della Luna sembra alterato: negli ultimi sette giorni ho misurato la sua alba e il suo tramonto, e ogni volta ho letto nell'astrolabio il suo frenetico affrettarsi, come se la stella bianca volesse accorciare il ritmo delle sue circonvoluzioni. Il cielo ci sta franando addosso, fratello! Nester ha infranto i suoi stessi pilastri!» Un mormorio spaventato percorse tutti i confratelli. Amnor si curvò di nuovo sul grande astrolabio e tornò a guardare il bagliore di Nester, poi spostò il pesante cerchio di bronzo, orientandolo verso i punti indicati dall'astronomo. Mosse a lungo con accuratezza l'alidada dello strumento, cercando gli allineamenti, poi staccò l'occhio dall'asta e tornò a fissare i presenti, senza dire nulla. Dopo un lungo istante ruppe il silenzio. «Le vostre osservazioni sono giuste, e a poco è valso il desiderio del Maestro di soffocarle. Sembra che i cieli stiano mutando forma, sopra le nostre teste. Non è la prima volta, e non sarà l'ultima. È questo che ho appreso nella Sala Negata: la nostra generazione è solo l'ultima di una miriade che si sono succedute da quando gli dei cominciarono a dar forma alle cose.» Si interruppe di nuovo, poi riprese, dopo una risata amara. «Non sembrano mai contenti delle loro creazioni, ma continuano a giocare con esse, come bambini con i loro cuccioli.» «Gli dei di Khoran?» trovò il coraggio di replicare uno dei presenti. «Li immaginate come stolti fanciulli, che giocano con i nostri destini? Ma come è possibile?» «Perché gli dei sono crudeli. E anche il nostro peggiore abominio è nulla
in confronto alla loro perversione. Perché esso è figlio della nostra debolezza, mentre quella nasce dalla loro infinita potenza, volta solo a gioco e scherno degli uomini.» «Voi bestemmiate!» «Forse solo tra qualche ora avrete la prova di quello che dico. Dalle sabbie del Vuoto è sceso verso di noi il più terribile degli assalti. E i vostri dei attendono che i fati si compiano, pronti a gioire con il vincitore. Io rinnego gli dei!» I membri del Cerchio erano arretrati istintivamente di un passo, come se da Amnor emanasse un fluido maligno da cui temessero di essere contaminati. Il vecchio puntò l'indice contro di loro. «Vemerin è alle porte. Avete visto i segni che lo annunciano.» Un mormorio soffocato fece seguito alle sue parole. «Vemerin è morto, trenta secoli or sono...» replicò balbettando Milon, aggrappandosi a un'esile speranza. «Forse vi sbagliate, forse...» «Io l'ho visto. In tutta la sua orrenda potenza!» «E come siete sopravvissuto alla sua ira? È scritto che il Re cancellerà tutto sulla sua strada...» Amnor non rispose subito. Fissava nel vuoto, come se cercasse una risposta dentro di sé. «Non ho visto tutto» mormorò poi, enigmatico. «Ma sono qui per un altro motivo. Nel Vuoto ho trovato i piani delle sue macchine» esclamò, spazzando via con un gesto secco i fantasmi della sua mente. Estrasse dei fogli ripiegati dalla sua sacca, e li tese verso gli astanti. «Si facciano avanti i maestri di meccanica.» Dal gruppo emerse una mezza dozzina di uomini, che si avvicinarono incuriositi. Amnor distese sotto i loro occhi i disegni. «Ecco cosa si cela sotto le corazze fucinate di questi mostri.» Aveva preso a seguire con il dito le linee del disegno, soffermandosi di tratto in tratto a illustrare i punti essenziali del progetto. «Qui... la forza del vapore bollente viene costretta contro questi cilindri mobili... Sono essi a imprimere il moto alle grandi ruote che trascinano il mostro nella loro rivoluzione. E guardate qui... Ecco come il suo procedere è governato attraverso le valvole che dosano il vapore a ciascuna delle sue zampe.» I meccanici seguivano affascinati le spiegazioni di Amnor, dapprima sbigottiti, poi sempre più attenti. Quindi presero a scambiarsi le prime osservazioni tra di loro. «Non avevamo mai pensato a nulla di simile...» esclamò uno dei più anziani. «Qualche anno fa un confratello ci disse che nell'Esarcato qualcuno
aveva costruito una teca di bronzo saldato, in cui contenere il vapore per muovere le pale di un mulino. Ma l'acqua ribollente ne aveva squarciato le pareti, distruggendola. Come è possibile...» «Qui. Ecco la prova del genio dei meccanici del Re. Vedete questi tubi, e le molle che dentro contrastano la spinta del vapore?» L'uomo si chinò sul punto indicato. Osservava con attenzione, carezzandosi nervoso la barba. Poi i suoi occhi si illuminarono. «Certo! Ecco come viene regolato...» Amnor gli allungò soddisfatto il disegno. «Sareste in grado, con i vostri fucinatori, di realizzare qualcosa di simile? Entro poche ore?» Gli occhi dell'altro brillavano di entusiasmo. Una passione improvvisa sembrava essersi risvegliata dentro di lui. Ma subito un'ombra di mestizia tornò a oscurare la sua fronte. «Se l'insensatezza dell'Imperatore non avesse disperso i migliori tra i nostri artigiani ai quattro angoli dell'Impero a realizzare statue e monumenti alla sua potenza, forse sarebbe stato possibile. Ma così...» rispose allargando le braccia. Amnor batté in terra il piede, in preda al furore. «E voi lo avete consentito! Vi siete piegati per viltà al suo volere! La vostra vigliaccheria ci perde tutti! Se avessimo potuto costruire anche noi una schiera di questi mostri, forse avremmo potuto ancora fermare l'avanzata del Re. Maledetti, voi e tutta la vostra stirpe!» Amnor strappò il disegno dalle mani dell'uomo e lo accartocciò furente, per poi scagliarlo al suolo. «Vi ho portato una speranza di salvezza, con la mia scienza! Ma meglio avrei fatto a dividerla con i serpenti e i topi del deserto!» I membri del Cerchio se ne stavano a occhi bassi, umiliati. «I mastri vetrai!» gridò all'improvviso Amnor. «Anche quelli avete disperso insensatamente?» «No, Maestro» si fece avanti timidamente un altro. «I laboratori sono ancora qui a Menthor. Impegnati nella fusione di gemme e cristalli per il tesoro dell'Imperatore.» Amnor tirò un sospiro. «Almeno in questo la futile vanagloria di quell'imbelle ci consente di operare. Ho bisogno di specchi.» Di nuovo gli astanti si scambiarono uno sguardo incerto. «Specchi. E ho bisogno di maestri vetrai. Chi è la guida del Cerchio, per l'ottica?» «Io, Maestro. Gundar di Verennia. Che posso fare con la mia umile dottrina?» «Andiamo nelle vostre fucine, senza perdere tempo. Farò prima a spie-
garvelo se avremo davanti gli strumenti delle fusioni.» Il mastro vetraio si mosse, incalzato da Amnor. Scesero per lunghe scale che conducevano nei sotterranei, fino a una vasta sala dalla bassa volta dove rosseggiavano le fiamme violente delle fornaci. Dentro le loro bocche grandi crogiuoli ribollivano di vetro in fusione, di tutti i colori. Sui banconi una massa di gemme di vetro risplendeva tra le mani di numerosi apprendisti intenti a lucidarle e legarle tra loro in collane e diademi. Davanti ai forni uomini più anziani erano intenti a rimestare la pasta vitrea con lunghe canne di bronzo, che estraevano di tanto in tanto soffiando nuovi globi multicolori. Amnor si accostò a uno dei tavoli, allontanando gli addetti e spazzando via a manate i gioielli, tra lo sconcerto dei presenti. Quando ebbe liberato il tavolo vi depose sopra la propria borsa e ne estrasse un piccolo involto di tela. «Gundar, guardate con attenzione!» disse, svolgendo la tela e lasciandone cadere il contenuto. Gundar si avvicinò curioso, per poi ritrarsi subito inorridito. Un grande occhio violaceo rimbalzò sul piano, ancora unito ai resti del lungo nervo ottico. «Che cos'è...» balbettò il vetraio. «È l'organo della vista di uno degli esseri dell'Orda che sta per scagliarsi contro di noi. Quei mostri ne possiedono quattro ciascuno, e la loro visione scaturisce dalla perfetta fusione nel loro cervello dell'immagine percepita da ognuno di essi.» Il vetraio continuava a mantenersi a una certa distanza, la mano sulla bocca. Amnor lo afferrò rudemente per la spalla, costringendolo ad avvicinarsi. «Sono esseri dotati di una forza e di una ferocia spaventose. L'unica possibilità di combatterli è ingannarli. E forse proprio questo organo straordinario è il loro punto debole. Se riuscissimo a costruire una superficie capace di alterare la visione degli ibridi con i suoi riflessi, di certo la loro mente bestiale non riuscirebbe a vincere l'inganno.» Il vetraio sembrava adesso aver superato il disgusto del primo momento. Allungò la mano timidamente, poi con uno sforzo deciso afferrò l'occhio stringendo i denti. Sembrava tornato nel suo ruolo di scienziato. «Sì... capisco...» mormorò. «Il cristallino è fortemente convesso, e l'immagine della realtà che percepisce è particolarmente alterata...» «È così. E i quattro occhi devono agire in armonia. Se le vittime del mostro venissero in qualche modo schermate da qualcosa che lo inganni sulla
loro forma reale, questo gli darebbe quell'attimo di smarrimento che ci consentirebbe di colpirlo.» «State pensando a una specie di scudo?» «Sì, coperto da specchi convessi. Sta a voi realizzarlo, calcolandone la curvatura esatta, per ottenere il massimo della distorsione dell'immagine riflessa.» Il mastro vetraio annuì. Poi volse gli occhi verso i forni. «Di vetro ce n'è a sufficienza. E quanto alla foglia d'argento, possiamo fondere i lingotti che il tesoro imperiale ci aveva fornito per le montature dei gioielli.» Amnor lo afferrò per le spalle. «Non abbiamo tempo, Gundar. Dovete cominciare subito!» disse, prendendo di nuovo l'occhio e avvicinandolo al volto dell'altro. «È questo che è in arrivo. E quando sentirete il ronzio delle sue elitre, scoprirete che l'inferno con i suoi demoni non si nasconde sotto i nostri piedi.» «Quanti ne devo fabbricare?» «Il maggior numero possibile.» La taverna dei Cervi era piena di gente fino all'inverosimile. La folla di uomini e donne si accalcava intorno ai tavoli con aria disperata, cercando un po' di riposo. La costruzione in muratura le aveva finora consentito di resistere all'incendio che aveva devastato l'intero quartiere, mettendo in fuga gli abitanti. L'onda di fuoco era passata accanto alla taverna danneggiando solo in parte la copertura, ma lasciandola quasi intatta. Poi la pioggia aveva spento le fiamme, e adesso rivoli d'acqua entravano dalle fessure tra i mattoni, trasformando in statue di fango coloro che giacevano sdraiati contro le pareti, in preda alla disperazione. Vargo entrò seguito dalle due Sgualdrine. Il loro ingresso non destò particolare emozione tra i presenti. Tutti sembravano troppo esausti per prestare attenzione anche a uno spettacolo che altrimenti sarebbe apparso davvero strano: la presenza in quella topaia di due donne del Cerchio e di un guerriero. Ma il disastro aveva annullato ogni distinzione sociale nell'ansia di sopravvivere. Uomini e donne con l'aspetto e gli abiti della nobiltà giacevano distesi insieme ai loro bambini ben curati accanto a popolani coperti di stracci, servi e schiavi seminudi che in circostanze normali non avrebbero nemmeno osato accostarsi a loro. Il giovane si fece largo tra la massa dei corpi, cercando di raggiungere il centro della sala. Intanto si guardava intorno, in cerca di qualche segno della presenza del Popolo. I volti dei fuggiaschi scorrevano davanti ai suoi
occhi come una massa indifferenziata, disperante. «Non troveremo mai nessuno qui dentro» sentì dire alle sue spalle Khaima. «Anche se c'è mai stato qualcuno di quelli che cerchi, adesso sarà morto o fuggito chissà dove!» Vargo si passò la mano sulla fronte, respirando profondamente per vincere lo sconforto che si stava impadronendo di lui. Ancora una volta sembrava che il destino si accanisse contro di loro. «Troppo tardi...» si lasciò sfuggire, sconfortato. A un tratto sentì la mano di Shanda che lo afferrava per un braccio, attirando la sua attenzione. «Aspetta, guarda quella!» Il giovane volse la testa verso il punto indicato. Accanto al grande camino sul fondo, seminascosta da un gruppo di disperati che cercavano di attingere con le mani qualcosa dal paiolo per sfamarsi, intravide la sagoma di una giovane che si sforzava con un ramaiolo di distribuire del cibo a una selva di bambini urlanti. Vargo mosse un passo verso di lei. C'era qualcosa, nel comportamento della ragazza, che colpiva l'attenzione. A differenza di tutti gli altri, che apparivano piegati sotto i colpi della sorte, e totalmente persi nello sforzo di salvare se stessi, lei sembrava distaccata da quello che la circondava, immersa in una strana serenità che si traduceva nei gesti composti e misurati. La riconobbe subito. Adesso che non indossava più la corazza di maglia di ferro appariva anche più alta, dal corpo snello e armonioso sotto la semplice veste di lana bianca, i capelli di fuoco raccolti sulle spalle in due lunghe trecce che scendevano fin sotto la vita. Mentre era intenta nella sua opera, alzò di colpo gli occhi, fissandoli in quelli del giovane. Un lampo grigio segnalò che anche lei l'aveva riconosciuto. Il cuore gli dette un tuffo. Vargo scattò in avanti, incurante dei corpi distesi in terra, fino a raggiungerla. «Tu... sei qui» mormorò il giovane, quando le fu davanti. La ragazza esitò un attimo. Di nuovo pareva colpita da qualcosa, nell'aspetto di Vargo. Ma non sembrava impaurita, né intimidita. Piuttosto sorpresa. Poi il suo bel volto si distese in un'espressione amichevole. Lanciò un rapido sguardo alle Sgualdrine che si erano avvicinate anche loro, ma poi tornò subito a fissare Vargo. «Sono Kundra, figlia di Ogan. Lavoro nella taverna. Avete fame?» rispose, accennando con la mano dalle lunghe dita al paiolo. Vargo scosse la testa. «Cercate da bere?»
«Cerchiamo qualcuno.» «Qualcuno?» «I tuoi occhi. Il loro colore. Gli uomini che portano su di sé questo segno» disse estraendo il medaglione e mostrandoglielo. La giovane tornò a fissarlo. Sembrava cercare qualcosa nel suo volto. «È un simbolo. Il simbolo di un'antica razza» mormorò. Aveva allungato la mano. Vargo sentì che le sue dita lo sfioravano con delicatezza, come una cieca che volesse accertarsi della verità di quello che i suoi sensi intuivano. «Ci sono molti altri uomini come te? Come quelli della battaglia?» la incalzò il giovane. «Devo trovarli!» «Perché?» mormorò lei. «Forse sanno qualcosa che può ancora salvarci!» La giovane esitò. Poi sorrise mesta. «Niente può più salvarci. Non vedi?» disse, additando la folla intorno. Solo allora Vargo realizzò che la sua pacatezza non era altro che un modo di esprimere una profonda disperazione. Anche le Sgualdrine dovevano averlo notato. Shanda la strinse alla spalla, con un moto d'affetto. «Non tutto è perduto. Se sai dove stanno, portaci da loro!» La ragazza annuì. Sembrava rincuorata dalla fiducia della Sgualdrina. «Seguitemi» disse a bassa voce. «C'è un'altra uscita sul retro.» I tre si avviarono dietro di lei, sgattaiolando fuori, mentre alle loro spalle i bambini si gettavano sui resti del cibo, contendendoselo ferocemente, senza esclusione di colpi. Si ritrovarono nella strada ingombra di macerie, nell'aria ancora appestata dal forte odore di bruciato che pervadeva tutto. «Di qui» disse la giovane, indicando un punto verso la parte bassa della città. «Vi porterò al nostro tempio.» Intanto, con uno scoppio di tuono fragoroso, era tornata a cadere la pioggia di fango. Khaima alzò gli occhi al cielo, gettandosi con un gesto di stizza il cappuccio sulla testa. «Gli dei ci odiano proprio. Questa maledetta pioggia è cessata solo il tempo necessario per consentire all'incendio di devastare mezza città. Adesso speriamo almeno che duri tanto da spegnere almeno il fronte del fuoco che avanza dall'altra parte!» Vargo guardava anche lui la massa di nubi scure. «Non credo che stavolta cesserà tanto presto» si limitò a dire, mentre avanzava tra i resti di travi ancora fumanti, su cui le grosse gocce si spegnevano sfrigolando. Intanto cercava di non perdere il contatto con la ragazza, che correva avanti nel
buio scivolando via come una gatta. A un tratto il silenzio fu rotto da un grido, seguito da una serie di imprecazioni e di risate volgari. Da dietro un angolo di muro crollato era sbucato fuori un gruppo di uomini, tre o quattro individui coperti dai resti di divise della Guardia. Uno di loro aveva afferrato la ragazza e la spingeva verso terra, mentre un altro cercava di strapparle le vesti di dosso. Con un sussulto Vargo vide che il secondo aveva in pugno un coltello, pronto a colpire la giovane. «Morta resterai calda per un altro po'!» lo sentì sghignazzare. L'angoscia gli strinse la gola. Balzò in avanti snudando la spada, accecato dal disgusto di vedere quella vita innocente alla mercé di un branco di tagliagole. Cercava di muoversi silenzioso, in modo da giungere addosso agli assalitori di sorpresa. Intanto scrutava ansioso nell'oscurità per assicurarsi del loro numero. Gli sembrò che fossero cinque, a meno che non ve ne fosse qualcun altro ancora nascosto dietro l'angolo. Vide con la coda dell'occhio le due Sgualdrine che avevano impugnato i loro archi corti, e stavano incoccando le frecce. «Ferme, potreste colpire la ragazza!» ebbe il tempo di dire prima che il suo slancio lo portasse a ridosso degli uomini. Erano un gruppo di sbandati della Guardia, che avevano perso contatto con il loro reparto, o avevano disertato. Una luce di follia brillava nei loro occhi, mescolata a un desiderio bruciante. Quello che aveva afferrato la ragazza fu il primo ad accorgersi di loro. «Guardate, compagni. Ce ne sono altri! E altre donne!» La speranza di un bottino più grande per un momento distrasse gli uomini dalla preda che avevano già catturato. La ragazza dagli occhi di ghiaccio ne approfittò per divincolarsi, e l'uomo reagì con un attimo di ritardo. Gettò un grido furioso alla giovane, cercando inutilmente di protendersi ad afferrarla di nuovo, poi si volse verso Vargo che ormai gli era addosso. Sembrava inebetito dall'alcol e dalla lussuria. Piegò le labbra in una risata maligna, che la lama del giovane gli troncò in gola con un fendente, fracassando le vertebre del collo con uno schianto sinistro. Il suo corpo massiccio ondeggiò sulle gambe mentre la testa per la foga del colpo si ripiegava sulla schiena come il cappuccio di un mantello. Poi di schianto crollò a terra. I suoi compagni avevano assistito alla scena paralizzati dalla sorpresa. Questo dette a Vargo un istante di vantaggio, sufficiente ad allungarsi verso il basso, quasi tra le loro gambe. Poi, sorreggendosi su un braccio, saet-
tò la lama dal basso verso quello più vicino, colpendolo al ventre e aprendo appena sotto la corazza uno squarcio da cui prese a zampillare una fontana scarlatta. Con un grido anche il secondo avversario si lasciò scivolare a terra, gemendo di dolore e comprimendosi la ferita, cercando inutilmente di trattenere il sangue dall'arteria tranciata. Un fiotto di liquido rosso schizzò sul volto del giovane, che non se ne accorse nemmeno. Trascinato dal suo slancio si volse verso i restanti. I tre uomini, fuori di sé per l'alcol ingerito, sembravano del tutto incapaci di organizzare una difesa. Invece di tentare di sfruttare la superiorità numerica, in preda al panico si volsero per cercare scampo nella fuga. Vargo menò un fendente verso quello più vicino, tagliandogli di netto i tendini di entrambe le gambe. Poi, mentre l'uomo annaspava trascinandosi sui gomiti, lo finì con un colpo alla schiena, trapassandogli il cuore. Estrasse la spada mentre quello ancora si contraeva nelle convulsioni dell'agonia, poi rincorse i due ultimi superstiti, che avevano guadagnato qualche passo verso la salvezza. Raggiunse il primo da dietro, trafiggendolo con un affondo tra le scapole, quindi si avventò sul secondo. Questo aveva raggiunto un mucchio di rovine, su cui stava freneticamente tentando di arrampicarsi, scalciando con tutte le forze e lottando contro la terra e i frammenti di muro che, smossi dal suo peso, scivolavano in basso trascinandolo con loro. Vargo gli fu addosso come una belva feroce. Si protese ad afferrare una caviglia, tirandolo giù, poi gli si gettò addosso. Avvertì sotto di sé lo schianto delle costole che cedevano, quindi gli passò la lama al di là della testa, squarciandogli la gola. Solo quando sentì il liquido caldo e gorgogliante che gli bagnava le mani si abbandonò a un respiro profondo. Si rialzò, tornando barcollante verso le tre giovani, che si erano riunite alla base del mucchio di macerie. «Grondi sangue come un macellaio di Hirush» disse Khaima con una smorfia di ribrezzo. Vargo si passò una mano sulla faccia, sentendo sotto le dita l'umidore viscoso del sangue. Fino a quel momento ogni suo pensiero era stato rivolto al pericolo che correva la giovane del Popolo e alla necessità assoluta di impedire che venisse spezzato quel tenue filo che li legava alla possibilità di ritrovare quella gente. Ma bastava questo a spiegare la furia cieca che si era impossessata di lui? Fece scorrere rapido lo sguardo sui corpi di quelli che aveva massacrato, sparsi tra le macerie. Stava ancora ansimando, per lo sforzo e la concitazione. Ma dentro avvertiva una gioia maligna, mai provata prima. Si passò
di nuovo le mani sul volto. Mentre le dita toccavano le labbra d'istinto cercò con la lingua il sapore del sangue, poi con un sussulto allontanò le mani dalla bocca. In che cosa si stava trasformando? pensò Vargo orripilato, mentre tornava in possesso delle sue facoltà. La follia omicida che precedeva le armate di Vemerin aveva contagiato anche lui? Si volse verso le sue compagne, ansioso di leggere sui loro volti il giudizio per le sue azioni. Ma le Sgualdrine non sembravano particolarmente turbate da quello che avevano visto: Shanda si muoveva tra i morti colpendoli con il piede per accertarsi che fossero definitivamente fuori combattimento, mentre Khaima era curva sul loro capo, dalla cui cintura aveva appena strappato una borsa che dal tintinnio doveva contenere delle monete. Solo la giovane Kundra se ne stava immobile, osservando le loro mosse con le mani strette sul petto, come se fosse stata colta da un gelo improvviso. Sembrava intenta a contare le vittime. «... cinque...» la udì mormorare Vargo «... coperto di sangue come un leone del deserto. Ne colpirà cinque con una mano...» Poi la giovane si mosse verso di lui, prendendolo per mano. Lo attirò dolcemente verso di sé e riprese il cammino trascinandoselo dietro. «Vieni, sei tu quello che aspettiamo!» si limitò a dire. Guidati da Kundra ripresero la via verso i quartieri bassi della città. A mano a mano che scivolavano via dalla zona del Palazzo le case si facevano sempre più modeste e cadenti. Le poche costruzioni in pietra e mattoni lasciavano il posto a una selva di piccole case di legno, poco più che delle capanne. Qui dovevano essere sorte un tempo delle grandi costruzioni, risalenti al primo Impero. Resti di archi imponenti, che allora avevano condotto acque zampillanti alle fontane della città, adesso sembravano soltanto orbite prive di occhi che spuntavano all'improvviso dal nulla e terminavano altrettanto di colpo, ridotte a puntelli smisurati di capanne pericolanti. E mura, forse delle antiche terme, nelle cui vasche abbandonate si era accumulata la polvere dei secoli, riducendole a pascolo di pecore e capre. Colonne spezzate giacevano a terra o ancora spuntavano come monconi di enormi cadaveri spazzati via dall'ira degli dei. Gli intervalli tra i monumenti, che un tempo, lastricati di marmi preziosi, venivano calpestati dai nobili, erano stati riempiti dalle costruzioni fatiscenti che la fame e la miseria avevano ammassato le une sulle altre.
Ma di nuovo il tempo sembrava aver ripreso il suo corso, tornando a cancellare quelle tracce miserabili: la pioggia di meteore infuocate aveva colpito anche lì, sfondando i fragili tetti e appiccando le fiamme a quel povero legname affastellato. Nuvole di fumo ancora caldo e di cenere gravitavano nell'aria, e ancora in più punti tra le masse di pietra rosseggiavano i carboni dell'incendio, che la pioggia battente non era riuscita a spegnere completamente. «Venite» disse Kundra, facendosi strada lungo uno stretto sentiero tra le macerie che conduceva verso una delle arcate ancora in piedi. Là sotto si ergeva una costruzione di legno più grande, ancora relativamente intatta. Una parte del tetto era stata sfondata violentemente da un bolide, e le travi spezzate si erano ripiegate all'interno, ma l'arcone sovrastante era riuscito con la sua massa a proteggerla dal peggio. Anche l'incendio che ne era seguito doveva esser stato in qualche modo domato, prima che la devastasse completamente. «Lì dentro» disse ancora la ragazza, additando una piccola porta. Kundra bussò tre volte. Dopo un attimo qualcuno dall'interno aprì: sulla soglia apparve un uomo, il cui volto si rischiarò alla vista della giovane. Allargò le braccia e la strinse al petto con affetto, baciandola lungamente sulla fronte. Solo allora parve accorgersi che non era sola. Si fece improvvisamente circospetto, con una muta domanda nello sguardo. «Non temere, padre. Sono amici.» «Amici? Figlia, noi non abbiamo amici in questa città.» Vargo si fece avanti, scostando delicatamente la ragazza e fissando l'uomo negli occhi. «Forse ne avete di sconosciuti. Abbiamo percorso una lunga strada per raggiungervi.» Mentre parlava esaminava attento le fattezze dell'uomo. Nei suoi occhi chiari, nelle linee severe del volto dagli zigomi marcati e dalla fronte alta, incorniciata da ciocche grigiastre che in gioventù erano state color del grano, riconobbe con emozione gli stessi tratti che aveva trovato negli sciamani delle montagne. Anche l'uomo sembrava colpito da quello che vedeva: la sua bocca si era schiusa leggermente per la sorpresa, poi tutta la sua attenzione si era concentrata sulla figura del giovane. Come già la figlia nella taverna, sembrava cercare qualcosa in lui, come un antico ricordo. «Sei coperto di sangue, straniero» disse dopo un attimo. «Il sangue di cinque, padre...» si affrettò a dire Kundra. «Il sangue di cinque» ripeté lentamente l'uomo. «Come nelle narrazioni dei padri. Venite» disse, alzando lo sguardo sulle Sgualdrine e facendosi
da parte. Vargo entrò nella capanna. Dentro c'era soltanto uno spazio vuoto, a parte poche suppellettili e un focolare al centro. Si chiese stupito come potesse vivere quella gente. Ma l'uomo raggiunse la parete di fondo, dove c'era un basso cassone sormontato da un pagliericcio. Afferrò la sponda e trascinò il letto da parte, poi sollevò la stuoia che copriva il pavimento, rivelando il coperchio di una botola. «Presto, seguitemi. Gli altri sono già riuniti.» L'uomo sollevò lo sportello, rivelando l'inizio di una scala. «Kundra, guidali tu verso il Convegno. Io vi seguirò dopo aver nascosto di nuovo la nostra presenza.» La giovane si infilò rapida nel passaggio, seguita da Vargo. Anche le Sgualdrine, dopo una breve esitazione, cominciarono a scendere caute. La scala lunga una ventina di gradini immetteva in una galleria semicircolare, rivestita di pietra, che correva dritta davanti a loro, verso un bagliore lontano. Continuando a seguire Kundra, che camminava rapida, Vargo si guardava attorno con attenzione. La pietra che rivestiva le pareti dello scavo portava a una certa altezza i segni dell'erosione dell'acqua. Dovevano essere in uno dei canali di distribuzione dell'antico acquedotto, pensò. Continuarono a camminare ancora per almeno duecento passi. Intanto il bagliore sul fondo si faceva sempre più intenso, segno che più avanti dovevano esserci molte torce o lampade accese. Finalmente raggiunsero un arco che segnava il termine di quel tratto di collettore. Davanti a loro si spalancò un grande ambiente quadrato, il cui perimetro era circondato da una gradinata che scendeva fino al fondo di una specie di piscina. Doveva essere stata un tempo una delle cisterne connesse con l'acquedotto. Il luogo era illuminato da un gran numero di torce infisse in anelli di ferro conficcati nelle connessure tra le pietre. Sulle gradinate, silenziosi e in ordine come se stessero assistendo a un rito religioso, un centinaio di uomini e donne aspettavano in piedi, appoggiati alle loro armi. Sul fondo una tenda di un giallo violento chiudeva un'apertura, forse una nicchia o un passaggio nel muro. Vargo si arrestò, stupefatto alla vista di quel piccolo esercito silenzioso. Erano quasi tutti giovani, a parte qualche sbruffo di grigio che risaltava qua e là nella massa delle capigliature sciolte sulle spalle o trattenute in grandi trecce. Alcune coppie sedevano vicine, tenendosi per mano, ma tra tutti era percepibile un'atmosfera di solidarietà quale Vargo aveva notato talvolta in piccoli reparti della Guardia, abituati a combattere e a rischiare
la vita insieme. In tutti si riconosceva il tratto che li distingueva dagli altri abitanti di Menthor: quello sguardo luminoso, di ghiaccio. «A cosa vi preparate?» chiese Vargo. «Quello che resta dell'antico Popolo sta completando la veglia d'armi. Dopo la mezzanotte, terminato il rito propiziatorio, si compirà il destino che ci attende» rispose Ogan, pacato. Kundra si era stretta alla sua spalla. Lui allungò una mano a carezzarle la testa, mentre nei suoi occhi lampeggiava un silenzioso dolore. «Il grande ciclo è giunto al suo termine: Vemerin è tornato, e come già facemmo in passato, stanotte lo affronteremo per l'ultimo scontro. Le donne e i vecchi sono nascosti, cercheranno di raggiungere il deserto, e di lì le tombe degli avi. I vecchi hanno veduto tutto, i piccoli non avranno nulla da vedere. Ma tutti quelli che sono in grado di reggere un'arma sono qui.» «È inutile!» esclamò Vargo. «Le armate di Vemerin già dilagano dentro la città! Non c'è modo di fermarle, finché hanno alle loro spalle la potenza delle Tenebre a sostenerle! Soltanto se riuscissimo a respingerle nell'inferno da cui sono scaturite potremmo avere una speranza! Ma nessuno è in grado di farlo, neppure la figlia del Re. Riunite invece il vostro popolo, e tentate una via di scampo verso meridione, oltre le loro linee. Noi con quella piccola parte della Guardia che non è ancora preda della follia cercheremo di trattenerli il tempo necessario a coprire la vostra fuga. Non è possibile altro!» «La figlia del Re! È dunque ancora viva, come dice la leggenda?» replicò Ogan animatamente. «Lei porta il Canto su di sé, il segreto che può salvare la terra!» Vargo scosse il capo. «La sua mente è confusa: nemmeno lei ricorda più l'intonazione del rito. Ma voi, piuttosto! Siete gli eredi del Popolo Ribelle, speravamo che quel ricordo fosse sopravvissuto tra voi!» Stavolta fu Ogan a scuotere il capo con disperazione. «Soltanto il nostro primo capo conosceva il segreto del rito. E quello del tempo del ritorno delle Tenebre, e il luogo dove avrebbero ricostituito il loro regno. Egli li portò con sé nell'esilio, e li trasmise al suo erede, insieme con il sangue della nostra razza. E quello lo trasmise al figlio primogenito, e questi al successivo per le generazioni che seguirono, ogni volta legando al segreto il ricordo della sconfitta e della gloria.» Vargo rifletteva intensamente, scambiando rapide occhiate con le ragazze. Dentro di lui i frammenti dispersi della leggenda di Anharra comincia-
vano a prendere forma. Era questo allora il senso di ciò che era scritto sulla stele al Collegio degli Arcani! Ma qual era il luogo dove le Tenebre sarebbero state incoronate, e avrebbero scalzato per sempre gli dei del primo tempo, insediando sulla terra l'Era Informe? Non Anharra, visto che di lì si era mossa la loro armata. E dove, allora? «Ma cosa sono le Tenebre?» chiese di scatto il giovane. «Un caos?» «No. Non il caos. Ma una forma diversa. Le Tenebre sono il tentativo che la vita ha fatto nelle ere antiche di installarsi sulla terra. Quando gli dei giocavano con la creazione e la loro imperscrutabile fantasia dava vita a esseri incompiuti, destinati poi con il trascorrere degli eoni a lasciare il posto a nature più adatte.» «Esseri inadatti? Mostri?» «Creature. Che non si sono sviluppate in razze. Esseri unici, cui gli dei non conferirono la capacità di riprodursi, lasciandoli in una solitudine spaventosa a dominare inutilmente la terra per il solo tempo che a ciascuno di loro era stato concesso. Per poi lasciarli scivolare negli abissi, senza la promessa di alcun riscatto.» «Gli dei si resero conto di aver commesso un errore? Li scacciarono uno dopo l'altro perché pensavano che questi aborti avrebbero compromesso la bellezza e l'ordine del creato?» Ogan scosse il capo. «Non per questo. Ma perché ne ebbero paura.» Un lungo silenzio fece seguito alle sue parole. «Paura» ripeté ancora. «Si resero conto di aver chiamato alla vita forme che avrebbero messo in discussione il loro stesso dominio. E la scoperta di aver commesso un errore scatenò una disputa nel loro consesso.» Vargo tornò a meditare a capo chino. «E chi conosce oggi il segreto? Chi è l'erede?» chiese a un tratto, cercando con gli occhi in giro, tra gli astanti. «Dev'essere qui!» Ogan serrò le mascelle. «L'Imperatore è la causa della nostra rovina! Quando venti anni or sono scatenò i suoi eserciti contro i regni sul Confine, le armate di suo cugino il Duca di Verennia assalirono e distrussero la città in cui l'ultima generazione dei suoi discendenti regnava con saggezza. La bandiera del Duca sventolò sulle rovine di una città distrutta, e quella stessa insegna che tu porti sulla fronte, il sole raggiante, ricoprì i corpi della famiglia sterminata. Con lei perirono gli ultimi custodi del segreto, e tutti noi perdemmo il capo e l'ultima speranza. Da allora non facciamo che attendere questo giorno, quando renderemo omaggio ai nostri antenati nel-
la foga di un ultimo assalto, e ci ricongiungeremo con loro a testa alta, incoronati di luce.» «È solo il sangue delle vostre vene che vi incoronerà!» esclamò Khaima. «Da' retta a chi ti parla, raccogli il tuo popolo e fuggi!» Poi, come se l'avesse colta un improvviso pensiero, scoppiò in una risata amara. «È il tuo nuovo Imperatore che te lo ordina!» Ogan si volse verso di lei, senza comprendere. «Il nuovo Imperatore che me lo ordina? Che cosa vuoi dire?» Khaima rise di nuovo. «Lui! Ha appena strappato al Duca di Verennia la corona, insieme con la vita. E prima di morire il Duca ha riconosciuto in lui il figlio del signore di Mergon, il legittimo pretendente al trono! È lui che adesso impera, anche se soltanto su macerie e cadaveri!» «Il signore di Mergon! Sei tu suo figlio? Ma non è possibile: il piccolo scomparve nella caduta della città! Per anni abbiamo cercato le sue tracce, prima di convincerci della sua morte!» gridò Ogan. Sul suo volto si era accesa una improvvisa speranza, che l'uomo cercò di rigettare con un gesto brusco. Vargo afferrò la fascia che portava intorno alla fronte, strappandosela con un gesto deciso. «Non è possibile...» ripeté il vecchio stupefatto. «Eppure... quel segno dei nostri antichi che porti sul corpo... La profezia dice che l'ultimo erede nella sua gloria si rivestirà delle insegne del nemico e della pelle del leone... e si cingerà delle due corone, del Primo e dell'Ultimo Impero! Sei tu? Sei tu?» gridò di nuovo. Poi di colpo aprì le braccia e si lasciò scivolare ai piedi di Vargo, stringendo le sue ginocchia. Intanto un mormorio convulso stava percorrendo gli armati. Uomini e donne avevano abbandonato le loro posizioni per avvicinarsi, stringendosi con aria riverente attorno a Vargo. Il giovane si guardò intorno, cercando di decifrare le emozioni convulse che leggeva sui loro volti. Poi tutti insieme, quasi avessero ricevuto un ordine silenzioso, levarono in alto le spade, inneggiando al capo ritrovato. Anche Ogan aveva levato in alto le braccia e fissava la volta della cisterna mormorando qualcosa, come se cercasse nella pietra muta una conferma all'entusiasmo che era esploso intorno. «Sembra davvero che tu sia quello che questa gente aspettava» disse Khaima, osservando perplessa lo spettacolo. Poi tornò a guardare il giovane. Ogni traccia di sarcasmo sembrava sparita dal suo volto. «E allora salvaci, se è vero quello che credono! Lo crederò anch'io!»
«Portaci in battaglia, o ultimo della nostra stirpe!» esclamò Ogan, che sembrava aver terminato la sua silenziosa orazione. «E riprendi le armi che ti spettano!» Ogan si fece strada attraverso la massa dei suoi guerrieri, risalendo in fretta la gradinata fino a raggiungere una nicchia nella muraglia, chiusa da un velo su cui erano ricamate le insegne di due corone. Con un gesto drammatico strappò via il tendaggio. «Per vent'anni abbiamo conservato qui le armi di tuo padre, in attesa che tornasse qualcuno degno di indossarle!» Nella nicchia era apparso un trofeo d'armi, legato con lacci di cuoio a due lance incrociate. «Queste furono le armi del primo nostro capo. Fu grazie a queste che egli riuscì a sfuggire dalle mani del Re pazzo, guidando quello che restava del nostro Popolo alla salvezza. La leggenda dice che abbiano un potere magico contro il male: io non conosco la verità, ma sono certo che sapranno aiutarti nello scontro. E da lui giunsero fino a tuo padre. Furono tolte al suo corpo, prima che l'ira del nemico ne facesse scempio. Le sue ossa disperse ritroveranno la pace, adesso che il suo acciaio tornerà su chi è sangue del suo sangue!» Vargo si avvicinò tremando e alzò una mano a sfiorare la lama rilucente della grande spada, posta di traverso sul trofeo. Sotto le sue dita sembrava vibrare, come se la memoria degli eventi cui aveva assistito cercasse in qualche modo di salire alla superficie. Ma subito si ritrasse, in preda a un'emozione che gli mozzava il respiro. «Non ora» mormorò. «Quando affronteremo l'ultimo scontro, allora impugnerò questa spada.» Ogan lo fissò negli occhi, poi chinò il capo in silenzio. 10 Kon correva lungo l'esile linea delle giovani reclute della Guardia, lanciando le sue ultime raccomandazioni. «Ricordate, bastardi! Il solo punto debole dei dragoni è sotto il ventre, nel punto in cui le zampe si connettono con le ruote della macchina che li spinge avanti! Cercate di infilarvi sotto, e ostacolate il moto con le vostre lance. E spezzatevi la schiena se serve, infilate le vostre carcasse inutili tra gli ingranaggi!» Dietro le celate scese sui volti intuiva le espressioni contratte e i denti tremanti per la paura di quello che sarebbe accaduto tra pochi istanti.
Represse il suo istinto, che lo avrebbe spinto a insultarli per quella debolezza. Un'improvvisa commozione si era impadronita di lui, come se per la prima volta avesse scoperto la vera natura di quei giovani che resistevano alle sue spalle, le lance orientate verso la porta, le mani coperte di sudore nonostante il freddo pungente. Percepì quasi fisicamente la disperazione di quegli sguardi puntati su di lui, come aspettandosi una difesa contro l'inevitabile. E allora, per la prima volta nella sua vita, sentì gli occhi che si riempivano di lacrime. I figli che non aveva mai avuto, la debolezza e la speranza nella vita che aveva sempre disprezzato erano lì, in attesa di sparire schiacciati sotto le zampe dei mostri di Vemerin. Ragazzini che avevano a stento conosciuto le braccia di una donna e che stavano per chiudere la propria esistenza ridotti a un grumo di sangue e ossa maciullate, bruciati in una battaglia che era già persa. E che pure non fuggivano, stretti spalla contro spalla in cerca del conforto dell'amico vicino. Coperti dalle loro divise sformate, troppo grandi o troppo piccole, avanzi di un mondo che stava crollando nel fuoco e nel ghiaccio. Gli passarono davanti agli occhi i lunghi anni della sua vita di guarnigione, e gli scontri sul Confine con le bande dei ribelli. Le torture terribili inflitte ai deboli, ai disobbedienti. Ai disertori. Forse tra un istante tutte le sue vittime gli sarebbero apparse davanti, confuse nell'armata di morti del Re pazzo. E per una seconda volta nella vita si sarebbe scontrato con loro, e questa volta sarebbe stata l'ultima. Era giusto, pensò, che il cerchio della sua esistenza si chiudesse così come era cominciato, nel furore e nella morte. In fondo non aveva mai cercato altro, si sarebbe sentito un vile a rompere il patto che aveva stretto tanti anni prima con la ferocia. Ma quei ragazzi. Che senso aveva trascinarli a dividere il suo stesso destino? Tutta la sua animosità, che un istante prima lo teneva in piedi come una barra d'acciaio, sparì di colpo. Aprì la bocca, pronto a gridare al drappello di rompere le righe e cercare di mettersi in salvo, e aveva già riempito i polmoni d'aria per lanciare il nuovo ordine, quando vide che le travi di quercia della porta avevano preso a curvarsi verso l'interno, scricchiolando. Ogni incertezza scomparve di colpo, cancellata dalla reazione automatica del combattente davanti al pericolo. Come la coda di uno scorpione, ogni suo muscolo si tese e scattò. Schiantata dalla spinta possente di un dragone la porta crollò a terra in un nugolo di schegge. Nello spazio aperto si fece strada tra la polvere la
testa mostruosa della bestia, azzannando l'aria con la sua chiostra di sciabole d'acciaio. Poi con un altro schianto il mostro avanzò con il suo corpaccio di piastre inchiavardate, gettando a terra con una spallata uno dei pilastri. «Addosso!» gridò Kon, lanciandosi per primo contro il dragone. Una parte della sua mente sperava che i ragazzi non lo seguissero, evitando l'inutile strage. Invece mentre avanzava rapido verso il muso della bestia avvertì con la coda dell'occhio che dietro di lui tutto il drappello era scattato in avanti. In mezzo al rombo della macchina percepiva distintamente le grida dei giovani che si incoraggiavano l'un l'altro, mentre con le lance levate correvano addosso al nemico. Il dragone abbassò con uno stridio violento la testa verso di lui, la bocca che tornava a spalancarsi per colpire di nuovo. D'istinto Kon scartò di lato, scivolandogli sotto, mentre le sue orecchie venivano ferite dal grido di uno dei giovani, stritolato tra le zanne. «Lasciatelo entrare!» gridò. «Non può girarsi, la corte è troppo stretta e resterà incastrato! Attenti adesso alla Legione che lo segue!» I giovani della Guardia sembravano aver compreso il suo ordine. Schiacciandosi contro le mura della porta scivolavano lungo i fianchi del mostro, che continuava a martellare il terreno con possenti colpi della sua coda rostrata. Nello spazio dietro di lui era comparsa una massa di sagome che risalivano dalle macerie della porta abbattuta. «Cercate di trattenerli! E attenti alle ombre che li seguono! Sono loro i più pericolosi!» Il dragone ruggiva alle loro spalle, incastrato tra le strette pareti della strada, cercando di aprirsi un varco tra getti di vapore. Approfittando della sua momentanea impotenza Kon si gettò oltre la porta, seguito dai suoi ragazzi. Di colpo si trovò davanti uno spettacolo impressionante. Tutta la spalla della collina che saliva fino alla porta era coperta delle luci di migliaia di fiaccole, una marea fiammeggiante che saliva verso di loro urlando. Nel crepuscolo di quella notte senza fine si intravedevano le sagome dei guerrieri di Vemerin, le tribù del Vuoto arruolate sotto le sue bandiere che avanzavano cancellando il terreno con la loro moltitudine. Il sergente si fermò un attimo, cercando di arrestare lo slancio degli altri che gli si affollavano alle spalle. Pensò furiosamente a una possibile strategia, ma non c'era più nulla da tentare. Alzò la spada e la puntò verso la
massa urlante. «Uomini di Kon! Mostrate quello che valete! Corriamo all'inferno, e che tutti questi maledetti vengano con noi!» Poi gridando si gettò contro le ombre. Alle sue spalle il drappello aveva assunto la forma di un triangolo, che investì il fronte nemico con uno schianto di lame e di corazze infrante, urla e gemiti. La piccola falange penetrò nello schieramento avversario, avanzando dapprima veloce, e poi sempre più affannosamente a mano a mano che affondava nella massa degli avversari. Questi cedevano sotto la loro pressione, opponendo alle armi della Guardia la sola forza bruta della massa. Era un'azione scomposta, ma il vuoto di chi cadeva sotto i loro colpi veniva subito riempito da nuovi combattenti, una fiumana che sembrava infinita. Continuando a schiantare braccia e gambe Kon aveva guadagnato un'altra dozzina di passi. Anche se si rendeva conto che la loro era una marcia verso il nulla, continuava a incitare i suoi, aprendo la via con una gragnola di colpi. Sentiva la fatica farsi più intensa, le gambe non rispondere più come al principio dello scontro. Il corpo gli mandava segnali dolorosi dai punti in cui le armi del nemico erano riuscite a colpirlo: ma era una sensazione confusa, un malessere che lo stringeva alla gola senza un'origine precisa, quasi che le lame dei suoi avversari recassero sulle punte qualche tipo di veleno. Piroettò su se stesso per decapitare un'ombra che lo aveva assalito alle spalle, e nel girarsi ebbe il colpo d'occhio dei suoi uomini. Attaccati sui due fronti, i ragazzi si difendevano con disperazione, lasciandosi alle spalle l'intreccio sanguinoso dei corpi delle ombre e quelli dei loro compagni. Il drappello lo seguiva ancora, ma appariva dimezzato. Fra poco lo schieramento a falange si sarebbe ridotto a un'esile fila e sarebbe stata la fine. «A me!» gridò, allontanando con un calcio al ventre un nuovo assalitore, e poi affondando di punta la sua lama nel fianco di un altro che gli si era scagliato addosso con una scure brandita a due mani. «A me! Serrate in quadrato!» ripeté arrestandosi. Roteò con furia la spada, scavando un solco sanguinoso nel cerchio che si stringeva. Poi seguitò ad arare il terreno intorno, creando un'apertura nella quale si insinuò il drappello, chiudendosi intorno a lui. Le ombre continuavano a scagliarsi contro di loro, ma adesso si infrangevano sulle spade levate dei ragazzi, di nuovo spalla contro spalla. La spinta brutale delle ombre le portava a infiggersi sulle punte, senza alcuna preoccupazione per la propria salvezza personale, mentre alle spalle dei caduti la massa premeva, avida soltanto di arrivare a colpire il nemico.
I ragazzi della Guardia stavano cominciando a vacillare sotto la pressione dell'assalto. Kon vide che solo una dozzina di loro restavano in condizione di battersi. E allora sentì un urlo diabolico levarsi dalle retrovie degli assalitori. Con gli occhi sbarrati dallo stupore, così forte da vincere anche il terrore per la morte, vide montare dietro le prime file degli attaccanti una massa confusa. Come uno sterminato branco di bestie selvagge che si gonfiava contro la piccola isola della loro resistenza, questa nuova massa avanzava schiacciando i propri compagni, scavalcandoli e innalzandosi sulla collina come un'ondata di marea. Anche i ragazzi assistevano al fenomeno, tremanti. Tutta l'energia che li aveva sostenuti fino a quel momento sembrava sparita, spazzata via da quella marea montante. «Non cedete...» ebbe appena il tempo di urlare Kon, prima che il grido gli si strozzasse in gola. Un mare di spade, alto più di una decina di braccia, li raggiunse con il rombo di migliaia di piedi ferrati che spazzavano via tutto dalla loro strada, torreggiando sopra le loro teste. La Legione di Vemerin, la sua armata di vivi e morti si stava avventando su di loro. Poi con un solo grido disumano la selva di corpi li sommerse in un caos di grida e di schianti. Kon sentì un peso enorme che lo trascinava a terra, come se un'intera muraglia di pietra gli fosse precipitata addosso. Si afferrò alla spada puntata a terra, cercando di resistere alla spinta, ma le ginocchia cedettero. Con il viso schiacciato contro il terreno cercò disperatamente di respirare, ma i polmoni gli si riempirono solo di polvere. Poi un colpo terribile alla schiena gli spense ogni sensazione. Lentamente Kon riprese i sensi. Dapprima un malessere confuso, i polmoni schiacciati da un'oppressione mortale. Facendo leva sui gomiti riuscì a sollevarsi da terra, scivolando fuori da una massa di cadaveri, poi faticosamente si rimise in piedi. Sulle prime non si rese conto nemmeno di dove si trovasse. Dal cielo scendeva una pioggia battente, mista di cenere e fango, che gli scorreva sulla faccia impedendogli la vista. Si strofinò con forza le palpebre, cercando di vedere meglio. La porta sventrata della città si ergeva in lontananza: vedendola ricordò di colpo quello che era successo... Quando? Quanto tempo era passato? Ed era possibile che fosse ancora vivo? Durante l'attacco disperato era riuscito a percorrere con i suoi ragazzi solo poche centinaia di passi. I corpi del drappello della Guardia giacevano
sparsi intorno al punto dove era caduto, come fogli di un libro scompaginato, in mezzo ai cadaveri delle ombre, resti spezzati e putrefatti. Raccolse meccanicamente la spada che giaceva a un passo da lui, ancora infissa nel terreno. Ma non c'era nessuno da cui difendersi. L'Orda era passata ed era penetrata attraverso la porta, lasciando sul suo cammino solo un fiume di morti. Al di là delle mura si intravedeva il bagliore soffuso degli incendi che stavano divorando l'abitato, e si udiva un rombo più profondo. Si guardò intorno, disorientato, mentre lo sguardo gli scorreva tristemente sui suoi ragazzi massacrati. Per un momento pensò che fosse suo dovere seguirli. Si erano fidati di lui, avevano eseguito i suoi ordini fino all'ultimo. E lui era restato vivo, per un errore della sorte. Alzò la spada e la rivolse contro di sé. Stava per colpirsi al petto, quando qualcosa si risvegliò improvvisamente dentro di lui. Non era la paura: il suo corpo era così dolorante che l'idea di porre fine alla sofferenza veniva come un ospite gradito. No, era la rabbia. Doveva vendicarsi. Puntò la spada verso la porta, in direzione dell'Orda che si celava nella notte. «Maledetti! Maledetti bastardi! Pagherete quello che avete fatto! Non lo avete fatto a questi ragazzi! Lo avete fatto a me! È me che avete fatto a pezzi! Ma finché queste membra avranno un soffio di vita vi darò la caccia! La guerra del sergente Kon è solo cominciata!» Dentro la città, da qualche parte, dovevano esserci ancora gli altri. Dovevano essere vivi, lo sentiva. Quel bamboccio di Vargo, e il vecchio malvagio suo amico. La strega, con i suoi segni misteriosi, le due Sgualdrine. Erano da qualche parte, doveva trovarli. Gli unici di cui poteva fidarsi ancora. Gli unici con cui poteva dividere la sua vendetta. Tornò a scrollarsi dal viso la pioggia fangosa. Gli sembrava di aver recuperato parte delle sue forze. Barcollando mosse un passo in direzione della porta, e poi un altro. I muscoli rattrappiti rispondevano a stento. Strinse i denti, e cominciò la salita verso la porta. «Athramala... Dobbiamo raggiungerla. Torniamo alla torre del Cerchio. E poi cercheremo di ritrovare Amnor alla Loggia delle Sapienze. Muoviamoci.» Shanda strinse le labbra a quell'ordine, ma non replicò. Presero di corsa verso la parte antica della città. Attraverso la pioggia battente le strade sembravano delle gole rugginose: interi palazzi erano sul punto di disfarsi, tornando al fango dei mattoni crudi di cui erano composti. Rivoli giallastri
colavano giù dai tetti e lungo le pareti, perdendosi poi nel fiume d'acqua sporca che ancora inondava le strade. Mentre piegavano in un sottopassaggio un intero edificio accanto a loro si accartocciò lentamente su se stesso, trasformandosi in una collinetta di fango con un rumore di stracci bagnati, tra le grida di chi vi aveva trovato un impossibile rifugio. Un torrente di acqua, terra, frammenti di travi spezzate e corpi umani irriconoscibili si sparse riempiendo la strada per diverse braccia d'altezza. «Da che parte si passa, adesso?» esclamò Shanda. «Sopra, venite» gridò Vargo, cominciando a sguazzare nel fango. Il giovane si aggrappò a una trave che spuntava dal fango e si tirò su, passando poi a stringere un nuovo appiglio. Si accorse con ribrezzo di aver afferrato un braccio umano, che pareva sporgersi dalla tomba implorando salvezza. Nella luce fioca di Nester vide diversi arti umani spuntare qua e là. «Venite» fece alle ragazze. «C'è una strada di morti che ci aiuta!» Con quell'aiuto imprevisto degli inferi riuscirono a superare l'ostacolo e a riprendere la corsa dall'altra parte, fino a raggiungere la stretta piazza dove sorgeva la torre del Cerchio. L'edificio era ancora in piedi, constatò con un sospiro di sollievo il giovane, appena svoltato l'ultimo angolo. Ma subito fu ripreso dall'angoscia: la torre era priva di qualsiasi segno di vita. Nemmeno una luce traspariva dalle numerose finestre, e i segni del terremoto sulla muraglia apparivano anche più violenti di quello che ricordava. Una crepa l'attraversava per tutta la sua altezza e un'intera sezione del tetto era rovinata a terra in un cumulo di macerie. I tre varcarono il portone spalancato e si precipitarono su per la scalinata verso la sala di riunione, dove avevano lasciato Athramala. Sui gradini di pietra erano visibili i segni dello scontro terribile che era avvenuto. Decine di corpi giacevano uno sull'altro, ancora avvinghiati nello spasimo di una lotta all'ultimo sangue. Le Sgualdrine si erano difese con la forza della disperazione con i loro archi e le loro corte spade, prima di essere sopraffatte. La rabbia della Legione le aveva fatte a pezzi. Vargo si fece strada con il cuore in gola, mentre alle sue spalle Shanda e Khaima scoppiavano in singhiozzi, riconoscendo i volti straziati delle loro compagne. Non vedeva la Signora Rossa, né Athramala. Con pochi balzi raggiunse il piano superiore. La sala appariva devastata. Molti mobili erano rovescia-
ti in terra, e i preziosi tappeti che avevano decorato le pareti erano ridotti a brandelli. Era immersa nell'oscurità, a parte un fiotto di luce stellare che entrava dalla grande bifora. Anche qui corpi martoriati degli attaccanti e delle ragazze, ma nessuna traccia delle due donne. Vargo fu preso dalla disperazione. Si maledisse per aver lasciato la figlia del Re. Dove poteva essere adesso? La Legione doveva averla catturata: la loro unica arma contro le Tenebre era perduta. «La figlia del Re... è tornata accanto al padre...» mormorò. «Quella maledetta strega!» gridò dietro di lui Khaima, con gli occhi ancora pieni di lacrime. «È per colpa sua che è accaduto tutto questo! Che vada all'inferno, e tu con lei! Sei tu la causa della nostra rovina!» urlò ancora, precipitandosi sul giovane e tempestandolo di pugni. Vargo si liberò di lei, afferrandola con delicatezza ai polsi. Anche Shanda si era avvicinata, e cercava di calmare la compagna. «Non è colpa di nessuno, sorella. Abbiamo svegliato il demone, ad Anharra. E adesso dobbiamo fare tutta la strada insieme con lui!» Il giovane si volse a fissare la ragazza. Sì, in quelle poche parole c'era il suono della verità. Anche Khaima sembrava averlo compreso. La vide calmarsi di colpo. «Bene, adesso che facciamo?» disse, asciugandosi gli occhi con un gesto deciso. «Dobbiamo raggiungere Amnor» rispose Vargo. «Forse ha trovato qualcosa, con i suoi sapienti, che potrà servirci.» Si passò una mano sulla fronte. «E poi cercheremo di ritrovare Athramala.» «L'osservatorio. È là che il vecchio ha detto che sarebbe andato. La cittadella delle Sapienze» disse Shanda. «Ah, la conosciamo bene!» ghignò Khaima, che sembrava tornata del suo solito umore. «Un mucchio di ipocriti cadenti, sempre in cerca di piaceri. E non parlo di quelli dello spirito: la Regina Rossa aveva un bel po' di clienti tra di loro! A quest'ora saranno già tutti carne per i vermi!» «È un luogo fortificato, cinto da un'alta muraglia. Forse non è stato ancora espugnato dall'armata di Vemerin. Ma dobbiamo affrettarci. Cercheremo di passare tra le linee nemiche. Se la fortuna è dalla nostra parte...» «No, conosco io una via più sicura!» lo fermò Khaima. «Quella che percorrevano le sorelle per raggiungerli, senza dare nell'occhio. Venite!» Scesero di nuovo in strada. A pochi passi dalla torre sorgeva la prima di un gruppo di umili costruzioni, addossate le une alle altre. Anche queste erano state abbandonate dagli abitanti in fuga. Attraverso la porta spalan-
cata Khaima li guidò nell'interno, e poi attraverso una stretta scala fino a un'apertura che dava sul tetto. Si ritrovarono su una terrazza spoglia, dove la pioggia di meteore aveva scavato più di una voragine. Khaima si avvicinò al bordo e balzò agilmente sul tetto della casa attigua, continuando a procedere in direzione della città alta. In lontananza la torre dell'osservatorio svettava contro il cielo nero, mentre tutto intorno l'intera città risuonava del frastuono degli scontri. «Seguitemi!» ripeté la ragazza, muovendo verso l'abitazione successiva. Saltava come un gatto, voltandosi di continuo per assicurarsi che gli altri la imitassero. A mano a mano che procedevano verso la loro meta, a tratti il loro cammino li portava dove il fragore era più violento. Erano appena balzati su una nuova terrazza quando Vargo sentì tutta la costruzione oscillare, mentre un tremendo ruggito saliva dal vicolo sotto di loro. Si sporse cautamente oltre il bordo per osservare meglio: in basso uno dei dragoni stava avanzando nella loro stessa direzione, aprendosi a forza la strada con possenti spallate contro le pareti di fango che lo ostacolavano. Una massa urlante di uomini in armi lo seguiva, impaziente che la macchina aprisse loro il cammino verso nuove stragi. Si gettò in avanti, trascinando con sé Shanda che si era attardata a riprendere fiato, e con una serie di balzi frenetici riuscì a guadagnare il tetto successivo, appena un attimo prima che tutto l'edificio cominciasse a franare. Una valanga di detriti precipitò in basso, sbarrando la strada. Sentiva i ruggiti del dragone che cercava di liberarsi, in una nuvola di vapore. Ma ogni sforzo della macchina non faceva che aumentare l'intensità dei crolli nella stretta strada. Vargo tirò un sospiro di sollievo: questo avrebbe dato loro qualche istante di vantaggio, forse il tempo necessario per raggiungere Amnor prima che fosse troppo tardi. Continuarono nella corsa, sempre guidati da Khaima che si orientava con sicurezza lungo quel tortuoso percorso attraverso le terrazze pericolanti. Poi la ragazza infilò rapida una rampa in discesa e sbucarono dietro uno dei pilastri del portico delle Sapienze, a ridosso del portale nella muraglia di cinta. Il varco era stato bloccato alla meglio rovesciandogli davanti un carro carico di tronchi d'albero e ammucchiandovi sopra mobili e suppellettili alla rinfusa. Oltre la barriera si intravedevano delle sagome, che si agitavano inquiete. «Eccovi, finalmente!» esclamò Amnor facendosi strada attraverso la bar-
ricata. «Cominciavo a temere che non vi avrei rivisto!» «Vecchio, ci vedrai fino al tuo ultimo respiro!» fece Khaima sprezzante, saltando uno dei tronchi disposti di traverso alla porta. «Ti abbiamo portato il nuovo Imperatore! E tu hai qualcosa per noi?» «Se avessi avuto più tempo, avrei potuto realizzare anche qualcuna delle macchine che costituiscono la forza di Vemerin. Ma il mio tempo comunque non è stato speso invano. Venite!» Li condusse nella fucina dei vetri. Appoggiato alla parete c'era un piccolo gruppo di oggetti oblunghi, che scintillavano debolmente alla luce delle torce. Vargo ne prese uno in mano, esaminandolo. Sembrava uno scudo, lungo poco più di tre piedi, realizzato con un intreccio di vimini. Non sembrava certo poter assicurare una particolare protezione ai colpi. Il vecchio anticipò le sue perplessità. «Non serve a quello che credi. Guarda la superficie esterna.» Vargo rovesciò l'oggetto. Era coperto da una serie di cristalli e specchi di forma lenticolare, che riflettevano la sua immagine scomponendola in frammenti deformati. Alzò gli occhi sul vecchio. «E questo serve...» «Disorienterà gli ibridi, alterando la loro visione. Al riparo di questi scudi dovremmo evitare di essere colpiti dall'alto. Se fosse stato possibile fabbricarne un gran numero, avremmo potuto proteggere tutti gli uomini da quell'incubo, privando Vemerin della sua arma più forte. Purtroppo abbiamo solo quelli che vedi» disse, indicando gli scudi ammucchiati contro la parete. «Forse tre dozzine...» meditò Vargo. «Appena sufficienti per noi e per pochi altri... e Kon, se è ancora vivo» aggiunse, passandosi la mano sulla fronte. «Appena un pugno di uomini, contro l'intera armata di Vemerin. E sua figlia.» «La figlia! Dov'è?» chiese animatamente Amnor. «È con lui» rispose il giovane. Mentre rapidamente metteva al corrente il vecchio di ciò che era accaduto, vide il suo volto farsi sempre più scuro. «Siamo perduti» lo sentì mormorare alla fine. «No! Gli eredi del Popolo Ribelle sono ancora in vita! Possiamo unirci a loro e continuare a combatterlo, il rito non è compiuto! Possiamo ancora fermarlo!» «Il Popolo Ribelle? Esiste ancora?» esclamò Amnor, rianimandosi. «E dov'è?»
«Ci attendono al loro tempio.» «E allora andiamo!» Dietro le spalle del vecchio si andavano ammassando timorosi gli altri saggi del Cerchio. «E noi che faremo, Maestro?» chiese uno di loro. Amnor si volse sprezzante. «Armatevi. E vendete cara la vita. Adesso avete l'occasione per rendervi utili agli uomini, dopo aver servito solo i tiranni.» 11 I quattro si infilarono nello stretto vicolo, verso la costruzione che si intravedeva al termine della salita. Ormai dovevano essere quasi al muro di cinta; ancora uno sforzo e avrebbero raggiunto la muraglia. Quella era la zona dei mulini, e se Vargo ricordava bene in quel punto avrebbe dovuto esserci una porta riservata all'accesso delle granaglie. Un piccolo passaggio incassato nelle mura, che forse era sfuggito agli assalitori. L'affanno della corsa nell'acqua gelida cominciava a mozzargli il respiro. Anche la mano di Shanda, stretta nella sua, cominciava a offrire sempre più resistenza, come se le sue forze si stessero esaurendo. Si voltò verso di lei: il suo volto era pallidissimo, e tutto il corpo era squassato da brividi, gli occhi accesi. Sembrava sul punto di svenire, vinta dal freddo sempre più intenso. Facendo appello a tutte le sue forze il giovane se la issò in spalla e riprese affannosamente a sguazzare. Sentì il corpo della ragazza che si rilassava con un gemito, come se le ultime forze l'avessero abbandonata. Dietro di lui Khaima continuava a saettare gli inseguitori, cercando di tenerli a distanza. Ma le ombre non parevano per nulla intimidite dai vuoti che i dardi aprivano nelle loro fila. Appena uno di loro si abbatteva al suolo, quelli dietro lo travolgevano calpestandolo e riprendevano la corsa. «Sto per terminare le frecce!» esclamò Khaima, allungando la mano verso la faretra dietro le spalle e sentendo tra le dita le penne di appena un mucchietto di dardi. Ne scoccò uno, poi riprese a correre. «Sono quasi a secco. Speriamo di trovarne sulla strada. Ma questi dannati uomini non tirano con l'arco, sarà difficile!» Intanto Vargo era arrivato al muro. Si guardò intorno, in cerca del passaggio. A un centinaio di passi si distingueva ancora la forma dell'arco della porta: ma la torre che un tempo si ergeva a protezione era rovinata su
se stessa, colpita dalle catapulte degli assedianti, rendendo impraticabile il passaggio. Lo afferrò lo sconforto: la massa urlante era ormai quasi addosso a loro e li avrebbe sopraffatti se non fosse riuscito a trovare una via di scampo. Mentre si guardava intorno disperato, la sua attenzione fu attratta dal moto vorticoso delle grandi pale dei mulini allineati a ridosso del bastione. Trascinate dalla tempesta ruotavano con una rapidità vorticosa, tanto violenta da imprimere una vibrazione visibile a tutta la struttura. «Da quella parte!» gridò, facendo segno ad Amnor e alla Sgualdrina di seguirlo verso il mulino più vicino. Si assestò meglio in spalla il corpo semisvenuto di Shanda e si mosse in avanti. Ma qualcosa lo trattenne, minacciando di trascinarlo a terra. Udì un grido allarmato di Khaima. Un soldato del regno delle ombre, penetrando attraverso la barriera di frecce era riuscito a raggiungerlo, e lo aveva artigliato alla nuca con la sua mano scheletrica. Vargo ruotò su se stesso colpendolo con forza, mentre cercava di mantenere l'equilibrio. Il fendente frantumò la corazza rugginosa, schiantando la clavicola e decapitando l'aggressore. Il mucchio d'ossa si accasciò a terra, ma la mano staccata dal braccio seguitava a stringergli la nuca in una morsa dolorosa. Khaima, che nel frattempo lo aveva raggiunto, afferrò le dita contratte e le scagliò via con una smorfia di disgusto. Poi si batté con vigore una mano sulla coscia, scoppiando in una risata improvvisa. «Per gli dei, Imperatore! Pare che ci sia sempre qualcuno che cerca di abbracciarti! Comincio a essere stufa di doverti guardare le spalle...» La ragazza si interruppe di colpo, vedendo un'altra ombra che si precipitava loro addosso con la spada levata. Annaspò con le dita nella faretra, ma ritrasse subito la mano vuota, con una smorfia. Evitò con uno scarto il fendente diretto alla sua testa e gettò un urlo. Amnor si interpose, colpendo l'assalitore con il suo pugnale, spezzandone la furia. Intanto Vargo aveva raggiunto la porta del mulino: la spalancò con un calcio, poi si volse per coprire Amnor e Khaima che si gettavano attraverso l'apertura. Un attimo dopo anche lui varcò l'uscio, posando in terra Shanda e precipitandosi a sbarrare la porta. Per fortuna era fatta di solide assi, tenute insieme da chiodi di ferro ribattuti. Chi l'aveva costruita doveva essersi preoccupato di proteggere il mulino dalle incursioni dei ladri: anche la serratura era solida, e la barra di sicurezza appariva saldamente incassata nel muro. Avrebbe resistito, per un po', anche se la tempesta di colpi con cui l'Orda delle ombre aveva subito preso a tempestarla dall'esterno la scuoteva pericolosamente. Era semmai la struttura stessa dell'edificio a preoccuparlo. Di colpo sentì
il pavimento tremare sotto i suoi piedi, mentre una nuova scossa di terremoto scuoteva tutta la muraglia facendo precipitare in basso una pioggia di polvere e frammenti di mattone. La scossa si esaurì con un brontolio lontano. Ma intanto la tempesta all'esterno doveva essere aumentata di intensità. Raffiche di vento filtravano dalle fessure dell'edificio, agitando i capelli delle ragazze. Si chinò preoccupato sul corpo di Shanda. La giovane, sempre pallidissima, era in preda a un tremito continuo. Vargo si strappò dalle spalle il mantello, cercando di proteggerla alla meglio dal freddo. «Ammucchiate quello che trovate da bruciare e accendete un fuoco» ordinò ai suoi compagni. «Abbiamo bisogno di calore!» Mentre Amnor e Khaima si davano da fare per eseguire il compito, lui si guardava intorno freneticamente, cercando di elaborare un piano. Per ora erano al sicuro, ma quanto avrebbe retto la barriera sotto i colpi degli assalitori? E come avrebbero fatto a fuggire, se davano loro il tempo di aumentare di numero? Non era sicuro di come le ombre riuscissero a comunicare tra loro, o se fossero in grado di farlo. Certo nella loro tattica c'era soprattutto una ferocia istintiva, animalesca. Eppure il modo in cui avevano espugnato Menthor stava a testimoniare che c'era un disegno, dietro la loro azione. Una specie di intelligenza collettiva, simile a quella che sembrava governare gli sciami di insetti. Un'intelligenza che prima o poi si sarebbe messa all'opera contro di loro. Dall'alto scendeva un rumore frenetico di macchinari in movimento. Vargo alzò gli occhi: sulla sua testa si stendeva un tavolato, forato al centro da un passaggio circolare da cui scendeva un'asse massiccia, ricavata da un intero tronco d'albero. Al termine dell'asse un grosso ingranaggio era collegato alle macine, che ruotavano all'interno di una buca circolare scavata nel pavimento. In quel momento l'asse era in rotazione vorticosa, ma la sua stessa velocità doveva aver spezzato i denti dell'ingranaggio, perché le grandi macine giacevano immobili, coperte dai frammenti del dispositivo. La violenza del vento doveva aver impresso alla ruota a pale all'esterno una forza tale da mandare in frantumi il resto del macchinario. Amnor e Khaima raccoglievano i pezzi e si davano da fare per innescare il fuoco a colpi di acciarino. Dopo pochi istanti un filo sottile di fumo cominciò a levarsi dal mucchio di legna, e poi fiamme più vive presero a scoppiettare. Vargo trascinò delicatamente Shanda accanto al fuoco, cer-
cando di rianimarla. Il calore stava a poco a poco riportando colore nelle carni della ragazza. Vargo la lasciò alle cure degli altri due e si diresse verso una scala a pioli che saliva verso il solaio. Al piano di sopra era situato il treno di ingranaggi che raccoglieva il movimento della grande ruota a pale e lo trasmetteva all'asse centrale. Il rumore delle ruote in movimento era fortissimo e vinceva l'urlo del vento che penetrava dalle feritoie nei muri. Vargo si affacciò cautamente da una di esse, per sorvegliare quello che accadeva all'esterno. Una folla di ombre era ammucchiata contro la porta e continuava ostinata a premere sullo sbarramento. La loro spinta era talmente forte da schiacciare i corpi scheletrici sotto la pressione: quelli accanto alla porta erano ormai ridotti a mucchi di ossa spezzate, tenuti insieme soltanto da pochi lembi di pelle e tendini. Una selva di ossa infrante faceva corona all'assalto, trasformando la base del mulino in una specie di orrido cimitero a cielo aperto. Vargo riprese fiato: per ora gli sforzi dell'Orda non sembravano destinati ad avere successo. A mano a mano che altri si aggiungevano alla spinta il mucchio di ossa si faceva più spesso, aumentando paradossalmente la capacità di resistenza della porta. Forse avrebbero avuto il tempo per ritemprare un minimo le forze, prima di tentare qualcosa. Ma cosa? si chiese mordendosi le labbra. Dalla feritoia si vedeva la massa scura del muro di cinta, a poche braccia di distanza. Se solo avessero potuto raggiungerlo... Fece un rapido calcolo. Pensare di saltare fino al camminamento delle mura era impensabile. Ma se in qualche modo fossero riusciti a ridurre la distanza... Sì, era quella l'unica strada. Doveva trovare un modo. Si guardò intorno in cerca di qualcosa. Per un attimo gli venne in mente la possibilità di usare le assi del solaio per costruire una specie di ponte, ma non c'era tempo per un'opera così complessa. L'occhio gli cadde sul lungo perno della ruota a pale, che ruotava sibilando. Il movimento era tanto vorticoso che la trave stava riscaldando gli alloggiamenti di quercia che la trattenevano, e vapori e puzzo di bruciato si levavano in alto. Si chinò a osservare il punto, già annerito da un principio di carbonizzazione. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Ho fatto tanta fatica per accendere quei trucioli» disse alle sue spalle Khaima, che l'aveva raggiunto. «E sarebbe bastato salire quassù e lasciar fare al vento!»
Il giovane scosse la testa, preoccupato. «Tra poco il calore raggiungerà il livello critico, e tutta la struttura si infiammerà, trasformando il mulino in un'immensa torcia.» «Non mi va di fare da stoppino, Imperatore» rispose lei, guardandosi intorno in cerca di qualcosa per spegnere il principio d'incendio. «Fuori è un diluvio d'acqua: ci sarà pure un modo per raccoglierne un po' e raffreddare questo ordigno dannato.» Anche Vargo continuava a guardarsi intorno. «Aspetta, forse ho un'idea. Ma prima bisogna che Shanda si riprenda. Poi cercheremo di ritrovare Athramala.» Khaima rispose con una smorfia. «Ci tieni tanto alla tua strega? Forse è l'occasione buona perché se ne ritorni nelle fiamme, a incontrare quel demonio di suo padre!» «Incontrerà Vemerin, stanne certa. Ma dovremo esserci anche noi. E vivi, possibilmente» rispose Vargo, deciso. «Come vanno le cose, là sotto?» gridò poi, affacciandosi alla botola della scala. «La Sgualdrina si è ripresa» rispose Amnor, facendosi accanto alla scala. Il giovane vide che Shanda era di nuovo in piedi. Tremava ancora, ma sembrava in grado di muoversi. Fece loro cenno di salire. «Che hai in mente?» chiese Khaima. Intanto osservava l'asse della ruota, che continuava a girare vorticosamente sollevando un nugolo di scintille. «Qui sta per andare a fuoco tutto!» Shanda e Amnor li avevano raggiunti. Vargo indicò loro la muraglia, al di là della feritoia. «Dobbiamo cercare di raggiungere la cima. Non è facile, ma possiamo farcela.» «Ho paura!» strillò forte Shanda. «Nessuno può saltare fino a lì!» Invece di rispondere il giovane la strinse dolcemente tra le braccia. La ragazza continuava a tremare, ma i brividi violenti si erano trasformati in una vibrazione sottile di tutti i muscoli, quasi un mormorio del suo corpo. Stava facendo appello a tutte le sue forze. «Ce la farò. Se tu resti accanto a me» mormorò a denti stretti. Khaima li interruppe, sbuffando violentemente. «Smettila con queste smancerie, Imperatore. Allora?» Vargo si avvicinò all'asse in rotazione e impugnò la spada. Poi cominciò a menare colpi violenti nel punto in cui la ruota dentata ingranava nell'asse verticale. «Se riesco a distruggere il collegamento, il vento strapperà via la ruota esterna, trascinando con sé l'asse. Con un po' di fortuna potrebbe raggiungere il muro dall'altra parte. Poi cercheremo di camminarci sopra,
scavalcando la strada.» «Sei pazzo! Nemmeno delle scimmie ci riuscirebbero!» «Non abbiamo altra possibilità. L'asse non è che una grande trave squadrata, dobbiamo farcela» replicò il giovane, continuando a menare fendenti. Sotto i suoi colpi i denti dell'ingranaggio cominciavano a saltare. Poi con uno schianto la stessa forza della rotazione completò l'opera: con un sobbalzo l'asse si liberò della ruota dentata e cominciò a oscillare violentemente nella sua sede. «State pronti!» gridò Vargo. Attraverso la feritoia continuava seguire il moto frenetico della ruota esterna in preda al vento impetuoso della tempesta. Adesso, liberata dal peso degli ingranaggi, il suo movimento sembrava essersi fatto ancor più frenetico. Le pale di tela, molte delle quali già lacerate, passavano davanti all'apertura come grandi uccelli impazziti. Poi sembrò che una mano gigantesca avesse afferrato la ruota, tirandola via. In un nugolo di scintille l'asse corse verso il muro schiantandosi. Dall'altra parte la ruota si era prima innalzata come se volesse spiccare il volo, poi improvvisamente era tornata a scendere verso il suolo. Si abbatté sulle ombre che continuavano a premere contro la porta, aprendo un sentiero nella massa con le sue pale, e spargendo intorno frammenti di corpi e armi spezzate. La ruota compì ancora una mezza dozzina di giri, rallentando la sua velocità a mano a mano che macinava corpi, fino ad arrestarsi quasi a ridosso del muro dalla parte opposta. Vargo si sporse dalla feritoia. L'asse era rimasta fortunatamente ancora inserita per alcune spanne nella parete del mulino, e dall'altra parte quel che restava della ruota a pale distava poche braccia dalla sommità della muraglia. Sentì i muscoli contrarsi per l'eccitazione: afferrò la mano di Shanda e si incamminò sull'asse, dopo averne saggiato la stabilità con un piede. Si curvò sotto una raffica violenta, che minacciava di farlo precipitare, poi avanzò ancora, assicurandosi che Shanda lo seguisse. La giovane procedeva a occhi semichiusi, muovendosi come una sonnambula. Vargo la trasse verso di sé, sperando che non mettesse un piede in fallo, e proseguì ancora. Adesso erano giunti a metà della trave: il muro di fronte sembrava ormai a portata di mano. Ma il vento era tanto forte da ostacolare pericolosamente i loro movimenti. Vincendo un'ultima raffica il giovane balzò a ridosso della meta, trascinando con sé di forza la donna. Si aggrappò con le dita
della mano libera alle fessure tra i mattoni, nonostante il dolore delle unghie che si spezzavano, poi si voltò con le spalle al muro e afferrò Shanda alla vita, sollevandola in modo che potesse arrivare alla sommità del muro. Con un sospiro sentì che il peso della donna si faceva più leggero, a mano a mano che lei si inerpicava sul camminamento, ormai al sicuro. Una scossa violenta fece ondeggiare la trave sotto i suoi piedi. Si accorse con orrore che l'Orda nella strada stava attaccando le pale della ruota per distruggerla a colpi di spada, in modo da far precipitare l'asse. «Muovetevi!» gridò disperato agli altri due, che avevano appena iniziato ad affrontare il passaggio, ma si erano arrestati intimoriti. Di nuovo la trave scivolò di un tratto verso il basso, mentre una nuova sezione delle pale si schiantava sotto l'assalto delle ombre. Amnor era davanti alla Sgualdrina. Spiccò un balzo arrivando ai piedi di Vargo, che era pronto ad afferrarlo. Poi come un gatto puntò le mani sulle spalle del giovane e si innalzò al sicuro senza bisogno di aiuto. Khaima tentò di imitarlo ma la scossa la sorprese nell'attimo in cui il suo corpo si sbilanciava in avanti. La giovane perse l'equilibrio e scivolò verso il basso, riuscendo all'ultimo ad afferrarsi con entrambe le mani alla trave. Una lancia scagliata da sotto si conficcò nella trave a pochi passi dalla sua testa, seguita da un'altra che le sfiorò pericolosamente il fianco. Khaima penzolava indifesa dalla trave, cercando di arrampicarsi di nuovo. Qualcosa la colpì alla spalla, strappandole un urlo di dolore. Una mano perse la presa, mentre dall'alto del muro arrivava il grido di orrore della sorella. Vargo si mosse rapido verso di lei, con la trave che tornava a oscillare e di nuovo scivolava per un altro piccolo tratto verso il basso. Il giovane si gettò sulla trave, fino a sfiorare con le dita la mano della ragazza. Poi con la forza della disperazione la trasse verso di sé. La afferrò tra le braccia e corse disperatamente verso la muraglia, mentre il legno sotto i suoi piedi continuava a franare. Arrivò di nuovo al muro in pochi balzi: ma questo sembrava essere cresciuto in altezza, con il crollo dell'asse. Adesso il camminamento sembrava davvero irraggiungibile. Strinse la giovane per la vita e la scagliò letteralmente verso le braccia protese di Shanda. Poi a sua volta saltò in alto con tutte le sue forze, ma le sue dita doloranti mancarono la presa, facendolo ricadere di peso sulla trave. Già indebolita dalla rottura dei raggi, la ruota cedette definitivamente per il contraccolpo. Sentì il sostegno che gli mancava sotto i piedi, e cadde verso la strada, incontro alle lance dell'Orda in attesa. «Fuggite!» fece ap-
pena in tempo a gridare. Mentre cadeva, il suo corpo urtò violentemente contro una pala, da cui sventolava ancora un frammento di tela. Nonostante il dolore per il colpo, fu proprio questo a salvarlo. Deviando dalla verticale, il giovane evitò per un pelo la selva di lance puntate verso di lui. Ruzzolò di lato, cercando subito di risollevarsi in piedi, con la spada in pugno. Sventagliò la lama avanti a sé, respingendo i primi assalitori. Intanto cercava d'istinto una via di scampo, come una bestia braccata. Troncò un braccio che era a tiro, ma adesso l'Orda, superata la sorpresa per la sua evoluzione imprevista nel vuoto, si stava riorganizzando per finirlo. Vide un muro di lance farsi avanti compatto. Tentò di valutare con la coda dell'occhio se fosse possibile cercare scampo verso la strada, trasformata dall'acqua in un torrente impetuoso. D'istinto realizzò che se si fosse mosso da quella parte si sarebbe trovato, una volta immerso, a offrire la schiena indifesa ai loro colpi, come una rana in una pozza. Doveva restare il più possibile sul terreno ancora solido, se voleva avere una possibilità. Urla cavernose uscivano dai petti sfondati delle ombre, mentre si facevano sempre più vicine. Vargo schiantò con rabbia due lance che si erano avventate contro di lui, poi avanzò disperato affondando la lama in petti che cedevano al suo urto come fagotti di stracci. Ma la massa era insuperabile. Una lancia lo sfiorò, mordendogli dolorosamente una spalla, poi avvertì un colpo violento alla testa. L'elmo aveva resistito alla lama dell'ascia, ma era caduto a terra. A capo nudo fronteggiò ancora la massa urlante. Un nuovo colpo lo raggiunse a un ginocchio, costringendolo a piegarsi verso terra. Una fitta violenta lo scosse paralizzando i suoi movimenti. Sferrò fendenti all'impazzata, cercando di tenere lontani gli assalitori. Troncò ancora una lancia, ma altre due ombre si avventarono contro di lui. Deviò la prima punta con la mano, sentendola scivolare lungo la corazza. E aspettò l'urto dell'altra, pronto alla fine. Ma inspiegabilmente l'ombra si era arrestata, trattenendo il colpo a pochi palmi dalla sua testa. Sotto la celata rugginosa le orbite vuote dello spettro sembravano fissarlo minacciose. Ma il braccio continuava a non colpire: si limitava a puntare la lancia contro il suo viso, come se mirasse a qualcosa sulla sua fronte. «Il segno...» sentì risuonare un brontolio dal petto dell'essere. «Il segno!» ripeté ancora l'ombra, stavolta con voce tonante. «Ha il segno!»
Tutti gli spettri si erano arrestati a quelle parole. Continuavano a circondarlo con la selva delle lance, ma qualcosa sembrava averli raggelati. Restavano immobili, limitandosi a oscillare sulle gambe scheletriche. Poi uno di loro si avvicinò a osservarlo, seguito da altri. «Il segno!» sentì ancora gridare. Di scatto si portò le mani alla fronte. «Dal Re! Lo aspetta!» gridarono più voci. La massa degli spettri stava sollevando le lance in alto, come in risposta a un ordine silenzioso. Poi una mezza dozzina di braccia si protesero verso di lui, afferrandolo e costringendolo a rimettersi in piedi. Vargo si ritrovò circondato, stretto dalla massa dei corpi al punto di non poter compiere alcun movimento. Qualcuno lo stava legando a uno dei pali spezzati della ruota. Sentì bruscamente che la terra spariva sotto i suoi piedi, e si ritrovò appeso al palo a testa in giù, trascinato via dall'orda che aveva preso a muoversi rapida, sguazzando con le corazze in frantumi. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo lo trascinarono. Gli stretti legami gli procuravano un dolore continuo, a tratti gli parve di perdere i sensi. Quando si riprendeva riusciva solo a cogliere dalla sua posizione qualche particolare delle strade che stavano percorrendo. Dapprima le ombre avevano costeggiato le mura, ma poi aveva perso definitivamente l'orientamento, e non avrebbe più saputo dire dove lo stessero portando. A un certo punto cominciò a percepire la presenza di fuochi da campo, dapprima radi come bivacchi di sentinelle, e poi via via più fitti. Erano comparse anche delle tende, e uomini in armi, sempre più numerosi. Adesso lo stavano trascinando in una specie di grande corridoio tra file interminabili di tende, passando tra due ali di folla in armi, che turbinava al suo passaggio con un brontolio confuso, come un tuono che rimbalzasse da montagne lontane. Di colpo fu lasciato andare, e cadde a faccia in giù sul terreno fangoso. Muovendo per quello che gli era possibile la testa riusciva a vedere un grande padiglione, davanti al cui ingresso erano distesi tappeti multicolori. Dovevano esserci molte torce. Pozze di luce si allargavano illuminando le grandi tende svolazzanti. Il palo gli gravava sulla schiena, immobilizzandolo. Con la coda dell'occhio intravide le lance dei suoi assalitori che scendevano a terra accanto a lui. L'orda si prosternava tutt'intorno, mentre un rombo di ruote in movimento si faceva più distinto nell'urlio delle voci e del vento.
Sentiva la superficie fangosa sotto di lui tremare. Poi una ruota di metallo si arrestò vicina, e un oggetto di ferro lo urtò: riuscì a vedere le zampe di più di un cavallo che scalpitava. Dal carro era sceso qualcuno. Distinse le gambe di un uomo, cui era riservata quella riverenza, coperte da lucenti gambali di metallo dorato. L'uomo non pronunciava una parola. Vargo percepì attorno a sé solo il movimento confuso dell'orda, che si stava ritraendo silenziosa. Dopo pochi attimi lo colpì una sensazione di grande vuoto tutt'intorno. Era ancora nella sua scomoda posizione. Vide le gambe che si avvicinavano, fino a fermarsi a poche spanne dal suo viso. Un piede coperto di ferro si infilò sotto il suo petto, poi una spinta violenta lo fece ruotare a faccia in su. Adesso poteva vedere dove si trovava. Davanti al padiglione, sorretto da lunghe pertiche intrecciate tra loro, c'era un carro da battaglia, una snella biga dai fianchi di bronzo scolpiti, dai quali si protendeva una selva di lame ricurve. Altre falci spuntavano dai mozzi delle ruote, trasformandole in un tremendo strumento di morte. I quattro cavalli destinati al traino scalciavano il terreno come impazienti di riprendere la corsa. Ma subito la sua attenzione si concentrò su qualcuno chino a osservarlo: un uomo alto, ricoperto da capo a piedi da una possente corazza che riluceva alle fiamme delle innumerevoli torce che rischiaravano l'ambiente. La testa era nascosta da un elmo d'oro cesellato, che riproduceva le fattezze di un essere di straordinaria bellezza. Il volto di Vemerin, lo stesso che aveva visto nella tomba di Anharra, devastato dalle tracce del male. Nel simulacro d'oro si apriva un foro per il solo occhio destro. L'altro era sbarrato dalla palpebra chiusa, riprodotta in ogni particolare con squisita esattezza, come se l'antico maestro l'avesse direttamente fusa sul corpo stesso del Re. Con un brivido Vargo pensò a quello che si celava sotto la maschera. A come il respiro del male aveva lavorato scolpendo via da quelle nobili fattezze ogni traccia di umanità: il singolo occhio che lo scrutava attraverso l'apertura era vitreo, un cristallo sporco perso in lontananza. Vide il guanto dorato scendere verso di lui, un dito percorrere con forza la cicatrice come se volesse scavarla ancor di più nella sua carne. «Porti il segno di chi negò un giorno il mio volere» disse una voce al di là della maschera. Una voce dalla tonalità stranissima, intessuta di armonie dolci e insieme da un'eco di straordinaria malvagità. Come se esseri diversi si celassero dietro il metallo, e più di uno spirito animasse il corpo nasco-
sto dalla corazza. «Tu non sei di quelli. Eppure lo stesso loro orgoglio sopravvive in te. Ti ho visto, quando la luce è tornata nella mia mente. Sei tu che hai violato la mia tomba, ad Anharra. Sei tu che mi hai strappato l'amore di mia figlia.» Vemerin aveva pronunciato le ultime parole con un ringhio. Ogni traccia, ogni eco di umanità era adesso scomparsa. «Sei tu che hai osato rapire Athramala!» Al suono di questo nome una ventata gelida sembrò spazzare il padiglione. Il tendaggio sul fondo aveva preso ad agitarsi, come se qualcuno nascosto là dietro ne avesse afferrato i lembi per uscire. Il Re si avvicinò ancora, poi la sua mano coperta d'oro scattò, serrando Vargo alla gola. «Tu! Tu che non hai sofferto la mia attesa interminabile! Di te hanno cantato le Tenebre, quando mi hanno svelato l'avvenire. Un giovane che raccoglierà lo scettro del Popolo Ribelle, e che lo guiderà verso le terre del tramonto, in cerca di un nuovo regno. Che si batterà contro il ritorno delle Tenebre sulla terra, e che salverà la razza degli uomini dalla distruzione. Ma il male ti fermerà.» «Conosco la mia stirpe, e il mio destino» replicò Vargo. «L'ho appreso dal mio Popolo.» «Quello che non sai è che tutto questo verrà spezzato. Al santuario di Khoran, nel Pozzo delle Anime. Là dove i primi dei giocarono con la creazione, e poi rifiutarono il frutto delle loro fantasie. Ma il loro tempo è finito. Le mie armate dominano nella città di Menthor, e la distruggono secondo il mio volere. Tra poche ore muoverò su Khoran, per restaurare il mio regno nei secoli. Tu assisterai al mio trionfo, perché voglio che il destino del Popolo Ribelle si compia in te: sarà l'ultima cosa che vedrai, e nei tuoi occhi morenti sarà saldato il debito che i ribelli hanno contratto con la mia potenza. Se essi fossero ancora in vita, ne esporrei i corpi ai corvi, lungo la strada che porta ad Anharra. Aggiogatelo al mio carro!» Una massa di mani frenetiche tornò ad afferrarlo, trascinandolo verso il veicolo. Sentì la corda che lo stringeva tendersi ancor di più, mentre veniva assicurata a uno degli spuntoni della fiancata. «Andrò adesso all'ultimo concilio con le Tenebre, prima che il disegno si chiuda» sibilò il Re, volgendosi verso i suoi uomini. «E che nessuno osi accostarsi al convegno!» Percorse a grandi passi lo spazio che lo separava dal velario, poi ne afferrò un lembo con decisione, aprendosi un varco che si richiuse subito
alle sue spalle. Il tendaggio si mosse ancora. Dietro le pieghe del tessuto si intravedeva la massa di qualcosa che sembrava premere per uscire. Vargo aveva seguito le sue mosse avido: nel momento in cui la tenda si scostò cercò di scorgere cosa si celasse dietro, ma intravide solo delle forme confuse che sembravano in attesa del Re. Per un attimo una luce violenta di torce lampeggiò oltre l'apertura, poi la tenda si richiuse dietro le sue spalle. Dalla sua posizione disperata Vargo cercava una possibile via d'uscita. Ma non ne vedeva nessuna. Terrorizzati dall'ammonimento di Vemerin, gli uomini della sua guardia personale si erano ritratti a una certa distanza, verso la prima fila di tende dell'accampamento. Restavano lì, le lance impugnate dalle mani scheletriche, pronti a scatenarsi. Il tempo prese a passare, tra suoni lontani di trombe e rulli di tamburi sempre più frenetici, aumentando la sua angoscia. Sotto la pioggia che era tornata a cadere sferzante, i grandi bracieri davanti al padiglione sfrigolavano per la violenza dell'acqua. Poi a uno a uno cominciarono a spegnersi. Ormai soltanto uno di loro emanava ancora qualche sprazzo di luce. Approfittando della semioscurità Vargo prese a dimenarsi per liberarsi dalle corde che lo stringevano. Ma i nodi erano stati serrati con forza, e resistevano ai suoi tentativi. Mentre cercava ancora una volta, contraendo e poi rilasciando i muscoli, di allentare la morsa, avvertì un fruscio nel fango accanto a sé. Immediatamente si immobilizzò, sperando che chiunque fosse non si accorgesse dei suoi tentativi. Il fruscio si avvicinò ancora, poi sentì una mano che lo scuoteva. «Imperatore, aspetta che ti tiriamo fuori di qui» mormorò al suo orecchio la voce di Khaima, che era strisciata tra le ruote del carro e stava trafficando con le corde che lo trattenevano. Subito sentì sulla guancia le labbra morbide di Shanda, che lo baciavano. Tirò un profondo sospiro di sollievo. «Come avete fatto a trovarmi?» chiese sorpreso. «Alle mura, quando hai avuto la cattiva idea di cadere di sotto, in bocca a questi maledetti. Invece di scappare ti abbiamo seguito, strisciando nel camminamento, e poi alla prima torre siamo tornate giù, seguendoti fino a questo accampamento. Quelle bestie sembravano così contente di averti catturato, che nemmeno si guardavano intorno!» «Come avete fatto a penetrare nel campo di Vemerin?» chiese ancora, mentre le ragazze con pochi colpi di pugnale finivano di liberarlo.
«Te l'ho detto: sembrano tutti in preda a una specie di ebbrezza! Agitano le spade e le lance contro il cielo, come se si preparassero a un'altra battaglia! Non badano nemmeno a quello che accade sotto i loro occhi. Noi eravamo nascoste ai bordi, in attesa di un'occasione favorevole. È bastato gettarci sulle spalle qualcuno dei loro stracci, per passare inosservate. Ma dobbiamo sbrigarci, da quando hanno ripreso a squillare le trombe l'agitazione si è fatta frenetica, si preparano a partire per chissà dove. Hanno devastato tutta Menthor» aggiunse la ragazza in tono improvvisamente lugubre. «Non c'è più nessuno laggiù, come se tutti si fossero volatilizzati! Cos'altro resta da annientare?» Vargo si liberò dagli ultimi legacci tagliati. Rimase però immobile, limitandosi a muovere appena le braccia dietro la schiena per cercare di riattivare i muscoli anchilosati. «Dov'è Athramala?» chiese ansioso, invece di rispondere alla domanda della ragazza. «È al sicuro, sta' tranquillo. Nessuno tocca la strega! È tornata dal padre suo. L'abbiamo intravista, al suo fianco, mentre passava in rivista le sue orde» rispose Khaima con una smorfia sprezzante. «Non dovevamo riportarla alla vita. Bisognava bruciarla, ricacciarla nell'inferno da cui era uscita! Sono insieme, sciocco! E adesso nessuno potrà più fermarli! Regneranno sulle rovine di Menthor, dopo averle trasformate in una terra di spettri!» «Non è la città il suo obiettivo! Menthor è soltanto un miserabile ostacolo sul suo cammino. Conosco la loro meta» esclamò Vargo. «È lì che incontreremo ancora Vemerin: a Khoran.» «A Khoran? Al santuario degli dei di una volta?» «Sì. È là che le Tenebre stanno spingendo il Re pazzo, per il loro disegno. Devono completare il rito che li riconfermerà nel possesso della terra. E devono farlo nella sede degli dei che li hanno rinnegati! Ed è lì che andremo anche noi. Dov'è il Popolo Ribelle?» «Sono nascosti fuori delle mura. In attesa che tu li raggiunga. Anche Amnor è con loro. Prima di separarci da lui, al mulino, abbiamo stabilito un luogo dove rincontrarci se fossimo riuscite a liberarti.» «Bene, cerchiamo adesso di fuggire da qui» disse Vargo, osservando preoccupato il gruppo di guerrieri ammassati a pochi passi da loro. Nonostante l'oscurità, c'era un bel tratto di spazio aperto che avrebbero dovuto percorrere, prima di arrivare alle tende del campo. «Ho un'idea. Ma dobbiamo giocare il tutto per tutto. Passatemi una delle vostre frecce» disse, allungando le dita attraverso i raggi della ruota. Dopo un attimo avvertì l'asticella di legno, che la ragazza nascosta dietro di lui
gli stava passando. «Restate immobili adesso!» sussurrò il giovane, impugnando il dardo. Poi con uno scatto deciso balzò in piedi e infisse con forza la freccia nel fianco del cavallo più vicino. La bestia ferita si impennò con un nitrito di dolore, colpendo con gli zoccoli l'animale aggiogato al suo fianco. Come aveva sperato l'agitazione si trasmise immediatamente agli altri due cavalli dal lato opposto della quadriga, che scartarono anche loro in preda al terrore. Vargo si gettò di nuovo a terra, evitando di misura una delle falci delle ruote, poi tornò ad alzarsi, seguendo con un'esclamazione di gioia il buon esito del suo piano: trascinato dai cavalli imbizzarriti il carro da guerra si era scagliato contro il gruppo di guerrieri, aprendosi un varco nelle loro file in mezzo alle urla e al rumore orrendo di ossa schiantate e scatenando un caos totale. «Via adesso!» gridò il giovane, afferrando per mano Shanda e scattando verso la prima fila di tende, dalla parte opposta a quella dove il carro scatenato si era avventato. Nella confusione nessuno sembrava aver notato la loro fuga. Si infilarono di corsa tra le tele agitate dal vento e appena al riparo della vista dei loro nemici, con estrema cautela continuarono ad allontanarsi, strisciando sul terreno martellato dalla pioggia incessante. Il campo non era ormai che un acquitrino melmoso, in cui i rivoli d'acqua sospinti dal vento cominciavano a trascinare via tende e casse di legno abbandonate. Scivolando da un riparo all'altro, si muovevano cercando di non destare attenzione. Ma non era difficile: coperti di fango dalla testa ai piedi erano ormai simili alla massa inebriata di furore che si agitava tutt'intorno tra carri e montagne di rifiuti, tende lacere che sventolavano sotto la tempesta e armi fracassate, fuochi di bivacco spazzati via dalle zampe dei dragoni che si avviavano fiammeggiando da ogni giuntura. L'esercito si stava preparando alla partenza, verso una meta da cui non era previsto ritorno. Perciò abbandonavano tutto ciò che non gli era più necessario. Appena Vemerin fosse uscito dalla sua tenda si sarebbero messi in marcia. Accanto al campo scorreva un torrente, ingrossato dalla pioggia. Vargo e le ragazze vi si immersero, incuranti della violenza delle acque. Celati tra i tronchi lo discesero trasportati dalla corrente fino a portarsi fuori vista, poi riemersero finalmente in salvo.
Adesso alla pioggia di fango si era sostituita una grandine violenta. Una tempesta di ghiaccio cadeva rabbiosa dal cielo, e la temperatura si era fatta improvvisamente più gelida. Anche gli elementi sembravano impazziti, pensò Vargo mentre si lanciavano di corsa verso le mura della città che si intravedevano a poca distanza. «Presto, Imperatore!» gridava Khaima. «Più presto! Il tuo Popolo ti aspetta!» La ragazza guidava la marcia, infaticabile. Vargo cercava di tenerle dietro, badando nel contempo ad aiutare Shanda che annaspava intirizzita sul terreno ineguale. La grande massa delle mura torreggiava nel buio davanti a loro, apparentemente solida e massiccia come la ricordava. Ma quando fu più vicino si rese conto dei danni terribili che l'assalto aveva inferto alla struttura. La merlatura non esisteva praticamente più, ridotta a una fila spettrale di spuntoni, come la bocca di un ottuagenario, e la muraglia stessa appariva in più punti un ammasso di rovine, al di là del quale il bagliore degli incendi continuava a levarsi verso il cielo nero. Le porte erano state sfondate, e i grandi architravi scolpiti che erano un tempo il grido d'orgoglio della potenza imperiale giacevano in pezzi lungo le scarpate. Dai varchi aperti dai dragoni il fango dei palazzi crollati colava verso l'esterno come sangue dalle ferite di una carcassa abbandonata. Menthor si disfaceva, scivolando nel nulla in una cascata di liquami. Costeggiarono il bastione per un paio di miglia, fino a raggiungere un avvallamento, davanti a una porta secondaria che era stata risparmiata dalla furia degli assalitori. Qui erano accampate un centinaio di persone, al riparo di un boschetto che costeggiava in quel punto la città. Uomini e donne, rivestiti delle corte corazze d'acciaio che Vargo aveva già visto loro addosso al tempio del Popolo Ribelle. In preda a una gioia incontenibile tutti si affollarono loro intorno. Vargo vide con sollievo oltre ad Amnor anche il sergente Kon. «Sergente! Ho temuto che fossi morto!» esclamò il giovane, abbracciandolo. «Ancora deve nascere chi scuoierà questa pellaccia, bamboccio! Non ho potuto far molto, con i miei ragazzi...» replicò lui, con un lampo di tristezza negli occhi. «Se solo avessi potuto addestrarli meglio... dopo mi sono messo in cerca di qualcuno ancora in grado di combattere. E ho incontrato questa gente. I soli che sembrano valere qualcosa, in tutta Menthor. E poi non potevo certo lasciare sola la mia innamorata!» Mentre il sergente cercava di afferrare Khaima, incurante dei calci e delle unghiate con cui la ragazza lo teneva a bada, Vargo si rivolse al gruppo
di uomini e donne del Popolo Ribelle, che aspettava a pochi passi di distanza. «Vemerin si sta muovendo» disse il loro sciamano. «Lo so. E conosco la sua meta. Khoran, al santuario.» Il vecchio annuì, pensieroso. «Nelle nostre leggende era detto anche questo. Senza conoscerne il motivo, ogni generazione ha sempre saputo che la fine sarebbe avvenuta laggiù. E allora andiamo, se così è scritto. Guidaci all'ultima battaglia.» «Sapete quello che ci aspetta. Forse nessuno tornerà indietro.» Lo sciamano annuì. «Anche questo è scritto. Abbiamo raccolto tutti i cavalli che abbiamo potuto» disse indicando una piccola mandria che scalpitava tra gli alberi. «Non sono molti, ma basteranno. Due uomini per ogni bestia, e le guerriere cavalcheranno in tre. Ce ne sono anche per te e i tuoi compagni. Noi ti seguiremo. Ma prima indossa le tue armi. Ti hanno atteso per tutto questo tempo.» Dal gruppo si staccarono tre uomini, portando con loro l'armatura, la spada e lo scudo del loro antico capo, offrendole con deferenza a Vargo. Il giovane afferrò emozionato lo scudo rotondo, decorato da immagini cesellate e marcato dai colpi di spada ricevuti nel corso dei secoli. Al centro brillava una corona di specchi lenticolari. Lo imbracciò, sollevandolo sopra la testa. I legacci di cuoio dell'impugnatura erano ancora solidi ed elastici, regolati incredibilmente sull'esatta misura del suo avambraccio. Anche Amnor si era avvicinato, in preda alla curiosità. «Quei vetri!» esclamò. Poi si rivolse allo sciamano, che seguiva da presso. «Anche i vostri antenati avevano scoperto il segreto della visione degli ibridi! Gli specchi non sono diversi da quelli che ho fatto preparare al Cerchio delle Sapienze, per gli scudi che adesso sono nelle vostre mani.» Lo sciamano annuì. «Sappiamo che quest'arma aiutò a sconfiggere i mostri.» «Ma il rubino...» disse, indicando l'enorme pietra che risplendeva sul petto della corazza. «Qual è la sua funzione?» «Non lo sappiamo. Ma certo una potente magia è celata nel suo colore sanguigno. Questo dicono le nostre leggende.» Il vecchio continuava attento a fissare la pietra, mordendosi le labbra in cerca di una spiegazione. Intanto anche Shanda e Khaima si fecero avanti. La prima liberò dal sostegno gli spallacci e li appoggiò sulla schiena del giovane, mentre l'altra provvedeva a stringergli al petto la piastra della corazza. Poi entrambe si chinarono ad allacciare gli schinieri.
Vargo flette più volte le braccia e oscillò sulla schiena per assicurarsi che l'armatura non impacciasse i suoi movimenti, scoprendo con gioia che era stata forgiata per un corpo esattamente uguale al suo. Anche Kundra era accanto a lui. Timidamente si chinò e sollevò con entrambe le mani la spada, porgendola al giovane con gli occhi chiari illuminati da lacrime improvvise. Vargo roteò la spada sulla testa. L'acciaio della lama squillò come uno strumento melodioso al lume delle torce, perfettamente bilanciato nella sua mano. «E allora si compia il nostro destino. Era scritto che dovevamo ritrovarci, alla fine dei tempi. Muoviamo verso Khoran! E che non ne rimanga pietra su pietra, se deve essere il trono di un abominio!» Amnor, Kon e le Sgualdrine alzarono a loro volta le spade verso il cielo, colpiti dal turbamento con cui l'intero Popolo riunito stava assistendo alla sua vestizione. Poi, tra grida di acclamazione, tutti balzarono a cavallo, imboccando la via per Khoran. La strada per il santuario era costellata delle orride tracce del passaggio dell'armata di Vemerin. Tutto era stato devastato, i villaggi calpestati dai dragoni e bruciati, la strada ridotta a un sentiero sanguinoso, ogni traccia della presenza dell'uomo cancellata da una rabbia sfrenata che era passata travolgendo tutto. Vargo arrestò il cavallo con uno strappo del morso. In lontananza la collina di Khoran, flagellata dalla pioggia, si stagliava contro l'orizzonte alla luce di Nester. Sulla sua sommità si intravedeva la sagoma colossale del santuario, e tutt'intorno la massa scura del bosco sacro che circondava la collina per un raggio di alcune miglia. Tutta la foresta lampeggiava delle fiaccole degli assalitori, che sembravano ormai giunti a ridosso delle prime alture che facevano corona al massiccio roccioso. «Avanti!» gridò, tornando a spronare la sua cavalcatura. «Dobbiamo arrivare prima che si compia il rito!» Divorarono a spron battuto lo spazio che ancora li separava dal bosco. Quando arrivarono al limitare delle prime piante uno spettacolo orrendo si parò davanti ai loro occhi. Dai rami di ogni albero pendevano decine di corpi umani. Alcuni impiccati, ma la maggior parte conficcati direttamente sui rami spezzati, o inchiodati ai tronchi. Una massa straziata, a perdita d'occhio per tutta l'estensione della foresta, trasformata in un'immensa ara per quell'immondo sacrificio.
Vargo si arrestò di nuovo, sconvolto. Accanto a lui Shanda si era abbandonata a un grido di orrore, mentre Khaima si mordeva i pugni a sangue. Kon si guardava intorno inebetito. Amnor correva con lo sguardo da un albero all'altro, in silenzio. «Ecco dove sono finiti gli abitanti di Menthor» trovò finalmente la forza di dire Khaima. «... le Tenebre saliranno al regno in una corona di sangue...» mormorò Amnor. «Ecco cosa intendeva la profezia delle Tavole... il bosco che circonda Khoran, ridotto a un cerchio di morte!» Vargo continuava a guardarsi intorno incredulo. Le due Sgualdrine improvvisamente spronarono in avanti urlando, dirette verso una grande quercia che alzava i suoi rami al cielo un centinaio di passi più avanti. Inchiodato al tronco pendeva il cadavere straziato della Signora Rossa, circondato da quelli di una mezza dozzina delle sue ancelle appese per il collo ai rami della pianta. Sul viso della donna, seminascosto dalla cascata di capelli dell'acconciatura disciolta, era ancora stampata la smorfia di terrore che doveva aver accompagnato i suoi ultimi istanti. Shanda fu la prima a balzare a terra, con un grido di dolore. Si avventò verso il corpo della sua signora, stringendole i piedi nudi e baciando la sua carne fredda, come se sperasse in qualche modo di poterla ancora rianimare. Anche la sua compagna era caduta in ginocchio. Il giovane la sentì mormorare qualcosa tra i denti. Un giuramento e una maledizione. «Andiamo!» esclamò Khaima, rialzandosi e tornando a balzare in sella. Ripresero la corsa senza più badare allo spettacolo orrendo che accompagnava il loro galoppo, le menti di tutti rivolte solo alla meta: la collina che ormai appariva sempre più vicina. Sulla cima della collina la sagoma dell'imponente santuario riluceva ai raggi violenti di Nester. I suoi sette piani digradanti erano stati eretti con immensi blocchi di pietra nera scavati dalle lontane montagne di Farna, e trascinati in alto a forza di braccia da uno stuolo immenso di schiavi. Uomini strappati a tribù di cui si era perso anche il nome, sepolti nella sabbia come le ossa dei popoli che avevano inutilmente gridato contro il cielo. In un'epoca remota, oltre la memoria degli uomini, la massa del santuario aveva preso forma a poco a poco intorno alla sua cella segreta, la sede nascosta degli dei cui era vietato l'accesso anche ai sommi sacerdoti del culto. Attorno alla sua mole maestosa una lunga scala si snodava di piano in
piano, piegando ad angolo retto intorno agli spigoli: trecentosessantacinque gradini di marmo, uno per ogni giorno dell'anno, fino al livello più alto. Qui era la cella delle profezie, dove le sacerdotesse sognavano i loro vaticini e aspettavano la venuta dei sovrani di Menthor, gli unici uomini autorizzati a varcare la Settima Porta. Vargo e i suoi si erano arrestati sulle sponde del piccolo fiume che costeggiava a settentrione il fianco della collina, al riparo delle fronde del bosco sacro con le sue macabre decorazioni. «Siamo giunti troppo tardi!» esclamò disperato il giovane, vedendo lo spettacolo che gli si offriva davanti. Tutto il fianco della collina sembrava in fiamme, punteggiato di una miriade di torce in movimento. «La Legione! È già arrivata al tempio! E si prepara a invaderlo. Guardate, anche la massa degli ibridi si sta raccogliendo intorno alla cella!» Una nuvola ronzante si stava distendendo intorno alla sommità del tempio, avvolgendola in una coltre più scura che a tratti arrivava a nascondere lo stesso bagliore della stella. Khaima sputò in terra, con una smorfia di disprezzo. «Le sacerdotesse nella cella. Non sanno cosa le attende. Questa volta non arriva un re a cogliere i loro favori. Per secoli hanno vietato a noi Sgualdrine anche solo di accostarci al tempio!» «Nessuno può vedere gli dei di Khoran» disse Kon. «Nel segreto del tempio, inaccessibile a tutti, sono custoditi i loro simulacri, costantemente velati. Nemmeno ai sacerdoti è lecito vederli, se non una pallida immagine attraverso il velame. Solo il sommo sacerdote può vedere direttamente i loro volti, alla mezzanotte del solstizio. Quando la tenebra è più fitta.» «Ma si diceva nel Cerchio che i re nell'oscurità possono interloquire con loro, e giacere con gli dei stessi!» replicò Khaima beffarda. «Attraverso quelle puttane delle sacerdotesse!» Anche Shanda era scoppiata a ridere. «Erano loro le invasate dagli dei! Ed erano loro ad accogliere i re nei loro letti, per dormire insieme e cercare nel sonno la parola divina!» Il suo riso si spezzò di colpo, mentre con un brivido seguiva la nuvola che continuava a roteare sulla grande piramide. Poi afferrò il braccio di Vargo attirando la sua attenzione su quello che stava avvenendo al piano più alto. Attraverso il colonnato che circondava la cella superiore si intravedevano delle luci in movimento, come se un gran numero di persone si muovessero all'interno della cella, portando delle lanterne.
«Sta succedendo qualcosa!» gridò la giovane. «I sacerdoti di Khoran...» rispose Vargo, aguzzando lo sguardo verso le luci distanti. Un suono di voci confuse giungeva insieme con lo scintillio delle fiaccole. I suoni, trascinati dal vento, avevano preso a poco a poco una forma più organica, trasformandosi in un inno che si faceva sempre più forte. Poi dalla cella uscirono un gruppo di uomini, piccoli punti neri per la distanza, sulle cui teste riluceva il bagliore di lampade tenute sollevate su lunghe aste. Il gruppo si era allineato sulla piattaforma, davanti alla settima rampa della scala di accesso. «Stanno uscendo. Pazzi, invece di barricarsi nel tempio!» gridò Kon, anche lui con gli occhi fissi al lontano spettacolo. «Quelle mura sono ciclopiche... dovrebbero sbarrare gli accessi, demolire la scala esterna e cercare di resistere dietro le porte di bronzo. Ma che hanno in mente?» «Credo di capire» mormorò Amnor, con un'espressione beffarda sul viso. «Quelli sono gli inservienti. E quella» aggiunse indicando una massa indistinta coperta di vesti più chiare che si stava affollando dietro i primi «è la turba dei novizi... scommetto che i preti hanno ordinato loro di scendere incontro a Vemerin per avere il tempo di nascondersi nelle profondità del tempio!» Il vecchio ringhiò tra sé. «La perfidia di quegli esseri era nota in tutta Menthor. E non sembra essere scemata, con l'avvicinarsi del giudizio!» «Ma così li condannano a una morte certa!» esclamò Vargo. «I novizi sono poco più che bambini!» Trascinato dall'istinto mosse in avanti. Non aveva chiaro cosa fare, ma l'idea di assistere inerte al massacro gli ripugnava. Al suo gesto anche i guerrieri del Popolo si erano sollevati dai loro nascondigli tra i cespugli, mettendosi alle spalle del loro capo. Con un colpo d'occhio Vargo colse le loro espressioni determinate: forse non capivano il senso della sua mossa, ma lo avrebbero sicuramente seguito fino all'ultimo. Shanda allarmata gli andò dietro, cercando di trattenerlo. «Che cosa vuoi fare? Aspetta!» «Sì, aspetta!» sentì ripetere dalla voce del vecchio. «Forse c'è dell'altro. Guardate!» La turba in movimento sulla piattaforma si era incanalata lungo la scala, diretta lentamente verso il livello inferiore. L'aria risuonava del loro inno, soffocato a tratti dal vento e dal ronzio delle elitre in alto. Ma dietro di loro avevano cominciato a uscire da sotto il colonnato altre figure, vestite di diversi colori. Tra la nuova folla indistinta procedeva ondeggiante una
grande massa scura, coperta di veli che svolazzavano al vento. «Trascinano un simulacro! I preti stanno uscendo con le statue degli dei di Khoran!» disse ancora Amnor. «Forse sono stato troppo precipitoso. Credo che stiano tentando il grande rito di espiazione.» «L'Esorcismo di Khoran?» fece Vargo, arrestandosi per osservare ancora la scena. I primi chierici con le lanterne rituali avevano già raggiunto la metà della settima rampa e i novizi si stavano affollando dietro di loro all'inizio degli scalini. Intanto dalla cella era apparsa una seconda grande statua, anch'essa sollevata a braccia da decine di sacerdoti, coperti di vesti rossastre. «Sì, nella disperazione hanno deciso di trascinare anche i loro dei contro la Legione. Avete mai visto l'Esorcismo?» disse Amnor. Vargo e gli altri si scambiarono una rapida occhiata, prima di scuotere tutti il capo. «È quasi impossibile che un profano possa avervi assistito. È il più segreto dei riti di Khoran. Tutto il collegio sacerdotale trascina in processione i simulacri dei sette dei, lungo i sette piani del tempio. Poi esulta intorno alla base del tempio, invocando la loro protezione e la sconfitta del maligno. E infine risale lungo la scala, fino a tornare di nuovo alla cella, e di lì nel Pozzo delle Anime.» «È quello che hanno intenzione di fare?» «Sembra. Guarda, è comparso un altro dei simulacri.» Una terza sagoma velata era apparsa al colmo del tempio, sostenuta dai suoi officianti, e anch'essa si stava avviando verso la scala. Adesso sulla rampa la processione si stava progressivamente allungando, riempiendo tutto lo spazio sui gradini. L'inno diventava sempre più forte, e riusciva a vincere l'ululato del vento. Il giovane continuava a osservare con emozione la scena. Di tanto in tanto correva con lo sguardo alla miriade di fuochi sul fianco del tempio. Anche lì da qualche istante si cominciavano ad avvertire dei mutamenti: rapidi movimenti delle fiamme, come se uomini armati di torce avessero preso a correre da una parte all'altra del campo. Le luci si accendevano e spegnevano qua e là, segno che diversi reparti dell'armata stavano levando il campo, e altri si stavano mettendo in moto per dirigersi verso il tempio. «Gli uomini di Vemerin si sono accorti del rito!» disse Khaima, che stava osservando anche lei il fenomeno. «E anche i suoi spettri!» aggiunse con un brivido Shanda. Intanto l'uscita degli dei dalla cella continuava. Altri simulacri ondeg-
gianti e coperti di veli lentamente scivolavano lungo la rampa, sulle spalle dei portatori salmodianti. Adesso tutti e sette gli dei erano dispersi lungo la rampa e scendevano i ripidi gradini di pietra dominando le teste dei fedeli: l'inizio del corteo aveva raggiunto ormai la prima piattaforma, dove i luciferi si stavano disperdendo, trasformando l'imponente base del tempio in un trionfo di luci e di canti. Altre luci risplendevano lungo l'immensa gradinata, trasformandola in un serpente di fuoco cui rispondeva drammaticamente alla base della collina il movimento parallelo delle torce della Legione, che si stava arrampicando lungo i contrafforti come una nuvola di sinistri insetti. Il canto del rito giungeva adesso in tutta la sua forza: le centinaia di chierici dispiegavano tutta la loro potenza sonora, e in alto aveva preso a salire verso il cielo gravido di pioggia una nuova melodia, più dolce: anche le sacerdotesse della Sala dei Sogni si erano aggiunte al corteo e avevano preso a scendere inneggiando verso il loro destino. Questa nuova armonia si spandeva intorno, ricca di tutte le sonorità di un canto femminile, pieno di speranza, ma velato da un segreto senso di tristezza. Le sacerdotesse, legate per la vita al loro voto, scendevano cantando la gloria degli dei cui avevano regalato la loro giovinezza e il loro amore, per consentire attraverso il loro corpo che la maestà dei re conoscesse l'indicibile contatto con la divinità. Amnor e Vargo seguivano la scena affascinati. I preti del santuario, distinguibili dalla massa dei novizi e dei semplici chierici per le vesti più sontuose e per le alte mitrie che coprivano le loro teste, procedevano accanto ai simulacri facendo oscillare i turiboli, innalzando tutto intorno le volute di fumo profumato degli aromi del rito. Il canto proseguiva intenso, e si era trasformato in una sorta di antifonario in cui le voci maschili e quelle femminili si alternavano in un'armonia possente, che sembrava voler richiamare gli stessi dei rappresentati in quel luogo. Intanto le fiamme delle fiaccole dell'armata di Vemerin erano giunte a ridosso del basamento del tempio. Vargo vide un'ombra grigia circondare tutto l'immenso zoccolo della costruzione, e poi una sorta di onda uscirne veloce, diretta verso l'attacco della prima rampa. «Se c'è una forza sulla terra in grado di fermare l'avanzata del Re pazzo, questa è l'ultima possibilità perché si manifesti» disse Amnor puntando il
dito verso la prima linea degli attaccanti, che come un'onda spumeggiante erano ormai a ridosso della testa del corteo. Vargo colse una nota di scetticismo nel suo tono. Aveva sempre saputo poco delle divinità misteriose che si veneravano nel santuario. Si diceva che fossero nascoste alla vista degli uomini perché questi sarebbero restati abbacinati dalla loro potenza. E anche che gli imperatori potessero dialogare e unirsi con loro solo tramite i corpi delle sacerdotesse. In realtà, preso dalle sue vicende personali e poi dai lunghi anni di scontri sul Confine, non aveva mai rivolto loro più di qualche pensiero dubbioso. Ma adesso un'ultima speranza si era accesa in lui, alla vista dell'imponente processione. Se davvero quegli dei potevano qualcosa, era questo il momento per rivelarlo. Mentre in basso le fiaccole degli attaccanti cominciavano a mescolarsi con le lanterne dei chierici, dando vita a un'agitazione scomposta di luci, più in alto sulla scala Vargo poteva distinguere i sacerdoti che strappavano i veli ai simulacri. Per la prima volta nella storia di Khoran il volto degli dei nascosti stava per essere svelato. Il canto della processione aveva raggiunto un livello ancora più alto d'intensità. Uno dopo l'altro i paramenti scendevano dai volti delle statue, che si accendevano sotto i raggi di Nester dei mille riflessi degli ori e delle pietre preziose che li tempestavano. Collane e diademi giunti dai tempi più remoti e dai quattro angoli dell'Impero, il frutto più prezioso delle conquiste e delle razzie di migliaia di anni di dominio sulle terre conosciute, apparvero splendenti sul bronzo dei volti cesellati da mani antichissime. Senza volerlo Vargo aveva schiuso la bocca per la sorpresa. Le sette statue apparivano adesso in tutta la loro magnificenza, ognuna su uno dei sette piani dell'edificio, con i volti sereni e imperscrutabili, circondate dal canto dei sacerdoti. Dentro di sé il giovane aspettava qualcosa, che un miracolo si compisse. All'apparire dei simulacri qualcosa sembrò accadere all'orda che saliva dal basso. Il suo impeto sembrava essersi arrestato, come se quella vista avesse sbigottito gli assalitori. Vicino a lui anche le due ragazze si scambiavano sguardi ansiosi, prese dallo spettacolo. Ogni traccia dell'ironia di pochi attimi prima era scomparsa dalla faccia di Khaima, e anche lei sembrava aprirsi alla speranza che stava invadendo tutti. Vargo vide le labbra di Shanda che si muovevano silenziose, come ripetendo una preghiera.
Di colpo il canto della processione sembrò mutare tono, come se una nuova voce si fosse introdotta tra i gruppi degli oranti. Una voce che non apparteneva agli uomini, né alle sacerdotesse in alto. Una voce dal tono profondo, simile al suono di un'enorme coppa di bronzo percossa dal martello di un gigante. Simile al tuono che accompagna il terremoto. Vargo guardò attorno a sé i tronchi delle betulle, per rendersi conto se la terra avesse ripreso a tremare. Ma gli alberi restavano immobili, anche il vento sembrava improvvisamente calato di forza. Poi il suono salì di tono, perdendo le sue caratteristiche metalliche, e si trasformò in un grido orrendo. L'armonia dei sacerdoti era scomparsa di colpo, cancellata da quel suono che feriva le orecchie come un chiodo rovente. Vargo vide un fremito attraversare la processione, i simulacri tentennare sulle loro basi, rispondendo all'agitazione dei chierici che li sostenevano. Poi con una forza irresistibile la massa confusa degli attaccanti cominciò a risalire la scala, aprendosi un varco nella processione come un coltello nell'acqua. Dapprima i chierici tentarono di arretrare accalcandosi gli uni contro gli altri sulla scala, mentre i primi corpi pressati dalla ressa cominciavano a cadere in basso in una pioggia urlante di braccia e gambe scomposte. In alto la nuvola ronzante dell'Orda aveva cessato di roteare sul tempio e calava giù come un turbine mortale. Sui ripiani più alti, ancora non raggiunti dalla Legione, gli ibridi avevano preso a fare scempio dei chierici: si intravedeva un ondeggiare impazzito della processione, che stava tentando di tornare indietro per cercare scampo nella cella superiore, al riparo da quella pioggia di morte. Uno dei simulacri aveva preso a ondeggiare, come sotto la spinta di una mano gigantesca. Oscillò sulla base, mentre intorno si faceva il vuoto, poi cadde rovinosamente, scivolando oltre il limite della terrazza e precipitando sulla rampa di scale, trascinando con sé i corpi di innumerevoli uomini urlanti. Ogni traccia di speranza era scomparsa dalle facce di Vargo e dei suoi. Solo Amnor era restato impassibile. «Stanno massacrando tutti» si limitò a osservare. «Quei maledetti ipocriti!» gridò improvvisamente Khaima. La delusione si stava trasformando in ira. «E le loro puttane! A questo servono i loro dei! A trascinarli tutti all'inferno!» Shanda si mordeva la mano, gli occhi sbarrati. «Non possiamo assistere senza far nulla!» gridò Vargo.
«E vorresti che andassimo anche noi a morire, per salvare quegli esseri inutili?» lo rimbeccò Khaima, sempre più inferocita. «Che la Legione li ammazzi tutti! Che paghino i loro secoli di privilegi, retti sul nulla delle loro fandonie!» Quasi a confermare le parole della ragazza un altro dei simulacri stava inclinandosi verso il bordo del ripiano, in mezzo alla convulsione dell'assalto che lo aveva raggiunto. «Tra loro ci sono i novizi del tempio, poco più che bambini! E le sacerdotesse! Dobbiamo tentare di salvare qualcuno!» ripeté Vargo. «E inoltre il tempio è una fortezza imprendibile, l'unica capace di resistere anche ai terremoti che stanno sconvolgendo la terra! Se lasciamo che Vemerin si asserragli dentro quella massa di roccia, insieme con le Tenebre, saremo perduti definitivamente! Io vado! Chi mi segue?» Il giovane vide i membri del Popolo che sfoderavano le loro spade, in attesa del suo ordine. Khaima resistette immobile ancora un istante, ma poi vedendo lo sguardo inquieto con cui la sua compagna seguiva le mosse del giovane, con una smorfia si decise anche lei. «E va bene, abbiamo cominciato insieme questa follia, e insieme finiremo, se così è scritto. Prepara la tua spada, uomo, perché ci sarà sangue da bere in abbondanza per le nostre lame!» Il gruppo guidato da Vargo uscì rapido dal riparo del bosco sacro, puntando verso la base massiccia del tempio. Davanti a loro il campo di Vemerin appariva abbandonato, come se tutta la Legione si fosse mossa all'assalto, senza alcuna preoccupazione di lasciare un minimo di sorveglianza. «E quello che temevo» disse il giovane, indicando le tende vuote e abbandonate. «Vemerin non conta di averne più bisogno, ha deciso di occupare il tempio!» In alto il turbine degli ibridi ronzava intorno al vertice del santuario, a tratti nascondendolo alla vista. Improvvisamente Vargo sentì una mano che gli premeva sulla spalla. Kundra si era accostata, seguita da presso dal vecchio sciamano che la sorvegliava commosso. Qualcosa era mutato in lei, qualcosa che aveva cancellato dal suo viso l'espressione assente, come se d'un tratto quel mattatoio avesse risvegliato i suoi sentimenti. Di colpo si portò la mano agli occhi con un grido terribile. Una voce possente gridava dal profondo del suo corpo snello, come se uno spirito si fosse impadronito di lei. «Questo dice la leggenda. È qui la Porta che il Canto richiude!» «Qui!» gridò Vargo. Improvvisamente i frammenti sparsi della Profezia
acquistavano un senso. Si rivolse agli uomini e alle donne del Popolo, che attendevano pronti alla battaglia, le espressioni tese e risolute. «Seguitemi, e cercate di nascondervi allo sguardo degli ibridi con gli scudi. Possiamo aver ragione della Legione e dei suoi spettri, ma chi viene visto dall'alto è perduto!» Il gruppo affrontò la prima rampa, scagliandosi contro la retroguardia della Legione che ancora indugiava a quel livello. «Vemerin li ha lasciati indietro, per proteggersi le spalle! Annientiamoli!» gridò Vargo, correndo su per i gradini a quattro alla volta. Colti di sorpresa gli uomini del Re pazzo dapprima restarono disorientati, gettandosi dall'alto della scalinata in cerca di scampo. Poi, avvedendosi del numero esiguo dei loro assalitori, cominciarono a organizzare una reazione. Vargo affrontò i primi, mulinando la spada e decapitando con due colpi i nemici più vicini. L'intero gruppo lo seguiva, affondando nella massa degli avversari come un coltello nel burro. In alto la nuvola ronzante degli ibridi sembrava accecata. I mostri calavano verso il Popolo che si nascondeva sotto gli scudi, stridendo orribilmente: ma giunti in prossimità delle loro prede gli esseri sbandavano, urtandosi tra di loro o schiacciandosi contro la parete di pietra. Quelli che restavano in condizione di volare cercavano di risollevarsi, battendo le grandi ali in modo scomposto, e finendo spesso per precipitare in basso o addirittura infierire contro i superstiti della Legione, che arretravano scompostamente verso la sommità del tempio. Alle spalle di Vargo le Sgualdrine avanzavano saettando il nemico con precisione implacabile, protette dagli scudi che Kundra e un'altra guerriera del Popolo tenevano alti sulle loro teste. Kon invece, abbandonata la sua spada grondante di sangue, aveva afferrato l'asta di una bandiera della Legione e mulinava intorno colpi terribili, fracassando ossa e teste e gettando via dalla scala i corpi degli uccisi che gli impedivano l'avanzata. Priva della protezione degli ibridi, la retroguardia della Legione era in preda allo sbandamento più completo. Menato un ultimo fendente che troncò in due un'ombra, Vargo si rese conto che non c'era più nemmeno un avversario ancora in piedi. Ebbe il tempo di guardarsi intorno per la prima volta, e per un attimo fu paralizzato da quello che vedeva. «Avanti!» gridò poi, raccogliendo le forze con un brivido. Un panorama di sfacelo e dolore si stendeva tutt'intorno a lui. Alzò gli occhi verso la lunga rampa che saliva verso il livello superiore: sotto lo
sfavillio di Nester lo spettacolo si rivelava in tutta la sua atrocità. Giunsero sotto lo sperone del primo blocco del tempio, camminando tra i cadaveri dei sacerdoti che erano stati gettati dall'alto. Brandelli di corpi umani stavano a testimoniare della violenza con cui il combattimento si stava svolgendo più in alto. Quando furono al principio della rampa il frastuono sopra di loro aveva raggiunto un livello insopportabile. Vargo afferrò Shanda per un braccio, tirandola via dalla traiettoria di una delle statue degli dei che stava ruzzolando lungo la scalinata, spargendo intorno scaglie brillanti di monili e collane. Poi continuò lungo la rampa, proteggendosi con lo scudo dalla pioggia orrenda di arti e teste umane che arrivavano dall'alto. La testa di una donna dai lunghi capelli biondi insanguinati lo sfiorò, rimbalzando poco sopra di lui e arrestandosi ai suoi piedi, la bocca ancora spalancata in un grido d'orrore. Subito dopo un'altra testa la seguì, e poi un'altra ancora. Due sacerdotesse, che avevano preferito il suicidio a quell'orrore, si schiantarono a pochi passi da lui, ancora abbracciate nel lungo volo dalla sommità. «Sono arrivati alla cella!» gridò ancora Vargo, raddoppiando i suoi sforzi e continuando salire i gradini a quattro a quattro, incurante del pericolo. «Tenete gli scudi sulla testa, dobbiamo confondere gli ibridi!» «È tardi, non c'è più niente da salvare» urlò in risposta Amnor, che saliva dietro di lui con energia insospettabile, appena avanti alle due Sgualdrine. Lungo lo spigolo della costruzione si intravedeva l'ultimo blocco in alto, dove ancora infuriava lo scontro. Ormai il ruggito di guerra della Legione dei vivi e dei morti cancellava tutto, anche i gemiti delle ultime sacerdotesse che venivano fatte a pezzi. Vargo scavalcò uno dei simulacri, rovesciato di traverso sulla scala, che sembrava puntare al cielo la sua inutile bellezza, e proseguì attraverso una selva di corpi di sacerdoti straziati dalle spade e dagli artigli. «Forse è tardi per salvarli. Ma almeno possiamo vendicarli!» Continuava a salire, mentre il suono in alto si faceva sempre più flebile. Arrivati alla base della sesta terrazza Vargo si volse stupito a coloro che lo seguivano. «Sembra non esserci più nessuno! Dove è finita la Legione?» «Sono entrati nel Tempio!» rispose Amnor che lo seguiva da presso. «Adesso la nostra caccia è davvero finita. Vemerin ha vinto.» «No!» gridò furioso Vargo. «No! Non ci arrenderemo! A costo di andare a cercarlo nelle profondità del Tempio» disse ancora, superando d'impeto gli ultimi gradini della scala e balzando sulla settima terrazza.
Lo spettacolo era orrendo. Intorno al colonnato della cella, dove la Legione aveva spento l'ultima resistenza dei sacerdoti, mucchi di corpi straziati si stringevano ancora tra di loro, come se avessero cercato nel momento della morte l'ultimo conforto della loro specie. Decine di sacerdotesse giacevano sparpagliate, fatte a pezzi e mezze divorate. Qualcuno aveva ammucchiato piccole piramidi delle loro teste, come a ornamento del campo della strage. Tutti erano sconvolti a quella vista. Anche Amnor sembrava aver perso per un momento la sua imperturbabilità. Shanda di avvicinò con un singulto al corpo di una giovane che per un qualche miracolo era ancora intatto. Sembrava immersa nel sonno. Solo una striscia scarlatta le deturpava il collo delicato nel punto in cui l'artiglio di un ibrido le era affondato nella gola. In preda a una commozione improvvisa le carezzò i capelli intrisi di sangue. Un silenzio irreale era sceso improvviso su quel luogo dove solo pochi attimi prima la strage aveva imperversato con le sue grida di dolore. Un silenzio tanto profondo che persino il fruscio dei passi sulla pietra sembrava un rimbombo. Poi qualcosa uscì dal mucchio dei corpi immobili: un gemito, un incredibile segnale di vita dove regnava solo la morte. «C'è ancora qualcuno vivo!» gridò Kon. Il sergente si fece strada tra il mucchio dei cadaveri, scagliando via brandelli di corpi in cerca dell'origine del lamento. Poi lo videro afferrare un braccio e strappare via dal mucchio un uomo che si agitava debolmente. Era rivestito dei paramenti dei sacerdoti di Khoran. Coperto di sangue, una mano spiccata via dal polso. Sulla testa indossava l'alta mitria dell'Ordine, deformata da un colpo violento che lo aveva quasi accecato. L'uomo sollevò la mano integra verso di loro, come se cercasse nell'aria una risposta alla domanda che i suoi occhi ciechi volgevano in giro. «Aiuto...» riuscì solo a mormorare, prima di ricadere giù. «È il sommo sacerdote!» esclamò Khaima stupita. «Deve avere davvero su di sé la protezione degli dei di Khoran, se è il solo a essere ancora vivo!» «Lui può dirci cosa ci aspetta là dentro!» disse Vargo chinandosi su di lui. «Nessuno è mai stato nell'interno del Tempio, soltanto la casta dei sacerdoti. Dobbiamo sapere cosa ci aspetta!» L'uomo rivolgeva gli occhi insanguinati verso i suoni che nell'agonia sentiva ancora intorno a sé. Vargo lo afferrò per il petto, risollevandolo.
«Chi siete?» chiese quello, la voce spezzata dal terrore. «Ti parla l'Imperatore» si intromise Khaima. «È qui con il suo esercito» aggiunse con un ghigno silenzioso, lanciando un'occhiata agli altri. «L'Imperatore...» mormorò ancora lui. «È tardi... tardi... il Re pazzo ha rotto i sigilli di Khoran... ormai niente potrà fermarlo. Neppure i nostri dei ne sono stati capaci...» aggiunse singhiozzando. «Lo inseguiremo dentro il tempio. Dimmi che cosa ci aspetta oltre la porta del santuario. Tu lo sai!» L'uomo scosse la testa, cercando di vincere un accesso di tosse sanguinosa. Si passò le mani sulle labbra, rimuovendo la spuma sanguigna, quindi ansimando riprese. «L'interno del tempio... nessuno lo sa. Nemmeno io sono mai sceso oltre il livello della stanza degli idoli, dove onoravamo i simulacri dei sacri dei... fantocci inutili!» gridò improvvisamente. «Non è possibile... nemmeno i sacerdoti conoscono quello che c'è dentro questa massa di pietra?» L'uomo scosse la testa di nuovo. «Un interdetto grava sul santuario da sempre... non è stato costruito dagli uomini... e mai gli uomini hanno avuto accesso alle sue profondità...» «Ma hai parlato di una stanza degli idoli! Qualche cosa devi saperne!» «Il tempio... al suo interno è vuoto... sette piani scendono verso il livello della collina sottostante. A metà si trova il Sancta Sanctorum, da dove oggi abbiamo tratto fuori le statue degli dei... quella è l'ultima regione consentita al passo degli umani. Ma di lì in poi... si dice che vi sia il primo tempio...» «Il primo tempio?» «Quello su cui fu eretto il secondo... quello che vedi.» «C'è un altro tempio, sommerso sotto questa montagna di pietra?» Il sacerdote annuì faticosamente. «Un tempio eretto all'Orrore. Che inutilmente il secondo cercò di esorcizzare. L'Orrore è tornato...» Vargo si guardò intorno, cercando gli occhi degli altri. Si sentì invadere dalla disperazione. «La profezia del Popolo Ribelle... il tempio antico fu preparato per le Tenebre! Perché niente impedisse il loro ritorno, e l'insediamento del secondo regno dell'Orrore!» Shanda gli si era accostata, stringendosi al suo fianco come per confortarlo. Nella sua espressione c'era lo stesso scoramento che gli pareva di leggere sui volti di tutti gli altri. Anche Amnor aveva perduto la sua aria sicura, e guardava in terra, cupo.
Vargo si rivolse ancora al sacerdote agonizzante. «Indicaci quello che sai!» L'uomo vomitò ancora del sangue, strabuzzando gli occhi. Poi confusamente agitò il moncherino come se cercasse di scrivere qualcosa nell'aria. Khaima, intuendo il suo desiderio, si chinò a strappare il mantello bianco dal corpo di una delle sacerdotesse che giaceva lì accanto, e lo distese vicino a lui. Il sacerdote cominciò a tracciare delle linee con il sangue del moncherino. Lentamente prendeva forma sotto gli occhi di Vargo un percorso sanguigno, fatto di sale e scale interminabili. Poi l'uomo si interruppe di colpo, scuotendo la testa. «Più oltre... più oltre sarete i primi...» Cercò di sollevarsi su un gomito, aggrappandosi con la mano integra al braccio di Vargo che seguiva i suoi sforzi con attenzione spasmodica, poi con un rantolo si lasciò cadere di nuovo in terra, raggiungendo gli altri nel nulla. Il giovane cercò di rianimarlo, senza alcun risultato. Il braccio troncato del morto era ricaduto sul manto, segnando con un'ultima macchia un punto della sala centrale. Forse il sacerdote aveva voluto indicare ancora qualcosa, con il suo ultimo gesto: la macchia indicava la parete divisoria di uno spazio centrale dello schema tracciato con il sangue. Ma era impossibile dare adesso una risposta. Vargo raccolse il manto insanguinato, ripiegandolo e riponendolo sotto la corazza. Al centro del sacrario, tra i preziosi letti infranti dove le sacerdotesse avevano accolto al riparo dei sacri veli i nobili, per giacere con loro e metterli in comunicazione con gli dei, si intravedeva una balaustra, e oltre le colonne scolpite la testa della scala che scendeva verso l'interno del tempio. Khaima con il suo passo felino si stava già dirigendo da quella parte. Il giovane allungò la spada davanti a lei, fermandola. Poi, sempre con il braccio teso a sbarrare la strada, si rivolse agli altri. «Abbiamo condiviso fin qui tutti i pericoli. Sta adesso a voi decidere se cercare scampo lontano da questo orrore, o scendere ad affrontare la morte. Scegliete per il meglio, ciascuno per sé. Mi avete chiamato Imperatore» disse Vargo con voce ferma. «Sulla mia testa la sorte ha deposto la corona imperiale: ma io vi sciolgo da ogni vincolo d'onore e di devozione. Lontano da qui c'è almeno l'ombra di una speranza di salvezza. Raggiungete gli altri profughi, e fuggite verso meridione. Unitevi ai superstiti del mio antico Popolo, e ricostruite in un'altra terra il regno degli uomini!» «Non crederai di lasciarci qui?» disse per prima Khaima, scostando bruscamente la spada che la ostacolava. «Ormai siamo restate sole. Non c'è
più nessuna sorella a consolare il nostro dolore. Ho giurato di vendicare la Signora Rossa. E poi c'è sempre il conto del tesoro. Ci è sfuggito ad Anharra, ma forse qui ne troveremo uno mille volte più grande! E tu, sorella, vieni con me?» Shanda esitò un attimo, poi gettò indietro i lunghi capelli con una mossa decisa e fece anche lei un passo avanti. Fissò gli occhi in quelli del giovane, le labbra tremanti dall'emozione. «In nessuna terra c'è posto per me, se non ci sei tu. Vengo» disse rapida, rossa in viso. «Dove va l'Imperatore va la Guardia» disse secco Kon. «E Kon va dove vanno le belle donne!» aggiunse, lanciando uno sguardo lubrico alle Sgualdrine. «Ti ho portato fino alla tomba del Re pazzo» si limitò a dire Amnor con un grugnito. «Ma di quello che volevo conoscere ho percepito solo una pallida ombra. Non mi fermerò adesso.» Vargo abbracciò i suoi compagni con uno sguardo riconoscente. Sentiva il petto gonfio di commozione, per quegli amici che la sorte gli aveva destinato. I migliori che mai avrebbe potuto desiderare. Tutto intorno i membri del Popolo attendevano in silenzio, pronti anche loro a eseguire i suoi ordini. Kundra si staccò dalla schiera, avvicinandosi. Aveva la corazza sporca di sangue e un taglio rosso sulla fronte, dove un artiglio l'aveva sfiorata. Chiusa nell'armatura sembrava ancor più giovane, quasi una bambina. Ma nel suo sguardo fermo risplendeva tutta la fierezza della sua antica razza. «Abbiamo aspettato per tanto tempo che qualcuno ci guidasse alla vendetta» disse, ansimando per l'emozione. «Verremo tutti, fino all'ultimo.» Vargo tese una mano, carezzandole la guancia. Poi scosse dolcemente la testa. «No, avete combattuto come tigri. Ma è un altro il vostro compito, adesso. Noi non sappiamo cosa ci attende nelle profondità del tempio, né se riusciremo mai a tornare. La tua gente e quelli che sono scampati al massacro della città hanno bisogno di una guida lungo la strada. Radunate i superstiti, e attendeteci ai piedi del tempio per tutta la durata di questa notte. Poi, se non avrete nostre notizie, fuggite e portate con voi il ricordo dei nostri nomi.» Kundra fece per resistere all'ordine, ma il giovane la respinse con fermezza, ricongiungendo la sua mano con quella del vecchio sciamano. «Ogan, bada a tua figlia. Il suo coraggio sarà prezioso, se un giorno ci rivedremo. E voialtri, presto, alla scala!» gridò poi, muovendo verso l'apertura nel pavimento. «Qualunque cosa ci attenda, si nasconde sotto di noi. Era
scritto che dopo trenta secoli fosse la nostra generazione ad assistere al ritorno delle Tenebre. Il tempo degli dei è finito» seguitò, indicando con la lama verso uno dei simulacri rovesciati. «È venuto il nostro tempo, il tempo degli uomini. Scendiamo, e forgiamo il nostro destino a colpi di spada!» 12 Scesi i primi gradini della scalinata si ritrovarono sull'orlo di un pozzo oscuro, che si inabissava nelle viscere del tempio con una caduta apparentemente senza fine. «Tenetevi addossati alla muraglia» ordinò Vargo, che guidava il drappello. «Dovremo scendere per tutti i livelli del tempio. Ognuno è più grande del precedente, e anche la voragine si allargherà, a mano a mano che scendiamo.» La scala si avvitava ripida, e a ogni nuovo livello la rampa diventava più lunga e ampia. Attraversarono vaste sale ornate di suppellettili preziose, ormai devastate dal tempo. Scranni scolpiti su cui avevano pregato i primi sacerdoti, tappeti di seta divorati dalle tarme, immensi candelabri di bronzo che nessuno aveva più usato da epoche immemorabili. Ma che al tempo in cui gli dei di Khoran scendevano a banchettare con gli uomini dovevano aver acceso quello spazio dei riflessi di mille soli. Vasellame prezioso, cui essi avevano accostato le loro labbra divine, in cui erano state versate le offerte alla loro potenza, giaceva rovesciato a terra infranto. Di piano in piano sprofondavano in una tenebra sempre più fitta, tra colonne che le continue scosse di terremoto squassavano come alberi nella tempesta. Non c'era traccia dell'armata di Vemerin: il Re pazzo sembrava scomparso con la sua corte. Quando raggiunsero il penultimo livello, il tempio si era trasformato in un'immensa caverna. Vargo si arrestò un attimo, estraendo da sotto l'armatura la mappa segnata col sangue. «Ormai dovremmo essere al passaggio finale. Ancora uno sforzo, da quella parte.» Ripose lo straccio e si mosse verso la scalinata, ma fatti pochi gradini si arrestò di nuovo. La rampa terminava contro una muraglia che chiudeva ermeticamente il passaggio. Al centro del muro vi era una grande porta di metallo. E in piedi davanti al passaggio, immobile, una sagoma alta, a
braccia spalancate come una croce eretta a sbarrare la strada. «Athramala!» gridò Vargo, riprendendo lo slancio e divorando gli ultimi gradini, fino a fermarsi a un passo dalla donna. La figlia del Re stava a occhi chiusi, la testa sollevata verso la volta oscura, come in ascolto di un messaggio silenzioso proveniente dalle profondità del Tempio. Poi, prima che il giovane potesse dire ancora qualcosa, il verde dei suoi occhi lampeggiò sotto il velo sottilissimo che le ricopriva il volto. «Fermati, Vargo» implorò con voce spezzata. «Oltre questa porta c'è mio padre. C'è il terrore, la distruzione.» Gli stupendi tratti del suo volto, fino a quel momento raggelati nell'insensibilità di una vita risvegliata dalla morte, ma che di quella conservava ancora la lontananza immobile, si andavano ammorbidendo. Una tempesta di emozioni si addensava sulla sua fronte, le palpebre tremavano e i suoi occhi erano invasi da una luce nuova, che accendeva il verde delle iridi di uno splendore doloroso, per la prima volta umano. Vargo mosse ancora un passo, fino a sfiorarla. Un profumo sottile, inebriante, emanava dal suo corpo. Ogni fibra del giovane si infiammò davanti a quella metamorfosi. Niente aveva più importanza, i rischi che lo aspettavano, la sua missione per la salvezza della stirpe degli uomini. La strinse tra le braccia e si gettò in avanti, cercando le sue labbra. Anche la donna si era mossa: sentì le sue mani che gli sfioravano il collo, immergendosi nei suoi capelli. Per un attimo dimenticò tutto, perso nella piccola bocca dalle labbra rosse che si era dischiusa, mostrando la chiostra di denti bianchissimi, che risaltavano sul bruno della pelle: provava soltanto un senso straordinario di completezza, come se tutto il suo essere, tutta la sua vita, non fossero stati altro che una lunga corsa cieca verso quel luogo e quel momento. Poi si riprese, allontanando Athramala con dolcezza e fissandola negli occhi. «Perché sei qui?» chiese. «Ti aspettavo. Non devi andare oltre» rispose lei con voce spezzata. Il giovane scosse triste la testa. «Non posso. Quello che è cominciato deve finire, in un modo o nell'altro.» La donna si lasciò cadere a terra, abbracciandolo alle gambe. «Ti prego.» Vargo si chinò a risollevarla, stavolta con decisione. «No, devo cercare di fermare il rito delle Tenebre.» «Nessuno può assistervi. Nemmeno la figlia del Re» rispose ancora Athramala, aprendo di nuovo le braccia a sbarrare la porta dietro le sue spal-
le. «Nemmeno tu. Arrestati qui! Invocherò su di te la misericordia di mio padre. Su di te, l'uomo che amo!» I compagni di Vargo aspettavano immobili, lo sguardo fisso sulla figlia del Re. Poi Shanda si mosse, aprendosi la strada con i gomiti, fino a porsi a fianco del giovane. Alzò la testa e fissò le sue pupille offuscate dall'ira in quelle verdissime di Athramala. «Non lo prenderai per te. L'hai stregato, ma non lo avrai!» A quelle parole Vargo si riscosse. Vincendo l'attrazione che la donna esercitava su di lui la attirò nuovamente a sé, ma questa volta per scostarla dal suo cammino. Poi si volse verso gli altri. «Avanti!» Kon e le Sgualdrine si scagliarono contro le grandi porte di bronzo, tempestandole di colpi. Ma le ante resistevano alla loro furia, risuonando con la voce profonda del metallo. «Non ce la faremo mai» gridò Kon, appoggiando per un attimo l'ascia a terra, cercando di riprendere fiato. Vargo non rispose, anche lui in preda alla stessa furia disperata. Aveva infisso la punta della spada nella sottile fessura della porta, e faceva leva con tutte le sue forze, senza risultato apparente. A un tratto una nuova scossa di terremoto, più violenta delle precedenti, tornò a sconvolgere il terreno sotto i loro piedi. Gli uomini lottavano per mantenere l'equilibrio sul pavimento del portico, un mare di marmo che sembrava agitato da una tempesta improvvisa. Con una catena di schianti paurosi le lastre grandi come ponti di nave si spaccavano, scoppiando in frammenti e sollevandosi con sussulti violenti, trascinando via chiunque vi fosse sopra. Due delle colonne più vicine presero a flettersi al centro, mentre i blocchi che le componevano, scivolando sul proprio asse, si inclinavano ad arco ai limiti della propria resistenza. Quindi, mentre il tuono del terremoto ancora riverberava sotto le immani capriate della copertura, le sezioni cominciarono a scivolare prima di lato, per poi precipitare a terra con un frastuono terrificante. Vargo e i suoi compagni si erano addossati alle porte, in cerca di scampo. Le due Sgualdrine cercavano di proteggersi con i loro piccoli scudi rotondi, gridando terrorizzate. Solo Amnor sembrava insensibile allo sconvolgimento che turbinava tutto intorno. Indifferente alla caduta dei macigni che lo sfioravano, era rimasto immobile davanti alla porta, continuando a fissarla come se volesse aprirla con la sua forza di volontà. Il giovane alzò gli occhi al tetto, che continuava a oscillare sopra le loro teste. Una delle enormi travi che sostenevano la trabeazione, smossa dalle
sue sedi, era discesa di colpo, trascinando con sé alcuni dei cassettoni di bronzo che decoravano la copertura. Di nuovo il rumore del metallo percosso ferì i loro orecchi, con uno stridore infernale. Il terrore si stava facendo strada negli occhi di tutti. «Resistete!» gridò Vargo, cercando di rincuorare i suoi compagni. «La scossa sembra essersi arrestata!» Approfittando del momento di tregua che aveva fatto seguito al crollo delle colonne, e vedendo che il tetto dopo il primo cedimento sembrava resistere, Vargo tornò a far leva con la spada. «Aiutatemi! Dobbiamo entrare, a ogni costo. Il Canto! Prima che le Tenebre si scatenino!» Richiamati dal suo grido, Kon e le ragazze si gettarono a loro volta sulla porta. Il sergente aveva infisso anche lui la lama dell'ascia tra i battenti, e spingeva bestemmiando a mezza voce, aiutato dalle due ragazze che cercavano di imitarlo. La porta continuava a non cedere di un pollice. «Forza, tentiamo di nuovo!» gridò Vargo. Ma le sue parole furono troncate da una nuova vibrazione del terreno, che riaccese le ondate di pietra nel pavimento. Mentre erano ancora schiacciati contro la porta, intenti a spingere con tutte le forze, sentirono tutta la parete davanti a loro sollevarsi come se un pugno gigantesco l'avesse colpita dal basso. Il grande telaio di bronzo, sotto la spinta, si contorse con un gemito stridulo deformandosi. Una delle formelle di bronzo scolpito si curvò, poi con uno scatto si staccò dalla superficie della porta precipitando a terra a pochi passi da loro. Con un grido di terrore le due ragazze erano balzate indietro, evitando solo per un pelo di essere travolte. Khaima fu la prima a riaversi dall'emozione: gettò uno sguardo pieno di disgusto sulla massa inerte a terra che aveva minacciato di ucciderla, e poi sputò sul metallo, rabbiosa. Sulla lastra un groviglio di forme disgustose si avvolgevano in un viluppo immondo, fuoriuscendo dal bassorilievo come esseri viventi in attesa di colpire. «Guardate che orrore ha cercato di ucciderci!» Le forme nel metallo sembravano vive. Sulle grandi lastre di bronzo un trionfo di immagini narrava la storia della costruzione del tempio. Animali enormi che Vargo non aveva mai visto trasportavano i massi squadrati, mentre in alto un cerchio di figure luminose osservavano la scena. Poi, nel riquadro successivo, quelle stesse figure erano intente a trarre fuori dalla terra qualcosa di informe, plasmandolo in quello che sembrava il vortice di una danza sfrenata. Tra le loro mani prendevano forma ammassi scomposti
di arti e corpi che sembravano insultare la natura stessa. Vargo si era fermato a contemplare quelle mostruosità, ma era più preoccupato della deformazione che l'ultima scossa aveva inferto al telaio della porta. Anche il sergente l'aveva notato. «Adesso non l'apriremo mai!» mormorò l'uomo scoraggiato. Amnor si guardava intorno, in cerca di una soluzione, mordendosi le labbra. «Guarda questi uomini!» sentì Khaima che esclamava alle sue spalle. «Sempre pronti ad arrendersi alla prima difficoltà!» «Prima difficoltà? Senti ragazzina...» replicò il sergente. La donna rispose con un'alzata di spalle. Allungò sprezzante la mano, strappandogli l'ascia. La gettò nella faretra, poi si rivolse alla sua compagna. «Nel punto da cui si è staccata la lastra di bronzo la struttura è indebolita. Forza, arrampichiamoci fin lassù. Cerchiamo di aprirci un varco.» Senza attendere oltre la ragazza si afferrò senza timore a una delle protuberanze della formella più bassa e cominciò a salire veloce, agile come un gatto. Shanda aveva avuto un attimo di esitazione, lo sguardo fisso alle forme con un'espressione di ribrezzo. Poi, a un nuovo richiamo della compagna, riluttante si decise a imitarla. Da sotto i tre uomini seguivano in apprensione le loro mosse. La figlia di Vemerin, invece, pareva indifferente agli eventi. Fissava le forme scolpite nel bronzo, come se vi cercasse un lontano ricordo. Il brontolio sotto i loro piedi si scatenò di nuovo, facendo oscillare tutta la costruzione. Incurante del pericolo Khaima saliva, volteggiando sempre più in alto. Era ormai giunta quasi alla sua meta, a più di venti braccia da terra. Con un grugnito si aggrappò alla cornice dell'ultima formella, poi raccogliendo le forze si scagliò ancor più in alto, abbandonando la presa. Per un attimo volteggiò nel vuoto, quindi con uno scatto di reni riuscì ad afferrarsi al bordo del riquadro mancante. Con un altro scatto sollevò la gamba, appoggiando anche un ginocchio al varco. Si protese verso il basso per vedere dove fosse la sua compagna. Shanda era ancora a circa metà della salita. In quel momento Vargo sentì il terreno sfuggirgli sotto i piedi. Tutto sembrò di nuovo impazzire, mentre rotolava a terra tra le gambe dei suoi compagni. Dall'alto piovve una miriade di frammenti del tetto, mentre con un rombo terribile una crepa si apriva nella parete. Vargo vide che la porta si stava muovendo di nuovo. Con un grido Shanda perse la presa, ricadendo a terra. Agile come una gatta rotolò due volte, per rialzarsi senza danni apparenti, a parte un leggero stordimento
per la caduta. Khaima era invece riuscita fortunatamente a mantenersi aggrappata alle sporgenze della porta, e pendeva nel vuoto, scalciando e cercando di ritrovare un punto d'appoggio. Poi con un nuovo schianto la porta cominciò a inclinarsi verso di loro. I cardini dovevano aver ceduto alla spinta e, liberata dai suoi sostegni, l'enorme anta scivolava in avanti, ormai trattenuta solo dal chiavistello. Una serie di schianti segnalò che la serratura stava cedendo a sua volta. Vargo afferrò per un braccio Athramala, che continuava a fissare incurante la massa di bronzo oscillante sopra di lei, strappandola via con violenza. Poi alzò lo sguardo orripilato verso Khaima, ancora penzoloni dalla cornice, mentre la porta aveva preso a scendere tra gli schianti successivi dei fermi che cedevano uno dopo l'altro. Khaima era perduta, destinata a essere schiacciata dalla porta che scendeva trascinandola con sé. La ragazza doveva presagire la propria fine. Aveva lanciato un grido disperato, cercando un aiuto impossibile. Anche Shanda sembrava paralizzata dal terrore e fissava la sua compagna mordendosi il pugno che aveva portato alla bocca. Il giovane avvertì allora un movimento al suo fianco: Kon era scattato in avanti, e invece di allontanarsi stava correndo sotto la porta, gridando. Senza esitare Vargo lo seguì, intuendo cosa il sergente avesse in mente. Gridò anche lui, cercando richiamare l'attenzione della ragazza terrorizzata. «Lasciati cadere, presto!» Forse Khaima aveva compreso il loro grido. O forse la nuova scossa che era tornata a infierire le fece perdere l'ultimo appiglio. Con un grido si lasciò andare, precipitando verso il basso. Dietro di lei anche l'anta colossale, ormai definitivamente sconnessa, rovinava giù, un'ombra paurosa sulle loro teste. Il corpo della ragazza cadde sulle loro braccia protese con la violenza di un cavallo alla carica. Vargo sentì un urto terribile che gli schiacciò il petto, mozzandogli il respiro. Le gambe gli cedettero, facendolo cadere a terra. Ebbe ancora la forza di gettarsi di lato, e vide con la coda dell'occhio il sergente rotolare via, stringendo tra le braccia il corpo della ragazza. Poi con il rombo di cento campane l'anta toccò terra, uno spigolo appena a una spanna dalla sua testa, sollevando una nube di polvere e detriti. Dolorante riuscì a sollevarsi sulle ginocchia, guardandosi disperatamente intorno per conoscere la sorte dei suoi compagni. Athramala era ancora in piedi dove l'aveva lasciata, con il suo sguardo attonito, Shanda e Amnor erano al riparo, accanto alla parete. Ma non vedeva traccia degli altri due. Con orrore li immaginò sotto la massa di metallo, ridotti a un ammasso di
arti devastati. «Smettila di palparmi, scimmione!» Si volse verso il punto da cui proveniva l'esclamazione. Parzialmente nascosti dalla nube di polvere vide con sollievo i corpi avviluppati del sergente e della ragazza. Kon era sdraiato a terra, rosso in viso per lo sforzo di riprendere fiato. Stretta tra le sue braccia Khaima si dibatteva per liberarsi, sbuffando. Si sollevò facendo leva sul petto dell'uomo, fissandolo sprezzante in viso. Poi, inaspettatamente, si chinò su di lui, appoggiando le labbra sulle sue. Vargo seguì il lungo bacio, stupito. «E adesso siamo pari, uomo!» disse la ragazza, sciogliendosi con uno scatto dall'abbraccio, e lasciando Kon ancora senza fiato. «Avanti, che hai da startene lì sdraiato? C'è un lavoro che ci aspetta!» Ancora confuso per il colpo subito e per quello che era seguito, il sergente prese a tirarsi su faticosamente, stringendo i denti per vincere il dolore. Si guardò intorno perplesso. Al posto della porta c'era adesso un enorme varco oscuro, al di là del quale si intravedeva la prima fila delle mille colonne che sostenevano il tetto smisurato. «Avanti, uomini!» tornò a gridare Khaima, eccitata. Sembrava che lo scampato pericolo avesse riacceso tutti i suoi spiriti. Vargo afferrò la mano di Athramala, guidandola attraverso il varco. Superò la porta caduta e si ritrovò all'interno della sala più grande, quella che un tempo aveva ospitato il consesso degli dei e poi, allorché essi avevano disertato la terra degli uomini, i loro simulacri che adesso giacevano in pezzi all'esterno. Immediatamente si arrestò, cercando di farsi un'idea quanto più esatta possibile di quello che li aspettava. La selva di colonne gigantesche sembrava perdersi all'infinito, possente ed eterna come gli dei che l'avevano ispirata. Vargo fu sopraffatto dalla sensazione di trovarsi alla presenza di qualcosa che andava oltre la misura umana. Gli enormi capitelli multicolori che torreggiavano sulle loro teste, ricoperti di intricati bassorilievi, continuavano a sostenere le travi del tetto, quasi invisibili a quella altezza, dando vita a un'enorme scacchiera dorata. Ma la forza del terremoto era visibile anche lì. Un largo crepaccio attraversava il pavimento, allungandosi senza interruzione verso l'interno dell'edificio. Ai bordi della spaccatura le pietre del pavimento si erano sollevate, sconvolgendo la superficie e determinando la caduta di alcune colon-
ne, i cui tronconi sorgevano ancora da terra simili ai denti spezzati di un gigantesco animale. Ma centinaia di altre colonne continuavano a resistere, come sentinelle di un esercito di colossi addormentati. Un suono indecifrabile colpì i loro orecchi. Era come se tutta la sala riecheggiasse dello sciabordio di grandi masse liquide in movimento, che si trascinavano invisibili tra le colonne. «Attenti, adesso!» sussurrò il giovane rivolto agli altri, che seguendo le sue mosse stavano scivolando dentro. «Ricordate i cani di Vemerin! Il Re li ha condotti con sé, a custodire la sua infamia! Quei mostri vengono guidati dal rumore, cerchiamo di procedere senza attirare la loro attenzione.» Vide una smorfia di terrore scendere sul volto delle ragazze, a quelle parole. Nelle loro menti doveva essere ben presente il ricordo degli enormi serpenti a due bocche, che vigilavano il regno di Vemerin mimetizzati tra le colonne, estremamente simili ai loro fusti di pietra. Le vide scambiarsi uno sguardo preoccupato, mentre entrambe mettevano mano ai loro corti archi, incoccando le frecce. Anche Vargo impugnò la spada, seguitando a stringere la mano di Athramala. Con l'osceno sciacquio che ben conosceva, forme oscure stavano strisciando tra le colonne. «Da quella parte» sussurrò il giovane, indicando un passaggio che sembrava privo delle presenze. Ma sentì la mano di Athramala opporre resistenza. Anche la donna doveva aver avvertito le bestie in avvicinamento, tuttavia non pareva allarmata. «Presto!» gridò Khaima, che aveva notato la scena. «Trascina via la strega, o ci perderà tutti!» Ma la figlia di Vemerin restava immobile, l'orecchio teso verso l'oscurità. Poi con uno strappo improvviso si liberò della stretta di Vargo, muovendo qualche passo nella direzione da cui proveniva il rumore viscido, inutilmente richiamata dal giovane. Vargo stava per gettarsi su di lei, quando dalla semioscurità tra le colonne alla loro sinistra emerse la testa ributtante di uno dei mostri. La creatura si sollevò da terra, fino a torreggiare di alcune braccia. Con la sua testa cieca, tagliata dallo spacco della bocca aperta da cui fuoriuscivano le corone multiple di zanne, sembrava fiutare intorno a sé in cerca delle sue vittime. Vargo si immobilizzò, sperando che questo bastasse a disorientarlo e che la donna avesse la prontezza di fare lo stesso. Ma la
figlia di Vemerin invece mosse ancora un paio di passi verso il mostro, come in preda a un'ansia folle di autodistruzione. Vargo non ebbe il tempo di chiedersi se la donna fosse precipitata di nuovo nella sua confusione mentale, o fosse in preda a un nuovo delirio. Sapeva solo che doveva salvarla, a qualunque costo, se volevano conservare una speranza di successo. Vincendo il ribrezzo le andò dietro, la spada in pugno, deciso a tentare un affondo dal basso nel punto dove intuiva dovesse trovarsi la gola della bestia, se la natura aveva ancora un senso in quel luogo. Vide che anche Amnor aveva messo mano alla spada, e lo imitava cauto, preparandosi ad attaccare dall'altro lato. Anticipandoli entrambi, alle loro spalle, le due Sgualdrine avevano incoccato gli archi. Vargo sentì un dardo che gli passava sibilando accanto, andando a conficcarsi nei tessuti viscidi del mostro. Una seconda freccia seguì la prima, colpendolo accanto alla bocca. La bestia reagì con uno scatto della massa enorme. Una sorta di muggito proruppe dalle fauci, accompagnato da un fiotto di bava verdastra. Poi ondeggiò, voltandosi con precisione verso l'origine dell'attacco, come se le fosse bastato il sibilo dei dardi per individuare i suoi assalitori. Ma non sembrava aver subito danni particolari. La testa ricadde a terra, mentre il suo corpo si inarcava, pronto a lanciarsi. Dall'intervallo tra due colonne vicine emerse la forma spaventosa di altre due teste. Vargo si lanciò a fianco della donna, in preda alla disperazione. Tutto sembrava ormai perduto. Ma in quel momento Athramala alzò la mano, proferendo con una strana dolcezza alcune parole nella sua lingua incomprensibile. Attonito, Vargo assisteva incredulo allo spettacolo che si svolgeva sotto i suoi occhi. Al richiamo della donna, il mostro ferito aveva preso a scivolare verso di lei, arrestandosi appena a un passo di distanza. Schiuse la bocca orrenda, protendendosi verso il suo volto, come se cercasse di riconoscere chi aveva di fronte. Poi scese di nuovo, e attraverso le zanne quello che sembrava un fascio di lingue scattò in fuori, andando a cercare la sua mano. Con delicatezza impensabile sfiorò le sue dita, quindi si abbassò di nuovo, muovendosi in cerchio attorno alla donna fino ad avvolgerla in una spira, con un movimento lento. Per quanto incredibile, si avvertiva un senso di protezione e di affetto nelle sue movenze. Dal buio del colonnato stavano scivolando fuori altre bestie, avvinghiandosi al lungo corpo del primo e scavalcandolo nel desiderio di accostarsi anche loro alla donna. Athramala continuava a ripetere il suo saluto, accogliendo l'omaggio degli
altri mostri. Tese entrambe le mani a carezzare le teste informi che si accalcavano intorno a lei, poi si volse verso Vargo e i suoi compagni. «Seguitemi, non c'è pericolo» disse decisa, avviandosi in avanti. Il giovane esitò un attimo, ancora colmo di ribrezzo per quello che aveva visto. Poi facendosi forza si mosse anche lui, seguito dagli altri. La figlia di Vemerin era entrata nel suo regno, e da adesso in poi sarebbero stati nelle sue mani. Davanti a loro, a una distanza che sembrava incalcolabile, una macchia di luce intensa spezzava le tenebre, nel punto dove sorgeva il trono del Re. Athramala muoveva da quella parte, circondata dalla corte mostruosa che le scivolava accanto. Una volta, durante un viaggio sul Mare Interno, la nave di Vargo era stata affiancata da un branco di balene, che le avevano fatto corona con i loro corpi possenti. Quello spettacolo gli tornò alla mente, mentre procedevano in quel mare di pietra, rasserenandolo. Accanto a lui le due Sgualdrine continuavano invece a tenere gli archi incoccati. C'era qualcosa ancora che sbarrava il cammino. Due grandi bandiere che pendevano da aste di metallo incrociate tra le colonne. «Le insegne di mio padre» disse Athramala. Anche Vargo fissava le due grandi fiamme, una d'oro e l'altra scarlatta, con sopra ricamato il sole raggiato. Le aste erano strette nel pugno di due uomini, che sembravano in attesa della loro venuta. Immobili, a gambe aperte sotto le loro corazze da battaglia. Con un cenno d'intesa le Sgualdrine si erano schierate al fianco di Vargo, tendendo i loro archi, prendendo di mira le due sagome. Ma lui le fermò con un gesto imperioso. «Ferme!» gridò. «Conosco quegli uomini. È compito mio.» «Così ci incontriamo di nuovo, Vargo» mormorò la voce lontana di Vilma, che sembrava salire dal petto coperto ancora dalla corazza sfondata. Un troncone di lancia spezzato fuoriusciva da un fianco dell'ombra. «Pare che sia così» rispose il giovane, mentre il dolore per quello che vedeva gli mozzava la voce. «Speravo infatti di vedervi, ancora una volta.» Anche Banthor si era avvicinato. Nella luce incerta pareva appena emerso da una pozza d'acqua putrida, il corpo coperto di vesti lacere che gli pendevano intorno come se fosse ridotto a un cumulo d'ossa. «Ti aspettavamo da tempo. Per vederti ancora, amico. Ma non è il tuo posto. Che sei venuto a cercare qui, se sei ancora vivo? Non c'è niente per te tra queste ombre.»
Vargo, sopraffatto dall'emozione, scoppiò in singhiozzi tendendo le braccia verso i due amici. Ma invece di accostarsi li vide arretrare, come se un pudore improvviso si fosse impadronito di loro. «Non c'è posto per te tra noi. La barriera è insormontabile, e chi cerca di varcarla offende il nostro Re. Dovremo fermarti, Vargo.» «Nemmeno di abbracciarvi un'ultima volta mi è consentito?» «No» replicò l'altro. Le sue orbite vuote erano due macchie scure sul volto scarnificato. Ma per quanto assurdo potesse essere, a Vargo parve di leggervi un'eco dell'antico affetto. «E allora lasciate che vi guardi, almeno per un ultimo istante» li implorò. Vilma mosse un passo verso di lui. «Il destino ci ha posto sulle due sponde del fiume che non si oltrepassa. Non possiamo tenderci la mano.» «Non possiamo risparmiarti» mormorò cupo Banthor. «Prima però gioiamo di nuovo insieme. Non sarà con la dolcezza del sidro, ma con il piacere di misurarci per un'ultima volta con le spade.» L'ombra di Banthor tese la mano scheletrica verso il giovane. Schiuse il pugno, rivelando due cubetti d'osso. «Getta i dadi, amico, per decidere con chi per primo incrocerai la spada.» Vargo allungò la mano, ma prima di afferrare i dadi la ritrasse. «No, non voglio scegliere. Insieme siamo andati nella luce, e insieme ci affronteremo alle soglie dell'oscurità. Non so chi di noi supererà la prova: ma se devo essere io, non voglio per due volte provare il dolore che una vittoria non desiderata mi offrirà.» Le due ombre annuirono. Poi si allargarono di un paio di passi, sfoderando le spade. Vargo a sua volta bilanciò la sua nel pugno. Gli insegnamenti dell'Accademia di Guerra gli tornarono alla mente. Due avversari, il Settimo grado della Spada. Senza bisogno di riflettere, come se la regola del combattimento fosse impressa direttamente nei suoi muscoli prima ancora che nella memoria, Vargo spiccò un balzo atterrando in mezzo ai suoi avversari. Affondò verso Vilma, poi si chinò di scatto fin quasi a sfiorare il terreno. Quindi con un giro sui talloni si voltò verso Banthor che aveva reagito con un attimo infinitesimale di ritardo. Mentre il suo corpo ancora ruotava su se stesso parò la spada dell'amico che calava con un fendente dall'alto, quindi schizzò di nuovo in piedi, terminando il suo movimento alle spalle dei due. Vibrò un affondo diretto al collo di Vilma, ma all'ultimo deviò volontariamente il colpo, sfiorando soltanto la spalla dello spettro. Poi colpì di nuovo, di piatto sul fianco dell'altro.
Mentre le due ombre si voltavano verso di lui, Vargo spiccò un salto indietro, tornando ad arrestarsi a un paio di passi da loro. Ansimando leggermente per lo sforzo abbassò la sua spada, fino a sfiorare il terreno. Vide le orbite spente dei suoi due amici che seguivano i suoi movimenti. Sembravano incerti. Sulle loro facce scarnite, segnate dai solchi del decadimento, era comparsa come un'ombra perplessa. «Perché non hai colpito, Vargo? Non avrai un'altra occasione» mormorò Vilma, con la sua voce lontana. «Non ho potuto... non alle spalle.» Banthor scoppiò a ridere, cavernoso. Abbassò anche lui la spada. «È questa la differenza tra i vivi e i morti, amico. Tu misuri ancora le tue azioni con le leggi della vita, una catena che ancora ti stringe. Noi abbiamo spezzato quel legame, e nella libertà assoluta del nulla proviamo solo la più terribile delle emozioni, l'indifferenza. E dunque colpisci, e non aspettarti da noi alcuna pietà, perché noi non ne avremo.» Come a un tacito segnale ambedue gli spettri erano tornati a sollevare le spade. Stavolta, memori forse dell'esito del primo assalto, avevano stretto i ranghi, disponendosi spalla a spalla. «Preparati a raggiungerci nella corte del Re, Vargo» disse Vilma, allungando la spada in basso, mentre con un guizzo il suo compagno, senza bisogno di alcun segnale, colpiva più in alto, diretto al petto del giovane. Vargo saettò con la lama deviando il primo affondo, poi si piegò all'indietro lasciando che l'altra spada gli sfiorasse la corazza di cuoio. Adesso si trovava però sbilanciato, del tutto esposto a un secondo assalto. Con uno scatto di reni si riportò in posizione eretta, mentre estraeva il pugnale. Recuperato l'equilibrio tornò a scagliarsi verso i due, affrontando con le sue due armi le loro lame. Sotto gli occhi dei suoi compagni lo scontro riprese acceso, senza risparmio di colpi. Vargo resisteva all'assalto degli spettri contrattaccando ogni volta, deviando le loro stoccate e infliggendone a sua volta. Shanda si mosse per gettarsi anche lei nello scontro. Ma Khaima la trattenne con decisione. «Ferma, sorella. Deve liberarsi da solo del peso che lo schiaccia. Altrimenti lo perseguiterà per tutta la vita.» Intanto il duello continuava senza esclusione di colpi. Vargo sentiva i muscoli che si muovevano in modo automatico, rispondendo da soli agli insegnamenti dell'Accademia delle Armi. Anche i suoi avversari sembravano rispettare l'antico cerimoniale di battaglia, ma a differenza del giovane non erano mai stati iniziati al Settimo grado della Spada. Questo van-
taggio gli consentiva di parare ogni loro attacco, tornando poi a farsi avanti e colpire. Lentamente avvertiva qualcosa mutare dentro di sé. La tristezza e l'affetto che l'avevano legato ai due uomini si facevano sempre più deboli, sostituiti dalla rabbia della lotta. Non era più il giovane ufficiale che aveva diviso con loro la giovinezza: era tornato la macchina da guerra che per anni si era allenata a colpire e uccidere senza pietà, spazzando via dalla sua strada ogni ostacolo. E adesso la sua strada era quella del suo Popolo, l'ultima speranza degli uomini in quella battaglia suprema. Nella sua mente si era fatto il vuoto: approfittando di un varco nella difesa, trafisse Banthor al fianco, poi si voltò con uno scatto repentino e allungò la spada fino a toccare Vilma al collo. Li vide accasciarsi l'uno sull'altro. Ebbe voglia di piangere, ma dai suoi occhi asciugati dalla tensione non fuoriuscì nulla. Si chinò su un ginocchio, le mani appoggiate all'elsa della spada, e rese l'omaggio della Guardia ai caduti. A capo chino mormorò la breve preghiera che gli dei di Khoran aspettavano per accogliere i valorosi nel loro regno. Ma dopo le prime frasi l'immagine dei simulacri rovesciati nella navata superiore gli troncò le parole in bocca. Strinse i pugni, rialzandosi. In quell'attimo di abbandono non aveva notato un'altra ombra che era scaturita dal buio, coperta di una corazza ammaccata. La notò soltanto quando era già vicino alle Sgualdrine. «Il mio anello. Rendimelo» disse lo spettro, con una voce metallica che sembrava scaturire dal profondo del petto. La testa massiccia, priva della mascella inferiore, giaceva ripiegata sulla spalla, connessa al corpo da pochi tendini putrefatti, che ancora resistevano dopo il colpo che l'aveva quasi decapitato. «Ancora tu, maledetto!» gridò Khaima, strabuzzando gli occhi per la sorpresa. Anche Shanda era impallidita, alla vista del guerriero cui la sua compagna aveva strappato l'anello nella piana di pietre roventi del Vuoto. «Non avresti dovuto rubare ai morti. Porta male» sussurrò con un brivido. Un lampo di inquietudine attraversò gli occhi di Khaima, ma subito la ragazza tornò alla sua spavalderia. «Credevo di essermi liberata di te, alle porte di Anharra. Ti ricaccerò all'inferno adesso!» «Il mio anello!» «Questo?» lo rimbeccò la ragazza, allungando la mano con il gioiello.
«È troppo bello per te, ammasso di putredine. A che ti serve? A farti bello con le tue donne? Ma sono già polvere! Va' a stringerle tra le braccia!» gridò ancora, sputandogli addosso. Poi si gettò verso di lui, colpendolo al collo ripetutamente. Lo spettro affrontò immobile l'assalto della ragazza. Il suo corpo massiccio si limitava a sussultare sotto l'urto della lama, che finiva di tranciare i pochi legamenti del collo. Quindi la testa, ormai completamente spiccata via, scivolò in avanti, trascinata dal peso dell'elmo, finendo a terra tra le gambe della Sgualdrina, con un rombo metallico. Khaima emise un urlo di trionfo, seguito da un gesto di scherno all'indirizzo dello spettro. «Il mio anello!» esplose di nuovo la voce, con un ringhio ancor più orribile. Sembrava provenire dalla testa rotolata in terra, mentre il resto del corpo oscillava ancora in piedi, come se non si fosse accorto della sua condizione. La ragazza, sorpresa, abbassò per un attimo gli occhi verso l'origine della voce. Poi un grido di dolore uscì strozzato dalle sue labbra. La mano dello spettro era scattata come la coda di uno scorpione, colpendola appena sotto il corpetto di cuoio con un pugnale apparso tra le sue dita scheletriche. Khaima abbassò gli occhi sul punto dove era stata ferita, incredula. Poi gridò di nuovo, questa volta con la forza terribile di chi senta il suo corpo spezzarsi. Shanda a sua volta aveva gridato, di rabbia e dolore. Anche lei sembrava incredula: seguiva con aria attonita la compagna che lentamente si rattrappiva su se stessa, le mani strette sul fianco da dove aveva preso a zampillare una fontana scarlatta. Afferrò Khaima cercando di trattenerla in piedi, incurante dello spettro che ancora continuava a tagliare l'aria davanti a loro, con i movimenti a scatti di un rettile decapitato. Con un ruggito di dolore Kon era balzato avanti, scostando la ragazza e aggredendo con la sua ascia lo spettro. Accecato dalla furia cominciò a subissare di colpi tremendi il corpo che in preda alle sue contrazioni nervose stava scivolando a terra. A ogni colpo pezzi del cadavere schizzavano in giro, rendendo sempre più esiguo il bersaglio. Ma il sergente, in preda alla sua furia cieca, sembrava non avvedersene. Solo pochi brandelli di carne e ossa coriacei restavano in terra, insieme con qualche straccio della veste e poche piastre divelte della corazza. Ormai la lama dell'ascia non trovava altro che il pavimento sotto di sé, eppure Kon seguitava a infierire, imprecando orribilmente e schizzando in giro nugoli di schegge di pietra. Dopo l'ennesimo colpo si guardò intorno, attonito. Sembrava non vedere
Khaima accasciata in terra, ma cercava ancora qualcosa da colpire. Gli occhi sbarrati gli caddero sul teschio ancora rivestito del vecchio elmo. Come una belva si gettò sopra la testa, la rovesciò e affondò i denti in quel che ne restava, stritolando le ossa come un cane famelico. Poi gridò, un grido inumano. Kon era impazzito, come se la lebbra della follia che era dilagata dalla città maledetta, e a cui aveva finora resistito, avesse finalmente fatto breccia nella sua mente devastata dal dolore. Sembrava percepire ancora qualcosa intorno a sé, dopo aver cancellato ogni traccia del suo nemico. Roteava la spada gridando e imprecando, lanciando ordini smozzicati e frenetici, quasi credesse di essere tornato nella sua caserma di Hirush. Cercava di allineare intorno a sé una schiera di soldati inesistenti, per dare l'assalto a qualcuno che solo lui riusciva a vedere. Vargo intanto si era precipitato a sollevare da terra il corpo della ragazza. Khaima roteava gli occhi in giro, le labbra contratte in una smorfia di dolore. Il giovane cercò inutilmente di tamponare con la mano il sangue che fuoriusciva a fiotti dall'orribile ferita, aiutato da Shanda che sorreggeva la testa della compagna, stringendola a sé e baciandola sulle guance pallide come un cencio. Anche Amnor era accorso, chinandosi a scrutare la ferita. Sfiorò con la mano i lembi dello squarcio, ritraendola sporca di sangue. Avvicinò agli occhi le dita, osservando con attenzione il colore scuro che stillava, poi si volse verso Vargo scuotendo la testa. «Non vivrà» mormorò a denti stretti. «Fa' qualcosa, vecchio maledetto!» gli si scagliò contro Shanda. «Con tutta la tua scienza dei sapienti! Salvala!» Amnor tornò a scuotere la testa. Per la prima volta Vargo vide un'ombra di avvilimento sul suo volto, al posto della consueta arroganza. «Non posso...» balbettò. «Solo i demoni possiedono questo segreto...» Khaima doveva aver perso conoscenza per qualche attimo. Ma subito sembrò tornare in sé, le labbra strette tra i denti per soffocare il dolore. Rabbrividì violentemente, afferrandosi con le ultime forze al braccio di Vargo. «Non lasciarmi qui...» balbettò. «Ci sono lupi tutto intorno... mi aspettano... non lasciarmi qui...» La figlia di Vemerin, poco discosta, seguiva la scena impassibile, stringendosi attorno le falde del mantello come se un'improvvisa folata gelida avesse spazzato la sala. Si chinò accanto alla ragazza agonizzante, incurante del sergente che continuava a mulinare la spada a poca distanza da lei. Allungò una mano e le poggiò con delicatezza le dita sulla fronte. Senten-
do quel tocco Khaima aprì gli occhi gemendo debolmente. «Non è il buio che ti attende, non temere. Io conosco la tua storia, l'ho già vista. Non senti il loro grido di saluto?» mormorò Athramala dolcemente, muovendo appena la testa. «Li senti? I lupi si chiamano per correre ad accoglierti, e festeggiarti. Su di loro cavalcherai, nei campi di tutte le battaglie. Il tuo nome sarà Valchir. E cercherai gli eroi, e sceglierai tra loro i più valorosi per l'ultima battaglia. E tu, Vargo, narrerai le sue imprese, perché le generazioni la ricordino.» La smorfia di dolore sul volto di Khaima andava scomparendo. Con uno sforzo si sollevò su un gomito, cercando in giro con gli occhi velati. «Sì... li vedo...» sussurrò. Poi inarcò tutto il corpo in un ultimo spasimo, e ricadde immobile. Vargo le depose con delicatezza il capo in terra, e si rialzò lentamente. Shanda si strinse al suo fianco, con gli occhi pieni di lacrime. «Sapevamo che sarebbe accaduto, prima o poi» disse con una pacatezza inattesa. «Ma non credevo che sarebbe stata lei a precedermi nel mondo delle ombre. Un giorno le feci promettere che se fosse toccato prima a me mi avrebbe reso gli onori del Cerchio. E lo stesso sarà per lei. Bisogna erigere un rogo. Aiutatemi, cercate qualcosa che possa bruciare.» Poco lontano c'erano rovesciate in terra alcune lunghe panche. Vargo, aiutato da Amnor, ne afferrò due, trascinandole accanto al corpo di Khaima, mentre Shanda si sforzava di afferrarne a sua volta un'altra. Kon aveva seguito le loro mosse, inebetito. Sembrò scuotersi all'improvviso, come se i loro gesti ordinari avessero improvvisamente spezzato il dolore stupefatto in cui era precipitato. Addossato a una delle colonne, ad alcune braccia di altezza, c'era un grande pulpito di legno, coperto di decorazioni. Il sergente si mosse rapido da quella parte, poi con un balzo ferino si aggrappò al bordo della balaustra scolpita, issandosi sulla piccola piattaforma. Quindi cominciò a tempestare di colpi i punti in cui la struttura era ancorata alla pietra. Il pulpito prese a scricchiolare, sotto quell'assalto sempre più frenetico, poi si inclinò su un fianco e rovinò con uno schianto a terra, trascinando con sé il sergente. Nonostante la caduta Kon si rialzò subito, come se ormai fosse del tutto insensibile a ogni forma di sofferenza. Con uno sforzo erculeo afferrò il pulpito e lo trascinò da solo accanto al corpo della ragazza. Quindi si chinò su di lei, e sollevatala con infinita delicatezza tra le braccia la depose all'interno del grande tamburo ligneo. Amnor, Vargo e Shanda ammucchiarono
le panche in silenzio, poi il giovane estrasse dalla cintura il suo acciarino, colpendo ripetutamente la pietra focaia. Il legno secolare era asciutto e pronto a infiammarsi come un'esca. Rapidamente una piccola lingua rossastra si levò da un angolo della catasta, subito seguita da un'altra e poi da un rapido crepitio che indicava come il fuoco avesse preso a bruciare. Il tenue bagliore iniziale si andava facendo via via più intenso. Una voluta di fumo prima biancastro e poi sempre più scuro prese a salire, sparendo verso la sommità lontana delle travi del tetto. Poi un crescente, orrido odore di carni bruciate si diffuse nell'aria. Shanda, in piedi accanto al rogo, mormorava a bassa voce qualcosa, tra le lingue di fiamma che si facevano sempre più violente. Poi con uno schianto la pira crollò su se stessa, scagliando intorno una nuvola di scintille. «Adesso, sorella, sei in pace» esclamò Shanda, tristemente, mentre i resti del rogo funebre terminavano di bruciare, illuminando lo spazio intorno del loro estremo bagliore. «Nessun uomo ti ha toccato in vita, nessuno ti toccherà adesso. Vattene con i tuoi lupi, come dice la strega. Starai meglio con loro, a correre per le foreste del mondo, piuttosto che in questa tomba.» Vargo la strinse a sé con affetto. «Dobbiamo andare avanti.» Anche il sergente sembrava tornato completamente in sé. «Sì» disse, cercando di non guardare verso i resti sfrigolanti del rogo. «Abbiamo un lavoro da finire. Ma dov'è la strega?» aggiunse, allarmato, non vedendola più accanto a loro. «È andata avanti» disse pacatamente Amnor. «Sente il richiamo del padre, niente può trattenerla adesso. Guardate, è laggiù!» Più avanti nella navata, semisommersa dal buio del tempio, la sagoma alta di Athramala, seguita dai mostri, si intravedeva appena. La donna procedeva verso l'oscurità a passo deciso, rispondendo a un richiamo che solo lei era in condizione di udire. 13 Sul margine del Pozzo delle Anime stava il Re pazzo, davanti a una grande ara di pietra. Tendeva le braccia verso la voragine circolare che si spalancava oltre l'altare, recitando ad alta voce una litania. Intorno all'abisso, come un'orrenda corona, una mano sconosciuta aveva scolpito nell'oni-
ce dodici enormi mucchi di ossa e teschi, che facevano da basamento ad altrettanti pilastri di cristallo che si innalzavano fino a sostenere la volta del livello più profondo del tempio, a un'altezza vertiginosa. Tutto il peso dell'enorme costruzione sembrava gravare su di loro, come se un tempo gli dei avessero deposto una montagna su degli steli di luce. Al rumore dei passi Vemerin si voltò di scatto, interrompendo la preghiera. Sulla sua maschera immobile i tratti dell'antica bellezza sembravano più splendidi nel bagliore dell'oro. «Ancora tu» sibilò la sua voce possente, mentre attraverso i fori della maschera il suo sguardo vitreo sembrava accendersi di una luce maligna. «A nulla è valsa dunque la tua fuga. La cecità degli uomini, la loro arroganza! Ero certo che la tua follia ti avrebbe ricondotto in mio potere. E tu figlia mia. Era scritto che l'ultimo dei miei nemici sarebbe apparso nell'attimo supremo. Per essere sacrificato nel rito» proseguì con uno scoppio di gioia feroce. «Avresti dovuto trattenerlo, figlia» disse ancora rivolto ad Athramala. Per un istante la sua voce parve tremare di commozione a quelle parole, ma subito tornò a tuonare. «E ora preparati a incontrare gli altri della tua razza!» Con uno scatto Vemerin si fece avanti, snudando la spada che gli pendeva dal fianco. Anche Vargo si mosse rapido. Balzò verso l'ara, flettendo lievemente le ginocchia e assumendo la posizione di attacco: la spada stretta a due mani sopra la testa, puntata orizzontalmente verso l'avversario. Mentre fissava Vemerin, attento alle sue mosse, gli occhi percepirono un bagliore rossastro: il rubino incastonato nella sua corazza aveva preso a lampeggiare, come se il sangue dell'antica gente che l'aveva forgiato fosse tornato a vivere. Anche Vemerin doveva averlo notato, perché si chiuse istintivamente in difesa, arrestando lo slancio. Vargo ne approfittò per portare il suo attacco. La sua spada saettò verso il punto in cui il collare dell'elmo si inseriva nella gorgiera dell'armatura. Vemerin parò prontamente, lasciando che la lama scivolasse inoffensiva di lato, poi menò un vigoroso fendente, mirando al fianco del giovane. Nonostante fosse sbilanciato dall'affondo, Vargo si gettò verso il basso evitando il colpo, poi con tutte le sue forze sferrò a due mani un fendente dall'alto, diretto alla testa del Re. Vemerin ancora riuscì a interporre la sua lama, ma la forza del colpo lo costrinse a indietreggiare, verso il pozzo che si spalancava alle sue spalle. Di nuovo Vargo tornò a colpire con forza, costringendo Vemerin a un altro passo indietro. La sua spada stavolta aveva raggiunto con violenza l'armatura del Re, danneggiando il prezioso ara-
besco di incisioni che la decoravano. Vemerin non sembrava però indebolito. Sollevò la spada sulla testa e si preparò a colpire ancora, con ferocia. Ma in quel momento un'esplosione di luce scarlatta illuminò la scena, strappando per un attimo all'ombra tutta la cavità del tempio. Le oscene sculture che lo decoravano parvero animarsi, mentre il lampo scorreva sulla loro superficie. Gli enormi pilastri di cristallo che sorreggevano la volta rimandarono una luce insopportabile alla vista. Il rubino sul petto di Vargo ardeva con la forza di un sole. Abbagliato, Vemerin si fece indietro, portando un braccio davanti al volto, mentre un grido strozzato fuoriusciva da sotto la maschera. Poi prese a menare fendenti alla cieca, spazzando il vuoto avanti a sé per tentare di tenere a distanza l'avversario che non riusciva più a vedere. Vargo ne approfittò per assestare un colpo alla gamba del Re. Raggiunto poco sotto il ginocchio Vemerin emise un grido di dolore e crollò a terra, incalzato dal giovane che si faceva avanti per infliggere il colpo decisivo. Ma qualcosa lo fermò prima che potesse calare la spada: una mano sulla spalla che cercava di trattenerlo, e la voce supplichevole di Athramala che gridava: «Ti prego, risparmia mio padre!». Si era arrestato per un attimo. Tanto bastò a Vemerin per scivolare ancora più indietro, sull'orlo del pozzo. Cominciò a scendere dentro la voragine, gridando. «Aiutatemi! Rispettate il vostro patto! Insegnate la regola del male!» A quel richiamo qualcosa si mosse sul fondo del pozzo. Ombre, che salivano lente, rivelandosi alla luce scarlatta che continuava a prorompere dal rubino. Vargo si arrestò, inebetito per quello che il gioco degli dei aveva chiamato alla vita. Sette esseri spaventosi, fiammeggianti, le cui forme immonde non ricordavano nulla di quanto si muove e striscia sulla terra. Arti, occhi, teste mescolati tra loro in un ordine in cui nessuna forma era riconoscibile. Che il tempo aveva cancellato, ricacciandoli a uno a uno negli abissi della follia che li aveva generati. E che adesso tornavano a reclamare il loro trono. Un trono inconciliabile con la vita, destinato a schiacciarla sotto il suo abominio. Un mormorio orrendo promanava da quelle bocche, modulato in una incredibile melodia che sembrava avvolgere tutto il pozzo in una vibrazione malefica. Il giovane strinse i pugni. Alle sue spalle il gemito dei suoi compagni
spezzava il silenzio improvviso che era caduto nel tempio. Athramala aveva lasciato la presa sulla sua spalla. La sua bocca si spalancò in un urlo silenzioso. La figlia di Vemerin si volse ancora una volta a guardarlo. Da quando erano entrati nella sala del Pozzo il suo sguardo aveva cessato di fissare atono avanti a sé. Adesso sembrava per la prima volta colpita da quello che la circondava, come se dentro di lei si stesse risvegliando l'antica memoria di quei luoghi. Poi, all'improvviso, Vargo vide gli occhi di Athramala riempirsi di lacrime. Un pianto silenzioso, che le scuoteva il petto con singhiozzi soffocati. «Ho già visto questo...» la sentì mormorare. «Un uomo scenderà fino alla bocca degli inferi, per riabbracciare la sua donna. Ma la forza oscura sarà più forte. A lui rimarrà solo la dolcezza della sua voce. E la memoria del suo canto. Ricordati del mio amore, scrivilo nelle tue canzoni. Tu, che avresti dovuto essere il mio compagno, il mio fratello, il mio sposo...» Lentamente alzò una mano in un cenno di saluto mentre sul suo volto, illuminato dalla luminescenza verdastra degli occhi dilatati, compariva un tenue sorriso. Poi si voltò di scatto, avanzando verso il Pozzo delle Anime. Quando fu davanti al bordo della voragine circolare, al principio dell'estrema scala tortuosa che si avvitava verso l'ultimo livello, Vemerin la vide dal basso e allargò le braccia ad accoglierla, con un grido. «Ecco mia figlia che torna! Il nostro tempo è compiuto! La mia notte sarà illuminata dal suo splendore!» «No padre» rispose la donna. «Ho visto quello che volevi. Adesso conosco davvero la tua mente.» La trama dei caratteri tatuati sembrava galleggiare sul nulla, come se la donna si stesse riducendo alle sole parole che la segnavano. Le sue labbra si schiusero: aspirò con forza l'aria, riempiendo i polmoni allo spasimo. Poi cominciò a gridare. Vargo sentì dapprima un urlo modulato come il verso di un lupo. Un suono che mai avrebbe creduto potesse essere emesso da labbra umane. C'era in quel grido una forza che veniva da un tempo remoto: trenta secoli, in cui la donna aveva sognato, e nel sogno ascoltato le voci di tutti gli esseri che si erano avvicendati sulla terra. La donna portò il grido fino al limite del possibile, per poi spegnerlo in un ultimo vagito interminabile. Quindi si avviò giù per la rampa, e riprese
il suo urlo in una tonalità più alta, salendo sempre più di tono a mano a mano che i gradini scendevano. Vemerin continuava ad attenderla a braccia aperte, ma alle sue spalle le Tenebre avevano preso ad agitarsi come lingue di fiamme sconvolte da una tempesta. Sembravano protendersi verso la donna sempre più vicina, come se volessero cancellare quel grido, che adesso aveva perduto ogni apparenza bestiale e si stava trasformando in una strana armonia di suoni acutissimi. Vargo sentiva intorno a sé l'atmosfera rarefarsi, a mano a mano che la donna spariva nelle profondità del pozzo. Un senso di stordimento si impadronì di lui. Aveva l'impressione che tutta la titanica struttura di pietra che lo circondava avesse preso in qualche modo a vibrare, come la cassa armonica di uno strumento musicale. Anche i suoi compagni dovevano provare la stessa sensazione di smarrimento, pensò vedendo i loro volti attoniti. Shanda si era portata le mani alla testa e cercava con una smorfia di dolore di vincere il suono. Kon barcollava come se fosse sul punto di cedere alla vertigine. Solo Amnor seguiva la scena immobile come una statua, con i sensi tesi a cogliere anche il più piccolo particolare di ciò che si svolgeva sotto i suoi occhi. Poi Vargo lo vide scuotersi, e dirigersi deciso verso la voragine. In quel momento uno schianto sordo vinse per un attimo il suono sovrumano che continuava a fuoriuscire dal pozzo. Uno dei pilastri si era incrinato, come vetro percosso dal gelo. Una linea sottile lo percorreva in tutta la sua lunghezza, e la vibrazione che continuava ad agitare l'ambiente non faceva che allargare la fessura. Con un rombo metà del pilastro rovinò a terra, mentre una crepa analoga appariva all'improvviso su un altro monolite. Di colpo Vargo si rese conto di quello che stava accadendo: era quello il segreto del Trentesimo Canto! Una risonanza misteriosa, in grado di frantumare il cristallo con cui gli antichi avevano eretto i sostegni del santuario! La massa titanica del tempio gravava su quei dodici pilastri: se avessero ceduto, tutte e sette le balze della montagna di pietra sarebbero rovinate una sull'altra, trasformando il Pozzo delle Anime in una tomba senza uscita. «Presto, dobbiamo uscire di qui!» gridò ai suoi compagni, afferrando per un braccio Shanda e scuotendola. «Correte verso le scale!» tornò a gridare, mentre cercava di far uscire anche Kon dal suo torpore. Gettò ancora un'occhiata al pozzo, ma vide soltanto le sagome confuse di Vemerin e di sua figlia stretti in un abbraccio mortale, mentre intorno a loro le Tenebre
infuriavano in una tempesta silenziosa. Il canto della donna continuava a levarsi sempre più forte, come se il Re non fosse in grado di fermarla. O non volesse. Un altro pilastro andò in frantumi, esplodendo in una miriade di schegge iridescenti, mentre uno scricchiolio pauroso echeggiava sulle loro teste. Il giovane sollevò lo sguardo: tutto il livello superiore si stava abbassando da un lato. Gli enormi blocchi di pietra scivolavano gli uni sugli altri, cominciando a sconnettersi. Mentre correva su per la scala un grosso pezzo di metallo cadde a pochi passi da lui, seguito subito da un altro. Le grappe che legavano i blocchi stavano saltando, una dopo l'altra. Divorando gli scalini a quattro a quattro raggiunsero il livello superiore, appena in tempo per assistere terrorizzati all'inizio del crollo. Giunsero dal basso una rapida serie di schianti, segno che i pilastri che coronavano il pozzo avevano ceduto in blocco. Con un rombo spaventoso l'intero livello si sfarinò in una pioggia di massi, precipitando verso il Pozzo delle Anime. Vargo e i suoi compagni videro la parte terminale della scala su cui stavano ancora salendo sparire di colpo, come se l'oscurità in basso l'avesse divorata. Continuarono la salita, mentre i gradini crollavano di schianto uno dopo l'altro, come se la voragine li stesse rincorrendo per inghiottirli. Raggiunsero trafelati il quinto livello, poi affrontarono il quarto, mentre le strutture cominciavano a loro volta a cedere, sprofondando sotto i loro piedi. Il rumore dei crolli sotterranei proseguiva spaventoso, mentre continuavano a salire verso l'uscita superiore. Le scale oscillavano sotto i loro piedi, accartocciandosi e scivolando via in una pioggia di gradini di pietra che sparivano verso il basso. Anche le pareti laterali avevano preso a scendere, in direzione opposta alla loro corsa. Tutta la massa dei blocchi era allentata, il tempio si stava trasformando in un mucchio disordinato di massi ormai liberi uno dall'altro, che solo per un fortuito gioco di spinte e controspinte conservava ancora al suo interno relativamente intatto il pozzo della grande scalinata. Ma era ormai solo una questione di istanti: quando furono sulla rampa che portava all'ultimo livello quel poco che ancora restava della struttura collassò definitivamente. Vargo sentì che tutto il piano sotto i suoi piedi si muoveva impazzito e la nuvola di polvere dell'ultimo schianto lo accecò, quando ormai già intravedeva l'uscita sul sacello superiore. Sentì una massa enorme che lo trascinava con sé, come un'onda invincibile, e perse i sensi.
Non avrebbe saputo dire cosa successe dopo, o per quanto tempo rimase svenuto. Si risvegliò in preda a violenti conati di tosse. I polmoni pieni di polvere gli bruciavano come se avesse respirato fuoco. Si sentiva paralizzato, il corpo dolorante immobilizzato dal peso di sassi e mattoni che lo ricoprivano. Era completamente bagnato, per l'acqua fredda che pioveva dall'alto, infiltrandosi attraverso le rovine. Facendo appello a tutte le sue forze riuscì a scivolare sotto una delle colonne del sacello, che gli era crollata addosso arrestandosi appena una spanna prima di fracassargli le ossa. Finalmente riuscì a mettere una mano fuori e a farsi strada tra i frammenti, fino a sbucare all'aperto. La pioggia gelida che lo sferzò ebbe un effetto vitale: respirò a fondo, cercando di orientarsi. Accanto a lui la statua di Craton giaceva inclinata, coperta a metà dalle macerie, simbolo evidente dell'impotenza degli dei antichi. «Shanda! Kon!» si mise a gridare affannosamente, mentre si aggirava inciampando nei detriti che scivolavano via sotto i suoi piedi. Il tempio di Khoran non esisteva più, ridotto a una massa informe. Solo il rumore della pioggia battente e l'urlo del vento rispondeva alle sue parole. Poi, con un sussulto di gioia vide qualcosa che si muoveva tra le macerie, e una testa bionda emergere a fatica dai frammenti. Shanda respirava affannosamente, la fronte coperta di sangue, inebetita ma viva. Si precipitò verso di lei, aiutandola freneticamente a rimettersi in piedi. La ragazza appariva ancora frastornata dal crollo, ma era illesa. Accanto a lei stava emergendo dalle rovine anche Kon, che l'aveva protetta con il suo corpo durante gli ultimi istanti. Il sergente si lasciò cadere di nuovo a terra, la faccia levata verso il cielo a bocca aperta, in cerca delle preziose gocce di pioggia. «Dov'è Amnor?» chiese Vargo concitato, cercando qualche traccia del vecchio tra le macerie. «È restato lì sotto. Non ci ha seguiti nella fuga.» «Non ce l'ha fatta...» Shanda scosse la testa. «È voluto restare! L'ho visto arrestarsi a un certo punto, e tornare verso il pozzo che era ancora aperto. Ormai è a colloquio con Vemerin, che le Tenebre lo spolpino!» «Il suo destino era segnato. Forse adesso conosce quello che ha cercato per tutta la vita» mormorò il giovane. «La scienza dei demoni?» «L'orrore.»
Solo adesso Vargo si guardò per la prima volta intorno. In lontananza i resti di Menthor continuavano a bruciare, e tutta la terra intorno appariva desolata e priva di vita: uno spaventoso cimitero sotto un cielo tempestoso, ancora in preda al tremore che a ondate tornava a squassarla con violenza. Cumuli di corpi giacevano ammassati alla rinfusa, schiacciati dai massi o sparsi dove la violenza del crollo li aveva scagliati. L'orda di Vemerin era tornata nel nulla da cui era uscita per seguire il Re pazzo, annientata dalla sua seconda morte. Armi ammassate alla rinfusa erano sparse dovunque, e i resti degli attendamenti sfondati sventolavano impetuosi sotto le raffiche della tempesta. Vargo osservava sconvolto quello spettacolo di morte. Alzò gli occhi al cielo, disperato. Dunque era tutto scomparso, quella notte eterna non sarebbe mai più finita? Che senso aveva allora aver ricacciato le Tenebre nell'abisso, se le conseguenze della loro perfidia permanevano intatte? A che era servito il sacrificio di Athramala? Cosa valeva la condanna che si era imposta, scendere per sempre nella follia del padre suo, se l'orrore che le Tenebre avevano portato sulla terra non era stato sconfitto? Anche i suoi compagni condividevano i suoi pensieri. Shanda si strinse la testa tra le mani, e scoppiò in un pianto dirotto. Vargo si avvicinò alla ragazza che singhiozzava, stringendola tra le braccia. Avrebbe voluto trovare una parola di conforto per la morte di Khaima, ma la voce gli si strozzò in gola. La strinse ancora più forte, cercando le sue labbra in un bacio disperato. Ma mentre chinava la testa sulla sua, qualcosa nella sua mente notò le lacrime della fanciulla. Sembravano perle iridescenti, sul suo volto segnato dalle ferite e dalla polvere. Illuminate da una luce inattesa. Continuando a stringerla alzò gli occhi. All'orizzonte una macchia più chiara spezzava il cobalto della notte. «Guardate!» gridò, indicando la luce lontana. «L'alba! La volta celeste è tornata a muoversi! Forse questa notte cesserà, finalmente!» La pioggia fangosa si era trasformata in un nevischio sporco, che stava già coprendo le macerie del tempio. Il gelo si era fatto intenso, e già le prime pozze di ghiaccio si stavano solidificando negli avvallamenti del terreno. Vargo alzò lo sguardo al cielo. La coltre di nubi giallastre cancellava qualsiasi traccia delle costellazioni. Solo il bagliore di Nester era tanto forte da superarla, una macchia lattiginosa al centro della volta.
Ma non brillava più nel punto dove l'aveva vista solo poche ore prima: sembrava aver compiuto un balzo nel cielo, divorando un buon quarto della sfera celeste. «I cieli si sono mossi!» esclamò il giovane, quando ebbe realizzato l'unica spiegazione possibile di quel fenomeno. «Hanno ripreso a girare... ma i punti cardinali non sono più gli stessi! I ghiacci del Nord si stanno avvicinando. Tutta la terra sembra essersi spostata... come se avesse cercato di sfuggire all'abbraccio velenoso di Nester!» Il sole stava sorgendo. Un'alba lontana, pallida, venata di fiammate iridescenti che esplodevano a oriente come fontane di luce, quasi che i cieli stessero cercando di bruciare la terra. Vargo non aveva mai visto niente di simile: solo nei racconti dei viaggiatori, oltre il Mare Interno, nelle terre dei ghiacci eterni, si narrava di fiamme che nella lunga notte del vertice del mondo brillavano danzando. Nella luce fredda scorse i primi profughi che si stavano avvicinando: i resti del Popolo Ribelle sopravvissuti al crollo, che venivano a stringersi intorno a lui. Riconobbe il dolce viso di Kundra, la sua figura snella sotto la piccola corazza ancora coperta di sangue, che guidava il gruppo. C'era il vecchio padre accanto a lei, che si sorreggeva a stento, appoggiato al suo braccio. «Che faremo adesso?» disse lo sciamano, quando li ebbe raggiunti. «Sei la nostra guida, decidi per noi!» Vargo sollevò la spada che ancora stringeva in pugno. «Andremo lontano da qui, a ricostruire il regno degli uomini. Lungo la strada raccoglieremo tutti i superstiti, e chiunque voglia unirsi a noi sarà accolto come un fratello del primo Popolo.» «C'è una terra, oltre i confini del Vuoto, verso il tramonto. Sull'altra riva del grande Oceano che sbarra la strada al regno dei morti» mormorò lo sciamano. Parlava con gli occhi chiusi, come se fosse in preda a una visione. «Fertile, ricca di acque e di pianure, dove mandrie di grandi tori corrono libere. Le sue coste sono ricche di pesci. Le sue montagne daranno la pietra, i suoi boschi immensi il legno per costruire nuove città. E le sue caverne il ferro, per le nuove spade.» «Questa terra... qual è il suo nome?» «Non ha nome.» Lo sciamano affondò la mano nella piccola borsa legata alla sua cintura, e ne estrasse una manciata di piccoli dadi d'osso. Agitò il pugno nell'aria tre volte, poi li scagliò a terra. Si chinò a osservare la forma che i piccoli oggetti sacri avevano disegna-
to. C'erano delle rune, incise sull'osso. Poi lentamente si risollevò. «Europa. Così la chiamerai. Questo sarà il nome con cui la conoscerà il tempo che deve venire.» «Europa... sia come dici. Andremo là. E nel tramonto troveremo nuovi dei, che prendano il posto di quelli che ci hanno abbandonato. Ma prima» seguitò il giovane, puntando la spada verso meridione, «prima c'è un'eredità che dobbiamo rivendicare.» Lo sciamano annuì. Anche lui guardava lontano. «Le sue mura di rame e di ferro risplendono ancora sotto il sole. Anharra ci aspetta.» I cieli hanno mutato il loro corso, fuoco e ghiaccio inseguono coloro che vivono ancora. Perché chi è scampato alla morte non corre alla salvezza? Perché i suoi passi piegano verso la città maledetta? La voce di Anharra chiama dal deserto, rende cieche le menti. Il suo splendore stringe i cuori in una morsa di ferro. Perché gli uomini non si strappano dalle carni il suo ricordo? Perché lì tornano, da dove dovrebbero fuggire? Eppure questo vedo, sento l'urlo della città negli orecchi. Questo accadrà. dalla Profezia di Kurghan, nelle Tavole della Biblioteca di Menthor FINE