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Kylar Stern ha deciso di abbandonare la sua vita da sicario. Durzo Blint, il leggendario maestro al quale deve tutto, e Logan, il suo migliore amico, sono morti, sconfitti dal potente Re Divino. Ora Kylar vuole lasciarsi alle spalle la via delle tenebre e ricominciare da capo: una nuova città, una nuova professione e una nuova famiglia, con la sua amata Elene, che spera di convincerlo a vendere la sua spada magica compagna di tante avventure. Ma più il tempo passa più Kylar si accorge che gli manca qualcosa, spesso di notte non resiste alla tentazione di tornare a volare sui tetti della città... E presto il passato bussa alla sua porta. Quando scopre che Logan potrebbe essere vivo e che forse si sta nascondendo, Kylar si trova di fronte a una scelta dolorosa: rinunciare per sempre al mondo delle tenebre per vivere in pace con la sua nuova famiglia o rimettere in gioco tutto e accettare l'ultima, sanguinosa sfida?
Brent Weeks è nato e cresciuto in Montana. Dopo aver conseguito la laurea all'HilIsdale College, si è dedicato per qualche tempo all'insegnamento ma ha ben presto scoperto la sua vera vocazione. Oggi è scrittore a tempo pieno e vive in Oregon. Il tempo delle tenebre è il secondo capitolo di una trilogia di grande successo, iniziata con La via delle tenebre, a lungo nella lista dei bestseller del «New York Times» e finalista ai premi David Gemmell Legend for Fantasy e al Compton Crook Memorial. Potete leggere di lui sul sito www.brentweeks.com
Grafica: Alessandro Tiburtini www.newtoncompton.com Dello stesso autore
L'angelo della notte. La via delle tenebre Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è casuale Titolo originale: Shadow's Edge Copyright © 2008 by Brent Weeks Traduzione dall'inglese di Daniela Di Falco Prima edizione: marzo 2011 © 2011 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-2751-7 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Corpotre, Roma Stampato nel marzo 2011 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
Kristi, per non aver mai dubitato, nemmeno quando ero io a farlo & a Kevin, perché è sempre il fratello maggiore che aiuta il più piccolo a farsi le ossa. Quel che mi hai insegnato, mi è servito. (Anche se non mi sono più ripreso dopo quello stupido incidente).
Capitolo 1 «Abbiamo un contratto per te»,
disse Momma K. Come sempre, sedeva come una regina, altera, l'abito sontuoso inappuntabile, i capelli acconciati in modo impeccabile, sebbene si notasse la ricrescita grigia alla base. Quella mattina aveva anche due occhiaie profonde. Kylar immaginò che nessuno dei capi del Sa'kagé sopravvissuti avesse dormito molto da quando c'era stata l'invasione khalidoriana. «Buongiorno anche a te», disse Kylar, accomodandosi sulla poltrona a schienale alto nello studio. Momma K non si girò verso di lui, ma tenne lo sguardo fisso oltre la finestra. La pioggia della notte precedente aveva spento gran parte degli incendi, ma la cortina di fumo che ancora si levava dagli ultimi focolai aveva avvolto la città in un'alba rosso sangue; lo stesso colore che tingeva le acque del fiume Plith, che separava la ricca Cenaria orientale dai Cunicoli. Kylar non era del tutto sicuro che dipendesse dal fumo che oscurava il sole: nella settimana seguente al colpo di stato, i Khalidoriani avevano massacrato migliaia di persone. «C'è un piccolo problema», disse Momma K. «Il morto ne è al corrente». «Come fa a saperlo?». Di solito il Sa'kagé non era così sbadato. «Glielo abbiamo detto noi». Kylar si massaggiò le tempie. Il Sa'kagé avvertiva qualcuno in anticipo solo quando il tentativo poteva fallire e non voleva rimanerne coinvolto. Questo voleva dire che il morto poteva essere un solo uomo: il conquistatore di Cenaria, il Re Divino di Khalidor, Garoth Ursuul. «Sono venuto soltanto a prendere il mio denaro», disse Kylar. «Tutto quello di Durzo, perché i miei rifugi sono stati distrutti dal fuoco. Me ne serve solo quanto basta per corrompere le guardie al cancello». Era da quando era bambino che le consegnava una porzione delle sue paghe perché le investisse. Adesso doveva avere denaro a sufficienza per qualche mazzetta.
Senza dire una parola, Momma K scartabellò i fogli di carta di riso sulla sua scrivania e ne consegnò uno a Kylar. Rimase subito impressionato dalle cifre. Era coinvolto nell'importazione illegale di semi di marijuana e di una mezza dozzina di altre piante che producevano assuefazione, era proprietario di un cavallo da corsa, possedeva una quota di una fabbrica di birra e di varie altre attività commerciali, una parte del parco clienti di un usuraio e di carichi di merci come sete e pietre preziose - questi ultimi legali, se non fosse stato per il fatto che il Sa'kagé pagava il venti per cento in mazzette invece del cinquanta per cento in tariffe doganali. La quantità di informazioni riportate sul foglio era già di per sé sbalorditiva. Il significato di almeno la metà gli rimaneva oscuro. «Possiedo una casa?», volle sapere Kylar. «Possedevi», precisò Momma K. «In questa colonna sono riportate le mercanzie andate perdute in incendi o saccheggi». Tutte le voci dell'elenco erano spuntate tranne una spedizione di sete e una di semi di marijuana. Quasi tutto ciò che possedeva era andato perduto. «Nessuna delle due spedizioni rientrerà prima di qualche mese. Se il Re Divino continua a confiscare le navi civili, non rientreranno affatto. Naturalmente, se morisse...». Capì subito dove voleva arrivare. «Qui è scritto che la mia quota vale ancora dai dieci ai quindicimila gunder. Te la vendo per mille. Non mi serve altro». La donna lo ignorò. «C'è bisogno di un terzo sicario per essere sicuri che vada tutto a buon fine. Cinquantamila gunder per un assassinio, Kylar. Con quella somma, puoi portare Elene e Uly dove vuoi. Renderai un buon servizio al mondo e non sarai più costretto a lavorare. È solo un ultimo incarico». Esitò, ma solo per un momento. «C'è sempre un ultimo incarico. Io ho chiuso». «È per via di Elene, vero?», gli chiese. «Momma K, pensi che un uomo possa cambiare?». Lo guardò con profonda tristezza. «No. E finirà con l'odiare chiunque gli chieda di farlo».
Kylar si alzò e uscì dalla stanza. Nel corridoio trovò Jarl. Stava sogghignando, proprio come faceva ai tempi in cui erano ragazzi di strada e ne aveva in mente una delle sue. Jarl era vestito all'ultima moda, con una lunga tunica dalle spalle esagerate e calzoni aderenti infilati dentro alti stivali. Aveva un aspetto vagamente khalidoriano. I capelli erano acconciati in lunghe treccine elaborate e fissate con perline d'oro che mettevano in risalto la sua carnagione scura. «Ho un lavoro perfetto per te», disse Jarl a voce bassa, ma senza mostrare un'ombra di rimorso per aver origliato. «Niente uccisioni?», s'informò Kylar. «Non esattamente». «Vostra Santità, i codardi sono pronti a fare ammenda», annunciò Vürdmeister Neph Dada a piena voce per superare il rumore della folla. Il vecchio curvo, con la pelle segnata da grosse vene e macchie senili, emanava un fetore di morte tenuta a bada solo grazie alla magia, il respiro ridotto a un rantolo per lo sforzo compiuto salendo sul palco nel grande cortile del castello di Cenaria. Dodici corde annodate pendevano dalle spalle della veste nera, a indicare le dodici shu'ra che aveva conseguito. Con grande fatica, Neph s'inginocchiò e offrì una manciata di paglia al Re Divino. Dall'alto della piattaforma, il Re Divino Garoth Ursuul ispezionò le sue truppe. Nelle prime file erano schierati circa duecento Highlander Graavar, alti barbari con gli occhi azzurri e il torace grande e prominente, i capelli neri corti e lunghi baffi. Ai lati, il fior fiore delle tribù delle montagne che avevano conquistato il castello. Più in là, attendeva il resto dell'esercito regolare che era entrato gloriosamente a Cenaria dopo la liberazione. Un velo di nebbia si alzò dal fiume Plith lungo entrambi i lati del castello, e raggelò la folla insinuandosi sotto i denti arrugginiti delle saracinesche di ferro. I Graavar erano stati divisi in quindici gruppi di tredici uomini ciascuno, gli unici a non essere equipaggiati con armi, armature o tuniche. Con indosso i soli calzoni, i volti pallidi e impassibili, sudavano invece di rabbrividire in quel freddo mattino d'autunno.
Non c'era mai confusione quando il Re Divino passava in rassegna le truppe, ma oggi aleggiava un doloroso silenzio, nonostante le migliaia di persone riunite per l'occasione. Garoth aveva radunato tutti i soldati possibili e concesso il permesso di assistere anche ai domestici, al volgo e ai nobili cenariani. Meister nelle loro mantelle rosse e nere presenziavano spalla a spalla con Vürdmeister in toga, soldati, poderanti, bottai, nobili, braccianti, domestiche, marinai e spie cenariane. Il Re Divino portava l'ampio mantello bianco bordato di ermellino buttato indietro, per dare ancor più risalto alle larghe spalle. Sotto indossava una tunica bianca senza maniche su ampi pantaloni bianchi. Tutto quel bianco conferiva un'aria spettrale alla sua pallida carnagione khalidoriana, e richiamava l'attenzione sul vir che serpeggiava sulla sua pelle. Nere spire di potere affiorarono in superficie lungo le braccia. Grossi nodi pulsanti, bordati di spine che si muovevano non solo avanti e indietro, ma anche su e giù, a ondate, premendo per uscire; artigli Tampinavano la pelle dall'interno. E il vir non era confinato alle braccia. Le spire si allungarono a incorniciargli il volto, su fino al cranio nudo, e gli forarono la pelle, formando una fremente corona di spine nere. Rivoli di sangue gli colarono lungo il viso. Per molti Cenariani, era la prima volta che vedevano il Re Divino. Rimasero a bocca aperta, rabbrividendo se il suo sguardo li sfiorava. Esattamente il tipo di reazione che Garoth voleva provocare. Alla fine, Garoth scelse uno dei fili di paglia offerti da Neph Dada e lo spezzò in due. Ne gettò via una metà e prese dodici fili interi. «Così parlerà Khali», disse, con voce resa stentorea dal potere. Fece cenno ai Graavar di salire sul palco. Durante la liberazione, avevano ricevuto l'ordine di presidiare questo cortile per trattenere i nobili cenariani in vista del massacro. Invece, gli Highlander erano stati sbaragliati, e Terah Graesin e i suoi nobili erano fuggiti. Tutto ciò era inaccettabile, inspiegabile, davvero inusuale per gli spietati Graavar. Garoth non capiva cosa avesse spinto quegli uomini un giorno a combattere e il giorno dopo a darsela a gambe. Capiva invece cosa significasse macchiarsi d'infamia. Per tutta la settimana precedente, i Graavar erano stati costretti a pulire le stalle,
vuotare i vasi da notte, strofinare i pavimenti. Non era stato loro permesso di dormire, e avevano passato le notti lucidando armi e armature di persone di più alto rango. Oggi, avrebbero espiato la loro colpa, e l'anno a venire sarebbero stati impazienti di dar prova del loro eroismo. Mentre si avvicinava al primo gruppo con Neph al fianco, Garoth attenuò il vir delle sue mani. Quando gli uomini avrebbero estratto la paglia, dovevano pensare che la scelta di risparmiare uno di loro e condannarne un altro non dipendesse dalla magia o dal puro piacere del Re Divino. Piuttosto, era semplice destino, l'inesorabile conseguenza della loro codardia. Garoth alzò le mani e tutti i Khalidoriani intonarono una preghiera: «Khali vas, Khalivos ras en me, Khali mevirtu rapt, recu
virtum defite».
Mentre si spegneva l'eco delle ultime parole, il primo soldato si fece avanti. Forse non ancora sedicenne, con un'ombra di baffi sopra il labbro. Sembrò sul punto di collassare appena il suo sguardo si spostò rapidamente dal volto spietato del Re Divino ai fili di paglia. Il torace nudo scintillò di sudore nella luce del giorno nascente, i muscoli si contrassero. Scelse una paglia. Era lunga. Il ragazzo sospirò e sentì allentarsi metà della tensione, ma solo metà. Il prossimo della fila, un giovane talmente somigliante a lui che doveva essere il suo fratello maggiore, si leccò nervosamente le labbra e afferrò una paglia. Era corta. Un sollievo pieno di rammarico si diffuse nel resto della squadra, e le migliaia di spettatori, che non riuscivano a vedere la paglia corta, capirono dalla loro reazione che era stata estratta. Il giovane abbassò gli occhi sul fratello più giovane, che non riuscì a reggere il suo sguardo. Il condannato si rivolse incredulo al Re Divino e gli consegnò la paglia corta. Garoth fece un passo indietro e annunciò: «Khali ha parlato». Tutti trattennero il fiato, in attesa di una conferma del Re Divino. A un suo cenno del capo, tutti gli uomini della squadra si strinsero intorno al giovane sventurato - tutti, persino il fratello - e cominciarono a picchiarlo.
L'esecuzione sarebbe stata più rapida se Garoth avesse permesso loro di mettere i guanti di ferro, o di usare l'impugnatura della lancia o la parte piatta della spada, ma aveva ritenuto che fosse meglio così. Appena il sangue avesse iniziato a scorrere e a schizzare dalla carne percossa, non sarebbe finito sugli indumenti della squadra. Invece doveva finire sulla loro pelle. Sentire il calore del sangue del giovane morente. Imparare il prezzo della codardia. I Khalidoriani non fuggivano. La squadra s'infervorò nell'azione. Il cerchio si chiuse e si levarono le prime grida. C'era qualcosa di intimo nella carne nuda che colpiva altra carne nuda. La giovane vittima scomparve, e poi non si vide altro che gomiti che si sollevavano prima di calare un nuovo pugno e piedi che arretravano prima di sferrare un altro calcio. E pochi istanti dopo, sangue. Avendo estratto la paglia corta, il ragazzo era diventato la loro debolezza. Era Khali ad averlo deciso. Non era più un fratello o un amico, ma l'incarnazione dei loro errori. Nel giro di due minuti, il giovane era morto. Gli uomini si riallinearono, macchiati di sangue e con il fiato grosso per lo sforzo e l'emozione. Non abbassarono gli occhi sul morto. Garoth li esaminò uno a uno, scrutò i loro sguardi e si soffermò sul fratello della vittima. Poi distese una mano sopra il cadavere: il vir fuoriuscì dal polso e si allungò in artigli irregolari, afferrando la testa del cadavere. Gli artigli si contrassero in una morsa e il cranio esplose come un melone maturo, provocando conati di vomito in dozzine di Cenariani. «Il vostro sacrificio è accolto. Siete così purificati», dichiarò e fece loro il saluto militare. Gli Highlander restituirono fieramente il saluto e ripresero posto all'interno della formazione nel cortile, mentre il corpo veniva trascinato via. Garoth invitò la squadra successiva a farsi avanti. La procedura si ripeté pressoché identica per altre quattordici volte. Sebbene la tensione si rinnovasse all'interno di ogni gruppo - persino chi aveva già espiato continuava a perdere amici e familiari assegnati ad altre squadre -, Garoth perse interesse nella faccenda. «Neph, dimmi cosa
hai saputo di quest'uomo, l'Angelo della Notte che ha ucciso mio figlio». Il castello di Cenaria non era ai primi posti nell'elenco dei luoghi da visitare di Kylar. Si era camuffato da conciatore cospargendosi di tintura le mani e le braccia fino al gomito, aveva indossato una sudicia tunica di lana da bottegaio e si era spruzzato addosso parecchie gocce di un'essenza elaborata dal suo defunto maestro, Durzo Blint. Il fetore che emanava era solo di poco inferiore a quello di un vero conciatore. Durzo aveva sempre scelto di travestirsi da conciatore, allevatore di maiali, mendicante, o qualunque altro genere di individuo da cui le persone rispettabili tendevano a stare alla larga sentendone l'effluvio. L'essenza veniva applicata soltanto sugli indumenti esterni così, in caso di necessità, era possibile disfarsene. Un vago sentore continuava comunque a persistere, ma ogni travestimento aveva i suoi inconvenienti. L'arte stava nel saperli abbinare al lavoro da portare a termine. L'East Kingsbridge era andato in fiamme durante il colpo di stato e, sebbene i Meister ne avessero riparato un buon tratto, era ancora chiuso; così Kylar attraversò il West Kingsbridge. Le guardie khalidoriane gli lanciarono un'occhiata distratta. Sembrava che l'attenzione di ognuno - persino dei Meister - fosse inchiodata a un palco in mezzo al cortile del castello e a un gruppo di Highlander a torso nudo nel freddo del mattino. Kylar ignorò le squadre sul palco e si guardò intorno per individuare eventuali pericoli. Non sapeva ancora se i Meister fossero in grado di vedere il suo Talento, anche se immaginava che non avrebbe corso rischi finché non l'avesse usato. Le loro capacità sembravano molto più legate all'odorato che ai poteri dei maghi - e questa era la ragione principale per cui si era camuffato da conciatore. Se un Meister si fosse avvicinato, Kylar poteva solo sperare che gli odori mondani interferissero con quelli magici. Quattro guardie erano schierate ai lati del cancello, sei su ogni settore delle mura a forma di diamante, e forse un migliaio in formazione nel cortile, oltre ai circa duecento Highlander Graavar. In mezzo alla folla di diverse migliaia di persone, erano dislocati
cinquanta Meister a intervalli regolari. Al centro, su un palco improvvisato, c'erano numerosi nobili cenariani, cadaveri mutilati e il Re Divino Garoth Ursuul in persona, che parlava con un Vürdmeister. Era assurdo: persino con tutti quei soldati e i Meister presenti, era l'occasione migliore che un sicario poteva avere per uccidere quell'uomo. Ma Kylar non era lì per uccidere, doveva studiare un uomo: l'incarico più singolare che avesse mai accettato. Fece correre lo sguardo tra la folla, cercando il tizio di cui gli aveva parlato Jarl, e lo individuò rapidamente. Il barone Kirof era stato un vassallo dei Gyre. Dopo la morte del suo signore, avendo le terre così prossime alla città, era stato uno dei primi nobili cenariani a sottomettersi a Garoth Ursuul. Era un uomo grasso, con la barba rossa appuntita secondo lo stile delle pianure khalidoriane, un grosso naso adunco, il mento sfuggente e folte sopracciglia. Kylar si avvicinò. Il barone Kirof stava sudando, e si asciugava i palmi sulla tunica, parlando nervosamente con i nobili khalidoriani che erano con lui. Kylar stava cercando di superare un fabbro alto e puzzolente, quando all'improvviso l'uomo gli diede una gomitata nello stomaco. Il colpo lasciò Kylar senza fiato e, proprio mentre si piegava in due, il ka'kari si sciolse nella sua mano e formò un pugnale. «Se volevi una vista migliore, dovevi venire prima, come tutti noi», lo apostrofò il fabbro. Incrociò le braccia, tirando su le maniche per esibire i grossi bicipiti. Con un certo sforzo, Kylar fece rientrare il ka'kari nella propria pelle e si scusò, tenendo gli occhi bassi. Il fabbro fece una smorfia sprezzante e tornò a godersi lo spettacolo. Kylar si accontentò di una vista decente sul barone Kirof. Il Re Divino aveva già provveduto a metà delle squadre, e gli allibratori del Sa'kagé stavano già accettando scommesse su chi sarebbe morto fra i tredici di ogni gruppo. Il loro traffico non passò inosservato ai soldati khalidoriani. Kylar si chiese quanti Cenariani sarebbero morti per colpa degli spietati allibratori appena i soldati khalidoriani, quella sera stessa, avrebbero vagabondato per la città, sconvolti dal
dolore per i loro morti e infuriati per il modo in cui il Sa'kagé riusciva a insudiciare tutto quel che toccava.
Devo andarmene da questa città maledetta. Nella squadra successiva, dieci se l'erano cavata senza estrarre la paglia corta. Valeva quasi la pena di seguire la scena, notare la disperazione crescente degli uomini man mano che i loro vicini venivano risparmiati e le loro possibilità si facevano sempre più scarse. L'undicesimo, un uomo sulla quarantina tutto tendini e cartilagine, scelse la paglia corta. Consegnò la sua dichiarazione di condanna al Re Divino mordicchiandosi la punta di un baffo, ma non tradì altra emozione. Neph lanciò un'occhiata verso il punto dove la duchessa Jadwin sedeva insieme al marito. «Ho esaminato la sala del trono, e ho percepito qualcosa in cui non mi ero mai imbattuto prima d'ora. L'intero castello odora della magia che ha ucciso tanti dei nostri Meister. Ma in alcuni punti della sala, semplicemente... non si avverte. Sembra come se fosse scoppiato un incendio in una casa, ma in una delle stanze non ci fosse odore di fumo». Schizzi di sangue si levarono nell'aria e Garoth ebbe quasi la certezza che l'uomo dovesse essere morto, ma la squadra continuò a menare colpi su colpi. «Allora non può trattarsi del ka'kari d'argento», commentò Garoth. «No, Vostra Santità. Penso che esista un settimo ka'kari, un ka'kari segreto. Credo che annulli la magia, e credo che l'Angelo della Notte ne sia in possesso». Garoth rifletté sulla risposta mentre i superstiti si riallineavano, lasciando il cadavere davanti ai loro piedi. Il volto dell'uomo era stato completamente spappolato, con un fervore impressionante. Forse la squadra aveva voluto dar prova del proprio zelo, oppure quel miserabile non andava loro a genio. Garoth approvò con un cenno del capo. Gli artigli del vir si allungarono di nuovo e schiacciarono la testa del cadavere. «Il vostro sacrificio è accolto. Siete così purificati».
Due guardie del corpo spostarono i resti a lato del palco. I cadaveri giacevano ammucchiati nel sangue rappreso; così anche i Cenariani, che non avevano modo di assistere a quelle morti, ne potevano vedere i risultati. Appena la squadra successiva s'impegnò nell'esecuzione, Garoth esclamò: «Un ka'kari rimasto nascosto per settecento anni? Quale potere conferisce? Di occultamento? A cosa potrebbe servirmi?» «Vostra Santità, con un ka'kari del genere, voi o il vostro agente potreste entrare nel cuore della Cappella e impadronirvi di qualsiasi oggetto prezioso. Senza che nessuno vi veda. Il vostro agente potrebbe entrare nel Bosco di Ezra e trafugare per voi artefatti sufficienti per sette secoli. Non ci sarebbe più alcun bisogno di ricorrere agli eserciti o all'astuzia. Con un colpo solo, potrebbe afferrare per il collo l'intero Midcyru».
Un mio agente. Senza dubbio Neph si sarebbe coraggiosamente
offerto volontario per quel rischioso incarico. Eppure, il solo pensiero di un simile ka'kari assorbì Garoth durante l'uccisione di un altro adolescente, di due uomini nel fiore degli anni e di un reduce di molte campagne che esibiva uno dei più alti riconoscimenti al merito concessi dal Re Divino. Nello sguardo di quell'uomo si leggeva l'ombra del tradimento. «Cerca di saperne di più», gli ordinò Garoth. Si chiese se Khali sapeva dell'esistenza di questo settimo ka'kari. Si domandò se lo sapeva Dorian. Dorian il suo primo figlio legittimo, Dorian che avrebbe dovuto essere suo erede, Dorian il profeta, Dorian il Traditore. Dorian era stato qui, ne era certo. Soltanto Dorian avrebbe potuto portare Curoch, la possente spada di Jorsin Alkestes. Un mago era comparso con la spada e aveva distrutto cinquanta Meister e tre Vurdmeister, e poi era subito scomparso. Ovviamente, Neph si aspettava che Garoth gli domandasse qualcosa al riguardo, ma il Re Divino aveva perso ogni speranza di trovare Curoch. Dorian non era uno stupido. Non avrebbe portato Curoch così vicino se pensava di poterla perdere. Come superare in astuzia un uomo che prevede il futuro? Il Re Divino socchiuse gli occhi infastidito mentre schiacciava un'altra testa. Ogni volta il sangue schizzava sulla sua veste bianca
come la neve. Certo, era intenzionale - ma comunque irritante, e non c'era niente di maestoso nel ricevere uno spruzzo di sangue in un occhio. «Il vostro sacrificio è accolto», disse ai superstiti. «Siete così purificati». Si erse davanti al palco mentre la squadra riprendeva il suo posto nella piazza d'armi. Per tutta la durata della cerimonia, non si era mai girato a guardare i Cenariani seduti sul palco alle sue spalle. Lo fece ora. Appena si voltò, il vir prese vira. Neri viticci strisciarono su per il viso, si arrampicarono lungo le braccia e le gambe, e persino fuori dalle pupille. Concesse loro un istante per assorbire la luce, in modo che il Re Divino apparisse come una misteriosa macchia tenebrosa nella luce crescente del mattino. Poi pose fine all'esibizione. Voleva che i nobili lo vedessero. Non c'era un occhio che non fosse spalancato. Non era soltanto il vir o l'innata imponenza di Garoth a lasciarli ammutoliti. Erano i cadaveri accatastati come legna da ardere su entrambi i lati e alle sue spalle, che lo incorniciavano come un quadro. Era la sua veste candida imbrattata di sangue e materia cerebrale. Impressionante nella sua potenza e terrificante nella sua maestosità. Forse, se fosse sopravvissuta, avrebbe chiesto alla duchessa Trudana Jadwin di dipingere la scena. Il Re Divino osservò i nobili, e i nobili osservarono il Re Divino. Si domandò se qualcuno di loro avesse già fatto caso al loro numero: tredici. Porse la manciata di paglia ai nobili. «Venite», li invitò. «Khali vi purificherà». Questa volta, non aveva alcuna intenzione di lasciare al destino la scelta della vittima. Il comandante Gher guardò il sovrano. «Vostra Santità, deve esserci un...». Non finì la frase. I Re Divini non compivano errori. Sbiancò in volto. Estrasse una paglia lunga. Ci vollero alcuni secondi prima che riuscisse a riprendersi. La maggior parte dei rimanenti erano nobili minori - uomini e donne che avevano permesso ad Aleine Gunder IX di regnare. Tutti si erano lasciati corrompere con estrema facilità. L'estorsione può essere talmente semplice. Ma uccidere quei signorotti di campagna
non avrebbe portato a Garoth alcun vantaggio, nemmeno se lo avessero tradito. Questo pensiero lo portò a fermarsi davanti a una Trudana Jadwin imperlata di sudore. Era la dodicesima della fila, e il marito era l'ultimo. Garoth aspettò che i coniugi si scambiassero uno sguardo. Entrambi sapevano, chiunque dei presenti sapeva, che l'uno o l'altra sarebbe morto, e tutto dipendeva dalla paglia che avrebbe scelto Trudana. Il duca cominciò a deglutire spasmodicamente. «Di tutti i nobili qui riuniti», disse Garoth, «voi, duca Jadwin, siete l'unico che non è mai stato al mio servizio. Di conseguenza, non avete tradito. Vostra moglie, in compenso, lo ha fatto». «Cosa?», si stupì il duca, guardando Trudana. «Non sapevate che vi tradiva con il principe? È stata lei a ucciderlo, dietro mio ordine», concluse Garoth. C'era un che di magnifico nel trovarsi in mezzo a quel che doveva essere un momento esclusivamente privato. Il pallore sul volto del duca assunse una sfumatura livida. Chiaramente, era stato ancor meno perspicace della maggior parte dei cornuti. Garoth vide un'improvvisa consapevolezza calare sul poveruomo con la forza di un maglio. Ogni lieve sospetto che l'avesse mai sfiorato, ogni scusa poco convincente che avesse mai ascoltato gli apparvero in una nuova luce. Curiosamente, Trudana Jadwin appariva affranta. La sua non era l'espressione di compiaciuta superiorità che Garoth si sarebbe aspettato da lei. Pensava che avrebbe puntato il dito contro il marito, dicendogli che era tutta colpa sua. Invece, gli occhi della donna esprimevano sincera colpevolezza. Garoth ne dedusse che il duca era stato un bravo marito, e che la moglie ne era consapevole. Lo aveva tradito perché ne aveva avuto voglia, e adesso venti anni di bugie stavano crollando. «Trudana», riprese Garoth prima che uno dei due coniugi potesse dire qualcosa, «voi mi avete servito bene, ma avreste potuto servirmi
meglio. Quindi, ecco qui la vostra ricompensa e la vostra punizione». Le presentò i fili di paglia. «Quella corta è alla vostra sinistra». La duchessa guardò gli occhi anneriti dal vir di Garoth, poi i fili di paglia, e infine gli occhi del marito. Fu un momento eterno. Garoth sapeva che lo sguardo triste negli occhi del duca avrebbe perseguitato Trudana Jadwin per il resto della sua vita. Il Re Divino non aveva dubbi circa la sua scelta, ma evidentemente Trudana si riteneva capace di un supremo gesto di abnegazione. Facendosi coraggio, la donna allungò la mano per afferrare la paglia corta, ma poi si fermò. Guardò il marito, distolse lo sguardo e scelse il filo più lungo. Il duca si lasciò sfuggire un lungo gemito. Fu incantevole. Il suono trafisse ogni cuore cenariano nel cortile del castello. Possedeva la tonalità perfetta per trasmettere il messaggio del Re Divino: questo potrebbe capitare anche a te. Mentre i nobili - compresa Trudana - circondavano il duca con la morte nel cuore, ognuno sentendosi maledetto per dover partecipare a quel massacro e allo stesso tempo senza il coraggio di tirarsi indietro, il duca si rivolse alla moglie. «Ti amo, Trudana», disse. «Ti ho sempre amata». Poi si coprì il viso con il mantello e scomparve sotto una pioggia di colpi. Il Re Divino sorrise. Mentre Trudana esitava nella sua scelta, Kylar pensò che, se avesse accettato l'incarico di Momma K, quello sarebbe stato il momento ideale per agire. Tutti gli occhi erano concentrati sul palco. Kylar si era girato verso il barone Kirof, studiando l'espressione scioccata e inorridita apparsa sul suo volto, quando notò che sul muro alle spalle del barone c'erano solo cinque guardie. Le ricontò in fretta: sei, ma una aveva un arco e una manciata di frecce. Un secco scricchiolio riecheggiò dal centro del cortile, e Kylar intravide la sezione posteriore del palco improvvisato staccarsi e crollare. Qualcosa si levò nell'aria, risplendente di vivaci colori. Mentre tutti gli sguardi convergevano in quella direzione, Kylar si guardò in giro. La bomba pirotecnica esplose con una leggera scossa e un enorme lampo di luce bianca. Mentre centinaia di civili e di
soldati protestavano vigorosamente, accecati dall'improvviso bagliore, Kylar vide il sesto soldato sul muro tendere l'arco. Era Jonus Severing, un sicario con cinquanta assassinii al suo attivo. Una freccia dalla punta dorata saettò in direzione del Re Divino. Garoth aveva ancora gli occhi coperti dalle mani, ma una serie di scudi simili a bolle si stavano già levando intorno a lui. La freccia si conficcò nello scudo più periferico e prese fuoco, facendolo esplodere. Un'altra freccia era già per aria; attraversò lo scudo sfilacciato e colpì quello più vicino. Il successivo scoppiò, e così quello dopo, mentre Jonus Severing continuava a scagliare frecce a velocità sorprendente. Stava usando il suo Talento per tenere sospese a mezz'aria le frecce di scorta, in modo che non appena ne scoccava una, la successiva era già a contatto delle sue dita. Gli scudi si rompevano più rapidamente di quanto il Re Divino riuscisse a ricrearli. La gente continuava a gridare, abbagliata dalla luce. I cinquanta Meister sparsi nel cortile continuavano a lanciare scudi tutto intorno, lasciando di stucco la folla nelle vicinanze. Il sicario, che si era nascosto sotto il palco, saltò su avvicinandosi al Re Divino dal lato più vulnerabile. Esitò, mentre un ultimo scudo ondeggiante sbocciava a pochi centimetri dalla pelle del sovrano, e Kylar poté vedere che non era affatto un sicario. Era un ragazzino di forse quattordici anni, l'apprendista di Jonus Severing. Era talmente concentrato sul Re Divino che rimase immobile, in piena vista. Kylar udì lo schiocco della corda di un arco e vide il ragazzino crollare a terra, proprio mentre scoppiava l'ultimo scudo di Garoth. La folla impazzita si accalcava verso i cancelli, schiacciando i vicini. Diversi Meister, ancora abbagliati e in preda al panico, scagliavano missili verdi a casaccio sulla folla e sui soldati intorno a loro. Una delle guardie del corpo del Re Divino tentò di abbrancare il sovrano per portarlo al sicuro. Ancora frastornato, Garoth interpretò male la mossa e con un maglio di vir distrusse il grosso Highlander in mezzo ai nobili sul palco. Kylar cercò chi aveva ucciso l'apprendista del sicario. A non più di dieci passi da lui, era fermo Hu Gibbet, l'assassino che aveva
massacrato l'intera famiglia di Logan Gyre, il miglior sicario della città ora che Durzo era morto. Jonus Severing si stava già defilando, senza il minimo rammarico per la morte del giovane apprendista. Hu scoccò una seconda freccia, che si piantò nella schiena di Jonus Severing. Il sicario si lanciò oltre il muro, ma Kylar era certo che fosse morto. Hu Gibbet aveva tradito il Sa'kagé, e adesso aveva salvato il Re Divino. Il ka'kari fu nella mano di Kylar prima che lui se ne rendesse conto. Ma come, non avrei ucciso l'artefice della distruzione di
Cenarla, e adesso vorrei uccidere una guardia del corpo? Naturalmente, definire Hu Gibbet una guardia del corpo era come chiamare orso un bestione peloso, ma l'intenzione rimaneva. Kylar fece rientrare il ka'kari nella pelle.
Tenendo la testa bassa perché Hu non lo riconoscesse, Kylar si unì alla fiumana di Cenariani terrorizzati che si riversava fuori dal castello.
Capitolo 2 La tenuta dei Jadwin era sopravvissuta
agli incendi che avevano ridotto in macerie gran parte della città. Kylar si presentò al cancello principale pesantemente sorvegliato e le guardie lo fecero entrare senza dire una parola. Si era fermato solo per liberarsi del travestimento da conciatore e strofinarsi il corpo con l'alcol per eliminare il fetore, ed era certo di essere arrivato prima della duchessa, ma la notizia della morte del duca si era diffusa velocemente. Le guardie portavano fasce nere annodate intorno alle braccia. «È vero?», gli chiese una di esse. Kylar annuì e si avviò verso la casupola sul retro della residenza, dove vivevano i Cromwyll. Elene era stata l'ultima orfana che i Cromwyll avevano accolto, e tutti i suoi fratelli avevano cambiato mestiere o erano passati al servizio di altre famiglie. Solo la madre adottiva era ancora a servizio presso i Jadwin. Dopo il colpo di stato, Kylar, Elene e Uly erano rimasti lì. I rifugi di Kylar erano stati distrutti o resi inaccessibili dal fuoco, e non avevano avuto altra scelta. Kylar era stato dato per morto, perciò non voleva abitare in nessuno dei rifugi del Sa'kagé dove qualcuno poteva riconoscerlo. In ogni caso, ogni rifugio era pieno fino a scoppiare. Nessuno voleva restare in strada insieme alle bande nomadi di Khalidoriani. Nella casupola non c'era nessuno, così Kylar si avviò verso la cucina della residenza. In piedi su uno sgabello, l'undicenne Uly era china su una tinozza di acqua saponata, intenta a strofinare delle padelle. Kylar entrò di colpo e la afferrò sotto un braccio, la fece ruotare nonostante le proteste e la mise a sedere sullo sgabello. La bambina gli rivolse uno sguardo furioso. «Hai tenuto Elene fuori dai guai come ti avevo detto?», chiese alla piccola. Uly sospirò. «Ci ho provato, ma credo sia un'impresa disperata». Kylar rise, e anche Uly. La bambina era stata allevata dalla servitù del castello di Cenaria, che le aveva fatto credere, per la sua incolumità, di essere un'orfana. In realtà era la figlia di Momma K e di Durzo Blint. Durzo aveva saputo della sua esistenza solo negli ultimi giorni
della sua vita, e Kylar gli aveva promesso che avrebbe avuto cura della bambina. Dopo l'iniziale imbarazzo nello spiegarle che non era suo padre, le cose erano andate meglio di quanto Kylar avrebbe potuto immaginare. «Disperata? Ti faccio vedere io, "disperata"», disse una voce. Elene arrivò con un grosso calderone rivestito di una patina di grasso dello stufato del giorno prima, e lo posò accanto alla pila di piatti di Uly. La bambina protestò ed Elene ridacchiò sadicamente. Kylar si meravigliò di quanto fosse cambiata nell'arco di una sola settimana, o forse era lui che la vedeva in modo diverso. Elene aveva ancora le spesse cicatrici che le aveva provocato Ratto quando era solo una bambina: una X che le attraversava le labbra carnose, un'altra sulla guancia, e una mezzaluna dal sopracciglio all'angolo della bocca. Ma Kylar le guardò appena. Adesso, vedeva una pelle luminosa, occhi risplendenti di intelligenza e felicità, e un sorriso obliquo non a causa della cicatrice, ma di una espressione volutamente maliziosa. E come una donna potesse apparire così gradevole con i modesti abiti di lana della servitù e il grembiule, restava uno dei grandi misteri insoluti dell'universo. Elene staccò un grembiule da un gancio e guardò Kylar con occhi scintillanti. «Oh, no. Io no», si difese Kylar. Gli infilò il grembiule e lo attirò a sé con un movimento lento e seducente. Elene fissò le sue labbra e Kylar non poté fare a meno di concentrarsi sulle sue, mentre le inumidiva passandoci sopra la lingua. «Penso», disse la donna a bassa voce, lasciando scivolare le mani lungo i fianchi di Kylar, «che...». Uly tossì rumorosamente, ma nessuno dei due le diede soddisfazione. Elene gli posò le mani sui fianchi e lo attirò a sé, offrendogli la bocca, riempiendogli le narici del suo dolce profumo, «...che sarebbe molto meglio». Strinse il nodo del grembiule dietro la schiena di Kylar e lo lasciò di colpo, facendo un passo indietro per allontanarsi da lui. «È adesso puoi aiutarmi. Vuoi tagliare le patate o le cipolle?». Rise insieme a Uly di fronte alla sua espressione indignata.
Kylar scattò in avanti ed Elene cercò di schivare l'affondo, ma lui usò il Talento per afferrarla. Si era esercitato durante l'ultima settimana, e sebbene per ora riuscisse a estendere la portata solo di un passo oltre alle braccia, stavolta fu sufficiente. Attirò Elene a sé e la baciò. La donna finse di opporre resistenza per poi baciarlo con eguale fervore. Per un momento, il mondo si restrinse alla morbidezza delle labbra di Elene e alla sensazione del corpo premuto contro il suo. Da qualche parte, Uly cominciò ad avere sonori conati di vomito. Irritato, Kylar colpì di piatto l'acqua di rigovernatura e la schizzò addosso alla bambina. I conati furono repentinamente sostituiti da strilla. Elene si sciolse dall'abbraccio e si coprì la bocca, sforzandosi di non ridere. Kylar era riuscito a bagnarle completamente il viso. Uly calò con forza la mano sull'acqua e gli restituì il favore, e lui la lasciò fare. Le strofinò i capelli umidi sapendo che non lo sopportava, e disse: «Ok, mocciosa, me lo sono meritato. E adesso, tregua. Dove sono le patate?». Rientrarono senza scosse nella semplice routine dei lavori di cucina. Elene gli chiese cosa avesse visto e saputo e Kylar, pur accertandosi di continuo che nessuno stesse origliando, le raccontò come aveva osservato il barone e assistito inerme al tentato assassinio. Condividere eventi del genere era, forse, la cosa più noiosa che una coppia potesse fare, ma in tutta la sua vita Kylar non aveva mai conosciuto il lusso di annoiarsi della quotidianità di un amore. Condividere, poter raccontare la verità a una persona partecipe, era per lui qualcosa di incommensurabilmente prezioso. Durzo gli aveva insegnato che un sicario doveva tenersi pronto ad abbandonare tutto senza esitazioni. Un sicario è sempre solo. Era per un momento cosi, di semplice comunione, che Kylar aveva chiuso con la via delle tenebre. Aveva speso più della metà della propria vita allenandosi instancabilmente per diventare l'assassino perfetto. Non voleva uccidere più. «Volevano un terzo uomo per svolgere l'incarico», disse Kylar. «Uno che facesse da palo e da pugnale di riserva. Avremmo potuto riuscirci. La loro tempestività è stata straordinaria. Se il secondo non
fosse stato un novellino avrebbero messo a segno il colpo anche in due. Se fossi stato là, Hu Gibbet e il Re Divino sarebbero morti entrambi. E avremmo cinquantamila gunder». Fece una pausa, distratto da una mesta considerazione. «"Gunder". Penso che non dovrebbero più chiamarli così ora che tutti i Gunder sono morti», concluse con un sospiro. «Vuoi sapere se hai fatto la cosa giusta», disse Elene. « Sì ». «Kylar, ci saranno sempre persone talmente cattive che ai nostri occhi meriterebbero di morire. Nel castello, quando Roth ti stava... tormentando, c'è mancato un pelo che non lo uccidessi con le mie mani. Se avesse continuato ancora un altro minuto... non so cosa avrei fatto. Quel che so è cosa ha fatto alla tua anima l'aver ucciso tanta gente. Non importa se sembra di rendere un favore al mondo, alla fine ti distrugge. Non posso restare a guardare, Kylar. Non lo farò. Ci tengo troppo a te». Era l'unica condizione posta da Elene per lasciare la città insieme a Kylar: che lui smettesse di uccidere e di fare del male. Si sentiva ancora così confuso. Non sapeva se l'opinione di Elene fosse giusta, ma aveva visto abbastanza per sapere che non lo era quella di Durzo e di Momma K. «Credi davvero che la violenza generi altra violenza? Che alla fine moriranno meno innocenti se io smetto di uccidere?» «Lo credo davvero», rispose Elene. «Va bene», disse Kylar. «Questa sera ho un lavoro da sbrigare. Potremmo partire domattina».
Capitolo 3 Il Buco del Culo dell'Inferno non era un posto da re. Il nome era adeguato, poiché indicava l'estremità inferiore della prigione che i Cenariani chiamavano le Fauci. L'entrata delle Fauci era un volto demoniaco dai bordi frastagliati, scolpito in vetro fuso nero. I prigionieri venivano spinti a forza dentro la bocca aperta e lungo una rampa, resa spesso scivolosa dall'improvviso vuotarsi di vesciche sopraffatte dalla paura. All'interno del Buco, l'arte dello scultore aveva ceduto il passo al puro terrore viscerale suscitato dagli spazi angusti, dal buio, dall'altezza, dall'ululato sinistro del vento che si levava dalle profondità, e dalla consapevolezza che ogni prigioniero con cui avresti diviso il Buco era stato giudicato indegno di ricevere una morte pulita. Nel Buco regnava implacabile la calura e il tanfo di zolfo e di rifiuti umani nelle loro tre forme: escrementi, morti, corpi non lavati. C'era un'unica torcia a far luce, fissata molto in alto dall'altra parte della grata che separava gli animali umani dal resto dei prigionieri delle Fauci. Undici uomini e una donna dividevano il Buco con Logan Gyre. Lo detestavano per il suo coltello e il suo corpo vigoroso, e per il suo accento raffinato. In qualche modo, persino in quel serraglio da incubo di maniaci e svitati, lui era fuori dell'ordinario, isolato. Logan sedeva con la schiena contro la parete. L'unica, perché il Buco aveva una forma circolare. Al centro c'era un foro largo cinque passi spalancato su un abisso. Le pareti della voragine erano perfettamente verticali, di puro vetro fuso. La sua profondità, un mistero. Quando i prigionieri spingevano i loro rifiuti nel baratro, non sentivano alcun suono. L'unica cosa che fuoriusciva dal Buco era il tanfo denso di un inferno sulfureo e lo sporadico lamento del vento, o dei fantasmi, delle anime tormentate dei morti, o qualunque cosa fosse a emettere quel suono alienante. All'inizio, Logan si era chiesto perché i suoi compagni defecassero contro la parete per poi - e non sempre - spedire con un calcio le feci nel baratro. La prima volta che si avvicinò, lo capì: sarebbe stata
pura follia accovacciarsi vicino al Buco. Qualsiasi mossa nei pressi del baratro ti rendeva vulnerabile. Quando un carcerato doveva scavalcare un altro, si muoveva in fretta e con sospetto, ringhiando, sibilando e snocciolando imprecazioni senza significato. Spingere un compagno di sventura dentro il Buco era il modo più facile per ucciderlo. A peggiorare le cose c'era il fatto che la piattaforma di roccia intorno al Buco era larga solo tre passi e il terreno pendeva leggermente verso il baratro. Per gli ospiti del Buco, quella piattaforma era tutto il loro mondo. Era la brutta china che li avrebbe portati alla morte. Nei sette giorni successivi al colpo di stato, Logan non aveva mai dormito. Sbatté le palpebre. Sette giorni. Cominciava a sentirsi debole. Persino Fin, che si era preso gran parte dell'ultima razione di carne, non mangiava da quattro giorni. «Porti jella, Tredici», gli disse Fin dall'altra parte del baratro, guardandolo con occhi furiosi. «Non ci danno da mangiare da quando sei arrivato tu». Fin era l'unico che lo chiamava Tredici. Gli altri avevano accettato il nome che si era attribuito da solo in un momento di follia: Re. «Intendi dire da quando ti sei mangiato l'ultima guardia?», ribatté Logan. «Non pensi che potrebbe essere questo il motivo?». La risposta di Logan strappò risatine soffocate a tutti tranne a Gnasher l'idiota, che sorrise stupidamente attraverso le punte limate dei denti. Fin non disse niente e continuò a masticare e ad allungare la corda che aveva fra le mani. L'uomo portava già addosso un rotolo di corda talmente grosso che quasi nascondeva una corporatura robusta quanto la stessa fune. Degli ospiti del Buco, Fin era il più temuto. Logan non voleva definirlo il capo, perché questo avrebbe implicato l'esistenza di un ordine sociale fra i reclusi. Gli uomini erano come bestie: villosi, con la pelle così sporca da non riuscire a indovinare che colore avesse avuto prima dell'incarcerazione, gli occhi spiritati, le orecchie pronte a cogliere il minimo rumore. Tutti avevano il sonno leggero. Il giorno in cui Logan era arrivato, avevano mangiato due uomini.
Arrivato? Sono saltato dentro. Avrei potuto avere una morte pulita e decorosa. Adesso sono confinato qui per sempre, o almeno finché non mi divoreranno. Per gli dèi, mi mangeranno! Un movimento dall'altro lato del Buco lo riscosse dal suo crescente orrore e sconforto. Era Lilly. Soltanto lei non restava attaccata alla parete di roccia. La presenza di quel baratro la lasciava indifferente, non la spaventava. Un uomo allungò una mano e le afferrò il vestito. «Non ora, Jake», disse al guercio. Jake mantenne la presa per un momento, ma quando la donna lo guardò con aria di sfida, lasciò cadere la mano imprecando. Lilly si sedette accanto a Logan. Era una donna semplice, di età indefinibile. Avrebbe potuto avere cinquant'anni, ma Logan pensò che fosse più vicina ai venti: aveva ancora quasi tutti i denti. Lilly rimase a lungo in silenzio. Poi, appena l'interesse per la ragione che l'aveva spinta a muoversi si fu spento, si diede una grattatina distratta ai genitali e disse: «Cosa intendi fare?». Aveva una voce da ragazzina. «Intendo andarmene di qui, e intendo riprendermi il mio paese», rispose. «Ti aggrappi a quella stronzata del Re», continuò. «E ti prendono per pazzo. Vedo che ti guardi intorno come un ragazzino smarrito. Qui sei insieme ad animali. Se vuoi continuare a vivere, devi diventare un mostro. Se vuoi aggrapparti a qualcosa, non darlo a vedere. E poi fai quel che devi». Gli batté una mano sul ginocchio e tornò da Jake. Dopo pochi istanti, il guercio stava dando fondo alla sua libidine. Gli animali non ci badarono. Non guardarono nemmeno. La follia si stava impadronendo di lui. Dorian restava in sella solo per istinto. Il mondo esterno sembrava distante, insignificante, immerso nella foschia, mentre le visioni erano vicine, vitali, nitide. Il gioco era in corso e i pezzi si stavano muovendo, e la visione di Dorian si stava ampliando come mai prima d'allora. L'Angelo della Notte sarebbe fuggito a Caernarvon e i suoi poteri stavano aumentando, ma non li stava usando.
Che stai facendo, ragazzo? Dorian si aggrappò a quella vita e la
seguì a ritroso. Aveva parlato con Kylar una volta, e aveva profetizzato la sua morte. Adesso capiva perché non aveva previsto anche che questo Angelo della Notte sarebbe morto e allo stesso tempo sarebbe rimasto in vita. Durzo lo aveva confuso. Dorian aveva visto la vita di Durzo intersecarsi con altre vite. Aveva visto, ma non aveva capito. Fu tentato di ripercorrere le vite di Durzo fino alla prima, quando il sicario aveva ricevuto il ka'kari che adesso portava Kylar. Fu tentato di vedere se riusciva a rintracciare la vita di Ezra il Folle - di certo una vita simile ardeva così intensamente che non gli sarebbe sfuggita. Magari là poteva seguire Ezra, imparare tutto ciò che Ezra sapeva, imparare come lui aveva imparato. Ezra aveva creato il ka'kari sette secoli prima, e il ka'kari aveva reso Kylar immortale. Solo tre passi lo separavano dal più rispettato e oltraggiato mago della storia. Tre passi! Trovare qualcuno così famoso che era morto da così tanto. Era allettante, ma avrebbe richiesto tempo. Forse mesi. Ma, oh, quante cose avrebbe potuto imparare!
Potrei conoscere le cose del passato mentre il presente crolla a pezzi. Concentrati, Dorian. Concentrati. Risalendo a fatica lungo la vita di Kylar, Dorian la ripercorse, partendo dall'adolescenza nei Cunicoli fino all'amicizia con Elene e Jarl, e poi la violenza subita da Jarl, la menomazione di Elene, il primo assassinio di Kylar compiuto a undici anni, l'apprendistato con Durzo, l'insegnamento di Momma K, la benevola influenza del conte Drake, l'amicizia di Kylar con Logan, il secondo incontro con Elene, il furto del ka'kari, il colpo al castello, l'uccisione del suo maestro, il ritrovamento di Roth Ursuul - il mio fratellino, pensò Dorian - un mostro come lo ero anch'io una volta.
Concentrati, Dorian. Gli parve di aver sentito qualcosa, un grido,
un movimento nel mondo terreno, ma non si sarebbe lasciato distrarre di nuovo. Proprio ora che cominciava ad arrivare al sodo. Ecco! Osservò Kylar che avvelenava Momma K per giustizia, e le dava l'antidoto per pietà. Poteva conoscere le scelte che un uomo compiva ma, senza saperne il motivo, Dorian non era in grado di immaginare come
sarebbe diventato Kylar in futuro. Kylar aveva già scelto strade meno ovvie, strade assurde. Fra il togliere la vita alla sua amante o al suo mentore, aveva scelto di offrire la propria. Il toro gli aveva presentato entrambe le corna, e Kylar le aveva usate come punto di appoggio per saltare oltre la testa dell'animale. Era questo il Kylar che contava. In quel momento, Dorian vide l'anima di Kylar messa a nudo. Ora ti tengo in pugno, Kylar. Ora ti conosco. Una fitta di dolore attraversò il braccio di Dorian, ma adesso che aveva una salda presa su Kylar non avrebbe mollato. Kylar agognava a fondere insieme la cruda realtà della strada e i pii impulsi con cui l'aveva contaminato il conte Drake. Contaminato? Quella parola veniva da Kylar. Quindi, come Durzo, a volte considerava la pietà una debolezza.
Sei un tipo dannatamente difficile, non è vero? Dorian rise
osservando Kylar trattare con l'incapace Sa'kagé di Caernarvon, raccogliere erbe, pagare le tasse, scontrarsi con Elene, cercare di essere un uomo normale. Ma non se la passa bene, la tensione sta aumentando. Kylar tira fuori i vestiti grigi da sicario, esce fuori sui tetti - strano, si comporta così nonostante la sua decisione - e poi una notte qualcuno bussa alla porta e si presenta Jarl, che mette Kylar di fronte a un'altra decisione lacerante: tra la donna che ama e la vita che odia, tra l'amico che ama e la vita che dovrebbe detestare, tra un dovere e un altro, tra onore e tradimento. Kylar è Ombra al Crepuscolo, un colosso crescente con un piede piantato nel giorno e un altro nella notte. Ma un'ombra è una bestia effimera, e il crepuscolo può incupirsi nel buio della notte o schiarirsi nella luce del giorno. Kylar apre la porta a Jarl, ai futuri sviluppi... «Maledizione, Dorian!». Feir lo stava schiaffeggiando. Dorian realizzò di colpo che Feir doveva averlo fatto più di una volta, perché la mandibola gli pulsava su entrambi i lati. Doveva esserci qualcosa di grave al suo braccio sinistro. Guardò, la testa ancora confusa - cercando di trovare il giusto ritmo del tempo. C'era una freccia che sporgeva dal suo braccio. Una freccia di un Highlander khalidoriano, intinta in una sostanza nera. Avvelenata. Feir lo colpì di nuovo.
«Basta! Basta!», gridò Dorian, agitando le mani per proteggersi. Il braccio sinistro cominciò a dolergli; gemette e strinse gli occhi, ma era tornato alla realtà. Questa era sanità di mente. «Cos'è accaduto?», volle sapere. «Predoni», rispose Feir. «Un branco di idioti che voleva portarsi a casa un bottino di cui vantarsi», aggiunse Solon. Un bottino che, naturalmente, potevano essere le orecchie di Solon, di Feir o di Dorian. Uno dei quattro cadaveri portava già due orecchie appese a una collana. Sembravano fresche. «Sono tutti morti?», domandò Dorian. Era tempo di fare qualcosa con quella freccia. Solon annuì con aria mesta e Dorian ricostruì la dinamica della breve battaglia osservando il loro accampamento. L'attacco era arrivato mentre Feir e Dorian montavano il campo. Il sole si stava tuffando dentro una gola fra i Monti Faltier e il gruppo di predoni era sceso dalle alture, pensando che il sole avrebbe abbagliato le loro vittime. Due arcieri avevano cercato di coprire l'avvicinarsi dei loro amici, ma la traiettoria era molto inclinata, e le prime frecce mancarono il bersaglio. Dopodiché, la conclusione era ormai scontata. Solon non era abile con la spada, e Feir - il colossale, mostruosamente forte e lesto Feir - era un Maestro di Spada di Secondo Grado. Solon aveva lasciato a lui gli spadaccini. Era intervenuto troppo tardi per risparmiare quella freccia a Dorian, ma aveva ucciso entrambi gli arcieri con la magia. L'intera faccenda li aveva impegnati meno di due minuti. «Peccato che siano del clan Churaq», commentò Solon, dando un colpetto a uno dei giovani coperto da tatuaggi neri. «Avrebbero ucciso a cuor leggero quei bastardi del clan Hraagl a guardia della salmeria khalidoriana che stiamo seguendo». «Credevo che Screaming Winds fosse inespugnabile», disse Feir. «Come fanno i predoni a passare da questo lato del confine?». Solon scosse la testa. Così facendo, attirò l'attenzione di Dorian sui propri capelli, completamente neri tranne che alle radici. Da
quando Solon aveva ucciso cinquanta Meister servendosi di Curoch e restando quasi ucciso a sua volta a causa della quantità di magia usata per farlo - i capelli gli crescevano bianchi. Non le sfumature sale e pepe di un uomo avanti negli anni, ma un bianco candido in netto contrasto con il volto attraente di un uomo nel fior fiore degli anni, con la carnagione olivastra dei Sethi e i lineamenti cesellati dalla vita militare. In un primo tempo Solon si era lamentato che dopo l'uso di Curoch la sua visione fosse o in colori troppo accesi o in bianco e nero, ma adesso sembrava essersi definita. «Inespugnabile, sì», disse Solon. «Impraticabile per un esercito, sì. Ma a estate inoltrata quei giovani sono in grado di scalare le montagne. Tanti muoiono nel tentativo, oppure vengono spazzati via da tempeste improvvise, ma se sono forti e fortunati, niente può fermarli. Sei pronto con quella freccia, Dorian?». Sebbene tutti e tre fossero maghi, in questo frangente il loro aiuto era fuori questione. Dorian era un Hoth'salar, un Fratello Guaritore; le sue speranze di curare la propria crescente pazzia lo avevano condotto ai più alti ranghi dei guaritori. All'improvviso, dell'acqua impregnò il suo braccio intorno alla punta della freccia. «Che cos'era?», chiese Feir, impallidendo. «L'umidità rilasciata dal sangue che è già avvelenato. Dovrebbe attaccarsi tutta alla freccia quando la estrarrai», disse Dorian. «Io?», ribatté Feir, l'espressione schizzinosa sul volto, totalmente in contrasto con la sua massiccia corporatura. «Sei ridicolo», lo criticò Solon. Allungò una mano e strappò via. Dorian boccheggiò e Feir dovette sorreggerlo. Solon esaminò la freccia: le punte ricurve erano state appiattite in modo da non lacerare la carne durante l'estrazione, ma l'asta era coperta da un involucro scuro di sangue e il veleno aveva assunto una struttura cristallina, ampliando di tre volte il diametro originario della freccia. Tra i respiri ancora affannosi di Dorian, flussi di magia cominciarono a danzare nell'aria come piccole lucciole, come cento ragni che tessevano ragnatele scintillanti, arazzi di luce. Questa fu la parte che impressionò i due uomini. In teoria, qualsiasi mago era in
grado di curarsi ma, per qualche ragione, anche sanare la più piccola ferita non solo tendeva a non funzionare bene ma anche a risultare intensamente penoso. Era come se il paziente dovesse soffrire tutto in una volta il dolore, il disagio, l'irritazione e il prurito che la ferita gli avrebbe provocato nel normale tempo di guarigione. Se un mago guariva qualcun altro, poteva farlo cadere in uno stato di torpore. Quando guariva se stesso, il torpore poteva condurlo a imprevedibili errori e alla morte. Le maghe, invece, non avevano di questi problemi. Per loro curarsi era normale prassi. «Sei incredibile», disse Solon. «Come fai?» «È solo questione di concentrazione», rispose Dorian. «Ho fatto molta pratica». Sorrise e scrollò le braccia, come se volesse togliersi di dosso la stanchezza, e di colpo il suo volto si rianimò e tornò in sé, cosa che ormai accadeva sempre più raramente. Solon sembrava affranto. La follia di Dorian era irreversibile. Sarebbe aumentata finché non fosse diventato un idiota farfugliante che dormiva all'aperto o dentro i fienili. Avrebbe perso qualsiasi contatto con la realtà, conservando solo un paio di momenti di lucidità all'anno. A volte, in quei momenti si sarebbe ritrovato da solo, senza nessuno nei paraggi a ricordargli cosa aveva imparato. «Smettila», disse Dorian a Solon. «Ho appena avuto una rivelazione». Lo disse con un sorrisetto compiaciuto, sottolineando che si era trattato realmente di una rivelazione. «Stiamo andando nella direzione sbagliata. O almeno tu», disse indicando Feir. «Devi seguire Curoch a sud, fino a Ceura». «Cosa vuoi dire?», domandò Feir. «Credevo che tutti stessimo seguendo la spada. A ogni modo, il mio posto è accanto a te». «Solon, tu e io dobbiamo andare a nord, a Screaming Winds», disse Dorian. «Aspetta», insistette Feir. Ma gli occhi di Dorian erano di nuovo vitrei. Era perduto. «Magnifico», commentò Feir. «Proprio magnifico. Scommetto che l'ha fatto apposta».
Capitolo 4 Era passata la mezzanotte
quando Jarl li raggiunse alla casupola dei Cromwyll. Era in ritardo di più di un'ora. La madre adottiva di Elene si era addormentata nella stanza da letto comune, perciò Kylar, Elene e Uly erano seduti in attesa nella stanza sul davanti della casa. Uly era crollata dal sonno, appoggiata contro Kylar, ma si svegliò di soprassalto, terrorizzata, appena Jarl fece il suo ingresso.
In quale avventura sto trascinando questa ragazzina?, pensò Kylar.
Ma si limitò a darle una stretta rassicurante, e appena la piccola si riscosse completamente dal torpore del sonno, si calmò, imbarazzata. «Scusate», disse Jarl. «I pallidi stanno... punendo i Cunicoli per il tentato assassinio. Volevo tornare a controllare alcune cose, ma hanno chiuso i ponti. Oggi non c'è mazzetta che tenga». Kylar pensò che Jarl stesse evitando i dettagli perché c'era Uly nella stanza ma, considerando quanto già fosse disastrosa la situazione nei Cunicoli prima del tentato assassinio, riusciva a stento a immaginare come dovesse essere quella notte. Si domandò quanto sarebbe peggiorata se il Re Divino fosse stato davvero ucciso. La violenza genera violenza. «Significa che l'incarico è annullato?», chiese, così Elene e Uly non avrebbero fatto altre domande sui Cunicoli. «È ancora valido», rispose Jarl. Porse una borsa a Elene. Sembrava stranamente leggera. «Mi sono preso la libertà di corrompere le guardie del cancello con debito anticipo. Il prezzo è già salito, e vi garantisco che domani salirà ancora. Hai tu la lista degli orari in cui le guardie corrotte saranno di turno questa settimana?». Jarl aprì un involto e tirò fuori una tunica color panna, calzoni e alti stivali neri. «L'ho memorizzata», confermò Kylar. «Senti», intervenne Elene, «so che Kylar è abituato a eseguire incarichi senza sapere cosa sta per fare e perché lo deve fare, ma io
ho bisogno di capire. Per quale motivo qualcuno ha pagato cinquecento gunder perché Kylar finga di morire? È una fortuna!». «Non per un duca khalidoriano. È il meglio che sono riuscito a mettere insieme», disse Jarl. «I duchi di Khalidor non sono come i nostri duchi, perché la nobiltà di Khalidor è sempre inferiore ai Meister. Ma i Meister hanno ancora bisogno di gente che tenga a bada i contadini e così via; così il duca Vargun è ricco, ma ha dovuto lottare per procurarsi ogni briciola del suo potere. È arrivato a Cenaria sperando di far carriera, ma la posizione che pensava di occupare - il comando della guardia reale di Cenaria - è stata assegnata al Tenente Hurin Gher, oggi comandante Gher». «Per corromperlo affinché conducesse i nobili di Cenaria in un'imboscata durante il colpo, il traditore», concluse Kylar. «Esatto. Una mattina alla settimana, il comandante Gher si reca al pontile con alcuni dei suoi uomini più fidati fingendo di pattugliare l'area, ma in realtà per ricevere le mazzette del Sa'kagé. Questa mattina andrà e vedrà il suo rivale, il duca Vargun, compiere l'omicidio di un nobile cenariano minore, il barone Kirof. Il comandante Gher sarà ben contento di arrestare il duca. Nel giro di alcuni giorni o settimane, il "defunto" barone Kirof ricomparirà. Il comandante Gher verrà screditato per aver arrestato un duca senza alcuna ragione e, con tutta probabilità, il duca Vargun prenderà il suo posto. Parecchie cose potrebbero non andare per il verso giusto, ed è per questo che Kylar riceverà soltanto cinquecento gunder». «Sembra terribilmente complicato», osservò Elene. «Fidati di me», replicò Jarl, «se si tratta di politica khalidoriana, non c'è niente di più semplice». «In che modo il Sa'kagé volgerà la faccenda a suo vantaggio?», volle sapere Kylar. Jarl fece un largo sorriso. «Abbiamo tentato di acciuffare il barone Kirof, ma a quanto pare il duca non è tanto stupido. Kirof è già sparito». «Il Sa'kagé avrebbe rapito il barone Kirof? Perché?», domandò Elene.
Rispose Kylar: «Se il Sa'kagé acciuffasse Kirof, potrebbe ricattare il comandante Gher. E Gher saprebbe che nel momento in cui Kirof ricomparirà, sarebbe spacciato, così il Sa'kagé l'avrebbe in pugno». «Sapete», disse Elene, «a volte cerco di immaginare come sarebbe questa città senza il Sa'kagé, e non ci riesco. Voglio andare via di qui, Kylar. Posso venire con voi, questa notte?» «Non c'è spazio sufficiente per un adulto», rispose per lui Jarl. «A ogni modo, saranno di ritorno all'alba. Uly? Kylar? Siete pronti?». Kylar annuì e Uly, scura in volto, lo imitò. Due ore dopo erano al punto di approdo, in procinto di separarsi. Uly si sarebbe nascosta sotto il pontile su una zattera, camuffata per sembrare un mucchio di legname portato dalla corrente. Appena Kylar fosse caduto in acqua, gli avrebbe allungato una pertica a cui aggrapparsi, per riemergere lontano da sguardi indiscreti. Nella piccola zattera, ci sarebbe stato spazio a malapena sufficiente per far accovacciare Uly e lasciar affiorare la testa di Kylar. Dopo, il "mucchio di legname" avrebbe ripreso la corrente, scendendo di un centinaio di metri a valle verso un altro pontile, dove i due complici sarebbero riemersi. «E se va tutto male? Cioè, proprio male?», domandò Uly. Il freddo della notte le aveva arrossato le guance, facendola apparire ancora più bambina. «Allora di' a Elene che mi dispiace». Kylar sfiorò la tunica color panna. Gli tremavano le mani. «Kylar, ho paura». «Uly», disse, guardandola nei grandi occhi castani. «Volevo dirti... cioè, vorrei...». Distolse lo sguardo. «Oh, vorrei che non mi chiamassi con il mio vero nome durante un lavoro». Le diede un buffetto sulla testa; un gesto che Uly non sopportava. «Come ti sembro?» «Proprio come il barone Kirof... se ti guardo di sbieco». Questa era la reazione al buffetto sulla testa, si disse Kylar. «Ti ho mai detto che sei una rompiscatole?», la rimbeccò. La ragazzina si limitò a sorridere.
Nel giro di poche ore, il pontile avrebbe brulicato di scaricatori e marinai che approntavano le navi mercantili in attesa del sorgere del sole. Per il momento, però, l'unico rumore era lo sciabordio delle onde. La guardia notturna del porto era stata comprata, ma il timore più grande veniva dai drappelli di soldati khalidoriani che avrebbero potuto spingersi fino al pontile, assetati di sangue. Grazie al cielo, sembrava che quella notte preferissero i Cunicoli. «Bene, allora ci vediamo dall'altra parte», le disse con un sorrisetto furbo. Non era la cosa giusta da dire in quel momento. Gli occhi di Uly si riempirono di lacrime. «Su», le disse dolcemente. «Non mi succederà niente». La ragazzina si allontanò e, appena fu al sicuro fuori dal campo visivo, il volto cominciò a brillare. Sul viso giovane e asciutto di Kylar si aggiunse un doppio mento, spuntò una barba rossa in stile khalidoriano, il naso si fece adunco, le sopracciglia s'infoltirono. Adesso sì che era il barone Kirof. Tirò fuori uno specchietto e controllò il risultato. Corrugò la fronte: il naso finto si contrasse leggermente. Aprì la bocca, sorrise, s'incupì, sbatté le palpebre, esaminando i movimenti del volto. Non era perfetto, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Uly avrebbe potuto aiutarlo nei dettagli, ma meno sapeva dei suoi piccoli talenti, meglio era per lei. Si avviò lungo il pontile. «Per gli dèi», disse il duca Tenser Vargun vedendolo avvicinarsi. «Siete proprio voi?». Il duca appariva pallido e sudaticcio, persino alla luce delle torce in fondo al molo. «Duca Vargun, ho ricevuto il vostro messaggio», disse Kylar ad alta voce, allungando la mano per afferrare il polso del duca. Poi abbassò la voce. «Andrà tutto bene. Fate tutto secondo i piani». «Vi ringrazio, barone Kirof», disse il duca, con enfasi teatrale. Abbassò la voce. «Allora voi siete l'attore». «Sì. E non vorrei perdere il lavoro». «Non ho mai ucciso nessuno prima d'ora». «Assicuriamoci che dobbiate cominciare proprio questa sera», replicò Kylar. Guardò il pugnale coperto di gemme infilato nella cintura del duca. Era un ricordo di famiglia, e la sua inspiegabile perdita sarebbe stata una prova che il duca aveva realmente ucciso il
barone Kirof. «Se lo fate, finirete in prigione, e non in una delle migliori. Possiamo rinunciare». Mentre parlava, Kylar agitava le mani come faceva il vero barone Kirof quando era nervoso. «No, no». Dal tono, sembrava quasi che il duca volesse convincere se stesso. «Lo avete mai fatto prima d'ora?» «Incastrare qualcuno spacciandomi per qualcun altro? Certo. Fingere di essere ucciso? Non spesso». «Non vi preoccupate», disse il duca. «Io...». Gli occhi di Tenser si spostarono per un istante sullo sfondo e la voce tradì una nota di tensione. «Sono qui». Kylar si allontanò di scatto dal duca, come scosso da un sussulto. «È forse una minaccia?», sbraitò. Era solo una discreta imitazione della voce del barone, ma il sangue copre una moltitudine di finti peccati. Il duca lo afferrò per un braccio. «Farete come vi dico!». «Ah sì? Il Re Divino ne sarà informato». Ormai avevano decisamente attirato l'attenzione delle guardie. «Non direte nulla!». Kylar si liberò il braccio con uno strattone. «Non siete abbastanza scaltro da prendervi il trono, duca Vargun. Siete un codardo, e...». Abbassò di colpo la voce. «Una sola pugnalata. La sacca piena di sangue è proprio sopra il mio cuore. Io farò tutto il resto». Contorse il volto del barone Kirof in una smorfia sprezzante e si girò per allontanarsi. Il duca lo prese di nuovo per un braccio e lo strattonò indietro con violenza. Con una mossa furente, Vargun conficcò la lama - non nella vescica di pecora piena di sangue, ma nello stomaco di Kylar. Lo pugnalò una, due volte, e poi ancora, e ancora. Barcollando indietro, Kylar abbassò gli occhi sulla tunica di seta color panna, gocciolante di liquido rosso cupo. Le mani di Tenser erano coperte di sangue e chiazze rosse punteggiavano il blu del suo mantello. «Che state facendo?», farfugliò Kylar con voce strozzata, sentendo appena il vento sibilare alla fine del pontile. Ondeggiò, aggrappandosi al parapetto per non crollare a terra.
Madido di sudore, con le ciocche dei capelli neri che penzolavano inerti, Tenser lo ignorò. Ogni traccia del nobile incerto e balbettante di un minuto prima era scomparsa. Agguantò Kylar per i capelli. Per lui, fu una presa fortunata. Pochi centimetri più avanti, e avrebbe distrutto il volto illusorio assunto da Kylar. Mentre un rumore di passi rimbombava lungo il molo, il duca Vargun lasciò cadere Kylar in ginocchio. Attraverso il velo di dolore che gli appannava gli occhi, Kylar vide il comandante Gher precipitarsi nella sua direzione con la spada sguainata e due guardie al seguito. Il duca Vargun incise la gola di Kylar con la lama, facendo zampillare il sangue. Poi, con la stessa delicatezza con cui un taglialegna pianta la scure nel ceppo dopo aver finito il proprio lavoro, Vargun conficcò il pugnale nella spalla di Kylar. «Fermo! Fermo o morirete!», ruggì il comandante Gher. Il duca Vargun puntò lo stivale di pelle di vitello contro la spalla di Kylar e sorrise. Con una spinta, lo fece cadere oltre il molo, nelle acque del fiume. L'acqua era talmente gelida che Kylar precipitò in uno stato di torpore - o forse era per tutto il sangue che aveva perso. Prima di sprofondare in acqua aveva inspirato profondamente, ma uno dei polmoni non voleva cooperare. Dopo pochi istanti l'aria gorgogliò fuori dalla bocca, e - in modo sconcertante - dalla gola. Poi fu solo tormento, mentre l'acqua densa e scura del Plith gli riempiva il naso. Si dibatté debolmente, ma solo per un istante. Poi discese la calma. Il suo corpo dolorante divenne solo un lontano pulsare. Qualcosa lo urtò, e Kylar allungò istintivamente la mano per afferrarla. Doveva aggrapparsi. C'era qualcosa che doveva ricordare riguardo a una pertica. Ma non seppe dire se la sua mano si fosse mossa o meno. Il mondo non divenne buio, non sbiadì nelle tenebre. Un intenso biancore riempì il suo campo visivo, mentre il cervello soffriva per la mancanza di sangue. Qualcosa lo urtò ancora. Desiderò che lo lasciasse in pace. L'acqua era calda, lo avvolse una nuvola di quiete.
Il duca Tenser Vargun distolse a malincuore gli occhi dal fiume sterile e alzò le mani. Si girò lentamente e disse: «Sono disarmato. Mi arrendo». Non riuscì a trattenere un sorriso. «E buonasera a voi,
comandante».
Capitolo 5 Il Re Divino mi scorticherà viva o mi fotterà? Vi Sovari era seduta nella sala di ricevimento fuori della sala del trono del castello di Cenaria, sforzandosi di captare qualche parola del sovrano mentre giocherellava con la guardia che non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Qualsiasi cosa avesse potuto sapere circa il motivo per cui era stata convocata, avrebbe potuto salvarle la vita. Il suo maestro, Hu Gibbet, aveva appena fatto entrare il duca Tenser Vargun - uno dei nobili khalidoriani intervenuti per favorire l'assorbimento di Cenaria nell'impero khalidoriano. A quanto pareva, il duca aveva assassinato un nobile cenariano. Doveva costituire un problema non indifferente per il re che si atteggiava a dio. Tenser Vargun era un fedele vassallo, ma mostrarsi indulgente nei suoi confronti avrebbe avuto gravi conseguenze. I nobili cenariani che si erano sottomessi a Garoth, e a cui era stato concesso di conservare almeno porzioni delle loro terre, avrebbero potuto ritrovare il coraggio e ribellarsi. I nobili cenariani che si erano dati alla macchia avrebbero avuto un'ulteriore prova della brutalità khalidoriana come pretesto per radunare altri proseliti sotto i loro stendardi.
Ma perché Mastro Gibbet è qui? Hu aveva assunto quell'aria di
saccente autocompiacimento che Vi conosceva fin troppo bene.
Accavallò le gambe per catturare di nuovo l'attenzione della guardia. In termini di lotta - i termini che le aveva insegnato Hu Gibbet - si trattava di una finta. Se muoveva le gambe attirava la sua attenzione, se girava la testa di lato gli dava sicurezza, se si protendeva in avanti gli offriva una veduta panoramica. Non osava invocare un incantesimo a pochi passi dal Re Divino, ma così andava bene. L'incavo fra i seni possedeva una magia tutta sua. Portava un vestito azzurro attillato, talmente leggero da risultare quasi trasparente. Aveva spiegato chiaramente a Mastro Piccun come desiderava l'abito, così il sarto lo aveva realizzato in modo sobrio niente ricami, tranne una traccia dell'antico stile runico khalidoriano
intorno all'orlo e ai polsi, un'iscrizione da un antico poema erotico. Niente pizzi né fronzoli, solo linee pulite e curve. Mastro Piccun era un mandrillo incallito, e questo era l'unico vestito che aveva ritenuto adatto per presentarsi davanti al Re Divino. «Quell'uomo ha dozzine di mogli», aveva sottolineato il sarto con aria sdegnata. «Lascia che quelle vacche parlino con la seta. Tu canterai le dolci melodie della carne». Se la guardia era come la maggior parte degli uomini, l'avrebbe fissata da due a quattro secondi, controllato bene che nessuno avesse notato il suo sguardo interessato, e poi l'avrebbe fissata ancora. Il trucco era... adesso. Vi alzò di colpo gli occhi e incontrò quelli della guardia, proprio mentre si stavano posando di nuovo su di lei. Lo inchiodò al muro con l'intensità dello sguardo. Colto in flagrante, l'uomo arrossì e, prima che potesse nascondere l'imbarazzo dietro una maschera di impudenza o distogliendo lo sguardo, Vi si alzò e avanzò verso di lui. Era khalidoriano, naturalmente, quindi la donna si regolò di conseguenza. La percezione che i Khalidoriani avevano del loro spazio vitale non era così ampia come quella dei Cenariani. Bucare la bolla del suo spazio personale, con tutte le implicazioni del momento, significava andargli talmente vicino da fargli sentire non solo il suo profumo, ma anche il suo respiro. Lo tenne inchiodato con lo sguardo per un altro secondo, finché non vide che l'uomo stava per dire qualcosa. «Scusate», disse, sempre guardandolo intensamente negli occhi. «Posso sedermi qui?» «Io non vi stavo fissando... voglio dire...». Si sedette sulla sedia della guardia, a pochi centimetri dalla porta, le spalle protese in avanti, il viso sollevato, l'espressione angelica. I capelli biondi erano tirati su con tale cura che le trecce finemente elaborate non oscuravano la veduta. La tentazione era troppo forte. Gli occhi della guardia si spostarono di poco, scivolando sulla scollatura per una frazione di secondo per poi tornare di colpo a guardare il suo viso. «Prego?»,
disse Vi accennando un sorriso che gli fece capire: sì, se n'è accorta e no, non le dispiace. La guardia si schiarì la gola. «Io, be', non credo che sia un problema», farfugliò. Vi si dimenticò di lui all'istante e si mise in ascolto. «...non può andare direttamente al Buco, questo vanificherebbe lo scopo», disse una voce tenorile. Doveva essere il duca Vargun. Ma sembrava sicuro di sé.
Cosa? Come può essere sicuro di sé? Vi sentì la risposta del suo maestro, ma non riuscì a capirne il senso. Poi parlò il Re Divino, ma Vi riuscì a cogliere soltanto «...celle comuni finché il processo... Poi il Buco...». «Sì, Vostra Santità», disse il duca Vargun. Vi provò un senso di vertigine. Qualsiasi cosa stessero tramando, il tono del duca khalidoriano non era certo quello di un prigioniero che domanda un atto di clemenza. Suonava più come quello di un fedele vassallo, che sta perseguendo un alto scopo con una ricompensa che lo attende a missione compiuta. La donna non ebbe tempo di mettere insieme i vari tasselli prima che le porte si aprissero e il suo maestro conducesse fuori il duca Vargun. Contrariamente a quanto aveva appena udito, il duca appariva esausto, sia fisicamente che mentalmente, i vestiti sporchi e in disordine, gli occhi incollati al pavimento. Hu Gibbet la guardò mentre le passavano accanto. Il sicario aveva dei lineamenti talmente delicati che non si poteva definire attraente. Con i sottili capelli biondi che gli ricadevano sulle spalle, gli occhi grandi, e un fisico scultoreo, era ancora splendido nonostante avesse passato da qualche anno la trentina. Le rivolse il suo solito sorriso infido e le disse: «Ora il Re Divino ti riceverà». Vi sentì un brivido correrle lungo la schiena, ma si alzò in piedi ed entrò nella sala del trono. In quella stessa sala, il defunto re Gunder l'aveva assoldata per uccidere Kylar Stern. Mentre lei era apprendista di Hu Gibbet, Kylar faceva altrettanto con l'altro grande sicario della città, Durzo Blint, che era più rispettato, egualmente temuto e meno
vituperato del suo maestro. L'uccisione di Kylar avrebbe dovuto essere il capolavoro di Vi, il coronamento del suo apprendistato. Avrebbe significato libertà, il suo affrancamento da Hu. Ma aveva eseguito un lavoro maldestro e più tardi, quello stesso giorno, qualcuno chiamato l'Angelo della Notte aveva ucciso trenta Khalidoriani, cinque stregoni e il figlio del Re Divino. Vi pensò di essere l'unica a sospettare che l'Angelo della Notte fosse proprio Kylar. Per Nysos! Kylar è entrato nella leggenda lo stesso giorno che
l'ho avuto sotto la mia lama. Avrei potuto bloccare la leggenda sul nascere. Non c'erano più tracce della battaglia. La sala del trono era stata mondata del sangue e del fuoco e della magia, ed era tornata come nuova. Su ogni lato, sette colonne sostenevano il soffitto a volta, e spessi arazzi khalidoriani drappeggiavano le pareti per respingere il freddo autunnale. Il Re Divino sedeva sul trono, circondato da guardie, Vürdmeister nelle loro vesti rosse e nere, consiglieri e servitori. Vi si aspettava quella convocazione, ma non aveva idea del motivo. Il Re Divino sapeva che Kylar era l'Angelo della Notte? Doveva essere punita per aver permesso che il figlio del Re Divino morisse? Forse quell'uomo con dozzine di mogli voleva scopare con un'altra graziosa fanciulla? Oppure era semplicemente curioso di conoscere l'unico sicario donna della città? «Pensi di essere un tipo in gamba, Viridiana Sovari?», le domandò il Re Divino. Garoth Ursuul era più giovane di quanto avesse pensato, forse sui cinquanta, e ancora nel pieno delle forze. Aveva corpo e braccia possenti, il cranio liscio come un uovo, e due occhi che si posarono su di lei con la gravità di una mola da macina. «Perdonatemi, Vostra Santità», si accinse a porgli una domanda, poi cambiò idea. «Sì. E chiamatemi Vi». Le fece cenno di avvicinarsi; la donna salì i quattordici gradini fermandosi direttamente davanti al trono. Il sovrano la squadrò, non furtivamente come facevano spesso gli uomini, né con ardore o impudenza. Garoth Ursuul la esaminò come se fosse un mucchio di grano e stesse cercando di indovinarne il peso.
«Togliti il vestito», le ingiunse. L'inflessione della voce non le lasciò intuire nulla. Poteva usare lo stesso tono per esprimere un commento sul tempo. Voleva che lo seducesse? Non le importava se Garoth Ursuul volesse scoparla ma, in quel caso, si ripromise di concedergli una pessima prestazione. Diventare l'amante del Re Divino era troppo pericoloso. Sin dalla pubertà aveva scaldato il letto di un mostro e non aspirava certo a far carriera in quel campo. Comunque, dio o re o mostro, Garoth Ursuul non era certo uno a cui potevi opporre resistenza. Così Vi ubbidì senza discutere. Dopo due secondi, l'abito di Mastro Piccun scivolava sul pavimento. Non indossava biancheria intima, e aveva messo del profumo nell'incavo delle ginocchia. Non avrebbe potuto eseguire l'ordine con maggior solerzia: il re non avrebbe potuto fargliene una colpa ma, allo stesso tempo, Vi sapeva che una totale e improvvisa nudità non era nemmeno lontanamente eccitante quanto un lento spogliarello o l'eccitante visione del pizzo sulla pelle. Ursuul pensasse pure che fosse una scadente seduttrice o una donna sciatta. Pensasse pure quel che voleva, purché lo facesse a debita distanza. Inoltre, non avrebbe dato a nessun uomo la soddisfazione di vederla arrendersi. Vi sentiva gli occhi di ogni cortigiano, consigliere, Vürdmeister, servitore e guardia fissi su di lei. Non le importava. La nudità era la sua armatura. Abbagliava quegli idioti sbavanti. Finché guardavano il suo corpo, non riuscivano a vedere altro. Garoth Ursuul la squadrò di nuovo, con la stessa distaccata meticolosità. «Non hai nulla di divertente da offrire», concluse il Re Divino. «Sei già una puttana». Per qualche ragione, dette da quell'uomo orrendo, quelle parole la punsero sul vivo. Rimase nuda di fronte al sovrano, che aveva perso ogni interesse nei suoi confronti. In fondo era quel che voleva, ma le fece male. «Tutte le donne sono puttane», replicò. «Che vendano i loro corpi, o i loro sorrisi, o il loro fascino, o i loro anni fertili sottomettendosi a un uomo. È il mondo a rendere ogni donna una puttana, ma è la donna a stabilire le proprie condizioni. Vostra Santità».
Il re parve divertito da questo inaspettato ardire, ma non per molto. «Credevi che non mi sarei accorto di quel che hai fatto con la guardia? Credevi di poter ascoltare di nascosto me?» «Certamente», ribatté Vi, ma adesso la sua impertinenza era solo una farsa. Mi ha vista? Attraverso il muro? Sapeva che doveva tenersi aggrappata alla propria spavalderia, o si sarebbe sciolta sul pavimento. Se volevi vincere un confronto con il Re Divino, dovevi comportarti come se disprezzassi la vita. Ma aveva saputo di giocatori d'azzardo che avevano perso la partita. Il Re Divino ridacchiò, subito imitato dai membri della corte. «Certamente», ripeté. «Mi piaci, chiacchierona. Per oggi non ti ucciderò. Non sono molte le donne disposte a polemizzare con un re, tanto meno con un dio». «Non sono come tutte le donne che avete conosciuto», disse Vi prima di riuscire a frenare la lingua. Il sorriso sul volto di Garoth si spense. «Ti dai fin troppo credito. Per questo, ti spezzerò, ma non oggi. Il tuo Sa'kagé ci sta creando dei problemi. Vai dai tuoi amichetti dei bassifondi e scopri chi è il vero Shinga. Non il prestanome. Trova quello vero, e uccidilo». Per la prima volta, Vi si sentì nuda. La sua armatura vacillò. Dio o uomo, Garoth Ursuul possedeva una colossale baldanza. Le aveva detto che l'avrebbe spezzata, ma non gli era nemmeno Passato per la mente che lei potesse disobbedirgli. Non era un bluff. Non era arroganza. Era il semplice esercizio delle prerogative di uno sconfinato potere. I cortigiani la puntavano come i cani che aspettano sotto la tavola del re, speranzosi in un succulento bocconcino. Vi si chiese se il Re Divino l'avrebbe data a uno di loro o a tutti. «Sai», disse il re, «di avere sangue di stregone nelle vene? Come dicono i meridionali, hai Talento. Ecco il tuo incentivo. Se uccidi questo Shinga, lo considereremo il tuo capolavoro, e non solo sarai un maestro sicario, ma ti addestrerò io in persona. Ti concederò molto più potere di quel che Hu Gibbet potrebbe mai immaginare. Potere su di lui, se lo desideri. Ma se mi deludi... bene». Stirò le labbra in un sorriso. «Non mi deludere. E adesso vattene».
Se ne andò, con il cuore che batteva all'impazzata. Il successo della missione significava tradire il suo mondo. Tradire il Sa'kagé cenariano, la malavita più temuta in tutto il Midcyru! Significava uccidere il loro capo per una ricompensa che non era certa di ottenere. Essere addestrata a diventare stregone dal Re Divino in persona? Anche mentre Garoth parlava, Vi si era figurata le singole parole come ragnatele, che la immobilizzavano sempre più saldamente tra le sue grinfie. Era quasi palpabile, un sortilegio che la intrappolava come una rete, sfidandola a divincolarsi. Provò un senso di nausea. Non aveva altra possibilità che obbedire. Per quanto fosse doloroso il successo, il fallimento non costituiva un'alternativa. Aveva sentito le storie che circolavano. «Vi!», la richiamò il Re Divino. Si fermò prima di raggiungere la porta, scossa da un brivido d'orrore nel sentire pronunciare il proprio nome. Ma il Re Divino stava sorridendo. Adesso i suoi occhi le sfiorarono il corpo come quelli di un qualsiasi uomo. Qualcosa balenò come un'ombra nella sua direzione e Vi, di riflesso, afferrò la stoffa materializzatasi dal nulla. «Prendi il tuo vestito», le disse.
Capitolo 6 «Mi sento come se avessi respirato
segatura per una
settimana», disse Kylar. «Acqua di fiume. Cinque minuti», replicò Uly. Concisa. Stizzita. Kylar si sforzò di aprire gli occhi, ma quando ci riuscì non vide nulla. «Così mi hai tirato fuori tu. Dove siamo, Uly?» «Inspira». Uly faceva la dura: voleva dire che era spaventata a morte. È così che reagiscono le bambine? Ispirò a metà, ma il tanfo lo fece tossire. Erano nella rimessa delle barche di Momma K lungo il Plith. «Non c'è niente come acqua di scolo calda in una notte fredda, eh?», ironizzò Uly. Kylar si girò dall'altra parte. «Pensavo che fosse il tuo fiato». «Che ha un odore buono quanto il tuo aspetto», ribatté. «Dovresti essere un po' più rispettosa». «Dovresti essere morto. Dormi». «Pensi che sia carino fare la dispotica arrogante?» «Che c'entra la pertica rotolante? Devi riposare e basta». Kylar rise e sussultò per il dolore. «Vedi?», disse Uly. «Hai preso il pugnale?» «Quale pugnale?». Kylar la afferrò per la tunica. «Ah, quello? Ho dovuto usare un piede di porco per sfilartelo dalla spalla», disse. Non c'era da stupirsi che la spalla gli dolesse in quel modo. Non aveva mai visto Uly così boriosa e loquace. Se avesse calcato troppo la mano, sarebbe scoppiata in lacrime. Una cosa era sentirsi una sciocca, un'altra sentirsi una sciocca impotente. «Per quanto tempo sono stato... incosciente?»
«Un giorno e una notte». Imprecò sotto voce. Era la seconda volta che Uly lo aveva visto cadere sotto i colpi di un assassino, il suo corpo mutilato. Se aveva un'incrollabile convinzione che Kylar sarebbe tornato, ne era felice. Glielo aveva promesso, ma senza averne la certezza. Tutto quel che sapeva era che, ancora una volta, era tornato. Il Lupo, quello strano uomo dagli occhi gialli che aveva incontrato in un luogo tra la vita e la morte, non gli aveva fatto alcuna promessa. A dire il vero, questa volta Kylar non l'aveva incontrato affatto. Aveva sperato di potergli fare qualche domanda, tipo quante vite aveva a disposizione. E se fossero state solo due? «Ed Elene?», volle sapere. «È andata a prendere il carro. Le guardie che Jarl ha pagato sono di turno solo per un'altra ora». Elene era andata da sola a prendere il carro? Kylar era così stanco. Avrebbe giurato che Uly fosse di nuovo sul punto di scoppiare in lacrime. Che razza di uomo era per coinvolgere una ragazzina in piani del genere? Non era un surrogato di padre per lei, ma gli piaceva pensare che fosse meglio di niente. «Dovresti dormire», ripeté Uly, facendo del proprio meglio per usare di nuovo un tono brusco. «Bada che...». Era talmente dolorante che non riuscì a completare il pensiero, tanto meno la frase. «Mi prenderò cura di te, stai tranquillo», volle rassicurarlo la bambina. «Uly?» «Sì ? » «Hai fatto un ottimo lavoro. Un magnifico lavoro. Ti sono debitore. Grazie. E scusami». Kylar riuscì quasi a sentire la dolcezza e il calore che riempirono l'aria intorno alla piccola. Gemette. Avrebbe voluto dire qualcosa di formidabile e spiritoso come avrebbe fatto Durzo ma, prima di pronunciare un'altra parola, era crollato nel sonno.
Capitolo 7 A mezzogiorno,
quando Kaldrosa Wyn si accodò alla fila dietro la Taverna delle Lucciole, c'erano già duecento donne in attesa dietro al bordello. Due ore dopo, quando la fila cominciò a muoversi, il numero si era triplicato. Le donne formavano un gruppo eterogeneo tipico dei Cunicoli, da ratti delle gang di soli dieci anni, consapevoli che Momma K non le avrebbe mai assunte ma troppo disperate per non provarci, a donne che avevano vissuto nel ricco settore orientale fino a un mese prima, ma avevano perso le loro case negli incendi e si erano ammassate nei Cunicoli. Alcune di loro erano in lacrime. Altre si stringevano addosso gli scialli con espressione assente. E alcune erano Conigli di lunga data, che ridevano e scherzavano fra loro. Lavorare per Momma K era l'ingaggio più sicuro che potesse ottenere una prostituta. Si scambiavano aneddoti sul trattamento che la Signora dei Piaceri riservava alla nuova clientela khalidoriana. Alcune sostenevano che se qualche pervertito ti faceva male, doveva sborsarti monete d'argento sufficienti a coprire i lividi. Un'altra dichiarò che si trattava addirittura di corone, ma nessuna le credette. Quando la duchessa Terah Graesin - il vecchio duca suo padre era stato ucciso durante il colpo - aveva guidato la resistenza fuori della città, i suoi seguaci avevano incendiato tutte le loro abitazioni e i negozi. Gli incendi, naturalmente, non si erano sopiti dopo aver divorato le proprietà che erano state abbandonate. Migliaia di persone in città erano rimaste senza casa. La situazione era ancora più difficile nei Cunicoli, dove i poveri vivevano stipati come bestiame. Ne erano morti a centinaia. Gli incendi erano divampati per giorni. I Khalidoriani volevano produttiva il prima possibile. considerati d'impaccio, così i Cunicoli. Nobili e artigiani
che la zona orientale diventasse Quanti non avevano un tetto furono soldati li obbligarono a trasferirsi nei sfrattati si disperarono, ma la loro
disperazione non servì a cambiare la situazione. Essere costretti a spostarsi nei Cunicoli equivaleva a una sentenza di morte. Per tutto il mese precedente, il Re Divino aveva permesso ai suoi soldati di fare nei Cunicoli qualunque cosa volessero. Gli uomini calarono a frotte per saziare qualsiasi abietto desiderio li solleticasse. Intonando quella dannata preghiera a Khali, stuprarono, uccisero, rubarono i miseri averi dei Conigli solo per gettarli nel fiume e ridere alle loro spalle. Sembrava che non potesse andare peggio di così ma, dopo il tentato assassinio, la situazione arrivò a toccare il fondo. I Khalidoriani avevano passato meticolosamente al setaccio i Cunicoli, un intricato isolato dopo l'altro. Avevano costretto le madri a scegliere quale dei figli tenere in vita e a passare gli altri a fil di spada. Le donne erano state violentate davanti agli occhi dei familiari. Gli stregoni avevano improvvisato macabri giochetti, facendo saltare via parti del corpo. Se qualcuno opponeva resistenza, rastrellavano il quartiere e giustiziavano pubblicamente dozzine di abitanti. Erano girate voci sull'esistenza di nascondigli sicuri nel sottosuolo dei Cunicoli, ma solo le persone bene ammanigliate con il Sa'kagé potevano accedervi. Tutti avevano un posto dove rintanarsi, ma i soldati arrivavano ogni notte e a volte anche durante il giorno. Era solo una questione di tempo, ma prima o poi sarebbe toccata a tutti la stessa sorte. La bellezza era diventata una maledizione. Molte delle donne che avevano amanti o mariti o persino fratelli protettivi, li avevano persi. Resistenza era sinonimo di morte. Così le donne facevano la fila fuori dei bordelli di Momma K perché erano gli unici posti sicuri nei Cunicoli. Se dovevi finire stuprata, concludevano molte di loro, che almeno ti pagassero. A quanto pareva i bordelli facevano ancora buoni affari. Ad alcuni Khalidoriani non piaceva arrischiarsi dentro i Cunicoli. Altri volevano semplicemente essere sicuri di portarsi a letto una donna bella e pulita. Tuttavia, i bordelli già non disponevano più di molti posti vacanti - e se qualcuno ne aveva ancora, nessuno voleva appurare perché. Kaldrosa aveva rinviato la decisione finché aveva potuto: non era così che dovevano andare le cose. Quel Vürdmeister, Neph Dada,
l'aveva ingaggiata specificamente perché era un'ex pirata sethi che era stata abbandonata anni prima nei Cunicoli. Erano dieci anni che non navigava - e non era mai stata un capitano, nonostante quel che le aveva detto il Vürdmeister. Ma era una Sethi, e aveva assicurato di saper pilotare una nave khalidoriana attraverso l'Arcipelago dei Contrabbandieri fino al fiume Plith e al castello. Come compenso, avrebbe tenuto la nave. Era sembrato un prezzo adeguato per un lavoretto sgradevole. Kaldrosa Wyn non era leale a Cenaria, ma lavorare per i Khalidoriani era sufficiente a far accapponare la pelle a chiunque. Magari avrebbero anche tenuto fede alla loro parte nell'accordo lasciarle quella vacca di mare di una chiatta che non valeva i chiodi che la tenevano insieme. Magari sarebbe anche riuscita a rimediare un equipaggio. Solo che un bastardo le aveva affondato la nave durante l'invasione. Era riuscita a raggiungere la riva a nuoto, senza poter dire altrettanto dei duecento uomini del clan, vestiti di armatura, che lei stava trasportando e che ormai erano diventati cibo per i pesci. Dopo aver subito quattro stupri e aver visto Tomman ridotto per due volte in fin di vita dalle percosse, si era decisa. «Nome?», le domandò la ragazza alla porta, munita di carta e penna. Doveva avere diciotto anni, una buona decina meno di Kaldrosa, ed era favolosa: capelli perfetti, denti perfetti, gambe lunghe, vitino da vespa, labbra piene, e un profumo dolcemente muschiato che fece ricordare a Kaldrosa quanto dovesse essere sgradevole l'odore che emanava il suo corpo. «Kaldrosa Wyn». «Occupazione o talenti speciali?» «Ero un pirata». La ragazza sollevò la testa dal foglio. «Sethi?». Kaldrosa annuì e la ragazza la indirizzò al piano di sopra. Mezz'ora dopo, Kaldrosa metteva piede in una delle piccole camere da letto.
Anche la donna che trovò lì era giovane e bella. Bionda, piccola ma formosa, con occhi grandi e magnifici indumenti. «Mi chiamo Daydra. Ti sei mai data da fare tra le lenzuola?» «Immagino che non ti riferisci al bucato». Daydra soffocò una risatina, anch'essa graziosa. «Un sagace, eh?». Kaldrosa toccò gli anelli del clan, quattro piccoli cerchi disposti a falce di luna intorno allo zigomo sinistro. «Clan Tetsu, a largo dell'isola Hokkai». Indicò la sua catenella da capitano - l'aveva indossata appena ottenuto il lavoro per Khalidor. Aveva scelto la più raffinata catenella in argento a spina di pesce che potesse permettersi. Pendeva dal lobo dell'orecchio sinistro fino all'anello del clan inferiore. Era un oggetto da capitano mercantile, un capitano mercantile di umili origini. I capitani militari e i capitani pirati più arditi portavano catenelle fissate con un cappio da un lobo all'altro, dietro la testa, per evitare che venissero strappate in battaglia. «Un capitano pirata», disse, «mai catturato. Se ti prendono, finisci impiccato oppure ti tolgono gli anelli e ti spediscono in esilio. Non tutti sono d'accordo su quale delle due sorti sia la peggiore». «Perché hai rinunciato?» «Mi sono imbattuta in un vero cacciatore di pirati sethi alcune ore prima di una tempesta. Le abbiamo date e le abbiamo prese, ma poi la tempesta ci ha spinto contro gli scogli dell'Arcipelago dei Contrabbandieri. Da allora, ho fatto di tutto». Kaldrosa non disse che quel "di tutto" includeva essersi sposata e lavorare per Khalidor. «Fammi vedere i capezzoli». Kaldrosa sciolse i lacci e si divincolò dal busto. «Che io sia dannata», esclamò Daydra. «Molto bene. Credo che sarai perfetta». «Ma voi siete tutte così belle», ribatté Kaldrosa. Per quanto sciocca suonasse la sua protesta, non riusciva a credere che la fortuna stesse volgendo a suo favore. Daydra sorrise. «Dobbiamo essere belle. Tutte le ragazze di Momma K devono esserlo, e tu lo sei. In più, hai una nota esotica.
Guardati. Anelli di clan. Carnagione olivastra. Hai persino i capezzoli abbronzati!». Kaldrosa ringraziò di colpo la propria testardaggine che l'aveva spinta a navigare a seno scoperto per ammaliare i soldati khalidoriani. Si era guadagnata anche una solenne scottatura, ma la pelle si era poi scurita e non aveva ancora perso colore. «Non so come sei riuscita a procurarti un'abbronzatura», disse Daydra, «ma cerca di conservarla, e parla come un pirata. Se vuoi lavorare per Momma K, dovrai essere la ragazza pirata sethi. Hai un marito o un amante?». Kaldrosa esitò. «Marito», ammise. «L'ultima volta lo hanno quasi ammazzato di botte». «Se lavori qui, non devi più vederlo. Un uomo può perdonare una donna che abbandona la prostituzione per lui, ma non perdonerà mai una che si prostituisce per lui». «Ne vale la pena», disse Kaldrosa. «Per salvargli la vita, ne vale la pena». «Un'altra cosa. Perché prima o poi me lo chiederai. Non sappiamo perché i pallidi lo fanno. Ogni nazione ha i suoi pervertiti che si divertono a far male alle prostitute, ma qui è diverso. Alcuni soddisfano prima il loro piacere e ti fanno male dopo, come se si vergognassero. Alcuni non ti fanno alcun male, ma si vantano di averlo fatto e pagano l'ammenda a Momma K senza fiatare. Ripetono sempre le stesse parole. Le hai sentite?». Kaldrosa fece cenno di sì. «Khali vas, roba del genere?» «È antico Khalidoriano, un incantesimo o una preghiera o qualcosa di simile. Non ci badare. Non giustificarli. Sono animali. Ti proteggeremo come meglio potremo, e si guadagna bene, ma dovrai aver a che fare con loro ogni giorno. Pensi di farcela?». Le parole le rimasero soffocate in gola, così Kaldrosa annuì di nuovo. «Allora vai da Mastro Piccun e digli che ti servono tre costumi da pirata. Fatti prendere bene le misure prima che ti scopi». Kaldrosa inarcò le sopracciglia, incredula.
«Spero che per te non sia un problema». «Non pensi che avremo dei problemi, vero?», domandò Elene. Si erano coricati dentro il carro, a trascorrere l'ultima notte sotto le stelle dopo tre settimane di viaggio. L'indomani sarebbero entrati a Caernarvon e nella loro nuova vita. «Ho lasciato tutti i miei problemi a Cenaria. Be', tranne per questi due che mi stanno appiccicati», disse Kylar. «Ehi!», protestò Uly. Benché dotata della stessa brillante intelligenza della sua vera madre, Momma K, aveva ancora undici anni e ci cascava facilmente. «Appiccicati?», intervenne Elene, puntellandosi su un gomito. «Se ricordo bene, questo è il mio carro». Era vero. Jarl aveva dato loro il carro e Momma K lo aveva caricato di erbe perché Kylar potesse avviare un'erboristeria. Forse per un riguardo nei confronti di Elene, la maggior parte di esse erano persino legali. «Se c'è qualcuno che resta appiccicato, questo sei tu». «Io?», ribatté Kylar. «Eri uno spettacolo così patetico che mi sentivo in imbarazzo per te. Ho voluto solo farti smettere di implorare». «Be', pensavo che tu fossi indifesa...», disse Kylar. «E adesso sai come stanno le cose», concluse Elene compiaciuta di sé, riavvolgendosi nelle coperte. «Non è vero. Hai così tante difese che un uomo sarebbe fortunato se gli andasse bene con te una volta in mille anni», concluse Kylar con un sospiro. Elene restò senza fiato per lo sdegno e saltò su a sedere. «Kylar Thaddeus Stern!». Kylar ridacchiò. «Thaddeus? Questa sì che è buona. Conoscevo un Thaddeus, una volta». «Anche io. Era un vero idiota». «Davvero?», la punzecchiò Kylar. «Quello che conoscevo io era famoso per il suo gigantesco...».
«Kylar!», lo interruppe Elene, accennando a Uly. «Il suo gigantesco cosa?», volle sapere Uly. «È ora sbrogliatela da solo», disse Elene. «Il suo gigantesco cosa, Kylar?» «Piede. E tu sai cosa dicono dei piedi grandi», concluse facendo l'occhiolino a Elene. «Cosa?», insistette Uly. «Scarpe grosse», rispose Kylar. Si avvolse nelle compiaciuto come lo era stata Elene pochi istanti prima.
coperte,
«Non capisco», riprese Uly. «Che vuol dire, Elene?». Kylar ridacchiò malignamente. «Te lo dirò quando sarai più grande», tagliò corto Elene. «Non voglio saperlo quando sarò più grande. Voglio saperlo adesso», si lagnò la piccola. Elene non le rispose. Invece, sferrò un pugno al braccio di Kylar, che grugnì in protesta. «Avete intenzione di fare la lotta, adesso?», chiese Uly. Era uscita fuori dalle coperte e si era seduta in mezzo a loro. «Perché finite sempre col baciarvi. È disgustoso». Arricciò la bocca e riprodusse il rumore di baci appassionati. «Il nostro piccolo contraccettivo», commentò Kylar. Per quanto volesse bene a Uly, Kylar era convinto che fosse l'unica ragione per cui dopo tre splendide settimane di viaggio con la donna che amava, fosse ancora a bocca asciutta. «Come hai fatto?», domandò Elene a Uly, ridendo e prevenendo saggiamente la domanda "cos'è-un-contraccettivo?". Uly arricciò di nuovo la bocca e si esibì di nuovo in uno spettacolo di baci, finché tutti e tre scoppiarono in una risata che presto degenerò in una lotta a colpi di solletico. Dopo, con i fianchi indolenziti dalle lunghe risate, Kylar restò ad ascoltare il respiro delle due compagne. Elene aveva il dono di addormentarsi appena posava la testa sul cuscino, e Uly non era da meno. Quella sera, l'insonnia di Kylar non fu una disgrazia. Sentiva la
pelle ardere d'amore. Elene si girò e si rannicchiò contro il suo petto. Inalò il fresco profumo dei suoi capelli. Non ricordava di essersi mai sentito così bene, così accettato, in tutta la sua vita. Gli avrebbe sbavato addosso, lo sapeva, ma non se ne preoccupò. Anche sbavare era grazioso, se era Elene a farlo. Non c'era da meravigliarsi che Uly fosse disgustata. Kylar era patetico. Ma per la prima volta nella sua vita, si sentiva un brav'uomo. Era sempre stato bravo in tutto: bravo a scassinare, ad arrampicarsi, a nascondersi, a lottare, ad avvelenare, a travestirsi e a uccidere. Ma, prima di Elene, non si era mai sentito buono. Quando la donna lo guardava, il Kylar che vedeva riflesso nei suoi occhi non era ripugnante. Non era un assassino; era un padre sostitutivo che scherzava con una bimba di undici anni; era l'amore che diceva a Elene quanto era bella e glielo faceva credere per la prima volta nella sua vita; era un uomo con qualcosa da donare. Quello era l'uomo che vedeva Elene quando lo guardava. Vedeva in lui così tanti lati positivi, che Kylar alternava momenti in cui ci credeva a sua volta ad altri in cui la considerava completamente pazza. Ma esserne convinto era una sensazione magnifica. L'indomani, avrebbero raggiunto Caernarvon, dove sarebbero rimasti per un po' presso la zia di Elene, Mea. Con il suo aiuto - era una levatrice esperta di erbe - Kylar avrebbe aperto una piccola erboristeria. Poi avrebbe vinto le fiacche proteste di Elene contro la fornicazione, e si sarebbe lasciato dietro le spalle la via delle tenebre una volta per tutte.
Capitolo 8 Dopo dodici giorni, forse quindici
- o forse era soltanto la sua impressione che ne fossero trascorsi molti - Logan si arrese al sonno. In sogno, udì delle voci. Sussurravano ma, fra le nude pareti di roccia del Buco, anche i sussurri rimbombavano. «Ha un coltello». «Se gli saltiamo addosso tutti insieme, non sarà un problema. Guarda quanta carne che ha addosso!». «Zitto», disse qualcuno. Logan sapeva che avrebbe dovuto muoversi, prendere il coltello, svegliarsi, ma era così stanco. Non poteva restare sveglio per sempre. Era troppo faticoso. Pensò di aver sentito la voce di una donna, un grido soffocato da una mano su una bocca. Ci fu il rumore di uno schiaffo e il grido si spense. Poi ci fu un altro schiaffo, e un altro, e un altro ancora. «Vacci piano, Fin. Se ammazzi Lilly, siamo fottuti. Dove lo infiliamo, poi?». Fin imprecò contro Sniffles, poi disse: «Prova a gridare ancora, cagna, e ti strappo unghie e capelli. Tanto non ti servono per scopare. Chiaro?». Poi la voce si perse in lontananza, e così la calura, l'ululato del vento, il tanfo, e Logan stava realmente dormendo. Sognò la sua notte di nozze. Era sposato a una ragazza che conosceva appena ma, mentre parlava nella loro camera da letto, nervoso quanto la splendida quindicenne di fronte a lui, sentì una speranza inattesa riempirgli il cuore. Quella ragazza era una donna che avrebbe potuto amare e, inspiegabilmente, era sua. Jenine sarebbe stata sua moglie e, un giorno, la sua regina, e lui era certo che l'avrebbe amata.
Jenine è morta. Smettila. Lesse negli occhi della ragazza che anche lei lo avrebbe amato, che il loro matrimonio non sarebbe stato un dovere, ma una gioia. Un leggero rossore le colorò le guance mentre lui la considerava
come moglie. Gli occhi di Logan la reclamavano - non con arroganza, ma con fiducia e dolcezza, accettandola e gioendo della sua bellezza - e quando la attirò a sé, si strinse a lui. Le sue labbra erano ardenti. Poi, forse solo un istante più tardi, si stavano ancora baciando, spogliandosi a vicenda, quando un rumore di passi pesanti risuonò su per le scale che portavano alla loro camera. Logan si sciolse dall'abbraccio, la porta si spalancò di colpo e soldati khalidoriani invasero la stanza... Logan sgranò di colpo gli occhi e cominciò ad agitare i pugni, mentre diversi corpi lo schiacciavano sotto il loro peso. La lotta fu patetica. Logan non mangiava da due settimane ed era debole come un cucciolo. Gli altri compagni di prigionia, a parte la carne che avevano ingurgitato alcune settimane prima, si alimentavano da mesi, se non anni, a pane e acqua. Erano ridotti a ombre scarne e macilente degli uomini che erano stati un tempo, cosi il combattimento proseguì in modo lento e goffo. Logan si scrollò di dosso un assalitore e ne colpì un altro alla mandibola, ma se ne presentarono subito altri due, con la pelle resa viscida e fangosa dalla sporcizia e dal sudore. Fin atterrò sull'anca di Logan, mentre Jake gli artigliò il volto. Liberatosi di un altro peso di dosso, Logan si alzò faticosamente in piedi e scagliò Jake da una parte. L'uomo cadde dentro il Buco e scomparve. Con questo, la lotta finì. «Perché l'hai fatto?», sbraitò Sniffles. «Avremmo potuto usare quella carne. Bastardo, hai gettato via della carne». Per un momento, la loro furia sembrò incontrollabile e Logan pensò che lo avrebbero assalito di nuovo. Spostò la mano sul fianco per estrarre il coltello. Era sparito. Dall'altra parte del Buco, Fin lo stava osservando, stuzzicandosi con la punta del coltello le gengive rese sanguinolente dallo scorbuto. Il tempo era dalla sua parte, adesso.
Logan aveva creduto che gli ospiti del Buco non avessero una società, ma si era sbagliato. Anche laggiù esistevano fazioni: gli animali e i mostri, i deboli e i forti. Fin era a capo degli animali, che si classificavano più che altro in base ai loro crimini: gli assassini, poi gli stupratori, poi gli schiavisti e infine i pedofili. I mostri erano Yimbo, un Ceuriano dai capelli rossi e le ossa grandi, a cui avevano mozzato la lingua; Tatts, un pallido Lodricari coperto di tatuaggi, che aveva la lingua ma non la usava mai; Gnasher, un povero idiota deforme con le spalle massicce, una spina dorsale contorta e i denti affilati. I mostri sopravvivevano grazie alla paura che incutevano negli altri e alla loro prontezza nel combattere. Adesso che erano tutti ridotti alla fame, l'inconsistente struttura di quella società stava crollando. Logan non aveva amici, né un coltello, né un ruolo. Fra gli animali, era un lupo isolato dal branco. Fra i mostri, era un cane senza il suo dente d'acciaio. Aveva cercato di vedere come uomini i suoi compagni di prigionia. Uomini sviliti e umiliati, oltraggiati e disgraziati, ma uomini. Tentò di trovare in loro qualcosa di buono, una parvenza degli dèi o del Dio che li aveva creati. Ma fra le ombre del Buco, vide soltanto animali e mostri. Logan andò a sedersi vicino a Gnasher. L'uomo gli regalò uno dei suoi sorrisi ebeti, reso ancor più orribile dai suoi denti aguzzi. Poi ci fu un suono che fece raggelare ognuno di loro. Un rumore di passi risuonò lungo il corridoio sovrastante il Buco del Culo. Logan scivolò dentro l'unica stretta sporgenza che lo avrebbe nascosto alla vista, mentre un volto appariva sopra di loro nell'alone di luce di una torcia. «Arrivo», disse la guardia. Aveva i capelli neri, il colorito pallido e un naso schiacciato: chiaramente khalidoriano. La guardia apri la grata senza staccare gli occhi dai reclusi pochi metri più in basso. Fin non preparò nemmeno le sue corde. «Avevo calcolato che a quest'ora alcuni di voi dovevano essere morti», disse. «Sarete davvero affamati». Infilò la mano in un sacco e tirò fuori un grosso filone di pane. L'avidità con cui lo guardarono lo fece sogghignare. «Bene, allora prendete». Gettò loro il pane, che volò dritto nel Buco.
I prigionieri protestarono energicamente, pensando si trattasse di un errore. La guardia estrasse un altro filone e lo gettò dentro il Buco. Stavolta si affollarono tutti intorno al baratro, persino Fin e Lilly. Il terzo filone rimbalzò sulla punta delle dita di Sniffles, che quasi cadde nella voragine per afferrarlo. La guardia scoppiò a ridere. Chiuse a chiave la grata e si allontanò, fischiettando un allegro motivetto. Diversi prigionieri scoppiarono a piangere. La guardia non tornò. I giorni passarono in una lenta agonia. Logan non aveva mai sperimentato una debolezza così debilitante. Quattro sere dopo - se i suoi calcoli avevano senso, pensò Logan, che considerava "notte" il periodo in cui gran parte degli abitanti del Buco dormivano, e l'ululato del vento era più furioso nel momento che chiamavano "mezzogiorno" - Fin tagliò la gola a uno dei suoi pedofili. Nel giro di pochi istanti, tutti erano svegli ad azzuffarsi sopra il corpo. Quando Sniffles cominciò a picchiare Gnasher per indurlo a mollare un brandello sanguinolento di carne che Logan preferì non identificare, Gnasher lasciò cadere la preda e lo aggredì. Sniffles tentò di respingerlo, ma Gnasher lo maneggiava come fosse un bambino. Dopo avergli strappato le braccia, Gnasher affondò i denti aguzzi nel collo dell'uomo. Nella zuffa che seguì per accaparrarsi il corpo, un'intera gamba volò in aria e atterrò accanto a Logan. Appena Scab si fece avanti per afferrarla, Logan la agguantò. Inorridito di se stesso, fissò minacciosamente Scab finché questi abbassò lo sguardo e si allontanò. Logan portò la gamba vicino alla parete e pianse perché, per quanto guardasse quel che stringeva in mano, vedeva soltanto carne.
Capitolo 9 In confronto a Cenaria,
Caernarvon era un paradiso. Lì non c'erano Cunicoli, nessuna rigida distinzione fra abbienti e non abbienti, nessun esercito occupante, nessun fetore di cenere e di morte, nessuno sguardo vuoto di disperazione. La capitale del Waeddryn era diventata una città prospera e fiorente sotto il governo di ventidue regine succedutesi al trono.
Ventidue regine. Insolito per Kylar, finché non realizzò che
Momma K aveva dominato il Sa'kagé e le strade di Cenaría per più di venti anni. «Quali affari vi conducono qui?», chiese loro la guardia al cancello, ispezionando il carro. La gente qui era più alta dei Cenariani, e Kylar non aveva mai visto tanti occhi azzurri o capelli dalle sfumature così luminose - di ogni colore, dal biondo slavato al rosso acceso. «Compro e vendo erbe medicinali. Siamo venuti qui per aprire una farmacia», rispose Kylar. «Da dove?» «Cenaria». La guardia assunse un'aria meditabonda. «Ho sentito dire che le cose vanno davvero male, laggiù. Se volete aprire un negozio nella zona sud, fate attenzione. C'è parecchia delinquenza...», s'interruppe appena intravide le cicatrici sul viso di Elene. Kylar sentì montare dentro di sé una furia improvvisa: erano solo le cicatrici a deturpare una bellezza altrimenti perfetta. Un sorriso radioso, intensi occhi castani che sfidavano la mancanza di pretese dell'aggettivo "marrone", occhi che solo un poeta poteva descrivere e solo una legione di bardi poteva celebrare in modo adeguato, una pelle che implorava di essere accarezzata e delle forme che lo esigevano. Con tutto quel ben di Dio, come poteva notare solo le cicatrici? Ma dire qualcosa avrebbe solo provocato una scenata. La guardia sbatté le palpebre. «Ok, passate pure», disse.
«Grazie». Kylar non si preoccupava del Sa'kagé di Caernarvon. Era roba da poco: rapine, borseggi, prostituzione di strada, scommesse sui combattimenti fra cani, e fra tori e cani. Alcuni bordelli e bische erano in affari senza essere affiliati alla malavita. La banda di ragazzini di strada della sua infanzia era più organizzata della criminalità locale. Attraversarono la città, fissando a bocca aperta le persone e gli edifici come tanti sempliciotti di campagna. Caernarvon sorgeva sulla confluenza dei fiumi Wy, Rosso e Blackberry, e le sue strade erano piene zeppe di botteghe e di una svariata moltitudine di persone piene di soldi. Passarono accanto a Sethi dalla carnagione olivastra e dai lineamenti marcati, con morbidi pantaloni corti e tuniche bianche, a Ceuriani dai capelli rossi con le loro due spade e la strana usanza di intrecciare i capelli con ciocche multicolori, ad alcuni Ladeshiani e persino a un Ymmuri con gli occhi a mandorla. Lo trasformarono in un gioco, indicando di nascosto le singole persone e tentando di indovinare la loro provenienza. «Che ne dici di quello?», domandò Uly, indicando un tipo indefinito con semplici indumenti di lana. Kylar si concentrò. «Sì, sentiamo un po' cosa ci dice l'esperto», lo stuzzicò Elene con un sorriso sbarazzino. «E non indicare, Uly». L'uomo non presentava caratteristiche particolari. Nessun tatuaggio, tunica e calzoni come tanti altri visti a Caernarvon, corti capelli castani, niente naso da aristocratico Modaini, niente di distintivo; persino la sua pelle lievemente abbronzata poteva provenire da una mezza dozzina di paesi. «Sì», disse alla fine Kylar. «Alitaeriano». «Dimostralo», lo incalzò Elene. «Solo gli Alitaeriani hanno quell'aria tronfia». «Non credo». «Chiediglielo», la sfidò Kylar. Elene scosse la testa e si ritirò nel carro, di colpo intimidita. «Ehi, maestro!», gridò Uly mentre il carro passava accanto all'uomo. «Di dove siete?» «Uly!», la richiamò Elene, mortificata.
L'uomo si girò e si erse in tutta la sua statura. «Vengo da Alitaera, per grazia di Dio la più grande nazione dell'intero Midcyru». «Per grazia degli dèi, volete dire», precisò il Waeddryner con cui stava contrattando. «No, a differenza di voi cani Waeddryner, gli Alitaeriani dicono esattamente quel che pensano», disse il mercante, e dopo un istante i due stavano già discutendo di religione e di politica, e la curiosità di Uly era dimenticata. «Sono davvero sorprendente», si vantò Kylar. «Probabilmente anche tu sei un Alitaeriano», brontolò Elene. Kylar rise, ma quel "probabilmente" gli lasciò l'amaro in bocca. Probabilmente, perché era un ratto di strada, un orfano, forse nato in schiavitù. A differenza di quell'Alitaeriano, non sapeva nemmeno quale fosse il paese d'origine dei suoi genitori. Non sapeva perché l'avessero abbandonato. Erano morti? Vivi? Persone di un certo prestigio, come nei migliori sogni di un orfano? Mentre Jarl si era dato da fare per mettere da parte qualche moneta e abbandonare la gang, Kylar aveva continuato a domandarsi perché i suoi nobili genitori fossero stati costretti ad abbandonarlo. Era inutile, stupido, e avrebbe dovuto smetterla molto tempo prima. La cosa più vicina a un padre che aveva avuto nella sua vita era stato Durzo - e Kylar era diventato quel che tutti gli uomini maledicono: un patricida. E adesso eccolo lì, una corda sciolta, slegata dal passato e dal futuro. No, non era vero. Lui aveva Elene e Uly. E aveva la libertà di amare. Quella libertà aveva il suo prezzo, ma lo valeva. «Stai bene?», gli chiese Elene con un velo di preoccupazione sugli occhi. «No», rispose Kylar. «Quando siamo insieme, sto magnificamente». Nel giro di pochi minuti avevano superato i mercati settentrionali e si stavano addentrando nella zona del porto. Anche lì quasi ogni edificio era in pietra - un notevole cambiamento rispetto a Cenaria, dove la pietra era talmente costosa che la maggior parte delle case era costruita in legno e carta di riso. Teppistelli locali erano seduti indolentemente contro le mura di case, magazzini e mulini, e li
osservavano passare con lo sguardo torvo e l'espressione di un adolescente che abbia qualcosa da dimostrare. «Sei sicura che è la strada giusta?», domandò Kylar. Elene trasalì alla domanda. «No?». Kylar non fermò il carro, ma non servì a nulla. Sei di quei ragazzi si alzarono e seguirono un uomo con i denti anneriti e una zazzera nera e untuosa che si stava avvicinando minacciosamente ai forestieri. I teppisti pescarono sotto i gradini o i mucchi di immondizia e tirarono fuori delle armi. Erano armi di strada, mazze e coltelli e un pezzo di catena. L'uomo li fece fermare davanti al carro e afferrò le briglie del cavallo. «Bene, tesoro», disse Kylar, «è arrivato il momento di conoscere il nostro ospitale vicinato del Sa'kagé». «Kylar, ricordati cosa mi hai promesso», gli disse, trattenendolo per un braccio. «Non ti aspetterai davvero che io...». Lasciò morire la domanda appena la guardò negli occhi. «'pomeriggio», disse il capo, sbattendo la mazza contro il palmo della mano. Aprì la bocca in un ampio sorriso, esibendo due incisivi neri. «Tesoro», disse Kylar, ignorandolo. «Questa è una faccenda diversa. Devi capire». «Altre persone escono da questo genere di situazioni senza ammazzare nessuno». «Non morirà nessuno se facciamo a modo mio», replicò Kylar. L'uomo dai denti neri si schiarì la gola. Il sudiciume aderiva al suo volto come un tatuaggio e i due denti sporgenti, storti e anneriti, dominavano la sua espressione. «Scusate, piccioncini. Non vorrei interrompere...». «Tu puoi aspettare», gli disse Kylar, con un tono che non ammetteva obiezioni. Tornò a rivolgersi a Elene. «Tesoro». «O fai quel che hai promesso o fai quel che hai sempre fatto», disse Elene.
«Questo non è un permesso». «No, infatti». «Scusate», insistette l'uomo. «Questa...». «Lasciami indovinare», lo interruppe Kylar, imitando la tracotanza e l'accento dell'uomo. «Questa è una strada a pedaggio, e noi dobbiamo pagare». «Già. Proprio così», ammise l'uomo. «Come ho fatto a indovinare?» «Stavo per chiedertelo... Ehi, chiudi quella bocca. Io sono Tom Gray e questa...». «È la tua strada. Certo. Quanto?», domandò Kylar. Tom Gray si accigliò. «Tredici pezzi d'argento», disse. Kylar contò ad alta voce i sette davanti al carro. «Aspetta, intendi sfruttare i tuoi picchiatori? A loro un pezzo d'argento ciascuno e a te sette?», chiese Kylar. Tom Gray sbiancò in volto. I ragazzi lo guardarono con rabbia. Kylar aveva ragione, naturalmente. Delinquenti da quattro soldi. «Te ne darò sette», decise Kylar. Tirò fuori la sacca delle monete e cominciò a lanciarle a ognuno dei giovani uomini. «Guadagnate lo stesso e senza alcuno sforzo. Perché affrontare una lotta? Questo è quanto Tom vi avrebbe dato comunque». «Fermi», disse Tom. «Se ci dà queste monete con tanta facilità, vuol dire che ne ha altre. Prendiamole». Ma i ragazzi non abboccarono. Si strinsero nelle spalle scuotendo la testa, e tornarono con passo indolente al loro posto. «Ma cosa fate?», li redarguì Tom. «Ehi!». Kylar scosse le redini e i cavalli ripartirono. Tom dovette buttarsi di lato per evitare di essere calpestato. Atterrando, si slogò una caviglia. Kylar tirò indietro le labbra per assomigliare a Tom con i suoi denti da coniglio, e sollevò le mani in un gesto impotente. I teppisti e Uly scoppiarono a ridere.
Capitolo 10 Trascorsero la notte in una locanda. La Zia Mea li trovò l'indomani mattina e li guidò attraverso un dedalo di viuzze fino alla sua casa. Era una donna sulla quarantina, ma sembrava di dieci anni più vecchia, ed era rimasta vedova quasi vent'anni prima, poco dopo la nascita del figlio Braen. Suo marito era stato un facoltoso mercante di tappeti, così la sua casa era spaziosa, e la zia assicurò a Kylar ed Elene che avrebbero potuto fermarsi per tutto il tempo che avessero voluto. Zia Mea era una levatrice e una guaritrice con lineamenti scialbi e insignificanti, occhi vivaci e due spalle da scaricatore di porto. «Allora», cominciò Zia Mea dopo una colazione a base di uova e prosciutto, «da quanto tempo siete sposati voi due?» «Circa un anno», rispose Kylar, immaginando che se lui avesse dato il la con le bugie, Elene non avrebbe avuto difficoltà a portarle avanti. Elene era una pessima bugiarda. La guardò e, com'era prevedibile, la ragazza era arrossita. Zia Mea lo prese come un segno di imbarazzo e rise. «Be', infatti avevo pensato che era un po' giovane per essere la madre naturale di questa signorina. Come hai trovato i tuoi nuovi genitori, Uly?». Kylar si appoggiò allo schienale, soffocando l'impulso di rispondere di persona. Se forniva risposte per tutti, non solo sarebbe apparso un idiota, ma anche sospetto. A volte devi lasciare che le cose seguano il loro corso. «La guerra», rispose Uly. Deglutì a disagio, abbassò gli occhi sul piatto e non aggiunse altro. Non era del tutto una bugia, e l'emozione che tradiva il viso della piccola era reale. La sua balia era rimasta uccisa durante il combattimento. Uly piangeva ancora al ricordo. «Era al castello durante il colpo di stato», spiegò Elene. Zia Mea posò il suo coltello e il cucchiaio - non usavano forchette a Caernarvon, cosa che Kylar trovava estremamente irritante.
«Ascolta, Uly. Ci prenderemo cura di te. Sarai al sicuro e avrai persino una camera tutta per te». «E giocattoli?», volle sapere la ragazzina. Qualcosa nell'espressione schietta e speranzosa sul visetto di Uly fu come una staffilata per Kylar. Le bambine dovrebbero giocare con le bambole - perché non le aveva mai regalato una bambola? -, non ripescare corpi dal fiume. Zia Mea scoppiò a ridere. «E giocattoli», confermò. «Zia Mea», disse Elene. «Ti stiamo già creando abbastanza fastidi. Abbiamo il denaro per i giocattoli, e Uly può stare con noi. Tu hai già...». «Non voglio nemmeno sentirne parlare», la interruppe Zia Mea. «Per di più, voi due siete ancora sposini novelli. Avete bisogno di tutta l'intimità possibile, anche se il cielo sa le volte che Gavin e io siamo riusciti a darci dentro quando condividevamo l'unica stanza di una baracca insieme ai suoi genitori». Elene arrossì vistosamente, ma la zia continuò imperterrita. «Ma immagino che sia difficile per una ragazzina di undici anni ignorare dei rumori nella notte. Dico bene?». Questa volta fu Kylar ad arrossire. Zia Mea lo guardò, poi si rivolse a Uly, visibilmente perplessa. «Mi state dicendo che non l'avete fatto da quando avete lasciato Cenaria?», domandò la donna. «Di certo ve la svignavate la mattina presto, mentre Uly dormiva ancora? No? Il viaggio sarà durato... quanto, tre settimane? È un'eternità per due giovani come voi. Bene. Questo pomeriggio io e Uly andremo a fare una lunga passeggiata. Il letto nella vostra camera cigola un po', ma se ve ne fate un problema Uly non avrà mai un fratellino, vero?» «Vi prego», la implorò Kylar, scuotendo la testa. Elene era mortificata. «Mmm», borbottò Zia Mea, lanciando un'occhiata a Elene. «Bene. Se avete finito la colazione, perché non andiamo a trovare mio figlio?». Braen Smith lavorava dentro la bottega adiacente alla casa. Aveva gli stessi lineamenti scialbi della madre, e spalle ampie. Vedendoli
avvicinarsi, gettò un cerchio di botte che stava modellando su una pila di elementi simili e si tolse i guanti, «'giorno», li salutò. I suoi occhi si fermarono subito su Elene. Un'occhiata fugace alle cicatrici del viso e poi una valutazione ammirata dei doni di mamma natura. Non fu quel rapido sguardo che gli uomini rivolgono istintivamente a una donna: a Kylar non avrebbe dato fastidio. Ma quello non era uno sguardo. Era un indugiare con gli occhi, e proprio sul viso di Elene. O piuttosto, sul suo seno.
«Niceta meetcha», disse Braen tendendo la mano a Kylar,
valutandolo, soppesandolo. stritolargli la mano.
Come
era
prevedibile,
tentò
di
Un flusso di Talento si prese cura della faccenda. Senza la minima traccia di tensione sul volto o nell'avambraccio, Kylar strinse la mano gigantesca in una morsa, fin quasi a romperla. Una leggera pressione in più e ogni osso della mano sarebbe finito in pezzi. Dopo un istante, fece un passo indietro e si confrontò con il giovane, mano rude contro mano rude, muscolo contro muscolo, sguardo contro sguardo - anche se fu costretto ad alzare gli occhi per guardarlo in faccia e Braen era di un terzo più grosso di lui. Il panico defluì dagli occhi di Braen e Kylar lo vide domandarsi se c'era modo di prevedere la forza della stretta di Kylar. «Kylar», mormorò Elene a denti stretti, come a ricordargli che stava dando spettacolo. Ma Kylar non interruppe il contatto visivo. C'era qualcosa da mettere bene in chiaro, e anche se era primitivo, barbarico, meschino e sciocco, era comunque importante. A Elene non piaceva essere ignorata. «Suppongo che la prossima volta confronterai le dimensioni del tuo...». Non finì la frase, imbarazzata. «Buona idea», disse Kylar appena l'uomo gli lasciò finalmente la mano. «Che ne dici, Braen?». Kylar si slacciò la cintura. Fortunatamente, Braen scoppiò a ridere. Gli altri lo imitarono, ma a Kylar Braen non andava ancora a genio. E a Braen non andava ancora a genio Kylar; ne era certo.
«Bene, niceta meetcha», ripeté Braen. «Ho una grossa ordinazione da ultimare». Si congedò con un rapido cenno del capo e raccolse un martello, flettendo di nascosto le dita indolenzite. Per il resto del mattino e nel pomeriggio, Zia Mea li portò a visitare Caernarvon. Sebbene fosse più grande di Cenaria, la città non appariva caotica quanto la patria di Kylar. La maggior parte delle strade erano lastricate e larghe a sufficienza per far transitare due carri e numerosi pedoni allo stesso tempo. I venditori ambulanti che tentavano di violare quello spazio venivano puniti con tale rapidità che pochi si azzardavano a farlo. Ogni volta che passavano due carri insieme, la folla era costretta ad accalcarsi, ma era ormai normale abitudine che i mezzi viaggiassero dentro solchi profondi una quindicina di centimetri, creati nelle lastre della pavimentazione. Persino le fogne correvano dentro tubazioni lungo le strade, con grate collocate a intervalli regolari per raccogliere ulteriori acque di scolo. In tal modo, non si sentiva quasi l'odore tipico di ogni città. Il castello di Caernarvon dominava l'area nord. A volte veniva chiamato il Gigante Blu per via del granito azzurrognolo con cui era costruito. Le pareti bluastre erano uniformi, piatte e lisce come vetro, a parte le numerose feritoie e caditoie presso i cancelli. Duecento anni prima, disse Zia Mea, diciotto uomini avevano difeso il castello per sei giorni contro cinquemila nemici. Intorno al castello, naturalmente, c'erano le grandi case. La città si faceva più sporca e più affollata man mano che ci si avvicinava al porto. Come in quasi tutti i posti, i ricchi e i nobili amavano vivere lontano da chiunque altro, e chiunque altro amava vivere il più vicino possibile ai ricchi. Qui, tuttavia, non era segnata alcuna linea di demarcazione - a differenza dei poveri di Cenaria, che erano legalmente confinati sul lato ovest del Plith. Qui, chi aveva il denaro per trasferirsi poteva farlo. La possibilità di avanzare nella gerarchia sociale sembrava rinvigorire l'intera città. Caernarvon era un dorato e scintillante specchietto per le allodole. E il suo vice era l'ingordigia. Ogni mercante poteva immaginarsi futuro imperatore del prossimo impero commerciale. Cenaria era la soffocante, fetida coltre della disperazione. Il suo vice
era l'invidia. Lì nessuno costruiva imperi. Si limitavano a rubarne un pezzo ad altri. «Sei incredibilmente silenzioso», disse Elene. «Qui è tutto diverso», rispose Kylar. «Anche prima dell'avvento di Khalidor, Cenaria era corrotta. Qui è meglio. Penso che potremmo davvero sistemarci». Per gli dèi, stava per diventare uno di quei mercanti che aveva sempre disprezzato. Non che avesse grandi ambizioni. L'erborista e il farmacista erano l'unica cosa che potesse fare, oltre a uccidere. Non era niente che avesse mai sognato. A cosa aspirava? Aprire una seconda bottega? Controllare il commercio di erbe della città? Una volta aveva avuto il futuro di una nazione nelle sue mani, avrebbe potuto cambiare ogni cosa con un tradimento, uccidendo un uomo che aveva finito con l'uccidere comunque.
Se lo avessi fatto, Logan sarebbe vivo... Mentre Zia Mea li riconduceva a casa, Kylar cercò di entrare nell'ordine di pensiero di un mercante. Aveva un piccolo gruzzoletto di monete d'oro nel carro, e una fortuna in erbe. Se fossero stati rapinati lungo il viaggio, i predoni avrebbero avuto solo l'imbarazzo della scelta. «Bene, la casa è in fondo a questa strada», disse la zia. «Braen è fuori a comprare provviste. Uly e io andremo a un negozietto di dolciumi per lasciarvi il tempo di rinnovare la vostra conoscenza». Fece l'occhiolino a Kylar, mentre Elene arrossì. Ma poi il viso di Zia Mea si rabbuiò. «Che succede?». Kylar si girò verso la casa. Un filo di fumo sempre più denso si levava dalla costruzione. Subito si unì alla folla che correva in quella direzione - in città, un incendio era una temibile minaccia e tutti erano pronti ad afferrare secchi per spegnere il fuoco - ma, quando arrivò, la stalla era già stata completamente divorata dalle fiamme. Era troppo tardi per salvare qualsiasi cosa. La gente tirò secchiate d'acqua sugli edifici vicini, mentre Kylar trattenne Elene e Uly, in silenzio. La stalla costituiva un'incommensurabile perdita. I loro due cavalli e il vecchio ronzino di Zia Mea erano ridotti a mucchi fumanti e
maleodoranti di carne. Sul carro non era rimasto quasi nulla. L'incendiario aveva scovato la cassetta nascosta con dentro l'oro. La fortuna in erbe era finita in fumo. L'unica cosa rimasta era una scatola lunga e sottile legata all'asse del carro. Il lucchetto era intatto. Kylar la aprì e vi trovò i suoi abiti da sicario e la sua spada Retribution, indenni, senza nemmeno una traccia di fumo, a deriderlo della sua impotenza.
Capitolo 11 «Cattive notizie, Vostra Santità», disse Neph Dada entrando nella camera da letto del Re Divino. Una giovane nobildonna cenariana di nome Magdalyn Drake era legata al letto e piagnucolava sotto il bavaglio, ma sia lei che il Re Divino erano ancora vestiti. Garoth era seduto sul letto accanto alla donna, carezzandole il polpaccio nudo con la lama di un coltello. «Oh, di che si tratta?» «Una delle vostre spie nella Cappella, Jessie al'Gwaydin, è morta. L'ultima volta è stata vista nel villaggio di Curva di Torras». «È stato il Cacciatore Nero a ucciderla?» «Ritengo di sì. Il nostro uomo ha detto che Jessie aveva in mente di studiare la creatura», rispose Neph. «Così è andata nel bosco e non è più tornata». «Sì, Vostra Santità», confermò Neph. Si massaggiò la schiena curva con espressione sofferente. Non solo per ricordare al Re Divino la sua veneranda età, ma anche il peso che doveva sostenere nel servirlo. Con una mossa brusca, il Re Divino pugnalò il materasso così in alto in mezzo alle gambe di Magdalyn, che Neph pensò avesse colpito la ragazza. Lanciando uno strillo soffocato, la poverina inarcò la schiena, tentando di liberarsi. Garoth incise il materasso fino ai piedi di Magdalyn, tranciandole il vestito fino all'orlo e sollevando una nuvola di piume dall'imbottitura. Poi, di colpo, il sovrano fu di nuovo calmo e controllato. Lasciò il coltello infilato nel materasso, piegò indietro la stoffa del vestito e posò delicatamente la mano sulla coscia nuda della ragazza, che fu scossa da un tremito incontenibile. «È talmente difficile procurarsi spie all'interno della Cappella. Perché insistono nel gettare via così le loro vite, Neph?» «Tanto per cominciare, per la stessa ragione che li spinge ad allearsi con noi, Vostra Santità: l'ambizione».
Garoth guardò il Vürdmeister con aria stanca. «Era una domanda retorica». «Ho anche buone notizie», aggiunse Neph. Raddrizzò la schiena, dimenticando la sua sofferenza. «Abbiamo catturato un bardo ladeshiano di nome Aristarchos. Penso che vorrà interrogarlo di persona». «Perché?» «Perché mi è apparso in una Visione, e quel che ha visto è straordinario». Garoth socchiuse gli occhi. «Sputa fuori». «Crede di aver visto il portatore di un ka'kari. Un ka'kari nero». «Smettila di guardarmi!», esplose Stephan. Era un grasso mercante di stoffe, un ex amante rancoroso che per vendetta aveva giurato di rivelare a Vi chi fosse lo Shinga. O lo Shinga era una donna, oppure Stephan non aveva grandi preferenze circa il solco in cui affondare il suo aratro, perché questo era stato il prezzo da lui richiesto. Vi giaceva sotto di lui. Si muoveva con l'agilità di un'atleta e la destrezza di una prostituta addestrata da Momma K in persona, ma non c'era traccia di passione nei suoi occhi. Non gemeva, non cambiava espressione. Non fingeva di provare piacere, e questo stava creando problemi a Stephan. Come la maggior parte degli uomini, era per tre quarti fumo e per un quarto cazzo, Anzi, al momento, un po' meno di un quarto. Si tirò indietro, imprecando contro il membro floscio. Era sudato e puzzava, nonostante l'aroma dei suoi oli raffinati. Vi non poté fare a meno di rivolgergli un sorriso condiscendente. «Pensavo che voleste fottermi ben bene». L'uomo arrossì, e Vi si chiese perché mai lo stesse distruggendo con tanta malizia. Non era da più o da meno di altri uomini, e a lei premeva ancora strappargli quell'informazione. Beffarsi di lui avrebbe solo allungato i tempi. «Lasciati andare», le disse.
«Non vi preoccupate per me». Per Nysos, possibile che dovessero sempre strafare? Si rigirò e oscillò i fianchi, ricorrendo al proprio Talento per abbrancarlo. Poi fece il necessario per togliergli ogni preoccupazione. Quando aveva quindici anni e Mastro Gibbet l'aveva portata da Momma K, la donna era rimasta a osservare mentre il sicario se la sbatteva; poi aveva commentato: «Bambina, tu scopi come se non sentissi niente, non è così?». Quel che aveva detto Momma K era vero, perciò Vi lo ammise. Era totalmente insensibile al sesso. «Be'», aveva concluso Momma K, «non sarai mai la migliore, ma non è niente che non si possa rimediare. La magia più antica è quella del sesso. Con i tuoi capezzoli e tutto il Talento che possiedi, ti trasformerò in qualcosa di speciale». Così adesso Vi ricorse alle proprie abilità, maledicendo sottovoce quell'idiota rammollito - le parole non dovevano necessariamente riflettere le sue intenzioni, ma come tutte le donne con Talento, doveva parlare per usare i propri poteri. Stephan gemette come uno stupido animale e nel giro di pochi istanti era tutto finito. Mentre era ancora stordito come un adolescente alle prime armi, Vi si ripulì dei suoi umori e si sedette a gambe incrociate sul letto ostentando la propria nudità come un'armatura. «Ditemi, grassone», disse, guardando i pallidi rotoli di grasso con tale disgusto che l'uomo si coprì, pieno di vergogna, e distolse lo sguardo. «Per tutti gli dèi, devi...». «Parlate». Stephan si coprì gli occhi. «Si serviva di messaggeri. Sapevano di dover bussare a casa mia. A volte ho udito per caso frasi smozzicate, ma è stato sempre estremamente cauto. Bruciava le poche lettere che riceveva, usciva sempre fuori per parlare con i messaggeri. Ma la notte dell'invas... della liberazione, ha chiamato un messaggero e ha scritto qualcosa qui». Stephan afferrò una vestaglia e se la passò intorno alle spalle prima di andare verso la scrivania. Tirò fuori un foglio di carta di riso ceuriana e lo porse alla donna. Era bianco.
«Mettilo in controluce», le disse. Vi sollevò il foglio davanti alla luce di una lanterna e riuscì a distinguere i caratteri debolmente impressi sulla carta. «Risparmiate Logan Gyre», lesse in quella grafia piccola e accurata, «e la ragazzina e la donna sfregiata, se vi è possibile. Vi ricompenserò come non avreste mai sperato». Al posto di un nome, il breve messaggio era firmato con due simboli: un occhio con le palpebre pesanti con una stella circoscritta, tracciato senza sollevare la penna dal foglio e, accanto, una stella a nove punte. Il primo era il glifo del Sa'kagé; il secondo il simbolo dello Shinga. I due simboli insieme significavano che ogni risorsa di cui disponeva il Sa'Kagé era a disposizione del destinatario. «Dopo averlo scritto, è uscito», riprese Stephan. «E non è mai più tornato. Gli ho detto che lo amavo, ma non ha voluto nemmeno vedermi». «Il suo nome, grassone. Ditemi il suo nome». «Jarl», confessò. «Che gli dèi mi perdonino, lo Shinga è Jarl». In uno dei rifugi più squallidi, fra oscurità, ratti e scarafaggi come in ogni angolo dei Cunicoli, Jarl e Momma K stavano incontrando un uomo morto. Sorrise, quando entrò nella stanza. La gamba destra era immobilizzata da stecche che impedivano di piegare il ginocchio, e il braccio destro era fasciato. Del sangue era filtrato attraverso la fasciatura all'altezza del gomito. Portava una stampella, ma invece di infilarla sotto l'ascella, era costretto a tenerla nella mano destra: la ferita al gomito gli impediva di usarla dal lato utile per il ginocchio, così procedeva a balzelloni più che zoppicando. Aveva capelli corti e grigi, una corporatura ancora vigorosa per la sua età e, sebbene il viso fosse livido e tirato, sorrise. «Gwinvere», disse. «È bello vedere che gli anni hanno avuto rispetto almeno per te». La donna sorrise, e invece di fare commenti sull'aspetto dell'ospite - aveva tutta l'aria di aver dormito nei fossi, i raffinati indumenti erano sporchi, e puzzava - disse: «È bello vedere che non hai perso la tua suadente parlantina».
Brant Agon saltellò fino a una sedia e si accomodò. «Allora, che si dice della mia dipartita?». «Brant, lui è Jarl, il nuovo Shinga. fari, lui è il baronetto Brant Agon, ex lord generale di Cenaria». «Cosa posso fare per voi, lord generale?», domandò Jarl. «Siete molto gentile. Il motivo per cui sono venuto qui non è diverso dalle mie sembianze; ho l'aspetto di un mendicante, e sono venuto a elemosinare. Ma sono più di un mendicante. Ho combattuto lungo ogni confine di questo paese. Ho combattuto in duello. Ho guidato drappelli di due uomini, e ho condotto campagne con cinquemila soldati. Voi state affrontando una battaglia. Khalidor ha disseminato i suoi eserciti, ma il vero potere a Cenaria è il Sa'kagé, e il Re Divino lo sa. Vi distruggerà, se non sarete prima voi a distruggere lui. Avete bisogno di guerrieri, e io lo sono. I sicari hanno un loro ruolo, ma non possono risolvere tutto - come avete riscontrato poche settimane fa, potrebbero soltanto peggiorare le cose. Io, d'altra parte, posso rendere i vostri uomini più efficienti, più disciplinati e più abili a uccidere. Datemi solo un posto e affidatemi degli uomini». Jarl si dondolò indietro sulla sedia congiungendo le punte delle dita, e osservò a lungo Brant Agon. Momma K si costrinse al silenzio. Era stata Shinga per lungo tempo ed era difficile lasciare che Jarl compisse passi falsi, ma aveva preso la sua decisione. Lasciare che Jarl affrontasse la vita, il potere e i capelli grigi. Lo avrebbe aiutato finché non avesse più avuto bisogno di lei. «Come mai siete qui, lord Agon?», gli domandò Jarl. «Perché vi rivolgete a me? Terah Graesin dispone di un esercito. Se aveste saputo trattare, il Sa'kagé sarebbe stato annientato anni fa». «Ci avevano informato che eri rimasto ucciso in un'imboscata», disse Momma K. «Roth Ursuul mi ha risparmiato», ribatté amaramente Brant. «A compenso della mia stupidità. Era stata una mia idea che Logan Gyre sposasse Jenine Gunder. Pensavo che assicurare la discendenza del re avrebbe impedito il colpo di stato. Invece, Logan e Jenine sono stati uccisi».
«Khalidor non li avrebbe mai lasciati in vita», osservò Momma K. «In effetti, è stata una fortuna per Jenine. Avrebbe potuto diventare un ennesimo trastullo per Ursuul, e dalle storie che ho sentito...». «Comunque sia», la interruppe Agon, non disposto ad ascoltare alcuna giustificazione a sua discolpa. «Me ne sono andato via con la coda fra le gambe. Arrivato a casa, ho scoperto che avevano preso mia moglie. Non so se è morta o se è diventata una degli altri "trastulli"». «Oh, Brant, mi dispiace tanto», disse Momma K. Continuò a parlare senza guardarla, con espressione risoluta. «Ho deciso di vivere e di rendermi utile, Shinga. Le casate nobili desiderano combattere una guerra leale. La duchessa Graesin cercherà di salire al trono a suon di moine e lusinghe. Non hanno la volontà di vincere. Ma io sì, e anche voi, credo. Io voglio vincere. E se non dovessi riuscirci, almeno vorrei uccidere quanti più Khalidoriani possibile». «Mi state proponendo di essere mio servo o mio socio?», sondò Jarl. «Non farebbe nessuna differenza», replicò. Fece una pausa. «Nessuna differenza, mai come adesso». «E cosa succede se vinciamo?», volle sapere Jarl. «Tornerete indietro e cercherete di eliminarci?» «Se vinciamo, voi probabilmente mi riterrete troppo pericoloso e mi farete uccidere», rispose abbozzando un sorriso. «Ora come ora, è un pensiero che non mi disturba più di tanto». «Allora, vediamo». Jarl si passò le mani sulla chioma di treccioline nere, riflettendo sulla proposta. «Non ho intenzione di dividere la vostra lealtà con altri, Brant. Servirete me, e solo me. È un problema per voi?» «Tutti quelli a cui ho giurato qualcosa sono morti», ribatté Brant, stringendosi nelle spalle. «Tranne forse mia moglie. Ma ho delle domande da porvi. Se voi siete il nuovo Shinga, chi è il vecchio? È ancora vivo? Su quanti fronti si svolgerà questa battaglia?». Jarl rimase in silenzio.
«Sono io il vecchio Shinga», rispose Momma K. «Ho deciso di ritirarmi, e non perché Jarl mi abbia costretta. Per anni l'ho preparato a questo momento, ma adesso gli eventi ci hanno forzato la mano. I Cunicoli sono il nostro centro di forza, Brant, e stanno morendo. La fame è già un problema attuale, ma la pestilenza non tarderà a seguirla. Al Re Divino non interessa quel che succede qui. Non ha nemmeno stabilito una struttura di potere. Se noi intendiamo sopravvivere - e con noi, intendo il Sa'kagé, ma anche Cenaria e ogni anima sventurata che abita i Cunicoli - le cose devono cambiare. Riusciamo ancora a far arrivare carri e imbarcazioni; i soldati ispezionano il carico in cerca di armi ed esigono tangenti, ma a questo possiamo sopravvivere. Non ci sarà possibile, invece, se ogni carro carico di cibo viene saccheggiato. La gente sta morendo di fame e non ci sono guardie a impedire simili ruberie, e se viene saccheggiato un carro, lo saranno anche tutti quelli che arriveranno in seguito. E così i mercanti non invieranno più alcuna provvista. E moriranno tutti. Non siamo ancora arrivati a tanto, ma ci siamo vicini». «Allora cosa intendete fare?», domandò Brant. «Intendiamo istituire un governo pacifico. Tutti mi conoscono», disse Momma K. «Posso assoldare dei picchiatori per sorvegliare i carri; posso dirimere le controversie; posso sovrintendere alla costruzione di rifugi». «Questo farà di te un bersaglio», osservò Brant. «Sono un bersaglio in ogni caso», replicò Momma K. «Abbiamo perso alcuni sicari, e non significa che siano morti. I sicari pronunciano un giuramento di obbedienza magicamente vincolante allo Shinga. Il Re Divino ha spezzato quel vincolo. Ho saputo che Hu Gibbet ha rivelato la mia identità al Re Divino. Caroth non crede che una donna possa essere lo Shinga, perciò adesso sta cercando quello vero. Ma un giorno dovrà cambiare idea, che io agisca pubblicamente o nell'ombra. Non posso impedire tutto questo, ma posso ben fare quel che va fatto». Momma K era calma come un qualsiasi veterano che si appresti a lanciarsi in battaglia. Brant Agon era sopraffatto dallo stupore. «Ditemi cosa devo fare», disse Brant.
Rispose Jarl: «Scegliete alcuni fra i miei uomini e fate di loro dei cacciatori di streghe. Dopo di che, voglio che creiate delle difese da utilizzare nel caso che l'esercito invada i Cunicoli. I Khalidoriani dispongono di stregoni e soldati, e hanno alcuni dei nostri migliori elementi dalla loro parte. L'unica ragione per cui sono ancora vivo è che non sanno chi sono. Comunque, benvenuto a bordo». «Il piacere è mio». Brant s'inchinò goffamente a causa delle ferite e seguì una massiccia guardia del corpo fuori dalla porta. Appena se ne fu andato, Jarl si rivolse a Momma K. «Non mi avevi detto che vi conoscevate». «In effetti non credo di conoscere questo Brant Agon», fu la risposta. «Rispondi alla domanda». Un lieve sorriso le increspò le labbra, divertita e quasi orgogliosa che Jarl stesse assumendo il comando. «Trenta anni fa Brant si innamorò di me. Ero un'ingenua. Pensavo anch'io di amarlo, e sono stata la sua rovina». «Lo amavi?», chiese Jarl, invece di domandare cosa fosse accaduto. La domanda fu per Momma K la dimostrazione che aveva scelto l'uomo giusto per succederle sul trono dello Shinga. Jarl sapeva come aprirsi uno spiraglio, ma una cosa era ammirare la sua abilità, un'altra sperimentarla di persona. Il sorriso si fermò sulle labbra. Non sarebbe riuscita a ingannare Jarl nemmeno per un istante, ma dopo tutti quegli anni, indossare una maschera era per lei una reazione istintiva. «Non lo so. Non ricordo. Ha importanza?».
Capitolo 12 «Si dice che Gaelan Starfire
abbia gettato il ka'kari blu nel mare, creando il Tlaxini Maelstrom», disse Neph. «In tal caso, può ancora trovarsi lì, ma non ho idea di come sia possibile recuperarlo. Quello bianco è andato perduto seicento anni fa. Un tempo credevamo che fosse nella Cappella, ma la vostra nonna ha dimostrato che non è così. Il verde fu portato a Ladesh da Hrothan Steelbender e andò perduto. Ho appurato che Hrothan arrivò a Ladesh circa duecentoventi anni fa, ma non sono riuscito a scoprire altro. L'argento è andato smarrito durante la guerra dei cent'anni, e potrebbe trovarsi ovunque, da Alitaera a Ceura, a meno che Garric Shadowbane non l'abbia in qualche modo distrutto. Quello rosso è stato gettato nel cuore della montagna Ashwind - oggi il Monte Tenji a Ceura - da Ferric Fireheart. Quanto al marrone, corre voce che sia conservato presso la scuola dei Creatori a Ossein, ma ne dubito». «Perché?», chiese Garoth Ursuul. «Non credo che resisterebbero alla tentazione di usarlo. Con il potere della terra, quei gretti Creatori diventerebbero cento volte più esperti in un battibaleno. Qualcosa di Creato sarebbe apparso, prima o poi, e sarebbe stato chiaro che qualcuno stava Creando ai livelli di tanto tempo fa. Ma questo non è accaduto. O gli uomini di quella scuola sono meno ambiziosi di quanto creda possibile, oppure non si trova lì. Altre voci lo vogliono chiuso all'interno del Gigante Blu di Caernarvon - il castello. Le considero niente più di una semierudita millanteria. Non è un luogo particolarmente ingegnoso dove nascondere un ka'kari». «Ma noi non abbiamo un solido vantaggio sul rosso?» «Quando Vürdmeister Quintus ha attraversato Ceura, ha detto che le esplosioni del Monte Tenji sono almeno in parte magiche. Il problema con il rosso, e anche con il blu, è che - anche se riusciamo a raggiungerli - non si ha la certezza che un ka'kari sia rimasto intatto
dopo essere stato esposto a forze così elementari e per un tempo così lungo». «Non mi stai offrendo molto, Neph». «Non è esattamente come andar a raccogliere conchiglie». La voce suonò infida. Non lo sopportava. «Intuizione davvero profonda», sospirò Garoth. «E il nero?» «Nient'altro che una diceria. Persino nei libri più antichi. Se quel che ho Visto è reale, e il Ladeshiano non è affetto da delirio, è il segreto custodito meglio di ogni altro di cui mi sia mai giunta voce». «Altrimenti non sarebbe un segreto, no?», osservò Garoth. «Eh?» «Vai a prendere il nostro uccello canterino ladeshiano. Avrò bisogno di un po' di Polvere». Elene voleva che vendesse la spada. Nelle ultime dieci sere avevano recitato i loro ruoli come se fossero marionette. Anche se, ogni tanto, persino le marionette fanno parti diverse. «Non la guardi nemmeno, Kylar. È lì, chiusa in quella cassetta sotto il letto». Le sopracciglia scure si erano avvicinate fra loro, formando quelle piccole rughe di preoccupazione che Kylar stava imparando a conoscere molto bene. Era seduto sul letto, intento a massaggiarsi le tempie. Così stanco, talmente stanco di tutto. Si aspettava davvero che le desse una risposta? Ma certo che se lo aspettava. Non erano che parole e fiato sprecato. Perché le donne pensavano sempre che parlare di un problema servisse a risolverlo? Alcune faccende erano come cadaveri. L'aria calda le faceva putrefare e corrompere, ammorbando tutto il resto. Meglio seppellirle e andare avanti. Come Durzo. Cibo per i vermi. «Era la spada del mio maestro. Me l'ha data lui», rispose Kylar, solo in lieve ritardo sulla consueta battuta. «Il tuo maestro ti ha dato un sacco di cose, e con la stessa generosità anche le percosse. Era un uomo cattivo».
A questa osservazione si sentì rimescolare il sangue. «Tu non sai niente di Durzo Blint. Era un grand'uomo. È morto per darmi l'opportunità...». «Va bene, va bene! Parliamo di quel che so», tagliò corto Elene. Era di nuovo sul punto di scoppiare in lacrime, maledizione. Si sentiva frustrata quanto lui. Il peggio era che non cercava nemmeno di convincerlo usando l'arma delle lacrime. «Siamo rovinati. Abbiamo perso tutto, e abbiamo causato gravi perdite anche a Zia Mea e a Braen. Abbiamo i mezzi per aggiustare le cose, e ne vale la pena. È colpa nostra se quei vandali hanno dato fuoco alla stalla». «Intendi colpa mia», disse Kylar. Sentì Uly piangere nella sua stanza di là dalla parete, al suono delle loro urla. Se avesse affrontato a modo suo quel Tom Gray, l'uomo avrebbe avuto troppo timore di percorrere quei cinque isolati fino alla casa di Zia Mea. Kylar conosceva la musica delle strade. Parlava la lingua della carne, suonava le corde sottili dell'intimidazione, infondeva la paura nel cuore degli uomini. Conosceva e amava quella musica. Ma le note delle canzoni che Durzo insegnava non erano sillogismi. Non c'era una tesi contrapposta a un'antitesi, e poi l'armonizzazione nella sintesi. Non era quel tipo di musica. La musica della logica era troppo nobile per la vita nelle strade, troppo inafferrabile, con tonalità inadatte. Il tema ricorrente del sicario, ovunque lo suonasse, era la sofferenza, perché tutti conoscevano il dolore. Era brutale - ma non privo di sfumature. Senza tradire il proprio Talento, Kylar avrebbe potuto sistemare tutti e sei i teppisti e Tom Gray. Avrebbe lasciato i giovani sbalorditi e pieni di ammaccature. A Tom, gli avrebbe fatto male. Quanto, avrebbe lasciato decidere a lui. Ma anche se Elene lo avesse lasciato fare, come avrebbe potuto mostrarle quel che provava? E se lei avesse notato la sua gioia? Guardò il viso della ragazza, ed era talmente bello che si ritrovò a ricacciare indietro le lacrime.
Ma di cosa stavano parlando? Kylar disse: «Saltiamo le solite stronzate dove io ti dico che la spada non ha prezzo e tu dici che ce l'ha e che potremmo aprirci il
negozio e io dico che non posso farlo ma non so spiegarti il perché così tu dici che io in realtà voglio essere un sicario e tu mi stai solo trattenendo - e poi cominci a piangere. Allora perché non cominci subito a piangere così poi io ti stringerò fra le braccia e ti bacerò per un'ora e poi tu mi impedirai di spingermi oltre e poi ti addormenterai senza problemi mentre io resterò sveglio e con le palle doloranti? Possiamo saltare subito alla parte dei baci? Perché l'unica parte che mi piace di tutta la nostra fottuta vita è quando credo che tu stia godendo quanto me e penso che forse questa sera finalmente scoperemo. Che ne dici?». Elene incassò senza fiatare. Kylar vide i suoi occhi velarsi di lacrime, ma non pianse. «Ti amo, Kylar», disse Elene sommessamente. Il viso composto, le rughe di preoccupazione comparse. «Credo in te, sono con te, comunque vada. Ti amo. Mi senti? Ti amo. Non riesco a capire perché tu non voglia vendere la spada...». Sospirò. «Ma posso accettarlo. D'accordo? Non te lo chiederò più». Così adesso era lui il vero bastardo. Restava seduto sopra una fortuna invece di usarla per provvedere a sua moglie e a sua figlia e per rimborsare persone che avevano subito un danno per causa sua. Ma lei lo avrebbe accettato. Che nobiltà d'animo. Il peggio era che Kylar sapeva - dannazione, lo sapeva perché Elene per lui era come un libro aperto - che la ragazza non riusciva a cogliere la superiorità morale di essere un osso duro. Stava cercando di fare la cosa giusta. Questo non faceva che rendere ancora più marcato il contrasto fra loro due.
Non mi conosce. Crede di conoscermi, ma non mi conosce. Mi ha accettato pensando che Kylar fosse solo una versione più anziana e leggermente più sporca di Azoth. Io non sono sporco, sono contaminato. Uccido la gente perché mi piace. «Andiamo a letto, tesoro», disse Elene. Si stava spogliando, e la rotondità dei seni attraverso la sottoveste e le curve dei fianchi e le gambe affusolate accesero in lui lo stesso fuoco di ogni sera. La pelle rosseggiò alla luce della candela e gli occhi di Kylar si fissarono sulla punta di un capezzolo. Con un soffio, Elene spense la fiammella.
Kylar si era già tolto i vestiti, e la desiderava. Un desiderio così intenso da farlo tremare. Si allungò sul letto, ma non la toccò. Il ka'kari lo aveva maledetto con una visione perfetta anche nel buio. Maledetto, perché riusciva ancora a vederla. Leggeva il dolore sul suo viso. La sua libidine era una catena a cui era legato come uno schiavo, e questo lo disgustò. Così, quando Elene si girò a sfiorarlo, non si mosse. Si girò sulla schiena e guardò il soffitto.
Sembra che abbia saltato tutte le parti precedenti fino a quella delle palle doloranti. Non dovrei esser qui. Cosa sto facendo? La felicità non è per gli assassini. Non posso cambiare. Sono un essere spregevole. Non valgo nulla. Un erborista senza erbe, un padre che non è un padre, un marito che non e un marito, un assassino che non uccide. Quella spada sono io. Per questo non riesco a liberarmene. Rappresenta quel che sono. Una spada inguainata che vale una fortuna, sepolta in fondo a un baule. Peggio che inutile. Uno spreco. Si drizzò a sedere, poi si alzò. Infilò una mano sotto il letto e tirò fuori la cassa allungata. Elene si sollevò dal letto mentre cominciava a indossare i suoi vestiti da sicario. «Tesoro?», lo chiamò Elene. Si vestì in pochi secondi - Blint lo aveva fatto esercitare anche in questo - allacciando coltelli alle braccia e alle gambe, assicurando una serie di grimaldelli a un polso e un rampino ripiegato a filo della schiena, sistemando le pieghe degli indumenti perché smorzassero qualsiasi tintinnio, legandosi Retribution alla schiena e indossando una maschera di seta nera. «Tesoro», ripeté Elene con voce tesa. «Che stai facendo?». Non uscì dalla porta per scendere lungo le scale. No, non quella sera. Invece, aprì la finestra. L'aria sapeva di buono. Di libertà. Inspirò profondamente fino a riempirsene i polmoni e trattenne il fiato, come se potesse trattenere anche quel senso di libertà. All'ironia del pensiero, espirò in un sol colpo e guardò Elene.
«Quel che faccio sempre, amore», rispose Kylar. «Vado a far casino». Con uno slancio di Talento, saltò giù nella notte. Ancora una volta, Ferl Khalius aveva ricevuto il suo incarico di merda. Dopo che il suo reparto era stato massacrato durante l'invasione, erano stato scelto per ogni compito ingrato: buttare corpi giù da quel ponte bruciacchiato e vacillante; aiutare i cuochi a trasportare provviste all'interno del castello; aiutare i Meister a costruire le nuove mura del Re Divino intorno alla città; doppi e tripli turni di guardia - e mai la possibilità di scegliere un'assegnazione come quella sul Vanden Bridge, dove le guardie, a ogni turno, si portavano a casa la paga di una settimana in mazzette solo per chiudere un occhio e lasciar passare qualche ladruncolo. E adesso questo. Guardò il suo prigioniero con disgusto. L'uomo era grasso, con le mani morbide di un nobile del Sud, sebbene portasse la barba rossa secondo lo stile khalidoriano. Il naso era adunco e le sopracciglia sembravano due cespugli. Fissava Ferl con evidente agitazione. Ferl non era tenuto a rivolgergli la parola. Ferl non era tenuto a sapere chi fosse. Ma fin dall'inizio aveva avuto un cattivo presentimento, da quando un capitano gli aveva detto che i Vurdmeister volevano vederlo. Avevano fatto proprio il suo nome. Doveva recarsi immediatamente a rapporto. Un annuncio che nessun Khalidoriano amava sentirsi fare. Ferl pensò che dipendesse da quel piccolo souvenir, la spada con l'elsa a forma di drago che aveva preso sul ponte. Ma non era stato quello il motivo della sua convocazione. Tuttavia, fu sul punto di pisciarsi addosso quando si trovò di fronte al Vurdmeister lodricari in persona: Neph Dada. Nessun Vürdmeister era normale, ma Neph era particolarmente sinistro. Per tutto il tempo che Neph aveva parlato, Ferl non aveva staccato gli occhi dalle dodici corde annodate che simboleggiavano le dodici shu'ra ottenute. Era troppo spaventato per guardarlo in faccia. Neph aveva assegnato quel compito a Ferl e non ad altri. Gli era vietato parlarne con altri soldati, e tantomeno intrattenersi con loro per tutta la durata dell'incarico. Adesso, lui e il nobile erano confinati
dentro la dimora di un mercante nella zona orientale della città. I Meister si erano affrettati a trasformare parte della casa in una prigione. Un lavoro eseguito dai Meister. C'era una sola spiegazione per questo: era una faccenda talmente importante che si doveva chiudere in fretta e all'oscuro di tutti. L'avevano lasciato lì con cibo sufficiente per qualche mese, col divieto di allontanarsi. Questo aveva reso la situazione davvero spiacevole. Ferl Khalius non era diventato il vice - adesso il capo - del suo reparto per pura stupidità. Aveva parlato con il prigioniero e appreso che il suo nome era barone Kirof. Il nobile sosteneva di non conoscere il motivo della propria reclusione. Proclamò la sua innocenza e la sua lealtà a Khalidor - e il fatto che sprecasse fiato a parlare con un semplice soldato fece capire a Ferl che il barone non era poi un elemento così brillante. Disobbedendo agli ordini, Ferl sgusciò fuori dalla casa e scoprì che il barone Kirof, a quanto pareva, era stato ucciso. Il buon duca khalidoriano, Tenser Vargun, stava adesso marcendo nelle Fauci per aver ucciso un nobile cenariano che non era morto. Fu allora che Ferl capì di essere stato fregato. La sua immaginazione non riusciva a figurarsi nessuna piega nella faccenda a favore di Ferl Khalius. Perché assegnare un incarico simile a un uomo ormai privo del suo reparto? Per poterlo poi eliminare senza che nessuno se ne accorgesse. A tempo debito, il barone Kirof sarebbe stato liberato o ucciso - l'unica ragione per tenerlo in vita, quando si supponeva fosse morto, doveva essere quella di farlo saltar fuori in un preciso momento. Ma Ferl? Ferl sarebbe stata solo la prova che i Vürdmeister avevano mentito.
Sarei dovuto tornare a Khalidor. Gli avevano offerto un lavoro:
occuparsi dei buoi della salmeria. Aveva quasi accettato. Se l'avesse fatto, ormai sarebbe stato lungo la strada che lo riportava al suo clan. Ma tutti quelli che scortavano il tesoro fino a Khalidor venivano perquisiti con cura prima di essere congedati, e questo voleva dire perdere la sua preziosa spada. Così era rimasto, certo di raggranellare una piccola fortuna durante il saccheggio della città. Proprio così.
«Dovrei uccidervi», disse Ferl. «Dovrei uccidervi solo per far loro un dispetto». L'uomo grassoccio impallidì. Non aveva dubbi circa le intenzioni di Ferl. «Ditemi, grassone», riprese Ferl. «Se i Vürdmeister vi dicessero che vi verrebbe risparmiata la vita nel caso mentiste su chi vi ha sequestrato, lo fareste?» «Che razza di domanda idiota è questa?», replicò il barone Kirof. Quindi sapevano che Kirof avrebbe retto il gioco. «Siete un brav'uomo, non è vero, grassone?» «Cosa?», domandò il barone. «Non capisco il tuo accento. Com'è che mi hai chiamato?» «Grassone. Grassone!». «Ma non capisco!». Una mano di Ferl guizzò fra le sbarre e agguantò una manciata di pelle flaccida, stringendola con tutta la forza possibile. Kirof sgranò gli occhi e lanciò uno strillo, cercando di liberarsi, ma Ferl lo tenne saldo contro le sbarre, intrappolato dal suo grasso. «Grassone! Grassone!». Afferrò la guancia del barone con l'altra mano e la strizzò con eguale spietatezza. L'uomo cominciò a menare colpi alle mani di Ferl, ma era troppo debole. Riuscì solo a piagnucolare. «Grassone!», gli gridò in faccia un'ultima volta, e poi mollò la presa. Il nobile crollò all'indietro sul giaciglio nella cella, massaggiandosi la guancia e i rotoli di grasso con gli occhi velati di pianto. «Grassone?», ripeté, profondamente offeso. Ferl era fortunato a non avere una lancia a portata di mano. «Muovete quel culo lardoso», gli disse. «Ce ne andiamo».
Capitolo 13 Il semplice muoversi, saltare di tetto in tetto, volare sopra il mondo sottostante, riempì di gioia il cuore di Kylar. Gli edifici di Cenaria erano stati un misto tra case di bambù e fibre di riso in stile ceuriano con tetti spioventi d'argilla e abitazioni di legno e mattoni rossi con il tetto di paglia. Qui, a centinaia di chilometri dalla più vicina risaia e senza la minaccia della neve, i tetti erano piatti e costruiti in argilla compatta, e sostenuti da solido legno. Per un uomo pratico come Kylar, erano come un'autostrada nel cielo. Kylar assaporò ogni dettaglio. La forza dei suoi muscoli, il profumo dell'aria della notte e il potere segreto di muoversi nell'oscurità come un'ombra. Tutto era perfetto. Niente gli calzava bene come gli indumenti da sicario. Realizzati dal miglior sarto di Cenaria, Mastro Piccun, si muovevano insieme a lui. Il colore screziato spezzettava la sua figura e avrebbe reso difficile individuare anche un uomo senza Talento. Si fermò sul bordo di un edificio; ruotò il collo e sciolse i muscoli della schiena mentre indietreggiava per prendere la rincorsa. Il balzo fino al tetto del vicino magazzino era di circa sei metri. Espirò con forza e scattò in avanti. Lo stridore dei suoi passi aumentò durante l'accelerazione finché spiccò il salto, continuando a muovere le gambe in aria mentre volava al di sopra del vicolo. Guadagnò facilmente il tetto del magazzino, atterrando quasi due metri oltre il bordo. Sfrecciò verso il muro, dove una parte del tetto saliva verso un terzo livello più circoscritto. Era troppo alto per saltare e aggrapparsi al bordo. Invece, si arrampicò rapidamente sul muro e lo scavalcò. Allungò una mano verso le travi del tetto che sporgevano dall'edificio, ma inutilmente. Le dita restarono a una decina di centimetri più in basso della trave. Mani invisibili si materializzarono dalle sue, allungandosi fino ad afferrare la trave. Kylar si issò e atterrò sulla sommità della trave
larga sette centimetri. Vacillò per un momento, poi ritrovò l'equilibrio e mise piede sul tetto. Si abbandonò a un gesto di trionfo. Gli ci erano voluti solo tre tentativi. Niente male. Niente male affatto. La prossima volta avrebbe provato mentre era invisibile. Cominciava a comprendere cosa gli aveva detto una volta il suo maestro: appena fosse stato in grado di usare il Talento, avrebbe avuto tanto da imparare. Già il semplice passare dall'usare il suo Talento per saltare a usarlo per allungare mani invisibili andava al di là di ogni immaginazione. Farlo mentre era invisibile e correndo a tutta velocità - be', doveva solo prendersi del tempo per allenarsi, no?
Per cosa? Tempo per allenarsi per cosa ? Quella considerazione inasprì la brezza notturna che soffiava dai fiumi. La libertà che aveva respirato si disperse come nebbia. Si stava allenando per niente. Si stava allenando perché non riusciva a giacere accanto a Elene mentre pensieri, emozioni e libidine agitavano il suo animo. Passava dall'impulso di strapparle i vestiti di dosso e prenderla con la forza alla voglia di gridarle qualcosa per scuoterla da quella situazione di stallo. Lo spaventava l'intensità di quelle pulsioni, di come avrebbero potuto combinarsi fra loro. Quello non era fare l'amore. Il solo pensiero gli dava la nausea. Superò con un balzo un altro vicolo sorvolando una coppia che passeggiava sottobraccio, e sentì le domande sorprese che si scambiarono - qualcosa era appena passato sopra le loro teste? Kylar rise sonoramente, e tutte le sue angustie si dissolsero nell'euforia dell'azione, del movimento, della libertà. Mentre scivolava oltre una piccola gang in agguato, pronta a sorprendere il primo ubriaco barcollante che avesse imboccato il loro vicolo, Kylar si sentì pienamente vivo. Non aveva nemmeno bisogno dei suoi poteri. Era lì, tutti i sensi allertati, ogni fibra del suo essere pronta ad agire; se uno di quei teppisti si fosse accorto di lui, avrebbe dovuto ricorrere ai propri poteri - fuggire, attaccare, saltare, schivare, nascondersi -, qualsiasi cosa. Passando vicino a uno con un coltello in mano e un otre nell'altra, ne fiutò l'odore. Doveva regolare il ritmo del proprio respiro su quello del delinquente, così non lo avrebbe sentito; doveva misurare ogni passo, seguire il
cambiamento della luce mentre la luna scivolava fuori e dentro le nuvole, osservare i volti dei quattro giovani mentre scherzavano e parlavano fra loro, passandosi una pipa di marijuana. «Ehi, fate silenzio!», esclamò il tipo più vicino a Kylar. «Non prenderemo mai nessuno se continuate a chiacchierare, idioti!». Si zittirono. Gli occhi del teppista sfiorarono Kylar, che restò senza fiato - c'era qualcosa negli occhi di quel giovane. Un che di oscuro, che gli risvegliò qualcosa nei recessi della mente. Lungo il vicolo, un uomo barcollò fuori da una taverna. Si puntellò contro un muro, poi si diresse dritto verso il punto dell'agguato.
Cosa sto facendo? Kylar realizzò che non aveva nemmeno un piano. Sono impazzito. Devo andarmene di qui. Non aveva tradito la parola data a Elene. Non ancora. Dopo tutto, non le aveva mai promesso di non uscire di notte. Aveva giurato di non uccidere. Doveva andare. Ora. Se cominciavano a pestare l'ubriaco, non sapeva cosa avrebbe fatto. O forse lo sapeva fin troppo bene, ma non poteva farlo. Il ka'kari trasudò dai suoi pori come una patina di olio nero iridescente. Ammantò la pelle e i vestiti in un momento - lo coprì, scintillò per un brevissimo istante, e scomparve. Uno dei teppisti sull'altro lato del vicolo si accigliò e aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi cambiò idea e scosse la testa, certo che quel che aveva visto fosse solo frutto della sua immaginazione. Kylar spiccò un balzo di un metro e mezzo in aria e si afferrò al bordo del tetto. Si tirò su e si allontanò di corsa. Quando sentì un grido - e quello era il tonfo di un randello che colpiva un uomo? non si fermò. Non si guardò indietro. Era a soli quattro isolati di distanza, sempre in fuga, diretto alla casa di Zia Mea, quando vide una ragazza pedinata da altri tre teppisti. Cosa diavolo faceva per strada a quell'ora? Chiunque in questa parte della città doveva sapere quanto fosse insensato per una
ragazza - graziosa, con i capelli biondi come oro - andare in giro da sola. Non erano affari che lo riguardavano. Capelli d'Oro lanciò un'occhiata oltre la spalla e Kylar notò il viso rigato di lacrime. Magnifico. Una ragazza stupida ed emotiva che si comportava in modo stupido ed emotivo. Si fermò di colpo. Maledizione. Non puoi salvare il mondo,
Kylar. Non sei realmente l'Angelo della Notte. Sei soltanto un'ombra, e le ombre non possono occuparsi di nulla.
Imprecò, ad alta voce. Nella strada sottostante, i quattro personaggi del piccolo dramma in atto alzarono lo sguardo verso i tetti, ma naturalmente non lo videro. Né lo videro saltare giù sul selciato e cominciare a seguirli. Se l'avessero presa, avrebbe dovuto ucciderli. Avrebbe dovuto far loro del male per allontanarli da lei; e poi, cos'altro avrebbe fatto? Malmenarli rendendosi invisibile? Lasciare che andassero in giro a raccontare questa storia? Qualcuno l'avrebbe ricollegato all'Angelo della Notte, prima o poi, e allora tutto sarebbe finito in malora. No, se l'avessero presa, avrebbe dovuto rompere la promessa fatta a Elene e poi non sarebbe più potuto tornare indietro. Quindi c'era un'unica cosa da fare: assicurarsi che non la catturassero. Capelli d'Oro fece la prima cosa sensata di quella sera: cominciò a correre. I teppisti si separarono e si lanciarono alla caccia. Kylar recuperò Retribution dalla schiena, ma non la sfoderò. Si avviò dietro uno degli inseguitori, calcolò il ritmo della sua corsa e infilò la spada inguainata fra i piedi del giovane nel bel mezzo di una falcata. Il teppista crollò a terra e il suo compagno ebbe appena il tempo di lanciarsi un'occhiata alle spalle prima di seguire la stessa sorte, producendosi in un incontro con il selciato molto più intimo di quanto avrebbe gradito. Imprecarono entrambi, ma non erano due tipi molto svegli. Balzarono in piedi e ripresero l'inseguimento guadagnando rapidamente terreno. Stavolta Kylar fece inciampare l'uno addosso all'altro. I due si afflosciarono a terra in un groviglio di corpi, cominciando a bestemmiare e a menarsi colpi. Quando riuscirono finalmente a rialzarsi, la ragazza era sparita.
Kylar aveva perso di vista sia lei che l'ultimo dei teppisti. Salì su un tetto e si gettò nella ricerca. Mentre correva, lasciò cadere il velo d'invisibilità così da poter impiegare tutto il Talento nella velocità. Dopo aver volato sopra diversi tetti, la individuò di nuovo. Era a un solo isolato di distanza dall'unica casa presente in un vicolo buio, con una lanterna accesa dietro i vetri della finestra. Senza dubbio era la sua abitazione. Poi Kylar scorse l'ultimo teppista venire giù lungo un vicolo che incrociava il percorso della ragazza. Appena la vide, il delinquente si appostò nell'ombra. Non c'era tempo. Kylar si trovava più indietro di un isolato rispetto a loro. Raggiunse il bordo dell'edificio e saltò, non visto, al di sopra di Capelli d'Oro, estraendo Retribution prima di atterrare nel vicolo, proprio davanti al teppista. L'uomo aveva tirato fuori un coltello e in un istante Kylar lesse nelle pozze nere dei suoi occhi un odio profondo, incontrollato, alimentato dalla percezione di un affronto. Quell'uomo aveva già ucciso, e quella sera aveva in mente di uccidere Capelli d'Oro. Kylar non sapeva perché, ma ne era certo. E guardando quell'oscurità che reclamava morte, si rese conto di averla già vista in precedenza: negli occhi del principe Ursuul. Solo in seguito avrebbe deciso di essersi sbagliato. Ci fu un momento di stupito silenzio mentre il teppista e l'Angelo della Notte si fissavano. «Madre? Padre?», chiamò la ragazza mentre superava l'incrocio fra i vicoli. Il criminale passò all'attacco e Retribution saettò in avanti, perforando il plesso solare dell'assalitore, strappandogli l'aria dai polmoni e inchiodandolo al muro. Dietro l'angolo, si spalancò una porta e Capelli d'Oro fu fatta entrare al sicuro, sotto un diluvio di parole di scusa e di perdono, e di lacrime. Kylar dedusse che la ragazza aveva litigato con i genitori per qualche ragione che nessuno ricordava ed era scappata di casa. Il ferito si contorse. Stava cercando di respirare, ma gli era impossibile perché Retribution gli aveva spezzato le costole,
schiacciandole contro il diaframma. Le gambe erano completamente inerti. Il colpo doveva avergli lesionato almeno in parte la spina dorsale, perché l'unica cosa che lo teneva in piedi era la lama che lo affiggeva al muro. L'uomo era già morto, ma non se ne era ancora fatto una ragione.
Che io sia dannato, cosa ho fatto? Kylar ritirò la spada e il corpo
si afflosciò a terra. Con estrema freddezza, gli affondò la lama nel cuore. Ormai, era coinvolto. Non poteva lasciare lì il cadavere. Non era professionale, e il suo ritrovamento avrebbe di certo guastato la tenue felicità che trapelava dalle finestre aperte. Sul muro era rimasto un po' di sangue: lo asciugò con il mantello del morto e poi ci strofinò sopra un po' di terra. All'interno della piccola casa, era in corso una festa di gioia e riconciliazione. La madre aveva servito l'ootai e ridacchiava ripensando a quanto lei e il marito fossero stati in pensiero. La ragazza stava raccontando la storia degli uomini che l'avevano terrorizzata inseguendola, per poi cadere uno dopo l'altro. Kylar provò un moto di orgoglio, seguito dal disgusto nel constatare quanto fosse per lui dolcemente familiare. Ma mentiva a se stesso. Non era disgustato. Era commosso. Commosso e profondamente triste. Era rimasto là fuori nel vicolo, con il morto, da solo. Con la punta del piede spinse un po' di terra a coprire il sangue sul selciato e ficcò degli stracci nelle ferite del cadavere. «Sia lode a Dio», concluse la madre. «Tuo padre e io non abbiamo mai smesso di pregare».
Sono io, pensò Kylar mentre si caricava il corpo sulle spalle, la risposta a ogni preghiera. Tranne a quella di Elene. «Perché qualcuno vorrebbe distruggere un ka'kari, Neph?», domandò il Re Divino mentre camminava avanti e indietro nell'ampio salone. «Gli abitanti del Sud sono spesso privi di logica, Vostra Santità».
«Ma di certo questi eroi che si pensa abbiano distrutto il ka'kari Garric Shadowbane, Gaelan Starfire, Ferric Fireheart - dovevano avere poteri magici. Non educati come Meister, naturalmente, ma dotati di Talento. Simili guerrieri avrebbero potuto vincolare loro stessi il ka'kari. E non l'hanno fatto? Stiamo dicendo che almeno tre guerrieri hanno preferito distruggere artefatti che li avrebbero resi dieci volte più potenti di quanto già non fossero? I grandi uomini non sono così altruisti». «Vostra Santità», riprese Neph, «state tentando di riprodurre il modo di pensare di gente che abbraccia le virtù della debolezza. Questa è gente che privilegia la compassione al posto della giustizia, la pietà al posto della forza. La loro, è una filosofia malata, una sorta di pazzia. È naturale che agiscano in modo inspiegabile. Guardate con quanto ardore Terah Graesin si precipita verso il suo triste destino». Il Re Divino minimizzò la faccenda con un cenno seccato della mano. «Terah Graesin è una sciocca, ma non tutti i meridionali lo sono. Se lo fossero, i miei progenitori li avrebbero annientati secoli fa». «Certo che l'avrebbero fatto», precisò Neph Dada, «se non fosse stato per le incursioni dal Freeze». Garoth liquidò la questione. Un normale Meister era sempre stato più potente di un comune mago, spesso aveva più colleghi nella sua arte, e lui e i suoi compagni non venivano spartiti fra scuole rivali disseminate in tutto il Midcyru. Gli eserciti khalidoriani erano validi come molti altri e migliori di tanti. Nonostante questi punti a suo favore, le ambizioni del Re Divino erano state più volte frustrate. «Mi sento... osteggiato», disse Garoth. «Osteggiato, Vostra Santità?», ripeté Neph, con un asmatico colpo di tosse. «Forse questi meridionali credono davvero in quel che vanno proclamando in merito alla pietà e alla protezione dei deboli, sebbene la nostra esperienza qui ci dimostri il contrario. Ma il richiamo del potere non viene facilmente ignorato, Neph. Forse un santo delle loro fedi potrebbe distruggere un ka'kari che avrebbe
potuto invece usare. Ma come hanno potuto sparire sei ka'kari e restare nascosti per così tanto tempo? Stai parlando di generazioni di santi - ogni nuovo guardiano virtuoso quanto il precedente. Non ha senso. Uno di loro avrà ceduto». «Il ka'kari è riapparso, di tanto in tanto». «Sì, ma sempre più di rado col passare dei secoli. L'ultima volta è stato cinquanta anni fa», disse Garoth. «Qualcuno sta cercando di distruggere o almeno di occultare il ka'kari. Questa è l'unica spiegazione sensata». «Quindi, qualcuno là fuori sta tenendo in serbo il ka'kari da sette secoli?», osservò Neph, impassibile. «Di certo non qualcuno», replicò Garoth. «Ma qualche... gruppo. Riesco a mandar giù più facilmente un piccolo complotto che la cospirazione di ogni santo del Sud che sia mai esistito». Fece una pausa, seguendo una nuova idea. «Considera quei nomi Shadowbane, Fireheart, Starfire? - non sono nomi di casati. Sono fittizi. Se ho ragione, potrebbe essere che Garric Shadowbane, Ferric Fireheart e Gaelan Starfire fossero i campioni del gruppo, i loro avatar, per così dire». «E il loro odierno avatar?...», chiese Neph. Garoth sorrise. «Adesso ha un nome. Questa mattina, il mio bardo ladeshiano ha cantato. L'uomo che ha percorso questi corridoi con il ka'kari, che ha ucciso mio figlio, era o il leggendario Durzo Blint o il suo apprendista Kylar Stern. Durzo Blint è morto. Perciò, se Kylar Stern è questo avatar...». Garoth lasciò la frase in sospeso. «Spiegherebbe perché quegli eroi erano pronti a distruggere un ka'kari. Perché non potevano usarne altri. Perché ne avevano già vincolato uno. Erano i portatori del ka'kari nero». «Vostra Santità, non è possibile che, invece di distruggere quei ka'kari, li abbiano conservati?». Garoth considerò quella eventualità. «È possibile. E Kylar potrebbe non essere affatto un loro alleato». «Nel qual caso potrebbero tentare di aggiungere il ka'kari nero alla loro collezione», concluse Neph.
«Non possiamo saperlo. Non possiamo avere la certezza di nulla finché non prendiamo Kylar Stern. Il mio uccello canterino diventerà l'assassino perfetto. Nel frattempo, Neph, contatta ogni Meister e agente che abbiamo nelle regioni meridionali e di' loro di tenere gli occhi bene aperti. Dovesse anche costarmi l'intero regno, voglio quel Kylar Stern. Non m'interessa se vivo o morto, ma portatemi quel dannato ka'kari».
Capitolo 14 Le prime settimane nel Buco del Culo dell'Inferno erano state le più truci, prima che Logan diventasse un mostro. Aveva concluso il patto con il diavolo e con il proprio corpo. Aveva mangiato la carne che gli era capitata in quel terribile giorno, e quando Fin aveva ucciso Scab, Logan si era di nuovo cibato di carne. Per accaparrarsela, aveva dovuto uccidere Long Tom, e questo l'aveva reso un mostro. Essere un mostro l'aveva messo al sicuro. Ma Logan non si accontentava di sentirsi al sicuro. Non si accontentava di sopravvivere. Viveva utilizzando il lato di sé più feroce e primitivo, ma non voleva che il suo intero essere si riducesse a questo. Divideva la sua carne. Ne aveva data un po' a Lilly, non per il sesso, come facevano gli altri, ma per decenza. La donna gli aveva dato quel consiglio che gli permetteva di conservare la propria umanità. Divise la carne anche con gli altri mostri: Tatts, Yimbo e Gnasher. Tenne per sé le parti di prima scelta - almeno quelle che aveva il coraggio di ingurgitare. Braccia e gambe erano una cosa, ma mangiare il cuore di un uomo, il cervello, gli occhi, spezzare le ossa per succhiarne il midollo andava al di là delle possibilità di Logan. Era una linea sottile, e uno sapeva che l'avrebbe superata se le cose fossero peggiorate ma, per il momento, si era già svilito abbastanza; così divideva il cibo per scrupolo e per nobiltà d'animo. Era il primo passo per rivendicare la propria umanità. Fin l'avrebbe ucciso appena ne avesse avuto l'occasione. I mostri non creavano problemi, quindi era ancora possibile propiziarseli. Non si sarebbe trattato di lealtà, ma avrebbe comunque cambiato le carte in tavola. Gnasher era tutta un'altra storia. Logan se lo teneva vicino, immaginando che quel povero idiota non lo avrebbe tradito. Tuttavia, aveva imparato presto come mai gli avessero dato quel nome. Ogni notte, arrotava i denti con tale energia che Logan era stupito che avesse ancora i molari.
La terza settimana, Logan si svegliò all'improvviso silenzio di Gnasher e si mise in ascolto nel buio. Anche l'idiota aveva drizzato le orecchie, e doveva avere un udito migliore di quello di Logan perché un minuto dopo risuonò un rumore di passi. Due guardie khalidoriane si profilarono oltre la grata e guardarono in basso con disgusto. La prima era quella che detestavano. Aprì la grata, come faceva sempre, e gettò il loro pane nel Buco, come faceva sempre. Pur conoscendo ormai la crudele abitudine della guardia, i mostri e gli animali, e persino Logan, si alzarono in piedi e si piazzarono intorno al baratro, sperando in un lancio maldestro. Era accaduto solo una o due volte, ma bastava a mantenere vive le loro speranze. «Guardate qui», li provocò il Khalidoriano. Spezzò in due l'ultimo filone e ci pisciò sopra, inzuppandolo di urina. Poi lo gettò agli affamati in attesa. Logan, essendo il più alto fra i prigionieri, riuscì ad afferrarne più degli altri. Lo divorò all'istante, ignorando il fetore, ignorando il liquido caldo che gli colava lungo il mento, ignorando l'umiliazione. La prima guardia scoppiò in una risata fragorosa. La seconda rise con meno convinzione. Il giorno dopo, la seconda guardia ritornò, da sola. Aveva del pane, pulito, e lo lanciò ai prigionieri, un filone ciascuno. Con un accento marcato e senza guardare nessuno di loro negli occhi, promise che avrebbe portato il pane ogni volta che non fosse di guardia insieme a Gorkhy. La notizia diede loro forza e speranza, e un nome per l'uomo che odiavano più di ogni altro. Poco a poco, fra i reclusi si ricostituì una sorta di società. Quella prima notte, erano stati tutti talmente sopraffatti dalla gioia di avere del pane che non avevano nemmeno tentato di rubarselo fra loro. Ma poi, man mano che recuperavano le forze, ricominciarono gli scontri. Dopo pochi giorni, Yimbo il muto si azzuffò con Fin e rimase ucciso. Logan aveva seguito la scena, sperando di cogliere il momento opportuno per saltare addosso a Fin, ma la lotta si era
conclusa troppo in fretta. Il coltello che gli aveva rubato costituiva un vantaggio non indifferente. Quando arrivò il pane, Logan si assicurò di accaparrarsene più degli altri - non solo per il prestigio, ma anche per tenersi in forze. Aveva già perso ogni grammo di grasso che avesse mai messo su, e adesso stava perdendo la massa. Era tutto tendini e muscoli scarni, ma aveva ancora una corporatura imponente e aveva bisogno della sua forza. Eppure, divideva quel che poteva con Lilly, Gnasher e Tatts. Dopo più di due mesi di inferno, Logan compì una svolta. La presenza di Fin, con quella sua dannata fune di tendini che continuava ad allungarsi, lo teneva in continua tensione, sul filo del rasoio. Logan dormiva e si svegliò al lamento dei demoni ai quali a volte imputava l'ululato che si levava dal baratro - non era vento, di questo ne era certo. O erano demoni, oppure gli spiriti di tutti quei poveri bastardi che erano finiti nel Buco nel corso dei secoli. La testa gli pulsava al ritmo tormentoso di quel lamento. Gli doleva la mandibola: aveva tenuto i denti serrati per tutta la notte. Poi ritrovò la propria umanità. «Gnash», chiamò. «Gnasher, vieni qui». L'omone gli rivolse uno sguardo assente. Logan gli si avvicinò e, con molta cautela, gli posò le mani sulla mandibola. Temeva che Gnasher potesse morderlo - e in tal caso, un'infezione sarebbe stata sinonimo di morte - ma compì lo stesso quel gesto. Gnasher parve sconcertato, ma lasciò che Logan gli massaggiasse lentamente la mandibola. In pochi istanti, l'espressione sul volto dell'idiota cambiò. La tensione che Logan riteneva fosse parte della sua deformità si allentò. Quando Logan si fermò, l'uomo ruggì e lo abbrancò. Logan pensò che l'avrebbe ucciso, invece Gnasher si limitò ad abbracciarlo. Quando lo lasciò andare, Logan capì di essersi guadagnato un amico per la vita, anche se in quel Buco sarebbe stata disgustosa, brutale, breve. Avrebbe pianto - ma era una cosa che gli riusciva sempre difficile.
Doveva uccidere Jarl. Vi si fermò fuori del rifugio di Hu Gibbet e posò la testa contro la cornice della porta. Doveva entrare, affrontare Hu, prepararsi e andare a eliminare Jarl. Niente di più semplice, e poi il suo apprendistato sarebbe terminato e non avrebbe più dovuto trovarsi di fronte a Hu. Il Re Divino le aveva persino assicurato che poteva uccidere Hu, se avesse voluto. Nell'anno che Vi aveva trascorso a imparare il mestiere presso Momma K, Jarl era stato il suo unico amico. Si era fatto in quattro per aiutarla, soprattutto durante le prime settimane, quando Vi era stata un vero disastro. Per i suoi bei lineamenti esotici ladeshiani, la sua parlantina, la sua intelligenza e il suo calore, Jarl piaceva a tutti, e non solo agli uomini e alle donne che facevano la fila per ottenere i suoi servigi. (Facevano la fila in senso figurato, naturalmente. Momma K non avrebbe mai tollerato un'ostentazione così priva di buon gusto come una fila dentro il Blue Boar). Ma Vi aveva sempre sentito che fra loro due c'era un legame speciale. Interruppe il corso dei pensieri. Aveva un lavoro da eseguire. Ispezionò la porta in cerca di eventuali trappole. Nessuna. Hu diventava sbadato quando aveva compagnia. Vi aprì adagio la porta, tenendosi da un lato e con le mani bene aperte davanti a sé. A volte, quando Hu era sotto l'effetto dei funghi allucinogeni, attaccava senza fare domande. Non subodorando alcun pericolo, Vi entrò. Hu era in un angolo dell'ingombra stanza anteriore, seduto a torso nudo su una sedia a dondolo. La sedia, però, era immobile, e l'uomo aveva gli occhi chiusi. Non stava dormendo. Vi era in grado di percepire ogni sottile sfumatura nell'atteggiamento del suo maestro; sapeva come respirava quando era realmente addormentato. Fra le mani, stringeva alcuni uncinetti e un piccolo cappellino di lana quasi ultimato. Una cuffietta da bebé, stavolta disgustosa testa di cazzo. Muovendosi come se credesse davvero che Hu stesse dormendo, Vi lanciò un'occhiata nella camera da letto: due donne giacevano fra le lenzuola. Vi le ignorò e cominciò a radunare il proprio equipaggiamento.
Trovare Jarl non sarebbe stato un problema. Doveva solo far sapere in giro che voleva incontrarlo, e lui l'avrebbe ricevuta. Le sue guardie avrebbero controllato che fosse disarmata, ma dopo un po' di tempo passato da sola con lui, l'atmosfera si sarebbe rilassata oppure Jarl avrebbe congedato le guardie, e allora lei l'avrebbe ucciso con le nude mani. Il problema era come non uccidere Jarl. Non aveva intenzione di far fuori l'amico. Vaffanculo il Re Divino. Ma avrebbe tollerato la sua disobbedienza in un solo caso: di fronte a un'alternativa che gli riuscisse ancor più gradita. Vi aprì un armadio e tirò fuori un cassetto. Conteneva la sua collezione di parrucche, le migliori acquistabili sul mercato. Era diventata un'esperta nel conservarle, acconciarle, indossarle e fissarle con la cura richiesta dal suo mestiere. C'era un che di confortante nella sensazione che gli davano i capelli raccolti in una stretta coda di cavallo, talvolta tirati con tanta meticolosità da darle il mal di testa. Da Momma K, le avevano presentato una cortigiana dotata di Talento, che aveva detto a Vi di poterle insegnare come cambiare colore o stile dei capelli usando il Talento, ma Vi non era interessata. Poteva dare il proprio corpo, o Hu poteva prenderlo, ma i capelli erano suoi, ed erano preziosi. Non le piaceva nemmeno che gli uomini toccassero le sue parrucche, ma riusciva a sopportarlo. Quando si prostituiva, indossava una parrucca per quell'esiguo margine di camuffamento che le conferiva - i capelli rosso fuoco non erano così comuni fuori da Ceura. Quando lavorava come sicario, portava sempre i capelli legati a coda di cavallo. Un'acconciatura ragionevole, controllata ed efficiente, proprio come lei. L'unica volta in cui scioglieva i capelli era prima di coricarsi, e solo quando era sola e al sicuro. Dopo aver scelto una graziosa parrucca di capelli neri e lisci, lunghezza al mento, e un'altra di lunghi capelli bruni e ondulati, Vi arraffò le creme che le servivano per tingersi le sopracciglia e il trucco per scurire la carnagione, poi impacchettò le armi. Stava legando strettamente le bisacce, quando una mano le afferrò un seno e lo strizzò con malizia. Vi trasalì, senza fiato per il dolore e la sorpresa, e un istante dopo si detestò per averlo fatto. Hu le ridacchiò dentro un orecchio, premendo il proprio corpo
contro la sua schiena. «Salve, bellezza, dove sei stata?», le domandò, facendo scivolare le mani sui suoi fianchi. «Al lavoro. Ricordate?», rispose, girandosi con una certa difficoltà. Si accorse subito che era ancora sotto l'effetto di allucinogeni. Hu si avvinghiò al suo corpo e per un momento, prima di cedere, Vi fu combattuta fra la repulsione e l'odio e l'abituale arrendevolezza. Lasciò che le spingesse la testa di lato per affondare la faccia nell'incavo del collo. La baciò delicatamente, poi si fermò. «Non porti quel profumo che mi piace», disse, ancora euforico, ma con un tono sorpreso per la stupidità mostrata dalla donna. Vi sapeva bene con quanta facilità potesse diventare violento. «Ho avuto da lavorare. Per il Re Divino». Vi non permise alla propria voce di tradire la minima nota di paura. Mostrare paura a Hu era come gettare carne cruda a un branco di cani selvatici. «Oooh», disse, tornato di colpo festoso. Aveva le pupille dilatate. «Mi stavo divertendo un po'. Festeggiavo». Accennò alla camera da letto. «Ho qui una contessa e una..., dannazione, non mi ricordo, ma è un gatto selvatico. Vuoi unirti a noi?» «Cosa state festeggiando?», volle sapere Vi. «Durzo!», fu la risposta. Si staccò da Vi e danzò in cerchio, afferrando un altro fungo dal tavolo e infilandolo in bocca, e tentando poi inutilmente di prenderne un altro. «Durzo Blint è morto!», esclamò scoppiando a ridere. Vi raccolse il fungo che gli era caduto. «Davvero? Ne avevo sentito parlare, ma ne siete sicuro?». Hu aveva sempre detestato Durzo Blint. I due venivano sempre citati insieme come i migliori sicari della città, ma di solito il nome di Durzo occupava il primo posto. Hu aveva ucciso delle persone che sostenevano la superiorità del rivale, ma non aveva mai dato la caccia a Blint. Se fosse stato in grado di ucciderlo, lo avrebbe fatto. Vi ne era certa. «Momma K era sua amica e non credeva che fosse morto, così ha mandato degli uomini là dove è stato sepolto - ed eccolo lì! Morto, morto, morto». Scoppiò di nuovo a ridere. Strappò il fungo dalle dita di Vi e interruppe la danza. «A differenza del suo apprendista, il lavoro che tu hai mandato in malora». Prese una fiaschetta di liquore
di papavero e ne ingollò una sorsata. «Avevo intenzione di farlo fuori, capisci, solo per togliermi dalle palle il fantasma di Blint. Cento corone ho sprecato in mazzette, e poi viene fuori che ha lasciato la città. Ah!». Dondolò sui piedi. «Accidenti se era forte. Aiutami a sedermi». Vi sentì una morsa al petto. Aveva la sua risposta. Kylar Stern era l'Angelo della Notte. Aveva ucciso il figlio del Re Divino. Uccidere Kylar era l'unica alternativa che avrebbe soddisfatto il sovrano e salvato lei dalla sua ira per non aver ucciso Jarl. Sostenne Hu per un braccio e lo guidò alla sua sedia, assicurandosi che non si sedesse sugli uncinetti appuntiti. «Dove si trova adesso, maestro? Dov'è andato?» «Sai, non mi vieni a trovare abbastanza. Dopo tutto quello che ho fatto per te, brutta cagna». Il volto si contrasse in un'espressione odiosa e Hu la fece sedere rudemente sulle proprie gambe. I minuti prima che Hu perdesse i sensi erano sempre rischiosi: poteva palpeggiarla, fiacco come un ubriaco, e poi usare la forza schiacciante del suo Talento fino a ferirla o a ucciderla accidentalmente. Così Vi si abbandonò, passiva fra le braccia, aspettando che sprofondasse nel solito torpore. Hu era distratto dal suo corpo: tentò di accarezzarla, ma la mano si perse fra le pieghe della tunica. «Dov'è l'apprendista di Blint, maestro?», ritentò Vi. «Dov'è andato?» «Si è trasferito a Caernarvon, ha abbandonato la via delle tenebre. Chi è il migliore adesso, eh?» «Voi siete il migliore», rispose Vi, sollevandosi adagio dalle sue gambe. «Lo siete sempre stato». «Viridiana», disse Hu. La donna si senti raggelare. Non l'aveva mai chiamata con il nome per intero. Si girò cautamente, chiedendosi se i funghi non fossero stati innocui, o il liquore di papavero semplice acqua. Non sarebbe stata la prima volta che Hu simulava uno stato di ebbrezza per saggiare la sua lealtà. Ma le palpebre di Hu erano semichiuse, il corpo afflosciato nella sedia. «Ti amo», disse. «Queste puttane non hanno niente...». Le parole si spensero e il respiro assunse il ritmo del sonno.
Vi provò l'improvviso bisogno di fare un bagno. Afferrò le bisacce e la spada. Poi si fermò. Hu era incosciente. Ne era certa. Poteva sfoderare la spada e piantargliela nel cuore in meno di un secondo. Quell'uomo se lo meritava, cento volte. Anzi, cento volte peggio. Afferrò l'elsa e sfilò adagio la lama, senza far rumore. Si voltò a guardare il suo maestro, pensando alle mille umiliazioni che le aveva inflitto. Mille abusi, finché non l'aveva spezzata. Difficile, poi, rialzare la testa. Vi girò sui tacchi, rinfoderò la spada e si gettò le bisacce in spalla. Raggiunta la porta, esitò. Tornò nella camera da letto. Adesso le donne erano sveglie, una con gli occhi vitrei e dilatati, l'altra con due enormi seni e i denti sporgenti. «Hu si annoia», disse Vi. «Ogni giorno che passate con lui, la vostra vita è appesa a un filo. Se volete andarvene, lui adesso sta dormendo». «Sei semplicemente gelosa», disse quella con i denti sporgenti. «Lo vuoi tutto per te». «Peggio per voi», replicò Vi, e uscì.
Capitolo 15 «Il Sa'kagé è in guerra o no?», chiese Brant. Jarl si agitò inquieto sulla sedia. Momma K non disse nulla. Lasciò a lui gestire la risposta, se ci fosse riuscito. Il rifugio aveva assunto l'aspetto di una sala operativa, su questo non c'era dubbio. Brant aveva portato delle mappe. Stava raccogliendo informazioni circa gli effettivi khalidoriani - annotando dove era stanziato ogni reparto, dove venivano distribuiti cibo e rifornimenti, e costruendo un diagramma della gerarchia militare khalidoriana. Il tutto corredato da indicazioni su dove il Sa'kagé aveva informatori e da stime sul livello di affidabilità e di possibilità di accesso ai dati di ognuno di essi. «Rispondere a questa domanda è più difficile di...», cominciò Jarl. «No», lo interruppe Brant. «Non lo è». «Sento che siamo coinvolti in una specie di guerra...». «Sentite... Siete un capo o un poeta, bella femminuccia?» «Femminuccia?», sbottò Jarl. «Cosa intendete?». Momma K si alzò in piedi. «Siediti», le ordinarono entrambi gli uomini, fissandosi con sguardo torvo. Con una smorfia sprezzante, Momma K tornò a sedersi. Un istante dopo, Jarl disse: «Sto aspettando una risposta». «Avete il cazzo o vi limitate a succhiarli?», chiese Brant. «Sperate che sia il vostro giorno fortunato?», ribatté Jarl. «Risposta sbagliata», rimarcò Brant scuotendo la testa. «Un buon capo non è mai subdolo...». Jarl gli sferrò un pugno in faccia. Il generale crollò a terra, ma Jarl era già sopra di lui, con la spada sguainata. «E così che faccio il capo, Brant. I miei nemici mi sottovalutano, e io li colpisco quando meno se lo aspettano. Vi ascolto, ma siete al mio servizio. La prossima
volta che fate un commento sul cazzo, vi farò mangiare il vostro», concluse con il volto impassibile. Infilò la spada tra le gambe di Brant. «E non è una futile minaccia». Brant recuperò la stampella e si rialzò con l'aiuto di Jarl, strofinando via la polvere dagli abiti nuovi. «Bene, abbiamo appena vissuto un momento memorabile. Sono commosso. Credo che scriverò una poesia. La vostra risposta è...?». L'accenno alla poesia fece quasi esplodere di nuovo Jarl. Stava per dire qualcosa, quando vide Momma K torcere la bocca. Era stata una battuta. Allora, era questo l'umorismo militare. Jarl scosse la testa. Non sarebbe stata un'impresa facile. Per gli dèi, quell'uomo era tenace. «Siamo in guerra», disse Jarl, non gradendo affatto la sensazione di essersi arreso. «Che controllo avete sul Sa'kagé?», volle sapere Brant. «Perché io qui ho seri problemi. O piuttosto, li avete voi». «Non grande», rispose Jarl. «I Khalidoriani hanno avuto un'influenza galvanizzante, ma le entrate sono calate parecchio e l'autorità si sta sfaldando: persone che non riferiscono ai superiori e cose del genere. Un sacco di gente pensa che l'occupazione sia destinata ad abbassare i toni. Vogliono che tutto torni come prima». «Previsione davvero brillante. Qual è il vostro piano generale per opporvi a questa gente?». Jarl s'incupì. Non c'era alcun apparire questa mancanza come abbiamo pensato di vedere come sapere qualcosa di più su di loro necessario».
piano generale, e Brant faceva una vera assurdità. «Noi... io... si sarebbero comportati. Volevo e poi contrastarli in ogni modo
«Vi sembra una buona idea lasciare che il nemico vi sferri un attacco minuziosamente pianificato per poi trovarvi costretto a rispondere da una posizione di debolezza?», lo apostrofò Brant. «Questa è più una randellata retorica che una domanda, generale», ribatté Jarl. «Grazie», disse il generale. Momma K soffocò un sorriso. «Che cosa proponete?», domandò Jarl.
«Gwinvere ha governato il Sa'kagé in assoluta segretezza, con Shinga di copertura, giusto?». Jarl fece cenno di sì. «Allora, chi è stato lo Shinga fantoccio a partire dall'invasione khalidoriana?». Jarl sussultò, preso alla sprovvista. «Io, be', non ne ho esattamente istituito uno». «Non esattamente?». Brant lo guardò con incredula ironia. «Brant», intervenne Momma K. «Sii un po' più gentile». Con una smorfia di dolore, il generale si sistemò il braccio nell'imbracatura. «Guardate la situazione dalla strada, Jarl. Per più di un mese, non hanno avuto un capo. Nemmeno un capo inesperto. Proprio nessuno. La piccola guida offerta da Gwinvere ha aiutato tutti e finora è andata bene, ma i vostri teppisti - scusate, uomini del Sa'kagé sono sulla stessa barca, come tutti gli altri. Allora perché continuare a pagare le quote? Gwinvere è riuscita a essere uno Shinga ombra, perché non c'è mai stata una minaccia come questa. Questa è una guerra. Avete bisogno di un esercito. Gli eserciti hanno bisogno di un comandante. Voi dovete essere quel comandante, e non potete assolvere a quel ruolo restando nell'ombra». «Se rendo nota la mia identità, mi uccideranno». «Ci proveranno», disse Brant. «E ci riusciranno, a meno che non mettiate insieme un corpo di persone capaci che vi siano assolutamente leali. Persone pronte a uccidere e a morire per voi». «Questi non sono soldati nati in famiglie rispettabili, educati ai valori della lealtà, del dovere e del coraggio», replicò Jarl. «Stiamo parlando di ladri, prostitute e borsaioli, gente che pensa solo a sé e alla propria sopravvivenza». «E questo è quel che ti diranno», sottolineò Momma K con voce così bassa che Jarl riuscì a malapena a sentirla, «a meno che tu riesca a vedere le loro potenzialità nascoste e li aiuti a prenderne atto». «Quando ero generale, i miei soldati migliori provenivano dai Cunicoli», disse Brant. «Sono diventati i migliori perché avevano tutto da guadagnarci».
«Allora, che cosa proponete precisamente?», chiese Jarl. «Propongo che facciate uno splendido lavoro», rispose Brant. «Offrite ai vostri criminali il sogno di una vita migliore, un futuro migliore per i loro figli, l'occasione di considerarsi eroi, e avrete il vostro esercito». Si fermò per lasciare che il messaggio fosse recepito. Nel giro di pochi istanti, il cuore di Jarl prese a martellargli nel petto, la mente a lavorare a pieno ritmo. Era un'idea audace. Grandiosa. Era l'opportunità di usare il potere per qualcosa di più del potere stesso. Cominciò a vedere i contorni di un piano prendere forma. La sua mente stava già valutando quali persone collocare nei vari ruoli. Frammenti di discorsi si ricomposero insieme. Oh, era allettante. Brant non stava semplicemente dicendo a Jarl di offrire un sogno ai suoi criminali, lo stava offrendo proprio a lui. Poteva diventare uno Shinga particolare. Diventare nobile. Essere riverito. Se avesse vinto, avrebbe potuto probabilmente diventare un'autorità riconosciuta, ricevere titoli da ogni nobile famiglia a cui avesse restituito il potere. Per gli dèi, se era allettante! Ma significava rivelare la propria identità. Impegnarsi. Ora come ora, era un segreto. Tutti pensavano che fosse solo un giovane che aveva smesso di prostituirsi. Meno di una dozzina di persone sapeva che era lo Shinga. Se voleva, poteva interrompere i contatti con loro. Se non provava, non poteva fallire. «Jarl», lo richiamò Momma K con voce pacata. «Solo perché è un sogno non significa che sia una bugia». Il giovane guardò prima l'uno poi l'altra, chiedendosi fin dove riuscissero a leggere nella sua mente. Momma K, probabilmente, fino in fondo. Era spaventoso. Avrebbe dovuto sospettare qualcosa solo dal suo silenzio, ma non riusciva ad arrabbiarsi con quella donna. Con lui, aveva sempre avuto più pazienza di quanto meritasse.
Fare uno splendido lavoro. Elene aveva detto che non riusciva a
immaginare Cenaria senza il Sa'Kagé che inquinava ogni cosa, ma Jarl ci riuscì. Sarebbe stata una città dove nascere nella zona ovest non sarebbe stato più sinonimo di disperazione, sfruttamento, gang di strada, povertà e morte. Era stato fortunato a ottenere un lavoro da Momma K. I Cunicoli non offrivano quasi mai un lavoro onesto, di
certo non agli orfani. Il Sa'Kagé veniva alimentato direttamente da una sottoclasse autorigenerantesi di ladri e puttane che abbandonavano i loro figli, proprio come loro erano stati un tempo abbandonati. Ma le cose potevano andare diversamente, giusto?
Solo perché è un sogno non significa che sia una bugia. Gli
stavano suggerendo di infondere nuova speranza nei Cunicoli. «Va bene», disse Jarl. «Ma a una condizione, Brant: se mi uccidono chiunque sia il mandante - voglio che scriviate una poesia per il mio funerale». «D'accordo», accettò il generale con un ampio sorriso, «e i versi saranno molto toccanti».
Capitolo 16 Seduto sul letto, Kylar osservava la figura addormentata di Elene nel buio della stanza. Era il genere di ragazza che, per quanto ci provasse, non riusciva a restare alzata fino a tarda ora. La vista di lei lo riempì di una tenerezza e infelicità quasi insopportabili. Da quando gli aveva promesso di non chiedergli più di vendere Retribution, aveva tenuto fede alla parola data. Fin qui, niente di cui sorprendersi; ma il fatto era che non aveva nemmeno accennato alla spada. La amava. Non era degno di lei. Aveva sempre creduto che uno finisse con l'assomigliare alle persone con cui passava il proprio tempo. Forse questo era uno dei motivi. Amava tutte le cose di lei che lui non aveva. Schiettezza, purezza, compassione. Lei era sorrisi e luce del sole, lui apparteneva alla notte. Voleva essere un brav'uomo, lo desiderava ardentemente, ma forse alcune persone nascevano migliori di altre. Dopo quella prima notte, aveva giurato a se stesso che non avrebbe più ucciso. Sarebbe uscito a continuare l'addestramento, ma non avrebbe ucciso. Così si allenò per niente e affinò capacità che aveva giurato di non usare. L'addestramento era una pallida imitazione della lotta, ma si sarebbe accontentato. La sua determinazione resse per sei giorni, poi scese al porto e trovò un pirata che stava picchiando selvaggiamente un mozzo. Kylar voleva solo separarli, ma gli occhi del pirata reclamavamo morte. E Retribution non gliela negò. La settima notte, si stava allenando semplicemente a nascondersi all'esterno di una taverna del centro, cercando di evitare posti in cui si sarebbe imbattuto in ruffiani e ladri, o stupratori e assassini. Era passato accanto a un uomo che gestiva un giro di piccoli borseggiatori - un tiranno che faceva rigare dritto quei bambini con efferata crudeltà. Retribution trovò il cuore dell'uomo prima che Kylar potesse fermare la mano. L'ottava notte, era andato nel quartiere dei nobili, sperando di trovarvi meno violenza, quando aveva sentito un gentiluomo
picchiare la consorte. L'Angelo della Notte intervenne, invisibile, e spezzò entrambe le braccia all'uomo. Kylar aveva Retribution in grembo, e continuava a osservare Elene. Ogni giorno si riprometteva di non uccidere mai più, e per sei notti non aveva ucciso. Ma una parte di lui sapeva che era stata solo fortuna. La cosa peggiore era che non si sentiva in colpa. Ogni volta che aveva ucciso per Durzo era stato malissimo. Queste ultime morti non gli avevano lasciato alcun rimorso. Si sentiva in colpa solo per aver mentito. Forse stava diventando un Hu Gibbet. Forse adesso aveva bisogno di uccidere. Forse stava diventando un mostro. Ogni giorno lavorava con Zia Mea. Durzo aveva elogiato raramente Kylar, così lui non si era mai reso conto di quanto avesse imparato dal vecchio sicario; ma mentre passava le ore con Zia Mea a catalogare erbe, a rimpacchettarne alcune perché si conservassero più a lungo, a buttare quelle che avevano perso la loro efficacia, a etichettare il resto con date e note sulla loro provenienza, Kylar cominciò a realizzare quante cose aveva assimilato. Non si avvicinava nemmeno lontanamente al livello di competenza di Durzo, ma il suo maestro aveva qualche secolo in più di esperienza. Comunque, doveva fare attenzione. Zia Mea usava a scopo medicamentoso molte erbe che lui aveva impiegato come veleno. Una volta aveva scartato le radici di una pianta di belladonna, dicendo che erano troppo pericolose e che avrebbe usato soltanto le foglie. Senza pensarci, Kylar aveva tracciato un prospetto con le dosi letali di foglie, semi e radici di piante a seconda del tipo di preparazione - che fosse una tintura, una polvere, una pasta o un infuso - e in relazione al peso corporeo, al sesso e all'età del... aveva quasi scritto "morto", e solo all'ultimo istante l'aveva cambiato con "paziente". Quando aveva alzato gli occhi dal foglio, Zia Mea lo stava fissando. «Non ho mai visto un prospetto così dettagliato», commentò la donna. «È... davvero impressionante, Kylar». Dopo quell'episodio, cercò di essere più cauto, ma la situazione si riproponeva con allarmante regolarità. Nel corso della sua carriera, Durzo aveva sperimentato migliaia di volte ogni tipo di erbe.
Quando aveva avuto un morto da uccidere senza una scadenza precisa, aveva tentato con cinque o sei erbe differenti. Kylar cominciò a realizzare che Durzo conosceva le erbe più di chiunque altro ancora in vita - ma, considerando che veniva abitualmente ingaggiato per uccidere persone sane, le nozioni che aveva trasmesso a Kylar a volte erano del tutto inutili. Un giorno, un uomo si presentò a casa di Zia Mea chiedendo disperatamente aiuto. Il suo padrone stava morendo e quattro guaritori non erano riusciti a salvarlo. Zia Mea talvolta faceva qualcosa in più della semplice levatrice, così il servitore si era rivolto a lei come ultima risorsa. La zia, però, era uscita. Kylar si era sentito troppo in imbarazzo per andare a casa del malato, ma dopo aver interrogato il servo, preparò una pozione. In seguito venne a sapere che l'uomo era guarito. Gli fece bene al cuore: aveva salvato una vita. Proprio così. Ciò nonostante, si sentiva in colpa perché viveva della carità di Zia Mea. Aveva trascorso diverse settimane a mettere in ordine il negozio; infatti, per quanto avesse una predisposizione naturale a lavorare con altri, le sue capacità organizzative erano pessime. Ma non aveva fatto niente di utile per lei. Non le stava facendo guadagnare più soldi. Elene aveva trovato un lavoro come domestica, ma la paga era appena sufficiente a pagare il loro vitto. Braen diventava ogni giorno più sgarbato e bofonchiava qualcosa a proposito di certi scrocconi, e Kylar non poteva dargli torto. Passò le dita su Retribution. Ogni volta che si legava addosso quella spada, agiva da giudice e carnefice. La lama era diventata il simbolo del suo giuramento violato. Ma non quella notte. Kylar la ripose nella cassetta e, appellandosi al Talento, saltò fuori dalla finestra. Attraversò i tetti della città in cerca della casa di Capelli d'Oro e rimosse ogni altro pensiero dalla mente. Si arrovellava per tutto il giorno, e non voleva rovinare anche le sue notti. Tutta la famiglia era lì, addormentata nell'unico locale della casupola. Kylar stava per allontanarsi, ma qualcosa lo bloccò. Il padre e la figlia dormivano, mentre la madre stava muovendo le
labbra. In un primo tempo Kylar pensò che stesse sognando, ma poi la donna aprì gli occhi e scese dal letto. Non accese nemmeno una candela. Diede un rapido sguardo fuori della piccola finestra, dove era fermo Kylar, invisibile. Parve spaventata, al punto che Kylar controllò due volte la propria invisibilità. Ma gli occhi della donna non erano fissi su di lui. Si guardò dietro le spalle, ma non c'era nessuno nella strada. La madre di Capelli d'Oro rabbrividì e s'inginocchiò accanto al letto. Stava pregando! Che stupido. Kylar si sentì allo stesso tempo imbarazzato e irritato per aver assistito a un momento così personale. Non sapeva dire perché. Imprecò sottovoce e fece per avviarsi. Tre uomini armati stavano scendendo lungo la strada. In due di loro Kylar riconobbe gli inseguitori di Capelli d'Oro della notte precedente. «È una strega, ve lo dico io», disse uno dei teppisti al terzo uomo, che Kylar non conosceva. «È vero, Shinga, ve lo giuro», confermò l'altro.
Stai scherzando. Lo Shinga di Caernarvon che verificava di
persona la storia su una strega, riferita da un paio di teppisti? Una strega! Come se una strega si sarebbe limitata a far loro lo sgambetto invece di ucciderli. Kylar ascoltò qualche battuta e guardò di nuovo all'interno della casa. La donna aveva svegliato il marito, e adesso erano entrambi assorti in preghiera. Strano, perché dal loro letto era impossibile scorgere i teppisti del Sa'kagé. Forse la donna possedeva del Talento.
Pregano per invocare la protezione divina. Kylar sogghignò al
pensiero, e la parte più meschina di lui anelò ad andarsene. Che fosse il loro Dio a risolvere i problemi. Voltò la schiena, ma non riuscì a muovere un passo. «Barush», sussurrò allo Shinga uno dei teppisti. «Cosa facciamo?». Lo Shinga gli diede uno schiaffo. «Scusate! Scusate!», gemette l'uomo. «Volevo dire Shinga Sniggle, cosa facciamo?» «Li uccideremo».
Per gli dèi, era sorprendente. Il Sa'kagé locale era una parodia talmente scadente di un Sa'kagé che Kylar ebbe voglia di ridere. Solo che non c'era nulla di divertente. Lo Shinga schiaffeggiava i suoi uomini per ottenere rispetto? A Cenaria, appena Pon Dradin rivolgeva ai suoi uomini uno sguardo che non era di totale approvazione, questi si afflosciavano. E non era nemmeno il vero Shinga. Che assurdità! Kylar stava per allontanarsi in preda al disgusto. Eppure, non ci voleva molto per uccidere. Un sicario lo sapeva bene. Oh, era proprio uno squisito dilemma, vero? Eccolo là, forse uno dei più esperti assassini al mondo. Poteva uccidere tutti e tre prima che aprissero bocca. E con tutto ciò non poteva nemmeno ferirli. Davanti a sé aveva la feccia dei bassifondi, e quegli uomini avrebbero ucciso mentre lui non poteva. Magnifico. Erano solo a venti passi di distanza, ormai. «E se... e se usasse ancora le sue arti magiche, Shinga?». Naturalmente non si erano presi il disturbo di formulare un piano prima di raggiungere l'obiettivo. Sarebbe stata una dimostrazione di professionalità. Barush Sniggle fece una smorfia di scherno e si avvicinò alla porta. «Non ho paura di quelle stronzate». Appena Kylar incontrò gli occhi dell'uomo, la sua mano passò dietro la schiena - ma Retribution non c'era. La momentanea reazione di sorpresa fu sufficiente a liberarlo dall'impulso di uccidere. Lo aveva giurato, maledizione. Lo aveva giurato. Doveva esserci un altro modo. Quella notte, lo avrebbe trovato. Così Kylar si materializzò di fronte alla Shinga. O meglio, lo fece solo in parte. Lasciò che un po' di luce risplendesse attraverso il ka'kari che lo rivestiva, in modo da apparire in un alone di confusa traslucidità. La superficie scura di un bicipite, lucida e iridescente, scintillò dentro e fuori l'invisibilità, poi la curva delle ampie spalle, il busto scolpito, le linee dei muscoli del torace - tutto esaltato per sembrare più grande di quanto non fosse in realtà. Ogni particolare affiorava e si dissolveva come un fantasma.
Barush Sniggle raggelò, e Kylar coronò la sua esibizione con un colpo da maestro. Il ka'kari si solidificò sopra i suoi occhi, trasformandoli in due luccicanti gemme di metallo nero sospese a mezz'aria. Poi apparve il resto del volto, coperto da una maschera di metallo lucido plasmata sulla sua pelle. Era minaccioso. Più che minaccioso. Era il volto del Giudizio, l'incarnazione di Retribution, e davanti a quel che leggeva negli occhi dello Shinga - odio, invidia, avidità, morte, tradimento - la maschera divenne ancor più micidiale. Kylar dovette affondare le unghie nei palmi delle mani per resistere all'impulso di eliminarlo. Lo Shinga lasciò cadere a terra il randello, senza nerbo. Kylar non ne fu sorpreso; sapeva cosa stava vedendo quell'uomo - perché, be', si era esercitato davanti allo specchio. «Questa famiglia», disse Kylar con una voce suadente come l'incedere felino, «è sotto la mia protezione». Sollevò la mano sinistra e la piegò. Con un sibilo, il ka'kari scivolò fuori formando un lungo pugnale fumante. Un tenue fuoco blu affiorò nei suoi occhi. Fu totalmente arbitrario - gli appannò la visione notturna, per non parlare della sensazione spiacevole, ma considerando l'effetto ottenuto ne era valsa la pena. Lo Shinga rabbrividì, pietrificato, con la bocca spalancata, e Kylar notò una chiazza allargarsi sui calzoni dell'uomo e una pozza che si formava vicino ai suoi piedi. «Via di qui», intimò loro Kylar, con un ultimo bagliore di fuoco blu fra le labbra. Non sentirò più alcun sapore per una settimana. I teppisti scapparono a gambe levate, abbandonando lì le armi, ma Kylar non si sentiva soddisfatto. Proprio quando pensava di non potersi cacciare in una situazione di pericolo, se l'era cavata in modo così brillante. Cosa gli aveva detto Durzo Blint, più di dieci anni prima? «Una minaccia è una promessa, ragazzo. In strada, puoi mentire su tutto tranne che sulle tue minacce. Una minaccia a vuoto equivale a una resa». Nauseato, Kylar guardò all'interno della casupola. I due coniugi erano ancora inginocchiati accanto al letto, tenendosi per mano.
Non avevano visto né sentito nulla. Mentre Kylar li fissava, però, la donna strinse la mano al marito. «Andrà tutto bene», disse alla fine ad alta voce. «Ne sono certa. Adesso mi sento meglio».
Mi fa piacere che uno di noi stia meglio. «Non molto tempo fa, voi presenti in questa stanza eravate mogli, madri, un vasaio, un fabbricante di birra, una sarta, un capitano di una nave, un vetraio, un importatore, un cambiavalute», disse Jarl. Era la sesta volta che Jarl recitava il suo sermone, e non era stato facile per lui. Guardandosi intorno, fra prostitute e picchiatori del Craven Dragon radunatisi prima dei loro turni, vide solo imbarazzo. Adesso erano puttane - e non per scelta. La maggior parte non voleva riconoscere di essere mai stata qualcosa di diverso. Era troppo difficile. «Non molto tempo fa», riprese Jarl, «io mi prostituivo». Espressioni di sorpresa apparvero sui vari volti, sebbene Jarl scommettesse che molti conoscevano già il suo passato. Aveva scelto di proposito di autodenigrarsi, per dimostrare che il passato non gli pesava addosso. Persino fra puttane, i ragazzi che si prostituivano costituivano una classe inferiore. Le ragazze potevano anche adorarli, ma la clientela li trattava come spazzatura. Una puttana per quanto tale - era ancora una donna, ma un uomo che si prostituiva era meno di un uomo. Che il nuovo Shinga fosse stato uno di loro, non era il genere di cose che ci si aspettava potesse ammettere, tanto meno dichiarare in pubblico. «Non molto tempo fa, il Sa'kagé si occupava principalmente di contrabbando di marijuana, tabacco e whisky». Insieme, dopo l'invasione, Jarl e Momma K avevano aperto un sacco di nuovi bordelli. La maggior parte di essi non riusciva nemmeno a chiudere in pareggio, ma non era quello il punto. Li avevano creati per proteggere quanti più uomini e donne possibili. Il Craven Dragon, tuttavia, era uno dei locali più redditizi perché soddisfaceva i gusti più esotici. C'era una ragazza di nome Daydra
che avrebbe potuto essere la gemella di Elene Cromwyll, senza le cicatrici. Aveva un aspetto virginale. La sua compagna di stanza, Kaldrosa Wyn, recitava la parte di un pirata sethi. C'erano Ladeshiane fasciate di seta e Modaini con gli occhi delineati dal kajal e danzatrici Ymmuri fornite di campanellini. «Ora», disse Jarl, poi si concesse una pausa, «voi siete puttane, io sono lo Shinga, e il Sa'kagé contrabbanda ancora le stesse dannate merci. Come se niente fosse cambiato. Ma vi dirò una cosa: io sono cambiato. Ne sono uscito. Sono diverso. Ho colto la mia seconda occasione e l'ho messa a frutto, e potete farlo anche voi». Era l'unica parte del sermone che Jarl considerava una menzogna. Si era consultato al riguardo con Momma K. «Perché la gente non discute se la terra è piatta?», gli aveva detto. Jarl si era stretto nelle spalle. «È una nozione generale». «Esattamente», aveva confermato la donna. «Le cose che suscitano passione sono cose che non possiamo sapere con certezza». «Ah, come gli dèi», aveva commentato Jarl. «Non importa se non sei certo che tutto quel che dici sia vero. Quel che conta è che tu voglia intensamente credere che lo sia perché allora riuscirai convincente. E alla fine quel che conta non è se le ragazze credono alle tue ragioni. L'importante è che credano in te». Era proprio il genere di cose che avrebbe detto Momma K. Jarl era vagamente deluso. Le era sembrata diversa dopo il colpo di stato, dopo che Kylar l'aveva avvelenata e le aveva consegnato l'antidoto. Forse la continua tensione del guardare in faccia un male implacabile stava distruggendo la sua speranza. Ma il suo pragmatismo sembrava autentico, così Jarl continuò a predicare. Jarl non aveva fatto sesso da quando era diventato Shinga. Non aveva dormito con un uomo da quando aveva lasciato la casa di Stephan la notte dell'invasione, ma non aveva dormito nemmeno con una donna. Per tutta la vita, era sopravvissuto facendo quel che andava fatto, costruendo sempre la sua rete di amici e di persone influenti, sempre guardando a un futuro in cui non avrebbe dovuto prostituirsi.
Quel futuro era arrivato talmente all'improvviso che non sapeva cosa farci. La libertà giaceva inutilizzata nelle sue mani. Non sapeva cosa provare. Pensò ai massicci tori degli Harani. Non ne aveva mai visto uno, ma si diceva che venivano catturati quando erano vitelli e legati a un palo con grosse catene. Quando i tori raggiungevano l'età adulta - alti più di quattro metri e con le spalle possenti - erano in grado di spezzare le catene, ma non lo facevano. I loro padroni li legavano a una corda sottile: i tori erano talmente convinti di non poter essere liberi, che non ci provavano nemmeno. Jarl era stato così a lungo incatenato al sesso e al piacere dei suoi clienti che ora si sentiva asessuato. Prima non aveva mai avuto possibilità di scelta. La maggior parte dei suoi clienti erano uomini, ma c'erano state anche donne, di ogni grado di bellezza. Adesso che poteva scegliere, non ci riusciva. Non avrebbe saputo dire con certezza se, non essendo costretto a prostituirsi, avrebbe preferito gli uomini o le donne. Le ragazze dei bordelli adesso lo trattavano in modo diverso. Lo guardavano con occhi diversi. Flirtavano con lui. Fra terrificante. Flirtare implicava richieste. C'erano risposte appropriate e inappropriate da imparare, e lui non conosceva le regole del sesso al di fuori di un bordello. I suoi clienti abituali lo trovavano insoddisfacente - ma le esperienze di un cliente abituale di un bordello non potevano considerarsi rappresentative, no? Stava perdendo di vista l'obiettivo. Non era questo il momento per fermarsi a fare considerazioni. La speranza doveva essere venduta a scatola chiusa. «Fra tutte le donne dei Cunicoli», continuò Jarl, «voi siete le più fortunate. Avete avuto abbastanza fortuna da diventare puttane qui dentro». Scosse la testa. «Abbastanza fortunate per diventare puttane. Sei mesi fa, molte di voi avrebbero attraversato la strada piuttosto che passare accanto a una puttana. Adesso voi siete puttane, e io sono lo Shinga, e il Sa'kagé continua a fare le stesse dannate cose. Re Ursuul pensa che siate tutti spacciati. Aspetta solo che l'inverno uccida quasi tutti gli abitanti dei Cunicoli. Immagina che, appena cominceranno i tumulti per le scorte di cibo, tutti saranno talmente deboli che i suoi soldati non avranno alcun problema con noi.
Immagina che il Sa'kagé sia troppo passivo e troppo avido per fermarlo. Ha in mente di dividerci offrendoci le briciole che cadono dalla sua tavola, affinché ci distruggiamo l'un l'altro. La cosa divertente», disse Jarl, «è che ha ragione. Abbiamo saputo che a primavera farà arrivare un altro esercito e qualche migliaio di coloni, tutti uomini. Ha in progetto di uccidere tutti gli abitanti dei Cunicoli, tranne voi. Ancora una volta, sarete quelle fortunate. Verrete date in moglie a qualsiasi Khalidoriano disposto a comprarvi. Forse i Khalidoriani cambieranno e la smetteranno con le percosse e le umiliazioni in camera da letto dopo che sarete diventate loro mogli. Ursuul si aspetta che siate talmente codarde da aggrapparvi a quella labile speranza. Si aspetta che quella stessa speranza vi paralizzi finché non sarà troppo tardi, finché i vostri uomini saranno morti, i vostri amici dispersi e la forza del Sa'kagé annientata. Nel giro di un anno, comincerete a partorire figli per i vostri nuovi mariti khalidoriani, e avrete la gioia di vederli trasformarsi in mostri che minacciano le loro mogli, proprio come i loro padri hanno fatto con voi. Sarà normale. Partorirete figlie che considereranno normale essere prese a calci e sputi ed essere costrette a - be', sapete bene tutte le cose che saranno costrette a fare. Le vostre figlie non opporranno resistenza. Osserveranno la vostra mancanza di coraggio e penseranno che è questo il destino di ogni donna. Sarà normale. Questo è quel che il re si aspetta che avverrà, e finora ha previsto bene». Ormai Jarl le aveva in pugno. Leggeva l'orrore nei loro occhi. Molte ragazze che si prostituivano vivevano alla giornata. Non erano stupide. Sapevano che non avrebbero potuto svolgere quel mestiere all'infinito, ma poiché non vedevano altre valide alternative per il futuro, avevano deciso di non pensarci. Era troppo deprimente. Queste donne avevano impostato la propria vita in modalità "sopravvivenza". Sollevare dinanzi ai loro occhi lo spettro di una stessa sorte tramandata alle loro figlie, le costrinse a proiettarsi al di là di loro stesse, al di là dell'oggi. E Jarl non aveva raccontato balle. Queste donne sarebbero state le migliori sul mercato. Se fosse riuscito a convincerle che avevano molto da perdere, metà della battaglia era vinta.
«Negli ultimi mesi le cose sono cambiate per ciascuno di noi, per ognuna di voi e per me. Adesso dico che è ora di cambiare le cose per tutti noi, insieme. Dico che è ora che il Sa'kagé cambi. Siamo in guerra e stiamo perdendo. Sapete perché? Perché non abbiamo combattuto. I Khalidoriani ci vogliono far morire in silenzio? Vadano a farsi fottere. Combatteremo come non ci hanno mai visto fare. I Khalidoriani vogliono ridurci alla fame? Vadano a farsi fottere. Se siamo in grado di far entrare di nascosto la marijuana, possiamo fare altrettanto col grano. Vogliono uccidere i nostri uomini? Li nasconderemo. Vogliono compiere incursioni? Scopriremo i loro obiettivi prima che si muovano. Vogliono giocare d'azzardo? E noi bareremo. Vogliono bere? E noi pisceremo nella loro birra». «Cosa possiamo fare?», domandò una delle ragazze. Era una domanda ragionevole. Lo Shinga sorrise. «In questo preciso momento? Voglio che sogniate. Voglio che pensiate - non di tornare a quel che avevamo prima dell'arrivo di Khalidor - voglio che sogniate qualcosa di meglio. Voglio che sogniate un giorno in cui essere nati nei Cunicoli non significherà necessariamente doverci morire. Voglio che sogniate di concedervi una seconda opportunità, e sogniate quel che potrebbe succedere a questa città e a questo Paese se tutti avessero una seconda opportunità. Sogniate di crescere i vostri figli in una città dove non debbano vivere sempre nel terrore. Una città senza giudici corrotti o estorsioni del Sa'kagé. Una città con dodici ponti che attraversano il fiume Plith, e nemmeno una guardia a sorvegliarli. Una città dove le cose sono diverse - grazie a noi. Capisco che adesso siete spaventate. Il vostro turno inizierà fra pochi minuti, e voi dovete andare ad affrontare ancora una volta quei bastardi. Lo so. Va bene essere spaventate, ma vi dico: siate coraggiose nel profondo dell'animo. Presto verrà il momento in cui sarete necessarie. Se i nobili vogliono vincere questa guerra e riprendersi il paese, avranno bisogno di noi, e avranno il nostro aiuto a caro prezzo. Il nostro prezzo è una città che sia diversa, e saremo voi e io a decidere in che modo. Voi e io abbiamo questo potere. Così, per ora, possiamo proseguire nella solita routine, oppure possiamo sognare e prepararci. Più di ogni altro nei Cunicoli,
voi signore avete molto da perdere». Si avvicinò alla ragazza pirata, Kaldrosa Wyn, e le sfiorò la guancia sotto un occhio pesto. «Dimmi, è per questo che hai rinunciato a tuo marito? Una corona per un occhio nero, una di più quando ti riducono talmente male che il giorno dopo non puoi lavorare? È questo che ti meriti?». Gli occhi di Kaldrosa si riempirono di lacrime. «Io dico di no, maledizione. Sei venuta qui perché era il meglio che potessi fare. Prendi una corona per un occhio nero perché è il meglio che Momma K è riuscita a negoziare. Come vostro Shinga, sono qui per dirvi che il meglio non è abbastanza. Abbiamo pensato troppo in piccolo. Abbiamo cercato di sopravvivere ma, per quanto mi riguarda, sono stufo di sopravvivere. La prossima volta che sento un grido di dolore, voglio che esca dalla gola di un Khalidoriano». «Sì, dannazione», mormorò una delle ragazze. Adesso vide un nuovo ardore infiammare i loro sguardi. Per gli dèi, sembravano furiose! Jarl sollevò una mano. «Per ora, limitatevi a osservare, ad aspettare. Tenetevi pronte. Siate coraggiose. Perché quando sarà il nostro turno di tirare i dadi, imbroglieremo ed estrarremo tre sei». «Tesoro», disse Elene, scuotendo dolcemente Kylar. «Tesoro, alzati». «Col cavolo», rispose. «Come?» «COL CAZZO». Elene scoppiò a ridere. «Hai l'aria di chi sia stato calpestato da qualcuno», gli disse abbracciandolo. Lo annusò e fece una smorfia. «E puzzi...». «Col cazzo», ripeté, offeso. «Tesoro. Oggi dobbiamo andare a fare spese, ricordi?». Agguantò un cuscino e se lo mise sopra la faccia. Elene provò a strapparglielo, ma Kylar non mollò la presa. Allora decise di cantargli la canzone del buongiorno. Il testo era di due parole, "buon" e "
giorno", ripetute per trentasette volte. Era una delle preferite di Kylar. «BUON gior-no, buon GIOR-no, buon giorno, BUON giorno...». «COL cazzo, col CAZ-zo, col cazzo», armonizzò Kylar sotto il cuscino. La ragazza ripartì alla carica, strattonando il cuscino, e Kylar la afferrò, facendola cadere sul letto accanto a sé. Era talmente forte e rapido che era inutile resistergli. Spostò il cuscino, le rotolò sopra e la baciò. «Mmm», fece Elene. Oh, le labbra di Kylar sapevano di buono. «Cosa?», le chiese trenta secondi dopo. «La bocca del mattino», disse con una smorfia. Era una bugia, naturalmente. Con la sensazione che le davano le sue labbra, avrebbe ignorato anche il suo alito cattivo. Ma non lo aveva. Il suo alito non aveva mai odore. Tanto meno cattivo; poteva masticare foglie di menta o formaggio ammuffito e il suo alito non lo avrebbe tradito. Lo stesso valeva per ogni parte del suo corpo. Se indossava un profumo, svaniva. Probabilmente aveva qualcosa a che fare con il ka'kari. Così adesso le rivolse il suo sorriso da predatore. «Te la do io la bocca del mattino», la sfidò. Si fece largo fra le mani di Elene, che cercava di ripararsi il viso, e le baciò il collo, e poi alla base della gola, e poi le stava tirando giù la scollatura della camicia da notte e le mani di Elene non si agitavano più e le labbra di Kylar... «Ah! Le spese!». Rotolò via dalle sue braccia. Non fece nulla per fermarla. Kylar si ributtò sul letto ed Elene fece finta di sistemarsi la camicia mentre ammirava i muscoli del suo torace nudo. Zia Mea aveva portato fuori Uly. La casa sarebbe rimasta vuota per tutto il giorno. Kylar era così irresistibile quando aveva i capelli arruffati dal sonno, ed era bellissimo, e le sue labbra erano la cosa più incredibile del mondo. Per non parlare delle sue mani. Voleva sentire la sua pelle contro la propria. Voleva posare le mani sul suo torace. E viceversa. A volte, al mattino, si scambiavano delle coccole quando lui era ancora nel dormiveglia, e per Elene era diventato il momento più
bello della giornata. Una o due volte, durante la notte, la sua camicia era salita su e lei si era ritrovata rannicchiata contro di lui, pelle contro pelle. Be', forse la camicia non saliva del tutto per conto proprio, e lei non avrebbe mai osato farlo se non fosse stata certa che Kylar era stato fuori per ore durante la notte e non si sarebbe ancora svegliato. Provò una sensazione di calore al solo pensiero. Perché no?, si domandò una parte di lei. C'erano i motivi religiosi. Un bue e un lupo potevano essere legati sotto lo stesso giogo? Non sapeva nemmeno se Kylar credeva in Dio. Appariva sempre a disagio quando Elene ne parlava. La sua madre adottiva le aveva detto di prendere le sue decisioni prima che il cuore restasse coinvolto, ma col tempo le cose erano cambiate. Uly aveva bisogno di lei. Kylar aveva bisogno di lei, e lei non si era mai sentita così importante prima di allora. Kylar la faceva sentire bene, e bella. La faceva sentire una signora. Una principessa. La amava. Praticamente, era suo marito. Dicevano di essere sposati, vivevano insieme, dormivano nello stesso letto, erano come un padre e una madre per Uly. Probabilmente l'unica ragione per cui non aveva ancora fatto l'amore con Kylar era che, quando arrivava il momento della sera in cui la toccava, lei era talmente stanca che riusciva a malapena a muoversi. Se avesse tentato l'approccio al mattino, gli avrebbe consegnato la sua verginità dopo cinque secondi. Riusciva quasi a sentire il suo respiro nell'orecchio. Immaginava di fare qualcuna delle cose che Zia Mea aveva allegramente illustrato - cose che l'avevano fatta avvampare in viso, e nondimeno le erano parse splendide. Cominciava a sentirsi cosi impudente che sapeva già quale avrebbe provato per prima. Le scritture non dicevano «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no»? Aveva detto di essere la moglie di Kylar. Kylar aveva detto di essere suo marito. L'avrebbe portato davanti a quel negozio di anelli di cui le aveva parlato Zia Mea e avrebbero formalizzato la cosa con il Waeddryner molto più tardi. Dopo. Kylar si tirò a sedere sul letto; dietro di lui, le mani di Elene si spostarono sui lacci della camicia da notte. La slacciò.
«Per gli dèi», disse Kylar, dandole un bacetto sulla guancia ma senza girarsi quanto bastava per vedere il resto del suo corpo. «Mi aspetta una pisciata da cavallo». Si alzò in piedi e cominciò a vestirsi. Per un momento, Elene rimase pietrificata. La camicia pendeva dalle sue spalle, aperta, il corpo bene in vista. «Che spese dobbiamo fare?», domandò Kylar infilandosi la tunica. Si era appena allacciata la camicia quando la testa di Kylar spuntò dalla scollatura della tunica. «Allora?» «Cosa?». Si sentiva come se qualcuno le avesse appena gettato una secchiata d'acqua fredda sulla faccia. «Ah, il compleanno di Uly, vero? Le prendiamo una bambola o roba del genere?» «Sì, va bene», rispose. Ma cosa si era messa in testa?
Capitolo 17 Tenser eseguiva il suo compito
con sufficiente abilità, pensò il Vürdmeister Neph Dada. A un certo punto, era persino riuscito a mostrarsi in collera. Per il momento, la sua performance sarebbe stata ricordata come una sfida a sangue freddo. Una volta che fosse stato prosciolto, l'avrebbero reinterpretata come una sfida coraggiosa. L'uomo che si supponeva Tenser avesse ucciso, il barone cenariano Kirof, non era mai stato ritrovato. Ma sulla parola del capitano delle guardie cenariano che aveva dichiarato di averlo visto compiere il crimine, Tenser fu subito riconosciuto colpevole. L'annuncio della sua punizione direttamente pronunciato del Re Divino aveva lasciato tutti a bocca aperta. La nobiltà cenariana si aspettava un'ammenda, magari l'imprigionamento con il riconoscimento degli anni di servizio, forse la deportazione a Khalidor. Il fatto che fosse gettato nel Buco era considerato peggio di una sentenza di morte. Naturalmente, era proprio quello il punto. Tenser non poteva infiltrarsi in modo convincente nel Sa'kagé se fosse stato giustiziato o deportato. Scontando la pena nella prigione più malfamata del paese, avrebbe ottenuto una credibilità senza pari presso il Sa'kagé. Appena il barone Kirof fosse saltato fuori - vivo Tenser sarebbe stato prosciolto e avrebbe riassunto tutte le facoltà di un duca khalidoriano ma, ancor più importante, avrebbe finto di serbare un persistente rancore nei confronti del Re Divino a causa della punizione immeritata. Il duca Tenser Vargun avrebbe offerto ai membri del Sa'kagé tutto quel che volevano. E poi li avrebbe annientati dall'interno. Il Re Divino, come sempre, aveva più di un piano in mente. Punendo così severamente un duca khalidoriano, dimostrava di essere un sovrano imparziale. I Cenariani che ancora tentennavano avrebbero avuto un'altra scusa da accampare. Sarebbero tornati alle loro vite e il cappio si sarebbe stretto intorno ai ribelli, mentre i loro amici li abbandonavano.
Allo stesso tempo, la notizia dell'incarcerazione di Tenser avrebbe messo in ombra tutto il resto; perciò, quello stesso giorno, era previsto il rilascio di dozzine di criminali dalle Fauci e l'incarcerazione di centinaia di sospetti ribelli. Sconvolta dalla sorte di Tenser, la gente non ci avrebbe nemmeno fatto caso. Dopo la pronuncia della sentenza, Neph scortò Tenser e le guardie al Buco. Il duca lo guardava con diffidenza. Molti Khalidoriani non avevano una buona opinione dei loro vicini Lodricari, da lungo tempo battuti, ma nel caso di Tenser l'antipatia sembrava sia personale che generale. «Cosa volete?» «Solo mettervi a parte di una notizia che potrebbe tornarvi utile», rispose Neph. Non riuscì a nascondere la propria delizia. «Il barone Kirof è scomparso. A quanto pare, è stato rapito». Tenser sbiancò in volto. Se il barone era sparito, non avrebbe mai lasciato il Buco. «Lo troveremo», disse Neph. «Naturalmente, se dovessimo trovarlo morto...», concluse ridacchiando. Se Kirof era morto, Vargun era inutile. Se era inutile, era un fallito. Se era un fallito, era morto. Con la magia, Neph aprì il cancello di ferro che separava i passaggi sotterranei del castello dalle Fauci. «Mio signore, la vostra cella vi attende». Jarl si massaggiò le tempie. Per tutto il giorno non avevano fatto altro che interrogare i prigionieri liberati dalle Fauci. I prigionieri avevano saputo del colpo solo a fatto avvenuto, quando erano comparsi gli stregoni in cerca di qualcosa. Gli stregoni se ne erano andati a mani vuote, quindi non era parso niente di importante. Quel che sembrava degno di nota era che un ex direttore di bordello di nome Whitney si era svegliato mentre due guardie avevano accompagnato un prigioniero al Buco. Si era svegliato ed era rimasto sveglio. Giurava che nessuna delle due guardie, né il loro prigioniero, un uomo biondo, nudo con una corporatura imponente, fossero usciti.
Per di più, Whitney aveva riconosciuto una delle guardie, uno spregevole individuo che era stato nel libro paga di Jarl, e che Jarl aveva inviato al castello con un compito ben preciso da svolgere. Gli stregoni arrivati dopo di loro si erano spinti fino alle Fauci, ma non c'erano stati rumori di lotta, né indizi che avessero incontrato qualcuno. Era impossibile, e Whitney non riusciva a spiegarselo. Jarl lo congedò. «È possibile?», chiese a Momma K. «Tu cosa pensi», replicò. «Di cosa state parlando?», volle sapere Brant Agon. «Dimostra che era vivo quando pensavamo non lo fosse più», osservò Jarl. «E noi sappiamo che la testa che hanno esposto non era la sua», completò Momma K. «E indicativo». «Per gli dèi», commentò Jarl. «Cosa?», insistette Brant. «Cosa?» «Logan Gyre», rispose lo Shinga. «Cosa? È stato ucciso nella torre nord», disse Brant. «Cosa fareste se aveste appena ucciso una guardia nelle profondità delle Fauci e foste in procinto di cambiarvi gli indumenti e un gruppo di sei stregoni avanzasse nella vostra direzione? C'è un'unica via d'uscita, ed è bloccata dagli stregoni», disse Jarl. Brant rimase attonito. «Non vorrete dire che Logan è saltato dentro il Buco», disse Brant. Anche lui era sceso laggiù, una volta. «Sto dicendo che Logan Gyre potrebbe essere ancora vivo», rispose Jarl. «Aspettate», disse Momma K. Si alzò e cominciò a sfogliare una pila di carte. «Se ricordo bene... ah, ecco. Ricordatemi che dobbiamo dare un bonus a questa ragazza. Ha un cliente regolare che ama vantarsi delle sue imprese. "Gorkhy getta il pane dentro il Buco e li osserva mentre tentano di afferrarlo al volo senza precipitare nel baratro. Dice che almeno tre dei prigionieri sono stati..."». Momma K si schiarì la gola, ma quando riprese la lettura la voce era calma. «"Tre dei prigionieri sono stati mangiati dagli altri nel periodo in cui
Gorkhy li aveva ridotti alla fame". La ragazza descrive "un uomo gigantesco alto più di due metri. Diverse volte è riuscito ad afferrare il pane che Gorkhy lanciava nel Buco. Gorkhy prova un'antipatia particolare per quel prigioniero, quello che chiamano Re"». Momma K alzò gli occhi dal foglio. «Questo rapporto è di tre giorni fa». Senza scomporsi, Brant osservò: «Nessun uomo che risponda a questa descrizione è stato gettato nel Buco negli ultimi dieci anni». Tutti e tre si accomodarono meglio sulle sedie. «Se Gorkhy riferisce ai suoi superiori di un gigante che chiamano Re...», cominciò Momma K. «Logan morirà quello stesso giorno», concluse Jarl. «Dobbiamo salvarlo», disse Brant. Jarl e Momma K si scambiarono un'occhiata. «Dobbiamo valutare come inserirlo nella nostra strategia», ribatté Momma K. «Non starai pensando di lasciarlo lì», replicò Brant. Momma K si esaminò le unghie laccate di rosso. «Perché non sarebbe un'alternativa», riprese Brant. «È l'unico uomo in grado di mobilitare il paese. Jarl, se volete realmente fare quel che avete detto, ecco la vostra occasione. Se recuperate Logan, vi concederà terre, titoli e la grazia. Quindi non venite a dirmi che state anche solo pensando di lasciare il nostro re in quell'inferno». «Hai finito?», gli chiese Momma K. Il generale non disse nulla, ma irrigidì la mandibola. «Stiamo valutando la possibilità. La stiamo valutando perché lo facciamo con ogni cosa. Ed è per questo che vinceremo. Sto persino pensando a come potremmo salvarlo, se volessimo. Hai già cominciato a esaminare la situazione, oppure hai ancora intenzione di sbraitare sulla tua nobiltà d'animo?» «Maledizione, ci sono ricascato», disse, tradendo un sorriso. Momma K scosse la testa e sorrise suo malgrado. «Come se la cavano i vostri uomini, Brant?», domandò Jarl. «Ne farò dei bravi soldati, diciamo fra dieci o venti anni». «Quanti ne avete?», chiese Jarl.
«No, no», disse Momma K. «Un centinaio», rispose Agon. «Forse una trentina potranno essere utili in battaglia. Dieci potranno diventare formidabili. Alcuni ottimi arcieri. Uno potrebbe risultare un sicario di terz'ordine. Tutti indisciplinati. Non si fidano l'uno dell'altro. Combattono singolarmente». «Non abbiamo ancora esaminato a fondo la questione», disse Momma K. «Consideralo fatto», disse Jarl. «Lo stiamo facendo adesso». Momma K aprì la bocca per ribattere, ma Jarl sostenne il suo sguardo finché la donna abbassò gli occhi. «Come vuoi, Shinga», concluse Momma K. «La nostra fonte riuscirebbe a convincere Gorkhy a darci una mano?». Momma K era concentrata sulle carte, ma non le stava nemmeno leggendo. «Non in questo caso». Mentre Brant e Momma K discutevano sui vari modi di entrare nelle Fauci, Jarl continuò a riflettere. Si era presentato pubblicamente due settimane prima, e stava tenendo i suoi sermoni davanti a una platea entusiasta. La gente dei Cunicoli - i Conigli, come venivano beffardamente chiamati per il loro numero, la loro paura, e il dedalo di vicoli che abitavano - voleva speranza. Il suo messaggio era come acqua per bocche riarse dalla sete. La ribellione era una prospettiva grandiosa per chi non aveva niente da perdere. Ma parlando in pubblico, di certo si era rivolto anche alle spie del Re Divino. Aveva già evitato un tentativo di assassinio. Di certo, ne sarebbero seguiti altri. Se Jarl non si fosse circondato di sicari, prima o poi lo avrebbero raggiunto. «Ho intenzione di andare a Caernarvon», annunciò Jarl. «Volete scappare?», domandò Brant. «Se viaggio leggero, sarò di ritorno fra un mese». «Concesso, ma a quale scopo?» «Un altro mese di vita?», replicò Jarl con un sorriso.
«Pensi che tornerà?», volle sapere Momma K. Brant parve confuso. «Per Logan? In un batter d'occhio», rispose Jarl. «Se c'è qualcuno che può tirar fuori Logan di lì, questo è lui», dichiarò Momma K. «Chi?», chiese Brant. «E appena Hu Gibbet e gli altri sicari sapranno che ti sta proteggendo, non sarei sorpresa nel vederli tirarsi indietro», aggiunse Momma K. «Chi? Chi?» «Dopo la morte di Durzo Blint, è probabilmente il miglior sicario della città», confermò Jarl. «Solo che non si trova più in città», osservò Momma K. «Il migliore nel mestiere». «Solo che non è più nel mestiere». «Si vedrà», disse Jarl. «Porterai qualcuno con te?», domandò Momma K. «State cercando di farmi innervosire, vero?», sbraitò Brant. «No», disse Jarl ignorandolo e rispondendo a Momma K. «Darà meno nell'occhio la partenza di uno solo». Si rivolse a Brant. «Brant, ho un compito per voi durante la mia assenza». «State parlando di Kylar Stern, non è vero?». Jarl sorrise. «Sì. Voi siete un uomo onesto, generale?». Il generale sospirò. «Ovunque, tranne sul campo di battaglia». Jarl gli posò una mano sulla spalla. «Allora voglio che calcoliate come l'esercito di Logan Gyre annienterà quello del Re Divino». «Logan non ha un esercito», osservò Brant. «Questo è un problema di Momma K», disse Jarl. «Prego?», protestò la donna. «Terah Graesin ne ha uno. Voglio che pensiate a come farlo diventare l'esercito di Logan». «Cosa?», insistette Momma K.
«E adesso, se volete scusarmi», appuntamento a Caernarvon».
concluse
Jarl,
«ho
un
Capitolo 18 «Sono morto e non me ne sono accorto?»,
si domandò Kylar. Stava di nuovo avanzando fra le brume della morte, con quella familiare sensazione di muoversi-senza-muoversi sulla pelle. Una figura avvolta in un mantello era ferma al limitare della nebbia, eterea come la foschia stessa, e Kylar era certo che fosse il Lupo; ma non era morto. O sì? Qualcuno l'aveva ucciso nel sonno? Si era appena assopito... «Cos'è? Un sogno?», domandò ancora. L'uomo col mantello si girò e Kylar sentì allentarsi la tensione. Non era il Lupo. Era Dorian Ursuul. «Un sogno?», ripeté Dorian. Guardò Kylar di sbieco, attraverso la nebbia. «Suppongo di sì, di un genere alquanto singolare, se è per questo». Sorrise. Era un uomo attraente, anche se profondo. Aveva i capelli neri arruffati, gli occhi azzurri intelligenti, i lineamenti armonici. «Come mai, amico mio che ti aggiri fra le ombre, non temiamo i sogni? Perdiamo conoscenza, perdiamo il controllo, le cose accadono senza una logica apparente e secondo leggi non comprensibili. Gli amici compaiono e si trasformano in estranei. Gli ambienti cambiano all'improvviso, e noi raramente protestiamo. Non temiamo i sogni, ma temiamo la follia, e la morte ci terrorizza». «Ma che diamine sta succedendo?», disse Kylar. Dorian sorrise con furbizia e squadrò Kylar in lungo e in largo. «Incredibile. Sembri sempre lo stesso, ma sei completamente diverso, vero?». Per gli dèi, erano passati solo due mesi da quando aveva incontrato Dorian? «Sei diventato formidabile, Kylar. Hai una nuova dignità, adesso. Sei una forza da valutare con attenzione, ma la tua mente non eguaglia la tua forza, vero? Rifarsi un'identità richiede il suo tempo. È
comprensibile. Non sono molti a dover uccidere una figura paterna e diventare immortali nello stesso giorno». «Arriva al punto». Dorian sapeva sempre troppo. Era snervante. «Questo è un sogno, come hai detto. E sì, sono stato io a evocarti. È una simpatica, piccola magia che ho scoperto da poco. Spero di ricordarlo al risveglio. Se mi sveglierò. Non sono certo di essere addormentato. Sono immerso in una delle mie fantasticherie. Da molto tempo, ormai. Il mio corpo è a Screaming Winds. Khali sta arrivando. La guarnigione cadrà. Io sopravvivrò, ma mi aspettano giorni peggiori. Ho guardato nel mio futuro, Kylar, ed è molto pericoloso. Ho scoperto alcune cose che mi hanno avvilito e non ho voluto guardare oltre. Così, mentre stavo rimettendo in piedi il mio coraggio, ti ho seguito. Ho intuito che avevi bisogno di qualcuno con cui aprirti. Il conte Drake o Durzo sarebbero stati meglio di me, ma chiaramente non possono essere qui, e allora, eccomi. Persino i sicari hanno bisogno di amici». «Non sono più un sicario. Ho abbandonato tutto». «Nelle mie visioni», continuò Dorian come se Kylar non avesse parlato, «vedo me stesso arrivare in un luogo in cui la mia felicità è a una bugia di distanza. Guardo negli occhi la donna che amo e che mi ama, e so che se mento o dico la verità lei ne sarà comunque distrutta. In questo, siamo fratelli, Kylar. Dio riserva problemi più semplici a uomini inferiori. Sono qui perché hai bisogno di me». La stizza di Kylar si dissolse. Guardò nella nebbia. Quel luogo sembrava una metafora calzante della sua vita - né giorno né notte, con niente di definito, niente di solido, nemmeno un semplice sentiero. «Sto cercando di cambiare», disse Kylar, «ma non ci riesco. Pensavo di poter semplicemente rompere con il mio passato, trasferirmi e finirla una volta per tutte. Entro in una stanza e la ispeziono. Cerco le possibili vie d'uscita, calcolo l'altezza del soffitto, controllo se ci sono potenziali pericoli, se il pavimento ha una buona aderenza. Se un uomo mi guarda da un vicolo, immagino come potrei ucciderlo - e mi fa star bene. Mi sento a posto». «Finché?», lo incalzò Dorian.
Kylar esitò. «Finché non mi ricordo. Devo costringermi a pensare che i miei istinti sono sbagliati. E allora detesto quel che sono diventato». «E cosa sei diventato?», chiese Dorian. «Un assassino». «Tu sei un bugiardo e un sicario, ma non un assassino, Kylar». «Be', ti ringrazio». «Cos'è l'Angelo della Notte, Kylar?» «Non lo so. Durzo non me l'ha mai detto». «Stronzate. Perché non ti fidi di te stesso? Perché non chiedi a Elene di darti fiducia? Perché non ti fidi di dirle la verità?» «Non capirebbe mai». «Come fai a saperlo?». E se l'avesse capito? Se, dopo averlo conosciuto nel profondo del suo animo, l'avesse respinto? Cosa avrebbe provato, Kylar? «Voi due siete talmente giovani che non sapete distinguere il culo dal gomito», disse Dorian. «Ma tu stai cominciando a capire te stesso. Per racchiudere la fede di Elene è sufficiente una scatolina, mentre tu sei lontano anni luce da quel che lei sa di Dio. Lei ha l'arroganza della gioventù, a rassicurarla che quel che conosce di Dio è tutto quel che c'è da sapere su di Lui. Ti ama, quindi vuole che tu stia in quella scatolina con lei. E quella scatolina è troppo piccola per te. Non riesci a comprendere un Dio che è tutta misericordia e niente giustizia. Quell'adorabile, incerto Dio non durerebbe due minuti nei Cunicoli, vero? Bene, detesto dirtelo, ma Elene ha diciotto anni. Tutto quel che conosce di Dio non è poi tanto. Kylar, non penso che Dio ti trovi detestabile. L'orrore ha un potere totale in una mano e un forte senso morale nell'altra, e un'assoluta mancanza di fondamenta su cui reggersi. Negli ultimi due mesi, hai cercato di accettare le conclusioni morali di Elene, mentre ne rifiutavi i presupposti. E dici che Elene non è ragionevole? Dove ti collochi tu, Ombra al Crepuscolo?
Hai delle scelte da fare, ma ecco qui un'altra dura verità: tu non puoi essere tutto quel che vuoi. La lista di cose che non sarai mai è lunga - anche se vivessi in eterno. Vuoi sapere cosa c'è al primo posto? Erborista dai modi gentili. Tu sei mansueto come un lupo, Kylar - e questo è quel che Elene ama e teme di te. Non puoi continuare a dirle che va tutto bene, che questa maschera che indossi è il tuo vero io. Perché non ti fidi abbastanza di lei da chiederle di amare l'uomo che realmente sei?» «Perché io lo detesto!», ruggì Kylar. «Perché ama uccidere! Perché lei non capisce il male e lui lo fa. Perché non si sente mai così vivo come quando è bagnato di sangue. Perché è un virtuoso della spada, e io adoro quel che riesce a fare. Perché è l'Angelo della Notte e l'angelo vive nella notte e la notte vive dentro di me! Perché è l'Ombra Che Cammina. Perché ritiene che alcune persone non possano essere salvate, ma solo fermate. Perché quando uccide un uomo malvagio, io non provo solo il piacere della supremazia, io avverto il piacere del mondo intero per la punizione inflitta - un uomo malvagio è un insulto e io cancello l'infamia. Io riporto l'equilibrio. Lui ama tutto questo - ed Elene dovrebbe perdere l'innocenza che amo in lei, se dovesse conoscere quell'uomo». «Quell'uomo», disse Dorian, puntando il dito contro il torace di Kylar, «e questo...», spostando il dito sulla fronte di Kylar, «sono sulla via della pazzia. Te lo dice uno che se ne intende». «Posso cambiare», disse Kylar, ma il tono era senza speranza. «Un lupo può diventare un cane da caccia, figliolo, ma non sarà mai un cagnolino da salotto». «Siamo in guerra», disse la Portavoce Istariel Wyant. Aveva una voce nasale, con un accento alto-alitaeriano. Le piaceva rilasciare dichiarazioni. Ariel aveva incastrato la propria mole in una sedia troppo piccola nell'ufficio della Portavoce, situato in alto nel Serafino Bianco, la Cappella. Era ancora ansante per essersi arrampicata fin lassù. Un
pasto al giorno finché non riuscirò a salire le scale senza affanno. Uno solo.
A volte Ariel detestava la carne, detestava essere schiava di qualcosa di così debole e bisognoso. Richiedeva così tante attenzioni, una tale servile devozione, e si aspettava di essere viziata. Era una distrazione continua da cose più importanti, come quelle che la Portavoce non riscontrava in lei. Istariel Wyant era una donna alta e imponente, con un naso patrizio e le sopracciglia ridotte a due linee sottili. Le giunture nodose le davano un'aria dinoccolata piuttosto che slanciata, ma, nonostante il volto pallido e tirato di una donna di mezza età, aveva un'ineguagliabile, lunga chioma di splendidi capelli biondi. Istariel adorava i suoi capelli. Non poche fra le Sorelle mormoravano che doveva aver ritrovato qualche vecchia parrucca, un'aggiunta posticcia che li faceva apparire così lucidi e folti. Non era vero, naturalmente, la madre di Istariel aveva la stessa chioma. Era una delle ragioni per cui suo padre l'aveva sposata dopo la morte della madre di Ariel. Per di più, Istariel non aveva poi molto Talento. «Questa guerra non va semplicemente al di là di quel che comporta essere una maja, ma di quel che comporta essere una donna». Notando lo sguardo palesemente ironico sul viso di Ariel, Istariel cambiò linea d'azione. «Come state, sorella?». Naturalmente, ogni maja esperta veniva interpellata con l'appellativo "Sorella", ma Istariel lo pronunciò con particolare calore. Indirizzato ad Ariel, "sorella" voleva riportarla indietro ai presunti giorni felici della loro giovinezza trascorsa insieme, circa cinquanta anni prima. Istariel voleva decisamente qualcosa. «Bene», rispose Ariel. Istariel fece un altro coraggioso tentativo. «È come procedono i vostri studi?» «Probabilmente gli ultimi due anni della mia vita sono stati un'assoluta perdita di tempo», disse Ariel. «Sempre la solita, vecchia Ariel». Istariel cercò di dirlo con leggerezza, cose se lo trovasse divertente, ma non riuscì a risultare minimamente convincente. Forse pensava che Ariel, non usando
alcuna forma di snobismo sociale finemente mascherata, non ne fosse consapevole. Quando erano più giovani, e Ariel si preoccupava molto di più del giudizio della sua piccola sorella aristocratica, per lei era sempre stata un'amara ironia della sorte. Ariel esulava sempre dalla sincera capacità di apprezzamento di Istariel. Il singolare intuito con cui Istariel comprendeva uomini e donne che la circondavano non si estendeva ad Ariel, con la quale trascorreva molto del suo tempo. Quando Istariel la guardava, vedeva solo il viso largo e le tozze membra da contadina, la sua mancanza di raffinatezza sociale e di interesse per le cose che realmente contavano - privilegio, potere e posizione -, e non vedeva altro che una ragazza di campagna. Istariel pensava di avere ormai inquadrato Ariel, così aveva smesso totalmente di prenderla in considerazione. Adesso, permise addirittura ai propri occhi di sfiorarla. «Sì, sono ingrassata», ammise Ariel. Istariel arrossì. Come deve detestare il modo in cui io riesco a farla sentire una ragazzina. «Bene», disse Istariel, «io, io suppongo che abbiate messo su qualche...». «E voi come state, Portavoce?», domandò Ariel. Perché riusciva a imparare alla perfezione le ottantaquattro variazioni della trama di Cimbelino con struttura e intonazione e ritmo perfetti, ma non a fare conversazione? Di certo chiacchierare poteva ridursi a poche centinaia di domande ricorrenti, che spingevano la conversazione lungo rami diversi a seconda delle risposte e della conoscenza che uno aveva dell'interlocutore, nonché della propria posizione nei suoi confronti e degli eventi attuali. Anche il tempismo delle domande e la lunghezza delle risposte andavano studiati con attenzione, ma molte trame richiedevano anche un tempismo rigoroso, e il ritmo di Ariel era perfetto. Si poteva anche tener conto dell'ambientazione materiale, nel senso che il modo in cui si parlava nell'ufficio di una Portavoce non sarebbe stato quello usato in una taverna. Le materie di studio prevedevano anche come gestire le distrazioni, un livello adeguato di contatto visivo o fisico, l'attenzione per le differenze culturali e, naturalmente, la differenza nel rivolgersi a uomini o a donne, a
seconda anche del proprio sesso. Ariel immaginò che avrebbe dovuto includere nello studio anche i bambini, e forse era importante prevedere anche come rivolgersi alle persone verso cui nutrivi sentimenti di amicizia o di interesse, romantico o meno. O lo era di sicuro? Doveva chiacchierare in modo diverso con una donna di cui avrebbe voluto accattivarsi le simpatie rispetto a una donna che non le interessava affatto? Esistevano adeguati modi sociali per accorciare le conversazioni noiose? Ariel sorrise. Se il suo libro avesse insegnato come mettere fine a una conversazione noiosa, sarebbe stato un immenso punto a suo favore. Tuttavia, il progetto nel suo complesso aveva ben poco a che fare con la magia. Forse niente. A dire il vero, pensava che lo studio, per quanto apprezzabile, non mettesse a pieno frutto i suoi Talenti. «Ma voi proprio non ascoltate, non è così?», domandò Istariel. Ariel si rese conto che la sorella stava parlando da qualche minuto. Di certo per dire cose insignificanti, ma Ariel si era dimenticata di fingere di prestare attenzione. «Mi spiace», disse. Istariel liquidò la questione con un gesto, e Ariel capì che la sorella era quasi sollevata di trovarsi di fronte all'Ariel di sempre: il genio distratto e inconsapevole, grande cervello, Talento ancor più grande e niente altro. Permetteva a Istariel di sentirsi superiore. «Vi ho fatto pensare, vero?», le chiese Istariel. Ariel annuì. «A cosa?». Scosse la testa, ma Istariel la guardò con aria inquisitiva. Era uno sguardo in stile io-sono-la-Portavoce. Ariel fece una smorfia. «Stavo pensando a quanto sono negata per le brevi conversazioni, e mi domandavo perché», rispose Ariel. La sorella sorrise - sembravano tornate due adolescenti. «E formulando un piano di studi al riguardo?». Ariel si accigliò. «Ho deciso che non sono la persona adatta per questo compito».
Istariel scoppiò in una fragorosa risata. Era irritante. Istariel era una insopportabile. «Cosa stavate dicendo?», domandò Ariel, cercando di mostrarsi interessata. Istariel, per quanto boriosa e insopportabile, era la Portavoce. «Oh, Ariel, a voi non importa, e non siete brava a fingere il contrario». «No, io no. Ma voi sì, quindi ascolterò educatamente». Istariel scosse la testa come se non riuscisse a crederle, ma si sistemò a sedere e - grazie al cielo - la smise di mostrarsi sprezzante. «Dimenticate tutto. La guerra di cui stavo parlando? Alcune delle Sorelle più giovani vogliono formare un nuovo ordine». «Un'altra congrega che vuole disconoscere l'Accordo Alitaeriano per diventare maghe di guerra?». Era uno spreco. Passavano il loro tempo a cercare di cambiare le regole invece di ignorarle e avanzare proposte. «Niente di più semplice. Queste signore intendono chiamarsi il Bene Mobile». «Oh, cielo». Le novizie non potevano sposarsi, ma molte Sorelle alla fine si decidevano a farlo. Di queste, quasi tutte tornavano al loro luogo di origine o dove vivevano i loro mariti. Alcune rimanevano presso la Cappella, ma poche salivano ad alti livelli. Spesso, era solo una questione di scelta: le donne concludevano che con figli, marito e una casa, preferivano restare a tempo pieno con le loro famiglie. A volte, però, alcune Sorelle ambiziose volevano tutto: essere sposate alla Cappella e a un uomo. Non salivano mai abbastanza in alto quanto credevano di meritare, perché le altre Sorelle esigevano che i livelli di maggiore responsabilità fossero occupati da chi considerava la Cappella come la sua unica famiglia. Le donne che sacrificavano la famiglia per il Serafino si sentivano in diritto di avanzare di livello più di quelle che s'impegnavano a tempo parziale, non importa con quanta solerzia. Stessa considerazione per le Sorelle sposate senza figli, perché davano per scontato che alla fine avrebbero gettato alle ortiche quanto c'era di più prezioso per badare a un uomo e ai suoi marmocchi, come una contadina
qualsiasi. Le Sorelle le chiamavano tacitamente "beni mobili", casalinghe volontarie e fattrici, e dicevano che i beni mobili sprecavano il tempo e il denaro della Cappella e - ancor peggio - i loro Talenti. Di solito, nessuno contestava questi commenti perché la grande maggioranza delle Sorelle della Cappella era nubile. O erano educatrici o studentesse. Era considerato scortese chiamare apertamente una Sorella sposata un bene mobile, ma era accaduto. Se le Sorelle sposate formavano un ordine - e Ariel non vedeva come potevano negarglielo - avrebbero ottenuto un immenso potere. Ammontavano a più della metà del numero delle Sorelle. Se costituivano un blocco comune, le cose sarebbero cambiate radicalmente. «È uno stratagemma, naturalmente», disse la Portavoce. «La maggior parte dei... delle Sorelle sposate non è così battagliera da mobilitarsi a favore di questa iniziativa. È solo un avvertimento per farci capire che fanno sul serio». «Che cosa vogliono?», domandò Ariel. Un occhio di Istariel ebbe un improvviso spasmo muscolare, e la donna lo strofinò. «Molte cose, ma una delle prime richieste è che noi apriamo qui una nuova scuola di magia. Una scuola che rompa le nostre tradizioni». «Rompa fino a che punto?» «Una scuola maschile, Ariel». Questo non era rompere le tradizioni. Era un sollevamento tellurico. «Riteniamo che alcune di loro abbiano già sposato dei maghi». «Cosa volete che faccia?», domandò subito Ariel. «Al riguardo?», replicò Istariel. «Niente. Cielo, no. Perdonatemi, sorella, ma voi siete l'ultima persona che possa fare qualcosa in merito. Ci vuole un tocco più leggero. Ho in mente qualcos'altro per voi. Il capo delle Sorelle sposate è Eris Buel. Non posso osteggiarla apertamente. Ho bisogno di qualcuna ambiziosa, rispettata e giovane che porti il nostro vessillo».
Il che, ovviamente, escludeva Ariel. «Corrisponde ad almeno un terzo delle nostre Sorelle, o dovrebbe, se aggiungete quelle prive di scrupoli». Lo sguardo di Istariel s'infiammò per poi raggelarsi subito dopo. Ariel sapeva di essersi spinta troppo oltre, ma Istariel non avrebbe preso provvedimenti. Aveva bisogno di lei. Inoltre, Ariel aveva fatto quell'osservazione non tanto perché fosse vera, quanto per godersi la frazione di secondo in cui Istariel si sarebbe sentita in colpa. E così era stato. «Ari, non dovreste parlarmi in quel modo». «Cosa volete che faccia?», tagliò corto Ariel. «Voglio che riportiate Jessie al'Gwaydin alla Cappella». Ariel valutò la richiesta. Jessie al'Gwaydin sarebbe stata un ottimo scoglio contro cui far schiantare Eris Buel. Era tutto quel che la Cappella apprezzava: sapeva parlare con garbo, era di bell'aspetto, intelligente, di nobili origini, e pronta a fare la propria parte per raggiungere più alte vette. Non possedeva molto Talento, ma un giorno sarebbe potuta diventare un grande capo, se solo avesse dimostrato un po' di buon senso. «Sta studiando il Cacciatore Nero a Curva di Torras», la informò Istariel. «So che è rischioso, ma le ho dato un preavviso sufficiente e sono certa che non farà niente di avventato». Istariel soffocò una risatina. «In realtà, l'ho minacciata dicendole che vi avrei mandato sulle sue tracce se non si fosse comportata bene. Sarà molto contenta di vedervi». «E se fosse morta?», chiese Ariel. Il sorriso di Istariel si spense. «Trovatemi qualcuna che la Cappella non possa ignorare: qualcuna che farà quel che va fatto». Quella imprecisione poteva significare molte cose. Solo che quell'imprecisione poteva applicarsi in entrambe le direzioni e questo era un dato di fatto - Ariel avrebbe preferito rientrarci. Oh,
sorella, state giocando con un fuoco spaventoso! Perché non vi servite di me? «D'accordo», disse Ariel.
Istariel la congedò, e Ariel si avviò verso la porta. «Ah», esclamò Istariel come se si fosse dimenticata qualcosa, «chiunque porterete, assicuratevi che sia sposata».
Capitolo 19 Kylar stava chiudendo il negozio
quando avvertì chiaramente che qualcuno lo stava osservando. Piegò istintivamente le dita per trovare i coltelli allacciati agli avambracci, ma non c'era alcun coltello. Chiuse le grosse saracinesche sopra il bancone dove esponevano i loro prodotti e inserì il blocco, sentendosi di colpo vulnerabile. Non era il fatto che fosse disarmato a farlo sentire inerme. Un sicario era di per sé un'arma. La vulnerabilità nasceva dal suo giuramento. Nessuna uccisione, nessuna violenza. Cosa gli rimaneva? Chiunque lo stesse tenendo d'occhio, doveva essere appostato fra le ombre del vicolo accanto al negozio. Di certo stava aspettando che lui passasse alla porta sul davanti, che era a pochi passi dal vicolo. Con il suo Talento, poteva introdursi nella porta e bloccarla e rivelare le proprie capacità. Oppure scappare - e lasciare Uly indifesa. Prima che ci fosse una donna nella sua vita, tutto era stato così semplice. Sul serio. Kylar si mosse verso la porta. L'uomo aveva i capelli arruffati ed era vestito di stracci, con gli occhi arrossati e senza denti, come tutti i consumatori abituali di marijuana. I coltelli che aveva il Ladeshiano, però, sembravano efficienti. L'uomo balzò fuori dal vicolo. Kylar si aspettava che volesse estorcergli del denaro, ma non lo fece. Invece, si lanciò all'attacco, gridando parole senza senso. Sembrava quasi che dicesse: "Non uccidermi! Non uccidermi!". Kylar si mosse e il drogato finì lungo disteso per terra. Kylar si appoggiò contro il muro, sconcertato. L'uomo si tirò su e partì alla carica. Kylar aspettò. Aspettò. Poi si spostò di scatto. L'assalitore si schiantò contro il muro. Dopo aver allontanato con un calcio i coltelli dell'uomo sanguinante, Kylar lo rovesciò con la punta del piede.
«Non uccidetemi», farfugliò l'uomo con il sangue che gli colava dal naso. «Vi prego, immortale, non uccidetemi. Non ancora». «Ti ho portato un regalo», disse Gwinvere. Agon alzò gli occhi dal foglio su cui stava scrivendo. Era un elenco dei punti forti e deboli della loro situazione tattica nei Cunicoli. Fin qui, era una lista deprimente. Si alzò dal tavolo e seguì Gwinvere nella stanza accanto, cercando di non pensare al gradevole profumo che emanava la donna. Gli faceva male al cuore. Il tavolo da pranzo era coperto da un telo che nascondeva otto protuberanze sospette. «Non vuoi aprirlo?», lo invitò Gwinvere. Agon la guardò con aria interrogativa e la donna rise. Tirò via il telo e rimase a bocca aperta. Sulla superficie del tavolo c'erano dieci archi corti senza corde. Erano intagliati con semplici, quasi rozze immagini di uomini e animali, soprattutto cavalli. «Gwinvere, non avresti dovuto». «Ho seguito le indicazioni dei miei contabili». Brant ne prese uno e tentò di piegarlo. «Attento», gli disse. «L'uomo che... ha procurato questi archi ha detto che bisogna scaldarli accanto al fuoco per una mezz'ora prima di fissare le corde. Altrimenti si spezzeranno». «Sono autentici archi ymmuri», osservò Agon. «Non ne avevo mai visto uno prima d'ora». Erano una delle meraviglie del mondo. Nessuno al di fuori degli Ymmuri conosceva il segreto della loro fabbricazione, sebbene Agon notò chiaramente che non usavano solo legno, ma anche corna e collante realizzato con zoccoli di cavallo fusi. Quelle armi erano in grado di conficcare una freccia attraverso un'armatura pesante a duecento passi di distanza, un'impresa eguagliabile soltanto dagli archi lunghi alitaeriani. E questi erano per di più abbastanza corti da poter essere usati in sella a un cavallo. Ad Agon erano giunte storie di Ymmuri in armatura leggera che descrivevano cerchi a cavallo intorno a compagnie pesantemente
armate, fuori dalla portata degli arcieri tradizionali, e sterminavano il nemico a colpi di frecce. Ogni volta che i lancieri partivano alla carica, gli Ymmuri si davano alla fuga in sella ai loro pony, continuando a scoccare frecce. Nessuno era ancora riuscito a trovare il modo di contrastare un attacco così congegnato. Grazie agli dèi, nessuno aveva mai riunito gli Ymmuri, altrimenti avrebbero sopraffatto l'intero Midcyru. Gli archi sarebbero stati perfetti per i cacciatori di streghe di Agon. Il generale accarezzò l'arma che aveva in mano. «Tu sai come arrivare al cuore di un uomo, Gwinvere», disse, felice come un bambino con un giocattolo nuovo. La donna sorrise e, per un prezioso istante, sorrise anche lui. Gwinvere era splendida, così brillante, così abile, talmente formidabile, e ora, mentre la guardava negli occhi, in qualche modo anche fragile, scossa dalla morte di Durzo, l'uomo che aveva amato per quindici anni. Era intensa e misteriosa, e sebbene Agon si ritenesse ormai vecchio per farsi infiammare da questo genere di cose, era estasiato dalla sua bellezza. Il suo profumo - per gli dèi, era lo stesso che portava tanti anni prima? Lo scuoteva nel profondo dell'animo. Ma proprio lì, dentro di sé, Brant vide sua moglie. Non avrebbe mai saputo se era viva o morta. Non avrebbe mai potuto piangerla, né andare avanti, né rinunciare alla speranza senza rinunciare a lei e in qualche modo tradirla. Il suo sorriso sbiadì, e Gwinvere se ne accorse. Gli sfiorò un braccio. «Sono contenta che ti piacciano». Si avviò verso la porta, poi si voltò indietro. «Di' soltanto ai tuoi uomini che ognuno di questi archi costa più di quanto potrebbero guadagnare in un'intera vita». E sorrise. Un sorriso che voleva essere un invito alla spensieratezza per entrambi. Un sorriso per comunicargli che lei sapeva, capiva e, sebbene non ricambiasse il sentimento, non lo avrebbe usato contro di lui. Agon abbaiò una risata, accettando il suo suggerimento. «Li minaccerò».
Più scioccante delle sue parole, era il volto del rapinatore. Lo stesso uomo che Kylar era certo di aver scorto alla finestra del conte Drake il giorno in cui Vi aveva cercato di ucciderlo. Kylar gli diede una dose di liquore di papavero e lo portò a un ricovero per il trattamento dei drogati. Drogati di famiglie ricche, naturalmente. La cura in sé era semplice: tempo, più che altro. Gli inservienti somministravano infusi e altre erbe di dubbia efficacia, legavano il tossico, pulivano vomito e diarrea, e aspettavano. Le pareti erano spesse, le celle separate e singole. Kylar non incontrò difficoltà con le guardie, che gli diedero un'occhiata, notarono il drogato, e li lasciarono entrare. «Vi prego, legatemi», disse il Ladeshiano appena furono dentro una piccola cella. C'era una scrivania, una sedia, un catino e una brocca, e un letto, ma le pareti di mattoni erano spoglie. Era volutamente spartana. Meno oggetti c'erano nella stanza, minore era la possibilità che un tentativo di suicidio andasse a buon fine. «Non credo che perderete il controllo, almeno per alcune ore», gli disse Kylar. «Non siatene così sicuro». Così Kylar lo legò al letto con le spesse cinghie di cuoio e l'uomo parve sollevato. Gli rivolse il suo sorriso sdentato da tossico. Kylar sentì rivoltarsi lo stomaco. Quest'uomo, un tempo, non aveva uno splendido sorriso? «Chi siete?», gli chiese Kylar. «E cos'è che pensate di sapere su di me?» «So che avete un ka'kari, Kylar Stern. Conoscevo Durzo Blint e so che eravate il suo apprendista e so che questa è la vostra seconda incarnazione. Prima vi chiamavate Azoth». Un altro vuoto allo stomaco. «Chi siete?». L'uomo sorrise ancora, un sorriso ampio, come se fosse talmente abituato a sfoderare due file di denti bianchi che non riusciva ancora ad accettare quel ghigno desolato da tossico. Stranamente, adesso che era legato, sembrò arrogante. «Sono Aristarchos ban Ebron, sbalakroi di Benyurien nella provincia di Seta, nel Ladesh».
«Sbalakroi è il termine ladeshiano per indicare un consumatore di
marijuana?».
Ogni traccia di superbia crollò dal volto dell'uomo come un carico di mattoni. «No, scusate. E scusate se ho attentato alla vostra vita. Ero fuori di me». «Si vedeva». «Non credo che voi possiate capire», disse Aristarchos. «Ho visto altri drogati prima d'ora». «Non sono solo un drogato, Kylar». Gli rivolse un altro sorriso storto e beffardo che mise in mostra gli ultimi denti guasti. «Quello che dice ogni drogato, eh? Ho cercato di andarmene da Cenaria quando la città è caduta, ma la mia pelle ladeshiana mi ha tradito. I Khalidoriani mi hanno fermato per interrogarmi sul commercio della seta. Non tollerano il monopolio della seta quanto il resto di voi Midcyri. L'interrogatorio non sarebbe stato niente, ma un Vurdmeister di nome Neph Dada mi ha visto. Ha il dono della Visione. Non so cosa abbia visto, ma hanno cominciato a torturarmi». Il suo sguardo si fece assente. «E stato terribile. Ed è stato anche peggio ogni volta che mi costringevano a ingoiare dei semi. Spegnevano il dolore. Rendevano tutto più sopportabile. Non riconoscevo neanche più chi fossero i miei aguzzini. I Khalidoriani non mi permettevano di dormire. Mi torturavano, mi facevano ingoiare i semi, mi torturavano. Non mi hanno nemmeno fatto domande, finché non è arrivato lui». «Lui?». Non era la giornata ideale per lo stomaco di Kylar. «Io... ho paura anche a pronunciare il suo nome», disse Aristarchos, vergognoso della propria paura che nondimeno la costringeva al silenzio. Cominciò a tamburellare con le dita. «Il Re Divino?». Annuì. «Il ciclo si è ripetuto finché non hanno più avuto bisogno di forzarmi a ingurgitare i semi. Ero io a supplicarli di darmeli. La seconda volta che è venuto, ha usato la magia su di me... È affascinato dalla coercizione. Magica, chimica e unione delle due, ha
detto. Io ero solo un altro esperimento. Dopo un po', io... io gli ho fatto il vostro nome, Kylar. Mi ha impresso l'impulso di uccidervi. Avevo con me una scatola di semi che si sarebbe aperta solo se avessi ubbidito». Fu scosso da un tremito. «Capite? Ho provato a cavarmela con i semi di marijuana. Ho provato con il liquore di papavero. Non funziona niente. Ho pensato che se fossi arrivato qui velocemente, avrei potuto avvisarvi. Non ho spifferato tutto. Loro non sanno che siete tornato dalla morte. Non sanno della Società o delle vostre incarnazioni». Tutto stava accadendo troppo in fretta per Kylar. Le implicazioni stavano esplodendo in cento direzioni diverse. «Quale società?», gli domandò. Aristarchos parve incredulo; smise persino di tamburellare con le dita. «Durzo non ve ne ha mai parlato?» «Nemmeno una parola». «La Società della Seconda Alba». «Mai sentita nominare». «"La Società della Seconda Alba si dedica allo studio dei presunti immortali, alla descrizione delle loro abilità, e alla limitazione dei suddetti poteri a coloro che non ne abusino". Siamo una società segreta, diffusa in tutto il mondo. È così che ho potuto trovarvi. Ci hanno scoperti secoli fa. Allora pensavamo che ci fossero dozzine di immortali. Col passare degli anni, abbiamo concluso che ce n'erano al massimo sette, e forse solo uno. L'uomo che conoscevate come Durzo Blint è stato anche Ferric Fireheart, Vin Craysin, Tal Drakkan, Yric the Black, Hrothan Steelbender, Zak Eurthkin, Rebus Nimble, Qos Delanoesh, Xlrutic Ur, Mir Graggor, Pips McClawski, Garric Shadowbane, Dav Slinker e probabilmente una dozzina di altri che non conosciamo». «Praticamente i protagonisti di metà delle storie del Midcyru». Aristarchos stava cominciando a tremare e a sudare, ma continuò a parlare con calma. «È riuscito a spacciarsi per nativo di almeno una dozzina di culture diverse, probabilmente due volte tanto. Parlava più lingue di quante io ne abbia mai sentite - almeno trenta, senza contare i dialetti -, e tutte così bene che i nativi non notavano
nemmeno una differenza d'accento. Ci sono stati periodi in cui scompariva per venti o persino cinquantanni - non sappiamo se viveva in solitudine oppure se si sposava e si stabiliva in regioni lontane. Ma è ricomparso in ogni grande conflitto per sei secoli, e non sempre schierandosi dalla parte che vi sareste aspettato. Duecento anni fa, sotto il nome di Hrothan Steelbender, partecipò alle campagne di espansione alitaeriane per i primi trent'anni della guerra dei cento anni, e poi "morì" e combatté contro di loro a fianco dei Ceuriani come kenshei Oturo Kenji». Adesso fu Kylar a rabbrividire. Ricordò quando la sua gang aveva tentato di rapinare Durzo. Appena avevano visto chi era, erano indietreggiati di fronte al leggendario sicario. Leggendario sicario! Quanto poco sapevano di lui. Quanto poco ne sapeva Kylar. Provò un'irragionevole fitta di rancore. Come aveva potuto Durzo non farne parola? Era stato come un figlio per quell'uomo. Gli era stato più vicino di chiunque altro - e lui non gli aveva detto niente. Kylar aveva conosciuto solo il guscio amaro e superstizioso di un uomo, e si era sentito in qualche modo superiore. Kylar non aveva conosciuto affatto Durzo. E ora l'eroe delle leggende - dozzine di leggende - era morto. Morto per mano di Kylar. Kylar aveva distrutto qualcosa di cui non conosceva il valore. Non aveva conosciuto l'uomo che chiamava "maestro", e adesso non avrebbe avuto più modo di farlo. Sentì un buco nello stomaco. All'improvviso si sentì stordito e arrabbiato e sul punto di piangere. Durzo era morto, e Kylar sentiva la sua mancanza più di quanto avrebbe mai immaginato. Ormai Aristarchos aveva il volto imperlato di grosse gocce di sudore, e si era aggrappato alle lenzuola del letto. «Se avete bisogno di farmi domande sulle sue incarnazioni o sulle vostre, o su qualsiasi altra cosa, fate in fretta, per favore. Io... non mi sento bene». «Perché continuate a parlare di incarnazioni come se io fossi una specie di dio?». Era una bella domanda, ma quelle più essenziali erano talmente grandi che Kylar non sapeva nemmeno come porgliele.
«Voi siete venerato in alcune aree remote dove il vostro maestro non è stato molto attento nel mostrare la piena estensione dei suoi poteri». «Cosa?!» «La Società parla di incarnazioni perché "vite" è troppo vago, e non sappiamo con certezza se avete tante vite quante ne desiderate, o un numero finito, o una soltanto che non ha mai fine. Nessuno di noi vi ha mai visto realmente morire. Anche il termine "incarnazioni" non incontra il favore di tutti, ma questo soprattutto fra i dissidenti Modaini che credono nella reincarnazione. Lasciate che ve lo dica: la vostra esistenza li getta realmente in una impasse teologica». Le gambe di Aristarchos si tesero, si contrassero convulsamente. «Mi dispiace», disse, «c'è tanto ancora che vorrei potervi dire. Tanto che vorrei chiedervi». Di colpo, in mezzo a tutte le domande su Durzo, sui poteri di Kylar, sul Re Divino e su quel che lui sapeva o pensava di sapere, Kylar vide solo un uomo sudato chiamato in causa, un uomo che aveva perso i denti e il bell'aspetto per causa sua, un uomo che era stato torturato e reso un tossicodipendente, che era stato costretto a tentare di uccidere Kylar e che si era opposto a questo destino con tutte le proprie forze. Aveva fatto tutto questo per un individuo che neppure conosceva. Così Kylar non gli chiese della Società, o della magia, o di quel che Aristarchos poteva fare per lui. L'avrebbe fatto più tardi, se entrambi fossero sopravvissuti fino ad allora. «Aristarchos », gli domandò, «cos'è uno shalakroi?». L'uomo fu preso alla sprovvista. «Io... è un titolo di poco inferiore a quello di duca midcyri, ma non è ereditario. Ho ottenuto una votazione migliore di diecimila altri studenti agli esami per i funzionari pubblici. Solo un centinaio ha avuto risultati maggiori in tutta Ladesh. Governavo un'area più o meno delle dimensioni di Cenaria». «La città?». Aristarchos sorrise nonostante il sudore e i muscoli contratti. «Il paese».
«È per me un onore fare la vostra conoscenza, Aristarchos ban Ebron, shalakroi di Benyurien». «L'onore è mio, Kylar ban Durzo. Vi prego, uccidetemi». Kylar gli voltò le spalle. Fierezza e speranza uscirono da Aristarchos con un faticoso respiro. Crollò sul letto, improvvisamente fragile. «Non siete gentile, mio signore». Il suo corpo si contrasse convulsamente ancora una volta. Le vene si gonfiarono sulla fronte e sulle braccia emaciate. «Vi prego!», lo implorò appena le contrazioni si placarono. «Vi prego, se non volete uccidermi, datemi almeno la mia scatola! Un seme soltanto! Ve ne prego!». Kylar se ne andò. Prese con sé la scatola e la bruciò. A parte uno spillo avvelenato, era vuota.
Capitolo 20 «Vostra Santità, il nostro assassino è morto», annunciò Neph Dada uscendo sul balcone del Re Divino. «Mi rincresce darvi notizia di questo insuccesso, sebbene sia mio desiderio far rilevare che io avevo suggerito...». «Non ha fallito», disse Garoth Ursuul, senza distogliere lo sguardo dalla vista della città. Neph aprì la bocca, si ricordò con chi stava parlando, e la richiuse. Piegò la testa, in ogni senso. «Gli ho affidato un compito che non avrebbe portato a termine, così io avrei potuto realizzare quello che desideravo», disse il Re Divino. Si massaggiò le tempie, sempre fissando la città. «Ha trovato Kylar Stern. Il nostro portatore di ka'kari si trova a Caernarvon». Tirò fuori un foglio dalla tasca. «Trasmetti questo messaggio al nostro agente locale perché lo consegni a Vi Sovari. Dovrebbe arrivare lì da un giorno all'altro». Neph sbatté nervosamente le palpebre. Aveva pensato di conoscere tutto ciò che il Re Divino avesse in mente. Aveva creduto che la propria padronanza del vir si discostasse di poco da quella del Re Divino, e adesso quell'uomo, come se niente fosse, gli consegnava un messaggio. Questo significava che le ambizioni di Neph erano rinviate di mesi. Mesi! Come odiava quell'uomo. Garoth riusciva a trovare magicamente le ubicazioni precise? Neph non aveva mai sentito niente del genere. Cosa significava? Garoth sapeva della base a Black Barrow? I Meister di Neph avevano rapito gli abitanti del villaggio per i suoi esperimenti, ma era talmente lontana. E Neph era stato così attento. No, non poteva trattarsi di questo. Ma il Re Divino gli stava dando un avvertimento. Stava dicendo a Neph che lo teneva d'occhio, che non gli sfuggiva nulla, che avrebbe sempre saputo più di quanto avrebbe mai detto allo stesso Neph,
che i suoi poteri sarebbero stati sempre al di là di qualsiasi previsione di Neph. Per essere un avvertimento dato dal Re Divino, fu garbato. «C'è altro?», chiese Garoth. «No, Vostra Santità», rispose Neph, riuscendo a mantenere il tono di voce perfettamente calmo. «Allora vattene». Nonostante tutte le ragioni che aveva per essere scontroso, quando Elene era di buon umore era difficile non sentirsi felice. Dopo una rapida colazione e una tazza di ootai per sconfiggere la stanchezza, Kylar si ritrovò a passeggiare con lei lungo le strade, mano nella mano. Elene indossava un vestito color panna con un corpetto di taffetà del colore dei suoi occhi. Era favoloso nella sua semplicità. Naturalmente, Kylar non aveva mai visto Elene portare qualcosa che gli fosse sembrato meno che magnifico, ma quando la ragazza era felice diventava due volte più bella. «È graziosa, non è vero?», disse, scegliendo una bambola dal banco di un mercante. Perché Elene era felice? Kylar non ricordava di aver fatto niente di buono. Da quando aveva iniziato a uscire di notte, si era aspettato Il Discorso. Invece, una notte lei gli aveva preso la mano, facendolo sussultare per lo spavento - altro che impassibile sicario - e gli aveva detto: «Kylar, ti amo e ho fiducia in te». Da allora non aveva detto niente. Di certo neppure Kylar. Cosa avrebbe dovuto dire? "Ehm, in realtà ho ucciso qualcuno, ma si è trattato sempre di un incidente, e poi erano tutti cattivi"? «Non credo che possiamo davvero permetterci una spesa simile», disse Elene. «Volevo solo passare la giornata insieme a te». Gli sorrise. Forse era solo uno sbalzo d'umore. Ma i cambiamenti d'umore dovevano avere un lato positivo, no? «Ah», disse. Si sentiva un po' imbarazzato a camminare mano nella mano con lei. All'inizio gli era parso che tutti non guardassero che loro. Adesso, però, vide che solo poche persone davano loro una seconda occhiata e, fra queste, quasi tutte sembravano approvare.
«Ah, bene!», li apostrofò un uomo piccolo e grassottello con voce imperiosa. «Perfetti. Perfetti. Assolutamente adorabili. Meravigliosi, siete. Sì, sì, entrate». Kylar sussultò allarmato, e dovette soffocare la tentazione di rifare i connotati all'ometto. Elene scoppiò a ridere e punzecchiò i muscoli tesi del braccio di Kylar. «Andiamo, forzuto», lo incoraggiò. «Andiamo a fare acquisti. E divertente». «Divertente?», ripeté, mentre Elene lo trascinava dentro il piccolo negozio ben illuminato. L'ometto grassoccio li affidò a una graziosa ragazza di forse diciassette anni, che li accolse con un sorriso gentile. Era minuta, con una corporatura snella, intensi occhi azzurri e una bocca grande che rendeva enorme il suo sorriso. Era Capelli d'Oro. Kylar sgranò gli occhi mentre i suoi due mondi, del giorno e della notte, si sovrapponevano. «Salve», disse Capelli d'Oro, abbassando lo sguardo alle fedi che portavano al dito. «Io sono Capricia. Siete mai stati in un negozio di anelli prima d'ora?». Poiché Kylar non si decideva a rispondere, Elene gli diede una lieve gomitata nelle costole. «No», rispose lei. Kylar sbatté le palpebre. Elene lo guardava scuotendo la testa, evidentemente pensando che stesse facendo gli occhi dolci a Capricia, ma non sembrava furiosa, solo stupita. Kylar scosse la testa, come a dirle No, non è come pensi. Elene rispose con un'occhiata ironica. Meglio così. «Bene, allora cominciamo dall'inizio», disse Capricia, tirando fuori un ampio cassetto foderato di velluto nero e posandolo sul bancone. Era pieno di sottili anelli appaiati, in oro, argento o bronzo, alcuni decorati con rubini, granati, ametiste, diamanti o opali, alcuni lisci, altri lavorati. «Avete visto persone indossarli in ogni parte della città, vero?». Elene annuì. Kylar la guardò perplesso. Poi spostò lo sguardo su Capricia. La ragazza non portava orecchini, almeno non visibili. Forse erano anelli per le dita del piede? Si sollevò in punta di piedi per dare un'occhiata oltre il bancone.
Capricia seguì la direzione del suo sguardo e scoppiò a ridere. Aveva quel genere di risata allegra e contagiosa, anche se rideva di te. «No, no», disse. «Io non lo porto! Non sono sposata. Perché state guardando i miei piedi?». Elene si batté una mano sulla fronte. «Questi uomini!». «Ah», disse Kylar. «Sono orecchini!». Capricia scoppiò di nuovo a ridere. «Ma come?», continuò Kylar. «Nella città da cui veniamo le donne portano gli orecchini appaiati. Questi sono tutti di dimensioni diverse». La ragazza rise ancor più di cuore e finalmente la verità si fece strada nella mente di Kylar. Gli orecchini non erano esclusivamente da donna; erano per una coppia. Uno per l'uomo, uno per la donna. «Oh», concluse, appena ne ebbe intuito l'uso. Questo spiegava perché avesse visto tanti uomini in città portarne uno. Si rabbuiò: era in grado di individuare quali uomini nascondessero armi sotto i vestiti e capire anche con quanta abilità sapessero usarle; perché avrebbe dovuto interessarsi a quel che portavano alle orecchie? «Ehi, guarda questi», disse Elene, indicando una coppia di scintillanti anelli in oro e argento che apparivano pericolosamente costosi. «Non sono splendidi?». Si rivolse a Capricia. «Vorreste spiegarci bene la faccenda degli anelli? Noi, ehm, non conosciamo bene le tradizioni locali». Volutamente, non guardarono Kylar. «Qui nel Waeddryn, quando un uomo vuole sposare una donna, compra una coppia di anelli e glieli regala. Naturalmente, c'è anche una cerimonia pubblica, ma il matrimonio in sé viene eseguito in privato. Voi due siete già sposati, giusto?» «Giusto», confermò Kylar. «Siamo arrivati da poco in città». «Bene, se desiderate sposarvi secondo la tradizione del Waeddryn, ma forse non avete il denaro o l'intenzione di organizzare una grande cerimonia, è molto semplice. Non dovete affatto preoccuparvi delle formalità. Il matrimonio viene riconosciuto finché sarete inchiodati».
«Inchiodati?», ripeté Kylar, sgranando gli occhi stupito. Capricia arrossì. «Voglio dire, finché esibirete il sigillo del vostro amore, cioè gli anelli. Ma, be', quasi tutti lo chiamano "essere inchiodati"». «Immagino che la spiegazione non rientri nelle pratiche per imbonire i clienti», commentò ironicamente Kylar. «Kylar», lo rimproverò Elene, dandogli un'altra gomitata mentre Capricia arrossiva di nuovo. «Possiamo vedere i coltelli di nozze?», domandò dolcemente. Capricia tirò fuori un altro cassetto foderato di velluto nero. Era pieno di pugnali decorati dalla punta sottile. Kylar fece un passo indietro. Capricia ed Elene soffocarono una risatina. «Sempre più allarmante», commentò la ragazza, accompagnando le parole con un ampio sorriso. «In genere, proprio prima... ah, esattamente prima che il matrimonio venga consumato...». Stava cercando di usare un tono professionale, ma era rossa fino alle orecchie. «Scusate, non ho mai avuto bisogno di spiegare fin nei dettagli. Io... Mastro Bourary di solito... Ma non fa niente. Quando un uomo e una donna si sposano, la donna deve rinunciare a molta della sua libertà». «La donna?», rimarcò Kylar. L'occhiata che gli diede Elene questa volta fu meno divertita. Kylar si costrinse a non ridere. «Così l'inchiodatura - o la collocazione degli anelli o l'apposizione del sigillo...». «Chiamatela pure inchiodatura», la invitò Kylar. «Mi sono confusa, dovrei chiamarla nel modo...», notò lo sguardo sul volto di Kylar, «...corretto. Quando la sposa e lo sposo si ritirano nella loro camera da letto, l'uomo consegna gli anelli e il pugnale di nozze alla sposa. L'uomo deve sottomettersi a lei. Spesso, lei vorrà...». Capricia sbatté le palpebre e arrossì di nuovo fino alle orecchie. Si schiarì la gola. «Spesso, vorrà stuzzicare un po' lo sposo. Poi la moglie si buca l'orecchio sinistro nel punto che preferisce e ci infila l'anello. Dopo si siede a cavalcioni del marito sul letto di nozze e gli buca l'orecchio sinistro».
Kylar rimase a bocca aperta. «Non è così doloroso. Dipende solo dal punto che vostra moglie sceglierà per...», Capricia alzò lo sguardo notando Mastro Bourary che rientrava nel negozio, «...apporre il sigillo. Sul lobo dell'orecchio non fa male, ma alcune donne preferiscono bucare, be', come la moglie di Mastro Bourary». Kylar scrutò l'ometto grassoccio e sorridente. Portava uno scintillante anello d'oro guarnito di rubini. Era agganciato alla parte superiore dell'orecchio. «Fa un male cane», disse Mastro Bourary. «Lo chiamano perdere la verginità». Una leggera smorfia di dolore increspò le labbra di Kylar. «Cosa?». Falene era arrossita, ma gli occhi erano pieni di gioia. Per un momento, Kylar ebbe la certezza che stesse pensando a come inchiodarlo. «Be', è giusto, no?», osservò Mastro Bourary. «Se una donna deve soffrire e sanguinare nella sua prima notte di nozze, perché non dovrebbe farlo anche il marito? Sapete che vi dico, vi rende più gentile. Specialmente se lei vi torce l'orecchio per farvelo ricordare!». Scoppiò in una risata sguaiata. «Questo è quel che ottieni dopo venti generazioni di regine». Rise con aria afflitta, ma non sembrava realmente dispiaciuto. Questa gente è completamente matta, pensò Kylar. «Ma non è questa la parte magica», riprese Capricia, rendendosi conto che il cliente stava perdendo rapidamente interesse. «Quando la moglie infila l'anello nell'orecchio del marito, deve concentrare su di esso tutta il suo amore, la sua devozione e il suo desiderio di essere sposata, e solo allora diventerà un sigillo. Se la donna non desidera davvero sposarsi, non si sigillerà». «Ma una volta sigillato», disse Mastro Bourary, «né il paradiso né l'inferno apriranno più quell'anello. Guardate», disse. Sfilò la fede dall'anulare sinistro di Kylar. «Solo una leggera differenza di abbronzatura sotto il vostro anello, eh? Non siete sposati da molto?» «Con questo espediente potreste realizzare una buona cotta di maglia», disse Kylar, cercando di eludere il discorso di imbonimento.
«Oh, tesoro, smettila, mi sento svenire», disse Elene, tirandosi il corpetto come se avesse troppo caldo. «Hai una tale immaginazione». «Be', in effetti», disse Mastro Bourary, «i primi professionisti della nostra arte erano fabbricanti di armature. Ma guardate», insistette, rivolgendosi a Elene, evidentemente considerandola un miglior bersaglio per il proprio imbonimento. «Questo anello può sfilarlo dal dito, può scivolare via da solo, chi lo sa? Magari va a una taverna e s'imbatte in una puttana, e come fa questa a sapere che sta violando lo spazio di un'altra donna? Ovviamente, non che voi lo fareste mai, signore. Ma con i nostri anelli, un uomo sposato si riconosce sempre. In realtà è una protezione persino per le donne che vorrebbero amoreggiare con un uomo senza sapere che è sposato. E... se un uomo o una donna vuole il divorzio... be', deve strapparsi quel dannato anello dall'orecchio. Fa calare il numero dei divorzi, ve lo assicuro. Ma apporre il sigillo non è un segno di paura, per evitare che un uomo o una donna metta le corna al coniuge. È qualcosa di più profondo. Quando un uomo e una donna sono sigillati, attivano un'antica magia presente in questi anelli, una magia che cresce insieme al loro amore. È una magia che aiuta a sentire quel che il coniuge prova, una magia che rende più profondo il vostro amore e la vostra comprensione l'uno dell'altra, che vi aiuta a comunicare con maggior chiarezza, che...». «E lasciatemi indovinare», lo interruppe Kylar. «Gli anelli più costosi sono più magici». Stavolta la gomitata di Elene non fu affatto gentile. «Kylar», gli disse a denti stretti. Mastro Bourary parve sconcertato. «Permettetemi di garantirvi, giovane maestro, che ogni anello è permeato di magia, persino la fascetta di rame più semplice e a buon mercato non si spezzerà. Comunque, sì, dedico decisamente più tempo ed energia agli anelli d'oro o di mithril. Non solo perché la gente che li compra paga di più, ma anche perché quel metallo conserva l'incantesimo meglio di quanto potrebbe mai fare il rame, il bronzo o l'argento». «Va bene», tagliò corto Kylar. «Grazie per il vostro tempo». Uscì dal negozio trascinandosi dietro Elene.
La ragazza non era soddisfatta. Si fermò in mezzo alla strada. «Kylar, sei un vero idiota». «Tesoro, non hai sentito quel che ha appena detto? Un fabbricante di armature tempo fa possedeva un Talento che gli permetteva di saldare insieme gli anelli di metallo. Con un talento così, riesce a sfornare cotte di maglia nel giro di giorni e non più di mesi. Poi si fa furbo, e pensa che potrà guadagnare molto più denaro vendendo ogni anello per centinaia di monete d'oro che vendendo una serie di cotte di maglia per, magari, cinquanta monete. E così, dal nulla, è nata un'industria. Sono tutte stronzate. Tutta quella storia del " comprendersi sempre più a vicenda"? Questo è quel che accade a tutte le coppie sposate. E poi, gli anelli d'oro conservano meglio la magia... che strano, eh? Hai visto quanti anelli erano d'oro? Probabilmente avranno convinto nove decimi dei poveri idioti di questa città a mettere da parte i soldi per acquistare un anello d'oro che non possono permettersi, perché mi vuoi dire quale donna sarebbe felice con un anello di rame che " trattiene sì e no l'incantesimo"?» «Io lo sarei», replicò tranquillamente Elene. Kylar rimase ammutolito. Elene nascose il viso fra le mani. «Pensavo che tu prima o poi volessi sposarti sul serio, capisci. Sarebbe stato un modo per renderlo ufficiale. Se lo volevamo. Voglio dire, so che non siamo ancora pronti. Non ti sto dicendo di farlo subito o cose del genere».
Perché mi comporto sempre da perfetto idiota? Perché lei è troppo buona per te. «Allora tu conoscevi questo posto?», le chiese con più dolcezza, sebbene fosse ancora infastidito, non sapeva se con Elene o con se stesso. «Me ne ha parlato Zia Mea». «È per questo che stanotte mi mordicchiavi l'orecchio?» «Kylar!», protestò la ragazza. «E per questo?»
«Zia Mea mi ha detto che fa meraviglie». Elene non riusciva a sostenere il suo sguardo; era profondamente mortificata. «Be', forse per questi svitati!». «Kylar!». Elene inarcò le sopracciglia, come a dirgli: Siamo in
mezzo a un mercato pieno di gente, vuoi chiudere la bocca?
Kylar si guardò intorno. Non aveva mai visto tanti orecchini in tutta la sua vita. Come aveva fatto a non accorgersene prima? E aveva ragione, quasi tutti erano d'oro, e tutti portavano i capelli in modo che lasciassero gli anelli bene in evidenza. «Avevo già visto quella ragazza», disse Kylar. «Capricia?» «L'altra notte ero fuori, e alcuni teppisti volevano farle del male. Prima, li avrei uccisi. Invece, li ho solo spaventati». Elene parve non capire perché le stesse confidando adesso quella storia. «Magnifico. Vedi? La violenza non risolve...». «Tesoro, uno di loro era lo Shinga. Ho fatto pisciare sotto un uomo vendicativo davanti ai suoi uomini. La violenza era l'unica soluzione. Quella ragazza è più nei guai adesso di quanto lo fosse stata prima che l'aiutassi». Imprecò in silenzio. «Perché mi hai portato là dentro? Non abbiamo nemmeno denaro a sufficienza per comprare un regalo di compleanno a Uly. Come potremmo permetterci quegli anelli?» «Mi dispiace, va bene?», ribatté Elene. «Volevo solo vedere com'erano». «È sempre per via della spada, non è vero? Tu vuoi ancora che io la venda». «Smettila! Non ho detto niente della spada. Mi dispiace. Pensavo che poteva interessarti. Non ti sto chiedendo di comprarmi qualcosa». Adesso lo stava guardando e di certo non lo teneva per mano. Be', era meglio delle lacrime, no? Kylar le camminò accanto per un po', mentre lei fingeva di curiosare fra i banchi del mercato, scegliendo prodotti, esaminando stoffe, guardando bambole che non potevano permettersi di comprare.
«Allora», disse alla fine. «Visto che stiamo già litigando...». Si girò a guardarlo, seria in viso. «Non voglio sentir parlare di sesso, Kylar». Kylar alzò le mani mimando un gesto di resa, cercando ancora di essere divertente, e non riuscendoci nemmeno questa volta. «Kylar, ricordi cosa si prova a uccidere?». Non aveva bisogno di scavare tanto indietro nella memoria. Era un trionfo, il terribile piacere di poter controllare ogni cosa, seguito da un senso di desolazione, un vuoto nel petto, sapendo che persino un criminale incallito avrebbe potuto redimersi, e che adesso non avrebbe avuto più alcuna possibilità di farlo. Riusciva a capire che una parte di lui amava quella sensazione? «Tesoro, tutti noi abbiamo tanto tempo e tanti doni a disposizione. Tu hai più doni di tanti altri, e io so che li vuoi usare al meglio. So che vivi con passione e ti amo per questo. Ma considera cosa succede quando cerchi di salvare il mondo con una spada. Il tuo maestro ci ha provato, e guarda che triste, amareggiato vecchio è diventato. Non voglio che anche tu finisca così. Capisco che dopo la ricchezza e le cose che hai avuto, fare l'erborista sembra un'ambizione ben misera. Ma non lo è, Kylar. È enorme. Puoi fare tanto bene per il mondo diventando un buon padre e un buon marito, e un buon guaritore, più di quanto tu possa farne facendo il sicario. Credi che sia un caso che Dio ti abbia concesso il dono di guarire? Questa è economia divina. È disposto a coprire quel che abbiamo distrutto con nuove e splendide cose. Come noi. Chi avrebbe mai immaginato che tu e io avremmo potuto passeggiare per strada senza pericolo e riscoprire la gioia di stare insieme? Chi avrebbe mai immaginato che avremmo adottato Uly? Adesso ha una possibilità - pur essendo nata da un assassino e da una tenutaria di bordello. Solo Dio può fare questo, Kylar. So che ancora non credi in Lui, ma Lui sta già operando per noi. Ci sta offrendo questa opportunità, e non voglio perderla. Resta con me. Abbandona quella vita. Là non eri felice. Perché vorresti tornarci?»
«Ma io non voglio», rispose. Era vero solo a metà. Elene volò fra le sue braccia ma, anche mentre la stringeva a sé, sapeva di essere un ipocrita.
Capitolo 21 Nella calura del primo pomeriggio,
Kylar si fermò davanti a un negozio nel quartiere dei nobili. S'infilò in un vicolo e trenta secondi dopo pensò di aver assunto in modo credibile l'aspetto del barone Kirof. Avrebbe preferito una tunica di miglior fattura ma, dopo l'incendio, gliene era rimasta solo un'altra, ed era peggio di quella che indossava. Forse era possibile indossare abiti fittizi così come assumere sembianze illusorie, ma questo esulava dai giochi di destrezza di Kylar - immaginò di far svolazzare una tunica a ogni suo passo, ma decise subito che i suoi vestiti andavano bene così. Infilò la cassetta sotto il braccio ed entrò. Il negozio del Gran Mastro Haylin era un ampio locale squadrato e col soffitto basso. L'interno era ben illuminato e presentava un assortimento di merci più ricco di qualsiasi bottega di fabbro in cui Kylar avesse mai messo piede. File e file di armature allineate lungo le pareti, e altrettante rastrelliere collocate davanti. Era anche pulito e c'era pochissimo fumo - il Gran Mastro Haylin doveva aver escogitato un valido sistema di ventilazione, perché l'area di vendita e la fucina non erano separate. Kylar vide uno degli inservienti aiutare un nobile a scegliere il metallo che sarebbe diventato la sua spada. Un altro nobile osservava gli apprendisti battere l'acciaio per plasmare la sua corazza. I clienti venivano incanalati verso la fucina e fatti accomodare su speciali tappeti blu, in modo che non fossero d'intralcio ad apprendisti e operai. Era una trovata ingegnosa, e di certo valeva tanto oro quanto pesava. Tuttavia, Kylar non sapeva se quei nobili stessero pagando per ottenere grandi armi o armature o solo per fare quell'esperienza. Le rastrelliere di armi e le armature accanto all'ingresso non avevano niente di speciale. Senza dubbio erano opera di lavoranti e operai. Ma non era lì per le armi. Kylar guardò verso il retro del negozio e finalmente vide l'uomo che cercava. Il Gran Mastro Haylin era quasi calvo, con una frangia di capelli grigi intorno alla zucca bitorzoluta. Era magro e curvo e sembrava
miope, sebbene avesse le spalle e le braccia muscolose di un uomo molto più giovane. Il grembiule di cuoio era pieno di buchi e di macchie, e l'uomo era intento a guidare la mano di un apprendista, mostrando al ragazzo la corretta angolazione per colpire il metallo. Kylar puntò dritto verso di lui. «Prego? Salve, mio signore, come posso aiutarvi?», lo fermò un giovane sorridente. Troppo sorridente. «Devo parlare con il gran maestro», rispose Kylar, ma il senso di vuoto allo stomaco gli diceva che non sarebbe bastato attraversare il negozio per raggiungere Haylin. «Temo che sia impegnato, ma sarò lieto di aiutarvi io per qualsiasi cosa». La breve occhiata che il giovane lanciò alla tunica di Kylar gli fece capire che non lo considerava importante. Proprio quel che ci voleva per Kylar: un tipo pedante. Kylar guardò oltre la spalla del commesso e spalancò la bocca. Era un'espressione che non aveva mai provato con il volto del barone Kirof, ma dovette risultare convincente, perché il giovane si girò per vedere cosa fosse successo. Kylar diventò invisibile. Quando il commesso si voltò e si trovò davanti il nulla, Kylar si sentì come un discolo. «Ma cosa...?», cominciò il giovane. Si stropicciò gli occhi. «Ehi», disse a un collega dietro il bancone, «mi hai visto parlare con un tipo grasso con la barba rossa?». L'uomo dietro il bancone scosse la testa. «Hai di nuovo le visioni, Wood?». Scuotendo la testa, il commesso tornò al bancone imprecando sotto voce. Kylar, non visto, attraversò il negozio. Schivando apprendisti indaffarati, arrivò accanto al Gran Mastro Haylin. L'uomo stava esaminando una dozzina di spade realizzate dai suoi lavoranti, allineate su un tavolo in attesa della sua approvazione. «La terza non è stata forgiata come si deve», osservò Kylar, comparendo a fianco del fabbro. «C'è un difetto proprio sopra l'elsa. E quella accanto non è stata temprata a sufficienza».
Il Gran Mastro Haylin si girò e guardò i piedi di Kylar - due passi fuori dal tappeto blu, poi guardò la spada difettosa e la gettò dentro una cassa vuota. «Werner», disse a un giovane che stava inveendo contro un apprendista. «Questo è il terzo scarto in un mese. Un altro ancora e hai chiuso». Werner sbiancò in volto. Smise subito di insultare l'apprendista. «Riguardo a questo», disse il Gran Mastro Haylin a Kylar, accennando alla spada poco temprata. «Sapete cosa succede quando gettate diamanti ai polli?» «Carne bianca stopposa?» «Ventrigli preziosi. È uno spreco, figliolo. Questa è per un'ordinazione dell'esercito. Per duecentocinquanta sovrane a fronte di cento spade, qualche spadaccino di campagna può trascorrere più tempo con una cote. Voi v'intendete di spade, ma io ho molto da fare. Cosa volete?» «Cinque minuti. In privato. Non ve ne pentirete». Il gran maestro lo guardò perplesso, ma acconsentì. Condusse Kylar su per una rampa di scale, in una stanza apposita. Quando passarono accanto al giovane sorridente, questi farfugliò: «Voi non potete... non potete...». Il gran maestro gli lanciò un'occhiata torva, e il sorriso mellifluo del giovane si spense. «Non fateci caso», disse Haylin. «Questo è il mio quintogenito. Meglio evitarlo, eh?». Kylar non capì cosa volesse dire, ma annuì. «Io lo getterei nella cesta degli scarti». Haylin scoppiò a ridere. «Vorrei poter fare altrettanto con sua madre. La mia terza moglie è la risposta alle preghiere delle prime due». La stanza speciale veniva chiaramente usata il meno possibile. Un raffinato tavolo in legno di noce circondato da varie sedie occupava il centro del locale, ma la maggior parte dello spazio era occupato da bacheche. Spade di squisita fattura e costose armature riempivano la sala come un drappello d'onore. Kylar le esaminò da vicino. Diverse erano opera del gran maestro: capolavori a
dimostrazione della sua bravura, ma altre erano antiche, corrispondenti a diversi stili e periodi storici. Oggetti in mostra. Perfetti. «Mi avete già rubato tre minuti», disse Haylin guardandolo storto. «Sono un uomo dotato di speciali Talenti», replicò Kylar sedendosi di fronte all'armaiolo. Il gran maestro lo guardò di nuovo perplesso, inarcando un sopracciglio. Aveva delle sopracciglia incredibilmente espressive. Kylar si passò le dita fra i capelli rossi e li cambiò in biondo scuro. Si passò una mano sul viso e il naso si affinò e si allungò. Si strofinò la faccia come se dovesse lavarla e la barba scomparve lasciando il posto a due guance lievemente butterate e a due occhi penetranti. Naturalmente, era tutta scena. Non aveva bisogno di toccarsi il viso ma quell'uomo sembrava gradire lo spettacolo. La faccia del Gran Mastro Haylin assunse un pallore cadaverico e la bocca si spalancò lentamente. Sbatté rapidamente le palpebre e dalla bocca gli sfuggì un suono rauco. Si schiarì la gola. «Mastro Starfire? Gaelan Starfire?» «Voi mi conoscete?», chiese Kylar, scioccato. Gaelan Starfire era l'eroe di una dozzina di storie dei bardi. Ma il volto che Kylar aveva assunto era quello di Durzo Blint. «Io ero... ero solo un ragazzo quando siete venuto al negozio di mio padre. Avete detto... avete detto che sareste tornato molto dopo che avremmo perso la speranza di rivedervi. Oh, signore! Mio nonno ha detto che sarebbe accaduto all'epoca di mio padre o nella mia, ma non gli abbiamo mai creduto». Disorientato, Kylar cercò di mettere ordine fra le idee. Durzo era Gaelan Starfire? Naturalmente, Kylar sapeva che Durzo aveva risposto a nomi diversi per sette secoli. Ma Gaelan Starfire? Quel nome non era nemmeno fra quelli che Aristarchos aveva attribuito al suo maestro. Provò una fitta di angoscia. Un fabbro di Caernarvon ne era al corrente, e lui non l'aveva mai saputo. Quanto conosceva poco colui che lo aveva allevato, che era morto per lui. Quando Kylar l'aveva conosciuto, Durzo era diventato un uomo inesorabile. Come era
stato quando si chiamava Gaelan Starfire, cinquanta anni prima? Kylar sentì che sarebbe diventato amico di quell'armaiolo. «Abbiamo mantenuto il segreto, lo giuro», lo rassicurò il Gran Mastro Haylin. Kylar si sentì ancora più confuso. Quest'uomo, che era abbastanza avanti negli anni da essere suo nonno, famoso e stimato nel suo mestiere, stava trattando Kylar come... come se fosse un immortale, quasi un dio. «Cosa posso fare per voi, mio signore?» «Io non... io non...», balbettò Kylar. «Vi prego, non trattatemi con particolare riguardo per via di vostro nonno. Volevo solo che mi prendeste sul serio; non sforzatevi di ricordare. Io nemmeno mi ricordo di voi. Siete cambiato non poco». Fece un sorrisetto furbo per nascondere la bugia. «È voi non siete cambiato affatto», ribatté Haylin, ancora attonito. «Mmm, va bene», disse, alzando e abbassando nervosamente le sopracciglia mentre cercava di ricomporsi. «Mmm, bene. Cosa posso fare per voi?» «Voglio vendere una spada». Kylar sfilò Retribution da dietro la schiena e la posò sul tavolo. Haylin soppesò la grande spada nelle mani grosse e callose, poi si affrettò a metterla giù. Osservò l'elsa, incredulo. Ci passò le dita sopra, con gli occhi sgranati. «Non vi siete mai separato da questa spada, vero?», disse. Kylar si strinse nelle spalle. Certo che no. Ancora con l'espressione di chi non è del tutto certo di non stare sognando, il gran maestro sputò sul palmo della mano e afferrò di nuovo la spada. «Voi cosa...». Una goccia di umidità trasudò dall'elsa e cadde sul tavolo. Il Gran Mastro Haylin lasciò la spada e aprì il palmo della mano. Era completamente asciutto. Lanciò un grido soffocato, ma non riuscì a staccare gli occhi dall'arma. Si chinò in avanti finché il naso fu quasi a contatto con la lama. La rigirò per guardarla di taglio. «Per gli dèi», disse. «È autentica». «Come?», chiese Kylar.
«Le matrici di carbone. Sono perfette. Scommetterei il mio braccio destro che ognuna di loro ha quattro legami, non è così? La lama è un diamante perfetto, mio signore. Talmente sottile che riesci a stento a vederlo, ma è impossibile spezzarlo. La maggior parte dei diamanti possono essere tagliati con un altro diamante, perché non sono mai perfetti, ma se non ci sono difetti da nessuna parte... Questa lama è indistruttibile, e non solo la lama, anche l'elsa. Ma mio signore, se questa è... Pensavo che la vostra spada fosse nera». Kylar toccò la lama e lasciò che il ka'kari defluisse dalla propria pelle a rivestire il metallo. La parola MISERICORDIA incisa nella lama fu coperta da GIUSTIZIA in ka'kari nero. Il Gran Mastro Haylin parve addolorato. «Oh mio signore... Mio nonno ce lo aveva detto... io non avevo mai capito. Mi sento come cieco, eppure sono quasi contento della mia cecità». «Di cosa state parlando?» «Io non possiedo il Talento, lord Starfire. Non posso capire quanto sia straordinaria questa lama. Mio nonno ci riuscì, e disse che lo perseguitò per il resto dei suoi giorni. Lui sapeva quale Talento era entrato in questa lama, riusciva a vederlo, ma non riuscì mai a eguagliarlo. Disse di aver fatto in modo che il lavoro delle sue mani sembrasse di scarso valore - e lui era famoso per la sua arte. Ma non ho mai pensato che avrei visto Retribution con i miei occhi. Mio signore, non potete venderla». «Be', non la scuriamo», replicò Kylar scherzosamente, risucchiando il ka'kari nella sua mano. «Se questo può far calare un po' il prezzo». «Mio signore, non capite. Anche se io potessi darvi l'equi valente del suo valore - anche se io potessi in qualche modo attribuirle un valore - non potrei mai, vale più di quanto potrei guadagnare in tutta la mia vita. Anche se la comprassi, non riuscirei mai a venderla; è troppo preziosa. Forse uno o due collezionisti in tutto il mondo avrebbero il denaro e la perizia per acquistare una spada del genere. E anche in quel caso, mio signore, questa non è una spada da mettere in mostra: la deve impugnare la mano di un eroe. Il suo posto è stretta fra le vostre dita. Guardate, un'elsa che non vi sfuggirà di mano nemmeno se è sudata o insanguinata. L'umidità
scivola semplicemente via. Non è solo magnifica, è funzionale. Non è un oggetto da mettere in mostra. È arte. Arte favolosa. Come voi». Alzò le mani e si appoggiò stancamente allo schienale della sedia, come se la sola vista di Retribution l'avesse sfinito. «Per quanto mio nonno avesse detto che l'iscrizione era in irillico... oh cielo». La scritta MISERICORDIA sulla lama si trasformò davanti ai loro occhi in una lingua che Kylar non conosceva. Era sbalordito. Non era mai accaduto prima d'allora. Un serpente si contorse nel suo stomaco e soffocò le sue viscere, un serpente che simboleggiava la perdita di qualcosa di cui non aveva mai calcolato il valore. Era la stessa sensazione che provava quando pensava al suo defunto maestro, un uomo di cui aveva a stento conosciuto la magnificenza. «Tuttavia», disse con un nodo in gola. «Devo venderla». Se la teneva, avrebbe ucciso ancora. Non aveva dubbi in merito. Nella sua mano, diventava impietosa giustizia. Doveva venderla, se voleva essere leale verso Elene. Fin quando restava aggrappato a quella spada, lo sarebbe stato anche alla sua vecchia vita. «Mio signore, vi serve del denaro? Vi darò tutto quel che volete». La parte più meschina di Kylar valutò la proposta. Di certo quest'uomo poteva privarsi di più denaro di quanto ne servisse a Kylar. «No, ho bisogno di venderla. C'è... c'è di mezzo una donna». «Volete vendere un artefatto che vale un intero regno per poter stare insieme a una donna? Voi siete immortale! Anche il matrimonio più lungo non durerà che una piccola frazione della vostra vita!». Kylar fece una smorfia. «Avete ragione». «Non volete solo vendere la spada, vero? Volete abbandonare la via della spada». Con gli occhi fissi sulla superficie del tavolo, Kylar annuì. «Deve essere una donna eccezionale». «Lo è», confermò Kylar. «Quanto potete darmi in cambio?» «Dipende dalla fretta che avete».
Kylar non sapeva quanto sarebbe durato il suo coraggio. Sapeva che quel che stava per dire gli sarebbe probabilmente costato migliaia di monete, ma perdere Elene gli sarebbe costato di più. A ogni modo, per lui non era mai stata importante la ricchezza. «Tutto quel che riuscite a mettere insieme prima che io me ne vada». «Prima che lasciate la città?» «Prima che io esca dal negozio». Kylar deglutì a fatica, ma quel dannato groppo non voleva andare giù. Il gran maestro aprì la bocca per protestare, ma vide chiaramente che Kylar aveva preso la sua decisione. «Trentunomila sovrane», disse. «Forse qualche centinaio in più, dipende dalle vendite della giornata. Seimila in oro, il resto in pagherò cambiari riscattabili presso un qualsiasi cambiavalute, anche se per quella somma dovrete rivolgervi alla metà dei banchi della città. Se volete cambiare l'intero valore dovete andare direttamente al Gigante Blu». Sentendo l'ammontare della somma, Kylar strabuzzò gli occhi. Sarebbe stata sufficiente ad acquistare una casa, risarcire Zia Mea, aprire un negozio con un'immensa scorta di merci, comprare un intero guardaroba per Elene e mettere persino qualcosa da parte, oltre ad acquistare i più begli anelli di nozze sul mercato. E quell'uomo sosteneva che non si avvicinava nemmeno al valore reale?
Un buon prezzo per la tua primogenitura, eh! Il pensiero quasi mozzò il respiro a Kylar. Si alzò di scatto in piedi. «Affare fatto», disse. Si avviò verso la porta e afferrò la maniglia. «Ehm... mio signore», lo richiamò il Gran Mastro Haylin, accennando al volto. «Ah». Kylar si concentrò e i lineamenti si arrotondarono, i capelli tornarono rossi. Nel giro di cinque minuti, il giovane sorridente, e ancora scioccato, aveva aiutato a riempire una cassetta di sovrane - ognuna del valore di venti corone - e osservava suo padre posarvi sopra un grosso rotolo di pagherò cambiari. 31.400 corone in totale. La cassetta non era grande, ma pesava quanto due uomini. Il gran maestro si offrì di procurargli un cavallo, ma Kylar gli chiese invece
di fissare due ampie cinghie di cuoio alla cassetta. Lavoranti e apprendisti si fermarono a seguire la scena, ma Kylar non ci badò. Con un sorriso compiaciuto, Haylin fissò le cinghie di persona. «Mio signore», disse Haylin, completando il lavoro. «Se un giorno la rivorrete indietro, è qui». «Forse. All'epoca dei vostri nipoti». Il gran maestro rispose con un ampio sorriso. Kylar sapeva che non avrebbe dovuto dirlo ad alta voce. Non avrebbe dovuto rifiutare il cavallo. Pazienza. In qualche modo, era felice di parlare con un uomo che sapeva qualcosa di lui e che non era spaventato o disgustato - anche se pensava che fosse in realtà il suo maestro. Tutto sommato, Kylar era più simile a Gaelan Starfire di quanto lo fosse mai stato Durzo Blint. Era così bello essere conosciuto e accettato, che non badò al fatto che fosse rischioso. Con un'ondata di Talento, Kylar issò la cassetta sulla schiena. La fucina si riempì di espressioni di sorpresa. In verità era troppo pesante anche con l'ausilio del Talento. Kylar salutò il gran maestro con un cenno del capo e uscì dal negozio. «Ma chi diavolo era?», sentì domandare dal giovane sorridente. «Un giorno, quando sarai pronto, forse te lo dirò», fu la risposta del gran maestro.
Capitolo 22 «Salve», disse Kylar a Capricia quando tornò al negozio di anelli. «Salve», rispose la ragazza, sorpresa. Era sola e stava chiudendo il negozio. «L'idiota è tornato». Storse la bocca. «Mi spiace per... prima». «Come?», disse. «No, non c'è niente di cui scusarsi. Capisco che può sembrare strano se non siete di qui. Agli uomini non piace l'idea - sebbene anche le donne debbano bucarsi le orecchie, e non si lamentano mai». Si strinse nelle spalle. «Bene, allora...», cominciò Kylar, ma si rese conto che in realtà non aveva niente da dire. Cosa avevano i gioielli per farlo sentire così inadeguato? «Bene», concluse in modo poco convincente. «Sinceramente», riprese la ragazza, «la maggior parte degli uomini quasi non si accorge del dolore. Cioè, le spose si assicurano prima che siano distratti. Tecnicamente, il matrimonio va consumato solo dopo l'inchiodatura, ma in quasi tutti i casi è solo un dettaglio». Kylar tossì. Non ci aveva pensato. «Ah, ricordate quali le erano piaciuti?», le chiese Kylar. «Certamente», rispose Capricia, ridendo. «Temo che siano proprio quelli che serbano meglio l'incantesimo», aggiunse con uno scintillio negli occhi. Kylar arrossì. «Ho la sfortuna di avere una moglie dotata di un eccellente senso estetico». «Si riflette anche nelle altre sue scelte», replicò Capricia rivolgendogli il suo largo sorriso. Pur non sapendo quali ripercussioni avrebbe avuto lo scontro con lo Shinga, Kylar era contento di averla salvata. Capricia tirò fuori il cassetto e lo sistemò davanti al cliente. D'un tratto si accigliò e afferrò un paio di orecchini posati sul velluto. «Solo un secondo», disse. S'inginocchiò dietro il bancone e li ripose altrove, poi riemerse. «Credo che fosse uno di questi», disse,
indicandone alcuni nella fila superiore di gioielli di oro lavorato e intrecciato a mithril. «Quanto vengono questi?», le chiese. «Duemila e quattrocento, duemila e ottocento e trentaduemila». Kylar fischiò suo malgrado. «Ne abbiamo altri simili come stile in oro bianco e giallo, più economici», precisò Capricia. «Il mithril aumenta il prezzo in maniera esorbitante». La spada di Jorsin Alkestes era di mithril con l'anima di oro temprato, diceva Durzo. Ci voleva una fornace particolare per fondere il mithril, perché bisognava raggiungere una temperatura tre volte superiore a quella richiesta per fondere l'acciaio. Una volta raggiunta, la conservava per ore, a differenza di altri metalli che dovevano essere scaldati più volte. La lavorazione del mithril era la gioia e il terrore di ogni fabbro, perché dopo averlo scaldato bisognava forgiarlo entro poche ore, altrimenti non si sarebbe mai più fuso. Avevano un'unica possibilità di completare il lavoro. Solo un fabbro dotato di grande Talento poteva cimentarsi in un lavoro su larga scala col mithril. «Tutti portano anelli di mithril puro?», domandò mentre passava in rassegna i gioielli. Avrebbe potuto giurare che gli occhi di Elene si erano illuminati scorrendo gli anelli di quella fila. Qual era quello che le piaceva? Capricia scosse la testa. «"Anche se poteste permettervelo, non lo vorreste", dice Mastro Bourary. Dice che alcuni degli incantesimi più semplici si conservano meglio nell'oro. Persino gli anelli più antichi combinano insieme i due metalli. Lui ne ha un paio fabbricati da un suo bis-bis-bis-bisavolo che sembrano di puro mithril, ma in realtà hanno l'anima di oro e diamante. È davvero sorprendente. Ha bordato il mithril con minuscoli fori, così, se c'è buona luce, si possono vedere l'oro e i diamanti scintillare all'interno». Kylar cominciava quasi a credere al discorso sugli incantesimi. O Mastro Bourary era un autentico mago, oppure un vero mago gli aveva insegnato a parlare di magia.
Gli sembrava ancora una follia stare lì a guardare anelli che costavano due o tremila pezzi d'oro. Avrebbe dovuto chiedere informazioni sugli anelli al Gran Mastro Haylin quel pomeriggio. Gli avrebbe saputo dire se quelle storie erano autentiche. Ma Kylar si sentiva il cuore leggero. Aveva già venduto la sua primogenitura. Si era compromesso. Adesso era solo questione di individuare l'anello perfetto per la donna che amava, la donna che gli stava impedendo di diventare quell'amaro relitto che era diventato Durzo Blint. In realtà, non era importante la magia contenuta negli anelli. L'importante era far capire a Elene quanto fosse preziosa per lui. «Giurerei che ce ne fosse un paio in questo cassetto», disse a Capricia. «Mi fate vedere quelli che avete messo via?» «Quelli erano soltanto modelli da esposizione - be', non proprio. Dieci anni fa la regina s'infuriò con un mercante di gemme che non le volle vendere alcuni gioielli e così mise al bando i modelli da esposizione. Questo non è tecnicamente un modello del genere, ma non è nemmeno in vendita. Abbiamo altri cassetti; potrebbe essere in uno di questi». «Mostratemi quelli che vi ho chiesto», insistette Kylar. Di colpo diventò scettico. Cos'era, una tattica di vendita? L'aveva già vista mettere in pratica: una graziosa ragazza dice a un tipo: «Ecco, questi sono davvero carini», mentre mette da parte qualcosa di ridicolmente costoso e tira fuori qualcosa di economico, così l'uomo dice subito: «E quelli?», per dare prova della sua virilità. Ma Capricia non gli dava quell'impressione; sembrava sincera. Tirò fuori gli anelli e li mise sul bancone. Alla prima occhiata, vide le scorte di merci del futuro negozio ridursi significativamente. «Sono questi», dichiarò. Il disegno era semplice ed elegante: una mezza spirale di metallo argentato che sprigionò scintille dorate quando Kylar sollevò l'anello più grande alla luce. Capricia ansimò e alzò una mano come se temesse che potesse romperlo. Kylar avvicinò l'orecchino al lobo sinistro e si guardò in uno specchio del negozio. Sembrava un po' effeminato, ma a quanto pareva nessuno fra le migliaia di uomini della città si preoccupava di dare quell'impressione.
«Mmm», mormorò. Spostò l'anello più in alto, lungo il padiglione. Così era un po' più virile. «Qual è il punto più doloroso in cui una donna può infilzare un uomo?» «Proprio qui», disse, sporgendosi in avanti e indicandolo, ma Kylar non riuscì a vederlo nello specchio. Si spostò e il dito di Capricia gli sfiorò l'orecchio. «Oh!», esclamò la ragazza. «Mi dispiace, non intendevo toccarvi...». «Come?». Poi si ricordò. «Oh, no, è colpa mia. Dico sul serio, là da dove sono venuto le orecchie non sono un gran problema. Avete detto qui? Così va oltre la parte superiore?». Controllò nello specchio. Sì, decisamente più virile, e avrebbe fatto un male cane. Per qualche ragione, questo lo fece star meglio. Prese l'anello più piccolo e - stando attento a non sfiorarla - lo accostò all'orecchio di Capricia. Era magnifico. «Prendo questi», concluse. «Sono davvero spiacente», disse la ragazza. «Non abbiamo niente del genere in vendita, ma Mastro Bourary potrà realizzarne un paio quasi identici». «Avete detto che non sono modelli da esposizione», rimarcò Kylar. «Non tecnicamente. Dopo che la regina ha stabilito la legge - be', è tutto in vendita. Solo che fissano dei prezzi assurdi sugli articoli che non vogliono vendere». «E questi ne fanno parte?», domandò Kylar. Adesso anche la futura casa si stava restringendo. «In realtà questi sono gli anelli di cui vi ho parlato prima. Quelli fabbricati dal bis-bis-bis-bisavolo di Mastro Bourary, mithril con oro e diamanti». Accennò un sorriso. «Mi spiace. Non intendevo mettervi in imbarazzo. Non dovevano nemmeno trovarsi in questo cassetto». «Quale sarebbe il prezzo assurdo in questo caso?», volle sapere Kylar. «Assurdo». «Quanto assurdo?»
«Completamente assurdo», disse, tirandosi indietro. Kylar sospirò. «Ditemi quanto». «31.400 sovrane. Mi spiace». Kylar incassò la notizia come un pugno nello stomaco. Era una coincidenza, naturalmente, ma... Elene l'avrebbe definita economia divina. Aveva venduto Retribution al prezzo che gli sarebbe costato sposare lei. E non rimaneva nulla? Elene, se questo è l'economia del tuo Dio,
allora tu servi un Dio spilorcio. Non mi rimane nemmeno qualcosa per comprare un coltello di nozze.
«Per venirvi incontro», disse Capricia soffocando una risatina, «potremmo aggiungere un coltello di nozze in omaggio». Un blocco di ghiaccio scese nello stomaco di Kylar. «Scusate», disse, fraintendendo l'espressione ferita sul volto del cliente. «Abbiamo dei graziosi...». «Vi pagano una commissione sulle vendite?», le chiese. «Un decimo di tutto quel che supera il migliaio nelle vendite di un giorno», rispose. «Quindi, se vendete questi anelli, cosa fareste con... quante?... più di tremila sovrane?» «Non lo so... perché siete...». «Cosa fareste?». La ragazza si strinse nelle spalle e aprì la bocca per rispondere, esitò, e finalmente disse: «Trasferirei la mia famiglia. Abitiamo in un quartiere un po' difficile e abbiamo sempre problemi con... oh, che importa? Credetemi, ci ho sognato sopra da quando ho iniziato a lavorare qui. Pensavo a vendere questi anelli e a come tutto sarebbe cambiato per noi. Pregavo ogni giorno per questo, ma mia madre dice che siamo abbastanza al sicuro. A ogni modo, Dio non esaudisce preghiere così avide». Kylar provò una sensazione di freddo. Si sarebbero allontanati dalle grinfie di quell'arrogante, vendicativo Shinga. Non avrebbe dovuto uccidere nessuno per salvarli.
«No», disse Kylar, infilandosi gli orecchini di mithril e afferrando un coltello di nozze. «È così che esaudisce le preghiere». Sollevò la cassetta sul bancone e la aprì. Capricia rimase a bocca aperta. Le tremavano le mani mentre sfogliava un pagherò dopo l'altro. Guardò Kylar con gli occhi colmi di lacrime. «Dite ai vostri genitori che l'angelo custode vi ha ordinato di trasferirvi. Non la prossima settimana. Non domani. Stasera. Quando vi ho salvata, ho messo in difficoltà lo Shinga. Ha giurato di vendicarsi». La ragazza spalancò gli occhi, ma annuì impercettibilmente. Sollevò la mano come fosse un automa. «Confezione regalo?», domandò con voce strozzata. «Compresa nel prezzo». Kylar le sfilò la scatola di mano e uscì dal negozio, chiudendosi la porta alle spalle. Ripose gli orecchini nella scatola decorata e la lasciò cadere dentro una tasca, sentendosi di colpo povero e indigente. Aveva venduto la sua primogenitura. Aveva dato via una delle ultime cose che gli ricordavano Durzo. Aveva barattato una spada magica con due cerchi di metallo. E adesso non aveva nemmeno un nichelino di rame. 31.400 sovrane, e non gli era rimasto nemmeno qualcosa per comprare un regalo di compleanno a Uly.
Io e te abbiamo chiuso, Dio. D'ora in poi, esaudisci da solo le tue fottute preghiere.
Capitolo 23 «Va tutto bene fra te ed Elene?», domandò Uly. Quella sera stavano lavorando insieme. Uly andava a prendere gli ingredienti mentre Kylar preparava una pozione per far calare la febbre. «Ma certo. Perché?» «Zia Mea dice che è bene se litigate molto. Dice che se mi fa paura devo ascoltare, e se sento il letto cigolare quando avete finito di azzuffarvi, saprò che le cose si sono sistemate. Dice che vuol dire che avete fatto la pace. Ma io non sento mai il letto cigolare». Le guance di Kylar si imporporarono. «Io, be', io credo... Senti, è una domanda che dovresti fare a Elene». «Mi ha detto di chiederlo a te, e anche lei è diventata tutta rossa per l'imbarazzo». «Io non sono imbarazzato!», esclamò Kylar. «Passami le bacche di biancospino». «Zia Mea dice che è sbagliato dire le bugie. Ho visto dei cavalli che si accoppiavano al castello, ma Zia Mea dice che non è così spaventoso». «No», disse Kylar con calma, schiacciando le bacche con un pestello, «è spaventoso a modo suo». «Come?», chiese Uly. «Uly, sei troppo piccola per affrontare questo argomento di conversazione. Radice di achillea». «Zia Mea mi ha detto che potevi rispondermi così. Ha detto che ne avrebbe parlato con me se voi eravate troppo in imbarazzo. Mi ha fatto solo promettere di chiederlo prima a voi». Uly gli passò la bruna radice nodosa. «Zia Mea», commentò Kylar, «pensa troppo al sesso». «Ehm», disse una voce dietro le spalle di Kylar. Trasalì.
«Vado a vedere come sta la signora Vatsen», li informò Zia Mea. «Vi serve qualcosa?» «Mmm, be', no», farfugliò Kylar. Di certo non avrebbe avuto quell'espressione dolce sul viso se avesse sentito il suo ultimo commento. «Kylar, ti senti bene?», gli chiese, posandogli una mano sulla guancia bollente. «Hai uno strano rossore sul viso». Frugò in mezzo agli scaffali appena riordinati - sembrava metterci più tempo adesso di quando erano nel caos - e ripose alcune cose nel suo cesto. Quando passò accanto a Kylar, chino sulla pozione come se l'infuso avesse monopolizzato la sua concentrazione, gli diede un pizzicotto su una natica. Il giovane saltò su fin quasi a toccare il soffitto, soffocando un grido di stupore. Uly gli lanciò un'occhiata beffarda. «Hai ragione», disse Zia Mea sulla soglia della porta. «Ma non farti strane idee. Sono troppo vecchia per te». Una nuova vampata di calore accese le guance di Kylar, suscitando l'ilarità della zia. La sua risata continuò a riecheggiare mentre si allontanava lungo la via. «Stupida vecchia balorda», borbottò Kylar. «Semi di noranton». Uly gli porse la boccetta di semi piatti e violacei, torcendo le labbra in una smorfia. «Kylar, se le cose con Elene non funzionano, sposerai me?». L'intera boccetta gli cadde dentro la mistura. «COSA?» «Ho chiesto a Elene quanti anni hai, e lei mi ha detto venti. E Zia Mea mi ha detto che suo marito aveva nove anni più di lei, più di quelli che ci sono fra te e me. E io ti amo e tu mi ami, e tu ed Elene litigate sempre mentre io e te non litighiamo mai...». In un primo momento Kylar si sentì mortificato. Lui ed Elene non litigavano da più di una settimana. Poi si rese conto che Uly aveva passato le ultime notti presso la casa di una sua nuova amica probabilmente perché era turbata dalle loro continue discussioni. Adesso Uly lo stava fissando con uno sguardo ardente e spaventato,
in attesa di una risposta che avrebbe potuto spezzarle il cuore. In particolare, il primo pensiero che gli era balenato in testa - io non ti amo in quel modo - non sarebbe stata una buona scelta.
Come sono finito in questo casino? Devo essere il primo padre in tutto il Midcyru a spiegare il sesso a sua figlia pur essendo io stesso ancora vergine. Cosa avrebbe dovuto dire? "In realtà non sono ancora sposato con Elene, così quando litighiamo non possiamo fare la pace nel modo che vorrei. Anzi, se potessimo fare la pace nel modo che vorrei, probabilmente non litigheremmo affatto"? Kylar non vedeva l'ora di sposare ufficialmente Elene. Così si sarebbero lasciati dietro le spalle tutti i conflitti in materia di sesso. Che sollievo! Nel frattempo, Uly continuava a fissarlo, in attesa, con gli occhi spalancati, esitante. Oh no, le tremavano le labbra. L'apertura della porta lo salvò appena in tempo. Un uomo elegantemente vestito fece il suo ingresso nel negozio; sulla parte anteriore della tunica era ricamato lo stemma di un nobile casato. Il cliente era alto e magro, con un viso tirato che lo faceva assomigliare a un roditore. «È questo il negozio di Zia Mea?», chiese. «Sì», rispose Kylar. «Ma temo che Zia Mea sia appena uscita». «Oh, non importa», disse l'uomo. «Voi siete il suo assistente, Kyle?» «Kylar». «Ah, sì. Siete più giovane di quanto pensassi. Sono venuto qui perché ho bisogno del vostro aiuto». «Mio?» «Siete voi l'uomo che ha salvato lord Aevan, no? Non fa che raccontare a tutti che con una semplice pozione siete riuscito là dove hanno fallito dodici dottori dopo mesi di cure. Sono il primo maggiordomo del gran lord Garazul. Il mio signore ha la gotta». Kylar passò in rassegna le bottiglie allineate lungo le pareti, massaggiandosi il mento. «Posso tornare più tardi, se volete».
«No, ci vorrà solo un minuto», disse Kylar. Iniziò a scegliere bottiglie e a dare istruzioni a Uly. La bambina era un'aiutante ideale, efficiente e silenziosa. In breve Kylar aveva approntato quattro ciotole di misture, due a caldo e due a freddo. Nel giro di altri due minuti, aveva ultimato il lavoro. Il maggiordomo sembrava completamente affascinato da quel che aveva appena visto. La sua reazione portò Kylar a pensare che il Gran Mastro Haylin aveva adottato un'ottima tattica nel mostrare ai clienti il processo di creazione. In quel momento decise che, se mai avesse avuto un grande negozio, l'avrebbe organizzato nello stesso modo - offrendo alla clientela lo spettacolo della preparazione delle pozioni. Si prospettava come un piccolo sogno stranamente appagante. «Ecco cosa dovete fare», iniziò a spiegare Kylar. «Dategli due cucchiai colmi di questa ogni quattro ore. Presumo che il vostro signore sia grasso. Esce di rado? Ama bersi qualche bicchiere?». Il maggiordomo rispose: «Sì, è un po' in sovra... be', sì, grasso come un leviatano, in effetti. E beve anche come uno di loro». «La pozione lenirà il dolore al piede e alle giunture. Aiuterà un po' anche la gotta, ma finché rimane sovrappeso e beve molto vino, non migliorerà. Dovrà ricorrere a questa pozione ogni volta che avrà una crisi acuta di gotta, per il resto della sua vita. Ditegli che se vuole eliminare la gotta, deve smettere di bere. Se non lo farà, e scommetto che sarà questo il caso, cominciate a mettergli due gocce di questa...», Kylar gli porse la seconda boccetta, «in ogni bicchiere del suo vino. Gli procurerà una terribile emicrania. Assicuratevi di farlo ogni volta che beve del vino. Nel frattempo, potete somministrargli questa ogni mattina e sera, per lo stomaco delicato. E dategli meno da mangiare. Con un po' di questa a ogni pasto, si sentirà subito pieno». «Come fate a sapere che ha lo stomaco delicato?». Kylar sorrise misteriosamente. «E interrompete qualsiasi cura gli abbiano ordinato i medici, soprattutto salassi e sanguisughe. Dovrebbe tornare un uomo nuovo nell'arco di sei settimane, se gli fate perdere peso». «Quanto?», domandò il maggiordomo.
«Dipende da quanto è grasso», rispose Kylar. Il maggiordomo scoppiò a ridere. «No, quanto vi devo?». Kylar ci pensò su. Fece un calcolo approssimativo del costo degli ingredienti e lo raddoppiò. Poi lo comunicò al cliente. L'uomo col volto da roditore lo guardò, stupito. «Posso darvi un consiglio, giovanotto? Dovreste aprire un negozio nell'area nord della città perché, se questa cura funziona, saranno molti i nobili che verranno a cercarla. E un'altra cosa: se questo può aiutarvi, dovreste raddoppiare il prezzo. Se funziona realmente come dite, dovreste chiedere dieci volte tanto - altrimenti i nobili non vi daranno credito». Kylar sorrise, entusiasta di sentire qualcuno rivolgersi a lui come se sapesse il fatto suo - ed era così, infatti. «Bene, allora mi dovete dieci volte quel che vi ho chiesto prima». Il maggiordomo rise di nuovo. «Se la salute di lord Garazul migliora, vi darò anche di più. Intanto vi lascio tutto quel che ho portato con me». Lanciò a Kylar due monete nuove d'argento. «Buona giornata, giovane maestro». Osservando l'uomo che usciva dal negozio, Kylar fu sorpreso di quanto gli avesse fatto bene questo incontro. Forse era meglio guarire che uccidere. O forse era semplicemente piacevole sentirsi apprezzato. Come aveva fatto Durzo? Si era calato nei panni di una dozzina di eroi diversi nel corso dei secoli - forse dozzine di eroi diversi. Non aveva mai avuto il desiderio di annunciare semplicemente se stesso? Dire a tutti chi era, e incutere in loro il dovuto timore e rispetto? Eccomi qui, adoratemi. Ma Durzo non si era mai comportato in quel modo. Kylar era cresciuto con lui e non aveva mai avuto nemmeno un vago sentore che il suo maestro fosse l'Angelo della Notte, tanto meno delle altre identità che aveva assunto. Come mai? Durzo era parso arrogante in alcuni momenti della sua vita. Di certo aveva mostrato grande disprezzo per la maggior parte dei sicari e dei membri del Sa'kagé, ma non si era mai identificato nei grandi eroi della storia.
Kylar provò un'altra fitta di doloroso rammarico. Per gli dèi, Durzo era morto da tre mesi - e nonostante il passare del tempo, lui non aveva ancora colmato quel senso di perdita. Tastò la piccola scatola nascosta nella tasca. È morto perché io potessi avere Elene. Tentò di scacciare il pensiero di Durzo dalla mente. Lasciamo passare il compleanno di Uly, e poi chiederò a
Elene di sposarmi. E dopo Uly sentirà il letto cigolare al di là di ogni immaginazione. «Kylar», lo chiamò Uly, riscuotendolo dalle sue fantasie a occhi aperti. «Hai intenzione di rispondere alla mia domanda?».
Ah, merda. «Uly», cominciò dolcemente. «So che non ti senti così, e di certo sei sveglia come una più grande della tua età, ma sei ancora una...». Aggrottò la fronte, sapendo che l'ultima parte non sarebbe stata accolta con favore. «Sei ancora una bambina». Era vero, maledizione. «No, non lo sono». «Sì che lo sei». «Ho avuto il mio primo ciclo proprio questa settimana. Zia Mea dice che vuol dire che ormai sono una donna. È doloroso e all'inizio mi ha spaventata. Mi faceva male la pancia e la schiena e poi...». «Ah!». Kylar agitò le mani, cercando di farla smettere, «Cosa c'è? Zia Mea dice che non c'è niente di cui vergognarsi». «Zia Mea non è tuo padre!». «E chi lo è?», ribatté Uly, rapida come una frustata. Kylar non rispose. «E chi è mia madre? Tu lo sai, vero? Le mie balie mi hanno sempre trattata diversamente dagli altri bambini. L'ultima andava nel panico ogni volta che mi facevo male. Una volta mi sono fatta un taglio sulla guancia, e lei era talmente spaventata all'idea che potesse restarmi la cicatrice che non ha dormito per settimane. A volte una signora ci guardava giocare nei giardini, ma indossava sempre un mantello col cappuccio. Era lei mia madre?».
Kylar annuì in silenzio. Era proprio quel che avrebbe fatto Momma K: tenersi in disparte per l'incolumità della piccola, finché fosse riuscita a sopportarlo. Poi, ogni tanto, abbassare le difese. «È una donna importante?», volle sapere Uly. Il desiderio di ogni orfano. Kylar la capiva. Annuì di nuovo. «Perché mi ha lasciata?». Kylar espirò con forza. «Ti meriti una risposta, Uly, ma non posso dartela. È uno dei segreti di cui sono a conoscenza ma che non mi appartengono. Ti prometto che te lo dirò appena potrò». «Volete lasciarmi? Se vi sposate, potrei venire con voi». Se c'era qualcuno che considerava i bambini incapaci di soffrire con la stessa intensità di un adulto, avrebbe dovuto guardare adesso Uly negli occhi, pensò Kylar. Per quanto l'amasse, continuava a trattarla come una bambina più che come un essere umano. La breve vita di Uly era una storia di abbandono: prima il padre, poi la madre, poi una balia dopo l'altra. Voleva finalmente qualcosa di stabile nella sua esistenza. La strinse forte a sé. «Non ti abbandoneremo», le promise. «Mai. Mai».
Capitolo 24 Vi entrò a Caernarvon al tramonto del sole. Durante le settimane di viaggio, aveva messo a punto la sua strategia. Di certo Kylar doveva aver attirato l'attenzione del Sa'kagé locale. Se era anche solo minimamente simile a Hu Gibbet, non avrebbe resistito a lungo senza uccidere. Se aveva trovato qualche lavoro, lo Shinga l'avrebbe saputo. Un sicario esperto come lui non sarebbe passato inosservato. D'altra parte, se Kylar non avesse intrapreso alcun lavoro, c'erano ancora buone possibilità che agli occhi e alle orecchie del Sa'kagé fosse arrivata notizia del suo arrivo a Caernarvon. Vi aveva sentito ben scarsi elogi a favore del Sa'kagé di Caernarvon, e se Kylar era realmente intenzionato a tenersi nascosto, non lo avrebbe mai trovato; però, erano già passati tre mesi. I criminali tornano sempre ai loro crimini, persino se hanno un sacco di soldi, se non altro perché non sanno cos'altro fare di se stessi. Cos'era un sicario se non uccideva? I negozi erano tutti chiusi. Le famiglie per bene si erano ritirate in casa, e le taverne e i bordelli stavano appena cominciando a ingranare quando Vi si addentrò nel settore sud della città. Indossava pantaloni bianchi da cavallerizza in pelle di cervo e una larga tunica di cotone da uomo. I capelli rossi erano fermati in una semplice coda di cavallo. A Cenaria era appena cominciata la stagione delle piogge, ma qui l'estate esitava ad andarsene e Vi era sempre stata dell'idea di viaggiare comoda, al diavolo la moda. Si preoccupava della moda solo quando era necessaria. Tuttavia, dopo due settimane passate in sella, non le sarebbe dispiaciuto un bel bagno caldo. Percorse la quarta strada malfamata di fila, domandandosi come mai non l'avessero ancora rapinata. Aveva nascosto tutte le armi per apparire totalmente vulnerabile. Cos'era che non andava in questa gente? Venti minuti dopo, qualcuno finalmente si materializzò dal buio.
«Bella serata, non è vero?», esordì l'uomo. Era trasandato, sporco, ubriaco. Perfetto. Stringeva un manganello in una mano e un otre nell'altra. «Avete intenzione di derubarmi?», gli chiese Vi. Una mezza dozzina di adolescenti venne fuori dall'ombra e la circondò. «Be', io...». L'uomo sorrise, esibendo due incisivi anneriti. «Questa è una strada a pedaggio e voi dovrete...». «Se non avete intenzione di derubarmi, levatevi dai piedi. O siete totalmente idiota?». Il sorrise svanì. «Bene, allora», disse alla fine. «Vi sto rapinando, ecco. Tom Gray non si leva dai piedi di nessuna puttana». Poi si spaccò quasi la testa mentre cercava di bere una sorsata dal randello invece che dall'otre. I ragazzi scoppiarono a ridere, ma uno fu pronto ad afferrare le redini della giumenta nera di Vi. «Ho bisogno di parlare con lo Shinga», disse loro. «Potete portarmi da lui, oppure devo trovare qualcun altro che voglia derubarmi?» «Non andrete da nessuna parte finché non mi avrete dato tredici...». Uno dei ragazzi tossì. «...ehm, quattordici pezzi d'argento». Il suo sguardo scivolò sui seni di Vi, e aggiunse: «E magari qualche altra cosettina». «Che ne dite di portarmi dallo Shinga, e io in cambio lascerò intatta la vostra patetica virilità?», ribatté Vi. Il volto di Tom s'incupì. Lanciò l'otre a uno dei ragazzi e avanzò verso Vi, sollevando il randello. La afferrò per una manica e la tirò giù da cavallo. Assecondando lo slancio dello strattone, Vi saltò giù di sella sferrando un calcio in faccia all'assalitore e atterrando agilmente su due piedi, mentre Tom finiva a gambe all'aria sul selciato. «Qualcun altro di voi può accompagnarmi dallo Shinga?», domandò, ignorando Tom.
I ragazzi sembravano tutti sconcertati dopo aver visto Tom finire dall'altra parte della strada con il naso sanguinante ma, dopo un momento, un giovane allampanato con un grosso naso, disse: «Shinga Sniggle non ci permette di andare da lui in qualsiasi momento. Ma Tom è suo amico». «Sniggle?», ripeté Vi con un sorrisetto beffardo. «Non è il suo vero nome, vero?». Tom si rialzò a fatica dal selciato. Lanciò un ruggito e partì alla carica di Vi. Senza neanche voltarsi a guardarlo, la donna aspettò che fosse arrivato a due passi di distanza e gli puntò un piede contro l'anca. Quando la gamba bloccata non riuscì a spostarsi in avanti per compiere il passo successivo, Tom scivolò sui ciottoli finendo ai piedi di Vi, che non aveva mai distolto lo sguardo dagli altri giovani teppisti. «Io, oh, certo, Barush Sniggle», rispose il ragazzo, lanciando un'occhiata a Tom. Sembrava non trovare nulla di comico nella scena. «Chi siete?», le domandò. Vi contorse le dita nel segno dei ladri. «È un po' diverso dal nostro», osservò il ragazzo. «Da dove venite?» «Cenaria», rispose. Tutti indietreggiarono di un passo. «Davvero?», chiese incredulo. «Il Sa'kagé di Cenaria?» «E ora a noi», disse Vi afferrando una ciocca dei capelli untuosi di Tom Gray. «Avete intenzione di portarmi dallo Shinga? O devo rompervi qualcosa?». L'uomo la insultò. Lei gli ruppe il naso. Tom sputò sangue e ripeté l'insulto. «Testa dura, eh?». Lo colpì sul naso rotto e poi gli abbrancò la testa. Premendogli le dita nei punti delicati dietro alle orecchie, lo sollevò in piedi. Tom gridò con sorprendente vigore. Peccato che gli
aveva rotto prima il naso, perché la investì con uno spruzzo di sangue. Ma Vi non ci badò. Nysos era il dio dei potenti liquidi: sangue, vino e sperma. Erano settimane che non gli offriva qualcosa. Forse questo l'avrebbe placato finché non avesse trovato Kylar. Tenne le dita piantate nel cranio di Tom, incurante delle sue grida e del sangue che continuava a schizzarle sul viso e sulla camicia. I ragazzi arretrarono intimoriti, pronti a rompere le righe e darsi alla fuga. «Basta!», le intimò una voce nel buio. Vi mollò la presa e Tom si accasciò a terra. Una figura bassa e tarchiata si fece avanti. «Sono io lo Shinga», annunciò. «Barush Sniggle?», chiese conferma Vi. Lo Shinga Barush Sniggle aveva una pancia prominente, occhi piccoli sotto flosci capelli biondi e una bocca crudele. Camminava con aria tracotante nonostante la sua piccola stazza, forse per la presenza rassicurante delle massicce guardie del corpo che lo affiancavano. «Cosa vuoi, donna?», le domandò lo Shinga. «Sono a caccia. Il nome del mio morto è lord Kylar Stern. Più o meno della mia altezza, occhi azzurri, capelli neri, fisico atletico, sui venti anni». «Un morto?», ripeté Sniggle. «Vuol dire che sei un sicario? Un sicario donna?» «Kylar non era il nome di quel tipo che ha messo i bastoni fra le ruote a Tom un paio di settimane fa?», domandò il giovane dal naso grosso a uno dei compagni. «Mi sembra di sì», rispose un altro ragazzo. «Credo che stia ancora da Zia Mea. Ma non è un lord». «Chiudi il becco», lo zittì Barush Sniggle. «Non dire un'altra parola, mi hai capito? Tom, alza il culo dal selciato e porta qui quella puttana». Sbalorditivo. Kylar aveva reso tutto così semplice. Pensava di essersi allontanato a sufficienza da Cenaria, sicuro che tutti lo credevano morto. Ormai Vi aveva tutto quel che le serviva.
Trovarlo sarebbe stata una faccenda da niente, e anche ucciderlo. Il solo pensiero la fece fremere di eccitazione. Sulla spalla portava ancora un ricordo di Kylar, una cicatrice lunga cinque centimetri, nonostante avesse permesso a uno di quegli odiosi stregoni di curarle la ferita. «Credo che non possa fare altro che portarti con me», concluse Barush Sniggle. «Scopriremo fino a che punto sei una sicaria». «Questa poi non l'avevo mai sentita», ribatté Vi. Una guardia del corpo la prese per un braccio e un trionfante Tom Gray le afferrò l'altro. «È proprio una bella cagna, eh?», se ne uscì Tom Gray strizzandole un seno. La donna lo ignorò. «Non fatemi fare qualcosa di cui potreste pentirvi», disse allo Shinga. «Posso averla io quando avrete finito?», domandò Tom. Le strizzò di nuovo il seno e poi le accarezzò i capelli. «NON TOCCATE I MIEI CAPELLI!», urlò Vi. Sia la guardia che Tom sussultarono di fronte a tanta furia. Un istante dopo Barush Sniggle scoppiò in una risata forzata. «Voi piccole merde di fogna, schiuma di scolo, toccatemi ancora i capelli e giuro che vi faccio a pezzi», li minacciò Vi, fremente di rabbia. L'uomo imprecò e le strappò la cinghia di cuoio che le fermava i capelli. La chioma le ricadde sulle spalle, per la prima volta dopo anni. Si sentì esposta, vulnerabile di fronte a quegli uomini che ridevano di lei. Perse il controllo. Cominciò a imprecare, con il Talento che percorreva il suo corpo con tale intensità da farle male. Le braccia si liberarono di schianto dalla presa dei due uomini e i suoi pugni spezzarono loro le costole nello stesso tempo. Prima che Tom avesse il tempo di piegarsi in due, gli afferrò i capelli. Infilò le dita negli angoli degli occhi, le affondò nelle orbite e gli strappò i bulbi. Mentre gli uomini intorno a lei urlavano e scappavano, ruotò su se stessa, incerta su chi scaricare per primo la sua furia incontrollabile.
Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando aveva fatto pagare l'onta subita a quei due uomini. Quando ritornò in sé, con i capelli coperti da uno straccio insanguinato, era seduta su una veranda. Lo Shinga e i ragazzi erano fuggiti. Non c'era nessuno in strada, tranne la sua imperturbabile giumenta, ferma in attesa di un suo richiamo, e due corpi scomposti sul selciato. Muovendosi con passo malfermo verso la cavalla, passò accanto a quel che era rimasto di Tom Gray e della guardia del corpo. I cadaveri erano devastati. Lei - per Nysos - lei che non aveva mai sfoderato un'arma, aveva fatto tutto questo. Si sentì rivoltare lo stomaco e vomitò per la strada.
È un lavoretto da nulla. Il Re Divino mi perdonerà se non uccido Jarl. Sarò un maestro. Non dovrò mai più soddisfare Hu Gibbet a letto o da qualunque altra parte, mai più. Uccido Kylar, e poi sarò libera. Manca poco, Vi. Molto poco. Puoi farcela. Sorella Jessie al'Gwaydin era morta. Ariel ne era sicura. Gli abitanti del villaggio non la vedevano da due mesi e il suo cavallo era ancora nella stalla della locanda. Non era da Jessie, ma correre rischi sì. Stupida ragazza. Sorella Ariel s'inginocchiò appena mise piede nel bosco di querce, non per pregare, ma per estendere i propri sensi. Il bosco rappresentava il limite entro il quale i locali erano disposti ad addentrarsi nella Foresta Iaosiana. Gli abitanti di Curva di Torras andavano orgogliosi del loro senso pratico. Non vedevano niente di superstizioso o di sciocco nel tenersi alla larga dal Cacciatore come avevano fatto i loro progenitori. Le storie che le avevano raccontato non erano deliri di invasati. A dire il vero, erano credibili proprio per la loro mancanza di dettagli. Coloro che entravano nella foresta non ne uscivano. Niente di più semplice. Così gli abitanti del villaggio pescavano fra i meandri del fiume Rosso e raccoglievano legna entro il limitare del bosco, senza spingersi oltre. L'effetto sul paesaggio era stridente. Querce
centenarie si ergevano a ridosso di campi spogli. In alcuni punti, querce più giovani erano state tagliate, ma quando gli alberi raggiungevano una certa età gli abitanti del villaggio non li toccavano. Il bosco di querce aveva continuato ad allargarsi per secoli. Lì non avvertì niente, niente oltre alla frescura di una foresta, non odorò nulla tranne aria umida e pura. Si alzò e s'incamminò adagio nel basso sottobosco, i sensi allertati, indugiando, fermandosi appena pensava di aver percepito un sottile fremito nell'aria. Avanzava lentamente, ma Ariel Wyant Sa'fastae era famosa per la sua pazienza, persino fra le Sorelle. Inoltre, era stata l'avventatezza che aveva condotto Jessie al'Gwaydin alla morte. Forse. Sebbene fosse largo soltanto un chilometro e mezzo, le ci volle parecchio tempo per attraversare il bosco di querce. Ogni pomeriggio, dopo aver segnato il punto dove era arrivata, ritornava alla locanda, dormiva e consumava l'unico pasto della giornata stava perdendo peso, bruciando calorie, seppure lentamente. Ogni notte tornava nella foresta, nel caso che qualsiasi magia permeasse quel luogo fosse condizionata dalle ore diurne. Il terzo giorno, Ariel arrivò a scorgere la foresta; la linea fra il bosco di querce e la foresta vera e propria era netta - magicamente parlando, ovviamente. Eppure, non accelerò il suo lento avanzare. Invece, proseguì con maggiore calma e prudenza. Il quinto giorno, la sua pazienza fu premiata. Ariel era a trenta passi dalla linea che separava il bosco di querce dalla foresta, quando avvertì la presenza di una difesa. Si fermò così bruscamente che quasi cadde a terra. Si sedette, incurante del fango, e incrociò le gambe. Trascorse l'ora successiva a sfiorare delicatamente la difesa, cercando di appurare la consistenza della trama e la sua resistenza, senza ricorrere alla magia. Poi intonò un canto con voce sommessa e monotona. La notte, dopo aver verificato una, due, tre volte che le sue percezioni fossero esatte e che non le fosse sfuggito nulla, concluse che le reti erano semplici. Una registrava semplicemente l'attraversamento del confine da parte di un umano. La seconda, leggermente più complicata, contrassegnava l'intruso. Era una rete impalpabile che aderiva ai
vestiti o alla pelle e si dissolveva dopo poche ore. Abilmente, Ezra Ariel stava solo formulando un'ipotesi, ma pensò che fosse valida aveva sistemato la rete così vicina al terreno che avrebbe potuto marcare le scarpe dell'intruso, talmente bassa che il sottobosco la copriva. La vera astuzia, però, si evidenziava nella collocazione. Quanti maghi avevano visto la linea evidente trenta passi al di là di questa ed erano finiti dritti nella trappola prima di erigere le loro difese? Sarebbe stato facile aggirare la trappola ora che l'aveva individuata, ma Sorella Ariel non lo fece. Invece, annotò le sue scoperte nel diario e tornò a Curva di Torras. Se avesse compiuto qualche errore, sarebbe morta prima di tornare alla locanda. Si avviò con un senso di inquietudine. Il suo spirito si librava nell'aria al pensiero di smantellare l'antica magia di Ezra, ma Ariel non cedette alle lusinghe dell'arroganza. Le lettere della Portavoce erano diventate sempre più insistenti, pretendendo che trovasse al più presto Jessie, che Ariel facesse qualcosa per aiutarla a evitare la crescente crisi con il Bene Mobile. Ariel tenne gli occhi ben aperti, sperando di trovare una donna che potesse servire agli scopi della sorella, ma gli abitanti del villaggio di Curva di Torras allontanavano prudentemente qualsiasi bambino che mostrasse il benché minimo Talento. Lì Ariel non avrebbe trovato quello di cui aveva bisogno Istariel. Così ignorò le lettere. C'era un tempo e un luogo per agire in fretta. E non era né lì né adesso.
Capitolo 25 «Viridiana Sovari?». Sentendo pronunciare il suo nome, Vi si fermò di colpo in mezzo al mercato affollato. Un ometto sudicio chinò nervosamente il capo e le porse un biglietto, ma Vi non lo prese. Il messaggero si era premurato di non avvicinarsi troppo a lei e di non indirizzarle sguardi lascivi, quindi doveva avere una vaga idea di chi fosse Vi. Le rivolse un sorriso ossequioso, lanciò una rapida occhiata ai suoi seni, poi tenne gli occhi ostinatamente abbassati a terra. «Chi siete?», gli chiese. «Nessuno di importante, signorina. Solo un servitore del nostro... comune maestro», disse, scrutando la folla intorno a loro. Il cuore di Vi divenne un pezzo di ghiaccio. No, non poteva essere. L'uomo le porse di nuovo il biglietto e scomparve nella calca appena Vi lo ebbe preso.
«Chiacchierona», recitava il messaggio. «Ci ha incuriosito molto
che voi sapeste che Jarl era diretto a Caernarvon, ma il fatto che ne foste al corrente dimostra che siete davvero la migliore. Desideriamo anche che vi occupiate di Kylar Stern. Lo preferiamo vivo. Se non fosse possibile, vogliamo il suo cadavere e tutti i suoi effetti personali, per quanto futili possano sembrare. Portateli immediatamente». Vi ripiegò il biglietto. Era impossibile che il Re Divino sapesse dove si trovava. Impossibile che un suo messaggio l'avesse raggiunta lì. Impossibile che Jarl fosse in quella città - Jarl, la cui identità doveva restare segreta. Jarl, da cui lei stava scappando! Impossibile compiere quel che le chiedeva il Re Divino. Ma la più grande impossibilità adesso era diventata l'unica: era impossibile fuggire. Vi era la schiava del Re Divino. Non aveva via di scampo. Chissà come, Kylar era stato coinvolto nella preparazione della cena per il compleanno di Uly. Zia Mea aveva affermato che nessun
uomo dovrebbe lasciarsi intimidire da una cucina, ed Elene aveva osservato che, in confronto alle pozioni che preparava, una cena e un dolce sarebbero stati una cosa da niente, e Uly rise allegramente mentre gli facevano indossare un grembiule pieno di gale di pizzo e gli picchiettò la farina sul naso. Così Kylar si ritrovò con le maniche rimboccate, cercando di interpretare astrusi termini culinari come sbollentare, addensare e lasciar riposare. Dalle risatine di Uly, ebbe il sospetto che lo avessero incastrato con la ricetta più difficile che avevano trovato, ma non si tirò indietro. «Cosa devo fare dopo le lacrime di, ah, gelatina?», domandò. Uly ed Elene ridacchiarono. Kylar si mise in posa con una spatola di legno, alimentando le loro risate. La porta che dava sulla fucina si aprì, lasciando entrare Braen, sporco e maleodorante. Di fronte alla sua occhiata impassibile Kylar abbassò la spatola, umiliato, ma si rifiutò di togliersi la farina dal naso. Braen si rivolse a Elene, squadrandola dall'alto in basso. «A che ora si cena?», volle sapere. «La porteremo nella tua tana appena sarà pronta», rispose per lei Kylar. Braen grugnì e disse, sempre a Elene: «Dovresti trovarti un uomo vero». «Sai», disse Kylar mentre Braen tornava alla fucina con passo annoiato, «conosco un sicario che sarebbe lieto di far visita a quel cretino». «Kylar», lo richiamò Elene. «Non mi piace il modo in cui ti guarda», disse Kylar. «Ha tentato qualche approccio con te?» «Kylar, non stasera, d'accordo?», rispose Elene accennando a Uly. All'improvviso Kylar si ricordò della scatolina nascosta nella tasca e annui. Con espressione grave afferrò Uly, la capovolse e se la sistemò sulle spalle, fra i gridolini divertiti della bambina. Tornò poi a concentrarsi sui fornelli, fingendo di non accorgersi della presenza della piccola.
Uly strillò e scalciò, tenendosi saldamente aggrappata al retro della sua tunica. Zia Mea entrò in cucina, bofonchiando: «Non posso crederci, abbiamo finito la farina e il miele». «Oh, no», protestò Kylar. «E ora come faccio a preparare la quinta salsa madre?». Posò la spatola e si curvò in avanti, allungando le braccia fra le gambe. Come previsto, Uly scivolò a testa in giù lungo la sua schiena e gli afferrò le mani appena in tempo perché Kylar la facesse passare fra le gambe. Atterrò in piedi, ridendo e ansimando. «Non è il compleanno di qualcuno?», domandò Kylar. «Mio! Mio!», gridò Uly. Finse di tirar fuori una moneta d'argento da ogni orecchio della bambina, fra le sue risatine eccitate. Due pezzi d'argento - un bonus ricevuto dal nobile. Questo gesto li lasciava di nuovo al verde, ma Uly lo meritava. Quando li mise nelle mani della piccola, Uly sgranò gli occhi. «Per me?», esclamò incredula. Kylar le fece l'occhiolino. «Elene ti aiuterà a trovare qualcosa di bello, va bene?» «Possiamo andarci adesso?», chiese Uly. Kylar guardò Elene, che non obiettò. «Possiamo andare con Zia Mea», disse. «Tanto io devo sbucciare i piselli», si lamentò Kylar. Le due soffocarono una risatina. Kylar sorrise a Elene, meravigliandosi ancora una volta di quanto fosse bella. Era talmente innamorato che si sentiva scoppiare il cuore nel petto. Uly saltellò fino alla porta e mostrò le monete alla zia. Elene sfiorò il braccio di Kylar. «Andrà tutto bene fra noi?», volle sapere. «Da questa sera sì», le rispose. «Cosa vuoi dire?» «Vedrai». Non sorrise. Non voleva tradirsi. Se lo avesse fatto, avrebbe sorriso come un ebete per la felicità che provava. Non vedeva l'ora di vedere che faccia avrebbe fatto Elene. Non vedeva l'ora anche di vivere altre cose. Scuotendo la testa, tornò alle sue
ricette. Contrariamente a quanto aveva detto, non fu difficile preparare la cena. Soltanto caotico. Si sfilò l'anello e lo posò sul bancone prima di prendere in mano la carne cruda - non era molto romantico puzzare come una vacca morta. Elene, Uly e Zia Mea erano uscite da pochi secondi, quando qualcuno bussò alla porta. Kylar lasciò la spatola e andò ad aprire. «Cos'hai dimenticato stavolta, Uly?», disse mentre afferrava un asciugamano e girava la maniglia. Era Jarl. Per Kylar fu come ricevere un pugno nello stomaco. Non riusciva a credere ai propri occhi. Ma era lì, magro, atletico, impeccabilmente vestito, un uomo bello come pochi, con un sorriso esitante che faceva risaltare i bianchi denti smaglianti. «Come va, Azo», disse. Come mai quel saluto? Voleva solo mostrarsi simpatico, oppure si stava ricollegando al passato vissuto insieme? Decisamente la seconda ipotesi. Per un lungo momento, rimasero fermi in silenzio, scrutandosi. Jarl non era lì per una visita. Jarl non faceva visite. Per amore di Dio, quell'uomo era lo Shinga. Un vero Shinga, il capo del Sa'kagé più temuto del Midcyru. «Come diavolo hai fatto a trovarmi, Jarl?», replicò Kylar, anche lui con simpatia. Erano le parole che Jarl si era aspettato da Kylar l'ultima volta che era ricomparso all'improvviso. «Non mi fai entrare?» «Prego», lo invitò Kylar. Mise su un po' di ootai e si sedette di fronte a Jarl, accomodatosi accanto alla finestra. Silenzio. «C'è un lavoro...», cominciò Jarl. «Non sono interessato». Jarl accolse di buon grado la risposta. Arricciò le labbra e osservò con aria perplessa l'umile stanza in cui si trovavano. «Così, ehm... sei tornato ai vecchi gusti?» «Momma K non ti ha insegnato un po' di tatto?» «Sto parlando seriamente», replicò Jarl.
«Anch'io. Ti presenti dopo che ti ho detto che sono uscito dal giro e la prima cosa che fai è denigrare il posto in cui vivo?» «Logan è vivo. È nel Buco». Kylar lo fissò, senza capire. Le parole cozzarono l'una contro l'altra e finirono in pezzi sul pavimento, frammenti luccicanti di luce di verità, ma niente più che schegge e punte troppo taglienti per toccarle. «Tutti i sicari lavorano per Khalidor. I nobili che ancora resistono si sono ritirati nelle tenute dei Gyre. Diverse guarnigioni di frontiera sono ancora fornite di uomini, ma non abbiamo un capo che ci tenga uniti. Su nel Freeze c'è qualche problema che preoccupa il Re Divino, così non ha fatto ancora nulla per consolidare il suo potere sulla regione. Pensa che le famiglie nobili si sbraneranno fra loro. E se non abbiamo Logan con noi, pensa bene». «Logan è vivo?», ripeté stupidamente Kylar. «Il Re Divino mi ha sguinzagliato dietro i nostri ex sicari. In parte sono qui per questo. Devo tenermi alla larga da Cenaria finché non saremo in grado di spargere la voce che il Kagé in persona mi sta proteggendo». «No», disse Kylar. «Ogni giorno aumentano le possibilità che Logan venga scoperto. A quanto sembra nessuno dei prigionieri del Buco lo ha riconosciuto, ma hanno iniziato a gettare un sacco di gente in quell'inferno. Forse sarai contento di sapere che il duca Vargun è uno di loro. Consideralo un piccolo premio. Quando recupererai Logan, potrai anche ammazzare quel balordo». «Cosa?», esclamò Kylar. Gli ingranaggi stavano ruotando troppo velocemente per coglierne il funzionamento. «Jarl», disse. «Tenser non è Tenser Vargun. Non capisci? Si è fatto gettare dentro il Buco per scontare la pena più dura in assoluto. Poi loro tirano fuori il vero barone - vivo - e Tenser viene liberato. Un mese dopo si presenta davanti al Sa'kagé, pieno di rancore per l'ingiusto imprigionamento e con tutte le facoltà di un duca, e cosa succede?» «Lo prendiamo con noi», rispose tranquillamene Jarl. «Come potremmo opporci?»
«E lui vi distrugge, perché non è Tenser Vargun», concluse Kylar. «È Tenser Ursuul». Jarl si appoggiò allo schienale, scioccato. Dopo un minuto, riprese: «Capisci, Kylar? Per questo ho bisogno di te. Non solo per le tue capacità, ma per la tua testa. Se Tenser si trova lì adesso, non dovrà fare altro che aspettare perché la sua detenzione risulti credibile, e poi dirà a suo padre che Logan è chiuso là dentro. Dobbiamo agire ora. Subito!». La scatola con gli anelli bruciava contro la gamba di Kylar. Mentre Jarl continuava a parlare, Kylar guardò fuori dalla finestra la città che aveva sperato sarebbe stata la sua patria per il resto della sua vita. Amava quella città, amava la speranza che offriva, amava guarire e aiutare, amava il semplice piacere di essere apprezzato per le sue pozioni. Amava Elene. Gli aveva dimostrato che poteva fare del bene più guarendo che uccidendo. Tutto aveva un senso... eppure... eppure... «Non posso», disse Kylar. «Mi spiace. Elene non capirebbe mai». Jarl si dondolò indietro sulla sedia. «Non mi fraintendere, Azo, perché anche io sono cresciuto insieme a Elene, e le voglio bene. Ma cosa te ne frega di quel che pensa?» «Vaffanculo, Jarl». «Ehi, sto solo chiedendo». Lasciò che la domanda restasse sospesa nell'aria, senza mai staccare gli occhi dal volto di Kylar. Che bastardo, aveva assimilato bene gli insegnamenti di Momma K in tutti quegli anni. «La amo». «Certo, questa è parte della spiegazione». Di nuovo, quello sguardo di attesa. «Lei è buona, Jarl. Voglio dire, come non era buona la gente dei Cunicoli. Non è buona perché ci guadagna qualcosa, o perché teme il giudizio della gente. È buona, e basta. In un primo tempo ho pensato che fosse naturale per lei, capisci, come tu hai la pelle scura e io sono favolosamente attraente». Jarl inarcò un sopracciglio, ma non rise.
«Ma adesso ho capito che ci ha lavorato sopra. Ci lavora ancora, e ci ha lavorato per tutto il tempo in cui io ho imparato a uccidere». «Così è una santa. Questo non risponde alla mia domanda», replicò Jarl. Kylar rimase in silenzio per un minuto, grattando la superficie di legno del tavolo con un'unghia. «Momma K diceva sempre che noi diventiamo le maschere che indossiamo. Cosa abbiamo noi sotto la maschera, Jarl? Elene mi conosce come nessun altro. Ho cambiato il mio nome, la mia identità, ho abbandonato tutti e tutto quel che mi era familiare. Non sono che un cumulo di menzogne, Jarl, ma finché Elene mi capisce, forse esiste un vero me stesso. Capisci cosa voglio dire?» «Sai», disse Jarl. «Mi ero sbagliato sul tuo conto. Quando ti sei fatto uccidere per salvare Elene e Uly, ho creduto che fossi un eroe. Non sei un eroe. Tu odi te stesso, cazzo». «Scusa?» «Sei un vigliacco. Così hai fatto lavori sporchi. Non sei il solo. Sai che ti dico? Sono contento che tu l'abbia fatto; ti ha reso qualcosa di meglio di un santo». «Un assassino è migliore di un santo? Che razza di paranoica opinione da Sa'kagé è...». «Ti ha reso utile. Sai come vanno le cose a Cenaria in questo momento? Non ci crederesti. Non sono venuto a cercare un assassino. Sono venuto a cercare L'Assassino, l'Angelo della Notte, l'uomo che è più di un semplice sicario, perché i problemi che abbiamo ora sono più grossi di quel che un qualsiasi sicario saprebbe affrontare. C'è un solo uomo in grado di aiutarci, Kylar, e sei tu. Credimi, non eri la mia prima scelta». S'interruppe di colpo. «Cosa dovrebbe significare?». Jarl evitò il suo sguardo. «Non intendevo...». «Cosa stavi per dire?», lo incalzò Kylar in tono minaccioso. «Dovevamo esserne sicuri, Kylar. Abbiamo agito con molto rispetto, voglio che tu lo sappia. È stata un'idea di Momma K. Lui era immortale, dovevamo essere sicuri...».
«Avete dissotterrato il cadavere del mio maestro?», domandò Kylar. Jarl sussultò. «Lo abbiamo rimesso a posto proprio come lo avevi sepolto tu. È stato forse una settimana dopo l'invasione...». «Lo avete dissepolto mentre io ero ancora in città?» «Non potevamo dirtelo prima, e dopo non c'era motivo di farlo. Momma K ha detto che il corpo sarebbe rimasto lì, che Durzo aveva ceduto a te la sua immortalità, ma quando l'ha visto... È stata la scena più terrificante a cui io abbia mai assistito. Sono stato praticamente allevato da quella donna, e non l'avevo mai vista in quello stato. Era isterica, piangeva, gridava - eravamo lì, nel bel mezzo di una notte nuvolosa, avevamo raggiunto in barca l'isola di Vos dopo aver avvolto i remi nella lana, e lei comincia a gemere, fuori controllo. Ero talmente sicuro che sarebbe arrivata una pattuglia che volevo lasciare subito l'isola, ma lei non ha voluto andarsene finché non l'avessimo ricomposto come l'avevi lasciato tu». Come se a Kylar importasse qualcosa che Durzo rimanesse su quello scoglio maledetto. Se avevano intenzione di dissotterrarlo, potevano almeno portarlo... Dove? A casa? Durzo Blint ne aveva
mai avuta una?
«Che aspetto aveva?», chiese Kylar con calma. «Merda. L'aspetto di chi è stato una settimana sotto terra, cosa ti aspettavi?». Naturale. Dannazione, Mastro Blint, perché avete dato a me la
vostra immortalità? Eravate stanco di vivere? Perché non mi avete detto niente? Ma allora, forse lo aveva scritto nel messaggio
consegnato a Kylar: il messaggio che si era inzuppato di sangue, illeggibile. «Vuoi che io m'intrufoli nel Buco e recuperi Logan?» «Sai chi si sceglie come concubine il Re Divino? Giovani ragazze di nobili famiglie. Preferibilmente vergini. Pregusta l'umiliazione e la degradazione che può infliggere a ognuna di loro. Le confina nelle torri, in stanze col balcone ma senza parapetto, così saltare giù diventa ogni giorno più allettante. Per lui è solo un gioco». «Vai al punto», disse Kylar mantenendo un tono aspro nella voce.
«Si è preso Serah e Mags Drake. Serah si è uccisa durante la prima settimana. Mags è ancora là». Serah e Mags erano praticamente le sorelle di Kylar. Mags era sempre stata sua complice. Sempre pronta a ridere, sempre sorridente. Dopo il colpo di stato, si era talmente concentrato su se stesso che non aveva quasi pensato a loro. Jarl disse: «Voglio che salvi Logan, e poi voglio che ammazzi il Re Divino». «Tutto qui?», commentò gelidamente Kylar. Era un tono che aveva sentito usare centinaia di volte da Durzo. «Lasciami pensare, devo occuparmi prima di Logan perché le mie probabilità di riuscita con il Re Divino non sono così elevate?» «Proprio così», riconobbe Jarl stizzito. «È così che devo ragionare, Kylar. Sto combattendo una guerra, e la gente muore ogni giorno. E tu stai qui con le mani in mano in virtù di quel che pensa una ragazza?» «Non mettere in mezzo Elene». «Altrimenti? Mi starai col fiato sul collo? Sei tu l'idiota che ha rinunciato solennemente alla violenza. Sì, ne sono al corrente. Lascia che ti dica una cosa. Roth ha portato alla disperazione un sacco di gente. Sono contento che tu l'abbia ucciso, va bene? Mi ha sconvolto la vita. Ma non regge il confronto con suo padre». Jarl imprecò. «Guardati! Lo so che questo incarico è impossibile. Ti sto mandando a eliminare un dio. Ma se c'è una persona al mondo che possa riuscirci, sei tu. Tu sei stato addestrato per questo, Kylar. Pensi di essere riuscito a superare tutta quella merda solo per vendere pozioni che curano i postumi di una sbornia? Ci sono cose più grandi della tua felicità, Kylar. Puoi ridare speranza a un'intera nazione». «Mi costerà solo rutto quel che ho», mormorò tetramente Kylar. «Sei un immortale. Ci saranno altre ragazze». Kylar gli lanciò un'occhiata disgustata. L'espressione di Jarl cambiò all'istante. «Scusa. Presumo che ci saranno anche altri Re Divini e altri Shinga. Solo che... abbiamo
bisogno di te. Logan morirà se non vieni. Stessa fine farà Mags, e poi un sacco di altra gente che non conoscerai mai». Sarebbe stato più facile se non fosse stato d'accordo con quel che aveva detto Jarl. Kylar aveva chiesto a Momma K: «Un uomo può cambiare?». Ecco la risposta, che gli succhiava via ogni goccia di vita. «Va bene», concluse Kylar. «Accetto». Jarl sorrise. «È bello riaverti fra noi, amico mio». «È brutto tornare indietro». «Non volevo chiedertelo prima, ma hai fatto qualcosa che ha irritato lo Shinga locale?», volle sapere Jarl. Prese l'espressione di Kylar come una ammissione. «Perché una delle mie fonti ha riferito che lo Shinga ha pagato un killer per uccidere un sicario cenariano. La fonte non ne conosceva i dettagli ma, be', non penso che ci siano tanti sicari cenariani qui in giro. Più a lungo resti in questa città, e più metti in pericolo Elene e Uly». Durzo aveva insegnato a Kylar che il modo migliore per cancellare un incarico era cancellare chi lo aveva commissionato. Per l'incolumità di Elene, di Uly e di Zia Mea, e persino di Braen, Barush Sniggle doveva morire. Kylar si alzò con movimenti rigidi e impacciati e salì al piano di sopra. Quando tornò giù un minuto dopo, aveva un'espressione scura quanto gli indumenti da sicario che aveva indossato ancora una volta. Vi guardò l'arco che stringeva in mano, cercando di convincersi a tirare indietro la freccia rossa e nera. Era appostata su un tetto, sbirciando dentro l'abitazione della levatrice. Era lì da un'ora. Si era poggiata contro un comignolo, avvolgendosi nelle tenebre. Non era totalmente invisibile, ma acquattata nella luce morente del giorno, con il sole alle spalle, ci andava comunque vicino. Era venuta a Caernarvon proprio per evitare tutto questo: aveva pensato che il solo modo per non uccidere Jarl e sottrarsi comunque all'ira del Re Divino fosse uccidere Kylar. Durante la sua assenza, Jarl sarebbe fuggito, o sarebbe stato ucciso da un altro sicario.
Come mai era venuto qui? Voleva evitarlo, colpire Kylar e illudersi che Jarl non fosse lì, fingere di non aver mai ricevuto quel messaggio. Ma non aveva la possibilità di eliminare Kylar, e le bugie non l'avrebbero portata da nessuna parte se c'era di mezzo il Re Divino. Jarl era seduto proprio davanti alla finestra, che era persino aperta. Vi stava usando un arco messo in tensione dal Talento, un arco così potente che solo una persona dotata di Talento poteva tenderlo, così la freccia rossa e nera del traditore avrebbe infranto il vetro, anche le persiane, se era per quello. Ma Vi non ne aveva bisogno. Jarl sedeva là, in vista. Non si sarebbe mai esposto a un simile pericolo a Cenaria, ma qui si sentiva al sicuro. Sarebbe volato dritto fra le braccia della Morte. Eppure Vi esitava. Maledicendo Jarl per la sua stupidità. Se Vi non l'avesse ucciso, il Re Divino l'avrebbe saputo. L'avrebbe trovata.
Maledizione a te, Jarl. E maledetta la tua gentilezza.
Completa il lavoro. Hu Gibbet amava prima torturare i propri morti, ma lo faceva solo quando era sicuro che niente l'avrebbe interrotto. Hu Gibbet finiva sempre il lavoro. Non c'è mai un colpo perfetto. Scegli ogni colpo che possa uccidere. Imprecando sottovoce per attivare il proprio Talento, Vi si alzò in piedi e accostò la freccia alla guancia. Così facendo, uscì dai contorni del comignolo e si espose nella luce morente. Stava tremando, ma era distante solo una trentina di passi. «Dannazione, Jarl, spostati!», esclamò. Avrebbe potuto scappare. A Gandu o Ymmur il Re Divino non l'avrebbe mai trovata. Oppure sì? Non riusciva a crederci. Non aveva detto a nessuno che era venuta in quella città, né lasciato alcuna traccia, eppure il sovrano ne era al corrente. Se fosse fuggita, il Re Divino le avrebbe sguinzagliato dietro il suo maestro, e Hu Gibbet non falliva mai. Nonostante i benefici che le riservava la sua bellezza, l'unica cosa che non le permetteva facilmente era nascondersi. Non si era mai preoccupata dei camuffamenti. Non l'aveva mai considerata una sua debolezza. Fino a quel momento.
«Andiamo, Kylar», mormorò. «Passa davanti alla finestra. Una volta sola». Ormai era scossa da un violento tremito, e non solo per il Talento che ardeva dentro di lei, né per lo sforzo di tenere l'arco teso per così tanto tempo. Perché voleva Kylar morto con tutta se stessa? Intravide una gamba, una gamba avvolta in calzoni da sicario, ma niente di più. Dannazione. Se Kylar stava per uscire, sarebbe stato un guaio per lei. Aveva sentito dire che Kylar poteva rendersi invisibile, ma sembrava una tipica spacconata da sicario. Si vantavano delle loro abilità solo per far alzare il prezzo. Tutti volevano essere un altro Durzo Blint. Ma questo era l'apprendista di Durzo, l'uomo che lo aveva ucciso. Le prese il panico. Il volto di Jarl era tirato in un'espressione addolorata, compassionevole. Vedendo quello sguardo - uno sguardo che aveva visto in precedenza, quando Jarl si prendeva cura di lei dopo che Hu Gibbet andava a testare le nuove abilità che continuava a insegnarle Momma K e, trovandola ancora carente, la picchiava fino a tramortirla e abusava di lei in ogni modo immaginabile -, la vista di Vi si appannò. Sbatté più volte le palpebre, rifiutandosi di credere che fossero lacrime. Non aveva pianto da quella notte, da quando Jarl l'aveva cullata fra le braccia, aiutandola a rimettere insieme i pezzi della sua dignità ferita. Jarl si alzò e andò alla finestra. Sollevando lo sguardo, scorse Vi, la sua nera silhouette contro la luce del sole. Un lampo di sorpresa gli illuminò gli occhi: l'aveva riconosciuta - quale altro sicario ha la sagoma di una donna? - e Vi avrebbe potuto giurare di aver letto il proprio nome sulle sue labbra. Le dita cedettero, e la corda dell'arco le scivolò dalla presa. La freccia rossa e nera del traditore guizzò attraverso il più stretto dei baratri: la distanza che separa un sicario dal suo morto. Descrisse una traiettoria rossa nell'aria, come se la notte stesse sanguinando.
Capitolo 26 «Scusami, Elene»,
scrisse Kylar con mano tremante. «Ho tentato. Giuro che ho tentato. Ci sono cose che valgono più della mia felicità. Cose che solo io posso fare. Vendi questi a Mastro Bourary e trasferisci la famiglia in un quartiere più sicuro. Ti amerò sempre». Sfilò la scatola degli anelli dalla tasca e la poggiò sopra il foglio di pergamena. «Cosa c'è in quella scatola?», chiese Jarl. Kylar non riuscì a guardare in faccia l'amico. «Il mio cuore», rispose con un filo di voce, e lentamente sollevò le dita dalla scatola. «Solo degli orecchini», aggiunse a voce più alta, e distolse lo sguardo. Jarl intuì la verità. «Stavi per sposarla», disse. Un groppo serrò la gola di Kylar. Non c'erano parole da dire. Dovette evitare lo sguardo di Jarl. «Hai mai sentito parlare della crocifissione?», gli chiese alla fine. Jarl scosse la testa. «È il modo in cui gli Alitaeriani giustiziano i ribelli. Distendono i loro corpi su una struttura di legno, inchiodandoli all'altezza dei polsi e dei piedi. Per respirare, il criminale deve sollevare il proprio peso dai chiodi. A volte ci vuole una giornata intera per morire, asfissiati dal proprio peso». Non riuscì a completare la metafora, sebbene fosse quel che provava: un ribelle al destino riservatogli da un mondo malvagio, deciso a schiacciare tutto quel che c'era di buono, tirato allo spasimo fra Logan ed Elene, inchiodato a entrambi con dovuta lealtà, ansante sotto il peso del proprio carattere. Ma non erano solo Elene e Logan a distenderlo su quella croce. Erano due vite, due strade. La via delle tenebre e la via della luce. Il lupo e il cane da caccia. Oppure erano il cane da caccia e il cagnolino da salotto? Kylar si era illuso di poter cambiare, di poter fare tutto. Si era lanciato a capofitto prima lungo la prima strada e poi nell'altra, e aveva scelto entrambe. Era questo che l'aveva portato alla croce -
non le macchinazioni di un dio imbroglione o l'incessante girare della ruota della Fortuna. Le possibilità di scelta di Kylar si erano andate allontanando sempre più le une dalle altre, e lui era rimasto aggrappato a tutte finché ne aveva avuto la forza. Adesso, solo una domanda contava: che razza di uomo sono? «Andiamo», disse Kylar, tornato cane da caccia. Jarl era fermo alla finestra, assorto nei propri pensieri. «Una volta sono stato innamorato», disse. «O qualcosa del genere. Di una splendida ragazza ridotta alla disperazione più o meno come me». «Chi era?», volle sapere Kylar. «Si chiamava Viridiana, Vi. Splendida, splendida...». Jarl alzò gli occhi e s'irrigidì. «Vi?». Crollò a terra in una pioggia di sangue, con una freccia piantata in mezzo alla gola. Il corpo si afflosciò sul pavimento di legno come un sacco di farina. Sbatté le palpebre una volta. Gli occhi non tradirono né paura né rabbia. Sul volto apparve un'espressione ironica.
Incredibile, eh?, disse con lo sguardo a Kylar che lo stava
sorreggendo.
E poi gli occhi di Jarl non dissero più nulla. «Posso farla vedere a Kylar?», domandò Uly. Stava stringendo proprio la bambola che Kylar aveva scelto qualche giorno prima. Elene sorrise; Kylar si stava rivelando un padre migliore del Previsto. «Sì», disse Elene, «ma corri dritta a casa. Promesso?» «Promesso», ripeté Uly, e scappò via. Elene la guardò allontanarsi con un senso di angoscia, ma lei si agitava sempre per le piccole cose. Caernarvon non era come i Cunicoli. Inoltre, la casa era a soli due isolati di distanza. «Dobbiamo parlare, vero?», disse Zia Mea. Si stava facendo tardi. I raggi del sole fendevano obliquamente l'aria, investendo i mercanti intenti a radunare le merci prima di avviarsi verso casa. Elene deglutì a fatica. «L'ho promesso a Kylar. Eravamo d'accordo che non ne avremmo parlato a nessuno, ma...».
«Allora non dire un'altra parola». Zia Mea sorrise e prese Elene sottobraccio guidandola verso casa. «Non posso», riprese Elene, fermandola. «Non posso più farlo». Così raccontò tutto a Zia Mea, dalla bugia sul loro matrimonio ai loro scontri sul sesso, al fatto che Kylar fosse un sicario che adesso cercava di lasciarsi il passato alle spalle. Zia Mea non si mostrò affatto sorpresa. «Elene», disse, afferrandole le mani. «Tu ami Kylar o stai con lui perché Uly ha bisogno di una madre?». La ragazza esitò, mettendo il proprio animo a nudo di fronte a quella domanda, per essere sicura che quel avrebbe detto fosse la verità. «Lo amo», disse. «C'entra anche Uly, ma lo amo davvero». «Allora perché continui a proteggere te stessa?». Elene alzò lo sguardo. «Io non sto proteggendo...». «Non puoi essere sincera con me finché non lo sarai con te stessa». Elene abbassò gli occhi. Il carro di un contadino, carico dei prodotti rimasti per quel giorno invenduti, sferragliò accanto a loro. Nella luce calante della sera, la strada cominciava a immergersi nell'oscurità. «Dobbiamo rientrare», tagliò corto Elene. «La cena si starà raffreddando». «Bambina», la richiamò Zia Mea. Elene si fermò. «È un assassino», ammise Elene. «Voglio dire, ha ucciso della gente». «No, avevi detto bene. È un assassino». «No, è un brav'uomo. Può cambiare. Lo so». «Bambina, sai perché ne stai parlando con me anche se avevi promesso a Kylar che non l'avresti fatto? Perché hai accettato qualcosa che non è nella tua natura. Sei una pessima bugiarda, ma ci hai provato perché lo avevi promesso. Non è quel che ha fatto lui?» «Cosa vuoi dire?», chiese Elene. «Se non riesci ad amare Kylar per l'uomo che è - se lo ami solo per l'uomo che tu pensi potrebbe diventare -, farai di lui un disperato».
Kylar era talmente infelice. Quando aveva cominciato a uscire la notte, non gli aveva fatto domande, non aveva voluto sapere nulla. «Cosa dovrei fare?», domandò alla zia. «Pensi di essere la prima donna che ha paura di amare?», ribatté Zia Mea. Le parole la colpirono come uno schiaffo, proiettando una nuova luce sui pretesti e sulle discussioni di ogni sera. Aveva creduto di essere una santa perché non faceva l'amore con Kylar, ma era semplicemente terrorizzata. Si sentiva già talmente disorientata che abbandonare ogni difesa in camera da letto le avrebbe tolto anche le ultime briciole di potere. «Posso amarlo se non lo comprendo? Posso amarlo se odio quel che fa?» «Bambina», riprese Zia Mea, posando dolcemente la mano sulla spalla della nipote. «Amare è un atto di fede, quanto lo è credere in Dio». «Lui non è credente. Un bue e un lupo non possono stare sotto lo stesso giogo», si difese Elene, sapendo che si stava aggrappando a un fuscello di paglia. «Pensi che un giogo si riduca a due anelli di nozze o a fare l'amore? Tu non hai bisogno di comprenderlo, Elene, tu hai bisogno di amarlo finché non lo capirai». Prese di nuovo la ragazza sottobraccio. «E adesso andiamo a gustare la nostra cena». S'incamminarono insieme verso casa, Elene si sentiva leggera come non le succedeva da mesi - anche se stava per affrontare un discorso impegnativo con Kylar. Sentì una nuova speranza nascere dentro di sé. Elene aprì la porta, ma la casa era immersa nel silenzio, vuota. «Kylar?», chiamò. «Uly?». Nessuna risposta. Le pietanze erano sul bancone, fredde, e la gelatina che stava preparando Kylar era ormai congelata e segnata da crepe. Il cuore le balzò in gola. Ogni respiro divenne un incredibile sforzo. Zia Mea sembrava sconvolta. Elene si precipitò su per le scale e tirò fuori da sotto il letto la cassetta con i vestiti da sicario di Kylar e la grossa spada. Era vuota. Non c'era alcuna traccia.
Ridiscese le scale, mentre la verità affondava dentro di lei con la stessa lentezza del sole che cala al tramonto. «Andrà tutto bene fra noi?», gli aveva chiesto. «Da questa sera sì», le aveva risposto, senza sorridere. La fede di Kylar era posata accanto ai fornelli. Non c'era un biglietto, niente di niente. Persino Uly era sparita. Alla fine, Kylar aveva rinunciato a lei. Se ne era andato. Vi si mise in spalla la ragazzina che continuava a dimenarsi ed entrò nella stalla della misera locanda dove aveva lasciata la sua giumenta. Il garzone era a terra, disteso accanto alla porta, ancora privo di sensi e sanguinante. Sarebbe sopravvissuto. Ma non importava; non aveva visto Vi prima che lei lo colpisse con il pomo della sua corta spada. La ragazzina protestò attraverso lo straccio che le aveva legato sulla bocca. Vi s'inginocchiò e afferrò la prigioniera per la gola, liberandola dal bavaglio. «Come ti chiami?», le chiese Vi. «Va' all'inferno!», rispose la piccola con un lampo di sfida negli occhi. Non poteva avere più di dodici anni. Vi le diede uno schiaffo, forte. Poi la colpì ancora, e ancora, e ancora, imperturbabile, come Hu era solito fare con lei quando era annoiato. Appena la ragazzina tentò di fuggire, le strinse di nuovo la mano intorno alla gola. La minaccia era chiara: più ti divincoli e più soffocherai. «Bene, Va' All'Inferno, vuoi che ti chiami così o in altro modo?». La ragazzina la insultò di nuovo. Vi la girò e la bloccò contro il proprio corpo, tappandole la bocca con la mano. Con l'altra, trovò un punto delicato nel gomito della piccola e vi affondò le dita. Uly gridò contro la sua mano.
Perché non l'ho ancora uccisa? Il lavoro era filato liscio. Kylar aveva preso con sé il corpo di fari dopo essersi equipaggiato per iniziare la caccia. Vi aveva intravisto di
sfuggita uno scintillio di lame che scomparivano nei foderi - di certo era uno scherzo della luce e della distanza. Kylar non poteva rendersi davvero invisibile. Dopo un po' aveva portato via il corpo di Jarl e Vi era entrata in casa. Aveva intenzione di tendere qualche trappola. C'era un ottimo veleno da contatto che poteva spalmare sulla serratura della porta della camera da letto, e una trappola con ago avvelenato che sarebbe stata l'ideale per quella cassetta nascosta sotto il letto. Ma non riuscì ad approntarle. Ancora sconvolta dall'uccisione di Jarl, continuò a girovagare per la casa come un comune ladruncolo. Trovò un biglietto e un paio di orecchini che sembravano costosi il biglietto lo confermava - anche se erano stranamente spaiati, uno più grande dell'altro. Se li infilò in tasca, ma non toccò la fede d'oro accanto ai fornelli. Che la famigliola felice serbasse i ricordi di famiglia. Non era sicura del significato di quel messaggio. Kylar aveva tentato? Tentato di proteggere Jarl? La porta si aprì cogliendo Vi di sorpresa, e una ragazzina entrò in casa. Vi la legò e imbavagliò, poi rimase a considerare il guaio in cui si era cacciata. Era sfinita. Non poteva uccidere questa bambina. Non poteva nemmeno uccidere Kylar. No, non era vero, era sicura che ci sarebbe riuscita. L'unico modo per salvarsi la vita di fronte al Re Divino era assecondarlo. Sarebbe stato ancora più soddisfatto se gli avesse consegnato Kylar vivo. In quel caso, il Re Divino non avrebbe mai conosciuto la sua debolezza. Si prese del tempo per ricomporre qualsiasi cosa si fosse spezzata dentro di lei mentre guardava Jarl morire in una pioggia di sangue. Elettrizzata, Vi tornò nella camera da letto di Kylar. Con mano abile e leggera, incise il glifo del Sa'kagé cenariano sul fianco del letto. Sotto, scrisse: «Ho la ragazzina». Appena Kylar fosse tornato, non trovando più sua figlia, avrebbe perlustrato l'intera casa. Scoperta l'incisione, avrebbe seguito Vi al cospetto del Re Divino. Quindi, a questo punto Vi non doveva fare altro che escogitare un modo per portare una ragazzina in lacrime fuori città senza farsi notare.
«Proviamo di nuovo», disse Vi. «Come ti chiami?» «Uly», rispose, con il viso arrossato dal pianto. «Bene, Uly, adesso ce ne andiamo. Tu puoi venire con me viva o morta. Non m'interessa. Sei servita allo scopo. Ti legherò le mani alla sella, così potrai anche saltare giù da cavallo se ne avrai voglia, ma finirai sotto le sue zampe e verrai trascinata finché non morirai. Scegli tu. Apri la bocca». Uly aprì la bocca e Vi le infilò il bavaglio. «Zitta», le ordinò, guardando con cipiglio lo straccio. «Di' qualcosa». «Mmm?», bofonchiò Uly. «Maledizione». Vi si concentrò sul bavaglio. «Zitta!», sussurrò. «Prova ancora». La bocca di Uly si mosse, ma non ne uscì alcun suono. A quel punto, la liberò: non era più necessario tapparle la bocca. Era uno stratagemma che aveva scoperto per caso alcuni anni prima. Non funzionava sempre, ma era più facile far uscire dalla città una bambina muta che una imbavagliata. Vi sellò la sua giumenta e il miglior cavallo che trovò nella stalla. Mezz'ora dopo, Caernarvon stava scomparendo alle loro spalle, ma la libertà era ancora molto lontana.
Capitolo 27 Animato da una rabbia gelida, Kylar attraversò a tutta velocità la superficie del tetto. Raggiunto il bordo, spiccò il salto, librandosi nell'aria della notte. Superò una distanza di sei metri senza difficoltà e guadagnò il muro. Si spinse in fuori, si aggrappò alla trave sporgente del tetto e si spostò agilmente su di essa, senza esitare. Aveva compiuto l'intera impresa mentre era invisibile, un fatto che solo pochi giorni prima lo avrebbe riempito d'orgoglio. Oggi, non riuscì a provare alcuna soddisfazione. I suoi occhi scrutarono le strade buie. Prima di uscire di casa, aveva asciugato il sangue di Jarl e pulito il pavimento - non voleva lasciare quell'incombenza a Elene. Aveva portato il corpo dell'amico al cimitero. Jarl non sarebbe marcito dentro una fogna come un qualsiasi rifiuto umano. Kylar non aveva nemmeno i soldi per pagare un becchino - grazie, Dio - così lasciò lì Jarl e giurò che sarebbe tornato. Jarl era morto. Una parte di lui non riusciva a crederci; la stessa parte che si era illusa che la vita tranquilla di un guaritore del Waeddryn potesse fare al caso suo. Come aveva potuto pensare una cosa simile? Non c'era niente di tranquillo nella vita di un Angelo della Notte. Niente. Era un assassino. La morte si sollevava al suo passaggio come il fango smosso da un bastone sul fondo di una pozza di acqua limpida e immota. Ecco. Due teppisti stavano importunando un ubriaco. Per gli dèi, era lo stesso ubriaco che aveva abbandonato al suo destino l'altra notte? Kylar si lasciò cadere dal tetto, si appese al cornicione sottostante e in dieci secondi fu in strada. L'ubriaco era già stato aggredito ed era a terra col naso sanguinante. Uno dei teppisti gli stava strappando la borsa con i soldi dalla cintura mentre l'altro stava di sentinella, con un lungo coltello stretto nel pugno.
Kylar si lasciò ammantare da un velo di parziale visibilità, un nero bagliore iridescente delineò i muscoli, gli occhi diventarono due orbite nere, il volto una maschera furiosa. Aveva solo intenzione di spaventare il tipo con il coltello, ma quando il giovane sgranò gli occhi nel vederlo, Kylar vi lesse qualcosa di talmente malvagio che fu spinto ad agire. Prima di rendersene conto, gli aveva piantato il pugnale nel cuore. Il coltello del teppista cadde sul selciato. «Che stai facendo, Terr?», domandò il rapinatore, voltandosi. Un istante dopo, Kylar lo aveva immobilizzato contro il muro tenendolo per la gola. Dovette soffocare il bisogno di uccidere, uccidere, uccidere. «Dov'è lo Shinga?», gli chiese rudemente. Terrorizzato, l'uomo cominciò a gridare e ad agitare le braccia. «Cosa siete?». Kylar gli bloccò una delle mani e la strinse. Un osso si spezzò, strappando un grido alla vittima. Kylar aspettò, poi gli serrò di nuovo la mano in una morsa. Si spezzò un altro osso. Senza lasciarsi intimidire dalla sfilza di imprecazioni, Kylar gli ridusse la mano in poltiglia, poi afferrò l'altra. L'uomo cominciò a farfugliare qualcosa guardandosi la mano maciullata. «Oh merda, merda, merda, la mia mano». «Dov'è lo Shinga? Non te lo chiederò un'altra volta». «Voi... no! Fermo! Terzo magazzino, lungo il molo tre. Oh, per gli dèi! Ma cosa siete?» «Io sono il castigo», replicò Kylar. Squarciò la gola del teppista e lo lasciò cadere a terra. L'ubriaco lo stava guardando a bocca aperta, evidentemente pensando di essere impazzito. Il magazzino era la base dello Shinga, ma Barush Sniggle non c'era. Kylar non si meravigliò. C'erano, però, dieci uomini di guardia all'interno dell'ingresso frontale. Kylar li studiò dall'alto delle travi del soffitto, cercando chi potesse fornirgli più informazioni degli altri.
La presenza delle guardie costituiva una prova sufficiente che era stato Barush Sniggle a inviare il sicario che aveva ucciso Jarl. Kylar non aveva idea di come avessero saputo che era stato lui a far pisciare sotto Sniggle qualche sera prima, ma eliminare l'uomo sbagliato al suo posto era un'impresa degna di questo Shinga. Kylar atterrò dietro all'uomo che sembrava essere il capo. Gli ruppe il braccio destro e gli rubò la spada. Metà dei picchiatori fu messa fuori uso prima di riuscire a combattere l'uomo invisibile che li stava uccidendo. Chi combatteva, lo faceva con stile maldestro. Vesti un teppista con un'armatura e mettigli in mano una spada e non otterrai un soldato, ma un teppista che maneggia una spada come se fosse un pezzo di legno. Presto tutti finirono fra le braccia della Morte. Kylar si concentrò sul capo delle guardie, l'unico ancora vivo, e di nuovo lasciò che gli occhi e il volto tornassero visibili. Gli bloccò il braccio rotto con un piede e gli poggiò la lama sulla gola. «Voi siete il sicario». L'uomo imprecò, il viso largo pallido e sudato. Il fremito della folta barba nera tradì la sua paura. «Ha detto che eravate una ragazza». «Sbagliato, te lo assicuro», ribatté Kylar. «Lo Shinga ha detto che ha importunato un sicario di Cenaria, e noi avremmo dovuto ucciderlo se si presentava qui». «Dov'è lui?» «Se ve lo dico, mi risparmierete la vita?». Kylar guardò l'uomo negli occhi e, stranamente, non vi colse o immaginò di non vedere - o qualunque cosa avesse sentito altre volte - quella malvagità che reclamava morte. «Sì», rispose, sebbene l'impulso di uccidere fosse ancora vivo dentro di lui. L'uomo gli parlò di un rifugio e di un'altra trappola, una stanza sotterranea con una sola entrata, sorvegliata da altre dieci guardie. Stringendo i denti per soffocare la rabbia, Kylar gli disse: «Di' loro che l'Angelo della Notte è tornato. Di' loro che è arrivata la Giustizia».
Capitolo 28 La grata si aprì cigolando e la faccia di Gorkhy apparve nell'alone di luce della torcia. Sembrava contento. Logan odiava quell'uomo con tutto se stesso. «Carne fresca, ragazzi», disse la guardia. «Tenera carne fresca». Alcuni dei prigionieri alle spalle di Gorkhy scoppiarono in singhiozzi. Era una deliberata crudeltà portarli lì a quest'ora. Era mezzogiorno; gli urlatori sbraitavano a più non posso, e una vampata di aria calda e fetida si sollevava dal Buco come una gigantesca, infinita scoreggia. Faceva agitare la fiamma della torcia e le figure degli ospiti sembravano torcersi e guizzare nella caligine, scintillanti di sudore. Da quando Logan era saltato nel Buco ottantadue giorni prima, era arrivato solo un nuovo prigioniero. Era stato Gorkhy a fare gli onori di casa, gettandolo dritto lì dentro. Il volto del detenuto aveva sbattuto mollemente contro l'orlo del baratro e il corpo era sprofondato nell'abisso. Così adesso gli animali e i mostri si affollarono intorno al Buco, come facevano quando Gorkhy buttava giù il pane. Non era per salvare la vita dei prigionieri, ma per procurarsi un po' di carne. «Bene, amici cari», ironizzò Gorkhy. «Chi è il primo?». Tenendo d'occhio Fin, che lo stava osservando con eguale intensità, Logan si tenne lontano dall'orlo del baratro. Riusciva ad allungarsi più di tutti gli altri, ma afferrare un corpo che precipitava era diverso dall'afferrare un filone di pane, e Fin aveva già srotolato la fune di tendini che portava addosso. Ci fu un rumore di lotta e imprecazioni, e una donna si lanciò contro la grata. Gorkhy tentò di bloccarla, ma gli sgusciò dalle braccia. Si tuffò a capofitto, fermandosi di colpo a mezz'aria quando Gorkhy riuscì ad acciuffarla per il vestito. La donna urlò e scalciò, sospesa proprio sopra la testa di Logan, che saltò e le afferrò una mano che continuava a flagellare l'aria, ma
la presa gli scivolò. La donna precipitò ancora di qualche decina di centimetri, finché rimase appesa a testa in giù a poca distanza dal pavimento di roccia. «Fin!», gridò Lilly. «Prendilo!». Gorkhy era caduto in ginocchio, tenendo sempre saldamente il vestito della prigioniera con una mano e aggrappandosi alla grata con l'altra. Aveva la testa in piena vista. Per Fin, che si allenava continuamente con il suo lazo, era un bersaglio facile. Gorkhy stava imprecando, ma resisteva. Logan saltò di nuovo per raggiungere la mano della donna, ma non ci riuscì. Fin si precipitò sulla scena, pronto a lanciare il lazo. Nel frattempo, gli altri ospiti del Buco protestavano a gran voce, gettando escrementi in faccia a Gorkhy. Logan spiccò un altro balzo e afferrò la mano della ragazza. Il vestito si strappò e il corpo crollò addosso a Logan, che riuscì a malapena a frenare la sua caduta, deviandola dalla bocca dell'abisso. Logan si rialzò in piedi barcollando e vide il volto livido di rabbia di Gorkhy alla luce della torcia, ancora in piena vista, quasi aspettasse solo di ricevere il cappio intorno al collo ed essere trascinato nel Buco per finire dilaniato. Voltandosi, Logan scorse Fin poco lontano, ma l'uomo aveva lasciato cadere il lazo. Ebbe appena il tempo di notare uno scintillio metallico che Fin gli sferrò una coltellata. Il colpo andò a vuoto fra le costole e il braccio sinistro, mentre Logan si torceva per evitare la lama. Poi si udì il clangore dell'arma che cadeva sul pavimento di pietra. Logan affondò un pugno in direzione della testa di Fin, ma questi si chinò di scatto, crollò a terra e indietreggiò in fretta. Logan cominciò a incalzarlo, deciso a ucciderlo finché ne aveva l'occasione ma, mentre avanzava, si accorse che gli altri prigionieri stringevano d'assedio la nuova ragazza. Non poteva abbandonarla. Sapeva cosa passava nelle loro teste quando vedevano una giovane donna seminuda, ancora stordita dalla caduta. Aveva sentito gli stupratori ricordare le loro gesta, raccontare quante dolci ragazze si erano fottuti. Alcuni di loro non riuscivano nemmeno a scopare con Lilly; una donna consenziente li rendeva impotenti.
Logan lanciò un ruggito di dolore e frustrazione e quel branco di animali rovinò in terra. La ragazza aveva raccolto il coltello e si era puntellata contro la parete, facendosi forza per non cadere nel baratro. Dal modo in cui si reggeva in piedi, doveva essersi storta una caviglia durante la caduta. «State indietro», disse, agitando disperatamente il coltello intorno a sé. «State indietro!». I suoi occhi guizzarono da Logan all'abisso e poi a Gnasher. La giovane stava tremando. Era graziosa e fragile allo stesso tempo, con lunghi capelli biondi e lineamenti delicati. Non era molto sporca, quindi non doveva essere stata a lungo in prigione. Abbastanza per Gorkhy, però, maledetto lui e quell'inferno: sul vestito strappato, in mezzo alle gambe, c'era del sangue fresco. Logan sollevò le mani. «Tranquilla», le disse. «Non voglio farti del male. Ma dobbiamo spostarci, altrimenti ci piomberanno tutti addosso». La ragazza lanciò un'occhiata inquieta verso l'alto, poi cominciò a spostarsi lungo la parete circolare. Gorkhy era sparito dalla cornice della grata grazie all'intervento delle altre guardie. Il resto dei prigionieri fu raggruppato vicino all'entrata. Il primo uomo non aveva intenzione di saltare dentro, così dovettero spingerlo. L'impatto con la solida roccia dopo un volo di quattro metri gli spezzò le gambe, e gli abitanti del Buco gli furono addosso in un istante. Con grande sgomento, Logan vide Gnasher unirsi a loro, scagliando da parte gli altri per affondare i denti affilati nella carne viva. Il secondo uomo rimase pietrificato di fronte allo spettacolo, che riuscì ad ascoltare più che a vedere. Le guardie lo spinsero e anche lui divenne carne da macello. Dopo questo, quasi tutti gli altri prigionieri erano disposti ad appendersi alla grata e buttarsi dentro di propria iniziativa. Logan adesso non aveva tempo per cibarsi. In un altro giorno, avrebbe lottato anche lui per procurarsi della carne. Ma oggi non
avrebbe mangiato, non davanti agli occhi di questa ragazza. La sua presenza gli fece ricordare cose migliori. Ebbe voglia di piangere. «Per gli dèi», esclamò. «Natassa Graesin», gli sfuggì di bocca. Non avrebbe dovuto pronunciare il suo nome, ma era sconvolto nel vedere un altro membro della nobiltà in quell'inferno. Aveva diciassette anni ed era la secondogenita dei Graesin. Era sua cugina. Natassa Graesin lo fissò, abbracciando con lo sguardo terrorizzato quel relitto alto ed emaciato che un tempo era stato un fisico robusto e atletico. Logan era l'ombra di quel che era stato un tempo, eppure era ancora alto, inconfondibilmente alto. Alzò le mani per invitarla al silenzio, ma lo fece troppo tardi. «Logan? Logan Gyre?», disse la ragazza. Sentì il mondo crollargli addosso. Per tutto il tempo che era stato rinchiuso laggiù era stato solo il Re o Tredici. Nel delirio della fame, si era alla fine unito agli altri intorno al baratro per afferrare il pane con le sue lunghe braccia riusciva a prenderne più degli altri, a costo di far sapere a Gorkhy che nel Buco c'era un alto uomo biondo. Ma non aveva mai e poi mai usato il suo vero nome. Lanciandosi un'occhiata dietro le spalle, vide i nuovi prigionieri cadere nel vuoto, schiantarsi sulla roccia. Nell'oscurità quasi totale, erano come ciechi, terrorizzati, piagnucolavano e gridavano e imprecavano, mentre sentivano gli ospiti del Buco strappare le carni fresche. Era scoppiato un tafferuglio per il monopolio del cibo, di fronte allo sguardo deliziato e divertito di Gorkhy che accettava scommesse sulla sorte di ciascun prigioniero, e gli urlatori continuavano a urlare. Molto rumore, molta confusione, molte distrazioni. Forse il suo nome era passato inosservato. Ma uno dei nuovi prigionieri non stava frignando, non era confuso, e nemmeno distratto. Tenser Vargun non sembrava spaventato, nonostante il fracasso e la calura e il tanfo e il buio e la violenza. Stava osservando Natassa e Logan, la testa piegata di lato, gli occhi socchiusi per mettere a fuoco nell'oscurità. Sembrava sovrappensiero.
Capitolo 29 Elene non riusciva a respirare. Kylar l'aveva lasciata; si era portato via Uly. Un rifiuto completo. Le cose sembravano andare così bene. Le cose erano andate bene. Elene non riusciva a crederci, non voleva crederci. Perlustrò la cucina in cerca di qualche traccia. Trovò una macchia sulle assi del pavimento, scura contro il legno scuro, ripulita in modo frettoloso. Niente sembrava essere colato dalla cucina, ma non capiva cosa potesse essere. Poi scoprì un solco profondo e sottile nel pavimento lì vicino. Salì al piano di sopra. Gli indumenti da sicario di Kylar erano spariti, e anche Retribution. Stava spingendo di nuovo la cassetta sotto il letto, quando vide il simbolo del Sa'kagé cenariano inciso nella fiancata di legno. «Ho la ragazzina», diceva la scritta sottostante, tracciata con mano abile e attenta. Elene si sentì di nuovo mancare il respiro. Qualcuno aveva preso Uly, e Kylar gli stava dando la caccia. La rivelazione la riempì di paura e sollievo insieme. Kylar non l'aveva abbandonata, ma Uly era stata rapita da qualcuno che sapeva chi era Kylar. Qualcuno che voleva tendergli una trappola. Ma dov'era Kylar quando avevano preso Uly? Se qualcuno l'aveva acciuffata per strada, avrebbe lasciato un biglietto sulla porta d'ingresso, ma non avrebbe osato irrompere in casa se Kylar era al piano terra. Si udì un grido dabbasso e dei colpi contro la porta. «Aprite la porta. In nome della regina, aprite la porta!». Quando Elene vide Zia Mea che lasciava entrare in casa le guardie della città, ebbe di nuovo paura. A Cenaria, le guardie erano considerate talmente corrotte che nessuno si fidava di loro. Ma poi notò il palese sollievo della zia. Ci volle almeno un'ora per ricostruire quanto era accaduto. Un vicino aveva visto Kylar uscire di casa con un corpo gettato sulle spalle, un giovane attraente con la carnagione scura, i capelli acconciati in sottili treccioline fermate con perle dorate. Elene capì
immediatamente che doveva trattarsi di Jarl. Appena Kylar si era allontanato con il cadavere, il vicino era corso a chiamare le guardie. A metà del tragitto, le guardie erano state intercettate dalla moglie del vicino, che aveva visto una donna con un arco introdursi nella casa un minuto prima che arrivasse Uly, e poi andarsene portandosi dietro la bambina. Dalle prove, le guardie ritenevano che la donna fosse l'assassina, grazie a Dio, ma volevano comunque parlare con Kylar. Quella notte, Elene rimase sveglia, piangendo la morte di Jarl e cercando di dare un senso alla faccenda. Perché Jarl era venuto qui? Perché era in pericolo? Perché voleva affidare un incarico a Kylar? Concluse che la spiegazione più plausibile era proprio l'ultima. Jarl era un personaggio troppo importante per lasciare Cenaria per puro capriccio, e se fosse partito perché era in pericolo, avrebbe portato con sé delle guardie del corpo. Così Jarl era stato ucciso per caso? - mentre cercava di assoldare Kylar. Kylar aveva accettato l'incarico, oppure era deciso a vendicarlo. In un modo o nell'altro, era uscito prima che Uly fosse rapita. Poteva anche non saperne nulla. L'indomani, a mezzogiorno, Kylar non era ancora tornato. Qualcuno bussò alla porta ed Elene si affrettò ad aprire. Era una delle guardie venute il giorno prima. «Ho pensato che era giusto informarvi», disse il giovane. «Abbiamo parlato con le guardie all'ingresso della città non appena è stato possibile, ma con il cambio dei turni è difficile interpellare tutti. Una giovane donna che rispondeva alla descrizione dell'assassina ha lasciato ieri la città, diretta a nord. Aveva con sé una ragazzina. Le abbiamo già sguinzagliato dietro dei soldati, ma ha un buon vantaggio. Mi dispiace». Quando la guardia se ne andò, Braen e Zia Mea guardarono Elene, sicuri che sarebbe scoppiata in lacrime. «Andrò a cercare Uly», disse invece Elene. «Ma...», cominciò Zia Mea. «Lo so, credetemi, so che sono l'ultima persona che dovrebbe andare. Ma cos'altro posso fare? Se Kylar torna, ditegli dove sono
andata. Mi raggiungerà, ne sono sicura. Se sta già dando loro la caccia, lo incontrerò sulla via del ritorno. Ma se non sa che Uly è stata rapita, io potrei essere la sua unica speranza». Zia Mea aprì la bocca per protestare ancora, ma poi la richiuse. «Capisco». Elene infilò i suoi pochi indumenti in una sacca, e quando discese in cucina, Zia Mea le aveva già impacchettato cibo sufficiente per una settimana. «Braen verrà a salutarmi?», domandò Elene. Zia Mea la accompagnò fuori. «Braen saluta a modo suo». Davanti al negozio, c'era un cavallo sellato, robusto e mansueto. Gli occhi di Elene si riempirono di lacrime. Aveva creduto di dover partire a piedi. «Dice che ultimamente ha ricevuto grosse ordinazioni», commentò Zia Mea, evidentemente orgogliosa del figlio. «Adesso vai, bambina, e che Dio sia con te». Kylar osservava la fossa che aveva appena scavato, facendo del proprio meglio per procurarsi una bella sbornia. Mancavano due ore all'alba; la quiete regnava nel cimitero. Gli unici rumori erano il frusciare delle foglie nel vento e lo sfarfallare di insetti notturni. Kylar aveva scelto quel cimitero perché era il più sontuoso lungo la via che lo avrebbe portato fuori città. Dopo aver ucciso lo Shinga, lo aveva derubato, e adesso aveva un mucchio di denaro, e Jarl si meritava il meglio. Se il becchino manteneva la parola data, entro una settimana la tomba avrebbe avuto la sua lapide. Facevano una bella coppia. Jarl adagiato sul terreno accanto alla fossa, il sangue rappreso leggermente più scuro della sua pelle, le membra che cominciavano a irrigidirsi. Kylar era imbrattato di sangue più del suo amico morto, con grumi che si seccavano sul corpo in dure giogaie, per poi sfaldarsi mentre lavorava e riformarsi con il suo sudore. Sembrava che sudasse sangue. La fossa era finita. Ora Kylar avrebbe dovuto dire qualcosa di significativo. Bevve un altro po' di vino. Si era portato dietro quattro otri e ne aveva già vuotati due. Un anno prima, due l'avrebbero già messo
fuori uso. Adesso, non era nemmeno alticcio. Scolò il terzo otre poi, con voluta meticolosità, vuotò il quarto a lunghe sorsate. Lo sguardo tornava sempre sul cadavere di Jarl. Cercò di immaginare le ferite chiudersi, come era stato per le sue tanto tempo prima. Ma non si stavano chiudendo. Jarl era morto. Un attimo prima era vivo, adesso semplicemente non lo era più. Alla fine Kylar aveva compreso quello strano sguardo negli occhi morenti di Jarl. Il sicario cenariano che lo Shinga Sniggle aveva ordinato di uccidere non era Kylar. Era Vi Sovari, ed era stata lei a uccidere Jarl con la freccia rossa e nera del traditore. Era tipico di Jarl cogliere l'ironia in un evento del genere: aveva appena confessato di amare una donna e questa aveva scoccato la freccia che lo aveva ucciso. «Merda», imprecò Kylar. Non c'erano parole per esprimere l'immensa devastazione che vedeva davanti a sé. Jarl non c'era più. Di fronte a lui non c'era ormai che un mucchio di carne e ossa. Kylar desiderò aver fede nel Dio di Elene. Credere che Jarl e Durzo fossero in un posto migliore. Ma era anche abbastanza onesto da riconoscere che era una propria esigenza - una sensazione in qualche modo confortante. Anche se il Dio di Elene esisteva davvero, Jarl e Durzo non credevano in Lui. Quindi ora stavano bruciando all'inferno, no? Scese nella fossa e tirò giù il cadavere di Jarl. La pelle dell'amico era fredda, resa viscida dalla rugiada del mattino che si andava condensando su di essa. Non era giusto. Kylar lo depose nella terra con ogni premura e si arrampicò in superficie. Ancora non si sentiva ubriaco. Si sedette sul cumulo di terra smossa accanto alla tomba, e realizzò che era colpa del ka'kari. Il suo corpo reagiva all'alcol come a qualsiasi veleno, e ne eliminava gli effetti. Era talmente efficiente che avrebbe dovuto ingollare quantità massicce di vino per ubriacarsi. Proprio come aveva fatto Durzo.
E io l'ho liquidato come un ubriaco. Ecco un altro modo in cui
Kylar aveva frainteso il suo maestro, un altro modo in cui l'aveva
condannato a cuor leggero. Questa consapevolezza non fece che ravvivare il suo dolore. «Mi spiace, fratello», disse Kylar, e mentre le parole uscivano dalle sue labbra si rese conto che Jarl era stato proprio questo: un fratello maggiore che vegliava su di lui. Perché era condannato a scoprire quel che una persona significava per lui solo dopo la sua morte? «Farò in modo che la tua morte non sia inutile, Jarl». Dare un significato al sacrificio di Jarl voleva dire abbandonare Elene e Uly e la vita che avrebbe potuto avere. Aveva giurato a Uly che non l'avrebbe lasciata, come aveva fatto ogni adulto nella sua vita. Ed era quel che stava facendo anche lui.
È stato così anche per voi, maestro? È qui che nasce l'oceano di amarezza? E la rinuncia alla mia umanità il prezzo da pagare per l'immortalità? Non c'era altro da fare, niente da aggiungere. Non riuscì nemmeno a versare una lacrima. Mentre i primi uccelli del mattino cantavano la meraviglia del sole che rinasceva, Kylar riempì la fossa di terra.
Capitolo 30 Per due giorni,
Uly non parlò, non mangiò, non bevve. Vi aveva imposto al piccolo convoglio un serrato ritmo di marcia lungo la strada della regina, dirigendosi a ovest e poi a nord. La prima notte erano passate accanto alle grandi tenute della nobiltà del Waeddryn. Quando si fermarono, poche ore dopo l'alba, erano in una zona di campi coltivati. I campi erano brulli, le colline ondulate coperte dalle stoppie irregolari del farro mietuto. Il primo giorno, Uly aveva aspettato che il respiro di Vi diventasse regolare poi, dopo dieci minuti, era schizzata verso il suo cavallo. Non lo aveva nemmeno slegato che Vi l'aveva già riacciuffata. Il secondo giorno, Uly aspettò un'ora. Si alzò senza far rumore, e stava quasi per spuntarla. Stavolta riuscì a slegare il cavallo, ma si spaventò a morte quando, voltatasi per passare le redini intorno al collo dell'animale, si era trovata Vi dietro la schiena, con le mani sui fianchi. Tutte e due le volte Vi la picchiò, facendo attenzione a non ferirla. Niente ossa rotte o cicatrici. Si chiese se non fosse troppo accomodante con quella ragazzina, ma finora non aveva mai picchiato un bambino. Vi era abituata a uccidere uomini, a infondere il vigore del Talento nei suoi muscoli e lasciare che le vittime ne subissero le conseguenze. Se avesse riservato lo stesso trattamento a Uly, la bambina sarebbe morta. E questo non rientrava nei piani di Vi. Ma il terzo giorno, Uly non cambiò atteggiamento. Non aveva ancora bevuto un sorso d'acqua. Rifiutava tutto quel che Vi le offriva, e stava perdendo le forze. Aveva le labbra aride e spaccate, gli occhi arrossati. Vi, suo malgrado, non poté fare a meno di ammirarla. La ragazzina era tosta, non c'erano dubbi. Vi riusciva a sopportare il dolore più di molti altri, ma non sopportava il digiuno. Quando aveva dodici anni, Hu la privava ripetutamente del cibo, concedendole un solo pasto al giorno "così non sarebbe ingrassata".
L'aveva riammessa ai tre pasti regolari dopo aver deciso che andava tutto a beneficio delle sue tette. Ma peggiore della fame erano stati i periodi in cui le toglieva l'acqua perché pensava che la ragazza fosse diventata indolente. Il bastardo non riusciva ad afferrare il concetto che una donna potesse avere i dolori mestruali. Aveva dovuto fingere che la sete non era un problema per lei, perché se avesse mostrato il contrario, sarebbe diventata la punizione preferita da Hu. «Senti, Ugly», disse mentre si accampavano in una piccola valle al sorgere del sole. «Non me ne frega niente se muori. Mi servi più viva che morta, ma non più di tanto. Kylar mi seguirà fino a Cenaria, in un modo o nell'altro. Tu, invece, vorrai probabilmente rivederlo, non è vero?». Uly resse il suo sguardo con gli occhi infossati e colmi di odio. «È scommetto che lui ti prenderà a calci nel culo se muori senza una ragione. Perciò, ehi, se vuoi continuare a digiunare, morirai presto. Domani dovrò legarti alla sella, e forse non supererai la notte. A me darebbe solo fastidio, ma Kylar ne soffrirebbe di certo. Se preferisci lasciarti morire come un gattino invece di mantenerti in forze per combattermi, fai pure. Ma ricordati che non stai impressionando nessuno». Vi posò un otre di acqua davanti a Uly e si accinse a legare i cavalli. Ormai non temeva più che la ragazzina potesse tentare la fuga. Era troppo debole. Ma Vi bloccò comunque le redini con il Talento. Oggi voleva dormire, maledizione. Le colline circostanti erano rivestite di foreste, spezzate qua e là da piccoli villaggi in mezzo a distese di campi coltivati. La strada era ancora ampia e frequentata. Il ritmo del viaggio era perfetto. Non c'era modo di sapere che vantaggio avessero su Kylar, ma Vi aveva evitato i villaggi ed era certa che questo aveva fatto guadagnare ore preziose a Kylar. La sera prima, aveva barattato i cavalli. Se Kylar era riuscito in qualche modo a individuare le tracce lasciate dai loro animali, l'avrebbe preso in contropiede.
Ciò nonostante, aveva incrociato molti altri viaggiatori e, per quanto lei si avvolgesse nel mantello per nascondere il proprio sesso e la propria identità, non c'era modo di eludere il fatto che Uly fosse una bambina. Né c'era una concreta possibilità di essere passate inosservate fra le colline spoglie che avevano appena attraversato. Di solito, superavano a gran velocità i carri dei mercanti e i barrocci dei contadini, ma anche questo presentava i suoi svantaggi: guadagnavano tempo lungo il percorso, ma si rendevano più facilmente riconoscibili. L'unico contatto avuto con Kylar era stato quando aveva tentato di ucciderlo presso la dimora dei Drake. Per ironia della sorte, re Gunder aveva assoldato Vi, che aveva cercato di assassinare suo figlio, per uccidere Kylar, che aveva invece cercato di proteggerlo. Lo aveva bloccato con il peso del proprio corpo e con la minaccia del coltello il giorno che aveva accettato il contratto. Le era piaciuto. Si era mostrato sorprendentemente calmo per un uomo nella sua situazione. Calmo e anche con un pizzico di fascino, sempre che fare dell'umorismo scadente davanti alla morte si potesse considerare affascinante. E lo avrebbe ucciso, ma aveva esitato. No, non esitato. Quel giorno non era stata la mancanza di volontà a fermare la sua mano quanto l'orgoglio per aver portato a termine un lavoro così difficile in così poco tempo. Hu non le dimostrava mai il suo apprezzamento. Sebbene sotto coercizione, i complimenti di Kylar le erano parsi sinceri, e non c'erano molte persone con le quali un sicario poteva parlare di affari. Così Vi aveva ceduto alla tentazione che Kylar le aveva prospettato, mentre cercava di guadagnare tempo in modo talmente spudorato che lei lo aveva lasciato fare. Poi il conte filantropo aveva fatto irruzione nella stanza e Kylar le aveva affondato il coltello nella spalla mentre lei fuggiva. A volte, a distanza di mesi, la spalla le pulsava ancora dolorosamente. Aveva perso un po' della flessibilità, nonostante l'avesse fatta subito curare dallo stregone a cui ricorreva sempre Hu. La prossima volta, non avrebbe esitato. Sapeva che avrebbe dovuto essere euforica dopo aver ucciso Jarl. Adesso era libera. Un maestro sicario. Hu non avrebbe più messo
bocca su niente nella sua vita e, se ci avesse provato, avrebbe potuto ucciderlo senza preoccuparsi di eventuali ripercussioni sul Sa'kagé. Cioè, sempre che il Sa'kagé fosse sopravvissuto ai piani del Re Divino.
Ho ucciso Jarl. Il pensiero non voleva abbandonarla. Da due giorni, ormai. Ho ucciso l'uomo che è stato per me la cosa più vicina a un amico che io abbia mai avuto. Non c'era stato niente di notevole in quell'azione. Anche un ragazzino era in grado di arrampicarsi su un tetto e scoccare una freccia. Aveva desiderato di mancare il bersaglio, vero? Avrebbe potuto mancarlo. Avrebbe potuto semplicemente non scoccare quella freccia. E poi entrare in quella casa e unirsi a Kylar e Jarl nella lotta contro il Re Divino. Ma non lo aveva fatto. Aveva ucciso, e adesso era di nuovo sola, diretta in un posto dove non voleva andare, portandosi dietro una ragazzina contro la sua volontà, costringendo un uomo che rispettava a seguirla per cadere in una trappola.
Sei un dio crudele, Nysos. Non potresti lasciarmi qualcosa di più di polvere e cenerei A me, che ti servo con tanta lealtà. Dal mio coltello e dai miei fianchi scorrono fiumi di seme e sangue. Non merito per questo un posto privilegiato? Non merito un amico? Tossì e sbatté rapidamente le palpebre. Si morse la lingua fin quasi a farla sanguinare. Noti piangerò. Nysos può avere il seme e il
sangue, ma non avrà le mie lacrime. Che tu sia maledetto, Nysos.
Ma non lo disse ad alta voce. Da troppo tempo serviva quel dio per rischiare di scatenare la sua collera. Aveva anche compiuto una sorta di pellegrinaggio - durante lo svolgimento di un incarico - in una cittadina, nella regione vinicola di Sethi, sacra a Nysos. La festa del raccolto era dedicata al dio. Il vino scorreva a fiumi. Le donne si abbandonavano a ogni passione che le solleticasse. Praticavano anche una singolare forma di narrazione: gli uomini salivano su un palco indossando maschere e recitando, mentre il pubblico assisteva a un ciclo di rappresentazioni in tre parti pieno delle sofferenze dei mortali e del loro bisogno che gli dèi intervenissero a sistemare le cose; poi seguiva una commedia oscena e maliziosa che sembrava prendere in giro ogni abitante del
luogo, persino l'autore della commedia. La cittadina ne era entusiasta. Applaudivano, piangevano e cantavano in coro canti sacri fra i fumi dell'alcol, e si accoppiavano come conigli. Per una settimana, a nessuno era permesso rifiutare una proposta sessuale. Per Vi, si trasformò in una lunga settimana. Fu l'unica volta in tutta la sua vita in cui ebbe motivo di lamentarsi della propria bellezza. Aveva preso a indossare vestiti sformati nella speranza di attirare meno uomini.
Tutti questi servigi, Nysos. Per cosa? Per la vita? Hu ha quasi quarantanni, e per quanto dichiari di servirti, le uniche volte in cui il nome di un dio sfiora le sue labbra è per dire una bestemmia. Quando Vi tornò dove erano stati srotolati i sacchi a pelo, Uly aveva vuotato l'intero otre di acqua. Sembrava sul punto di vomitare. «Se vomiti su uno di questi, ci dormirai dentro anche se è sporco», la minacciò Vi. «Kylar ti ucciderà», disse Uly. «Anche se sei una ragazza». «Non sono una ragazza. Sono una strega, e non dimenticarlo». Vi le lanciò la sacca con il cibo, ma Uly lasciò che cadesse a terra. «Mangia lentamente e non troppo, altrimenti finirai col vomitare e morirai». Uly seguì il suo consiglio e presto crollò sul sacco di pelo e si addormentò nel giro di pochi secondi. Vi rimase sveglia. Era stanca, dolorante, provata. Si fermava a pensare così a lungo solo quando era esausta. Non le faceva bene pensare. Era inutile. Si diede da fare per rendere il campo invisibile. Era un mattino nebbioso. Non erano lontane dalla strada, ma si trovavano in una piccola depressione. Il torrente scendeva gorgogliando dalle Colline dell'Orso d'Argento e lo scroscio dell'acqua copriva il rumore dei cavalli; non avendo acceso alcun fuoco, la loro presenza sarebbe passata inosservata. Aveva fatto del suo meglio per nascondere i cavalli dietro un folto d'alberi. Si accovacciò con la schiena contro un tronco e cercò di convincere la sua mente di quanto fosse stanco il suo corpo.
In lontananza, sentì un rumore di zoccoli. Era attutito dalla fitta nebbia, ma poteva trattarsi di una cosa sola: cavalli. Tirò fuori la spada e il coltello, intingendone la punta nella guaina avvelenata. Guardò Uly, valutando l'ipotesi di ridurla magicamente al silenzio, ma sarebbe dovuta uscire allo scoperto e comunque non sapeva se avrebbe funzionato, così si appiattì contro il tronco e sbirciò in direzione del rumore. Pochi istanti dopo, apparve Kylar, con due cavalli. Passò loro accanto a venti passi di distanza. Doveva aver viaggiato senza soste, passando da un cavallo all'altro. Rallentò appena anche quando raggiunse il guado. Il cavallo di Vi batté uno zoccolo sul terreno e uno dei cavalli di Kylar nitrì. Kylar imprecò e gli strattonò le redini. Uly si girò nel sacco a pelo, mentre Kylar si accingeva ad attraversare il corso d'acqua. I cavalli si arrampicarono sulla sponda opposta e si allontanarono al galoppo. Kylar non si voltò mai indietro. Vi ridacchiò e si allungò a terra. Dormì profondamente. Quella sera, quando si svegliò, Uly dormiva ancora. Bene. Vi non aveva tempo di correre dietro alla ragazzina. Al suo posto, un altro rapitore si sarebbe limitato a legare l'ostaggio e avrebbe sistemato la faccenda. Ma non erano le funi più robuste a legare le mani. L'arma di Vi era la disperazione, non la corda. Le corde dell'immaginazione di Uly l'avrebbero legata per sempre.
Le corde della propria immaginazione. Io ne so qualcosa, eh? Svegliò la bambina con un calcio, ma non forte quanto avrebbe voluto. La salvezza di Uly era passata così vicino, e lei non lo avrebbe mai saputo.
Capitolo 31 L'abilità più utile che Dorian
avesse mai acquisito si rivelò molto semplice: trovò il modo di mangiare e bere senza interrompere lo stato di trance. Invece di ricorrere alla continua vigilanza di Solon, pronto a cogliere gli inevitabili segni di disidratazione e a svegliarlo, Dorian fu in grado di mantenere lo stato di trance per settimane. Sebbene fosse consapevole di apparire totalmente staccato dalla realtà, era vero il contrario. Dalla sua piccola stanza presso la guarnigione di Screaming Winds, Dorian osservava ogni cosa. L'invasione khalidoriana aveva risparmiato la guarnigione cenariana di stanza a Screaming Winds. Gran parte dell'esercito khalidoriano era soltanto transitato dal Passo di Quorig, distante più di una settimana di cammino in direzione est. Con la morte del padre di Logan, il duca Regnus Gyre, la guarnigione era stata affidata a un giovane nobile di nome Lehros Vass. Era armato delle migliori intenzioni, ma non sapeva come agire senza un comandante ufficiale. Solon elargiva consigli che, col passare dei giorni, suonavano più come ordini. Se Khalidor avesse attaccato adesso Screaming Winds, l'avrebbe fatto dal versante cenariano, così spostò le difese e trasferì uomini e provviste all'interno delle mura. Nessuno comunque si aspettava un attacco. La verità era che Screaming Winds ormai non presidiava un bel niente. Garoth Ursuul poteva anche lasciarli invecchiare e morire laggiù, e avrebbe perso solo una rotta commerciale che non veniva usata da centinaia di anni. Lontano, a sud, Feir se la stava cavando con meno successo, sebbene seguisse le tracce di Curoch in modo mirabile. Feir aveva davanti a sé un duro cammino da percorrere, e Dorian non poteva fare nulla per renderglielo più facile. Talvolta Dorian si disgustava. Aveva visto Feir morire una dozzina di volte, alcune in modo talmente disonorevole che aveva pianto anche durante la trance. Nella migliore delle ipotesi, Feir avrebbe avuto davanti a sé ancora una ventina d'anni e una morte eroica.
Come sempre, Dorian sconfinava anche nel proprio futuro. Aveva trovato il modo per farlo senza rischiare la pazzia. Si limitava a osservare il futuro di altre persone nei luoghi in cui era presente anche lui. Tuttavia, non funzionava bene. Scorgeva una mezza dozzina di modi in cui le persone avrebbero potuto interagire con lui, e come le loro scelte avrebbero influito sull'incontro, ma non quale sarebbe stato il suo comportamento. Così riusciva a vedere "cosa", ma non il "perché". Non poteva seguire la linea delle proprie scelte per vedere dove l'avrebbe condotto. Ogni tanto riusciva a guardare il proprio volto attraverso gli occhi di altre persone e indovinare a cosa stesse pensando, ma erano solo dei rari flash. Stava impiegando troppo tempo, anche prolungando per mesi lo stato di trance, e mentre ricomponeva i pezzi della propria vita, tutto il resto cambiava. Così iniziò a occuparsi direttamente del proprio futuro. Venne subito a conoscenza di varie cose. Prima di tutto, sarebbe diventato una fonte di speranza o di disperazione per decine di migliaia di persone nell'arco di un anno. Secondo, si era aperto un baratro fra le possibili prospettive nel suo futuro. Risalì indietro nel tempo e realizzò che questo era dovuto al fatto che, in alcuni percorsi, aveva scelto di rinunciare al suo dono della profezia. Ne rimase stupito. Aveva già preso in considerazione questa ipotesi, naturalmente. Durante la sua pratica con i guaritori, invalidare il suo dono era l'unica cura che era riuscito a trovare per la sua crescente follia. Ma il suo gli era parso un regalo per il mondo intero, e se n'era assunto volentieri le responsabilità perché sapeva che avrebbe aiutato altri a evitare disastri. Terzo, Khali in persona stava venendo a Screaming Winds. Dorian provò un senso di sconforto. Se avesse proseguito oltre la guarnigione, sarebbe andata a Cenaria e sarebbe finita nella prigione infernale che chiamavano le Fauci. Garoth Ursuul avrebbe avuto due dei suoi figli trasformati in ferali. Ne avrebbe usato uno contro l'esercito ribelle. Sarebbe stato un massacro. Khali e il suo seguito era ancora a due giorni di distanza. Dorian aveva tempo. Dopo un istante, fu trascinato via dalla corrente, volti gli sfrecciarono accanto finché il flusso divenne un vortice e lo
risucchiò. La sua giovane moglie in lacrime. Una ragazza impiccata. Un villaggio nel Waeddryn del Nord dove avrebbe potuto vivere con la famiglia di Feir. Un ragazzo con i capelli rossi che era come un figlio per lui, quindici anni più tardi. Uccideva i suoi fratelli. Tradiva sua moglie. Le diceva la verità e la perdeva. Una maschera d'oro raffigurante il suo volto, che piangeva lacrime d'oro. Marciava con un esercito. Neph Dada. Si allontanava dall'esercito. Solitudine, follia e morte, in una dozzina di modi diversi. Lungo ogni percorso non vedeva che sofferenza. Ogni volta che sceglieva qualcosa di buono per sé, ne soffrivano le persone a lui care. «Lo sapevi?», gli chiese la moglie. «L'hai sempre saputo?» «No!». Dorian saltò a sedere nel letto, di colpo sveglio. Solon sussultò nella sedia di fronte a Dorian. A un suo cenno, le lampade nella stanza si accesero. «Dorian? Sei tornato! Spero che qualunque cosa stessi seguendo fosse importante, perché stavo per svegliarti almeno un centinaio di volte». Gli doleva la testa. Che giorno era? Per quanto tempo era rimasto in stato di catalessi? La risposta che cercava era nell'aria. Khali era vicina. Ne avvertiva la presenza. «Mi serve dell'oro», disse Dorian. «Cosa?», chiese Solon. Si stropicciò gli occhi. Era tardi. «Oro, amico! Mi serve dell'oro!». Solon indicò il suo portamonete sul tavolo e s'infilò gli stivali. Dorian rovesciò le monete d'oro sulla sua mano. Appena colpirono il palmo si sciolsero a formare una goccia, che si raffreddò all'istante e aderì al polso. «Di più. Di più! Non c'è tempo da perdere, Solon». «Quanto?» «Tutto quel che riesci a portare. Vediamoci nel cortile posteriore, e sveglia i soldati. Dal primo all'ultimo. Ma non suonare la campana d'allarme».
«Ma cosa succede, maledizione?», volle sapere Solon, afferrando la cintura della spada e legandola intorno ai fianchi. «Non c'è tempo!». Dorian stava già correndo fuori della stanza. Giunto nel cortile, Dorian era pronto a giurare che l'odore di Khali si era fatto ancora più intenso, anche se l'aroma era puramente magico. Doveva essere a non più di tre chilometri di distanza. Era mezzanotte, e sospettò che avrebbe colpito un'ora prima dell'alba, l'ora delle streghe, quando gli uomini erano più sensibili ai terrori della notte e alle illusioni di Khali. Dorian cercò di decifrare quel che aveva visto. Non riusciva a immaginare che la guarnigione avrebbe tenuto, e se Khali l'avesse catturato le conseguenze sarebbero state terribili tanto per il mondo quanto per lui. Un profeta consegnato nelle mani di Khali? Dorian pensò alle prospettive del proprio futuro appena intraviste. Era un così grande sacrificio rinunciare a vederle confluire inesorabilmente nella sua direzione? Ma se rinunciava alle proprie visioni, sarebbe stato cieco, sbandato e inutile per chiunque altro. Inoltre, non era un processo semplice. L'aveva descritto a Solon e Feir: era come spappolarsi il cervello con una pietra acuminata per porre fine alle crisi. In teoria, poteva neutralizzare una parte del proprio Talento in modo tale che alla fine sarebbe guarito, ma non per molti anni. Se Khali l'avesse catturato, avrebbe potuto pensare che il suo dono era andato perduto per sempre, e ucciderlo. Aveva cominciato ad approntare le reti prima ancora di rendersi conto di aver preso una decisione. Il fatto che fosse buio e che non potesse reintegrare la sua glore vyrden non era un problema, perché la quantità di magia che gli occorreva era minima. Preparò rapidamente le reti, affinandole per poi metterle da parte, tenendo le porzioni pronte quasi in una sola mano. Quando la magia si riunì, si rese conto che tutto il tempo dedicato alle visioni, destreggiandosi fra i flussi del tempo e mantenendo segnali precisi in punti decisivi, stava dando i suoi frutti nella magia. Nemmeno cinque anni prima, era arrivato a questo punto con la rete, esercitandosi per vedere se riusciva a tenere sette fili simultaneamente. Era stata una prova ardua, soprattutto sapendo che lasciarne sfuggire uno l'avrebbe reso uno smemorato, un idiota o
l'avrebbe ucciso. Adesso, fu facile. Quando Solon arrivò nel cortile e vide cosa stava facendo, lo guardò con occhi inorriditi, ma nemmeno questo riuscì a distrarre Dorian. Separò, distorse, estrasse, bruciò e coprì una sezione del proprio Talento. Tutto nel cortile era insolitamente calmo, singolarmente piatto, stranamente soffocato. «Mio Dio», disse Dorian. «Che c'è?», chiese Solon, con gli occhi pieni di preoccupazione. «Cos'hai fatto?». Dorian era disorientato, come un uomo che cerca di reggersi in piedi dopo aver perso una gamba. «Solon, è sparito. Il mio dono è sparito».
Capitolo 32 Dopo tre giorni di viaggio a nord delle Colline dell'Orso d'Argento, Kylar arrivò al villaggio di Curva di Torras. Non aveva lesinato sul tempo per sei giorni, fermandosi solo per far riposare i cavalli, e il suo corpo protestava vigorosamente per la lunga permanenza in sella. Curva di Torras era a metà strada da Cenaria, alle pendici delle Montagne Fasmeru e del Passo di Forglin. I cavalli avevano bisogno di una sosta, e anche lui. A sud della città, lo avevano anche fermato presso un posto di controllo Lae'knaught in cerca di maghi. A quanto pareva, la regina del Waeddryn non aveva nemmeno la volontà o il potere per cacciare i Lae'knaught. Un contadino gli indicò la locanda della cittadina e presto si trovò in un ambiente caldo, pieno del profumo di pasticci di carne arrosto e di birra fresca. La maggior parte delle locande odorava di birra stantia e di sudore, ma gli abitanti del Waeddryn del Nord erano pignoli. Nei loro giardini non c'erano erbacce, il legno delle staccionate non era marcio, i loro bambini erano puliti in modo quasi impeccabile. Andavano fieri della loro operosità, e la cura che queste umili persone mettevano nei particolari era incredibile. Persino Durzo ne sarebbe rimasto colpito. Tutto sommato, sarebbe stato il luogo perfetto per rilassarsi. Entrando nella sala comune, Kylar ordinò cibo sufficiente a sbalordire la padrona della locanda. Si sedette a un tavolo da solo. Aveva gambe e natiche doloranti e indolenzite. Anche se non avesse mai più visto un cavallo, sarebbe stato comunque troppo presto. Chiuse gli occhi e sospirò; solo il profumo celestiale che proveniva dalla cucina lo tratteneva dal filare subito a letto. Ripetendo il rituale di ogni sera, almeno metà degli uomini del villaggio entrarono dalla massiccia porta di quercia del locale per bere una pinta di birra con gli amici prima di rientrare a casa. Kylar ignorò i nuovi avventori e i loro sguardi curiosi. Aprì gli occhi solo quando una donna corpulenta e affabile sulla cinquantina posò due
gigantesche porzioni di pasticcio di carne sul suo tavolo, insieme a un enorme boccale di birra. «Scommetto che troverete la birra di padrona Zoralat buona quanto i suoi pasticci di carne», disse la donna. «Posso sedermi con voi ? ». Kylar sbadigliò. «Ah, scusatemi», si affrettò a dire. «Certo. Io sono Kylar Stern». «Di cosa vi occupate, accomodandosi al tavolo.
Mastro
Stern?»,
gli
domandò
«Io, be', sono un soldato, in realtà». Un altro sbadiglio. Stava diventando troppo vecchio per questo genere di conversazioni. Aveva pensato di dire "sono un sicario" solo per vedere come avrebbe reagito quella vecchia capra. «Un soldato per chi?» «Ma voi chi siete?», chiese Kylar. «Rispondete alla mia domanda, e io risponderò alla vostra», ribatté la donna, come se stesse parlando a un bambino recalcitrante. Richiesta ragionevole. «Per Cenaria». «Avevo l'impressione che quel paese non esistesse più», commentò la donna. «Davvero?» «Sicari khalidoriani. Meister. il Re Divino. Conquiste. Stupri. Razzie. Governo col pugno di ferro. Non vi dicono niente?» «Presumo che alcune persone ne sarebbero intimorite», disse Kylar. Sorrise della propria osservazione. «Voi spaventate un sacco di gente, vero, Kylar Stern?» «Qual è il vostro nome?», le domandò. «Ariel Wyant Sa'fastae. Potete chiamarmi Sorella Ariel». Ogni traccia di fatica scomparve all'istante. Kylar raggiunse il ka'kari dentro di sé per essere sicuro che fosse pronto a ridestarsi all'istante.
Sorella Ariel sbatté le palpebre. Aveva notato qualcosa, o era solo una contrazione muscolare? «Pensavo che questa fosse una regione pericolosa per gente come voi», disse Kylar. Non ricordava nessuna storia in particolare, ma c'era un legame fra Curva di Torras e la morte di maghi. «Sì», confermò Ariel. «Una delle nostre giovani e temerarie Sorelle è sparita proprio qui. Sono venuta a cercarla». «Il Cacciatore Nero», disse Kylar, ricordando finalmente qualcosa. Ai tavoli intorno a loro s'interruppe ogni conversazione. Visi arcigni si girarono verso Kylar. Dalle loro espressioni, capì che l'argomento era proibito quanto indelicato. «Scusate», bofonchiò, e attaccò un pasticcio di carne. Sorella Ariel lo osservò mangiare in silenzio. Provò una punta di diffidenza, domandandosi cosa avrebbe detto Durzo se avesse saputo che Kylar stava mangiando cibo servitogli da una maja, ma era già morto due volte - forse tre - ed era ancora vivo, e allora al diavolo! Per di più, il pasticcio era delizioso, e la birra ancora meglio. Non per la prima volta, si chiese se era stato lo stesso per Durzo. Aveva vissuto per secoli, ma era stato anche invulnerabile a qualsiasi assassino? Senza dubbio. Ma non aveva mai rischiato la propria vita. Forse solo perché, quando Kylar l'aveva conosciuto, il ka'kari lo aveva abbandonato? Kylar a volte si domandava se il suo potere avesse un lato negativo. Poteva vivere per centinaia di anni. Non poteva essere ucciso. Ma non si sentiva immortale. Non avvertiva nemmeno quel senso di onnipotenza che, quando era ragazzino, pensava che avrebbe provato una volta diventato sicario. Adesso era un sicario, più di un sicario, e si sentiva solo e semplicemente Kylar. Anzi, ancora Azoth, il bambino sprovveduto e spaurito. «Avete visto una bella donna passare a cavallo da queste parti, Sorella?», domandò. Vi aveva visto dove viveva Kylar. L'avrebbe riferito al Re Divino e lui avrebbe distrutto tutto e tutti quelli che Kylar amava. Era così che funzionava. «No. Perché?» «Se la vedete», aggiunse, «uccidetela».
«Perché? È vostra moglie?», chiese Sorella Ariel con aria furba. Le diede un'occhiata inespressiva. «Dio non mi odia fino a questo punto. E un'assassina». «Allora non siete un soldato, andate a caccia di assassini». «Non sto dando la caccia a lei. Vorrei averne il tempo. Ma potrebbe passare da queste parti». «Cosa c'è di così importante da farvi rinunciare alla giustizia?» «Niente», rispose senza pensare. «Ma altrove la giustizia è stata troppo a lungo negata». «Dove?», volle sapere Ariel. «Basti dire che sono in missione per conto del re». «Non c'è un re a Cenaria, se non il Re Divino». «Non ancora». Lo guardò con aria perplessa. «Non c'è un uomo che sia in grado di riunire Cenaria, persino contro il Re Divino. Forse potrebbe farlo Terah Graesin, ma non è di certo un uomo, no?». Kylar sorrise. «A voi Sorelle piace pensare di aver capito tutto, vero?» «Sapete che siete proprio un giovane ignorante e borioso?» «Solo se voi siete una vecchia strega noiosa». «Credete davvero che ucciderei una donna per voi?» «Non credo che lo fareste. Perdonatemi, sono esausto. Ho dimenticato che la mano del Serafino si allunga oltre le sale d'avorio solo per prendere quel che gli fa comodo». Ariel stirò le labbra in un'espressione stizzita. «Giovanotto, non tollero l'impudenza». «Avete ceduto all'ebbrezza del potere, Sorella. Vi piace sorprendere la gente». Inarcò un sopracciglio con aria insolente, perplesso. «Coraggio, spaventatemi». La donna non si scompose. «Un'altra tentazione del potere», disse, «è colpire coloro che vi indispettiscono. Voi, Kylar Stern, siete per me una forte tentazione».
Kylar scelse proprio quel momento per sbadigliare. Non era una finta, ma non avrebbe potuto scegliere un momento migliore. Sorella Ariel divenne rossa di rabbia. «Dicono che con la vecchiaia si torna bambini, Sorella. Inoltre, nel momento in cui doveste attingere al potere, vi ucciderei». Per gli dèi, non riesco a fermarmi. Possibile
che debba inimicarmi metà dei maghi del mondo solo perché una vecchia signora mi dà sui nervi?
Invece di arrabbiarsi ulteriormente, Sorella Ariel assunse un'espressione meditabonda. «Sapreste cogliere il momento in cui attingo alla magia?». Non voleva arrivare a questo. «C'è solo un modo per scoprirlo», rispose. «Ma sarebbe una seccatura sbarazzarmi del vostro cadavere e coprire le mie tracce. Specialmente con tutti questi testimoni». «Come coprireste le vostre tracce?», domandò tranquillamente Ariel. «Andiamo, su. Siete a Curva di Torras. Quanti maghi che sono stati "uccisi dal Cacciatore Nero" pensate che siano stati realmente uccisi da lui? Non siate ingenua. Quella creatura probabilmente non esiste nemmeno». La donna si accigliò, e Kylar ebbe la certezza che non aveva mai considerato quella possibilità. Be', era una maga. Di certo non ragionava come un sicario. «Su una cosa vi sbagliate. Esiste davvero», replicò. «Se tutti quelli che sono entrati nella foresta sono morti, come fate a saperlo?» «Sapete, giovanotto. C'è un modo per dimostrare che siamo tutti pazzi». «Andare nella foresta?», chiese. «Non sareste il primo che ci prova». «Sarei il primo a riuscirci». «Siete pieno di millanteria riguardo alle cose che fareste se solo ne aveste il tempo». «Proprio così, Sorella Ariel. Accetto il suo rimprovero - fino al giorno in cui Cenaria avrà un re. E ora, se volete scusarmi».
«Un momento», lo richiamò, mentre Kylar si alzava in piedi. «Ho intenzione di attingere al potere, ma giuro sul Serafino Bianco che non vi toccherò. Se dovrete uccidermi, non cercherò di fermarvi». Non aspettò risposta. Kylar vide un debole alone iridescente circondare la donna. Sfumò in ogni colore dell'arcobaleno in rapida successione, sebbene alcuni colori parvero più intensi di altri. Era una dimostrazione della sua potenza nelle varie discipline magiche? Preparò il ka'kari a distruggere qualsiasi magia gli avesse scagliato addosso - sperando di ricordare cosa aveva fatto in precedenza e senza la certezza di averlo fatto -, ma non la attaccò. L'alone non si mosse. Sorella Ariel Wyant si limitò a inspirare profondamente. L'alone si dissolse. Annuì, evidentemente soddisfatta. «I cani vi trovano alquanto strano, vero?» «Cosa?», replicò. Era vero, ma non ci aveva mai riflettuto sopra. «Forse potete dirmi», riprese la donna, «come mai, dopo tanti giorni di viaggio, non puzzate di sudore, di polvere e di cavallo? A dire il vero, non avete alcun odore». «Lavorate troppo di fantasia», disse, indietreggiando. «Addio, Sorella». «Al nostro prossimo incontro, Kylar Stern».
Capitolo 33 Momma K era ferma sul ballatoio che si affacciava sul piano del magazzino. I Cani di Agon, così avevano scelto di chiamarsi, si stavano esercitando sotto lo sguardo attento di Brant. Il contingente si era ridotto a un centinaio di uomini, e Momma K era certa che ormai la sua esistenza non fosse passata inosservata. «Credi che siano pronti?», chiese ad Agon che saliva faticosamente le scale appoggiandosi a un bastone. «Un ulteriore addestramento li renderà migliori. Combattere li renderà più veloci. Ma costerà alcune vite», disse. «E i tuoi cacciatori di streghe?» «Non sono Ymmuri. Gli Ymmuri riescono a sforacchiare un uomo con le frecce da una distanza di cento passi, mentre si allontanano al galoppo. Il meglio che possa auspicare è disporre di dieci uomini che raggiungano la distanza di gittata, si fermino, scocchino le frecce, e si allontanino prima che le sfere di fuoco li colpiscano. I miei cacciatori non sono degni degli archi che portano, ma hanno una mira dannatamente migliore di chiunque altro». Momma K sorrise. Brant stava sminuendo le capacità dei suoi uomini. Lei aveva visto come tiravano con l'arco. «Che mi dici delle tue ragazze?», domandò Agon. «Questa missione ci costerà delle vite. Si sentono pronte?». Si fermò accanto alla donna continuando a osservare gli uomini che si allenavano. «Saresti rimasto sorpreso se avessi visto i loro visi, Brant. È come se avessi restituito loro l'anima. Nel profondo, erano come morte, e adesso sono tornate improvvisamente a vivere». «Ancora niente da Jarl?». La voce di Agon suonò tesa e Momma K intuì che, nonostante si fosse scontrato più volte con Jarl, era preoccupato per lui. «Niente. Non ancora». Posò le mani sulla ringhiera e sfiorò accidentalmente le dita di Brant.
Brant fissò la sua mano, poi la guardò negli occhi e infine distolse rapidamente lo sguardo. Momma K trasalì e ritrasse la mano. Decenni prima, Agon era arrogante, non impertinente ma pieno di quella baldanza giovanile che gli faceva credere di eccellere in ogni cosa, più di ogni altro. Ormai quella presunzione aveva lasciato il posto a una pacata consapevolezza delle proprie forze e delle proprie debolezze. Il tempo lo aveva temprato bene. Gwinvere aveva conosciuto uomini rovinati dalle loro mogli. Donne meschine che si sentivano talmente minacciate da svilire i loro mariti per così tanti anni che alla fine non credevano più in se stessi. Donne del genere avevano fatto la fortuna di Momma K. Conosceva uomini che andavano d'amore e d'accordo con le loro mogli ed erano tuttavia clienti abituali, uomini assuefatti ai bordelli come altri lo erano al vino, ma gran parte dei suoi introiti proveniva da uomini che desideravano disperatamente essere considerati degni, virili, forti, amanti esperti. Il fatto che si recassero a un bordello per questo era una delle tante ironie del mestiere. Gli uomini, pensava Momma K, erano troppo ingenui per resistere alle tentazioni di una casa di piacere. Era stata sua premura assicurarsi che quelle tentazioni avessero molte sfaccettature, e aveva curato bene i propri affari. I suoi locali non erano semplicemente bordelli. C'erano sale per riunioni, sale per fumatori, dignitosi salotti, conferenze su tutti gli argomenti più amati dagli uomini. Il cibo e le bevande erano sempre più raffinati della concorrenza e i prezzi inferiori. Nei locali migliori, Momma K aveva assunto chef ed esperti di vini provenienti da ogni parte del Midcyru. Come ristoratrice, sarebbe stata un totale fallimento. Il settore alimentare della sua attività chiudeva in perdita ogni anno. Ma gli uomini che entravano nei suoi locali per consumare un pasto finivano con lo spendere denaro anche in altri modi. I pochi Brant Agon del mondo non scopavano le sue ragazze per due ragioni: erano felici della loro vita coniugale e, soprattutto, non varcavano la soglia dei bordelli. Era sicura che Agon era stato deriso per questo. Gli uomini che non frequentavano le case di piacere venivano sempre scherniti dai clienti abituali.
Brant aveva le sue convinzioni, una sua integrità. Le ricordava Durzo. Quel pensiero la ferì come una lancia nello stomaco. Durzo era morto da tre mesi. Per gli dèi, quanto le mancava! Lo aveva amato con tutta se stessa. Era l'unico uomo della sua vita che l'aveva sempre capita; una certezza che la terrorizzava, impedendole di permettere all'amore di crescere. Era stata una vigliacca. Aveva privato il loro rapporto della sincerità e, come una pianta seminata in un vaso poco profondo, aveva avuto una crescita stentata. Durzo era il padre della sua bambina. Lo aveva scoperto solo pochi giorni prima di morire. Momma K ora aveva cinquant'anni, quasi cinquantuno. Il passare del tempo era stato clemente con lei, almeno così le sembrava la maggior parte dei giorni. Di solito dimostrava quindici anni di meno. Be', almeno dieci. Se avesse tentato, pensava di avere ancora quel che occorreva per sedurre Brant.
Puttana una volta, puttana per sempre, eh, Gwin? Non aveva mai
sopportato le donne di una certa età che si aggrappavano alla gioventù perduta con le loro unghie smaltate. E adesso era una di loro. Una parte di lei voleva sedurre Brant solo per dimostrare a se stessa che ne era ancora capace. Erano passati anni dall'ultima volta che un uomo era entrato nel suo letto. Nonostante le migliaia di volte che lo aveva fatto per lavoro, in alcune occasioni aveva gradito o ammirato l'amante del momento. E poi c'era stato Durzo. La notte che avevano concepito Uly, era talmente sballato di funghi allucinogeni che non era stato granché come amante, ma avere l'uomo che amava nel suo letto l'aveva resa traboccante di gioia. Era talmente pervasa di amore e di pena che aveva pianto mentre facevano l'amore. Persino sotto l'effetto della droga, Durzo si era fermato e le aveva chiesto se le stava facendo male. Dopo questo, Momma K aveva fatto appello a tutta la sua esperienza per soddisfarlo. Durzo sapeva essere un uomo tenero quando si trattava di prendersi il proprio piacere. Adesso la loro bambina sarebbe stata allevata da Kylar ed Elene. Era l'unico inganno di cui non si era pentita. Insieme a quei due, Uly sarebbe cresciuta bene.
Ma era stanca di inganni. Stanca di prendere senza mai dare. Non voleva sedurre Brant. Sapeva che lui la desiderava, e sua moglie probabilmente era morta. Probabilmente, ma lui non poteva averne la certezza. Non voleva averla. Mai. Per quanto tempo un uomo come Brant Agon avrebbe aspettato la donna che amava?
Per sempre. Lui è fatto così. Circa trenta anni prima, si erano conosciuti in occasione di una festa, la prima in assoluto presso la dimora di un nobile a cui lei fosse mai intervenuta. Brant si era innamorato subito di lei e lei si era lasciata corteggiare, senza mai dirgli cosa faceva, cosa era. Brant era un uomo coraggioso, spavaldo, deciso a lasciare il proprio segno nel mondo, e così dolcemente premuroso nel corteggiarla che le aveva chiesto un bacio solo un mese più tardi. Si era abbandonata a facili fantasie: l'avrebbe sposata, portata via da tutti gli orrori che voleva così disperatamente lasciarsi alle spalle. Non aveva ancora avuto molti clienti nobili. Era un sogno realizzabile, no? La notte del loro primo bacio, un nobile aveva accennato a lei come la più dolce prostituta che avesse mai incontrato. Udito per caso quel commento, Brant sfidò subito l'uomo a duello e lo uccise. Gwinvere era scappata. Il giorno dopo, Brant aveva saputo la verità. Si era arruolato, con la speranza di andare incontro a una morte onorevole combattendo lungo il confine ceuriano. Ma Brant Agon era troppo abile per morire. Alla fine, nonostante detestasse le adulazioni servili e le manovre politiche, i suoi meriti lo fecero salire a più alti ranghi. Sposò una donna semplice, figlia di un mercante. A detta di tutti, fu un matrimonio felice. «Quanto tempo ci vorrà perché tutto sia pronto?», gli chiese. Sperava che l'infatuazione di Brant fosse ormai sopita. Voleva aiutarlo a eludere la verità. In questo, almeno, era un'esperta. «Gwin». Si voltò a guardarlo, indossando la sua solita maschera, gli occhi impassibili. «Sì?». Agon espirò con forza. «Ti ho amata per tutti questi anni, Gwin, persino dopo...».
«Il mio tradimento?» «La tua imprudenza. Quanto avevi? Sedici, diciassette anni? Hai ingannato per prima te stessa, e credo che tu ne abbia sofferto più di me». Momma K fece una smorfia sarcastica. «Comunque sia», riprese Agon. «Non ti serbo alcun rancore. Sei una donna splendida, Gwin. Più splendida di quanto sia mai stata la mia Liza. Sei così brillante che sento sempre di dover correre per restare al passo con te. Con Liza provavo l'esatto opposto. Tu... tocchi le corde più profonde della mia anima». «Ma», disse la donna. «Sì. Ma», ripeté Brant. «Io amo Liza, e lei mi ha amato attraverso mille sofferenze, e merita tutto quel che ho da offrirle. Che tu provi o no un sentimento nei miei confronti, mentre spero ancora che la mia Liza sia viva, ti chiederei - ti implorerei - di aiutarmi a rimanerle fedele». «Hai scelto una strada difficile», replicò Momma K. «Non una strada, una battaglia. A volte la vita è il nostro campo di battaglia. Dobbiamo fare quel che sappiamo fare, non quel che vogliamo». Gwinvere sospirò, eppure si sentì in qualche modo più leggera. Evitare il fascino di Brant si sarebbe facilmente risolto nell'evitare la sua presenza, mentre ora aveva bisogno di lavorare a stretto contatto con lui. È così semplice l'onestà? Avrei potuto dire,
semplicemente: "Durzo, ti amo, ma temo che potresti distruggermi"?
Brant le aveva appena mostrato la sua vulnerabilità, confessato l'effetto che aveva su di lui, eppure non sembrava più debole per averlo fatto, ma più forte. Come mai? La verità possiede una simile forza? Nel profondo del cuore, Momma K giurò che non avrebbe tentato quell'uomo solo per soddisfare la propria vanità. Non con la voce, non sfiorandolo accidentalmente, non con i vestiti: avrebbe riposto ogni arma nel suo arsenale. Quella decisione la fece sentire stranamente... a posto. «Grazie», gli disse con un sorriso cordiale. «Quanto ci vorrà perché siano pronti?»
«Tre giorni», rispose Brant. «E allora la notte si tingerà di rosso».
Capitolo 34 Solon lasciò la presa
delle due grosse sacche di cuoio che stava trasportando e afferrò un Dorian barcollante prima che cadesse. Sulle prime, non capì cosa avesse detto il profeta. «Di cosa stai parlando?». Dorian respinse le braccia di Solon che volevano sorreggerlo. Indossò il mantello e la cintura della spada e prese due paia di ceppi. «Da questa parte», disse, agguantando una delle sacche e dirigendosi lungo la strada aperta che si allontanava dalle mura. Il terreno che saliva verso le mura era spoglio e roccioso. Era stato disboscato lungo una fascia di circa centotrenta metri, e sebbene la strada fosse abbastanza larga da far avanzare venti uomini affiancati, era piena di solchi e buche per il transito continuo di carri e soldati su una superficie che alternava tratti di terra a solida roccia. «Khali sta arrivando», annunciò Dorian prima che Solon domandasse di nuovo cosa stesse accadendo. «Ho rinunciato al mio dono della profezia nel caso che mi catturi». Solon restò senza parole. Dorian si fermò sotto una quercia nera cresciuta su una sporgenza rocciosa che incombeva sulla strada. «È qui. A meno di due chilometri di distanza», disse senza staccare gli occhi dall'albero. «Non abbiamo tempo per fare altro. Fai solo attenzione a camminare sulla roccia. Se vedono le nostre tracce, mi troveranno». Solon non si mosse. Alla fine Dorian era diventato pazzo. Altre volte era evidente che fosse solo in stato di catalessi. Ma ora, sembrava così razionale. «Andiamo, Dorian», disse Solon. «Torniamo alle mura. Ne riparleremo domattina». «Le mura non saranno lì domattina. Khali colpirà all'ora delle streghe. Questo ti dà cinque ore per portare gli uomini fuori da lì». Dorian si issò sulla sporgenza rocciosa. «Tirami le sacche». «Khali, Dorian? È una leggenda. Stai cercando di dirmi che una dea si trova a due chilometri da qui?»
«Non una dea. Forse uno degli angeli ribelli cacciati dal paradiso, autorizzato a viaggiare per il mondo fino alla fine dei giorni». «Giusto. Suppongo che avrà portato con sé un drago. Possiamo parlarne...». «I draghi evitano gli angeli», disse Dorian. Sul suo volto apparve un'espressione delusa. «Hai intenzione di abbandonarmi adesso che ho bisogno di te? Ti ho mai mentito? Pensavi che anche Curoch fosse una leggenda, prima che la trovassimo. Ho bisogno di te. Quando Khali oltrepasserà le mura, io impazzirò. Tu mi hai visto quando pensavo di poter usare il vir per sempre. Quello era come una parte di vino e dieci parti di acqua; questo è liquore puro. Sarò perduto. La sua semplice presenza fa affiorare quanto c'è di peggio. Le paure peggiori, i ricordi peggiori, i peccati peggiori. Verrà fuori la mia arroganza. Potrei tentare di combatterla, e perderò. Oppure la mia brama di potere prenderà il sopravvento e mi unirò a lei. Lei mi conosce. Mi distruggerà». Solon non riusciva a sopportare lo sguardo negli occhi di Dorian. «E se ti stai sbagliando? E se questa è la pazzia che ti hanno preannunciato da tempo?» «Lo saprai se all'alba le mura sono ancora in piedi». Solon lanciò le sacche a Dorian e poi si arrampicò cautamente sulla roccia, assicurandosi di non lasciare impronte. «Cosa stai facendo?», domandò a Dorian che stava spargendo l'oro sulla roccia, sorridendo. Poi Dorian tirò fuori i ceppi, e le catene di ferro che li tenevano insieme si spezzarono come se fossero di carta. Lasciò cadere un ceppo sul mucchio di monete e questo affondò come se i pezzi d'oro fossero liquefatti. Gli altri tre ceppi seguirono la stessa sorte, e ogni volta i mucchi di monete si ritiravano. Dorian frugò in mezzo all'oro ed estrasse i singoli ceppi, adesso ricoperti del prezioso metallo, e ne sistemò uno su ogni polso. Allargò il ferro del secondo paio e fissò i due ceppi intorno alle cosce, appena sopra il ginocchio. Era sorprendente. Dorian aveva sempre detto che il suo potere con il vir aveva sminuito il suo Talento, eppure eccolo lì, che plasmava oro e ferro con destrezza e senza sforzo.
Dopo un altro momento, Dorian aveva modellato il resto delle monete in quattro spuntoni e in quel che sembrava una ciotola. Poi si concentrò. Solon avvertì una folata di incantesimi passargli accanto, immergersi nel metallo. Dopo due minuti, Dorian s'interruppe e si rivolse silenziosamente verso la quercia nera. «Ci sarà un contingente con lei, il Soulsworn», disse Dorian. «Hanno rinunciato a molta della loro umanità per servire Khali. Ma non sono loro il pericolo. È lei. Solon, non credo che tu possa sconfiggerla. Penso che dovresti portare gli uomini via di qui. Portali in un luogo dove la loro morte possa servire a qualcosa. Ma... se lei raggiunge Cenaria, i figli di Garoth Ursuul creeranno due ferali. Li useranno nella resistenza. L'ho visto nelle mie visioni». «Non l'hai fatto davvero, eh? Non hai realmente distrutto il tuo dono», disse Solon. «Se non ti vedrò più, amico mio, che Dio sia con te», replicò Dorian. Unì gli spuntoni d'oro ai ceppi e s'inginocchiò dietro l'albero. Fece scivolare le punte dentro il legno con straordinaria facilità. Le mani erano sollevate e distanti fra loro. Appena s'inginocchiò, evidentemente pronto a superare con l'ausilio della preghiera l'ardua prova che sentiva avvicinarsi, Solon provò una punta d'invidia. Questa volta, non era per il potere di Dorian, o per il suo lignaggio o per la sua semplice, umile integrità. Invidiava la sua certezza. Il mondo di Dorian era molto chiaro. Per lui, Khali non era una dea o un'invenzione dell'immaginario khalidoriano, o semplicemente un antico mostro che aveva convinto con l'inganno il popolo khalidoriano ad adorarla. Era un angelo cacciato dal paradiso. Nel mondo di Dorian, ogni cosa aveva il suo posto. Esisteva una gerarchia. Le cose combaciavano. Persino un uomo con gli ampi poteri di Dorian poteva essere umile, perché era consapevole di altri ben più in alto di lui, anche se non li aveva mai conosciuti. Dorian riusciva a chiamare per nome il male, senza paura e senza rancore. Riusciva a sostenere che qualcuno aveva fatto del male, o lo aveva servito, senza odiarlo. Solon non aveva mai conosciuto un uomo come lui. Tranne forse il conte Drake. Chissà cosa gli era accaduto? Era morto durante il colpo di stato?
«A cosa serve tutto questo?», domandò Solon, prendendo in mano quel che era stata una ciotola d'oro. Adesso era qualcosa a metà fra un elmo e una maschera. Calzava perfettamente la testa di Dorian, con due soli fori all'altezza del naso per permettergli di respirare. La capovolse. Era una riproduzione fedele del volto di Dorian, e piangeva lacrime d'oro. «Mi impedirà di vederla, di sentirla, di gridarle qualcosa, di muovermi da questo posto. Mi impedirà di cedere all'ultima tentazione - credermi talmente forte da poterla combattere. Spero che mi impedirà anche di usare il vir. Ma non posso legarmi con la magia. Ho bisogno che lo faccia tu per me. Quando sarà passata oltre, potrò fuggire al sorgere del sole e ricaricare il mio Talento, quindi non devi preoccuparti per me. Se avrai bisogno del tuo oro, sarà qui». «Vuoi andartene, a ogni costo». Dorian sorrise. «Non chiedermi dove». «Buona fortuna», gli augurò Solon. Un groppo in gola gli ricordò quanto era stato bello non trovarsi più da solo. Persino lottare insieme a Dorian e Feir era stato meglio di una pace senza di loro. «Sei stato un fratello per me, Solon. Credo che ci rincontreremo, prima che tutto sarà finito», disse Dorian. «E adesso, sbrigati». Solon sistemò l'elmo sulla testa di Dorian e lo legò con la magia più forte che riuscì a compiere, svuotando completamente la sua glore vyrden. Non avrebbe potuto ricorrere alla magia fino al sorgere del sole. Non era un pensiero rassicurante. Mentre scendeva dalla sporgenza rocciosa, ebbe la netta sensazione di vedere della corteccia rivestire le braccia di Dorian, là dove sarebbero altrimenti rimaste esposte. Dalla strada, Dorian era invisibile. «Addio, fratello», disse Solon. Poi si voltò e s'incamminò verso le mura. Adesso doveva solo convincere Lehros Vass di non essere un pazzo furioso.
Capitolo 35 Il Re Divino si appollaiò sul trono
di vetro brunito che si era fatto scolpire dalle rocce delle Fauci. Per lui, quella nerezza dai bordi taglienti rappresentava a un tempo un promemoria, uno sprone e un conforto. Suo figlio era in piedi dinanzi a lui. Il suo primo figlio, non solo il frutto dei suoi lombi. Il Re Divino spargeva ovunque il proprio seme. Non badava mai alle erbacce che mettevano radice ed erano suoi figli. Erano solo bastardi, e non li degnava di alcuna considerazione. Gli unici che contavano per lui erano i ragazzi che sarebbero diventati Vürdmeister. Pochi però sopravvivevano all'addestramento. Soltanto pochi giovani dotati di poteri magici sopravvivevano per diventare suoi eredi, i figli degni di salire al trono. A ognuno di loro veniva assegnato un uurdthan, un Tormento per dimostrare il proprio valore. Fino a quel momento, soltanto Moburu lo aveva superato. Solo Moburu avrebbe riconosciuto come suo figlio. E non ancora come erede. La verità era che Moburu lo rattristava. Garoth ricordava la madre del ragazzo. La principessa di un'isola, catturata nei giorni prima che l'impero sethi annullasse il tentativo di Garoth di crearsi una flotta. Quella donna l'aveva intrigato e, mentre una processione infinita di altre donne di nobili o umili origini, compiacenti o meno, andava e veniva dalla sua camera da letto, Garoth cercò seriamente di sedurla. Si era dimostrata passionale quanto lui era calcolatore, ardente quanto lui era gelido. Una donna esotica, affascinante. Il Re Divino aveva provato di tutto, tranne la magia. Con la certezza di un giovane uomo, si era illuso che non avrebbe potuto resistergli a lungo. Dopo un anno, ostentava ancora un fiero disprezzo. Lo disdegnava. Una notte Garoth perse la pazienza e la prese con la forza. Si era ripromesso di strangolarla subito dopo, ma fu stranamente riluttante. In seguito, Neph gli aveva detto che la donna era incinta. Si era dimenticato del ragazzo finché Neph non gli aveva
detto che era sopravvissuto alle prove ed era pronto ad affrontare il suo uurdthan. Garoth aveva assegnato a Moburu un uurdthan, certo che l'avrebbe condotto alla morte. Ma il giovane aveva concluso la prova con la stessa facilità delle precedenti. Il lato peggiore della faccenda era che il presunto erede al trono non aveva nemmeno l'aspetto di un Khalidoriano. Aveva gli occhi della madre, la sua voce gutturale, e la sua carnagione - pelle ladeshiana. Un boccone amaro da mandare giù. Perché non c'era riuscito Dorian? Garoth aveva riposto grandi speranze in lui. Dorian gli piaceva. Aveva raggiunto il suo uurdthan e poi aveva tradito Garoth. Il Re Divino aveva nutrito meno speranze per colui che si faceva chiamare Roth, ma almeno Roth aveva un aspetto khalidoriano. Moburu portava le insegne di un ufficiale di cavalleria alitaeriano, broccato rosso su oro, con una testa di drago come sigillo. Era intelligente, arguto, totalmente sicuro di sé, piuttosto attraente nonostante la pelle ladeshiana (Garoth dovette ammetterlo, seppure a malincuore), considerato uno dei migliori cavalieri, e spietato. Naturalmente. Si presentò come di dovere per un figlio del Re Divino: indossava l'umiltà con la stessa naturalezza con cui un uomo avrebbe indossato un abito. Garoth lo trovava irritante, ma era colpa sua. Aveva modellato le vite dei suoi discendenti in modo tale che chi sopravviveva sarebbe diventato esattamente come Moburu. Il problema era che aveva ideato tutte quelle prove per metterlo a confronto con altri candidati. Aveva sperato di avere figli in quantità. In tal caso, si sarebbero misurati fra loro. Un fratello avrebbe complottato contro un altro fratello per guadagnarsi il favore del padre. Ma adesso, con Dorian sparito, Roth morto, e nessuno degli altri sopravvissuto all'uurdthan, Moburu era l'unico. L'ambizione di quel giovane l'avrebbe presto spinto a volgere lo sguardo sullo stesso Re Divino. Se non l'aveva già fatto. «Notizie dal Freeze?», gli chiese il Re Divino. «Vostra Santità, cattive come pensavamo. Se non peggio. I clan hanno già inviato la convocazione. Hanno pattuito una tregua, così
da poter svernare abbastanza vicino al confine per unirsi poi alle bande di guerrieri a primavera. Stanno producendo krul in gran quantità, e forse zel e ferali. Se hanno imparato il metodo, le loro forze aumenteranno considerevolmente nell'arco dei prossimi nove mesi». «Dove hanno trovato un luogo per la produzione nel Freeze, in nome di Khali? Sotto il permafrost?», sbraitò Garoth. «Mio signore», disse il figlio. «Possiamo neutralizzare la minaccia con relativa facilità. Mi sono preso la libertà di ordinare che Khali sia portata qui. Passerà per Screaming Winds. La via più rapida». «Cos'hai fatto?». La voce di Garoth era gelida, minacciosa. «Massacrerà una delle più formidabili guarnigioni cenariane risparmiandovi un'emicrania. Arriverà fra pochi giorni. I sotterranei del castello sono un terreno ideale per la produzione. La gente del posto li chiama le Fauci. Con la presenza di Khali, possiamo generare un esercito senza precedenti. Quel suolo è impregnato di sofferenza. Le grotte sotto Khaliras sono state scavate per settecento anni. I krul che i nostri Vürdmeister possono creare là non sono niente a confronto di quelli che è possibile realizzare qui». Il Re Divino era teso, ma non lasciò che nulla trasparisse dal suo volto. «Figliolo. Figliolo. Tu non hai mai creato krul. Non hai mai plasmato ferali o allevato ferozi. Non hai idea di cosa comporti. C'è una ragione se ho usato eserciti di uomini per conquistare gli Highlander e i clan del fiume e i Tlanglang e i Grosth. Ho consolidato il nostro dominio all'interno e ho ampliato quattro volte i nostri confini - e non ho mai usato krul. Sai come combattono le persone quando sanno che, in caso di sconfitta, la loro famiglia verrà divorata? Combattono fino all'ultimo uomo. Armano di archi persino i bambini. Le loro donne usano coltelli da cucina e attizzatoi. L'ho visto fare in gioventù, e mio padre non ne ha tratto alcun vantaggio». «Vostro padre non aveva il vir che possedete voi». «Non è solo una questione di vir. La conversazione è chiusa». Moburu non aveva mai osato parlargli in questo modo - e ordinare che Khali fosse portata qui senza prima consultarlo!
Ma Garoth era turbato. Aveva mentito. Aveva creato krul, ferozi e persino ferali. I ferali avevano ucciso i suoi due ultimi fratelli. Allora aveva giurato: mai più. Mai più qualsiasi mostro, tranne le poche coppie da riproduzione di ferozi su cui stava lavorando per inviarle un giorno nella Foresta Iaosiana in cerca dei tesori di Ezra. Ma per quelli aveva già pagato. Non richiedevano altro da parte sua. Ma Moburu poteva aver ragione. Questa era l'aspetto peggiore. Si era abituato a trattare Moburu come un compagno, come altri padri trattano i loro figli. Era stato un errore. Gli aveva mostrato la sua titubanza. Di certo Moburu stava già tramando per accaparrarsi il trono. Garoth poteva ucciderlo, ma Moburu era uno strumento troppo prezioso per gettarlo via con leggerezza. Lo maledì. Perché non si erano presentati i suoi fratelli? Per Moburu ci voleva un rivale. Il Re Divino alzò un dito. «Ho cambiato idea. Pensa ad alta voce per me, figliolo. Esponi la tua tesi». Moburu esitò per un momento, poi si gonfiò di boria. «Devo ammettere che i nostri eserciti riuscirebbero probabilmente a neutralizzare quei selvaggi del Freeze. Anche se i clan restano uniti, i nostri Vürdmeister faranno pendere la bilancia in nostro favore. Ma per fare questo, dobbiamo inviare a nord ogni Meister capace. A essere sincero, non potrebbe essere un periodo peggiore. Le Sorelle sono sempre più diffidenti e spaventate. Alcune di loro vanno dicendo che devono combatterci ora, prima che diventiamo più forti. Sappiamo che i Ceuriani approfitteranno di ogni momento di debolezza per superare il confine. Sono centinaia di anni che vogliono impadronirsi di Cenaria». «Non c'è accordo fra i Ceuriani». «Un giovane e brillante generale di nome Lantano Garuwashi sta raccogliendo un gran numero di sostenitori nel Nord di Ceura. Non ha mai perso un duello o una battaglia. Se inviamo i nostri eserciti e Meister a nord, attaccare noi potrebbe essere ciò di cui ha bisogno per unificare Ceura. Improbabile, ma possibile».
«Vai avanti», lo invitò Garoth. Sapeva tutto su Lantano Garuwashi. E non era preoccupato per via delle Sorelle. Aveva già preso provvedimenti di persona in merito all'attuale crisi politica. «Sembra anche che il Sa'kagé sia molto più saldo e ben diretto di quanto credevamo. Chiaramente è opera del nuovo Shinga. Penso sia segno che lo Shinga è entrato in una nuova fase...». «Jarl è morto», lo interruppe Garoth. «Non può essere. Non ho trovato alcuna traccia...». «Jarl è morto una settimana fa». «Ma non sono nemmeno circolate voci, e con il livello di organizzazione che abbiamo riscontrato... non capisco», concluse Moburu. «Non sei tenuto a farlo», disse il Re Divino. «Prosegui». Oh, adesso Moburu parve meno sicuro di sé. Ovviamente voleva saperne di più, ma non osava. Tentennò per un momento, poi riprese: «Corre voce che Sho'cendi voglia inviare una delegazione per indagare su quella che chiamano la "presunta minaccia khalidoriana"». «Le tue fonti la chiamano "delegazione"?», gli chiese Garoth abbozzando un sorriso. Moburu sembrò incerto, poi furioso. «S-sì, e se i maghi decidono che rappresentiamo una minaccia, potrebbero fare ritorno a Sho'cendi e ripresentarsi con un esercito a primavera - nello stesso periodo in cui potrebbero concretizzarsi tutte le altre minacce». «Quei delegati sono maghi combattenti. Sei esperti maghi combattenti. I Sa'seuran pensano che abbiano trovato e perduto la spada di Jorsin Alkestes, Curoch. Credono che si trovi qui, a Cenaria». «Come fate a saperlo?», domandò Moburu intimorito. «La mia fonte si trova appena fuori l'Alto Sa'seuran». «Me l'ha detto tuo fratello», rispose Garoth, soddisfatto della piega che aveva preso la conversazione. Si era riappropriato del ruolo che gli apparteneva: avere il controllo della situazione. In
modo vitale. Facendo girare il mondo intorno al fulcro dei propri desideri. «È uno dei delegati». «Mio fratello?» «Be', non ancora un fratello. Ma lo sarà presto. Immagino che tu possa indovinare quale sia il suo uurdthan. Qualcosa di più arduo del tuo». Moburu ingoiò l'insulto, e Garoth lo lasciò attecchire. «Deve recuperare Curoch?», volle sapere Moburu. Garoth stirò le labbra in un sorrisetto, notando il lavorio frenetico della mente di Moburu. Un figlio che avesse recuperato Curoch sarebbe stato ampiamente favorito, molto potente. In realtà, una delle ulcere di Garoth portava il nome di Curoch. Se uno qualsiasi dei suoi figli avesse ritrovato Curoch, non gliela avrebbe consegnata. Quella spada gli avrebbe conferito potere sufficiente a sfidare Garoth in persona. Moburu lo avrebbe fatto senza indugi. Ma Garoth aveva già dei piani in proposito. Molti piani, dal più semplice - corruzione e ricatto - al più disperato - un sortilegio di morte che avrebbe potuto proiettare la sua coscienza nel corpo dell'assassino. Non era un incantesimo che si poteva sperimentare senza correre rischi, perciò la cosa migliore era tenere quella spada lontana dalle mani dei suoi figli. «Ma hai sollevato alcune questioni degne di nota, figliolo. Sei diventato prezioso per me». Oh, quanto strideva quella parola rivolta a un mezzosangue. Figliolo! «Accoglierò il tuo desiderio. Tu creerai per me un ferali». Moburu sgranò gli occhi. Oh, non sapeva da dove cominciare. «Sì, Vostra Santità». «E... Moburu?». Garoth lasciò che calasse il silenzio finché Moburu deglutì a fatica. «Stupiscimi».
Capitolo 36 «Volete che abbandoniamo la postazione e non ci direte il perché? Dovrei impressionarmi?», chiese lord Vass. Trecento soldati si erano radunati nel cortile buio; la luna era una falce luminosa nel cielo notturno trapuntato di stelle. Trecento soldati equipaggiati per combattere, ammassati fra loro contro il freddo tagliente che era già piombato su quelle montagne, nonostante la calura estiva avesse a malapena allentato il suo abbraccio soffocante sulla città di Cenaria. Trecento soldati e il loro comandante - che non era Solon. Trecento uomini che seguivano lo scambio di battute fra Solon e Lehros Vass. «Ammetto che non suoni molto convincente», replicò tranquillamente Solon, «ma vi chiedo di farlo per un giorno soltanto. Ce ne andiamo per un giorno, e poi torniamo. Se mi sbaglio, non ci saranno comunque saccheggiatori pronti a rubare qualsiasi cosa. Siamo le uniche persone su queste montagne dimenticate da Dio, a parte gli Highlander, che non attaccano le mura da tre anni». «Ma significa abbandonare la nostra postazione», ribatté il giovane lord. «Abbiamo giurato di difendere queste mura». «Non abbiamo alcuna postazione», disse Solon con asprezza. «Non abbiamo un re, né un signore. Abbiamo trecento uomini e un paese occupato. Il nostro giuramento ci vincolava a uomini ormai morti. Il nostro dovere è tenere questi uomini in vita, così che possano combattere quando ne avremo l'occasione. Questo non è il genere di guerra in cui ci lanciamo gloriosamente alla carica contro le linee nemiche agitando le spade». Lord Vass era ancora abbastanza giovane da arrossire di rabbia e di imbarazzo. Naturalmente, quello era proprio il genere di guerra che aveva in mente, ed era stato un errore sminuirla. Quanto tempo era passato da quando Solon si era tolto ogni illusione sulla guerra?
Gli uomini non mossero un muscolo, ma tutti notarono la rabbia sul volto di lord Vass, il rossore sempre più cupo nella luce tremolante delle torce. «Se voi volete che ce ne andiamo, esigo di conoscerne il motivo», precisò lord Vass. «Un contingente di truppe scelte khalidoriane, noto come Soulsworn, sta per arrivare qui. Stanno portando la dea Khali a Cenaria. Attaccheranno le mura all'ora delle streghe». «E voi volete andarvene?», rimarcò Vass, incredulo. «Sapete cosa accadrà se catturiamo la dea khalidoriana? Questo li distruggerà. Darà nuova speranza ai nostri compatrioti. Saremo degli eroi. È questo il posto per fermarli. Abbiamo le mura, le trappole, gli uomini. E la nostra occasione. Proprio quella che stavamo aspettando». «Figliolo, questa dea...». Solon serrò i denti. «Non stiamo parlando di catturare una statua. Credo sia reale». Lehros Vass guardò Solon, prima incredulo, poi indulgente. «Se volete scappare, andate avanti. Noi conosciamo la strada». Ridacchiò, inebriato dalla propria grandezza. «Naturalmente, non posso lasciarvi andare finché non mi restituirete il mio oro». Se Solon gli avesse rivelato dov'era l'oro in quel momento, Vass avrebbe mandato subito i suoi uomini a prenderlo. Dorian sarebbe rimasto indifeso. «Andate al diavolo», imprecò Solon. «E al diavolo anch'io. Moriremo insieme». Sorella Ariel Wyant sedeva a cinque passi di distanza dal primo confine magico che separava la Foresta Iaosiana dal bosco di querce. Nei sei giorni precedenti, aveva osservato quel che sembrava una lapide posta a una ventina di passi dentro la foresta. Non doveva trovarsi lì da molto: la vegetazione non l'aveva ancora coperta. La prima speranza, che l'aveva accompagnata in tutte le sue ispezioni della difesa, era stata la consapevolezza che Ezra l'aveva eretta centinaia di anni prima. Fosse stato un altro mago, Ariel si
sarebbe aspettata reti ormai disintegrate dopo tutto quel tempo. Le reti si dissolvevano sempre. Ma nel caso di Ezra, sempre non significava sempre. La prova era lì davanti a lei, che scintillava appena oltre il campo visivo terreno. La seconda speranza era che, considerato il potere di Ezra e il potere degli altri maghi della sua epoca, si fosse difeso contro avversari di gran lunga più potenti di quelli oggi in vita. Sorella Ariel non ebbe la presunzione di considerarsi alla stregua degli ospiti che si sarebbe aspettato Ezra. Poteva solo augurarsi che la propria luce, che arrivava a toccare le reti, non fosse degna d'essere presa in considerazione. Le termiti erano insetti minuscoli, ma distruggevano imponenti dimore. Così per sei giorni aveva esaminato e riesaminato la rete che separava la Foresta Iaosiana dal bosco di querce. Era magnifica quanto la ragnatela di una vedova nera. C'erano trappole grandi e piccole. C'erano reti destinate a strapparsi al minimo tocco, reti destinate a dipanarsi, reti che non si sarebbero spezzate nemmeno con il doppio della forza di Ariel. E ognuna racchiudeva una trappola. Ariel riuscì a figurarsi con precisione cosa aveva fatto Sorella Jessie. Probabilmente aveva tentato di nascondere il proprio Talento. Una strategia che avrebbe funzionato, se Ezra fosse stato un mago comune. Sorella Jessie aveva un potere abbastanza contenuto da permetterle di comprimere il proprio Talento e nasconderlo. Così rendeva il suo Talento invisibile alle altre Sorelle o ai veggenti maschi - ma ecco che uno strano pensiero affiorò nella mente di Ariel: quante volte, donne dotate di Talento si erano servite proprio di questo stratagemma per nascondere se stesse o le loro figlie alle Sorelle che andavano a reclutare novizie per la Cappella? Ariel scosse la testa. Non era il momento adatto per distrarsi. Il problema era che le reti di Ezra non registravano semplicemente il Talento. Per quanto potesse intuire Ariel - e dovette tirare a indovinare, vista la complessità e la sensibilità delle reti -, le difese di Ezra erano in grado di rilevare i corpi dei maghi. Tutti sapevano che i maghi erano diversi dalla gente comune, ma nemmeno i Guaritori attuali sapevano dire con esattezza come la
magia cambiasse il corpo di un mago. Che avesse un'influenza sul fisico, era innegabile. I maghi invecchiavano in modo diverso, a volte più lentamente se erano dotati di maggior Talento, ma a volte no. In ogni caso, il loro corpo veniva alterato in modi impercettibili dalla loro costante interazione con la magia. A quanto pareva, Ezra conosceva perfettamente quei modi impalpabili. Anche Sorella Ariel avrebbe dovuto capirlo. Fra i non pochi obiettivi che aveva raggiunto, Ezra era stato un Sa'laar, un Signore della Guarigione. Aveva creato il Cacciatore Nero - aveva creato un essere vivente!
Oh, Sorella Jessie, hai attraversato questo muro di magia? Hai pensato davvero di essere più ingegnosa di Ezra? Quante ossa di maghi sono disseminate in questa maledetta foresta? Stava lasciando che la propria mente divagasse dal problema. Era ancora viva. Era riuscita a superare la prima barriera. Adesso doveva mettere a frutto questa prima conquista. Doveva raggiungere quella dannata lapide d'oro. Era piantata nel terreno, a una ventina di passi da lei, sulla sommità di una piccola altura. Era così vicina, eppure non aveva alcuna speranza di raggiungerla. Se ne era convinta dopo aver studiato le trappole approntate da Ezra. Le ci sarebbero voluti anni per smantellarle. Anni, e forse di più. Anche se ne avesse avuto il tempo, non avrebbe mai avuto la certezza che non le fosse sfuggito qualche particolare. Non avrebbe mai saputo con certezza quanti strati di protezione fossero ancora rimasti. Ezra poteva aver imbastito quella difesa in pochi giorni. Magari con l'intento che questo strato fosse penetrabile per i maghi poco potenti. Sorella Ariel poteva anche trascorrere la sua intera esistenza a smantellare trappole senza scoprire mai i reali segreti di Ezra. Se fosse arrivata qui da giovane, l'avrebbe considerato un compito meritevole a cui dedicare la propria vita. Ma da giovane era stata molto più idealista. Aveva creduto nella Cappella con quella sorta di fede ingenua che la maggior parte della gente nutre per la propria religione. Se Ezra possedeva artefatti dal potere devastante, Ariel sarebbe stata davvero disposta a consegnarli alla Portavoce? Avrebbe affidato a Istariel qualcosa che avrebbe decuplicato il suo potere?
Basta. Ariel, stai di nuovo divagando.
Guardò la lapide, poi cominciò a ridere. Era talmente semplice. Si alzò in piedi e s'incamminò verso il villaggio. Tornò un'ora dopo con lo stomaco pieno e una corda. Mastro Zoralat era stato abbastanza gentile da mostrarle come preparare e lanciare un lazo. Negli ultimi due giorni si era domandata come raggiungere la lapide - e per due giorni non aveva pensato che a espedienti magici. Stupida, stupida, stupida. Le poche ore successive dimostrarono anche quanto fosse maldestra. Quante volte nella sua vita aveva schernito gli uomini che lavoravano nelle stalle della Cappella? Questo era il genere di esercizio di cui ogni Sorella avrebbe dovuto dar prova - davanti a tutti i garzoni di stalla della Cappella. La giornata era finita e non aveva ancora preso al lazo la lapide. Lanciò imprecazioni alla foresta e tornò al villaggio. Tornò l'indomani, con il braccio e la spalla doloranti. Le ci vollero altre tre ore, durante le quali imprecò contro se stessa, la corda, Ezra, la propria mancanza di esercizio, e poi imprecò e basta - ma sempre in silenzio. Quando il lazo calò finalmente intorno alla lapide, poté giurare di aver visto l'oro scintillare per un istante. Voleva estendere i propri sensi per capire cosa fosse successo, ma era troppo lontana. Decise che non c'era altro da fare se non tirare verso di sé quella pietra maledetta. In un primo momento la lapide non si mosse. Era fissata in qualche modo. Poi, mentre Ariel tirava, una parte della collinetta franò, liberando la lapide. Non era una collinetta; era il corpo di Sorella Jessie. Era morta da settimane. La muffa aveva ricoperto la sua veste luminosa, nascondendo le macchie di sangue. Sembrava che degli artigli le avessero strappato via parte della testa con una sola, micidiale zampata. Dopo la sua morte, nessun animale aveva profanato il suo corpo: non c'erano orsi o coyote o corvi o altri divoratori di carogne nel Bosco di Ezra, ma i vermi erano già all'opera. Sorella Ariel distolse lo sguardo, permettendo a se stessa per un momento di essere solo una donna di fronte al corpo mutilato di una conoscente. Cercò di calmare il respiro, lieta che il cadavere di
Jessie fosse a quella distanza. Ci era stata così vicino per giorni, e non aveva mai sentito alcun lezzo di morte. Era un trucco del vento, o magia? La lapide era stretta nelle mani di Sorella Jessie. Sorella Ariel murò tutte le emozioni che provava e le mise da parte. Le avrebbe esaminate in seguito, e avrebbe pianto, se fossero arrivate le lacrime. Per ora, poteva essere in pericolo. Guardò la lapide. Era troppo lontana per vedere se vi erano incisi simboli e tanto meno per identificarli, ma notò un particolare che la fece raggelare. La lapide squadrata aveva degli uncini conficcati nella corda. Sembrava che si fossero formati appena il lazo era atterrato sul posto. Tirò la fune avvicinando un po' la lapide alla difesa, ma sempre a una certa distanza. Non c'era modo di sapere cosa sarebbe accaduto tirando qualcosa di magico al di qua della barriera. I caratteri erano incisi in gamitico, ma Ariel scoprì che lo ricordava alla perfezione. «Se questo è il quarto giorno, non affrettarti. Se è il settimo, tira la lapide oltre la difesa, adesso», recitava la scritta. Le rune proseguivano, ma Ariel si fermò a riflettere. Non era certo il genere di messaggio che qualcuno avrebbe impresso su una lapide. Si domandò a chi potevano essere indirizzate quelle parole. Forse quella lapide era stata parte di un antico cimento? Un rito di passaggio per maghi? Come l'aveva interpretata Sorella Jessie? Perché aveva pensato che fosse così importante? Continuò a leggere: «Giorni a studiare la difesa, Faccia di Cavallo. Tra parentesi, sei un pessimo lanciatore». Ariel lasciò cadere la corda fra le dita sfibrate. La chiamavano Faccia di Cavallo quando era una novizia. Cercò di tradurre le parole in altro modo, ma le rune in gamitico rivelarono che si trattava di un nome individuale, un insulto specifico, non generico. Osservando il modo in cui la lapide si era agganciata alla corda, ebbe l'improvvisa certezza che avesse effettivamente afferrato la fune. Come se fosse un essere senziente. Gli uncini non erano
posizionati regolarmente sui lati opposti della lapide. Invece, sembravano spuntati fuori in corrispondenza dei punti in cui era calato il lazo. La lapide scintillò e Sorella Ariel barcollò indietro, terrorizzata. Fu un errore. Un piede s'impigliò in un pezzo della fune e la donna cadde, strattonando la lapide oltre la difesa. Si affannò a rialzarsi in piedi con la rapidità che le sue grasse membra le consentirono. La lapide non scintillava più. La raccolse. «Profezia», c'era scritto. Le rune si dissolsero appena toccò la lapide. «Non essere senziente». Deglutì, non certa di avere ben capito. Le parole continuavano ad apparire davanti ai suoi occhi, come tracciate da una penna invisibile. «Se questo è il settimo giorno, guarda due stadi a sud». Stadi? Forse unità di misura non tradotte. Quanto era lungo uno stadio? Trecento passi? Quattrocento? La paura paralizzò Sorella Ariel. Non era mai stata un'amante dell'avventura. Era una studiosa, e maledettamente brava. Era una delle Sorelle più potenti, ma non le piaceva precipitarsi in situazioni che non le erano chiare. Capovolse la lapide. «Difese fra gli alberi», aveva scritto Jessie al'Gwaydin in preda al panico. «Non fidarti di lui».
Oh, perfetto. Sorella Ariel rimase con i piedi per terra. Jessie aveva potuto scrivere quelle parole solo con la magia. Di certo non avrebbe dovuto usare la magia dentro la foresta. Sarebbe stato un suicidio. Infatti, è morta. Poteva essere tutta una trappola. La lapide poteva innescare qualcosa appena fosse stata trascinata oltre la difesa. Poteva esserci una trappola tesa fra gli alberi a sud, dove la lapide voleva convincerla ad andare. Forse doveva annotare ogni cosa, ignorare la trappola, giocare secondo le proprie regole.
Ma Sorella Ariel non tornò a Curva di Torras per scrivere sul suo diario. Esaminò la difesa a sud. Se c'era una trappola, doveva averla già fatta scattare. C'era un tempo e un luogo per agire in fretta. E, a quanto pareva, era lì e adesso.
Capitolo 37 «Sei una rompiscatole. Perché Kylar dovrebbe tenerti con sé?», le chiese Vi. Erano in viaggio da una settimana, e anche se Uly non era una compagnia ideale, almeno era più interessante dei cavalli e degli alberi e dei villaggi che dovevano evitare. Vi non stava facendo conversazione, stava solo raccogliendo informazioni. Kylar stava arrivando, per ucciderla. «Perché mi ama», rispose Uly, spavalda come al solito. «Un giorno mi sposerà». Lo aveva già detto altre volte, sollevando subito i sospetti di Vi; ma dopo qualche domanda che aveva lasciato Uly sconcertata, Vi aveva capito che i suoi sospetti erano infondati. Kylar non era un pedofilo. «Sì, sì, lo so. Ma non poteva amarti prima di conoscerti, no? Hai detto che quando ti ha portato fuori dal castello era la prima volta che lo vedevi». «All'inizio ho pensato che fosse il mio vero padre», disse Uly. «Mmm», commentò Vi, come se non fosse realmente interessata. «Chi sono i tuoi veri genitori?» «Il nome di mio padre era Durzo, ma adesso è morto. Kylar non vuole parlarmi di lui. E credo che mia madre sia Momma K. Mi guardava sempre in modo strano quando eravamo insieme a lei». Vi dovette aggrapparsi al retro della sella per non cadere. Per Nysos, ecco cos'era! Aveva notato che Uly aveva un'aria familiare. Era figlia di Durzo e di Momma K! Non c'era da stupirsi se la tenevano nascosta. Questo spiegava anche perché Kylar l'aveva presa con sé. Inspiegabilmente, quel pensiero la addolorò. Lei non avrebbe mai accolto uno dei bastardi di Hu. Per quel che contava, nemmeno Hu se ne sarebbe mai preso cura. Di colpo Uly divenne due volte più
preziosa per il Re Divino. Avere Uly voleva dire controllare Momma K. Forse sarebbe bastato per liberare Vi dalle sue grinfie. Ma Vi sapeva come va il mondo. Il Re Divino ricompensava bene i suoi servitori. Le avrebbe permesso di indulgere in ogni vizio. Le avrebbe dato oro, abiti, schiavi, tutto quel che desiderava. Ma non le avrebbe mai concesso la libertà. Si era dimostrata troppo utile per meritarla. Più informazioni raccoglieva su Kylar e più perdeva la speranza. Aveva bisogno di far parlare Uly, perché doveva conoscere il più possibile il suo nemico. Tutto quel che aveva appreso era uscito dalla bocca di una dodicenne che aveva una cotta per quell'uomo, ma Vi era abile nel distinguere la verità da un'opinione. Eppure, Kylar le appariva sempre più... cazzo! Non voleva pensarci ancora. La faceva solo star male. Maledetto questo lungo viaggio. Maledetta questa avventura. Ancora una settimana, e poi se ne sarebbe lavata le mani. Forse non sarebbe nemmeno rimasta nei paraggi in attesa della ricompensa, per quanto la meritasse. Avrebbe mollato la ragazzina con un biglietto spiegando l'accaduto e sarebbe scomparsa. Aveva ucciso Jarl. Avrebbe consegnato Kylar e Momma K al Re Divino. Di certo il sovrano non avrebbe sprecato le sue risorse sguinzagliandole qualcuno dietro. E anche se lo avesse fatto, non le avrebbe dato la caccia con rabbia, visto che non l'aveva tradito. Poteva svanire nel nulla. Erano poche le persone che temeva, ed erano tutte troppo preziose per tenerle impegnate a darle la caccia. Una di queste era Kylar, ma non sarebbe sopravvissuto a lungo. Forse aveva ucciso Roth, trenta Highlander scelti e qualche mago Uly sembrava molto bene informata in proposito -, ma non sarebbe mai sopravvissuto al Re Divino. Vi si sarebbe diretta a Seth o Ladesh o fra le montagne di Ceura, dove la sua chioma rossa non sarebbe stata così insolita. Non avrebbe allargato le gambe per un altro uomo, né avrebbe accettato un altro contratto. Non sapeva che sensazione le avrebbe dato una vita normale, ma si sarebbe presa il tempo necessario per scoprirlo. Dopo questa missione.
Tirò fuori il biglietto che aveva trovato a casa di Kylar e lo lesse di nuovo. «Scusami, Elene. Ho tentato. Giuro che ho tentato. Ci sono cose che valgono più della mia felicità. Cose che solo io posso fare. Vendi questi a Mastro Bourary e trasferisci la famiglia in un quartiere più sicuro. Ti amerò sempre». «Ehi, Ugly», disse Vi, «per che cosa litigavano Elene e Kylar?» «Penso perché il loro letto non cigolava». Vi aggrottò la fronte. Cosa? Poi scoppiò a ridere. «Be', è abbastanza normale. Tutto qui?» «Perché, che vuol dire?», volle sapere Uly. «Scopare. Uomini e donne non fanno che discuterne per tutto il tempo». «Che cos'è scopare?», insistette Uly. Vi glielo disse nel modo più esplicito possibile, e Uly ascoltò la spiegazione sempre più inorridita. «Fa male?», chiese la ragazzina. «Qualche volta». «Sembra disgustoso!». «Lo è. È sporco e appiccicoso e sudaticcio e puzzolente e disgustoso. A volte ti fa anche sanguinare». «Perché le ragazze glielo lasciano fare?», domandò Uly. «Perché gli uomini le obbligano. Per questo litigano». «Kylar non lo farebbe», disse Uly. «Non farebbe del male a Elene». «Allora perché litigano?». Uly parve nauseata. «Lui non lo farebbe», ripeté. «Non lo farebbe. Credo che non l'abbiano mai fatto comunque, perché il letto non ha mai cigolato e Zia Mea ha detto che avrebbe cigolato. Ma Zia Mea ha detto che è divertente». Il letto non ha mai cigolato? «A ogni modo, litigavano solo per questo?», domandò Vi. «Elene voleva che lui vendesse la sua spada, quella che gli ha dato Durzo. Lui non voleva, ma lei diceva che allora voleva essere ancora
un sicario. Ma non era così. Lui voleva davvero stare con noi. Lo faceva infuriare quando glielo diceva». Quindi voleva uscire dal giro. Ecco a cosa si riferiva nel biglietto quando diceva che aveva tentato. Aveva provato a mollare tutto. Per Nysos! Forse Kylar non sapeva nemmeno che lei aveva rapito Uly. Non sapeva se era un bene o un male, ma spiegava come mai quella mattina era passato oltre in mezzo alla nebbia. Si sarebbe accertato che lei tornasse a Cenaria il prima possibile. A qualche centinaio di passi più avanti, Vi vide la foresta cambiare. No, non cambiare. Si trasformò all'improvviso come se la terra fosse stata divisa in due da un colpo di scure. Sul versante più vicino, la foresta era uguale a quella che avevano attraversato per giorni e giorni. Sul versante più lontano, erano cresciute enormi sequoie. Dovevano essere nei pressi di Curva di Torras. Vi non si soffermò a cercare una spiegazione, ma sembrava che sarebbe stato più agevole cavalcare sotto quegli alberi imponenti. Nelle foreste così antiche non c'era quasi sottobosco. Erano a soli cinquanta passi dalle sequoie, quando una donna anziana sbucò dal folto degli alberi. Sembrava scossa quanto Vi. Nelle mani, stringeva una lastra scintillante d'oro. «Ferma!», gridò la donna. Vi si raddrizzò sulla sella e si allungò a strappare le redini di mano a Uly. Diede un forte colpo di talloni nei fianchi del cavallo e guardò in direzione della vecchia donna. Stava correndo in modo goffo e pesante - e non in direzione di Vi e Uly. Stava scappando dalla foresta, e aveva gettato da una parte la lastra d'oro. Ma che diamine era successo? Qualcosa di strano, ma non al punto da indurre Vi a fermarsi. In tutto il mondo, le uniche persone che doveva temere erano sicari, stregoni e maghi. I cavalli partirono al galoppo verso la foresta, quasi sbalzando Uly di sella. Ora la maga era a soli trenta passi di distanza, quasi in linea con loro. Avanzò ancora di qualche metro, e Vi avrebbe potuto giurare che la donna stesse emergendo da una gigantesca bolla, quasi invisibile, che avvolgeva la foresta.
La donna alzò le mani e parlò. Qualcosa crepitò e frustò l'aria. Vi si spostò sulla sella, istintivamente. Ci fu una terribile scossa e Uly volò via dalla groppa del cavallo. Vi non si fermò a guardare. Sfilò un coltello da lancio dal fodero legato alla caviglia e lo scagliò, raddrizzandosi sulla sella. Fu un lungo lancio - venti passi, verso un bersaglio che non riuscì a vedere prima di lanciare il coltello - ma voleva essere solo un elemento di distrazione. Si girò indietro. Uly giaceva a terra, priva di sensi. Non esitò. Un sicario non esita. Un sicario agisce, anche se fa una mossa sbagliata. Vi non riusciva a stare ferma: sarebbe diventata un bersaglio. Ancora una volta affondò i talloni nei fianchi del cavallo. L'animale scattò in avanti... E subito si schiantò al suolo, con le zampe anteriori spezzate. Vi sfilò i piedi dalle staffe. Sarebbe caduta a terra rotolando, libera da pastoie, estraendo coltelli da lancio - ma il cavallo crollò più velocemente di quanto avesse previsto. Sbatté violentemente contro il terreno, e il corpo proseguì la corsa scivolando sulla schiena. La testa incontrò una radice dura come ferro e uno sciame di puntini neri le oscurò la vista.
Alzati, dannazione! Alzati! Si sollevò su mani e ginocchia e tentò
di rialzarsi in piedi, con gli occhi appannati, le orecchie che ronzavano.
«Mi spiace, non posso lasciartelo fare», disse la donna anziana. Sembrava che parlasse sul serio. No. Non può finire così. La vecchia corpulenta alzò una mano e parlò. Vi cercò di buttarsi di lato, ma non ci riuscì.
Capitolo 38 Erano due piccoli tagli.
Un'incisione lungo le costole, e un'altra lungo la parte interna del braccio. Nessuna delle due era profonda. Il coltello aveva tagliato la pelle, ma non i muscoli. Non rappresentavano niente che una fasciatura pulita e un po' di aria fresca non avrebbe guarito in pochi giorni. Ma nel Buco non c'era nulla di pulito, e l'aria fresca era solo un ricordo. Logan riconobbe i segni, ma non c'era niente che potesse fare. Era già ardente di febbre, tremante e sudato. Con ogni probabilità, non ne sarebbe uscito vivo. Dopo tutto quel tempo passato nel Buco, era ridotto all'ombra di se stesso. Guance incavate, occhi lucidi, viso scheletrico, la corporatura imponente ridotta a pelle e ossa. Se fosse sopravvissuto, sarebbe cambiato in peggio, lo sapeva. Nonostante avesse patito la fame, Logan non aveva ancora l'aspetto malnutrito ed emaciato di quelli che erano in quell'inferno da anni. Il suo corpo si aggrappava alle ultime forze con una tenacia che lo sorprendeva. Ma per la febbre non contava. Ci sarebbero voluti giorni, come minimo, per debellarla. Giorni di totale vulnerabilità. «Natassa», disse. «Raccontami ancora della resistenza». La figlia più giovane dei Graesin aveva lo sguardo di un animale braccato. Non rispose. Stava osservando Fin dall'altra parte del baratro, intento a rosicchiare dei tendini prima di aggiungerli alla sua corda. «Natassa?». La ragazza si drizzò a sedere. «Si spostano continuamente. Ci sono parecchie tenute a est pronte ad accoglierli, specialmente specialmente i Gyre. Persino i Lae'knaught hanno aiutato». «Bastardi». «Bastardi che sono nemici del nostro nemico». Lo disse come se l'avesse già detto prima. Dannazione, l'aveva già detto prima, vero?
«E il nostro numero sta aumentando?» «Il nostro numero sta aumentando. Abbiamo compiuto incursioni, piccoli gruppi che hanno tutto il possibile per danneggiare i Khalidoriani, ma mia sorella non ci lascerebbe azzardare ancora niente di grosso. Il conte Drake ha dislocato informatori in ogni villaggio della Cenaria orientale». «Il conte Drake? Aspetta, te l'ho già chiesto prima, vero?». Non gli rispose. Aveva ancora gli occhi fissi su Fin. Negli ultimi tre giorni Fin aveva ucciso quattro degli ultimi arrivati. Tre giorni? O erano quattro, ormai? Il conte Drake faceva parte della resistenza. Magnifico. Logan non aveva saputo se ne era uscito vivo. «Sono contento che Kylar non l'abbia ucciso», disse Logan. «Chi?», domandò Natassa. «Il conte Drake. Mi ha tradito. E per questo che mi trovo quaggiù». «Il conte Drake ti ha tradito?», chiese incredula Natassa. «No, Kylar. Vestito di nero, facendosi chiamare l'Angelo della Notte». «Kylar Stern è l'Angelo della Notte?» «Fin dall'inizio ha lavorato per Khalidor». «No, non è possibile. L'Angelo della Notte è l'unico motivo per cui esiste una resistenza. Io ero lì. Eravamo tutti raggruppati in giardino, e lui ci ha salvati. Terah gli ha offerto tutto quel che desiderava perché ci scortasse fuori del castello, ma lui si è preoccupato solo di te. Ci ha abbandonati per cercare di salvare te, Logan». «Ma lui... lui ha ucciso il principe Aleine. È stato lui a cominciare tutta questa storia». «È stata lady Jadwin a uccidere Aleine Gunder. Ha avuto una porzione delle sue tenute come ricompensa».
Sembrava impossibile. Dopo tutto quel che gli era stato strappato di mano, Natassa gli stava restituendo il suo migliore amico. Quanto aveva sentito la mancanza di Kylar! Logan scoppiò a ridere. Forse era la febbre. Forse aveva immaginato di aver sentito Natassa pronunciare quelle parole solo perché lo desiderava immensamente. Si sentiva così male che l'intero mondo era dolorante. Tutto era confuso, talmente confuso. Pensò che stava per scoppiare in singhiozzi come una bimbetta. «E Serah Drake? Anche lei era insieme a te? Fa parte della resistenza? Kylar l'ha salvata?», volle sapere Logan. Glielo aveva già chiesto prima, vero? «È morta». «Ha... ha sofferto?». Questo non aveva osato chiederglielo prima. Natassa abbassò lo sguardo. Serah. La sua fidanzata, solo poco tempo prima. Sembrava appartenere a un'altra vita. A un altro mondo. Un tempo l'aveva amata. O aveva creduto di amarla. Come poteva averla amata se non le era quasi venuta in mente in tutti quei giorni trascorsi laggiù? Lo aveva tradito. Era andata a letto con il suo amico, il principe Aleine Gunder, quando non aveva mai dormito con lui - l'uomo che diceva di amare. Era andata così? Era stato il tradimento a soffocare il sentimento che provava per lei? O non l'aveva mai amata? Aveva creduto di sapere finalmente cos'è l'amore la sua prima notte di nozze.
Chiunque sia infatuato pensa di sapere cos'è l'amore. Ma era stato
più forte di lui. Quel che aveva provato per Jenine Gunder - la ragazza quindicenne che considerava troppo giovane e immatura per lui - gli era parso amore. Forse le era stata strappata prima che avesse il tempo di vedere i suoi difetti, ma Jenine Gunder - Jenine Gyre, sua moglie, seppure solo per poche, tragiche ore - era la donna che aveva abitato nei suoi pensieri. L'aveva sognata nei momenti prima che il sonno si arrendesse alla dura roccia, al fetore micidiale, all'ululato e alla calura soffocante del Buco. Il suo sorriso pieno, gli occhi luminosi, le sue curve dorate alla luce delle candele, quando l'aveva vista per la prima e ultima volta, brevemente, prima
che i soldati khalidoriani irrompessero nella stanza e Roth le tagliasse la gola. «Oh, dèi», esclamò Logan, nascondendo il viso fra le mani. Di colpo, il dolore prese il sopravvento. I lineamenti si contorsero, e le lacrime gli bagnarono le guance. L'aveva sostenuta fra le braccia, quel corpo cosi minuto e vulnerabile premuto contro il suo, mentre moriva dissanguata. Dio, quanto sangue! Le aveva detto che tutto sarebbe andato bene. Le aveva parlato con calma, e quella era stata tutta la protezione che era riuscito a darle, perché non c'era altro da fare. Qualcuno gli passò un braccio sulle spalle. Era Lilly. Per gli dèi. Poi lo abbracciò anche Natassa. Peggio ancora. Ormai singhiozzava in modo incontrollabile. Tutto era confuso e si confondeva sempre più. Aveva tenuto lontano il dolore per tanto tempo, ma ora non ne aveva più la forza. «Sarò presto con te», aveva detto a Jenine. Adesso era vero. Stava per morire. Stava già morendo. Guardò il viso di Natassa, che piangeva insieme a lui. Povera ragazza, era stata catturata, tradita da qualcuno della resistenza e gettata quaggiù in mezzo a quei mostri. Logan non sapeva quanto stesse piangendo per lui e quanto per se stessa. Non la biasimava. Di certo sapeva che, una volta morto Logan, gli ospiti del Buco l'avrebbero presa. Persino Lilly stava piangendo. Non avrebbe mai immaginato che fosse capace di farlo. Perché stava piangendo? Aveva paura che, appena gli altri prigionieri avessero avuto Natassa - che era più giovane e graziosa - lei avrebbe perso la sua posizione e il suo potere? Che l'avrebbero uccisa? Guardando il viso di Lilly, Logan si detestò per aver avuto un pensiero così cinico. Era stato in quell'inferno per troppo tempo. L'espressione sul viso di quella donna non era paura. Era amore. Lilly non stava piangendo per se stessa, ma per lui.
Chi sono io per meritarmi tanta devozione? Non ne sono degno. «Aiutatemi ad alzarmi», disse loro con voce rauca.
Lilly guardò Natassa e smise di piangere. La ragazza annuì. «Coraggio». Adesso tutti stavano guardando Logan. Alcuni con curiosità, altri con avidità. Fin appariva esultante. «Ehi voi, teste di cazzo! », esordì Logan. Era la prima volta che si esprimeva in modo volgare, e vide che alcuni ne furono colpiti. Bene, più lo credevano pazzo e meglio era. «Ascoltate bene. Vi ho tenuto nascosto un piccolo segreto perché non sapevo che genere di onesti criminali foste. Vi ho tenuto nascosto un piccolo segreto che potrebbe fare una grossa differenza...». «Sì, sì, lo sappiamo», lo interruppe Fin. «Il nostro piccolo Re si crede Logan Gyre. Crede davvero di essere il re!». «Fin», disse Logan. «Ci sono due buone ragioni perché tu tenga chiuso quel tuo buco di merda. Primo, sto morendo. Non ho niente da perdere. Se tu tieni chiuso quel tuo buco di culo pieno di denti, io morirò e tu non dovrai fare niente. Ma se continui a parlare, ti ucciderò. Posso anche essere debole, ma ho ancora forza sufficiente per trascinare quelle tue misere chiappe giù nel baratro, sempre che sia disposto a caderci dentro anch'io. Credimi, se cominciamo a lottare, ci sarà più di una persona quaggiù che farà di tutto perché finiamo tutti e due nel baratro». «E la seconda ragione?», sibilò Fin. Stava srotolando la corda e sistemando il cappio a un'estremità. «Se non stai zitto», riprese Logan, «sarà colpa tua se getterò questa nel Buco». Infilò le dita nella cintura e tirò fuori una chiave di ferro. «È la chiave della grata», spiegò Logan. Una smania immediata riempì ogni sguardo. «Dalia qui!», disse qualcuno. I prigionieri cominciarono a incalzarlo, e Logan si avvicinò barcollando al baratro. Tenne la chiave sospesa sopra il buio e ondeggiò avanti e indietro, in preda a vertigini non del tutto simulate. La minaccia placò gli animi.
«Mi sento davvero male, davvero confuso», li avvertì Logan. «Quindi se tutti voi volete che questa chiave vada al suo posto là nella grata, ascoltatemi con molta attenzione». «Come hai potuto tenerla per tutto questo tempo?», sbraitò Nick Nove Dita. «Potevamo scappare mesi fa!». «Chiudi il becco, Nick», disse qualcuno. Logan si guardò intorno, cercando di localizzare il viscido duca khalidoriano, ma i volti si sovrapposero in una visione confusa. «Se vogliamo usare la chiave, dobbiamo lavorare insieme. È chiaro? Se una sola persona fa una mossa sbagliata, moriremo tutti. La cosa peggiore è che dobbiamo fidarci gli uni degli altri. Ci vorranno tre di noi per raggiungere la serratura». Cominciarono a borbottare, qualcuno si offrì volontario, altri si opposero. «Silenzio!», gridò Logan. «Faremo come dico io, o lascio cadere la chiave! Se faremo come dico io, usciremo tutti. Capito? Persino tu, Fin. Una volta che saremo saliti nelle Fauci, ho un piano che renderà liberi almeno la metà di noi. Forse tutti. Stanno costruendo qualcosa all'estremità opposta di questo livello, e penso che potremo servircene, purché ammazziamo Gorkhy prima che possa dare l'allarme. Ma dovete fare esattamente quel che vi dirò io». «È pazzo», tagliò corto Nick. «È la nostra unica possibilità», osservò Tatts. «Io ci sto». Tutti lo guardarono sbalorditi. Era la prima volta che il Lodricari coperto di tatuaggi apriva bocca. «Bene», disse Logan. «Abbiamo bisogno di tre persone per formare una torre e raggiungere la grata. Gnasher farà da base, io salirò sulle sue spalle e Lilly aprirà la grata. Dopo di che, abbiamo due opzioni e la nostra scelta dipende da Fin». L'espressione di Fin divenne ancor più diffidente. «Prima opzione, tutti quelli di voi abbastanza leggeri e abbastanza robusti da arrampicarsi su noi tre, potranno uscire, ma io non permetterò a Fin di compiere la scalata. Quindi, io, Gnasher e Fin moriremo». «Se qualcuno se ne va, andrò anch'io», sbottò Fin. «Tu non sei...».
«Sta' zitto, Fin!», disse qualcuno, d'un tratto coraggioso di fronte alla prospettiva di libertà. «Seconda opzione, Fin consegna la sua corda a Lilly. Lei la legherà a qualcosa lassù e potremmo arrampicarci tutti. Oh, e se non mi fate uscire, non vi esporrò il mio piano per uscire dalle Fauci». Tutti guardarono Fin. Logan stava sudando copiosamente.
Andiamo, resisti un altro po'.
«Puoi usare la mia corda», acconsentì Fin. «Ma io farò parte della torre. Aprirò io la grata». «Scordatelo», ribatté Logan. «Nessuno qui si fida di te. Appena sarai uscito, ci lascerai qui». Ci fu un mormorio di consenso, anche da parte di alcuni che di solito spalleggiavano Fin. «Be', io non ho intenzione di arrampicarmi su quel folle dai denti appuntiti. Se vuoi la mia corda, io sarò parte della torre, e questa è la mia ultima parola». «Bene», concluse Logan. Aveva previsto che sarebbe finita così fin dall'inizio. Aveva solo dovuto offrirgli un posto d'onore, in modo che Fin s'illudesse in qualche modo di aver avuto la meglio. «Io sarò la base. Tu il secondo. Lilly apre la grata». Logan le consegnò la chiave. «Lilly», disse a voce alta perché sentissero tutti, «se Fin tenta qualche mossa, getta la chiave nel Buco, intesi?» «Se chiunque azzarda qualche mossa, getto la chiave nel buco», precisò la donna. «Lo giuro su tutti gli dèi dell'inferno, del dolore e del Buco». «Saliremo uno alla volta», disse Logan. «Vi dirò chi sarà il prossimo». Tirò fuori il coltello e lo consegnò a Natassa. «Natassa, se qualcuno si avvicina prima che sia il suo turno, punzecchialo ben bene, d'accordo?». Anche stavolta parlò ad alta voce per farsi sentire da tutti. «Natassa sarà la prima a uscire. Legherà la corda lassù così potremmo issarci uno dopo l'altro. Fin e io saremo gli ultimi, ma usciremo tutti. Abbiamo già pagato per i nostri misfatti».
Fin si mosse intorno al Buco, srotolando la corda di tendini dal corpo. La avvolse in ampi cerchi con una destrezza quasi spaventosa. Sosteneva di aver strangolato trenta persone prima di essere catturato, senza contare gli isolani e le donne. Spogliato della corda, apparve come chiunque altro avesse passato lungo tempo nel Buco: scarno, con la sporcizia radicata nella pelle, puzzolente, la bocca a volte sanguinante per lo scorbuto avuto tanto tempo prima. Schioccò le labbra avvicinandosi a Logan e risucchiò il sangue fra i denti. «Noi due pareggeremo i conti dopo», disse. Prese la corda arrotolata e se la sistemò intorno al collo. Logan si asciugò il sudore dalla fronte. Aveva voglia di uccidere quell'uomo. Se avesse afferrato la corda e lo avesse spinto, forse... forse. Non valeva la pena correre il rischio. Era troppo debole, troppo lento nei riflessi. Avrebbe dovuto sperimentare quel piano prima, ma prima Fin non si sarebbe mai avvicinato così tanto a lui. Fin si sarebbe aspettato che Logan tentasse di ucciderlo in un altro momento qualsiasi e, prima che Logan avesse recuperato il coltello, un azzardo del genere l'avrebbe esposto eccessivamente. Puntellandosi con le mani contro la parete, Logan si accovacciò a terra. Fin costeggiò l'orlo del baratro, sbuffando e imprecando sottovoce. Alla fine poggiò un piede sulla coscia di Logan, gli montò sulla schiena e poi sulle spalle, risalendo con le mani lungo la parete di roccia. Sorprendentemente, non era troppo pesante. Logan pensò di farcela. Doveva solo tener salde le ginocchia e appoggiarsi al muro, e poteva farcela. Di certo non sarebbe riuscito a issarsi contando solo sulle proprie forze, ma forse gli amici lo avrebbero tirato su. Se fosse uscito per ultimo, si sarebbe legato la corda intorno al corpo, e Lilly e Gnash e Natassa l'avrebbero issato. Se solo avesse smesso di tremare. «Sbrigatevi», disse. «Sei troppo alto», disse Lilly. «Puoi abbassarti un po'?». Scosse la testa. «Merda», protestò la donna. «Ok, chiedi a Gnasher di aiutarmi. Sei l'unico a cui dà ascolto».
«Chiedergli cosa?». Era ovvio, lo sapeva, ma non riusciva a ragionare con chiarezza. «Di sollevarmi», rispose Lilly. «Ah. Gnash, alzala. No, Gnash, non così». Dovette dargli qualche istruzione, ma alla fine Gnash capì e si acquattò accanto a Logan, mentre Lilly si arrampicava sulla sua schiena e poi sulle sue spalle. Poi strinse la chiave fra i denti e cominciò a spostarsi. Logan era molto più alto di Gnasher, così Lilly dovette montare sulla sua spalla, dove era già in piedi Fin. Il peso sbilanciato fece vacillare Logan. «Non muoverti», gli sibilò Fin. Imprecò più volte contro Logan, mentre Natassa gli posava la mano sulla spalla per infondergli coraggio. Logan provò un senso di gelo. «Forza», disse. «Sbrigatevi». Il peso di Lilly premette sulla spalla sinistra, poi oscillò avanti e indietro, mentre la donna e Fin cercavano di trovare un equilibrio. Logan non poteva vedere cosa stessero facendo. Chiuse gli occhi e si puntellò contro la parete. «Puoi farcela», gli sussurrò Natassa. «Puoi farcela». Il peso si spostò di colpo a destra, e i prigionieri trattennero il fiato. Logan s'incurvò e poi oppose resistenza, la gamba destra tesa e tremante nello sforzo. Il peso si alleggerì all'improvviso, accompagnato da esclamazioni soffocate dei presenti. Logan sbirciò in alto e vide che Lilly era sulla schiena di Fin e aveva già afferrato la grata con una mano, riuscendo a stabilizzarsi. Poi udirono un suono che li terrorizzò. Era un rumore di cuoio e cotta di maglia, di rimostranze e imprecazioni a ruota libera, di una spada che batteva contro la roccia. Stava arrivando Gorkhy.
Capitolo 39 L'ora delle streghe era arrivata.
Un vento gelido spazzava via le nuvole tra gli anfratti delle montagne. Era freddo, troppo freddo per nevicare. Il vento penetrava nei mantelli e nei guanti, faceva aderire le spade ai foderi, rabbrividire gli uomini nelle loro postazioni. Le nuvole sembravano fantasmi che fuggivano precipitosamente sopra i campi di sterminio, rincorrendosi sopra e oltre la fortificazione. Ampi bracieri di carbone che ardevano lungo le mura non servivano a tenere lontano il gelo. Il calore veniva catturato e inghiottito dalla notte. Le barbe si riempivano di ghiaccioli e i muscoli si irrigidivano. Gli ufficiali abbaiavano ai soldati l'ordine di tenersi in movimento, urlando sopra il familiare ululato del vento. Quelle alte grida erano abitualmente espressione di storielle raccontate infinite volte e di paragoni con le ultime conquiste in camera da letto, a volte accompagnate da imitazioni. Regnus Gyre non aveva mai punito i suoi uomini per aver urlato per superare il vento. Debellava la paura, diceva. In qualunque altro luogo, sarebbe stata una distrazione, avrebbe impedito agli uomini di sentire gli invasori avvicinarsi; ma a Screaming Winds era impossibile cogliere un rumore qualsiasi. Questa notte non gridava nessuno. Questa notte quelle grida apparivano sinistre. E se l'udito degli uomini non era affidabile, la vista lo era ancor meno. Il turbinio di nubi nel cielo formava una coltre abbastanza densa da oscurare la luna e le stelle; erano fortunati se riuscivano a distinguere qualcosa a cinquanta passi di distanza. Comunque, nella furia del vento, gli arcieri non sarebbero riusciti a raggiungere il bersaglio oltre quel raggio d'azione. Era stata la nemesi di Regnus. Per quanto si allenassero a scoccare frecce contro quel vento incostante, la loro precisione non migliorava più di tanto. Uno o due di loro possedevano un prodigioso intuito circa la direzione che avrebbe preso la prossima raffica di vento e riusciva a colpire un bersaglio anche a sessanta passi, ma non si avvicinava al
vantaggio di cui di solito godeva una guarnigione difendendo delle mura. Solon si era sistemato sul primo muro, sul lato opposto rispetto a Vass, sperando che, se la situazione fosse volta al peggio, sarebbe riuscito ad aiutare gli uomini senza interferenze da parte di . Vass. Non riusciva a odiare quel giovane. Gli eserciti erano pieni di uomini come Lehros Vass, ed era comunque un buon elemento. Migliore della maggior parte. Era solo un soldato che aveva bisogno di un ufficiale comandante, e invece le circostanze avevano cospirato perché fosse lui a coprire quel ruolo. Un crudele scherzo del destino che probabilmente avrebbe fatto passare alla storia Vass più come l'audace idiota che aveva condotto i suoi uomini al massacro che come un eroico soldato. Niente era peggiore dell'attesa. Come ogni soldato, Solon non sopportava le attese. Era meglio essere un ufficiale quando si trattava di aspettare. Potevi ammazzare il tempo incoraggiando gli uomini a rimanere saldi nella loro determinazione. Così non avevi più tempo per preoccuparti di te stesso. Solon pensò di aver visto qualcosa nel buio delle nuvole in corsa. S'irrigidì, ma non era niente. «Ci siamo. Ricordatevi, non guardatela in viso», raccomandò agli uomini vicino a lui. Tirò fuori i tappi di cera d'api con cui aveva giocherellato per mantenere le dita calde, e se ne infilò uno nell'orecchio, poi si fermò. Credette di aver visto ancora qualcosa, ma non era la sagoma di un uomo o di un cavallo, piuttosto un enorme quadrato - no, non era niente. Intorno a lui, altri soldati si stavano sporgendo dal muro, sbirciando nell'oscurità sottostante. Poi la sua pelle fu percorsa da un fremito. Come la maggior parte dei maghi, Solon possedeva poco talento come Veggente. L'unica magia che era in grado di vedere era la propria. Ma riusciva a percepire la magia, soprattutto quando era vicina, e sempre quando veniva usata contro di lui. Adesso si sentì come se avesse camminato all'aperto in una giornata umida. La magia non era intensa, ma era ovunque. Talmente diffusa che se Dorian non l'avesse messo così in agitazione non l'avrebbe nemmeno notata. «Qualcuno di voi sa fare dei nodi robusti?».
I soldati si scambiarono occhiate perplesse. Alla fine, uno di loro disse: «Io sono praticamente cresciuto su un peschereccio, signore. Credo di conoscere ogni tipo di nodo». Solon afferrò la fune legata al secchio che i soldati usavano per riempire le cisterne d'acqua sulla sommità delle mura. Recise la corda. «Legami», disse. «Signore?». Il soldato lo guardò come se fosse impazzito.
È così che ti ho guardato, Dorian? Mi spiace, amico. La magia si andava addensando. «Legami al muro, in modo che non possa muovermi. Prendi le mie armi». «Io, signore, io...». «Sono un mago, maledizione, sono più sensibile a quel che lei accidenti! Sta arrivando!». I soldati lo fissarono sempre più sconcertati. «Non guardatela. Non credete a quel che vedrete. Dannazione, amico, sbrigati! E voi altri, scagliate frecce!». Quello fu un ordine che molti accolsero di buon grado. Anche se il mattino dopo Lehros Vass si fosse arrabbiato con loro, non avrebbero dovuto far altro che scendere nel campo davanti alle mura a recuperare le frecce. L'ex marinaio passò la fune intorno a Solon con mosse esperte. Dopo pochi istanti, gli aveva legato le mani dietro la schiena e le aveva assicurate ai piedi; in ultimo, avvolse Solon nel mantello perché non gelasse. Lo legò poi all'argano che usavano per tirare su il secchio. «Adesso bendami gli occhi, e dammi l'altro tappo per le orecchie», gli disse Solon. L'uomo l'aveva immobilizzato con la faccia rivolta verso il muro. Solon avrebbe dovuto dirgli di assicurarsi che non potesse vederla. «Sbrigati, amico». Ma il soldato non rispose. Stava guardando oltre il muro, nell'oscurità, come tutti gli altri. «Elana?», disse il soldato. «Elly, sei tu?». Arrossì e sgranò gli occhi. Si tolse di colpo il mantello e saltò giù dal muro.
A mezz'aria, cominciò a contorcersi convulsamente, di colpo consapevole di quanto era accaduto, cercando disperatamente un modo per salvarsi. Il corpo si sfracellò sulle rocce e il vento coprì le sue grida di morte. Ci fu un'improvvisa raffica di frecce appena gli uomini obbedirono all'ordine di Solon di aprire il fuoco se fosse accaduto qualcosa di strano. La nebbia si levò a ondate e Solon vide avanzare l'immenso carro, circondato da soldati khalidoriani e tirato da sei uri. Il cuore gli balzò in gola quando scorse una dozzina di Khalidoriani falciati dalla prima raffica. Gli uri incassarono diverse frecce senza nemmeno rallentare la marcia. Ma la pioggia di frecce stava diminuendo. Solon vide altri uomini gettarsi giù dal muro. Altri scuotevano la testa, persi nelle loro visioni, gli archi abbandonati fra le dita afflosciate.
Non guardare, Solon. Non guardare. Non ci cascherò. Solo una rapida... La magia lo superò rombando come se stesse viaggiando a velocità supersonica. E poi la quiete.
Sbatté le palpebre. Era in piedi nella Sala dei Venti. Il sontuoso trono di giada risplendeva come le acque verdi della Baia di Hokkai. Sul trono sedeva una donna che riconobbe a stento. Kaede Wariyamo avrà avuto sedici anni quando lui aveva lasciato le Isole. Sebbene avesse immaginato fin dai tempi in cui giocavano insieme che sarebbe diventata bellissima, la sua trasformazione lo aveva messo a disagio. La donna lo aveva rimproverato per averla trascurata. Ma lui non aveva avuto altra scelta. Sapeva che doveva andarsene per sempre, ma non aveva mai immaginato l'effetto che gli avrebbe fatto rivederla. In quei dodici anni, aveva acquistato grazia e sicurezza. Se non l'avesse conosciuta così bene, non avrebbe nemmeno notato quella leggera inquietudine nel suo sguardo - mi trova ancora bella?
Sì. La carnagione olivastra risplendeva ancora, i capelli neri le ricadevano sulle spalle come una cascata, gli occhi non avevano smesso di brillare di intelligenza e saggezza e malizia. Forse erano più avvezzi alla malizia che alla saggezza, ma quelle labbra sembravano serbare ancora tre secoli di sorrisi. E se aveva sottili rughe di espressione intorno agli occhi e alla bocca, non erano che un tributo a una vita ben spesa. Per lui, erano un segno di distinzione. Il suo sguardo scivolò lungo il corpo della donna, fasciato in un nagika di seta azzurra tagliato per sottolineare la perfezione delle sue curve, stretto in vita da una sottile cintura d'oro e drappeggiato sopra una spalla. L'addome era ancora piatto, atletico, privo di smagliature. Kaede non aveva mai generato figli. Gli occhi di Solon indugiarono sui seni nudi. Perfetta. Era perfetta. Fu interrotto dalla sua risata. «Sei rimasto così a lungo nel Midcyru da dimenticare com'è fatto un seno, mio principe?». Solon arrossì. Dopo tanti anni in cui aveva visto donne trattare parti comuni del corpo come se fossero erotiche e parti erotiche come se fossero comuni, si sentiva totalmente confuso. « Vi chiedo scusa, Vostra Maestà». Ricordandosi appena in tempo, fece per inginocchiarsi, ma qualcosa lo intralciò nei movimenti. Pazienza. Quel che contava era davanti ai suoi occhi. Non riusciva a distogliere lo sguardo. «Sei un uomo difficile da trovare, Solonariwan», disse Kaede. «Adesso Solon, soltanto Solon». «L'impero ha bisogno di te, Solonariwan. Non pretenderò niente da te se non... se non generare un erede, e se tu richiederai stanze per una signora, provvederemo. L'impero ha bisogno di te, Solon. Non solo per la tua famiglia. Per te. Io ho bisogno di te». Gli sembrò incredibilmente fragile, come se il vento potesse spezzarla. «Voglio te, Solon. Ti desidero come ti desideravo dodici anni fa e come ti desideravo anche prima, ma ora voglio la tua forza, il tuo coraggio, la tua amicizia, il tuo...». «Il mio amore», concluse Solon per lei. «Lo hai già, Kaede. Ti amo. Ti ho sempre amata».
La donna s'illuminò in viso, proprio come faceva quando era piccola e le veniva offerto un dono speciale. «Mi sei mancato», gli disse. «Anche tu», replicò con un groppo in gola. «Temo di non essere mai riuscito a spiegare perché sono dovuto andare via...». Kaede si avvicinò e gli posò un dito sulle labbra. Il suo tocco scatenò onde d'urto che si ripercossero in tutto il suo corpo. Il cuore gli martellò contro le costole. Il suo profumo lo pervase. Solon non riusciva a trovare un punto su cui indugiare con lo sguardo. Ogni splendida linea e curva e tinta e sfumatura del suo corpo attiravano i suoi occhi su un'altra, e poi su un'altra ancora. Sorridendo, gli posò una mano sulla guancia. Oh, dèi. Sono perduto. Kaede aveva lo stesso sguardo incerto ed esitante di quell'ultimo giorno, quando lo aveva baciato e Solon le aveva quasi strappato i vestiti di dosso. Lo baciò, e il mondo divenne le sue labbra. Cominciò delicatamente, premendo quella squisita morbidezza contro la sua bocca, e poi incoraggiandolo. Di colpo divenne aggressiva, proprio come aveva fatto quel giorno, come se la passione non avesse fatto che crescere per tutto il tempo in cui lui era stato lontano. Premette il corpo contro il suo e Solon gemette. Si staccò da lui, ansimando, gli occhi fiammeggianti. « Vieni nelle mie stanze», gli disse. «Stavolta, giuro che mia madre non ci disturberà». Salì un alto gradino e si voltò a guardarlo sopra la spalla, mentre si allontanava ancheggiando. Gli rivolse un sorriso diabolico e scostò la spallina del nagika dalla spalla. Solon fece per raggiungerla, ma non riuscì a spostarsi dal pavimento. Kaede si sfilò la cintura d'oro e la lasciò cadere con noncuranza. Solon si sforzò di salire quel dannato gradino. Qualcosa gli stava mozzando il respiro. «Arrivo», le disse ansando. La donna scosse il corpo e il nagika scivolò a terra in una pozza di seta. Il suo corpo era tutto curve bronzee e lucenti cascate di capelli neri.
Solon tossì. Non riusciva a respirare. Aveva gettato al vento quell'opportunità già una volta, e non era disposto a rinunciarvi anche adesso. Tossì ancora, e ancora, e crollò in ginocchio. Kaede era in fondo al corridoio, e gli sorrideva; la luce giocava sul suo corpo snello, sulle gambe lunghe e affusolate, sulle caviglie sottili. Solon si rialzò a fatica e tentò di spezzare le corde che lo immobilizzavano. Perché mi sorride? Kaede non avrebbe dovuto sorridere mentre lui stava morendo soffocato. Kaede non si comporterebbe mai così. I suoi modi non erano simili a quelli della ragazza che aveva conosciuto, erano identici, armonizzati con un viso più maturo. Una donna che era regina da dieci anni non avrebbe abbattuto le barriere con tanta leggerezza. Lei era tutto quel che Solon aveva sperato o immaginato - la vera Kaede si sarebbe infuriata. La visione svanì all'improvviso e Solon si ritrovò sulle mura di Screaming Winds. Era affacciato oltre il bordo, e solo le corde gli impedivano di precipitare verso una morte certa. Intorno a lui, gli uomini morivano in modo orribile. Lo stomaco di un soldato si era già gonfiato di tre volte rispetto alle normali dimensioni, ma l'uomo continuava ad afferrare qualcosa nell'aria e a ficcarsela in gola. Un altro era paonazzo, gridava contro qualcuno che non era lì, ma dalla sua bocca non uscivano più parole. Aveva la voce spezzata e di tanto in tanto sputava sangue, ma senza smettere di gridare. Un altro stava strillando «È mio! È mio!», e percuoteva il muro di pietra con le mani, come se fossero sue nemiche. Erano ridotte a due moncherini sanguinolenti e spappolati, ma l'uomo non accennava a fermarsi. Altri giacevano a terra, morti, senza una ragione apparente. Molti si erano uccisi in vario modo, ma alcuni erano stati arsi dalla magia o erano esplosi. Le mura erano già arrossate da rivoli di sangue raggrumato dal gelo. Il cancello era stato sfondato mentre Solon era in trance e sagome nere stavano marciando verso di loro, guidando i sei uri che tiravano l'enorme carro. Era Khali. Solon non aveva dubbi.
«Dorian è già impazzito?», chiese una voce di donna. «Questo era un regalino da parte mia, capisci». Solon guardò, ma non vide la fonte della voce. Non sapeva se fosse solo dentro la propria testa. «In realtà è perfettamente guarito». La donna rise; una risata profonda, gutturale. «Così è vivo». Solon ebbe voglia di scomparire. Avevano pensato che Dorian fosse morto. O almeno non ne erano certi. «Facciamola finita», disse Solon. Ridacchiò. «Ti hanno detto molte bugie nella tua vita, Solonariwan. Ti hanno mentito mentre crescevi. Ti hanno mentito al Sho'cendi. Ti hanno rubato qualcosa. Io non intendo offrirti potere, perché la verità è che non posso dartene. Il vir non proviene da me: non è che un'altra menzogna. Magari potessi farlo. La verità è che il vir è naturale ed è immensamente più potente del tuo miserabile Talento. La verità è che il Talento di Dorian era debole prima che usasse il vir, e tu sai quanto sia potente ora il suo Talento». «Ti rende schiavo. I Meister sono come ubriachi in cerca del prossimo bicchiere di vino». «Alcuni di loro, sì. Il fatto è che alcune persone non reggono il vino. Ma la maggioranza sì. Forse sarai uno fra quelli che non lo reggono, come Dorian, ma non ci scommetterei. La verità è che a Dorian è sempre piaciuto il suo speciale posto al sole, non è vero? Gli piaceva che tu lo guardassi con ammirazione. Che tutti lo guardassero con ammirazione. E cosa sarebbe senza il suo potere, senza i suoi doni straordinari? Varrebbe molto meno di te, Solon. Senza il vir, non avrebbe alcun dono, e il suo Talento sarebbe minuscolo in confronto al tuo. Allora, che posto occuperesti se usassi il vir? Anche se tu lo usassi una volta, solo per sbloccare i Talenti nascosti che non sai nemmeno di avere? Cosa faresti con quel genere di potere? Torneresti a Seth ad aggiustare le cose? Prenderesti il tuo posto sul trono insieme a Kaede? Avresti un tuo posto nella storia?». Si strinse nelle spalle. «Non lo so. Non m'interessa. Ma voi maghi siete patetici. Non sapete nemmeno usare la magia nel buio. Davvero». «Bugie. Tutte bugie».
«Ah sì? Bene, allora, resta pure aggrappato alla tua debolezza, alla tua umiltà. Ma se cambierai idea, Solonariwan, non dovrai fare altro. Il potere è là, e ti sta aspettando». Poi glielo mostrò. Fu semplice. Invece di proiettarsi verso una fonte di luce, il sole o un fuoco, oppure invece di attingere dentro la sua glore vyrden, Solon dovette semplicemente proiettarsi verso Khali. Una piccola torsione ed era lì. Un oceano di potere, costantemente alimentato da decine di migliaia di fonti. Ogni Khalidoriano pregava al mattino e alla sera. La preghiera non era una serie di parole vuote: era un incantesimo. Riversava una porzione della glore vyrden di ognuno dentro quest'oceano. Poi Khali lo restituiva a chi voleva, quando e quanto voleva. In fondo, era semplice: una tassa magica. Poiché tante persone erano nate con una glore vyrden ma senza la capacità o la preparazione per esprimerla, i favoriti da Khali avrebbero sempre avuto ampio potere - e quelle persone non avrebbero mai nemmeno saputo di venir derubate della loro vitalità. Questo non spiegava il vir, ma spiegava come mai i Khalidoriani avessero sempre praticato il dolore e la tortura nel loro culto. Khali non aveva bisogno della sofferenza, ma che i suoi adoratori provassero emozioni intense. Le emozioni intense erano quel che permetteva alle persone solo marginalmente dotate di Talento di usare la loro glore vyrden. La tortura era solo il metodo più affidabile per scatenare emozioni della giusta intensità. Che il torturatore, il torturato e gli spettatori provassero disgusto, ribrezzo, paura, odio, libidine o delizia non faceva alcuna differenza. Khali faceva uso di tutti. «Ora il mio Soulsworn ti troverà, e tu morirai», lo informò Khali. «Hai già vuotato la tua glore vyrden, vero?» «Vattene», replicò Solon. Scoppiò a ridere. «Oh, sei un tipo in gamba. Credo che ti terrò». Poi la voce si spense, e Solon si lasciò cadere a terra. Khali era a Cenaria. Gli Ursuul avrebbero creato ferali e i ribelli sarebbero stati massacrati. Tutto il servizio prestato qui era stato per niente. Tutto quel che aveva appena appreso era per niente. Sarebbe dovuto tornare a Seth dodici anni prima. Aveva fallito.
Aprì gli occhi e vide i Soulsworn, avvolti in pesanti mantelli di zibellino, il volto nascosto dietro un'inespressiva maschera nera, che esaminavano i morti lungo le mura. Ogni tanto si fermavano, estraevano la spada e finivano un moribondo. Pulivano subito le lame perché il sangue, congelando, non bloccasse le spade all'interno dei foderi. Stavano avanzando nella sua direzione. Non c'era niente che potesse fare. Era legato, e l'orizzonte era ancora grigio. Niente armi. Niente magia. Il vir era l'unica via d'uscita. Anche se era un suicidio, almeno ne avrebbe portati parecchi con sé. Forse poteva superarla in astuzia. Se solo fosse riuscito a sopravvivere - e sarebbe stato davvero da idioti morire per mano di un teppista in costume - avrebbe potuto combattere Khali. Non era invincibile. Non era una dea. Le aveva parlato. L'aveva capita. Poteva combatterla. Aveva solo bisogno del potere per farlo. Il cuore gli martellava nel petto. Era proprio quel che Dorian gli aveva detto che sarebbe stato tentato di fare. Solon si era illuso che le tentazioni fossero finite, ma questa era l'ultima. La più forte. Dorian aveva ragione. Aveva avuto ragione su tutto. O Dio... Signore, se ci sei... mi disprezzo perché ti prego solo ora
che non ho niente da perdere ma, merda, se mi dai una mano a sopravvivere...
La preghiera fu interrotta da un grosso cadavere che gli piombò addosso. Solon aprì la bocca e respirò profondamente. Stava per espirare quando sangue caldo colò dal cadavere fra le sue labbra. Aveva un sapore metallico e si stava già raggrumando. Stava quasi per vomitare, mentre il liquido gli colava lungo il mento, sul collo, in mezzo alla barba, ma s'immobilizzò appena sentì un piede strusciare sul pavimento di pietra. Un Soulsworn gli tolse di dosso il cadavere, ma non si allontanò. «Guarda un po' questo, Kaav», disse con un marcato accento khalidoriano. «Un altro urlatore. Mi piace quando fanno così», disse una seconda voce. «Deve aver fatto incazzare gli uomini, eh? Deve essere stato uno dei primi a pagare se lo hanno legato in quel modo».
Il primo Soulsworn si avvicinò e si chinò a osservarlo. Solon ne sentì il respiro sibilare attraverso la maschera. L'uomo si rialzò e gli sferrò un calcio nelle reni. Nonostante il dolore lancinante, Solon non si lasciò sfuggire un lamento. L'uomo continuò a prenderlo a calci. La terza volta, il corpo lo tradì, e Solon tese i muscoli. Impossibile restare inerte. «È ancora vivo», disse l'uomo. «Uccidilo». Il cuore gli balzò in gola. Era finita. Doveva afferrare il vir e morire.
Aspetta. Un pensiero pacato, così semplice e chiaro che sembrava
provenire da qualcun altro. Solon rimase immobile.
Appena sento la lama, farò... Non lo sapeva. Avrebbe preso il vir?
Poi Khali si sarebbe impadronita di lui.
L'altro uomo grugnì di disappunto. «Merda, la lama si è ghiacciata. Ero sicuro di averla pulita». «Ah, lascia perdere. Tra il gelo e il sangue che ha perso, morirà entro cinque minuti. Se si fosse liberato delle corde sarebbe morto appena è arrivata Lei». E se ne andarono.
Capitolo 40 Quando Vi si svegliò, con i polsi, le caviglie, i gomiti e le ginocchia saldamente legati, la prima cosa che vide fu una donna di mezza età con sottili capelli castani tendenti al grigio, un fisico corpulento, la postura di chi aveva sempre portato scarpe pratiche, un viso rotondo e segnato dal tempo e occhi penetranti. La maja la stava fissando. Alle spalle di Vi ardeva un fuoco e, accanto, c'era un piccolo fagotto che doveva essere Uly, anche lei legata strettamente con una corda. «'ffnc-lo», farfugliò Vi dietro il bavaglio. Non era qualcosa di semplice, tipo un fazzoletto legato intorno alla bocca, ma un bavaglio serio. Sembrava che un macigno fosse stato avvolto nella stoffa, poi ficcato in bocca e bloccato da sottili lacci di cuoio intorno alla testa, a garanzia che non potesse pronunciare nemmeno una parola. «Prima di cominciare, Vi», disse la donna. «Voglio dirti qualcosa di molto importante. Se scapperai da me - cosa che non farai - non addentrarti nella foresta. Hai mai sentito parlare del Cacciatore Nero?». Vi assunse un'espressione minacciosa, per quanto glielo permise la bocca parzialmente aperta e ostruita, poi decise che non aveva niente da perdere se lasciava parlare la donna. In risposta, scosse la testa. «Questo spiegherebbe perché ti stavi tuffando a capofitto verso la morte, presumo», osservò la donna. «Sono Sorella Ariel Wyant Sa'fastae. Il Cacciatore Nero è stato creato circa seicentocinquanta anni fa da un mago di nome Ezra, forse il mago dotato di maggior Talento che sia mai esistito. Ezra fu dalla parte perdente della Guerra delle Tenebre. Era uno dei più fidati generali di Jorsin Alkestes, il genere di uomo a cui niente pare impossibile e che tutto quel che realizza lo fa in modo superlativo. Anzi, in modo superlativo significa che operava in modo ineguagliabile». «-o eh -ol di-e», farfugliò Vi, sebbene fosse una bugia.
«Come? Non importa. Ezra diede vita a una creatura che percepiva la magia e determinati tipi di creature che sono ormai estinte - krul, ferozi, ferali, blaemir e quant'altro - e per questo puoi ringraziare qualsiasi divinità in cui hai radicato le tue superstizioni. Creò un cacciatore perfetto, fin troppo perfetto, e non riuscì a controllarlo. Quel mostro iniziò a uccidere chiunque possedesse Talento, scappando da Ezra mentre era immerso nel sonno. Alla fine, si affrontarono - naturalmente nessuno sa cosa sia successo perché nessuno era presente. Ma i bambini dotati di Talento di Curva di Torras smisero di morire e nessuno vide più il Cacciatore Nero, neppure Ezra. A ogni modo, qualunque cosa fece Ezra, non servì a uccidere il Cacciatore Nero. Lo rinchiuse lì dentro. Nella foresta. Circa dieci passi a nord dal punto in cui ho dovuto incresciosamente uccidere il tuo cavallo c'è la prima difesa. Se la superi, sei condannata a morte. Ogni mago o maja o Meister che abbia tentato di sfidare il Bosco di Ezra negli ultimi seicento anni è morto. Potenti maghi muniti di artefatti altrettanto potenti sono morti, e quegli artefatti hanno a loro volta attirato altri maghi, e così via. Qualunque cosa accada nel bosco - anche se il Cacciatore Nero fosse una leggenda - qualunque cosa accada lì dentro, nessuno torna indietro». Sorella Ariel si concesse una pausa, poi riprese con voce limpida e briosa. «Quindi, se pensi di fuggire, non dirigerti a nord». Ariel aggrottò la fronte. «Spero mi perdonerai se ti ho legata in modo maldestro. Non ho mai rapito nessuno prima - a differenza di te».
Merda. «Oh sì, Ulyssandra mi ha raccontato tutto di te, e con molto zelo, sicario».
Due volte merda. «Ma. A proposito, tu non sei un sicario, Vi. Non sei nemmeno un sicario donna. Oh, esistono persone del genere, ma tu sei una maja uxtra kurrukulas, una maga dei boschi, una maga selvatica...». «'ffnc-lo! 'ffnc-lo!». Vi tentò inutilmente di divincolarsi dalle corde.
«Oh, non mi credi? Un sicario, Vi, persino nella varietà femminile, è in grado di usare il suo Talento senza parlare. Allora, se sei un sicario, perché non scappi?». Per Vi non c'era niente, niente di peggio al mondo che sentirsi impotente. Piuttosto si sarebbe fatta mettere le mani nei capelli da Hu. Piuttosto si sarebbe fatta montare dal Re Divino. Si puntellò contro il terreno, lacerandosi la pelle contro le corde. Provò a gridare, ma servì solo a farle scivolare nella gola un lembo di stoffa. Fu scossa da un conato, tossì e per un momento pensò che sarebbe morta. Ma poi ricominciò a respirare e si afflosciò a terra. Ariel la guardò accigliata. «Non mi piace affatto. Spero che un giorno te ne renderai conto. Adesso ti toglierò il bavaglio, d'accordo? Non puoi scappare da me, nemmeno con il tuo Talento. A un certo punto dovrai capirlo, quindi sarà meglio metterlo subito in chiaro per evitarti inutili sofferenze. Ma prima che tu mi salti addosso, prevedo che inizierai col dire imprecazioni o menzogne o un tentativo di usare la magia, quindi, prima che tu lo faccia, vorrei porti una domanda». Gli occhi di Vi trafissero Ariel come punteruoli roventi. La strega. Lasciamo che mi tolga il bavaglio. «Chi è quel Vürdmeister estremamente talentuoso che ti ha fatto questo incantesimo?». Ogni pensiero di fuga evaporò. Era un bluff. Doveva essere un bluff. Ma come?
Per Nysos. Cosa mi ha fatto quel bastardo? Era tipico del Re
Divino, farle qualche fottuto incantesimo. Non si era immaginata qualcosa del genere mentre era nella sala del trono? E se non fosse stata solo immaginazione? «Perché quest'incantesimo è qualcosa di speciale», disse Sorella Ariel. «L'ho esaminato nelle ultime sei ore, mentre tu eri priva di sensi, e non so ancora dire quale sia il suo effetto. L'unica cosa che so è che è intrappolato. E lui - decisamente reca il segno della magia operata da un uomo -, lui è ancorato al sortilegio in modi interessanti. Io sono considerata forte fra le mie Sorelle. Una della maghe più forti a ottenere i colori negli ultimi cinquantanni. E
l'incantesimo è troppo forte perché io possa spezzarlo, questo è stato subito chiaro. Capisci, ci sono reti che puoi districare e ci sono reti che devi rompere - nodi fordaeani, se vuoi -, hai familiarità con i nodi fordaeani? Non importa. Questo incantesimo le ha entrambe. Le trappole potrebbero essere sbrogliate. Ma la rete essenziale dovrà essere spezzata con estrema cautela. Anche se io ci riuscissi, probabilmente ti lascerebbe un danno mentale permanente». «Nnn ga». «Come? Oh». Sorella Ariel rimase seduta a gambe incrociate e mormorò qualcosa. I lacci caddero dal viso di Vi. Sputò fuori il fazzoletto - l'aveva davvero avvolto intorno a un sasso, la strega! - e prese fiato. Non si appellò al proprio Talento. Non ancora. «E il resto?», le domandò, indicando le altre corde. «Mmm. Mi rincresce». «Non è molto comodo parlarvi sdraiata su un fianco». «Mi sembra ragionevole. Loovaeos». Il corpo di Vi fu sollevato e appoggiato con la schiena contro un albero. «Così è questa la vostra esca? Il bluff su un incantesimo di cui non potrò liberarmi finché non raggiungeremo la Cappella - da dove, guarda caso, mi sarà impossibile fuggire?» «Proprio così». Vi contrasse le labbra. Era la sua immaginazione, o Ariel era circondata da un lieve bagliore? «Niente male come esca», dovette riconoscere. «Meglio di quel che offriamo alla maggior parte delle ragazze». «Voi rapite sempre ragazze?» «Come ho già detto, questa è la prima volta per me. Di solito non si arriva al rapimento. Le Sorelle che si occupano del reclutamento hanno mille modi per risultare convincenti. Mi ritengono priva di tatto per questo genere di lavoro». «Quale esca usano abitualmente?», volle sapere Vi, visibilmente sorpresa.
«Se stesse. Le Sorelle che si occupano del reclutamento tendono a essere bellissime, affascinanti, stimate e - non da meno - molto convincenti». «E l'amo qual è?», chiese Vi. «Oh, vogliamo continuare con la metafora della pesca?» «Come?», replicò Vi. «Non importa. L'amo è la servitù e la tutela. È come un apprendistato, da sette a dieci anni di servizio per diventare una Sorella a tutti gli effetti. Poi siete libere». Vi aveva fatto abbastanza apprendistato per le prossime dieci vite. Fece una smorfia di scherno. Lasciala parlare. Potresti imparare qualcosa. «Avete detto che non sono un vero sicario. Ho seguito l'intero addestramento per diventarlo». «Hai problemi con l'Abbraccio delle Tenebre, vero?» «Cosa?» «L'invisibilità. Non ci riesci, non è così?». Come faceva a saperlo? «È solo una leggenda. Fa alzare il prezzo. Nessuno può rendersi invisibile». «Vedo che hai intenzione di passare molto tempo a disimparare cose che credi di conoscere. I veri sicari possono rendersi invisibili. Ma i maghi non trattano l'invisibilità. Il tuo Talento deve praticamente vivere nella tua pelle. L'invisibilità richiede una totale consapevolezza corporea, talmente profonda che arriva a farti sentire come quando la luce tocca ogni porzione della tua pelle. Quel che possiedi tu è qualcosa di diverso - a dire il vero, qualcosa che è stato proibito da un trattato centotrenta - mmm - trentotto anni fa. Gli Alitaeriani sarebbero, potremmo dire, estremamente inquieti se noi ti addestrassimo in questo modo. Vedi, se tu padroneggiassi qualche altra cosetta, saresti un mago combattente. Oh, provocherai non poche emicranie alla Portavoce, lo prevedo già da ora». «Vaffanculo», disse Vi. Sorella Ariel si sporse in avanti e le assestò un ceffone. «Dovrai parlare civilmente»
«Vaffanculo», ripeté Vi senza alcuna intonazione. «Sistemiamo subito la questione», disse Sorella Ariel, alzandosi. «Loovaeos uh braeos loovaeos graakos». Vi fu sollevata di colpo in piedi. Le corde caddero a terra. Un pugnale volò via dalla sua sacca e cadde davanti ai suoi piedi. Vi non si allungò a raccogliere il coltello. Non si fermò per prendere tempo. Scagliò il suo Talento sotto forma di un pugno titanico nello stomaco di Sorella Ariel. La violenza del colpo sollevò Ariel da terra. Volò sopra il falò e atterrò dall'altra parte, scivolando sulla schiena in mezzo alla terra; Vi non si mosse. Non tentò nemmeno la fuga. Continuava a fissare la sua mano inerte. Era come se avesse colpito l'acciaio. Le ossa avevano forato la pelle. Le nocche erano ridotte a una poltiglia sanguinolenta. Il polso era spezzato, e così le ossa dell'avambraccio. Una di esse premeva contro la pelle, minacciando di fuoriuscire. Sorella Ariel si rialzò, scuotendo il suo enorme, largo vestito e sollevando una nuvola di polvere. Sbuffò e guardò Vi, che stava cullando il braccio ferito. «Dovresti rinforzare le tue ossa prima di colpire con il Talento». «L'ho fatto», rispose. Era quasi in stato di shock. Si sedette - o forse crollò, a terra. «Allora non dovresti tirare pugni a una maja protetta da armatura». Ariel osservò con aria di disapprovazione la mano distrutta di Vi. «Sembra che tu abbia più Talento che buonsenso. Non c'è da preoccuparsi, è una cosa abbastanza diffusa. Sappiamo come gestirla. La verità è, Vi, che la tua magia corporea non è allenata, è indefinita e non può competere con quella di una qualunque Sorella istruita. Potresti essere molto di più. Hai mai imparato a guarirti da sola?». Vi stava tremando. Alzò gli occhi in silenzio. «Bene, se vuoi usare ancora la tua mano, posso guarirla. Ma sarà doloroso, e io sono lenta». Vi le offrì il braccio, ammutolita.
«Solo un secondo, devo proteggere le orecchie di Uly. Altrimenti le tue grida la sveglieranno». «Io non... non griderò», si ripromise Vi. Ma da come andarono le cose, fu una bugia. Logan rimase immobile. In un altro momento, avrebbe fatto scendere tutti per ricostruire la torre appena Gorkhy se ne fosse andato, ma sapeva che non sarebbe riuscito a radunare le forze per provarci di nuovo. «Che succede laggiù?», sbraitò Gorkhy.
Cosa! Non abbiamo fatto rumore. Come ha fatto a sentire! Schiacciandosi il più possibile contro la parete, Logan alzò gli occhi e vide che Fin aveva fatto altrettanto e anche Lilly, poggiata sulle sue spalle. Il fascio di luce della torcia attraversò obliquamente la grata mentre Gorkhy muoveva gli ultimi passi. Dal punto in cui la guardia si trovava adesso, Lilly era solo a pochi centimetri dalle sue scarpe. Ma con i bordi del Buco a strapiombo sotto la grata, la luce non l'avrebbe investita, a meno che la guardia non si fosse avvicinata ulteriormente. Sentirono Gorkhy tirare su col naso, e la luce della torcia si spostò mentre l'uomo si affacciava dalla grata. Imprecò contro i prigionieri. «Animali. Puzzate più del solito». Per gli dèi, aveva fiutato Lilly. «Perché non vi lavate?». La faccenda poteva andare avanti a lungo. Se era un giorno sfortunato, avrebbe vuotato la vescica addosso a loro. Logan tremò di rabbia e di stanchezza. Non c'era un motivo che tenesse per uno come Gorkhy. Non c'era possibilità di comprensione. Gorkhy non guadagnava niente tormentandoli, ma lo faceva, e ci provava gusto.
Vattene. Vattene. «Che succede laggiù?», ripeté Gorkhy. «Ho sentito dei rumori. Che state combinando?».
La torcia si spostò ancora e la luce s'inclinò pericolosamente vicino a Lilly. Gorkhy stava camminando intorno alla grata, tenendo alta la torcia e sbirciando nelle profondità del Buco. Stava girando in senso antiorario, allontanandosi da loro. I prigionieri erano pietrificati. Nessuno di loro stava imprecando o litigando o parlando o facendo altro. Li avrebbe traditi. Soltanto Natassa si mosse, allontanandosi da Logan. La luce si fece largo fra le sbarre della grata e illuminò la testa di Lilly. «VA' ALL'INFERNO, GORKHY!», gli gridò Natassa. La torcia si spostò immediatamente da Lilly. «Chi è... ah, la mia ragazzina! Non è così?» «Vedi la mia faccia, Gorkhy?», lo provocò Natassa. Ragazza coraggiosa. «Questa è l'ultima cosa che vedrai, perché ho intenzione di ucciderti». Gorkhy scoppiò a ridere. «Ce l'hai una bocca, eh? Me l'hai già fatta vedere prima che ti spedissimo laggiù, ricordi?». Altra risata. «Vaffanculo!». «Già fatto anche quello, ah ah. Sei stata il bocconcino più piccante che ho assaggiato dopo tanti anni. Ne lascerai un pezzettino al resto dei ragazzi? Io però sono stato il primo. Non dimenticherai mai chi è stato il primo. Non mi scorderai mai, eh?». Scoppiò ancora a ridere. Logan si stupì del coraggio mostrato da Natassa. Stava stuzzicando l'uomo che l'aveva violentata, solo per dare una possibilità a loro. «Come l'ha presa Lilly? Scommetto che tutti i ragazzi preferiscono infilarlo a te piuttosto che alla vecchia puttana. Come te la passi, Lilly? La concorrenza si fa di colpo spietata? Dove sei, Lilly?». La guardia si spostò, cercando la donna fra le ombre del baratro. «Ho gettato quella puttana nel Buco», disse Natassa. Logan tremava così violentemente che riusciva a stento a mantenersi in piedi.
«Non mi stai dicendo cazzate, vero? Sei un gattino selvatico, eh? Scommetto che hai cercato di sedurre anche il nostro puro, piccolo Re, vero? Te la sei già scopata, Re? So che Lilly era un po' rognosa per te, ma questa è carne scelta, eh, Re? Dove sei?». Dall'altra parte del Buco, Tatts disse «Vaffanculo» contro il palmo delle mani. Così smorzata, la sua voce sembrò quella di Logan. Apprezzando l'arguzia, Logan provò un moto di simpatia per gli ospiti del Buco. Per gli dèi, erano tutti nella stessa barca, e ne sarebbero usciti insieme. Gorkhy continuava a ridere. «Bene, bene, è stato divertente. Fatemi sapere quando vi viene fame. Questa sera ho avuto una porzione extra di carne, e mi sento così pieno che non credo riuscirò a mandarne giù un altro boccone». Logan era allo stremo delle forze. Voleva gridare, scrollarsi di dosso quella debolezza. Non si rendeva nemmeno conto di essere in piedi. Sapeva solo che, se si fosse mosso, sarebbe crollato. Aveva il corpo coperto di sudore freddo, la vista appannata. Un istante dopo, Logan sentì un respiro irregolare, sospiri di sollievo. «Se n'è andato», disse qualcuno. Era Natassa, di nuovo accanto a Logan, con gli occhi pieni di lacrime cocenti. «Resisti, Logan. Ci siamo quasi». Qualcosa sbatacchiò sonoramente contro la grata. «Cosa stai facendo?», sibilò Fin. «Lilly, cosa cazzo...». «Non l'ho nemmeno toccata! Lo giuro!», si difese la donna. «Scendete giù!», gridò Logan. Ma era troppo tardi. Si udiva già un rumore di passi affrettati e dopo un secondo Gorkhy si affacciò alla grata, illuminando Lilly, Fin e Logan con la torcia. Con spietata rapidità, colpì Lilly in faccia con l'impugnatura della lancia. La torre crollò. Persino mentre i corpi gli atterravano addosso, schiacciandolo contro il pavimento di pietra inclinato, Logan vide il suo tesoro - la chiave che aveva tenuto in serbo per mesi - volare dalla mano di
Lilly. Rimbalzò tintinnando sulla roccia, scintillando nella luce tagliente della torcia - e cadde nel Buco. Tutte le sue speranze, i suoi sogni, erano legati a quella chiave. Scomparendo nell'abisso, li aveva portati con sé. Ci fu un secondo di effimera pace mentre tutti gli occhi osservarono la chiave scomparire. Poi, uno dopo l'altro, gli abitanti del Buco afferrarono la nuova realtà - che era identica alla precedente, prima che sapessero dell'esistenza della chiave. Fin cominciò a prendere a pugni qualcuno - doveva trattarsi di Lilly perché, quando Fin si rialzò in ginocchio, stringeva in mano la sua fune. Poi colpi Logan sul viso. Non riuscì a fermarlo. Fin era troppo forte e Logan aveva esaurito tutte le forze. Si afflosciò a terra. Si udì un ringhio disumano e un corpo massiccio si lanciò con violenza addosso a Fin, scagliandolo vicino al bordo del baratro. Era stato Gnasher, che ora si accovacciò accanto a Logan, digrignando i denti. Annaspando su mani e talloni, Fin si allontanò in fretta dalla portata di Gnasher, e quando vide che non lo seguiva, si rialzò lentamente in piedi. Logan cercò di drizzarsi a sedere, ma il corpo si rifiutò di obbedirgli. Non riusciva nemmeno a muoversi. Il mondo galleggiava davanti ai suoi occhi. «Mi prendo la nuova puttana per primo», annunciò Fin. Che gli dèi abbiano pietà. «Tu sarai il primo a morire, idiota!», gridò Natassa di rimando. Tremava, stringendo in pugno il pugnale come se non avesse idea di cosa farne. Gli altri prigionieri - bastardi animali! - la circondarono su tre lati. La ragazza indietreggiò contro la parete, agitando la lama in aria. Sopra di loro, Gorkhy rideva. «Carne tenera, ragazzi, carne tenera!». «No», intervenne Logan. «No, Gnash, aiutala. Aiutala, ti prego».
Gnasher non si mosse. Stava ancora ringhiando, tenendo tutti lontano da Logan. Natassa capì: se solo fosse riuscita a spostarsi dall'altra parte del Buco, vicino a Logan, la paura che tutti avevano di Gnasher li avrebbe tenuti a bada. Ma anche Fin aveva intuito la sua mossa, e cominciò ad annodare un'estremità della fune a formare un lazo. «Puoi rendere le cose facili, oppure difficili», le disse Fin schioccando le labbra sanguinanti. Natassa lo guardò, poi fissò il lazo che prendeva forma nelle sue mani, come se avesse dimenticato il pugnale che stringeva. Lanciò un'occhiata al di là dell'abisso e incontrò gli occhi di Logan. «Mi dispiace, Logan», disse. E si lasciò cadere nel baratro. I prigionieri gridarono appena scomparve alla vista. «State zitti e ascoltate!», strillò Gorkhy. «A volte si sente quando toccano il fondo». E quei bastardi, animali, mostri, fecero silenzio e si misero in ascolto, sperando di sentire un corpo sfracellarsi contro le rocce sottostanti. Troppo tardi. Brontolarono le solite proteste sulla carne andata perduta e volsero la loro attenzione a Lilly. Le lacrime di Logan erano ardenti quanto la sua febbre. «E adesso, chi cazzo è Logan?», abbaiò Gorkhy. «Re, stava dicendo a te?». Logan chiuse gli occhi. Che importanza aveva, ormai?
Capitolo 41 «È ora. Grassone», disse Ferl Khalius.
«Non è
abbastanza folle da seguirci dall'altra parte». Si trovavano a quattrocento metri di altezza sul Monte Hezeron, la vetta più alta lungo il confine ceuriano. Fino a quel momento, l'escursione era stata impegnativa, ma i peggiori dislivelli erano stati di circa tre metri. Da lì, c'erano due vie per superare la montagna: attraverso la gola di lato, oppure orizzontalmente lungo la parete. Ferl aveva quasi scatenato una rissa nell'ultimo villaggio, chiedendo quale delle due strade avrebbe scelto un uomo coraggioso che andava con una certa fretta. Alcuni degli abitanti sostenevano che la parete non era mai una buona scelta, soprattutto in questo periodo dell'anno. Anche una leggera spolverata di neve o di pioggia gelata avrebbe reso la pista un suicidio. Altri avevano dichiarato che attraversare la parete era l'unico modo per superare le montagne prima che arrivasse la neve. Rimanere bloccati tra i ripidi pendii e gli anfratti, che rendevano difficoltoso l'attraversamento della gola, avrebbe significato morte certa in caso di neve. E la neve stava arrivando. Il barone Kirof non se la stava cavando bene. Era talmente spaventato dall'altitudine che non faceva che piagnucolare. «Se... se fosse così folle da seguirci, cosa ne sarà di noi?» «Su, un po' di voglia di vivere. Sono cresciuto su montagne più aspre di questa». Ferl si strinse nelle spalle. «O mi seguite o cadete». «Non potete lasciarmi?». Il barone Kirof era patetico. Ferl se lo era portato dietro perché non sapeva cosa sarebbe accaduto dopo la sua fuga, e voleva avere un elemento utile da giocarsi in una eventuale contrattazione. Ma forse era stato un errore. Quell'uomo grasso gli aveva rallentato la marcia. «Loro vi vogliono vivo. Se vi fermate qui, quel Vürdmeister mi farà precipitare dalle rocce. Se restate con me, forse non lo farà».
«Forse?» «Muovetevi, Grassone!». Ferl Khalius osservò le nuvole scure con sguardo torvo. La sua tribù, gli Iktana, era una tribù di montagna. Era uno degli scalatori più esperti che avesse mai conosciuto, ma non gli era mai piaciuto scalare le vette. Gli piaceva combattere. Combattere lo faceva sentire vivo. Ma arrampicarsi era arbitrario, e le divinità della montagna capricciose. Aveva visto il membro più devoto del clan precipitare dopo aver poggiato il proprio peso sulla stessa roccia che aveva sostenuto Ferl - che era anche più pesante di lui - solo un istante prima. In battaglia, una freccia isolata poteva ucciderti, certamente, ma potevi spostarti, potevi lottare. La morte poteva ancora arrivare, ma non ti avrebbe trovato sgomento, aggrappato a una sporgenza rocciosa con dita sudate, pregando che la prossima folata di vento non arrivasse mai. Quella traversata non era la peggiore che avesse visto. Si arrampicava forse per una trentina di metri a ridosso della parete, larga poco meno di un metro. Un metro non era poco, accidenti. Era il precipizio di lato che faceva sembrare quel metro terribilmente esiguo. Sapere che se scivolavi non avevi alcuna possibilità di aggrapparti, che inciampare significava morte sicura: erano queste le cose che scombussolavano un uomo. Ed era l'effetto che stavano avendo su Grassone Kirof. Il barone, sfortunatamente, non aveva idea del perché la sua presenza fosse importante. Anche Ferl non era riuscito a scoprire altro. Ma Grassone era importante al punto che il Re Divino gli aveva messo alle costole un Vürdmeister. «Voi andrete avanti, Grassone. Io porterò l'equipaggiamento, ma questa è tutta la grazia che vi concedo». Non era grazia. Era una questione di praticità. Gravato dalla zavorra, il grassone sarebbe andato più lento e, se fosse caduto, Ferl non avrebbe perso le provviste. «Non ce la farò mai», si lamentò il barone Kirof. «Per favore». Il sudore scendeva a rivoli sul viso rotondo e i baffetti rossi fremevano come quelli di un coniglio.
Ferl sguainò la spada, l'arma che aveva protetto con tanta cura, l'arma che lo avrebbe reso un signore della guerra nel suo clan. Rappresentava tutto quel che poteva desiderare un signore della guerra: una spada perfetta, fino alle rune delle montagne incise nell'acciaio, di cui Ferl riconosceva il valore ma che non era in grado di leggere. Agitò appena la spada, un lieve cenno che voleva dire: "O sfidi la sorte lungo la pista o affronti la spada". Il barone si avviò lungo il sentiero, borbottando qualcosa a voce così bassa che Ferl non riuscì a capire cosa stesse dicendo, ma sembrava una preghiera. Sorprendentemente, Grassone camminò di buon passo. Ferl dovette colpirlo una volta di piatto con la lama quando il barone si coprì di ghiaccio e prese ad avanzare con passettini affrettati. Non era il caso di farlo. Se non avessero distanziato a sufficienza il Vürdmeister quando questi fosse uscito dal folto degli alberi, Ferl sarebbe stato un uomo morto. Aveva preferito camminare dietro al grassone perché era l'unico modo per farlo muovere, ma in questo modo si era esposto a qualsiasi magia il Vürdmeister avesse scagliato contro di loro. Se non si fossero allontanati abbastanza da far temere al Vürdmeister che lui avrebbe ucciso il barone, il gioco era finito. La vista era mozzafiato. Avevano superato la metà del costone e il loro sguardo poteva spaziare all'infinito. Ferl pensò di aver localizzato la città di Cenaria in lontananza, a nord-ovest. Gli diede la sensazione che non avesse percorso nemmeno un metro di pista. Ma Ferl non era interessato alle limpide distese a nord. Era interessato al lieve formicolio che aveva appena sentito sulla pelle. Neve. Alzò gli occhi. Il fronte della coltre nera di nuvole era proprio sopra di loro. Grassone si fermò. «Il sentiero si sta restringendo». «Il Vürdmeister è uscito dalla foresta. Non abbiamo scelta». Il barone deglutì faticosamente e riprese ad avanzare trascinando i piedi, il volto premuto contro la parete di roccia, le braccia allargate.
Dietro di loro, il Vürdmeister si era fermato con i pugni sui fianchi, furibondo. Ferl guardò avanti. Ancora una trentina di passi e poi un tratto più difficoltoso dove la cornice si restringeva a meno di mezzo metro. Grassone stava succhiando l'aria rarefatta, paralizzato sul posto. «Potete farcela», lo incoraggiò Ferl. «So che potete farcela». Come per miracolo, il barone cominciò a muoversi, sempre trascinando i piedi ma con una certa sicurezza, come se avesse appena attinto a un pozzo di coraggio che non sapeva nemmeno di avere. «Ci sto riuscendo!», esclamò. E ci riuscì davvero. Superò il tratto più stretto del costone e Ferl gli tenne dietro, spedendo nel vuoto il pietrisco che ostacolava il passaggio e cercando di non seguire la sua stessa sorte. La cengia cominciò ad allargarsi e Grassone riprese a camminare invece di trascinare i piedi - anche se la pista era larga meno di un metro. Ormai l'aveva presa a ridere. Poi una sorta di meteora verde li sorpassò e la cengia davanti a loro esplose. Mentre il fumo veniva spazzato via dalle folate gelide, le nuvole si aprirono e cominciò a nevicare: grossi fiocchi che disegnavano cerchi e linee orizzontali nel vento. Grassone e Ferl fissarono il vuoto apertosi poco più avanti. Era largo non più di mezzo metro, ma non c'era lo spazio necessario per prendere la rincorsa e spiccare il salto. Oltre tutto, la sponda da raggiungere non sembrava stabile. «Se saltate», disse Ferl, «non vi chiamerò mai più Grassone». «Andate a farvi fottere», ribatté il barone - e saltò. Dovette issarsi con l'aiuto delle mani e dei piedi, ma se la cavò. Un altro missile centrò la parete sopra la testa di Ferl, e una pioggia di schegge di roccia lo investì, ferendogli il viso. Scosse la testa per liberare gli occhi dalla polvere, perse l'equilibrio e lo ritrovò nello stesso istante. Indietreggiò di due passi e fece il balzo.
La cengia franò sotto i suoi piedi prima che avesse il tempo di issarsi. Gettò in alto le braccia, annaspando nel vuoto. Una mano lo afferrò, e il barone lo mise in salvo. Ansando, Ferl si chinò poggiando le mani sulle cosce per riprendere fiato. Dopo un momento, disse: «Mi avete salvato. Perché voi... perché?». La risposta del barone si perse nel fragore della roccia che saltava in aria alle sue spalle. Ferl esaminò il resto della cengia. Ancora una trentina di passi e poi la pista proseguiva dietro un angolo, fuori dal campo visivo del Vürdmeister. Da quel punto in poi il sentiero era largo un metro e mezzo, forse di più, troppo perché un missile potesse distruggerlo, ma i due compagni di viaggio erano ancora allo scoperto; Ferl non aveva più alcuna intenzione di chiudere la fila. Rinfoderò la spada e agguantò il barone, costringendolo a girarsi. «È l'unico modo per tirarci fuori da questa situazione», disse. «Va bene», replicò il barone. «Non sono disposto a tornare indietro lungo la cengia, e non saprei come cavarmela su questa montagna. Sono con voi». Cominciarono a indietreggiare insieme, Ferl fissando i propri piedi e poi il Vürdmeister all'altra estremità della parete. Un ardente missile verde iniziò a volteggiare lentamente intorno al corpo del giovane. Sapeva che la preda si stava allontanando da lui. Il missile prese a girare sempre più vorticosamente. Ferl costrinse il barone ad avvicinarsi al bordo con un cenno minaccioso. Il missile rallentò, e dalla bocca del Vürdmeister uscirono impercettibili imprecazioni. Ferl sollevò il dito medio in un silenzioso saluto all'uomo e un attimo dopo, ridendo, il barone imitò il suo gesto. Ma poi, mentre indietreggiava, un sasso si mosse sotto il tallone di Ferl. Stava scivolando, trascinandosi addosso il barone Kirof. C'era una sola cosa da fare. Spinse il barone verso il bordo con tutte le forze, mettendo al sicuro il proprio corpo.
Atterrò, sbattendo il sedere sulla cengia. Scorse le dita del barone aggrappate al bordo. Rotolò nella sua direzione e vide gli occhi dell'uomo spalancati di terrore. «Aiuto!», gridò il barone. Ferl non si mosse. Alla fine, Grassone era semplicemente troppo grasso. Resistette ancora un momento, poi le braccia esili non lo sostennero più. Le dita persero la presa sulla roccia. La caduta durò a lungo, ma Grassone non emise alcun suono. Insieme, Ferl e il Vürdmeister lo osservarono veleggiare verso le sponde rocciose della morte. Dall'altra parte della montagna, il volto del Vürdmeister sembrò precipitare insieme al corpo del barone. Il Re Divino non tollerava gli insuccessi. Ferl si allontanò rapidamente dal bordo e oltre la curva del sentiero, congratulandosi con se stesso per aver avuto l'accortezza di tenersi le provviste.
Capitolo 42 La tenuta dei Gyre a Havermere
aveva subito grandi cambiamenti da quando Kylar l'aveva attraversata insieme a Elene e Uly, lungo la strada per Caernarvon. Allora, era quasi deserta. Senza un lord a proteggerli, alcuni contadini se n'erano andati. L'imminente raccolto e la provvidenziale assenza di incursioni dei Ceuriani o dei Lae'knaught erano le uniche ragioni a trattenere il resto dei lavoranti. Adesso, la tenuta pullulava di gente; Kylar non ci mise molto a capirne il motivo. La resistenza aveva trasferito il proprio quartier generale a Havermere. Erano a pochi giorni a cavallo da Cenaria, e questo li collocava in una postazione abbastanza vicina per attaccare le pattuglie in ricognizione, ma sufficientemente lontana per fuggire, nel caso il Re Divino avesse mobilitato un intero esercito contro di loro. La ricchezza del raccolto e le risorse della tenuta dei Gyre - che ospitava centinaia fra i migliori cavalli del paese, un considerevole arsenale di armi e mura difendibili almeno contro chi non facesse uso della magia - la rendevano una base ideale. Kylar si chiese se l'avessero presa con la forza o se il fattore dei Gyre avesse accolto di buon grado l'armata. Si fermò appena intravide gli ospiti della tenuta nella penombra del primo mattino. Se voleva, poteva evitare di attirare la loro attenzione - o almeno intromissioni. Probabilmente non l'avevano ancora visto, non in quella luce, sebbene non avesse idea di quanto fossero vigili le loro sentinelle. Alla fine, pensò che avrebbe fatto meglio a scoprire cosa stava succedendo a Havermere. Se Logan era ancora vivo e Kylar fosse riuscito a salvarlo, era qui che si sarebbero rifugiati. E se riusciva a far sapere a Logan cosa lo aspettava, tanto meglio. Tuttavia, prima di addentrarsi a cavallo, assunse l'aspetto di Durzo. Era molto più semplice dell'unico altro camuffamento che aveva escogitato - il barone Kirof - e probabilmente meno rischioso. I ribelli che conoscevano il barone Kirof avrebbero voluto ucciderlo. I ribelli che conoscevano Durzo avrebbero forse finto di non
conoscerlo - nessuno sano di mente avrebbe ammesso di conoscere un sicario. Ed era meglio che presentarsi come Kylar. Un Kylar Stern che si presentava nel campo dei ribelli era un Kylar Stern che aveva deciso di abbracciare la loro causa. Inoltre, non sapeva ancora se il personaggio Kylar non corresse pericoli. Elene ne aveva parlato al lord generale Agon, e Kylar non sapeva ancora se Agon avesse sparso la voce in giro. E così, eccolo qui, in sella al suo cavallo, che cercava di assumere l'aspetto di Durzo. Non era facile, nonostante avesse dedicato giorni - settimane - a perfezionare il camuffamento. I problemi erano diversi. Primo, dovevi ricordarti il volto alla perfezione. Persino dopo aver guardato in faccia Durzo Blint per anni, era più difficile di quanto Kylar avesse immaginato. Dopo aver iniziato il progetto, aveva speso settimane a ricordare in che modo le rughe agli angoli degli occhi di Durzo piegavano verso il basso, a riprodurre con esattezza la pelle butterata delle guance, a raddrizzare la linea delle sopracciglia, a sistemare i ciuffi della sua rada barba. Poi, quando aveva pensato che tutto fosse perfetto, si era reso conto di essere solo all'inizio. Un volto statico non era un camuffamento valido. Doveva ancorare ogni punto mobile di quel volto al suo, perché si atteggiasse quasi nello stesso modo. Quasi. Il fatto era che, persino dopo dieci anni trascorsi insieme a Durzo, durante i quali aveva assimilato anche il suo modo di fare, le espressioni facciali di Kylar non erano molto simili a quelle del maestro. Così, il volto di Durzo guardava in cagnesco quando Kylar si accigliava, sogghignava quando lui sorrideva, scherniva quando lui storceva la bocca, più un altro centinaio di espressioni che aveva aggiunto man mano che gli tornavano in mente durante le lunghe ore trascorse facendo smorfie davanti allo specchio. Anche così, il camuffamento non era completo. Durzo era alto. Kylar era nella media. Così, dopo aver ultimato la maschera, si proiettò verso l'alto di una quindicina di centimetri. Quando qualcuno cercava di fissare Durzo negli occhi, guardava al di sopra della testa di Kylar. Ci voleva molta disciplina per ricordarsi di fissare
il collo della persona, e dare così l'idea che Durzo le stesse restituendo lo sguardo. Era un particolare che Kylar non era ancora riuscito a definire: aveva tentato in ogni modo, così avrebbe potuto guardare in ogni direzione e gli occhi di Durzo avrebbero fatto altrettanto una quindicina di centimetri più in alto, ma non aveva ancora trovato una soluzione. Per di più, se qualcuno cercava di toccare il viso o le spalle che proiettava, l'illusione svaniva. Kylar aveva tentato di rendere l'illusione eterea così, se qualcosa l'avesse sfiorata, sarebbe scivolata attraverso di essa. Non aveva funzionato. La rete del Talento - o qualunque cosa fosse - era fisica. Se qualcosa di più denso della pioggia la colpiva, si lacerava. Kylar aveva tentato anche nel modo opposto, dandole una consistenza fisica, in modo che resistesse a piccoli colpi come avrebbero fatto un volto e spalle reali. Ma, anche così, non aveva funzionato. Tutto sommato, ci era voluto un sacco di lavoro per ottenere un camuffamento a dir poco mediocre. Adesso Kylar capì perché Durzo preferiva truccarsi. Diede un colpo di talloni ai fianchi del cavallo e scese a Havermere. Le sentinelle non parvero sorprese di vederlo apparire nella luce dell'alba, quindi forse il loro perimetro era più protetto di quanto avesse pensato. «Quali affari vi conducono qui?», gli chiese un adolescente dallo sguardo torvo. «Sono nativo di Cenaria, ma ho vissuto a Caernarvon negli ultimi anni. Ho sentito che le cose si sono in gran parte sistemate. Ho i miei familiari a Cenaria e sono venuto a vedere se stanno tutti bene». Parlò in fretta e probabilmente fornì troppe spiegazioni, ma un timido mercante avrebbe agito nello stesso modo. «Di cosa vi occupate?» «Sono un mercante di erbe e uno speziale. Normalmente, porto delle erbe con me, ma l'ultimo carico me l'hanno distrutto i banditi. Quei bastardi mi hanno bruciato il carro appena hanno capito che non c'era oro a bordo. A che scopo, dico io? Comunque sia, accorcerò il viaggio se passo di qui».
«Siete armato?», domandò il ragazzo. Ora sembrava più rilassato, e Kylar era sicuro che gli credesse. «Certo che sono armato. Pensi che sia pazzo?», lo apostrofò Kylar. «Giusto. Andate pure». Kylar condusse il cavallo dentro l'accampamento che si allargava davanti ai cancelli di Havermere. Era ben organizzato, strutturato in file allineate, con le latrine dislocate a intervalli regolari e lontano dalle fosse per la cottura dei cibi, numerose costruzioni permanenti o semipermanenti, e viottoli per il passaggio a piedi e a cavallo. Ma non aveva un aspetto militare. Alcune strutture sembravano destinate a sopportare i rigori dell'inverno, ma le fortificazioni intorno all'accampamento erano risibili. A una prima occhiata, era evidente che i nobili e le loro scorte personali alloggiavano all'interno della tenuta, mentre i soldati e i civili che si erano uniti ai ribelli erano accampati all'esterno, facendo del loro meglio per accontentarsi della sistemazione. Kylar stava osservando un edificio di legno, cercando di indovinarne l'utilizzo, quando rischiò di travolgere con il proprio cavallo un uomo con il pince-nez che avanzava con difficoltà appoggiandosi a un bastone. L'uomo alzò gli occhi verso di lui e rimase scioccato almeno quanto Kylar. «Durzo?», esclamò stupito il conte Drake. «Credevo fossi morto». Kylar s'irrigidì. Era talmente confortante vedere il conte Drake in vita che il suo controllo sul camuffamento vacillò per un istante. Il conte appariva invecchiato, logorato dalle preoccupazioni. Da quando lo conosceva, aveva sempre zoppicato, ma non aveva mai avuto bisogno di un sostegno. «C'è un posto tranquillo dove possiamo parlare, conte Drake?», chiese Kylar, fermandosi in tempo prima di chiamarlo "signore". «Certo, certo, naturalmente. Perché mi chiami così? Per anni non mi hai mai chiamato conte Drake». «Ah... è passato tanto tempo. Come ne siete venuto fuori?».
Il conte Drake lo guardò con sospetto, e Kylar fissò il torace dell'uomo, augurandosi che gli occhi di Durzo incontrassero quelli del conte. «Stai bene?», gli domandò Drake. Smontò da cavallo e allungò la mano per stringere il polso del conte. Drake gli restituì la stretta comunicandogli la consueta sensazione di forza e concretezza. Era sempre stato un saldo punto di riferimento, e Kylar fu sopraffatto dal bisogno di raccontargli tutto e da un pudore altrettanto intenso. Il rischio nel parlare con il conte Drake era che tutto si chiariva all'istante. Decisioni che erano parse confuse diventavano di colpo semplici. Qualcosa in Kylar rifuggiva da una conclusione del genere. Se il conte Drake l'avesse conosciuto per quel che era realmente, non gli avrebbe più voluto bene. Un sicario non ha amici. Il conte gli fece strada fino a una tenda al centro dell'accampamento. Si sedette su una sedia, con la gamba palesemente rigida. «È un po' esposta alle correnti d'aria ma, se noi saremo ancora qui, la puntelleremo ben bene prima dell'inverno». «Noi?», ripeté Kylar. La gioia si spense negli occhi del conte. «Mia moglie, Ilena e io. Serah e Magdalyn non... non ce l'hanno fatta. Serah era una "donna di conforto". Abbiamo saputo... si è impiccata con le lenzuola del suo letto. Dalle ultime notizie, Magdalyn è una donna di conforto o una delle concubine del Re Divino». Si schiarì la gola. «La maggior parte di loro non resistono a lungo». Allora era vero. Kylar non aveva pensato che Jarl stesse mentendo, ma gli era parso impossibile crederci. «Mi spiace davvero», disse Kylar. Parole del tutto inadeguate. Donne di conforto. Costrette a subire la forma di schiavitù più crudele e disumanizzante che Kylar conoscesse: rese magicamente sterili e relegate in una stanza delle caserme khalidoriane per i capricci dei soldati - capricci che venivano soddisfatti dozzine di volte al giorno. Sentì lo stomaco rivoltarsi. «Sì. È... è una ferita aperta», confessò il conte Drake, pallido in volto. «I nostri fratelli khalidoriani hanno ceduto agli appetiti peggiori. Prego, entra. Parliamo della guerra che dobbiamo vincere».
Kylar entrò, ma quel senso di malessere allo stomaco non passò. Anzi, s'intensificò. Appena vide Ilena Drake, la figlia più piccola del conte, ora quattordicenne, fu sopraffatto dal senso di colpa. Dio, e se avessero preso anche lei? «Puoi scaldare un po' di ootai?», chiese il conte alla ragazza. «Ricordi mia figlia?», domandò a Kylar. «Ilena, giusto?». Era sempre stata la sua preferita. Aveva la bella carnagione e i capelli biondo chiaro della madre e la tendenza alla maliziosità del padre, non mitigata ancora dagli anni. «Lieta di fare la vostra conoscenza», disse educatamente la ragazza. Accidenti, stava diventando una signora di classe. Quando era successo? Kylar tornò a rivolgersi al conte. «Qual è il vostro titolo o la vostra posizione, qui?» «Titolo? Posizione?». Il conte sorrise, giocherellando con il bastone da passeggio. «Terah Graesin sta svendendo titoli, nel tentativo di inglobare famiglie nella ribellione. Ma quando si tratta di agire concretamente, è contenta di avere il mio aiuto». «State scherzando». «Temo di no. E per questo che siamo ancora qui - da quanto? Tre mesi dal colpo di stato? Ha solo permesso piccole incursioni ai danni delle linee di approvvigionamento e di avamposti scarsamente difesi. Teme che, se subiamo grosse perdite, le famiglie si tireranno indietro e giureranno fedeltà al Re Divino». «Non è così che si vince una guerra». «Nessuno sa come si vince una guerra contro Khalidor. Da decenni nessuno è riuscito a sconfiggere un esercito reso più forte dalla presenza di maghi», osservò il conte Drake. «Alcuni rapporti dicono che i Khalidoriani stanno avendo difficoltà lungo il Freeze. Terah Graesin spera che una buona maggioranza venga rispedita a casa prima che la neve blocchi Screaming Winds». «Credevo che Screaming Winds fosse ancora in mano nostra», replicò Kylar.
«Lo era», disse il conte. «Ho persino ricevuto l'invito dal mio amico Solon Tofusin a comunicare loro quando saremo stati pronti a marciare in guerra. La guarnigione era formata dalle migliori truppe cenariane del regno, veterani, dal primo all'ultimo». «E?», lo sollecitò Kylar. «Sono morti tutti. Si sono uccisi o arresi, lasciando che altri gli tagliassero la gola. Le mie spie dicono che è stata opera della dea Khali. Questo non fa che aumentare la prudenza della duchessa». «Terah Graesin», intervenne Ilena, «porta avanti gran parte della sua campagna in posizione orizzontale». «Ilena!», la richiamò il padre. «È vero. Passo tutti i giorni insieme alle sue cameriere personali». «Ilena». «Scusate». Kylar era sconvolto. Era impossibile. Gli dèi erano superstizione e follia. Ma quale superstizione condurrebbe centinaia di veterani al suicidio? Da quando Kylar era entrato nella tenda, Ilena non gli aveva staccato gli occhi di dosso. Lo guardava come se fosse venuto lì a rubare qualcosa. «Allora, qual è il piano?», chiese Kylar, prendendo l'ootai offertogli dalla ragazza accigliata. Troppo tardi, si rese conto che non avrebbe potuto berlo - le labbra di Durzo erano nel posto sbagliato. «Per quel che ne so», rispose afflitto il conte, «non ce n'è uno. La duchessa ha parlato di una grande offensiva, ma temo che non sappia da che parte cominciare. Sta cercando di assoldare dei sicari; poche settimane fa, c'era qui persino un predatore ymmuri - un tipo inquietante - ma penso che lei stia cercando di imbrogliare le carte, ma senza giocare la partita. Sta mettendo insieme un esercito, ma non sa che cosa farne. È una creatura politica, non un guerriero. Nella sua cerchia non ha nessun militare». «Sembra che sarà la ribellione più breve della storia».
«Smettila di incoraggiarmi». Il conte Drake sorseggiò l'ootai. «Allora, cosa ti ha portato qui? Non il lavoro, spero». «Che lavoro fate?», domandò Ilena. «Ilena, fai silenzio o vai via», le disse il padre. Di fronte all'espressione della ragazza, ferita e stizzita allo stesso tempo, Kylar distolse lo sguardo e tossì per soffocare una risata. Quando alzò di nuovo gli occhi, l'espressione di Ilena era completamente cambiata. Aveva gli occhi radiosi e spalancati. «Sei tu!», gridò. «Kylar!». Gli gettò le braccia al collo, facendogli cadere la tazza dalle mani e distruggendo il camuffamento con l'entusiasmo del suo affetto. Il conte rimase ammutolito. Kylar lo guardò, allarmato. «Ehi, tu, zoticone, abbracciami!», lo incoraggiò Ilena. Kylar rise e la prese fra le braccia. Per gli dèi, era così bello davvero splendido - essere abbracciati. La ragazza lo strinse più forte che poté, mentre Kylar la sollevava da terra. Anche lui finse di stringerla più forte che poteva e la ragazza serrò la presa, finché fu lui a invocare pietà. Risero insieme - si abbracciavano sempre in quel modo - e Kylar la posò a terra. «Oh, Kylar, sei formidabile», riprese Ilena. «Ma come fai? Me lo insegni? Ti prego, vuoi?» «Ilena, lascialo respirare», disse il padre, ma stava sorridendo. «Avrei dovuto riconoscere la voce». «La mia voce! Oh, mer... dannazione!», esclamò Kylar. Alterare la voce gli avrebbe richiesto una grande interpretazione - e sembrava al di là delle sue possibilità - o più magia. Significava dedicare altre ore di lavoro a un singolo camuffamento. Quando avrebbe trovato il tempo per farlo? «Bene», disse il conte, riponendo il suo pince-nez e raccogliendo i cocci della tazza, «credo proprio che avremmo qualcosa da dirci. Ilena, vuoi lasciarci, per favore?» «Oh, padre, non mandatemi via». «Oh, sì», disse Kylar. «Ci vediamo, mocciosa».
«Non voglio andare via». Bastò uno sguardo del padre a toglierle ogni velleità. Batté i piedi per terra e uscì dalla tenda. Appena i due uomini rimasero soli, il conte Drake chiese gentilmente: «Cosa ti è accaduto, figliolo?». Kylar si mordicchiò un'unghia, fissò qualche scheggia della tazza rimasta sul pavimento, guardò ovunque, tranne dentro quegli occhi tolleranti. «Signore, voi pensate che un uomo possa cambiare?» «Assolutamente», rispose il conte. «Assolutamente, ma di solito diventa un po' più se stesso. Perché non mi racconti tutto dall'inizio?». Così fece. Cominciò dalla tenuta dei Jadwin fino al violato giuramento a Elene e Uly, e al dolore crudo e lacerante che gli mordeva lo stomaco. Finalmente, aveva vuotato il sacco. «Avrei potuto fermarla», aggiunse. «Avrei potuto porre fine alla guerra prima che cominciasse. Mi dispiace immensamente. Mags e Serah sarebbero salve se avessi ucciso Durzo prima...». Il conte si stava massaggiando le tempie, il volto rigato di lacrime. «No, figliolo, non dire altro». «Voi cosa avreste fatto, signore?» «Se avessi saputo che pugnalare Durzo alla schiena avrebbe salvato Serah e Magdalyn? L'avrei pugnalato, figliolo. Ma non sarebbe stata la cosa giusta da fare. A meno che tu non sia un re o un generale, l'unica vita che hai il diritto di sacrificare per un bene più grande è la tua. Tu hai fatto la cosa giusta. Adesso parliamo di questa piccola scampagnata dentro le Fauci. Sei sicuro che sia una voce fondata?» «È venuto lo Shinga in persona a dirmelo - ed è morto per questo». «Jarl è morto?», chiese il conte Drake. Fu un duro colpo per lui. «Voi frequentavate Jarl?», volle sapere Kylar. «Gli ho parlato. Stava progettando una rivolta per offrirci la possibilità di dividere le forze di Ursuul. La gente credeva in lui. Lo
amava. Persino i ladri e gli assassini cominciavano a credere che avrebbero avuto una nuova vita». «Signore, dopo che avrò salvato Logan...». «Non dirlo». «Andrò a cercare Mags». Sul volto pallido del conte Drake apparve un'espressione disperata. «Tu pensa a salvare Logan Gyre, e in fretta. A Ulana dispiacerà non averti rivisto, ma è ora che tu vada». Kylar si alzò e ricreò la maschera di Durzo. Il conte Drake lo osservò e il volto riprese un po' di colore. «Sai, conosci dei trucchi che sono... be', formidabili». Risero insieme. «Un'ultima domanda», disse Kylar. «Stavo pensando che sarebbe bene mettere in giro la voce che Logan è vivo prima che ricompaia. Darà alla gente un motivo di speranza e gli permetterà di consolidare il suo potere più facilmente appena tornerà. Devo dire a Terah Graesin che è vivo?» «Un po' tardi, se è per questo», disse una voce all'entrata della tenda. Era Terah Graesin, in un sontuoso abito verde e un mantello bordato di visone. Gli rivolse un pallido sorriso. «Guarda guarda, Durzo Blint. Erano secoli che non vi vedevo».
Capitolo 43 Di solito Garoth convocava le concubine nelle sue stanze, ma a volte gli piaceva coglierle di sorpresa. Magdalyn Drake lo aveva divertito per lungo tempo ma, come sempre, l'interesse del sovrano andava scemando. Quella notte si era svegliato, alcune ore dopo la mezzanotte, con una smania terribile, l'emicrania e un'idea. Sarebbe entrato in silenzio nell'altra stanza, svegliando Magdalyn di soprassalto. Adorava le grida di quella ragazza. L'avrebbe picchiata selvaggiamente accusandola di aver complottato contro di lui. Se avesse implorato pietà giurando che non c'era niente di vero, come avrebbe fatto ogni donna impaurita, l'avrebbe gettata giù dal balcone. Se l'avesse insultato, l'avrebbe scopata alla grande, rispondendo al suo disprezzo con un'eguale dose di brutalità, e le avrebbe concesso un altro giorno di vita. Prima di andarsene, l'avrebbe presa teneramente fra le braccia, sussurrandole che era spiacente, che l'amava. Le donne rispettabili avevano sempre bisogno di trovare in lui qualcosa di buono. Fremette pregustando la scena. Estese il vir attraverso la porta chiusa, sperando di cogliere il suono del respiro regolare durante il sonno. Invece, sentì qualcosa di diverso. Era sveglia. Garoth aprì la porta, ma la ragazza non ci badò. Era seduta nel letto, di fronte alla finestra aperta che dava sul balcone privo di ringhiera. Indossava solo una leggera camicia da notte, ma non sembrava sentire l'aria fredda che entrava nella stanza. Si stava dondolando avanti e indietro. Garoth imprecò ad alta voce, ma lei non reagì. Le toccò la pelle, gelida come l'aria. Doveva essere in quelle condizioni da ore. Altre concubine avevano simulato la pazzia nel tentativo di sottrarsi alle sue attenzioni. Forse era lo stesso per Magdalyn Drake.
Garoth le diede uno schiaffo e la fece cadere dal letto. La ragazza non gridò. La afferrò per i capelli neri e la trascinò fuori sul balcone. Raggiunto il bordo esterno, sollevò in piedi la ragazza, la agguantò per la gola e la spinse indietro finché solo le punte dei suoi piedi rimasero a contatto col balcone. Garoth chiuse le dita intorno alla gola di Magdalyn, facendo attenzione a soffocarla il meno possibile. Se mollava la presa, però, sarebbe precipitata. Finalmente gli occhi della ragazza si animarono. L'ombra della morte tende ad avere questo effetto sulla gente. «Perché?», chiese tristemente Magdalyn. La risposta era talmente ovvia che Garoth non fu certo di aver capito. «Mi piace», rispose. Stranamente - ma la giovane Drake era sempre stata una ragazza strana, e per questo lo intrigava in quel modo - Magdalyn sorrise. Gli si accostò, ma non come una donna in bilico sull'orlo di un precipizio che si aggrappa all'unica speranza di vita. Lo baciò. Se stava recitando, risultò molto convincente. Se la sua mente aveva ceduto, l'aveva fatto in modo davvero singolare. Magdalyn Drake lo baciò, e Garoth avrebbe giurato che era spinta da reale desiderio. La sua eccitazione si fece ancora più intensa quando la ragazza gli si abbarbicò addosso, stringendogli i fianchi fra le lunghe gambe affusolate. Fu tentato di riportarla nella camera, ma era impossibile mantenere il pieno controllo facendo l'amore con una donna che avrebbe potuto tentare di ucciderlo. La bocca di Magdalyn si fece strada fino all'orecchio del Re Divino. «Ho sentito quel che avete detto a Neph», gli disse, soffiandogli nell'orecchio il suo respiro caldo. Di solito Garoth non permetteva alle sue concubine di parlare mentre le scopava, a meno che non gli lanciassero insulti, ma non voleva compromettere quella fragile follia. Magdalyn lo baciò ancora, poi si staccò dalla sua bocca e gettò la testa indietro. Ben ancorata con le gambe, si sciolse dall'abbraccio e inarcò indietro la schiena. Il sovrano la afferrò per i fianchi per impedirle di precipitare. A testa in giù, la ragazza agitò le braccia in aria, ridendo e ammirando il castello e la città sotto di lei.
Garoth sentiva il cuore rimbombargli dentro le orecchie. Non si preoccupò nemmeno che qualcuno potesse vederli. Di qualsiasi sorta fosse quella pazzia, era inebriante. Mags agitò i fianchi e disse qualcosa. «Come?», le chiese. «Lasciatemi», gli disse. Sembrava avere una presa salda delle gambe, così Garoth la lasciò andare, pronto ad afferrarla con il vir se fosse stato necessario. Non aveva intenzione di porre fine alla questione senza prendersi prima il proprio piacere. Non adesso. Magdalyn liberò la camicia da notte rimasta intrappolata fra i loro corpi e se la sfilò di dosso. La lasciò cadere oltre il balcone, ridendo mentre l'indumento leggero volteggiava verso il lastricato di pietra sottostante. Poi si tirò su e baciò di nuovo Garoth, premendo il corpo contro il suo. Gli tolse la tunica e si rannicchiò contro di lui, gemendo al contatto fra le loro pelli, caldo nell'aria fredda della notte. Gli strofinò il viso contro il collo. «Vi ho sentito parlare dell'Angelo della Notte», disse. «Kylar Stern». «Mmm». «Voglio che sappiate una cosa», gli sussurrò nell'orecchio, strappandogli un brivido. Cosa diavolo stava dicendo? «Kylar è mio fratello. Sta venendo qui per me, sapete, lurido porco, e se non vi uccide lui, lo farò io». Gli morse l'arteria carotide con tutte le forze e cercò di far precipitare entrambi oltre il bordo. Il vir si oppose prima di Garoth, esplodendogli nel collo. Proruppe dalle sue membra, scagliandolo all'interno della stanza mentre Magdalyn Drake cadeva nel vuoto. Garoth si rialzò tremante e mandò subito a chiamare Neph. Il Vürdmeister lo trovò sul balcone, con lo sguardo fisso sulla giovane donna accartocciata sul lastricato del cortile.
«Prenditi cura di lei, Neph. Di' a Trudana che esigo il meglio», ordinò Garoth, profondamente scosso. «Era una donna di grande spirito». «Devo...». Il Lodricari fece il suo abituale colpo di tosse fasullo e Garoth lo detestò più che mai. «Devo mandarvi un'altra concubina?», domandò, non guardando volutamente verso l'inconfutabile evidenza dell'eccitazione del re. «Sì», rispose bruscamente Garoth. Maledizione a te, Khali, sì. «Se volete scusarci, conte Drake», disse Terah Graesin. «Ho bisogno dei vostri alloggi». Il conte uscì zoppicando con il suo bastone, mentre diverse guardie si schieravano fuori della tenda. Kylar continuava a prendere tempo: Terah Graesin conosceva Durzo, e quindi anche lui avrebbe dovuto conoscerla, ma non era così. Se la duchessa conosceva Durzo, era per il suo lavoro. Significava che lo aveva assoldato come sicario. «Così», disse la donna, «Logan è vivo. È... magnifico». Terah Graesin aveva una voce profonda e suadente. La trovavano provocante, ma tutto quel che riguardava quella donna veniva considerato tale. Kylar non capiva perché. Oh, era gradevole. Aveva una bocca larga, labbra piene e un personale invidiabile per la maggior parte delle nobildonne, la cui unica fatica durante la giornata era impartire ordini alla servitù. Forse era troppo consapevole del proprio fascino. Si truccava molto - un trucco applicato sul viso con mano esperta, ma comunque abbondante -, e aveva sfoltito le sopracciglia fino a ridurle a due linee sottili. La verità era che si aspettava che Kylar non potesse fare a meno di ammirarla, e questo lo irritava. Un particolare ancora più irritante era che, per guardarla attraverso la maschera di Durzo, doveva tenere gli occhi proprio all'altezza dei suoi floridi seni. Dannazione, perché quei seni erano così allettanti? «Chi vi ha pagato per salvare Logan Gyre?», gli chiese.
«Non vi aspetterete che vi risponda», replicò Kylar. L'unica carta che aveva da giocare era la tendenza di Blint a essere schietto e riservato. Se questa donna l'aveva conosciuto, non se ne sarebbe meravigliata. «Mastro Blint», cominciò. Sembrava che avesse preso una decisione, ma mantenne ancora quel tono consapevolmente provocante. «Voi siete l'unico uomo che io conosca ad aver ucciso due re. Quanto devo pagarvi perché ne uccidiate un altro?»
«Cosai! Volete che uccida il Re Divino?» «No. Semplicemente non salvate Logan Gyre. Vi darò il doppio di quanto vi ha promesso il vostro mandante». «Ma come?», insistette Kylar. «Perché? Avete bisogno di ogni alleato possibile. Logan condurrà migliaia di persone sotto il vostro stendardo». «Il problema è... be', sapete mantenere un segreto, Durzo?». Gli sorrise. «Affidereste i vostri segreti a un assassino?» «Sapevo che l'avreste detto!», esclamò con aria trionfante, ridendo scioccamente. «Lo avete detto anche l'ultima volta, ricordate?» «È stato parecchio tempo fa», rispose Kylar, sentendosi soffocare. «Bene, sono lieta che vi siate ricordato di uccidere mio padre». Kylar la guardò incredulo. «Ditemi, l'avete fatto prima o dopo aver ucciso re Gunder?» «Io sono pagato per uccidere, non per parlare». Per gli dèi! Suo
padre?
«Ed è per questo che mi fido di voi. Sebbene voglia ricordarvi che vi ho già dato del denaro perché non uccidiate me - così non potete riservarmi lo stesso trattamento che avete riservato a mio padre». «Certamente no». Gli ci volle un secondo per inquadrare la situazione. Doveva aver conosciuto Durzo quando il sicario aveva ricevuto un incarico dal padre, il duca Gordin Graesin. Forse Gordin aveva assoldato Durzo perché uccidesse re Davin? Il duca Graesin doveva aver pensato che Regnus Gyre sarebbe salito al trono dopo
la morte di re Davin, rendendo così l'altra figlia di Gordin, Catrinna, regina. La madre di Logan, Catrinna Graesin, era la sorellastra di Terah, sebbene avesse almeno venti anni più di lei. «Allora perché lasciar morire Logan?», le domandò. «Perché non rinuncio facilmente a quel che mi appartiene, Durzo Blint. Come ben sapete». «Non credete che avreste dovuto preoccuparvi di rubare il trono ai Khalidoriani prima di preoccuparvi di eliminare i vostri alleati?» «Non ho bisogno di lezioni da voi. Siete interessato a ricevere denaro per non dover fare nulla, o preferite che diventi vostra nemica? Un giorno sarò regina, e scoprirete che sono un avversario implacabile». «Settemila corone», replicò Kylar. «Come fate a essere certa di potermi pagare? Se i Khalidoriani vi eliminano, non ho intenzione di restare a bocca asciutta». La duchessa sorrise. «Questo è il Durzo Blint che ricordo». Si sfilò dal dito un grosso anello con incastonato un rubino ancor più grosso. «Vi prego, non impegnatelo. Apparteneva a mio padre, e non vale nemmeno la metà degli ottomila che vi consegnerò dopo essere salita al trono. Ci sarà anche un premio extra se mi fornirete una prova della morte di Logan». «Mi sembra ragionevole», commentò Kylar. «Prevedo che alcuni dei miei alleati diventeranno... scomodi in futuro. Avrò altri incarichi da affidarvi. Sempre che non abbiate perso mordente». «Cosa intendete dire?» «Quando non vi siete presentato alla mia chiamata un mese fa, ho dovuto rivolgermi altrove». «Non troverete mai uno come me». Questo, almeno, era tipico di Durzo Blint. Terah Graesin si leccò le labbra e i suoi occhi si riempirono di subitaneo desiderio. Kylar non riconobbe quello sguardo, ma non gli piacque, qualunque cosa denotasse. Terah gli sorrise.
Cosa sta aspettando? Che le faccia una proposta? Il momento
svanì.
«Bene, allora, buona giornata», concluse, con un tono che non lasciò capire a Kylar se la sua ipotesi fosse giusta o sbagliata. Gli si avvicinò e lo baciò sulle guance. Questo pose il viso reale di Kylar proprio all'altezza dei suoi seni, ma fu fortunato. La donna non si sporse a sufficienza, evitando così sia che i seni venissero a contatto con le labbra reali di Kylar, sia che le sue labbra toccassero la guancia fittizia. Il camuffamento si conservò intatto. Appena se ne fu andata, Kylar scappò. Balzò a cavallo e puntò a nord, fuori dall'accampamento, temendo che Terah avrebbe fatto sorvegliare l'uscita ovest. Spostò la maschera in modo che il volto di Durzo fosse sovrapposto al suo e non più in alto, così da poter osservare bene l'espressione delle guardie. Lo lasciarono uscire senza fargli domande; solo quando fu a più di un chilometro di distanza cominciò ad allentare la tensione. Il cuore gli martellava ancora nel petto al pensiero del significato che avrebbe avuto per Logan il colloquio appena conclusosi con Terah Graesin. Anche se avesse tirato fuori l'amico dalle Fauci, la strada da percorrere non sarebbe stata facile. Almeno adesso avrebbe saputo chi erano i suoi nemici. Kylar si addentrò in un tratto alberato, quando udì nella mente una parola sussurrata con calma: Chinati. Una freccia lo centrò in pieno torace. Rotolò giù di sella, ma il cavallo continuò ad avanzare, incurante. Kylar tossì sangue. Aveva commesso così tanti errori. Durzo non l'avrebbe mai perdonato per la sua sconsideratezza. Aveva abbassato la guardia, si era rimesso in cammino sapendo che qualcuno avrebbe potuto inseguirlo, aveva preso il suo cavallo invece di rubarne un altro. Bastava un solo errore per farsi ammazzare, e lui ne aveva fatti tanti. Per gli dèi, sentiva il fuoco nei polmoni.
Ti ho detto di chinarti. Una sagoma vaga emerse da dietro un albero e afferrò le redini del cavallo con una mano, stringendo una spada nell'altra.
Il sicario lasciò cadere le tenebre che lo avvolgevano - non erano nemmeno lontanamente simili a quelle di Durzo, e nemmeno a quelle di Kylar. Era Scarred Wrable. «Ehi, figlio di puttana», disse il sicario. «Durzo Blint? Merda». «Come va, Ben», disse Kylar. Quel figlio di puttana aveva ragione. Aveva mantenuto l'aspetto di Durzo - e se ne avesse mantenuto anche l'altezza, Ben Wrable avrebbe scoccato la freccia appena sopra la spalla di Kylar. Conservare le sembianze di Durzo gli stava richiedendo uno sforzo sempre maggiore, ma Kylar fu dolorosamente consapevole che era importante non cedere proprio adesso. Se Terah avesse pensato di aver eliminato Durzo, Kylar sarebbe potuto tornare. Anche così avrebbe avuto una serie di problemi, ma sempre meno che dover rivelare di essere sia Durzo Blint che Kylar Stern, e per di più immortale. «Merda, Durzo! Non sapevo nemmeno che fossi tu. Quella boriosa di una Graesin ha detto "incarico speciale, facile, ti pago il doppio". Cosa diavolo ci fai a cavallo su questo sentiero, D?» «Ho solo...». Kylar tossì. «Commesso un errore». «Ne basta uno, temo. Merda, amico. Avrei potuto almeno battermi con te». «Ti avrei ucciso», disse Kylar. Fu sommerso da un'improvvisa ondata di panico. E se questa era la sua ultima vita? Non aveva alcuna certezza che sarebbe tornato a vivere. Il Lupo non gli aveva mai fornito spiegazioni. Per gli dèi, era stato completamente pazzo quando si era lasciato uccidere come barone Kirof per denaro. «Probabilmente». Scarred Wrable imprecò di nuovo. Doveva il suo soprannome alle innumerevoli cicatrici che gli segnavano il volto. Era arrivato a Cenaria quando era un bambino, da chissà dove nel Friaku, ed era stato schiavo per anni. Era stato uno dei pochi uomini a guadagnarsi la libertà nei combattimenti clandestini. Kylar pensava che si fosse procurato da solo quelle cicatrici, ma l'uomo parlava senza nessun accento particolare. Qualunque rituale avesse praticato, l'aveva ricavato da dicerie riguardo ai Friaki, e non osservando particolari usanze. «Come faccio a vantarmi della mia
impresa, Durzo? Ti ho appena centrato con una maledetta freccia. Non c'è modo di uccidere il più grande sicario del mondo». «Sembra che questo abbia funzionato». Kylar tossi ancora. «Merda», protestò Ben, disgustato. «Inventati qualcosa», gli suggerì Kylar, spruzzando schizzi di sangue fra i colpi di tosse. Aveva dimenticato che morire fosse così divertente. «Non posso farlo», replicò Wrable. «Disonora i morti. Ti perseguitano, se lo fai». «Sono maledettamente dispiaciuto per te», disse Kylar. Stava scivolando giù dalla sella. Atterrò con un tonfo e sbatté la nuca sul terreno. A ogni modo, il camuffamento continuò a reggere. Ben si accigliò. «Aspetta», disse. Doveva aver trovato una soluzione. Scarred Wrable non aveva mai brillato per ingegno. «Vuoi dire, vuoi dire che ti renderei più onore se la gente sapesse che sei rimasto ucciso in un combattimento eroico?», domandò Wrable. Quell'idea gli piaceva. «Me lo lasceresti dire in giro, senza perseguitarmi? Ti farò fare bella figura, giuro». «Dipende», disse Kylar. La sua visione si stava già appannando. «Hai intenzione di mutilare in qualche modo il mio cadavere?». Sarebbe stata una vera fortuna per lui: svegliarsi senza la testa o altro. Come funzionava? Sarebbe morto davvero se l'avesse decapitato? «Quella megera vuole una prova». «Portale l'anello. Prendi il mio cavallo, i vestiti, tutto quel che ti serve, ma lascia in pace il mio corpo, di' che sei superstizioso o roba del genere... racconta la storia che vuoi. Solo metti il mio corpo...». Non riuscì a concludere il pensiero. Si sentiva la testa pesante. Ebbe la sensazione di avvertire il proprio cuore battere inutilmente mentre il sangue si diffondeva nel suo torace. «D'accordo. Pronto, amico?», gli chiese Ben. Kylar annuì. Ben Wrable gli affondò il pugnale nel cuore.
Capitolo 44 «Ho esaminato la rete»,
disse Sorella Ariel. «È intrappolata in modo davvero interessante. Chi ti ha fatto questo?» «Se ve lo dico, mi lasciate andare?», volle sapere Vi. Non siete
molto astuta, eh, brutta strega!
Stavano tornando indietro verso il sentiero dopo aver compiuto un'ampia deviazione intorno al campo ribelle a Havermere. Vi era certa che Sorella Ariel avrebbe voluto entrare nell'accampamento, ma temeva che Vi ne avrebbe approfittato per scappare. «Perché ci stiamo dirigendo a ovest?», le chiese Vi. «Credevo che la Cappella fosse a nord-est». «Infatti. Ma non ho ancora portato a termine la mia missione», rispose Ariel. «Quale?», s'incuriosì Uly. Era seduta sull'arcione della sella di Vi, ed entrambe erano legate magicamente. Vi fu contenta che la bambina avesse posto quella domanda. Sorella Ariel le rispondeva sempre. Probabilmente aveva qualcosa a che fare con i reiterati tentativi di fuga da parte di Vi, che le avevano lasciate entrambe ammaccate e di cattivo umore. «Devo reclutare qualcuno di speciale, e speravo di trovare una donna che rispondesse ai requisiti nel campo ribelle. Sfortunatamente, mi fido di Vi non più della distanza a cui potrei scagliarla con le mie forze». «Allora, vi fidate parecchio». Vi si accigliò. Non solo Ariel l'aveva lasciata piena di graffi dopo averla fatta atterrare fra i rovi, ma poi l'aveva anche sculacciata. Era penosa un'esistenza passata in sella. «E io allora, non sono qualcuno di speciale?», esclamò Vi. «Avete già detto che ho molto Talento. O quel che sia». Disse le ultime parole con una nota di scherno nella voce, ma era curiosa - e, stranamente, anche offesa per non essere considerata all'altezza.
«Oh, voi siete entrambe molto speciali. Ma nessuna delle due ha i requisiti che sto cercando», concluse Ariel. La strega si divertiva a fare la misteriosa. «Cosa intendete con "entrambe"?». Ariel guardò Vi, sconcertata. Poi scoppiò a ridere. «Uly ha il Talento, Vi». «Cosa?», ribatté Vi incredula. «Oh, è raro trovare donne dotate di Talento, non posso negarlo. Ma se solo una donna su mille ha il Talento, non significa che puoi trovare due donne con il Talento insieme una volta su un milione. Capite?» «No», rispose Uly. Ma valeva anche per Vi. «Le persone dotate di Talento tendono a sentirsi affini fra loro, anche se nessuna delle due sa il perché. Spesso le incontriamo insieme, e per noi è un grosso vantaggio... di solito. Forse sei troppo giovane per accettare questa verità, Ulyssandra, ma l'affinità è probabilmente l'unica ragione per cui un'assassina, altrimenti spietata, non ti avrà sulla sua già sovraccaricata coscienza». «Volete dire che mi avrebbe uccisa? Lo faresti, Vi?», domandò Uly. Vi fu contenta che la ragazzina fosse seduta dietro di lei, almeno non poteva vedere l'espressione colpevole stampata sulla sua faccia. Perché le importava quel che pensava Uly? «Puoi vederla in una luce negativa o in una positiva, Ulyssandra», continuò Sorella Ariel. «Negativa: di norma, ti avrebbe uccisa. Positiva: non l'ha fatto - e ha avuto molte opportunità per cambiare idea da allora, e ancora non l'ha fatto. Potresti persino credere di piacerle». «Ti piaccio, Vi?», le chiese la bambina. «Ti darei un calcio in faccia», fu la risposta di Vi. «Non prendertela a male», tentò di consolarla Sorella Ariel. «Nel modo in cui è cresciuta, Vi è - be', siamo caritatevoli -, definiamola una incapace di provare emozioni. Probabilmente ha serie difficoltà a distinguere fra le proprie emozioni, sentendosi a proprio agio solo con la passione, la rabbia e l'altezzosità, perché la fanno sentire forte.
A dire il vero, scommetterei che l'interazione con te potrebbe essere la prima esperienza positiva di tutta la sua vita». «Basta», intervenne Vi. Ariel la stava facendo a pezzettini, beffandosi di quel che ne rimaneva. «E questo è positivo?», disse Uly. «Non è insensibile al tuo tocco, Uly. Quando cavalchi insieme a lei, è rilassata. Con chiunque altro, sarebbe costantemente sulla difensiva». «Ucciderò questa mocciosa appena ne avrò l'occasione», annunciò Vi. «Smargiassate», commentò Ariel. «Che significa?», volle sapere Uly. «Significa stronzate», rispose Vi per lei. «Quindi tu continua a essere gentile con lei, Uly», proseguì Ariel come se Vi non avesse aperto bocca, «perché probabilmente non piacerà a nessun'altra nella vostra classe di novizie».
«Nostra classe?», sbraitò Vi. «Mi metterete insieme alle ragazzine?». Sorella Ariel parve sorpresa. «Certo. E dovresti essere gentile con Ulyssandra, perché ha molto più Talento di te. E dimentica le tue cattive abitudini». «Voi, strega, strega crudele», imprecò Vi. «So cosa state cercando di fare. Volete spezzarmi, ma vi farò vedere io. Niente può spezzarmi. Me la sono sempre cavata». Sorella Ariel si girò verso il sole che tramontava dietro una macchia d'alberi, disegnando il contorno delle cime frondose. «È qui, mia cara, che ti sbagli. Tu sei già stata spezzata, Vi. Sei stata spezzata anni fa, e sei guarita senza poter più raddrizzare la schiena. E adesso sei stata spezzata ancora una volta, e stai cercando di rialzarti, ma con la schiena sempre più curva. Non permetterò che questo accada. Sarò io a spezzarti ancora, se sarà necessario, perché tu non sia più una storpia. Ma non posso scegliere io di guarire per te. E non ti prometto che non resteranno cicatrici. Ma tu puoi essere una donna migliore di quella che sei adesso».
«Una donna che vi assomiglierà molto?», la schernì Vi. «Oh no. Tu sei molto più passionale di quanto io sia mai stata», rispose Sorella Ariel. «Temo di avere anch'io qualche difficoltà a vivere le mie emozioni. Troppo cervello, dicono. Troppo a mio agio nella razionalità. Non ho mai dovuto espormi. Ma io sono nata così; tu ci sei diventata. E su questo hai ragione: non imparerai da me quel che ti serve». «Siete mai stata innamorata?», volle sapere Uly. Vi si chiese da dove fosse saltata fuori quella domanda, ma doveva essere ben azzeccata perché colpì Sorella Ariel come una badilata in faccia. «Ah. Una... davvero una buona domanda», balbettò Ariel. «Vi ha lasciata per un'altra che non era così brutta e fredda, non è vero?», aggiunse Vi con una smorfia soddisfatta. Per un momento Ariel non disse nulla. «Vedo che non hai rinfoderato gli artigli», replicò tranquillamente. «Non che mi aspettassi qualcosa di diverso». Per punirla, Uly le piantò le unghie fra le costole, ma Vi la ignorò. «Così non avete mai avuto la vostra occasione. Perché stiamo puntando a ovest?» «C'è una sorella che abita da queste parti. Baderà a voi due mentre io andrò in ricognizione nel campo dei ribelli in cerca di una donna qualificata». «Cosa state cercando?», chiese Uly. «Dovremmo cominciare a cercare un posto per accamparci. Sta facendo buio. Sembra che non riusciremo a raggiungere l'abitazione di Carissa, per questa sera», disse Sorella Ariel. «Uh, vi prego», insistette Uly. «Non è ancora buio e non abbiamo altro di cui parlare». Sorella Ariel ci pensò su, poi si strinse nelle spalle. «Sto cercando una donna di grande Talento che sia ambiziosa, carismatica e obbediente». «Ambiziosa e obbediente? Buona fortuna», ironizzò Vi.
«Se fosse disposta a mostrarsi obbediente alla Portavoce, avrebbe un'istruzione privata, una rapida ascesa nei ranghi, un sacco di riguardi e di potere - ma fin qui è tutto facile. Il problema è che deve essere nuova dell'ambiente, perché dobbiamo essere sicure della sua devozione, e deve essere sposata. Una donna con un marito dotato di Talento sarebbe perfetta». «Cosi quando troverete questa donna sposata, la rapirete?», domandò Vi. «Non è un tantino rischioso?» «Un'altra persona l'avrebbe definito immorale, ma... be', una donna che venisse materialmente rapita non vorrebbe cooperare. Idealmente, ci piacerebbe partire dall'uomo, come premessa. Limitarsi a infilare una fede nuziale al dito di una donna non servirebbe a niente. Più duraturo e stabile si presenta il matrimonio, meglio è». «Perché non potrebbe farlo Vi?», chiese Uly. «Tanto non ha voglia di seguire le lezioni insieme a me e alle altre dodicenni». Ariel scosse la testa. «Credimi, avevo pensato a lei in un primo momento, ma è completamente inadeguata per svolgere quella mansione». «Intendete come alunna o come moglie?», disse Vi. «Entrambe. Senza offesa, ma ho conosciuto uomini che hanno sposato la donna sbagliata e sono infelici. Sono sicura che potremmo chiedere a qualche uomo di sposarti, e avremmo pretendenti in quantità. Sei una donna molto bella, e di fronte a una bella donna gli uomini sono propensi a ragionare con...», guardò Uly e si schiarì la gola, «il lato irrazionale. Anche se riuscissimo ad abbindolare il merlo più adatto e, credetemi, la Cappella lo farebbe - non darebbero mai la priorità alla felicità di un uomo rispetto al benessere della Cappella -, anche in quel caso, non funzionerebbe. Vi non è affidabile. Non è obbediente. Né è abbastanza intelligente...». «Siete davvero una strega», ribatté Vi, ma Sorella Ariel la ignorò. «...e inoltre, probabilmente cercherebbe di scappare, rendendosi del tutto inutile e vanificando tutti i nostri sforzi. Quindi, come ho detto, è totalmente inadeguata».
Vi la fissò con odio. Sapeva che l'intera discussione era solo una manovra per deprimerla, per dirle quanto fosse indegna, ma quel commento sulla sua intelligenza l'aveva ferita profondamente. Tutti i complimenti che aveva ricevuto nella sua vita - gli uomini non lesinavano quando si trattava di tirarti su la gonna -, che fossero stati rozzi o poetici, erano sempre ispirati al suo corpo. Ma lei era un tipo brillante, dannazione. Sorella Ariel le restituì lo sguardo. Poi parve guardare più profondamente dentro di lei. «Alt!», esclamò. Vi si fermò. «Cosa c'è?». Sorella Ariel armeggiò goffamente con le redini, finché riuscì ad affiancarsi al cavallo di Vi. Prese il viso della donna fra le mani. «Che figlio di puttana», borbottò Ariel. «Non permettere a nessuno di liberarti da questo sortilegio, capito? Lui è — ehi — guarda qui. Se qualcuno lo sfiora con la magia, reti di fuoco verranno liberate intorno ai principali vasi sanguigni del tuo cervello. E ha tutta l'aria di... ricordi di aver mai perso il controllo del tuo corpo, in un momento qualsiasi?» «Cosa intendete dire, tipo incazzarmi di brutto?» «Sapresti cosa intendo, se ti fosse accaduto. Devo capire se Sorella Drissa Nile tornerà. E l'unica a cui permetterei di metterci le mani». «Chi è?», domandò Uly. «È una guaritrice. La migliore nel trattare le reti sottili che io conosca. L'ultima volta che l'ho sentita, aveva una piccola bottega a Cenaria». «Non avete intenzione di dirmi altro su questa rete che dovrebbe uccidermi?», sbottò Vi. «Non finché non mi dirai chi ne è l'autore». «Allora andate a...». «Se mi insulterai un'altra volta te ne pentirai», l'avvertì Sorella Ariel.
L'ultima punizione era stata piuttosto severa e la soddisfazione di imprecare troppo piccola al confronto, così Vi ingoiò l'ultima parola. Si erano appena addentrate fra gli alberi, quando Vi scorse qualcosa parzialmente nascosto dietro le frasche a lato del sentiero, qualcosa come capelli neri illuminati dagli ultimi raggi del sole. Uly seguì il suo sguardo. «Che cos'è?» «Credo sia un corpo», rispose Vi. Poi, quando uscirono dalla pista per dare un'occhiata più da vicino, sentì il cuore liberarsi di un peso. Era un corpo, in effetti - una morte che per lei voleva dire vita, libertà e una nuova esistenza. Il morto era Kylar.
Capitolo 45 Non Cera un solo punto del corpo che non le dolesse. Elene aveva cavalcato fino allo stremo per sei giorni, e ancora non aveva raggiunto Curva di Torras. Le facevano male le ginocchia, le faceva male la schiena, e le cosce erano un vero supplizio; e con tutto ciò, non aveva guadagnato tempo su Uly e la sua rapitrice. Lo sapeva con certezza perché aveva chiesto a tutti quelli che incrociava lungo la strada se avessero visto una donna e una bambina dirette di gran carriera verso nord. Molti non le avevano viste, ma qualcuno le ricordava. Se mai, Elene era rimasta indietro. E adesso dipendeva tutto da lei. Il giorno prima aveva incontrato le guardie cittadine di ritorno a Caernarvon. Le avevano assicurato che una donna, soprattutto una donna ostacolata dalla presenza di una bambina, non avrebbe cavalcato più velocemente di loro. Avevano rinunciato a inseguirla e stavano rientrando alla base. Un'occhiata ai loro volti fu sufficiente a Elene per capire che non avrebbe mai convinto quegli uomini a proseguire nelle ricerche. Erano esausti, e probabilmente avevano avuto ordini di non importunare i Lae'knaught che a volte si spingevano così a oriente. Elene li lasciò andare. Più delle guardie cittadine, contava Kylar. Anche lui era andato in quella direzione. A un certo punto, doveva aver superato Uly e la donna - perché non sapeva di doverle cercare. Era quasi arrivata a Curva di Torras. Quella notte avrebbe dormito in un letto. Avrebbe fatto un bagno. Poi avrebbe scoperto se la rapitrice si era diretta a Cenaria, come sospettava. E avrebbe consumato un pasto caldo. Elene stava sognando a occhi aperti quando vide i Lae'knaught. Stavano attraversando la strada che tagliava alcuni fra i più estesi campi di frumento a sud di Curva di Torras. Se Elene avesse voluto aggirarli, avrebbe dovuto spingersi per chilometri verso est, rischiando di finire nel Bosco di Ezra, a quanto si diceva infestato da sinistre presenze. Comunque, era troppo tardi. L'avevano vista, e i cavalieri avevano i destrieri sellati, pronti a lanciarsi all'inseguimento.
Elene puntò dritta verso di loro, d'un tratto lucidamente consapevole di essere una donna che viaggiava da sola. Erano sei uomini, tutti armati e, man mano che Elene si avvicinava, si prepararono a fermarla. Sopra le cotte di maglia, portavano tabarri adornati con un sole d'oro: la luce pura della ragione che respingeva le tenebre della superstizione. Non si era mai imbattuta nei Lae'knaught, ma sapeva che Kylar non aveva una buona opinione di loro. Dichiaravano di non credere nella magia, ma allo stesso tempo la detestavano. Kylar diceva che erano solo degli attaccabrighe. Se non gradivano realmente i Khalidoriani, le aveva detto, avrebbero dovuto correre in aiuto di Cenaria quando il Re Divino l'aveva invasa. Invece, avevano aspettato come avvoltoi, reclutando uomini tra i Cenariani in fuga e saccheggiando quel che rimaneva delle terre cenariane. Uno dei cavalieri fece un passo avanti, impugnando cautamente la lancia di frassino lunga più di tre metri e mezzo. Sembrava troppo lunga per usarla stando a terra, ma Elene sapeva che, una volta montati a cavallo, ogni goffaggine dei cavalieri sarebbe svanita. «Alt, in nome dei Portatori della Libertà della Luce», disse. Elene pensò che non doveva avere più di sedici anni. Appena lei si fermò, il ragazzo si fece avanti e afferrò le redini. Non era certa del motivo che li rendesse così nervosi, ma poi realizzò quel che era semplicemente ovvio. Quando vedevano una donna viaggiare sola, vedevano vulnerabilità. Nessuna donna normale avrebbe viaggiato sola, quindi lei non doveva essere una donna normale. Doveva essere una strega. Elene sentì una morsa serrarle lo stomaco. «Grazie al cielo», disse Elene sospirando di sollievo. Stava per dire "grazie a Dio", ma non pensava che i Lae'knaught credessero in qualche divinità. «Potete aiutarmi?» «Cosa c'è? Cosa ci fate da sola per queste strade?», le chiese uno dei cavalieri più anziani. «Avete visto passare una giovane donna, forse con i capelli rossi, insieme a una ragazzina? Forse due giorni fa? No?». Elene si afflosciò sulla sella e lo sguardo addolorato che apparve sul suo viso era autentico: persino demoralizzarsi era doloroso, dopo tutti quei giorni a cavallo. «Immagino che abbia evitato di incontrarvi,
considerato quel che è. Siete certi di non aver visto nessuno, magari che cercava di girare al largo, verso est?» «Di cosa state parlando, giovane signora? Cos'è accaduto? Come possiamo aiutarvi?», domandò il cavaliere. Dal cambiamento di tono della sua voce, Elene capì che non la considerava più una minaccia. Mostrarsi debole e indifesa aveva prodotto l'effetto desiderato. «Vengo da Caernarvon», cominciò Elene. «Siamo originarie di Cenaria, ma siamo partite appena quegli orribili uomini e i loro maghi hanno invaso la città. Ci stavamo creando una nuova vita, Uly e io - Uly è la ragazzina, affidata a me. I suoi genitori furono uccisi dai maghi... Pensavamo che a Caernarvon saremmo state al sicuro, ma lei è stata rapita, signori. Non ho potuto fare altro che seguirla. Le guardie cittadine l'hanno cercata per un po', ma poi sono tornate indietro. Temo che non la raggiungerò mai». «È tipico di quelle maledette Sorelle, rapire una bambina», osservò il cavaliere più giovane. «Quella lettera diceva...». «Marcus!», lo zittì il compagno più anziano. Si scambiarono delle occhiate, ed Elene intuì che le sue mezze verità non solo avevano funzionato, ma che quegli uomini sapevano qualcosa di più. I cavalieri si ritirarono, lasciando il giovane Marcus in attesa, a guardare con imbarazzo le cicatrici della sconosciuta. Appena si rese conto che la stava fissando, tossì imbarazzato, coprendosi la bocca con la mano. I cavalieri tornarono dopo alcuni minuti. Parlò di nuovo il più anziano: «D'abitudine, vi avremmo scortata dall'underlord perché gli raccontate l'accaduto di persona, ma mi rendo conto che il fattore tempo è cruciale. In realtà, saremmo lieti di venire con voi per aiutarvi, ma abbiamo ricevuto l'ordine di restare a sud di Curva di Torras. Questioni politiche. Il caso vuole che stamani sia passato di qui un messaggero. Noi intercettiamo tutta la corrispondenza proveniente dalle maghe della Cappella. Ecco. Ne abbiamo già fatto una copia». Le consegnò la lettera.
Elene - recitavano le parole tracciate con ampi svolazzi - Uly adesso è in salvo. L'ho presa io in custodia dalla donna che l'ha portata via da te, ma temo che non posso rimandarla a casa. Uly è dotata di Talento, ed è in viaggio verso la Cappella, dove riceverà la migliore istruzione al mondo e vantaggi materiali al di là di quelli che tu potresti sperare di offrirle. Capisco che tu non hai motivo di credere che questa lettera provenga da me. Se vuoi, puoi recarti alla Cappella a visitare Uly, o persino portarla a casa, se lo desiderate entrambe. Non appena arriverà sana e salva alla Cappella, ti scriverà. Ti chiedo scusa, e se non fossi così incalzata da altri eventi, avrei consegnato questo messaggio di persona. In fede, Sorella Ariel Wyant Sa'fastae. Dovette leggere la lettera altre due volte prima di comprendere appieno quel che c'era scritto. Qualcuno aveva rapito Uly alla sua rapitrice? Uly era dotata di Talento? Alla fine, la lettera non cambiava la situazione: Elene doveva ancora raggiungere Curva di Torras e scoprire cosa sapevano gli abitanti. Se quel che diceva il messaggio era vero, si sarebbe diretta a nord, verso la Cappella. Altrimenti, avrebbe puntato a ovest, in direzione di Cenaria. Tuttora, la rapitrice non doveva aver saputo che Elene le stava inseguendo. Era troppo distante. «Dannate maghe», riprese il giovane cavaliere. «Sempre lì a rapire ragazzine, per distoglierle dalla Luce e renderle simili a loro». «Marcus!». All'improvviso Elene fu sollevata di aver raccontato la verità a quegli uomini. Se la sua storia non avesse avuto alcun riscontro nella lettera, le cose sarebbero potute andare diversamente. «No, nessun problema», disse. «Devo affrettarmi, se voglio trovare Uly prima che cada nelle loro grinfie». «Siate prudente», le consigliò il cavaliere anziano. «Non tutti gli abitanti del villaggio amano la Luce». «Grazie per il vostro aiuto». Detto questo, Elene ripartì alla volta di Curva di Torras, con la mente in subbuglio.
Capitolo 46 Ogni volta che Ariel vedeva qualcosa
che riteneva affascinante o sconcertante, aveva la singolare capacità di memorizzarlo. Le era stato di grande utilità durante i suoi studi, naturalmente, perché le permetteva di raffigurarsi intere sezioni di pergamene e trovare le informazioni che le servivano. Adesso, la sua fortuna fu che non stava guardando in direzione del cadavere. Era rivolta verso Uly e Vi - e l'espressione di ciascuno dei due visi s'impresse indelebilmente nella sua memoria. Vi era euforica, un'eccitazione che poteva derivare solo dal fatto di aver visto il morto. Ariel si augurò che non fosse così. Sperò che ci fosse dell'altro, che Vi avesse qualche ragione personale per volere la morte di Kylar. Altrimenti, Vi si stava rivelando meno utile di quanto avesse pensato. Per ora, non si curò di quell'espressione. La mise da parte per rifletterci su in un altro momento. Era l'espressione di Uly a destare il suo interesse. Kylar era stato una figura paterna per la bambina. Uly aveva un cuore tenero. Non era cresciuta nei Cunicoli o in altro posto dove era costretta ad avere quotidianamente la morte davanti agli occhi. La vista del padre adottivo morto, spogliato dei propri vestiti, e abbandonato a lato della strada, avrebbe dovuto sconvolgerla. Il suo sguardo avrebbe dovuto esprimere distacco o rifiuto - non curiosità. Non lo aveva ancora riconosciuto? Poi l'espressione di Uly cambiò in qualcosa che Ariel interpretò come esultanza. Esultanza? Non era possibile. Perché la ragazzina avrebbe dovuto essere felice? Ariel interruppe il corso dei propri pensieri appena si rese conto che lei stessa provava delle emozioni di fronte a Kylar morto. Cercò di classificarle il più rapidamente possibile, in modo da poterle archiviare e tornare a concentrarsi sull'esame che stava svolgendo. Delusione, sì. Aveva in mente qualcosa di ingegnoso per Kylar e adesso non avrebbe funzionato. Dolore, un po'. Kylar le era parso il tipo d'uomo che poteva andarle a genio. Curiosità, per capire come un uomo di così grandi capacità si fosse fatto ammazzare. Un po' di
dispiacere, per l'effetto che avrebbe avuto su Uly - va bene, per ora può bastare. Dopo aver definito le sue emozioni, le mise da parte. Uly alzò lo sguardo e vide che Ariel la stava fissando. «Non è morto», disse la piccola. «È solo ferito». «Ragazzina», intervenne Vi. «Ho visto un sacco di gente morta. È morto». «Si riprenderà». Suonò come un rifiuto, e Vi lo prese evidentemente come tale, ma non lo era. Sorella Ariel srotolò la pergamena mentale per esaminare l'espressione sul visetto di Uly e il suo cambiamento. Dalla curiosità all'esultanza. Dalla curiosità all'esultanza. Uly aveva visto che era morto - dal pallore cadaverico, era palese che fosse lì da un po' di tempo, forse un giorno. Ma la bambina non era sorpresa, né preoccupata. Perché? Credeva davvero che si sarebbe ripreso? Sorella Ariel si allungò con il suo Talento a toccare Kylar e un'improvvisa consapevolezza la sommerse - no, si abbatté su di lei come un'ondata gigantesca, lasciandola farfugliante e senza fiato. La sua magia fu risucchiata nel corpo di Kylar, incanalata in mille modi diversi per contribuire alla guarigione che era in atto dentro di lui. La magia da sola l'avrebbe lasciata perplessa. Fu la magia combinata con l'espressione di Uly, che evidentemente aveva già assistito a una scena simile in precedenza, che le chiarì le idee. Kylar era una creatura leggendaria. Una leggenda a cui nessuna Sorella credeva. Finora. «Hai ragione, Uly», disse dolcemente Sorella Ariel, incontrando lo sguardo di Vi come a dirle "reggi il gioco". «Che ne dici se montiamo il campo e tu cominci a preparare la cena, mentre Vi e io ci prendiamo cura delle sue ferite? Io e lei siamo più esperte in fatto di guarigione, e tu farai in modo che la cena sia pronta appena riaprirà gli occhi». Ariel smontò da cavallo e aiutò Uly a scendere. «Non voglio andare. Voglio restare qui», protestò Uly.
«Uly», le disse Vi. «Il modo migliore di renderti utile è preparare la cena. Qui saresti d'intralcio». «Andiamo, piccola», la incoraggiò Ariel. Portò via Uly mentre Vi smontava da cavallo e cominciava a rimuovere le foglie cadute sul corpo di Kylar. Ariel si girò e le disse, muovendo solo le labbra: "Comincia a scavare". Vi annuì. Se avesse avuto tempo per riflettere, Ariel non avrebbe giocato una carta così disperata. Mille fattori erano in gioco e le partita si stava svolgendo troppo in fretta per calcolare le probabilità a sua disposizione. Si addentrò per una ventina di passi nel bosco insieme a Uly, poi la legò e la imbavagliò con la magia, sistemandola dietro un tronco. «Mi spiace, piccola. È per il tuo bene». «Mmm!», mormorò Uly con gli occhi sgranati. Ma non fu che un sussurro soffocato. Ariel girò intorno al tronco appena in tempo per vedere Vi saltare a cavallo e allontanarsi nella foresta. Gridò e le lanciò una sfera di luce che le passò accanto sibilando, ma non la rese incandescente. Non aveva intenzione di dar fuoco alla foresta solo per spaventare la giovane. Per di più, avrebbe potuto colpirla senza volerlo. In pochi istanti, si spense anche il rumore degli zoccoli. Sorella Ariel scosse la testa e non provò nemmeno a correrle dietro. Fin qui aveva giocato a carte scoperte. Il bluff era la fuga di Vi.
Buona fortuna, Vi. Possa tu tornare da noi, pronta a guarire.
Sperò che prima o poi si sarebbe seduta insieme a Vi, nelle sue stanze alla Cappella, dove avrebbero riso di quel che avevano combinato quel giorno; ma sapeva che non sarebbe mai accaduto. Non dopo quel che aveva appena fatto. Le donne passionali tendono a odiare le donne come Sorella Ariel. O almeno non sopportano di venire manipolate con freddezza - ma Ariel aveva forse possibilità di scelta? «E adesso a te», disse. «Mio guerriero immortale. Come funzioni?».
«Non ti ho visto l'ultima volta», disse Kylar al Lupo. «Pensavo di aver chiuso con te». Il Lupo era seduto sul suo trono nell'Anticamera del Mistero, e studiava Kylar con i suoi vividi occhi gialli. I fantasmi indistinti che popolavano la sala indefinita mormorarono qualcosa che Kylar non riuscì a cogliere. Quel posto gli dava ancora sui nervi. Non sentiva il pavimento sotto i piedi. Non vedeva i fantasmi quando guardava nella loro direzione. Non capiva se la sala avesse pareti. Fu scosso da un fremito, ma non avrebbe saputo dire se quel luogo era caldo o freddo. Non fiutava alcun odore; a parte la propria voce, non sentiva nulla. Percepiva rumori, voci, un tramestio di piedi, ma solo attraverso l'intuito. Era incorporeo e in qualche modo aveva portato con sé alcuni dei suoi sensi, ma non tutti, e nessuno di essi era affidabile. Solo pochi elementi erano nitidi: il Lupo, e le due porte. Una era di legno liscio con un chiavistello di ferro, l'altra era d'oro, con la luce che filtrava intorno ai bordi. «Ero troppo furioso per sopportare la tua vista», disse il Lupo. Adesso non sembrava molto più felice. Kylar non trovò niente da dire. Furioso? Perché? «Ad Acaelus ci sono voluti cinquanta anni per totalizzare tre morti. Tu ci sei riuscito in meno di sei mesi. Tu hai preso denaro per una morte. Denaro. Non è sufficiente il prezzo per una simile empietà? Quando imparerai?», lo apostrofò il Lupo. «Ma di cosa stai parlando?». Kylar si accorse che i fantasmi o creature inconsistenti che affollavano la sala si erano ammutoliti. «Mi dai la nausea». «Io non...». Il Lupo alzò un dito pieno di cicatrici da ustione e il peso dell'autorità del piccolo uomo spense ogni velleità di Kylar. «Anche Acaelus prese del denaro, una volta, dopo la morte della sua prima moglie. Credo che fino ad allora non avesse creduto nella propria immortalità. Dopo di che, gli mostrai quanto costava. Questo lo fermò, come dovrebbe fermare te. Se ti ostini a gettare via
vite, te lo farò rimpiangere per tutti i giorni della tua interminabile esistenza». Era come un incubo: un tribunale severo che gli imponeva una regola che lui non comprendeva, dichiarandolo colpevole, le figure che gli incombevano addosso, le porte del giudizio, la minaccia di una verità che non poteva sopportare. Avrebbe voluto scuotersi, pizzicarsi - se avesse avuto un corpo da scuotere o pizzicare. Se non si fosse ricordato di essere stato ucciso. «Non so di cosa stai parlando. Cosa ti aspetti da me?», domandò amaramente Kylar. «Cosa dovrei fare?». Una luce balenò in quei duri occhi dorati e il mondo si schiacciò. Le prospettive cambiarono e Kylar si sentì d'un tratto a disagio. Grasso e scoordinato, era seduto in una piccola sedia. Le sue dita erano piccole e tozze, e il suono di un lamento gli riempiva la testa. Il peso della testa gli sembrava quasi insostenibile. Si dimenò e realizzò che era lui che stava urlando. Era di nuovo in un corpo, ma non era il suo. Era un bimbo. Davanti a lui, l'uomo dai capelli grigi, adesso un gigante, reggeva in mano un cucchiaio pieno di farina d'avena. «APRI LA BOC-CA!», canticchiò il Lupo, spingendo la pappa d'avena verso il viso di Kylar. Kylar chiuse di colpo la bocca. Un altro lampo di luce, ed era tornato nel proprio corpo. L'uomo gli rivolse un sorriso crudele. «Tu non sei altro che un bambino grasso e incapace nella terra dei giganti. Hai chiuso la bocca invece di mangiare. Parli quando dovresti ascoltare. Cosa dovresti fare? Qualsiasi risposta ti dessi, la rifiuteresti. Allora perché dovrei sprecare il mio tempo? Sei arrogante come mai lo è stato il tuo maestro, e non hai un briciolo della sua saggezza. Ti trovo alquanto carente». «Cosa dovrei fare?» «Meglio. Fai meglio». Una parte di Ariel desiderò di poter rallentare qualunque cosa stesse accadendo nel corpo di Kylar. Di fatto, si era quasi ripreso.
Sotto lo sguardo attento della donna, la freccia piantata nel torace tremolò e cominciò a muoversi. Poi vibrò e iniziò a uscire dal corpo, come se fosse spinta dall'interno. Con un udibile "plop" la punta si fece strada nella pelle già sanata intorno all'asta. La freccia cadde di lato e Ariel la afferrò per riporla nella sacca insieme alla lapide dorata; l'avrebbe esaminata in seguito. La pelle sul cuore di Kylar, che era stata lacerata dalla freccia, si stava riformando a una velocità quasi impercettibile a occhio nudo. Nel giro di pochi istanti, la superficie era di nuovo liscia e priva di cicatrici. Sorella Ariel si allungò con la sua magia, ma appena raggiunse il corpo di Kylar ogni energia venne assorbita. Un fremito percorse il giovane e il cuore riprese a battere. Dopo un momento, il torace si sollevò e Kylar fu scosso da un violento colpo di tosse: sputò grumi di sangue parzialmente congelato che gli intasavano i polmoni. Poi la tosse si placò. Sorella Ariel cercò di osservare senza toccare, ma i flussi di magia erano talmente veloci che non riusciva a seguirli. Avvicinando una mano al corpo di Kylar, notò che li l'aria era fredda. L'erba su cui giaceva era smorta e avvizzita. Era come se il suo corpo stesse risucchiando ogni forma possibile di energia, impiegandola nel processo di guarigione. Cosa sarebbe successo se Kylar fosse stato abbandonato in una stanza fredda e buia? Il processo si sarebbe interrotto? Come diamine trasformava tutta quella energia in magia? Come riusciva a farlo, se era ancora privo di sensi? Per gli dèi, lo studio di un simile soggetto avrebbe potuto rivelare alle Sorelle aspetti della vita nell'aldilà. Un argomento che avevano abbandonato tempo prima, in quanto esulava dall'area della sperimentazione. Kylar avrebbe potuto cambiare tutto. Formò una sfera bianca di magia nelle sue mani e la accostò al corpo del giovane, e la vide scomparire come acqua che precipita in un tubo di drenaggio. Incredibile. Questo sì che era un mistero a cui avrebbe dedicato la sua intera vita!
Gli ultimi sprazzi di magia svanirono dalle sue mani e Kylar aprì di colpo gli occhi. Sorella Ariel alzò le mani per tranquillizzarlo. «Non sono qui per farti del male, Kylar. Ti ricordi di me?». Annuì, ma i suoi occhi guizzarono intorno come quelli di un animale in trappola. «Cosa ci fate qui? Cos'è successo? Cosa avete visto?» «Ti ho visto morto. E adesso sei di nuovo vivo. Chi ti ha ucciso?». Kylar parve sgonfiarsi, troppo stanco o troppo sbattuto per prendersi la briga di negare l'evidenza. «Non ha importanza. Un sicario. Niente di personale». «Un sicario come te e Vi?». Kylar si alzò in piedi, simulando una certa rigidità nei movimenti. Ariel sapeva che stava fingendo, perché il suo corpo ormai era in perfette condizioni. «Graakos», recitò sottovoce, creando un'armatura per proteggersi. «Cosa volete, maga?», la apostrofò. Di colpo, i viticci magici che aveva allungato verso di lui scomparvero. Anzi, non scomparvero semplicemente: si lacerarono come fumo trascinato dal vento. Quel giovane era riuscito a disperdere la sua magia, e adesso la fissava con uno scintillio minaccioso negli occhi. Anche la sua armatura magica si sarebbe dissolta con altrettanta facilità? Per la prima volta in decenni, Sorella Ariel era in pericolo a causa di un uomo. «Voglio aiutarti, se la tua è una giusta causa», gli rispose. «Volete dire se io sono disposto a ricambiarvi il favore?». Ariel si strinse nelle spalle, imponendosi di mantenere la calma. «Che estensione hanno i tuoi poteri, ragazzo? Lo sai?» «Perché dovrei dirvelo?» «Perché io so già che sei Kylar. L'assassino che è stato assassinato. Il morto immortale. Qual è il tuo vero nome? Come hai avuto questo potere? Ci sei nato? Cosa vedi quando sei morto?» «Non avrei dovuto dirvi il mio nome, vero? Voi gente troppo educata sarete la mia fine. O almeno la mia rovina».
Dopo aver osservato come operava il processo di guarigione, Ariel sapeva che l'involucro di quest'uomo, il suo corpo, non sarebbe cambiato, non sarebbe invecchiato nemmeno in mille anni. Kylar poteva avere secoli di vita sulle spalle, ma per quanto lo scrutasse, dietro quegli occhi azzurri e freddi vedeva solo un giovane uomo. L'audacia di un giovane, l'invincibilità di un giovane. Di certo aveva dato prova anche della ingenuità di un giovane, per averle già parlato così a lungo. «Quanti anni hai?», gli chiese. «Venti, ventuno», rispose con una scrollata di spalle. «Allora la Società ha torto?» «La Società?», ripeté Kylar.
Accidenti. Come posso essere così scaltra con Vi e così maldestra con questo ragazzo? Ma in fondo sapeva il perché. Non era abituata
a trattare con gli uomini. Aveva passato troppo tempo segregata in compagnia di sole donne. Capiva le donne. Anche se potevano mostrarsi incredibilmente irrazionali, con gli anni aveva imparato a intuire quando l'irrazionalità stava per colpire. Gli uomini erano tutta un'altra faccenda. Sarebbe stato, be', logico, che lei si sentisse più a suo agio in compagnia di uomini, ma non era il suo caso. Eppure, ogni parola detta da Kylar era illuminante. Non aveva mentito riguardo alla sua età. Sembrava sincero - ma chi non conosce la propria età? Forse dipendeva dal fatto che non ricordava da quanto tempo era in questa incarnazione? No, c'era qualcosa di diverso. Nonostante ciò, non avrebbe dovuto menzionare la Società. Adesso avrebbe dovuto dirgli di più. Se si fosse rifiutata, lui avrebbe fatto altrettanto. «"Guarda, la lunga notte finisce e lui è rinato". Quella Società», disse. Kylar si stava stropicciando gli occhi come se non gli funzionassero. Sembrava distrutto, e questo era un bene, perché Ariel non aveva alcuna voglia di spiegargli come mai conosceva la Società. «Credono che uno possa tornare dal regno dei morti e sperano di capire come. Apparentemente, la loro convinzione è giustificata. Per un uomo esiste forse speranza maggiore di riuscire a sconfiggere la morte?» «Ce ne sono parecchie», rispose Kylar con asprezza. «Io sono immortale, non invincibile. E non è sempre una benedizione». Si
sentiva ancora confuso. Sembrava che si pentisse di ogni parola che pronunciava. Non era stupido. Imprudente, forse, ma non stupido. «Allora, Sorella, che progetti avete su di me? Incatenarmi e portarmi alla Cappella?». Appena lo disse, stuzzicò la fantasia di Ariel. Che tentazione! Oh, non avrebbe mai provato a incatenarlo con la magia. Ma aveva qualcosa di meglio della magia. Aveva Uly. Qualche bugia sul fatto che Uly sarebbe morta se non l'avesse portata subito alla Cappella, una rete sottile per provocare un po' di nausea alla piccola, e Kylar l'avrebbe seguita senza discutere. Avrebbe tenuto nascosta l'esistenza di Kylar alle altre sorelle. Ne avrebbe informato soltanto Istariel. E Ariel in persona avrebbe studiato quel giovane. Oh, che sfida interessante! Un puro mistero intellettuale. La profondità della magica complessità! Era inebriante. Ariel avrebbe contribuito a qualcosa di grande. Kylar non avrebbe avuto un'esistenza malvagia. Avrebbero soddisfatto tutte le sue richieste. I cibi più raffinati, le camere migliori, l'addestramento con i maestri di spada, le visite a Uly, qualsiasi genere di intrattenimento potessero offrirgli, e senza dubbio il giovane sarebbe stato curioso di procreare insieme alle Sorelle per vedere quali doni avrebbe mostrato la sua progenie. Per compiacerlo, avrebbero di certo scelto le donne più attraenti. La maggior parte degli uomini considerava quei doveri alquanto piacevoli. Avrebbe avuto tutto quel che desiderava, tranne la libertà. Era immortale! Cos'erano per lui pochi decenni? Una sola vita trascorsa nella bambagia del lusso, con la consapevolezza che adagiarsi nell'opulenza avrebbe cambiato il corso della storia. Il semplice assecondare i propri desideri avrebbe avuto un senso e uno scopo. Cosa sarebbe accaduto se la comunità delle Sorelle - se Ariel stessa - avesse rivelato i suoi segreti? Guarigione totale per qualsiasi lesione, senza cicatrici. Immortalità! Quanta potenza avrebbe acquistato la Cappella, se avessero potuto scegliere a chi donare mille anni di giovinezza? Che effetto avrebbe prodotto sul mondo? Lei, Ariel Wyant, aveva finalmente trovato un rompicapo all'altezza dei suoi Talenti. No, non un rompicapo, un mistero.
Sarebbe passata alla storia come la donna che aveva donato la vita eterna all'umanità. Era grandioso, e - realizzò dopo una pausa un po' troppo lunga - terrificante. Rise fra sé e sé. «Adesso capisco perché con te la Società non è approdata a nulla. Le tentazioni sono troppo forti, eh?». Il giovane non rispose. Pareva aver deciso che qualsiasi cosa avesse aggiunto lo avrebbe reso più vulnerabile. Allo stesso tempo, sembrava sapere che la donna era al corrente di informazioni che gli sarebbero tornate utili. «A Curva di Torras hai detto di essere un soldato cenariano», riprese Ariel. «Ma non mi sembra che tu sia dalla parte dei ribelli. Dal tempo che il tuo corpo è rimasto li nell'erba, direi che non ti sei nemmeno fermato all'accampamento per ricevere ordini. Allora, ecco la mia proposta. Tu mi dici qual è la tua vera occupazione, e io ti aiuterò. Il caso vuole che ti ritrovi da solo nella foresta, con indosso solo la biancheria, al freddo, senza un cavallo, senza denaro e senza armi. Sono sicura che la mancanza di armi non è un problema, ma il resto penso di sì». «Oh, allora adesso siamo amici?», disse Kylar con sarcasmo. «Io vedo così la faccenda: potrei uccidervi per impedire che la Cappella venga a sapere della mia esistenza». «Sei immortale, non invincibile», recitò Ariel con espressione furba. «Se fosse necessario, potrei ucciderti dozzine di volte mentre ti trascino alla Cappella. Nessuno di noi sa se ucciderti con la magia potrebbe sconvolgere quei delicati equilibri che ti riportano in vita, quindi sarebbe rischioso per tutti e due, non trovi? Naturalmente, dopo averti ucciso una volta con la magia, potrei ucciderti poi fisicamente. E, naturalmente, tu potresti uccidere me. Quindi anche per me è un bel dilemma. Nonostante tutti i miei sforzi, potrei ritrovarmi con un sacco di carne senza valore. Tu potresti ritrovarti morto. Una volta per tutte». «Se voi informate la Cappella della mia esistenza, avrò ogni Sorella di questo mondo alle calcagna. Per il resto di una vita molto lunga. Forse per me è meglio correre il rischio una volta sola, con una Sorella sola, che dover trattare con ogni battona fresca di tonaca in cerca di eterna fama».
«Quindi mi uccideresti a sangue freddo?», volle sapere. «Chiamiamola autodifesa preventiva». Ariel si avvicinò a Kylar e guardò attentamente dentro i suoi occhi azzurri. Sì, era un omicida. Sì, era un sicario. Ma era anche un assassino? L'aspetto più triste di tutto quel che aveva appena detto era che aveva ragione. Se voleva la libertà, se teneva alla segretezza quanto il suo o i suoi predecessori, doveva ucciderla. Se la Cappella avesse saputo della sua esistenza, non si sarebbe data pace finché non l'avesse avuto fra le mani. Aveva anche tutti i numeri per eludere le ricerche, ma chi voleva vivere una vita da braccato? Poteva sfuggire loro per cinque o cinquant'anni, ma non per sempre. La Cappella non si sarebbe mai rassegnata. Mai. Kylar sarebbe diventato la maggiore ambizione di ogni ambiziosa Sorella, la prova più grande e la più grande ricompensa immaginabile. Ariel immaginò Istariel che interrogava quest'uomo. Rimase sconvolta prevedendo la piega che avrebbe preso la scena. Istariel avrebbe voluto l'immortalità - non per la Cappella, per sé. Avrebbe perseguito un metodo di sperimentazione volutamente lento. Istariel non sopportava l'idea di invecchiare, di perdere la propria bellezza, le articolazioni rigide e l'odore della vecchiaia. Per Istariel, Kylar avrebbe rappresentato un ostacolo, sfidandola, condannandola a morte per non volerle svelare i suoi segreti. Cosa sarebbe accaduto se gli avesse estorto quei segreti? Che razza di dispensatrici di immortalità sarebbero state le Sorelle? La risposta era demoralizzante. Chi era abbastanza saggia e onesta da sapere a chi concedere una vita eterna? Chi, dopo aver ricevuto un dono simile, non ne avrebbe abusato? «Devi essere un brav'uomo, Kylar», gli disse semplicemente. «Non permettere che il tuo dono ti rovini. Non rivelerò il tuo segreto alla Cappella. Almeno non finché non avrò di nuovo parlato con te. So che non hai motivo di fidarti di me, quindi, coraggio». Tirò fuori un coltello dalla cintura e glielo porse. «Se devi uccidermi, non esitare». Gli voltò le spalle. Non successe nulla.
Dopo un lungo momento, Ariel si girò. «Lascerai che io ti aiuti?», gli domandò. Kylar aveva un'aria stanca. «Logan Gyre è vivo», le annunciò. «Si trova nella fossa più profonda delle Fauci, un posto chiamato il Buco del Culo dell'Inferno». «Pensi che sia ancora vivo?» «Lo era un mese fa. Se è riuscito a superare i primi due mesi, è sopravvissuto al peggio. Credo che non si sia ancora arreso». «E tu vuoi portarlo fuori di lì?» «È un mio amico». Ariel rallentò il respiro per mantenere il controllo. Avrebbe voluto rimproverare aspramente quel ragazzo per la sua idiozia. Come osava mettere a repentaglio il ka'kari per un semplice re? «Sai cosa accadrà se Garoth Ursuul mette le mani sul ka'kari? Cosa accadrà al mondo?», gli chiese Sorella Ariel. Se la Cappella avesse svelato i segreti di Kylar sarebbe stato terribile; se l'avessero fatto i Khalidoriani, apocalittico. «Logan è mio amico». Ariel si morse la lingua, nel vero senso della parola. Se Istariel avesse mai scoperto cosa stava per fare, l'espulsione dalla Cappella sarebbe stata la punizione minore che le avrebbe inflitto. «Bene, allora. D'accordo». Espirò con forza. «Ti aiuterò. Credo di poter fare qualcosa di veramente speciale. Credo. Non chiedere a un'altra Sorella di farlo. Sarà possibile solo perché ho già visto di cosa sei capace. Aspetta, però. Devi portare un messaggio a qualcuno». «Cosa state facendo?», domandò Kylar mentre la donna recuperava un pezzo di pergamena e ci scribacchiava sopra qualcosa, per poi sigillarlo magicamente. «O ti fidi di me o non ti fidi, Kylar. Se non ti fidi, uccidimi. Dal momento che hai deciso di non farlo, potresti anche dimostrare un po' di coerenza e credere in me». Kylar fu travolto da quella valanga di parole, ma Ariel continuò imperterrita. «Posso farti arrivare in città domani sera, forse domani pomeriggio».
«Ci vogliono tre giorni a cavallo...». «Ma devi promettermi due cose. Promettimi che consegnerai prima questa lettera, e promettimi che libererai Logan soltanto dopo. Giuralo». «Cosa c'è scritto in quella lettera?» «È destinata a una guaritrice di nome Drissa Nile, e non parla di te. A seguito degli eventi che metterai in moto, la Cappella dovrà cambiare atteggiamento. La nostra gente ha bisogno di sapere come comportarsi se tu salvi Logan Gyre, capisci?». Naturalmente, non era tutta la verità, ma Ariel non intendeva spiegargli che la lettera si riferiva più che altro al suo piano ingegnoso in merito a Vi, che coinvolgeva Kylar. «Quando arrivi in città, consuma un pasto abbondante e dormi per tutto il tempo che il tuo corpo ne avrà bisogno. Questo ti farà guadagnare un giorno o due». «Un momento, un momento», intervenne Kylar. «Non voglio che Logan marcisca lì dentro più del necessario, ma perché vi preoccupate che io guadagni un giorno o due?». Ah, già. Imprudente, non stupido. «Vi è già in viaggio. Si sta dirigendo a Cenaria». «Quella puttana! Senza dubbio andrà dritta a riferire sul suo colpo andato a segno. Aspettate, come fate a sapere dove è diretta?» «Stava viaggiando con me». «Cosa?!», sbottò Kylar, facendo sussultare Sorella Ariel. «Cerca di capire, Kylar. La ragazza possiede un enorme Talento. La stavo portando alla Cappella. Mi è scappata subito dopo aver trovato il tuo corpo. Crede che tu sia morto». E adesso la parte ingegnosa. «È stato Jarl a dirti che Logan è vivo?» «Sì, perché?» «Lei ha... ha torturato lari prima di ucciderlo?» «No. Non gli ha nemmeno parlato». Ed ecco l'amo - lasciare che la bugia galleggiasse sul pelo dell'acqua come se niente fosse, senza renderla troppo appetitosa:
«Allora non so come facesse a saperlo, ma Vi ha detto qualcosa sul re e su un buco. Credo che lei sappia di Logan». Kylar impallidì. Ci era cascato. Adesso sarebbe andato subito in cerca di Logan, piuttosto che tentare di uccidere Vi. Magnifico! Sorella Ariel era convinta di amare lo studio. Si era sempre sentita a proprio agio nella vita claustrale. Adesso comprese come mai le Sorelle lasciavano la Cappella per operare nel Mondo. Era così che lo chiamavano, il Mondo, perché la Cappella era una realtà a parte. Ariel credeva che non le importasse quel che succedeva nel Mondo, pensava che i libri sarebbero stati sempre più affascinanti della gretta politica di un regno insignificante. Ma in quel preciso momento si sentì talmente viva. Eccola lì, una donna oltre i sessanta, che improvvisava scommettendo sul futuro - e ne era entusiasta! «Ha solo qualche minuto di vantaggio. Posso raggiungerla e ucciderla subito! Datemi il vostro cavallo!». «È già buio, Kylar, non riuscirai mai...». Che stupida! Stava ragionando come una Sorella, non come un assassino. Gli aveva appena offerto una ragione in più per eliminare Vi. «Riesco a vedere nel buio! Datemi il vostro cavallo!». «No! », si oppose Ariel. Riesce a vedere nel buio? In un istante, Kylar fu pervaso da un cambiamento. Prima era un giovane infuriato, con un fervore tale che, nonostante fosse praticamente in mutande all'aria fredda della sera, aveva ancora un aspetto temibile. Dopo, il suo intero corpo divenne iridescente. Lo scintillio trascese lo spettro visibile e sfumò nella magia, insopportabile a occhio nudo. Ariel sbatté le palpebre per rimuovere il velo di lacrime che le appannava la vista, ma Kylar era totalmente cambiato. Al suo posto c'era un fantasma, un demone. Ogni curva e superficie del corpo del giovane era levigata come metallo nero, il volto una maschera d'ira, i muscoli esaltavano la sua potenza. Ariel realizzò che stava guardando l'Angelo della Notte in tutta la sua furia. Stava negando all'avatar della giustizia di infliggere la giusta punizione.
Non c'era simulazione, né voluta falsità nella sua paura. Ariel indietreggiò incespicando e posò una mano sul cavallo - più per sorreggersi che per impedire alla bestia impaurita di scappare. «Date. A me. Il cavallo», la sollecitò Kylar. Così Ariel fece l'unica cosa che poteva fare. Tirò fuori una scheggia di magia e uccise il cavallo. È così sono già due bestie
innocenti che uccido per te, Vi.
Kylar balzò a una distanza disumana all'interno della foresta appena Ariel usò la propria magia. Ma quando il cavallo crollò a terra, la donna abbandonò la magia e alzò le mani. Non l'aveva neanche visto muoversi, ma un istante dopo Kylar era fermo di fronte a lei, con la punta del coltello a pochi centimetri dai suoi occhi. Accidenti! E lei aveva pensato che fosse divertente? Scommettere sul futuro era ben diverso se era il tuo a essere in gioco. «Perché proteggete un'assassina?», le domandò il demone lucente. «Voglio redimere Vi. Non permetterò che tu la uccida finché non avrò tentato». «Non si merita una seconda opportunità». «E chi sei tu per dirlo, immortale? Tu puoi avere tutte le seconde opportunità che vuoi». «Non è la stessa cosa», replicò Kylar. «Ti sto solo chiedendo di salvare prima Logan. Se non accetti il mio aiuto, sarai fortunato se raggiungi Cenaria entro questa settimana». La maschera splendente si dissolse nella pelle del viso, ma Kylar era ancora furioso. «Cosa devo fare?». La donna gli sorrise, sperando che non avesse notato che le tremavano le ginocchia. «Tieniti forte», rispose.
Capitolo 47 Applicando gli ultimi tocchi di kohl
intorno agli
occhi, Kaldrosa Wyn si esaminò allo specchio. Posso farcela. Per
Tomman.
Non avrebbe saputo dire perché, ma quella sera voleva essere perfetta. Forse era solo perché quella sarebbe stata la sua ultima notte. La sua ultima notte da prostituta, o la sua ultima notte e basta. Il costume era di pura fantasia, naturalmente. Una donna sethi non avrebbe mai indossato una cosa del genere prima di entrare in azione, ma per quella sera era perfetto. I pantaloni erano talmente attillati che non era nemmeno riuscita a infilarli, finché Daydra le aveva detto, ridendo, che sotto non doveva indossare la biancheria intima. ("Ma sono trasparenti!", "E il tuo scopo è...?", "Ah"). Per qualche ragione, le lasciavano scoperte non solo le caviglie, ma anche i polpacci - orripilante! - mentre la camicia era altrettanto trasparente e attillata, con una balza di pizzo ai polsi - ridicola! - e una scollatura a V che le arrivava all'ombelico. La presenza di bottoni sulla camicia lasciava presumere che l'indumento potesse chiudersi, ma anche se Kaldrosa avesse tirato l'inconsistente tessuto intorno al busto - ci aveva provato - non c'erano asole di sorta. Momma K si era complimentata con Mastro Piccun per l'ottimo lavoro. Insisteva a dire che un vestito succinto era più provocante della nudità. Quella sera, a Kaldrosa non importava. Se doveva scappare, sarebbe stato più difficile con quei vestiti che con la gonna. Entrò nel foyer e presto fu raggiunta dalle altre ragazze. Quella sera lavoravano tutte tranne Bev, troppo impaurita. Bev si era data malata e sarebbe rimasta nella sua stanza per tutta la notte. Quando vide le altre, Kaldrosa entrò quasi nel panico: avevano tutte un aspetto favoloso. Ognuna di loro aveva dedicato più tempo al trucco, all'acconciatura e agli abiti. Per la lancia di Porus. I Khalidoriani le avrebbero notate. Eccome.
La sua compagna di stanza, Daydra, che l'aveva salvata più di una volta chiamando i picchiatori appena aveva sentito Kaldrosa gridare la parola d'ordine, le sorrise. «O la va o la spacca, eh? », disse Daydra. La ragazza sembrava una donna diversa. Sebbene avesse solo diciassette anni, prima dell'invasione era stata una prostituta molto apprezzata, e quella sera non era la prima volta che Kaldrosa capiva perché avesse avuto tanto successo. La ragazza era splendida. Non le importava di morire. «Sei pronta?», le chiese Kaldrosa, sapendo che era una domanda stupida. Fra pochi minuti i clienti avrebbero potuto accedere al loro piano. «Talmente pronta che l'ho detto a tutte le mie amiche degli altri bordelli». Kaldrosa raggelò. «Ma sei impazzita? Ci farai uccidere tutte!». «Non hai saputo?», disse sommessamente Daydra, con espressione triste. «Saputo cosa?» «I pallidi hanno ucciso Jarl». Restò senza fiato. Se si era aggrappata a qualche esile speranza di un futuro, era stato grazie a Jarl. Jarl e il suo volto raggiante, i suoi discorsi sul mandare via i Khalidoriani e rientrare nella legalità, sul costruire cento ponti sul Plith e abolire tutte le leggi che relegavano i nati nei Cunicoli, i nati in schiavitù, gli ex schiavi e i nuovi poveri nel settore ovest della città. Jarl aveva parlato di un nuovo ordine, ed era risultato credibile. Kaldrosa si era sentita forte come non mai, piena di speranza. E ora Jarl era morto? «Non piangere», le raccomandò Daydra, «o ti rovinerai il trucco. E farai piangere anche noi». «Ne sei sicura?» «Tutta la città ne parla», disse Shel.
«Ho visto la faccia di Momma K. È vero», confermò Daydra. «Così tu pensi davvero che una qualsiasi prostituta farebbe la spia? Dopo che hanno ucciso Jarl?». L'ultima porta sul pianerottolo si aprì e ne uscì Bev nel suo costume da bull dance, le code di cavallo assicurate con filo metallico a formare due corna sottili, il ventre nudo e pantaloncini. Il coltello da danzatrice infilato nella cintura non aveva la solita lama smussata. Bev appariva pallida ma decisa. «Jarl è sempre stato gentile con me. E non intendo ascoltare ancora una volta quella loro dannata preghiera». «Anche con me è stato buono», disse un'altra ragazza, ingoiando le lacrime. «Non cominciate», disse Daydra. «Niente lacrime! Dobbiamo farlo». «Per Jarl», disse una ragazza. «Per Jarl», ripeterono le altre. Il tintinnio di un campanello avvertì le ragazze che i loro ospiti erano in arrivo. «L'ho detto anche ad altre ragazze», disse Shel. «Spero che siate d'accordo. Quanto a me, mi prendo Culo Grasso. Ha ucciso la mia prima compagna di stanza». «Io mi prendo Kherrick», annunciò Jilean. Sotto il trucco, l'occhio destro era ancora giallo e gonfio. «Piccolo Cazzo è mio». «Neddard». «A me non importa chi mi capita», disse Kaldrosa. Serrò le mascelle con tale forza da farsi male. «Ma ne prenderò due. Il primo per Tomman. Il secondo per Jarl». Le altre ragazze la guardarono. «Due?», chiese Daydra. «Come puoi farne fuori due?» «Farò quel che va fatto. Ne prendo due». «Cazzo», esclamò Shel. «Anche io, ma prima mi occuperò di Culo Grasso. Non si sa mai».
«Ci sto», si accodò Jilean. «E adesso, zitte. Siamo in ballo». Il primo uomo a salire le scale fu il capitano Burl Laghar. Il cuore di Kaldrosa perse un colpo. Non lo vedeva da quando si era trasferita al Craven Dragon per evitarlo. Rimase immobile finché l'uomo si piazzò di fronte a lei. «Bene, ditemi se questa non è la mia piccola puttana pirata», disse Burl. Kaldrosa non riusciva a muoversi. In bocca, la lingua era come piombo. Burl notò la sua paura e gonfiò il torace. «Vedi? Sapevo che eri una puttana prima che lo diventassi. Direi che ti è piaciuto la prima volta che ti ho scopato davanti a tuo marito. E ora eccoti qui». Sorrise, ma era evidentemente deluso che nessuno dei suoi leccapiedi fosse lì a ridere con lui. «Allora», disse alla fine. «Contenta di rivedermi?». Inspiegabilmente, la paura svanì. Sparì, semplicemente. Kaldrosa gli sorrise con malizia. «Felice?», disse, afferrandogli i pantaloni. «Oh, non sapete quanto». E lo guidò nella sua stanza. Per Tomman. Per Jarl. Quella notte, uno zoppo con i capelli grigi si arrampicò sul tetto della canonica che era appartenuta per breve tempo a Roth Ursuul, e adesso era infestata da centinaia di Conigli. Si appoggiò sulla sua gruccia alla luce della luna e gridò nella notte: «Vieni, Jarl! Vieni a vedere! Vieni e ascolta!». Mentre i Conigli si radunavano intorno a quel folle, il vento si sollevò dal fiume Plith. Le lacrime scintillavano come stelle nei suoi occhi, mentre il generale iniziava a recitare un ditirambo di odio e di perdita. Intonò una trenodia per Jarl, un canto funebre nella speranza di una vita migliore. Le parole turbinarono nel vento, e non pochi Conigli sentirono che non solo il vento ma anche gli spiriti degli uccisi stavano accorrendo alla voce del generale, che andava assumendo tonalità di vendetta. Lo sventurato generale gridò e agitò la stampella contro il cielo, a simboleggiare l'impotenza e la disperazione di ogni Coniglio. Gridò nello stesso istante in cui il vento calò.
I Cunicoli risposero. Si levò un grido. Il grido di un uomo. Come sprigionato da quel suono, tornò il ruggito del vento. Un fulmine crepitò sul castello che si profilava minacciosamente a nord, e la luce dipinse il generale di nero contro la volta del cielo. Nubi scure coprirono la luna e la pioggia si abbatté sulla terra. I Conigli sentirono il generale ridere, piangere, sfidare i fulmini, agitare la stampella contro il cielo come se stesse dirigendo un coro di voci rabbiose. Quella notte le grida si levarono dal Craven Dragon come mai era successo prima. Donne che si erano rifiutate di urlare per colpa dei loro clienti, adesso lo facevano a pieni polmoni per compensare il loro precedente silenzio. Sotto a quelle grida, i grugniti, i lamenti, i pianti e le suppliche di uomini morenti non furono mai sentiti. Solo al Craven Dragon, morirono quaranta Khalidoriani. Il complotto di Momma K era circoscritto a un solo bordello, dopo di che aveva già pianificato come far uscire di nascosto le ragazze dalla città. Lo scopo era quello di indurre i Khalidoriani a pensarci due volte prima di trattare in modo brutale le ragazze che lavoravano. Ma il piano, alimentato dalla notizia della morte di Jarl, si era allargato come un violento incendio. Il proprietario di un bordello si era inventato una festività come pretesto per servire fiumi di birra scadente e far ubriacare il più possibile i propri clienti. L'aveva chiamata Noeta Hemata. La Notte della Passione, aveva annunciato agli avventori con un largo sorriso. Un altro proprietario di bordello, che aveva lavorato per anni con Jarl, confermò che si trattava di un'antica tradizione cenariana. La Notte dell'Abbandono, la definì. In tutta la città, alimentati da cibi drogati e bevute smodate, i bordelli celebrarono un'orgia senza precedenti. L'aria si riempì di urla e grida e ululati selvaggi. Grida di terrore, grida di vendetta. Grida deliranti e assetate di sangue, e grida di esultanza per i debiti di sangue saldati. Uomini, donne, e persino i potenziali uomini e donne racchiusi nei corpi dei bambini che erano i ratti delle gang, uccisero con una spietatezza troppo spaventosa da comprendere. Uomini, donne e bambini in lutto osservavano i cadaveri insanguinati dei
Khalidoriani e invocavano i fantasmi dei loro cari defunti per mostrare loro il piano di vendetta che avevano ordito, invocavano Jarl perché vedesse quale castigo avevano inflitto ai corpi dei loro nemici. I cani ululavano e i cavalli si imbizzarrivano fiutando il lezzo ferale di sangue, sudore, paura e dolore. Uomini e donne si riversarono nelle strade, in ogni direzione. Nei canali di scolo il sangue corse a fiumi, troppo perché la pioggia battente potesse lavarlo. I soldati arrivarono alle porte dei bordelli e le trovarono adorne di dozzine di piccoli trofei, recisi dai corpi dei singoli stupratori. Ma ogni bordello era pieno solo di cadaveri. Nelle prime ore del mattino, bande di mariti e fidanzati offesi fecero a pezzi i Khalidoriani drogati che erano fuggiti dai bordelli e stavano vagando senza meta, in cerca di un modo per uscire dai Cunicoli. Persino i drappelli armati e tirati a lucido, inviati per investigare, caddero nelle imboscate. Pietre furono scagliate in massa dalle sommità dei tetti, arcieri freddarono i soldati da lontano, e ogni volta che i soldati partivano alla carica i Conigli, che avevano passato mesi a imparare come svanire nel nulla, diedero prova della loro abilità. Era come attaccare dei fantasmi, e ogni vicolo tortuoso era il luogo ideale per tendere un agguato. I Khalidoriani che si addentravano nei Cunicoli non ne uscivano vivi. Quella notte, il Re Divino perse 621 soldati, 74 ufficiali, tre proprietari di bordello che avevano agito da informatori, e due maghi. I Conigli non subirono perdite. Da allora in poi, entrambi i fronti l'avrebbero chiamata la Noeta Hemata, la Notte di Sangue. Logan si svegliò. Non si curò della sua condizione finché non fu certo che fosse reale. Era vivo. Chissà come, era sopravvissuto all'incoscienza e al delirio. Lì dentro. Ricordò frammenti di scene: Gnascer che lo difendeva ringhiando come un cane da guardia, Lilly che gli metteva una pezza bagnata sulla fronte. In mezzo a quei frammenti, come pus in una ferita in suppurazione, c'erano incubi, spettri crudeli della sua vita perduta, di donne morte, e volti mostruosi e gongolanti di Khalidoriani.
Appena si mosse, capì di essere ancora in pericolo. Era debole come un gattino. Aprì gli occhi e tentò faticosamente di tirarsi su a sedere. Intorno al Buco, si levò un mormorio. Sembrava che tutti fossero sorpresi quanto lui. La gente che si era ammalata in quell'inferno non era mai sopravvissuta. Una mano carnosa lo afferrò e lo mise seduto. Era Gnasher, che lo guardò con il suo sorriso ebete. Dopo un momento s'inginocchiò e abbracciò forte Logan, mozzandogli il respiro. «Calma, Gnash», lo riprese Lilly. «Lascialo stare». Logan si stupì vedendo Gnasher obbedire subito alla donna. In genere non dava retta che a lui. Anche Lilly gli sorrise. «Bello riaverti fra noi». «Vedo che ti sei fatta un nuovo amico», disse Logan, provando una punta di gelosia e sentendosi in colpa per questo. «Avresti dovuto vederlo, Re», gli disse abbassando la voce. «È stato formidabile». Gli regalò uno dei suoi sorrisi sdentati e strofinò la testa bitorzoluta di Gnasher. L'idiota chiuse gli occhi, mostrando i denti in un'espressione beata. «Sei stato bravo, eh, Gnash?» «Ss-s-ì», rispose, con un'impennata della voce a metà sillaba. Logan crollò quasi a terra. Era la prima volta che sentiva la voce di Gnasher. «Riesci a parlare?», gli chiese. Gnasher rispose con un sorriso. «Ehi, puttana», chiamò Fin dall'altra parte del Buco. Aveva srotolato gran parte della fune di tendini e stava aggiungendo un altro tratto intrecciato. Logan notò che adesso gli ospiti del Buco erano rimasti in sette. «È ora che torni al lavoro». «Quando sarò pronta», disse Lilly. «Non l'ho mai data a nessuno da quando ti sei ammalato», disse a Logan. «Cos'è questo rumore?», domandò il giovane. Non l'aveva notato prima perché era costante, ma c'era una sorta di rumore di scalpello e un basso mormorio proveniente da qualche altra parte delle Fauci e che riecheggiava nel Buco.
Prima che Lilly potesse rispondere, Logan avvertì qualcosa spostarsi nell'aria. I prigionieri si scambiarono occhiate, ma i volti rimasero privi di espressione. Qualcosa era cambiato, ma nessuno sapeva cosa. Logan si sentiva più debole, più sofferente. L'aria sembrava più pesante di prima, opprimente. Ancora una volta fu consapevole del tanfo e del sudiciume del Buco - lo fiutò per la prima volta dopo mesi. Si sentiva come se avesse preso per la prima volta coscienza della immonda fanghiglia che copriva la superficie della vita. Era coperto di sporcizia e non poteva farci niente. Ogni respiro lo riempiva di tossine, ogni movimento gli spalmava altra sporcizia sul corpo, altra materia viscida e untuosa gli penetrava nei pori. Esistere significava lasciare che quella lordura incombesse su di te, lasciare che l'oscurità ti bucasse la pelle come un tatuaggio indelebile, accettare la sporcizia come parte integrante del tuo essere, in modo che chiunque ti avesse guardato avrebbe visto tutto il male che avevi compiuto, ogni pensiero spregevole che avevi accarezzato. Quasi non era cosciente del rumore che risuonava nelle Fauci. Prigionieri che gridavano, implorando pietà. Le grida si diffondevano e diventavano più stridule e disperate man mano che i prigionieri nelle vicinanze del Buco si univano al coro dei lamenti. Sotto quella cacofonia di gemiti, Logan udì di nuovo quel rumore stridente, come se ruote di acciaio mordessero la roccia. Intorno al Buco, assassini incalliti si erano rannicchiati in posizione fetale coprendosi le orecchie con le mani, rifugiandosi contro la parete. Soltanto Tenser e Fin non sembravano infastiditi. Fin era come in estasi, la fune abbandonata sulle gambe, il mento sollevato. Tenser vide Logan che lo fissava. «Khali è arrivata», disse Tenser. «Che cosa?», chiese Logan. Riusciva a malapena a muoversi. Voleva gettarsi nel Buco e porre fine all'orrore e alla disperazione. «È una dea. Le pietre qui sotto grondano di mille anni di dolore, di odio e di disperazione. Le Fauci sono una miniera di sventura, ed è qui che Khali fisserà la sua dimora, nelle profondità più oscure delle tenebre inesplorate». Poi intonò con voce monotona: «Khali
vas, Khalivos ras en me, Khali mevirtu rapt, recu virtum defite».
Tatts sollevò di peso Tenser. «Che stai dicendo! Smettila!». Lo afferrò per la gola e lo trascinò sull'orlo del baratro. All'istante, nere ragnatele spuntarono lungo le braccia di Tenser e gli occhi di Tatts uscirono dalle orbite. L'uomo stava soffocando. Mosse le labbra e dalla gola gli uscirono piccoli ansiti. Indietreggiò barcollando dal Buco lasciando andare Tenser, e cadde in ginocchio. Aveva il volto paonazzo, le vene che sporgevano dal collo e dalla fronte, e boccheggiava senza una ragione apparente. Poi crollò a terra, respirando affannosamente. Tenser sorrise. «Tu, idiota tatuato, nessuno mette le mani addosso a un principe dell'impero». «Cosa?», chiese a nome di tutti Nick Nove Dita. «Sono un Ursuul, e il mio tempo qui dentro è finito. Khali è arrivata, e temo che avrà bisogno di tutti voi. Questa è la nostra preghiera: Khali vas, Khalivos ras en me, Khali mevirtu rapt, recu virtum defite. "Khali vieni. Khali dimora in me. Khali accetta la mia offerta, la forza di coloro che ti combattono". Una preghiera che oggi è stata ascoltata. Adesso Khali è un'ospite del Buco. Vivrete nella sua sacra presenza. È un grande onore, anche se, devo ammettere, non molto ricercato». Più sopra, Logan sentì il rumore di quelle che potevano essere solo ruote di un carro che raggiungeva il terzo livello delle Fauci. «Perché sei qui?», gli chiese Nick. «Non sono affari tuoi, anche se è opera mia se voi siete ancora tutti qui». Tenser sorrise come se fosse la cosa migliore che gli fosse mai capitata. «Cosa?», ripeté Nick. «Bastardo», disse Lilly. «Sei stato tu a non far entrare la chiave nella toppa. Tu l'hai fatta cadere dalla mia mano. Tu hai chiamato Gorkhy, maledetto! ». «Sì, sì, sì», rispose Tenser ridendo. Allungò una mano e una luce rossa eruppe dal palmo. I prigionieri indietreggiarono, sbattendo occhi che non vedevano la luce da mesi. La luce rossa si librò nell'aria e attraversò le sbarre della grata.
In lontananza, lungo il corridoio, qualcuno lanciò un grido d'allarme vedendo la luce. Alle spalle di Tenser, Fin annodò un cappio alla sua corda. «Non ci pensare nemmeno», gli disse Tenser con un sorriso gongolante. «Inoltre, la presenza di Khali non significherà morte per ognuno di voi. Tu, Fin, potresti fare grandi cose al suo servizio. Il resto di voi farebbe bene a seguire il suo esempio». Si udì un rumore di passi strascicati e un vecchio comparve sopra le sbarre. La grata si aprì e Logan riconobbe Neph Dada. Prima che il Vürdmeister potesse vederlo, Logan si nascose nella sua nicchia. Tenser si levò dolcemente in aria, sollevato dalla magia del Vürdmeister, ridendo per tutto il tragitto. La grata si richiuse di colpo e Logan fece capolino dal nascondiglio. Un fascio di luce rossa lo accecò, bloccandolo sul posto. «Ah», disse Tenser Ursuul. «E non credere che mi sia dimenticato di te, Re. Non vedo l'ora di dire a mio padre che ho trovato Logan Gyre nascosto nelle profondità delle sue segrete. Ne sarà deliziato».
Capitolo 48 Garoth Ursuul non fu felice di vedere il proprio erede. Non era stato lui a convocare Tenser e, nonostante tutte le precauzioni adottate da Neph Dada - portare Tenser nelle stanze private di Garoth e strappare magicamente la lingua a tutti i servitori incrociati lungo il tragitto perché non riferissero quel che avevano visto -, quel castello aveva ancora troppi occhi. Era più che probabile che qualcuno avesse visto arrivare il giovane. Di certo i prigionieri delle Fauci lo avevano visto andare via. A giudizio di Garoth, c'era il cinquanta per cento delle possibilità che Tenser avesse vanificato la propria utilità. A Garoth non piaceva che i suoi eredi si prendessero delle libertà. Nessuno decideva per il Re Divino. Tenser notò lo scontento sul volto del padre e si affrettò a concludere la storia. «Io, io pensavo che Logan fosse un sacrificio perfetto per Khali, per fare sì che il suo nome fosse venerato per sempre, mentre lei si stabilisce nella sua nuova dimora», disse Tenser con voce incerta. «E avevo calcolato che a questo punto il barone Kirof fosse stato catturato...». «L'avevi calcolato, eh?» «Non è così?» «Il barone Kirof è precipitato da un passo montuoso, mentre tentava la fuga», lo informò Neph. «Il suo corpo non è recuperabile». Tenser boccheggiò come un pesce mentre cercava di digerire la notizia. «Il tuo verdetto di colpevolezza dovrà reggere in tribunale», disse Garoth. «Non ha importanza. Questi Cenariani non hanno comunque apprezzato la mia clemenza. Ci servirà da lezione per le future conquiste. La tua utilità, ragazzo, è finita. I Cenariani non sono stati soggiogati. Hai fallito il tuo uurdthan».
«Vostra Santità», disse Tenser crollando in ginocchio. «Vi prego, farò qualsiasi cosa. Usatemi come meglio credete. Vi servirò con tutto il cuore, lo giuro. Farò qualsiasi cosa». «Certo che lo farai», concluse Garoth. In base ai suoi meriti, Tenser non era nulla di speciale. Era sopravvissuto all'addestramento, a malapena. Ma non aveva il temperamento del padre. Non l'avrebbe mai avuto. Non sarebbe mai stato suo erede, ma Tenser non lo sapeva. Cosa ancor più importante, non lo sapeva nemmeno Moburu. «Neph, dov'è la regina vergine?» «Vostra Santità», disse il decrepito Vürdmeister, «vi sta aspettando nella torre nord». «Ah, bene». Non che Garoth l'avesse dimenticato, ma non voleva che Neph capisse quanto lo intrigava quella ragazza. «Posso mandarla a chiamare immediatamente, se desiderate sacrificarla», si offrì Neph. «Quei due sarebbero una gradita offerta a Khali mentre lei sceglie il suo nuovo ras, non è vero?», chiese Garoth. Ma non era disposto a cedere Jenine, e aveva bisogno di Tenser per distrarre Moburu. «Figliolo, ho... ho grandi aspettative su di te», disse Garoth. «La morte del barone Kirof non è stata un tuo errore, quindi desidero offrirti una seconda opportunità. Vai a renderti presentabile come figlio del Re Divino, e poi vai a prendere Logan Gyre. Non me lo lascerò scappare un'altra volta sotto il naso. Presto ti affiderò un nuovo uurdthan». Appena la porta si chiuse alle spalle di Tenser, Garoth si rivolse al Vürdmeister Dada: «Conducilo alle Fauci e fai in modo che crei un ferali oltre a quello di suo fratello. Aiutalo ed elogia il suo lavoro davanti a Moburu. Intervieni personalmente quando è necessario. E adesso fai venire qui Hu Gibbet». «Non sono certa di come funzioni», disse Sorella Ariel. La foresta era ormai completamente buia, a parte la luce della sua magia. «Se
ho capito bene, dovresti assorbire facilmente questa forma di magia. Cerca di prenderne più che puoi». «E dopo?», domandò Kylar. «Dopo corri». «Corro? È la cosa più ridicola che abbia mai sentito». Parli quando dovresti ascoltare, la voce del Lupo gli riecheggiò nella testa. Strinse i denti. «Scusate. Spiegatemi meglio». «Non ti stancherai... credo. Pagherai ugualmente caro tutto ciò che userai della tua magia, ma mai quanto pagherai la magia che prenderai da me», disse Sorella Ariel. «Io sono pronta, e tu?». Kylar si strinse nelle spalle. A dire il vero, si sentiva più che pronto. Gli occhi prudevano come la prima volta che aveva vincolato il ka'kari. Se li stropicciò di nuovo.
Sto diventando più potente. Quel pensiero fu una rivelazione.
Aveva imparato a controllare il suo Talento durante l'addestramento sui tetti, ma questo era diverso. Era diverso, e l'aveva avvertito in precedenza. L'aveva avvertito ogni volta che era morto. Ogni volta che moriva, il suo Talento si espandeva, e qualcosa stava cambiando anche nella sua visione. Il pensiero avrebbe dovuto essere stimolante. Invece, sentì le gelide dita del terrore sfiorargli la schiena nuda.
Deve esserci un prezzo da pagare. Deve esserci. Naturalmente, gli
era già costato Elene. Quella consapevolezza rinnovò il suo dolore. Forse il prezzo da pagare era soltanto umano.
Il Lupo aveva detto che Durzo aveva commesso un'empietà anche peggiore del prendere denaro per morire. Durzo aveva commesso suicidio? Sì. Kylar ne era sicuro. L'aveva fatto solo per curiosità? O per sete di potere? Oppure si era sentito in trappola? Il suicidio era impossibile. Per un uomo così infelice, solo, isolato come era stato Durzo, essere legato alla vita era di certo detestabile. Oh, maestro, mi spiace così tanto. Non avevo capito. E così la ferita non ancora rimarginata lasciata dalla morte di Durzo tornò a lacerarsi. Il tempo aveva fatto
poco per guarire Kylar. Persino sapere di aver liberato Durzo da un'esistenza che non desiderava non era servito a confortarlo. Kylar aveva ucciso una leggenda, aveva assassinato un uomo che gli aveva dato tutto, e lo aveva fatto col cuore pieno di odio. Anche se Durzo l'aveva premeditato come un sacrificio, Kylar non l'aveva ucciso per pietà. Lo aveva ucciso per cruda vendetta. Kylar ricordò il dolce livore della rabbia, dell'odio per ogni prova a cui l'aveva sottoposto Durzo; quel livore lo aveva saziato, lo aveva mantenuto in forze mentre era appeso al soffitto di quel condotto con la mano ferita. Adesso Durzo era realmente morto, liberato dalla prigione del proprio corpo. Ma lasciava un senso di amaro in bocca. La ricompensa di Durzo per sette secoli di solitudine e di servizio per uno scopo che non comprendeva non avrebbe dovuto essere la morte, ma la scoperta del valore di quello scopo. Avrebbe dovuto essere una realtà di riunione e di comunione, commisurata a settecento anni di solitudine. Kylar stava arrivando ora a capire il suo maestro e, adesso che voleva aggiustare le cose, Durzo non c'era più. Era stato ritagliato dall'arazzo della vita di Kylar, lasciando un orribile vuoto che niente poteva riempire. «Io posso mantenere vivo il mio Talento nella giusta misura per un certo tempo, giovanotto», disse Sorella Ariel con la fronte imperlata di sudore. «Oh, d'accordo», disse Kylar. Una pozza di luce concentrata si accese nei palmi di Sorella Ariel. Kylar vi immerse una mano, reclamando l'energia dentro di sé. Non successe nulla. Fece affiorare il ka'kari nella pelle del proprio palmo. Di nuovo non successe nulla. Era stranamente imbarazzante apparire così inetto. «Lascia solo che accada», gli suggerì Sorella Ariel. Lascia solo che accada. Questo lo infastidì. Era una delle tipiche perle di saggezza che tirano fuori gli insegnanti. Il tuo corpo sa cosa fare. Stai pensando troppo. Già. «Potreste guardare da un'altra parte per un secondo?», le chiese.
«Assolutamente no», fu la risposta di Sorella Ariel. Lo aveva già fatto mentre indossava il ka'kari come una seconda pelle. Sapeva che era in grado di farlo. «Non posso mantenerlo vivo ancora per molto», lo avvertì la donna. Kylar concentrò il ka'kari in una sfera nella sua mano e lo nascose nel palmo, tenendolo poi sospeso sopra la pozza di luce magica. Pensò di aver agito abbastanza in fretta e che Ariel non se ne fosse accorta. Andiamo, funziona, ti prego!
Poiché l'hai chiesto con tanta gentilezza... Kylar sbatté le palpebre, interdetto. Poi la luce magica si agitò come una candela nel vento, e il giovane ebbe solo un momento per cedere allo spavento prima che ogni capacità di pensiero fosse annullata. Nel punto in cui la sfera metallica toccava il palmo della mano, Kylar ebbe la sensazione di stringere un fulmine. Inarcò il corpo senza possibilità di controllare la scarica di energia che lo attraversò, paralizzandolo sul posto, ignorando il suo desiderio di staccarsi - via! via! - prima di finire incenerito. Sorella Ariel cominciò a ritrarsi, ma il ka'kari si allungò fra loro, succhiando magia come una lampreda succhia il sangue. Kylar si sentì colmare deliziosamente di magia, di energia, di luce, di vita. Notò le vene nelle sue mani, le venature nelle poche foglie rimaste sui rami degli alberi. Sentì le forme di vita torcersi e strisciare nella foresta. Vide attraverso l'erba, fino alla tana della volpe, oltre la corteccia dell'abete fin dentro il nido del picchio. Sentì la luce delle stelle sfiorargli la pelle. Fiutò l'odore di cento uomini diversi nel campo ribelle, seppe dire cosa avevano mangiato, quanto avevano lavorato, chi era malato e chi in salute. Era talmente sopraffatto dai suoni e dalle sensazioni che percepiva da non riuscire a distinguere gli uni dalle altre. Il vento faceva tintinnare le foglie come cembali, un rombo era il respiro di due - no, tre grossi animali: lo stesso Kylar, Sorella Ariel e un altro. Anche le foglie respiravano. Sentì il pulsare del cuore di un gufo, il fragore tonante di un... ginocchio che colpiva il terreno.
«Basta! Basta!», gridò Sorella Ariel. Era stramazzata a terra, mentre la magia continuava a fluire dalle sue mani. Kylar richiamò con forza il ka'kari e lo ripose dentro il proprio corpo. Sorella Ariel era caduta, ma Kylar quasi non se ne era accorto. Luce - magia - vita - scintillarono, stillarono, esplosero da ogni poro della sua pelle. Era troppo. Era doloroso. A ogni battito del cuore il sangue scorreva impetuoso nelle vene. Il suo corpo era troppo piccolo per contenerlo. «VAAIIII», gli stava dicendo Sorella Ariel. Il suono della voce era ridicolmente rallentato. Aspettò che le labbra della donna si muovessero e che le parole appena sussurrate prorompessero come un tuono. «SAAALVAREEE...». Salvare? Salvare cosa? Perché non glielo diceva e basta? Perché suonava tutto così lento, così interminabile, così maledettamente pesante? Riusciva a malapena a restare fermo. Stava stillando luce. Gli pulsava la testa. Un'altra cavità del suo cuore pompò sangue mentre lui aspettava, aspettava. «IL...». Salvare il re, supplì la sua impazienza. Doveva salvare il re. Doveva salvare il re. Prima che Sorella Ariel riaprisse bocca, Kylar stava già correndo. Correndo? No, correre era un termine troppo banale. Si spostava a una velocità doppia del corridore più veloce. Tripla. Fu gioia pura. Fu un momento assoluto, perché non ci fu altro che quel momento. Schivò, zigzagò fra la vegetazione, guardando dritto davanti a sé fin dove i suoi occhi ardenti riuscivano a vedere. Si muoveva a una velocità tale che l'aria iniziò a contrastarlo. I suoi piedi non avevano l'aderenza necessaria per spingerlo più in fretta. Rischiò di staccarsi da terra. Poi scorse l'accampamento più avanti, proprio in mezzo al suo cammino. Saltò e si staccò realmente dal suolo. Volò per un centinaio di passi. duecento. Dritto in direzione di un albero. Cercò di proteggersi scagliando il ka'kari avanti a sé e trattenne il fiato appena investì il tronco largo un metro. Il legno esplose in ogni
direzione, ma non fermò la sua corsa. Alle sue spalle, sentì l'albero scricchiolare e iniziare a cadere, ma quando si abbatté al suolo Kylar era già lontano. Continuò a correre, allungando il ka'kari avanti a sé per tagliare il vento, estendendolo dietro di sé perché aumentasse l'aderenza dei piedi al terreno e gli facesse acquistare velocità. La notte sbiadì, e stava ancora correndo. Sorse il sole, e stava ancora correndo, divorando avidamente un chilometro dopo l'altro. Sorella Ariel si trascinò a quattro zampe verso l'albero dove aveva legato Ulyssandra. Impiegò molto tempo, ma doveva farlo. Non sapeva, nel caso si fosse addormentata, se avrebbe mai più riaperto gli occhi. Alla fine raggiunse Uly. La bambina era sveglia, gli occhi arrossati dal pianto e le guance rigate di lacrime. Quindi sapeva che Kylar si era ripreso e che Sorella Ariel glielo aveva tenuto nascosto, l'aveva ingannata. Non c'era nulla che Sorella Ariel potesse dirle. E comunque non c'era niente che l'una o l'altra potesse fare. Sorella Ariel aveva liberato Vi e Kylar come una coppia di falconi da caccia. Impossibile richiamarli indietro. Se Uly fosse stata ancora lì al suo risveglio, Ariel l'avrebbe portata alla Cappella. Sarebbe stato un viaggio lungo, e le avrebbe dato il tempo per riflettere su quanto aveva appena sperimentato. Per tutti gli dei, quel ragazzo l'aveva prosciugata e aveva ancora spazio per altra energia. Lei! Una delle donne più potenti della Cappella! Era così giovane, così irriflessivo e terrificante. Ci volle tutta la sua forza di volontà per sciogliere Uly. Toccare la magia, adesso, era come bere liquore durante i postumi di una sbornia. Ma la liberò in un istante, e poi si accasciò a terra.
Capitolo 49 Per qualche motivo,
Logan si era convinto di avere qualcosa di diverso dagli altri. Era stato privato di tutto. Gli avevano preso gli amici, la moglie, le sue speranze, la sua libertà, la sua dignità, la sua innocenza. Ma gli avevano risparmiato la vita. L'avrebbero presa adesso. Il Re Divino non l'avrebbe lasciato laggiù. Logan era già morto una volta ed era stato riportato in vita. Questa volta, Garoth Ursuul voleva vederlo morire con i propri occhi. Prima l'avrebbero di certo torturato, ma a Logan non importava. Se fosse stato più forte, avrebbe azzardato un ultimo piano disperato, ma la febbre l'aveva ridotto a un guscio vuoto. Tutt'al più poteva buttare via la sua esistenza per uccidere Fin. Ci sarebbe riuscito - prima della febbre. Ma non era mai stato disposto a compiere quel sacrificio estremo finché aveva avuto speranza. Aveva sempre voluto difendere la propria vita, e così ora l'avrebbe persa senza ottenere nulla in cambio. Nemmeno per i suoi amici. Logan continuò a riflettere tristemente nel buio di quell'inferno. Fortunatamente, qualunque cosa fosse Khali, si era allontanata, e quel senso di soffocamento che aveva permeato le Fauci si era ridotto a una lieve oppressione. Tutto ciò che gli era parso così insopportabile riguardo al Buco - il puzzo, la calura, le grida - era di nuovo familiare, se non addirittura confortante. Lilly si alzò in piedi e diede un buffetto alla spalla di Logan. Mormorò qualcosa a Gnasher, probabilmente di vegliare su Logan, e se ne andò. Certo che se ne andò. Non la biasimò, anche se lo faceva sentire più vuoto e desolato. Lilly doveva conservare il senso pratico. Il sentimentalismo di tutti i libri che un tempo Logan aveva amato moriva appena arrivavi a un tiro di sputo dal Buco. Lilly era una superstite. Logan sarebbe morto nel giro di un'ora o due. La vita continuava. Il cuore di Logan poteva biasimarla, ma la sua mente no.
In qualsiasi altra circostanza, Logan non si sarebbe perdonato per aver mangiato carne umana. Poi anche Gnasher si alzò e si allontanò.
Puzzo già di morte? Non era leale biasimare Gnasher e non Lilly,
ma Logan lo fece. Di colpo odiò quello stupido uomo deforme. Come poteva lasciarlo? Dopo tutto quel che aveva perso, Logan voleva almeno illudersi di essersi guadagnato un paio di amici. Probabilmente Gnasher non sapeva nemmeno che Logan stava per morire. Era andato semplicemente a giocherellare con l'estremità della corda di Fin - il proprietario era troppo impegnato a fottere Lilly per dargli importanza. Logan guardò Gnash e cercò di vederlo con occhi pietosi. Di certo quel semplicione aveva meno motivi di lui per trovarsi là dentro. Non aveva tradito Logan, aveva solo intravisto l'occasione di giocare con qualcosa. Fin non permetteva a nessuno di toccare la sua corda. Logan sorrise vedendo Gnasher sedersi e afferrare la fune con entrambe le mani, stringendola forte con tutta la concentrazione del mondo, come se temesse che potesse scappargli. Quell'uomo viveva davvero in un'altra dimensione. Logan sentiva gli occhi degli altri prigionieri fissi su di sé. Immaginava anche cosa stessero pensando. Re. Quando era saltato nel Buco si era definito Re, un macabro scherzo - uno scherzo stupido, folle, ma era lo scherzo di un uomo che aveva già visto la propria vita dissanguarsi fino a morire. Non era facile per quegli uomini accettare che fosse la realtà. Tatts si alzò e andò ad accovacciarsi accanto a Logan. Sotto la sporcizia che gli rivestiva la pelle, i tatuaggi neri sembravano vir. Si succhiò le gengive e sputò sangue: lo scorbuto non aveva risparmiato nemmeno lui. «Mi sarebbe piaciuto», cominciò Tatts. Era la terza volta in totale che Logan lo sentiva aprir bocca. «Se tu fossi stato il re. Hai le palle come nessun sovrano che ho conosciuto». «Palle!». Fin concesse una tregua alla propria fregola e scoppiò a ridere puntellandosi sulle mani. Offrì uno spettacolo raccapricciante:
sporco e sudato, la bocca sanguinante, la corda di tendini srotolata in parte e avvolta intorno al corpo nudo. «Qualcun altro avrà presto le sue palle». Logan aveva distolto lo sguardo, ancora imbarazzato nel vedere Lilly fare quel che le serviva per sopravvivere; così, quasi non si accorse della scena successiva. Lilly spinse via Fin, che lanciò un urlo. Logan si girò in tempo per scorgerlo sull'orlo del Buco in precario equilibrio, che agitava convulsamente le braccia. Poi Lilly gli sferrò un calcio all'inguine con tutte le proprie forze, facendolo precipitare nell'abisso. La donna si divincolò dalle spire della corda che si andava velocemente srotolando sotto di lei. Legata a Fin, la fune cominciò a inabissarsi nel Buco. Le braccia di Gnasher scattarono in avanti insieme al corpo, mentre la corda correva fra le sue mani. Poi la fune strattonò il corpo in caduta libera, riprese a srotolarsi, s'inceppò di nuovo, finché cominciò a dipanarsi a grande velocità man mano che la forza di gravità le strappava Fin dalle sue spire. Alla fine, il corpo dell'uomo doveva aver toccato il fondo, perché la corda si allentò. Lilly lanciò un grido di esultanza e abbracciò Gnasher. «Sei stato magnifico! Semplicemente magnifico!». Si rivolse a Logan: «Tu, invece, potevi anche dargli una mano». Logan era allibito. Si era figurato i diversi modi per eliminare Fin per - be', per tutto il tempo che era rimasto in quell'inferno. E adesso era sparito. Sparito, e Logan non aveva mosso un dito. «E adesso ascoltatemi», disse Lilly. «Tutti. Noi siamo fottuti. Lo siamo sempre stati. Abbiamo fatto quel che abbiamo fatto, e nessuno di noi merita fiducia. Ma Re non è come noi. Possiamo fidarci di lui. Ci resta solo una mezza possibilità, e per non giocarcela dobbiamo fare tutti qualcosa». «Cosa ci stai chiedendo?», volle sapere Nick Nove Dita.
«Avevamo una chiave. Adesso abbiamo la corda di Fin. Ma non abbiamo tempo. Dico che dobbiamo calare Re e Gnash dentro il Buco. Re perché possiamo fidarci di lui, e così vede dov'è caduta la chiave, e Gnash perché è l'unico abbastanza forte da arrampicarsi lungo la corda se ne avrà bisogno. Scendono e danno un'occhiata, vedono se c'è una via di fuga là sotto o se trovano la chiave. In un modo o nell'altro, abbiamo una possibilità di andarcene prima che tornino i pallidi». «Perché non andiamo giù tutti quanti?», chiese Nick. «Perché dobbiamo reggere la corda, idiota. Non c'è un posto per legarla». «Potremmo legarla alla grata», insistette Nick. «È ancora legata al corpo di Fin. Dovremmo fare una torre di tre uomini, sollevando anche il peso di quel bastardo - impossibile. Dopo che Re è sceso e ha slegato il corpo di Fin, possiamo farlo. E allora ce ne andiamo tutti. Oppure, se non c'è una via d'uscita là sotto, magari trova la chiave e così prendiamo d'assalto la grata». «Dobbiamo scendere in quel... coso», farfugliò Nick terrorizzato. «Nessuno ha detto che è una buona possibilità», disse Lilly. «Se vuoi restare, morirai di certo». Tatts annuì. Era d'accordo. «Dico solo che dobbiamo calare qualcun altro», aggiunse Nick. «Io ho procurato la corda», disse Lilly. «O si fa a modo mio o non se ne fa niente». «Andiamo, Lill...». «Ti fideresti se teniamo la corda con te appeso, Nick? La lasciamo andare e ci prendiamo la tua parte di cibo». Questo lo mise a tacere. «Ti fidi di noi, Re?», chiese Tatts. «Mi fido». Non ho niente da perdere. Ci volle qualche minuto per spiegare la faccenda a Gnasher, e anche dopo Logan non ebbe la certezza che avesse capito. Gli ospiti del Buco si organizzarono per reggere la corda. Lilly si sistemò in
prima posizione. Disse ai compagni che non avrebbe mollato, nemmeno se l'avessero fatto gli altri. Se volevano ancora godere dei suoi favori sessuali, avrebbero fatto meglio a non mollare. «Ti devo tutto», le disse Logan. Lilly era tutto meno che una bella donna, ma in quel momento il suo viso era raggiante. Per la prima volta, Logan la vide fiera di se stessa. «No, ti devo io qualcosa, Re. Quando sei arrivato qui, ti ho detto di aggrapparti a qualcosa di buono, ma sei stato tu a mostrarmi come fare. Io sono più di questo, non importa quel che ho fatto. Se muoio adesso, non importa. Non sono buona, ma tu sì, e io ti aiuterò. E questo non me lo può togliere nessuno. Promettimi soltanto, Re, che quando butterai tutto dietro le spalle e andrai alle tue feste da sogno, ti ricorderai che sei anche il re di noi criminali». «Non lo dimenticherò». Si avvicinò al bordo del Buco. «Lilly, qual è il tuo vero nome?». La donna esitò come se non lo ricordasse più, poi disse timidamente: «Lilene. Lilene Rauzana». Logan raddrizzò le spalle e pronunciò solennemente: «In virtù dei poteri conferiti alla nostra persona e al nostro regale ufficio, rendiamo noto che Lilene Rauzana è assolta da tutti i crimini precedentemente commessi e che ogni pena è di conseguenza commutata. Ai nostri occhi, Lilene Rauzana è innocente. Le sue colpe siano allontanate come dista l'oriente dall'occidente. Così sia scritto e così sia». Era una dichiarazione ridicola, rivolta a una prostituta da un uomo coperto di stracci. In qualche modo, però, era giusta. Logan non aveva mai avuto tanto potere come in questo momento: il potere di sanare un torto. Gli ospiti del Buco non lo schernirono nemmeno. Lilly aveva gli occhi colmi di lacrime. «Non sai quel che ho fatto», gli disse. «Non mi serve saperlo». «Voglio rimediare. Non voglio essere come sono stata...». «E allora non esserlo. E da questo momento, sei innocente». Detto questo, Logan entrò nel Buco.
Capitolo 50 Venne fuori che Sorella Ariel Wyant Sa'fastae aveva soggiornato a Curva di Torras per alcune settimane e gli abitanti del luogo la conoscevano bene. Sebbene poche persone si sentissero a proprio agio in presenza di una Sorella, la donna li aveva colpiti per la sua erudizione, la sua sbadataggine e la sua gentilezza. La descrizione fu per Elene di grande conforto. Voleva dire che la lettera era in qualche modo autentica. Ma la pose di fronte a un altro dilemma. Doveva dirigersi a nord verso la Cappella, sulle tracce di Uly, oppure a ovest, dove era andato Kylar? Decise che doveva seguire Uly. Cenaria non era un luogo sicuro per lei. Avrebbe ostacolato Kylar nel portare a termine il suo lavoro, e non avrebbe potuto comunque aiutarlo. La Cappella era un posto protetto, anche se la intimidiva, e avrebbe almeno potuto assicurarsi che Uly stesse bene - e magari riportarla a casa. Così, l'indomani proseguì verso nord. Oltre ad aver dato fondo ai pochi spiccioli rimasti, una notte in un letto era servita solo a risvegliare ogni dolore e indolenzimento nel suo corpo; perciò se la prese comoda. Di certo avrebbe raggiunto prima la Cappella, se il cavallo non fosse andato al passo, ma il solo pensiero di spingerlo al piccolo galoppo la fece gemere. La giumenta drizzò le orecchie, come a chiedersi cosa fosse successo a Elene. Fu allora che vide il cavaliere, a una quarantina di passi di distanza. Portava un'armatura nera, ma non aveva l'elmo, né lo scudo o la spada. Era curvo sulla sella di un piccolo cavallo dalla lunga criniera. L'uomo teneva una mano premuta sul fianco, a coprire una ferita, il volto era pallido e macchiato di sangue. Appena Elene costrinse il proprio cavallo a una brusca frenata, lo sconosciuto alzò lo sguardo e la vide. Mosse le labbra, ma non uscì alcun suono. Provò di nuovo. «Aiuto. Vi prego», farfugliò in un rauco sussurro.
Con un colpo di redini, Elene lo raggiunse. Nonostante il viso contratto dalla sofferenza, era un giovane di bell'aspetto, forse di qualche anno più grande di lei. «Acqua», la implorò. Elene afferrò la sua ghirba, poi esitò. Dalla sella del giovane guerriero pendeva un otre pieno. Il pallore del suo viso non era dovuto alla perdita di sangue; era un Khalidoriano. Nei suoi occhi balenò un lampo di trionfo. Elene diede un colpo di talloni ai fianchi della giumenta, ma il giovane le strappò le redini di mano. La cavalla fu costretta a girare in cerchio, seguita subito dal piccolo destriero nero. Elene tentò di balzare di sella, ma una gamba le era rimasta intrappolata fra i due cavalli. Poi ci fu uno scintillio metallico, e il pugno guantato del guerriero si abbatté sopra l'orecchio di Elene. La ragazza stramazzò al suolo. Fu una discesa negli inferi. Logan era ancora troppo debole per calarsi di peso, ma Gnasher sembrava disposto a fare quasi tutto da solo, scorrendo lungo la fune, una mano dopo l'altra. Logan si limitò a guardarsi intorno. I primi sei metri furono solo pareti lisce di vetro fuso nero. Poi il Buco si aprì in una enorme cavità. Alghe verdi iridescenti attaccate alle pareti lontane diffondevano un tenue bagliore, dando l'impressione di essere arrivati in un mondo alieno. Il tanfo di uova marce era più marcato e densi sbuffi di fumo rotolarono nella loro direzione, nascondendo alla vista di Logan migliaia di stalagmiti che si allungavano irregolarmente dal pavimento invisibile della caverna. Gli urlatori erano in silenzio, e Logan pregò che lo mantenessero. Col passare dei mesi, non era più sicuro che quel suono fosse soltanto il vento che ululava fra le rocce. Il respiro di Gnasher si fece più affrettato, ma l'uomo continuò a calarsi lungo la corda, una mano dopo l'altra. Tutto intorno a loro, tranne nell'area direttamente sotto il Buco, le stalattiti scintillavano come lame di ghiaccio, stillando gocce d'acqua sul fondo. Il gemito del vento che si sollevava dalle profondità della caverna smorzava appena il lento, incessante gocciolio.
Scesero per un altro paio di minuti finché Logan vide il primo cadavere, essiccato dalle folate calde e asciutte del vento. Doveva essere un ospite del Buco precipitato, o spinto nel baratro, o saltato dentro in un ultimo gesto disperato decenni o secoli prima. Il corpo era rimasto impalato su una stalagmite, da tempo sufficiente perché il lento lavorio dell'acqua e della roccia lo avesse coperto, inglobandolo in una tomba naturale. Poi videro gli altri. Più volte Gnasher dovette rallentare la discesa per evitare le stalagmiti, e ogni volta scorsero compagni di sventura che non avevano mai avuto una corda. Alcuni corpi erano più antichi del primo, squarciati dalle affilate punte di roccia durante la caduta. Altri erano privi di alcune membra, recise dalle rocce o dal tempo, ma la scivolosità delle stalagmiti aveva impedito ai ratti di arrivare a loro, e il vento secco li aveva preservati dalla decomposizione. Gli unici corpi irriconoscibili erano quei pochi finiti lungo la parete umida tappezzata di alghe: emanavano un bagliore verde, come fantasmi che cercavano di staccarsi dalla superficie rocciosa. Finalmente scorsero delle cenge rocciose, molte troppo lontane perché Logan e Gnash potessero raggiungerle; su una di esse, che sporgeva da una parete, c'era un cadavere in posizione seduta. Le ossa essiccate erano intatte. L'uomo doveva essere sopravvissuto alla caduta, che avesse usato una corda o si fosse salvato per miracolo, per poi morire laggiù. Le orbite oculari vuote sembrarono rivolgere una muta domanda a Logan: "Sapresti fare di meglio?". D'un tratto, la fune di tendini tremò. Logan alzò lo sguardo, ma non vide che tenebre. La visione verso il basso era ostruita da Gnasher. «Sbrighiamoci, Gnash». L'omone mugugnò una protesta. «Lo so, stai andando alla grande. Sei magnifico, ma non so per quanto ancora Lilly riuscirà a tenere la corda. Non vogliamo fare la fine di questa gente, no?». Gnasher accelerò il ritmo.
Superarono un'altra cengia e Logan notò che il pavimento intorno alla base delle stalagmiti era formato da uno strato di terra e non da nuda roccia. Terra? Qui? Non era terra, ma escrementi umani. Generazioni di criminali avevano spinto le loro feci nel Buco. Accumulatesi in mezzo alle guglie appuntite, non tutte si erano essiccate, e l'intera zona puzzava come una fogna a cielo aperto con l'aggiunta del tanfo di uova marce. Logan si girò mentre superavano un altro costone di roccia e vide scintillare qualcosa. Guardò meglio, ma non vide niente. «Fermati un istante, Gnasher». Logan infilò la mano nello strato di escrementi spesso una quindicina di centimetri e frugò a tastoni. Niente. Vi affondò il braccio fino al gomito, ignorando la viscida fanghiglia che gli scivolava sulla pelle. Ecco. Tirò fuori qualcosa e lo ripulì contro l'altro braccio. Era la chiave. «Incredibile», disse. «Un miracolo. Sembra che non dovremo morire qui, Gnasher. Adesso raggiungiamo il fondo e sleghiamo il corpo di Fin, e poi ci arrampichiamo di nuovo. Magari ci tireranno su gli altri». Dovevano essere ormai vicini al fondo, o almeno a un'altra cengia. Da uno sfiatatoio naturale nelle vicinanze, si levò un'ondata di fumo acre che nascose la superficie sottostante e neutralizzò la luminescenza delle alghe, così Logan non riuscì più a capire dove si trovassero con precisione. Come se avesse senso porsi un problema del genere all'inferno. Gnasher si fermò e grugnì qualcosa. Si allontanò dalla corda, distendendo le dita doloranti. Logan posò di nuovo i piedi su una superficie semisolida - qui lo strato di escrementi era profondo solo pochi centimetri - con un sospiro. Non aveva certo sostenuto il peso che aveva gravato Gnasher, ma si sentiva comunque esausto. Poi scorse la fune. Era abbandonata sulla roccia. «Gnasher», chiamò Logan, con un brutto presentimento. «Da quanto tempo la corda non è più in tensione?».
Gnasher lo fissò sbattendo le palpebre. Per lui era una domanda priva di significato. «Gnash, Fin è vivo! Potrebbe essere... AH!». Qualcosa di appuntito pugnalò Logan alle spalle, facendolo cadere a terra. Più che avventarsi su di lui, Fin gli crollò addosso. Dal modo in cui si muoveva, sembrava che si fosse lussato un'anca, e sanguinava dalla testa, dalla bocca, da entrambe le spalle e da una gamba. Nella mano destra, stringeva la punta spezzata e insanguinata di una stalagmite. Appena piombò su Logan, cominciò a menare colpi. Era ferito e penosamente fiacco, ma Logan era ancora più debole. La punta di roccia gli affondò nel torace, gli squarciò l'avambraccio mentre tentava di parare il colpo, gli incise la fronte oltre l'orecchio. Logan tentò di far cadere Fin giù dalla cengia, ma non ne ebbe la forza. Si udì un ruggito feroce, più sonoro del rombo di un'improvvisa eruzione di gas dallo sfiatatoio naturale. Vapore caldo e gocce untuose di acqua bollente volarono sopra di loro un istante prima che Gnasher colpisse. Staccò Fin da Logan e gli morse il naso; quando sollevò la testa, stringeva un moncone sanguinolento fra i denti appuntiti. Fin gorgogliò un urlo. Prima che potesse urlare di nuovo, Gnasher gli afferrò la gamba lussata e lo trascinò lontano da Logan. Il ferito lanciò un altro grido, più forte, più stridente. Annaspò nell'aria, tentando di afferrarsi a qualsiasi appiglio pur di sottrarsi alla furia di Gnasher. Quando il corpo di Fin s'incagliò fra due stalagmiti, Gnasher non se ne accorse e non ci badò. Aveva deciso di allontanare Fin da Logan, ed era quello che stava facendo. Logan vide le spalle dell'uomo deforme incurvarsi, i muscoli tendersi in grovigli di forza. Gnasher si puntellò sui piedi e ruggì, soffocando le urla di Fin. Ci fu un suono lacerante, mentre l'arto lussato cedeva. Barcollando indietro, Gnasher strappò la gamba di Fin e la lanciò in aria.
Fra gli ultimi rantoli di morte, con il volto bianco come uno spettro, Fin puntò gli occhi pieni di odio su Logan, mentre il sangue usciva a fiotti dall'anca squarciata. «Ci vediamo... all'inferno, Re», disse. «Il mio soggiorno qui è finito», replicò Logan mostrandogli la chiave. «Me ne vado». Gli occhi di Fin balenarono di odio e di incredulità, ma non ebbe la forza di ribattere. L'odio abbandonò lentamente i suoi occhi sgranati. Era morto. «Gnash, sei incredibile. Grazie». L'idiota gli sorrise. Con quei denti appuntiti e insanguinati gli offrì uno spettacolo inquietante, ma le sue intenzioni erano buone. Logan fu scosso da un tremito. Aveva perso molto sangue. Non sapeva se ce l'avrebbe fatta, anche se non avessero incontrato problemi nel riemergere dal Buco e fuggire dalle Fauci. Ma non c'era motivo perché morisse Gnasher, o Lilly. E Gnash non si sarebbe arrampicato su quella fune senza di lui; di questo ne era certo. «Bene, Gnash, tu sei forte. Lo sei abbastanza per uscire di qui?». Gnash annuì e fletté le dita. Gli piaceva essere definito forte. «Allora usciamo da questo inferno», disse Logan, ma appena afferrò la corda, sentì che era lenta. Un istante dopo, l'intera fune si ammucchiò a terra intorno a loro. Non sarebbero usciti. Non avrebbero usato quella preziosa chiave. Non c'era via di fuga. Gli ospiti del Buco avevano mollato. «Dove diavolo sono?», sbraitò Tenser Ursuul. I prigionieri lo riconobbero a stento nella sua tunica elegante, sbarbato e con i capelli puliti. «Dove pensi che siano? Sono scappati», rispose Lilly. «Scappati? Impossibile!». «Dico sul serio», insistette Lilly. Tenser arrossì, imbarazzato dalla presenza di Neph Dada e delle guardie di scorta.
Una luce magica s'irradiò nel Buco, illuminando tutti i presenti. «Logan e Fin si detestavano. Cos'è successo?» «Re voleva...», cominciò Lilly, ma qualcosa si abbatté sul suo viso e la mandò a gambe all'aria. «Sta' zitta, puttana», disse Tenser. «Non mi fido di te. Tu, Tatts, cos'è successo?» «Logan voleva costruire un'altra piramide. Voleva attirare qui Gorkhy e vedere se riuscivamo ad agguantarlo per le gambe e rubargli la chiave. Fin non era d'accordo. Hanno lottato. Fin ha buttato Logan nel Buco, ma poi Gnasher gli è saltato addosso e ci sono caduti dentro anche loro». Tenser imprecò. «Perché non li hai fermati?» «Per caderci dentro io?», si difese Tatts. «Chiunque si azzuffa con Fin o Logan o Gnasher ci lascia le penne, amico... Vostra Altezza. Sei stato qui abbastanza a lungo per saperlo». «Potrebbero essere sopravvissuti alla caduta?», chiese Neph Dada con la sua voce gelida. Uno degli ultimi arrivati piagnucolò e tutti si girarono verso di lui. «No», gridò. «Vi prego!». Una sfera risplendente di luce magica aderì al suo torace e un'altra alla schiena sollevandolo sopra il Buco. L'uomo precipitò. Tutti si affollarono intorno al baratro, osservando la luce scomparire nell'oscurità. «Cinque... sei... sette», contò Neph. La luce si spense prima di arrivare a otto. Il vecchio guardò Tenser. «Non credo. Be', non posso dire che vostro padre ne sarà contento». Tenser borbottò un'altra imprecazione. «Prendeteli, Uccideteli. Fate quel che volete, purché li facciate soffrire».
Neph.
Capitolo 51 Hu Gibbet si accovacciò sul tetto di un magazzino fra i Cunicoli. In tempi migliori, il locale era stato usato per conservare tessuti. In seguito, era passato nelle mani dei contrabbandieri. Adesso, era un rudere fatiscente che ospitava ratti della gang dell'Uomo di Fuoco. Niente di tutto questo importava a Hu, tranne il fastidio di dover uccidere il ragazzino di dieci anni che era di guardia. O forse era una ragazzina. Difficile dirlo. L'unica cosa che importava a Hu era una lastra di pietra sul pavimento vicino a una parete crollata. Sembrava pesare più di quattrocento chili ed era rovinata dal tempo come tutte le altre, ma si sollevava ruotando su cardini di cui nemmeno i ratti della gang erano a conoscenza. Era la seconda uscita di uno dei più grandi rifugi della città. In quel preciso momento, stando alle fonti di Hu, il rifugio ospitava circa trecento puttane, con cibo e acqua sufficienti per un mese, e due veri gioielli: Momma K e il suo vice, Agon Brant. Hu non si aspettava di trovarli lì, no davvero. Ma poteva sempre sperarlo. Era sempre in difficoltà con i grossi incarichi. I grossi incarichi richiedevano un saldo equilibrio. Il piacere di spargere tanto sangue minava la sua professionalità. Era così facile abbandonarsi alla gioia pura - guardare il sangue spargersi o stillare o zampillare, sangue in tutte le sue deliziose sfumature: il rosso intenso del sangue dei polmoni, il nero del fegato, e ogni tonalità intermedia. Voleva prosciugare ogni corpo per riuscire gradito a Nysos, ma di solito i grossi incarichi non gli lasciavano il tempo per farlo. Gli sembrava di lasciare le cose a metà. Per di più, lo lasciavano sempre depresso. Dopo aver ucciso e dissanguato trenta o trentadue persone presso la tenuta dei Gyre, non era stato più lo stesso per settimane. Persino tutti gli assassinii compiuti durante il colpo di stato non erano bastati a soddisfarlo. Una vera delusione. La parte migliore era stata alla tenuta dei Gyre.
Si trovava ancora lì quando il duca era rientrato a casa. Aveva visto Regnus Gyre correre di stanza in stanza, pazzo di dolore, scivolando sulle pozze dedicate a Nysos che Hu aveva lasciato in ogni corridoio. Aveva trovato la scena talmente eccitante che avrebbe anche fatto a meno di uccidere il duca, ma sapeva che il Re Divino non avrebbe gradito. Aveva completato il lavoro la notte successiva, naturalmente, ma non gli aveva dato la stessa emozione. Nemmeno lontanamente. Questo incarico non si prospettava troppo difficile. Solo qualche momento di tensione all'inizio. Primo, doveva entrare nel magazzino. Avrebbe ucciso quei ragazzini, se era necessario, ma i ratti delle gang ti sfuggivano facilmente di mano. Conoscevano ogni buco dei Cunicoli, e anche se era grande quanto una noce, riuscivano a ficcarsi dentro lasciando ancora spazio da vendere. Sarebbe stato meglio impedire loro di avvertire chicchessia. Una volta entrato, avrebbe trovato una guardia o due all'uscita sul retro. Un'uscita che non era mai stata usata, e l'unico modo per ammazzare il tempo era fissare un muro fino alla noia. Quindi le guardie potevano essersi già addormentate. Poi Hu avrebbe dovuto uccidere le guardie all'uscita sul davanti senza destare l'allarme. Quindi avrebbe dovuto bloccare o distruggere la stessa uscita. Dopo di che, non importava se le puttane si fossero accorte della sua presenza. Lui sapeva come trattarle. E poi... be', il Re Divino gli aveva concesso ventiquattro ore per fare tutto quel che voleva. «Hu», gli aveva detto il sovrano, «fa' che sia un cataclisma». Il Re Divino aveva progettato di aprire il rifugio subito dopo e di farci sfilare dentro ogni nobile della città. Quando i corpi avessero iniziato a frollare, ci avrebbe spedito anche il resto della città. Gli abitanti dei Cunicoli sarebbero stati gli ultimi. Poi il Re Divino avrebbe tenuto una cerimonia pubblica. Persone scelte a caso fra i Conigli, gli artigiani e la nobiltà sarebbero state mandate dentro il luogo del massacro. E i maghi del Re Divino avrebbero sigillato le uscite.
Garoth Ursuul prevedeva che sarebbe stato un valido deterrente per ribellioni future. Ma Hu si sentiva a disagio. Era un professionista. Era il miglior sicario della città, il migliore del mondo, il migliore mai esistito. Ci teneva molto alla sua posizione, e c'era un'unica cosa a insidiarla: se stesso. Nella tenuta dei Gyre si era esposto a rischi inutili. Rischi idioti. Tutto si era risolto, ma rimaneva il fatto che aveva perso il controllo. Era stato per via di tutto quel sangue. Tutta quell'eccitazione. Come un dio, si era abbandonato a un rito orgiastico di morte. Durante le ore in cui aveva massacrato i Gyre e la loro servitù si era sentito invulnerabile. Aveva speso del tempo a mettere i cadaveri in bella mostra. Ne aveva appesi alcuni per i piedi dopo aver tagliato le gole, perché il sangue formasse quell'inebriante lago di sangue nell'ultimo corridoio. Il suo compito era uccidere, e si era spinto pericolosamente oltre. Durzo era stato un assassino. Aveva falciato vite con la distaccata precisione di un sarto. Durzo Blint non si sarebbe mai esposto a rischi. Per questo alcuni l'avevano considerato all'altezza di Hu. Non lo sopportava. Hu era temuto, ma Blint era rispettato. E il dubbio che quel giudizio fosse meritato continuava a tormentarlo. Per questo trecento persone sarebbero state la sua rovina. La bestia in agguato dentro di lui sarebbe balzata fuori. Trecento erano troppe. No. Lui era Hu Gibbet. Niente era troppo per Hu Gibbet. Era il sicario migliore del mondo. Da un punto di vista tattico, questo lavoro sarebbe stato per lui una sfida insignificante rispetto a incarichi precedenti, ma quando la gente avrebbe mormorato il suo nome, l'avrebbero associato a quella sera. Sarebbe stato il suo lascito. L'avrebbero ricordato in tutto il mondo. I ratti della gang dormivano, stretti insieme a gruppi per difendersi dal freddo. Hu stava per lasciarsi cadere attraverso il buco nel tetto, quando notò qualcosa. Sulle prime, pensò che fosse frutto dell'immaginazione, iniziò come una folata di vento, una nuvola di polvere illuminata dalla
luna. Ma la polvere non si posava, e quella sera non c'era vento. Eppure, la polvere sembrava turbinare in un punto preciso, radunandosi in uno dei fasci di luce lunare vicino ai ragazzini. Uno aprì gli occhi e si lasciò sfuggire uno strillo, e un istante dopo ogni bambino della gang era sveglio. Il turbine divenne un sottile tornado. Nonostante non ci fosse ancora vento, qualcosa stava prendendo forma: punti neri che offuscavano la luce e ruotavano a velocità vertiginosa a circa due metri d'altezza. Il vortice divenne di un blu iridescente, sprizzando scintille che danzarono sul pavimento, fra le grida dei bambini. A prendere forma all'interno del tornado era un uomo, o qualcosa che gli somigliava. La sagoma scintillò di blu, irradiando luce in tutte le direzioni, e nemmeno Hu fu abbastanza veloce da coprirsi gli occhi. Quando alzò lo sguardo, una figura come non ne aveva mai viste si ergeva di fronte ai bambini, acquattati in un angolo con gli occhi sgranati. L'uomo sembrava scolpito in lucido marmo nero o plasmato nel metallo liquido. I suoi indumenti erano come una seconda pelle, ma indossava scarpe; una creatura asessuata, con il corpo totalmente nero e ogni contorno nitidamente definito. La corporatura snella faceva risaltare i muscoli perfettamente scolpiti, dalle spalle al torace, allo stomaco e alle gambe. Però c'era qualcosa di strano nella sua pelle. In un primo momento, l'uomo o demone o statua di carne e ossa rifletteva la luce come acciaio brunito. Adesso, solo alcune parti risplendevano: il profilo dei bicipiti, i muscoli retti dell'addome. Il resto del corpo sfumava dal nero lucido al nero opaco. Ancora più terrificante era il suo volto, che appariva meno umano del resto. La bocca era un piccolo squarcio, gli zigomi alti, i capelli una massa nera e spettinata di ciocche appuntite, le sopracciglia prominenti e corrucciate sopra due grandi occhi da incubo, pallidi come l'alba del più gelido inverno. Parlavano di giudizio senza pietà; di punizione senza rimorso. Mentre il demone esaminava i bambini, Hu maturò la certezza che quegli occhi stessero ardendo. Sottili spirali di fumo si sollevavano da essi, da qualunque fuoco infernale bruciasse dentro quella figura diabolica.
«Bambini», disse la creatura. «Non dovete aver paura». I ratti della gang ingoiarono la paura che serrava loro la gola e, nonostante le parole rassicuranti, parvero tutti sul punto di balzare in piedi e darsela a gambe. «Non vi farò del male», disse il demone. «Ma qui non siete al sicuro. Dovete andare da Gwinvere Kirena, quella che conoscete come Momma K. Andate e restate con lei. Ditele che l'Angelo della Notte è tornato». Diversi bambini annuirono con gli occhi ancora sgranati dalla paura, ma rimasero tutti incollati al pavimento. «Andate!», li esortò l'Angelo della Notte. Avanzò dentro una zona d'ombra che spezzava il chiarore lunare all'interno del magazzino e accadde una cosa singolare. Là dove l'ombra attraversava l'Angelo della Notte, il demone scomparve. Un braccio, una sezione diagonale del corpo e la testa sparirono - fatta eccezione per due punti sfolgoranti che rimasero sospesi in aria all'altezza degli occhi. «Scappate!», gridò l'Angelo della Notte. I bambini sfrecciarono via come solo i ratti delle gang sapevano fare. Hu capì che doveva uccidere questo Angelo della Notte. Di certo il Re Divino lo avrebbe ricompensato profumatamente. Inoltre, il demone gli bloccava l'entrata per procedere nella sua missione. Quella creatura si frapponeva fra lui e più di trecento morti succulente. Un imprevisto difficile da mandare giù. Non aveva paura. Era solo che non aveva mai eseguito lavori gratis. Avrebbe ucciso questo angelo, ma poi sarebbe andato via a esigere il pagamento dal Re Divino. Se l'Angelo della Notte sapeva dell'esistenza del rifugio sotterraneo, era già troppo tardi. Se l'Angelo della Notte ne era all'oscuro, l'indomani le puttane sarebbero state ancora lì. Oggi avrebbe sottoscritto un contratto per l'Angelo della Notte e il giorno dopo sarebbe tornato a uccidere le puttane e anche quel demone. Era perfettamente logico. La paura non aveva niente a che fare con la faccenda. L'Angelo della Notte alzò il viso, e appena gli occhi incontrarono quelli di Hu Gibbet, scintillarono da un blu quiescente a un rosso
acceso. Un momento dopo, il resto della figura svanì lasciando solo i due punti rossi incandescenti. «Desideri ricevere la tua punizione questa notte, Hubert Marion?», gli chiese l'Angelo della Notte. Un gelido terrore lo paralizzò. Hubert Marion. Nessuno lo chiamava così da almeno quindici anni. L'Angelo della Notte avanzò verso di lui. Hu stava per darsi alla fuga quando il demone inciampò, e anche Hu si fermò, sconcertato. Il bagliore degli occhi si attenuò, tremolando, finché l'Angelo della Notte si afflosciò. Il sicario si lasciò cadere dal tetto e sguainò la spada. L'Angelo della Notte si tirò su per pura forza di volontà, ma Hu capì che era sfinito. Senza esitare, si lanciò all'attacco. Il clangore delle loro spade riecheggiò nella notte, finché il piede di Hu scivolò su una lastra di pietra e centrò il torace dell'Angelo della Notte. La creatura fu scagliata indietro e la spada gli volò via di mano; atterrò scompostamente a terra e il suo corpo iniziò a scintillare. Dopo qualche istante, l'Angelo della Notte era sparito. Al suo posto, giaceva un uomo inerme, quasi privo di sensi. Era Kylar Stern, l'apprendista di Durzo. Hu imprecò, mentre la paura appena provata si trasformava in sdegno. Era solo un trucco? Un'illusione? Si avventò contro Kylar e gli calò un fendente sulla gola esposta. Ma la lama attraversò la testa del giovane senza incontrare resistenza - infrangendo l'illusione. Hu aveva appena inferto il colpo, quando sentì una corda stringersi intorno alle caviglie e scaraventarlo a terra. Dita gli affondarono nel gomito destro, infierendo nel punto di pressione fino a disperdere ogni energia del braccio. Una mano lo afferrò per i capelli e gli sbatté la faccia contro il pavimento di pietra, una, due volte, rompendogli il naso. Al terzo schianto, una pietra aguzza si conficcò nell'occhio di Hu, che rotolò su se stesso sopraffatto dal dolore lancinante.
Cominciò a menare colpi adoperando tutto il suo Talento, ma non centrò alcun bersaglio. Poi si ritrovò con le braccia dietro la schiena e, dopo un violento strattone verso l'alto, con entrambe le spalle lussate. Lanciò un urlo. Quando pensò di ripartire all'attacco, aveva ormai braccia e gambe legate insieme. Con l'unico occhio rimastogli, Hu intravide Kylar Stern barcollare, visibilmente esausto, mentre afferrava l'avversario per il mantello e lo trascinava sul pavimento del magazzino. Hu tentò ancora di divincolarsi, cercando di sferrare calci a qualcosa, a qualsiasi cosa, tentando di rialzarsi in piedi. Kylar lo lasciò cadere sulla schiena, strappandogli un altro urlo di dolore appena le spalle lussate e immobilizzate incontrarono la superficie di pietra, e si profilò minaccioso su di lui. Qualunque cosa fosse stata quella pelle nera, illusione o altro, era chiaro che Kylar non aveva il potere di conservarla. Restò in piedi, nudo, ma il volto era una maschera furiosa non dissimile da quella indossata poco prima. Hu chiamò a raccolta il Talento e azzardò un altro calcio. Ma il piede di Kylar scattò per primo, spezzando la tibia del sicario, che gridò con tutte le forze per vincere il dolore improvviso e lancinante che minacciava di fargli perdere i sensi. Quando si guardò di nuovo intorno, Kylar stava facendo forza su una lastra del pavimento, che si aprì ruotando su cardini invisibili. All'interno, girava una turbina idraulica, azionata dalla corrente del fiume Plith. Hu si rese conto che doveva essere il meccanismo che apriva la massiccia porta del rifugio: i pesanti ingranaggi si sganciarono, rallentando il moto di rotazione. «Nysos è il dio delle acque, giusto?», domandò Kylar. «Cosa stai facendo?», ribatté istericamente Hu. «Prega», gli intimò Kylar in tono spietato. «Forse ti risparmierò». Kylar armeggiò con il mantello di Hu. Per un momento, non successe nulla. Poi il mantello si strinse intorno al collo di Hu e cominciò a tirarlo lungo il pavimento. «Nysos!», invocò Hu nella morsa della stoffa. «Nysos!».
Il mantello lo trascinò nell'acqua e per un lungo, prezioso momento, la tensione intorno al collo si allentò. Hu scalciò con la gamba illesa e affiorò in superficie. Poi il mantello rinsaldò la presa e lo intrappolò negli ingranaggi della turbina. Il meccanismo disinserito gli sollevò la testa sul pelo dall'acqua e poi lo spinse da parte, trascinandolo di nuovo sotto. Lo spinse ancora fuori dall'acqua, poi da una parte e infine lo trascinò ancora sotto. Questa volta, Hu scalciò con forza appena riemerse in superficie, concedendosi un lungo respiro. Ma fu subito spostato e sommerso ancora una volta. Tentò di liberarsi dalle corde, ma ogni pressione che esercitava sulle spalle si trasformava in un supplizio. Le braccia erano legate così saldamente che non riusciva a reinserire le spalle nell'articolazione, e la gamba illesa si dibatteva inutilmente nell'acqua. Hu gridò appena riaffiorò in superficie, ma il meccanismo continuò nel suo inesorabile moto di rotazione. Su, giù, su, giù. Kylar osservò Hu affiorare e affondare, più e più volte, a volte implorando, a volte sputando l'acqua sporca del fiume. Non provava alcun rimorso. Hu si meritava un trattamento del genere. Da cosa gli venisse questa certezza, non aveva importanza. Lo sapeva, e basta. Niente di più semplice. Vacillando per lo sfinimento, Kylar cercò l'interruttore che apriva la porta del rifugio. La spossatezza che provava non era una finzione. Era stato fortunato ad avere ancora Talento sufficiente per ingannare Hu. In un combattimento leale, il sicario avrebbe avuto la meglio: su questo, Kylar non si illudeva. Ma Durzo gli aveva insegnato che non esistono combattimenti leali. Hu si era lasciato cogliere di sorpresa perché era convinto di essere il migliore. Durzo non si era mai considerato il migliore; pensava solo che tutti gli altri fossero peggiori di lui. Poteva sembrare la stessa cosa, ma non era così. Alla fine Kylar trovò quel che stava cercando. Afferrò una tavola accanto alla pietra e la tirò su. Il meccanismo ruotante scivolò lateralmente finché i denti incontrarono quelli di un'altra ruota. All'inizio grattarono fra loro, poi ingranarono insieme e presero a
girare. Hu venne tirato inesorabilmente fuori dall'acqua ancora una volta. La testa gli rimase incastrata fra i grossi denti dei due ingranaggi; il grido che gli sfuggì fu lacerante. Le ruote si fermarono, bloccate sotto sforzo. Poi la testa di Hu esplose come un foruncolo sanguinolento. Le gambe scalciarono convulsamente e il resto del corpo s'inarcò fuori dall'acqua. Il cadavere s'inabissò poi di lato e le ruote ripresero a ruotare, colorando di rosso la superficie. L'enorme lastra di pietra si sollevò, rivelando un passaggio sotterraneo. Un campanello d'allarme risuonò nelle profondità del rifugio. Immediatamente, un paio di guardie si precipitarono su per i gradini con le lance in pugno. «Dovete... sloggiare», farfugliò Kylar. Vacillò, ma nessuno dei due uomini si mosse per sorreggerlo. «Il Re Divino sa che siete qui. Ditelo a Momma K». Poi crollò a terra privo di sensi.
Capitolo 52 Feir Cousat nascose il più possibile la sua grossa mole dietro il tronco di un albero. Mancavano due ore all'alba, e la figura distesa accanto al fuoco era immobile da tempo. Fra pochi istanti, Feir avrebbe saputo se tutti i rischi corsi avrebbero dato i loro frutti. La ricerca di Curoch l'aveva portato a Cenaria, attraverso gli accampamenti degli Highlander khalidoriani e fra le montagne lungo il confine ceuriano. Per settimane, il fatto che non gli fosse giunta alcuna voce di una spada speciale era stato per lui un motivo di speranza e di disperazione allo stesso tempo. Significava che, anche se aveva seguito la pista giusta, Curoch poteva trovarsi nelle mani di un uomo che non aveva idea del suo valore. Quella eventualità era di gran lunga preferibile all'idea di doverla sottrarre a un Vurdmeister. Qualsiasi Vürdmeister in grado di maneggiare Curoch avrebbe saputo uccidere Feir in cento modi diversi. Più probabile ancora, era che fosse sulla pista sbagliata. Aveva formulato una dozzina di ipotesi mentre restringeva l'elenco delle possibilità. Primo, si era procurato una uniforme khalidoriana applicandovi sopra le insegne dei messaggeri e si era intrattenuto presso vari fuochi di bivacco. Quando frequentavano la scuola, Dorian gli aveva insegnato il khalidoriano, così anche nei momenti in cui la conversazione scivolava nell'antica lingua - tutti i giovani Khalidoriani erano bilingui, perché il Re Divino pensava che avrebbero governato meglio se avessero potuto conoscere gli intrighi e le cospirazioni dei popoli conquistati - capiva quel che dicevano. Poiché non avevano trovato subito Curoch, e Feir presumeva che una volta trovata la voce si sarebbe diffusa in fretta nel caso l'avessero fatto, immaginava che qualcuno si fosse impadronito della spada. Rintracciò i soldati che avevano fatto parte del distaccamento addetto alle pulizie sul ponte. La maggior parte degli uomini erano stati recuperati da reparti decimati durante i combattimenti. In seguito, erano stati riuniti a formare un nuovo reparto e rispediti a
casa a difendere i carri che riportavano i bottini di guerra a Khalidor - proprio la colonna di carri a cui Feir si era accodato insieme a Dorian e Solon. Se Dorian l'aveva spedito a sud, di certo la spada non era partita insieme alla salmeria. Così s'informò se c'erano soldati di quei reparti che non fossero tornati a casa, e ne trovò uno. Scoprire dove fosse finito Ferl Khalius fu tutta un'altra faccenda. In realtà, Feir non aveva mai trovato quell'uomo. Invece, era andato dietro a un Vürdmeister inviato a sud. Il Vürdmeister seguiva le tracce di Ferl Khalius, e Feir seguiva le tracce del Vürdmeister. Aveva osservato il vecchio mago scagliare missili contro Ferl Khalius e il nobile che questi aveva rapito. Ma poi lo aveva visto perdere ogni interesse nella coppia di fuggiaschi appena il nobile era precipitato dalla parete del Monte Hezeron. Mentre il Vürdmeister usava il bastone di segnalazione per riferire al Re Divino circa il proprio insuccesso, Feir si era avvicinato furtivamente. La neve appena caduta e la concentrazione richiesta perché la magia funzionasse avevano coperto la sua manovra di avvicinamento. Appena il Vürdmeister ebbe finito, Feir lo uccise. Poi aveva fatto un'esperienza che non avrebbe mai ripetuto. Aveva attraversato la cengia crollata, in mezzo alla neve. Aveva superato con un balzo il vuoto di un metro e mezzo, spiccando il salto da una superficie scivolosa all'altra. Poi si era imbattuto in tratti sufficientemente ripidi da farlo slittare indietro appena vi metteva piede, e si era deciso a usare la magia per sciogliere in parte il ghiaccio per il tempo necessario ad avanzare di qualche passo. Per Curoch, ne valeva la pena. Estrasse la spada e proseguì adottando uno zshel posto modificato, una postura da lottatore per conservare equilibrio e agilità sul terreno scivoloso. Con pochi rapidi passi, fu addosso alla vittima. La spada affondò nel torace dell'uomo - un torace di neve, avvolto in un mantello. Feir imprecò e si girò di scatto, mentre il vero Ferl Khalius si era già lanciato alla carica emergendo dal bosco, con Curoch stretta in pugno. Feir ebbe appena il tempo per spostarsi. Il fendente
dell'Highlander l'avrebbe centrato in pieno se non si fosse buttato di lato. Comunque, Curoch gli fece cadere di mano la spada. «Non c'è grande onore nel colpire un uomo immerso nel sonno», disse Ferl con un marcato accento khalidoriano. «La posta in gioco è troppo alta per pensare all'onore», ribatté Feir. Aveva creduto che l'uomo non si fosse accorto di essere seguito. «Consegnatemi la spada», gli disse, «e vi lascerò vivere». A ragione, Ferl lo guardò come se fosse impazzito: lui era armato, e Feir no. «Io dovrei darla a voi? Questa è la spada di un signore della guerra». «Un signore della guerra? Quella spada vale più di quanto il vostro e ogni altro clan nel raggio di quasi duecento chilometri riuscirebbe a mettere insieme». Ferl non gli credette, ma non se ne curò nemmeno. «È mia». Tre punti di luce bianca, ognuno più piccolo dell'unghia del pollice di Feir, si materializzarono nell'aria e sfrecciarono verso Ferl Khalius. L'uomo era uno spadaccino piuttosto abile, ma nessuno avrebbe potuto intervenire più rapidamente di così con una spada. I due missili che Ferl intercettò con la lama esplosero nella notte. Il terzo passò sibilando sotto le mani di Ferl e penetrò nell'addome. Feir si allungò con difficoltà - la magia a distanza non era mai stata il suo forte - e diede un nuovo impulso al missile, che si aprì una pista infuocata fino al cuore di Ferl. L'Highlander fissò lo sguardo su Feir e si accasciò di laro. Feir raccolse Curoch ed esultò. Aveva avuto ragione. Tutte le congetture e i rischi avevano dato i loro frutti. Se mai qualcuno avesse ascoltato la sua storia, i bardi l'avrebbero trasformata in leggenda. Aveva appena recuperato uno dei più potenti artefatti magici che fossero mai stati creati. Allora perché provava quel senso di vuoto? Questa volta era stato tutto talmente facile. Lento, ma facile. Forse Ferl non aveva tutti i torti. Non aveva agito con onore, ma quando una persona impugnava Curoch, il combattimento non era mai leale.
Ma non era solo per quel motivo. Aveva recuperato quella dannata spada per tre volte - tre! Poteva essere proclamato il Ritrovatore Ufficiale della Dannata Spada. Era nelle sue mani, ma non avrebbe mai potuto usarla. Era un mediocre, e aveva commesso l'errore di stringere amicizia con grandi uomini. Solonariwan Tofusin Sa'fasti era stato un principe dell'impero sethi. Il suo Talento lo collocava nei più alti ranghi fra tutti i maghi viventi. Dorian era un altro principe, un Vürdmeister e ancora di più. Era un genere di mago che capita una volta in ogni generazione. Feir veniva da una famiglia povera, era dotato di modesto Talento e di una certa abilità con la spada. Aveva scoperto il suo Talento mentre lavorava come apprendista presso un fabbro; in seguito aveva frequentato la scuola del Creatore e poi era stato assunto come fabbro e Maestro di Spada allo Sho'cendi, dove aveva conosciuto Solon e Dorian. Dorian aveva rinnegato le sue nobili origini, e né a lui né a Solon era stato ufficialmente riservato alcun trattamento speciale. Ma questo non significava, e Feir lo sapeva bene, che non avrebbero tratto comunque benefici dal loro nobile retaggio. Non importava cosa accadesse a Dorian o a Solon: sapevano di essere persone privilegiate. Sapevano di essere qualcuno che contava. Feir non aveva mai avuto questa sensazione. Era sempre al secondo posto, se non al terzo. Il bastone di segnalazione si animò con un lampo, e Feir lo sollevò. Il giovane Vürdmeister che aveva ucciso vi aveva impresso una chiave di traduzione. Evidentemente, era la prima volta che gli veniva affidato un bastone simile, così Feir era riuscito a tradurre i lampi di luce in lettere, sempre in codice, e in khalidoriano. Decifrare quel codice fu semplice. La prima lettera era la corrispondente khalidoriana più una, la seconda era la lettera corrispondente più due, e così via. Ma le lettere venivano compitate rapidamente, e Feir non aveva niente su cui scrivere, e il suo vocabolario khalidoriano era limitato. Il Re Divino stava usando questi strumenti proprio come avrebbe fatto Feir: per coordinare truppe e Meister lontani. Rappresentavano un vantaggio semplice e allo stesso tempo enorme. I suoi ordini
venivano comunicati all'istante, mentre i suoi avversari dovevano aspettare ore o giorni in attesa dei messaggeri. E nell'arco di quei giorni o ore, le situazioni cambiavano, i piani si modificavano. Non c'era da stupirsi che avesse annientato ogni esercito che aveva marciato contro di lui. «Radunati... nord... di», lampeggiò il bastone. Poi ci fu una pausa e il bagliore blu divenne rosso. Cosa diamine voleva dire? Feir compitò le lettere e, affidandosi all'intuito, le traslitterò nella lingua comune. «B.O.S.C.H.E.T.T.O.D.I.P.A.V.V.I.L.». Boschetto di Pavvil. La luce sfumò di nuovo nel blu, ma si alternò troppo in fretta perché Feir avesse il tempo di decifrarla, però ripeté due volte una sezione. «Due giorni. Due giorni». Poi si spense. Feir si abbandonò a un lungo sospiro. Aveva attraversato il Boschetto di Pavvil mentre si dirigeva a sud. Era una piccola cittadina che forniva l'unico legname di quercia di Cenaria. A nord dell'abitato, si allungava una piana ideale come campo di battaglia. Chiaramente, il Re Divino aveva in progetto di sconfiggervi l'armata ribelle. In due giorni, Feir sarebbe potuto arrivare sul posto. Ma mancavano ancora due ore all'alba. I Khalidoriani contavano i giorni a partire dall'alba o dalla mezzanotte? Quei due giorni erano realmente due, o tre? Imprecò. Era riuscito a decifrare un codice oscuro in un'altra lingua, ma non a contare fino a tre. Magnifico. Il bastone di segnalazione diventò giallo - mai successo prima. «Vürdmeister Lorus a rapporto...». Oh, no. Il bastone cominciò a lampeggiare «Perché... direzione... sud?». Feir sbiancò in viso. Allora i bastoni di segnalazione non servivano solo per le comunicazioni, trasmettevano anche la sua posizione. Questo era un guaio. «Al vostro ritorno... punizione». Al mio ritorno verrà decisa la mia punizione? «Corre voce... Lantano... vicino a voi. Confermate?».
Feir avrebbe voluto prendere la propria ignoranza della situazione per il collo e scuoterla fino a soffocarla. Correva voce di cosa? «Vürdmeister? Lorus? Se non rispondete...». Feir buttò via il bastone e indietreggiò a piccoli passi. Non successe nulla. Passò un minuto. Ancora niente. Proprio quando cominciava a sentirsi uno stupido, il bastone di segnalazione esplose con una forza tale da far crollare la neve dai rami degli alberi per un raggio di cento passi.
Bene, questo sveglierà i vicini. I vicini. Non era un pensiero confortante. E Lantano? Quel nome gli suonava familiare. Si arrampicò su una collina rocciosa per avere una vista migliore dei dintorni. Quasi rimpianse di averlo fatto. A quattrocento passi in direzione sud era accampato un intero esercito, forse seimila uomini in tutto. Lo stuolo di accoliti ammontava forse ad altri quattromila: mogli e maniscalchi, fabbri e prostitute, cuochi e servitori. Le bandiere dell'armata recavano una disadorna spada nera in verticale su fondo bianco: il sigillo di Lantano Garuwashi. Ecco a chi apparteneva quel nome, si ricordò Feir: un generale che non aveva mai subito una sconfitta, il figlio di un comune cittadino che aveva vinto sessanta duelli. Se si voleva credere alle storie messe in circolazione, a volte combatteva con una spada di legno da addestramento contro l'acciaio dell'avversario, solo per rendere più interessante il confronto. I vicini avevano senza dubbio udito l'esplosione, e un drappello di dieci cavalieri stava puntando proprio in direzione di Feir. Con almeno un altro centinaio di uomini al seguito.
Capitolo 53 Kylar riaprì gli occhi in una stanza sconosciuta. Gli stava accadendo troppo spesso, negli ultimi tempi. La versione attuale era piccola, sporca e soffocante. Il letto puzzava come se la paglia non fosse stata rinnovata da venti anni. Il cuore accelerò i battiti mentre Kylar si preparava ad affrontare il prossimo imprevisto. «Tranquillo», disse Momma K avvicinandosi al letto. Senza dubbio si trattava di un rifugio nel settore nord dei Cunicoli, a giudicare dal tanfo. «Quanto tempo?», domandò Kylar con voce rauca. «Quanto tempo sono rimasto privo di conoscenza?» «Piacere di rivedere anche te», aggiunse Momma K, sorridendo. «Un giorno e mezzo», rispose la voce di un uomo. Kylar si tirò su a sedere. A parlare era stato il lord generale Agon. Questa sì che era una sorpresa. «Bene, sembra che la nuova, grande muraglia eretta intorno alla città non sia l'unica cosa a essere cambiata». «È incredibile quel che riescono a fare i bastardi quando tentano qualcosa di costruttivo, vero?», replicò Agon. Si appoggiava una stampella come se gli dolesse un ginocchio. «È bello riaverti fra noi, Kylar», disse Momma K. «Corre già voce di come l'Angelo della Notte abbia ucciso Hu Gibbet, ma le uniche persone a sapere che in realtà eri tu sono le mie guardie. Sono con me da molto tempo. Non parleranno». Così la sua identità era salva, ma Kylar non aveva intenzione di lasciarsi distrarre. Si era spinto troppo lontano, troppo velocemente e in modo troppo sfibrante con un'unica cosa in mente. «Cosa sapete di Logan?». Momma K e Agon si scambiarono un'occhiata. «È morto», rispose Momma K.
«Non è morto», ribatté Kylar. «La notizia più attendibile che abbiamo...». «Non è morto. Jarl è venuto fino a Caernarvon per dirmelo». «Kylar», riprese Momma K, «i Khalidoriani hanno scoperto ieri chi era Logan. Nella migliore delle ipotesi, è stato ucciso da un altro prigioniero proprio per questo, oppure si è gettato nel Buco per risparmiarsi il trattamento che gli avrebbe riservato il Re Divino». «Non ci credo». Ieri? Mentre dormivo? Ci ero arrivato così vicino? «Mi spiace», disse Momma K. Kylar si alzò e trovò altri indumenti da sicario ripiegati ai piedi del letto. Cominciò a vestirsi. «Kylar», lo richiamò Momma K. La ignorò. «Figliolo», intervenne Agon, «è tempo che tu apra gli occhi. A nessuno fa piacere che Logan sia morto. Per me era come un figlio. Non puoi riportarlo indietro, ma ci sono cose che solo tu puoi fare». Kylar s'infilò la tunica. «E lasciatemi indovinare», disse con asprezza. «Voi due avete già escogitato il modo per servirvi del mio Talento, eh?» «Tra pochi giorni, l'esercito di Terah Graesin affronterà l'esercito del Re Divino a nord del Boschetto di Pavvil. Raggiungerà il luogo per prima, e avrà dalla sua le caratteristiche del terreno e il numero di uomini», disse Momma K. «E dov'è il problema?» «Il Re Divino ha intenzione di attaccare. Dopo la Noeta Hemata, dovrebbe essere due volte più cauto del solito, ma ci sta finendo dritto dentro. Kylar, le nostre spie hanno colto solo accenni, ma sono sicura che sia una trappola. Terah Graesin non vuole sentire ragioni. Non si batterà finché il Re Divino non la affronterà in un combattimento che lei sia sicura di vincere. Adesso ne ha l'occasione, e niente potrà fermarla. Tutto quel che sappiamo è che Garoth sta approntando qualcosa di magico, qualcosa di grosso». «Non mi dite», commentò Kylar.
«Vogliamo assoldarti per compiere un omicidio», disse Momma K. «Un omicidio degno dell'Angelo della Notte. Vogliamo che tu uccida il Re Divino», concluse. «Voi siete pazzi». «Diventerai una leggenda», disse Agon. «Preferirei restare vivo». Era strano. Era esattamente quel che gli avevano chiesto di fare prima che lasciasse la città. Esattamente la richiesta che era costata la vita a Jarl. Uccidere il Re Divino. Dare un senso a tutto il tempo e la sofferenza che gli era costato l'addestramento da sicario. Un ultimo assassinio, e avrebbe appeso la spada al chiodo, soddisfatto di aver fatto più della parte che gli spettava. Una morte che ne avrebbe risparmiate migliaia. Aveva il sapore del destino. «Anche se Logan fosse vivo, non servirebbe a nulla salvargli la vita se permetterai che la sua unica possibilità di regnare venga distrutta», osservò Agon. «Se è sopravvissuto fino a ora, riuscirà a resistere per un altro giorno o due. Uccidi il Re Divino e salva il regno, e poi va' a cercare il nostro re». Kylar scelse alcune armi fra il vasto equipaggiamento che gli aveva allestito Momma K e se le nascose addosso in silenzio. «Così ci condanni tutti», continuò Agon. «Io morirei per avere il potere che possiedi, e tu non vuoi usarlo per aiutarci. Maledizione a te». Girò sui tacchi e zoppicò fuori della stanza. Kylar guardò Momma K. La donna non se ne andò, ma anche lei non capiva la sua ostinazione. «È un piacere rivedere anche te, Momma K», disse Kylar. Fece un profondo respiro. «Ho lasciato Uly insieme a Elene. Se la caveranno bene. Ho lasciato loro denaro sufficiente per mantenersi fino alla fine dei loro giorni. Ed Elene avrà cura di lei. Ho fatto il meglio che ho potuto per... Jarl...». Di colpo, ebbe gli occhi colmi di lacrime. Momma K gli posò una mano sul braccio e il giovane abbassò lo sguardo. «So che sembra assurdo», disse Kylar. «Ma avevo giurato di lasciarmi tutto alle spalle. Ho infranto quel giuramento per Logan.
Mi è costato l'amore di Elene e la fiducia di Uly. Non le ho abbandonate per rubare un'altra vita, ma per salvarne una. Capisci?» «Sai chi mi ricordi?», disse Momma K. «Durzo. Quando era più giovane, prima che si smarrisse. Sarebbe fiero di te, Kylar. Io... anch'io sono fiera di te. Vorrei poter credere che il destino non sia stato così crudele da farti sacrificare ogni cosa solo per scoprire che Logan è già morto, ma non ho quel tipo di fede. Però posso dirti in cosa credo. Io credo in te». Lo abbracciò. «Tu sei diversa», disse. «È tutta colpa tua», replicò. «Finirò rimbambita come tutti». «Ne sono lieto», disse. Gli prese le guance fra le mani e lo baciò sulla fronte. «Vai, Kylar. Vai e, ti prego, ritorna». Era la seconda volta che Logan si addormentava, ogni volta pensando di non svegliarsi più. Aveva smesso di mangiare: non avrebbe toccato il corpo di Fin. Aveva smesso di fiutare l'aria pesante e corrosiva. Aveva smesso di osservare le smorfie preoccupate di Gnasher. Aveva anche smesso di sanguinare, ma era troppo tardi. Non aveva più forze. Dopo che Gnasher lo aveva aiutato a sedersi contro una stalagmite, Logan aveva notato un altro corpo disfatto, disteso scompostamente nell'oscurità a una decina di passi di distanza. Era Natassa Graesin. Adesso le grida degli urlatori non l'avrebbero più terrorizzata. Le sue membra erano straziate, ma il viso era sereno. Non c'era accusa nei suoi occhi. Non c'era nulla. Il sentimento più intenso che Logan riuscì a provare fu semplice rammarico. Afflizione per Natassa, che non gli avrebbe mai raccontato come era finita laggiù. Rimpianto per tutto quel che non avrebbe mai potuto fare. Non aveva mai agognato al trono. Aveva sempre presentito che essere re fosse più difficile di quanto apparisse. Nel Buco, a volte si era angustiato perché non sarebbe mai stato ricordato come una persona importante.
Adesso, appoggiato contro la stalagmite che un giorno avrebbe avvolto il suo corpo diventando la sua tomba per l'eternità, desiderò solo le cose più semplici. La luce del sole. Il profumo dell'erba, della pioggia, di una donna. Sentì la mancanza di Serah Drake e delle sue frivolezze. Rimpianse sua moglie. Jenine era così giovane, brillante, graziosa. Era stata un diamante trovato per caso e poi perduto per sempre. Gli mancava Kylar, il suo migliore amico. Un altro diamante venuto alla luce, trovato, e perduto. Logan anelò a un amore, a dei bambini, alla gestione delle sue tenute. Una vita semplice, una famiglia numerosa, pochi intimi amici: questo gli avrebbe dato tutta l'immortalità di cui aveva bisogno. Per un po', pregò gli antichi dèi. Non c'era altro da fare, e Gnasher non era tagliato per fare conversazione; ma gli antichi dèi non avevano niente da dire. Pregò anche l'Unico Dio del conte Drake. Non sapeva come si pregava il dio di tutte le cose. Perché avrebbe dovuto avere pietà di lui? Logan vi rinunciò. Più che altro, cercava di ignorare il dolore. Stava per chiudere gli occhi per tentare di nuovo di morire - o dormire - quando Gnasher cominciò a ululare. Un suono acuto, lacerante, irritante, che Logan non aveva mai sentito prima. Lo sfiatatoio naturale eruttò fumo acre, e la figura che Logan intravide per un istante fu ingoiata dal denso vapore e dall'oscurità. Poi, mentre la nuvola di vapore si dissolveva, un demone uscì da essa con passo marziale. Per la prima volta, Logan vide Gnasher terrorizzato. Si ritrasse a fianco di Logan, piagnucolando, ma non si mosse da lì. La lealtà di quell'uomo semplice non aveva limiti. Il demone continuò ad avanzare lentamente, con gli ardenti occhi azzurri fissi su Logan. Era un urlatore? Oppure era la Morte, venuta finalmente a reclamarlo? Logan non aveva paura. «Cazzo, amico», disse la Morte con una voce familiare. «Pensavo che avrei dovuto frugare in ogni angolo del Buco prima di trovarti». «Chi sei?», gracchiò Logan.
La maschera del demone scintillò e si dissolse nel volto di Kylar. A quel punto, Logan fu certo di aver perso la ragione. «Scusa, mi ero dimenticato della faccia», disse Kylar, accennando un sorriso furbo per nascondere il proprio imbarazzo. «Tu, oh, mi ricordi il culo di un cavallo». Una delle vecchie battute di Logan - o dèi! - di un passato lontano, quando non conosceva nemmeno un decimo delle imprecazioni che aveva imparato nel Buco. Kylar abbozzò un altro sorriso. «E, ehm, quel grosso tipo che intenzioni ha?». Gnash stava tremando, e persino Logan non sapeva dire se di rabbia o di paura. «Gnash», tentò di rassicurarlo. «È un amico. È qui per aiutarci». Gnasher non cambiò espressione, ma non si lanciò nemmeno all'attacco. «Sei davvero tu, vero?», volle sapere Logan. «Qui per evitare il disastro», confermò Kylar. Quando Logan non rispose, si avvicinò a esaminare il corpo dell'amico con aria grave. «Bene, cosa vuoi che sia un miracolo in più, eh? Sei ancora vivo», disse. Logan si sentì trascinare fuori dallo stato di coscienza appena Kylar lo aiutò a mettersi in piedi. Kylar stava parlando, e una parte di Logan realizzò che aveva intenzione di portarlo con lui. Fece del proprio meglio per ascoltare la voce dell'amico e ignorare i richiami della sofferenza e della morte. «...perché è quasi impossibile entrare nelle Fauci, adesso. Non come ai vecchi tempi... dicono che qualcuno o qualcosa ha stabilito qui la sua dimora. Parlano di "dimora", come se le Fauci fossero un castello o roba del genere». «Khali», mormorò Logan. Kylar li stava guidando nelle profondità del Buco. Logan inciampò, e quando riaprì gli occhi scoprì di essere legato sulla schiena di Kylar. Non era giusto. Per quanto peso avesse perso, Kvlar non avrebbe potuto riuscire a trasportarlo con tanta facilità. Ma la sensazione non si affievolì. L'amico si stava addentrando sempre più nelle viscere della terra. Laggiù non c'era una pista, né muschio iridescente, ma Kylar avanzava con passo sicuro, continuando a
parlare, e la sua voce teneva alla larga il terrore di Logan per l'oscurità. «...una volta ero nei Comignoli, e ricordo che i condotti sembravano raggiungere il centro della terra. Ho calcolato che le Fauci scendono nelle viscere del sottosuolo, e anche i condotti, e sono vicini fra loro. Quindi, se mi fossi immerso abbastanza in profondità, avrei trovato una connessione fra i due. Hai mai visto l'interno di quei condotti nei Comignoli, Logan? Metallo liscio, che si inabissa quasi all'infinito. Grosse pale di mulino che ruotano, mosse dall'aria che sale. Ho pensato che potevo scegliere il percorso più lento o quello più veloce. Tu mi conosci, e puoi immaginare quale dei due ho scelto. Ho preso uno scudo e l'ho trasformato in uno slittino con i freni a mano, tanto per riuscire a manovrarlo un po'... è stata una corsa infernale, te lo dico io. Meno male che ho perso un po' di velocità prima di raggiungere l'ultima ventola. Ero sicuro che prima girasse più velocemente. Compiango quei poveri bastardi che dovranno scendere laggiù a ripararla». Poi Kylar si fermò e trasse un profondo respiro. «Non ho intenzione di dirti balle. Adesso arriva la parte peggiore. Dobbiamo andare sott'acqua. Questo è il limite, Logan, la linea che separa il Buco dai Comignoli. L'acqua è bollente ed è sotto pressione, e proverai la sensazione di essere in una tomba. Ti prometto che, se riesci a superare anche questa prova, riemergerai in una nuova vita. Pensa solo a trattenere il fiato, e io farò il resto». «Gnasher», disse Logan. «Gnasher? Ah, quel gigante? Oh, non sembra che gli piaccia molto l'acqua, Logan». Logan non riusciva a vedere Gnash. Là sotto il buio era praticamente totale. Nero come la pece. Era un'unica, insondabile oscurità che ti avvolgeva. Era un'oscurità calda, umida, pesante, opprimente che s'infiltrava nei polmoni. Non aveva idea se Kylar vedesse o no Gnasher, ma Logan non l'avrebbe lasciato lì. «Vorresti... tornare indietro a prenderlo?», gli chiese Logan. Segui un lungo silenzio. «Sì, mio re», rispose alla fine Kylar.
«Io sono... sono pronto». «Tu pensa solo a contare. Prima ci ho messo circa un minuto. Forse in due ci vorrà un po' di più». Un minuto? «Prima che io vada... scusami, Logan. Scusami per tutto questo e per quanto è accaduto per colpa mia. Mi spiace non averti detto chi ero. Mi spiace di non aver ucciso Tenser quando ne ho avuto la possibilità. Io... scusami». Logan non disse nulla. Non riusciva a trovare le parole e la forza per offrire a Kylar quel che si meritava. Kylar non aspettò. Cominciò a fare respiri profondi e Logan seguì il suo esempio. Un istante dopo, s'immersero insieme nell'acqua. Logan si appoggiò a Kylar, attento a non ostacolargli il movimento delle braccia e a rendere il proprio corpo il più aerodinamico possibile. L'acqua era calda, ustionante, e di certo per Kylar non era una piacevole nuotata. Logan sentì che si capovolgevano, e poi Kylar doveva aver afferrato alcune pietre per farsi trascinare verso il basso; infatti si stavano muovendo più velocemente. A dire il vero, più velocemente di quanto Logan pensava fosse possibile sott'acqua. Sapeva che Kylar era forte: aveva lottato e si era allenato con lui, ma non poteva avanzare così speditamente trascinandosi dietro quel peso. Dieci. Undici. L'acqua premeva da ogni lato, inesorabile, opprimente. Una parte di Logan si meravigliò pensando che Kylar avesse già seguito quel percorso, senza sapere con certezza se i tunnel fossero davvero comunicanti o quanto avrebbe dovuto nuotare sott'acqua. A quattordici secondi, i polmoni di Logan stavano per esplodere. Resistette, cercando di non esagerare, di conservare un po' di forze. Il dolore non era niente, disse a se stesso. Questo fu venti secondi prima di accorgersi che avevano ripreso ad avanzare orizzontalmente. La schiena grattò contro la roccia. O meglio, forse non era roccia, ma non seppe descrivere con precisione
la sensazione provata. Pensò che fossero entrati in un tunnel, e da come si muoveva Kylar, doveva essere stretto. Quaranta. Quarantuno. Ormai il dolore era innegabile. L'aria gli premeva nella gola, implorando di lasciarla uscire, tempestandolo di pugni. Va bene, diamole un po' di sfogo. Solo un po'. A cinquanta secondi, si fermarono. Di colpo, ogni movimento in avanti cessò. Lo shock spinse Logan ad aprire gli occhi. Furono aggrediti da acqua acida e bollente, che lo fecero tossire. Un'enorme sfera di aria vitale si precipitò fuori dai suoi polmoni. Kylar cominciò a tirare, e tirare. Logan sentì qualcosa lacerarsi, forse la sua tunica o la sua pelle, ma poi ripresero ad avanzare. Ormai aveva meno di mezzo polmone d'aria di riserva. Adesso Kylar stava procedendo a incredibile velocità, ma niente lasciava pensare che stessero risalendo in superficie. Poi Logan sentì Kylar girare, ma l'amico non si diresse verso l'alto. Invece, con una mossa convulsa illuminata da una magica luce blu, estrasse una corta spada dalla cintura. Logan fu sballottato da una parte e dall'altra, mentre Kylar colpiva con forza e lacerava qualcosa che scintillava come un fulmine argenteo nell'acqua. Logan era allo stremo. Kylar prese a nuotare verso l'alto, ma Logan non ce l'avrebbe fatta per altri venti secondi. Non avrebbe resistito così a lungo. A sessantasette secondi, diede sfogo all'ultima riserva d'aria. Stavano salendo a una velocità tale che l'aria sembrò fare a gara con il suo volto. Superarono la bolla. I polmoni erano due sfere di fuoco. Si arrese e inspirò. L'acqua bollente si riversò nei polmoni - seguita da aria. Logan tossì ripetutamente, espellendo il liquido caldo e acido dal naso e dalla bocca. Ma, un istante dopo, aria dolce e fresca lenì le cavità nasali ustionate. Kylar lo slegò e lo depose gentilmente a terra. Logan rimase supino, pensando solo a respirare. C'era ancora buio, ma più in alto, su lungo i condotti di metallo e i comignoli, intravide il bagliore
tremolante di torce lontane. Dopo l'oscurità delle acque, gli sembrò di essere entrato in un universo di luce. «Mio re», disse Kylar. «C'è qualcosa nell'acqua. Una gigantesca, terribile lucertola. Se torno indietro, non so se mi rivedrai. E tu non sei in condizioni di farcela da solo. Senza di me, morirai qui. Vuoi ancora che vada a recuperare quel semplicione?». Logan avrebbe voluto dire di no. Per il regno, lui contava più di Gnasher. E aveva paura di restare solo. All'improvviso la vita era di nuovo a portata di mano, e non voleva morire. «Non posso abbandonarlo, Kylar. Perdonami». «Avresti bisogno di perdono se mi avessi chiesto di lasciarlo là», rispose Kylar, e si tuffò in acqua. Si assentò per cinque angosciosi minuti. Quando riaffiorò in superficie, stava nuotando a una velocità talmente elevata che si sollevò in aria. Atterrò in piedi. Aveva creato un'imbracatura con la corda e si era tirato dietro Gnasher. Ora afferrò la fune e la strattonò con forza. Gnasher volò praticamente fuori dall'acqua. Fece un profondo respiro e sorrise a Logan. «Trattenuto il fiato!», disse. Kylar si precipitò ad afferrare Logan, mentre una massa gigantesca emergeva dall'acqua dietro di loro. Qualcosa si abbatté addosso a Kylar, mandando tutti e tre a gambe all'aria. Poi la cavità fu illuminata da una luce blu iridescente. Proveniva da Kylar, che stava letteralmente guizzando fra le stalagmiti, usandole come punti d'appoggio per cambiare repentinamente direzione. Una morsa di terrore si strinse intorno alla gola di Logan. Qualunque creatura stesse combattendo Kylar, era immensa. Enormi zampe palmate spezzavano stalagmiti come se fossero fuscelli, mentre Kylar si sottraeva a piogge di detriti rotolandosi a terra. Violente folate d'aria prorompevano da fauci visibili solo quando i denti e gli occhi della bestia riflettevano il fuoco blu di Kylar. Una luce verde argentea scintillava a intervalli. L'essere terrificante si era reso invisibile. La battaglia infuriava a pochi passi di distanza, ma Logan non poteva fare niente, nemmeno osservarla. Udì un clangore metallico e immaginò che fosse la spada
di Kylar che colpiva la pelle dell'animale, ma non ne era certo. Non aveva idea di come Kylar riuscisse a battersi in quel buio nero come la pece, né aveva alcuna speranza di potersi difendere con le proprie forze. Non sapeva nemmeno quanto fosse grande quella creatura, o che aspetto avesse. Perse di vista Kylar - oppure fu lui a scomparire, perché anche la bestia si fermò sbuffando. Cominciò a fiutare l'aria, facendo ondeggiare avanti e indietro la testa. All'improvviso, si lanciò verso Logan e Gnasher. Logan allungò le mani per proteggersi e sentì una pelle viscida sfiorargli le dita. Stalagmiti crollarono tutto intorno. Poi la bestia si tirò indietro e girò la testa. Una luce fredda e argentea come la luna si accese negli occhi marezzati di verde, mentre la lucertola continuava a fiutare l'aria. Il muso viscido scivolò accanto alla guancia di Logan mentre la creatura continuava a cercare, a fiutare. Le dita di Logan trovarono una punta spezzata di stalagmite e si strinsero intorno a essa. Il movimento richiamò l'attenzione della bestia; indietreggiò, e la luce proiettata dal suo occhio illuminò il giovane come il fascio di una torcia. Il grande occhio rifrangente si materializzò davanti a Logan. La punta di stalagmite affondò nel bulbo oculare e infierì senza pietà. Una vivida luce verde argentea si riversò sul re insieme al sangue della creatura. L'occhio si spense come una candela agitata dal vento e un ruggito riempì la cavità, riecheggiando nelle profondità della terra. Un istante dopo, una vaga sagoma nera superò Logan e attaccò l'occhio ferito. La bestia lanciò un altro rauco ruggito e indietreggiò contorcendosi. Ci fu un enorme tonfo nell'acqua e poi calò il silenzio. «Logan», chiamò Kylar, con la voce ancora tremante per effetto dell'adrenalina, «quella era... era Khali?» «No. Khali è... diversa. Peggiore». Logan scoppiò in una risata incerta. «Quello era solo un drago». Rise di nuovo, come un uomo affrancato da ogni capacità di giudizio. Poi ogni luce si spense.
Quando riaprì gli occhi, si ritrovò intrappolato in una imbracatura insieme a Gnasher e a Kylar, che stava issando tutti e tre con una fune assicurata a una puleggia più in alto. Stavano risalendo lungo il condotto centrale dei Comignoli. Era un enorme tubo di metallo, largo una trentina di passi, e tutte le ventole erano state fermate. Come ci era riuscito Kylar? L'ascesa richiese alcuni minuti, e per tutto il tempo Logan fu conscio del proprio braccio che bruciava e formicolava dove era stato colpito dal sangue della creatura. Non aveva il coraggio di guardare. «Abbiamo un aggancio all'interno, un uomo che mi ha aiutato», disse Kylar. «Adesso il Sa'kagé è uno dei tuoi maggiori alleati, mio re. Forse l'unico». Qualche minuto dopo, raggiunsero una sezione in cui i condotti si piegavano orizzontalmente. Con grande attenzione, Kylar slegò Logan e poi Gnasher. Tagliò le corde e le lasciò precipitare nell'abisso. La puleggia seguì la stessa sorte. Li guidò lungo un condotto sempre più stretto finché non raggiunsero una porta. Bussò leggermente, tre colpi. La porta si aprì e Logan si ritrovò faccia a faccia con Gorkhy. «Logan, ti presento il nostro uomo», disse Kylar. «Gorkhy, il tuo denaro è...». «Voi!», esclamò la guardia. Il suo volto esprimeva lo stesso disgusto che provava Logan. «Uccidilo», ordinò Logan con voce rauca. Gorkhy strabuzzò gli occhi. Afferrò il fischietto in dotazione alle guardie che portava appeso al collo. Prima che potesse infilarlo fra le labbra, la testa volò via dal corpo. Il cadavere si afflosciò a terra senza far rumore. Era stato tutto così rapido, così facile. Kylar trascinò il corpo lungo il tunnel e lo fece precipitare giù nel condotto centrale, poi tornò subito indietro. Logan aveva appena commissionato il suo primo assassinio.
Kylar non chiese alcuna spiegazione. Era qualcosa di misterioso, spaventoso e terribile. Era potere, e dava una sensazione... meravigliosamente inquietante. «Vostra Maestà?», disse Kylar, aprendo la porta che li avrebbe portati fuori dal condotto, fuori dall'incubo. «Il vostro regno vi attende».
Capitolo 54 Quando Kaldrosa Wyn
e altre dieci ragazze del Craven Dragón riemersero dal rifugio di Momma K, qualcosa nei Cunicoli era cambiato. C'era una nervosa eccitazione nell'aria. La Nocta Hemata era stata un trionfo, ma le ripercussioni erano in agguato. Tutti ne erano consapevoli. Momma K aveva detto alle ragazze che dovevano evacuare il rifugio sotterraneo perché il segreto della loro esistenza era trapelato all'esterno. In qualche modo, l'Angelo della Notte aveva impedito che fossero tutte massacrate da Hu Gibbet. Subito dopo l'invasione, Kaldrosa aveva già sentito circolare voci sull'Angelo della Notte, ma non le aveva prese sul serio. Adesso, tutte sapevano che esisteva davvero. Avevano visto il corpo di Hu Gibbet. Momma K aveva assicurato loro che le avrebbe fatte uscire clandestinamente dalla città il prima possibile, ma spostare trecento donne richiedeva del tempo. C'erano modi per aggirare o passare sotto le nuove mura del Re Divino, ma non era un'impresa facile. Il gruppo di Kaldrosa Wyn sarebbe dovuto partire quella notte. Momma K aveva detto che se qualcuna voleva restare in città, se aveva un marito, un fidanzato o una famiglia a cui tornare, bastava che non si presentasse quella sera all'appuntamento. I Cunicoli erano silenziosi, in attesa, mentre le donne si dirigevano al rifugio. Naturalmente, erano tutte molto vistose, ancora vestite con i loro singolari abiti da prostitute. I modelli di Mastro Piccun apparivano osceni alla luce del giorno, in piena strada. Ancora peggio era il fatto che i costumi di alcune ragazze erano imbrattati di chiazze di sangue ormai secco. Ma le donne non incontrarono guardie, e presto fu chiaro che i Khalidoriani non si erano ancora spinti nei Cunicoli. I residenti le guardarono passare con espressione perplessa. Trovarono un vicolo ostruito da un edificio crollato durante la Noeta Hemata, e furono costrette ad attraversare il mercato Durdun.
Il mercato era affollato di gente, ma appena le ex puttane s'incamminarono fra i banchi, furono precedute da un'ondata di silenzio. Tutti gli occhi erano puntati su di loro. Le ragazze strinsero i denti, pronte alle battute di scherno che i costumi avrebbero senz'altro provocato, ma non successe nulla. Una corpulenta pescivendola si sporse dal suo banco e disse: «Siamo fiere di voi, ragazze». Il commento le colse alla sprovvista. L'apprezzamento le colpì con la forza di uno schiaffo. La stessa scena si ripeté ovunque: la gente le accoglieva con un cenno di saluto e di approvazione, persino le donne che solo una settimana prima le avrebbero denigrate, sebbene invidiassero la loro bellezza e la vita facile. Anche se i Conigli aspettavano di essere schiacciati dal Re Divino - e sapevano che l'avrebbe fatto -, condividevano una unità forgiata sulla persecuzione. I Conigli avevano stupito se stessi con il coraggio dimostrato quella notte e, in qualche modo, le puttane sventolavano il loro vessillo. La cavalcata piacevolmente solitaria per raggiungere Cenaria ebbe un solo difetto. Non c'era una ragazzina petulante. Né una megera dispotica. Né scontri verbali. Né umiliazioni. Ma i due giorni di viaggio diedero a Vi l'opportunità di realizzare quanto i suoi piani fossero inconsistenti. Il primo prevedeva una visita al Re Divino. Le era sembrato magnifico per circa cinque minuti. Gli avrebbe detto che Kylar era morto, e che Jarl era morto. Avrebbe reclamato il suo oro e se ne sarebbe andata. Come no. Le considerazioni che Sorella Ariel aveva fatto sul sortilegio fatto a Vi erano troppo specifiche per essere pure congetture. Erano anche fin troppo plausibili. Il guinzaglio che la legava poteva essere corto o lungo, ma comunque esisteva. Garoth Ursuul aveva promesso che l'avrebbe spezzata. Non era il genere di promessa che avrebbe dimenticato facilmente. A dire il vero, Vi si sentiva già spezzata. Stava perdendo mordente. Un conto era star male per aver ucciso Jarl. Lui l'aveva
tenuta in vita. Era stato un amico e qualcuno che non aveva mai preteso di usare il suo corpo. Non era mai stato una minaccia, né fisica né sessuale. Kylar era tutta un'altra faccenda, eppure persino adesso, mentre cavalcava lentamente lungo le strade di Cenaria con il viso nascosto sotto il cappuccio, Vi non riusciva a smettere di pensare a lui. In effetti gli dispiaceva che fosse morto. Ne era addirittura rattristata. Kylar era stato un sicario maledettamente in gamba. Uno dei migliori. Era una vergogna che fosse rimasto ucciso da una freccia, probabilmente in un agguato. Nemmeno un sicario poteva impedire una simile fine. «D'accordo», commentò Vi ad alta voce. «Poteva succedere a chiunque. Mi fa prendere coscienza della mia mortalità. Solo che è un peccato». Non era solo un peccato. Non era quel che provava veramente, e lo sapeva. Kylar si era mostrato in qualche modo gentile. Se valutavi quel "in qualche modo gentile" con occhi beffardi. Diciamo affascinante. Be', non proprio affascinante. Ma ci aveva provato. Certo, era tutta colpa di Uly. Non aveva fatto altro che ripeterle quanto fosse magnifico. Cazzo. Così, forse si era abbandonata alla fantasia che Kylar fosse il tipo di uomo in grado di capirla. Era stato un sicario, aveva abbandonato quel mestiere, ed era diventato un uomo come si deve. Se ci era riuscito lui, forse ce l'avrebbe fatta anche lei. Sì, era un sicario, ma non si era mai svenduto. Pensi che
riuscirebbe a capire? A perdonare? Certo. Insisti nella tua piccola infatuazione, Vi. Piangi come una ragazzina. Continua a illuderti che avresti potuto essere una Elene, e condurre una casa mediocre e una vita mediocre. Sono certa che sarebbe stato divertente allattare mocciosi e ricamare lenzuola per i lettini. La verità è che non hai avuto il coraggio di riconoscere che eri infatuata di Kylar finché non hai saputo che era morto una volta per tutte.
Tutte le cose che Vi non aveva mai sopportato nelle altre donne si stavano manifestando in lei. Per amor di Nysos, le mancava persino Uly. Come a una sorta di fottuta madre.
Bene, è stato bello. Sob, sob. Adesso ci sentiamo meglio? Perché abbiamo ancora un problema. Rimase seduta a cavallo fuori del
negozio di Drissa Nile. Quella megera le aveva detto che le reti erano pericolose, ma Drissa sarebbe stata in grado di liberarla dalla magia del Re Divino. Sbirciando la misera bottega, Vi pensò che le scommesse erano tutte a favore del sovrano. Il Re Divino avrebbe fatto di lei una schiava. Drissa Nile l'avrebbe liberata, o uccisa. Vi entrò nel negozio. Dovette aspettare mezz'ora mentre i due piccoli, occhialuti Nile si prendevano cura di un ragazzo che si era piantato un'ascia nel piede spaccando la legna. Appena i genitori lo ebbero riportato a casa, Vi li informò che l'aveva mandata Sorella Ariel. I Nile si precipitarono a chiudere il negozio. Drissa la fece accomodare in una delle camere per i pazienti, e Tevor tirò indietro una sezione del tetto per lasciar filtrare la luce solare. I due si assomigliavano: abiti cascanti su piccoli corpi goffi, capelli grigi, dritti come covoni di frumento, occhiali e un orecchino a testa. Si muovevano con la disinvolta intimità che derivava da una lunga vita di coppia, ma era chiaro che Tevor Nile si rimetteva al giudizio della moglie. Sembravano entrambi sulla quarantina, ma quanto a erudizione Tevor appariva sempre smarrito, mentre Drissa non lasciava dubbi circa la padronanza della sua arte, sempre e comunque. Si sedettero ai lati di Vi, tenendo le loro mani unite dietro la schiena della ragazza. Drissa dosò la mano libera sul collo di Vi. Mentre Tevor appoggiò le dita sulla pelle dell'avambraccio. Vi sentì la pelle percorsa da un fresco formicolio. «Allora, come mai conosci Ariel?», le chiese Drissa, fissandola da dietro le lenti. Tevor sembrava essere sprofondato dentro se stesso. «Ha ucciso il mio cavallo per impedirmi di entrare nel Bosco di Ezra». Drissa si schiarì la gola. «Capisco».
«Aaah!», gridò Tevor balzando indietro. Cadde dallo sgabello e sbatté la nuca contro la pietra del camino. «Non toccate niente!». Si rialzò con la stessa velocità con cui era caduto a terra. Vi e Drissa lo guardarono sconcertate. L'uomo si massaggiò la testa dolorante. «Per tutti i numi, stavo per incenerire tutti». Tornò a sedersi. «Drissa, guarda qui». «Oh», disse Vi. «Ariel ha detto che era intrappolato in modo alquanto interessante». «E me lo dici adesso?», ribatté Tevor. «Interessante? E lei lo chiama interessante?» «Ha detto che voi siete i migliori con le piccole reti». «Ah sì?». Tevor cambiò subito atteggiamento. «Be', si riferiva a Drissa». L'uomo alzò le mani in segno di resa. «Naturalmente. Quelle Sorelle non riescono ad ammettere che un uomo possa essere in gamba, nemmeno per un secondo». «Tevor», lo richiamò la moglie. Si calmò immediatamente. «Sì, cara?» «Non riesco a vederlo. Puoi sollevare...». Fece un lungo sospiro. «Oh, cielo. Oh, cielo. Sì, non sollevarlo». Tevor non aggiunse nulla. Vi si girò a guardare la sua espressione. «Per favore, non ti muovere, bambina», le disse Drissa. Per dieci minuti, lavorarono in silenzio. O almeno Vi immaginò che stessero lavorando. A parte una sensazione di piume che gli sfiorassero la schiena, non sentì nulla. Alla fine, Tevor parve soddisfatto. «Abbiamo finito?», s'informò Vi. «Finito?», ripeté l'uomo. «Non abbiamo nemmeno cominciato. Stavo esaminando il danno. Interessante? Te lo dico io se è interessante. Ci sono tre incantesimi secondari a protezione del primo. Li avverto. Spezzare l'ultimo sarà doloroso, molto doloroso.
La buona notizia è che tu sei venuta da noi. La cattiva notizia è che, toccando la rete, l'ho infranta. Se non riesco a spezzarla in, forse, un'ora, ti esploderà la testa. Deve essere stato un Vürdmeister a farti questo bello scherzetto. C'è qualche altra sorpresa?» «Che cos'è l'incantesimo principale?», chiese Vi a Drissa. «Un incantesimo di coercizione, Vi. Procediamo, Tevor». L'uomo sospirò e sprofondò di nuovo in se stesso. Non sembrava in grado di parlare mentre era all'opera. Drissa, invece, non aveva problemi. Vi vide le mani della donna cominciare a risplendere debolmente anche mentre parlava. «Comincerà presto a farti male, Vi, e non solo a livello fisico. Non possiamo renderti insensibile al dolore perché ti ha intrappolato quell'area del cervello. Renderti insensibile al dolore è la prima cosa che farebbe ogni guaritore, cosi l'ha resa letale. Adesso, non ti muovere». Il mondo impallidì e restò incolore. Vi era come cieca. «Ora ascolta la mia voce, Vi», cominciò Drissa. «Rilassati». Il respiro di Vi divenne rapido e superficiale. All'improvviso, il mondo tornò. Vedeva di nuovo. «Ancora quattro volte e avremo il primo incantesimo», annunciò Drissa. «Potrebbe risultare più facile se chiudi gli occhi». Vi obbedì all'istante. «Quindi, ah, coercizione», disse. «Esatto», confermò Drissa. «La magia di coercizione è molto limitata. Perché l'incantesimo resista, colui che l'ha lanciato deve avere autorità su di te. Devi sentire di dovere obbedienza a chi ha lanciato l'incantesimo. Sarebbe peggio con un genitore o un mentore, o un generale, se tu facessi parte di un esercito». O un re. O un dio. Dannazione. «A dispetto di tutto», riprese Drissa, «la buona notizia è che puoi liberarti da una coercizione se ti liberi della persona che te l'ha imposta». «Brillante», commentò Tevor. «Maledettamente brillante. Pazzo e malato, ma geniale. Hai visto come ha ancorato le trappole nella glore vyrden della ragazza? Così è lei ad alimentare i suoi incantesimi. Terribilmente incapace, ma...».
«Tevor». «Giusto. Torniamo al lavoro». I muscoli dello stomaco di Vi si contrassero come se dovesse vomitare. Quando si distesero, domandò: «Liberarmi, in che modo?» «Ah, dalla coercizione? Be', dovremmo riuscire a spezzarla questo pomeriggio. È una faccenda piuttosto delicata. Se provi a liberartene nel modo sbagliato, non farai che rafforzarla. Non sarà un problema per te». «Perché...». Altri spasmi dello stomaco le impedirono di finire la domanda. «Alle maghe è vietato usare le coercizioni, ma noi impariamo a proteggerci da esse. Se tu non avessi noi, per liberarti da una coercizione avresti bisogno di un segno esteriore che indichi un cambiamento interiore, un simbolo che dimostri che hai cambiato la tua fede. Dovrai anche nasconderlo alla vista, non appena prenderai l'abito bianco e il ciondolo». Vi la guardò senza capire. «Quando ti iscriverai alla Cappella», precisò Drissa. «Hai intenzione di iscriverti alla Cappella, vero?» «Credo di sì», rispose Vi. Non aveva ancora pensato al futuro, ma la Cappella l'avrebbe tenuta al sicuro dal Re Divino. «Due. Ah», annunciò trionfalmente Tevor. «Raccontale di Pulleta Vikrasin». «A te piace quella storia solo perché mette in cattiva luce la Cappella». «Oh, andiamo, rovinerai la storia», protestò Tevor. Drissa roteò gli occhi. «Per farla breve, duecento anni fa la persona a capo di uno degli ordini stava usando la coercizione sulle subordinate, e loro non lo scoprirono finché una delle maghe, Pulleta Vikrasin, non sposò un mago. La sua devozione al marito infranse la coercizione e diverse Sorelle furono severamente punite». «Questa è la peggiore versione della storia che io abbia mai sentito», commentò il marito. Si rivolse a Vi. «Quel matrimonio
probabilmente non salvò solo la Cappella, ma confermò alle menti contorte di quelle zitellone che una donna sposata non sarebbe mai realmente fedele alla Cappella. Non vedo l'ora che il Bene Mobile raduni le forze e...». «Tevor. Ancora uno?», chiese Drissa. L'ometto si mise di nuovo al lavoro. «Mi spiace, presto ne avrai abbastanza della politica della Cappella. Tevor è ancora amareggiato per il modo in cui mi hanno trattata dopo che ci siamo scambiati l'anello». Indicò il suo orecchino. «È questo il loro significato?», domandò Vi. Non c'era da stupirsi se ne aveva visti così tanti nel Waeddryn. Erano orecchini nuziali. «Oltre a qualche migliaio di sovrane in meno dalla tua tasca, sì. I fabbricanti di orecchini dicono alle donne che questi anelli renderanno i mariti più remissivi, e dicono agli uomini che renderanno le mogli più, come dire, affettuose? Si dice che nei tempi antichi un marito inanellato non poteva essere eccitato da nessuna donna che non fosse sua moglie. Puoi immaginare come si vendono bene. Ma sono tutte frottole. Forse era vero un tempo, ma adesso gli anelli racchiudono magia appena sufficiente per sigillarsi senza saldature e per conservare la lucentezza».
Oh, Nysos. Il biglietto lasciato da Kylar a Elene acquistò subito un
nuovo significato. Vi non aveva rubato dei gioielli di valore; aveva rubato la promessa di eterno amore di un uomo. Ancora uno spasmo allo stomaco, ma questa volta non pensò che avesse a che fare con la magia di Tevor.
«Sei pronta, Vi? Stavolta ti farà davvero male, e non solo fisicamente. Rimuovere la coercizione ti farà rivivere le esperienze più significative con l'autorità. Suppongo che per te non sarà piacevole».
Ottima supposizione. Drissa era l'unica che potesse fare qualcosa. Logan era in pessime condizioni. Portarlo via dall'isola di Vos era stato abbastanza semplice, ma aveva richiesto del tempo e Kylar non sapeva quanto ne fosse rimasto a Logan.
Era stato pugnalato alla schiena e presentava ogni tipo di lacerazione, compresi tagli lungo le costole e il braccio, ormai visibilmente infiammati e pieni di pus. Negli ultimi venti anni, alcuni maghi avevano eletto la città a loro patria, ma Kylar cominciava a credere che la Cappella avrebbe mantenuto la propria presenza in ogni angolo del mondo. Aveva sentito di una donna in città che aveva un'ottima reputazione come guaritrice, e se c'era un mago in città, questa era lei. Meglio così: chi aveva bisogno di magia risanante, era di certo Logan. Specialmente con quella lesione sul braccio. Kylar non sapeva nemmeno bene di cosa si trattasse, ma sembrava che si fosse radicata nella carne con la forza del fuoco. La cosa più strana era che non sembrava aver colpito il braccio di Logan casualmente, come sarebbe accaduto di norma con un fiotto di sangue, ma con un disegno ben preciso. Kylar non sapeva nemmeno se dovesse bagnarla, coprirla o chissà cos'altro. Qualsiasi intervento avrebbe potuto aggravare la situazione. Ma che diavolo di bestia era? Per ripagarla dei numerosi tagli che gli aveva inferto, Kylar gli aveva sottratto una zanna, ma se era sopravvissuto lo doveva non solo alla sua abilità ma anche alla fortuna. Se in quella cavità non ci fossero state così tante stalagmiti, Kylar non avrebbe mai potuto eguagliare la velocità della creatura. La pelle era inattaccabile, persino con tutta l'energia del Talento di Kylar. Aveva pensato che almeno gli occhi fossero vulnerabili, ma il rettile li aveva protetti dai suoi attacchi per tre volte, prima di essere distratto dalla presenza di Logan e Gnasher. E la nuotata - con quel mostro che lo inseguiva a incredibile velocità - era stata un momento di puro terrore. Probabilmente il ricordo l'avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni. A ogni modo, salvare Logan era la cosa migliore che avesse mai fatto. Logan aveva bisogno di essere salvato, meritava di essere salvato, e Kylar era l'unico che potesse farlo. Questo era il fine ultimo di Kylar, e riscattava tutti i suoi sacrifici. Per questo era l'Angelo della Notte. Attraversò i Cunicoli con il singolare carico e lo depose all'interno di un carro coperto. Poi si diresse al negozio di Drissa Nile.
Il locale si trovava nell'area più agiata dei Cunicoli, appena oltre il Vanden Bridge, ed era abbastanza spazioso, con un'insegna che recitava «Nile & Nile, guaritori» e recava l'immagine della bacchetta curativa per quanti non sapevano leggere. Come Durzo prima di lui, Kylar aveva evitato quel luogo, temendo che un mago avrebbe potuto intuire chi fosse. Adesso non aveva scelta. Fermò il carro dietro al negozio, si caricò Logan sulle spalle e lo portò alla porta sul retro, seguito da Gnasher. La porta era chiusa a chiave. Una piccola ondata di Talento risolse l'inconveniente: il chiavistello saltò via fra le schegge di legno della porta. Kylar portò dentro Logan. Il negozio aveva diverse stanze che si aprivano su una sala d'attesa centrale. Al rumore provocato dall'irruzione, un uomo uscì da una delle camere per i pazienti, dove Kylar intravide due donne parlare fra loro prima che il guaritore chiudesse la porta. Una rapida occhiata confermò che anche la porta sul davanti era bloccata. «Che intenzioni avete?», li apostrofò il guaritore. «Non potete fare irruzione in questo modo». «Che razza di guaritore chiuderebbe a chiave le porte nel bel mezzo della giornata?», ribatté Kylar. Guardando l'uomo negli occhi, capì che non era un criminale, ma notò qualcos'altro: una calda luce verde, come una foresta illuminata dal sole dopo una tempesta. «Voi siete un mago», disse Kylar. Aveva pensato che quell'uomo fosse solo una facciata, un guaritore che Drissa Nile aveva usato per allontanare l'attenzione dalle proprie cure miracolose. Si era sbagliato. L'uomo si irrigidì. Portava gli occhiali, e la lente destra era più spessa della sinistra, dando agli occhi spalancati di colpo uno sconcertante aspetto asimmetrico. Disse: «Non so di cosa stiate parlando...». Kylar sentì qualcosa sfiorarlo, esplorarlo, ma il ka'kari non lo permise. Il mago non finì mai la frase. «Non ho percezione di voi. È come... come se foste morto». Merda. «Siete un guaritore o no? Il mio amico sta morendo», disse Kylar.
Per la prima volta, l'uomo si girò verso Logan. Kylar gli aveva buttato una coperta addosso per proteggerlo da sguardi indiscreti. «Sì», rispose l'uomo. «Tevor Nile, per servirvi. Vi prego, adagiatelo sul tavolo». Entrarono in una stanza vuota. Kylar depose Logan a faccia in giù; Tevor Nile rimosse la coperta e schioccò la lingua perplesso. Tagliò la tunica del ferito, stracciata e incrostata di sangue, sudore e sporcizia, per esaminare lo squarcio nella schiena. Stava già scuotendo la testa. «È troppo», concluse. «Non saprei nemmeno da dove cominciare». «Siete un mago, cominciate dalla magia». «Non sono un...». «Se mi mentite ancora una volta, giuro che vi uccido», disse Kylar. «Perché allora un focolare di quelle dimensioni in una stanza così piccola? Perché quella sezione retrattile nel tetto? Perché avete bisogno del fuoco o della luce solare per la vostra magia. Non lo rivelerò a nessuno, ma dovete guarire quest'uomo. Guardatelo. Sapete chi è?». Kylar rovesciò il corpo di Logan, scostando un brandello della tunica. Tevor Nile rimase senza fiato, ma non stava guardando il viso del ferito. Aveva notato la traccia ardente sul braccio. «Drissa!», urlò. Dalla camera accanto, Kylar sentì le voci di due donne, «...credete? Cosa significa? È sparito o no?» «Siamo abbastanza certi che sia sparito», rispose una donna. «DRISSA!», ripeté Tevor. Una porta si aprì e si richiuse, e poi il viso irritato di Drissa Nile comparve sulla soglia. Al pari di suo marito, aveva uno sguardo appesantito da rughe, nonostante dovesse aver solo superato la quarantina. Entrambi erano di bassa statura e con l'aria da studiosi, e indossavano vestiti informi e occhiali. Come con suo marito, Kylar non vide in lei alcuna ombra malvagia, ma racchiudeva decisamente qualcosa di più, che poteva essere solo magia.
Due maghi, marito e moglie. A Cenaria. Una vera stranezza, soprattutto in quella città. Kylar la considerò la stranezza più fortunata: se quei due maghi non riuscivano a guarire Logan, nessun altro sarebbe stato in grado di farlo. L'irritazione di Drissa svanì appena vide il volto di Logan. Sgranò gli occhi. Si avvicinò e lo squadrò, dal braccio ustionato al volto, e poi tornò al braccio, sbalordita. «Dove si è procurato questa traccia?», chiese. «Potete aiutarlo?», volle sapere Kylar. Drissa guardò il marito, che scosse la testa. «Non dopo quello che abbiamo appena fatto. Non credo di avere energia sufficiente. Non per questo». «Tenteremo», volle rassicurarlo Drissa. Tevor annuì docilmente, e Kylar notò per la prima volta gli orecchini che portavano entrambi. Tutti e due d'oro, assortiti. Erano abitanti del Waeddryn. In altre circostanze, Kylar avrebbe chiesto loro se quei dannati anelli racchiudevano davvero un incantesimo. Tevor tirò indietro la sezione del tetto per lasciare entrare la luce del sole soffusa dalle nuvole. Al tocco di Drissa, la legna già accatastata nel focolare prese fuoco. I coniugi si posizionarono ai lati di Logan, e l'aria sopra di lui iniziò a scintillare. Kylar richiamò il ka'kari dentro i propri occhi. Fu come mettere gli occhiali a un uomo quasi cieco. Le reti al di sopra di Logan, prima a malapena visibili, divennero di colpo nitide. «Siete esperto di erbe?», Drissa chiese a Kylar. Al suo cenno di assenso, disse: «Nella sala grande, prendete una foglia di tuntun, unguento grubel, achillea, senecio e quell'impiastro bianco sull'ultimo scaffale in alto». Kylar tornò un minuto dopo con gli ingredienti, più altri che riteneva utili. Tevor li esaminò e annuì, ma non parve capace di articolare una parola. «Bene, bene», approvò Drissa. Kylar cominciò ad applicare le erbe e gli impiastri, mentre Drissa e Tevor intervenivano sulle reti di magia. Più volte, li vide immergere
una rete fitta come un arazzo nel corpo di Logan, sistemarla per adattarla a lui, sollevarla sopra il corpo per ripararla, e poi immergerla di nuovo. Ciò che lo stupì, tuttavia, fu il modo in cui reagirono alcune delle erbe. Non aveva considerato che delle normali piante potessero reagire alla magia, ma evidentemente era possibile. L'achillea che aveva premuto nella ferita sulla schiena divenne nera in pochi secondi - mai vista una cosa del genere. Per Kylar, fu come assistere a una danza. Tevor e Drissa lavoravano insieme in perfetta armonia, ma Tevor mostrava segni di stanchezza. Dopo cinque minuti, l'uomo stava cedendo. Le sue parti della rete erano sempre più sottili e precarie. Aveva il volto pallido e sudato. Cominciò a sbattere le palpebre e a sistemarsi gli occhiali sul lungo naso. Kylar prese atto dello sfinimento del mago, ma non poteva fare nulla. Criticare un ballerino era ben diverso dal farsi avanti e danzare meglio di lui. Avrebbe tanto voluto saper intervenire in quel modo. Non sapeva bene come, ma sembrava che ogni volta Drissa tentasse di operare piccoli cambiamenti in Logan, mentre il ferito presentava ancora elementi terribilmente negativi. Osservando l'amico attraverso la rete sanante, notò che l'intero corpo appariva del colore sbagliato. Lo toccò, e sentì che scottava. Kylar si sentiva impotente. Aveva Talento. Persino dopo l'ultima avventura, aveva ancora Talento da vendere. Richiamò indietro il ka'kari, si spogliò di ogni protezione, e cercò di far penetrare tutta quella magia nel corpo di Logan. Non successe nulla.
Prendila, dannazione. Guarisci! Logan rimase immobile. Kylar non poteva usare la magia; non sapeva come formare una rete, tanto meno una complessa come quella che andavano tessendo i Nile. Tevor rivolse a Kylar uno sguardo dispiaciuto e gli diede una pacca d'incoraggiamento sulla mano. A quel contatto, un lampo di luce inondò la stanza. Sfolgorò oltre lo spettro magico e rientrò in quello visivo, proiettando ombre sulle pareti. Le reti sopra Logan, che solo un momento prima stavano
perdendo consistenza, nitidezza e colore, si accesero di un bagliore incandescente. Il calore guizzò nella mano di Kylar. Tevor rimase a bocca aperta come un pesce. «Tevor!», lo incitò la moglie. «Usalo!». Appena Kylar senti il Talento riversarsi all'esterno, ne avverti tutta la magia che passava attraverso Tevor e affluiva nel corpo di Logan. Fuori dal suo controllo, il Talento era totalmente affidato a Tevor. Quell'uomo avrebbe potuto servirsi della magia per ucciderlo e, dopo essersi sottomesso in quel modo, lui non avrebbe potuto fare niente per impedirglielo. Kylar vide il viso di Drissa imperlarsi di sudore e seguì il lavoro febbrile dei due maghi. La magia percorreva il corpo di Logan come un pettine che districava capelli annodati. Sfiorò la cicatrice ardente sul braccio - ancora vivida, dopo ore -, ma stranamente non trovò alcun nodo da sbrogliare. Non era qualcosa che si poteva guarire. La magia sanante proseguì il suo cammino. Alla fine Drissa trasse un sospiro e lasciò che la rete si dissolvesse. Logan sarebbe sopravvissuto; in realtà, era più sano adesso di quando era finito dentro le Fauci. Ma Tevor non interruppe il contatto con Kylar. Si voltò a fissarlo con gli occhi sgranati. «Tevor», lo richiamò Drissa, allarmata. «Che cosa siete? Un Vürdmeister?», gli domandò Tevor. Kylar tentò di richiamare il ka'kari per interrompere la connessione, ma non ci riuscì. Tentò di tendere i muscoli con l'energia del Talento, ma non ci riuscì. «Tevor», ripeté Drissa. «Vedi? Lo vedi? Io non ho mai...». «Tevor, lascialo». «Tesoro, potrebbe incenerirci entrambi con tutto questo Talento. Lui...».
«Così tu useresti la magia di un uomo contro di lui, dopo che si è sottomesso a te? Cosa direbbero in proposito i Fratelli? È questo l'uomo che ho sposato?». Tevor chinò il capo e abbandonò allo stesso tempo la presa sul Talento di Kylar. «Scusate». Kylar fu scosso da un tremito: era prosciugato, vuoto, esausto. Riprendere il controllo del Talento fu sconvolgente quasi quanto cederlo. Si sentì come se non avesse dormito per due giorni. Riuscì a malapena a trovare l'energia per gioire al pensiero che Logan sarebbe guarito. «Penso sia meglio dare un'occhiata anche a voi e al vostro amico semplicione. Per le vostre ferite sono sufficienti cure terrene», si offrì Drissa. Poi, abbassando la voce: «II, ehm, re dovrebbe svegliarsi questa sera. Perché non venite con me in un'altra stanza?». Aprì la porta e Kylar uscì nella sala d'attesa. Gnasher si era raggomitolato in un angolo e stava dormendo. Ma proprio di fronte a Kylar c'era una splendida ragazza con lunghi capelli rossi. I suoi occhi lo fissavano lungo la lama di una spada corta; la punta era premuta contro la sua gola. Kylar annaspò in cerca del Talento, ma gli scivolò fra le dita. Era troppo stanco. Sfinito. Non c'era niente che potesse fare per fermarla. Gli occhi di Vi erano gonfi e rossi come se fosse appena passata dentro uno strizzatoio, anche se Kylar non aveva idea del "come" e "perché". Continuò a fissarlo lungo la lama per un momento che parve allungarsi all'infinito. Impossibile decifrare lo sguardo che ardeva in quegli occhi, ma aveva qualcosa di spietato. Vi indietreggiò di tre passi, bilanciati e misurati; Valdé Docci, lo Spadaccino, si ritira. S'inginocchiò al centro della sala, chinò il capo, spostò di lato la coda di cavallo e depose la lama sui palmi delle mani, sollevandola in un gesto di offerta. «La mia vita è tua, Kylar. Mi sottopongo al tuo giudizio».
Capitolo 55 Sette delle undici ragazze avevano lasciato il rifugio per accertarsi di avere ancora una famiglia. Sei erano tornate indietro in lacrime. Alcune si erano ritrovate vedove. Altre erano state rifiutate da padri, mariti e fidanzati che vedevano in loro niente altro che puttane e disonore. Kaldrosa non abbandonò mai il rifugio; stavolta, il suo coraggio non l'aveva assistita. Per qualche ragione, era riuscita a guardare in faccia la morte. Aveva evirato Burl Laghar e l'aveva guardato morire dissanguato, legato a un letto, le grida soffocate dal bavaglio. Poi aveva rimosso il corpo, aveva disteso lenzuola fresche sul letto e aveva accolto un altro soldato khalidoriano. Era un giovane che pensava subito a fare sesso e un attimo dopo la picchiava con scarso entusiasmo. Sembrava sempre disgustato di se stesso. «Perché lo fate?», gli aveva chiesto Kaldrosa. «Non vi piace farmi male. Ne sono sicura». Non riusciva a guardarla negli occhi. «Tu non sai come funziona», rispose. «Hanno spie ovunque. La tua stessa famiglia ti consegnerà alle autorità se fai una mossa sbagliata. Lui lo sa». «Ma perché picchiare le prostitute?» «Non solo le prostitute. Tutti. È la sofferenza, che ci serve. Per gli Stranieri». «Cosa vuoi dire? Quali stranieri?». Ma il giovane non aggiunse altro. Un istante dopo, stava fissando le lenzuola. Il sangue che inzuppava il materasso stava affiorando dai teli puliti. Kaldrosa lo pugnalò in un occhio. Per tutto il tempo, anche quando lui l'aveva inseguita, sanguinando e ruggendo di rabbia, Kaldrosa non aveva mai avuto paura. Affrontare Tomman, però, era troppo. Avevano litigato aspramente prima che lei lo lasciasse per rivolgersi a Momma K. L'avrebbe trattenuta con la forza, se le percosse subite dagli invasori non gli avessero impedito di alzarsi dal letto. Tomman era sempre
stato geloso. No, Kaldrosa non poteva affrontarlo. Sarebbe partita insieme alle altre, diretta al campo dei ribelli. Non sapeva cosa avrebbe fatto, una volta lì. Era nell'entroterra e nemmeno vicino a un fiume; quindi, era molto improbabile trovare lavoro come capitano. In realtà, anche se si fosse procurata dei vestiti più dignitosi, i lavori onesti scarseggiavano ovunque. Eppure, dopo i Khalidoriani, prostituirsi per i Cenariani non sarebbe stato così male. Qualcuno bussò alla porta e tutte le ragazze si allarmarono. Non era il segnale convenuto. Nessuna si mosse. Daydra prese l'attizzatoio dal camino. Bussarono ancora. «Vi prego», disse una voce d'uomo. «Non intendo farvi del male. Sono disarmato. Fatemi entrare, vi prego». Kaldrosa sentì il cuore balzargli in gola. Confusa, si diresse verso la porta. «Ma cosa fai?», mormorò Daydra. Kaldrosa aprì lo spioncino, ed eccolo lì. Appena la vide, il volto di Tomman si illuminò. «Sei viva! Oh, per gli dèi, Kaldrosa, pensavo fossi morta. Cosa c'è che non va? Fammi entrare». Il chiavistello parve sollevarsi da solo. Kaldrosa era del tutto indifesa. La porta si spalancò e Tomman la strinse fra le braccia. «Oh, Kally», disse, pazzo di gioia. Tomman era sempre stato un po' lento nell'afferrare le cose. «Io non sapevo se...». Solo allora notò le altre donne presenti nella stanza, le loro espressioni di gioia o di invidia. Sebbene la stesse stringendo e lei non potesse vedere il suo volto, Kaldrosa sapeva che il marito stava sbattendo stupidamente le palpebre di fronte a tante splendide esotiche fanciulle radunate nello stesso posto, e tutte seminude. Persino l'abito verginale di Daydra sprizzava sensualità. Il suo abbraccio s'irrigidì a poco a poco e Kaldrosa si arrese. Tomman si tirò indietro e la guardò in faccia. Le sue mani caddero convulsamente dalle spalle della moglie, come un pesce che si dibatte sul ponte della nave. Era davvero uno splendido costume. Kaldrosa aveva sempre detestato la propria magrezza; pensava che la facesse assomigliare a
un ragazzo. Con quel vestito, non si sentiva scheletrica o mascolina; si sentiva slanciata, femminile. La profonda scollatura della camicia non solo rivelava la sua abbronzatura fino alla vita, ma lasciava trasparire la metà di ogni seno. Gli scandalosi pantaloni aderivano come un guanto. In breve, era esattamente il genere di abito che Tomman avrebbe desiderato che la moglie indossasse a casa - durante la breve parentesi fra lo stupore iniziale e il momento in cui l'avrebbe abbrancata dopo averla inseguita da una stanza all'altra. Ma questa non era casa loro, e quegli indumenti non erano per Tomman. I suoi occhi si riempirono di dolore e volse altrove lo sguardo. Le ragazze si fecero silenziose. Dopo un penoso momento, disse: «Sei bellissima». Non riuscì a dire altro, e nemmeno a trattenere le lacrime. «Tomman...». Anche lei stava piangendo, cercando di coprirsi alla meglio con le braccia. Amara ironia della sorte: si copriva davanti agli occhi del marito, quando si era messa in mostra davanti a sconosciuti che disprezzava. «Con quanti uomini sei stata?», le domandò con voce spezzata. «Ti avrebbero ucciso...». «Allora non sono abbastanza uomo per te?», disse con asprezza. Adesso non stava piangendo. Era sempre stato coraggioso, fiero. Era una delle cose che amava in lui. Sarebbe morto per risparmiarle questo. Non si era mai reso conto che l'avrebbero ucciso e che lei avrebbe fatto comunque quella fine. «Mi hanno fatto del male», disse. «Quanti?», sbraitò. «Non lo so». Una parte di lei sapeva che Tomman era come un cane pazzo di dolore che tenta di azzannare il padrone. Ma il disgusto che aveva stampato in viso era insopportabile. Lei lo disgustava. Si arrese all'insensibilità e alla disperazione. «Molti. Nove o dieci al giorno». Il volto di Tomman si distorse in una smorfia. Fece per andarsene.
«Tomman, non lasciarmi. Ti prego». Si fermò, ma senza voltarsi. Poi uscì dal rifugio. Appena la porta si richiuse, Kaldrosa si abbandonò a un pianto lamentoso. Le altre ragazze le si strinsero intorno, con i cuori di nuovo spezzati mentre rivivevano in lei il loro dolore. Pur sapendo che non sarebbero riuscite a consolarla, le rimasero vicine perché Kaldrosa non aveva altri a cui rivolgersi, proprio come tutte loro.
Capitolo 56 Momma K mise piede nel negozio dei Nile proprio mentre Kylar prendeva la spada in mano, ma era troppo tardi per fermarlo. Vi non si mosse. Rimase ferma in ginocchio, con la chioma rossa scostata di lato per lasciare il collo esposto alla lama della spada. La lama calò - e rimbalzò. L'intensità dell'impatto fece tintinnare il metallo come un campanello. La spada sgusciò dalla debole presa di Kylar. «Non ucciderete nessuno nel mio negozio», disse Drissa Nile. La voce aveva in sé una tale forza e gli occhi una tale veemenza che la corporatura minuta della donna avrebbe potuto anche essere quella di un gigante. Anche se Kylar dovette abbassare gli occhi per incontrare il suo sguardo, ne rimase intimidito. «Abbiamo eseguito una straordinaria opera di guarigione su questa donna, e non vi permetterò di comprometterla», lo minacciò Drissa. «Voi l'avete guarita?», domandò incredulo Kylar. Vi non si era ancora mossa, con lo sguardo chino sul pavimento. «Dalla coercizione», disse Momma K. «Dico bene?» «Come lo sapevate?», volle sapere Tevor. «Se nella mia città accade qualcosa, ne sono sempre informata», rispose Momma K. Si rivolse a Kylar. «Il Re Divino l'ha intrappolata con una magia che la costringeva a obbedire a ordini precisi». «Molto comodo», commentò Kylar sarcasticamente, mentre soffocava le lacrime. «Non m'interessa. Ha ucciso Jarl. Io ho asciugato il suo sangue. Io l'ho sepolto». Momma K gli posò una mano sul braccio. «Kylar, Vi e Jarl sono praticamente cresciuti insieme. Jarl la proteggeva. Erano amici, Kylar. Un'amicizia che non si dimentica facilmente. Non credo che qualcosa di diverso dalla magia possa averla spinta a fargli del male. Non è vero, Vi?». Così dicendo, Momma K le posò una mano sotto il mento e le sollevò il viso.
Le lacrime che rigavano le guance di Vi furono una muta conferma. «Cosa ti ha insegnato Durzo, Kylar?», chiese Momma K. «Un sicario è un coltello. La colpa è del coltello o della mano?» «Di entrambi, e Durzo sia dannato per le sue menzogne». C'era un coltello nella cintura di Kylar, che ne aveva già saggiato la punta. Sorella Drissa l'aveva smussata, proprio come aveva previsto. Ma la donna non sapeva delle lame che nascondeva nelle maniche. Né poteva fermare le armi naturali delle sue mani. Vi notò lo sguardo nei suoi occhi. Era un sicario, lo sapeva. Poteva estrarre un coltello e tagliarle la gola prima che Drissa battesse ciglio. Lasciare che la guaritrice tentasse di rimediare alla morte. Il senso di colpa oscurava gli occhi di Vi, un miscuglio di immagini cupe che Kylar non riusciva a decifrare. Una breve folata di figure indistinte gli attraversò gli occhi della mente. Le vittime di Vi?
Ha assassinato meno persone di te. Il pensiero lo colpì come un pugno nello stomaco. Un po' colpevole. Un po' giudice. E lo sguardo sul viso della ragazza rifletteva una totale disponibilità, oltre alle lacrime. Non c'era alcuna autocommiserazione, né rifiuto di assumersi le proprie responsabilità. I suoi occhi parlavano per lei: Ho ucciso Jarl; merito di morire. Se mi
uccidi, non ti biasimerò.
«Prima che tu decida, devi sapere che c'è dell'altro», gli disse Vi. «Tu eri il secondo obiettivo. Dopo... dopo Jarl, non sono riuscita...». «Be', questo è encomiabile», disse Momma K. «...così ho rapito Uly, per essere sicura che mi avresti seguita». «Cos'hai fatto?», sbottò Kylar. «Ho immaginato che mi avresti seguita a Cenaria. Il Re Divino ti vuole vivo. Ma Sorella Ariel ha catturato me e Uly. Quando ti
abbiamo trovato, ho creduto che fossi morto. Ho pensato di essere libera, così sono fuggita da Sorella Ariel e sono venuta qui». «Dov'è Uly?» «In viaggio verso la Cappella. Uly possiede del Talento. Diventerà una maja». Era sconvolgente e allo stesso tempo perfetto. Uly sarebbe diventata una Sorella. Avrebbero avuto cura di lei, le avrebbero offerto un'istruzione. Kylar aveva imposto Uly a Elene, che non aveva scelto di avere una figlia che, vista l'età, poteva essere più che altro sua sorella. Non era stato leale da parte di Kylar chiederle di sobbarcarsi un simile onere. In questo modo, e con la fortuna che le aveva lasciato, Elene avrebbe potuto riprendere in mano la propria vita. Niente di più logico. Non era mai riuscito a scacciare la fastidiosa sensazione di non ragionare allo stesso modo di Elene. Scoprire che il danno era stato ridotto al minimo - davvero? - lo tranquillizzò. Un lampo improvviso balenò negli occhi di Momma K al pensiero che sua figlia era in viaggio verso la Cappella, ma Kylar non seppe dire se fosse seccata che avessero preso sua figlia o compiaciuta che la bambina sarebbe di certo diventata una donna importante. Comunque, Momma K nascose prontamente le proprie emozioni. Non aveva intenzione di far sapere a degli estranei che Uly era sua figlia. Una volta conclusa questa storia, Kylar sarebbe andato alla Cappella a trovare Uly. Non era arrabbiato perché l'avevano portata via da Vi. Anzi, era loro riconoscente. E per una ragazzina dotata di Talento, non era del tutto sbagliato andare alla Cappella: era rischioso lasciare che una bambina ne venisse a conoscenza da sola. Ma se Uly non voleva rimanere e avessero cercato di trattenerla, Kylar sarebbe andato su tutte le furie. Ma il pensiero di Uly lo riportò a Elene, e il pensiero di Elene mise in subbuglio i suoi sentimenti, così alla fine domandò: «Perché sei così desiderosa di salvare Vi?». Momma K non operava mai su un unico piano.
«Perché», gli rispose, «se hai intenzione di uccidere il Re Divino, avrai bisogno dell'aiuto di Vi».
C'è una cosa da dire su Curoch: i maghi si sbagliano. Non era
sotto forma di spada per ragioni puramente simboliche. Quella figlia di puttana tagliava, eccome.
Era anche una buona cosa. I sa'ceurai erano implacabili. Venivano chiamati sa'ceurai, "signori della spada" in antico jaerano, per ottime ragioni. Tuttavia, Feir era Maestro di Spada di Secondo Grado. Il primo scontro provocò la morte di tre guerrieri ceuriani e procurò a Feir un tozzo, robusto pony. Presto, però, l'altezza e il peso di Feir si dimostrarono un inconveniente. Il pony si stancò e rallentò il passo. Nell'oscurità, Feir lo lasciò andare. Sfortunatamente, il piccolo cavallo da guerra era stato addestrato fin troppo bene: appena fu libero, si fermò ad aspettare il suo cavaliere. Feir risolse il problema fissando sotto la sella una piccola rete di magia che avrebbe infastidito l'animale con un casuale pizzicore, e l'avrebbe fatto correre per ore. Se Feir avesse avuto fortuna, i sa'ceurai avrebbero perso le sue tracce e seguito il cavallo. Ebbe fortuna. Gli fece guadagnare parecchie ore - ore a piedi. Arrivò sulla cima della montagna. Aveva tagliato un alberello prima di superare la linea degli alberi, e adesso stava lavorando il legno con Curoch. La spada aveva un filo straordinario, ma non era una pialla, né un cesello. In quel momento, aveva bisogno di entrambi, e anche di qualche altro attrezzo. Una volta Dorian gli aveva parlato di uno sport praticato dalle tribù highlander con tendenze suicide. Lo chiamavano schluss. Consisteva nel legare piccole slitte sotto i piedi e scendere a valle a incredibile velocità. Restando in piedi. Dorian sosteneva che erano in grado di sterzare, ma Feir non aveva capito in che modo. Tutto quel che sapeva, era che doveva procedere più velocemente dei Ceuriani che lo stavano inseguendo, e non aveva tempo per costruirsi una slitta nel vero senso della parola.
Quel che non riuscì a realizzare con la lama, lo fece con la magia: era un Creatore, dopo tutto. Le schegge di legno continuavano a volare mentre il sole sorgeva. Ma si era esposto stupidamente, fermo sul costone della montagna, e la sua figura risultava visibile a chilometri di distanza. I sa'ceurai lo videro prima che fosse lui a vederli. Erano smontati da cavallo e avanzavano nella neve con grosse racchette di bambù intrecciato legate sotto i piedi. L'andatura che dovevano assumere per non inciampare era comica - finché Feir non realizzò con quanta velocità si stessero muovendo. In pochi minuti avrebbero coperto lo stesso tratto che Feir aveva percorso in mezz'ora, arrancando in mezzo alla neve. Accelerò il ritmo di lavoro. Si era quasi dimenticato di piegare verso l'alto la punta di ogni piccola e stretta slitta. Scosse la testa. Si era accorto dell'errore commesso, ma cos'altro poteva essergli sfuggito? Non aveva il tempo per fabbricare dei ganci veri e propri, così intrecciò una rete di magia intorno alle scarpe e ai piedi e li fissò direttamente alle assi di legno. Si alzò in piedi... ...e subito s'impuntò nella neve e cadde faccia avanti.
Dannazione, perché livellare i bordi? Avrebbe dovuto lasciarli
curvi coma la carena di una barca.
Rialzarsi in piedi fu vergognosamente difficile. Feir imprecò, mentre i Ceuriani guadagnavano terreno. Era un Maestro di Spada di Secondo Grado - ed era così impacciato? Era pura follia. Avrebbe dovuto semplicemente correre giù per la montagna. Si rigirò sul sedere e fece leva sulle assi per accovacciarsi. Si alzò e azzardò un altro passo. Gli schluss, da lui spianati e levigati, si comportarono esattamente come previsto: scivolarono avanti e indietro, ma Feir non avanzava di un metro. Lanciò un'occhiata oltre la spalla. I sa'ceurai erano solo a un centinaio di passi dietro di lui. Se avesse dovuto lottare, gli schluss sarebbero stati la sua rovina. Inciampò, s'impuntò nella neve, sollevò un piede di lato per non perdere l'equilibrio. Barcollò - e scivolò in avanti.
La gioia fu grande come quella provata quando era stato nominato Creatore nella Fratellanza. Indirizzò le punte in fuori e spinse ancora. Funzionò finché raggiunse il bordo del costone, poi cominciò a discendere lungo il pendio senza avere il tempo di controllare i piedi. Ogni schluss prese la direzione che gli aveva impresso: in fuori. Le gambe si stiracchiarono fino all'impossibile, e Feir rovinò in avanti. La montagna era scoscesa e la neve misericordiosamente alta. Continuò a scivolare nella neve farinosa, respirando a fatica. Era vagamente consapevole di dover puntare gli schluss in direzione della valle. Dopo sei o sette giravolte, accadde. Di colpo Feir schizzò fuori dalla onnipresente neve. Il manto era profondo quasi un metro, ma Feir volava in superficie. Il cuore gli rombava nel petto. Era diretto a fondo valle a velocità supersonica. In pochi secondi stava correndo più veloce del cavallo più veloce, e poi ancora più veloce, e ancora. Gestire i due schluss indipendentemente l'uno dall'altro era quasi impossibile, così si affrettò a legarli insieme con la magia, sia davanti che dietro, lasciando a ognuno un lieve margine d'azione. Ci furono altre cadute rovinose, e la neve non si mostrò sempre così clemente. Alla fine, Feir imparò a sterzare. Riuscì a evitare un masso mortale e per la prima volta guardò verso la valle, strizzando gli occhi contro il candore abbagliante. Sbatté le palpebre. Cos'è
quella linea nella neve?
Sfrecciò sopra il precipizio. Per due secondi, non ci furono schluss sulla neve. Il mondo sprofondò nel silenzio, rotto solo dal vento che sibilava nelle orecchie. Poi atterrò. Si precipitò attraverso un universo ricoperto da un manto bianco e farinoso, rotolando con le braccia e le gambe tirate in ogni direzione. Poi il miracolo si ripeté e schizzò fuori dalla neve per volare ancora una volta a fondo valle. Il cuore continuava a battere all'impazzata. Scoppiò a ridere.
Aveva Curoch. Era salvo. I Ceuriani non lo avrebbero inseguito giù per la montagna, altrimenti sarebbero entrati a Cenaria. L'aveva scampata! «Incredibile», disse Lantano Garuwashi. Era un uomo massiccio per essere un Ceuriano. Aveva una chioma fitta e lunga di capelli rossi, legati a dozzine di sottili ciocche di diversi colori. A Ceura, dicevano che potevi leggere la vita di un uomo nei suoi capelli. Nella cerimonia di iniziazione di un ragazzo del clan, la testa veniva completamente rasata, a eccezione di un ciuffo di capelli sulla fronte. Quando il ciuffo raggiungeva la lunghezza di tre dita, veniva legato con un sottile anello e il ragazzo era dichiarato uomo. Quando uccideva il suo primo guerriero, il ciuffo veniva legato di nuovo allo scalpo e diventava sa'ceurai. Più breve era la distanza fra i due anelli, meglio era. In seguito, quando un sa'ceurai uccideva un nemico, legava una ciocca dell'uomo ai propri capelli. Sulle prime, alcuni guerrieri avevano creduto che Lantano avesse un solo anello, perché i primi due erano praticamente sovrapposti. Aveva eliminato il suo primo avversario a tredici anni. Nei diciassette anni successivi, aveva aggiunto cinquantanove ciuffi alla sua capigliatura. Se avesse avuto più nobili origini, tutta Ceura l'avrebbe seguito. Ma l'anima di un sa'ceurai era la sua spada, e niente poteva cambiare il fatto che Lantano era nato con una spada di ferro, una spada da contadino. Lantano era un signore della guerra perché la tradizione ceuriana consentiva a qualsiasi uomo di pregio di guidare gli eserciti, ma per lui era diventata una trappola. Non appena aveva smesso di combattere, il suo potere era finito. Aveva cominciato a battersi per il reggente di Ceura, Hideo Watanabe. Poi, quando il reggente gli aveva ordinato di congedarsi, era diventato un mercenario. Uomini disperati si radunavano sotto i suoi vessilli per un'unica ragione: non era mai stato battuto. Il gigante stava diventando un punto lontano. «Maestro di Guerra, volete che lo seguiamo?», domandò un pezzo d'uomo con una ventina di ciocche legate fra i capelli radi. «Faremo un tentativo alle grotte», disse Lantano. «Dentro Cenaria?»
«Solo un centinaio di sa'ceurai. Sarà un inverno freddo. Uccidere quel gigante ci offrirà un motivo per scaldarci».
Capitolo 57 Momma K voleva che Agon e la sua armata portassero Logan al campo dei ribelli. Se doveva essere re, aveva bisogno di un esercito. Kylar si rifiutò di lasciare l'amico, almeno finché Logan non avesse ripreso i sensi. Quando Kylar svenne, Agon chiese a Momma K se dovevano caricare Logan sul carro. Momma K imprecò e protestò, ma disse di no. Non chiesero mai l'opinione di Vi. La ragazza ne fu contenta. Voleva fare ammenda delle proprie azioni, ma non voleva pensare. Persino mentre sedeva insieme a Kylar, Momma K e Agon, una parte di lei la spronava a ucciderli. Il Re Divino ricompensava quanti lo servivano bene. In un minuto, avrebbe potuto eliminare tutte le maggiori minacce che insidiavano il governo del Re Divino. Non seguì quel pensiero. Era stata giudicata innocente. Aveva ammesso tutte le sue colpe. Quasi tutte. Solo più tardi si era resa conto che forse il danno maggiore causato a Kylar derivava da un gesto apparso a suo tempo insignificante, dettato dalla noncuranza. Si era messa in tasca il biglietto e il paio di orecchini che Kylar aveva lasciato a Elene. Solo quel giorno aveva appreso che si trattava di anelli di nozze. Drissa e Tevor avevano spiegato quell'usanza per filo e per segno. Portandosi via gli anelli e il biglietto, aveva lasciato Elene a mani vuote. Non aveva avuto abbastanza fegato per dirlo a Kylar, eh? Era la cruda verità. Poteva accettare il fatto che il giovane la uccidesse, ma non sapeva cosa fare se l'avesse disprezzata. Se l'avesse conosciuta per quella che era, l'avrebbe disprezzata. E non c'era modo che l'amore potesse trionfare.
Amore? Ma cosa sto pensando? Limitati a lottare e a scopare, Vi. Lì te la cavi bene. La porta di una camera per i pazienti si apri e ne usci Kylar. Logan venne fuori da un'altra.
Per la prima volta, Vi vide Kylar sorridere. Le fece uno strano effetto - e non stava nemmeno guardando lei. «Vostra Maestà», disse Kylar con un profondo inchino. «Amico mio», disse Logan. Era penosamente magro, con la pelle tirata sulle ossa. Nonostante ciò, emanava un'incoraggiante aura di salute. Di nuovo in abiti sontuosi, aveva un bell'aspetto nonostante il calvario appena vissuto. Si affrettò a coprire la distanza che lo separava dall'amico e lo abbracciò. «Mi spiace», disse Kylar. «Quella sera sono arrivato troppo tardi. Ho visto il sangue e ho pensato... Mi dispiace così tanto». Logan lo strinse in silenzio, respirando a fatica finché le emozioni non si placarono. Alla fine, fece un passo indietro e posò le mani sulle spalle di Kylar. «Hai agito così bene, amico mio. Sono io a dovermi scusare. Mi dispiace di aver dubitato di te. Un giorno, molto presto, dovremo parlare. Tu... hai fatto alcune cose laggiù...». Logan si guardò intorno, consapevole della presenza degli altri. «Che mi hanno davvero incuriosito. E credo che ci siano dei vuoti nella mia memoria, perché non ricordo come ho fatto a procurarmi questo». Tirò su la manica e Vi e Momma K restarono senza fiato. Impresso nel suo braccio c'era una sorta di ardente tatuaggio verde argenteo. Logan non lo mostrò interamente, ma Vi notò che le linee erano stilizzate e astratte, non casuali. «Vostra Maestà», disse Drissa Nile. «Io sarei... molto cauta nel mostrarlo». «Mi spiace sollecitarvi», disse Momma K, «ma dobbiamo prendere alcune decisioni». «Intendete dire che io devo prendere alcune decisioni», replicò Logan in tono stranamente divertito. «Sì, Vostra Maestà. Perdonatemi». Logan si rivolse prima a Kylar. «Tu ci hai reso un servizio più grande di quanto potessimo esigere o sperare. Non intendo darti ordini, ma riteniamo necessità estrema per...». Il suo sguardo divenne assente e la frase rimase in sospeso.
«Sire?», lo richiamò Kylar. Logan tornò subito alla realtà. «Strano. Per mesi ho imprecato insieme ai peggiori ospiti del Buco, e ora eccomi di nuovo a "ritenere" e a giudicare cosa sia "necessità estrema"». Scosse la testa e sorrise mestamente. «Kylar, si tratta di questo. Se uccidi il Re Divino prima che i nostri eserciti si scontrino, potremmo evitare completamente una battaglia. Ti sto chiedendo di farlo, ma non è un ordine. Tu hai già compiuto enormi sacrifici per salvarmi. E so che non ti fidi di questa donna, ma se può esserti d'aiuto, approfittane. La sua rinuncia quando avrebbe potuto ucciderci è per me una prova sufficiente delle sue buone intenzioni. Vi è un'arma quanto lo sei tu, e non posso lasciare che qualche arma del mio piccolo arsenale rimanga inutilizzata». «Pensate che sia la cosa giusta da fare?», chiese Kylar. Logan gli rivolse un'occhiata carica di significato. «Sì». «Allora sia», disse Kylar. «Cosa intendete fare?» «Intendo richiedere il mio esercito a Terah Graesin. E poi intendo riprendermi il mio paese». «Non sarà così semplice», commentò Momma K. «Non lo è mai», disse Logan con un vago, debole sorriso.
Capitolo 58 Elene si svegliò con un mal di testa lancinante. Non riusciva a muovere le braccia o le gambe; se ci provava, sentiva mani e piedi formicolare. Aprendo gli occhi, vide altri tre prigionieri, legati mani e piedi come lei. Un'altra corda li teneva uniti fra loro. Erano distesi al buio, le loro sagome illuminate soltanto dalla luce tremolante del falò dei Khalidoriani. Elene era vicina ai sei Khalidoriani, che stavano ridendo e bevendo, all'ascolto di parole che comprendeva e di quel che immaginava fosse khalidoriano. Non osava muoversi troppo per non metterli in allarme, così tutto quel che riusciva a vedere era il giovane che l'aveva catturata. Dalla loro conversazione, intuì che si chiamava Ghorran. Gli altri lo schernivano perché permetteva alle donne di farlo soffrire. Per un momento, la gravità della situazione minacciò di sopraffare Elene. Kylar non sapeva che lei era lì. Nessuno sapeva che era lì. Nessuno sarebbe venuto a salvarla. Quegli uomini avrebbero potuto fare di lei quel che volevano, e non c'era niente che lei potesse fare per fermarli. Una morsa di terrore le serrò il petto, impedendole di pensare, togliendole il respiro. Poi cominciò a pregare, ricordando a se stessa che Dio sapeva che era lì. Per il suo Dio, salvarla era una cosa da niente. Alla fine, si calmò. Diversi soldati erano già andati a dormire, lasciando Ghorran, e qualcuno che Elene non riusciva a vedere, a chiacchierare sottovoce. «Non penso che Vürdmeister Dada abbia mai detto a Sua Santità cosa stiamo facendo», disse Ghorran. «C'è una ragione se Black Barrow è terreno proibito. Se Sua Santità lo scopre, cosa ci succederà?» «Neph Dada è un uomo importante, e molto zelante nel servire Khali. Se lui la serve, e Sua Santità no, da quale parte preferiresti stare?», domandò l'altro. «Ho sentito che vuole costruire un Titano, ti riferivi a questo?».
L'altro soldato soffocò una risata. «Il Vürdmeister vuole fare cento cose. Certo che vuole un Titano, ma non è per questo che gli servono giovani donne vergini, no?»
«Khalivos ras en me», recitò Ghorran pieno di riverente timore.
«"Khali vieni, dimora in me"». «Proprio così». «È possibile?»
«Il Vürdmeister pensa di sì». Ghorran imprecò sottovoce. «È il ragazzo, allora? A cosa serve?» «Mmm, niente di importante. Lo uccideranno per vedere cosa possono ricavare dal suo corpo. I Meister vogliono cadaveri freschi». Elene aveva sentito parlare di Black Barrow; era un vecchio campo di battaglia desolato. Dicevano che non vi cresceva alcuna vegetazione. Ma Elene non capì il resto della conversazione, tranne che Vürdmeister Dada aveva in mente per lei un destino peggiore della schiavitù. Posò la testa sul terreno e vide che il prigioniero accanto a lei era sveglio. Era solo un ragazzo. Ed era terrorizzato.
Capitolo 59 Quel giorno Momma K aveva salvato la vita a Logan. La sua piccola armata, formata dal lord generale Agon, Momma K e i Cani di Agon stava attraversando a cavallo l'accampamento ribelle fra grida di giubilo. Sarebbe andato tutto in modo molto diverso se Momma K non avesse diffuso la voce che Logan stava tornando dopo aver trionfato sugli orrori delle Fauci. Se quella voce non li avesse preceduti, la banda sarebbe stata accolta come un'armata sconosciuta, e Terah Graesin avrebbe potuto far uccidere Logan. Senza dubbio, molte lacrime sarebbero state versate sull'errore compiuto. Il vecchio, ingenuo Logan non avrebbe mai creduto che Terah Graesin fosse capace di tanto. Il Logan sopravvissuto al Buco la pensava diversamente. Era cambiato, più pacato, più riflessivo. Sapeva fin troppo bene di cosa era capace la gente quando si sentiva minacciata. E Terah Graesin doveva vedere Logan come una minaccia. Negli ultimi tre mesi aveva radunato sostenitori. Era sopravvissuta a tentati assassinii e perduto membri della famiglia. Aveva messo insieme un esercito e lo aveva condotto alla vigilia di una battaglia. Tutto per essere regina. La comparsa di Logan minacciava di far implodere ogni sua ambizione proprio quando il suo trionfo era prossimo. La sua legittimità era incontestabile: proveniva dalla famiglia più importante della nazione, era stato proclamato l'erede dei Gunder, e aveva sposato una Gunder. Numerose famiglie avevano giurato fedeltà a Terah Graesin solo perché avevano ritenuto di essere ormai libere dai giuramenti prestati ai Gyre. In un altro momento qualsiasi, Logan sarebbe andato a Havermere e avrebbe inviato missive a tutte le famiglie del regno, compresi i Graesin. Avrebbe dato a Terah l'opportunità di vedere la
sua coalizione sfasciarsi, e poi le avrebbe offerto una posizione adeguata. Ma questo non era un momento qualsiasi. L'armata ribelle era radunata a solo un chilometro da quella del Re Divino. I Cenariani erano il doppio dei Khalidoriani, che avevano a loro disposizione Meister e Vürdmeister, ma si prospettava ancora come una vittoria sicura. Per Logan, Agon e Momma K, si profilava un'imminente carneficina dei Cenariani. E così eccolo lì, che cavalcava alla testa della sua minuscola armata di cento uomini, nel cuore dell'accampamento ribelle. Era una fortuna che fosse una giornata nuvolosa, perché dopo tre mesi passati nel Buco, i suoi occhi non sopportavano ancora la luce diurna. E socchiuderli non gli avrebbe di certo conferito un aspetto regale. Si stavano avvicinando al gruppo delle tende mobiliari, quando un drappello di dodici cavalieri puntò nella loro direzione. Era guidato da un ufficiale che portava un arco lungo alitaeriano senza corda, a mo' di bastone. Logan e la sua armata si fermarono. «Dichiaratevi», disse il sergente Gamble. «Questo», annunciò Agon con voce abbastanza forte perché sentissero sia il sergente che gli spettatori, «è re Logan Gyre, per legge e tradizione erede al trono e adesso re della nostra grande terra. Il re è morto, lunga vita al re». Era una dichiarazione di guerra, e nel giro di pochi minuti la voce si sarebbe diffusa come un incendio nell'accampamento. Momma K aveva preavvertito il castaldo di Logan, e gli uomini d'arme dei Gyre erano già posizionati nei pressi dei padiglioni dei nobili, pronti ad acclamare il loro re. «La regina vi riceverà subito, mio signore», disse il sergente Gamble. Logan smontò da cavallo davanti alla tenda di Terah Graesin. Quando Momma K e Agon Brant fecero per seguirlo, le guardie li bloccarono. «Solo voi, signore», disse uno degli uomini.
Logan lo fissò, senza dire niente. Per un momento, lasciò che la belva dentro di lui si risvegliasse. Non era sopravvissuto all'inferno per farsi fermare da una guardia. La determinazione divenne rabbia. La guardia indietreggiò, deglutendo a fatica. «Mio signore», protestò con poca convinzione, «soltanto i nobili sono...». Sotto lo sguardo implacabile di Logan, le parole gli morirono in gola. Momma K e Agon lo seguirono dentro la tenda. Il padiglione della regina era immenso. Tavoli, mappe e nobili erano disseminati ovunque all'interno della tenda. Alcuni uomini avevano un aspetto decisamente comico, con la loro pinguedine compressa dentro un'armatura che non indossavano da venti anni. Pedine bianche e nere riempivano due ciotole su uno dei tavoli: Per gli dèi, stanno votando il loro piano di battaglia. A fianco di Momma K, Brant Agon soffocò un'espressione di sdegno. Momma K si stava guardando rapidamente intorno, calcolando il numero di alleati, potenziali alleati e nemici dichiarati. Sapeva che avrebbe consegnato la corona a Logan se le avesse concesso due settimane per usare il suo singolare senso della verità. Con un solo giorno a disposizione prima di una grande battaglia contro l'unico nemico comune, le probabilità cambiavano radicalmente. La sua unica speranza era che qualcuno, sacrificabile allo scopo, avesse attaccato lei o Logan o Brant Agon per primo. Così avrebbe potuto rovinarlo e renderlo un avversario implacabile che non avrebbe danneggiato troppo Logan. «Guarda, guarda, Logan Gyre, come sei caduto in basso», disse Terah Graesin emergendo da dietro un gruppo di nobili più alti, e incedendo con fare provocante sui tappeti preziosi. «Chi si sarebbe mai aspettato di vederti comparire in compagnia di prostitute e uomini finiti? Oppure dovrei dire storpi e puttane?». I nobili ridacchiarono. «Contate di entrare nel giro?», la provocò Momma K. Non si sarebbe sentita volare una piuma nel silenzio che calò di colpo. A Momma K non gliene poteva fregare di meno di averli
scioccati. Terah Graesin aveva accolto Logan sfoderando gli artigli. E non era un buon segno. Un giovane si fece largo nella folla dei presenti. «Se parlerete ancora in quel modo, vi ucciderò con le mie mani», disse Luc Graesin. Era il fratello di Terah: diciassette anni, di bell'aspetto e un perfetto idiota.
Oh, Luc, tu non hai idea. Conosco il tuo segreto. Potrei distruggerti in questo momento. Solo che non poteva. Qui e ora, nessuno avrebbe creduto a verità brutali comunicate senza alcun preavviso. Terah Graesin avrebbe solo puntato i piedi. «Perdonatemi», disse Momma K. «Negli ultimi tempi i titoli passano di mano in mano così in fretta che ho dimenticato che mi stavo rivolgendo a una duchessa». «Regina!», precisò Luc. «La vostra regina!». Momma K lo guardò perplessa, come se il giovane stesse cercando di infinocchiarla. Un piccolo promemoria per ricordare a tutti fin dove e con quanta fretta Terah Graesin stava tentando la sua scalata. «Ma qui è presente il legittimo sovrano», rimarcò Momma K. «Designato erede da re Gunder IX e accettato per acclamazione generale. L'uomo a cui avete già giurato fedeltà». Ma sapeva che era una partita già persa in partenza. E l'espressione di disprezzo e di puro odio che apparve sul volto di Terah gliene diede conferma. «Può bastare, Gwinvere». La donna rispose con un sorriso acquiescente. Fece un passo indietro, il capo chino, di colpo remissiva. «Mi è permesso ricordare a tutti voi», disse una voce vicino alle mappe, «che domani affronteremo il Re Divino e i suoi maghi?». Era il conte Drake, l'eterno pacificatore. «Non ce n'è bisogno», disse Terah Graesin. «Abbiamo il nostro esercito, abbiamo il nostro campo di battaglia, abbiamo la superiorità numerica, e fra pochi istanti avremo il nostro piano di battaglia». «No», disse Agon. «Prego?», chiese Terah, indignata.
«Avete l'esercito di Sua Maestà», precisò Agon. «Signori miei, molti di voi erano presenti al banchetto prima del colpo di stato. Garret Urwer, vostro padre è morto al mio fianco, nella torre nord. E così vostro zio, Bran Braeton. Sono morti nel tentativo di salvare il nostro re, Logan Gyre. Voi c'eravate...». «Basta!», sbottò Terah Graesin. «Sappiamo cosa ha detto quel re pazzo». Così il re non era in sé quando aveva proclamato Logan suo erede. Era una perfetta linea d'attacco, ma non sufficientemente valida. Se avesse avuto l'opportunità, Momma K avrebbe ricordato a tutti il momento scelto per realizzare il colpo di stato, l'irrilevanza della sanità mentale del re ai fini della legittimità dei suoi decreti, e il matrimonio di Logan e Jenine. Se avesse avuto l'opportunità, Momma K avrebbe messo sotto pressione Terah su tutti i fronti, finché non avesse rinunciato alle proprie rivendicazioni. Adesso tutto questo era irrilevante. Doveva semplicemente attendere l'inevitabile. «Milady», intervenne il duca Havrin Wesseros, «stanno solo dicendo quel che direbbero in ogni umile stanza e in ogni sala del regno, se ci fosse il tempo. Mi sembra che ormai tutti abbiamo decisioni da prendere, e poco tempo per elaborarle». «Non ascolterò le loro menzogne», sibilò Terah. «Non capite?», insistette il duca Wesseros. «Se non volete ascoltarli fino in fondo, Logan se ne andrà, e non se ne andrà da solo. Porterà con sé metà dell'esercito, forse di più. Qualcuno riesce a immaginare un attacco ai Khalidoriani con metà esercito?».
Ci sei andato vicino. Ma ti sei sbagliato sulla persona che se ne andrà. Parlò Agon: «Come avete detto, quando morì, il re era pazzo. Il Sa'kagé lo avvelenò durante il banchetto». «Avvelenato? Voi lo avete assassinato, Brant!», urlò Garret Urwer. «Sì, l'ho ucciso», ammise Agon. «E non giustificherò il mio gesto adesso. Quel che conta è che Khalidor voleva eliminare la famiglia reale proprio per provocare questo. Volevano dividere ogni resistenza sul nascere. Re Gunder l'aveva previsto, ed ecco perché non la notte del colpo, quando fu avvelenato, ma prima, durante il
giorno - unì in matrimonio Logan e Jenine. Molti di voi hanno giurato fedeltà a lady Graesin. Ma la vostra fedeltà era già promessa a Logan Gyre. Quindi, siete liberati dal vostro giuramento». «Io non libero nessuno di voi!», gridò Terah Graesin con voce stridula. Scoppiò un pandemonio. I nobili si lanciarono accuse, radunandosi in piccoli gruppi per parlare con i propri consiglieri e i nobili più vicini, alcuni esprimendosi a favore di Terah Graesin, altri a favore di Logan. Logan seguì la scena, impassibile. Non si poteva evitare. «Calma», disse il duca Wesseros. Assomigliava molto a sua sorella Nalia, l'ultima regina. Durante il colpo di stato, non era in città ma nella Cenaria orientale, a ispezionare alcune terre di cui si erano impossessati i Lae'knaught. Alzò le mani, e a poco a poco i nobili si placarono. «Il tempo incalza, e un esercito ci attende», disse il duca. «Schieratevi con l'uomo o la donna che dovrebbe governarci». «Perché non votate con le pedine, invece, la persona che volete realmente al comando?», suggerì Momma K. Poi imprecò tra sé e sé. Avrebbe dovuto lasciare che fosse uno dei nobili a proporlo, ma l'intervento di Wesseros era stato così inaspettato che Momma K non ne aveva avuto la possibilità. Tutte quelle chiacchiere non sarebbero servite a nulla se non avessero votato in segreto. «Domani dovremo schierarci sul campo di battaglia. Credo che oggi troveremo il coraggio di schierarci in una tenda», disse Terah Graesin. In gamba, la strega. Calò di nuovo il silenzio, e i presenti cominciarono a spostarsi. Momma K era stata estremamente precisa nel calcolare dove ognuno si sarebbe schierato. Per la maggior parte, i nobili minori sembravano propensi a seguire Logan, ma non osavano sfidare i loro lord, ed era questo il motivo per cui Momma K aveva chiesto il voto segreto. Terah aveva corrotto i più potenti. A conti fatti, si formarono tre gruppi: a favore di Logan, a favore di Terah, e gli indecisi.
«Come sospettavo», commentò il duca Wesseros, alla guida del gruppo degli indecisi. «La retorica non è servita a nulla. Dopo l'uccisione dei Gunder, soltanto tre grandi famiglie sono rimaste nel nostro paese, ed eccole qui. Credo che si possa trovare un compromesso, una via di mezzo. Logan Gyre, Terah Graesin, ora che il destino di tutti i vostri connazionali è in gioco, volete mettere da parte le vostre egoistiche ambizioni?». Che buffone. Che idiota. Che pallone gonfiato. Credeva di avere trovato una soluzione brillante. Se il duca non avesse capitanato il terzo schieramento, Logan avrebbe ottenuto la maggioranza. Avrebbero avuto ancora una possibilità. «Cosa intendete dire?», chiese Terah. Logan aveva già capito. Momma K lo lesse sul suo volto impassibile. «Questa notte, alla vigilia della battaglia che deciderà il futuro della nostra terra, volete dividere le vostre forze o riunirle? Logan, Terah, volete unirvi in matrimonio questa sera?». Terah si guardò rapidamente intorno, valutando chi fosse ancora dalla sua parte. Il numero dei sostenitori andava calando. Indugiò sullo sguardo fiero di quanti si erano schierati con Logan, poi sull'espressione sottomessa dei seguaci del duca. Infine, guardò Logan. Non fu lo sguardo che una donna rivolge al proprio pretendente. Fu una dimostrazione di debolezza. «Per il paese che amo, sì», dichiarò Terah Graesin. «Logan?» «Sì», rispose senza tradire alcuna emozione. Che gli dèi lo aiutino.
Capitolo 60 Avevano innalzato una piattaforma
perché l'intero esercito potesse assistere al matrimonio. I soldati avevano già abbandonato i falò e si erano radunati sul posto, e i loro ufficiali li stavano schierando in vista della cerimonia mentre la luna saliva nel cielo. Oltre all'esercito, diverse migliaia di comuni cittadini e di persone al seguito si erano affollate intorno al palco. «Logan», disse il conte Drake chiudendo il lembo della piccola tenda dove il giovane si stava preparando. «Non potete farlo». Per un lungo momento, Logan non rispose. Quando parlò, lo fece con voce aspra e grave. «Cos'altro posso fare?» «L'Unico Dio dice che ci offrirà una via di scampo da ogni tentazione». «Non credo nel vostro dio, Drake». «La verità non dipende dalla vostra in essa». Logan scosse adagio la testa, come un orso macilento che riemerge dopo mesi di letargo. «Sposare Terah Graesin non è una tentazione. Mio padre ha sposato una donna splendida e maligna, e ho visto cosa è stata capace di fargli». «Una lezione che fareste bene a tenere a mente. La differenza è che vostra madre non era affatto capace di arrecare una simile rovina». Un lampo ravvivò lo sguardo di Logan: l'orso cominciava a sollevare lentamente la testa per torreggiare su tutti gli altri. «Se c'è una via d'uscita che non ci distrugga tutti, ditemela! Non voglio sposare...». «Non ho detto che la tentazione sia il matrimonio». «Cosa, allora?» «Il potere», rispose il conte Drake, battendo a terra la punta del bastone.
«Maledizione, amico! O sposo lei o condanno tutti noi. Credete che non abbia cercato un modo per convincere la maggioranza a seguirmi? L'ho fatto! Avrei potuto portarne con me forse un terzo. Significava lasciare un altro terzo a morire. Volete che chieda a migliaia di uomini di morire perché io possa sottrarmi a un cattivo matrimonio?» «No, Logan». Il conte Drake si appoggiò al bastone. Sembrava che cercasse il suo sostegno. «La mia domanda è: sarete il re che dovete essere con una simile regina al vostro fianco? Oggi Terah Graesin è stata colta alla sprovvista. L'avete colta in un momento di debolezza. Non accadrà un'altra volta». «Bene, grazie per avermi illustrato lo squallore del mio futuro», disse Logan. «Ma se non sapete aiutarmi a trovare una via d'uscita, aiutatemi a vestirmi». «Mio re», riprese il conte, «a volte non è arrampicarsi il modo migliore per uscire da un buco». «Andatevene», lo liquidò Logan. Il conte Drake s'inchinò e uscì con aria mesta. Logan sollevò la corona e se la mise in testa. Momma K gli aveva fatto sapere che gli conferiva un aspetto regale. Lo avevano sbarbato, gli avevano tagliato i capelli, unto il corpo con oli profumati e lo avevano adornato con pellicce. Indossava una raffinata tunica grigio scuro e un mantello con decorazione di sciamito bianco. Aveva raggiunto l'età della maturità subito prima del colpo, ma aveva dimenticato di scegliere il proprio sigillo. Adesso vide che Momma K ne aveva scelto uno per lui. Incorporava il girifalco bianco dei Gyre su campo nero, ma il falcone aveva catene spezzate intorno alle zampe, e il fondo era un cerchio nero che ricordava il Buco. Il girifalco aveva le ali aperte. Era un sigillo di tutto rispetto. Suo padre ne sarebbe stato orgoglioso.
Cosa faresti al posto mio, padre? Da giovane, suo padre si era
sposato per salvare la famiglia. Con il senno del poi, l'avrebbe fatto di nuovo? Il lembo della tenda si sollevò lasciando entrare Momma K. La donna lo guardò con leggera ma sincera compassione. Non riusciva
a comprendere. Non aveva mai amato come Logan. Per lei, non era che la scelta più ovvia. Sposare Terah, e risolvere il problema in seguito. Al posto suo, Momma K avrebbe tramato e manovrato fino a far uccidere Terah, se fosse stato necessario. «È ora», gli disse. «Il sigillo è perfetto», disse Logan. «Grazie». «Avete notato le ali?», gli chiese. «La punta delle ali si estende oltre il cerchio, Vostra Maestà. Il girifalco volerà sempre libero». Insieme, salirono sul palco. Era circolare, più o meno delle dimensioni del Buco. Il cerchio voleva simboleggiare la natura perfetta, eterna, indistruttibile del matrimonio. Appena Logan salì, con migliaia di occhi puntati su di lui, per posizionarsi al centro del palco, là dove si apriva il baratro verso la morte, provò una stretta al cuore. Fu sopraffatto da un senso di nausea, di claustrofobia. Ricordò quando si allungava al di sopra del Buco, per arrivare più in alto degli altri. E per cosa? Per un pezzo di pane inzuppato di piscia che non avrebbe dato nemmeno a un animale. La musica cominciò a suonare e il suo pane inzuppato di piscia salì con grazia sulla piattaforma. Una parte di Logan la guardò con voracità, proprio come aveva guardato il pane nel Buco. Negli ultimi tre mesi, si era sentito così fiacco, affamato, concentrato sulla pura sopravvivenza che non aveva quasi pensato al sesso. Prima del Buco, sembrava non avesse pensato ad altro. Adesso che ne era uscito e aveva recuperato le forze, il vecchio Logan stava riaffiorando. Terah Graesin era alta e snella, le sue curve quasi adolescenziali, ma il sorriso era quello di una donna. Si muoveva come chi sapeva cosa piaceva agli uomini, e sapeva anche di possederlo. La parte avida e affamata di Logan voleva scoparla. Anche il pane inzuppato di piscia aveva un'aria così allettante, prima di assaggiarlo. Ma almeno ti saziava; non importava cosa ne pensavi dopo. Almeno avrebbe fatto sesso. Per tutti gli dèi; a ventuno anni, era ancora vergine, cazzo! L'ironia del pensiero gli strappò un crudele sorriso. Terah lo notò e glielo restituì. Aveva un aspetto favoloso. I capelli erano tirati su in
un - be', qualcosa di elaborato. Logan si domandò quanti sarti avessero imprecato nelle ultime due ore mentre trasformavano uno dei suoi vestiti in abito da sposa. Era del tradizionale colore verde della fertilità e della nuova vita, tagliato per fasciare il suo corpo snello, riccamente ornato lungo la schiena e con un lungo spacco che rivelava le gambe, di certo non tradizionale ma comunque molto gradito. L'abito era completato da un velo elegante a simboleggiare la castità, che si abbinava perfettamente al vestito, ma non certo alla donna che lo indossava.
Bene, farò tutto il sesso che voglio, se la sua reputazione e meritata. Il pensiero gli invase lo stomaco come urina calda. No, meglio non pensare alla sua reputazione.
Comunque Logan la pensasse, Terah Graesin era riuscita in quel che a lui era parso impossibile. Era sensuale e regale allo stesso tempo - per lei era tutta una questione di potere, che provenisse dal suo status, dalla sua personalità o dal suo corpo. Erano tutti strumenti per imporre la sua volontà. Potere. Il conte Drake diceva che la tentazione era il potere. Terah si fermò accanto a lui e gli prese timidamente la mano. Il pubblico applaudì. Proprio come Jenine Gunder aveva preso la sua mano quando suo padre aveva annunciato il loro matrimonio. Logan deglutì la sua nausea crescente. Per Jenine, era stato un gesto spontaneo. Terah era stata presente a quel banchetto. Aveva visto cosa aveva fatto Jenine e come i presenti avevano approvato. Stava imitando Jenine, volutamente. «Rilassati», gli disse Terah. «Fra cinque minuti avrai tutto quel che hai sempre desiderato».
Sei una stupida a crederlo, Terah. Logan si dipinse un sorriso in
faccia e impose al proprio corpo di rilassarsi. No, non era quel che avrebbe scelto, ma sarebbe stato in grado di cambiare ogni cosa. Poteva sconfiggere re Ursuul. Poteva estirpare il Sa'kagé. Poteva abolire le leggi inadeguate. Poteva... Ecco. Ecco a cosa si riferiva il conte Drake. Era quella la tentazione del potere. Aveva tradotto la sua ambizione in intenzione. Non è per me, si era detto, è per il popolo. Ma non era del tutto vero, no?
Gli era piaciuto ordinare la morte di Gorkhy; gli era piaciuto congedare il conte: Logan apriva bocca e le cose accadevano. La gente obbediva. Era stato così a lungo impotente nell'inferno del Buco che l'idea di non essere più soggetto a nessuno era come miele sulla sua lingua.
D'accordo, conte Drake, ho capito. Ma dov'è la via d'uscita? Era troppo tardi. Da un lato si ergeva un ecatonarca con il suo sontuoso mantello - cento colori per cento dèi. Dall'altro, un uomo con una semplice tonaca marrone, un sacerdote dell'Unico Dio. Il duca Wesseros prese posto fra i due. Terah si era adoperata perché il loro matrimonio fosse celebrato nelle tre forme. Le grida di giubilo salirono in crescendo, mentre quindicimila persone erano ormai rauche a furia di acclamare alla coppia che credevano le avrebbe salvate. «Posso parlare al popolo?», domandò Logan. «Assolutamente no», rispose Terah. «Che manovra è questa?» «Non è una manovra. Voglio solo rivolgermi a chi verserà il proprio sangue e morirà per noi. Non ho ancora avuto la possibilità di farlo». «Vuoi istigarli contro di me», insinuò Terah. «Cosa ne dite», propose il duca Wesseros, «se Logan giura di non dire niente di negativo su di voi? E se lo fa, interverrò io e lo fermerò? Vi soddisfa, mio signore?» « Sì ». «Milady?», la sollecitò Wesseros. «È il loro re». «Va bene, ma in fretta». «Logan, cinque minuti», disse il duca Wesseros. Poi si avvicinò e gli disse, abbassando la voce: «E possa lo spirito di Timaeus Rindder ispirarvi». Fu una fortuita espressione di supporto. Timaeus Rindder era stato un oratore di tale perizia da trasformare una corsa di bighe in un colpo di stato, sebbene gli fossero state imposte le stesse restrizioni che il duca Wesseros aveva stabilito per Logan. Dal modo
in cui aveva impostato le regole, il duca Wesseros stava dicendo: "Se portate il popolo dalla vostra parte, ci verrò anch'io". «Amici, domani affronteremo insieme il fragore e il ruggito della battaglia». Aveva appena pronunciato la prima frase, che le sue parole riecheggiarono con un'intensità doppia, tripla. Fece una pausa, poi scorse Mastro Nile in prima fila, che gli sorrideva. Logan finse di non dargli importanza e, dopo un momento, tutti fecero altrettanto. «Domani, affronteremo un nemico che conosciamo bene. Il suo volto ha gettato un'ombra sulle vostre case. I suoi stivali hanno infangato i vostri pavimenti. Le sue torce hanno dato fuoco ai vostri campi. Avete sentito il suo pugno, la sua frusta e il suo disprezzo, ma non vi siete arresi!». Il coraggio e l'autocriticismo di Logan - Avrei dovuto usare parole
migliori? La mia voce è fermai Perché è così difficile respirare fino in fondo? - si spensero appena osservò i volti della gente, la sua gente,
sollevati verso di lui. Solo pochi mesi prima, non aveva idea di chi fosse il popolo cenariano. Aveva conosciuto e amato la servitù dei Gyre, ma aveva condiviso il comune disprezzo dei nobili per le masse. Era facile chiedere a una moltitudine senza volto e senza nome di morire per te. «Amici, ho passato gli ultimi tre mesi nelle profondità del Buco del Culo dell'Inferno, intrappolato fra i rifiuti dell’umanità. Ho passato il mio tempo temendo la morte e cose peggiori della morte. Hanno rubato i miei vestiti. Hanno rubato la mia dignità. Ho visto il buono soffrire insieme al malvagio. Ho visto una donna violentata e una donna uccidersi per non esserlo ancora una volta. Ho visto uomini buoni e cattivi scendere a patti con le tenebre. L'ho fatto anch'io. Per sopravvivere. Amici, sono stato imprigionato sotto terra. Voi lo siete stati in superficie. Avete provato le mie stesse paure. Avete assistito agli stessi orrori, e forse peggio. Abbiamo visto uccidere i nostri amici. Abbiamo capito che resistere era morire... e, amici miei, gente mia, abbiamo guardato le probabilità a nostro sfavore e perso ogni speranza. Siamo fuggiti. Ci siamo nascosti». Fece una pausa, nel silenzio generale.
«Eravate lì, con me?», chiese Logan. «Avete provato rabbia? Un senso di impotenza? Avete guardato in faccia il male senza fare niente per contrastarlo? Avete provato vergogna?». Gli uomini e le donne non si girarono né a destra né a sinistra, temendo che i loro vicini avrebbero visto le lacrime nei loro occhi. Si limitarono ad annuire: sì, sì. «Io ho provato vergogna», riprese Logan. «Lasciate che vi dica cosa ho imparato nel Buco. Ho imparato che nella sofferenza scopriamo la misura della nostra forza. Ho imparato che un uomo può essere un giorno un codardo e il giorno dopo un eroe. Ho imparato che non sono un uomo buono come pensavo di essere. Ma la cosa più importante è questa: ho imparato che, per quanto mi possa costare, io posso cambiare. Ho imparato che quel che è stato distrutto può essere ricreato. Sapete chi me lo ha insegnato? Una prostituta. In una donna amareggiata, che si guadagnava da vivere nel disonore, ho trovato onore, coraggio e lealtà. Mi ha ispirato e mi ha salvato. Oggi, ci sono qui donne che vi hanno impartito la stessa lezione. Molti di voi provano vergogna per le mogli e le figlie che sono state stuprate, che sono state costrette a diventare schiave dell'altrui piacere al castello, che hanno venduto se stesse nei bordelli per riuscire a sopravvivere. Le avete evitate, respinte. Ma io dico che le vostre mogli, madri e figlie vi hanno mostrato come si combatte. Ci hanno regalato la Noeta Hemata. Ci hanno dato coraggio. Ci hanno mostrato la strada che porta dalla vergogna all'onore. Vengano avanti le donne che quella notte hanno lottato!». Alcune si mossero immediatamente. Facendosi forti del coraggio delle prime, altre emersero dalla folla. Gli uomini si spostarono da parte, in silenzio. Dopo pochi istanti, una folla di trecento donne si era radunata davanti alla piattaforma. Alcune non erano riuscite a trattenere le lacrime, ma avevano raddrizzato le spalle e sollevato il mento in atteggiamento fiero. Gli uomini schierati piangevano ormai senza ritegno. Non solo uomini che conoscevano quel piccolo campione di coraggio femminile, ma uomini delle campagne, uomini consapevoli che le loro donne erano state umiliate e disonorate, e che ora si vergognavano di se stessi.
«Oggi», continuò Logan, «vi dichiaro i primi membri dell'Ordine della Giarrettiera. Una giarrettiera, perché avete accettato l'umiliazione e l'avete trasformata in onore. Mostratela con orgoglio e raccontate ai vostri nipoti il coraggio che simboleggia. E che nessun uomo entri nel vostro ordine, a meno che non dia prova di sommo eroismo e coraggio». La gente applaudì. Era la cosa migliore che Logan avesse mai fatto. «Temo», disse Logan, calmando la folla, «che le vostre giarrettiere non siano ancora pronte. Non abbiamo il materiale a portata di mano. Vedete, lo ricaveremo dalle bandiere khalidoriane». Altre grida di plauso. «Che ne dite, uomini? Pensate che possiamo dare loro una mano?». Ormai li aveva conquistati. «E ora fratelli, vi prego, accogliete di buon grado le vostre amate. Hanno bisogno di voi. E, sorelle, accogliete di buon grado questi uomini provati dalla vergogna. Hanno bisogno di voi. Ho ancora qualcosa da dirvi». Logan prese un profondo respiro. Si era dilungato più di quanto avesse previsto. Non aveva istituito l'Ordine della Giarrettiera per guadagnarsi il loro appoggio. Ma sentiva di dover rimediare all'affronto subito da quelle donne. Ma adesso, ovunque volgesse lo sguardo, vedeva volti pieni di speranza. «Pochi mesi fa, non volevo essere re», disse Logan, «ma qualcosa mi ha cambiato, nel Buco. Prima di scendere all'inferno, vi vedevo solo come un'anonima moltitudine. Adesso, vi vedo come fratelli e sorelle. Posso chiedervi di versare il vostro sangue insieme a me, di morire con me, ed è quel che sto facendo. Molti di noi domani verseranno il proprio sangue, e alcuni di noi moriranno». Abbassò eli occhi sul Buco sotto i suoi piedi. E questa la via d'uscita, conte Drake? Oh, padre, questo ti renderebbe fiero? «Posso chiedervi di versare il vostro sangue per liberarvi delle vostre catene, ma non per soddisfare la mia ambizione». Sulla folla calò il silenzio.
«Nel Buco, ho imparato che un uomo o una donna possono esercitare il potere sulla vita o sulla morte, ma non c'è potere sull'amore. Amici, amo voi e questa nazione e la libertà che ci guadagneremo. Ma non provo alcun amore per questa donna. Non sposerò Terah Graesin, né oggi, né mai». «Cosa?», strillò Terah Graesin. Mosse un passo avanti. «Fermatelo, Havrin!». Ma il duca Wesseros la trattenne e Mastro Nile non amplificò la voce della donna. «Terah», disse il duca, «se cercate di fermarlo adesso, sarà subito guerra civile». Un ruggito percorse la folla, mentre gli uomini guardavano i loro vicini, sguainando le armi, e cercando di capire da che parte si sarebbero schierati. «ALT!», urlò Logan, e la sua voce tuonò sopra il fragore dei presenti. Tenne le mani alzate. «Non voglio che un solo uomo muoia perché io sia re, tanto meno un migliaio». Si rivolse alla duchessa. «Lady Graesin, volete giurarmi fedeltà?». Gli occhi della donna lampeggiarono di rabbia e questa volta Mastro Nile amplificò la sua voce. «Nemmeno se costasse mille volte mille vite!». Logan non abbassò le mani, sperando di contenere la reazione violenta del pubblico. «Amici, non abbiamo alcuna speranza di sconfiggere Khalidor se non siamo uniti. Quindi», si rivolse a Terah Graesin, non più splendida, con il viso pieno di chiazze rosse di rabbia, «concedetemi di istituire l'Ordine della Giarrettiera e ditemi che perdonerete ai miei seguaci tutti i crimini fino a oggi commessi... concedetemi questo, e io vi giurerò fedeltà». Terah Graesin esitò solo un momento. Lo fissò con gli occhi sgranati, ancora incredula, ma si riprese prima che si sollevasse qualche grido dalla folla. «D'accordo», disse. «E adesso giura». Logan s'inginocchiò e si allungò verso il centro del palco dove era ferma Terah. Al contrario del girifalco che allungava le sue ali oltre il cerchio nero della sottomissione e della prigionia, Logan tenne la propria mano al suo interno. Un gesto decisivo.
A volte l'unico modo per uscire dal Buco non è arrampicarsi. Toccò il piede di Terah in atto di sottomissione. «A riconoscimento del vostro valore», dichiarò la regina Graesin con un tono che stillava veleno, «avrete l'onore di guidare il primo attacco. Le vostre dolci parole colpiranno di certo i Vurdmeister».
Capitolo 61 Kaldrosa Wyn era di fronte al palco
insieme a centinaia di donne, alcune sconvolte, altre incredule, altre ancora in lacrime. Erano state troppe le emozioni per contenerle tutte. Kaldrosa Wyn detestava piangere. Ma ora, quelle lacrime furono per lei un vero sollievo. Le sembrava che le dimensioni del suo cuore fossero triplicate. Il duca Gyre l'aveva sbalordita. Ecco un uomo che aveva messo da parte l'ambizione più grande che ci sia al mondo per amore. Aveva incrinato il coriaceo guscio di amarezza che si stava formando intorno al suo cuore. Le aveva trasformate da puttane in eroine. Era un santo, e quella strega voleva mandarlo a morire. Poi la folla si strinse intorno a lei e alle altre, gli uomini si aprirono un varco in mezzo a loro, cercando con lo sguardo le amate respinte. Accanto a Kaldrosa, Daydra stava singhiozzando. Un omone si fece largo nella calca per raggiungerla, e appena lo vide i singhiozzi di Daydra si fecero più violenti. Era un uomo anziano, suo padre, con le guance rigate di lacrime e il moccio che gli colava sui folti baffi. Prima che potesse dirle una parola, Daydra svenne. Il padre la vide afflosciarsi e la sollevò fra le braccia come se fosse una bambina. Un'altra coppia si abbracciò vicino a Kaldrosa, stringendosi in silenzio. Kaldrosa cercò di non invidiare la gioia di quelle donne. Anche lei si sentiva nuova, diversa, ora che si era scrollata di dosso una montagna di vergogna. Ma Tomman era di certo a Cenaria. Anche lui sarebbe stato cosi pronto a perdonare? Avrebbe mai dormito fra le sue braccia dopo aver fatto l'amore, quando tutto sarebbe stato diverso? La folla stava iniziando a disperdersi, e le donne che non avevano trovato i loro cari perduti si stavano raggruppando insieme. Si guardarono e si riconobbero, anche se non si erano mai conosciute. Erano sorelle. Persino così, non erano sole. Le massaie che avevano ascoltato il discorso nelle retrovie e avevano saputo che alcune
ragazze erano rimaste isolate, si erano finalmente decise a farsi largo fra le file di uomini per abbracciarle e piangere con loro, sebbene fossero perfette sconosciute. In disparte, Kaldrosa vide Momma K che osservava la scena. Non c'erano lacrime negli occhi della donna, ma sebbene la sua schiena fosse rigida come una scopa, sembrava rimpiangere che non ci fosse un uomo a farsi largo nella folla per lei. Kaldrosa stava per avviarsi nella sua direzione, stupita della propria audacia - andare a confortare Momma K! - quando lo vide. Portava la divisa di uno dei cacciatori di maghi del generale Agon: aveva uno strano arco corto in una mano, una faretra sulla schiena e un'armatura in cuoio bollito sopra una tunica verde scuro profilata di giallo. Ma mentre faceva scorrere lo sguardo tra la folla, il suo fiero, impetuoso Tomman sembrava spaventato. Poi i loro sguardi s'incontrarono. Come una marionetta a cui avessero tagliato i fili, Tomman crollò sulle ginocchia. L'arco cadde nel fango, dimenticato. Il volto si contorse in un'espressione afflitta. Le tese le braccia, con gli occhi colmi di lacrime. Era un modo per chiederle scusa più umiliante di qualsiasi parola. Kaldrosa corse da lui. «Ho la sensazione di stare qui da più tempo di quelli che ci vivono», disse Kylar. «Silenzio», disse Vi. Quando era venuto a prendere Logan, Kylar si era procurato una barca a vela appena sufficiente a contenere loro due. Benché piccola, l'imbarcazione si era rivelata incredibilmente veloce, permettendogli di evitare l'unica nave che pattugliava l'isola di Vos. Adesso erano tre le navi di pattuglia, così avrebbero dovuto raggiungere la terraferma come aveva fatto Kylar quando era venuto a recuperare Elene. Seguendo le istruzioni di Vi, Kylar passò la corda intorno a un ginocchio e, aggrappandosi con una mano dopo l'altra, si arrampicò lungo la corda che penzolava sotto il ponte. Il tiro di Vi era stato perfetto, così avevano potuto tendere la fune più di quanto fosse
riuscito a fare lui nella sua missione precedente. Quando Vi passò accanto ai resti della freccia conficcata nel legno da Kylar con il suo pessimo lancio di quattro mesi prima, si fermò. «Leggenda... sì, delle mie chiappe», borbottò. Questo portò l'attenzione di Kylar sul sedere di Vi. Di nuovo. Sebbene "leggendario" non fosse la prima parola che gli saltasse in mente, il sedere di Vi era piccolo e sodo. Graziosamente rotondo. Degno degli indumenti aderenti che indossava. A differenza di molte donne atletiche, Vi era dotata di curve: fianchi ben fatti e seni di tutto rispetto.
Perché sto pensando al seno di Vi? Kylar si accigliò, continuando a issarsi lungo la corda, una mano dopo l'altra. Non poteva concedersi distrazioni. Diede un'altra occhiata al fondoschiena di Vi. Scosse la testa. Guardò di nuovo.
Perché sono affascinato dalle sue natiche? Che stranezza è questa? Perché agli uomini piace così tanto il sedere?
Vi raggiunse le mura del castello e calò una corda. Mormorò qualcosa e si avvolse nelle tenebre. L'effetto non era grande, non si avvicinava nemmeno a quello ottenuto da Durzo, e ancor meno a quello di Kylar. Le sue tenebre erano solo un velo nero, che oscurava la riconoscibile umanità della sua sagoma. Ciò nonostante, dava sempre meno nell'occhio di una puttana semivestita il cui corpo gridava "Guardami!". Seguendo l'esempio di Vi, Kylar si calò rapidamente lungo la corda. Si rannicchiarono all'ombra di una roccia mentre passava la nave di pattuglia. «Non hai fatto commenti sui miei vestiti da sicario». Kylar la guardò sconcertato. «Cosa? Vuoi che ti dica se i tuoi calzoni mettono in evidenza il tuo culo? Ebbene sì. Contenta?» «Così hai guardato il mio fondoschiena. Cosa pensi del resto?» «Dobbiamo proprio parlare di questo? Adesso?». Kylar lanciò un'altra occhiata al suo seno - e lei se ne accorse. «L'espressione di arrogante disdegno ti riesce meglio se non arrossisci», osservò Vi.
«Sono favolosi», disse Kylar, con un colpo di tosse. «I tuoi vestiti da sicario, naturalmente. Non che i tuoi seni - uno stile perfetto per te. Al limite fra il sexy e l'osceno». La ragazza si rifiutò di offendersi. «Prima rubo loro l'attenzione, poi la vita». «Sembra perfetto». Questa volta non le guardò il seno. Quasi nonostante quelle piccole delizie spuntassero sotto la stoffa che fasciava, più in basso, i due più grandi splendori. «Sono una donna. Non scelgo i vestiti per stare comoda». «Non riesco a credere di essere coinvolto in questa lunga conversazione sui vestiti». «E questa la chiami una lunga conversazione sui vestiti?», domandò. «Non hai avuto molte amanti, vero?» «Solo una. E non per molto, grazie a te», rispose Kylar. Questo le chiuse la bocca. Grazie al cielo. Kylar si alzò e cominciò a spostarsi. Dovevano nascondersi ogni volta che passava la nave di pattuglia, Vi per non farsi vedere, e lui perché Vi non sapesse che poteva rendersi invisibile. Anche Kylar aveva indossato indumenti piuttosto aderenti, un vecchio paio di pantaloni da sicario che Momma K gli aveva procurato. Più gli altri venivano a conoscenza dei suoi poteri, più sarebbe stato vulnerabile. Raggiunsero l'ingresso sotterraneo delle Fauci un'ora dopo la mezzanotte. Non c'era nessuno di guardia. Kylar manovrò il chiavistello: non era bloccato. Guardò Vi. Ovviamente, gradiva la cosa quanto lei. Tuttavia, come poteva sapere il Re Divino che stavano arrivando? Fece per aprire la porta, quando Vi gli fermò il braccio. Indicò i cardini arrugginiti, facendogli cenno di aspettare. Toccò un cardine alla volta, mormorando qualcosa, poi gli diede l'ok. Kylar provò ad aprire la porta arrugginita. Il battente si dischiuse senza far rumore.
«Be', che io sia dannata», disse Vi. «Allora è solo con le ragazzine che non funziona». Kylar richiuse con cura la porta e la fissò. «Perché non provi su di te?», le chiese. «Già fatto», rispose. «Chiunque oltre il raggio di cinque piedi non può sentirmi». «Non intendevo questo. A ogni modo, come puoi essere sicura che funzioni?» «Tu non hai sentito come ti ho appena chiamato». «Ed era?» «Vero, ma non abbastanza simpatico da ripetere». Esitò. «Vi, prima che entriamo, devo chiederti una cosa». «Spara». «Sono diventato un sicario a causa di un ragazzino chiamato Ratto. Era figlio di Garoth Ursuul, ed è stato per far piacere a Garoth che Ratto ha sfregiato Elene, violentato Jarl e cercato di violentare anche me». «Non lo sapevo», disse Vi. «Mi dispiace». «Non è importante», tagliò corto Kylar. «Sono scappato». «Io no», disse semplicemente Vi. Sprofondò dentro se stessa e in un passato da incubo. «Per me, è stato a causa degli amanti di mia madre. Lei sapeva cosa facevano, ma non li ha mai fermati. Mi ha sempre detestato per quel che le costavo. Come se fossi stata io a fottermi uno sconosciuto, a restare incinta e a essere costretta a scappare. Non so se all'inizio mi voleva, oppure se era troppo vigliacca per prendere un infuso di ergotina o di tanaceto». Vi sapeva che si trattava di una paura logica. Ci voleva poco perché una dose sufficiente a provocare un aborto diventasse letale. Ogni anno, sosteneva Hu, migliaia di ragazze che "si ammalavano e morivano" avevano in realtà assunto una dose eccessiva di veleno. Altre che ne avevano preso troppo poco davano alla luce figli menomati.
«Dopo essere fuggita, mia madre non aveva niente di che sopravvivere, se non il suo aspetto. Era troppo orgogliosa per fare apertamente la puttana, cosi si attaccava a un bastardo dopo l'altro. Non sarebbe mai riuscita a fare quel che andava fatto». «E in questo sei diversa da lei?» «Sì», rispose sommessamente. Poi ritornò in sé. Perché stava parlando tanto? Non aveva mai raccontato a nessuno quella roba. Non aveva mai avuto nessuno che l'ascoltasse. «Scusa, non hai bisogno di sentire questa storia. Avevi una domanda?». Kylar non rispose. La stava guardando come nessuno l'aveva mai guardata fino a ora. Era lo sguardo che una madre rivolge alla propria bambina che è caduta e si è sbucciata le ginocchia. Era compassione, e fece breccia dentro di lei, al di là del suo sarcasmo e della sua spavalderia. Penetrò nella carne fredda e insensibile - l'unica cosa che Vi pensava fosse rimasta dentro di lei - e trovò qualcosa di piccolo e vivo, e lo inondò di calda luce. Kylar stava vedendo tutta la schifezza putrescente che lei aveva murato, e non si stava ritraendo di fronte a lei come avrebbe dovuto. «Hu Gibbet ti ha fatto uccidere tua madre, vero?». Vi abbassò gli occhi, incapace di esporsi ulteriormente a quel calore. Non si fidava della propria voce. «E stato il secondo assassinio? Il primo è stato uno degli amanti?». Annuì. Era assurdo. Stavano avendo quella conversazione fuori delle Fauci? «Che domanda volevi farmi?», gli chiese. «Quando ho abbandonato il lavoro da sicario, non riuscivo a rinunciarvi, e solo adesso ho capito perché. Quando Jarl si è presentato alla mia porta, una parte di me si è sentita sollevata. Possedevo quel che avevo desiderato per tutta la vita, ma non ero ancora felice. Hai mai avuto qualcuno che ti guarda, ti capisce e ti accetta completamente? E per qualche ragione, tu non sei riuscita ad accogliere la sua accettazione?». Vi deglutì a fatica. Il suo cuore si riempì di desiderio.
«Elene era questo per me. Cioè, lo è tuttora. Le ho promesso che non avrei mai più ucciso, ma non riuscirò a essere felice se non porto a termine questa missione. Quando me ne sono andato, le ho lasciato un paio di orecchini nuziali perché sapesse che la amo ancora e voglio stare per sempre con lei, ma di certo sarà infuriata con me». Il pacchetto cominciò a bruciarle nella tasca. Vi disse alla propria lingua di muoversi, di dirgli tutto, ma era come piombo nella sua bocca. «Se si trattasse di un assassinio qualunque, non mi perdonerebbe mai. Se il mio colpo va a segno, i Khalidoriani perderanno, Logan sarà re, i Cunicoli cambieranno una volta per tutte e Jarl non sarà morto invano. Se esiste un Unico Dio, come dice sempre Elene, mi ha creato per questo assassinio».
Jarl? Come può parlarmi con tanta calma di Jarl? «Allora, qual è
la tua domanda?». Suonò un po' bellicosa, persino alle proprie orecchie - Jarl! Oh, dèi! Le sue emozioni era talmente fuori controllo che non riusciva nemmeno a identificarle -, ma Kylar rispose con gentilezza. «Avevo bisogno di sapere se eri con me in questa storia. Fino al Re Divino. Fino alla morte, se sarà necessario. Ma credo che mi abbia già risposto». «Sono con te», confermò Vi. Con tutto il cuore. «Lo so. Mi fido di te». Guardandolo negli occhi, Vi capì che stava dicendo la verità. Ma le parole non avevano senso. Fiducia? Dopo quel che aveva fatto? Kylar tornò verso la porta. «Kylar», disse Vi. Il cuore le martellava nel petto. Prima gli avrebbe raccontato di Jarl, poi del biglietto e degli orecchini, tutto. Si sarebbe gettata ai suoi piedi e lo avrebbe sfidato ad accettare la verità. «Mi spiace. Per Jarl. Non ho mai voluto...». «Lo so», disse. «Non vedo in te il suo assassino». « Eh ? »
«Vi...», disse con dolcezza. Le posò una mano sulla spalla, e un fremito percorse il suo corpo. Vi guardò le sue labbra mentre Kylar si avvicinava, inclinava spontaneamente la testa; le labbra di Vi si dischiusero, e Kylar era talmente vicino che ne percepiva la presenza come una carezza sulla pelle nuda. Chiuse gli occhi, e le labbra di Kylar sfiorarono... la sua fronte. Vi sbatté le palpebre. Kylar ritirò la mano come se la sua spalla fosse in fiamme. Qualcosa di nero passò velocemente nei suoi occhi. «Che cavolo era?», volle sapere Vi. «Scusa. Io quasi... intendi i miei occhi? Verificavo se stavi usando un incantesimo. Cioè, mi spiace. Stavo solo - finiamola qui, ok?». Adesso Vi era completamente confusa. Lui aveva pensato che fosse ricorsa a un incantesimo? Significava che avrebbe voluto - lui quasi... cosa? - no, certamente no.
Cosa ti eri messa in testa, Vi? Mi dispiace di aver ucciso il tuo migliore amico, Kylar, ti va di scopare? Kylar aprì la porta e Vi intravide la bocca spalancata che originariamente aveva dato il nome alle Fauci. Le diedero la sensazione di un drago che apriva la bocca per inghiottirla. Occhi di vetro rosso ardevano con malvagie intenzioni grazie al fuoco delle torce collocate all'interno. Tutto il resto era scolpito nel vetro fuso nero: la lingua nera su cui camminavano, le nere zanne avvelenate che incombevano sulle loro teste. Dentro la bocca, non c'era più luce. «C'è qualcosa che non va», disse Kylar, fermandosi. «È tutto diverso». Quando Kylar aveva salvato Elene e Uly, la rampa che si addentrava nelle Fauci lo aveva portato lungo un breve tunnel, per poi biforcarsi. Le celle dei nobili erano sulla destra, il resto sulla sinistra. I soffitti erano ovunque alti poco più di due metri, alimentando l'atmosfera claustrofobica delle Fauci. «Pensavo che tu fossi sceso quaggiù un paio di mesi fa», disse Vi.
«Sembra che i maghi non siano stati con le mani in mano». Entrarono in un'immensa sala sotterranea. La rampa che un tempo scendeva per una decina di metri, adesso s'inabissava per un centinaio. Le celle dei nobili e le celle del primo e secondo livello delle Fauci erano sparite. La rampa era larga a sufficienza per far passare quattro cavalli affiancati e si snodava a spirale intorno a una grande fossa centrale. In fondo, videro un altare d'oro con un uomo legato e circondato da Meister. «Merda», mormorò Vi. «Dobbiamo scendere laggiù». Kylar seguì il suo sguardo. Vi non stava guardando l'uomo legato sul piano dorato, ma l'estremità sud della fossa, dove uno stretto cunicolo portava al castello. Il luogo era sinistro. Non era per l'altare o per l'oscurità. Il tanfo del Buco era pesante anche lì. Vapori solforici strisciavano sul pavimento, e ricordarono a Kylar la sua lotta con Durzo. Sotto al fumo, stagnavano altri odori. Sangue versato e il tanfo nauseabondo di carne putrescente. Sotto alle tenebre e allo strano cantilenare dei maghi e alle stridule grida di dolore in fondo al tunnel - per fortuna in direzione del Buco e non lungo il tragitto che avrebbero percorso lui e Vi -, c'era qualcos'altro. Un senso di pesantezza. Di oppressione. Kylar aveva fatto della notte la sua dimora da troppi anni per aver paura del buio - pensò. Ma qui, nell'aria che respirava, aleggiava qualcosa di più profondo, di più oscuro, di più antico e più abietto di quanto potesse immaginare. Solo il fetore che gli riempiva le narici gli fece ricordare gli assassinii. Rivisse la vergognosa esultanza che aveva provato quando il cappio era scivolato intorno alla caviglia di Ratto. Ricordò quando aveva avvelenato lo stufato di un sellaio che non aveva appetito e aveva lasciato che lo mangiasse il figlio. Rammentò la precisa sfumatura purpurea che aveva assunto il volto del ragazzo mentre la gola si gonfiava e lo soffocava. Ricordò un centinaio di imprese di cui si vergognava, un centinaio di cose che avrebbe dovuto fare e non aveva fatto. Rimase immobile, respirando l'aria mefitica.
«Andiamo», disse Vi. I suoi occhi sembravano tormentati, immensi, ma aveva deciso di muoversi. «Respira con la bocca. Non pensarci, fallo e basta». Kylar sbatté stupidamente le palpebre, poi tornò in sé e seguì la ragazza. La presenza era Khali. Proprio come aveva preannunciato Logan. Discesero verso la cavità. Kylar camminò lungo il bordo, guardando in basso. Quando fu più vicino, vide che i Meister non stavano sacrificando l'uomo, almeno non nel senso tradizionale del termine. La loro vittima era un Lodricari con il corpo interamente coperto da tatuaggi. La pelle pendeva mollemente dalla sua grossa struttura inaridita. Era disteso a faccia ingiù sul piano dorato, immobilizzato da grosse catene, ed era nudo fino alla vita. Sei Meister erano seduti là dove le punte della stella d'oro lodricari si inserivano nel pavimento, a gambe incrociate, con gli occhi chiusi, assorti in un canto monotono. Altri due erano in piedi ai lati dell'altare. Uno reggeva un martello e l'altro... Kylar non riuscì a crederci finché non percorse l'ultima spirale a livello del suolo. Il primo Meister reggeva un martello da carpentiere e chiodi d'oro, mentre il secondo aveva fra le mani la colonna vertebrale di un cavallo e la stava posizionando sopra il coccige dell'uomo tatuato. Il Meister collocò nel punto giusto la spina dorsale e l'altro Meister, stringendo i denti, posizionò sopra di essa un chiodo d'oro lungo quindici centimetri, colpendolo con forza col martello. L'uomo tatuato lanciò un grido e inarcò la schiena. Altri due colpi ben assestati, e il chiodo penetrò fino in fondo. Poi entrambi i Meister indietreggiarono e Kylar vide per la prima volta la loro vittima. C'era qualcosa di strano nella sua pelle. In un primo tempo, per via dei tatuaggi, Kylar non seppe dire cosa fosse, ma fra i disegni tatuati notò che la cute era arrossata. Le vene premevano contro la superficie della pelle come se stessero sollevando un peso immane. Sarebbe stato comprensibile, considerando la tortura a cui l'avevano sottoposto, ma le vene non erano al posto giusto. Grosse vene e arterie, rosse e blu, premevano ovunque per emergere. E la pelle
stessa appariva stranamente increspata, come se l'intero corpo fosse butterato. I Meister indietreggiarono e gridarono un ordine. Un prigioniero fu portato fuori dal tunnel nord, dove Kylar intravide una cella con dodici uomini. L'uomo aveva mani e piedi incatenati e una corda annodata intorno al collo. Una giovane, graziosa Meister prese la corda e la allentò, attenta che nessuna parte del proprio corpo entrasse nel cerchio della magia. Si fermò sulla circonferenza del cerchio, di fronte al prigioniero, che stava piagnucolando di paura. Gocce di sudore freddo gli imperlarono il volto e un fiotto di urina gli colò lungo le gambe. I suoi occhi erano fissi sull'uomo incatenato sull'altare. La giovane Meister tirò la corda al collo dell'uomo, conducendolo verso il cerchio. Il prigioniero inciampò una volta prima di cominciare a divincolarsi, e poi fu troppo tardi. Perse l'equilibrio e avanzò goffamente per evitare di cadere a terra. Quando vide che la sua traiettoria l'avrebbe portato dritto all'uomo tatuato, si buttò di lato. Con le mani legate dietro la schiena, la vittima non ebbe modo di regolarsi e rovinò a faccia avanti sul pavimento di vetro fuso. I Meister che non erano seduti o assorti nel canto imprecarono. La donna riprese posizione e gettò la corda sopra il piano dorato. Un Meister si unì a lei e cominciarono a tirare l'uomo semisvenuto verso l'altare.
Perché non usano semplicemente la magia? Ma poi Kylar guardò
attraverso il ka'kari e pensò di intuirne il motivo.
L'intera sala era piena di magia. Si levava a ondate dai Meister come il vapore solforico si sollevava dal Buco. Si diffondeva lungo il pavimento. L'aria ne era satura - ovunque tranne che intorno all'altare. Lì, l'aria era inerte. I Meister stavano creando qualcosa che avrebbe resistito alla magia - persino alla loro. Ma a uno sguardo più attento, Kylar vide che l'uomo non veniva toccato dalla loro magia. Tutti i Meister assorti nel canto stavano tessendo qualcosa nell'aria sovrastante l'altare, e lo facevano penetrare nel corpo dell'uomo in due punti precisi. Sulla nuca, a entrambi i lati della spina dorsale, erano inchiodati due diamanti, ognuno grande quanto il pollice di
un uomo. Nello spettro visibile risultavano nascosti, coperti di sangue e sporcizia e dai capelli dell'uomo. Nello spettro magico, risplendevano. Solo attraverso di essi i Meister toccavano il corpo della vittima. Alla fine i due Meister tirarono su il prigioniero, soffocato dalla corda. Kylar sentì Vi tirargli la tunica, in un pressante invito ad andarsene di lì, ma la ignorò. Il prigioniero barcollò in avanti e cadde sopra all'altare, di traverso rispetto all'uomo tatuato. Sebbene fosse atterrato con un'angolazione che gli avrebbe permesso di rotolare giù, l'uomo si bloccò. I Meister lasciarono cadere la corda e indietreggiarono precipitosamente. Il canto aumentò d'intensità. Il prigioniero gridò, ma Kylar non capì per quale motivo. I muscoli dell'uomo tatuato sporgevano, la sua pelle era ancora più arrossata - e poi il sangue scivolò lungo la schiena. Il prigioniero venne strattonato per i piedi e risucchiato nella schiena dell'uomo tatuato. Poi la tunica del prigioniero venne lacerata e Kylar vide la pelle tatuata inaridirsi. Ognuna di quelle mille cicatrici si stava aprendo come una piccola bocca fornita di zanne. Ovunque, la pelle tatuata stava masticando il prigioniero. Mentre lo sventurato veniva assorbito nella schiena tatuata, l'uomo sull'altare lanciò un urlo straziante quanto quello della sua vittima. Attraverso il ka'kari, Kylar vide costole intere strappate dal prigioniero e spinte con forza nella schiena butterata e saldate alla nuova spina dorsale. La pelle si gonfiò e ricoprì le vertebre. Il canto dei Meister serviva a direzionare la crescita, come notò Kylar. Qualunque cosa fosse quella bestia tatuata, non la stavano creando. Era già stata creata. La stavano solo sviluppando in una forma idonea al combattimento. Dopo altri dieci secondi, il prigioniero era sparito. Più o meno. Parti di lui erano state incorporate nella nuova creatura. Il mostro sull'altare aveva guadagnato forse metà della massa del prigioniero. La sua spina dorsale aveva rafforzato quella della nuova creatura. Le costole avevano allungato il tronco. La pelle si era estesa nella nuova crescita, sebbene fosse ancora disseminata di quelle piccole bocche. Le ossa del prigioniero erano state triturate e trasferite nel cranio del mostro, ora raddoppiato di spessore.
Il Meister in carica abbaiò qualcosa che suonò come un'approvazione, e poi fece cenno di portare il prossimo prigioniero. Vi lo tirò di nuovo per la manica. Kylar si girò e guardò nell'oscurità, là dove avrebbero dovuto essere i suoi occhi. «Tu vai avanti», le disse sottovoce. «Ti raggiungerò». «Stai per fare qualche idiozia, vero?». Kylar accennò un sorriso. Vi si limitò a scuotere la testa.
Capitolo 62 Latitano Garuwashi guidò i suoi uomini esultanti e insanguinati fuori dalle grotte che avevano permesso loro di superare le montagne. Duecento Khalidoriani immersi nel sonno avevano riempito la caverna più ampia. I loro quattro maghi si erano sistemati in fondo all'antro, probabilmente pensando che fosse il posto più sicuro, ed erano morti prima che fosse dato l'allarme. Il resto dei Khalidoriani, disorientati, avevano mietuto vittime fra loro almeno quanto avevano fatto gli uomini di Garuwashi. Nel chiarore precedente l'alba, i sa'ceurai emersero a sud-est del Boschetto di Pavvil. Due eserciti erano accampati alle estremità opposte della piana. Garuwashi si stupì che fossero stati i Khalidoriani a occupare le grotte. Combattendo nel loro territorio, avrebbero dovuto essere i Cenariani a radunare lì le loro riserve. Se quella caverna era un esempio, il Re Divino poteva facilmente avere altri cinquemila uomini riuniti in un luogo nascosto, pronti a schierarsi in formazione di battaglia in pochi minuti. Era già stato abbastanza far ripiegare Garuwashi. A meno che i Cenariani non avessero carte migliori da giocare, tutto faceva pensare che Khalidor sarebbe stata per sempre il vicino di casa a nord di Ceura. Questa sarebbe stata l'ultima battaglia della stagione. In base al suo esito, Garuwashi avrebbe capito se i ribelli fossero stati in grado di riorganizzarsi o se erano stati sgominati. Avrebbe valutato le tattiche khalidoriane con i propri occhi, e questo avrebbe potuto salvarlo in futuro. «Disponete gli uomini a ventaglio», disse al suo capitano affetto da incipiente calvizie, Otaru Tomaki. Si avviò verso l'entrata della grotta, legando insieme i quattro ciuffi di capelli neri che aveva sottratto con la rapida precisione derivante da una lunga pratica. «Non crederete alla nostra fortuna, Signore della Guerra», disse Tomaki.
Garuwashi lo guardò con aria interrogativa. «Signore, è proprio qui». Tomaki indicò una figura. A circa trecento passi di distanza, fra gli alberi, Garuwashi vide il gigante risalire di corsa la collina verso il campo di battaglia. Era diretto all'accampamento cenariano. Si guardò alle spalle. Per un momento, Garuwashi non riuscì a capirne il motivo a causa della vegetazione che copriva la scena. Poi quattro cavalieri khalidoriani eruppero dal folto degli alberi, lanciati al galoppo su per la collina. Il gigante intuì che l'avrebbero raggiunto prima che avesse guadagnato la sommità, così si fermò e sguainò la spada. «Gli dèi lo hanno consegnato nelle mie mani», commentò Garuwashi. «Dopo che avrà ucciso i cavalieri, vedremo se quel gigante è un avversario degno di Lantano Garuwashi». «Tu rendi sicuro il tunnel che porta al castello», sussurrò Kylar. «Quando mi seguiranno, dovremo muoverci in fretta». «Cosa intendi fare?», sussurrò Vi di rimando. Stavano portando fuori un altro prigioniero, che si fece trascinare come un agnello recalcitrante. «Tu vai e basta», tagliò corto Kylar. «Non sono il tuo pericolosamente la voce.
fottuto
lacchè»,
ribatté
Vi
alzando
«D'accordo. Fai quel che va fatto», concluse Kylar. Vi lo fulminò con lo sguardo - e si allontanò. Kylar aspettò che i Meister discutessero brevemente fra loro prima di lacerare gli indumenti del prigioniero perché risultasse più facile da digerire. Il sicario aveva un'idea precisa sul da farsi, ma ogni cosa doveva trovarsi al posto giusto. Significava aspettare che Vi avesse reso sicuro il tunnel. Significava lasciar morire il prigioniero. Non lo sopportava. Ma si mise in attesa. Dannazione, amico, combatti. Così mi darai una mano. Ma il prigioniero denudato non reagì. Si limitò a fissare inorridito la massa che si dibatteva sull'altare dorato.
Perché non combatti: Tutto quel che possono farti è ucciderti. All'ultimo momento, l'uomo si lasciò sfuggire un singhiozzo strozzato e tentò di mantenersi in piedi, ma la corda intorno al collo fu strattonata in avanti. Finì addosso alla creatura e lanciò un urlo. Il canto monotono si levò di nuovo nell'aria, e i Meister che non facevano parte del coro intorno alla stella lodricari osservarono con gli occhi sgranati il prigioniero che veniva divorato. Questa volta il processo fu ancora più rapido. Kylar si avvolse nelle tenebre, il ka'kari si espanse sulla sua pelle come una tunica aderente. Corse verso l'altare e passò accanto a un Meister salmodiante. Come mise piede nel cerchio che circoscriveva la stella lodricari, sentì la pelle ardere alla potenza della magia che riempiva l'aria. La voce di Khali stridette dentro di lui, una voce di disperazione, di suicidio, di umiliazione, di corruzione. Un altro passo e spiccò il balzo, eseguendo una ruota senza mani sopra l'altare e la creatura incatenata su di esso. Fu come saltare attraverso un fulmine. Punte di ago si conficcarono in ogni centimetro della sua pelle, iniettando energia in ogni vena. Mentre sorvolava la testa grigia della creatura deforme, afferrò i diamanti. Scivolarono via come se la pelle del mostro fosse burro. Atterrò dall'altra parte dell'altare e gettò lontano i diamanti quasi avesse tra le mani carboni ardenti. Dopo un istante, era fuori dalla stella e si era lanciato verso la parete, con rune e disegni incisi così profondamente da consentirgli di aggrapparsi facendo presa nei solchi. Qualunque cosa fosse accaduta dopo, Kylar fu contento di aver sgombrato il campo e di poter guardare inosservato. Gli occhi intorno alla stella si aprirono. La creatura stava ancora divorando il prigioniero, ma la magia dei Meister era rimasta sospesa nell'aria come i tentacoli inerti di una medusa. Non aveva un luogo dove confluire. Il coro dei Meister si spense, una voce dopo l'altra. Ognuno si voltò in direzione di Kylar e lo fissò a bocca aperta, come se avesse visto l'impossibile.
Possono vedermi! Kylar aderì alla parete come un ragno, la
schiena contro la roccia, le mani e i piedi incuneati nelle fenditure, in attesa del primo attacco.
Il silenzio venne rotto dal rumore di una catena che si spezzava e da un ruggito profondo, quasi umano. La creatura, con la schiena inarcata come un enorme bruco, si scrollò di dosso il resto delle catene come se fossero di popcorn. La presenza di Kylar fu dimenticata. Reggendosi su sei braccia umane, la creatura si avventò su di un Meister e lo calpestò. Sei braccia e sei mani lo fecero a pezzi e fecero aderire le sue membra dilaniate al proprio corpo. Le piccole bocche erano più efficaci di qualsiasi colla. Una sfera di fuoco colpì e rimbalzò contro la pelle del mostro. Non fu tanto bloccata quando deviata: non perse slancio, non fece danno. Altre tre sfere di fuoco seguirono la prima, librandosi nell'aria ed esplodendo contro le pareti o il pavimento. I Meister gridarono. Una di loro si lanciò su per le scale che salivano a spirale dalle viscere della terra. La creatura le corse dietro, ma invece di seguirla sui gradini, tagliò per la sala circolare. Tentò di afferrarla. La donna indietreggiò contro la parete, cercando di sottrarsi alla portata di quella mano rapace. La distanza fu sufficiente. A quella altezza, il braccio del mostro non poteva raggiungerla. Il Meister si arrampicò freneticamente su per i gradini, usando mani e piedi. Kylar pensò che ce l'avrebbe fatta, ma poi la creatura crollò. Le gambe-braccia si afflosciarono. Sotto la superficie della pelle, lunghe ossa delle braccia si spostarono una dopo l'altra, scivolando verso l'arto che cercava di afferrare la donna. La mano si staccò e scivolò più avanti, e ogni osso si aggiunse al precedente con il nauseante rumore di giunture che venivano dislocate e rilocate. In un batter d'occhio, il braccio era diventato quattro volte più lungo. La creatura abbrancò la donna e la attirò a sé. Le grida della vittima si spensero in gorgoglii soffocati. Il mostro si girò e schiacciò altri tre Meister contro la parete. Poi si concesse una pausa, mentre le sue piccole bocche masticavano le loro carni e le vesti. Un quarto mago afferrò una dei tre, tentando di liberarla, puntellandosi con un piede contro la pelle della creatura.
Questa non se ne accorse, come se la pelle possedesse un'intelligenza propria o quanto meno una fame insaziabile. Dopo un istante, il Meister accorso in aiuto sgranò gli occhi. Si ritrasse di colpo, ma ormai il suo piede era attaccato al mostro. Atterrò sulla schiena, urlando. Sembrava quasi che potesse cavarsela, rinunciando interamente al piede. Il fianco del mostro fu scosso da un fremito, come un cavallo che allontani le mosche, e un'ondata di bocche dentate lambì l'arto del Meister fino alla caviglia. Un altro spasmo, e raggiunsero il polpaccio. Un altro ancora, e la creatura stava digerendo quattro Meister. Era il diversivo di cui Kylar aveva bisogno. Si staccò dalla parete e si precipitò nel tunnel sud verso il castello. Superò quattro Meister insanguinati che Vi aveva eliminato lungo il cammino. Trovò la ragazza che frugava nella sacca di una guardia morta, davanti a una massiccia porta di quercia. Fece un sorriso sprezzante. Vi si girò verso di lui e sgranò gli occhi. «Cazzo, Kylar, sei sfolgorante». «Sì, sono stato formidabile laggiù», ironizzò, dimenticandosi che avrebbe dovuto essere invisibile. «No, voglio dire... cazzo, Kylar, sei sfolgorante». Kylar si esaminò. Il suo corpo sembrava ardere, con sfumature verdi e purpuree dello spettro magico e il rosso incandescente dello spettro visibile. Ecco perché i Meister erano rimasti a bocca aperta. Aveva attraversato il nucleo dove era concentrata la loro magia, troppa perché il ka'kari potesse distruggerla. Stillava la magia in eccesso sotto forma di luce. Senza riflettere, cercò di risucchiare il ka'kari. Fu come riversare una panciata di piombo fuso dentro la sua glore vyrden. «Ah! Ah!». «L'hai ucciso?», domandò Vi. Kylar la guardò come se fosse pazza. «Non hai visto cosa ha fatto quel... quel coso?» «No. Ho obbedito agli ordini e ho reso sicuro il tunnel». Vi riusciva a essere davvero arrogante, notò Kylar. «Non che sia servito
più di tanto, perché non c'è nessuna chiave. Dovevano aver paura di quel... quel coso», concluse Vi, scimmiottandolo. «Adesso dovremo tornare indietro. Io suggerirei di non dare nell'occhio, ma sembra che tu stia andando a fuoco». Kylar spinse da parte Vi e poggiò le mani sul bordo della porta di quercia, una sopra all'altra. «Che stai facendo?», gli chiese la ragazza. Per gli dèi, quella porta era davvero massiccia. Per di più, se non era in grado di assorbire la magia, perché doveva riuscire a convogliarla all'esterno? Sentì un flusso di magia abbandonarlo. Abbassò lo sguardo e vide due tunnel delle dimensioni e con la forma delle sue mani aprirsi attraverso lo spessore del legno e i cardini di ferro. Deglutendo a fatica - come diamine ho fatto? - Kylar spinse il battente, che non si mosse finché non usò l'energia del Talento. Poi si spalancò, girò sui fermi e crollò sul pavimento. Kylar superò la soglia. Quando si accorse che Vi non lo aveva seguito, si voltò a cercarla. La ragazza aveva un'espressione talmente scioccata, perplessa ed eloquente, che Kylar capì esattamente cosa stava per dire. «Ma chi diavolo sei?», gli chiese. «Hu non mi ha mai insegnato niente del genere. Hu non conosceva niente del genere». «Sono solo un sicario». «No, Kylar. Non so cosa sei, ma non sei semplicemente un sicario».
Capitolo 63 «Perché mi avete privato
dei miei indumenti regali?», domandò la ragazza. La principessa indossava un vestito incolore di varie misure più grande e aveva i capelli legati in una semplice coda di cavallo. Il Re Divino le aveva negato anche un pettine. «Credete nel male, Jenine?». Garoth era seduto sul bordo del letto della ragazza, nella torre nord. Mancava poco all'alba del giorno in cui avrebbe finalmente annientato la resistenza cenariana. Sarebbe stata una buona giornata. Era di buon umore. «Come potrei trovarmi al vostro cospetto e non credervi?», ribatté con asprezza. «Dove sono le mie cose?» «Una bella donna offre le sue cose a un uomo, giovane signora. Sarebbe la vostra rovina essere stuprata. Mi seccherebbe dovervi distruggere così presto». «Non dovete guidare i vostri uomini? Bel dio, che siete. Bel re». «Io non parlo dei miei uomini», replicò tranquillamente Garoth. Lo guardò perplessa. «Voi mi eccitate. Avete quel che chiamiamo yushai. È vita e fuoco e tempra e gioia di vivere. Ho già avuto modo di spegnerlo nelle mie mogli prima d'ora; è per questo che siete segregata e vi sono vietati abiti graziosi. È per questo che mi sono saziato con una delle vostre dame di corte: per proteggervi. Sarete la mia regina, e dividerete il mio letto, ma non ancora». «Mai!». «Vedete? Yushai». «Andate all'inferno», disse Jenine. «Siete una donna dannata, non è così? La mia è la terza famiglia reale di cui farete parte - e le prime due non hanno fatto una bella fine, vero? Vostro marito è durato - quanto? - un'ora?» «In nome dell'Unico Dio e dei Cento Dèi», rispose la ragazza, «possa la vostra anima essere gettata nell'abisso. Possa ogni frutto
alla vostra portata riempirsi di vermi e marcire. Possano i vostri figli tradirvi...». La colpì con uno schiaffo. Per un momento, Jenine si massaggiò la mandibola soffocando le lacrime che le riempivano gli occhi. Poi riprese. «Possa...». La schiaffeggiò di nuovo, con più violenza, e avvertì una pericolosa ondata di piacere solleticargli i lombi. Maledetta Khali. La ragazza stava per sputargli in faccia, quando la imbavagliò con il vir. «Non mettete mai alla prova la pazienza di un uomo. Avete capito?», sbraitò. Annuì, scioccata alla vista del nero vir che le frugava la pelle. Il vir la lasciò libera. Garoth Ursuul si abbandonò a un sospiro di delusione, ripudiando gli Stranieri. Jenine ne fu terrorizzata.
Bene. Forse le insegnerà un po' di prudenza. Dopo che Neph gli
aveva offerto la principessa come un dono e un'apologia per il caos in cui era caduta Cenaria, Garoth ne era rimasto subito colpito. Sulle prime aveva spedito la principessa Gunder a Khaliras con la salmeria che trasportava i migliori frutti del saccheggio, ma non era riuscito a togliersela dalla testa. Aveva ordinato che fosse riportata indietro. Si era esposto a un folle rischio. Se i Cenariani avessero saputo che era viva e l'avessero salvata, avrebbero avuto un sovrano legittimo. E questa ragazza avrebbe regnato, se ne avesse avuto la possibilità e un po' di fortuna. Non aveva paura di nulla. «Tornando alla mia domanda, Jenine. Credete nel male?», le chiese il Re Divino. Meglio occupare la mente, se non voleva che questo colloquio finisse per lei fra le lacrime, e per lui in un sazio disgusto. «Alcuni lo chiamano "male" quando i miei soldati bussano alla porta durante la notte e chiedono a un uomo dov'è suo fratello, e l'uomo terrorizzato glielo dice. O quando una donna vede una sacca piena di monete lungo la strada e la prende. Non vi sto chiedendo se credete nella debolezza o nell'ignoranza che nuoce ad altri. Vi sto chiedendo se credete nel male che si esalta nella distruzione, nella perversione. Un male che guarderebbe in faccia la bontà per poi sputarle addosso.
Vedete, quando uccido uno dei miei figli, non è un atto malvagio. So che, quando strappo il cuore pulsante dal torace di quel ragazzo, non sto semplicemente uccidendo lui. Sto suscitando in tutti gli altri un terrore tale che fa di me qualcosa di più di un uomo. Mi rende indiscutibile, imperscrutabile, un dio. Questo rende sicura la mia autorità e il mio regno. Quando voglio occupare una città, raduno gli abitanti dei villaggi vicini avanti al mio esercito. Se la città intende usare macchine belliche contro i miei uomini, dovrà prima uccidere i vicini e gli amici. Brutale, sì. Ma è male? Uno potrebbe dire che salva delle vite, perché le città di solito si arrendono. Oppure lo fanno quando comincio a catapultare persone vive dentro la città. Restereste sorpresa dall'effetto che un semplice grido, di varie tonalità e che termina con un tonfo, produce sui soldati quando si ripete ogni tredici minuti. Non possono fare altro che aspettare, non possono fare altro che domandarsi: riconosci questa voce? Ma sto divagando. Capite, non definirei male niente di tutto questo. La nostra società si regge sulle basi del potere del Re Divino. Se il Re Divino non ha un potere assoluto, tutto si sgretola. E poi sopraggiungono il caos, la guerra, la fame, le calamità che non fanno distinzione tra gli innocenti e i colpevoli. Ogni mia azione serve a scongiurare tutto questo. Un po'di brutalità ci salvaguarda, proprio come il bisturi di un chirurgo salvaguarda la vita. La mia domanda è: credete che il male possieda una purezza propria? Oppure ogni azione deve tendere al bene?» «Perché lo chiedete a me?», disse Jenine. Era sbiancata in volto. L'avresti presa per una Khalidoriana se il pallore non avesse avuto una sfumatura verdognola. «Io parlo sempre con le mie mogli», rispose il Re Divino. «Primo, perché solo i folli parlano da soli. Secondo, esiste una remota possibilità che una donna abbia un'intuizione». La stava stuzzicando, e ottenne la sua ricompensa quando la ragazza recuperò un po' del suo yushai. Gli ricordò la madre di Dorian, e quella di Moburu. «Credo che il male abbia i suoi mediatori», disse Jenine. «Credo che siamo noi a permettere al male di usarci. Non importa se siamo coscienti o no che quel che stiamo facendo sia male. Dopo che
abbiamo eseguito la sua volontà, se ci sentiamo in colpa, la sfrutta per condannarci ai nostri stessi occhi. Se ci sentiamo buoni, ci usa immediatamente per raggiungere il suo prossimo obiettivo» «Sei una ragazzina intrigante», disse Garoth. «Non ho mai sentito un'idea simile». Non la gradì. Lo sminuiva, lo riduceva a un mero strumento, ignaro o consapevole, ma sempre complice. «Sapete, avevo quasi rinunciato al trono. Avevo quasi rifiutato tutto quel che era previsto nella stirpe degli dei». «Davvero?» «Sì, due volte. La prima quando ero un erede al trono, e la seconda quando ero padre. La forza mi ha riportato indietro, tutte e due le volte. Non takuulam. "Non servirò". Vedete, avevo un figlio di nome Dorian. Mi ricordava me da ragazzo. L'ho visto allontanarsi dal sentiero della santità, quasi come ho fatto io». Fece una pausa. «Vi siete mai trovata sull'orlo di un baratro a pensare: riuscirei a buttarmi?» «Sì», rispose Jenine. «Succede a tutti», disse Garoth. «Vi siete mai trovata sull'orlo di un baratro con qualcun altro a pensare: riuscirei a spingerlo giù?». Scosse la testa, inorridita. «Non vi credo. Comunque, è quel che mi è successo con Dorian. Ho pensato: potrei spingerlo. Così l'ho fatto. Non perché mi serviva, solo perché ero in grado di farlo. Gli ho dato fiducia e lui mi ha quasi distolto dalla santità - così l'ho tradito nel modo più profondo che potessi immaginare. È stato il momento in cui mi sono avvicinato di più alla purezza del male. Vedete, ai miei occhi, il mondo racchiude solo due misteri. Il male è il primo, l'amore il secondo. Ho visto l'amore usato, esagerato in una parodia di se stesso, pervertito, simulato, tradito. L'amore è qualcosa di fragile, di corruttibile. Eppure l'ho visto rivelare una forza singolare. Va al di là della mia comprensione. L'amore è una debolezza che molto raramente trionfa sulla forza. Sconcertante. Cosa ne pensate, Jenine?» «Non so niente dell'amore», rispose, il viso duro come pietra.
«Non ve ne rammaricate», sbuffò. «Un pensiero interessante è più di quanto riesca a tirar fuori dalla maggior parte delle mie mogli. Il potere è una puttana. Quando riesci finalmente ad averla fra le mani, ti rendi conto che sta facendo gli occhi dolci a ogni uomo nei paraggi». «Qual è lo scopo di tutto il vostro potere?», domandò Jenine. L'uomo aggrottò la fronte. «Cosa intendete?» «Direi che è un problema vostro, sempre». «Ora parlate con la perspicacia che mi aspetterei da una donna. Vale a dire nessuna». «Vi ringrazio per la spiegazione». Ah, allora la ragazza era brillante come dicevano. Se lo era domandato sapendo che Jenine aveva richiesto dei libri. Meglio non permettere alle donne di leggere. «Prego. Dove ero rimasto?». Jenine rispose, ma Garoth non la sentì. Qualcosa era appena accaduto al ferali di Tenser. Lo avvertiva attraverso le reti di magia che aveva ancorato in ogni parte del castello. Qualunque ne fosse stata la causa, era più potente di quanto si sarebbe aspettato. «Sono certo che qui non siete felice, perciò vi manderò a Khaliras», disse, avviandosi verso la porta. «Se mandate messaggi o tentate di scappare, radunerò tutti i vostri amici e un centinaio di innocenti e li ucciderò». Tornò indietro a grandi passi e la baciò con passione. Le labbra di Jenine rimasero fredde e insensibili. «Addio, mia principessa», disse. Indugiò fuori della porta finché la sentì scoppiare in lacrime, udì il fruscio delle coperte quando si buttò sul letto, e il suo pensiero andò a Logan. Avrebbe dovuto provvedere. Se Jenine avesse scoperto che Logan era vivo, non si sarebbe mai piegata alla volontà di Garoth. Quello strappo nella rete lo chiamava, ma si fermò ancora qualche istante. Di solito, il pianto di una donna non era niente per lui, ma oggi... Esaminò quell'emozione come una pietra stranamente variegata. Era senso di colpa? Rimorso? Perché provava l'insano desiderio di chiedere scusa?
Curioso. Ci avrebbe riflettuto più tardi. Appena Jenine fosse stata a debita distanza. Ordinò a sei massicci Highlander della guardia del Re Divino di portarla immediatamente a Khalidor, e poi si precipitò giù per le scale.
Capitolo 64 Nella luce del crepuscolo, Feir cercò Solon e Dorian fra gli uomini dell'esercito cenariano. Nessuno dei due amici fu rintracciato. Quando domandò perché la guarnigione di stanza a Screaming Winds non fosse presente, un conte di nome Rimbold Drake gli riferì del massacro e gli confidò la propria ansia: se Khali aveva trucidato dei veterani, cosa sarebbe successo se l'avessero portata lì? Disperato, Feir si rimise in viaggio. Trasportava l'unica possibile salvezza per l'intera armata ignara. A peggiorare le cose, non era un veggente, almeno non in senso utile. Riusciva a vedere reti di magia vicine come attraverso una lente d'ingrandimento ladeshiana, ma se mettevi un uomo, anche dotato di Talento come Solon, a cinquanta passi di distanza, Feir avrebbe visto solo un tremulo bagliore. Dopo frenetiche ricerche, aveva trovato due maghi: marito e moglie, nessuno dei due con molto Talento, ma entrambi guaritori. Gli avevano detto che non vedevano grandi Talenti in tutto l'esercito. Ma poi Tevor Nile si era guardato disperatamente intorno - e si era immobilizzato. «Drissa», disse. La donna si avvicinò e gli prese la mano. Entrambi concentrarono l'attenzione su una collina pedemontana a qualche centinaio di passi dall'esercito. «Prestateci il vostro potere e noi vi presteremo la nostra capacità di visione», propose Drissa a Feir. Aveva acconsentito, facendosi non pochi scrupoli al pensiero di aver ceduto mentre trasportava Curoch, e poi la collina divenne sfolgorante di luce. Gli uomini erano troppo lontani perché Feir potesse riconoscerne i volti, e si erano premurati di non stagliarsi contro il cielo, ma il Talento di ognuno sfavillò in maniera inconfondibile, peculiare come la pigmentazione delle iridi. Feir li conosceva, aveva avuto contatti e
aveva discusso con loro. Erano sei fra i maghi più potenti di Sho'cendi. Ferl capì perché erano venuti. Senza dubbio quei bastardi erano convinti che Curoch appartenesse a loro. Ma loro potevano maneggiare la spada; lui no. Se avesse portato Curoch e si fosse impegnato a cederla a una condizione, uno qualsiasi di quegli uomini poteva incenerire l'intero esercito khalidoriano. Feir non aveva la parlantina di Solon, ma con Curoch in mano, anche la sua lingua impacciata avrebbe funzionato. Così si precipitò alla volta dei Fratelli su un cavallo avuto in prestito dai Nile, pregando che potesse raggiungerli prima che i due eserciti serrassero i ranghi. Se li avesse raggiunti in tempo, Cenaria avrebbe potuto vincere senza perdere un solo uomo. Il sentiero lo portò dentro una gola fuori dal campo visivo dei maghi, e lì si era subito imbattuto nei Khalidoriani in ricognizione. Il suo cavallo era stato ucciso da un arciere, e poi i lancieri si erano scagliati contro di lui, disdegnando le frecce per togliersi lo sfizio di uccidere un uomo a piedi. Adesso tre di loro erano morti, e Feir aveva problemi più grossi. Al di là dei Khalidoriani, incredibilmente, c'erano i sa'ceurai. Così, mentre combatteva contro l'ultimo cavaliere, cercò di spostarsi entro la linea visiva dei maghi. Per gli dèi! Erano solo a un centinaio di passi di distanza. Se vedevano Feir, nemmeno mille sa'ceurai sarebbero riusciti a frapporsi fra quei sei uomini e Curoch. I sa'ceurai non avrebbero permesso a Feir di spezzare la loro formazione. Erano troppo disciplinati. L'avrebbero giudicato dal suo modo di combattere, e i sa'ceurai avevano delle idee davvero singolari in proposito. La Via della Spada seguiva una teoria tutta sua in merito al combattimento: implicava dare per scontato che ogni volta che andavi in battaglia saresti morto, e disdegnare la morte purché morissi con onore. Il modo più nobile per colpire un nemico era coglierlo nella frazione di secondo prima che ti sferrasse il colpo mortale. Per il modo di pensare di Feir, poteva essere nobile e funzionale quando i margini di differenza erano sottili, come quelli esistenti fra i
guerrieri migliori. Ma se eri troppo impegnato a salvaguardare la tua incolumità, non potevi esporti al rischio necessario per uccidere il migliore. Ti saresti tirato indietro. E se ti tiravi indietro, saresti morto e - peggio, secondo la mentalità ceuriana - avresti perso. Uccidere tre cavalieri non era un'impresa mediocre. Un cavaliere veterano valeva dieci fanti. Ma un mago a piedi non era un semplice fante, e Feir non si era fatto scrupolo di usare la magia per eliminare i primi tre. Sapeva che poteva uccidere l'ultimo Khalidoriano che lo incalzava, ma era il "come" che continuava a sfuggirgli. Che impressione voleva lasciare a questi signori della spada? Per un Ceuriano, combattere era comunicare. Un uomo poteva ingannare con le parole, ma il suo corpo diceva la verità. Feir sguainò Curoch - e questo fu un altro problema su cui avrebbe riflettuto in seguito - e si lanciò contro il cavaliere dal lato della lancia. In battaglia, l'uomo si sarebbe accontentato di far calpestare Feir dal suo pony, ma ora Feir era sicuro che l'avversario avrebbe tentato di ucciderlo di persona. E... eccolo là! L'uomo si sporse lateralmente e puntò l'asta di frassino lunga tre metri. Feir spiccò un balzo in aria. Non si alzò di molto, ma il Khalidoriano era in groppa a un piccolo pony di montagna e non a un massiccio destriero alitaeriano. Il calcio laterale volante di Feir lo sollevò al di sopra della lancia e il piede centrò il Khalidoriano in piena faccia. Al momento dell'impatto Feir realizzò due cose: primo, gli abitanti dei villaggi ceuriani che ricorrevano a un calcio per disarcionare un cavaliere probabilmente si astenevano dal farlo quando il cavallo era lanciato al galoppo. Secondo, qualcosa scricchiolò, e non era il collo del Khalidoriano. Feir si schiantò sul terreno. Quando si rialzò in piedi, la caviglia gridava vendetta e uno sciame di punti neri gli oscurava il campo visivo. Ma non poteva mostrare la sua debolezza, non davanti ai sa'ceurai. Mentre si rialzava, lo accerchiarono. Uno di essi diede un'occhiata al Khalidoriano, pronto a finirlo con il coltello, ma l'uomo era già morto. Feir rimase in sprezzante silenzio, le grosse braccia conserte, ma nel cuore aveva un senso di vuoto. C'era solo una sporgenza di
solida roccia che lo separava dai maghi sulla collina. Se avesse potuto muovere dieci passi e attingere al suo Talento, lo avrebbero visto nonostante gli alberi. Ma non poteva muovere dieci passi. Nemmeno cinque. All'esterno del cerchio di spade sguainate e frecce incoccate, un uomo stava ispezionando ognuno dei cadaveri. Nella sua chioma erano annodati i ciuffi di capelli degli avversari uccisi. La maggior parte erano fissati a entrambe le estremità - i sa'ceurai che aveva ucciso -, ma altri erano legati solo ai suoi capelli - stranieri. Il cerchio di ferro si aprì e Lantano Garuwashi alzò lo sguardo su Feir. «Siete alto quanto un nephilim e combattete altrettanto bene, eppure non avete nemmeno macchiato la vostra spada col sangue di questi cani. Chi siete, gigante?», gli chiese Lantano Garuwashi. Un nephilim? Feir si scervellò per ricordare tutto quel che conosceva di Ceura. Grazie agli dèi, non era molto. La maggior parte dei Maestri di Spada aveva una conoscenza approfondita di Ceura, in quanto non pochi dei loro allenatori erano Ceuriani in esilio, che avevano combattuto dalla parte sbagliata nell'una o nell'altra delle loro continue guerre. Ma un nephilim? La Via della Spada. I primi uomini creati dal - ferro? L'anima di un uomo è la sua spada...
Non posso battermi! Mi sono azzoppato! Lantano Garuwashi mi ha visto combattere e adesso vorrà dimostrare di essere più grande di questo "gigante". Ecco! "Questi erano gli eroi e i giganti dell'antichità". I nephilim erano il frutto dell'unione fra donne mortali e figli degli dèi. Oppure di Dio? Ah, diamine, non ricordava se i Ceuriani erano politeisti. Bene, avrebbe dovuto mantenersi sul vago sull'argomento religioso. «Non abbiate timore», disse Feir. Vide un'espressione di costernazione raggrinzire quelle facce temprate. Chi diceva a Lantano Garuwashi di non aver paura? Feir pensò che se doveva bluffare, allora poteva affondare la lama fino all'elsa. A proposito di elsa... per Curoch, poteva essere arrivato il momento di mostrare i suoi trucchetti. Parte della magia latente di Curoch era che avrebbe assunto la forma di qualsiasi spada avesse
desiderato il proprietario. Altre parti non cambiavano mai, ma potevano aiutare Feir ad assumere il ruolo, inventato sul momento, di Messaggero Divino. Aveva letto le descrizioni di una spada ceuriana che sarebbe stata l'ideale, così ordinò a Curoch di assumere quella forma - è tutto qui quel che devo fare? Estrasse lentamente la spada, e tenne gli occhi fissi su Lantano Garuwashi finché questi non abbassò lo sguardo. Gli uomini in cerchio sgranarono gli occhi, restarono senza fiato, a bocca aperta anche il fior fiore dei guerrieri di Lantano Garuwashi! Feir seguì i loro sguardi. Curoch non solo aveva capito il tipo di spada che Feir voleva emulare, ma la conosceva già. Feir aveva immaginato che una spada «con le fiamme del cielo lungo la lama» si riferisse o a motivi in acciaio elaborato o a un'incisione a fuoco. Un'altra traduzione diceva «con il fuoco del cielo nella lama». Curoch aveva scelto quest'ultima. Due draghi gemelli - Feir non dovette guardare per sapere che erano gemelli - ognuno lievemente diverso, erano incisi su entrambi i lati della lama, vicino all'elsa. Ogni drago sputava fuoco verso la punta della spada. Ma non era un'incisione a fuoco. Era fuoco, all'interno della spada. Dove ardevano le fiamme, e per alcuni centimetri oltre, la lama divenne trasparente come vetro. Era come se Feir stesse reggendo una barra incandescente. La spada manteneva la sua lunghezza, ma le fiamme all'interno si alzavano e si ritiravano a seconda - Feir non sapeva a seconda di cosa, ma in quel momento i draghi sputarono fuoco fino a toccare la punta della lama, a più di un metro dall'elsa, e poi la fiamma si spense. Feir voleva solo impressionarli, ma gli sguardi sui volti dei sa'ceurai rasentavano la venerazione. Ebbe appena il tempo di cancellare lo stupore dal proprio volto prima che gli occhi si puntassero di nuovo su di lui. Lantano Garuwashi aveva l'aria di chi fosse stato trafitto dalla paura per la prima volta nella sua vita. Ma cambiò subito atteggiamento e, di tutti gli uomini presenti, era l'unico ad apparire furioso. «Perché un nephilim impugna Ceur'caelestos?». La Lama del Cielo. Feir ebbe l'improvviso sospetto che Curoch avesse assunto quella forma con troppa facilità. Era come se conoscesse già l'aspetto
di quella lama. E se non stesse fingendo di essere Ceur'caelestos, e lo fosse realmente?'
Non ho mostrato una lama che colpisce, ma l'artefatto più sacro che questa gente conosca. E ora, come faccio ad andarmene zoppicando? Non aveva importanza. Era troppo tardi per fermarsi. «Sono soltanto un servitore. Ho un messaggio per voi, Lantano Garuwashi, sempre che siate abbastanza sa'ceurai da accettarlo». Feir legò la voce alla magia, la alterò, vi aggiunse la risonanza e la profondità che si addicevano a una voce del cielo. "Questo è il cammino che ti aspetta. Combatti Khalidor e diventerai un grande re". Non era proprio il massimo come messaggio da parte di un dio, ma abbastanza breve perché non si notasse la mancanza di eloquenza di Feir. Con i toni e l'intensità supplementari, doveva aver ispirato un timore riverente di una certa consistenza. Ma Garuwashi non sembrava intimorito. Estrasse lentamente la spada e la lasciò penzolare inerte. Feir si rese conto troppo tardi dell'errore commesso. Perché aveva tirato fuori proprio quel premio? Aveva detto a Garuwashi che sarebbe diventato re, ma per il figlio di un comune cittadino questo era impossibile. La spada di Garuwashi era di semplice ferro, una lama squallida e rovinata che impugnava con fierezza perché era per lui un motivo di vergogna. Una spada di ferro non avrebbe mai governato. Non era previsto un commercio di spade. L'anima di un sa'ceurai era la sua spada. Per i Ceuriani, non era un'astrazione. Era una realtà. Quel miserabile, affilato pezzo di ferro fu la prova evidente che Feir aveva mentito. La presa di Garuwashi si strinse intorno alla sua anima e la punta della lama si sollevò in segno di sfida. Intorno al cerchio, i sa'ceurai impugnavano ancora le loro armi, ma gli archi non erano più sollevati, e le spade erano state dimenticate. Sembrava che quel momento sarebbe rimasto impresso per sempre nelle loro menti. Il loro Signore della Guerra, il più grande sa'ceurai di tutti i tempi, che affrontava un nephilim che impugnava una spada leggendaria - e Lantano Garuwashi non mostrava un briciolo di paura. «Se io sono abbastanza sa'ceurai?», ripeté Garuwashi. «Morirei prima di accettare lo scherno, anche se viene dagli dèi. Sono
abbastanza sa'ceurai da morire per mezzo della spada del cielo o sarò abbastanza sa'ceurai da uccidere il messaggero divino». Si lanciò all'attacco con la velocità che lo aveva reso leggendario. Feir non poteva battersi. Combattere quest'uomo con una sola gamba buona era un suicidio. Bloccò il primo attacco di Garuwashi, poi si allungò con la magia e attirò l'avversario a sé con forza. Il Ceuriano gli volò addosso, e i due uomini si fronteggiarono, le lame incrociate, i volti a pochi centimetri l'uno dall'altro. Curoch - o Ceur'caelestos - tornò ad ardere. I draghi sputarono fuoco fino alla punta della lama. L'unico pensiero di Feir fu che le sue braccia dovevano essere più forti di quelle di Garuwashi. Se l'uomo fosse indietreggiato, avrebbe ucciso Feir, ma finché restava entro la portata di quelle braccia possenti, Feir aveva ancora una possibilità. Ma prima che uno o l'altro potesse fare qualcosa, la luce sfolgorò in una seconda barra fra i due contendenti. Il lampo era durato forse un secondo, ma in quel secondo sembrò che entrambi avessero dimenticato ogni addestramento marziale. Rimasero a fronteggiarsi, ognuno cercando di far perdere l'equilibrio all'altro, ognuno cercando di ignorare quel che entrambi volevano così disperatamente guardare. Feir non aveva fatto niente - forse Curoch stava reagendo alla magia che aveva usato per attirare a sé Garuwashi. La spada di Lantano divenne incandescente e poi bianca. Sfolgorò più intensamente di Curoch e poi, mentre gli uomini si incalzavano a vicenda, esplose. Uno scoppio gentile ma implacabile. Non ci furono frammenti incandescenti a ferire le carni di Feir, ma fu impossibile sottrarsi alla forza. Feir fu scagliato indietro, si capovolse in volo e atterrò a faccia in giù, a circa cinque metri di distanza. Cercò di alzarsi, ma il dolore alla caviglia fu talmente lancinante che capì che avrebbe perso i sensi se ci avesse provato ancora. Rimase in ginocchio. Guardò verso la collina e radunò tutta la forza che riuscì a trattenere.
Guarda, maledizione, Lucius! Guarda qui! Era ancora nascosto
dagli alberi, ma se uno dei veggenti avesse guardato nella sua direzione l'avrebbe visto.
Trenta passi più in là, Lantano Garuwashi si alzò in piedi. Impossibile, impugnava la spada - no, non la sua. La sua spada era svanita, scomparsa. Non c'erano nemmeno frammenti fumanti sparsi in giro. Con uno sguardo di pura meraviglia negli occhi, strinse in pugno Ceur'caelestos e gli sembrò perfetta, come se Lantano Garuwashi fosse nato per quella spada, forgiata mille anni prima pensando a lui. Sei sa'ceurai, fino ad allora stupefatti, adesso erano completamente ammutoliti. Crollarono in ginocchio, come Feir. Uno di loro disse: «Gli dèi hanno dato a Lantano Garuwashi una nuova spada». Voleva dire che gli dèi avevano dato a Lantano Garuwashi una nuova anima, un'anima leggendaria, un'anima da re. In ogni sguardo, Feir lesse la loro approvazione. Se lo aspettavano. Avevano servito Lantano Garuwashi prima che diventasse Il Lantano Garuwashi, re Lantano, prima che avesse sconfitto e umiliato un nephilim. Adesso Feir era in ginocchio, incapace di rialzarsi. La fiamma del destino ardeva negli occhi di Garuwashi, abbassati sul gigante. «In realtà, è come avevano previsto gli dèi. Ceur'caelestos è vostra», disse Feir. Cos'altro poteva dire? Lantano Garuwashi sollevò il mento di Feir con la lama. «Nephilim, messaggero e servo degli dèi, voi avete la faccia di un Alitaeriano, ma combattete e parlate come solo un sa'ceurai sa fare. Voglio che mi serviate». I suoi occhi aggiunsero, o morirete. Feir non aveva bisogno di alcun nephilim inviato dagli dèi per dirgli qual era il suo destino. Alzò lo sguardo sulla collina, e da lì non arrivò alcun aiuto. Non si sorprese; era già quel che sarebbe sempre stato: Il Piccolo Uomo Che Serve Grandi Uomini. Sarebbe stato sempre L'Uomo Che Aveva Perso Curoch. Chinò il capo, sconfitto. «Io... io vi servirò».
Capitolo 65 A quattrocento passi di distanza,
Agon sentì l'esplosione e girò di scatto la testa, cercando di individuarne la fonte. L'esercito khalidoriano era accampato a ovest, ma nessuno di quei soldati aveva reagito, quindi non era lì che era avvenuta l'esplosione. Guardò il suo capitano. «Invierò un messaggero a lord Graesin», disse il capitano. La regina aveva assegnato al fratellino Luc il comando degli esploratori, a quanto pare convinta di dover affidare qualche responsabilità allo stupido giovane, e pensando che si trattasse di un compito alla sua portata. Il diciassettenne aveva deciso che tutti gli esploratori riferissero esclusivamente a lui. Solo dopo aver fatto rapporto a lui, a volte dopo aver atteso un'ora o più in fila dietro ad altri esploratori, avevano il permesso di recarsi dai capi che avevano realmente bisogno di essere informati. Era una delle cose che, insieme a tutto il resto, contribuivano ad alimentare il malcontento da parte degli ufficiali di Agon. Nessuno di loro dava voce alle proprie paure. Non ce n'era bisogno. Ogni veterano sapeva che stavano andando in battaglia con un esercito inesperto. Chiamarlo esercito, in effetti, era una forzatura. I reparti non avevano avuto abbastanza tempo per esercitarsi in un'azione coordinata. I diversi capi avevano segnali diversi, e nella calca e nella cacofonia della battaglia, le voci spesso non si distinguevano l'una dall'altra. Un ufficiale non sarebbe stato in grado di trasmettere un segnale manuale agli altri ufficiali per comunicare gli ordini del generale, e nemmeno per reagire a una situazione imprevista. Questo, e la disposizione delle truppe scelta dalla regina in base a ragioni puramente politiche, faceva mordere il freno ai veterani. Agon fu fortunato persino ad avere quei mille uomini. Li aveva ottenuti solo perché il duca Logan Gyre aveva esercitato tutta la propria influenza - e gli uomini che avevano prestato prima servizio sotto il comando di Agon avevano minacciato un ammutinamento se non fosse stato lui a guidarli.
Così Agon disponeva di un decimo dell'esercito cenariano. La regina gli aveva assegnato il centro della linea di battaglia, sebbene volesse far credere che quell'onore fosse stato concesso al comandante schierato accanto ad Agon. «Lascia perdere», gli disse. «La battaglia sarà finita prima di poter avere un esploratore a rapporto. Come stanno gli uomini?» «Sono pronti, lord gen... mio signore», rispose il capitano. Agon osservò il cielo che si andava rischiarando. Si prospettava una di quelle giornate da trascorrere accanto al fuoco con una tazza di ootai - o un brandy. Nuvole nere oscuravano il sole nascente, prolungando l'oscurità della notte e ritardando l'inevitabile battaglia. La piana, estesa quanto una dozzina di tenute messe insieme, era spoglia. Il grano era stato mietuto e le pecore trasferite sui pascoli invernali. Bassi recinti di pietra per i greggi attraversavano il campo di battaglia. Sarebbe stato un luogo fangoso, infido e scomodo dove combattere. Ma era una sorta di benedizione. Fra i recinti e il fango, la pesante cavalleria khalidoriana si sarebbe mossa con prudenza e lentezza. Costringere un cavallo tutto bardato, e un cavaliere in una pesante armatura sulla groppa, a saltare un recinto sul terreno fangoso era il modo migliore per uccidere entrambi. D'altra parte, avrebbe rallentato anche gli uomini di Agon, e questo avrebbe concesso più tempo ai maghi khalidoriani per scagliare fuoco e fulmini. Agon diresse il suo cavallo davanti ai suoi fanti e arcieri. Non aveva cavalieri, tranne le guardie del Sa'kagé e i cacciatori di maghi. Dopo aver ascoltato il discorso di Logan della sera prima, Agon sapeva che, se il giovane fosse stato lì, avrebbe fatto sentire quegli uomini parte di un progetto grandioso. Logan avrebbe regalato a ognuno un cuore da eroe. Con il giovane come comandante, non avrebbero esitato un secondo a dare le loro vite. Quanti fossero sopravvissuti, anche se mutilati per il resto della loro esistenza, si sarebbero considerati fortunati ad avere combattuto a fianco del duca Gyre. Agon non era così.
«Io sono un uomo semplice», disse Agon rivolgendosi ai soldati schierati per affrontare gli orrori della magia e della morte. «E ho solo parole semplici da offrirvi. Molti di voi hanno già combattuto con me prima d'ora, e...». Per gli dèi, erano lacrime? Le ricacciò indietro. «Sono onorato che abbiate voluto che vi guidassi ancora una volta. Non sarà un combattimento facile. Lo sapete. Ma combatteremo contro un male a cui non si può permettere di vincere. Spetta a noi fermare questo male, e oggi sarà la nostra unica occasione. Amici, se vinciamo, mi toglieranno il comando, quindi se farete quel che sto per chiedervi, potreste essere puniti, ma ve lo chiedo comunque. Al duca Gyre è stato concesso... l'onore di guidare la prima carica». Alla notizia, si levò un brontolio di protesta. Sapevano quel che si augurava la regina. Agon alzò una mano. «Se sopravvivrà alla prima carica, vi chiedo di proteggerlo con le vostre vite». Agon non osò dire altro. Se avessero vinto, la regina sarebbe stata senza dubbio informata del suo breve discorso. Lasciò i suoi soldati pensosi e pronti a compiere il proprio dovere. Agon avrebbe desiderato essere un capo capace di accendere gli entusiasmi ma, con questi uomini, le sue parole sarebbero bastate. Si diresse verso i capi riuniti per ricevere le istruzioni dell'ultimo minuto. Non che intendesse seguirle. Agon aveva riflettuto a lungo e intensamente su come attaccare un esercito che includeva maghi, e pensò di aver formulato una strategia migliore di quanto avrebbe saputo fare uno qualsiasi di quei pavoni. Ma questo avrebbe significato stare accanto a Logan per l'ultima volta. «Mio signore», disse Agon. Logan sorrise. «Generale», disse. Aveva un aspetto magnifico nella sua armatura di famiglia, a cui era stata apportata qualche modifica per adattarla alla corporatura ancora pelle e ossa. Agon si sforzò di trovare le parole giuste. «Signore», disse. «Voi sarete sempre il mio re». Logan posò una mano sulla spalla del generale e lo guardò negli occhi. Non disse nulla, ma la sua espressione fu più eloquente di mille parole.
Poi una donna sethi a cavallo uscì dallo schieramento. Indossava un'armatura, e portava una spada e una lancia. «Mio signore», disse, rivolgendosi a Logan. «Capitano Kaldrosa Wyn. Siamo arrivate». «Ma di cosa state parlando?», domandò Logan. A un cenno della sua mano, si aprì un varco fra le file di soldati incuriositi mentre trenta donne in armatura si fecero avanti, ognuna con un cavallo. Non tutte erano belle, e non tutte erano giovani, ma erano tutte membri dell'Ordine della Giarrettiera. «Ma cosa pensate di fare?», chiese ancora Logan. «Siamo qui per combattere. Volevano venire tutte, ma ho preso solo le donne che hanno qualche esperienza in combattimento. Siamo pirati e guardie dei mercanti e campionesse di lotta e arcieri, e siamo vostre. Voi ci avete dato una nuova vita, mio signore. Non permetteremo che Terah Graesin getti via la vostra». «Dove avete preso le armi?» «Ci hanno aiutato le donne che non possono combattere», rispose il capitano Wyn. «E i trenta cavalli?» «Momma K», indovinò Agon, aggrottando la fronte. «Già», risuonò dietro di loro la voce di Momma K. «Duca Gyre, il vostro castaldo ha trovato alcuni cavalli da guerra che sembra siano... sfuggiti ai contabili della regina. Scoprirete che queste signore sono impazienti di accettare qualsiasi ordine sul campo di battaglia». «Queste donne non sono...». Logan s'interruppe. Non voleva insultarle. Abbassò la voce «Saranno massacrate». «Non è quel che ci ha chiesto di fare Momma K», replicò Kaldrosa Wyn. «Ci ha detto che eravamo stupide. Ma non abbiamo intenzione di farci condizionare. Signore, ieri ci avete liberate dall'ignominia. Ci avete reso onore, ma è ancora fragile. Vi prego, non toglietecelo».
«Che succede qui? Cosa fanno queste puttane davanti al mio esercito?», urlò Terah Graesin, tirando le redini del suo cavallo proprio vicino ad Agon. «Combatteranno per voi», rispose Agon. «E voi non potete farci assolutamente niente». «Ah, non posso?», ribatté Terah. «No, ma per questo motivo». Agon indicò un punto lontano. Nella prima luce caliginosa dell'alba, stava avanzando l'esercito khalidoriano. Mentre Kylar e Vi risalivano dalle Fauci dentro il castello di Cenaria, il tanfo caldo che appesantiva l'aria si attenuò e anche l'ombra di Khali parve farsi meno opprimente. Kylar aveva attraversato quei corridoi solo quattro mesi prima, percorso alcuni di quei passaggi per uccidere Roth Ursuul. Adesso, tuttavia, usò una strategia diversa. Ormai, i Khalidoriani conoscevano tutti i segreti del castello: i passaggi segreti e le finte pareti, gli spioncini e le porte nascoste. Adesso, non avrebbe preso i passaggi sotterranei che portavano dritti nella sala del trono. Però a quella distanza dalla sala del trono e dalle stanze del re, i passaggi erano la via più sicura per Vi, che non poteva rendersi invisibile. Così un'ora prima dell'alba, penetrarono nei tunnel e si mossero in silenzio sopra le teste e dietro le schiene di dozzine di soldati. Kylar non pensava che avessero avuto sentore del suo arrivo, così sperò che la loro presenza dipendesse solo dal fatto che, alla vigilia di una battaglia, il Re Divino esigesse maggiore sicurezza. Il numero dei soldati lo preoccupò. Nell'imminenza di una battaglia, un comandante qualsiasi avrebbe lasciato al castello il minimo indispensabile dei propri uomini. Le stanze del re erano nell'ala ovest. Kylar e Vi uscirono dai tunnel in una sala vuota della servitù, alla base dell'ultima rampa di scale prima degli appartamenti del re. Kylar fece capolino nel corridoio. La porta della camera da letto del re era in fondo a un lungo e ampio corridoio. Due Highlander armati di lancia erano di guardia.
A parte le numerose porte delle stanze della servitù allineate lungo le pareti, il corridoio non offriva alcun nascondiglio. Anche questo, pensò Kylar, non era un problema per lui, ma per Vi lo era eccome. Forse non avrebbe dovuto portarla con sé. Momma K credeva che avrebbe avuto bisogno di lei, ma cominciava a pensare che gli fosse solo d'impaccio. Avrebbe eliminato le due guardie da solo. Era possibile, ma ognuno dei due aveva accanto la fune di una campana d'allarme. Kylar non dubitava che li avrebbe uccisi entrambi, ma eliminarli e allo stesso tempo tenerli lontani dalle funi? Si ritirò nella stanza e disse: «Perché non aspetti qui finché quei due...». Vi era a seno nudo, intenta a distendere un vestito che aveva preso dal suo tascapane. Kylar rimase a bocca aperta, pietrificato. Quando finalmente alzò gli occhi, l'espressione di Vi era del tutto disinvolta. Kylar arrossi e distolse lo sguardo. Un tascapane lo centrò nello stomaco. «Prendi il corpetto, vuoi?», lo pregò Vi. Tirò fuori il corpetto e glielo porse, mentre la ragazza si contorceva cercando di infilarsi un vestito da cameriera. Si piegò in avanti e arrotolò le gambe dei pantaloni in modo che non spuntassero da sotto la gonna, e lanciò un'altra occhiata a Kylar. Il giovane tossì, imbarazzato. Vi gli strappò il corpetto dalle dita inerti. «Dico sul serio, Kylar, smettila di comportarti come una vergine...». Vergine! Quanto detestava quella parola! «Sono sicura che non è la prima volta che vedi una donna nuda». In realtà, lo era, ma Kylar sarebbe morto - davvero - prima di ammetterlo davanti a Vi. Elene non gli aveva mai mostrato il seno, anche se non aveva sempre fermato le sue mani che brancolavano in quel territorio rigoglioso. Aveva sempre voluto rinviare tutto il più possibile finché non fossero sposati. E se in qualche modo Kylar aveva violato quei confini - bastardo - ogni passo in avanti gli era parso un dono immenso e prezioso. Allora era stato estremamente frustrante, ma mentre Vi si allacciava in fretta il corpetto e sistemava la scollatura, fu diverso. Per Vi, mostrarsi nuda non era niente. Non si era nemmeno girata mentre pescava un seno alla volta dentro il corpetto e lo sollevava per offrire la vista migliore. Kylar aveva
creduto che il seno di Elene fosse la perfezione assoluta, ma quello di Vi era più grande, più sodo. Non potevi guardarla senza notarlo. Questo la rendeva automaticamente provocante - eppure... eppure per lei erano soltanto capezzoli. Strumenti. Elene non era provocante in modo così vistoso, forse era meno provocante, punto e basta. Ma c'era qualcosa di dozzinale nella sensualità di Vi, qualcosa che portava Kylar a pensare che non ne avrebbe tratto alcuna gioia. Qualcosa che le era stato tolto, dai libidinosi amanti della madre, da Hu Gibbet, dai clienti di Momma K e dalle scopate occasionali. Le emozioni di Kylar passarono velocemente dall'eccitazione alla malinconia. Vi prese un cesto di vimini per la biancheria e lo riempì di vestiti, compresa la sua tunica. Sotto l'ultima veste, nascose un pugnale. «Cosa ti sembro?». Quell'abbigliamento gli sembrò stranamente familiare. Quel giorno la scollatura non era così generosa, in armonia con il decoro di casa Drake, ma gli indumenti erano gli stessi che Vi indossava quando aveva cercato di ucciderlo. «Una figlia di puttana», rispose. La ragazza ridacchiò e sfilò davanti a lui. «Fa sembrare più grosso il mio fondoschiena?» «Porta il tuo grosso culo nel corridoio». Vi scoppiò a ridere e si appoggiò il cesto sul fianco. Era provocante, splendida, seducente, e adesso doveva aggiungere anche il divertimento? Maledizione, prima l'aveva quasi baciata! Senza dubbio, se l'avesse fatto, avrebbe avuto di già un coltello piantato nella schiena, ma per un secondo aveva creduto che anche lei lo desiderasse. Si avviò ancheggiando lungo il corridoio, e subito gli occhi dei due Khalidoriani le si incollarono addosso. Uno dei due borbottò una bestemmia. «Salve», esordì Vi, piantandosi di fronte alla guardia sulla sinistra. «Sono nuova qui e mi stavo chiedendo se...». Il suo coltello affondò così profondamente nella gola dell'uomo che arrivò quasi a decapitarlo. Kylar spezzò il collo dell'altro con una brusca torsione e uno schianto sonoro.
Vi guardò dov'era Kylar - o dove non era, dal momento che era invisibile. «Incredibile», commentò la ragazza. Pulì il pugnale e lo infilò di nuovo nel cesto. «Bene, tu entra fra dieci secondi o non appena senti la mia voce. Se il Re Divino si sveglia, lo distrarrò e tu lo ucciderai. Se continua a dormire, lo faccio fuori io». Aprì adagio la porta ed entrò senza far rumore. Alcuni secondi dopo, uscì. Aveva il volto verde di rabbia. «Non c'è», disse. «Cosa c'è che non va?». Kylar tentò di spingerla da parte, ma la ragazza lo bloccò. «È meglio che non entri». La spinse da parte. La stanza era piena di donne. Erano immobili, come statue in pose diverse. Una era nuda, carponi, e sosteneva sulla schiena una lastra di vetro, a simulare un tavolino. Un'altra, un'alta nobildonna che Kylar riconobbe senza ricordare il nome, era in punta di piedi con il corpo allungato in modo provocante, un braccio e una gamba avviluppati intorno a una colonna dell'imponente letto del Re Divino. Chellene Gyre sedeva a gambe incrociate su una poltrona con lo schienale alto. Kylar non conosceva nulla di lei, se non la sua reputazione di avere un temperamento focoso. Lo dimostrava nell'espressione del viso, così come nei capelli scarmigliati e nei muscoli asciutti. Quasi tutte le donne erano nude, il resto aveva ben poco addosso. Due, inginocchiate, reggevano un lavabo. Altre due uno specchio. Una era ammanettata alla parete, con un foulard intorno al collo. Kylar restò senza fiato. Era Serah Drake. Come tutte le altre, non era immobile come una statua: era una statua. Soffocando un gemito, Kylar le toccò il viso, le sfiorò le labbra che una volta aveva baciato. Erano morbide come carne viva, ma fredde, e non c'era segno di vita nei suoi occhi aperti e vitrei. Il suo corpo - i corpi di tutte - era stato congelato sul posto con qualche magia e lasciato lì. Come opera d'arte. Sotto il foulard, Kylar intravide i lividi intorno al collo della ragazza. Distolse lo sguardo. C'erano due modi di morire impiccati:
se precipitavi da un'altezza sufficiente, il collo si spezzava e morivi all'istante, altrimenti soffocavi lentamente. Serah era morta così. Indietreggiò verso la porta, ma ovunque si voltasse, vedeva particolari raccapriccianti. I braccialetti che portavano alcune donne servivano a coprire i tagli sui polsi; le camicie a nascondere cuori trafitti. Là dove c'erano più capi d'abbigliamento, era per nascondere le imperfezioni della tassidermia: era il caso delle donne che si erano buttate dai balconi e i cui corpi presentavano adesso delle protuberanze che altrimenti non avrebbero avuto. Kylar barcollò come un ubriaco. Aveva bisogno di aria. Stava per vomitare. Si precipitò sul grande balcone del Re Divino. La ragazza era seduta sulla ringhiera di pietra, i piedi ancorati alle colonnine per tenersi in equilibrio, la schiena protesa nel vuoto, nuda, la camicia da notte in una mano, che sventolava come una bandiera. Mags. Kylar urlò. Il Talento trapelò attraverso la sua furia e il suo grido riecheggiò nel cortile più in basso, riverberandosi sul castello. Ogni attività si fermò. Kylar non se ne accorse, e non notò neppure il ka'kari che scorreva veloce sopra la sua pelle, il volto del castigo che copriva la sua angoscia. Con un colpo violento del palmo della mano, frantumò la ringhiera di pietra accanto a Mags, poi fece altrettanto sull'altro lato, sollevò il corpo della sventurata e lo portò dentro la stanza. Il contatto con la sua pelle, così simile a pelle viva, fu ripugnante. Le sue membra erano pietrificate in quella posizione. La adagiò sul letto, poi spezzò le catene che legavano Serah Drake alla parete. La posò delicatamente accanto alla sorella. Mentre le copriva, vide che il piede sinistro di ogni ragazza era firmato con una grafia tondeggiante, come se i loro cadaveri fossero opere d'arte: Trudana Jadwin. Gli occhi sgranati di Vi guizzarono da Kylar alla ringhiera di pietra spessa quindici centimetri, frantumata. «Cazzo», sussurrò. «Kylar, sei tu?». Annuì impassibile. Voleva rimuovere la maschera del castigo, ma non ci riuscì. In quel momento ne aveva bisogno.
«Ho guardato nelle stanze delle concubine», lo informò Vi. «Niente. Deve essere già nella sala del trono». Uno spasmo allo stomaco fece sussultare Kylar. «Che hai?», gli chiese Vi. «Brutti ricordi», rispose Kylar. «Al diavolo. Andiamo». L'alba si avvicinava. Uccidendo le due guardie, avevano già capovolto la loro clessidra. Presto qualcuno avrebbe dato loro il cambio - probabilmente all'alba. Ancora peggio, la clessidra dell'esercito cenariano si stava già vuotando. La battaglia sarebbe iniziata a breve, e con tutte le sue spiacevoli sorprese. Se Logan voleva avere una possibilità di diventare re, Kylar doveva consegnargli una vittoria. Uccidere Garoth Ursuul avrebbe scoraggiato i Khalidoriani. Percorsero i corridoi senza paura. Vi nella sua uniforme da cameriera, e Kylar invisibile, ma passando comunque velocemente da un vano della porta all'altro, nel caso che qualche Meister si fosse avventurato lungo i corridoi. Quando raggiunsero l'ultimo vestibolo, superarono i sei Highlander più enormi che Kylar avesse mai visto. Si nascose dietro una statua appena si accorse che i sei giganti erano accompagnati da due Vürdmeister. Il fatto curioso era che la protezione sembrava allestita per una donna - a quanto pareva una delle mogli o concubine del Re Divino -, completamente avvolta in tuniche e veli in modo che nemmeno un centimetro della sua pelle fosse visibile. Quando Kylar tirò fuori i suoi coltelli per ucciderli, Vi gli posò una mano sul braccio. Di fronte al suo sguardo implacabile, Vi si ritrasse, ma aveva ragione. Uno scontro avrebbe pregiudicato l'intera missione, e non c'era niente che avrebbe impedito a Kylar di uccidere Garoth Ursuul. Lo stomaco di Kylar era in subbuglio. Non si placò nemmeno quando il drappello girò l'angolo e scomparve. Era lo stesso vestibolo in cui si era fermato con Elene e Uly, prima di andare incontro alla sua prima morte. Si tranquillizzò. Garoth Ursuul era molto più potente di Roth Ursuul, ma adesso lo era anche Kylar. Era più sicuro di sé. Allora era
un ragazzo che cercava di dimostrare di essere un uomo; adesso era un uomo che aveva fatto una scelta, sapendo quanto gli sarebbe costata. Con un sorriso sprezzante, disse: «Allora, Vi, sei pronta a uccidere un dio?».
Capitolo 66 Gli uomini si sedettero sulla sommità della collina a sud del campo di battaglia: sei fra i più potenti maghi dei Sa'seuran. I loro abiti non tradivano la loro identità. Ognuno indossava normali vesti da mercante in viaggio dalla sua terra natia: quattro Alitaeriani, un Waeddryner e un Modaini. I loro robusti cavalli da soma trasportavano un ragguardevole quantitativo di merci, e anche se le loro cavalcature erano migliori di quelle usate dalla maggior parte dei mercanti, non erano così speciali da attirare l'attenzione. Ma se non erano gli abiti a tradirli, ci pensava il loro portamento. Erano uomini che percorrevano la terra a passi lunghi e decisi, con la sicurezza di un dio. «Non dovrebbe essere così piacevole», disse il Modaini. Antoninus Wervel era un uomo basso e trasandato con un naso tondo e rubizzo e una frangia di capelli castani pettinata indietro sulla zucca lucida. In puro stile modaini, si era truccato gli occhi con il kohl e aveva scurito e allungato le sopracciglia. Gli rivolse uno sguardo bieco. «Quanti Meister pensi che abbiano?», domandò a uno dei gemelli alitaeriani, Caedan. Il giovane magro sussultò. Caedan era uno dei due veggenti del gruppo, e doveva occuparsi dei rilevamenti. «Scusate, scusate. Stavo solo - Ma le guardie del corpo di quell'uomo sono tutte donne?» «Certamente no». «E invece sì», disse lord Lucius. Era il capo della spedizione, e l'altro veggente. Ma era più interessato al fronte opposto. «I Khalidoriani hanno almeno dieci Meister, probabilmente venti. Sono radunati in gruppo». «Lord Lucius», disse timidamente Caedan. «Credo che abbiamo sei Vürdmeister là, più indietro, al centro. Sembra che siano riuniti intorno a qualcosa, ma non saprei dire cosa».
L'uomo basso e trasandato sbuffò. «Quanti Toccati combattono per Cenaria?». Lo disse per irritare gli Alitaeriani. In Modai, "Toccati" significava "dotati di Talento", e non "pazzi" come in Alitaera. Caedan non se ne curò. «Ci sono un uomo e una donna nelle file dei Cenariani, entrambi addestrati, vicini fra loro. E molti altri non addestrati». «E fra i razziatori ceuriani?» «Non ho visto i Ceuriani da quando hanno superato la sporgenza rocciosa». L'altro giovane alitaeriano, Jaedan, sembrava infelice. Era identico al gemello, il giovane veggente, con gli stessi lineamenti attraenti, gli stessi capelli neri flosci, e doni totalmente diversi. «Perché sono così stupidi?», domandò. «Abbiamo visto tutti l'armata Lae'knaught venire su da sud. Cinquemila lancieri che odiano i Khalidoriani più di ogni altra cosa. Perché i Cenariani non aspettano che arrivino qui?» «Potrebbero non sapere che i Lae'knaught stanno arrivando», osservò lord Lucius. «O potrebbero non arrivare, e aspettare di far fuori i vincitori uno a uno. Oppure Terah Graesin vuole la gloria tutta per sé», suggerì Wervel. Jaedan non riusciva a crederci. «Non resteremo seduti qui, vero? Per la Luce! I Cenariani verranno annientati. Venti Meister. Possiamo catturarli. Io potrei prenderne tre o quattro, e so che il resto di voi può fare altrettanto se non di più». «Dimentichi la nostra missione, Childe Jaedan», disse lord Lucius. «Non siamo stati inviati per combattere una guerra altrui. I Khalidoriani non rappresentano una minaccia per noi...». «I Khalidoriani rappresentano una minaccia per tutti!», protestò Jaedan. «SILENZIO!». Jaedan si ammutolì, ma l'espressione di sfida sulla sua faccia rimase inalterata. La linea cenariana cominciò ad avanzare al piccolo trotto, e l'esercito, come un'enorme bestia, partì di slancio.
Caedan sussultò. «Avete... avete sentito?», chiese. «Cosa?», domandò Wervel. «Non lo so. Solo - non lo so. Come un'esplosione? Posso andare a vedere cosa stanno facendo i Ceuriani, lord Lucius?» «Abbiamo bisogno dei tuoi occhi fissi sulla battaglia. Osserva e impara, ragazzo. Abbiamo la rara opportunità di vedere come combattono i Khalidoriani. Anche tu, Jaedan». I ranghi dell'esercito khalidoriano non erano serrati: accanto a ogni guerriero c'era spazio per un arciere. Gli arcieri si prepararono, posando le frecce sul terreno dove potevano afferrarle facilmente. Davanti a tutti, le squadre di due Meister aspettavano a cavallo, le armature sfolgoranti. «Cosa faranno, Caedan?», domandò lord Lucius. «Fuoco, signore? E poi fulmini, credo». «E perché?» «Per spaventare a morte i Cenariani? Cioè, per gli effetti sul morale, signore», rispose Caedan. La linea cenariana continuava ad avvicinarsi al piccolo trotto. Adesso erano a quattrocento passi di distanza. Il gruppo comandato dal generale Agon era avanzato in prima linea e si era diviso, ma non in due o in tre gruppi. I pochi cavalieri e i fanti formarono una linea segmentata lunga quanto il fronte cenariano. «Cosa diavolo sta facendo?», chiese uno degli Alitaeriani. Per un lungo momento, nessuno rispose. Non poteva sperare di spezzare la linea khalidoriana con un fronte così poco compatto. La sua mossa, oltretutto, lasciò un vuoto nel centro cenariano. Ma mentre continuavano a seguire la scena, un altro generale cenariano, il duca Wesseros, ordinò ai suoi uomini di riempire quel vuoto. «È un genio. Sta riducendo al minimo le sue perdite», commentò Wervel. Per un momento nessuno fece domande. Se c'era una cosa che i maghi detestavano più del non capire qualcosa, era non capire
qualcosa dopo che qualcuno l'aveva capita per primo e aveva dato loro un indizio. «Cosa?», disse Jaedan. «Pensa come un Meister, ragazzo. Tu avresti abbastanza vir per... quante? cinque? dieci? sfere di fuoco prima di sentirti esausto. Di solito, uccidi da uno a cinque uomini con ogni sfera di fuoco. Con una linea così rarefatta, ne ucciderai uno. Potresti anche mancarlo completamente. Agon sa che sta giocando d'azzardo. Se la linea principale arriva a supportare la sua troppo tardi, la sua prima linea verrà massacrata, ma se colpiscono entro cinque o dieci secondi, avrà salvato centinaia di vite e annullato gli... effetti sul morale. Sembra che abbiamo trovato un generale che sa come combattere i Meister. Potrebbe esserci una speranza per Cenaria, dopo tutto». A duecento passi di distanza, la linea acquistò velocità. Gli arcieri nelle linee khalidoriane scagliarono la loro prima raffica, e uno stormo di duemila frecce con le penne nere prese il volo. Per un lungo secondo, oscurarono un cielo già tetro, proiettando l'ombra della morte sull'alba. Quando scesero in picchiata sulla terra, affondarono i loro becchi uncinati nel suolo, nelle armature e nelle carni di uomini e cavalli. Di nuovo, i ranghi sciolti salvarono centinaia di vite ma, lungo la linea cenariana, gli uomini si accasciarono sui campi coperti di stoppie, passando in un istante da una corsa veloce all'immobilità della morte. Altri caddero, feriti, con braccia e gambe trafitte per finire calpestati dai loro amici e compatrioti un attimo dopo. Cavalli senza più cavalieri proseguirono la loro corsa solo perché i destrieri al loro fianco erano ancora lanciati alla carica. Cavalieri persero i loro animali e furono scaraventati a terra a grande velocità, a volte volando via dalla sella e rialzandosi per correre con i loro compagni appiedati, a volte rimanendo intrappolati nella sella e schiacciati sotto il peso del cavallo. L'esercito khalidoriano si comportava come solo i veterani sono in grado di fare. Gli arcieri scoccarono tutte le frecce possibili in pochi secondi, poi, mentre veniva innalzata una bandiera, ognuno afferrò
le frecce rimaste e ripiegò. I ranghi erano articolati in linee perfette, per consentire a ogni arciere di ritirarsi dietro i lancieri e gli spadaccini che li avrebbero protetti dalla mischia. Mentre si ritiravano, senza che venisse impartito alcun ordine, le linee posteriori riempivano il vuoto lasciato dagli arcieri. La manovra non era niente di speciale, ma lo era la rapidità con cui l'esercito la eseguiva, nonostante migliaia di nemici lanciati all'attacco. I Meister scagliarono fuoco. I loro piani originari erano ormai sconvolti, e alcuni lanciarono sfere incandescenti contro i cavalli in corsa, mentre altri, sperando ancora di creare l'effetto di una tempesta di fuoco, disseminarono gocce roventi sui campi coperti di stoppie. Quel che avrebbe di solito spezzato e disorientato un'intera linea, nei secondi cruciali prima dell'impatto, nemmeno rallentò i Cenariani. Lo scontro fra le due linee fu chiaramente udibile dai maghi, nonostante si trovassero a una notevole distanza. Uomini e cavalli si impalarono sulle lance e il loro slancio li fece piombare fra i ranghi khalidoriani. Altri cozzarono a tutta velocità contro gli scudi khalidoriani spedendo uomini a gambe all'aria, ma i Cenariani in quel primo rango dovevano essere veterani. Nella maggior parte degli eserciti, a prescindere dagli ordini dei comandanti, molti degli uomini rallentavano prima dell'ultimo impatto. L'idea di scontrarsi a tutta velocità contro una linea irta di lance e spade paralizzava quasi tutti i soldati. Ma questi non si posero dubbi del genere. Irruppero nella fila khalidoriana con tutta la loro potenza. Fu uno spettacolo straordinario e terrificante. Ma vennero quasi inghiottiti prima che il grosso della linea cenariana si scontrasse con i Khalidoriani. L'onda d'urto si propagò lungo l'intera linea nemica, facendola arretrare di una decina di passi. Dai loro cavalli, i Meister attaccavano con fuoco e fulmini; ma dalle retrovie cenariane, arcieri a cavallo davano loro la caccia, spostandosi avanti e indietro, fermandosi, scagliando frecce dai loro archi corti e allontanandosi rapidamente. Quei colpi sembravano impossibili - un arco corto che uccideva da duecento o trecento passi di distanza? Caedan esaminò di nuovo gli arcieri, ma non erano dotati di Talento, di questo ne era certo. Per Caedan, fu come
osservare delle candele spegnersi una alla volta, man mano che i Meister cadevano di sella. Le linee si spostarono in avanti e indietro, sparpagliandosi in mille combattimenti individuali. I cavalli volteggiavano, scalpitavano, scalciavano e mordevano. I Meister trafiggevano uomini col fuoco, ne incendiavano altri, attaccavano con clave e spade di pura magia, e a volte cadevano morti sotto i colpi delle frecce. Nell'arco di cinque minuti, diciassette dei venti Meister erano crivellati di frecce e la linea khalidoriana si stava assottigliando nel mezzo. Il gigante cenariano che aveva guidato la prima carica sembrava essere un faro di speranza. Ovunque andasse, i Cenariani spingevano per seguirlo. E adesso era lui che stava pressando per spezzare la linea khalidoriana. Caedan borbottò un'imprecazione. «Da dove sono venuti?», chiese. I maghi seguirono il suo sguardo. Ranghi di Highlander khalidoriani si stavano formando su ogni lato del campo di battaglia. «Le grotte», disse Wervel. «Cosa stanno facendo?». Gli Highlander si sparpagliarono e si diressero lungo i bordi e il fondo del campo di battaglia. Erano almeno cinquecento uomini, ma non si lanciarono all'attacco. Non sembravano per nulla preoccupati del fatto che stavano perdendo il vantaggio della sorpresa. Si allargarono in tre linee sempre più rarefatte, quasi a racchiudere il fondo del campo. «Signore», disse Caedan. «Credevo che si tentasse di circondare il nemico solo quando lo si supera di numero». Lord Lucius parve turbato. Stava osservando le retrovie khalidoriane dove si erano radunati i Vürdmeister. «Cos'è quella cosa in catene in mezzo ai Vürdmeister?» «Non è un...», cominciò a dire uno dei maghi. «No di certo. Sono solo leggende e superstizioni». «Che Dio abbia misericordia», disse Wervel. «Lo è».
Capitolo 67 «No», disse Vi. «Non posso». Kylar si rivolse a lei con uno sguardo severo. «Tu... tu non sai che aspetto ha. Non hai mai guardato nei suoi occhi. Quando vedi te stesso nei suoi occhi, stai guardando in faccia la tua miseria. Ti prego, Kylar». Kylar digrignò i denti e distolse lo sguardo. Sembrava richiedere uno sforzo cosciente, ma poco a poco la maschera terrificante si dissolse e lasciò riemergere il suo volto. Gli occhi erano ancora freddi come ghiaccio. «Sai, il mio maestro si sbagliava su di te. Era lì quando Hu Gibbet ti ha presentato al Sa'kagé. Mi ha detto che hai criticato duramente gli altri sicari. Mi ha detto di stare attento, perché tu potevi essere il sicario migliore della nostra generazione. Ti ha definita un prodigio. Ha detto che non c'erano cinque uomini nel regno in grado di batterti. Ma non dovevano farlo. Ti sei sconfitta da sola. Durzo si sbagliava. Non sei nemmeno nella mia stessa categoria». «Vaffanculo! Tu non sai...». «Vi, è questo quel che conta. Se non sei con me adesso, sono tutte cazzate». Mentre gli occhi di Kylar la sondavano, Vi si sentì cambiare. Era infuriata con se stessa, poi con Kylar e poi di nuovo con se stessa. Non poteva deludere Kylar. Non aveva mai permesso che niente fosse più importante di se stessa. E ora, nella cieca stupidità dell'infatuazione, meritarsi il rispetto di quest'uomo era più importante della sua vita. Quel che la esasperava era che non si trattava nemmeno di una competizione. Eppure il suo debole per Kylar la stava spingendo verso l'unica cosa che avrebbe dovuto realmente temere - per Nysos! Si sentiva così confusa. «Va bene!», sbottò. «Girati!».
«Hai un pugnale?», ironizzò Kylar mentre le voltava le spalle. «Sta' zitto, borioso figlio di puttana». Oh, magnifico, Vi. Ti sei resa
conto che ti piace, e così lo insulti - per aiutarti a trovare il coraggio. Fece scivolare a terra il vestito e infilò la sua tunica da sicario. Si stava comportando come una brava fanciulla. AAAH! Aveva appena provato otto emozioni nell'arco di tre secondi. «Ok», disse. «Adesso puoi voltarti. Mi spiace per... prima. Speravo di...». Cosa aveva sperato? Di impressionarlo? Di sedurlo? Di scorgere l'ardore del desiderio in quegli occhi freddi? «...di scioccarti», concluse. «Oh, ci sei riuscita». «Lo so». Non poté fare a meno di sorridere. «Tu non sei come tutti gli uomini che ho conosciuto, Kylar. Tu hai una sorta di... di innocenza». Il giovane si accigliò. «Quando hai vissuto esperienze come le mie, è davvero... delizioso. Cioè, non sapevo che i ragazzi potevano essere come te». Perché tutt'a un tratto le era sfuggito di bocca? «Tu mi conosci appena», disse Kylar. «Io... merda, non è un elenco di fatti a renderti diverso, Kylar. E diversa la sensazione che dai». Era agitata. Era lui che fingeva deliberatamente di non capire? «Oh, al diavolo», si arrese Vi. «Credi che potrebbe mai funzionare fra noi?»
«Cosa?», sbottò Kylar. Il tono della sua voce avrebbe dovuto
chiudere la bocca a Vi.
«Hai capito. Io e te. Insieme». Un'espressione incredula si diffuse sul suo volto e confermò ogni dannata opinione che lei aveva sempre avuto di se stessa. «No», disse Kylar. «No, non credo». No, tu sei una merce avariata, Vi pensò che avesse voluto dirle. Si ammutolì. «Perfetto», disse Vi. Puttana una volta, puttana per sempre. «Perfetto. Abbiamo un lavoro da fare. Ho un piano».
Kylar sembrava sul punto di dire qualcosa. L'aveva colto totalmente alla sprovvista. Merda, che cosa si aspettava?
Per Nysos, ha ammirato il tuo seno. È gentile con te. Tu sei ancora quella che ha ucciso il suo migliore amico, rapito sua figlia e diviso la sua famiglia. Merda, Vi, ma che ti eri messa in mente? «Ok», disse Vi, prima che Kylar potesse dire una cosa qualsiasi. «Se noi entriamo di nascosto, capiranno che è un'aggressione. Non abbiamo idea della loro forza, né di quanti siano là. Ma se io entro a testa alta a riferire della tua, be', morte, non sospetteranno nulla. Se tu passi dalla porta laterale, puoi decidere quando colpire. Non appena li vedrò crollare a terra - cominciando preferibilmente dal re - mi getterò anch'io nella mischia, va bene?» «Non suona molto convincente», osservò Kylar. «Ma suona meglio di ogni altra idea che mi era venuta in mente. Una cosa...». Non finì la frase. «Cosa?». Ormai Vi era impaziente di andare, di chiudere quella conversazione, di uscire da quel pasticcio. «Se mi uccide, Vi... Porta il mio corpo fuori di qui. Non lasciare che se ne impadroniscano». «Che ti importa?» «Fallo e basta». «Perché?». Adesso gli stava scaricando addosso la sua frustrazione. Magnifico. «Perché io ritorno. Non muoio per sempre». «Tu sei pazzo». Sollevò una piccola sfera nera e lucida, che si sciolse e avvolse la sua mano come un guanto. La mano scomparve. Un momento dopo, c'era di nuovo la sfera. «Se Ursuul si impadronisce di questa, prenderà i miei poteri. Tutti». Vi aggrottò la fronte. «Se ne usciamo vivi, dovrai rispondere a parecchie domande».
«Mi sembra ragionevole». Esitò un momento. «Vi? È stato bello lavorare con te». Senza aspettare la sua risposta, Kylar strinse la sfera fra le dita e scomparve. Vi si avviò lungo il corridoio. Stranamente, non s'imbatté in alcuna pattuglia finché non si trovò di fronte ai quattro soldati che sorvegliavano le porte principali della sala del trono. Gli uomini la squadrarono stupiti. Sembrarono aver dimenticato le armi, mentre i loro occhi indugiavano proprio là dove avrebbero dovuto. «Dite al Re Divino che Vi Sovari è venuta a ricevere la sua ricompensa». «Non si può disturbare il Re Divino, tranne nel caso in cui...». «È uno di quei casi», sibilò Vi, prima sporgendosi in avanti perché gli occhi dell'uomo si perdessero nella sua scollatura, e poi sollevandogli il mento con il coltello che si era materializzato come d'incanto nella sua mano. Il soldato deglutì. «Sì, signora». La guardia aprì i due battenti massicci della porta. «Dio, nostro Dio dei Regni Alti, Vostra Santità, Vi Sovari chiede umilmente di essere ricevuta». Si spostò da parte e le fece cenno di entrare. «Buona fortuna», le bisbigliò con un sorriso di scusa. Che bastardo. Come osa essere un
uomo?
In attesa nell'ultima sala, Kylar richiamò il ka'kari nei suoi occhi. Non vide alcun allarme magico. Invisibile, si mosse verso la porta. I cardini erano ben oliati. «Entra, entra, Viridiana», sentì dire dal Re Divino. «E passato troppo tempo. Temevo di dover festeggiare la morte di diecimila ribelli tutto da solo». Kylar dischiuse la porta - intanto il Re Divino continuava a parlare -, e mentre l'uomo abbracciava con lo sguardo la vista certamente notevole di Vi fasciata nei suoi indumenti da sicario, penetrò nella sala del trono. Scivolò dietro una delle enormi colonne che sostenevano il soffitto. L'entrata della servitù da cui era passato si
apriva vicino alla base dei quattordici gradini che salivano al palco. Ursuul dominava la scena dal suo trono di vetro fuso nero. Al centro della vasta sala c'era una piana ondulata ai piedi delle montagne. Alle due estremità della piana c'erano minuscole figure che si muovevano all'unisono. Kylar intuì che si trattava di eserciti in miniatura, che si andavano schierando nella luce dell'alba. Non era un dipinto o il ricamo di una battaglia; era una battaglia vera. Quindicimila soldatini che avanzavano a lunghi passi attraverso la piana. Kylar individuò anche le bandiere delle casate nobili. Le linee cenariane si stavano disponendo in formazione, seguendo... Logan? Logan guidava la carica? Ma era pura follia! Come aveva Agon potuto permettere che il re guidasse la carica? Le grandi porte si chiusero alle spalle di Vi e il Re Divino le fece cenno di avvicinarsi. Kylar aveva visto quell'uomo solo di sfuggita, quando Jonus Severing aveva tentato di assassinarlo. Si sarebbe aspettato un Re Divino vecchio e decrepito, gonfio e cascante dopo un'esistenza incentrata sul male, ma Garoth Ursuul appariva in perfetta salute. Forse era sulla cinquantina, ma sembrava più giovane di dieci anni e, sebbene avesse la corporatura tarchiata e la pelle fresca di un Highlander khalidoriano, ostentava braccia da guerriero, un viso asciutto con una barba nera e oliata e la testa rasata a lucido. Sembrava il tipo d'uomo che non solo ti avrebbe stretto vigorosamente la mano, ma ti avrebbe lasciato la sensazione di una presa salda e ruvida. «Non ti preoccupare per la battaglia», disse il Re Divino. «Puoi anche attraversare il campo, non pregiudicherà la magia. Ma fai in fretta. I ribelli stanno per caricare. È la parte che preferisco». Attraverso il ka'kari, tuttavia, Garoth Ursuul appariva come un miasma dannoso. Volti distorti in un grido sfilarono dietro di lui come una nuvola. Lo strato di morte sul suo viso era talmente spesso da nascondere i lineamenti. Tradimenti, stupri e torture adornavano le sue membra. Come un fumo venefico, il vir si insinuava e permeava ogni cosa. In qualche modo alimentava e intensificava quell'oscurità ed era così potente che sembrava riempire la sala.
Fermo dietro la colonna, Kylar notò un piccolo manipolo di soldatini combattere a pochi passi da lui. Fuori dal campo di battaglia vero e proprio, un uomo grande e grosso stava per essere travolto da quattro lancieri khalidoriani a cavallo. Solo che non fu travolto. In pochi secondi, aveva eliminato tre lancieri. Aveva un'aria familiare. Feir Cousat! Kylar sapeva di dover escogitare un modo per spostarsi senza essere visto, ma fu attratto dal dramma che si svolgeva in silenzio, a pochi centimetri di distanza. Il capo dei Ceuriani venne avanti. Feir estrasse una spada che sembrava una barra di fuoco. I Ceuriani ne furono visibilmente impressionati. Feir e il capo ceuriano combatterono per circa mezzo secondo: la prima volta che le loro lame si incrociarono, ci fu un lampo di luce. Il Ceuriano si allontanò con la spada. «Cos'era quella?», chiese il Re Divino. «Cosa?», replicò Vi. «Spostati, ragazza». Mentre Feir si inginocchiava davanti al Ceuriano (in ginocchio? Feir?), l'immagine della battaglia turbinò improvvisamente, collocando le linee khalidoriane alla base dei gradini e le linee cenariane vicino alle grandi porte. «Semplici razziatori», affermò Garoth, liquidando in due parole l'accaduto. Kylar richiamò un po' di ka'kari sulla punta delle dita, le affilò come artigli e le provò sulla colonna. Le dita affondarono nel marmo come fosse burro. Tirò delicatamente a sé la magia, e provò ancora finché non riuscì ad affondarvi le dita e ad afferrarla. La cosa si prospettava divertente. Scosse la testa. Sembrava che il ka'kari non conoscesse limiti, e questa dimostrazione non fece che rendere Kylar più consapevole di quello che possedeva. Kylar inviò un po' del ka'kari ai piedi e si arrampicò sulla colonna. Ogni passo produceva un sibilo e un sottile odore di fumo, ma fu facile come salire su una scala a pioli. In pochi secondi, Kylar raggiunse il soffitto alto quindici metri.
Qualche istante fu sufficiente per capire come regolare gli artigli perché facessero presa sul soffitto, e poi si ritrovò aggrappato come un ragno alla grande volta sovrastante il trono. Aveva il cuore in gola. Strisciò lungo il soffitto finché non arrivò direttamente sopra lo scranno, il corpo protetto da una delle volte e solo la testa invisibile allo scoperto. Il Re Divino illustrò a Vi la battaglia. «No», stava dicendo. «Non so perché i Cenariani abbiano adottato questa formazione. A me sembra esageratamente aperta». A testa in giù, Kylar osservò i ranghi cenariani scagliarsi contro la linea khalidoriana. La prima fila a colpire era piuttosto rarefatta - si domandò se avessero perso così tanti arcieri, ma qualche secondo dopo, la fila successiva si scagliò a sua volta all'attacco. Il Re Divino imprecò. «Che siano dannati. Geniale. Geniale». «Che cos'è?», chiese Vi. «Sai perché ho realizzato tutto questo, Vi?». Con il cuore che batteva all'impazzata, Kylar staccò le mani dal soffitto e distese il corpo, restando aggrappato al soffitto con i piedi, come un pipistrello. Estrasse i pugnali. Garoth Ursuul si fermò proprio sotto di lui. Poi non ci fu più paura, solo una calma certezza. Kylar si lasciò cadere da quell'altezza. Uno dei volti oscuri che aleggiava nel miasma del Re Divino gridò. Spine verdastre di vir irruppero in ogni direzione, irradiandosi dal sovrano. Kylar ne colpì una ed esplosero tutte. La scossa portò Kylar fuori rotta. Si spostò lateralmente in maniera incontrollata, sbagliò l'atterraggio e rotolò giù per i gradini. Poi sul pianerottolo e giù per la seconda rampa. Quando si fermò in fondo alle scale, aveva la testa confusa. Provò ad alzarsi ma ricadde a terra. «L'ho fatto perché un dio dovrebbe anche divertirsi un po'. Non sei d'accordo, Kylar?». Garoth gli rivolse un sorriso da predatore. Non sembrava sorpreso. «Allora, Vi, hai mantenuto la promessa. Hai ucciso Jarl e mi hai portato Kylar».
Kylar si era fidato di lei. Come poteva essere stato così stupido? Era la seconda volta che cadeva in una trappola dentro quella sala. Inspiegabilmente, provò un senso di calma. Si sentì letale. Non era arrivato fino a qui per fallire. Questo assassinio era il suo destino. «Non ti ho tradito, Kylar», disse Vi con voce sommessa e disperata. «Ah, ti ha lanciato un incantesimo che ti ha costretto ad agire così? Ti avevo dato un'opportunità, Vi. Avresti potuto sfruttarla». «Non ti ha tradito», disse il Re Divino. «Sei stato tu a tradirti». Tirò fuori due diamanti, ognuno delle dimensioni di un pollice. Erano quelli che aveva sottratto al mostro nelle viscere della terra. «Chi altri avrebbe la capacità fisica di strapparli, se non un sicario, e chi altri potrebbe sopravvivere alla magia se non un portatore di ka'kari nero? È da un'ora che sapevo che saresti arrivato». «Allora, perché volete ricompensarla?», domandò Kylar. «Vuoi che uccida anche lei?». Il volto di Kylar s'incupì. «Lo volevo, prima che voi lo diceste». Il Re Divino scoppiò a ridere. «Tu sei un orfano, Kylar, non è così?» «No», rispose. Si alzò in piedi. La testa si stava lentamente sgombrando dagli effetti della botta, e Kylar poteva giurare che le ferite sul suo corpo stavano già guarendo. «Ah, giusto, i Drake. Magdalyn mi ha raccontato tutto. Pensava che tu l'avresti salvata. Poverina. Quando hai ucciso Hu Gibbet, mi hai davvero fatto arrabbiare. Così l'ho uccisa». «Bugiardo». «Hu è morto?», volle sapere Vi. Sembrava attonita. «Ti sei mai chiesto chi sia il tuo vero padre, Kylar?» «No», rispose. Tentò di muoversi e si trovò circondato da spesse fasce di magia. Le esaminò. Erano semplici, uniformi. Il ka'kari le avrebbe divorate senza problemi. Andiamo, continua a sorridere,
essere diabolico.
Garoth sorrise. «C'è una ragione se sapevo che saresti venuto, Kylar, una ragione per cui sei dotato di un Talento così straordinario. Io sono tuo padre». «COSA?» «Ah, scherzavo», disse, continuando a ridere. «Non mi sto comportando da bravo ospite, vero? Sei venuto qui tutto pronto a combattere una grossa battaglia, non è così?» «Credo di sì». Garoth era di buon umore. «Potrebbe servirmi a fare un po' di riscaldamento. Che ne dici, Kylar, ti va di combattere un ferali?» «In realtà non ho altra scelta, no?» «No». «Bene allora, perbacco, mi piacerebbe da matti combattere un ferali, Gare». «Gare», ripeté il Re Divino. «Non mi chiamavano così da trent'anni. Prima che cominciassimo...». Si voltò. «Vi, è tempo di decidere. Se mi servirai di buon grado, ti ricompenserò. Mi piacerebbe. Ma mi servirai in ogni caso. Sei vincolata a me. La coercizione non ti permetterà di farmi del male. E non ti permetterà nemmeno di lasciare che siano altri a nuocermi, finché avrai vita». «Non vi servirò mai!», ribatté Vi. «Comprensibile, ma forse vorrai lasciare la parte peggiore del combattimento ai ragazzi». «Vaffanculo», disse Vi. «È una innegabile possibilità, bambina». A un cenno di Garoth, una porta si spalancò alle sue spalle. «Tatts, perché non entri?». Il ferali avanzò strusciando i piedi. Adesso aveva la forma di un uomo gigantesco, con i tatuaggi ancora visibili sulla pelle bitorzoluta. Nonostante la sua altezza - circa tre metri - e la solidità delle sue membra, Kylar notò che il ferali non era grosso come era stato solo un'ora prima. La faccia del mostro sembrava umana, e imbarazzata.
«Fra un momento starai meglio, te lo prometto», lo rassicurò il Re Divino. Piantò i diamanti nella spina dorsale della creatura, che lanciò un urlo non più umano e poi si immobilizzò. Garoth lo ignorò. «Sai perché non hai mai sentito parlare di un ferali? Sono costosi. Primo, hai bisogno di diamanti, altrimenti non potrai controllare quei dannati esseri. Ma l'avevi giù intuito, vero? Secondo, devi prendere un uomo e torturarlo finché non gli sia rimasto altro che la rabbia. Di solito sono necessari centinaia di tentativi prima di trovare l'uomo giusto. Ma anche allora, non basta. La magia necessaria va al di là di quel che un Re Divino può fare da solo. Richiede l'intervento diretto di Khali. E questo ha un prezzo». «Non capisco», disse Kylar. Stava studiando il ferali: era solo una massa di muscoli, poteva solo mutare rapidamente forma. Tenere queste cose bene a mente avrebbe cambiato tutto. «Non lo avevano capito nemmeno Moburu o Tenser. Ma ora sì. Questa volta ho fatto pagare loro il prezzo. Capisci, Khali si ciba di sofferenza, così le offriamo ogni crudeltà che riusciamo a inventare. In cambio, lei ci dà il vir. Ma per offrire un potere maggiore, Khali pretende di più. Quando ero in guerra con i miei fratelli, Khali si offrì di aiutarmi a creare un ferali se avessi ospitato uno Straniero. Ne hai mai sentito parlare? Il primo che ho avuto venne chiamato Orgoglio. Era un piccolo prezzo da pagare per la santità. Sfortunatamente, Khali non mi disse che un ferali avrebbe divorato se stesso se non gli veniva data altra carne. Non ne creai un altro finché mio figlio Dorian non mi tradì, e ho scoperto che Lussuria era un compagno più detestabile - come Vi scoprirà presto, i miei appetiti sono sempre più esotici. Resistete, quella linea non si sta comportando bene, vero?». Sul campo di battaglia fittizio, Logan stava incalzando il fronte khalidoriano nel centro, trasformandolo in una linea a falce di luna. «Mmm», disse il Re Divino. «Più veloce di quanto avessi previsto». Tirò fuori una bacchetta, che cominciò a scintillare nella sua mano. Dai bordi del campo di battaglia, altre migliaia di soldati khalidoriani cominciarono a premere sui fianchi dell'esercito cenariano. Altri ranghi avanzarono per rafforzare la sezione centrale della falce di luna.
Garoth non stava cercando di vincere la battaglia. Voleva semplicemente circondare i Cenariani per sguinzagliargli addosso il ferali di Moburu. Kylar provò un senso di nausea. A cosa serviva un numero sconfinato di vittime? «Ci vorranno alcuni minuti prima che siano in posizione», comunicò Garoth. «Dov'ero rimasto?» «Credo alla parte della battaglia per la vita o per la morte», rispose Kylar. «Oh, no, no». Garoth salì i gradini e tornò a sedersi sul trono scolpito nel vetro fuso. Kylar lo vide erigere barriere magiche intorno a sé. «Lasciato solo, un ferali è praticamente privo di ragione, ma - e questo è il lato più incredibile - può essere cavalcato. Dimmi, non è divertente?» «Lo sarebbe di più se potessi muovermi», ribatté Kylar. «Sai perché mi sono dato tanto da fare per portarti qui, Kylar?» «Forse per il mio straordinario senso dell'umorismo?» «Il tuo Divoratore ha un altro nome. È chiamato il Sostenitore. Guarisce ogni timore della morte, sai?» «Non vi sarà d'aiuto», replicò Kylar. «Oh, sì. So come spezzare un vincolo. Nel mio cervello c'è un'escrescenza innaturale. Mi sta uccidendo, e tu mi hai portato l'unica cosa che può salvarmi». «Ah, può aiutare a guarire il tumore», disse con asprezza, «ma la vostra arroganza è ormai terminale». Un lampo balenò negli occhi del Re Divino. «Divertente. Andiamo. La storia di questo "Angelo della Notte" è finita». «Finita?», ripeté Kylar. «Ho appena cominciato a scaldare i muscoli».
Capitolo 68 I vincoli si affievolirono
e Vi cominciò a combattere. Si riprometteva continuamente di usare il proprio Talento, ma non era in collera. Aveva sempre pensato di essere una megera fredda e senza cuore. Si era aggrappata a quella identità. L'aveva resa capace di sopportare il vuoto della notte, la bancarotta dell'anima che si trascinava dietro da tempo immemorabile. Con la dichiarazione che non avrebbe mai servito il Re Divino - melodrammatica o meno che fosse - sentì di aver fatto il suo primo deposito in quella banca. Adesso stava combattendo per qualcosa. No, per qualcuno, ed era la prima cosa altruista che avesse mai fatto. Il ferali inarcò la schiena e le ossa si mossero velocemente sotto la pelle. Nel tempo necessario a Vi per corazzarsi, era diventato un essere simile a un centauro, solo che al posto del corpo equino aveva quello di un puma. Era più corto, più mobile sulle quattro zampe, ma il torso e le braccia erano umani. Afferrò una lancia nelle sue mani umane e si lanciò contro Kylar, che si precipitò dietro una colonna. Vi salì i gradini tre alla volta per attaccare il Re Divino. Era sul punto di scoprire quanto si fosse sbagliato sulla faccenda della coercizione. Mentre Kylar combatteva la bestia, lei l'avrebbe stroncata alla fonte. Stava ritirando la spada, quando urtò contro la barriera che si estendeva per circa tre metri intorno al Re Divino come un'enorme bolla. Fu come andare a cozzare contro un muro. Si ritrovò a gambe all'aria sulle scale - forse era anche rotolata giù per qualche gradino senza nemmeno accorgersene. Le sanguinava il naso e la testa le pulsava dolorosamente. Guardò in direzione di Kylar. Il giovane era un virtuoso. Quando il ferali partì alla carica con la lancia in resta, Kylar aspettò fino all'ultimo momento e poi si scagliò in avanti. Lame di coltelli scintillarono mentre il sicario sorvolava indenne la bestia a pochi centimetri dalla punta della lancia. Ma non aveva ancora finito. Allungò in fuori una mano e in qualche modo si
agganciò alla colonna, tracciando un solco fumante nel marmo. Appena il ferali ruotò su se stesso per afferrarlo, Kylar emerse dall'altro lato della colonna e, in uno scintillio di lame, volò sopra la schiena del mostro. Atterrò in posizione accovacciata, una mano sul pavimento e l'altra sul fodero della spada. Il ferali si fermò, sanguinando abbondantemente; la pelle, disseminata di bocche, era squarciata sul dorso di una mano, su una spalla e fra le anche del puma. Il sangue era rosso, del tutto umano, ma sotto gli occhi di Vi, i tagli si richiusero a formare cicatrici. Il ferali scagliò la lancia contro Kylar, che la deviò con la mano, ma il mostro si stava già muovendo. Appena Kylar balzò verso la parete, il ferali sporse un braccio per colpirlo e, nella frazione di secondo necessaria per distendersi, il braccio si allungò, le ossa scattarono nelle giunture e un enorme artiglio a lama di falce solcò l'aria. Kylar si staccò dal muro finendo dritto nella traiettoria dell'artiglio, che lo scaraventò a terra. Vi pensò che fosse spacciato, ma appena Kylar toccò il pavimento, l'artiglio si staccò e scivolò lontano dal ferali. Kylar doveva essere riuscito in qualche modo a estrarre la spada per bloccare il micidiale fendente. Il mostro, con la zampa sinistra fiacca e inerte, sembrava scioccato. Si afflosciò a terra, prendendo le sembianze di un grosso gatto. Prima che la bestia potesse attaccare di nuovo, Vi riprese il controllo di sé e, lanciando un urlo, partì alla carica. Il ferali si girò di colpo. Con un agile gioco di piedi, Vi si tenne fuori dalla portata dell'artiglio, rinforzato sui lati da una lamina ossea. Kylar si rialzò in piedi e avanzò barcollando, ancora stordito. Il ferali guizzò lontano da Vi e si appiattì ventre a terra sopra l'artiglio reciso. In un secondo, il corpo aveva riassorbito la parte perduta. Di nuovo, le ossa si spostarono velocemente sotto la pelle e il mostro si sollevò in posizione eretta, come un uomo alto con lame di osso al posto delle braccia. Sembrava più a suo agio sotto queste sembianze, con muscoli possenti, più veloce di un comune mortale, e la superficie della pelle in gran parte rinforzata da placche ossee. Vi e Kylar combatterono insieme. Kylar si esibì in prodezze aeree che Vi non riuscì nemmeno a comprendere, spostandosi
rapidamente da pareti a colonne, atterrando sempre in piedi come i gatti, e tracciando sempre solchi insanguinati con i suoi artigli d'acciaio. Vi aveva meno forza, anche se usava il Talento, ma era rapida. Il ferali continuava a cambiare forma. Diventò un piccolo uomo con una catena organica che faceva roteare intorno alla testa per poi lanciarla intorno alle colonne, sperando che gli anelli provvisti di bocche catturassero l'uno o l'altro degli avversari. Uno degli anelli s'impigliò nella manica di Kylar a mezz'aria. Gli fece perdere l'equilibrio e lo scaraventò a terra. Il ferali cominciò a ritirare la catena, finché la spada di Vi s'infilò fra la pelle e la manica di Kylar e lo liberò. Il giovane non si concesse alcuna pausa; balzò in piedi e riprese a lottare. Poi il ferali divenne un gigante con una mazza chiodata. Le superfici di marmo esplosero sotto i colpi calati alla cieca con quell'arma smisurata. I due giovani si riunirono sul campo di battaglia illusorio nella sala del trono, combattendo con la stessa disperazione di quegli uomini e donne in miniatura. Lottando fianco a fianco, Kylar e Vi cominciarono non solo ad agire all'unisono, ma anche in armonia. Cominciando a conoscere i punti di forza di Kylar, Vi faceva le sue mosse sapendo che lui avrebbe reagito di conseguenza. Erano guerrieri, erano sicari, ed erano esperti. Per Vi, che aveva sempre avuto difficoltà con le parole, la battaglia era verità. Combatterono insieme - saltando, incontrandosi a mezz'aria, sfruttando l'uno lo slancio dell'altra per cambiare direzione prima che il ferali avesse tempo di reagire. Si coprirono l'un l'altro, salvandosi reciprocamente la vita. Kylar troncò di netto la punta di una mazza d'osso che Vi non sarebbe mai riuscita a evitare. Vi disse: «Graakos» - e le mandibole che si erano chiuse sul braccio di Kylar rimbalzarono via. Per lei, fu un momento sacro. Non si era mai sentita in comunione con un altro, non si era mai fidata di un altro in modo così incondizionato come le era accaduto con Kylar. Grazie a questo, aveva trovato con lui un'intesa che nemmeno migliaia di parole
avrebbero potuto sostituire. Erano in perfetta armonia, e il miracolo stava nella sua naturalezza. Allo stesso tempo, Vi sentì la disperazione crescere dentro di sé. Cento volte ferirono il ferali. Duecento. Lo colpirono agli occhi, alla bocca. Gli mozzarono parti del corpo. Il mostro sanguinava e la sua massa diminuiva di qualche chilo, ma finiva tutto lì. Loro ferivano e lui guariva. Ma non potevano permettersi il minimo errore. Se la sua pelle veniva a contatto con la loro, sarebbero morti.
So anche recidere. Kylar arrivò a lato di una colonna e si fermò. Lungo il suo braccio risplendevano rune di ka'kari nero bordate di blu. Le osservò. «Cosa hai detto?», chiese. «Io non ho detto niente», fu la risposta di Vi. Gli occhi della ragazza erano fissi su un enorme ragno che strideva sul pavimento di fronte a lei. «Che stupido! Ma come posso essere così ottuso?», disse Kylar lasciandosi cadere a terra.
È una domanda retorica? Il ka'kari riversò un liquido nero dalla sua mano sulla spada. Il liquido si solidificò poi in una lama sottile. Kylar fece oscillare l'arma a destra e a sinistra, e le zampe del ragno volarono in aria. Non ebbe la sensazione di aver segato ossa, quanto di averle affettate come burro. Indietreggiò per sottrarsi alla reazione del mostro, che ritirò le zampe contro il corpo. Questa volta, i monconi continuarono a sanguinare, senza permettere la crescita di altre membra. Assunse di nuovo la forma umana con due lame al posto delle braccia, ma adesso le ferite erano nel torace, e non smettevano di sanguinare e fumare copiosamente. Il mostro ruggì e si avventò contro Kylar. Come prima, il giovane menò fendenti a destra e a sinistra e le lame-braccia crollarono sul pavimento. Fece penetrare a forza il ka'kari nel torace del ferali. Con una mossa repentina, calò la lama fino all'inguine della creatura. Ondate di fumo si levarono nell'aria e
il sangue uscì a fiotti. Con un violento strattone verso l'alto, la spada aprì un altro enorme squarcio. Kylar se ne accorse troppo tardi: la pelle del ferali si ritirò dalla lama, come l'acqua di uno stagno quando un sasso buca la superficie, solo per slanciarsi poco dopo verso l'alto e richiudersi intorno alla spada. Ingoiò anche la mano di Kylar. Inorridito, Kylar fece un balzo indietro, ma il ferali ormai stremato cadde in avanti con lui, incatenato alla sua mano. La lama gli affondò convulsamente nelle viscere, ma il mostro non mollò la presa. Kylar annaspò in cerca di un pugnale, ma li aveva usati tutti durante il combattimento. «Vi!», gridò. «Tagliala!». La ragazza esitò. «Tagliami la mano!». Non ne fu capace. La pelle si contrasse ancora e salì fino all'avambraccio. Kylar gridò, contorcendosi. Una lama di ka'kari prese forma lungo il dorso della mano sinistra, e con questa si tagliò il braccio destro. Liberato dalla trazione del ferali morente, Kylar collassò sulla schiena. Mentre stringeva il moncone sanguinante nella mano sinistra, metallo nero scintillò in ogni vena recisa e l'emorragia si fermò. Una capsula nera rivestì il moncone. Kylar guardò Vi senza parlare. Tre metri più in là, il cadavere del ferali si stava lentamente dissolvendo. Cominciò a fendersi, portando alla luce reti di magia. La pelle s'increspò e cominciò a evaporare, finché non rimasero che disgustosi filamenti di carne, tendini e ossa. «Davvero impressionante, Kylar», disse la voce del Re Divino. «Mi hai mostrato cose che non sapevo il ka'kari potesse fare. Davvero istruttivo. E tu, Vi, mi servirai in modo ammirabile, e non solo nel mio letto».
Qualcosa scattò nell'animo di Vi. Gli ultimi due giorni avevano cambiato tutto. Una nuova Vi stava lottando per venire alla luce - e il Re Divino era lì, a dirle che niente era cambiato. La nuova Vi sarebbe stata un feto nato morto. Sarebbe tornata a essere una prostituta. Sarebbe tornata a essere la stessa megera fredda e senza cuore. Aveva creduto che quella fosse l'unica vita a lei concessa, e per questo aveva sopportato l'insopportabile. Ma dopo aver intravisto un modo per essere una donna non più detestabile, non poteva tornare indietro. «Ficcatevelo bene in quella stupida testa, Gare», reagì Vi, sebbene avvertisse già vincoli magici che si avviluppavano intorno ai loro corpi. «Io non vi servirò». Garoth le rivolse un sorriso di pia benevolenza. «I tipi combattivi mi rendono ancora più ostinato». «Kylar», disse Vi. «Scuotiamoci. Aiutami a uccidere questo pervertito». Il Re Divino scoppiò a ridere. «La coercizione non fa presa su tutti, Vi. La magia dei Nile ne avrebbe liberato la maggior parte. Circa diciannove anni fa, ho sedotto una puttana ceuriana durante un viaggio diplomatico. Quando ho saputo che era incinta, ho mandato i miei uomini a prenderla, ma lei è scappata prima che arrivassero a destinazione. Appena ho scoperto che avrebbe dato alla luce una femmina, ho accantonato la faccenda. Di solito facevo affogare le mie figlie - è un buon esercizio per i miei ragazzi, li fortifica - ma non ne valeva la pena. La coercizione, Vi, funziona soltanto sui familiari, e a volte non sui ragazzi. Tu...». «Voi non siete mio padre», disse Vi. «Siete solo un lurido porco che sta per morire. Kylar! ». «Andiamo, Vi, non diventiamo lacrimevoli», disse Garoth Ursuul. «Tu per me non sei altro che cinque minuti di piacere e un cucchiaio di sperma. Be', non è vero. Vedi, Vi, sei un sicario di cui mi fido. Non mi disobbedirai mai, né mi tradirai mai».
Una morsa di terrore più forte dei vincoli magici si strinse intorno a Vi. Vide svanire ogni possibilità. Kylar si mosse. I suoi occhi tornarono a mettere a fuoco. La guardò con espressione ammiccante, e il fascino lezioso di quel gesto la riscosse dalla paralisi del terrore. I suoi occhi chiari le dicevano "sei con me?". Gli occhi di Vi gli risposero con una gioia intensa e disperata che non aveva bisogno di traduzione. Sottovoce, Kylar le disse: «Tu rubi la sua attenzione, io gli rubo la vita». Le sorrise, e quel che rimaneva della paura di Vi svanì all'istante. Fu un sorriso vero, senza alcuna nota di disperazione. Non c'erano dubbi negli occhi di Kylar. Ogni ulteriore ostacolo - che fossero i vincoli magici o la perdita di un braccio - avrebbe solo reso più dolce la sua vittoria. Uccidere il Re Divino era il destino di Kylar. «Non mi lasciate scelta», disse Garoth Ursuul. «Figliola, uccidi Kylar». Il ka'kari si dischiuse e divorò i vincoli che trattenevano Vi e Kylar. Vi si stava già muovendo, preparandosi a una esibizione acrobatica mozzafiato. Poi... ogni cosa si fermò. Ci fu un vuoto nella sua volontà. Con gli occhi della mente, Vi stava balzando in aria, volando verso il Re Divino, e poi la sua lama calava, il volto dell'uomo si torceva in un'espressione di attonita paura mentre realizzava che le sue difese erano svanite, che Vi aveva sconfitto la coercizione... Ma non era che la sua immaginazione. La violenza dell'impatto si ripercosse lungo il braccio Vi. Il polso si piegò come per affondare una lama nel cuore, ma Vi non vide nulla, non percepì nulla se non il vuoto che le riempiva la mente. Quando riprese coscienza, le sue dita stavano allentando la familiare presa sull'impugnatura del suo coltello preferito. Kylar - in modo così penosamente lento - stava cadendo. Venne trascinato verso il pavimento, la testa si inarcò indietro in un colpo di frusta al rallentatore provocato dalla lama conficcata nella schiena, i capelli
neri scompigliati dalla forza dello shock. Solo quando toccò terra, Vi si rese conto che Kylar era morto. E lo aveva ucciso lei. «Questa, mia cara figliola», sottolineò Garoth Ursuul, «è coercizione».
Capitolo 69 Kylar si fece strada nella nebbia densa e fitta. In un istante che parve isolato dal tempo, come se lì scorresse con ritmi diversi, si ritrovò in quella sala indefinita, ancora una volta di fronte a quell'uomo dal volto lupesco e i capelli grigi, con una ciocca candida su una tempia. «Due giorni non vanno bene», disse Kylar. «Devo tornare indietro subito». «L'ultima volta insolente, oggi esigente», replicò l'uomo. Piegò la testa di lato, come se fosse in ascolto, e Kylar fu di nuovo consapevole della presenza di altri, completamente invisibili quando Kylar si voltò nella loro direzione, ma nondimeno presenti. Avrebbe potuto vederli meglio questa volta? «Sì, sì», disse il Lupo a una voce che Kylar non udì. «Chi sono?», chiese Kylar. «L'immortalità è solitaria, Kylar. La pazzia non ha bisogno di esserlo». «Pazzia?» «Saluta la grande compagnia della mia immaginazione, racimolata fra quelle anime profonde che ho conosciuto nel corso degli anni. Non fantasmi, solo facsimili, temo». Ne indicò uno con un cenno della testa e ridacchiò. «Se non sono reali, perché parli con loro e non con me?», domandò Kylar. Provava ancora rabbia e stavolta non era disposto a tollerare i rimbrotti o i misteri di quell'uomo. «Ho bisogno del tuo aiuto. Subito». «Troverai l'urgenza difficile da soddisfare man mano che passano i secoli...». «Mi sarà davvero difficile se Garoth Ursuul prenderà la mia immortalità».
Il Lupo unì le punte delle dita con aria pensosa. «Povero Garoth. Si crede un dio. Sarà la sua rovina, come lo è stata per me». «E un'altra cosa», continuò Kylar. «Rivoglio indietro il mio braccio». «Ho notato che sei riuscito a sprecarlo. Di fatto hai estirpato il ka'kari da ogni cellula del braccio che hai perso. È stato un gesto intenzionale?» «Non volevo che se ne impadronisse il ferali». Cellula? «Una saggia intenzione, ma una scelta infelice. Ricordi come chiamano il tuo ka'kari?» «Il Divoratore», rispose Kylar. «E allora?». Il Lupo storse le labbra. Aspettò. «Stai scherzando», disse Kylar, con un improvviso senso di nausea. «Temo di no. Non eri tenuto a combattere. Ciò che il ka'kari ha fatto ricoprendo la tua spada, lo avrebbe fatto anche con il tuo corpo. Avresti potuto passare attraverso il ferali». «Proprio così?» «Proprio così. Poiché invece ti sei amputato il braccio - ed estirpato il ka'kari - il tuo braccio non ricrescerà. Mi spiace. Spero davvero che tu sia in grado di batterti con il sinistro». «Al diavolo! Rimandami indietro o Ursuul vincerà». L'uomo gli rivolse un sorriso a trentadue denti, come se lo trovasse maledettamente divertente. «Rimandarti indietro due giorni prima mi costerà parecchio». Alzò gli occhi, come fosse assorto in un calcolo. «Tre anni e ventisette giorni della mia vita. Un po' come i ricchi che rubano ai poveri, non credi, visto che sei immortale?». Alzò una mano coperta da cicatrici prima che Kylar potesse imprecare. «Ti rimanderò indietro se mi farai una promessa solenne. C'è una spada. E chiamata Curoch, e sarei un bugiardo se non ti dicessi che è agognata da un numero infinito di potenti fazioni. Conosci il villaggio di Curva di Torras?» «Curva di Torras?»
«Esatto. Prendi la spada e portala là. Vai nel bosco, supera il boschetto di querce, fermati a quaranta o cinquanta passi dal limitare dell'antica foresta, e gettaci dentro Curoch». «È li che vivi?», domandò Kylar. «Oh, no», rispose l'uomo. «Ma vi dimora qualcos'altro. Qualcosa che proteggerà Curoch dal mondo degli uomini. Se prometti di farlo, ti rimanderò indietro adesso, e quando avrai consegnato la spada, farò rispuntare il tuo braccio». «Chi sei?», volle sapere Kylar. «Io sono uno dei buoni. Almeno per quanto mi è possibile». Gli occhi gialli sfavillarono. «Ma voglio che tu capisca una cosa che Acaelus non ha mai capito: io non sono un uomo...». Fece una pausa, la bocca si aprì in un ghigno, e Kylar si domandò quanta umanità ci fosse realmente dietro quegli occhi lupeschi. «...Da prendere alla leggera». «Lo immaginavo». «Davvero?». «Che strano», disse il Re Divino avvicinandosi a osservare il cadavere di Kylar. «Dov'è il ka'kari? Ne avverto la presenza... è nel suo corpo?» «Sì», rispose Vi, senza riuscire a fermarsi. «Affascinante. Non credo che sappia di cosa è capace, vero?». Con suo grande orrore, Vi si ritrovò a rispondere. Non era stata una domanda diretta, così cercò di divagare il più possibile. «No. So che lo rende invisibile». Avrebbe dovuto dire "lo rendeva", ma non riuscì a infilare un tempo passato nella frase. Si augurò che Garoth non lo avesse notato. «Bene, comunque sia, il tuo amato dovrà aspettare. Devo assistere a un massacro». Vi lanciò un urlo e agguantò la spada di Kylar. Garoth la osservò con aria perplessa. La lama descrisse un arco nell'ara - e si fermò. Anche Vi rimase pietrificata. Inutile.
«Incredibile, eh?», le disse. «La cosa buffa è che ho appreso la coercizione da uno dei vostri rituali di coppia del Sud - scambiarsi gli orecchini -, ma il vostro popolo ha completamente frainteso il suo reale potere. A ogni modo, sei libera di seguire la battaglia - e smettila di grugnire. Non sta bene». Improvvisamente, gli occhi del Re Divino si fecero assenti. Vi tentò di muovere la spada, ma era impossibile. La coercizione era incontrastabile. Mentre i maghi portavano via il ferali, Vi si sedette sui gradini davanti al trono a osservare. Ma anche quell'orribile spettacolo non riuscì a catturare la sua attenzione. Avrebbe dovuto abbandonare tutto molto tempo prima. Tutto quel suo combattere era una farsa. Aveva fatto tutto quel che il Re Divino aveva previsto che facesse. Aveva ucciso Jarl, e adesso Kylar. Negli anni a venire, senza dubbio ne avrebbe uccisi altri cento. Mille. Non aveva importanza. Nessun altro avrebbe avuto ai suoi occhi lo stesso significato di Jarl e di Kylar. Jarl, il suo unico amico, morto per mano sua. Kylar, un uomo che aveva in qualche modo risvegliato in lei... cosa? Passione? Forse solo calore, in un cuore freddo e insensibile. Un uomo che avrebbe potuto essere... qualcosa di più. Aveva detestato ogni uomo che aveva conosciuto. Uccidere era parte della natura maschile; rovinare, distruggere. La donna era donatrice di vita, di nutrimento. Eppure... Kylar. Si poneva in contrasto stridente con le sue supposizioni. Kylar, il leggendario sicario che avrebbe dovuto simboleggiare la quintessenza della distruzione, aveva salvato una ragazzina, l'aveva adottata, aveva salvato una donna, salvato nobili che non meritavano di esserlo, e tentato di abbandonare quel dannato mestiere. L'avrebbe già fatto, se non fosse stato per me. Se non fosse stato per Vi, Kylar sarebbe ora stato a Caernarvon, a condurre un'esistenza alla luce del giorno che Vi non riusciva nemmeno a immaginare. Ed Elene? Kylar avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva, e aveva scelto una ragazza coperta di cicatrici. Nella sua esperienza, gli uomini cercavano di procurarsi le puttane più provocanti per infilare il loro uccello. Se la puttana era
provocante, per loro non contava che fosse una puttana. Kylar non era così. Vi ebbe un terribile lampo di intuizione. Vide Elene - una donna che non aveva mai conosciuto - come sua gemella e opposta. Elene aveva cicatrici profonde, ma sotto di esse era pura bellezza e grazia e amore. Vi era pura abiezione sotto il velo sottile della propria pelle. L'amore di Kylar non era più un mistero. L'uomo che aveva guardato oltre l'omicidio di Jarl poteva di certo guardare al di là di qualche cicatrice. Era naturale che amasse Elene. O che avesse amato, prima che Vi lo uccidesse. Kylar aveva detto che sarebbe tornato. Ora non più. Il Re Divino aveva vinto. Vi estrasse la lama dalla schiena di Kylar e rovesciò il corpo. Gli occhi erano aperti, vitrei, spenti. Vi chiuse quegli occhi carichi di accusa e posò la testa del giovane nel suo grembo. Poi si girò per osservare il Re Divino massacrare l'ultima speranza di Cenaria.
Capitolo 70 Ogni pretesa di distacco accademico svanì.
In un primo momento, i maghi dovettero aguzzare gli occhi per individuare il ferali. Il mostro entrò in battaglia praticamente inosservato. Dopo un minuto, uno dei maghi disse: «MacHalkin aveva ragione. Credevo se lo fosse inventato». «Tutti lo credevamo. Vuol dire che esistono anche tutte le altre creature menzionate nei suoi scritti?» «Per gli dèi, è proprio come ha detto. Quel ferali può essere controllato, influenzato». Sul campo di battaglia, la presenza del mostro cominciò a farsi notare. Era diventato un grosso toro, e si stava aprendo un varco nelle linee dei Cenariani. Ogni ferita che gli infliggevano i soldati si richiudeva in fretta, e la creatura cresceva. Il fragore della battaglia, le grida di rabbia e di dolore e il clangore dei metalli si erano andati spostando verso il promontorio durante i combattimenti. Adesso, un nuovo suono si mescolò agli altri: urla di terrore. Il toro gigantesco si mosse pesantemente all'esterno della linea khalidoriana. Una dozzina di uomini, alcuni ancora vivi, vennero attaccati alla bestia. Dopo aver assimilato i loro corpi, il ferali cominciò a trasformarsi. Si arrotolò a formare una palla e placche di metallo affiorarono sulla superficie della pelle. Si allungò di nuovo e si alzò. Adesso il ferali aveva assunto le sembianze di un troll. Era alto tre volte un uomo, rivestito di armatura, cotta di maglia e piccole bocche voraci. Aveva inglobato dentro di sé persino le spade e le lance degli avversari defunti, che ora sporgevano dai suoi fianchi e dalla schiena. La prima reazione dei Cenariani fu incredibilmente eroica: caricarono la bestia.
Fu uno sforzo inutile. Si fece largo fra le linee nemiche senza fretta, lasciando loro il tempo di richiudersi alle sue spalle, e ovunque arrivasse, seminava morte e si premurava di raccogliere ogni uomo che uccideva per attaccarlo alla sua pelle, o impalarlo sulle lance della schiena. Il primo fu divorato, e poi un altro, e un altro, e ancora un altro. I maghi non seppero dire se i soldati fossero mai riusciti a ferire la bestia. Senza mai rallentare, il ferali spezzò una linea dopo l'altra. Di fronte a una morte inesorabile, il generale Agon attaccò parte della linea khalidoriana con tutte le forze rimaste, tentando una via di fuga. Per fortuna o per il suo carisma di comandante, centinaia dei suoi uomini si lanciarono all'attacco dietro di lui, con la forza della disperazione. La linea khalidoriana si piegò e rischiò di spezzarsi, ma la cavalleria del principe khalidoriano Moburu la rinforzò finché il ferali arrancò in mezzo ai ranghi e li raggiunse. Di colpo, la carica cenariana s'interruppe, e i generali tentarono di indurre i loro uomini ad attaccare in un'altra direzione. Ma il frastuono della battaglia, lo smarrimento nel vedersi circondati dai Khalidoriani e il terrore suscitato da quel mostro in continua crescita, ebbero la meglio. I Cenariani stavano combattendo con disperata frenesia. Presto sarebbero caduti in preda al panico. «Dobbiamo andare ad aiutarli», disse Jaedan. I maghi lo guardarono come se fosse impazzito. «Perché no? Siamo alcuni fra i maghi più potenti al mondo! Se non li aiutiamo, moriranno. Se non ci opponiamo adesso a Khalidor, dopo sarà troppo tardi». «Jaedan», replicò pacatamente Wervel. «Il ferali è quasi impenetrabile alla magia - e questo lo dicevano gli antichi. È già troppo tardi». Lord Lucius non era dell'umore giusto per calmare il giovane. Disse: «Siamo stati inviati per trovare una spada, o reperire informazioni su di essa. Se Curoch fosse qui, credimi, Jaedan, lo sapremo presto. Se è in mano ai Cenariani, la useranno adesso. Il consiglio...».
«Il consiglio non è qui!», sbottò Jaedan. «Io penso...». «Quel che pensi tu è irrilevante! Noi non combatteremo. Ed è una decisione inappellabile. Capito?». Jaedan strinse i denti per trattenere parole che avrebbe rimpianto di aver pronunciato. Tornò a guardare quegli uomini che sarebbero morti per l'indifferenza di lord Lucius, e rispose: «Ho capito, signore». Un elemento che le storie non menzionavano mai in tema di battaglie - le storie che Logan aveva tanto amato da ragazzo - era l'odore. Pensava che, dopo il Buco, niente avrebbe mai potuto scioccarlo, ma si sbagliava. Aveva perso il conto del numero di uomini che aveva visto morire nel Buco, ma qualunque fosse quella cifra - dodici? Quindici? - era niente in confronto alle perdite riportate solo durante la prima carica. Aveva avvertito un miscuglio di eccitazione, paura, pioggia e fango, odori insignificanti in uno scenario di focosi destrieri e scintillio di armi, di fieri volti di donne che cavalcavano al suo fianco. I Khalidoriani li avevano circondati. Senza bandiere o segnali manuali per comunicare con i comandanti lontani, i Cenariani erano in trappola. Se gli uomini lanciati alla carica sono troppo pochi, non hanno speranze di riuscita: se sono troppi, quelli nelle retrovie verrebbero massacrati. L'esercito cenariano era paralizzato, mentre i Khalidoriani continuavano a emergere da ogni parte - da dove? Perché diamine non li avevano informati? Luc Graesin aveva fallito nel suo compito o li aveva traditi? Ormai non aveva importanza: l'unica cosa che contava era evitare una carneficina. E il tanfo gli riempiva le narici. Era il tanfo di uomini accalcati fra loro, il loro calore e il sudore, la loro paura mescolata al panico dei cavalli. Era un tanfo di fogna, quando i morti e i vivi in preda al terrore perdevano il controllo delle proprie viscere. Era un tanfo di succhi gastrici che si levava da stomaci squarciati, da intestini lacerati, da bestie morenti che scalciavano nel fango. Era un tanfo di sangue talmente denso da raccogliersi in pozze insieme alla pioggia. Era un tanfo più dolce di sudore di donne, impavide finché lo fosse stato anche Logan, sebbene il loro numero si andasse sempre più assottigliando.
Ovunque Logan si spostasse, le linee cenariane si riorganizzavano. Non era solo la sua presenza, ma la vista di quelle donne magnifiche e striate di sangue, che imprecavano come marinai. Anche i Khalidoriani rimasero sbalorditi. Se non fosse stato per l'Ordine, Logan sarebbe morto durante la prima carica. Le donne si batterono con un accanimento quasi suicida pur di restare al suo fianco, e ne pagarono il prezzo. Delle trenta entrate in battaglia, ne erano rimaste solo dieci. Con un corpo di guardia così ridotto, Logan sarebbe stato di certo sopraffatto se un altro centinaio di uomini non si fosse unito a loro nei minuti susseguenti alla prima carica - i Cani di Agon. Logan aveva donato loro le sue parole, e loro in cambio gli donavano la vita. Logan non avrebbe saputo dire da quanto tempo stessero combattendo, quando un nuovo odore si diffuse fra i ranghi. Un effluvio rancido, inspiegabile. Quella notte, gli eserciti avrebbero lasciato montagne di carne a marcire sul campo di battaglia, ma per ora non doveva esserci traccia di putrefazione. Sentì e udì la reazione dei Cenariani molto prima di individuare la causa della loro nuova paura. Poi, in sella al suo cavallo, intravide quel che sembrava un toro, un toro della statura di un cavallo da guerra, che avanzava implacabilmente attraverso le linee e fuori dalla mischia, trascinandosi dietro soldati. La creatura ritornò sotto diversa forma. Un troll con quattro braccia, quattro occhi, la pelle grigia e bitorzoluta e lame che spuntavano dalla schiena. Logan sapeva che avrebbe dovuto avere paura, e una parte di sé si meravigliò che non ne avesse. La paura, semplicemente, era assente. Lo svolgersi della battaglia apparve ora nella sua semplicità, un'evidenza che sottolineava un unico fatto: la creatura stava massacrando la sua gente. Doveva fermarla. Il generale Agon guidò un'altra carica. I suoi uomini si schiantarono contro la cavalleria come un martello di balsa su un'incudine. Fu tutto quel che Agon poté fare per sfuggire a quel
maledetto ufficiale di cavalleria con la pelle di un Ladeshiano, e cavalli e indumenti alitaeriani. Logan si lanciò contro la bestia. Adesso sembrava persino più gigantesca. Un braccio era diventato una lama di falce, che il troll oscillava sopra il campo a un'altezza di circa un metro dal terreno, mietendo un copioso raccolto. Non c'era modo di evitarla. Alcuni uomini saltavano sopra la lama, altri si tuffavano nel fango, ma la maggior parte veniva tagliata in due. Il troll continuava ad avanzare, raccogliendo i morti e infilzandoli sulle lance e sulle spade che costellavano la sua schiena. Logan spronò il cavallo dentro il varco che avevano aperto i Cenariani nel tentativo di sottrarsi alla furia del troll. Il suo bianco destriero scalpitò nervosamente. Il troll si fermò a considerare questo nuovo avversario. Emise un vago ruggito che rischiò di far imbizzarrire il cavallo, poi si diede una scrollata. Una testa umana fece capolino dalla pancia del troll. «Logan», gli disse la testa con una voce perfettamente umana e un lieve accento khalidoriano. Quell'appendice si sporse ulteriormente in direzione di Logan. «Ursuul», ringhiò Logan. «C'è qualcosa che dovresti sapere riguardo a Jenine». Forza e vigore non avevano assistito Logan da quando era infuriata la battaglia. Mesi di privazione lo avevano lasciato debole e macilento. Quel giorno era sopravvissuto grazie alla fortuna e alla ferocia dell'Ordine della Giarrettiera e dei Cani di Agon, non certo per il suo vigore o le sue capacità. Ma sentendo il nome di Jenine uscire dalla lurida bocca di quella bestia, Logan si riempì della rabbia del giusto. «La tua adorabile mogliettina è vi...». Lo scintillio di una lama di spada, e Logan gli staccò di netto la testa. Volò nel fango, in mezzo a un mucchio di carne putrescente. La bestia si pietrificò. Non mosse un muscolo per un lungo momento, finché i Cenariani si abbandonarono a grida di esultanza, pensando che Logan l'avesse in qualche modo uccisa.
Poi il troll levò le braccia al cielo e lanciò un ruggito che fece tremare il suolo. Due dei suoi occhi si fissarono su Logan e l'enorme lama di falce arretrò, pronta a colpire.
Capitolo 71 Vi accarezzò dolcemente i capelli di Kylar. Davanti a loro, il ferali si era trasformato in un troll e si stava faticosamente aprendo un varco fra le linee cenariane. Vi lo notò appena. Il suo sguardo era fisso sul volto di Kylar. Per la prima volta, si rese conto di quanto fosse giovane. Aveva un'espressione serena, beata. Vi lo aveva assassinato. Aveva consegnato l'immortalità al Re Divino. Qualcosa schizzò sulla guancia del ragazzo. Vi sbatté le palpebre. Che diamine era? La goccia scivolò sul viso di Kylar, fino all'orecchio. Vi sbatté di nuovo le palpebre, rifiutandosi di credere che stesse piangendo. Cosa aveva detto Sorella Ariel? Qualcosa circa l'incapacità di provare emozioni? Vi osservò la sua lacrima che riluceva sull'orecchio di Kylar, e la asciugò con un dito. Quella strega
mi ha chiamata stupida.
E lo era. Il dito si paralizzò. Un'improvvisa consapevolezza investi Vi come un cavallo lanciato al galoppo. Non era affatto sfuggita a Sorella Ariel. Di colpo, le mancò il respiro. Adesso si accorse della trappola, tesa per lei in ogni parola pronunciata da Ariel. Vide l'esca e le conseguenze. Non c'era modo di evitarla, ma esisteva la possibilità di sfuggire al Re Divino. Ma era necessario che Vi facesse a Kylar qualcosa di peggio di quanto Hu Gibbet avesse mai fatto a lei. Infilò una mano tremante in una tasca e trovò la scatolina, proprio dove l'aveva lasciata. La aprì e osservò i due anelli nuziali del Waeddryn racchiusi all'interno. Sarebbe stato come compiere uno stupro, e Vi sapeva cosa voleva dire. Eppure era l'unico modo. Sorella Ariel aveva provveduto affinché i Nile le inculcassero tutte le informazioni di cui aveva bisogno. Le avevano detto che doveva mostrare «un segno esteriore che indichi un cambiamento interiore» per spezzare la coercizione, un trasferimento di fede. E quella strega si era premurata di farle
dondolare la carota davanti al muso: rapidi avanzamenti di carriera, istruzione privata, diventare importante. Ma a Vi non interessava. Non lo avrebbe fatto per se stessa, ma solo per impedire che il Re Divino diventasse immortale. In quel caso, Vi sarebbe stata il suo giocattolo di morte, un flagello che avrebbe eliminato chiunque osasse tenergli testa. L'avrebbe fatto per quei poveri bastardi mangiati vivi sul campo di battaglia. L'avrebbe fatto perché, in caso contrario, Kylar sarebbe morto, una volta per tutte. Ma non l'avrebbe mai perdonata. Gli passò le dita fra i capelli. Il volto del giovane le apparve freddo e distaccato, pronto a giudicare. Vi sarebbe sfuggita al suo triste destino, sarebbe cambiata; ma Kylar ed Elene ne avrebbero pagato il prezzo. L'orecchino le bucò l'orecchio sinistro, e l'anello metallico si richiuse senza ombra di saldatura. Il dolore le fece lacrimare gli occhi. Con il viso rigato di lacrime, forò l'orecchio di Kylar. Un'ondata di calore la sommerse dalla testa ai piedi. Sentì la forza della coercizione avvizzire e sfaldarsi. Ma questo fu niente rispetto all'improvviso desiderio che la invase. Ansimò. Nella pelle, nello stomaco, lungo la spina dorsale, sentì la presenza di Kylar. Il giovane stava guarendo, ma era ferito così gravemente da trasmetterle il suo dolore. Le apparve più attraente che mai. Voleva che lui la capisse. Voleva confessargli la verità ed essere perdonata e meritarsi il suo amore. Voleva che lui la stringesse fra le braccia, le sfiorasse il viso, le accarezzasse i capelli e... Quel pensiero s'infranse con violenza contro ogni sua convinzione. Vi spinse rudemente la testa di Kylar giù dal suo grembo e si alzò in piedi barcollando. Il flusso di emozioni era incontenibile, troppo intenso, troppo ampio per riuscire a interpretarle tutte; eppure non racchiudeva niente di estraneo. Niente di falso. Sembrava come se l'amore di Vi fosse stato purificato, come se qualcuno avesse ravvivato la fiamma soffiando sulla brace. La lasciò senza fiato. Riusciva a stento a sopportare la vista di Kylar. Ma era libera, la coercizione era finita.
Libera! Libera dal Re Divino. Sul pavimento, un cavaliere isolato sfidava il massiccio troll. Vi prese il pugnale e barcollò verso suo padre. Lo afferrò e lo obbligò ad alzarsi, scuotendolo con forza. «Padre! Padre!», qualcuno stava gridando. Chi diavolo era che urlava in quel modo sul campo di battaglia? Un istante dopo, Garoth realizzò cosa fosse e ritornò nella realtà della sala del trono. Logan poteva anche aspettare qualche secondo. Peggio per lui se non voleva sapere che Jenine era ancora viva. «Padre», ripeté Vi, «potete dirmi una cosa?». Evidentemente, doveva aver accettato la coercizione, visto che lo stava toccando. «"Padre"? Sto nel bel mezzo di una faccenda, ti spiace aspettare?» . «Siete stato voi a farmi uccidere Jarl? Era coercizione?». L'uomo sorrise. La menzogna affiorò senza fatica sulle sue labbra. «No, chiacchierona. È opera tua». «Oh». L'esclamazione le uscì di bocca come una piccola bolla d'aria. Garoth sogghignò e scivolò di nuovo nella pancia del ferali. Il re lanciò un ruggito al cielo e tirò indietro la lama di falce. Logan puntò dritto sul mostro, finché il cavallo non scartò. Gli piantò i talloni nei fianchi e tirò le redini, ma l'animale si rifiutò di obbedirgli; continuò a ruotare disperatamente in cerchio e incespicò sopra un cadavere. Mentre Garoth oscillava la lama all'altezza giusta per tagliare in due Logan, uno dei cacciatori di maghi a cavallo si lanciò nella radura e si tuffò dalla sella, abbrancando Logan. La lama del sovrano falciò il collo ai due cavalli, che crollarono nel fango in una pioggia di schizzi di sangue. Logan rotolò da parte e si rialzò in piedi. Accanto a lui, l'arciere stava già scoccando una freccia. La prima centrò in pieno un occhio di Garoth, un'altra il secondo. Un battito di ciglia, e nuovi occhi spuntarono sotto i vecchi. Solo un fastidioso imprevisto. Logan si stava rialzando, spavaldo ma indifeso. La prossima falciata lo avrebbe tagliato in due...
Qualcosa di caldo gli penetrò nella schiena. Una, due, tre volte. E ancora, e ancora. Sollevò le mani del ferali per tastarsi la schiena, domandandosi cosa fosse riuscito a penetrare la sua spessa corazza, chiedendosi come mai gli altri occhi non avessero visto l'attacco; ma non trovò frecce o lance. Il ferali si stava dissolvendo, e mentre Logan parti alla carica per affondargli la spada nell'addome, Garoth si rese conto che non era il ferali che stava sanguinando. Era lui. Udì il suono di un pianto e si ritrovò nella sala del trono. Vi lo teneva stretto al petto, e continuava ad affondargli il pugnale nella schiena, come se sperasse che la lama lo avrebbe attraversato fino a raggiungere anche il suo cuore. Garoth chiese alle proprie membra di muoversi, ma ormai non erano che inerti pezzi di carne. Il suo corpo stava morendo, morendo!, e la sua visione si andava oscurando sempre più... Innescò il sortilegio di morte. Era terribilmente rischioso tentare di scagliare la propria coscienza in un altro corpo. Se Khali glielo avesse concesso, il prezzo da pagare sarebbe stato doloroso, ma Garoth non aveva nulla da perdere. Il vir si strappò dalle sue braccia e avviluppò Vi in una foresta di dita nere, attirandola più vicino. Ecco, stava funzionando! Lo sentiva! E poi ogni dito di vir fu reciso da una lama iridescente che calò fra Garoth e Vi. Il vir, staccato dalla sua fonte, raggelò, s'incrinò ed evaporò in nuvole di fumo nero. Garoth si girò e vide l'impossibile. Kylar era vivo. Lo fissava con una severa espressione di giudizio stampata sul volto e sulla lama di ka'kari nera che stringeva in pugno. Un'improvvisa consapevolezza sommerse Garoth come una gigantesca ondata. Il Divoratore divorava la vita. Il Sostenitore la manteneva. Non si trattava solo di vita prolungata o di guarigione, ma di autentica immortalità. Garoth aveva avuto l'opportunità di ottenere la vera
divinità e se l'era fatta scivolare fra le dita. Fu sopraffatto da un senso di rabbia impotente. Poi la lama nera di ka'kari calò ancora una volta sulla sua testa. Logan conficcò la lama nella pancia del troll e la creatura vacillò sulle gambe. Crollò sulle ginocchia, come se avesse di colpo perso ogni capacità di coordinazione. Logan balzò indietro per evitare di essere schiacciato. Non era certo di quel che fosse accaduto, ma il troll sembrava reagire in maniera insolita. Il giovane lo aveva visto subire ferite anche peggiori senza battere ciglio. Gli occhi di entrambi gli eserciti erano fissi su Logan e sul mostro. Logan affondò ancora la lama, due, tre volte, ma le ferite si rimarginavano appena estraeva la spada. Mentre la creatura era ancora in ginocchio, le placche che coprivano gran parte del suo stomaco scivolarono di lato scorrendo rumorosamente e stridendo contro la pelle, incurvandosi e ritirandosi. Un istante dopo, assunse una forma definitiva. Dallo stomaco del troll, come un bassorilievo vivente, spuntò la testa di una donna. Il suo volto si delineò e apparve una bocca. «Non riesco a combatterlo, Re. Ho tanta fame. Proprio come nel Buco. Non riesco a trattenermi, Re. Guarda cosa mi hanno fatto. Non mi permetterà di uccidermi, Re. Tanta fame. Come il pane. Tanta fame». «Lilly? Credevo fosse Garoth», esclamò Logan. «È andato. Morto. Dimmi cosa devo fare, Re. Non riesco a trattenermi. La fame mi sta divorando». Logan si rese conto che anche quando era stato Garoth Ursuul a sporgere fuori dall'addome della bestia, il troll si era come ristretto. Stava divorando se stesso. Logan doveva fare qualcosa, e in fretta. Impossibile ucciderlo. Quella bestia sanava le proprie ferite senza averne neanche la consapevolezza, e adesso la forma di Lilly cominciava ad apparire confusa. «Lilly», disse Logan. «Lilly, ascoltami».
La donna chiamò a raccolta tutte le forze rimaste e si sporse ancora una volta, ma attraverso una delle piccole bocche. «Lilly, mangia i Khalidoriani. Mangiali tutti e poi corri sulle montagne. Capito?». Ma la donna era scomparsa. Le placche scattarono di nuovo al loro posto e il troll si rimise faticosamente in piedi. Puntò gli occhi su Logan e sollevò la lama di falce; ogni traccia di Lilly era svanita. Logan avanzò a grandi passi verso il mostro. «Tu volevi aggiustare ogni cosa, vero Lilly? Ricordi, Lilly?», chiese Logan, sperando di riportarla indietro chiamandola per nome. «Vuoi meritarti il tuo perdono, Lilly? Sono o no il tuo Re?». Il ferali esitò, perplesso. La voce di Logan assunse un tono autoritario che non credeva di possedere, e puntando il dito in direzione dei Khalidoriani, gridò: «VAI! UCCIDILI! TE LO ORDINO!». Il ferali continuò a sbattere le palpebre, interdetto. Poi, con un movimento più rapido di quanto qualsiasi Garoth lo avrebbe spinto a compiere, passò a fil di lama i Khalidoriani alle sue spalle. Appena Logan si girò, vide migliaia di occhi che lo fissavano increduli. Logan Gyre, l'uomo che aveva ordinato a un ferali di fermarsi, e ci era riuscito. La battaglia era arrivata a un punto morto. Khalidoriani e Cenariani erano schierati a poca distanza gli uni dagli altri e non combattevano. Il ferali, ormai alto più di nove metri, aveva monopolizzato l'attenzione di tutti. Il mostro non si girò. Si limitò ad assumere una consistenza gelatinosa per un istante, e quel che era la parte anteriore del corpo divenne la schiena; adesso fronteggiava i Khalidoriani. Una sfera di fuoco lanciata da un Meister rimbalzò sulla pelle del troll senza nemmeno scalfirla. Altre dieci seguirono la prima ottenendo lo stesso risultato. Un fulmine scagliato subito lasciò solo un segno nero sulla corazza. Il ferali si accovacciò e fletté ogni muscolo del corpo. Tutte le armi e le corazze che Garoth aveva incorporato nella bestia esplosero in ogni direzione: pettorali, cotte di maglia, lance e spade e mazze ferrate e pugnali e centinaia di frecce caddero sferragliando sul terreno, in un grande cerchio.
Un omuncolo bianco sfrecciò fuori dalle linee lchalidoriane e si attaccò al ferali. Nella linea che separava i Vürdmeister dal ferali, l'aria parve deformarsi come se la scena fosse riflessa in uno specchio distorto. L'aria si addensò in una striscia gorgogliante in direzione del ferali. A dieci passi dal mostro, la cortina di aria distorta fu lacerata da un fuoco ardente. Il drago colpì. Ma la sua bocca da lampreda si richiuse sul nulla. Il ferali era incredibilmente veloce. Il drago si contorse, e con un guizzo la sua pelle nera e rosso accesa si materializzò più avanti di dodici, diciotto metri, senza che niente avesse fatto presagire l'allungamento del suo corpo. Logan sentì il clangore di armi contro il terreno, lasciate cadere da dita ormai fiacche, mentre i due titani combattevano. Ma la battaglia durò solo per il tempo di un ultimo colpo. Il drago fallì ancora, ma il ferali no. Un pugno gigantesco schiacciò la testa del drago e calò il suo corpo come una frusta sulle linee khalidoriane sotto di lui. Quel che era rimasto del drago si sfaldò in esangui masse informi nere e rosse, che sfrigolarono sul terreno come gocce d'acqua in una padella rovente, sibilando in un fumo verde e dissolvendosi. Il ferali si girò verso le linee khalidoriane e una dozzina di braccia spuntarono dal suo corpo. Cominciò ad agguantare soldati come un bambino goloso che arraffa caramelle. Poi gli uomini su entrambi i fronti si ricordarono della battaglia. I Cenariani impugnarono di nuovo le armi, e i Khalidoriani le lasciarono cadere insieme agli scudi per scappare più in fretta. Un grido si levò nell'aria mentre i Khalidoriani intorno al ferali rompevano le righe. Logan non riusciva a crederci: era troppo incredibile perché riuscisse ad accettarlo. «Chi vuole inseguirli?», propose il generale Agon, venuto fuori dal nulla insieme a un insanguinato duca Wesseros. «Nessuno», rispose Logan. «Lei non sa distinguere l'amico dal nemico. La nostra battaglia è finita». «Lei?», ripeté perplesso il duca Wesseros.
«Non fate domande». Agon si allontanò al galoppo gridando ordini, e Logan si rivolse all'uomo a cavallo che lo aveva salvato dal ferali. Non lo riconobbe. «Mi avete salvato la vita. Chi siete?», domandò. La donna sethi che era rimasta incollata al suo fianco per l'intera battaglia, si fece avanti. «Mio signore, questo è mio marito Tomman», disse, traboccante di orgoglio. «Siete un uomo coraggioso, Tomman, e un ottimo tiratore. Quale ricompensa chiedete?». Tomman alzò lo sguardo e, inspiegabilmente, i suoi occhi si illuminarono. «Mi avete già dato più di quel che merito. Mi avete restituito l'amore, mio signore. Cosa c'è di più prezioso?». Tese una mano e la moglie la strinse nella sua. I Cenariani fecero quadrato serrando il più possibile i ranghi, e osservarono i Khalidoriani che venivano massacrati. Non fu una ritirata. Fu una disfatta. Il resto del cerchio si spezzò, e gli uomini si dispersero in ogni direzione. Il ferali si scagliò all'inseguimento. Divenne un serpente e si srotolò su interi segmenti della linea: i soldati in fuga restavano attaccati alla sua pelle, lanciando grida disperate. Poi si trasformò in un drago. In ogni forma, aveva dozzine di mani. In ogni forma era rapido e inesorabile. Urla pietose si levavano da ogni parte mentre gli uomini in preda al panico si dilaniavano fra loro. Alcuni si acquattarono dietro i recinti per le greggi, altri si accalcavano a ridosso dei massi, altri ancora si arrampicarono sugli alberi ai bordi della piana, ma la creatura si rivelò di una crudeltà meticolosa. Raccoglieva vittime ovunque vive, morte o ferite, che fingessero di essere morte o si nascondessero o lottassero - e le divorava. Non tutti i Khalidoriani si diedero alla fuga. Alcuni tornarono indietro a combattere, altri radunarono i compagni e si lanciarono all'attacco con maggior coraggio di quanto i Cenariani avrebbero creduto possibile, forse più di quanto loro stessi avrebbero dimostrato. Ma di fronte all'orrore, il coraggio era irrilevante. L'impavido e il codardo, il nobile e l'umile, il buono e il cattivo, morirono in egual misura. E i Cenariani guardavano a bocca aperta, sapendo che quel massacro sarebbe toccato a loro. Le poche volte
che un Cenariano lanciò grida di trionfo, nessuno si unì alla sua esultanza. Il ferali continuò ad avanzare, sgominando gran parte dei gruppi khalidoriani e tenendosi sempre, costantemente alla larga dai ranghi cenariani, come se volesse sfuggire alla tentazione di avvicinarsi troppo a loro. Alla fine, dopo aver divorato un ultimo gruppo, abbastanza numeroso da valere il suo tempo, il ferali fuggì verso le montagne. Cenaria era benedetta o fortunata, oppure Lilly era riuscita a controllarsi più di quanto Logan avesse sperato, perché si diresse dove non c'erano villaggi nel raggio di qualche centinaio di chilometri. Nel silenzio improvviso, qualcuno lanciò un urlo di gioia. Per un momento, rimase isolato, sospeso nell'aria. Logan, in sella a un altro cavallo, si guardò intorno e vide ancora una volta migliaia di occhi puntati su di lui. Perché lo guardavano tutti? Poi qualcuno lanciò un altro grido trionfante e un'improvvisa consapevolezza si fece strada nella mente di Logan: avevano vinto. Chissà come, contro ogni possibilità, avevano vinto. Per la prima volta dopo mesi, Logan sentì le labbra incresparsi in un sorriso. Fu come aprire una diga: d'un tratto, tutti sorridevano, esultavano, si scambiavano pacche sulla schiena, senza più badare sotto quale nobile vessillo avessero combattuto fino a un momento prima. I Cani di Agon abbracciarono le guardie della città di Cenaria: ex ladri ed ex guardie, insieme in amicizia. I nobili presero sottobraccio i contadini, gioendo con loro. I legami spezzati che un tempo tenevano insieme il paese sembrarono rinsaldarsi, proprio mentre Logan faceva correre lo sguardo sull'esercito schierato. Avevano vinto. Il costo era stato enorme, ma aveva resistito contro la potenza di un mostro e la magia di un dio, e aveva vinto. Un grido si levò sopra il clangore di spade e lance battute ritmicamente contro gli scudi, ripetendosi come un'eco fra i ranghi. «Cosa stanno dicendo?», Logan chiese ad Agon. Ma mentre poneva la domanda, afferrò le parole scandite a tempo con il ritmo dei metalli: «RE GYRE! RE GYRE!». Era impudente; era sedizioso; era magnifico. Logan scrutò la calca in cerca di Terah Graesin. Era sparita. A quel punto, sorrise.
Capitolo 72 Il dio morto si accasciò come un sacco di grano. Vi stava tremando, ma non sembrava che fosse stata ferita dal vir che l'aveva abbrancata. Kylar osservò il cadavere di Garoth Ursuul, incredulo. Il suo destino giaceva morto sul pavimento, e non era stato lui a ucciderlo. Il Lupo aveva mantenuto la sua parte dell'accordo: Kylar era vivo. Ma provava una strana sensazione. Vi lo stava fissando, ancora scossa dalle ultime emozioni, calde lacrime le bagnavano le guance. Alzando lo sguardo, Kylar vide che il corpo della ragazza fremeva di shock e di paura - insieme a una punta di speranza?
Che diamine succede? Da quando riesco a capire cosa prova una donna? Il sangue del Re Divino era schizzato su di lei. Era invisibile sui suoi indumenti neri da sicario, ma c'era qualcosa di terribile in quelle chiazze rosse e umide che le imbrattavano l'incavo tra i seni. Era talmente sconvolta che Kylar ebbe voglia di prenderla fra le braccia. Vi aveva bisogno che lui la amasse, che la conducesse fuori dalla valle della morte che era la via delle tenebre. Kylar adesso conosceva la via d'uscita: era l'amore. Avrebbero ritrovato Uly, e lui e Vi avrebbero percorso insieme quella via...
Io e Vi? La ragazza sgranò gli occhi, in preda al rimorso e alla paura. Stava piangendo. Per una frazione di secondo Kylar volle capire, ma poi le sue dita si allungarono lentamente a toccare l'orecchio. C'era un orecchino, un anello perfetto privo di saldature, ed era inondato da una magia cosi potente che la sentì attraverso la punta delle dita. «Mi dispiace così tanto», disse Vi indietreggiando. «Mi dispiace così tanto. Ma era l'unico modo». Appena si girò, Kylar vide l'ultimo dono a Elene - la sua promessa d'amore per la quale aveva venduto la sua primogenitura - scintillare all'orecchio di Vi.
«Che cosa hai fatto?!», tuonò, realizzando che la sua rabbia veniva amplificata attraverso l'orecchino. La schiaffeggiò, percependo tutto il rimorso e il terrore della ragazza, lo smarrimento, la disperazione, l'autodisprezzo e... diamine, il suo amore? Amore! Come osava amarlo? Vi fuggì. Kylar non la seguì. Cosa avrebbe fatto se l'avesse fermata? La ragazza uscì spalancando le porte della sala del trono, sotto gli sguardi stupiti delle guardie. Quando i soldati si voltarono, videro Kylar accanto al cadavere del Re Divino. E poi scoppiò un caos di fischi e allarmi, e Highlander all'assalto e nenie di Meister. Kylar fu lieto per lo stordimento che gli offriva la battaglia. Offuscava un futuro di cui Elene non avrebbe mai fatto parte. Monopolizzava la sua attenzione. Con una mano sola, uccidere era una vera sfida. Lantano Garuwashi non riusciva a smettere di accarezzare la Spada del Cielo, anche se era riposta nel fodero. Quando un sa'ceurai sguainava la spada, non la rinfoderava senza averle prima fatto assaggiare il sangue. Al calare della notte, i suoi uomini oscurarono l'ingresso della caverna in modo che i falò non fossero visibili ai Cenariani in festa. Dopo aver conferito con la spia appena rientrata dall'accampamento cenariano, Garuwashi salì su una sporgenza rocciosa. Nel bagliore dei fuochi, gli occhi dei suoi uomini scintillavano carichi di aspettative. Avevano visto prodigi negati ai loro padri e ai loro nonni prima di loro. Adesso la Spada del Cielo era ritornata. Garuwashi iniziò il suo discorso senza preamboli, come era sua abitudine. «I Cenariani non hanno vinto questa battaglia. È stata quella creatura a vincerla per loro. Questa sera, bevono per festeggiare. Domani, daranno la caccia ai Khalidoriani in fuga. Volete sapere cosa faremo mentre questi buffoni schiacciano le mosche?». Gli uomini annuirono. Loro avevano la Spada del Cielo. Loro seguivano Garuwashi. Erano invincibili.
«Questa notte raccoglieremo le uniformi dei Khalidoriani uccisi. All'alba, attaccheremo e infliggeremo perdite tali da far infuriare i Cenariani. Attireremo il loro esercito a est, sempre sfuggendo loro di mano. Fra tre giorni, il resto del nostro esercito arriverà qui. Fra cinque, conquisterà l'indifesa città di Cenaria. Entro un mese, questo paese sarà nostro. A primavera, torneremo a Ceura e le daremo il suo nuovo re. Cosa ne dite?». Gli uomini esultarono, tranne uno. Feir Cousat rimase seduto in silenzio, impassibile. Il suo volto sembrava scolpito nel marmo.
Epilogo Lo scalpitio degli zoccoli riecheggiò
alle spalle di Dorian appena superò l'ultima salita nelle colline pedemontane e vide Khaliras. Si spostò da parte e attese pazientemente, rapito dalla vista. La città era ancora a due giorni di distanza ma, fra i Monti Faltier e il Monte Thrall, le pianure si estendevano senza soluzione di continuità. La città e il castello si ergevano come una montagna, una vetta isolata in una distesa di pascoli. Un tempo era stata la sua patria. Il drappello di soldati lo superò, in sella a magnifici destrieri. Al loro passaggio, Dorian s'inginocchiò in atto di deferenza come un contadino qualsiasi. Non era una normale pattuglia di ricognizione. Né erano soldati regolari, anche se le loro uniformi dicevano il contrario. Ma le loro armi e i cavalli li tradirono. I sei enormi soldati erano membri della guardia del Re Divino. E dal loro odore, nonostante le mantelle, i Meister che li accompagnavano erano in realtà Vürdmeister. Potevano solo provenire da Cenaria, probabilmente trasportando grandi ricchezze nelle ceste che avevano al seguito. Dorian continuò ad azzardare occhiate fugaci al drappello quando individuò il reale tesoro. Una donna cavalcava insieme ai Meister, avvolta in pesanti tuniche e con il volto velato. Qualcosa sembrava stranamente familiare nel suo portamento; poi la vide negli occhi. Era la donna che aveva scorto nelle sue visioni. La sua futura moglie. Un brivido gli percorse il corpo mentre riaffioravano nella sua mente stralci delle sue vecchie profezie - qualcosa nel processo per inaridire il suo dono aveva bloccato i suoi ricordi. Quando ritornò in sé, era ancora in ginocchio. Aveva i muscoli indolenziti e il sole era basso nel cielo. Il drappello aveva già coperto diversi chilometri nella prateria. Era rimasto incosciente per metà della giornata.
Solon, dove sei? Ho bisogno di te qui. Ma Dorian conosceva la
risposta. Se Solon era sopravvissuto alla strage di Screaming Winds, probabilmente si era già imbarcato per raggiungere Seth, la sua patria, e affrontare il suo perduto amore. Quella donna, ora imperatrice Kaede Wariyamo, doveva essere infuriata. A causa delle profezie di Dorian, Solon aveva abbandonato il suo paese nel momento del bisogno. Dorian poté solo sperare che il cammino di Solon non fosse solitario come il suo. Perché anche senza la capacità di divinazione, Dorian sapeva che, ovunque fosse andato, avrebbe percorso un sentiero immerso nelle tenebre, da solo, soffrendo tanto al punto che rinunciare alle sue visioni era sembrata una buona idea. Si alzò tremando di paura. Guardò il tragitto davanti a sé e quello appena coperto, la strada che portava a Khaliras e alla sua futura moglie - Jenine, ecco qual era il suo nome! - o la strada che lo riportava dai suoi amici. Morte e amore, oppure vita e solitudine. Dio gli sembrò lontano come un'estate nel Freeze. A testa alta e schiena dritta, Dorian riprese la sua lunga cavalcata in direzione di Khaliras. Ghorran non staccava gli occhi da Elene, uno sguardo losco, intenso. Il primo giorno non era stato un problema, perché Elene non aveva dovuto fare i propri bisogni. Ma il secondo giorno sì. Lo aveva seguito a breve distanza nel bosco, poi si era nascosta dietro un cespuglio per avere un po' di privacy. Il giovane aveva aspettato che si fosse accovacciata e che avesse sollevata la gonna, e poi si era avvicinato per metterla in imbarazzo. Naturalmente, in quel momento Elene non riuscì a liberarsi. Quella sera, come ogni sera e ogni mattina, i Khalidoriani pregarono: «Khali vas, Khalivos ras en me, Kbali mevirtu rapt, recu virtum defite». Ghorran gettò Elene a terra e si sedette a cavalcioni sopra di lei. Mentre pregava, affondò le dita nei punti di pressioni dietro le orecchie della ragazza. Elene gridò e sentì un liquido caldo bagnarle il vestito appena perse il controllo della propria vescica.
Finita la preghiera, Ghorran si alzò e le diede uno schiaffo sull'orecchio, dicendole: «Puzzolente, sudicia puttana». Non le permisero di lavarsi quando attraversarono un piccolo ruscello di montagna. Quella sera, quando Ghorran la accompagnò in disparte, Elene tirò su la gonna e si liberò davanti ai suoi occhi. Il giovane non parve godere più di tanto, finché Elene non arrossì e distolse lo sguardo. «Domani», le disse, «ti farò spalmare la merda sulla faccia. La tua o quella di un altro. Decidi tu». «Perché lo fai?», gli chiese Elene. «Non hai un minimo di decenza?». Il mattino dopo, però, li svegliarono presto e partirono immediatamente. I prigionieri camminavano in fila, legati fra loro, dietro ai Khalidoriani. Elene era la sesta e ultima della fila, con il ragazzo, Herrald, proprio davanti a lei. Le ci volle un po' per capire come mai i Khalidoriani fossero inquieti e picchiassero i prigionieri se parlavano tra loro. Quella mattina c'erano solo cinque soldati khalidoriani. La sera, Ghorran sembrava aver dimenticato la sua minaccia. Quando accompagnò Elene a fare i suoi bisogni, mantenne il contatto visivo con il campo. Elene si accovacciò fra i larici, ai quali l'autunno appena iniziato stava rubando gli aghi dorati, e finse che la presenza del soldato non la infastidisse. «Domani dovremmo incontrare i Meister», annunciò Ghorran senza staccare gli occhi dal campo. «Vi consegneremo a loro. Probabilmente quel bastardo di Haavin è scappato, il vigliacco». Elene si rialzò e, a meno di dieci passi dall'ignaro Ghorran, vide un uomo appoggiato contro un albero. Lo straniero indossava una moltitudine di mantelli, maglie, camicie con le tasche, e borse di ogni dimensione tutte in pelle di cavallo, tutte conciate in marrone scuro e ammorbidite dall'uso. Nel retro della cintura erano infilati due gurka dalla punta ricurva, una faretra finemente intagliata e decorata pendeva sulla schiena ed else di varie dimensioni sbucavano fra gli indumenti. Aveva un volto affabile. Occhi ironici, quasi a mandorla, i capelli neri e lisci: un cacciatore ymmuri. Accostò un dito alle labbra.
«Hai finito?», sbraitò Ghorran, lanciandole un'occhiata. «Sì», rispose Elene. Guardò indietro in direzione del cacciatore, ma era sparito. Quella sera c'erano solo quattro soldati quando si accamparono al limitare del bosco per approfittare del riparo offerto dagli alberi. I Khalidoriani discussero se fosse il caso di proseguire nonostante l'oscurità e se Haavin e l'altro soldato appena sparito fossero realmente scappati. La notte fu breve, e Ghorran svegliò Elene che era ancora buio. La accompagnò in silenzio nel bosco. La ragazza sollevò la gonna con noncuranza. «Come ti sei ferito al torace?», gli domandò Elene. «Quella puttana selvatica mi ha infilzato con il forcone dopo che io le avevo ucciso il marito e sbudellato i figli». Si strinse nelle spalle, come se il colpo fosse stato un momento di negligenza, imbarazzante ma non serio. Per Ghorran, sventrare bambini non era niente di speciale. Aveva picchiato Elene e l'aveva messa in imbarazzo; per questo poteva perdonarlo. Ma quell'incurante scrollata di spalle riaccese la scintilla di rabbia che albergava nel suo cuore. Per la prima volta nella sua vita dopo Ratto, Elene provò odio. Ghorran si era portato dietro un arco e stava montando la corda. «Oggi raggiungeremo l'accampamento», disse. «Neph Dada vi farà delle cose orribili». Si passò la lingua sulle labbra secche. «Io posso salvarti». «Salvarmi?» «Non dovrebbe fare quel che fa. È una follia lodricari. Se scappi adesso, ti pianterò una freccia nella schiena e ti risparmierò ogni sofferenza». La sua pietà era talmente bizzarra che l'odio di Elene svanì. Un lampo di luce esplose dal campo a cinquanta passi dietro di loro, proiettando ombre sugli alberi. Un urlo. Poi il rumore di cavalli lanciati al galoppo.
Elene si girò e vide una dozzina di sconosciuti cavalieri khalidoriani attaccare il campo da nord. Erano venuti di buon'ora a fare incetta di schiavi. «Scappa!», risuonò un grido, più sonoro del normale. Fra gli alberi, Elene vide il cacciatore ymmuri battersi con i Khalidoriani. Con un solo movimento, ne infilzò due. Il fuoco guizzò dalle mani di uno dei cavalieri, ma il giovane lo schivò. Ghorran incoccò una freccia e la scagliò, ma c'erano troppi alberi e Khalidoriani fra lui e lo Ymmuri. Poi, a pochi passi da loro, Herrald sbucò fuori dal bosco e si diede alla fuga. Ghorran si girò a prendere la mira, puntando al nuovo bersaglio. Elene ebbe un solo pensiero: no. Sfilò il pugnale di Ghorran dalla cintura e glielo affondò nella gola. Il soldato fu scosso da uno spasmo e la freccia schizzò via dall'arco, sibilando al di sopra della testa di Herrald. Ghorran lasciò cadere l'arco e fissò Elene con gli occhi sgranati. Il pugnale era infilzato al centro della gola e la sua lama larga gli ostruiva la trachea. Espirò a fatica, e l'aria gli uscì di bocca con un sibilo. Si portò una mano alla gola e tastò il pugnale, ancora incredulo. Poi tentò di inspirare. Il diaframma pompò come un mantice, ma l'aria non passò. Il soldato crollò in ginocchio, accanto a Elene immobile. Ghorran si strappò la lama dalla gola e tentò di prendere fiato, ma l'ansito si trasformò in un gorgoglio. Tossì, sputando sangue addosso alla ragazza. Tentò ancora di respirare, ma riuscì solo a riempirsi i polmoni di sangue. Dopo un istante, si accasciò nel sottobosco. Nonostante il sangue che le imbrattava il viso, il vestito, le mani, nonostante lo sguardo penoso sul volto di Ghorran e l'orrore di vedere un uomo morire, Elene non provò rimorso. Solo un minuto prima aveva odiato Ghorran, ma non lo aveva ucciso spinta dall'odio. Doveva semplicemente fermarlo. Se fosse tornata indietro, avrebbe rifatto la stessa cosa. E nello stesso modo.
«Mio Dio, che sciocca sono stata», disse ad alta voce. «Perdonami, Kylar». Lasciandosi alle spalle i lampi di luce magica che illuminavano gli alberi a giorno, Elene fuggì. Sul lato nord dell'isola di Vos, nel grigiore di una piovosa giornata d'autunno, Kylar era fermo a fissare il tumulo senza nome che aveva appena eretto. La tomba di Durzo. Kylar era sporco di sangue, i suoi indumenti da sicario segnati e bruciacchiati dalla magia. Aveva combattuto per ore in preda a una furia cieca, uccidendo ogni soldato khalidoriano e Meister su cui aveva posato gli occhi. Sul campo di battaglia che si andava lentamente dissolvendo sul pavimento della sala del trono, aveva visto Logan resistere, il ferali convertirsi e aveva assistito alla distruzione dell'armata khalidoriana. Aveva notato come gli uomini ammiravano Logan. Sebbene le loro figure fossero in miniatura, traspariva da ogni atteggiamento del loro corpo. Logan avrebbe condotto l'esercito in patria due giorni più tardi e, al suo arrivo, avrebbe trovato il suo castello sgombro dalla presenza khalidoriana - fatta eccezione per Khali, ma era una creatura che Kylar preferiva evitare. Lasciamo che il re Gyre inviti qualche mago per risolvere la faccenda. «Abbiamo vinto, credo», disse alla tomba di Durzo. Kylar sapeva che era inutile inveire contro la propria vita. Lui era l'Angelo della Notte, e non veniva festeggiato. Come gli aveva detto Durzo tanto tempo prima, sarebbe stato sempre isolato dagli altri, inevitabilmente solo.
È dura essere immortali, disse il ka'kari. Kylar era troppo esausto per mostrarsi sorpreso o offeso. Il ka'kari aveva parlato anche in precedenza, adesso se ne rese conto, cercando di salvargli la vita. «Così puoi parlare», disse. Il ka'kari si addensò nella sua mano a formare un volto stilizzato. Gli sorrise e gli fece l'occhiolino. Kylar sospirò e lo riassorbì nella pelle.
Fissò il moncone del suo braccio. Lo aveva perso per niente. Aveva fatto una solenne promessa al Lupo per niente. Tutto quel che aveva mai imparato, tutto quel che aveva sofferto, era stato per un unico scopo: uccidere Garoth Ursuul era il destino di Kylar. Garoth era l'ignobile fonte da cui era sgorgata la miseria di Kylar, di Jarl e di Elene. Era semplicemente giusto che l'uomo che aveva portato Kylar a diventare un sicario fosse il suo ultimo morto. Senza Garoth, non ci sarebbe stato Roth. Senza Roth, Elene non sarebbe rimasta sfregiata, Jarl sarebbe stato vivo e vegeto, e Kylar sarebbe stato - cosa? - be', non un sicario. Una volta il conte Drake gli aveva detto: «C'è una divinità che plasma la bellezza dalle nostre vite grossolane e sbozzate». Era una menzogna, come lo era il destino di Kylar. Forse per questo era così duro: aveva cominciato a credere nell'economia divina di Elene. Così adesso non aveva soltanto perso Elene, che aveva fatto parte della sua vita fin dall'inizio, che lo aveva portato a credere di possedere dei doni: aveva perso il suo destino. Se aveva un destino, aveva uno scopo: una perla che si forma intorno al male che aveva sofferto e inflitto. Se fosse stato plasmato per uno scopo, forse c'era un Plasmatore. Se c'era un Plasmatore, forse il suo nome era Unico Dio. E forse quell'Unico Dio era il ponte sopra l'abisso fra assassino e santo che separava Kylar da Elene. Ma non c'era alcun ponte, né un Dio o un Plasmatore, nessuno scopo e nessun destino, nessuna bellezza. Non c'era ritorno. Era stato defraudato della giustizia, della vendetta, dell'amore e di uno scopo nello stesso tempo. Si era illuso di poter cambiare, di poter comprare la pace al prezzo di una vecchia spada. Retribution era solo uno strumento di giustizia. Ma era Kylar a essere assetato di giustizia. Quel giorno aveva ucciso molti uomini, e non riusciva a rammaricarsene. Così doveva comportarsi l'Angelo della Notte. Forse un uomo migliore sarebbe riuscito a deporre la spada. Kylar non ci era riuscito, nemmeno se gli era costato Elene. Ogni volta che pensava a lei, il viso della ragazza prendeva le sembianze di Vi. Ogni volta che pensava a Vi, le sue fantasie
passavano da desideri di infliggere la giusta punizione a fantasie di altro genere. «Maestro», disse alla tomba. «Non so cosa fare».
Completa il lavoro. Conosceva esattamente l'intonazione con cui
Durzo avrebbe pronunciato quelle parole, esasperata ma decisa.
Era vero. Il Lupo aveva onorato la sua parte dell'accordo: Kylar era tornato subito dalla morte. Si era rivelato un pessimo affare, ma un patto era un patto, e così Kylar avrebbe sottratto Curoch, l'avrebbe portata a Curva di Torras e avrebbe riavuto il suo braccio. Sembrava piuttosto semplice. Dopo tutto, rubare non era un'impresa difficile quando potevi renderti invisibile. E non vedeva l'ora di riavere il suo braccio. Il moncone gli doleva e avrebbe voluto non pensarci, ma la mancanza di una mano lo sbilanciava.
Non sei qui perché non sai cosa fare, ragazzo. Tu hai sempre saputo cosa fare. Era vero anche questo. Kylar avrebbe completato il lavoro e poi sarebbe andato a cercare Vi e l'avrebbe uccisa.
Tu non la ucciderai - disse il ka'kari. «Sei diventato di colpo chiacchierone, eh?», si lamentò Kylar. Il ka'kari non rispose. Però era vero. Kylar non era lì perché aveva bisogno di una guida. Non realmente. Sentiva semplicemente la mancanza del suo maestro. Era la prima volta che visitava la tomba da quando Durzo era morto. Non riuscì più a trattenere le lacrime. Stava piangendo una perdita. Aveva perso il suo maestro; aveva perso la ragazza che aveva salvato tradendo il suo maestro; aveva perso la figlia del suo maestro. Aveva perso l'unica occasione di una vita tranquilla. Un gentile e affabile erborista! Era stata un'illusione, forse, ma era stata dolce. Kylar era solo, ed era stanco di sentirsi così. Un piccolo roditore aveva scavato un buco vicino alla base del tumulo. Durzo si sarebbe seccato all'idea di dover trascorrere l'eternità in compagnia di roditori che zampettavano sul suo cadavere. Kylar guardò il buco con aria infastidita. Era abbastanza
profondo da apparire nero a occhi normali, ma Kylar notò sul fondo un chiaro scintillio metallico. Si posò sulle ginocchia e sul moncone - aah! -, si puntellò sul gomito - meglio - e infilò l'altra mano nel buco. Si rialzò stringendo in mano una piccola scatola sigillata di metallo. Sul coperchio era incisa una parola: «Azoth». Un brivido gli corse lungo la schiena. Quante persone conoscevano quel nome? Sollevò goffamente il coperchio aiutandosi con il moncone. All'interno c'era un biglietto. «Ehi», c'era scritto nella grafia ordinata di Durzo, «anch'io ero convinto che fosse l'ultima a disposizione. Ha detto che potevo averne un'altra in ricordo dei vecchi tempi...». Gli si appannò la vista. Non riusciva a crederci. La lettera proseguiva, ma gli occhi di Kylar furono attirati dalle parole finali: «NON FARE PATTI CON IL LUPO». La lettera era datata un mese prima che Kylar uccidesse il suo maestro. Durzo era vivo.