J.P. RYLAN
IL TRONO DELLA FOLLIA (2006) 1 Non fu sempre questa la forma della terra. Più volte il sole mutò il suo orie...
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J.P. RYLAN
IL TRONO DELLA FOLLIA (2006) 1 Non fu sempre questa la forma della terra. Più volte il sole mutò il suo oriente, e gli astri il loro corso. Fiumi e laghi sorsero e si inaridirono dove oggi regna il deserto, montagne si innalzarono dalle pianure. E generazioni di popoli abitarono le terre che oggi sono il regno dei ghiacci. Città furono erette e sparirono, con i loro splendori e infamie. Tutto questo è già accaduto. Tutto questo accadrà di nuovo. Ma niente si vide mai simile alla città di Anharra e al Re che la eresse nella sua follia, Vemerin il Terribile. dalle Tavole, conservate nella Sala Negata della Biblioteca di Menthor La notizia che l'Impero arruolava uomini per un'impresa nelle terre aride del Vuoto correva da mesi, scritta sulle pergamene con i sigilli di piombo che i corrieri portavano ai prefetti nei quattro angoli dello Stato. Dalle stanze dei funzionari era passata in quelle dei capi militari, e poi nei bordelli che spalancavano le loro porte all'ombra delle torri. Trasformata in voci, era giunta fino ai servi e agli schiavi. Di lì era scivolata nei carichi dei mercanti, nelle preghiere dei pellegrini in viaggio verso il santuario di Khoran e sui carri delle meretrici che battevano le piste polverose del Khur. La voce era arrivata anche nella più infima taverna di Hirush, l'ultima città prima delle sabbie, e tutti ne parlavano con eccitazione. Il mormorio,
all'interno delle pareti sudice, cresceva di minuto in minuto. A un tavolo discosto dagli altri, addossato a una parete lontana dal fuoco e dai crocchi di avventori, un giovane sedeva in silenzio. Davanti a lui, accanto a una coppa di vino appena toccata, giacevano aperte due tavolette cerate, su cui era intento a tracciare dei segni con uno stilo di bronzo. A tratti, come se fosse scontento di quello che aveva scritto, capovolgeva lo strumento, che all'altra estremità si allargava a formare una piccola spatola, e raschiava con rabbia sulla cera. Doveva avere poco più di vent'anni, anche se le guance segnate e gli occhi induriti lo facevano apparire più vecchio. Sembrava indifferente al luogo in cui si trovava. Ma lo stesso rimaneva vigile. A intervalli regolari il suo sguardo saettava verso l'angolo della panca dove aveva posato la sua spada, nascosta nel fodero di cuoio. Un'abitudine che aveva sviluppato nei lunghi anni di guardia sul confine. Da qualche istante sentiva di essere osservato. Si voltò di scatto, cercando di intercettare lo sguardo che avvertiva su di sé. Seduto a un tavolo vicino un uomo lo fissava, seminascosto dietro una coppa di metallo da cui sorseggiava vino. Accortosi che l'altro lo aveva notato distolse per un istante gli occhi, poi tornò a guardarlo con decisione. «Vedo che stai scrivendo, amico» mormorò. «Conosci il segreto dei segni.» Il giovane richiuse di scatto le tavolette, le dita contratte sullo stilo. Ma lo straniero non sembrava pericoloso. Aveva posato la coppa sul tavolo, e adesso tutto il suo volto era visibile alla scarsa luce della piccola lucerna che brillava appesa a una trave. Un uomo anziano, il volto scavato dalle rughe, la barba bianca. Anche i capelli erano bianchi, lunghi, e gli ricadevano sulle spalle. Nel mezzo, una striscia più scura, che nasceva alla radice della fronte, resisteva a testimonianza dell'aspetto che aveva avuto da giovane. Il viso di un sacerdote di Khoran, si sarebbe detto. Oppure di uno studioso. Forse era un membro del Cerchio delle Saggezze, condotto dalle sue ricerche nelle terre di confine. E che adesso era finito in quella topaia, chissà perché. L'uomo si alzò e andò a sedersi accanto al giovane. Spostò la spada per farsi posto: un gesto noncurante, come se avesse dimestichezza con le armi. «Sai scrivere» ripeté mentre si sistemava la larga veste. Anche i suoi panni suggerivano un uomo agiato. In una piega del mantello baluginò per
un istante qualcosa di dorato, la fibbia che ne fermava i lembi intorno al collo. Il giovane ebbe l'impressione che l'uomo avesse deliberatamente nascosto il gioiello dietro una piega del tessuto, in modo da celare il proprio casato. «Sembra che la cosa vi sorprenda. O vi interessi. Voi non ne siete capace?» chiese ironico il giovane. «Cercate forse uno scrivano?» Il vecchio scosse lento la testa. Intinse il dito nella coppa che aveva posato sul tavolo e tracciò alcuni rapidi segni. Aveva usato i caratteri dell'antica lingua sacra, un alfabeto conosciuto solo da pochi. «Ghemenos. Il fato. Che cosa vuol dire?» L'uomo annuì soddisfatto. «Come vedi so scrivere anch'io. A me interessa questa» disse sfiorando la spada distesa tra di loro. «Ti ho osservato da quando hai messo piede in questa città. E ti ho seguito fin qui.» L'altro accennò ad alzarsi, ma il vecchio lo afferrò saldamente per una spalla, trattenendolo. «Non temere. Ti ho seguito, ma non rivelerò chi sei. Io ti conosco bene, Vargo. L'uomo segnato.» Il giovane trasalì, portando senza volere la mano alla fascia che gli nascondeva la fronte. Fissò il suo interlocutore. «Che volete da me? Non sembrate a caccia di taglie. E vi ucciderei prima che poteste fiatare» disse dopo un attimo di silenzio, afferrando con un guizzo la spada e sguainandola sotto il tavolo. «Continua pure a scrivere i tuoi versi» replicò pacato il vecchio. Aveva seguito il movimento, ma non parve dargli peso. Allungò la mano verso le tavolette e le aprì sul tavolo, scrutando rapido i segni impressi sulla cera. «È sempre nella tua mente, nonostante tutto, vero?» Il giovane serrò ancora più forte l'impugnatura della sua arma. Con la coda dell'occhio valutò rapido le facce infide degli altri avventori. Ma tutti sembravano immersi nelle loro bevande e nelle chiacchiere. Quindi tornò a concentrarsi sul vecchio, appoggiando la lama sulle ginocchia. «Conoscete il mio nome. E forse altre cose su di me. Siete in vantaggio» replicò secco. L'uomo abbozzò un sorriso, mentre si accomodava meglio senza accennare a una risposta. Il suo sguardo percorreva lento i lineamenti del giovane, come se cercasse qualcosa. In quel momento, accompagnata da uno sguaiato scoppio di risa, una delle inservienti passò accanto a loro portando una lampada. Un fascio luminoso passò sul volto del vecchio, accendendolo come se fosse in preda
alle febbri delle paludi. «Mi chiamo Amnor, della Casa dei Memnon» disse all'improvviso, rompendo il silenzio. Vargo spalancò gli occhi. La Casa dei Memnon aveva sempre suscitato paura, fin dai tempi del Primo Imperatore. Ma adesso era ben altro. Adesso il timore era quello che accompagna gli spettri. «È impossibile. La Casa dei Memnon si è estinta quando l'ultimo della sua generazione fu bandito, e anche la sua memoria venne condannata alla cancellazione. Chi siete? Intendo per davvero» mormorò. Il vecchio si avvicinò ancora, fino a sfiorargli l'orecchio. «Ti sbagli. Come tanti si sbagliano. Guarda.» Vargo chinò gli occhi verso la mano che l'altro aveva aperto. Le linee sul palmo disegnavano una "M" netta. Ma non si trattava di una antica ferita, né di un tatuaggio. La natura aveva impresso quel segno. «Amnor dei Memnon era il medico personale dell'Imperatore» sibilò Vargo a bassa voce. «Ma non solo quello. Anche il suo consigliere segreto. L'ispiratore di tutte le sue perfidie...» Il vecchio alzò le spalle. «Sì, ero chiamato in quel modo.» Sulle labbra gli apparve un'espressione sprezzante. «La Casa dei Memnon non è estinta, come vedi. Ma la linfa che l'ha alimentata per secoli si è esaurita. Finirà con me, l'ultimo di loro.» «Siete già finito. Se siete chi dite di essere, avete commesso colpe orrende, e tutti vi danno la caccia.» «Ho sentito spesso l'alito dei cani alle calcagna. Ma sono riuscito sempre a scrollarmeli di dosso, nonostante la taglia messa sulla mia testa» replicò il vecchio, sempre beffardo. «Ti stupiresti se ti rivelassi quanto sarebbero disposti a pagare chi mi consegnasse a loro. Ben più di quello che è stato detto.» «Siete imprudente a mettervi così nelle mie mani» disse Vargo in tono freddo. L'altro si abbandonò a un sorriso silenzioso, maligno. «Sei tu a essere nelle mie, Vargo. Vargo il traditore, esiliato da tutte le terre dell'Impero.» «Potrei denunciarvi all'istante. E riscattare così la mia condanna. Gli imperiali me ne sarebbero grati. E forse cancellerebbero il bando.» Il vecchio alzò le spalle. «Non sono gli imperiali che devono perdonarti, Vargo, ma gli spettri che vengono a visitarti ogni notte. Te l'ho detto» continuò abbassando la voce fino a rendere le sue parole poco più di un sussurro, «ti conosco bene.»
«Io...» balbettò incerto il giovane. Per un attimo il pavimento sembrò oscillare sotto i suoi piedi, e la scarsa luce farsi ancor più fioca. Lanciò uno sguardo intorno, sui volti anonimi degli altri avventori. L'animazione della taverna continuava immutata, nessuno sembrava far caso a loro. Due relitti del Khur, seduti davanti a una coppa di vino. «Non hai nulla da vendere, amico mio» lo incalzò il vecchio. «Invece io ho qualcosa da comprare da te. Ma prima voglio raccontarti un'altra storia. Tu ami le parole, no?» seguitò indicando le tavolette. «E le storie sono fatte di parole, dopotutto.» Vargo avrebbe voluto alzarsi e allontanarsi in fretta, ma non ci riuscì. Continuava a stare seduto lì, fermo. Sembrava soggiogato dalla forza della volontà del vecchio. «Ascoltami. Vuota la tua coppa e ascolta.» Vargo chinò la testa in segno di resa. Accostò le labbra alla coppa e si allungò meglio sulla panca. Anche il vecchio parve rilassarsi. Respirò profondamente e riprese a parlare. «La mia Casa ha sempre condiviso i destini dell'Impero. Sì, come hai sentito dire, per un certo periodo sono stato davvero il medico dell'Imperatore. Ma ho anche viaggiato molto nella mia vita. Per tutte le Quattro Terre, e ho seguito i confini del grande mare interno. Ho varcato le sue acque, e sono tra i pochi che sono tornati dalle coste del settentrione. Ma il mio viaggio più lungo è stato dentro gli infiniti libri della Biblioteca di Menthor.» Vargo tentò di interromperlo. «Non è possibile. La Biblioteca è bruciata. Come avete potuto...» Amnor proseguì, come se non lo avesse sentito. «Per anni mi sono consumato su quelle carte. Alla ricerca di una traccia che mi portasse verso la mia meta. Ma trovavo soltanto frammenti, ricordi lontani, visioni». «Ma cosa cercavate?» «Un luogo. Dove i vivi e i morti si incontrano.» Parlando, il vecchio aveva appoggiato una borsa sul tavolo. Picchiettò con le dita sul tessuto logoro. «Poi, un giorno, ho avuto dagli dei un dono.» «Un dono? E cosa?» «La conferma che quello che avevo cercato non era un sogno. O il delirio di un morente...» «Ma chi...?»
Di nuovo Amnor non badò al giovane. Sciolse i legacci della sua borsa e ne estrasse un rotolo grigiastro, legato stretto da due cinghie annodate. Nel movimento, dei piccoli frammenti si erano staccati cadendo sul tavolo, nonostante le sue dita si muovessero con estrema delicatezza. Vargo lo osservò incuriosito. Sembrava uno degli antichi rotoli che aveva visto accumulati in disordine nella Biblioteca imperiale. «Una pergamena?» chiese con una punta di delusione. Ma subito, osservandola meglio, fu preso da una sensazione di malessere. Non capiva perché, ma c'era qualcosa, in quell'oggetto... Qualcosa di sbagliato, di maligno. Il vecchio scosse la testa. «Non è una semplice pergamena, ma un dono, ti ho detto. Un dono inaspettato. Qui dentro si cela il più meraviglioso dei segreti che l'uomo abbia mai sognato: la mappa della via per Anharra.» Vargo tacque per un istante, catturato da quelle parole. Poi scoppiò in una risata. Il vecchio si prendeva gioco di lui. Anharra, la città che da trenta secoli giaceva immersa nell'oblio, da qualche parte nel Vuoto. La città di cui tutti parlavano nelle terre di confine, una diceria da ubriachi. «La città di Vemerin, il Re cieco e pazzo?» esclamò. «Non esiste! E quella, come è giunta nelle vostre mani?» incalzò, accennando con una punta di ribrezzo all'ammasso grigiastro che l'altro continuava a stringere tra le mani. «Avete parlato di un dono. Se davvero in quel rotolo è indicata la via per Anharra, perché qualcuno avrebbe dovuto regalarvelo?» Il vecchio scosse di nuovo la testa. «È stato il caso. Per tanto tempo ho cercato anche le più piccole tracce del segreto, senza successo. Ma un giorno quello che non attendevo più mi venne incontro, a un crocevia nel mezzo di un pianoro.» Si interruppe. Forse aspettava che Vargo gli facesse altre domande, ma il giovane taceva ancora. Allora una smorfia beffarda gli apparve sul volto. «Vidi un uomo che camminava barcollando nella mia direzione. Aveva vagato per giorni. Come me, aveva attraversato tutte le terre. Ma per lui ormai era la fine.» Il vecchio socchiuse gli occhi, come se tornasse a vedere con la mente quella scena lontana. «E lo riconobbi. Pensa, Vargo, alla strana ironia della vita. E a come è imprevedibile la nostra mente: io lo riconobbi subito, dietro la sua maschera stravolta, ma lui non riconobbe me, che pure non ero cambiato dal nostro ultimo incontro. Quindici anni prima quell'uomo, un cartografo dell'Esarcato, si era unito insieme con un confratello astronomo
a una carovana di mercanti diretta verso l'interno del Vuoto. Dovevano tentare una prima ricognizione delle terre del Vuoto. I barbari avevano sterminato i loro compagni, ma loro due li avevano risparmiati, forse per la paura superstiziosa da cui erano stati colti vedendo gli strani strumenti che portavano negli zaini. Dovettero pensare che compassi e sestanti fossero i feticci di una qualche divinità misteriosa. Il loro capo li trasformò nei suoi schiavi personali. E li trascinò con sé nelle sue peregrinazioni nel deserto, per sette anni. Spezzati nel corpo, tenuti in vita dalla speranza di riuscire un giorno a fuggire.» Vargo senza volerlo si era avvicinato al vecchio. «Finché non giunsero ad Anharra.» La voce di Amnor era andata crescendo di tono. Si placò di colpo, accorgendosi che qualcuno tra gli avventori aveva alzato la testa e volgeva lo sguardo in giro. «Forse quei nomadi erano a conoscenza del segreto» riprese il vecchio, nuovamente pacato. «O forse si imbatterono casualmente nella via che porta alla città. Ma in qualche modo giunsero fin sotto le sue mura. E si accamparono davanti alle porte, senza osare procedere oltre. Nella notte i due prigionieri riuscirono a eludere la sorveglianza. C'era solo un luogo dove potessero nascondersi, e varcarono quella porta.» Amnor tornò a fissare nel vuoto. Quel ricordo gli risvegliava qualcosa dentro. «Si aggirarono per tre giorni tra le mura della città, perdendosi nel labirinto delle sue strade. E intanto scoprirono che cosa si cela nel ventre di Anharra.» «Che cosa?» chiese Vargo. Il suo scetticismo cominciava a incrinarsi. Il vecchio gli lanciò un'occhiata enigmatica. «Te l'ho detto: nella città di Anharra i vivi e i morti si incontrano. I barbari dovettero pensare che la città li avesse uccisi e li abbandonarono. Allora riemersero dalla cerchia delle mura maledette e sprofondarono di nuovo nelle sabbie del deserto, in cerca della via per tornare a Hirush.» Il vecchio ingollò una sorsata di vino. Poi riprese. «Senza acqua, senza cibo, avanzarono sotto il sole per giorni, tenuti in vita soltanto dal loro segreto. Sentivano le forze cedere, il pensiero e il ricordo farsi confusi. Marciavano al ritmo delle parole, continuando a ripetersi l'un l'altro quello che avevano visto, i punti di riferimento, i segreti delle vie. Ma il calore e la sete stavano divorando la loro memoria. I particolari presero a farsi incerti, si contraddissero.» Vargo squadrò il vecchio. «Avete creduto alla parola di un uomo ottene-
brato dagli stenti, pronto a raccontare qualunque cosa per po' di sostegno. Avete davvero dato retta a un delirio.» «Un delirio? Leggi, allora!» Il rotolo crepitò sotto le dita di Amnor mentre lentamente ne scioglieva i legacci. Poi, dopo aver gettato un rapido sguardo intorno per assicurarsi che nessuno li stesse osservando, prese a svolgerlo con delicatezza, stendendone sul tavolo alcune spanne. Vargo si ritrasse di colpo, orripilato. Sul legno consunto, davanti a lui, era apparsa la sagoma informe, ma perfettamente riconoscibile, di un corpo umano. L'impronta del volto risaltava nella pelle, con le sue vuote cavità oculari, la bocca aperta in un urlo che sembrava ancora echeggiare intorno. Anche Amnor era concentrato sull'oggetto: ma nel suo sguardo non c'era traccia di ribrezzo. «Non si fidavano più della loro mente, te l'ho detto. Ma in un ultimo barlume capirono l'importanza di ciò di cui erano stati testimoni. Sentivano la memoria cedere e, prima di dimenticare tutto, tentarono di fermare il ricordo. Non avevano nulla per scrivere, se non il loro stesso corpo. Allora scrissero l'uno sull'altro con una spina di gintai. Le sue spine secernono una sostanza che irrita la carne e impedisce alle ferite di rimarginarsi. Si condannarono a un dolore atroce, purché il loro segreto non andasse perduto. La strada per raggiungere Anharra, la città favolosa che avevano incontrato per caso nelle loro peregrinazioni. E poi la via per la tomba del Re Pazzo. E quando uno dei due cadde stremato l'altro proseguì, abbandonando il suo confratello. Vargo aveva seguito in silenzio le parole del vecchio. «Anharra? È davvero questa?» chiese chinandosi sul reticolo di linee rossastre che percorrevano quella bizzarra e spaventosa mappa. «Un tempo ho sentito di qualcuno che parlava di Anharra...» «Dove?» chiese ansioso Amnor. «Sul confine. Al tempo del mio servizio nella Guardia.» Un'ombra passò rapida sugli occhi del giovane. «Nella terra di nessuno, ai margini del Vuoto. Un giorno una delle nostre pattuglie tornò da un giro nell'interno. Sentii che avevano raggiunto un villaggio, dove avevano visto un uomo della nostra razza che si trascinava cieco, a quattro zampe come un animale. Raspava a ogni porta con le unghie, chiedendo di entrare. Veniva scacciato a calci, perché portava con sé il malaugurio.» «Era lui! Karto l'astronomo, l'uomo che fu abbandonato! Ha detto qualcosa? Ha raccontato cosa aveva visto? Che sapeva di Anharra? Hai visto la
mappa incisa sulla sua pelle?» gridò Amnor afferrando Vargo per il polso con forza inaspettata. «No... era coperto di stracci fetidi» rispose il giovane. «Era stato accecato dai barbari. Non sembrava nemmeno in grado di articolare parola. Ma a ogni crocicchio scriveva quel nome nella polvere, come se esaudisse un voto, o volesse esser certo di non dimenticarsene. Forse aveva davvero visto la città...» concluse. Improvvisamente si era sentito incerto. «Hai detto che non credevi nemmeno alla sua esistenza» lo sbeffeggiò Amnor. Punto sul vivo il giovane tornò a chinarsi sulla pelle, aguzzando la vista nello sforzo di interpretare le linee sbiadite che qua e là si perdevano nel grigio della superficie. No, non ci credeva. Eppure quei segni minuti erano lì, davanti a lui. Scosse di nuovo la testa con ostinazione. Amnor passò l'unghia su uno dei segni. «Io ero l'ultimo che doveva incontrare. Ho strappato la mappa dal suo corpo. Dopo averlo ucciso. O forse prima...» «Cosa avete fatto?» balbettò Vargo nauseato, senza tuttavia riuscire a distogliere lo sguardo. «Non ti impressionerai per questo? È ben poco, a fronte della tua colpa. Pensa, Vargo: là sono accumulate le ricchezze di un quarto della terra. Uno potrebbe ricomprare la libertà, forse il suo stesso onore.» La pelle, sotto la fitta ragnatela di segni, conservava ancora tracce di capelli rossi. Il giovane tornò a scuotere la testa. «Quella città è stata eretta dalla follia, se soltanto averla vista condanna a questo...» «Sì, follia e dolore camminano nelle sue strade. Ma non è più folle rinunciare a tutto quanto si nasconde laggiù, in fondo al Vuoto?» «E perché non avete ancora cercato di raggiungerla?» Il vecchio allargò la mano sulla pelle, poi serrò le dita in un inatteso gesto di rabbia. «Non è completa. Quel maledetto aveva su di sé soltanto una metà della mappa. Il resto è segnato sulla carne del suo compagno, che vaga ancora nel deserto.» Amnor aveva di nuovo lo sguardo appannato. «Uno vivo, uno morto: la maledizione di Vemerin continua. Ma io so dove trovarlo: prima di morire l'uomo mi rivelò il nome della tribù e del villaggio dove aveva abbandonato il suo compagno.» Vargo guardò ancora il rotolo. Continuava a dubitare delle parole del
vecchio. Eppure la sua sicurezza aveva smosso qualcosa dentro di lui. «Cosa volete da me?» «L'unica cosa che manca alla realizzazione della mia impresa: la tua forza, il tuo talento con la spada.» «Mille altri uomini potrebbero darvi la stessa cosa, in cambio di quello che promettete. Tutto il Khur è colmo di mercenari in cerca d'ingaggio. Perché proprio io?» Amnor tornò a lanciargli il suo sguardo pieno di perfidia. «Non ho bisogno soltanto di un braccio forte. Ma anche di una mente come la tua. Pronta a sognare i sogni più impossibili. Vargo del Nulla, colui che ha trascinato all'inferno settecento uomini.» Il giovane si volse verso la porta della taverna, che continuava ad aprirsi e chiudersi sotto la spinta degli avventori. Uomini di tutti i tipi, contrabbandieri del confine, soldati di ventura come lui, briganti che forse tornavano a gettare su quelle tavole luride le monete appena rapinate a qualche carovana. Questo era diventato il suo mondo, da più di due anni ormai. Quanto tempo sarebbe passato ancora, prima che anche lui fosse costretto ad appostarsi a un angolo di strada, o dietro una roccia lungo una carovaniera, pronto a tagliare la gola al primo passante per strappargli la borsa? Le ricchezze di un quarto della terra. Forse... «Anharra non esiste...» ripeté ostinato. Ma si era accorto di parlare con voce spezzata. Amnor si limitò a sorridere. «A sud del Khur inizia il Vuoto, il deserto più spaventoso che si possa immaginare. Nessuno delle terre civilizzate potrebbe attraversarlo da solo. Ma adesso l'Impero sta per muovere le sue armate oltre il confine. Il tempo stringe, Vargo! Forse qualcuno alla Corte ha trovato una traccia... Pare che anche alcuni membri del Cerchio delle Saggezze si siano aggregati alla spedizione. Astrologi ed esperti di lingue antiche. A una stazione di posta ho incrociato altri due cartografi dell'Esarcato. Gente che in uno scontro sarebbe solo d'impaccio!» Batté il pugno sul tavolo. «Gli imperiali però non sanno tutto! Forse immaginano soltanto dove sia la città. Ma senza questa» aggiunse, tornando a indicare il rotolo «non la raggiungeranno mai!» Un'espressione sinistra gli attraversò per un istante il volto, accentuando i solchi che le rughe gli avevano scavato sulle guance.
«Pensa, Vargo! Pensa alla montagna d'oro che ci sta aspettando!» Ora anche il giovane fece un sorrisetto. «Ma non è la montagna d'oro che vi spinge, vero?» Il vecchio tacque per un momento, poi annuì. «Non mi interessa la ricchezza. Ho già avuto tutto ciò che l'oro può comperare. Non desidero più nulla. Se non...» «Cosa?» Invece di rispondere Amnor sollevò il boccale verso un inserviente che stava passando con un otre e gli fece un cenno. «Anche per il mio amico» disse lanciandogli una moneta d'argento. Il garzone l'afferrò al volo, rigirandosela fra le mani con avidità, prima di allontanarsi in fretta. Vargo aveva seguito preoccupato le mosse del vecchio. «Come vi è venuto in mente di pagare con argento? Stanotte tutti i tagliagole di Hirush si saranno passati la voce e vi verranno a cercare.» «Stanotte non sarò più qui» rispose Amnor indifferente. «E tu sarai con me» aggiunse con sicurezza insolente. Vargo stava per replicare, quando un movimento all'ingresso della taverna attirò la sua attenzione. Sulla porta era apparso un gruppo di uomini vestiti delle divise dell'Impero, guidati da un sergente massiccio come una botte, coperto da una scintillante corazza di piastre di bronzo. «Gli arruolatori» sentì mormorare nel silenzio che era improvvisamente sceso a raggelare l'atmosfera. Accanto a lui Amnor riavvolse in fretta la pelle, celandola sotto il mantello. Il sergente fece alcuni passi avanti verso il centro della stanza, mentre i suoi uomini si disponevano con le loro lance davanti alle finestre, chiudendo in una rete di ferro ogni via di scampo. «L'Impero ha bisogno di uomini. Gente valida, braccia decise. Buona paga, vino, terra! E tutte le donne che strapperemo ai barbari. Chi viene?» esclamò l'uomo in corazza, guardandosi intorno. «È una grande taverna. Ne voglio almeno sei. Tu» proseguì rapido indicando un contadino seduto accanto al fuoco, una specie di gigante che cercava di farsi più piccolo. «E voi due. E tu.» La mano coperta di ferro segnò altri tre avventori. A ogni suo ordine uno dei soldati si gettava sulla vittima, spingendola con la lancia verso l'ingresso, incurante delle proteste. Il sergente tornò a rivolgersi verso il fondo della taverna. «Ancora due, per la gloria dell'Impero.»
Parlando si era mosso in avanti, aggirandosi tra i lunghi tavoli. Vargo d'istinto si addossò contro il muro, nascondendosi dietro il pilastro che sosteneva il tetto e coprendo con un lembo del mantello la spada sulla panca. Davanti a sé, riflessa nel boccale, vedeva la sagoma distorta del soldato scivolare sulla superficie di metallo lucido, avanti e indietro. Per un attimo la sagoma si ingrandì minacciosa, poi prese a rimpicciolirsi, a mano a mano che l'uomo tornava verso la porta. «Qui. Ci siamo noi due» disse forte il vecchio. «Siete impazzito?» sibilò Vargo, cercando di chiudergli la bocca con la mano. L'ufficiale si era voltato verso di loro, muovendo rapido qualche passo e indicandoli ai suoi uomini. «Bene, ecco i due eroi mancanti» annunciò soddisfatto, mentre due soldati si affrettavano verso di loro. «Ma tu, vecchio, non credi di aver già visto troppi inverni, per farti avanti così?» chiese poi, quando li ebbe guardati meglio. Per tutta risposta Amnor si chinò, afferrò la gamba di una delle panche e senza sforzo apparente si rialzò in piedi, tenendola ferma e tesa verso l'ufficiale. Sembrava di vedere i suoi muscoli guizzare sotto il tessuto della veste, mentre rimaneva immobile. L'ufficiale lo osservò per alcuni lunghi istanti, sempre più stupito, poi fece un cenno di assenso. Intanto Vargo aveva valutato in fretta la possibilità di fuggire, aprendosi la strada a colpi di spada approfittando della distrazione causata dallo spettacolo offerto dal vecchio. Contò una dozzina di soldati, troppi per farcela da solo. Amnor lasciò cadere la panca e lo afferrò per una spalla. «È l'unico modo di avvicinarci al limite del Vuoto» sussurrò. Le terre di mezzo sono abitate dalle tribù barbare: è tra di loro che dobbiamo cercare l'uomo che nasconde la seconda metà del segreto. Da soli, però, saremmo uccisi appena varcata la frontiera. Confusi tra le truppe imperiali ci inoltreremo sicuri. Questi sciocchi» continuò indicando di nascosto l'arruolatore che stava riunendo a forza di grida i volontari fuori dell'osteria «credono di sottomettere poche migliaia di barbari. Non hanno idea di quello che li aspetta nel Vuoto. Andremo con loro. Poi, quando sarà il momento, diserteremo e prenderemo per la nostra strada.» I "volontari" erano stati ammassati nel vicolo davanti alla porta della taverna e allineati alla meglio a colpi di lancia sulla schiena. Il sergente li passò rapido in rivista con un'aria schifata, poi sbraitò un ordine di marcia
e il gruppo si mosse. Le truppe erano acquartierate nel caravanserraglio, alle porte della città. Il grande recinto di pietra a secco, destinato ad accogliere le merci e gli animali dei mercanti in transito, era stato svuotato e nello spazio libero erano state erette una decina di tende, tanto vecchie e consunte da esser ridotte a poco più che ammassi di stracci. Davanti a ognuna di esse bruciava un fuoco con sopra un paiolo, e intorno la gente era affaccendata. Un forte odore di minestra si levava nell'aria. Solo un padiglione, su cui svettava l'insegna dell'Impero, si distingueva per la sua apparenza più decorosa. «Quello è l'alloggio degli ufficiali!» gridò il sergente. «Guai a voi se osate soltanto avvicinarvi. Ecco i vostri alloggi» aggiunse, indicando con un profondo inchino una delle tende. «È la tenda del sergente Kon, che sono io. E della sua squadra, che siete voi. Partiremo domani all'alba per incontrare la colonna in arrivo da Menthor. E da lì andremo a scorticarci le mani nel Vuoto.» Fece un cenno a una delle guardie, che si era avvicinata con un grosso involto tra le mani. L'uomo allentò la presa e la tela si srotolò, rovesciando sul terreno un mucchio di armi mescolate alla rinfusa: spade, alcune asce, mazze e picche a lama larga. I volontari si avvicinarono incuriositi, prendendo a rovistare in terra, afferrando e poi lasciando cadere le diverse armi senza decidersi a scegliere. «Cosa volete che facciano con questa ferraglia?» non riuscì a trattenersi dal chiedere Vargo, dopo aver dato un'occhiata sommaria. Il sergente si avvicinò fino a meno di un passo. Vargo sopportò impassibile il suo sguardo feroce. «Abbiamo uno stratega tra noi, pare» esclamò Kon additandolo agli altri. «Così, bamboccio, non condividi il modo in cui l'Impero arma i suoi ausiliari. Immagino che preferiresti qualcosa del genere.» Sguainò la sua lama, avvicinandola pericolosamente al collo del giovane. «Avresti ragione, se la guerra si facesse con le spade.» La mano di Vargo si mosse d'istinto verso l'impugnatura della spada che portava dietro la schiena, ma si trattenne sentendo la stretta di Amnor sul braccio. Il sergente non parve notare il movimento e scoppiò in una gran risata. «La guerra si fa con le mani, con le unghie, con i denti, con i gomiti e le ginocchiate. È questo che dovrete imparare, prima. E adesso trovatevi qualcosa da mangiare.» «Dove, sergente?» chiese uno dei volontari.
Kon indicò le altre tende. «Là hanno cucinato una brodaglia. Se ne volete, dovrete andare a prenderla a un'altra squadra. E questa è la vostra prima lezione.» Gli uomini si scambiarono uno sguardo perplesso, poi a cominciare dai più corpulenti si mossero verso la tenda vicina. Dopo pochi attimi si accese una rissa violenta attorno a uno dei pentoloni. Tutto il cortile risuonava di urla selvagge e imprecazioni, frammiste alle risate degli ufficiali che erano usciti dal loro padiglione per godersi lo spettacolo. Poi il recipiente, colpito in pieno da uno dei contendenti, si rovesciò versando in terra il suo contenuto mentre nuove grida esplodevano di rabbia. Vargo e il vecchio erano rimasti in disparte. Amnor attirò con un dito l'attenzione del giovane. «Osserva anche tu, amico mio. È di questa follia che ci faremo scudo, per il nostro viaggio. L'Impero crede di lanciarsi verso nuove conquiste, e invece non farà altro che aprirci la strada» concluse ironico. «Vieni, tutto sta andando per il meglio.» Mosse qualche passo, allontanandosi dalla mischia. Poi estrasse dalla sacca quelli che sembravano due semi, grandi come olive. «Prendi dell'acqua.» Vargo riempì una coppa attingendo alla sua borraccia. Il vecchio gettò i semi nel contenitore, agitandolo per qualche istante. Poi bevve un sorso di liquido e lo passò al giovane. «È ricino di montagna» disse in risposta all'occhiata interrogativa dell'altro. «Rinnova le forze e smorza la fame. Domattina ti sveglierai ritemprato. E cominceremo il nostro cammino.» Vargo scelse un angolo appartato della tenda e si allungò in terra, avvolgendosi nel mantello. Accanto si era disteso Amnor, la testa appoggiata alla sacca in cui era nascosta la mappa. L'uomo a cavallo si arrestò con uno strappo delle briglie. Appena in tempo per evitare di essere travolto dal crollo di una parete di massi carbonizzati. Aspettò che la nuvola di fumo seguita al crollo si disperdesse, poi fece cenno alla colonna che lo seguiva di riprendere ad avanzare. Davanti la strada si allargava, mentre sui fianchi le facciate delle costruzioni si facevano più alte e decorate. Non le capanne della periferia, ma costruzioni in pietra, alcune di parecchi piani. Dovevano essere entrati nel quartiere della nobiltà: più oltre si intravedeva uno spazio vuoto, con i resti di un
tempio. Il centro della città. Alzò gli occhi per controllare se qualche pericolo venisse dai tetti. Ma non c'era nulla. I colpi delle catapulte avevano sfondato quasi tutti gli edifici. Anche le colonne del tempio erano crollate, seppellendo chi vi aveva cercato rifugio. Intorno cumuli di cadaveri dei difensori giacevano sparsi dappertutto. In un angolo della piazza pochi superstiti si stringevano tra di loro. Quasi nessun uomo, solo donne, alcune delle quali tenevano in grembo bambini in lacrime. L'uomo gettò verso di loro un'occhiata distratta. «Radunate quelli che sono ancora vivi» ordinò a un cavaliere. «Uccidete i piccoli. E consegnate le donne giovani al Cerchio delle Sgualdrine perché scelgano quelle che possono essere ancora valide. Almeno la Signora Rossa ci tratterà con riguardo, quando andremo a visitarla!» Ridacchiò, imitato dagli altri. «Usate gli uomini per demolire quello che resta della città, e poi inchiodateli agli alberi della strada che porta alla capitale.» Fece cenno a un messo. «Tu corri a Corte e chiedi udienza all'Imperatore. Informalo che la città ribelle non esiste più. Spargeremo il sale sulle sue rovine, come ha ordinato...» Mentre l'uomo parlava, la sua attenzione era stata attirata dalla facciata di un palazzo che si apriva sulla piazza, dalla parte opposta del tempio. Anch'esso era stato attaccato dal fuoco, ma la struttura di pietra, benché affumicata, aveva resistito. Doveva essere stata una costruzione dall'aspetto elegante, non troppo dissimile da una residenza di nobili nella capitale. Una casa ricca, dove forse era ancora possibile trovare qualcosa di valore. Sguainò la spada e dette di sprone al suo cavallo, diretto verso l'arco d'ingresso. Il portale giaceva a terra, divelto da uno dei proiettili di catapulta che avevano martoriato la città durante l'assedio. Lo attraversò e si ritrovò in un atrio circondato da un piccolo colonnato. Gli zoccoli del cavallo risuonarono sul delicato pavimento a mosaico. Sì, era probabile che ci fosse da far bottino, si disse l'uomo. Davanti a lui una scala di pietra portava al piano superiore. Spronò ancora con violenza. Il cavallo si inalberò con un nitrito, poi obbedì agli strappi del morso e si avviò su per i gradini scalpitando. Un'ombra gli attraversò la strada correndo. Rapido l'uomo si chinò sulla sella e afferrò alla vita un bambino che cercava disperatamente di divincolarsi per sottrarsi alla stretta. Lo issò sulla sella, guardandolo in viso.
Il piccolo avrà avuto forse cinque anni. «Bene, bene» esclamò l'uomo. «Chi abbiamo trovato qui? Un piccolo ribelle che...» Si interruppe di colpo, con un grido di dolore. Il bambino gli aveva conficcato i denti nella mano, mordendola a sangue. L'uomo si liberò imprecando, poi colpì con un violento manrovescio al volto il piccolo. Vide una striscia di sangue disegnarsi dove il suo anello con il sigillo gli aveva colpito la fronte. Gli occhi del bambino si riempirono di lacrime, ma nemmeno un lamento uscì dalle sue labbra. I suoi occhietti azzurri lo fissavano con infantile ferocia. L'uomo alzò la spada. La tenne per un attimo sospesa sulla testa del piccolo, poi tornò ad abbassarla, come se fosse stato colto da un pensiero improvviso. «Sei davvero un piccolo serpente» sibilò. «Ma forse potrai essere più utile alla gloria dell'Impero da vivo che da morto. Ti consegnerò all'Accademia, perché facciano di te un guerriero. Mio cugino l'Imperatore ha bisogno di uomini. Come ti chiami?» «Vargo» rispose il piccolo. «Hai pronunciato il tuo nome con orgoglio. Forse i tuoi erano gente importante in questa città» esclamò l'uomo in tono beffardo. «Ma adesso sono cenere sotto gli zoccoli dei miei cavalli. Sono nulla. Bene, Vargo del Nulla: sarà questo il tuo nome d'ora in poi.» Il bambino non rispose. Con la mano si teneva la fronte ferita, dove il sangue si stava raggrumando intorno al piccolo sole che il sigillo gli aveva impresso sulla carne. 2 Non si era reso conto di essersi addormentato. Da anni il sonno aveva smesso di arrivare in silenzio. Adesso si annunciava ogni volta con un ronzio alle tempie, come la febbre. Voci. Un pulviscolo di voci che sorgevano dal buio, incomprensibili. Voci che chiedevano qualcosa. Allora si alzava dal suo giaciglio. E dovunque fosse, scopriva sempre intorno a sé lo stesso panorama: una distesa sabbiosa che si estendeva senza interruzione fino all'orizzonte, il sole che tramontava in un bagliore rossastro. Cominciò a camminare. I suoi passi si susseguivano pesanti, sprofondando nel terreno come se il deserto volesse trattenerlo. Intorno le voci crescevano d'intensità: restavano incomprensibili ma sembravano uscite
dal suo cervello. Adesso parevano provenire dal basso. Era la sabbia a parlargli. Ribolliva tutto intorno, gonfiandosi in piccole dune che poi tornavano ad affondare nel nulla e quindi a risollevarsi. Lui proseguiva cercando inutilmente di affrettare il passo, lo sguardo fisso davanti a sé. Come un bambino che attraversa una stanza buia, sentiva alle spalle una presenza terribile crescere e farsi più vicina. E poi le vedeva. Le dune salivano fino all'altezza dei suoi polpacci, e lentamente la sabbia cominciava a scivolare verso il basso, scoprendo una miriade di teste confitte nel terreno. Teste dagli occhi vitrei, le bocche spalancate in un urlo. Dalle labbra usciva fango viscido che si raggrumava sotto i suoi piedi. Migliaia di domande incomprensibili si affollavano intorno a lui con un suono liquido, scivoloso. E poi, come ogni notte cominciava l'orrore. Le teste iniziavano a salire, seguite dalle spalle e dal torso, e poi i corpi emergevano interi. Improvvisamente il deserto si trasformava in una foresta di uomini immobili, dalle cui bocche continuavano ad uscire fango e domande senza senso. Vargo chiuse gli occhi, strinse le orecchie con le mani... Si svegliò di colpo, madido di sudore come ogni notte. Accanto a lui Amnor, nascosto sotto la sua coperta, russava debolmente. Per un attimo gli parve di udire ancora, nascosta in quel suono banale, l'eco del mormorio delle ombre. Si prese la testa tra le mani, in attesa dell'alba. Una pallida luce era appena cominciata a filtrare attraverso le fessure della tenda quando Vargo fu scosso dalle urla del sergente, che passava tra i giacigli smuovendo a calci i corpi distesi. Si alzò, ancora turbato per il sogno fatto, e vide che anche Amnor si era levato in piedi, ed era intento a serrare le cinghie della sua sacca. «Svegliatevi, bastardi! La squadra di Kon dev'essere la prima a mettersi in marcia!» Rapidamente il gruppo si radunò davanti alla tenda. La temperatura era già alta, nonostante il sole fosse appena sorto. «C'è una cosa che voglio farvi vedere» gridò ancora il sergente. «Inchiodatevela in testa!» Si mise le dita in bocca e lanciò un fischio potente. Da dietro una delle tende uscì un cavallo, che mosse verso di loro scuotendo la criniera come se fosse abituato a quell'ordine. Legata al pomo della sella c'era una corda che trascinava un corpo seminudo, coperto di sangue.
L'uomo, in uno stato di semi incoscienza, si lamentava debolmente, emettendo a tratti dei vagiti come un neonato. «Stanotte uno di voi ha avuto la bella idea di lasciarci. Pensate un po', con tutte le meraviglie che vi avevo promesso!» Il sergente si avvicinò al corpo esanime e afferrò la testa per i capelli, sollevandola. «Ha avuto una maledetta fortuna, a essere stato ripreso solo a un paio di miglia da qui. È tornato prima di crepare. L'anno scorso ne catturammo uno che aveva corso per venti miglia: quando il cavallo ripassò la porta della caserma, attaccato alla corda c'era rimasto solo un pezzo di gamba.» Un fremito agitò il gruppo degli uomini allineati. «Nessuno diserta dalla squadra di Kon!» gridò ancora il sergente. «E adesso mettetevi in marcia, è pronta la musica!» Un rullo di tamburi riecheggiò davanti alla porta del serraglio. Al ritmo scandito dagli strumenti le squadre si stavano incolonnando. Vargo si chinò sull'uomo disteso in terra e troncò la corda con un colpo di spada, prima che il cavallo richiamato dallo strepito tornasse a trascinarlo sulle pietre. Poi gli versò dalla borraccia un sorso d'acqua sulle labbra contratte. «Lascialo» disse Amnor alle sue spalle. «È perduto.» «No! Aiutami a rialzarlo!» Il vecchio afferrò la testa dell'uomo, che ciondolava all'indietro, e la torse verso Vargo. «Guarda i suoi occhi. È già a colloquio con gli dei di Khoran.» Poi a sua volta fissò lo sguardo vitreo del morente. Sembrava cercare avidamente qualcosa in quella luce che si andava spegnendo. Quindi con un gesto di rabbia lo lasciò andare, dopo che l'uomo ebbe emesso un ultimo sospiro. Dalla porta del serraglio erano uscite una mezza dozzina di squadre, precedute dai vessilli imperiali e dal gruppo di tamburini che battevano il tempo della marcia. «Avanti, bastardi!» gridava il sergente, procedendo a fianco della colonna. «A mezzogiorno dobbiamo essere alla piana di Singha. Là incontreremo la Guardia, e vedrete un vero esercito. Sarà un onore per voi morire per aprirgli la strada!» La marcia proseguiva sotto il sole, che si era fatto implacabile. Vargo avanzava con il passo cadenzato che aveva imparato durante gli anni del suo servizio, cercando di risparmiare al massimo le forze.
Fu allora che scoprì come la stanchezza fosse anzitutto una condizione mentale. Un corpo allenato può sopportare sforzi straordinari, se lavora insieme alla mente. Il dolore arriva attutito, come da una grande distanza, e può essere sopportato a lungo. Anche il vecchio sembrava resistere con energia. Ad un certo punto aveva strappato un rametto da un cespuglio che cresceva sul ciglio della strada e aveva preso a masticarlo succhiandone il midollo. Ma gli altri intorno, privi di qualsiasi allenamento, erano ormai sfiniti. Rompevano il passo e inciampavano sempre più spesso. Chiudevano la colonna due muli con la riserva d'acqua. Dopo alcune ore di marcia la truppa aveva iniziato a lamentarsi: gli uomini volevano bere. Il sergente si fermò imprecando. Fece voltare il cavallo e andò verso la coda della colonna. Quando uno dei muli gli fu vicino sguainò la spada e sferrò alcuni rapidi colpi contro gli otri. Dagli squarci l'acqua gorgogliando rifluì a terra, perdendosi in mezzo alle pietre aride, tra le grida di rabbia degli uomini assetati. Un'ondata di risentimento percorse la colonna. Il sergente agitò la spada verso i primi che avevano accennato una reazione. «Ve ne resta ancora metà, bastardi! Fiatate ancora e non avrete nemmeno quella!» Vargo fece un passo di lato e uscì dalla colonna, trattenuto invano dal vecchio. «E tu cosa vuoi, bamboccio?» «Acqua. Per tutti questi uomini. E per me.» «Vieni a prenderla» rispose il sergente. Vargo mosse ancora un passo verso di lui, sguainando a sua volta la spada. Il soldato a quella vista digrignò per un attimo i denti, poi scoppiò a ridere. «Mi piaci, bamboccio! Hai più fegato tu di tutta questa marmaglia messa insieme. Mi dispiacerà doverti ammazzare.» Vargo scartò di lato per evitare il colpo, poi a sua volta sferrò una stoccata diretta al collo dell'uomo, che l'altro riuscì appena a parare. La reazione del giovane sembrava aver sorpreso il sergente. Arretrò di un paio di passi, mettendosi in guardia. «Sei svelto. Meglio, sarà più divertente» esclamò scagliandosi con tutto il suo peso in avanti. Vargo scartò di nuovo per evitare di essere travolto, poi lo colpì di piatto con forza alla schiena. La corazza di bronzo, sotto il colpo, risuonò come una campana, mentre il sergente trascinato dal suo slancio rovinava a terra. Si rialzò subito con insospettata agilità. Rosso in volto, masticò una bestemmia e si lanciò di nuovo in avanti, tirando colpi all'impazzata.
Vargo si limitava a parare arretrando lentamente, poi dopo l'ultimo assalto si spostò nuovamente di scatto. Il sergente cadde ancora a terra, questa volta tra le zampe del mulo. L'animale, spaventato dalla massa che gli si agitava sotto, cominciò a scalciare, minacciando di calpestare l'uomo, impacciato dalla pesante armatura. Vargo si chinò rapido ad afferrare la mano del sergente e lo spostò, mentre l'animale imbizzarrito si dava alla fuga. L'uomo sbuffando si rimise in piedi. Rimase per un attimo immobile, come se la caduta lo avesse frastornato. Poi, con uno scintillio metallico, nella sua mano sinistra apparve un pugnale. Prima che Vargo, sorpreso dalla mossa, potesse accennare a una reazione, si ritrovò il freddo della lama contro la gola. Il fiato pesante dell'uomo gli penetrò nelle narici, con un odore di morte. Sentì la lama che gli graffiava la pelle. Poi, quando ormai era preparato al peggio, il sergente allentò la pressione. «Sei in gamba, bamboccio. Forse puoi essere più utile all'Impero da vivo che da morto» sbuffò. «Ma alla fine di questa passeggiata ti ammazzerò, stanne certo.» Appena il sergente si fu allontanato, Vargo passò la mano sulla gola, ritraendola macchiata di sangue. In quel momento notò il vecchio. Amnor aveva assistito allo scontro a pochi passi di distanza, la mano serrata sull'impugnatura della spada. Fece rientrare la lama nel fodero, strizzando un occhio. «Sei stato sciocco a provocarlo, amico mio. Abbiamo bisogno di questa gente. E ancora più sciocco a non finirlo quando ne hai avuto l'occasione.» «Non sono un assassino» replicò il giovane con un'alzata di spalle. «Nessuno lo è, finché non serve.» Ripresero la marcia, sempre guidati dai tamburi. Il sole cominciava a scendere. Poco dopo in testa alla colonna si accese un clamore. «Ci siamo» disse Amnor. «Ecco il grosso dell'esercito imperiale.» Tutta la pianura sotto di loro era coperta di tende e padiglioni. Dominava il rosso scuro delle tende degli uomini della Guardia, ma dovunque spuntavano anche i colori di altre armi. A giudicare dal numero delle tende dovevano essersi radunati almeno quindici, ventimila uomini armati. Su un lato della conca i maniscalchi avevano eretto grandi recinti, dove pascolavano centinaia di cavalli. Altri cavalli, i migliori, di proprietà delle famiglie nobili, erano legati
davanti agli alloggi dei loro padroni. Il gruppo si arrestò su un leggero rialzo. Mentre montavano le tende il giovane ebbe modo di osservare più attentamente il campo sotto di loro. Anche Amnor si era avvicinato. Aveva in mano una manciata di picchetti e un mazzuolo. «Vieni, aiutami a fissare la nostra tenda. Forse è l'ultima notte che dormiremo al coperto.» «C'è una buona metà della Guardia imperiale» disse Vargo, puntando il dito verso il gruppo di tende al centro del campo. Fra tutte svettava un grande padiglione, su cui garriva uno stendardo con un sole fiammeggiante. «E quelle sono le insegne di Menthor! C'è l'Imperatore alla guida delle truppe?» domandò. Amnor scosse il capo con un sorriso ironico. «Ho conosciuto bene l'Imperatore. Non è mai uscito dai confini del suo palazzo, e non lo farebbe certo per trascinarsi in questo deserto. No, quasi certamente il comando è stato affidato al Duca di Verennia, suo cugino.» Il vecchio si era voltato appena e stava fissando Vargo. «Verennia, verso le terre dei ribelli. La stretta di Kendor...» Il giovane strinse per un istante le labbra. Amnor proseguì, fingendo di non aver visto il suo turbamento. «E quella credo che ne sia la prova: due intere compagnie di arcieri, sotto le insegne del Duca, presso il campo della Guardia.» «E anche la cavalleria di Mergon» disse Vargo. «E i lancieri dell'Esarcato. E poi quelle tende, laggiù... sotto le insegne di Khoran... cosa significa?» Amnor aveva seguito l'indicazione. Annuì silenzioso. «È la prima cosa che ho notato.» Nel punto indicato numerosi carri erano stati disposti in un blocco compatto, coperti da grandi teloni per proteggerne il carico. Uomini armati facevano la ronda intorno a loro, mentre numerose coppie di buoi destinate al traino muggivano all'interno di un recinto improvvisato. «Le macchine di Khoran! Hanno portato anche quelle. Ma sono strumenti d'assedio... E poi guarda le insegne, là, il Cerchio degli Astrologi e quello dei Cartografi. Tutti questi uomini. Più i volontari arruolati a forza. Sono troppi per una semplice razzia contro i barbari del Vuoto... Sì, è quello che pensavo. Sciocchi!» esclamò scuotendo la testa. «Pensano di sfidare le sue mura con le loro macchine. E non sanno...» Vargo attese che il vecchio terminasse la frase, ma Amnor di nuovo
sembrò voler cambiare discorso. «Come vedi avevo ragione ad affrettarmi. Non devo esser stato il solo a studiare le carte di Menthor, evidentemente. Sospettavo che mi avessero spiato. Pensavo di essere riuscito... Ma ho agito troppo tardi» mormorò con un gesto di stizza. «Anche all'Imperatore devono far gola le ricchezze di Anharra.» Amnor scosse la testa. «Ad Anharra non c'è solo la ricchezza. Tra le sue colonne giace ancora il corpo di Vemerin, circondato dagli immensi tesori razziati nel Vuoto e dagli scheletri della sua Corte. E sotto le volte dove riposa il suo corpo c'è molto altro...» Amnor si interruppe. Vide il sergente che si avvicinava minaccioso, e tornò a stringere le corde dei picchetti. «Avremo modo di parlarne. Al momento giusto» sussurrò. Vargo, però, non era disposto a troncare così la conversazione. Trattenne il vecchio per il braccio. «Cosa c'è ad Anharra» chiese in tono fermo «oltre le favolose ricchezze di cui vi riempite la bocca?» Amnor lo fissò per un attimo. «Qualcosa che non immagini. Anharra è il luogo più straordinario che sia dato di vedere su questa terra...» «Cosa?» ripeté Vargo. «L'inferno.» Il vecchio scoppiò a ridere. Un riso aspro, senza gioia. «È là che siamo diretti.» 3 Si stava avvicinando il tramonto del ventesimo giorno dall'inizio della spedizione. La colonna era in marcia ormai da ore, lungo il sentiero che attraversava un avvallamento tra alte dune sabbiose. Un serpente interminabile di pietre di basalto nero, confitte nel fango da un esercito di schiavi, innumerevoli secoli prima. Anche il nome del popolo che aveva allineato con pazienza quelle rocce si era perduto. Ma restava la sua opera colossale, un'interminabile lastrico opaco diretto verso il nulla. Da tempo i canti e le grida che avevano salutato la partenza si erano spenti. La marcia proseguiva silenziosa, accompagnata soltanto dal rombo dei carri che di tanto in tanto, all'improvviso, apparivano alle spalle dei soldati, e dalle grida dei loro conducenti che incitavano i cavalli. Veicoli carichi di enormi tronchi, che dalle retrovie stavano risalendo la massa dei fanti, diretti verso la prima linea. «Che cosa trasportano?» chiese infastidito Vargo ad Amnor, dopo che per l'ennesima volta si furono gettati nelle dune ai lati della strada per evi-
tare di essere travolti. «Il Pugno dell'Imperatore» rispose il vecchio, seguendo con lo sguardo il carro che si allontanava in una tempesta di polvere. «Cosa? «Macchine da assedio. Ci hanno seguito sin da quando ci siamo mossi dalla piana. Se hanno dato l'ordine di portarsi in testa, significa che siamo vicini.» «Vicini a cosa? Alla città?» «No, è ancora molto distante. Vicini a qualcosa.» Vargo tornò a fatica sulla strada, cercando di liberare i calzari dalla sabbia ed evitando i ciuffi d'erba spinosa che spuntavano ai bordi del dosso. Agitò la piccola borraccia di cuoio che portava alla cintura, nella speranza di cogliere la presenza di un residuo d'acqua. Nulla. Si sollevò sulla punta dei piedi in cerca degli uomini del rifornimento con i loro muli carichi di otri, ma non ce n'era nemmeno uno in vista. In compenso verso il fondo della colonna si percepiva un'insolita animazione. A un centinaio di passi da loro stava avanzando un carro coperto, dipinto a colori vivaci. Alla guida c'era una donna issata a cassetta, coperta da un mantello rosso, che sferzava i due cavalli con la maestria di un conducente provetto. «Finalmente sono arrivate!» sentì esclamare qualcuno, mentre tutto intorno si accendeva un mormorio eccitato. «Il Cerchio delle Sgualdrine» disse il sergente. «Tutte queste storie per delle donne. Ma dovete essere contenti, bestie! Se ci sono anche loro vuol dire che c'è una strage imminente. Potrete coprirvi di gloria per l'Imperatore e soprattutto per me!» seguitò, allungando un calcio a uno degli uomini che si attardava a risalire sulla strada. Vargo continuava a fissare il carro, che si era fatto ancora più vicino fino ad affiancarli nell'avanzata. Si fece da parte, lungo il bordo della pista di basalto, per lasciarlo passare. «È la prima volta che vedo uno dei loro carri.» «Mi stupirei del contrario» disse Amnor con uno strano sorriso. «Loro non sono come le altre. Accompagnano gli eserciti, sì. Ma non come quel branco di lupe affamate che ci sta seguendo. A Menthor la casa della Signora Rossa, la loro regina, rivaleggia con la stessa Corte imperiale. Nemmeno la Guardia osa varcare la sua porta. Portano la consolazione per la battaglia, e scelgono a chi concedersi secondo una regola misteriosa. Nemmeno i nobili hanno diritto ai loro favori.»
Ma il carro non sembrava intenzionato a superarli. Vargo ebbe anzi l'impressione che la conducente, giunta alla loro altezza, avesse trattenuto i cavalli con uno strappo delle redini. Poi, sulla parete di legno del grosso carro si aprì uno sportello, rivelando una cavità oscura. Un braccio nudo, ornato da numerosi monili dorati si protese verso di lui, stringendo tra le dita inanellate le cinghie di un piccolo otre. «Prendi quest'acqua, Vargo» disse una voce vellutata. «Vargo. Vargo senza un cognome. Senza un titolo. Un nulla, sotto questa tua divisa.» Il giovane afferrò meccanicamente quello che gli veniva teso, sorpreso per quelle parole. Per un attimo il suono di quella voce gli aveva riportato alla memoria un'altra voce, ma allontanò subito quel pensiero con rabbia. «Come sapete il mio nome...?» chiese, prima di tacere di colpo. Anche quelle donne conoscevano la sua identità. Volse uno sguardo sospettoso in giro, tra il resto della truppa che avanzava coperta di sudore e di polvere. Ma nessuno sembrava aver notato quanto era accaduto. Vargo bevve una lunga sorsata. L'acqua era fresca, addolcita da un sottile aroma di spezie. Ne bevve ancora, poi tese l'otre ad Amnor. Ma il vecchio si limitò a gettare un'occhiata avida, scuotendo il capo. «Non è per me. È te che hanno scelto. Le consolatrici del Cerchio si offrono soltanto agli eroi» mormorò in tono beffardo. «Seguono per i loro favori un disegno misterioso, e chi si intromette è destinato alla morte. Te l'ho detto, loro non sono come le altre.» Il giovane cercò con lo sguardo il carro che si stava allontanando, lungo la colonna in marcia. Poi alzò le spalle. «Nemmeno io sono un eroe.» Nella camerata, dopo il segnale del coprifuoco, ogni luce era stata spenta. Adesso regnava il silenzio. Disteso nella sua branda Vargo non riusciva a prendere sonno, in preda all'eccitazione per quello che lo aspettava l'indomani. Il giorno dopo, a quattro anni dal suo ingresso nell'Accademia, avrebbe indossato per la prima volta la cotta di maglia metallica dei guerrieri e impugnato una spada nella grande piazza d'armi della caserma. Dopo anni passati a pulire i pavimenti e ad assistere gli uomini delle cucine, o a svuotare le latrine, a lucidare gli stivali degli ufficiali e ad assolvere a tutti gli incarichi più umili, era giunto il momento anche per la sua squadra di affrontare la Strada delle Armi, quello che sarebbe stato il sentiero di tutta la sua vita futura.
Si girò più volte. Le coperte di rozzo feltro sembravano soffocarlo. Silenziosamente si lasciò scivolare fuori della branda e camminò cercando di non farsi notare verso la porta. Fuori c'era un piccolo ballatoio, dove talvolta andava a rifugiarsi nelle notti in cui i ricordi diventavano insopportabili. Era un'onda confusa di immagini e sensazioni. Chi era lui? E il suo nome, quel Vargo del Nulla che lo seguiva da quando ricordava di aver mosso i primi passi nell'Accademia, che senso aveva? A tratti gli affioravano nella memoria dei visi che forse doveva aver conosciuto: una donna bellissima che si chinava sorridendo su di lui, i particolari di una casa luminosa in cui doveva esser stato. Il tremore di mura martellate da una grandine di colpi, il fuoco, il terrore. Un dolore intenso alla testa. Si portò la mano alla fronte, sfiorando la cicatrice. Pensò alla sua forma strana, che lo segnava come un marchio... Si voltò di scatto. C'era qualcuno accanto a lui. Se gli uomini della ronda lo avessero sorpreso fuori della sua branda sarebbe stato punito, e il giorno dopo avrebbe mancato al grande appuntamento. Tirò un sospiro di sollievo, alla vista dei suoi amici più cari. Banthor e Vilna. Banthor era alto, silenzioso, con un'espressione sempre triste e pensierosa sul viso. Vilna, invece, aveva una faccia tonda e sorridente, ed era coraggioso, impudente. Erano arrivati come lui all'Accademia quasi lo stesso giorno, da chissà quali angoli dell'Impero. «Che fai qui?» chiese Vilna. «Ti abbiamo visto scappare via. Se ti scoprono...» «E voi, perché mi avete seguito?» sussurrò Vargo, gettando uno sguardo inquieto verso la camerata. Ma nessun suono veniva da quella parte. «Non vorrai che ti lasciamo? Abbiamo giurato di essere sempre insieme, non ricordi?» Ricordava bene le gocce di sangue cadute sul pavimento dai tagli che si erano inferti quando si erano scambiati quella promessa. Lo sguardo gli scese per un attimo sul segno che ancora gli spiccava sul polso, a riprova di quel patto. Due segni, due cicatrici che erano parte di lui. Una provocata, per sigillare quello che voleva fosse un destino d'amicizia eterna. Ma l'altra? Da dove veniva? Istintivamente si portò di nuovo le dita alla fronte. Banthor aveva seguito i suoi movimenti. «Stai pensando alla tua cicatrice? Al segno dell'Impero?»
In un angolo qualcuno aveva dimenticato una scodella di stagno. Vargo la prese, poi si avvicinò alla torcia che bruciava infissa in un anello del muro. Avvicinò il fondo lucido al volto e osservò la cicatrice, come aveva già fatto infinite volte. Lo strano segno ricordava davvero il sole raggiante che era il simbolo dell'Impero, e che sfavillava dorato sui vessilli azzurri dell'Accademia. «Forse sei davvero il figlio dell'Imperatore» disse Vilna. Aveva parlato sorridendo, come sua abitudine. Ma pure sembrava stranamente serio. «Ricordati di noi, quando tuo padre tornerà a cercarti!» Vargo scosse il capo. In qualche modo sapeva che non erano quelle le sue origini. Che il suo sangue parlava un'altra lingua. «Mio padre non verrà a cercarmi» rispose triste. «Ma un giorno io sarò Imperatore» esclamò un istante dopo, preso da un entusiasmo inspiegabile. «E voi sarete con me.» Ormai il sole era al tramonto. Un suono metallico di trombe dette il segnale della sosta. Gli uomini uscirono dalla pista di pietra, riunendosi in cerchi sulle dune sabbiose, intorno alle lance confitte in terra. Alcuni di loro si sparsero nei dintorni a rastrellare le poche sterpaglie che spuntavano dalla sabbia, per accendere i fuochi dell'accampamento. Amnor aveva estratto dalle loro sacche due coperte e si era gettato esausto sotto una di esse. Il vecchio degnò appena di uno sguardo la tazza di brodaglia che gli inservienti stavano distribuendo. Sembrava insensibile ai morsi della fame. Quando Vargo lo vide cercare nella borsa pensò che volesse attingere di nuovo alla sua riserva di semi di ricino: invece Amnor estrasse una manciata di quelle che sembravano piccole schegge d'avorio e le soppesò nel cavo della mano, mormorando una litania incomprensibile. Con la mano libera tracciò nella sabbia un cerchio, quindi lasciò cadere le schegge chinandosi a osservare con attenzione la loro disposizione nel cerchio. Studiò in silenzio quello che vedeva, poi prese a tracciare con la punta del dito una serie di solchi, collegando tra loro le schegge. «Che state facendo?» chiese Vargo incuriosito. «Cerco la nostra sorte nella terra. Da lei veniamo, è la terra che conosce cosa ci attende.» I segni sulla sabbia avevano assunto la forma vaga di uno scorpione. «La Testa del Dragone» disse Amnor. «Guarda, guarda qui accanto all'occhio del mostro. Vedi la croce dei destini?» Vargo fissò il punto indicato. «Significa che due strade si incontrano. Il
passato e il futuro, la luce e l'ombra. Ciò che è sotto sta per passare sopra, il lontano sarà vicino. Quello che aspettiamo avanza rapidamente. Qualcosa verrà aperto e chiuso. Domani avrò quello che cerco...» «Siete davvero in grado di leggere nel futuro?» chiese Vargo, interdetto dal tono sicuro con cui il vecchio aveva formulato la sua profezia. «Perché credi che sia stato bandito dalla Corte?» replicò Amnor asciutto. «Avete cercato di avvelenare l'Imperatore, ho sentito.» Un sorriso ironico attraversò il volto del vecchio. «Sì... in fondo è quello che feci... ma non nel modo che pensi...» All'improvviso scoppiò in una risata fragorosa. «Non con l'estratto della nevola, o con altre pozioni! Predissi quello che lo aspettava, giorno per giorno fino all'ultimo che avrebbe vissuto.» «È proibito trarre oroscopi sulla nascita degli Imperatori!» «È quello che feci. Non ho avvelenato il suo corpo, ma la sua mente. Gli ho dato la specchio in cui contemplare la sua morte.» Il vecchio raccolse i piccoli frammenti d'osso, riponendoli con cura nella sua borsa, poi tornò ad allungarsi sotto la sua coperta. Anche Vargo si distese, ma il sonno non arrivava. Gli sembrava di essere l'unico a non dormire. Anche le sentinelle, appoggiate alle loro lance, in piedi come cavalli, parevano assopite. La luce della luna piena batteva sulla massa degli uomini distesi, stampando sul terreno il loro profilo scuro. Vargo era ancora sveglio. Era stremato per la durezza della marcia, ma allo stesso tempo si sentiva pieno di pensieri e dubbi. Nulla aveva senso. Si era fatto trascinare in quell'impresa da un miraggio di ricchezza, che non aveva più consistenza dei pezzetti d'osso con cui Amnor pretendeva di leggere il futuro. Il vecchio si girò sotto la coperta e lo fissò. Doveva essersi svegliato sentendolo agitarsi. «Coraggio amico mio. Quando raggiungeremo Anharra tutti i nostri sforzi saranno ripagati. E ognuno di noi avrà ciò che desidera.» Vargo scosse la testa. «Mi avete trascinato in questo inferno rincorrendo un sogno. E io sono stato tanto stupido da credervi. È stata una follia» disse sconfortato. «So quel che dico. Conosco la storia della città. E quando ci saremo avrai la tua ricompensa.» «La montagna d'oro?» replicò amaro Vargo. «Non solo. So bene che le ricchezze da sole non sono sufficienti per te.
Come per me. Ma Vemerin non ha portato con sé soltanto un mucchio di pietre e d'oro. Anharra è il luogo dove i vivi e i morti si incontrano, ti ho detto. Se avrai coraggio, potrai guardare attraverso l'occhio di Vemerin. Il suo Smeraldo: e quello, amico mio, è il mezzo per placare ogni tua sete.» «Lo Smeraldo... di cosa state parlando? La mia sete?» domandò Vargo cupo. «Stai pensando ancora ai loro volti?» continuò il vecchio. Lì potrai rivederli. E loro ti ascolteranno. Quelli che ti sei lasciato alle spalle. E che ogni notte ti cercano.» Vargo fremette. Come poteva saperlo, quell'uomo? La stretta di Kendor, i corpi abbandonati sul terreno dopo la battaglia, la nuvola di corvi che gli aveva annunciato da lontano quello che lo attendeva. Che aspettava lui, il traditore. L'uomo che aveva abbandonato il suo posto per inseguire un'illusione. Amnor sembrava davvero leggergli dentro con il suo sguardo implacabile. «Vedere attraverso l'occhio di Vemerin» ripeté. «Sapere quello che ha conosciuto la sua mente. Ritrovare i tuoi compagni scomparsi. Ancora non ti interessa?» «Sono morti... tutti» balbettò il giovane. «Sì. A questo serve lo Smeraldo. A riaprire il colloquio con i morti.» Vargo scosse ancora la testa. «Un'altra favola.» Amnor gli afferrò un polso, stringendolo con forza inattesa. «No! L'uomo che ha scritto su di sé la mappa l'ha visto! Uno smeraldo dalla luce perfetta, incastonato nell'orbita della mummia del Re. Fu Vemerin stesso a chiedere che i suoi stregoni sostituissero con la pietra il suo occhio destro. Perché potesse sorvegliare il suo popolo, sia i vivi che i morti. Vemerin ha visto, oltre il confine della vita.» «Vemerin era pazzo! Questo dice la leggenda.» Il vecchio tacque per un istante. Sembrava immerso in una visione. «Sì... era pazzo. Ma quale splendore nella sua follia! Nei meandri del suo palazzo... dialogava con i morti, cantava per loro accompagnandosi con la sua lira, finché le sue unghie spezzarono le corde, e le sue dita insanguinate continuarono a graffiare lo strumento. Lo stridio inumano inorridì gli uomini della sua Corte. La sua voce, ridotta a un lamento che le sue orecchie sorde non potevano più udire, echeggiò sotto le volte vuote.» «Come sapete queste cose?» chiese Vargo. «È questo che ho appreso nella Sala Negata» disse Amnor. «Al tempo in
cui ero nelle grazie dell'Imperatore. E grazie a lui ho avuto accesso alla Biblioteca di Menthor. Prima che le fiamme la distruggessero. Una notte, eludendo la sorveglianza dei custodi, ho superato la porta del luogo dove erano conservate le Tavole, la storia delle ere che ci hanno preceduto.» «La Sala Negata? È impossibile: io stesso ho sorvegliato le sue porte di bronzo, durante gli anni del mio servizio nella Guardia. Eravamo in quaranta: quaranta lance per impedire che chiunque osasse soltanto avvicinarsi alla sua porta!» esclamò Vargo stupefatto. Ricordava bene la grande costruzione accanto alla Reggia, i suoi corridoi colmi degli scritti di tutti i tempi, l'immensa ricchezza di conoscenze che era andata distrutta in un solo rogo infernale. E la sala nell'ultima torre, quella proibita. «Sì. Un bando antico, che risaliva al Primo Imperatore, l'uomo che raccolse quegli scritti e li sottrasse per sempre, vietandone l'accesso anche ai suoi stessi discendenti» confermò Amnor alzando le spalle. «Una decisione dettata dall'avidità. E dalla paura.» «Come avete fatto a penetrarvi?» Il vecchio fece un sorrisetto. «Nelle mie peregrinazioni in Oriente non ho appreso soltanto le ricette delle mie pozioni o la regola dei moti delle stelle. Ma anche come nascondere i miei passi, rendendoli silenziosi e invisibili. Non è stato difficile. Molte volte, prima di essere scoperto, ho trascorso un'intera notte in quella sala. E ho appreso la lingua di quell'antico popolo. Solo io, tra tutti gli uomini, ho conosciuto il segreto delle Tavole.» Tutte le volte che Vargo era stato di guardia al palazzo, durante le ronde notturne, aveva approfittato per deviare il suo percorso verso i corridoi dei sotterranei, in modo da poter trascorrere qualche ora della notte a perlustrarli. Qualcosa gli diceva che quelle stanze polverose meritavano di esser protette molto di più delle splendide sale di porfido e di seta in cui dormivano i membri della famiglia imperiale. Anche lui era stato a pochi passi dalla Sala Negata. Se in una di quelle notti avesse avuto l'audacia di proseguire, forse avrebbe trovato proprio Amnor. «E adesso è tutto distrutto... e voi le avete lette!» «Sì. Le cronache non di duecento, ma di ben trenta secoli orsono. Pagina dopo pagina. Fino alla notte in cui Menthor bruciò. La notte in cui io l'ho cancellata con il fuoco.» Vargo era balzato a sedere. «Siete stato voi!»
Fissava il vecchio a bocca aperta. La perdita di Menthor era stata irreparabile. Il sapere di secoli era perduto per sempre. Ed era stato lui. Amnor continuava a restare immobile nella sua posizione, in apparenza perfettamente tranquillo. «Sono stato io» si limitò a confermare. Vargo scattò, afferrandolo al collo. «Migliaia e migliaia di manoscritti! Secoli di ricerche, di sforzi, il frutto dell'intelligenza dell'uomo. E tu hai distrutto tutto! Adesso capisco perché la razza dei Memnon è stata maledetta, e il tuo nome bandito dalla memoria!» Sotto la sua stretta il vecchio si dimenava con la forza della disperazione. Poi due braccia robuste afferrarono Vargo alle spalle. «Fermatevi carogne! Non voglio risse tra i miei uomini. Avete già un appuntamento fissato con il sangue, per sprecarne così!» Due soldati della ronda lo tenevano saldamente, mentre anche il sergente arruolatore era comparso dal nulla. Vargo provò invano a scrollarsi di dosso i due, poi digrignando i denti si dette per vinto. Vedeva la faccia beffarda di Amnor che lo fissava: adesso sembrava ritornato il ritratto della gentilezza. Poi il vecchio si rivolse al sergente. «Scusate il mio amico, sergente. È giovane, irascibile. Forse non dovevo ridere di una certa donna, giù tra le taverne di Hirush. Alla sua età ci portiamo tutti un amore nel cuore, avrei dovuto pensarci.» Il sergente lanciò un'occhiata di disprezzo verso Vargo. «Regolerai i tuoi conti dopo la battaglia, se questa puttana è così importante. Ho arruolato trenta uomini, e trenta voglio portarmene all'inferno, domani.» Poi fece un cenno brusco ai suoi uomini, e se ne andarono. Vargo seguì con gli occhi la ronda che riprendeva il suo cammino, poi si mosse verso il vecchio. Amnor lo anticipò. «Aspetta di sapere la verità prima di giudicare» gli disse pacato. Sembrava sicuro di sé. Vargo esitò, ma poi annuì e si rimise seduto. Anche il vecchio tornò a sedersi. «Quello che hai sentito è solo una minima parte di ciò che avvenne. Sì, è vero, sono stato io a distruggere la Biblioteca.» «Perché?» «Per ciò che vi avevo scoperto. I saggi di Anharra avevano pazientemente tramandato le cronache delle ere antiche, quando la città dominava sui popoli. La storia di Vemerin e della sua follia. La storia di cosa lo fece impazzire.»
«E cosa fu?» «Lo saprai quando ci saremo» rispose Amnor in tono pacato. «Perché vuoi privarti della gioia della meraviglia? È così rara questa esperienza nella nostra vita. E la meraviglia è figlia della pazienza.» Vargo scrollò le spalle. Per un istante ripensò alla propria vita. C'era ancora qualcosa di meraviglioso da scoprire? Qualcosa con cui cancellare quello che si portava dentro? Si ridistese sotto la coperta, cercando finalmente di scomparire nel sonno. Un fruscio. Vargo riaprì gli occhi. Gli sembrava di averli appena chiusi. C'era un'ombra che si avvicinava silenziosa aggirandosi tra i gruppi di uomini addormentati. La sagoma passava accanto alle sentinelle in piedi accanto alle loro lance, senza suscitare in apparenza alcuna reazione. Vargo afferrò la spada che giaceva accanto a lui. Intanto l'ombra si era fatta ancor più vicina. Un guizzo delle fiamme dei falò si rifletté per un attimo sul mantello rosso che la avvolgeva da capo a piedi. In quel momento gli sembrò di riconoscere la donna che stava a cassetta sul carro delle sgualdrine. L'ombra avanzò ancora fino a fermarsi accanto a lui. La vide estrarre da una piega del mantello un piccolo pugnale dorato, e tenderne la punta verso di lui. Vargo stava per reagire, ma si trattenne. Il gesto non sembrava minaccioso. L'ombra accostò un dito alla bocca per fargli cenno di tacere e gli sfiorò il petto con la punta del pugnale. «Sei stato scelto. Seguimi» mormorò con voce profonda. Vargo lanciò una rapida occhiata intorno. Gli altri uomini distesi poco lontani russavano profondamente. Anche Amnor sembrava non essersi accorto di nulla. Senza riflettere si levò in piedi e seguì la donna, che si era voltata e aveva ripreso a scivolare tra i mucchi di corpi distesi nel sonno. Alla loro vista le sentinelle si irrigidirono per un istante nelle loro posizioni, senza accennare però ad alcuna reazione. Vargo notò che gli uomini preferivano distogliere lo sguardo, dissimulando con cura la curiosità con cui seguivano i loro movimenti. Percorsero un lungo tratto. Poi, isolato su una piccola duna, vide finalmente il carro del Cerchio delle Sgualdrine che tagliava la falce di luna bassa sull'orizzonte. La porta del carro era aperta. La donna col mantello si arrestò, facendo
cenno a Vargo di procedere. Si sentiva un sottile profumo di spezie, insieme con una melodia appena percettibile nel silenzio della notte. L'interno del carro era debolmente rischiarato da una lucerna appesa alla volta di legno. Sul fondo, seduta a gambe incrociate sopra un enorme cuscino, una donna era intenta a suonare un flauto di canna. Levò lo sguardo, osservando Vargo senza staccare le labbra dallo strumento. Il viso era quello di una ragazza molto giovane, incorniciato da lunghi capelli rossi che sembravano della stessa seta del mantello dell'altra. Il suo corpo seminudo, però, coperto solo da lunghe collane di scaglie metalliche e vetri colorati, era pieno, maturo, di una bellezza abbacinante. La giovane depose lentamente al suo fianco il flauto, poi si levò in piedi con un movimento sinuoso. «Mi chiamo Shanda» disse con voce melodiosa, come se stesse ancora soffiando nelle canne del flauto. La voce invisibile che dal carro gli aveva offerto da bere. «E quella che ti ha accompagnato è Khaima, mia sorella nel Cerchio.» Con una mano accarezzò leggermente una guancia di Vargo. «Domani ci sarà battaglia. E forse questa è la tua ultima notte. O forse no. Magari vorrai portare con te qualcosa di dolce...» Scese con la mano sul suo petto, continuando ad accarezzarlo. Vargo sentì accendersi dentro di sé un desiderio improvviso. Si chinò su di lei, cercando la sua bocca. Ma un dolore acuto lo immobilizzò. La ragazza aveva sguainato un corto pugnale e lo teneva puntato contro la sua gola. «Non hai pagato» la sentì dire gelida. «Nessuno può toccare una donna del Cerchio senza prima aver pagato.» Vargo restò un attimo immobile, sorpreso. Poi con uno scatto afferrò la lama con la mano nuda, cercando di allontanarla da sé. Ma la ragazza resistette con forza inattesa, continuando a minacciarlo. Dopo un attimo di sconcerto Vargo alzò le mani in segno di resa. Una sottile striscia rossastra gli attraversava il palmo con cui aveva serrato la lama. La ragazza, sempre tenendolo sotto la minaccia del pugnale, si protese verso la ferita, asciugando le gocce di sangue con un movimento sensuale della lingua. Poi, con le labbra rese ancor più scarlatte, tornò a fissarlo. «Devi pagare» ripeté. «Quanto?« «Sei un poeta, dicono. Vuoi pagarmi con dei versi?» disse lei, scoppiando in una risata argentina. «Ma non è questa la moneta con cui si paga l'amore delle Sgualdrine.» «E con cosa, allora?»
«Con il dolore» sussurrò al suo orecchio. Fece scorrere la punta del pugnale lungo suo braccio. Una nuova riga di sangue. Vargo non si sottrasse. Si avvicinò di più alla donna, scostando le sue collane. Si strinse a lei, mentre il ricordo di un'altra si confondeva nell'onda dei capelli rossi che lo avvolgeva, soffocando i suoi gemiti per il dolore che la lama continuava a infliggergli. «Perché avete scelto me?» Vargo era ancora disteso sul giaciglio. Shanda, invece, sedeva di lato, intenta a pettinarsi i lunghi capelli. Gli gettò un'occhiata indifferente, poi si rivolse alla sua compagna, che aveva assistito a tutta la scena dal fondo del carro. «Non lo so. Perché l'abbiamo scelto?» Per tutta risposta Khaima scoppiò in una risata greve, gettando indietro la testa. «Ma perché è il più bello. O forse per quel sole che lo illumina.» Vargo d'istinto si toccò la fronte. La fascia che portava sempre si era slacciata e giaceva accanto al cuscino. In fretta tornò a bendarsi, nascondendo di nuovo la cicatrice. «Come sapevate...» «La Signora Rossa. È lei che ci ha ordinato di cercare l'uomo segnato. E ti abbiamo trovato, come vedi.» Khaima si era avvicinata e lo squadrava ferma, senza più traccia di ilarità negli occhi. Anche Shanda aveva deposto il pettine e si era alzata. Improvvisamente il giovane provò imbarazzo per la sua nudità. Si mosse rapido in cerca delle vesti. Mentre si rivestiva sentiva sulla pelle lo sguardo attento delle Sgualdrine. «La Signora Rossa? È lei che vi ha incaricato...» Le due ragazze scoppiarono di nuovo a ridere, all'unisono. «No, Vargo. Lei ci ha detto solo di cercarti. Il resto è stata un'idea nostra...» «E come lo giudichi, Shanda?» La ragazza gli lanciò un'occhiata in tralice. «Pieno di buona volontà. Ma senza troppo entusiasmo. La testa con troppi pensieri.» «Forse quel vecchio che lo accompagna...» replicò Khaima «forse lui la sa più lunga.» «Chissà. Vedremo.» 4
«Avete sentito?» disse il soldato che marciava davanti a loro. «Hanno trovato un villaggio, più avanti. I nostri lo stanno attaccando.» Poco prima era passato al galoppo un gruppo di cavalleggeri, gridando qualcosa. E subito le voci avevano preso a correre lungo la colonna, diffondendosi con la rapidità del fulmine. «Un covo di briganti, finalmente. Lo stanno facendo a pezzi!» Amnor, che fino a quel momento aveva marciato accanto a Vargo in perfetto silenzio, immerso nei suoi pensieri, si fece all'improvviso attento. «Un villaggio? Se ne sa il nome?» «Qualcosa come Melana, se ho capito bene.» Il vecchio reagì con un'imprecazione soffocata. Sembrava in preda a un'agitazione improvvisa. «Finalmente» disse a Vargo. «Sapevo che la strada era giusta. Melana, il luogo dove lo spellato abbandonò il suo compagno. Lì troveremo il secondo uomo e il resto della mappa! Vieni con me.» Si era accesa dentro di lui un'energia nuova. Accelerò deciso il passo, superando a uno a uno gli altri uomini della fila fino a raggiungere il sergente. «Perché hai rotto i ranghi, vecchio?» gli gridò quello, quando se lo vide vicino. Adesso, rivestito dell'armatura pesante, sembrava ancor più imponente. «Ho saputo che c'è stata battaglia, più avanti. Forse in giro ci sono degli sbandati, che potrebbero attaccarci di sorpresa. Chiedo il permesso di andare in perlustrazione con il mio compagno, e riferire.» Il sergente gli lanciò un'occhiata sospettosa. «Non sapevo di aver arruolato un eroe» replicò diffidente. «Secondo me vuoi soltanto arrivare prima di noi a mettere le mani sul bottino.» Scoppiò a ridere fragorosamente, imitato dagli altri uomini in testa alla colonna. «Non sai con chi hai a che fare, amico. Non hai mai visto un reparto imperiale all'opera. A quest'ora in quel villaggio non è rimasto nemmeno il fumo nei camini. Ma quanto al resto, forse non hai torto. Va' avanti a vedere se c'è qualcuno in giro, mentre noi ci accampiamo per una sosta.» Vargo e il vecchio si allontanarono. Amnor continuava a essere dominato dall'ansia. Marciava veloce, a tratti scattando in brevi corse. Vargo stentava a mantenere il suo ritmo, e a un certo punto lo afferrò per la spalla, trattenendolo. «Rallentate il passo! Se davvero ci sono dei ribelli in giro, rischiamo di finirci in bocca!»
Il vecchio aveva un'espressione inquieta. «Non crederai anche tu che sia un ingenuo, come pensa il sergente. Ho visto più volte i ribelli all'opera. Non è questo che temo. Ma di non arrivare in tempo per il mio appuntamento. Guarda!» Sopra di loro avevano preso a volteggiare stormi di avvoltoi, sempre più numerosi a mano a mano che procedevano «Basta seguire quelle bestiacce. Si sente odore di fumo, nell'aria.» C'era un'altura, poco più avanti, attraversata da un fiumiciattolo. Ne risalirono il corso, fino a sbucare in una valletta dove le sponde del ruscello erano costeggiate di casupole in fiamme. Un reparto degli imperiali era appena passato per il villaggio. Cumuli di rovine fumanti segnavano qua e là il punto dove sorgevano le capanne, ancora disseminate dai corpi degli uccisi, quasi tutti nudi. Amnor si abbandonò ad un grido disperato. «Siamo giunti troppo tardi, la mappa è perduta!». Sembrava impazzito per la rabbia e la delusione. Vargo prese a vagare tra i cadaveri massacrati dalla furia dei soldati, nella speranza che tra loro ci fosse anche quello del Veggente. Lacerò con la spada le vesti di un paio che non erano stati denudati dalla soldataglia, ma senza risultato. Anche lui scosse la testa. «Tra i corpi non c'è nessuno con un tatuaggio sul petto. Forse è riuscito a fuggire. O forse non c'è mai stato» aggiunse con una punta di sospetto nella voce. Amnor sembrò riprendersi. «Forse è così! Forse è scappato, e si nasconde da qualche parte!» In quel momento un vagito infantile attirò la loro attenzione. Nascosta dietro il fianco di pietra di un pozzo c'era una donna, il volto imbrattato di sangue. Incredibilmente scampata al massacro, si stringeva al petto due bambini, le piccole teste riverse come mucchietti di stracci. Amnor corse verso di lei. «Donna, dov'è l'uomo dal petto tatuato? Quello che da anni si è nascosto nel villaggio? Dov'è?» La donna lo fissava inebetita, continuando a stringere a sé i figli. Muoveva spasmodicamente le mani sui loro corpi, come per accertarsi che fossero ancora accanto a lei. Anche Vargo era corso verso di lei. Vide le sue orbite insanguinate, vuote. «Parla, donna!» urlò ancora Amnor fuori di sé, alzando la spada e minacciandola di nuovo. «Non può risponderti. Gli imperiali le hanno mozzato la lingua!» Solo allora il vecchio parve accorgersi della ferita della donna. Ebbe un attimo di incertezza, ma subito tornò a imprecare, alzando di nuovo la spa-
da. «Non può vedere, ma sente la mia voce. Deve dirmelo!» «Non sa niente: non vedi com'è ridotta?» insistette Vargo afferrando il braccio del vecchio e spingendolo con forza verso il basso. Amnor parve arrendersi. Arretrò di qualche passo, liberandosi dalla stretta del giovane, poi tornò ad avvicinarsi al pozzo con uno scatto incredibilmente rapido. Afferrò uno dei bambini, strappandolo alle mani della madre. Lo sospese per un attimo sulla bocca del pozzo, poi lo lasciò cadere. La madre urlò, tendendo una mano verso il vuoto. Vargo si mosse un istante troppo tardi, gettandosi anche lui verso il pozzo e cercando inutilmente di afferrare il bambino. Lo vide sparire sul fondo con un ultimo vagito sommesso. Alle sue spalle la voce di Amnor risuonò ancora. «Ti resta un figlio, donna. Dimmi dov'è!» Vargo si scagliò contro il vecchio, che stava allungando le mani verso il secondo bambino. La donna, brancolando, cercava di proteggere il suo piccolo dalla furia di quell'uomo, mentre Vargo tentava di trattenerlo a sua volta. Amnor, invasato dall'ira, rivelava una forza smisurata. «Fermati, straniero» disse una voce dietro di loro. Da una delle capanne bruciate era apparso un uomo macilento, le orbite scavate da due piaghe antiche. Anche lui, come la donna, era cieco. Avanzò verso di loro, serrandosi con una mano contro il petto i frammenti laceri di una veste consunta. «Perché mi cerchi? Vuoi finire l'opera degli imperiali?» aggiunse con voce indifferente. «Hai fatto la tua strada inutilmente. Sarebbe bastato aspettare un giorno, o forse una sola ora.» «Sei tu Karto l'astronomo, l'uomo che molti anni fa entrò nel Vuoto? E raggiunse... una città?» Vargo guardò stupito dalla parte di Amnor. La voce del vecchio aveva tremato nel pronunciare quel nome. «Sapevo che un giorno qualcuno sarebbe venuto» mormorò l'altro, muovendo ancora qualche passo incerto. «Che il tempo era ormai scaduto... la stella... quel segreto è orrendo. Ma non pensavo che saresti stato tu, Amnor di Memnon, a presentarti a reclamare il mio debito.» «Mi hai riconosciuto?» sibilò il vecchio. «Amnor, della Loggia delle Afflizioni. Avrei riconosciuto la tua voce tra mille.» L'uomo fissava intensamente Amnor con le pupille spente, come se potesse ancora vedere. «Che è stato medico, e il primo degli inquisitori. Che ha usato la stessa
arte per salvare i corpi, e per spezzarli» seguitò con disprezzo. Amnor mosse un passo verso il cieco, minaccioso. «Dammi quello che voglio!» Ma l'uomo lo ignorò, come se non avesse sentito. «Quando prolungavi l'agonia dei torturati, si diceva che tu fossi spinto dalla malvagità. Ma io ho sempre saputo che cosa ti faceva sedere accanto ai loro ceppi.» «Che cosa?» «Speravi che ti rivelassero quello che vedevano... quello che c'è dopo» rispose asciutto il cieco. «È questo che ti spinge verso Anharra. Ma non la vedrai. Non ascolterai le parole dei morti.» Improvvisamente la sua voce cambiò tono. Si fece implorante. «Abbandona il tuo disegno: non cercare i Canti delle Tenebre. La loro voce perde la mente.» «Che cosa sono i Canti delle Tenebre?» chiese Vargo all'improvviso. Sorpreso il cieco si volse verso di lui. «C'è qualcuno con te, Amnor? Chi stai trascinando nella tua perdizione? Sembri giovane, sei ancora in tempo per abbandonare questa strada.» «Che cosa sono i Canti?» insistette Vargo. «Quello che Vemerin apprese dalla sua corte infernale. Quello che nessuno deve udire. Amnor, lascia questo ragazzo. La sua voce è ancora segnata dalla speranza... accontentati di quello che sai.» «No, invece!» gridò il vecchio, muovendo ancora un passo verso l'uomo. «Mostrami la forma della città!» «Il segreto è sepolto nella mia mente, e morirà con me.» Amnor estrasse un pugnale. «Non dentro di te, ma su di te! So tutto del tuo segreto. E lo dividerai con me!» Un debole sorriso apparve sulle labbra del cieco. «Ero preparato a questo. E ho già provveduto.» Si afferrò con le mani i lembi della veste e li aprì. Vargo distolse per un istante lo sguardo. Una piaga orrenda copriva tutto il petto dell'uomo, là dove la pelle era stata strappata. La carne malamente cicatrizzata sembrava ribollire per un fuoco interno, che qua e là stillava ancora un liquido rossastro. «Non volevo che qualcuno potesse strapparmela. Come devi aver fatto con il mio confratello. Quando gli imperiali si sono avvicinati, sapevo che sarebbe venuto qualcuno. Il mio compagno... sei tu che lo hai ucciso? Devi essere stato tu, visto che conosci la sua metà del segreto, la via per Anharra. Ma senza la mappa delle sue strade non riuscirai a procedere, anche se
raggiungessi le sue mura.» Amnor annuì. Come se avesse visto il suo gesto, il cieco riprese: «Lo sapevo. Se fosse bastato uccidermi lo avrei fatto. Ma questo era il solo modo per essere sicuro che nessuno se ne potesse impadronire.» Il vecchio abbassò il pugnale con una smorfia. «Ma nella tua mente ci deve essere ancora il ricordo delle sue strade! Il luogo della Tomba!» L'altro si limitò a scuotere la testa. «Non c'è più niente in me. Niente. Ed è bene che sia così, credimi. E anche se mentissi» continuò, anticipando l'obiezione che era salita alle labbra di Amnor «non c'è nulla che tu potresti farmi di più terribile di quello che ho già sofferto. Ma una cosa voglio dartela, l'unica che ho portato con me da quel luogo.» Il cieco infilò una mano nella tasca, e ne trasse un piccolo oggetto. Poi lo tese ad Amnor. Sembrava una moneta. Il vecchio la prese con delicatezza, girandola tra le dita. La sua espressione era tornata quella distesa di un pacifico studioso. «Una moneta del regno di Anharra» disse il cieco. «Battuta da Vemerin. C'è il suo volto impresso sopra. Tienila con te, Amnor. Nascondila sotto la tua veste come ho fatto io per tutti questi anni. E quando ti prenderà il desiderio di raggiungere la città, estraila e fissa quel volto.» Amnor aveva chinato lo sguardo sulla faccia della moneta. Vargo lo vide impallidire. «Fermati. Non recarti all'appuntamento... Vemerin... sii maledetto, Amnor...» balbettò ancora l'uomo morente, poi con un singulto crollò a terra immobile. «Lo sono già» rispose tetro il vecchio, serrando la moneta nel palmo e gettandola nella borsa. Poi volse lo sguardo intorno. Era ingobbito, con le spalle curve. Sembrava che la vecchiaia, finora tenuta lontana dalla sua energia, si fosse abbattuta su di lui con tutto il suo peso. Vargo si chinò sul corpo, in cerca di qualche traccia di vita. Poi si rialzò furioso. «È morto. E il piccolo! Siete davvero maledetto!» «Vorresti uccidermi, vero?» La mano del giovane si strinse sull'impugnatura della spada. «Ma non lo farai. Non ancora. Quando saremo nella città dei vivi e dei morti: allora peserai il bene e il male.» «Non vi permetterò di commettere altri crimini.» «Hai dimenticato i tuoi? Occorreranno molti giorni come questo, perché il nostro carico si pareggi.»
Vargo si morse le labbra. Tacque. «Abbiamo una lunga strada davanti. Ci sarà tempo per dimenticare...» Con uno scatto Amnor si raddrizzò in tutta la sua altezza. «Possiamo ancora farcela. Gli imperiali continueranno ad avanzare. Li seguiremo fin dove possibile. E poi procederemo da soli. Lui e il suo compagno» disse indicando il corpo disteso ai suoi piedi «ci sono riusciti. E sono tornati. Ce la faremo anche noi.» 5 Avanzavano sempre più lentamente. Non era soltanto per la stanchezza di una giornata di marcia. Ormai la strada di pietra nera aveva preso impercettibilmente a salire, mentre il panorama intorno non era più costituito soltanto di sabbie. Pietre immense e radi ciuffi erbosi costeggiavano la via. In un punto gli antichi costruttori si erano trovati di fronte uno spuntone di granito che saliva per diverse centinaia di braccia, come il dente di una bestia colossale rimasto conficcato nel terreno. Stranamente, anziché aggirare l'ostacolo, avevano deciso di scavare un passaggio nella roccia, e in questo modo lo scoglio appariva alla massa di uomini in marcia una sorta di arco trionfale, eretto in mezzo al nulla per celebrare la potenza di re scomparsi. La colonna si inoltrò nell'apertura. Oltre il passaggio di pietra si apriva una vasta distesa arida, chiusa verso l'orizzonte da una linea rossastra. Adesso Vargo si rendeva conto del perché di quell'arco. Era un'anticipazione della barriera che si stendeva davanti a loro con un muro impraticabile di rocce. La strada continuava verso la barriera, fino a terminare contro quella che appariva l'unica fenditura nel costone. In un'era remota, quando la terra era stata sconvolta da terremoti spaventosi, in quel punto la massa compatta aveva ceduto spezzandosi. Di lì il sentiero continuava ad affondare nel Vuoto. Ma qualcuno aveva provveduto a sbarrare il cammino. A entrambi i lati della fenditura era stata eretta una cerchia di torri, e un grande portale di travi chiudeva lo stretto passaggio. Doveva esser servita un'intera foresta per erigere quella costruzione, che adesso sembrava abbandonata. Vargo scambiò uno sguardo con Amnor. Il vecchio fissava l'ostacolo con gli occhi lucidi per l'emozione. «Finalmente...»
«Che cos'è?» chiese il giovane. «Il confine. Eretto trenta secoli or sono. Lì comincia il regno di Anharra. Quella porta chiude l'accesso all'antica terra di Vemerin.» «Sembra abbandonata.» «Forse» replicò il vecchio, dubbioso. In testa una pattuglia a cavallo si era staccata dalla colonna, e muoveva in avanscoperta verso la fortificazione. Era giunta quasi a ridosso della porta quando accadde qualcosa. Vargo udì delle urla d'allarme, mentre gli uomini rientravano ventre a terra. Alcuni dei cavalli erano privi di cavaliere. «Che cosa è successo?» gridò a uno di loro che passava vicino. «Frecce! La porta è difesa!» La colonna si era accampata in vista del suo obiettivo, come se volesse studiarlo ancora per una notte. Immerso nel sonno, Vargo si agitava sotto la coperta emettendo dei lamenti. Sentì una mano che lo scuoteva, riportandolo di colpo alla realtà. Era Amnor, chino su di lui. «Sono tornati a tormentarti» gli disse sussurrando. Il vecchio non aveva posto nessuna domanda. Aveva parlato con voce pacata, come se fino a un attimo prima fosse stato anche lui dentro il suo sogno. Vargo si limitò a scuotere la testa. Gli pareva di sentire ancora intorno il suono delle bocche scheletriche dei morti, le loro dita che cercavano di afferrarlo. «I morti di Kendor. Non te ne libererai. Nel sogno essi sono invincibili, le loro menti offese sono più forti della tua. A meno che tu non riesca a incontrarli là dove sei tu il più forte, nella piena luce del giorno. Quando la vita che scorre nelle tue vene è piena, e il tempo è stretto nelle tue mani. Quel tempo che essi hanno perduto, e che vengono a cercare nelle tue notti.» Vargo tacque. «Là dove stiamo andando c'è anche la risposta che cerchi. La gemma di Vemerin, la pietra che apre il Confine. Con quella anche tu potrai vederli, e affrontarli. Dire le tue ragioni, ascoltare le loro accuse. E poi decidere se unirti a loro per espiare le tue colpe, o combatterli, ricacciandoli per sempre» insistette il vecchio. «Non è con la magia di un folle scomparso da secoli che posso liberarmi. Quei fantasmi vivono nella mia memoria, e nella mia colpa. Se solo potessi dimenticare...» mormorò Vargo.
Amnor face un gesto secco con la mano. «Ah! Sei un insolente, come tutti i giovani che del mondo non hanno conosciuto quasi nulla. E un illuso. Ma avrai tempo per capire. Capirai tutto.» Vargo stava per replicare, quando il silenzio intorno fu spezzato da un suono cupo e prolungato. Il gigantesco tamburo dell'armata, issato sul carro trainato dai buoi, aveva cominciato a risuonare nella notte. «Il segnale» disse Amnor scostando dalla testa il lembo di tela che lo aveva protetto dal freddo della notte. Anche Vargo si alzò dal giaciglio di fortuna. Intorno a lui il campo si andava animando. I sergenti si agitavano fra le tende, gridando e prendendo a calci chi si attardasse. Intanto erano comparsi i muli, con i loro otri di miele fermentato legati ai basti. «Bevete!» ordinò uno degli inservienti, tendendo verso i due uomini una tazza metallica ricolma di un liquido giallastro. Vargo la afferrò, avvicinandola al naso. Un odore aspro, acido, lo colpì. Amnor gli afferrò il braccio, trattenendolo. «Ce n'è anche per te, stai tranquillo» disse il soldato, credendo che l'altro volesse bere per primo. Poi si voltò a controllare quanti altri uomini si trovassero sotto la tenda. Amnor approfittò di quella distrazione per versare in terra la bevanda. «Non toccare quella roba» mormorò a denti stretti. «È il Sidro del Martirio.» «Cosa?» «Lo preparano gli alchimisti imperiali prima di ogni assalto. Mescolano all'idromele il succo delle foglie dell'agave inferna. È un inebriante che toglie la ragione. Chi lo beve si sente un dio in terra, invincibile. Ma se corri a gettarti sulle spade degli assediati non mi servirai più a nulla. Abbiamo bisogno di tutta la nostra lucidità.» Intorno a loro stava crescendo un'eccitazione innaturale, a mano a mano che gli altri bevevano la pozione. L'esercito di uomini sfiniti, malmessi e cenciosi ora si stava ergendo sulle spalle, allineandosi lungo lo schema di assalto previsto dagli strateghi imperiali. Il tamburo mutò il suo ritmo. I colpi radi e profondi che avevano scandito lo scorrere della notte lasciarono il posto a una cadenza più intensa e martellante, frenetica. Quel suono, esaltato dagli effetti dell'agave inferna, scuoteva gli uomini come un'onda. Alcune vedette a cavallo arrivarono ventre a terra dalla retrovia. Raggiunta la prima linea i messaggeri si gettarono ai piedi degli ufficiali, consegnando le pergamene arrotolate con l'ordine dell'attacco. Immediatamen-
te risuonarono i corni, sommersi dall'urlo indistinto delle migliaia di uomini fuori di sé che si agitavano sul terreno. Vargo e Amnor furono trascinati dalla massa umana in movimento verso l'altura che fronteggiava la porta. Giunti sulla cima si ritrovarono inquadrati nella seconda fila della falange, appena dietro le macchine d'assedio. Due gigantesche catapulte erano state erette sulla collina dagli ingegneri imperiali, utilizzando tronchi di pini centenari. I castelli di travi che sorreggevano le leve di lancio svettavano sulle loro teste a un'altezza impressionante. In quel momento, dopo che decine di serventi avevano faticosamente azionato la ruota dell'argano per innalzare i due enormi contrappesi, gli addetti al tiro caricarono i cesti con le pietre. I macigni sibilavano nell'aria a intervalli regolari, sollevando una nuvola di polvere e detriti a ogni schianto. L'antica muraglia tremava sotto i colpi ma continuava a resistere, nonostante l'attacco fosse in corso ormai da più di un'ora. «Le catapulte da sole non ce la faranno» osservò a un certo punto Amnor, che seguiva con attenzione la scena. «C'è una crepa nel torrione di destra!» replicò il giovane. L'altro scosse il capo. «La muraglia è stretta tra le rocce. Anche se franasse, resterebbe un ostacolo insormontabile. No, è solo dalla porta che si può passare. E quella resiste bene» disse indicando la grande anta ancora intatta. «Devono usare il pugno!» Quasi a dargli ragione, proprio in quel momento risuonò un improvviso squillo di trombe. «L'attacco generale! Ma sono impazziti?» gridò Vargo. «Continuano a caricare le catapulte!» «Vogliono coprire l'avanzata dell'ariete con i nostri corpi. Non ricordi le parole del sergente?» «Sì, abbiamo un appuntamento con il sangue» rispose cupo il giovane. «Bene. Facciamo in modo che non sia il nostro. Resta vicino a me.» I guerrieri, inebriati dall'agave inferna, si gettavano contro le antiche mura, puntando verso i varchi aperti dai colpi delle catapulte. Nella muraglia si stava formando una serie di fessure, segnate da cascate crescenti di polvere e altre pietre. Sembrava una diga sul punto di cedere, e che una massa spaventosa di detriti fosse in agguato per rovesciarsi fuori, addosso
agli attaccanti. «Da quella parte!» Vargo sentì Amnor gridargli nell'orecchio, nel tentativo di sovrastare il terribile ruggito di guerra che fuoriusciva da migliaia di bocche stravolte. «Cerchiamo di restare fuori tiro.» I due si affiancarono a un enorme ariete che stava scivolando verso la porta, confondendosi dietro gli uomini che spingevano la macchina. Un fascio di tronchi legati da gomene navali, rafforzati all'estremità anteriore da un artiglio di ferro spinto su una dozzina di coppie di ruote. La macchina era stata messa in moto lentamente, da una coorte di forzati spronati dalle fruste dei custodi imperiali. Ma prima che la macchina potesse centrare il suo bersaglio, era stata raggiunta dalla turba dei volontari, che si erano uniti ai forzati. Poco distante da loro Vargo distinse la sagoma massiccia del sergente Kon, che spingeva avanti i più riottosi tempestandoli con colpi di piatto della spada sulle schiene. L'ariete raddoppiò la sua velocità, costringendo Vargo e Amnor a correre per non perdere il contatto con gli altri. In preda ad una frenesia incredibile, nessuno sembrava far caso a loro. L'ariete si precipitò con uno schianto verso quello che restava di un'antica porta, mandando in frantumi le travi corrose dai secoli e spezzando i cardini di bronzo. Sopra le loro teste i massi scagliati dalle catapulte continuavano a sorvolare la barriera. Il cardine superiore, un enorme blocco di metallo sconnesso dalla parete di pietra, si abbatté tuonando a pochi passi da loro, sollevando una nuvola di polvere tra le grida straziate di quelli che erano restati schiacciati. Amnor, del tutto insensibile al caos che turbinava intorno, afferrò Vargo per la falda del mantello e se lo tirò dietro. «Avanti! Dobbiamo cercare di passare per primi. Nessuno deve seguirci!» «Ma dove sono i difensori della città?» chiese Vargo mentre tossiva nel tentativo di liberare la gola e i polmoni dalla polvere. «Non riesco a vedere nessuno!» Si guardò freneticamente intorno, alla ricerca di qualche ufficiale, mentre un nuovo macigno si abbatteva con un rombo assordante a pochi passi da loro. «Bisogna avvertire gli uomini delle catapulte di sospendere il tiro. Ormai siamo arrivati sulla linea delle mura, e cominceranno a colpire noi! Contro cosa mirano?» «Il nulla. Ma quegli stolti non lo sanno. Questa è una porta sul regno di Anharra, deserta. Abbandonata da trenta secoli» rispose il vecchio. Vargo guardò Amnor, confuso. Si sentì per un attimo la testa completamente vuota, i sensi ottusi come se fosse immerso in acqua tiepida. Tutta
la frenesia della battaglia intorno sembrava scomparsa di colpo. I due uomini se ne stavano in piedi, fermi accanto alla porta, come se le urla e il sangue intorno a loro fossero lontanissimi. «E allora perché tutto questo... è una follia!» balbettò Vargo. «Stiamo morendo per dare la caccia a degli spettri...» «Le catapulte non cercano i difensori della città: i soldati hanno l'ordine di distruggerla pietra su pietra. L'apparato difensivo è nascosto nelle sue mura! Non ci sono più uomini a difenderla... ma c'è quello che la loro razza perduta ha lasciato a guardia delle mura...» «Cosa?» «Questo!» gridò Amnor, afferrando Vargo per la faretra che portava a tracolla e trascinandolo a terra, dietro uno dei tronchi dell'ariete. Un nugolo di aghi d'acciaio era uscito da una feritoia della torre angolare come uno sciame di vespe impazzite, abbattendosi sugli uomini ammassati contro la porta. Vargo sentì un ronzio seguito dal clangore metallico all'altezza della tempia: uno degli aghi gli aveva sfiorato la testa, appena deviato dall'elmo. Intorno giaceva una distesa di morti mentre i feriti, scagliati in terra dalla forza del colpo, si stavano già rialzando immersi in un silenzio uguale e incredibile. Gli effetti dell'agave inferna impedivano loro di provare dolore anche per la ferita più orrenda, e corpi devastati dai colpi avevano ripreso a trascinarsi in avanti. Sdraiato, e ancora intontito dal colpo, le spalle contro una delle ruote dell'ariete, Vargo si tolse l'elmetto per esaminarlo: l'ago aveva scavato nel metallo un solco profondo, segnato da bordi scintillanti. «Trappole. Ce ne sono molte come questa» disse Amnor. «È questo che hanno lasciato dietro di sé.» Mentre gli imperiali arretravano urlando, il vecchio continuava a guardarsi intorno. Sembrava ascoltare con attenzione gli schianti delle frecce, scandendo il tempo delle bordate con rapidi movimenti del polso. «Dobbiamo scappare anche noi!» gridò Vargo, accennando alle truppe che ripiegavano. Amnor lo zittì con un cenno secco. «C'è un ritmo nelle salve di frecce. Lo senti?» disse continuando a battere il tempo con la mano. «È soltanto una macchina. Possiamo ingannarla.» Vargo si sporse con attenzione da dietro il riparo, poco convinto. «Seguimi quando ti darò il segnale!» gli ordinò ancora Amnor. Dopo un attimo il giovane lo vide uscire allo scoperto, correndo verso il
torrione con velocità inattesa. Senza protezione, la prossima salva di frecce li avrebbe spazzati via. C'era soltanto una speranza di salvezza: penetrare all'interno della fortificazione. La porta di travi aveva uno squarcio di poche spanne, là dove la punta dell'ariete era riuscita a sfondare. Vargo vide il vecchio insinuarsi agilmente nella stretta fessura: si guardò intorno, cercando una via di scampo, poi scattò in avanti anche lui verso lo squarcio della porta, infilandosi nello stretto passaggio. Erano penetrati nel cortile della fortificazione. Davanti a loro un ampio portico di colonne smisurate incorniciava lo scorcio della vallata tra le rocce, dove la strada di basalto riprendeva il suo cammino, perdendosi ad alcune centinaia di passi dietro una svolta nascosta da un costone di roccia. Sembrava non esserci nessuno, confermando l'intuizione di Amnor che non ci fossero difensori viventi dietro gli spalti. Un ronzio meccanico, accompagnato dallo stridere di cavi metallici sottoposti a tensione, adesso era perfettamente udibile: il congegno di lancio delle frecce stava tornando in azione. Uno schiocco seguito dal solito sibilo di api impazzite. D'istinto Vargo chinò la testa per schivare la minaccia, ma da questa parte della barriera sembravano essere al riparo. Gli antichi architetti avevano congegnato le difese solo verso i nemici esterni, com'era ovvio. Più tranquillo si mise a osservare meglio la struttura del portale, adesso che ne poteva valutare anche le forme interne. Alzò gli occhi, e per un istante non riuscì a credere a ciò che vedeva. Dietro la porta di quercia, appesa a enormi catene, c'era una seconda porta di bronzo, sollevata sopra le loro teste! Sull'enorme massa di metallo lo scorrere del tempo aveva lasciato le sue tracce evidenti: era ricoperta da una patina verdastra e da cascate filamentose di ossido. Anche le catene che la sorreggevano sembravano antichissime, e ugualmente i due imponenti argani alle cui ruote dentate erano agganciate in basso. Quello doveva esser stato il vero sbarramento, mentre la porta di legno era forse una semplice chiusura diurna. Se i difensori del vallo, chiunque essi fossero, avessero avuto la possibilità di calare quella porta, pensò il giovane, sarebbe stato difficile per le forze imperiali averne ragione. E ben altro che un semplice ariete come quello usato. Vargo si voltò verso Amnor, indicandogli il portale di legno. «Cerchiamo di allargare lo squarcio! Bisogna aprire il passo alle truppe!»
Il vecchio ignorò del tutto il suo suggerimento. Si aggirava nel cortile con rapidi passi nervosi, lo sguardo che correva frenetico dalla massa di bronzo al congegno di sollevamento. Accanto a una delle ruote colossali era abbandonata una mazza di ferro. Amnor la prese, poi si afferrò alle catene che trattenevano la barriera e si issò sulle ruote di uno dei due argani fino a raggiungere il primo anello della catena. Si assestò a cavallo dell'ingranaggio, e con la mazza iniziò a colpire uno dei perni, cercando di intaccarlo. Schegge di metallo e una nuvola di ossido cominciarono a cadere in basso, mentre di nuovo il ronzio segnalava che nei torrioni si stava approntando un'altra scarica di frecce. «Che diavolo state facendo...» gridò con voce strozzata Vargo. Con uno schianto secco il perno aveva accennato a cedere. In alto la massa di bronzo della seconda porta scivolò oscillando, mentre Amnor infliggeva un altro colpo al perno. Con uno schianto più cupo la porta scese ancora, risuonando al suo interno come una campana. Il suono grave si sparse tutto intorno, raggiungendo anche i guerrieri all'esterno che si dibattevano ancora sotto il nugolo delle punte d'acciaio. A quel suono terribile, che sembrava uscire dalla gola dell'inferno, anche i più coraggiosi, in preda all'estasi dell'agave, arretrarono precipitosamente, scavalcando la montagna dei corpi sui quali erano saliti per raggiungere lo squarcio. Amnor colpì ancora, strappando il perno dalla sua sede. Liberata, la catena scattò come una frusta immensa, spazzando il cortile e saltando verso l'alto, mentre anche la seconda catena, su cui gravava adesso tutto il peso della barriera, si spezzava con uno schianto. Vargo fece appena in tempo a scartare di lato per evitare che il serpente metallico che guizzava gli strappasse la testa. Con un rombo crescente il gigantesco portale corse lungo le guide di pietra, fino ad arrestarsi con un ultimo tonfo chiudendo il varco per sempre. Vargo si ritrovò immerso in un'oscurità polverosa. Gli sembrava di essere cieco. «Siete impazzito!» gridò al vecchio. «In questo modo abbiamo tagliato fuori gli imperiali!» «È esattamente quello che voglio! Adesso nessuno può seguirci, almeno per un po'. Dobbiamo essere i primi ad arrivare ad Anharra» replicò Amnor, protendendosi verso di lui dall'alto dell'argano. «Così li farete massacrare tutti! Sono sconvolti, resteranno ai piedi delle
torri cercando di passare, senza sapere che dall'altra parte il passaggio è bloccato!» «Si uniranno alla schiera di quelli che li hanno preceduti nel regno di Vemerin!» rispose freddamente il vecchio. «Dammi la mano!» Vargo afferrò a tentoni la mano che l'altro gli tendeva, risollevandosi faticosamente e seguendolo in preda alla tosse. Il panico si stava impossessando di lui: non potevano essere soli, da un momento all'altro avrebbe sentito nella carne il ferro di qualcuno dei difensori, ne era certo. Dovevano essere appostati tutt'intorno a loro, nascosti dalla polvere e dal fumo. Ma Amnor continuava a trascinarlo come un forsennato, muovendosi in quelle tenebre artificiali con la sicurezza di un gatto. Sembrava che le sue forze si fossero improvvisamente centuplicate. Percorsi in fretta un centinaio di passi, si sentì spingere dal vecchio nel vano di un portale di pietra. Amnor si era fermato, le mani appoggiate alle ginocchia. Vargo lo vide portare la mano alla cintura ed estrarre una boccetta da sotto la veste. Il vecchio sputò via con un morso il tappo, ingollando affannosamente il contenuto. Poi la gettò lontano. Un lampo attraversò la mente di Vargo. «L'agave inferna! Avete conservato la vostra razione!» Amnor gli rispose con un sorriso astuto. «Ho detto che tu saresti stato inutile, in preda ai suoi effetti. Non ho parlato di me.» Vargo stava per replicare, quando avvertì un movimento alle sue spalle. Si volse verso l'ombra confusa che aveva intravisto, cercando di colpirla. Il suo bersaglio si scostò con un guizzo, mentre un profumo conosciuto gli colpiva le narici. «Calma, mio signore!» sentì, mentre un volto angelico usciva dal muro di polvere e una mano ferma gli tratteneva il polso. «Non vorrete uccidere le vostre innamorate?» Le due ragazze del Cerchio delle Sgualdrine lo fissavano irridenti, mentre si scrollavano le vesti. Shanda scosse i capelli. Non indossavano più i veli trasparenti della notte sul carrozzone. Erano coperte entrambe da un giubbetto di cuoio imbottito, rinforzato da piastre metalliche, e da pantaloni aderenti di pelle di cervo, i capelli annodati e nascosti sotto le calotte scintillanti degli elmi della fanteria. Avrebbero potuto essere scambiate con facilità per due reclute. Anche la corta spada stretta alla cintura e gli archi fissati di traverso alla schiena sembravano quelli d'ordinanza degli arcieri imperiali. Soltanto lo sbuffo scarlatto delle
camicie che indossavano sotto la corazza stava lì a ricordare la loro reale natura. «Come avete fatto a seguirci?» chiese Vargo. «Passando dalla vostra stessa entrata. Prima che la chiudeste. Perché volevate lasciarci fuori?» rispose la ragazza che aveva parlato, rivolta verso Amnor. «Non gradite la nostra compagnia?» Il vecchio lanciò uno sguardo di fuoco verso le due donne, poi distolse di colpo gli occhi, come se qualcosa avesse colpito improvvisamente la sua attenzione. Vargo seguì la direzione del suo sguardo, temendo un improvviso pericolo. Ma Amnor era intento a fissare alle loro spalle, verso la porta di bronzo. Adesso che la polvere aveva preso a depositarsi la superficie di metallo era completamente visibile. «Guardate!» mormorò una delle ragazze, con una sfumatura di ribrezzo nella voce. «Che cosa significa?» Dalla superficie interna del portale un mostro agghiacciante sembrava emergere come da una pozza d'acqua viscida: una selva di tentacoli protesa nell'atto di avventarsi verso l'osservatore. Nonostante l'immobilità del bronzo, i riflessi della luce facevano apparire vive quelle forme orrende. Vargo, senza rendersene conto, aveva portato una mano alla spada. Anche Amnor sembrava scosso: arretrò di un passo, sempre fissando quell'oscenità. «È un segno della potenza di Vemerin» disse dopo un istante di silenzio. Il suo marchio...» «Ma perché guarda verso l'interno della porta?» mormorò Vargo. «Non è stato posto lì a monito per gli invasori... quel segno custodisce non i confini delle terre di Anharra, ma le terre abitate dai mostri del Vuoto! Dobbiamo sbrigarci.» 6 «E adesso cosa faremo?» chiese Vargo guardandosi intorno. Oltre la porta la strada di basalto continuava diritta davanti a loro, affondando fino a perdersi nel nulla polveroso del deserto. «Siamo senz'acqua e senza viveri. Senza un mezzo di trasporto. E soprattutto» aggiunse accennando alla porta chiusa alle loro spalle «senza alcuna possibilità di tornare indietro. Siete stato pazzo!» Amnor non ripose subito. Seguiva con lo sguardo il nastro ininterrotto di pietra. «Sì, è come immaginavo. L'uomo mi disse che aveva vagato in cer-
ca della strada del ritorno con la sola guida del sole nascente, grazie al quale ogni giorno si orientava. E quindi Anharra deve essere da quella parte, verso il tramonto» disse puntando il dito verso occidente. Vargo guardò nella direzione indicata dal vecchio. Non si vedeva nulla. Solo una leggera bruma all'orizzonte, come se da quella parte il deserto fosse interrotto da una catena di alture. «E quanto ai mezzi per raggiungerla» riprese Amnor, «quell'uomo è riuscito ad attraversare il deserto e a sopravvivere. Ha accennato alla presenza di popolazioni e di villaggi. Abbiamo dell'acqua» disse indicando le borracce che sia Vargo sia le ragazze portavano al fianco «e possiamo tentare di raggiungere un'oasi. Devono essercene. E non dimenticate la mia piccola riserva di ricino. Ci aiuterà.» Aveva tolto il tappo alla sua fiasca. Si bagnò le labbra, poi versò parte del contenuto nelle borracce degli altri tre. «Questo vi darà energia sufficiente per almeno due giorni. Bevetene con parsimonia, deve durare fino alla seconda notte. Entro quell'ora sono certo che avremo trovato qualcosa» concluse. Vargo inghiottì un sorso della mistura, imitato da Shanda e Khaima. Sentì il liquido scendere aspro lungo la gola. L'acqua della sua borraccia aveva acquistato un gusto metallico, come se qualcuno vi avesse messo a macerare per lungo tempo del piombo. Sentì il respiro farsi profondo, quasi che i polmoni fossero in grado di assorbire più aria del normale, e i muscoli delle braccia e delle gambe riscaldarsi. I suoi pensieri parevano scorrere più veloci, decisi. Anche le ragazze sembravano risentire degli effetti del liquido. Ridacchiavano tra di loro, spingendosi e accarezzandosi. Shanda si strinse all'improvviso a Khaima, stampandole un bacio sulla guancia, poi le sue labbra scivolarono a cercare quelle della compagna. Amnor osservava in silenzio la scena, scuotendo la testa. «Separale» disse a Vargo sottovoce. «Dobbiamo metterci in marcia.» «Non voglio portarle con noi. È troppo pericoloso» rispose il giovane, fissando le due ragazze che continuavano ad accarezzarsi. Forse erano gli effetti del ricino, ma anche lui cominciava a provare una certa eccitazione. Amnor lo gelò con il suo sguardo pungente. «Non lasciarti ingannare, le Sgualdrine non sono tenere come sembra. Hai visto i loro archi?» Il giovane osservò con maggiore attenzione le armi che le due ragazze portavano a tracolla. A prima vista li aveva scambiati per archi ordinari, ma notò che se ne discostavano per alcuni particolari. Non erano ricavati
da un ramo di frassino o di castagno, come gli altri. Erano composti da una sequenza di elementi metallici, con una coppia di pulegge alle estremità che ne moltiplicava la potenza. Ricordavano l'arco delle balestre imperiali, in dimensioni molto più ridotte. «Per usare quell'arco occorre un lungo allenamento» seguitò Amnor, «ma i suoi effetti sono mirabolanti, in mani adatte. Forse ci possono essere utili durante il viaggio. E potremo sempre liberarcene, prima di raggiungere la nostra meta» concluse sfuggente. «No. Se vengono con noi, vengono fino in fondo!» dichiarò il giovane. Un nuovo scoppio di risa suggellò le sue parole. Si misero in marcia verso il globo rossastro del sole che stava calando all'orizzonte. Amnor in testa, Shanda e Khaima che continuavano a ridacchiare tra loro al centro, e Vargo a chiudere la piccola colonna. Si voltò indietro, verso il sentiero che avevano percorso. Le loro ombre lunghissime sembravano non volerli seguire in quell'avventura. «Quanto reggerà la porta?» chiese. «È solida» rispose il vecchio. «Ma gli imperiali hanno le loro macchine d'assedio, e non resisterà all'infinito. Un giorno, forse due. Dobbiamo sfruttare la nostra maggiore velocità: siamo più leggeri e dovremmo riuscire a mantenere il vantaggio. Soprattutto cerchiamo di non lasciare tracce, per non facilitare loro il compito.» «Pensate che anche loro siano diretti alla città?» «A Menthor erano in molti a studiare le antiche carte. Anche loro sanno di Anharra e dei suoi tesori. Forse non conoscono il resto...» seguitò enigmatico. «Ma dal primo momento che è cominciata a correre la voce di questo attacco, ho pensato che il reale scopo dell'Impero fosse di mettere le mani su quello che è nascosto tra le sue mura. E non certo devastare qualche villaggio di barbari.» Sdraiato sull'alto della duna Vargo osservava attento. In basso, sul fondo della valletta, si scorgeva una pozza d'acqua fangosa circondata da pochi ciuffi d'erba e da qualche palma striminzita. Intorno, quasi a proteggere quel piccolo tesoro dal soffio arido dei venti del deserto, erano state rizzate alcune decine di tende, fatte di pelli e stracci legati insieme e sostenute da pali. Vide alcuni bambini che si rincorrevano, e un vecchio intento ad attingere acqua alla pozza con un otre di pelle. C'erano poche tracce di fumo, che
salivano da alcuni fuochi accesi davanti alle tende, ma tutto il villaggio trasmetteva una sensazione di abbandono. «Non vedo gli uomini. Solo vecchi e bambini.» «E donne» rispose Amnor, indicandone un gruppetto intento a intrecciare stuoie. «Dove sono tutti gli altri?» «Avviciniamoci» disse alle loro spalle Shanda. «Abbiamo bisogno di altra acqua. E forse potremo convincerli a cederci un po' di cibo.» Discesero lentamente il fianco della duna, senza cercare di nascondersi, ma anzi facendo in modo di attirare l'attenzione. Alla loro vista i pochi abitanti, dopo uno scambio rapido di grida d'avvertimento, erano corsi a rifugiarsi nelle tende. Solo qualche volto di bambino si affacciava qua e là, subito trascinato dentro da mani invisibili. Raggiunsero il centro dell'oasi, dove la pozza d'acqua rifletteva sulla sua superficie immobile i raggi del sole. Un bambino di pochi mesi, completamente nudo, giaceva accovacciato poco distante, in lacrime. «Chi sono?» chiese Shanda. «Non sembrano appartenere ai popoli del Confine.» Amnor scosse il capo, additando il bambino. I suoi tratti, anche se sconvolti dal pianto, non avevano nulla delle fattezze piatte, con gli occhi allungati, delle tribù che gravitavano intorno a Hirush. Il suo incarnato era roseo, e gli occhi brillavano di un blu intenso. «Chi c'è qui?» disse ad alta voce Amnor. «Dove sono i vostri capi?» Nessuno rispose. Anche il bambino di colpo aveva smesso di piangere e fissava il vecchio a bocca aperta. «Forse non capiscono la nostra lingua» disse Vargo. «Ma devono vederci, anche se sono nascosti» replicò Amnor. Si avvicinò rapido al bambino, sollevandolo tra le braccia. Vargo era rimasto impietrito. Temette per un istante che il vecchio volesse ripetere lo scempio. Anche le Sgualdrine avevano emesso un mormorio sorpreso. Sguainò la spada e gli si avventò contro, deciso stavolta a fermarlo. «Voi non oserete di nuovo...» Ma il vecchio non sembrava voler fare del male al bambino. Fermò Vargo con un gesto imperioso della mano libera, scoppiando in un riso beffardo. «Non temere, non offenderò più i tuoi buoni sentimenti. Volevo solo osservare i tatuaggi sulla pelle di questa bestiolina. Vedi i segni sulle mani, che sembrano croci intrecciate? È il segno di Vemerin!» Nella sua stretta il piccolo era esploso di nuovo in un grido isterico, il corpicino agitato da scatti convulsi. «Dove sono i vostri capi?» gridò anco-
ra Amnor, rivolto alle tende mute. Con un urlo da una di esse balzò fuori una donna. Corse verso di loro arrestandosi vicino alla pozza. Si torceva i polsi angosciata, tendendo le braccia verso il piccolo, senza osare però di tentare di prenderlo, e lanciava delle occhiate imploranti rivolte al vecchio. «Capisci quello che dico?» le chiese Amnor. La donna annuì, continuando a fissare con gli occhi dilatati dall'ansia il bambino. «Dov'è il capo del villaggio? Dove sono gli uomini? Ce n'è rimasto uno?» «Sono qui» disse una voce ferma alle loro spalle. «Lasciate il piccolo.» Alle loro spalle era apparso un anziano guerriero, coperto di una lunga tunica intessuta di perline colorate. Una fascia azzurra copriva la fronte segnata da minuti tatuaggi, serrando sulle tempie due lunghe trecce completamente bianche. Alla sua vista Amnor tese il bambino alla madre. La donna lo afferrò con un gemito e fuggì via, sparendo tra le tende. «Sono Garth, del popolo delle sabbie.» «Sei il capo della tribù?» chiese Amnor. «Lo sono stato. Finché gli dei hanno dato forza al mio braccio e al mio respiro. Ma poi la mia anima ha preso a correre nelle terre del vento, e il mio corpo indebolito è restato indietro. Adesso attendo soltanto che si ricongiungano.» Amnor accennò intorno, verso le tende deserte. «Dove sono tutti gli uomini?» «Andati. Hanno risposto al Richiamo. Tutti i guerrieri delle genti delle sabbie hanno visto il segno e hanno abbandonato i loro villaggi» rispose l'uomo, additando qualcosa nel cielo. «Dove stanno andando?» chiese Amnor allarmato. Se i popoli del Vuoto si stavano sollevando, ogni loro possibilità di avanzare era annullata. «E cosa è il Richiamo?» «Nessuno lo sa. Soltanto gli Stregoni custodiscono il segreto del Richiamo, e la strada per la perduta Anharra.» «È ad Anharra che sono diretti?» chiese ancora Amnor, sempre più ansioso. «Hanno visto il segno di Vemerin. E vanno a raggiungere il Re, per porsi all'ombra dei suoi stendardi.» «Vemerin!» gridò Amnor con voce strozzata. «Un uomo morto da trenta secoli! Come può la sua polvere chiamare ancora? Tu mi inganni, vec-
chio!» Aveva estratto la spada. La puntò con un guizzo contro la gola dell'anziano guerriero. L'uomo rimase impassibile, senza il minimo cenno di paura. «Se la tua spada mi colpisce, sarà solo un'ombra che colpirai. Non ti ho ingannato. Il segno di Vemerin è apparso di nuovo. Ma solo gli Stregoni ne conoscono il segreto.» Amnor, dopo un attimo di esitazione, abbassò la spada, guardandosi nervosamente intorno. «Quale via hanno preso i tuoi uomini, vecchio?» «Le tribù si stanno riunendo sulle alture. Di lì marceranno verso Anharra.» Amnor si accostò all'orecchio di Vargo. «Dobbiamo affrettarci, allora. Forse siamo ancora in tempo a precederli. Se devono riunire tutte le tribù del Vuoto avranno bisogno di alcuni giorni di tempo. Possiamo ancora farcela ad attraversare il deserto e arrivare prima di loro. Abbiamo bisogno di acqua e cibo» riprese poi col vecchio guerriero. «Anche voi volete raggiungere il Re?» «Sì, forse.» «Prendete quello che vi necessita» rispose l'uomo. Poi dette un rapido ordine, e poco dopo dalle tende uscirono alcune donne con delle ceste piene di frutta secca e strani pezzi di quella che sembrava carne affumicata. Mentre Vargo sistemava nelle sacche il piccolo carico, Amnor e le Sgualdrine riempivano d'acqua alcuni otri di pelle. Vargo si gettò in spalla il suo carico e si avviò, seguito da Shanda e Khaima. Amnor era rimasto indietro, accanto a Garth, come se volesse porgergli un ultimo saluto. Li sentì scambiarsi alcune parole. Il giovane si volse per sollecitarlo, appena in tempo per vederlo sguainare di colpo la spada e colpire il vecchio guerriero al collo. L'uomo si abbatté con un gemito, mentre un ultimo sospiro mescolato al gorgogliare del sangue gli usciva dalla bocca. Gli parve che il vecchio avesse mormorato qualcosa, prima di spirare. Amnor raggiunse gli altri. Vargo lo affrontò. «Che bisogno c'era di ucciderlo, assassino! Ho detto che non lo avrei più permesso!» «Sapeva dove siamo diretti. L'avrebbe rivelato a qualcuno, prima o poi. In questo modo saremo più sicuri.» Le Sgualdrine sembrarono accogliere quella spiegazione con indifferenza. Vargo digrignò i denti. Adesso il suo destino era legato a quello di
Amnor, ma sarebbe venuto il giorno della resa dei conti. Il vecchio gli lanciò un'occhiata ironica, come se avesse letto nei suoi pensieri. «So bene quello che senti. Ci sono voluti molti anni per insegnarmi la misura delle azioni. Che a te manca ancora.» «State lasciando più morti alle nostre spalle di quanti ne troveremo davanti a noi» replicò sordo Vargo. Fece un lungo sospiro per trattenere la rabbia. «Che cosa ha detto il vecchio, prima che lo uccideste?» Amnor lo fissò con il suo sguardo penetrante. «Mi ha ringraziato per le pene inutili che gli accorciavo. E mi ha promesso che ci rincontreremo. Ad Anharra. Dove coloro che sono morti si riuniranno con i vivi.» «E adesso da che parte andremo?» mormorò Vargo ancora scosso. Amnor teneva il frammento di pelle disteso sulle ginocchia, e percorreva con lo sguardo avido la rete dei segni. «Qui, la traccia tocca alcuni luoghi. Una torre. Una chiesa» disse alzando lo sguardo verso l'orizzonte. «Ma da quale parte...» «Se la mappa non porta segni di orientamento, come sapremo quale direzione prendere?» chiese Vargo beffardo. Dentro di sé sentiva montare un furore sordo. Non aveva partecipato alla violenza, ma non era stato capace di fermarla, come paralizzato dalla frenesia omicida del vecchio. Che adesso si fosse rivelata inutile gli sembrava un atto di giustizia riparatrice. Ma Amnor non sembrava sconfortato. Continuava a fissare la mappa, immerso in un ragionamento silenzioso. «Quando l'uomo ha tracciato questi segni, non era in sé, era solo una bestia impaurita, e spinto unicamente dalla necessità di fermare sommariamente ciò che ricordava. Ha inciso la sua pelle mentre fuggiva via da Anharra, con la città dietro le spalle...» Il vecchio estrasse di colpo un pugnale dalla cinta, tendendolo a Vargo. «Da dove cominceresti, tu, se dovessi ripetere questa pazzia?» Il giovane afferrò l'arma, poi con movimenti incerti rivolse la lama verso di sé, all'altezza dell'ombelico. «Qui... più o meno, dove posso vedere i segni...» «È così. E poi ha continuato, notte dopo notte, risalendo fino alla gola. E quindi è questo il nostro punto di partenza» disse trionfalmente, indicando un segno rossastro. «Dell'acqua. Forse un fiume. O un lago, che dobbiamo attraversare.» Si udiva un rombo, mescolato alle folate di vento arido. Come se imma-
ni carichi di pietre rotolassero lungo i costoni delle colline, infrangendosi a valle. Forse tuoni lontani, pensò Vargo, che l'eco del deserto portava fino a loro. Anche se il cielo limpido sembrava escludere del tutto la possibilità di una tempesta, per quanto lontana. I due uomini risalirono faticosamente la duna. Ad ogni passo la sabbia arida scivolava sotto i loro piedi, innescando piccole frane sempre sul punto di trascinarli indietro. Resistevano aggrappandosi con tutta la forza delle dita alla rada sterpaglia che qua e là trovava modo di sopravvivere in quel vasto nulla colorato di porpora. Finalmente raggiunsero la vetta. Dal quel punto potevano vedere per un largo tratto, fino al lontano costone di colline rocciose che chiudeva l'orizzonte come una quinta di pietra. Vargo giaceva disteso e fissava affascinato davanti a sé: ma non era la stranezza del panorama a colpirlo. Adesso finalmente capiva l'origine del rombo sordo che avevano sentito. A circa mille passi da loro un'incredibile processione di uomini armati, di carri e cavalli scorreva sconfinata, sollevando una cortina di polvere dal terreno sassoso. Un'enorme colonna, dal fronte tanto ampio da non riuscire a distinguerne gli estremi. «Un'orda...» balbettò Vargo. «Chi sono?» «Non lo so» rispose il Amnor. «Il vecchio del villaggio aveva parlato di un richiamo... ma sembra che tutti i popoli del Vuoto si siano messi in marcia... non è possibile...» D'istinto i due uomini si erano appiattiti contro il terreno. Ma subito, pressoché insieme tornarono a sollevare la testa. Nessuno della massa sembrava preoccuparsi di cosa li circondasse. Procedevano con lo sguardo fisso verso l'orizzonte. Amnor si sedette attonito. Dopo una breve riflessione tornò a guardare la fiumana che scorreva davanti a loro. «Eppure c'è qualcosa di strano. Non vedi?» Anche Vargo aveva percepito qualcosa. «I loro carri. Sembrano vuoti.» «Esatto. Come dovrebbe sopravvivere questa massa di uomini nel deserto? Non portano con sé acqua, né apparentemente alcun genere di vettovaglie.» «Un miraggio!» azzardò Vargo, dopo un attimo di riflessione. «Ho pensato anche io la stessa cosa. Ma anche se i nostri occhi possono essere ingannati, il suono della loro avanzata ci giunge distinto. No, forse c'è un'altra spiegazione...» seguitò assorto. «Qualcosa di cui ho letto nelle Tavole...»
«Cosa?» «Ci sono dei luoghi, nel Vuoto, in cui il tempo si confonde. In cui si ripetono avvenimenti già accaduti. O che avverranno.» «Quello che stiamo vedendo è qualcosa che si è svolto in un tempo passato?» domandò Vargo incredulo. «O quello che avverrà» mormorò il vecchio inquieto. «Dobbiamo affrettarci, se questo è quello che si prepara» aggiunse con un brivido nella voce. «Cerchiamo il modo di aggirarli» replicò Vargo. «Uomini o spettri, è meglio non incrociare la loro strada.» I valletti scivolarono in silenzio alle spalle del giovane al centro della sala, applicandogli gli spallacci e serrandogli le fibbie della corazza dietro la schiena. Poi si ritrassero veloci, sparendo oltre la porta sul fondo. Vargo attese immobile per un tempo che parve infinito, teso nella posizione di guardia. Quella era la sua prima lezione per l'accesso al Settimo Grado, il più misterioso dell'intero corso di studi. Quello cui si poteva accedere soltanto se chiamati da un Maestro, ma che nessuno nel suo corso aveva mai saputo raggiungere. Tra i cadetti della scuola d'armi correvano le dicerie più diverse su che cosa venisse insegnato, ma nessuno era in grado di dirlo con precisione. Nemmeno nei testi della Biblioteca c'era nulla sul Settimo Grado. Da una porta laterale entrò finalmente il Maestro. Come d'abitudine non portava nessuna protezione, a parte un leggero giubbetto di cuoio. «Il giorno in cui avrò bisogno di una camicia di ferro per affrontare voi incapaci, sarò pronto per morire» era il suo modo costante di irridere i giovani della scuola. Sembrava che una quotidiana dose di mortificazione e di avvilimento facesse parte dell'ordine degli studi, per un futuro ufficiale della Guardia imperiale. «Solo chi sa affrontare afflizione e vergogna sarà in grado di infliggerne a sua volta, quando sarà il momento» era l'altra sua battuta, ripetuta ogni volta che puniva uno degli allievi per una mancanza anche lievissima. Perché ai suoi occhi non c'era mai nulla di lievissimo o di trascurabile. «Io vi trasformerò in macchine da guerra. Ma prima dovete diventare delle macchine e basta. Quando la vostra mente sarà vuota, allora essa finalmente sarà illuminata.»
Il Maestro avanzò brandendo la sua spada di acciaio lucidissimo, e si arrestò alla distanza di due lame, compiendo il saluto rituale. Vargo si aspettava che assumesse subito la posizione di guardia e quindi desse il via al primo assalto. I suoi muscoli si tesero, le pupille contratte per lo sforzo di cogliere anche la più piccola vibrazione nella muscolatura dell'altro, in modo da poter anticipare il punto dell'attacco. Serrò le due mani sull'impugnatura, avvertendo netta la trama di stringhe di pelle che si riscaldava nella stretta. Intanto ripassava freneticamente quanto più possibile quello che aveva appreso nei Sei Gradi precedenti. Ma il Maestro non pareva ancora intenzionato ad attaccare. Teneva la spada bassa, e forse per la prima volta a Vargo parve di leggere sul suo volto una sfumatura di incertezza. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi si arrestò tornando a concentrarsi sulla punta della spada, sempre bassa davanti a sé. «Ho scelto te, per salire al Settimo Grado. Apprenderai l'arte della lotta con l'Ombra. Il livello supremo del rito della spada.» Sempre restando in guardia Vargo chinò leggermente il capo in segno di ringraziamento. Non era certo che il Maestro lo avesse notato. L'uomo continuava a fissare la punta della sua spada, cui aveva impresso una leggera rotazione. «Finora hai appreso con i tuoi compagni l'arte di uccidere gli uomini. Adesso dovrai affrontare il passo più difficile. Combattere contro coloro che non respirano. Attaccami!» Vargo non reagì subito, stupito. Cercava di dare un senso a quelle parole, ma l'altro sollevò finalmente gli occhi, bruciandolo con il suo sguardo di ghiaccio. «Attaccami!» ripeté con ira. Continuava a tenere bassa la lama. Vargo sollevò di scatto la spada all'altezza del suo orecchio, allungando una stoccata verso il collo del Maestro. L'altro senza muoversi dalla sua posizione si limitò a portare la lama più in alto con una rotazione del polso, in modo da deviare l'assalto. Vargo era stato attento a non sbilanciare troppo il peso del corpo nell'affondo. Fece leva sul ginocchio più avanzato in modo da arrestare la sua caduta in avanti, poi ritrasse la spada con una rotazione rapidissima, portandola in posizione orizzontale di traverso davanti a sé. Da quella posizione sarebbe stato in grado di prevenire l'affondo di risposta, deviandolo verso l'alto o il basso a seconda dell'attacco. Il Maestro impugnava la spada nella destra: con un movimento tanto rapido da risultare appena visibile la passò nella sinistra ruotando il pol-
so. Poi capovolse la direzione della lama. Per un attimo parve che volesse rivolgere l'arma contro se stesso, poi la fece scattare all'indietro, sfiorando il proprio fianco e squarciando lo spazio vuoto alle sue spalle. Quindi la ritrasse altrettanto energicamente e tornò a proiettarla in avanti con incredibile velocità. Vargo, sorpreso da quella mossa inspiegabile, reagì un istante in ritardo, sollevando la spada quando quella del Maestro aveva già impegnato la sua guardia. Riuscì appena a deviare di poco la stoccata diretta al proprio viso: la lama urtò violentemente la guancia metallica del suo elmo, schizzando in avanti. Si spostò di lato, appena in tempo per scorgere il Maestro che ripeteva la strana operazione. Vargo spiccò un balzo all'indietro, per recuperare un margine di sicurezza in attesa del prossimo attacco. Era ancora frastornato dal colpo, e soprattutto dall'apparente inesplicabilità della mossa del suo avversario. Ma il Maestro non sembrava voler attaccare: era tornato nella sua posizione immobile, di attesa, e fissava di nuovo la punta della sua spada. «Attaccami!» tornò a ordinare, sempre senza distogliere lo sguardo dall'arma. Il giovane valutò rapido la situazione. Il Maestro teneva la lama relativamente alta: decise di tentare un affondo alla coscia. Protese in avanti il ginocchio, piegandosi sul tronco e saettando verso il basso con la spada. Si aspettava che il suo avversario rispondesse abbassando la guardia. Questo lo avrebbe costretto a sguarnire la parte alta del corpo, in modo da aprire la strada a un fendente alla spalla. Davanti ai suoi occhi si ripeté invece una scena incredibile: invece di parare il colpo l'uomo si volse all'indietro, piroettando su uno dei talloni, ed eseguì una perfetta parata contro il nulla che aveva alle sue spalle. Poi, senza interrompere il movimento, fluido come il mulinello di un torrente in piena, tornò a volgersi verso di lui, in tempo per arrivare a deviare la lama che stava per ferirlo alla gamba. Vargo era talmente stupito da non avere più la capacità di insistere nell'azione. Rimase lì, con il ginocchio ancora piegato in avanti, la spada inutilmente protesa nel vuoto. Vide il Maestro che in un altro scatto felino gli agganciava con un piede la gamba su cui aveva caricato tutto il suo peso, facendolo rovinare a terra. In un attimo si ritrovò disteso, con la punta della lama dell'avversario a poche dita dalla gola. Non riusciva a trovare nulla da dire. «Hai visto?» chiese freddo il Maestro, continuando a minacciarlo. «Sì... ma perché...» mormorò il giovane.
«Quello che hai visto è quello che imparerai. Il Settimo Grado della Spada. Il combattimento con le ombre.» 7 «Qualcuno si sta avvicinando!» gridò Khaima, tornando di corsa da un breve giro di ricognizione. Si lasciò cadere a terra accanto al fuoco, tendendo le mani alla fiamma. «Sono intirizzita!» «Chi hai visto?» chiese Shanda, porgendole una bevanda calda. «Uomini. Non molti. Con dei carichi. Sembrano mercanti. Ma marciano al buio, senza lampade e nemmeno una fiaccola. Come se non volessero essere visti. Nemmeno io li avrei notati, se non fossero saliti per un tratto su un crinale, e non si fossero stagliati alla luce della luna.» «Loro ti hanno vista?» si informò Vargo. «Non credo» rispose la ragazza, ingollando avidamente una sorsata del liquido. «Sono stata attenta a tenermi sempre in ombra.» «Credi che siano diretti qui?» «Sì, non c'è altra via che potrebbero prendere. Forse sono contrabbandieri: siamo ancora vicini al confine.» «E come potrebbero aver varcato la Porta?» «Forse sulle montagne ci sono altri passaggi.» Vargo assentì con un grugnito. Poteva essere un'ipotesi. In trenta secoli la barriera che cingeva Anharra poteva aver ceduto da qualche parte, e i popoli del confine potevano averlo scoperto e usato per i loro traffici nascosti. Ripensò al tempo del suo servizio nel Khur. In genere i contrabbandieri non erano pericolosi. In caso di intercettazione preferivano gettar via il carico e darsi alla fuga: ma allora si trattava di doversi confrontare con truppe regolari. Che cosa avrebbero fatto incontrando quattro viaggiatori, di cui due donne? Valutò rapidamente la situazione. «Lasciamo tutto il campo come se stessimo dormendo, e nascondiamoci tra quei massi. È meglio essere noi a sorprenderli, piuttosto del contrario.» Rapidamente ammassò sotto le coperte le selle e le sacche, in modo da simulare due corpi addormentati, poi si allontanarono verso il luogo indicato, appostandosi in silenzio. Passò poco più di un'ora, poi il silenzio fu spezzato da un nitrito in lontananza, subito soffocato. «Vedi qualcosa?» chiese Vargo, indicando a Khaima la direzione del
suono. La ragazza scrutava con attenzione. «Ombre. Devono aver visto il nostro fuoco. Credo che siano scesi di sella e si stiano avvicinando a piedi.» Anche il giovane stava cominciando a vedere qualcosa. Il rumore di un ramo secco che si spezzava segnalò che gli sconosciuti erano molto vicini. «Adesso li vedo bene. Sono sei, no, sette. Si sono fermati» sussurrò la ragazza. «Stanno decidendo cosa fare. Aspetta, tre vengono avanti.» Tre ombre erano apparse al limite della zona illuminata. Tre uomini, che procedevano curvi, le spade in pugno. Silenziosamente si avvicinarono alle coperte, pronti a colpire. Giunti a breve distanza si arrestarono di colpo, confabulando tra di loro, poi presero a rovistare con le lame sotto le coperte, guardandosi intorno. «Si sono accorti del trucco. Che facciamo?» «Voi restate qui. Io ed Amnor scendiamo verso di loro. Voi state pronte a coprirci con gli archi.» Khaima fece un cenno di assenso, togliendosi dalla spalla l'arma. Anche Shanda estrasse una freccia dalla faretra, incoccandola. Vargo e il vecchio si mossero silenziosi, entrando nel cerchio luminoso. «Chi siete?» chiese il giovane, cercando di dare alla sua voce un tono preoccupato ma non aggressivo. «Mercanti di Hirush» rispose dopo un attimo di sorpresa il più alto tra loro, abbassando la spada. «Credevamo... che il campo fosse abbandonato.» «I nostri cavalli sono fuggiti. Spaventati da qualche volpe. Eravamo qui intorno a cercarli.» «Una maledetta sfortuna. Forse non avete sacrificato abbastanza a Khoran. Che fate da queste parti?» «La Guardia imperiale era troppo dura, per noi. Abbiamo pensato di accorciare la ferma.» L'uomo lo squadrò dall'alto in basso, poi passò a esaminare Amnor. «Non avete l'aria di disertori» disse secco. «Neppure voi quella di mercanti di Hirush.» L'uomo scoppiò a ridere, imitato dai suoi compagni. Si portò le mani alla bocca e lanciò un breve sibilo. Poco dopo anche gli altri quattro apparvero alla luce, trascinando per le briglie i cavalli, sui cui basti erano legate delle casse. «Cosa c'è nelle casse?» chiese Vargo.
Gli uomini si scambiarono una rapida occhiata, poi sempre lo stesso, che sembrava decisamente il capo, rispose. «Avorio. Siamo mercanti, ti ho detto.» «Avorio? Non c'è avorio nel Khur. Non c'è mai stato» replicò Vargo. «Oh, sì che c'è!» esclamò l'uomo, scoppiando di nuovo a ridere. «Di un tipo un po' particolare, vero amici?» seguitò strizzando l'occhio ai suoi compagni, che avevano ripreso a sghignazzare. «Però non chiedermi dove, quello è il nostro piccolo segreto. Possiamo sederci intorno al vostro fuoco?» Senza aspettare risposta fece un cenno a quello che teneva per le briglie i cavalli. «Porta la pentola.» L'uomo avvicinò la mano alla sella del cavallo più vicino cercando qualcosa. Vargo seguiva attento ogni sua mossa. Vide un riflesso metallico brillare, poi d'istinto si gettò di lato, evitando di un soffio l'arpione che quello gli aveva lanciato contro. Prima ancora di toccare terra stringeva in pugno la spada. Si rialzò con uno scatto di reni, colpendo di punta la spalla dell'uomo alto, che lanciò un grido di dolore lasciando cadere il pugnale che aveva estratto dalla cintura. Scivolato a terra, il ferito emise un gemito. I suoi compagni, sconcertati dalla reazione del giovane, si guardavano incerti. Vargo ne approfittò per lanciare un'occhiata dietro di sé, per assicurarsi della posizione di Amnor. Anche il vecchio aveva impugnato la spada. Per un istante lunghissimo nessuno si mosse. Uno dei sei disse qualcosa a bassa voce, in una lingua incomprensibile, poi lentamente quello più vicino cominciò ad alzare le mani. Un grido di dolore interruppe il suo movimento. L'uomo prese ad agitarsi scomposto, cercando di strapparsi dalla carne la freccia che gli aveva trapassato il collo. Poi si abbatté a terra, scalciando. Anche un altro urlò, quasi nello stesso istante, con un secondo dardo piantato nel petto. I quattro superstiti sembravano incapaci di reagire. Estrassero le spade, cercando confusamente di difendersi dall'assalitore invisibile. Uno, cercando di rifugiarsi nell'ombra, passò accanto ad Amnor. Il vecchio sollevò la spada e lo colpì, spaccandogli il cranio con un colpo secco, mentre gli altri tre si avventavano contro Vargo. Il giovane parò il fendente del più vicino, poi menò un colpo di taglio, fracassandogli il ginocchio. L'uomo cadde a sedere urlando di dolore, mentre i suoi due compagni ancora in piedi cercavano con un assalto disperato di aprirsi la strada verso la fuga. Vargo colpì rapido al petto uno dei due,
che si era scoperto, poi si rivolse verso l'altro. Ma quello aveva lasciato cadere la spada, ed era caduto in ginocchio invocando pietà. Vargo trattenne il colpo, limitandosi ad allontanare con un calcio l'arma. Nell'aria restava solo il lamento dei feriti e il nitrito nervoso dei cavalli. Vide le due Sgualdrine apparire dall'ombra. Impugnavano ancora i loro archi, le frecce incoccate. Esaminarono rapide i corpi dei caduti, poi Khaima si fermò accanto al capo, che gemeva ancora debolmente. «Chissà cosa trasportavano di così prezioso. Vado a vedere» disse avviandosi verso i cavalli che scalpitavano. La ragazza raggiunse il primo animale e sciolse i legami che serravano una delle casse. Il coperchio si aprì rovesciandosi verso il basso. Dal contenitore scivolarono in terra un fascio di ossa biancastre, simili a rami secchi. Khaima gettò un'occhiata rapida, poi arretrò di un passo con un'esclamazione di raccapriccio. Inaspettatamente tornò a impugnare l'arco, tese la corda e scagliò con precisione un dardo contro l'uomo che se ne stava ancora in ginocchio e continuava a implorare. L'uomo stramazzò su un fianco. «Perché l'hai fatto?» gridò con rabbia Vargo. «Si era arreso!» Per tutta risposta Khaima si chinò e frugò rapida tra il carico. Poi si rialzò e gli gettò qualcosa. Una massa biancastra rimbalzò più volte sul terreno, fino a fermarsi vicino ai piedi del giovane. Vargo contrasse la mascella. Un teschio umano sembrava guardarlo con le sue orbite vuote. C'erano ancora residui di cartilagine sotto gli zigomi. «Hai visto l'avorio di questi bastardi?» disse la Sgualdrina. «E scommetto che anche le altre casse ne sono piene.» Estrasse il pugnale e rapidamente fece il giro delle bestie, tagliando i legami delle casse. A una a una tutte rovesciarono il loro macabro contenuto a terra. Decine di teschi e di ossa lunghe finirono sotto gli zoccoli dei cavalli. «E guarda questo!» esclamò ancora Khaima, facendo rotolare con un calcio un grosso contenitore verso il fuoco. «Era la pentola che volevano per voi, l'hai capito adesso? È qui dentro che bollono i cadaveri per disossarli meglio.» Vargo gettò uno sguardo ai corpi degli uccisi. Ogni senso di pietà si era spento in lui, soffocato dal ribrezzo. «Ma che se ne fanno? Sono dei mostri?» Amnor scoppiò a ridere. «Ragazzo mio, ne hai da imparare! Di cosa credi che siano fatte le tazze in cui beve l'Imperatore? O i piatti in cui man-
giano i nobili?» Un'ombra passò sul volto del giovane. «Che vuoi dire?» «I vasi più delicati. Le forme più nobili e sottili di cui si vantano i ceramisti imperiali. Bisogna macinare ossa nell'impasto, per ottenerle. E pare che le ossa umane siano le più adatte. In fondo questi uomini erano al servizio dell'Impero, come lo sei stato tu. O io.» Vargo era ammutolito. Il vecchio dette un calcio al teschio, gettandolo verso il fuoco che ancora crepitava, poi si volse verso i cavalli degli uccisi che brucavano tranquilli i radi cespugli spinosi. «Almeno a qualcosa serviranno. Adesso la nostra avanzata sarà più veloce.» «Sì, è stata una bella fortuna» esclamò Khaima, accarezzando il muso di una delle bestie che si era avvicinata. «E saranno le loro ossa a finire in qualche vaso, invece delle nostre!» ridacchiò Shanda. Balzarono rapide in sella, spronando le bestie e facendole impennare con disinvoltura. Amnor aveva seguito attentamente i loro movimenti. «Guardiamoci le spalle, amico mio» mormorò. 8 Il terreno, prima pianeggiante, aveva preso a farsi accidentato. Poi cominciarono ad apparire dei rilievi sempre più elevati. «Guardate!» gridò Khaima, che in quel momento era in testa. Sul fianco di una collina si ergeva una costruzione di pietra. Nella muraglia gli antichi costruttori avevano incassato dei torrioni ciechi, che salivano oltre il tetto fino a un'altezza vertiginosa, terminando con dei pinnacoli che avevano parzialmente ceduto, inclinandosi. Uno di essi era già rovinato a terra, e numerosi blocchi di pietra giacevano sparsi ai piedi dell'edificio. Un frammento di scultura, una testa mostruosa, si era staccata dal corpo al momento dell'urto, rimbalzando in basso fino all'inizio della lunga scarpata di accesso. Un edificio sacro, pensò Vargo, una sorta di tempio. Ma di un culto che non aveva mai visto: le forme della costruzione richiamavano quelle di un osceno insetto rovesciato, che cercasse con le zampe protese verso il cielo di aggrapparsi a qualcosa. Forse alla veste della divinità sconosciuta per la quale era stato eretto. La pietra delle mura era corrosa, solcata da profonde incisioni trasversali. Non c'era traccia di muschi o di qualunque altro segno di vita. L'aridità del deserto sembrava averle ridotte a una specie di vetro opaco. E c'era un'altra stranezza. La porta d'ingresso sembrava anch'essa di pietra, ed era
tenuta nella sua posizione chiusa da tronchi d'albero, confitti nel terreno come enormi paletti. Le fessure intorno alla porta erano annerite da tracce di fuoco, e anche le alte finestre erano tutte segnate dalla traccia delle fiamme. Vargo si avvicinò ai tronchi, saggiandoli con la mano. Il legname sembrava pietrificato, come se fosse lì da un tempo remoto. Provò a colpirlo con la spada, riuscendo soltanto a strappare qualche scheggia. «Aiutatemi ad aprire il portale» disse accanto a lui Amnor. «Perché dobbiamo entrare?» replicò Vargo di malavoglia. Non riusciva a vincere una sensazione sgradevole guardando quella costruzione. «Vemerin aveva fondato il proprio culto. Forse dentro c'è qualcosa che può esserci utile... a capire» rispose il vecchio, che aveva iniziato a spingere uno dei pali con tutte le sue forze. Vargo si unì a lui, imitato da Shanda e Khaima. Lentamente sotto il loro peso la trave cominciò a cedere, rovinando a terra. Continuando con pazienza anche le altre travi furono rimosse. Amnor si aggrappò a una sorta di maniglia che spuntava dalla porta di pietra, cercando di tirarla verso di sé. Con uno sfrigolio la porta cominciò a ruotare sui suoi cardini nascosti, aprendo una fessura sufficiente a permettere il passaggio. Attraverso la fessura si scorgeva solo uno squarcio di tenebra. Amnor raccolse un ramo da terra e vi annodò una striscia di tessuto strappata a una coperta. «Avremo bisogno di una luce, lì dentro.» Uno dopo l'altro scivolarono all'interno. Appena oltre la porta la prima impressione fu quella di una assoluta oscurità, lievemente attenuata dagli strettì raggi di sole che entravano dalle finestre in alto. Il pavimento era ingombro di frammenti di legno carbonizzati, i resti delle travi del tetto che erano cadute durante l'incendio. Vargo alzò lo sguardo, sorpreso. Nonostante il cedimento della travatura il tetto sopra le loro teste sembrava intatto. Sulla destra, appena a fianco della porta, spuntava dalla muraglia un contrafforte di pietra. Il giovane lo seguì con lo sguardo verso l'alto, dove si incurvava verso l'interno trasformandosi in un arco rampante. Nella penombra intravide una crociera, dove altri archi si attestavano per compensare la spinta. Dunque il tetto non era caduto perché era costituito da una serie di volte di pietra e mattoni, che avevano resistito alle fiamme. Forse quei resti di legno facevano parte di altro, magari degli arredi del tempio. Più avanti la navata era ingombra di resti
confusi, ammonticchiati senza alcun ordine. Un grido di allarme lo distrasse dalle sue osservazioni. Era Shanda, che cercava di attirare la sua attenzione. Sembrava sbigottita. «È pieno di corpi bruciati!» Con il piede aveva urtato qualcosa. Vide una testa umana che rotolava di qualche passo, ridotta a un blocco di carbone polveroso. Intanto Amnor aveva estratto l'acciarino da una borsa e con pochi colpi aveva infiammato la tela. Un cerchio di luce tremolante si allargò intorno al vecchio, accompagnato da un nuovo grido di ribrezzo da parte delle ragazze. Tutta la navata di quella specie di tempio era coperta di resti di corpi umani bruciati. Alcuni erano completamente carbonizzati e a stento riconoscibili; altri, perlopiù distesi lungo le pareti o sotto gli archi dei pilastri, conservavano le loro forme, coperti da brandelli delle vesti. Altri ancora parevano singolarmente immersi in un sonno profondo, quasi intatti. Come se le fiamme li avessero risparmiati e fossero morti soffocati dal fumo. Sui volti dalla pelle mummificata, nelle bocche dilatate in cerca dell'ultima boccata d'aria, nonostante il tempo trascorso si poteva leggere ancora l'orrore della loro fine. Interi gruppi di uomini e donne erano caduti abbracciati, stringendosi in cerca di salvezza. In altri punti, specie in corrispondenza delle alte finestre, i corpi giacevano accatastati gli uni sugli altri, avvinghiati tra loro come se fosse ancora in corso l'ultima lotta per la sopravvivenza che doveva essersi scatenata quando, in preda al terrore, avevano cercato di raggiungere le aperture salendo gli uni sugli altri. «Non tutti sono morti per il fuoco. Forse l'incendio è stato appiccato dopo, per far sparire le tracce di questo eccidio» osservò Vargo. «E cosa li ha uccisi, allora?» replicò Amnor. Vargo gli indicò il corpo di una donna, miracolosamente intatto. La causa della morte era evidente: qualcosa le aveva inferto una ferita mortale, asportandole parte del fianco. I lembi della ferita, ancora perfettamente visibili, non erano netti come quelli inferti dal ferro, ma apparivano lacerati come se l'avesse dilaniata un morso violento. «Un mastino? Forse gli assalitori hanno utilizzato dei cani da guerra» ipotizzò Amnor. Vargo scosse la testa. «La Guardia imperiale disponeva di cani da combattimento. Li ho visti all'opera. Nessuno di loro sarebbe in grado di infliggere una ferita come questa.»
Un altro grido attirò la loro attenzione. Le Sgualdrine nel frattempo avevano continuato a esplorare il tempio. Il grido proveniva da una delle cappelle della navata laterale. Vargo si precipitò da quella parte, la spada in pugno, appena in tempo per vedere Shanda che si ritraeva, la mano sulla bocca. Anche Khaima aveva un'espressione di raccapriccio sul viso. «Lì, là dentro...» si limitò a mormorare, prima di chinarsi in un angolo e vomitare. Vargo si affacciò sulla porta della cappella. Dovette farsi forza per vincere l'istinto di fuggire. Le pareti erano completamente ricoperte di corpi di bambini squartati, con le viscere ridotte a grumi di sangue penzolanti. Anche in questo caso le ferite non sembravano essere state inferte con delle lame: i corpi apparivano lacerati come se una bestia vi avesse confitto gli artigli. Vargo rimase immobile, paralizzato da quella vista. Dietro le sue spalle Amnor lo aveva raggiunto. «Tutte le cappelle sono piene di cadaveri. Ridotti come questi. E anche peggio» mormorò. «Uomini, donne, bambini. Sono migliaia, un popolo intero è stato sterminato.» «Ma perché!» esclamò Vargo. Lo spettacolo era straziante. «Quale demonio può aver fatto una cosa simile?» «Un demonio solo non può essere stato sufficiente. Ho trovato resti di armi tra i corpi. Gli uomini hanno cercato di organizzare una difesa.» «Cerchiamo meglio, allora. Forse anche qualcuno degli assalitori è rimasto ucciso.» Amnor scosse la testa. «Non troveremo nulla. Sembra che qui dentro si sia scatenata davvero una forza sovrumana. Gli assalitori non hanno subito perdite. Oppure si sono preoccupati di non lasciare tracce, portando via i loro morti prima di incendiare il tempio.» Aveva ripreso ad aggirarsi tra i morti. Tastava i cadaveri mummificati, rivoltandone qua e là alcuni per osservarli meglio. Sembrava tornato il medico flemmatico della Corte imperiale, freddo ed efficiente. «E c'è dell'altro che non torna...» «Cosa?» chiese Vargo. «Non riesco a capire. Le ferite. Sono diverse. Alcuni sono stati trafitti. Altri dilaniati. Come se due nemici distinti si fossero accaniti su di loro.» «Due diversi reparti, con armi differenti?» Il vecchio scosse il capo. «Non si tratta di armi, ma di menti. Questo orrore è stato realizzato da due menti diverse. Usciamo, non troveremo altro qui dentro.»
Si arrestarono fuori, davanti al portale bruciato. Amnor fissava verso sud. «Qualunque cosa sia stata, è da lì che è venuta. Ne sono certo.» A Vargo tornò in mente la mostruosità scolpita sulla porta di bronzo che segnava il confine delle terre di Vemerin. Forse chi aveva eretto la porta aveva visto cose come quelle. E aveva voluto lasciare un segnale per chiunque si fosse avvicinato. «Dobbiamo accamparci per la notte» disse Amnor. «Ma prima allontaniamoci da questo posto» si intromise Shanda, ancora turbata. «Cerchiamo di mettere più miglia possibili tra noi e queste mura maledette.» Il sole stava sparendo dietro l'orizzonte. «È tardi» replicò il vecchio. «Correremmo il rischio di essere sorpresi dal buio senza alcun riparo. Meglio fermarci qui. In fondo non è che un cimitero. I morti non sono pericolosi. Almeno questi» aggiunse in tono enigmatico. Vargo si volse verso le mura calcinate. Avrebbe voluto obiettare qualcosa, ma le lunghe ombre sul terreno davano ragione al vecchio. «Sì, accampiamoci. Cercheremo di stare in guardia.» Terminato il rapido pasto a base di carne secca, si erano sdraiati intorno al fuoco. Le due Sgualdrine si tenevano strette sotto le coperte, parlottando tra loro e lanciando di continuo sguardi preoccupati alla massa scura di pietre alle loro spalle. Poi tornavano a guardare di sfuggita verso Vargo, come se volessero rassicurarsi che fosse sempre lì. Amnor aveva notato il loro modo di fare. Con un sorrisetto si rivolse al giovane. «Sembra che le due donne confidino molto in te.» Vargo guardò dalla loro parte, incrociando per un attimo gli occhi di Shanda. «In fondo, dietro quella maschera insolente, sono solo due ragazzine» osservò. Amnor scosse il capo. «Nessuna che lavori per la Signora Rossa è una ragazzina, amico mio.» «Non intendevo in quel senso» ridacchiò il giovane. «Chiunque sarebbe sconvolto, dopo quello che abbiamo visto lì dentro» rispose accennando al tempio. «Anch'io non riesco a liberarmi da quelle immagini. Ci sono dei limiti all'orrore.» Amnor tacque. Sembrava riflettere sulle ultime parole del giovane. «È vero» disse poi, come se riflettesse ad alta voce. «Lo scoprii alla Loggia.» La Loggia delle Afflizioni. Era stato Karto, l'astronomo cieco, a parlar-
ne. «Davvero siete stato il capo degli inquisitori imperiali?» chiese Vargo. Non era riuscito a nascondere una punta di disprezzo nella voce. Ma Amnor non parve accorgersene, come se fosse abituato a quel giudizio. «Sì, per alcuni anni» rispose in tono vago. «È lì che ho scoperto il limite dell'orrore» riprese poi inaspettatamente. «Non è il grande dolore che piega la nostra volontà. I miei... colleghi strappavano unghie, slogavano articolazioni. Cavavano occhi dalle orbite. E ne ottenevano soltanto grida inarticolate. O un diluvio di implorazioni inutili. No, non è il corpo che soffre, ma la mente. Io non avevo bisogno di tutto questo.» «E che facevate?» «Parlavo. Raccontavo ai prigionieri cosa avrei fatto. Mostravo loro i miei ferri, ne descrivevo la funzione. Con calma, come si racconta a un bambino, spiegavo come il loro corpo si sarebbe spento a poco a poco, anticipavo il dolore nella loro immaginazione. E senza toccarli li trascinavo nel mio inferno.» Vargo lo osservava incerto. «Anche Vemerin doveva aver scoperto questo segreto» continuò il vecchio. «I corpi lasciati nel tempio non sono altro che parole di una storia del terrore. Noi le abbiamo lette e adesso lavorano nella nostra mente.» Vargo si rannicchiò nella sua coperta, infastidito per il tono di superiorità del vecchio. Ma quello che provava sembrava confermare le sue affermazioni. Sperò che il sonno venisse sordo, senza sogni. Vargo aveva appena terminato il suo giro d'ispezione ai posti di guardia, lungo le pareti della stretta di Kendor. La pioggia era caduta ininterrotta per tutto il giorno. Aveva trovato gli uomini bagnati fino al midollo, le mani rattrappite per il freddo sulle lance. Li aveva rincuorati come meglio aveva potuto, cercando di riaccendere sulle loro facce infantili la speranza. Sapeva che era inutile. L'Impero li aveva destinati a sorvegliare la stretta, da dove avrebbero sicuramente attaccato le forze dei ribelli. Troppo pochi e troppo tardi. Quando era arrivato l'ordine, ed era stata mossa la sua compagnia, aveva capito subito che il loro compito era soltanto quello di attirare i ribelli nella stretta, in modo da dare il tempo al grosso delle forze imperiali di aggirarli sul fianco. Se gli Arconti avessero voluto davvero ingaggiare la battaglia nella stretta, non avrebbero mandato lì pochi elementi della Guardia con un reparto di novellini. No, il loro compito era solo quello di rallentare quanto più possibile l'a-
vanzata del nemico, e farsi massacrare fino all'ultimo uomo. Non c'era stato bisogno di dirlo, con Banthor e Vilna, che si erano offerti volontari per accompagnarlo. Inutilmente aveva implorato, e poi imprecato, perché non lo facessero. Vilna si era limitato a un'alzata di spalle, con la stessa faccia irridente di sempre. «Vuoi coprirti di gloria da solo? No, amico. Dove vai tu andiamo anche noi. Vogliamo esserci, quando diventerai Imperatore.» Banthor non aveva detto nulla, come al suo solito. Aveva sellato il cavallo ed era andato ad aspettare alla porta. Vargo si lasciò cadere esausto sotto la tenda, slacciandosi la cinghia dell'elmo e depositando la spada sulla branda, accanto a sé. Banthor fece capolino dentro. «Hai visto niente?» «Non c'è traccia del nemico. Ancora. Le sentinelle dicono di aver visto dei fuochi, nella valle. Forse bivacchi d'accampamento. Ma adesso non si vede più nulla.» «Forse hanno deciso di ripiegare, per cercare di sfondare più a sud» disse l'altro, la voce animata da un filo di speranza. «Forse temono le insidie della stretta.» Vargo scosse il capo, deciso. «Non ricordi quel loro disertore, che abbiamo catturato due giorni fa?» Banthor si batté la mano sulla coscia, mentre si abbandonava a uno dei suoi rari momenti di ilarità. «Già! Bell'uomo di fegato! Ha raccontato tutto quello che sapeva, senza nemmeno bisogno che gli agitassimo una lama sotto gli occhi. Ma capisco cosa vuoi dire» riprese, di nuovo cupo. «Sanno tutto di noi. Quando decideranno, ci attaccheranno senza timore.» L'altro si strinse nelle spalle, senza replicare. Il lembo bagnato che chiudeva la tenda si scostò di nuovo, e Vilna fece il suo ingresso. Gettò un'occhiata ai due amici, poi rabbrividì ostentatamente. «Cos'è? Avete deciso di anticipare la veglia funebre?» disse ironico. «Aspettavamo il tuo conforto» replicò Vargo. «Ma certo non aspettavi questo» disse l'amico mostrandogli un plico bianco. «È arrivato un portaordini, con un messaggio per te.» Alzò il plico, mostrandogli il simbolo imperiale che lo sigillava. «Immagino che tu lo riconosca» continuò, accennando con un angolo della busta alla fronte dell'amico. Tese il plico verso Vargo, ma prima che lui potesse afferrarlo lo ritrasse, assumendo un'espressione sospettosa. «Anche se c'è
qualcosa di strano.» Avvicinò il messaggio alle narici, poi lo passò sotto il naso di Banthor. «Non senti anche tu qualcosa di strano? Da quando in qua il comando manda ai suoi ufficialetti messaggi profumati?» «Sì, c'è davvero qualcosa di strano» confermò Banthor con sussiego. «Bisogna indagare.» Il cuore di Vargo aveva dato un balzo. Si precipitò a strappare dalle mani dell'amico il plico. Vilna provò ancora scherzosamente a resistere, poi si lasciò vincere. Vargo strappò ansioso il sigillo e si immerse nella lettura. «Bene» dichiarò dopo qualche istante Banthor. «Non pensi che anche i tuoi compagni d'armi debbano sapere cosa hanno di tanto importante da dirti al comando?» Vargo si era fatto improvvisamente cupo. Gli amici lo videro appallottolare il messaggio e gettarlo in terra. Rimase immobile sulla branda, come pietrificato. Anche gli altri restavano in silenzio aspettando. Poi Banthor col piede dette un colpetto alla carta, spingendola verso Vilna, e accennando con il mento. Il giovane si chinò, distese il foglio e dette una rapida scorsa al testo. «Cosa pensi di fare?» chiese Vilna, tendendo di nuovo il foglio all'amico. Vargo si prese la testa tra le mani senza rispondere. «Se vai all'appuntamento, sarai accusato di diserzione» rifletté Vilna. «È la figlia del Duca. Gli chiede di raggiungerla al campo del padre» seguitò, rivolto all'altro amico. «Il campo del Duca è a trenta miglia da qui. Con un buon cavallo può farcela ad andare e tornare prima delle luci dell'alba» affermò Banthor. «Ti copriremo noi. E i ribelli non attaccheranno certo questa notte.» Vargo continuava a non rispondere, lo sguardo perso nel vuoto. Poi si alzò di scatto, stringendosi di nuovo al fianco la cintura con la spada. Sembrava fuori di sé. Abbracciò gli amici con forza. «Tra poche ore sarò di nuovo qui. Non può succedere nulla in queste poche ore» disse parlando a se stesso, mentre si gettava fuori come un forsennato, correndo verso il recinto dei cavalli. I due amici erano rimasti sulla soglia della tenda. Lo seguirono con lo sguardo, finché non fu sparito nel buio. «C'era dell'altro, nel messaggio» disse a un certo punto Vilma.
«Cosa?» «Il Duca. Ha promesso la figlia in sposa all'Imperatore.» 9 Davanti a loro si allargava una distesa sterminata di sabbia uniforme, da cui proveniva un vento teso e arido che portava con sé nuvole di polvere. «Non ce la faremo mai ad attraversarla» mormorò per prima Shanda. Si sentivano tutti scoraggiati. Anche i cavalli recalcitravano e nitrivano inquieti, di fronte a quel mare di dune. «Che dice la tua mappa, vecchio?» chiese Khaima. Amnor aveva già svoltolato la pelle e la studiava perplesso. «Pensavo ci fosse un lago, e invece... comunque deve esserci un modo per attraversare, se Karto e il suo compagno ci sono riusciti.» Aveva parlato con voce decisa, ma Vargo comprese che lo aveva fatto più per rianimarli che per convinzione. Lo vide tornare a scrutare verso l'orizzonte, mordendosi le labbra. «Tutta qui la tua scienza?» incalzò ironica Shanda. Il vecchio aveva estratto dalla sacca della sella un quadrante e si era immerso in una serie di calcoli silenziosi. Vargo lo vide più volte scuotere il capo, prima di tornare a riporre lo strumento con un respiro profondo. «Almeno cento miglia...» disse dopo una pausa. «Potremmo farcela, muovendoci di notte e cercando di raccogliere l'umidità notturna. Ma i nostri cavalli non resisterebbero. E se li abbandoniamo adesso, non saremmo poi in grado di continuare, una volta raggiunta la catena di monti che secondo la mappa si erge dall'altra parte.» Era seduto a terra, la testa stretta tra le mani. In quel momento Khaima lanciò un grido: «C'è qualcosa da quella parte, laggiù!». Vargo volse lo sguardo verso il punto indicato: ad alcune miglia sulla loro destra la superficie uniforme di sabbia era spezzata da una massa più scura che risaltava appena. A tratti la polvere sembrava sommergerla, nascondendola alla vista. Poi tornava a essere visibile. Ma la sua forma restava confusa, come se il vento la facesse oscillare. «È vero... sembra una costruzione...» disse Vargo, facendosi schermo con la mano. «Forse gli antichi abitanti hanno eretto nel deserto delle strutture che permettessero di attraversarlo» esclamò Amnor rianimato. «Una specie di stazione di cambio, forse depositi di acqua e cibo... Cerchiamo di raggiungerla!»
«E se fosse soltanto un miraggio?» obiettò Shanda. «Potremmo scoprire di aver raggiunto un altro pezzo di niente!» «Sì, forse...» rispose Vargo. «Il deserto è pieno di rocce affioranti, dalle strane forme. Ma in ogni caso ci allontaneremo soltanto di qualche miglio. Siamo già in mezzo al nulla: tentiamo.» Spronarono le bestie, affrontando il fondo di sabbia soffice in cui gli zoccoli sprofondavano fino ai garretti. La marcia si rivelò subito più faticosa del previsto. Gli animali, già stanchi, avanzavano a stento. Vargo cercava faticosamente di tener d'occhio il loro obiettivo, che a poco a poco si andava ingigantendo. Si trattava sicuramente di un oggetto artificiale, e non di un'irregolarità del terreno, come pure aveva temuto. Però non sembrava un edificio, piuttosto... «Si muove!» gridò Shanda. Una nuvola di polvere nascose di nuovo l'oggetto. Il vento si era rafforzato e spazzava il deserto con folate sempre più rabbiose. Quando tornò la visibilità la forma era più definita. Una massa oblunga, sormontata da una serie di spine che ricordavano la cresta di un drago. «È un animale?» chiese Khaima preoccupata. «Aspettate» ordinò Vargo, arrestando la marcia. «Attenti, viene verso di noi!» Sotto una nuova raffica la massa era tornata a muoversi, e questa volta puntava decisa verso i quattro. «Allontaniamoci!» gridò Shanda. «Aspettate, ha cambiato direzione!» La massa aveva scartato dalla sua linea e adesso sembrava voler sfilare a una certa distanza. «Non è un animale...» disse Amnor. «Forse è la risposta alle nostre domande: ecco come è stato possibile attraversare questo spazio. È una specie di mezzo di trasporto.» Il vecchio alzò il volto, socchiudendo gli occhi a una nuova folata rabbiosa. Nello stesso momento l'oggetto era tornato a muoversi, cambiando di nuovo direzione. «Sembra muoversi a seconda del vento...» disse ancora Amnor. «Cerchiamo di avvicinarci.» Di nuovo il vento li accecò, sollevando una cortina di polvere. Ora però potevano sentire uno stridore metallico crescente, mescolato al rotolio di grandi ruote in movimento.
Anche Vargo aveva avuto la sensazione che l'oggetto si fosse spostato. La vibrazione, che in un primo momento aveva attribuito alla distanza e ai mulinelli di sabbia, adesso era evidente. All'improvviso la cosa fece un nuovo balzo in avanti, tornando ad avvicinarsi. Di colpo il sipario di polvere sembrò squarciarsi, mentre qualcosa di enorme si avventava verso di loro, come la testa di un serpente che scavava un solco nella sabbia. Shanda e Kaima gridarono. La massa si arrestò. Adesso la struttura era perfettamente visibile: sembrava, vista da vicino, una sorta di pontone di travi inchiodate, sormontato da antenne su cui erano imperniate delle grandi ruote velate, simili a quelle dei mulini, che ruotavano vorticosamente. «È un carro!» gridò Vargo per primo. «Sì, una specie di carro, almeno.» La struttura poggiava su una serie di elementi girevoli, dalla forma di grossi barili. Dopo un'altra raffica violenta il vento per un attimo si era placato, e anche le strane vele della macchina avevano cessato di muoversi. «È... una nave del deserto» disse Amnor. «E chi la governa?» chiese Vargo. «Non lo so. Forse nessuno, a giudicare dai suoi movimenti.» «Forse il suo equipaggio per qualche motivo l'ha abbandonata.» Un nuovo colpo di vento avvicinò ancora la macchina di alcune braccia. «Allontaniamoci! Se si muove ancora può schiacciarci!» gridò Khaima dando uno strappo alle briglie. «No! Approfittiamo invece di questo momento di calma del vento, perché uno di noi salga a bordo» replicò il vecchio. «Questa macchina potrebbe essere la nostra salvezza, se è ancora in condizioni di muoversi. Chi l'ha costruita deve averlo fatto proprio per attraversare il mare di sabbia. E molto tempo fa, a giudicare dalle condizioni del legname usato.» Le due Sgualdrine fissavano l'alto fianco del carro, poco convinte. Poi Khaima afferrò la corda che portava arrotolata intorno alla sella e smontò. «E va bene. Alla fine c'è bisogno di una donna, come sempre!» Vargo le fermò la mano. «Aspetta. Non sappiamo cosa possa esserci là sopra. Vado io.» Strappò con decisione la corda dalle mani della ragazza, poi, dopo un rapido volteggio sulla testa, la lanciò verso una delle antenne. Ne saggiò rapido la resistenza, poi prese a issarsi lungo il fianco del veicolo.
Raggiunto il ponte sbirciò con cautela, prima di saltare a bordo. Non c'era nessuno, come aveva immaginato. La superficie su cui aveva poggiato i piedi era costituita da un intreccio di canne, una sorta di stuoia compatta che manteneva ancora sotto il suo passo un residuo dell'antica elasticità. Alzò gli occhi sulle strutture che oscillavano lente sopra la sua testa, quelle simili alle pale di un mulino. Non riusciva a capire quale potesse essere la loro funzione. Di certo dovevano servire ad assicurare il moto alla macchina. Le aveva viste ruotare, ogni volta che il vascello aveva compiuto un movimento. Ma se erano vele, non aveva mai visto niente del genere su nessuna nave dell'Impero. Tornò ad affacciarsi al bordo. «Non c'è nessuno. Vedo una specie di portello, scendo a vedere nell'interno!» Si avvicinò al largo boccaporto che si apriva tra due delle antenne che sorreggevano le ruote, gettando un'occhiata all'interno. Scese con cautela i primi gradini di una scala che portava in basso. Sotto si apriva un vasto ambiente, che sembrava tagliato da una serie di paratie fatte dello stesso materiale del ponte. Una gran parte, forse destinata al carico, era completamente vuota, tranne per i resti in frantumi di quelle che probabilmente erano casse. Il rimanente dell'ambiente era occupato da grossi ingranaggi di legno, che sembravano in qualche modo connessi con le antenne sul ponte. Attraverso le fessure dell'intreccio di canne filtrava luce sufficiente per orientarsi. Vargo vide su un fianco un ampio portello imperniato in basso, chiuso da una serie di chiavistelli. «Attenti!» gridò. «Cerco di aprirvi un varco!» Fece scorrere i catenacci di legno, poi spinse. Un'intera sezione del fasciame ruotò, protendendosi verso l'esterno. Attraverso la grande porta che si era aperta poteva vedere i suoi compagni che si avvicinavano incuriositi. «Venite! Non sembra esserci pericolo. E fate salire anche i cavalli, c'è posto anche per loro!» Appena dentro Amnor prese ad aggirarsi tra i macchinari, osservando con attenzione tutto quello che li circondava. Sembrava stupito. Si muoveva a bocca aperta, accarezzando le strutture come se volesse assicurarsi della loro realtà. Poi all'improvviso una nuova raffica di vento giunse dal deserto, sibilando attraverso le fessure del fasciame. Le catene di ingranaggi presero a ruotare e tutto il veicolo si mosse sotto i loro piedi. Le Sgualdrine lancia-
rono un urlo di paura, mentre Vargo si afferrava a una paratia per mantenere l'equilibrio. Anche i cavalli nitrivano innervositi, scalciando con gli zoccoli contro il ponte. Solo Amnor sembrava mantenere la calma. Seguiva con rapidi guizzi degli occhi il movimento degli ingranaggi con espressione ammirata. «Che cos'è questo?» gli chiese Vargo. «Può salvarci, o è una trappola in cui siamo andati a cacciarci con le nostre stesse mani?» «Non è una trappola... ma l'opera di menti geniali. Può essere davvero la nostra salvezza, se riesco a capire fino in fondo il suo funzionamento. Guarda!» disse Amnor eccitato, indicando al giovane gli ingranaggi. «Le ruote di sopra, sulle antenne, raccolgono la forza del vento, proprio come le pale di un mulino, e poi la trasmettono alle ruote. E quei grandi barili che hai visto sotto il ventre del vascello: la loro forma fa sì che tutto il peso non sprofondi nella sabbia, ma si appoggi alla superficie come una foglia sul pelo dell'acqua. È straordinario... straordinario...» ripeté. «In tal modo il vascello può procedere sulla rotta stabilita indipendentemente dalla direzione del vento. Dobbiamo capire come governarlo... deve esserci qualcosa di simile a un timone.» «Sul ponte?» «È probabile. Andiamo.» Salirono rapidi la scala che portava all'esterno, seguiti da Shanda e Khaima. Sul ponte, verso la prua, trovarono due grandi leve che spuntavano attraverso le canne, protette da una piccola balaustra. «Dev'essere quello!» esclamò Amnor, afferrando una delle due leve e provando a smuoverla. La leva dapprima resistette al suo sforzo, poi lentamente si inclinò in avanti. «Certo! Ecco come funziona!» disse il vecchio. «Ognuna di queste leve comanda la trasmissione del moto a una delle due sezioni di ruote. Agendo così» seguitò tornando a portare in posizione verticale la leva «tutta la serie di ruote di sinistra viene liberata dalla spinta, mentre il gruppo di destra continua a funzionare. In tal modo il vascello piega a sinistra.» Alzò il viso verso l'alto. «Il vento si sta rafforzando, proviamo!» Sopra le loro teste nuove folate erano tornate a muovere le grandi ruote a pale, stavolta in modo più deciso. Amnor spinse in avanti entrambe le leve, e subito con uno scossone tutta la massa sotto di loro si mise in movimento scricchiolando paurosamente. Dapprima lentissimo, poi con velocità crescente il vascello prese a stri-
sciare sulle dune. «Ma stiamo procedendo controvento!» esclamò Vargo sconcertato. «Sì! È questo lo straordinario del veicolo! Te l'ho detto, non funziona come un comune battello. Del resto» aggiunse Amnor guardando verso l'orizzonte «siamo nella terra di Vemerin. Lui è laggiù. Con le sue meraviglie.» A occhi chiusi aspirava voluttuosamente il vento, le narici dilatate come se percepisse nelle sue folate un odore misterioso. Tutti erano svegli, mentre il vascello divorava una dopo l'altra miglia e miglia di deserto illuminato dalla luna. Amnor, lo sguardo fisso alla volta celeste, di tanto in tanto agiva sulle leve per correggere la rotta, in un silenzio rotto soltanto dal frusciare delle ruote e dallo scalpitare dei cavalli sotto coperta. Sul ponte le due Sgualdrine, avvolte nelle loro coperte, parlottavano tra loro, ridacchiando a tratti alla volta di Vargo. Ogni tanto lo invitavano con dei piccoli segni del capo, per poi ridere più forte. Per un momento tutta la tensione del viaggio sembrò sparita. Ma il giovane non riusciva a liberarsi da un sottile senso di inquietudine. Aveva l'impressione di sentire qualcosa, nel vento. Sibili, mormorii, voci. Amnor prese uno spezzone di corda e legò le due leve nella loro posizione. «Il vento è costante. Resterà così per tutta la notte.» «Potete riposare» gli disse Vargo. «Penserò comunque io a sorvegliare la rotta.» Il vecchio estrasse dalla sua sacca la coperta, con cui si avvolse le spalle. Ma invece di distendersi sul tavolato si avvicinò ancor più alla prua del vascello. Pareva anche lui in ascolto di qualcosa. «Sentite anche voi?» chiese alla fine Vargo. «Sì. Da molte ore. Voci.» «Riuscite a capire cosa dicono?» «No. Ma si stanno facendo sempre più distinte, mano a mano che scendiamo verso occidente. Presto sapremo» aggiunse scuotendo il capo. «Ma c'è un'altra cosa.» «Cosa?» «Quella» rispose il vecchio, indicando la volta del cielo sopra di loro. «Quell'astro, che culmina sulle nostre teste. È apparso all'inizio dell'anno. E da allora ogni notte scende sempre più verso sud.» Vargo fissò il punto luminoso, che brillava con insolita violenza distinguendosi dalla miriade degli altri. «Significa qualcosa?» Il vecchio si strinse nelle spalle. «Se le stelle sono gli antichi dei, come
credono i sacerdoti di Khoran, saliti in alto dopo aver disertato la terra, quella è la luce del più grande di loro che torna a rivendicare il suo trono.» Per più di un'ora rimasero così, in silenzio, a fissare la moltitudine di stelle che li sovrastava. Poi, lentamente, alla loro sinistra il nero della notte cominciò a cedere il passo a una striscia di blu profondo, che si rischiarava allargandosi. «È l'alba» mormorò Amnor, distendendo le membra intirizzite. Il vento stava rinforzando, ma la luce del giorno sembrava aver cancellato le voci della notte. Il vascello aumentava la velocità, sobbalzando sulle dune. Un colpo più violento contro un'irregolarità del fondo sabbioso lo fece tremare in tutte le sue giunture. Svegliate di colpo, le Sgualdrine si levarono in piedi imprecando. Amnor era tornato al posto di guida, slegando precipitosamente le leve. «C'è qualcosa» esclamò, mentre si preparava ad agire sui comandi. Fissava avanti, con le mascelle contratte. «Non vedi niente?» Anche Vargo cercava di decifrare le ombre confuse. «Sì, mi sembra che... sì, c'è qualcosa. Sembra una sorta di barriera, un dislivello...» Era una linea più scura, in rilievo, che si stendeva davanti a loro. «Sì, lo vedo anch'io adesso. Dobbiamo cercare di rallentare la corsa...» Sotto i loro piedi il vascello aveva aumentato le vibrazioni. Sobbalzava come se la sabbia immobile fosse davvero un mare impetuoso. «È un muro di roccia!» disse Khaima, che si era unita a loro. «Dobbiamo virare!» gridò Vargo, accennando ad afferrare una delle leve. Ma il vecchio lo trattenne. «Siamo troppo veloci, il vascello si capovolgerà! Prima bisogna rallentare!» Amnor spinse con forza entrambe le leve in avanti. Il vascello sobbalzò, mentre le grandi vele aeree, liberate dalla resistenza delle ruote, si impennavano aumentando la loro velocità di rotazione. Continuando a oscillare il vascello proseguiva sulla sabbia trascinato dal suo slancio. Una delle ruote urtò contro uno sperone di roccia, infrangendosi e facendo inarcare tutta la massa. Poi il vascello ricadde con uno colpo secco, proseguendo la sua corsa verso un altro gruppo di scogli di granito. «Reggetevi! Stiamo per urtare!» gridò Vargo alle Sgualdrine. Gettò loro il rotolo di corda, urlando che si legassero a un'antenna. Le due ragazze obbedirono in fretta. Avevano appena terminato di stringersi con qualche giro di fune, e si abbracciavano terrorizzate, quando con un fragore stridu-
lo il fondo del vascello toccò la massa di rocce in piena velocità. Tutta la serie di ruote del lato destro si staccò dalla carcassa, saltando via e perdendosi lontano. Il resto della struttura, privata di uno dei suoi appoggi, si inclinò su un lato, continuando a scivolare sulla sabbia, poi urtò un altro grosso masso seminascosto arrestandosi con uno schianto finale. Vargo scivolò lungo il ponte, senza riuscire ad aggrapparsi a nulla, e cadde fuori bordo. Atterrò fortunatamente su un banco di sabbia. Per un attimo rimase tramortito, poi dolorante si rialzò. Sopra di lui incombeva la massa infranta del vascello, minacciando di rovinargli addosso. Raccogliendo tutte le sue forze si allontanò correndo, un attimo prima che con uno stridore orribile tutta la fiancata si abbattesse a terra. «Dove siete?» gridò non vedendo nessuno. «C'è qualcuno vivo?» Un urlo lo raggiunse dall'alto. Legate all'antenna, che si era spezzata appena sopra le loro teste, le due ragazze gridavano aiuto. Erano ancora inebetite dal colpo, ma sembravano incolumi. Evitò appena di essere travolto da uno dei cavalli, impazzito per la paura. La bestia era riuscita a fuggire dalla stiva attraverso lo squarcio, e galoppava via seguito dagli altri animali. Trovò Amnor seduto a terra, dietro una roccia. Si teneva la testa tra le mani, cercando di riprendersi. Vedendo il giovane borbottò qualche parola, poi più distintamente: «Le donne... sono salve?». Un nuovo urlo delle Sgualdrine venne in risposta. «Maledizione a voi, qualcuno venga a scioglierci!» Assicuratosi che Amnor fosse tutto intero, il giovane tornò verso il relitto, arrampicandosi fin sotto lo spezzone dell'antenna. Le ragazze pendevano come impiccate, trattenute alla vita dalla corda, agitandosi e sbraitando. Alla loro vista, nonostante la tensione per quello che era successo, il giovane non riuscì a trattenere un sorriso. «Sembra che abbiate bisogno di un uomo, dopotutto!» disse beffardo. Un'imprecazione di Khaima fu la sola risposta. Con il braccio libero la ragazza era riuscita a estrarre da sotto le vesti il suo coltello e aveva attaccato la corda che la stringeva insieme con la sua compagna. «Attente, piccole idiote! Così vi romperete l'osso del collo!» gridò il giovane, un attimo prima che la corda cedesse. Le due ragazze piombarono verso il basso, mentre Vargo si gettava verso di loro a braccia aperte, cercando di attenuare la loro caduta. Schiacciato dal loro peso, fu trascinato lungo il ponte inclinato, e per la seconda volta precipitò sulla sabbia, in un viluppo di braccia e gambe con
le due ragazze. Si ritrovò sdraiato in terra, dolorante in ogni fibra del corpo. Khaima, saltata in piedi come una gatta, si chinò su di lui, irridente. «Chi è che ha bisogno di un uomo?» Avvertì una mano che gli carezzava i capelli intrisi di sabbia. Muovendo a fatica il collo riuscì a sollevare lo sguardo, quel tanto da intravedere il volto di Shanda, seduta su di lui, che lo fissava. Sentì accanto all'orecchio le labbra della giovane che mormorava qualche parola di ringraziamento, seguite da un bacio. Un bacio umido, sensuale, che cancellava in un colpo tutta l'aridità del deserto. Poi il viso di Shanda si allontanò bruscamente, con una smorfia di fastidio. Dietro di lei Khaima l'aveva afferrata per la massa di capelli scomposti e la tirava via con rabbia. «Che fai sorella? Non ricordi gli ordini della Signora?» Shanda sbuffò, gli occhi ancora lucidi per l'eccitazione, mentre si sistemava rapida le vesti scomposte. «Ma avrebbe pagato, dopo...» «No. Mai dopo. È la regola.» «Lasciami...» piagnucolò Shanda. «Ho voglia...» «No. È la regola. Mai per il nostro piacere, lo sai.» 10 Vargo temeva che sarebbe stato impossibile recuperare i cavalli. Erano fuggiti via terrorizzati dallo schianto, sparendo tra i crepacci delle rocce. Ma furono aiutati dallo strano comportamento delle bestie, quando già disperavano di rivederle. A una a una riapparvero tutte, scrollando le criniere. «Sembra che preferiscano noi, dopotutto» esclamò sorridente Shanda, accarezzando il muso del suo cavallo. «Hanno paura» tagliò corto Amnor, indicando le froge dilatate e le bocche coperte di schiuma. «Di cosa?» «Di quello» seguitò il vecchio, indicando un bagliore lontano. Anche Vargo aveva notato l'insolito fenomeno. Un chiarore soffuso verso ovest. «Un incendio?» «Non c'è nulla che possa bruciare, in questo deserto» scosse la testa Amnor. «Ma qualunque cosa sia, lo scopriremo presto: è sulla nostra strada.» Raccolsero tutto quanto di utile era sopravvissuto al naufragio e salirono
in sella. A mano a mano che procedevano l'orizzonte si accendeva di sprazzi di luce sempre più violenti. Il bagliore rivaleggiava con la luce del sole, ormai già alto. Continuarono a marciare, risalendo il fianco di una collina. Oltre la sommità il bagliore continuava. Quando furono sulla cima, davanti a loro apparve una grande vallata dalla forma circolare, chiusa tutto intorno da una catena di rocce aspre e invalicabili. Amnor guardò stupito, facendosi schermo agli occhi con la mano. «È il terreno che riluce, come se sopra vi scorresse dell'argento liquido...» «Sembra che la terra ribolla» disse Shanda. «Non c'è modo di aggirarla. Dobbiamo scendere verso il fondo.» Erano giunti al confine della grande pozza di fuoco. Eppure nessun calore emanava dal terreno, che continuava a risplendere di luci dai colori cangianti. Vargo smontò da cavallo e si chinò a raccogliere un frammento di pietra. Passò le dita sui suoi bordi spigolosi. «Sembra vetro» esclamò, portandolo davanti agli occhi e cercando la propria immagine nella sua superficie lucida. «Sì, vetro...» confermò Amnor, che aveva anche lui raccolto un frammento. «Tutta la valle è cosparsa di frammenti di vetro...» Si muoveva cauto, continuando a guardarsi intorno con espressione stupita. Poi di colpo si batté la mano sulla fronte. «La valle dei Riflessi, il luogo dove cadde il grande Carro! Non credevo che esistesse davvero!» Si volse verso i suoi compagni. «A Menthor, nel Cerchio delle Saggezze, se ne parlava come di una leggenda, tra gli astronomi imperiali. Un luogo oltre Hirush, nel Vuoto. Dove in un'epoca antica, prima ancora che la razza degli uomini popolasse la terra, il Carro degli dei precipitò al suolo. Tale fu la colossale potenza dell'urto che tutta la terra ribollì per miglia, infiammata dal calore dell'incendio che ne seguì. I fiumi che allora scorrevano nel Vuoto evaporarono in un istante, e le sabbie dei loro letti si fusero trasformandosi in vetro incandescente. Una rete di fiamma avvolse questo luogo, la terra stessa tremò e risuonò, scossa come una campana. Le stagioni furono sovvertite, e l'alba del giorno successivo vide la neve scendere dal cielo. I laghi di fuoco si contrassero, lottando contro il ghiaccio che li aggrediva, esplodendo in una miriade di frammenti... non credevo che la leggenda potesse essere vera. Eppure tutto qui sembra confermarla...» Si mossero con i cavalli attraverso la valle. I raggi del sole, riflessi dalla
miriade di frammenti, ferivano dolorosamente gli occhi. Tutti avanzavano cercando di proteggersi e, per quanto possibile, di non fissare in basso. La superficie vetrosa rinviava le loro immagini, spezzettate in un mosaico ossessivo. Sembrava che sotto di loro, rovesciati, altri cavalieri fossero in marcia. Sotto gli zoccoli dei cavalli i frammenti di vetro si spezzavano tintinnando. Ad un tratto Khaima gridò. «C'è qualcuno con noi!» «Dove?» chiese Vargo allarmato, cercando di scrutare intorno attraverso le fessure delle dita e mettendo mano alla spada. Non riusciva a scorgere niente, oltre loro. Le due ragazze avevano incoccato gli archi. «Dove?» ripeté Vargo. «Adesso non li vediamo più» esclamò Shanda. «Devono essersi nascosti da qualche parte» aggiunse incerta. «Ma prima li abbiamo visti. Un gruppo di uomini. Ci seguono! Sono intorno a noi!» Vargo non riusciva a vedere nulla. Anche Amnor si era immobilizzato, e cercava inquieto, configgendo con grande sforzo lo sguardo nel bagliore. Di scatto Khaima tese l'arco e lasciò partire una freccia. Il dardo sibilò nell'aria con una traiettoria tesa ad altezza d'uomo, fino a perdersi in lontananza senza incontrare apparentemente alcuno ostacolo. La ragazza imprecò. «Eppure ero certa di averlo colpito!» «Chi? Che hai colpito?» gridò Vargo. «Un uomo. L'ho visto per un attimo riflesso in una delle rocce. Era lì...» Vargo continuava a girare lo sguardo intorno, inutilmente. Cominciava a convincersi che fosse il sole implacabile la causa di tutto. Le Sgualdrine dovevano essere vittime di un miraggio. Poi sobbalzò. Davanti a lui uno sperone di vetro si ergeva dal fondo roccioso. Sulla superficie lucida vide la sua immagine a cavallo riflessa. Ma non era solo: era circondato da una turba di uomini armati, che procedevano verso la stessa direzione. Sentì sotto di sé il cavallo che si impennava. Forse era stato lui stesso, sbigottito, a dare inavvertitamente uno strappo alle redini. Oppure anche la bestia aveva visto l'immagine e si era imbizzarrita. L'animale ricadde sulle zampe e scartò all'indietro. Vargo balzò a terra trattenendo il cavallo per le redini e cercando di placarlo. La bestia continuava a recalcitrare, mentre lui provava a coprirle gli occhi con un lembo del mantello. Lentamente il cavallo prese a calmarsi. Dalla sua posizione continuava a vedere lo sperone di vetro: sulla sua superficie, come attraverso una finestra, una colonna apparentemente infinita di armati sfilava silenziosa.
«Li hai visti anche tu?» gridò Shanda, che aveva seguito le sue mosse. «Sì... c'è qualcosa...» «Che cosa?» chiese Amnor. «Che cosa avete visto?» «Non lo so... ombre. C'è un esercito invisibile che sembra marciare con noi» ripose Vargo confuso. «Chiunque siano, sembrano diretti verso il tramonto, come noi.» Amnor volse lo sguardo verso la direzione indicata dal giovane. «Anche i miraggi stanno andando verso Anharra» mormorò ironico. «Non siamo impazzite, vecchio!» gridò Shanda. «Ti dico che c'è qualcuno qui!» Colpito dal tono della ragazza, il vecchio si era fatto più attento. Si mise a fissare le scaglie di vetro, passando lento da una all'altra. Ad un tratto sembrò sussultare. «Avete visto anche voi?» chiese ansioso Vargo. Ma l'altro scosse con decisione la testa, come se volesse convincere anzitutto se stesso. «La luce e il riverbero alterano la nostra visione. Dobbiamo affrettarci a uscire dalla valle» si limitò a rispondere. Erano tutti quasi ciechi, quando il sole cominciò ad abbassarsi verso l'orizzonte. Il tramonto portò finalmente un po' di conforto e, con la luce che scendeva, i loro occhi iniziarono a sfiammarsi. Quando già le prime ombre si allungavano Amnor ordinò di fare tappa. Il terreno era ormai mutato. Le schegge vetrose di erano fatte rare, sostituite da un bassopiano di pietre e terra arida. Non c'era traccia di alberi, ma alcuni cespugli nodosi fornirono un po' di legna sufficiente ad accendere il fuoco del campo. Vargo esaminò attentamente i paraggi per assicurarsi che non vi fosse traccia dei misteriosi inseguitori delle ore precedenti. Il panorama rimandava un'immagine di assoluta desolazione, e la piattezza del terreno avrebbe reso impossibile nascondersi non solo a migliaia di uomini, ma anche a uno solo. Ma questa considerazione non lo rassicurava. Era certo di quello che aveva visto, per quanto cercasse di convincersi che si era trattato soltanto di un effetto del riverbero. Si accoccolò davanti al fuoco, tirandosi sulla testa un lembo del mantello. Il freddo della notte era sceso improvviso nel deserto. Intorno le sagome distese dei suoi compagni già sembravano immerse nel sonno. Avrebbe voluto anche lui cedere all'onda della stanchezza, ma pure questa notte,
come tante altre, il sonno era lontano. Era durante le sue campagne che aveva appreso a non abbandonarsi mai del tutto: un insegnamento dei suoi maestri, che poi aveva visto confermato ogni volta che si era imbattuto nei resti straziati di qualche pattuglia sorpresa mentre dormiva. Oppure era un altro il vero motivo, si disse serrando le mascelle. Un ricordo che non lo abbandonava mai. Le fiamme schioccavano e frusciavano, accendendo nel piccolo cerchio di pietre un coro di ombre. Sembravano muoversi verso di lui, cercarlo. Sembravano... «Sei tu, Banthor? Sei tu?» sentì la sua voce gridare. Non gli pareva di aver parlato. «Sei tu? Siete voi?» ripeté angosciato. «Dove siete?» gridò ancora, cercando intorno nelle tenebre che circondavano la piccola pozza di luce. «Banthor! E tu, Vilna! Ascoltatemi! Non vi ho tradito!» Le ombre ondeggiarono ancora. Poi, tra tutte, due parvero prendere consistenza. Lentamente si avvicinavano dall'altra parte del fuoco. Adesso Vargo ne intravedeva i lineamenti. Fece un sobbalzo, riconoscendoli. Sì, erano loro. I suoi due amici più cari. Banthor, con la sua espressione sempre seria, velata di tristezza. E Vilna, con la sua aria di eterno ragazzo, un sorriso stampato sulle labbra. Fece per alzarsi ma il più vicino lo fermò con un gesto della mano. «Aspetta» lo sentì mormorare, «non è ancora il momento.» Si sedettero davanti a lui. Erano come li ricordava. Soltanto più pallidi, e i loro tratti più incerti, come se uno schermo opaco li separasse da lui. Lo fissavano come se aspettassero qualcosa. «Non eri con noi, quella notte. Perché?» Vargo avrebbe voluto gridare. Ma la voce gli si era gelata nella gola. Fu Banthor a parlare di nuovo. «Se non ci avessi abbandonato, oggi saresti con noi. O noi con te. Come avevamo giurato. E invece stiamo andando nel luogo dove ci ritroveremo sì, ma sul fronte opposto della battaglia.» Vargo chinò il capo. «Dove siete, adesso?» mormorò a testa bassa. Gli parve che un tenue sorriso tornasse a illuminare il volto di Vilna. «In marcia, con gli altri compagni di Kendor. Muoviamo i nostri passi con te, ci ritroveremo alla corte di Vemerin.» «Eravate voi, nella valle degli specchi?» Le fiamme tremolarono. Vargo chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì, le ombre erano svanite. Una mano sulla sua spalla. «Svegliati, ed esci dai tuoi incubi!» disse una
voce ironica al suo orecchio. «Non vogliamo certo dipendere da una sentinella che si addormenta.» Vargo si scosse. Shanda lo stava guardando. Gli sfiorò con le dita la guancia, raccogliendo una delle lacrime che vi scorrevano. Portò lenta la mano alle labbra, come se volesse assaggiare il loro sapore. «Piangi» disse in un tono improvvisamente mutato. Non era una domanda. La ragazza se ne stava in piedi davanti al fuoco, la testa inclinata su una spalla. Poi lentamente si chinò su di lui. «Vieni... Noi conosciamo il segreto per dimenticare» mormorò, scivolando accanto a lui e coprendo entrambi con il mantello. All'alba Vargo fu svegliato dalla luce solare, che traspariva attraverso la trama del tessuto. L'aria gelida stava cedendo il passo alle prime avvisaglie della vampa che li avrebbe accompagnati per tutto il giorno. Era solo sotto il mantello, la testa ancora confusa per le visioni notturne. Dalla sua sacca prese un pezzetto di carta e la stecca di carbone per scrivere. Si sentiva ancora addosso il tepore di Shanda, e aspirando l'aria intorno a sé gli parve di percepire il profumo della sua pelle. Quella sensazione si sovrapponeva a un altro viso, ad altre mani, a un altro corpo.... Scosse la testa. Un fiume di parole confuse gli si affollava nella mente, parole che avrebbe voluto gridare alla donna amata. Mia Signora, vi scrivo da lontano, senza vedervi, senza più ascoltare la vostra voce che mi ha fatto amare persino la vergogna e il disonore, vi scrivo, mia Signora... All'improvviso, da dietro, una mano gli strappò la carta. Con uno scatto Vargo si protese per afferrarla, ma Khaima si era già allontanata di qualche passo, correndo via e ridendo insolente. Mentre lui cercava di raggiungerla la ragazza continuava a scartare di lato, ridacchiando e cercando di sbirciare lo scritto. «Mia Signora, vi scrivo... senti Shanda, il tuo eroe! È innamorato! Una signora, non una di noi. E senti qui...» Shanda era apparsa all'improvviso. Si parò davanti alla compagna, trattenendola per un braccio. «Rendigli quel foglio» disse dura. Poi la colpì con violenza su una guancia. Khaima si portò la mano al volto, raggelata.
Appallottolò con rabbia il pezzo di carta e lo scagliò con furia verso di lei. «E allora prendila, visto che ci tieni tanto. Povera sciocca! Sei così stupida da non capire che non prova niente per te, che non si cura di noi! Nessuno lo fa! Non è per questo che la Signora Rossa ci ha ordinato di seguirli!» Shanda esitò per un attimo, poi si avvicinò a Khaima, tendendo la mano per carezzarle con dolcezza i capelli. Khaima le scostò brusca la mano, fissandola torva. Ma fu solo per un attimo. Sorrise. Le due Sgualdrine si abbracciarono, scambiandosi un lungo bacio sulla bocca, quindi Shanda si sciolse dalla stretta, chinandosi a raccogliere il mucchietto di carta e avvicinandosi a Vargo. «È tua, riprendila» disse freddamente. «Lo so bene che il tuo cuore è di un'altra. Non serviva che Khaima me lo ricordasse. Riprendila» ripeté tendendogli la carta. «E scrivi ciò che resta. Ma ricorda che per quello che hai avuto questa notte devi ancora pagare. Quello che danno le Sgualdrine si paga sempre, lo sai.» «E come devo farlo, questa volta?» «Il prezzo è sempre lo stesso. Il dolore.» Con un moto di stizza Vargo serrò i pugni. «Ancora quel vostro rito folle?» Ma Shanda scosse il capo, con una scintilla di malizia negli occhi. «No, niente coltello stavolta...» Fece una breve pausa. «Dimmi di lei. Questa sarà la tua pena e questo sarà il mio prezzo, per oggi.» «Perché vuoi saperlo?» «Perché così ricorderai. E ritroverai la sofferenza. Hai un debito con me!» Vargo esitò, ma non poteva sottrarsi. Chinò la testa, come se stentasse a trovare dentro di sé le parole necessarie. «Una fanciulla. Alla Corte imperiale... La figlia del Duca di Verennia.» «Eveerah?» «Hai sentito di lei?» chiese Vargo ansioso. «La figlia del Duca? Il cugino dell'Imperatore? Chi non ne ha sentito parlare, nelle strade della Città? Chiusa nelle mura del suo palazzo, a Monoclos, come una perla d'Oriente» replicò astiosa Shanda. «Circondata di guardie e di servi pronti a raccogliere ogni suo capello che cada in terra, perché nulla della sua bellezza sia sfiorata da mani impure... Ma è una favola, Vargo. Ti sei innamorato di una leggenda.» «No... io l'ho stretta, l'ho tenuta tra le mie braccia.»
«Vuoi farmi credere che sei stato ammesso nelle sue stanze? Tu, un miserabile? Un reietto dell'Impero?» «Non lo ero, un tempo! Quando servivo nella Guardia imperiale venni inviato presso il palazzo. E allora la vidi.» «E dimmi, Vargo» mormorò la ragazza a denti stretti. «È... davvero così bella? Dimmelo.» Il giovane non rispose. Cercava di richiamare i suoi tratti dal profondo della memoria. La donna per cui aveva perduto se stesso. E non riusciva a ricordarla. «Più bella di me?» insistette Shanda. Sfacciata, il petto spinto in avanti verso di lui, i capelli sollevati da una mano a scoprire la nuca candida. Vargo continuava a tacere. Shanda alzò le spalle e scoppiò a ridere beffarda. «Come è breve la memoria di voi uomini! Siete creature di un'ora, come i vostri amori!» Gli voltò brusca le spalle dirigendosi verso i cavalli, impastoiati poco lontano. Amnor stava già sellando la sua cavalcatura, e anche Khaima aveva preso a raccogliere la propria roba. Per un lungo attimo Vergo restò immobile. Poi appallottolò di nuovo lo scritto che teneva in mano e lo lasciò cadere a terra. 11 Erano pronti a rimettersi in marcia. Mentre terminava di sellare il proprio cavallo Vargo ordinò a Khaima di salire su un'altura che sorgeva a poca distanza per esaminare il territorio intorno. Qualcosa lo infastidiva: forse erano l'assoluta immobilità dell'aria e il silenzio. Un silenzio troppo perfetto. La ragazza tornò dopo poco. «Ho visto qualcosa!» «Dove?» «Dietro di noi! Un gruppo di uomini accampati. Hanno dei cavalli. Sembrano seguire le nostre tracce.» «A che distanza sono?» «Appena qualche miglio. Se non ci muoviamo saranno qui prima di mezzogiorno» rispose Khaima. Anche Amnor si avvicinò. «Nomadi? O un altro branco di mercanti d'ossa?» «Non sembravano.» L'inquietudine di Vargo crebbe. «Vado io a vedere.»
«Veniamo tutti» disse Amnor. «Meglio non separarci.» Raggiunsero in fretta l'altura e salirono fin sulla cima. In lontananza, come aveva raccontato Khaima, in mezzo alla pietraia si scorgeva un certo numero di puntini neri. Altri, più grandi, segnalavano la presenza degli animali. Alcuni sottili fili di fumo si levavano verso il cielo. «Non sono nomadi» confermò Vargo. «Sembra un reparto militare. Hanno tende, disposte secondo la regola della Guardia. Una trentina di uomini, a giudicare dal numero dei fuochi.» «Gli imperiali» disse Amnor. «Sono riusciti a superare la porta. Sapevo che ce l'avrebbero fatta, ma non così presto.» «Mettiamoci in marcia. Non voglio spartire con nessuno le ricchezze che ci aspettano!» esclamò dietro di loro Shanda. «E per voi due andrebbe anche peggio, dopo la diserzione» disse Khaima, fissando ironica i due uomini. «Mai come andrebbe a voi» replicò Amnor. «Qui non c'è la Signora Rossa a proteggervi.» «Noi sappiamo proteggerci da sole, te l'ho già detto» sogghignò Shanda, lanciando a Vargo un'occhiata significativa. Procedettero senza sosta, fino a sfiancare quasi completamente i cavalli. Ormai si avvicinava il momento in cui sarebbe stato necessario fermarsi. Poi, a un tratto, Vargo credette di scorgere un riflesso ondeggiante. «Sembra che ci sia dell'acqua!» esclamò stupito. «Sembra anche a me» replicò Amnor, fissando davanti a sé. Percorsero di slancio le ultime miglia, fino a giungere a ridosso di una sorta di spiaggia. Le onde dolci della risacca si frangevano contro il declivio del deserto in una spuma bianca. Le due ragazze erano balzate a terra e correvano verso quello che sembrava davvero un mare. Khaima si immerse raggiante fino alle caviglie, scalciando verso Shanda zampilli d'acqua, poi si chinò a raccoglierne nel cavo della mano e bevve avidamente. Ma subito sputò. «È salata!» gridò con una smorfia. Anche Vargo scese da cavallo e immerse le dita nell'acqua, che appariva al tatto insolitamente densa e appiccicosa. Le chiazze bianche, che da lontano aveva scambiato per spuma, erano invece concrezioni solide che si estendevano lungo tutta la superficie della spiaggia. «Sale» confermò. «Un grande lago salato.» «Non sembra molto profondo. Forse potremmo provare ad attraversarlo» disse Shanda.
Vargo scosse il capo, dubbioso. «Non abbiamo idea di come possa essere il fondale...» «Se ne parlava, tra i cartografi imperiali» disse Amnor, chinandosi a raccogliere un frammento della sostanza schiumosa e sbriciolandolo tra le dita. I cristalli salini si sparsero scintillando tutto intorno. «Una distesa d'acqua al centro del Vuoto. Nessuno, però, aveva mai avuto informazioni abbastanza precise da poterla collocare in una delle mappe che stavano elaborando. Sale...» ripeté assorto. «Amaro è il cuore del Vuoto. Non ti disseterai sulla via per Anharra. A questo si riferivano le Tavole.» Vargo abbracciò con un'occhiata il panorama che si estendeva a destra e a sinistra. Da entrambe le parti la spiaggia si allontanava a perdita d'occhio. Aggirare il lago avrebbe richiesto un tempo incalcolabile. «Accampiamoci qui. E domani decideremo come proseguire.» Anche Amnor doveva essere immerso nelle stesse riflessioni. Annuì cupamente. «Sì, sembra che non ci sia nulla da fare, almeno per stanotte...» «Aspettate!» gridò all'improvviso Shanda indicando lontano, sull'acqua scintillante. «Forse c'è qualcuno.» Effettivamente, quasi resa invisibile dal lampo del riverbero, una macchia scura baluginava in alto tra le onde. L'oggetto, a mano a mano che la distanza dalla spiaggia si riduceva, si rivelò essere un'imbarcazione dal fondo piatto. Una sorta di barcone, che affondava nell'acqua densa fin quasi al suo bordo. A poppa, in piedi, un uomo la sospingeva verso riva a colpi di remo metodici e forti. «Sembra un traghetto. Forse potremo imbarcarci, noi e i cavalli» disse Vargo. «Speriamo che il rematore sia disposto ad accoglierci a bordo.» «Faremo in modo che lo sia» sibilò Amnor. Intanto il barcone era arrivato a poche braccia dalla riva. «Dove andate?» gridò l'uomo a poppa, puntando il lungo remo contro il fondo. Un ampio cappuccio nascondeva in gran parte il suo volto. «Qui comincia la potestà del Re. Nessuno che non appartenga alla sua Legione può passare sul mare amaro.» I quattro si scambiarono una rapida occhiata. Poi Amnor rispose pronto: «Abbiamo visto il segno. Il tempo è prossimo, lo sappiamo. E saremo tra le mura di Anharra, quando il Re tornerà a parlare». «La voce del Re è terribile. Come osate affrontarla, voi che siete ancora vivi?» gridò di nuovo l'uomo. La voce esplodeva roca dal fondo del cap-
puccio. «Abbiamo un premio per te, se ci aiuti» gridò a sua volta Amnor. Aveva estratto dalla borsa una moneta d'oro, e la tendeva alta sulla testa. Un raggio di sole brillò sulla sua superficie. «C'è la testa del Re su questo pezzo d'oro. È tuo.» L'uomo esitò per un istante, poi tornò a premere con vigore sul remo, facendo avanzare il pontone fino ad arenarlo sulla spiaggia. L'imbarcazione, dal fasciame consunto, dava l'idea di essere antichissima. Adesso Vargo poteva vedere bene il traghettatore: un uomo alto, forte sotto il mantello che lo avvolgeva fino ai piedi, e dalla carnagione pallidissima. I suoi tratti, quei pochi che si intravedevano da sotto il cappuccio, erano marcati, come scolpiti in un blocco di gesso. «Datemi il volto del Re!» esclamò sbarrando il passo con il remo a Vargo, che si era avvicinato trascinando per le briglie il suo cavallo. Amnor fu lesto a chiudere nel pugno la moneta e a nasconderla sotto la veste. «Quando saremo dall'altra parte, non prima. Come ti chiami?» L'uomo strinse per un istante le mani intorno al remo facendolo scricchiolare. Ma subito si rilassò. «Sono Rathan il traghettatore. E accetto il vostro prezzo» si limitò a dire. «Dall'altra parte salderemo i nostri conti.» Tornò a sistemare il remo nello scalmo, mentre i quattro salivano a bordo. Avevano appena iniziato a legare i cavalli ad anelli infissi nel tavolato quando il barcone si mosse sotto i loro piedi, scivolando di nuovo verso il largo. Vargo era impressionato dalla potenza della muscolatura del traghettatore. Sotto i suoi colpi di remo l'imbarcazione aveva preso ad avanzare sempre più velocemente. Il barcone si curvava gemendo nell'acqua, immergendo la prua nei flutti, e poi si risollevava con forza, spandendo intorno ondate di spuma. Uno schizzo biancastro colpì con forza il giovane al viso. Sentì un colpo violento, come se fosse stato colpito da una massa solida, e sulle labbra gli rimase un gusto amaro. Anche i cavalli sembravano innervositi dagli schizzi che li bagnavano: nitrivano, scalpitando e cercando di liberarsi dei legami. Ormai la riva del lago era sparita in lontananza. «Badate voi alle bestie» ordinò Vargo a Shanda e Khaima. Le ragazze, però, sembravano perse a osservare l'orizzonte. «C'è qualcosa nell'acqua» osservò Khaima, indicando davanti alla prua. Vargo si protese verso il punto indicato: un blocco simile a pietra splendente affiorava appena dalle onde, sulla rotta del pontone. Più avanti altri
blocchi identici si andavano infittendo. L'acqua sembrava addensarsi intorno a loro per la quantità di sale in essa contenuta. Piccole isole di cristalli iridescenti si erano già depositate sulla prua, e la barca a ogni immersione sembrava tornare su più pesante. Vargo si girò verso il traghettatore. Ma l'uomo continuava impassibile a premere sul remo, come se non avvertisse alcun ostacolo sulla sua rotta, nonostante gli urti sempre più violenti dei blocchi di sale contro la fiancata. «Guardate là!» gridò a un tratto Shanda. Sulla destra della barca si vedeva il corpo di un uomo, proteso fuori dall'acqua dal petto in su. «Rallentate!» disse Vargo, cercando di attirare l'attenzione del traghettatore. Rathan, però, lo ignorò come se non lo avesse neppure sentito. Allora il giovane si allungò ad afferrare la mano che emergeva dalle onde, proprio nel momento in cui il fianco del barcone sfiorava il corpo. Il braccio dell'uomo si spezzò di netto, restando tra le mani del giovane, mentre il resto del corpo spariva sotto l'imbarcazione. Per un istante Vargo fu assalito dal disgusto. Mollò d'istinto la presa, lasciando cadere l'arto sul tavolato. Con sorpresa lo vide infrangersi a terra, sbriciolandosi in una poltiglia di schegge. «È sale!» esclamò osservando meglio i frammenti. «Per un attimo mi era parso...» «Ce ne sono altri!» risuonò la voce di Khaima, che si era portata a prua accanto a Shanda. Un gruppo di altre forme spuntavano più avanti dall'acqua. Sembravano sagome di nuotatori, alcune immerse fino alle spalle, altre che emergevano all'altezza della vita. Di alcuni erano visibili solo le teste. Ma tutti, qualunque cosa fossero, sembravano raggelati nell'atto di protendere le braccia in alto come per afferrare qualcosa. O invocare aiuto. Sembrava che uno scultore folle si fosse divertito a disperdere sul lago gli abbozzi delle sue creazioni. Il barcone raggiunse anche questo gruppo, travolgendolo con la sua mole come aveva fatto con il primo uomo. Vargo avrebbe creduto di essere vittima di un miraggio, se il fruscio e gli schianti contro il fasciame non fossero stati lì a testimoniare che ciò che vedevano non era un'illusione dei sensi. «Che cosa sono?» chiese concitato Amnor a Rathan. L'uomo non rispose, limitandosi a un'alzata di spalle. Vargo si chinò di nuovo oltre il bordo per afferrare un altro corpo che sfilava lungo il fianco dell'imbarcazione. Era dannatamente pesante: con uno strappo riuscì a trattenerlo e a tirarlo
fuori dalle acque fino ai fianchi, prima che il blocco di sale si spezzasse precipitando tra i flutti e lasciandogli di nuovo tra le mani solo il braccio e parte della spalla. Stavolta però fu più pronto: depose con cura l'oggetto sul ponte, in modo da non danneggiarlo. Era decisamente la riproduzione di un arto umano. La mano aveva dita ben articolate, dove erano leggibili le giunture e addirittura la traccia delle unghie. «Cos'è questa pazzia...» mormorò Vargo. «Chi può aver seminato queste statue nel lago...» Anche Amnor si era avvicinato, e osservava con attenzione. «Non sono statue...» Nel punto in cui il braccio si era spezzato la massa salina non era compatta. Sembrava che l'ignoto artista avesse rappresentato anche l'interno dell'arto, con una rete sottile di venature e l'omero. Con un colpo secco il vecchio ruppe l'arto appena sotto il gomito. Apparvero la stessa rete di venature e le tracce del radio e dell'ulna. «Non sono statue» ripeté Amnor. «In qualche modo il lago ha il potere di mutare i tessuti umani in cristalli di sale. State lontane dall'acqua!» gridò alle due ragazze. «E tu, dove ci stai portando, maledetto?» «È il momento di pagare il prezzo!» disse Rathan. «Datemi la mia moneta.» Con una velocità diabolica l'uomo aveva liberato il remo dallo scalmo e lo volteggiava sulla testa. La lunga pertica percorse un semicerchio in aria e si abbatté su Vargo. Il giovane aveva colto qualcosa del movimento del traghettatore, ed era riuscito a spostarsi di poche spanne. Il remo colpì con violenza il tavolato dopo avergli sfiorato la testa, strappando al legno tarlato una scarica di schegge. «Il mio prezzo! La moneta del Re!» gridò Rathan tornando a sollevare in alto il remo. Vargo ruotò sulla schiena con uno scatto disperato, riuscendo di nuovo a evitare il colpo. Sopra di lui sibilò una freccia che andò a conficcarsi nel petto del traghettatore, seguita da un altro dardo che lo colpì sotto il collo. Le due Sgualdrine avevano impugnato i loro archi e stavano incoccando altre due frecce. Anche Amnor aveva sguainato la spada e colpì al fianco l'assalitore. I colpi ricevuti, però, sembravano non avere alcun effetto su di lui. «Deve avere una corazza sotto il mantello!» gridò Amnor. Vargo riuscì finalmente a rialzarsi ed estrasse la spada. Colpì Rathan con
precisione sotto l'ascella, sperando che quello fosse un punto non protetto. L'uomo se lo scrollò di dosso, illeso, alzando di nuovo il remo. Poi due nuove frecce lo colpirono, una di striscio alla tempia, che gli lacerò il cappuccio, mentre l'altra gli si conficcò in un occhio. Rathan afferrò la freccia per l'asta, strappandosela via con un verso acuto. «Attenti! È qualcosa...!» gridò Amnor anticipando di un istante Vargo. Non più celata dal cappuccio, la testa era adesso visibile in tutta la sua orrenda diversità: un blocco massiccio di sale, in cui i tratti umani sopravvivevano soltanto nella cavità della bocca, spalancata in un ghigno. «La moneta del Re!» gridò. «Rendetela! A me, al guardiano della sua Potestà! Si mosse avanti verso il centro del ponte, il remo ancora alto. Abbandonata a se stessa l'imbarcazione aveva preso a sbandare e a rallentare. Tutto intorno le statue erano diventate ormai centinaia: uomini, ma anche cavalli, come se un intero esercito si fosse immerso un tempo in quelle acque, subendo un'incredibile metamorfosi. In quel momento il barcone urtò contro una barriera di cavalieri, mandandoli in frantumi ma sobbalzando violentemente per il contraccolpo. Anche Rathan oscillò sulle gambe, e Vargo ne approfittò per gettarglisi addosso. Tutto l'esercizio fatto all'Accademia, ogni regola appresa gli tornavano adesso alla mente in modo istintivo. Allungare rispetto all'avversario, se maneggia un pugnale. Ma invece serrarlo, se impugna un'arma lunga, in modo da intralciargli i movimenti. A distanza ravvicinata il lungo remo diventava pressoché inutile. Sul ponte c'era un tratto di corda: Vargo lo raccolse e con uno scatto di reni scivolò lungo il fianco del colosso, agganciando la fune alle sue gambe, poi tirò con tutte le sue forze. In quel momento anche Amnor si unì a lui. Sotto la spinta dei due avversari Rathan dapprima barcollò, poi cadde pesantemente sul tavolato. Di nuovo dalla cavità che aveva al posto della bocca fuoriuscì il suo urlo orribile: «La moneta del Re!» «Aiutatemi a legarlo!» gridò Vargo alle due Sgualdrine. Le ragazze abbandonarono gli archi e si precipitarono a tirare anche loro la fune. Rathan si dimenava come una belva presa nella rete. Nella caduta un braccio gli era rimasto imprigionato sotto il corpo, ma con l'altro artigliava il vuoto intorno a sé, cercando ancora di colpire i suoi assalitori. Mentre gli
altri continuavano a stringere la corda, Amnor lo colpì ripetutamente all'articolazione della spalla. Ad ogni colpo una nuvola di schegge iridescenti si levava dal suo corpo, finché un ultimo colpo non troncò di netto l'arto. La sua furia non sembrava diminuita, ma ormai non era più in condizione di nuocere. Vargo ne approfittò per stringere ancora di più la fune, fino a immobilizzarlo. «Che cosa sei?» gli chiese Amnor. Il traghettatore mosse scompostamente il blocco che era stata la sua testa, poi urlò: «Il mio nome è Rathan! Il servitore del Re! Il custode della sua Potestà!». «Ma chi sei stato, prima di divenire... questa cosa?» insistette Amnor. «Io ero... ero...» il corpo informe ebbe un sussulto. «Non lo so... ero con quelli che sfidarono la palude, ai tempi della rivolta...» «Eri uno di loro?» chiese ancora il vecchio, indicando la massa di corpi che circondavano il barcone. Rathan, dal punto in cui era stato immobilizzato, non poteva vedere cosa l'altro stesse indicando. Ma doveva sapere bene cosa popolava la palude. Annuì. «In molti si precipitarono attraverso le acque. Ma il veleno che Vemerin aveva sparso entrò sotto la nostra pelle, si fissò nelle ossa. E a uno a uno tutti si spensero. Solo io fui salvato.» «Perché?» «Così volle il Re. Perché io custodissi la strada per Anharra.» «Perché trascinassi anche gli altri dentro la palude a morirci!» gridò Shanda, colpendo con il piede il corpo disteso. «Per obbedire al Re...» Qualcosa sembrava mutato in lui. La voce fluiva dall'apertura nella testa non più come un ruggito, ma quasi ammorbidita, come se le forze di quell'essere che un tempo era stato un uomo si andassero affievolendo. «... Finché non ne avessi rivisto il volto. C'è il suo volto su quel pezzo d'oro? Se lo vedo, allora sarò liberato... è così che ha detto Lui... datemi il mio prezzo, la moneta...» Amnor estrasse dalla sacca la moneta del Re e la tese verso la testa di Rathan. I suoi occhi ciechi non ebbero alcuna reazione visibile. Ma di nuovo la voce risuonò: «Sì, è il Re che ritorna...». Si interruppe di colpo. «È... morto?» mormorò Khaima. «Ma è assurdo... È un blocco di sale, che stiamo dicendo? Finiremo per impazzire anche noi!» «Sì, è un blocco di sale» confermò Amnor. «Ma è stato un uomo, un tempo. E, in un modo che non riesco a spiegare, ha continuato pure in questa forma a essere un uomo. Per attendere il ritorno di un Re che lo aveva condannato a questo destino orribile...»
Vargo era rimasto in silenzio a contemplare il corpo definitivamente immobile. «C'è una cosa che possiamo fare per lui. Aiutatemi.» Si appoggiò con le mani al corpo immobile e prese lentamente a spingerlo verso il bordo del pontone. Anche le due Sgualdrine si unirono a lui, fino a spingerlo fuori. Il corpo oscillò per un attimo, poi scivolò tra i flutti con un tonfo. Ruotò più volte su se stesso, poi si arrestò contro il petto di un cavaliere, come se il traghettatore fosse finalmente corso a raggiungere i suoi compagni, abbandonati da trenta secoli. «Che facciamo adesso?» chiese Shanda riprendendo fiato. «Forse possiamo farcela da soli» rispose Vargo guardando fuori bordo. La massa di sale tra i flutti si faceva sempre più densa, e presto divenne irriconoscibile tra le forme dei corpi e i vasti banchi di materia biancastra, sempre più fitti. «L'acqua sembra ormai quasi solida: fra poco dovrebbe essere in grado di sostenere il nostro peso, come i ghiacci del mare del Nord. Strappiamo delle tavole dal ponte, e cerchiamo di usarle come remi.» Una riga più scura all'orizzonte pareva indicare la costa, non troppo distante. Immersero i legni nell'acqua, prendendo a remare con energia. L'ancella si portò l'indice alle labbra, poi con un gesto della mano lo invitò a seguirla. Passarono accanto a due sentinelle semiaddormentate accanto alle loro lance. Uno degli uomini alzò uno sguardo distratto, poi riconoscendo la ragazza tornò nella sua indifferenza. Costeggiarono alcune tende da cui provenivano mormorii e scoppi soffocati di risa, fino ad un padiglione isolato. L'ancella si arrestò sull'entrata, scostando appena il lembo di tessuto che ne chiudeva l'accesso e infilando la testa nell'apertura. Vargo sentì un rapido scambio di battute in una lingua di cui non comprese il significato. Quindi la ragazza si fece di lato, lasciandolo entrare. All'interno lo spazio circolare della grande tenda era rischiarato da una lampada di ottone appesa al palo centrale. Sulla nuda terra erano stati stesi grandi tappeti che riscaldavano l'ambiente. Una figura solitaria se ne stava in piedi sotto la lampada, i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle, accesi da una chiazza di luce. Vargo la raggiunse, allargò le braccia e la strinse a sé. Cercò le sue labbra con passione. Il freddo e l'umidità della lunga cavalcata sotto la pioggia sembravano spariti d'incanto, cancellati dalla visione del volto di lei. Ma la ragazza mosse con un gesto inaspettato la testa, evitando il bacio.
Anche il suo corpo era restato rigido, senza reazione al suo abbraccio. «Aspetta, Vargo» gli disse fredda. «Devo parlarti» proseguì, puntandogli le mani sul petto e respingendolo con fermezza. Tutto il gelo e la stanchezza che aveva accumulato gli ricaddero addosso. Vargo si sentì sporco, bagnato come un cane randagio. Il tono della voce di lei aveva di colpo ristabilito la distanza che li separava. La figlia del Duca di Verennia e un giovane ufficiale della Guardia. Un uomo e una donna che mai avrebbero dovuto incontrarsi. Negli occhi della ragazza non c'era traccia della dolcezza del loro ultimo incontro. Se ne restava immobile, le braccia strette sul petto come se a sua volta volesse difendersi dal freddo che lui aveva portato con sé. Gli occhi, lontani dai suoi, sembravano guardare lontano. Improvvisamente Vargo si sentì pieno d'angoscia. Era solo, lontano dai suoi uomini. In un luogo dove mai avrebbe dovuto essere. Con qualcuno che non riconosceva più. «Non dovremo più vederci. Non cercarmi, non scrivermi più.» Le parole della ragazza gli risuonarono nel cervello come colpi sordi. Per un momento si sentì barcollare. Mosse di nuovo le braccia verso di lei, ma si trattenne subito. «Come vuoi» mormorò. «Dunque è deciso?» «Restituiscimi il ritratto. È pericoloso» disse lei, senza rispondere alla domanda. Vargo infilò la mano che aveva preso a tremare sotto la giubba, e ne estrasse un piccolo medaglione sigillato. Lo tese verso la ragazza. Nei suoi occhi gli parve di leggere un piccolo fremito, subito cancellato. Le loro mani si sfiorarono: per l'emozione Vargo aprì le dita un attimo troppo presto, lasciando scivolare il medaglione in terra. Si chinò rapido a raccoglierlo e lo tese di nuovo alla ragazza. Nella caduta si era aperto, rivelando al suo interno una piccola miniatura di smalti. Sembrava impossibile che il volto della donna che lo fissava gelida e quello del ritratto appartenessero alla stessa persona. Poteva essersi innamorato soltanto di un'immagine? «Sarò Imperatrice. Quel giorno la mia vita ricomincerà. Nulla di ciò che è avvenuto prima esisterà più.» Vargo annuì. Si raddrizzò con uno sforzo sulle spalle e fece per voltarsi. Mentre si girava avvertì una corrente d'aria improvvisa, come se qualcuno avesse sollevato il drappo che chiudeva la tenda. Davanti a lui era apparso il Duca. Alle sue spalle, davanti al padiglione, un gruppo di uo-
mini in armi. Il Duca entrò in silenzio. Mosse qualche passo verso la figlia, poi si arrestò davanti a Vargo. «Così era vero!» disse seccamente. La giovane aveva sbarrato gli occhi con un'espressione impaurita. Corse verso di lui, chiudendo il medaglione nel palmo della mano e nascondendolo dietro la schiena. «Aspettate, padre!» gridò. «Non conosco quest'uomo! È entrato di nascosto, forse è ubriaco!» Il Duca mosse gli occhi dall'uno all'altra, senza dire nulla. Sembrava pensare tra sé. Poi respinse con gesto irato la figlia. Intanto era apparso alle sue spalle un uomo più anziano. Vargo lo riconobbe: Oldan, il suo consigliere. Il Duca si rivolse al nuovo venuto. «Bisogna che scompaia. Nel nulla. Come se non sia mai esistito. Niente di questo deve giungere alle orecchie dell'Imperatore.» Vargo era inebetito. Alzò lo sguardo sulla ragazza, ma lei distolse gli occhi continuando a fissare il padre. Il Duca rivolse un cenno imperioso agli armati che aspettavano fuori, indicando Vargo. «Arrestate quest'uomo» ordinò. «Fatelo sparire.» Gli uomini cominciarono a entrare, le lance puntate verso il giovane. La mano di Vargo corse sull'impugnatura della spada. Se doveva morire, almeno avrebbe combattuto. Stava per scagliarsi contro i soldati per cercare di aprirsi un varco a forza, ma prima di poter reagire un colpo alla nuca gli fece mancare le forze. Scivolò sulle ginocchia, semistordito. La testa gli ronzava e pulsava, mentre intorno tutte le immagini si facevano confuse. Gli parve di udire la voce stridula di Oldan che diceva qualcosa. «Aspetta, mio signore. Bisogna essere prudenti.» Il consigliere si avvicinò all'orecchio del Duca. «È un ufficiale della Guardia. Se lo uccidi, la notizia della sua esecuzione potrebbe arrivare all'Imperatore. O a qualcuno dei tuoi nemici. C'è un modo migliore. Ricorda cosa sappiamo dei ribelli. A Kendor, stanotte.» Vargo ascoltava come in sogno. Che cosa voleva dire Oldan? «Fallo trattenere fino all'alba» sentì ancora la voce del consigliere. «E poi lascialo fuggire. Stanotte è un ufficiale della Guardia. Domani sarà soltanto un traditore, che ha venduto i suoi compagni per aver salva la vita. Morto, il suo cadavere potrebbe gridare la verità» riprese fissando severo la ragazza. «Vivo, nessuno ascolterà la sua voce.» Il Duca aveva ascoltato perplesso, ma annuì. «Forse hai ragione» disse bruscamente. Si avvicinò di nuovo a Vargo, afferrandolo per il mento e costringendolo brutalmente a sollevare il capo. Per la prima volta lo fissò
in volto con attenzione. Lo sguardo gli corse alla cicatrice sulla fronte, stupito. «Questo segno...» mormorò. «Come lo hai avuto?» Vargo cercava di tenere sollevato il capo, mentre tutto intorno il padiglione continuava girare. Il Duca si era avvicinato fin quasi a sfiorarlo. Sentiva l'odore dolciastro del suo fiato. «Trattenetelo qui» lo udì ordinare. «All'alba legatelo al suo cavallo e abbandonatelo sulle colline.» Le guardie lo circondarono e una mano dal guanto ferrato lo afferrò alla nuca costringendolo a chinarsi di nuovo, mentre altre mani lo prendevano per le braccia, legandogli i polsi dietro la schiena. Poi un cappuccio gli fu calato in testa, accecandolo. Sentì la veste della ragazza che lo sfiorava, ma lei non si fermò e passò oltre senza una parola. Poi un nuovo colpo alla testa lo schiacciò al suolo, privo di sensi. Si risvegliò con la sensazione che il mondo sotto di lui tremasse. Provò ad aprire gli occhi, ma dovette faticare non poco per mettere a fuoco le immagini. Poi finalmente, vincendo un dolore lancinante alla testa, si rese conto di giacere in groppa a un cavallo, le braccia legate attorno al suo collo. La bestia si muoveva pigra, indifferente al suo cavaliere, brucando qualche ciuffo d'erba che spuntava tra le pietre. Lentamente stava tornando in sé. E con il ritorno della coscienza tornavano i ricordi della notte precedente. E il dolore. Prese a dimenarsi per sciogliere le mani. Chi lo aveva legato non aveva stretto particolarmente i nodi. Riuscì a liberarsi rapidamente. Il luogo in cui si trovava era a ridosso delle colline, sulla strada per Kendor. Dette di sprone, strappando un nitrito di dolore alla bestia. Spingendo ventre a terra il cavallo si inerpicò lungo le forre e le strettoie del passo, diretto all'accampamento dei suoi uomini. A mano a mano che avanzava, cominciò a riconoscere i luoghi con sempre maggior precisione. Finalmente, dopo diverse ore, si infilò nel canalone che conduceva al passo. Un senso di angoscia crescente si stava impadronendo di lui: ormai avrebbe dovuto cominciare a vedere le prime vedette, incrociare un posto di guardia. Un silenzio pesante gravava su tutto il luogo, rotto soltanto a tratti dallo stridio dei corvi che passavano alti nel cielo. A un tratto il suo cavallo scartò nitrendo, mentre le sue zampe sfioravano un corpo disteso nell'erba. Vargo arrestò la bestia con uno strappo di
redini e balzò a terra. Il corpo indossava la divisa della Guardia ed era immerso in una pozza di sangue raggrumato, uscito da un ampio squarcio alla gola. Poco più oltre, disteso dietro un masso che lo nascondeva alla vista, il corpo di un altro soldato giaceva trafitto da una freccia che doveva avergli trapassato con precisione il cuore. Vargo sguainò la spada e si inerpicò camminando chino verso l'alto. Le tende del presidio erano ancora in piedi, senza particolari tracce di violenza. Sembrava che la compagnia le avesse abbandonate in fretta. Ma per andare dove? Scostò l'apertura di una di esse: l'interno era stato messo a soqquadro completamente, i letti da campo rovesciati, le sacche degli uomini vuotate del loro contenuto. Uscì veloce, esplorando di seguito altre due tende, con gli stessi risultati. Poi udì netto avanti a sé un rumore crescente di uomini in marcia. Spronò e si tolse dalla strada del fondovalle, risalendo lungo il fianco del canalone fino a una grande roccia, dietro la quale nascose il cavallo. Si acquattò in silenzio, aspettando. Dopo poco il rumore si concretizzò: una colonna di ribelli scendeva lungo il canalone che portava al passo. Uomini a cavallo seguiti da un numero imprecisato di fanti, armati in modo approssimativo ma sufficienti a sgominare un piccolo esercito. Vargo fu colpito dalla tranquillità con cui discendevano verso la valle, senza nessun drappello in avanscoperta, e senza nessun supporto sulle ali dello schieramento. Come se non temessero alcun pericolo. Come se sapessero che davanti a loro non c'era nessuno a contrastarli. Gli tornarono in mente le parole del Duca e del suo consigliere, le ultime parole che aveva sentito. Dov'erano gli altri? Dov'erano tutti? 12 Cavalcavano ormai da ore per una vasta pianura sassosa, coperta di una vegetazione ispida. Rari cespugli spinosi intervallati ad alberi solitari. Poi, improvvisamente, quello scenario spoglio mutò. La superficie appariva adesso costellata da frammenti di oggetti sparsi, resti di attrezzature, armi spezzate dalle lame corrose dal tempo. E da centinaia di piccoli dossi, stranamente simili gli uni agli altri. Piccole montagnole di terra e sassi.
«Tombe. C'è stata una battaglia, qui» disse Vargo. Raccolse da terra i resti di quello che doveva esser stato il proiettile di una balestra. Il fusto di legno era spezzato, ma la punta di bronzo appariva ancora integra, le lame contrapposte appena coperte di ossido verdastro. «Devono essersi scontrati migliaia di uomini. E molti di loro non sono mai usciti da questa piana.» «Ne devono essere sopravvissuti abbastanza da sotterrare i caduti» osservò Amnor. Le tombe sembravano disposte a casaccio, come se i cadaveri dei caduti fossero stati deposti nello stesso punto in cui avevano esalato l'ultimo respiro. «Ma devono averlo fatto in fretta, come se temessero qualcosa. Non si sono nemmeno preoccupati di raccogliere i corpi per un rito funebre.» «Forse la battaglia era ancora in corso. E i loro compagni temevano di essere sorpresi dal nemico.» Vargo mosse qualche passo tra le tombe. «Posto che siano stati i loro compagni a farlo.» «Perché dici questo?» «Non sono stati seppelliti. Guarda!» Il giovane indicava con la mano una tomba ai suoi piedi. Dal monticello di sassi fuoriuscivano i resti di una mano scheletrica, le dita ancora contratte in uno spasmo. «Non hanno scavato. Si sono limitati a coprirli appena con poca terra e sassi. Come se volessero soltanto sottrarli alla vista. Come se... aspetta.» Una delle dita del morto era ancora circondata da un cerchio d'oro, su cui baluginava il segno rossastro di una pietra. Un rubino splendido, di grande valore. «Non hanno nemmeno depredato i corpi» disse Amnor. «Scommetto che se scoperchiassimo altre tombe scopriremmo che sono stati lasciati qui con tutte le loro vesti e ogni altro oggetto di valore.» Vargo sguainò la spada e prese a smuovere delicatamente le pietre sulla sommità di un'altra sepoltura. Subito sotto la superficie la lama incontrò resistenza. Affondò la punta un paio di volte, suscitando un tenue rumore metallico. «Metallo. C'è un'armatura, qui sotto. Avevi ragione. Sono stati abbandonati con tutte le loro armi... ma perché?» Mosse ancora qualche passo, in cerca di una risposta. Più avanti, ad alcune centinaia di passi, quello che sembrava un dosso molto più alto degli altri si levava a spezzare l'uniformità del paesaggio. «Io lo so.» Vargo si voltò di scatto, stupito. Accanto a lui il vecchio fissava la scena con un'espressione assorta. «Adesso lo riconosco, il sangue e il dolore...
Sulle Tavole di Menthor erano solo parole, ma ora...» Fece una breve pausa. «Questa è la piana di Megan. È qui che l'armata di Vemerin annientò le truppe dei ribelli. Fu lui a ordinare che i morti dell'una e dell'altra parte non fossero sepolti. Ma solo nascosti alla vista...» «Ma perché?» «Così gli suggeriva la sua mente sconvolta...» mormorò. «Perché fossero pronti al suo richiamo. Quando l'Armata dei vivi e dei morti fosse tornata a marciare sulla terra. Perché questo accadrà quando...» Le sue parole furono interrotte da una risata. Le due Sgualdrine avevano strappato l'anello al morto e se lo stavano contendendo. Finalmente Khaima sembrò avere la meglio su Shanda. Si sistemò l'anello al dito e si avvicinò, sventolando la mano trionfalmente al sole e ammirando il gioiello. «Sta meglio sulla mia mano che su quella di quella mummia!» disse allontanando da sé con un'ultima spinta Shanda. Amnor la fissò duramente. «Non è tuo. Hai fatto male a rubare a coloro che aspettano. Rendilo.» Per tutta risposta la ragazza alzò le spalle con una smorfia sprezzante. Poi tese ancora la mano, ostentando l'anello. «Digli di venire a riprenderselo! Adesso è mio!» gridò. «Nessun uomo mi ha mai offerto cose del genere. Ho imparato a prendermele.» Il vecchio sembrò sul punto di replicare qualcosa, ma Vargo li richiamò. «Venite, c'è qualcosa, qui!» Il giovane si era mosso verso l'altura poco lontana. A distanza era sembrata un'irregolarità nel terreno, ma adesso si rivelava per qualcosa di completamente diverso. Pareva che un'enorme botte metallica fosse stata abbandonata sul terreno. Vargo l'aggirò con cautela. L'interno appariva lacerato e contorto, come se una mano gigantesca l'avesse schiacciata a terra. I resti di quelle che sembravano due enormi zampe si allungavano inerti, aggredite dalla ruggine. Per certi aspetti ricordava uno dei carri da battaglia imperiali, ma molto più grande e dalla forma insolita. Anche Amnor si era avvicinato, impressionato. «È una macchina... una macchina che doveva muoversi...» esclamò indicando le zampe allungate sul fianco, ancora connesse al corpo infranto da grandi ruote dentate. «È stata distrutta dal fuoco» disse ancora, osservando le tracce di combustione sul metallo. «C'era il fuoco, al suo interno... che è divampato incontrollabile. Forse è stato appiccato dai suoi assalitori... oppure era proprio il fuoco che le dava vita, sostenendo il suo movimento...»
Vargo si avvicinò di più al dorso ricurvo. In diversi punti la corazza era stata trapassata dai colpi delle balestre, che si erano aperti un varco nel fianco. Vide almeno tre grandi frecce che erano ancora conficcate nel metallo. «Alla fine gli assalitori hanno sventrato la macchina.» Amnor annuì. «Sì, dev'essere andata così. I colpi delle balestre hanno raggiunto le sue profondità, dove ardeva il fuoco della macchina. Una caldaia sigillata, forse, cui è stato tolto di schianto il coperchio...» Si voltò verso Vargo, gli occhi illuminati da quel fervore che il giovane aveva imparato a riconoscere ogni volta che il vecchio avvertiva la presenza di Vemerin. «Un altro segreto che il Re si è portato nella tomba. Lì, accanto a Lui, troveremo la memoria di tutto quello che le Tenebre gli hanno insegnato! Anche il moto di questi colossi! Pensa a cosa potrebbe fare un esercito in grado di affrontare i suoi nemici correndo all'assalto tra una schiera di queste bestie!» Amnor continuava a fissarlo. «Se soltanto potessi riportare con me il loro segreto, se potessi donarlo all'Imperatore...» «L'Impero?» esclamò disgustato Vargo. «Avete visto di che cosa sono stati capaci i suoi soldati. I villaggi devastati, gli uomini sterminati. Le donne torturate, i bambini sventrati. E tutto questo ricorrendo solo alla ferocia degli uomini e alle loro armi. Una potenza smisurata, nelle mani avide di un tiranno. Un tiranno che ci ha espulsi dalla nostra terra, senza alcuna pietà. E voi vorreste donargli una forza invincibile?» Il vecchio fece uno strano sorriso. «Eppure potremmo ricomprare la nostra grazia, non credi?» «Non a questo prezzo!» Amnor esitò un istante. «E se potessimo comprare molto di più?» «Cosa?» L'altro sembrò sul punto di rispondere, poi si strinse nelle spalle. «Avanti» tagliò corto. «La strada è ancora lunga, e gli imperiali sono sempre alle nostre spalle.» «Il lago salato li rallenterà. Sono costretti ad aggirarlo.» «Sì. Ma lo faranno.» 13 Ormai si stava avvicinando il tramonto, l'ora dell'unico pasto quotidiano. «Cercate dei rami per accendere il fuoco» ordinò Vargo alle ragazze. Shanda stava rovistando nelle sacche delle provviste raccolte al villag-
gio. Rispose con un'alzata di spalle. «Servirà a poco, oltre che a scaldarci le ossa. Abbiamo finito il cibo. Non c'è più nulla.» Vargo controllò anche nella sacca della sua sella, ma la ragazza aveva ragione. Pure l'acqua negli otri cominciava a scarseggiare. Di fronte a loro il deserto continuava a perdita d'occhio. Solo più avanti, a parecchie miglia di distanza; si intravedevano le prime alture di una zona collinare, e alle loro spalle l'ombra di montagne più alte. «Da quella parte» disse il giovane. «Il terreno sembra meno sterile. Forse c'è della vegetazione e dell'acqua. E magari animali da cacciare. Vado io.» Rimontò a cavallo, poi, prima di dare di sprone, pensò che sarebbe stato meglio tentare in due. Fece cenno a Shanda di seguirlo. Contava sulla sua abilità con l'arco, se si fossero imbattuti in qualcosa. Percorsero al trotto tre o quattro miglia, diretti verso le alture. Come aveva intuito, a mano a mano che si avvicinavano alle colline il paesaggio mutava con inattesa rapidità. Prima qualche ciuffo d'erba ispida, alternato a radi cespugli, poi una vegetazione sempre più folta e alta, che giungeva a sfiorare i fianchi dei cavalli. Vargo indicò alla ragazza un boschetto di canne sulla loro destra. Sembrava il rifugio ideale per qualche specie di uccelli. Silenziosamente le fece cenno di aggirare la macchia, quindi si separarono. Il giovane proseguì, cercando di muoversi con la massima cautela per non spaventare le possibili prede. Ma il passo pesante del cavallo tra i rami doveva averlo tradito. Percepì un suono all'interno del boschetto: le cime delle canne si agitarono, l'erba frusciava. Qualcosa si stava muovendo rapidamente. E stava puntando dritto verso di lui e il suo cavallo. Vargo non riusciva a vedere. Scorse solo un'ombra nera, per un istante, che poi scomparve. Sguainò la spada, pronto a difendersi. Anche il suo cavallo doveva aver percepito il pericolo: si era arrestato di colpo nitrendo, e adesso sventagliava l'aria con rapidi movimenti della testa, fiutando e ansimando come se cercasse di riconoscere dall'odore la natura della minaccia. Poi si piantò immobile sulle quattro zampe, riottoso ai colpi di sprone con cui il giovane cercava di imporre la sua volontà, e quindi si inarcò violentemente, cercando di liberarsi del suo cavaliere. Vargo si aggrappò con la mano libera al collo dell'animale, resistendo
con tutte le sue forze per non essere disarcionato. Calcando gli sproni con energia riuscì a ricondurre il cavallo a terra, appena in tempo per vedere aprirsi i cespugli davanti a lui e sbucare fuori una massa scura, e una chiostra di zanne spalancate pronta a colpire. Per un momento pensò di essersi imbattuto in un orso, ma l'animale si muoveva troppo rapidamente. Si avventò contro il fianco del cavallo emettendo un verso sconosciuto, una specie di grugnito sibilante, tentando di morderlo. Vargo sfilò veloce la gamba dalla staffa, evitando che venisse stritolata dallo scatto dei denti, poi calò un fendente della spada sulla strana testa che aveva afferrato la correggia della staffa. Tirava con forza incredibile, trascinando verso di sé il cavallo che nitriva terrorizzato. Calò rapido un secondo colpo, e sentì la lama urtare contro la struttura ossea del cranio, senza però riuscire a infrangerla. L'animale sconosciuto, comunque, allentò la presa. Lasciò la staffa e arretrò di qualche passo, tornando a sparire nei cespugli. Vargo non si illudeva: l'effetto del colpo sarebbe stato solo momentaneo. Tentò di far allontanare il cavallo, ma non fece in tempo. Un attimo dopo, infatti, la massa scura tornò a schizzar fuori dall'erba, spiccando un salto che la portò quasi all'altezza del suo petto. Questa volta Vargo riuscì a vederla bene: la bestia ricordava un grosso cinghiale, ma era coperta di squame come un serpente. Aveva una testa massiccia, con la mascella possente, e sotto la gola le cresceva una specie di cresta che assomigliava ad una barba umana. Trascinata dal balzo la belva superò la groppa del cavallo, ricadendo dall'altra parte. Dietro le reni aveva una lunga coda, che sibilò come una frusta accanto al suo orecchio. Prima che potesse sparire di nuovo tra l'erba folta, Vargo vide il grosso aculeo con cui terminava la coda, simile a quella di uno scorpione. Fece impennare il cavallo nella direzione verso cui l'animale si era allontanato, in modo che la massa della sua cavalcatura si frapponesse sulla direzione di un altro attacco. L'intuizione era stata giusta: con uno scatto l'animale si era voltato ed era tornato ad attaccare, spiccando un altro salto vertiginoso. Il cavallo nitrì di dolore: era stato colpito. Vargo scorse dall'alto per un istante l'animale stretto tra le zampe del cavallo, un istante sufficiente per consentirgli di sferrare una stoccata contro la sua groppa. Un verso agghiacciante, stridulo e acuto, rispose al suo colpo. Di nuovo
la coda acuminata saettò verso di lui, mancandolo e conficcandosi sul collo del cavallo. La bestia, impazzita per la paura e il dolore, scartò violentemente, scivolando e abbattendosi su un fianco. La caduta era stata così repentina da non dare a Vargo il tempo di reagire. Si ritrovò anche lui a terra, la gamba immobilizzata sotto il peso dell'animale, che continuava a scalciare e a nitrire. Si sentì perduto. Protese la spada in avanti, cercando di proteggere la testa dall'attacco che sarebbe giunto implacabile, mentre cercava di liberarsi. Tentò di strisciare fuori, ma i movimenti scomposti del cavallo rendevano inutili tutti i suoi sforzi. Vide di nuovo agitarsi le cime delle canne, a poche braccia da lui. Poi la massa scura, irta di zanne, spuntò di nuovo allo scoperto. Calcolò che avrebbe potuto al massimo sferrare un colpo di spada, prima di soccombere. Puntò la punta della spada verso il corpo massiccio che gli si precipitava addosso. La bestia aveva spiccato il suo balzo impressionante. Ma qualcosa di lucente la intercettò a mezz'aria, strappandole di nuovo un grido lacerante. La massa rovinò addosso a Vargo inerte, dandogli modo di colpirla con la spada all'attaccatura della zampa anteriore con il petto. La bestia ricadde a pochi palmi dal suo viso, ansimando e vomitando boccate di sangue nero. Gli occhi vitrei conservavano ancora un guizzo della luce maligna con cui avevano deciso per la sua morte. C'era qualcosa di incredibilmente umano in quei tratti ferini, pensò Vargo mentre riusciva finalmente a liberarsi dalla stretta del cavallo. Alzò lo sguardo. Shanda gli stava sorridendo beffarda. Doveva avere sentito i rumori della lotta ed era tornata indietro. «Non pensavi che ti avrei lasciato fare a pezzi da un cagnaccio, vero?» lo sbeffeggiò la ragazza, afferrandogli il braccio per aiutarlo a rialzarsi. «Chissà, potresti sempre servirmi, in queste notti così fredde... Vargo, il grande guerriero!» Parlando la ragazza si era avvicinata alla bestia. Un singulto le sfuggì, quando vide meglio la forma che giaceva immersa nel suo sangue. «Ma per gli dei, che cos'è?» esclamò sconcertata. «Sembra una Manticora...» Vargo cercava di tranquillizzare il cavallo. La ferita che l'aculeo della belva gli aveva inferto non era profonda, e nella piaga non sembrava esserci traccia di veleno. Cercò nella sacca qualcosa per tamponare il sangue.
«E cosa sarebbe?» insistette la ragazza, ancora con il viso deformato da una smorfia di disgusto. «Un mostro. Un nome che ho letto da qualche parte. Una leggenda delle terre del Nord. Qualcosa creato da un dio furioso, mettendo insieme un uomo, un leone e uno scorpione.» «Forse non avevano torto, quelli che scrissero i tuoi libri. Adesso che ce ne facciamo?» Vargo si strinse nelle spalle. «Eravamo venuti a cacciare, no?» In silenzio Amnor aveva esaminato a lungo la testa e la coda della belva, che Vargo e Shanda avevano riportato insieme con quelle parti che avevano giudicato più commestibili. Mentre le due Sgualdrine provvedevano alla cottura della preda su uno spiedo di fortuna, Vargo osservava l'espressione preoccupata del vecchio. «Non è certo un buon segno» disse alla fine il giovane, vedendo che l'altro non usciva dal suo mutismo. «Pensare di trovarne altre sulla nostra strada» seguitò, accennando alla carcassa «mette i brividi. Ma almeno non sono invulnerabili.» Raccontò brevemente come si era svolto lo scontro, e Amnor annuì pensieroso. Sembrava distratto da qualcosa. Poi, finalmente, si decise a parlare. «Quella cosa. Non mi preoccupa la sua pericolosità. Nessuna belva è davvero pericolosa per un uomo. Ma qualcos'altro. Hai visto la sua testa?» Vargo gettò un altro sguardo. «Sì, è strana. Ha davvero qualcosa di... umano...» «Sono le sue proporzioni a sconcertarmi. La distanza tra gli occhi: non sono collocati sui lati della fronte. Quell'animale ha lo stesso campo visivo dell'uomo. E la sua scatola cranica. È troppo sviluppata in confronto al corpo, se la bestia era grande quanto hai detto.» «Forse è davvero una Manticora. Credevo che fossero una favola.» «Infatti. Questa bestia è diversa... Sarà bene stare in guardia, stanotte.» All'alba si rimisero in marcia. Le ore si succedevano lente, sotto un sole feroce. Vargo sentiva le labbra e la pelle del volto bruciata dalla brezza arida. Poi all'improvviso il vento che soffiava costante da sud mutò direzione. Adesso giungeva dalle loro spalle, portando con sé un impasto di suoni appena percepibile. Più di una volta il giovane si era voltato a guardare indietro. Anche i ca-
valli sembravano nervosi. Lontano una cortina di polvere aveva preso ad alzarsi. «C'è qualcuno laggiù» disse Khaima. Vargo si sollevò sulle staffe per vedere meglio. Poi indicò una catena di rilievi rocciosi sulla loro destra, spronando il cavallo. «Seguitemi, presto!» Penetrarono in un canalone, nascondendosi nel dedalo di crepacci che si perdevano tra le collinette, alte non più di una trentina di braccia. «Legate i cavalli e coprite loro le teste con le coperte, perché non nitriscano. Voglio vedere con chi abbiamo a che fare.» Si inerpicarono sulla collina, scalando faticosamente la parete scoscesa. Quando furono in cima la massa di polvere si era fatta più corposa, e già cominciavano a intravedersi numerosi punti scuri al suo interno. Avvicinandosi assumevano la forma definita di uomini e donne a cavallo, e anche il suono che li accompagnava si faceva più definito. Una specie di preghiera, poche frasi incomprensibili ripetute ossessivamente, senza apparenti variazioni. Gli uomini erano armati di lunghe lance, mentre quasi tutte le donne portavano legati alle spalle sacchi multicolori dai quali proveniva un pianto di bambini. Avevano i volti completamente coperti di una tintura bianca, che le rendeva simili a statue di gesso. «Uno dei Popoli del Vuoto» sussurrò Amnor. «Credo che siamo i primi a vederli, e a essere ancora vivi.» «Aspetta a dirlo, vecchio» sibilò Khaima, sdraiata al suo fianco. «Stanno piegando verso di noi. Forse non è stata una buona idea, metterci così in trappola da soli.» «Non credo che ci abbiano visti» rispose Vargo. «Siamo sempre stati sopravvento, rispetto a loro. E poi i nostri cavalli erano esausti, avrebbero finito per raggiungerci comunque. Speriamo soltanto che tirino dritti.» Quasi a volerlo smentire la tribù, come in risposta a un ordine misterioso, si era arrestata davanti alla collina. Da quella parte l'altura terminava con una parete a picco. Gli uomini e le donne, continuando a salmodiare, smontarono dai cavalli avvicinandosi al muro di roccia e prendendo a percuoterlo. Gli uomini colpivano con le loro lance, mentre le donne li imitavano a mani nude, apparentemente insensibili al dolore. Vargo esitava a sporgersi per vedere meglio, temendo che qualcuno dal basso potesse scorgerli. Si spostò strisciando sul ventre verso uno spuntone alla sua destra. Lì sarebbe stato invisibile a chiunque. Poi cautamente si spinse in fuori.
Lo strano rito proseguiva, mentre il tono della preghiera sembrava aumentare via via d'intensità. Anche i colpi contro la roccia si facevano sempre più forti. Quasi tutte le donne avevano ormai le mani insanguinate. Ai piedi della parete cominciavano ad ammonticchiarsi numerosi frammenti di pietra staccati dai colpi. «Che diavolo stanno facendo?» chiese Shanda, che era strisciata accanto a lui. D'un tratto, come a un segnale convenuto, tutta l'orda cessò di battere: gli uomini arretrarono di un centinaio di passi, mentre le donne trafelate prendevano a raccogliere con le mani piagate i frammenti di roccia, spargendoli intorno senza un ordine apparente. Gli uomini assistevano all'opera continuando a salmodiare le loro parole incomprensibili. Non era nessuna delle lingue che Vargo aveva avuto modo di ascoltare sul confine. Un suono tra gli altri si ripeteva con ossessività: Nester. Nester. Vargo si volse verso Amnor, che si era anche lui cautamente avvicinato, assieme a Khaima. «Nester? Avete mai sentito questa parola?» Amnor scosse il capo. «Sembra tutto privo di senso...» seguitò a bassa voce il giovane. «Forse no...» replicò Amnor, soprappensiero. «Forse no...» «Vi dice qualcosa?» «Una pagina delle Tavole... Egli tornerà nel deserto, essi spianeranno la strada ai suoi passi, essi...» Un grido troncò il sussurro del vecchio. Tra le fila dei guerrieri era apparsa una donna dall'aspetto completamente diverso. Era rivestita di una veste sontuosa, fatta di intarsi delle sete multicolori che a Menthor ricoprivano i corpi delle figlie della nobiltà. Giovane, il volto dai tratti bellissimi e libero dalla maschera bianca di tutte le altre, i capelli raccolti in una tiara tempestata di gocce di vetro lucente, da cui fuoriusciva qualche ciocca color biondo. La donna aveva levato le braccia nude al cielo e avanzava verso la parete di roccia con passo incerto, l'espressione assente di chi sia immerso in una visione. Intorno la moltitudine si apriva al suo passaggio con reverenza, o forse con timore. Sembrava che temessero di essere toccati dalla donna, che dava l'impressione di non vedere dove si stesse dirigendo. Accanto a sé Vargo avvertì un fremito: le due ragazze sembravano parti-
colarmente colpite dalla scena. Fissavano quello che avveniva a occhi sgranati. Khaima aveva afferrato il polso di Shanda e lo stringeva spasmodicamente. Anche Amnor seguiva lo spettacolo con la mascella serrata per la concentrazione. Ormai nessuno sembrava più preoccuparsi di tenersi celato. Per fortuna anche la massa in basso sembrava avere occhi solo per la donna, che continuava ad avanzare. A un certo punto i suoi piedi raggiunsero la zona dove erano stati sparsi i frammenti: barcollò violentemente, sul punto di perdere l'equilibrio, ma si riprese e continuò procedere. Si arrestò a poche braccia dalla roccia. Alle sue spalle i guerrieri avevano preso anche loro ad avvicinarsi, come se avessero vinto il timore di prima. Una ventina di loro si dispose alle sue spalle, le lance puntate contro il cielo, intonando ancora più forte quella specie di preghiera. All'improvviso, tutti tacquero. La sacerdotessa era ancora immobile davanti alla parete di roccia, le mani levate in alto. Poi, come se le forze l'avessero improvvisamente abbandonata, le sue braccia scesero lungo i fianchi e chinò il capo. Con uno scatto ferino, all'unisono, le lance alle sue spalle scattarono verso di lei, trafiggendola. Un sapore acido salì alla bocca di Vargo, mentre assisteva allo strazio di quel corpo inerme. La donna non aveva emesso nemmeno un lamento. La vide reclinare il capo e afflosciarsi, mantenuta in posizione eretta dalle lance dei suoi carnefici. Vargo sentì accanto a sé il movimento convulso di Shanda, che cercava di sfilarsi dalla spalla l'arco. Anche Khaima aveva già le mani sull'arma e si apprestava a incoccare una freccia. Con uno scatto si protese in avanti. Afferrò saldamente il braccio della ragazza, costringendola a restare immobile, mentre con la mano libera cercava di trattenere a terra Shanda, allontanandola dal ciglio. Le due lottavano con tutte le loro forze per liberarsi. «Dobbiamo vendicarla!» soffiò Khaima. «Tu non capisci!» «Siamo tutti perduti, se ci scoprono! È inutile attaccare in queste condizioni!» Dovette ricorrere a tutte le sue forze per vincere quella battaglia silenziosa. Le due ragazze si divincolavano come gatte inferocite, poi lentamente si calmarono. Avevano gli occhi pieni di lacrime. Amnor non aveva distolto lo sguardo dalla scena sottostante. «Guardate»
disse cupo. Gli uomini avevano sollevato il corpo in alto, sulla punta delle lance, e avevano preso a muoversi in circolo, calpestando il pietrisco con passi cadenzati, mentre intonavano di nuovo la loro litania. Dalle ferite della donna il sangue fuoriusciva in una pioggia di stille, bagnando la pietra. Al segnale di uno di loro, i guerrieri abbassarono le armi e deposero il cadavere in terra. Di nuovo un profondo silenzio si abbatté sul luogo, spezzato soltanto dal rumore sinistro delle lame che venivano ritratte. Anche i vagiti dei neonati sembravano cessati. Poi un mormorio si riaccese, mentre la turba degli uomini e delle donne lentamente tornava verso i propri cavalli e riprendeva il suo cammino. I quattro attesero che la massa fosse lontana prima di ridiscendere dal loro nascondiglio. Amnor si chinò sulla vittima. C'era poco da scoprire, anche per un celebre medico. Ma il vecchio sembrava più interessato alle vesti della ragazza. Più volte ne toccò un lembo con le dita, come se cercasse qualcosa. Anche Shanda e Khaima si avvicinarono, e con una pietà inattesa cercarono di ricomporre il corpo come potevano. Quindi presero a coprirlo con i frammenti di pietra staccati dalla parete. Vargo le aiutò, ancora sconvolto per quella morte atroce e assurda. Che senso poteva avere tutto quel macabro cerimoniale? Quando il corpo fu scomparso sotto il rozzo tumulo, le due ragazze si disposero ai suoi due lati. Mormorarono qualcosa, poi si voltarono con le spalle alla tomba. Khaima versò dell'acqua in terra, mentre Shanda raccoglieva un pugno di sabbia e la gettava nel vento. «Che qualcuno pianga sulla tua tomba, che la terra ti sia leggera, sorella!» ripeterono ad alta voce tre volte. Amnor aveva seguito attento il piccolo rito. «... bagneranno la tua strada di sangue» mormorò. «Come?» sussultò Vargo. «Una delle profezie riportate nelle Tavole. Mi si impresse nella memoria, quando la lessi. Sui fatti che accompagneranno il ritorno di Vemerin... i suoi Popoli. Spianeranno la strada... non capisci? È quello che hanno fatto, frantumando la roccia. E il resto, uccidendo la ragazza e spargendone il sangue. Da trenta secoli fanno questo, per propiziare il ritorno del Re.» «Ma chi era la vittima?» chiese Vargo, ancora sconcertato per quella spiegazione. «Non sembrava certo una donna del Vuoto.»
Amnor scosse il capo. «No, certo.» Accennò con il capo a Shanda e Khaima, che sedevano silenziose in disparte. «Credo che la Signora Rossa abbia perso una delle sue figlie, e loro una delle sorelle del Cerchio.» 14 «Più avanti. Se la mappa è giusta, oltre questi monti dovremmo incontrare la rocca di Turma, dove avevano sede gli Arcani. Coloro che eressero la tomba del Re» disse Amnor. Riavvolse la pelle e la ripose nella sacca. «Sulle carte di Menthor c'era scritto che vi si trova ancora il segreto della sua costruzione. Se c'è una possibilità di scoprirlo, è lì che è nascosta.» Proseguirono lungo la salita rocciosa. A ogni tornante il passo dei cavalli si faceva stanco e incerto, e la marcia procedeva più lenta di quanto il giovane avesse stimato al momento di affrontare la salita. Buona parte della giornata era già trascorsa, e più di una volta le bestie avevano scartato pericolosamente sull'orlo del dirupo. Vargo dette ordine di scendere e di proseguire a piedi. «Coprite con un panno le teste dei cavalli!» Il sentiero si era fatto strettissimo. Ormai dovevano strisciare lentamente, passo dopo passo, con il fianco contro la parete. In più, stava calando la notte. Vargo cominciava a perdere la speranza di poter salvare i cavalli, che continuavano a scalciare nel vuoto nitrendo di paura, quando all'improvviso il sentiero prese a farsi meno aspro, concedendo una tregua. Più avanti la catena montuosa riprendeva ancor più impervia, ma in quel punto apparvero tracce evidenti della mano dell'uomo: qualche arnese doveva aver scheggiato la roccia in modo da allargare il passaggio. Su uno degli speroni che costeggiavano il cammino comparve all'improvviso una torre imponente, a picco sullo strapiombo. Era immersa in un'oscurità totale, senza alcuna traccia di vita. «È questo di cui parlavi?» chiese il giovane. «Sembra disabitata.» Amnor scosse la testa, dubbioso. «È troppo vicina... ma è la prova che qui ci sono stati degli uomini, almeno un tempo. Dobbiamo essere sulla strada giusta.» Rinfrancati mossero da quella parte, dapprima con cautela. Ma a mano a mano che si avvicinavano lo stato di totale abbandono della costruzione si faceva più evidente. Legarono i cavalli alla base della costruzione circolare, poi le Sgualdrine
si lasciarono cadere sulla nuda roccia, esauste. «Ormai è buio. Accampiamoci qui» disse distrattamente Amnor, mentre tutta la sua attenzione era rivolta alla costruzione che incombeva su di loro. Anche Vargo, di fronte a quello spettacolo, sembrava aver dimenticato la stanchezza. Osservava con attenzione l'edificio: un immenso pinnacolo di pietra, su cui soltanto a un'altezza vertiginosa si aprivano delle strette finestre ad arco acuto. Sulla sommità della torre il tetto era rappresentato da una specie di cuspide irregolare che si perdeva altissima nel cielo notturno. «Misuriamone le dimensioni» disse Amnor. «Tu gira nell'altra direzione, e conta i passi finché non ci incontreremo.» Vargo si avviò, costeggiando il perimetro e scandendo i suoi passi a mano a mano che procedeva. Era arrivato a contarne centoquaranta quando intravide nell'ombra la sagoma del vecchio che gli veniva incontro. «Circa trecento passi di circonferenza» decretò Amnor. «Gli architetti di Vemerin hanno eretto una torre enorme. Non ho incontrato alcuna apertura, sul mio cammino.» «Nemmeno io» disse Vargo. «Non esiste una porta d'ingresso. Niente!» confermò, tornando ad osservare con attenzione la costruzione. «E poi...» «Cosa?» «Le pietre con cui è stata eretta. Devono essere enormi» aggiunse indicando la base dell'edificio, che si curvava senza interruzione. Una superficie netta e lucida come uno specchio. «Non è possibile...» mormorò stupefatto Amnor. «Forse più in alto...» Vargo raccolse da terra un ramo secco, poi vi avvolse un lembo di coperta e lo incendiò pazientemente con il suo acciarino. Quando la tela asciutta ebbe sviluppato una fiamma sufficientemente luminosa, la lanciò verso l'alto, badando che volasse il più possibile accosto alla muraglia. Ne seguì con attenzione la macchia luminosa che saliva e poi ridiscendeva. «Niente! Non c'è alcuna traccia di commessure. È pazzesco...» Amnor continuava a fissare nelle tenebre, verso l'alto. Poi abbassò lo sguardo abbracciando il panorama intorno. La torre era stata eretta proprio al colmo dello sperone di roccia, in una posizione praticamente inespugnabile. A parte lo stretto sentiero d'accesso, da tutti gli altri lati la montagna precipitava scoscesa verso il basso. Poi, di colpo, il suo sguardo si illuminò. «Certo! Ecco come hanno fatto. Gli architetti di Vemerin erano capaci davvero di imprese colossali...» esclamò, la voce carica di un improvviso tono di rispetto. «Non capisci? La torre non è stata eretta! Quella guglia, lassù! Non è al-
tro che la cima della montagna, o quello che ne è restato. Hanno scolpito la roccia viva, riducendola e dandole forma di torre. Quello che abbiamo davanti non è un edificio, ma la montagna stessa. Hanno portato via una quantità immensa di roccia, facendola precipitare lungo i costoni del monte. Hanno scavato per un'altezza, vediamo...» Amnor tornò rapido verso il suo cavallo ed estrasse qualcosa dalla sacca, poi tornò ad avvicinarsi alla base della torre. Vargo vide che aveva in mano una sorta di piccolo triangolo metallico. Lo portò all'altezza degli occhi, poi sollevò uno dei suoi lati mobili, in modo che si allineasse idealmente con la cuspide della torre. Le labbra del vecchio si muovevano silenziose, come se fosse immerso in un rapido calcolo. «Se il suo diametro è di circa cento passi, la sua altezza deve essere almeno dieci volte tanto...» «Ma qual è il suo senso, se non è possibile entrarvi?» chiese Vargo. «La prima apertura è quella coppia di feritoie, ad almeno trenta braccia di altezza. Chi ha costruito la torre deve averlo fatto per un essere capace di volare.» Amnor scosse la testa. «Vemerin era un uomo come gli altri. Se riusciva ad entrarci lui, ci riusciremo anche noi. Ma abbiamo bisogno di riposo. E di luce. Domani all'alba troveremo un modo, ne sono certo.» «Perché è così importante?» «È un'opera incredibile. Pensata per proteggere qualcosa di altrettanto incredibile. Voglio sapere cosa c'è dentro. E anche tu lo vuoi.» Vargo annuì, dopo solo un attimo di esitazione. A poca distanza le Sgualdrine avevano acceso un fuoco e disposto in terra le coperte per la notte. Vargo si distese accanto a loro, imitato da Amnor, dopo aver masticato rapidamente un boccone di carne secca. Si abbandonò al torpore, cullato dal respiro regolare di Shanda. Osservava il suo viso addormentato, i lunghi capelli sparsi. Allungò la mano, per un istante, come per accarezzare la cascata di fuoco che fuoriusciva da sotto la coperta della ragazza, ma poi la ritrasse. Chiuse gli occhi. All'alba la torre, illuminata dai raggi del sole che si riflettevano sulla sua superficie liscia, appariva ancora più alta e sinistra. Ciò che avevano intuito la sera prima, veniva confermato dal primo chiarore. La torre era costituita da un singolo blocco di roccia, scavato direttamente nel masso, senza alcuna apertura in basso. A un'altezza smisurata cominciava una serie regolare di finestre, e prima di queste l'unica altra apertura erano due strette feritoie.
«Non sembra che la luce del giorno renda la situazione migliore» disse Vargo. «Se riuscissimo ad arrivare a una delle feritoie, forse uno di noi potrebbe tentare di arrampicarsi fin lassù» osservò Amnor. «Nelle nostre sacche c'è della corda. Se provassimo a legare i pezzi tra di loro, forse ne ricaveremmo una lunghezza sufficiente.» «Ma non c'è modo di andarla a fissare così in alto» obiettò Vargo. «Un modo c'è» si intromise Shanda, che aveva ascoltato il breve scambio di battute. «Prima verificate che la corda sia sufficiente, e poi lasciate fare a me e a Khaima.» Rapidamente i due uomini raccolsero ogni spezzone di corda che potessero trovare, comprese le pastoie e le brighe dei cavalli, e li legarono saldamente tra di loro. Amnor ne misurò rapido la lunghezza con le braccia distese. «Circa venticinque, ventisei braccia. Forse può essere sufficiente. Ma come fissarla alle feritoie?» «Credete che le nostre virtù si limitino all'arte di riscaldare i letti degli uomini?» osservò sarcastica Shanda. «Sia io che Khaima siamo in grado di attraversare con una freccia la feritoia. Se si dispone di traverso rimarrà imprigionata oltre la muraglia e tratterrà la corda. Il resto, poi, credo sarà affar tuo, bel cavaliere» aggiunse con uno sberleffo rivolto a Vargo. «Può funzionare» borbottò tra sé Amnor. «A patto di trovare una freccia che sia in grado di reggere il peso di un uomo. «Nessuna freccia può farlo» osservò Vargo. «Un normale quadrello di certo no. Ma se trasformassimo in freccia la lama di una delle nostre spade corte, allora sarebbe possibile. La corda sostituirebbe le penne di coda, per la direzione, e con un po' di fortuna...» «Ma quale arco può scagliare a quell'altezza una lama di ferro, e in aggiunta il peso della corda che la segue? Se avessimo a disposizione una balista imperiale...» «Un solo arco non può farcela. Ma due, tesi allo stesso momento, forse sì» insistette Shanda. Vargo cercò intorno un frammento di roccia dalla forma adatta, poi con pochi colpi ben assestati liberò dell'elsa una delle spade delle ragazze. Loro, d'altra parte, sembravano prediligere l'arco, in combattimento. «Adesso abbiamo la freccia» disse, annodandovi strettamente la corda poco dopo la metà e tendendola verso le Sguadrine.
Shanda la soppesò sul palmo della mano per saggiarne peso ed equilibrio, poi si sfilò l'arco dalla spalla, imitata dalla compagna. Afferrò i due archi, li accoppiò saldamente, quindi si sdraiò sulla schiena, sollevando le gambe e ponendo i due archi sotto le piante dei piedi. Tese con sforzo evidente le corde, mentre la sua compagna incoccava la lama, poi sembrò cercare il bersaglio con piccoli aggiustamenti nella posizione delle gambe. Una forte nota metallica seguita dal fruscio della corda che si avventava in alto segnò il momento in cui la ragazza aveva scoccato. Vargo seguì la traiettoria fulminea della lama che scintillava al sole, fino a vederla penetrare in una delle due feritoie, accompagnata dal grido di giubilo delle Sgualdrine. La corda trascinata dallo slancio sembrò per un attimo sul punto di sparire anch'essa oltre l'apertura, ma solo per poi ricadere indietro trascinata dal suo stesso peso. Il capo libero si arrestò a poche braccia da terra. Vargo con un salto la raggiunse e vi si aggrappò tirandola verso il basso con tutto il suo peso. La corda sembrava resistere. Ripeté più volte l'operazione, finché non fu certo che la lama si fosse ancorata saldamente. Quindi si afferrò alla corda, puntando i piedi contro la parete di pietra per sostenere una parte del suo peso, e cominciò a issarsi a forza di braccia. Appena sollevato sufficientemente da terra si passò un giro di corda intorno ai fianchi, in modo da ancorarsi in qualche modo in caso le sua mani perdessero la presa. Salì il primo tratto di corda senza difficoltà. Ma già verso la metà dell'ascesa i suoi movimenti presero a farsi affannosi. La parete sembrava interminabile. Sotto di lui le sagome dei suoi compagni, che seguivano le sue mosse a naso in su, si facevano sempre più piccole, e anche le loro grida di incoraggiamento sembravano giungergli sempre più flebili. Un paio di volte dovette sostare per riprendere fiato, affidandosi all'anello di corda, e ogni volta con uno sforzo di volontà riprese ad issarsi. Era allo stremo quando finalmente riuscì ad aggrapparsi al davanzale della feritoia. Le sue dita rattrappite dal dolore percepirono al di là della parete di pietra gli anelli metallici di una catena: ansimando si afferrò a uno di essi e con un ultimo colpo di reni si gettò di peso attraverso l'apertura. Vargo si ritrovò all'interno di una vasta sala circolare, ingombra di oggetti dalla forma indefinibile. Lungo le mura erano allineate un gran numero di rastrelliere, dalle quali pendeva una profusione di spade, lance ed elementi di armature. Pensò di essere penetrato in quello che doveva essere
stato l'antico corpo di guardia della torre. Sulla parete, accanto alla feritoia da cui era entrato, scorse una grande ruota di legno rinforzato da bandelle metalliche, connessa con un rullo su cui era avvolta una lunga catena. Era una sorta di argano. Probabilmente parte di un meccanismo creato per consentire in qualche modo l'ingresso nella torre. Provò ad agire sulla ruota, prima in un senso poi nell'altro. Sembrava bloccata definitivamente dall'immensità del tempo trascorso dall'ultima volta che aveva ruotato sul proprio asse. Alla fine, dopo un ultimo strappo inferto da Vargo con tutte le sue forze, la macchina cigolando si mosse. Una sezione della parete si aprì lentamente verso l'esterno, creando una sorta di balconata in corrispondenza delle feritoie, sulla quale apparve la struttura di un ponte di legno sospeso alle catene dell'argano. Vargo ne saggiò la struttura con il manico della spada: nonostante la vetustà il legno appariva ancora sufficientemente solido. Nel tempo le sue fibre avevano subito un processo di stagionatura simile alla pietrificazione. «Ho trovato il modo per farvi salire!» gridò affacciandosi alla feritoia. Poi riprese ad agire sulla ruota, facendo lentamente discendere l'antico montacarichi. Amnor fu il primo ad apparire all'imboccatura dell'ingresso. Poi fu la volta di Shanda e Khaima. Subito Amnor prese ad esaminare ogni particolare del luogo. Sopra le loro teste un'immensa struttura di travi, coperta da un tavolato, stava a indicare che si trovavano solo al primo piano della costruzione, e che più in alto dovevano esserci molti altri piani fino alla guglia. Sul fondo della sala una scala di pietra saliva lungo la parete circolare perdendosi oltre un'apertura nel solaio. Vargo, la spada in pugno, prese a salire, seguito dagli altri. Il piano superiore, a differenza del corpo di guardia, era illuminato dalla luce che penetrava da numerose finestre aperte. Lo spazio era quasi completamente occupato da lunghe tavole, ricoperte da una miriade di contenitori di vetro. All'interno, si intravedevano forme confuse. Sembravano feti, ma inumani, deformi. Vargo fece per fermarsi, ma Amnor lo trascinò via. Salirono ancora. Il pavimento della nuova sala era ingombro di grandi casse di legno grezzo disposte alla rinfusa, come se fossero state accumulate rapidamente, senza un ordine preciso. Alcune giacevano rovesciate, altre appoggiate in verticale contro le pareti. I loro coperchi erano stati fissati con chiodi ribat-
tuti, come se coloro i quali le avevano un tempo sigillate volessero essere ben certi che avrebbero resistito per sempre. Amnor si muoveva in giro, sfiorando con le dita le casse. «Mi sembra... sì, mi sembra di avvertire qualcosa» disse a un tratto il vecchio, ritraendosi di un passo. «Dobbiamo aprirne una.» Dopo un attimo di esitazione Vargo raccolse un'ascia abbandonata in un angolo. Il ferro era completamente coperto di ruggine, ma sembrava ancora solido. Colpì più volte con violenza la cassa, sollevando una nuvola di schegge e di frammenti metallici, finché vide cedere una delle assi. Dalla crepa ebbe l'impressione che fluisse un fiotto di vapore scuro, mescolato a un odore intenso di marcio. Colpì ancora, strappando ad ogni urto frammenti più ampi del coperchio. Nella cavità scura baluginava qualcosa di biancastro. Fece un passo indietro. «Vemerin ha trasformato la sua torre in un cimitero...» mormorò nauseato. Dentro la cassa c'era un corpo rattrappito. Di colpo il mucchio di ossa si mosse, franando in avanti e distendendosi ai loro piedi con un movimento scomposto. Shanda e Khaima gridarono. Davanti a loro c'era una cassa toracica dalle dimensioni smisurate e una scatola cranica sulla quale si aprivano quattro cavità oculari. Dietro le scapole massicce spuntavano le rastremazioni di grandi ali, una delle quali nella caduta si era aperta, allargandosi sul pavimento simile a un ventaglio di ossa e vecchia tela polverosa. Anche Vargo represse a forza un grido di orrore, vedendo gli artigli simili a lame di rasoio. Ma non riuscì a vincere l'istinto che lo costringeva ad arretrare, seguendo le ragazze verso il centro della sala. Come loro fissava le altre casse. Amnor invece non sembrò turbato da quella vista. Si era inginocchiato accanto alla carcassa. «Vemerin è risalito ai tempi della Creazione, con il suo sapere» mormorò come parlando a se stesso. Aveva gli occhi lucidi per l'emozione. «A quando gli dei discutevano tra di loro sulla forma da dare al proprio dominio. E gli esseri più diversi balzavano tra le loro mani, e la vita veniva accesa e spenta per gioco. Ma il Re è andato oltre. È stato più saggio della loro potenza...» «Tu bestemmi, vecchio!» gridò Shanda. Aveva afferrato l'amuleto che portava al collo, una sorta di corona di piccole pietre, e le percorreva con le dita mormorando qualcosa. «Nessun dio avrebbe pensato a dar vita a un mostro come questo!»
Amnor la liquidò con un gesto sprezzante, rivolgendosi a Vargo. «Molti anni fa, sui monti Azzurri, furono trovate ossa gigantesche, e vennero trasportate all'Accademia di Menthor perché fossero studiate dai saggi dell'Impero. Là furono ricomposte: grandi animali presero forma, risorgendo da antiche ere. Draghi possenti, che avevano calcato la terra contendendone il dominio passo a passo ai nostri avi.» Si fermò per un attimo, socchiudendo gli occhi come se stesse rivivendo nell'immaginazione quelle forme che aveva visto. «Ma non c'era nulla di incredibile in loro» riprese in tono freddo. «L'ombra della divinità era debole, persa nei loro enormi corpi, affievolita in una massa ottusa e superflua. Inadatti a sopravvivere! Ma questo» disse indicando il mucchio orribile, «questo è ben altra cosa... Guarda!» Vargo, vincendo il disgusto, fece un passo avanti. Amnor aveva sollevato il cranio dell'essere. «Guarda la disposizione degli occhi! Studiata in modo da consentirgli un campo visivo di gran lunga superiore a quello umano. E l'articolazione delle ali! Guarda la trama della loro muscolatura, ancorata ai fianchi e agli arti inferiori, in modo da lasciar libere le braccia. Quest'essere si sarebbe trovato a perfetto agio anche sulla terra, e non costretto a saltellare come un goffo uccello...» Con uno scatto corse verso le scale. «Dobbiamo vedere cosa c'è negli altri piani! «Aspetta!» provò a obiettare Vargo, ma il vecchio era già sui primi gradini. Lo vide sparire nel vano della botola, prima ancora di poter accennare a una reazione. «Seguiamolo» ordinò alle ragazze. Mentre saliva vide scolpiti sulla parete alcuni caratteri. Sembravano tracciati in fretta, graffiati in modo ineguale... Qui si ferma la potenza delle Tenebre. Amnor, trascinato dal suo strano entusiasmo, vi era passato davanti senza apparentemente notare la scritta. Anche Vargo proseguì. Spuntò dalla botola con cautela, temendo di incontrare dei nuovi orrori. Ma il piano superiore sembrava soltanto l'interno di una enorme fornace. Un tempo il fuoco doveva aver devastato tutto, carbonizzando anche la superficie di pietra delle pareti. Qua e là sopravvivevano ancora i resti delle travi dei solai superiori, che dovevano esser precipitati quando le fiamme li avevano aggrediti. Alzò gli occhi: sopra di loro la torre si ergeva completamente vuota per tutta la sua altezza, come un camino smisurato.
«Qualcuno deve essersi ribellato a tutto questo» disse Vargo. «Chi ha scatenato l'incendio deve averlo fatto per cancellare questo abominio. Chissà di quali altri orrori il Re folle aveva riempito gli altri piani della torre.» Amnor si guardava anche lui intorno. Era evidentemente deluso. «Sembra che sia così... Ma perché non hanno distrutto anche i primi due piani? «Per lasciare una testimonianza della sua perversione!» disse Shanda, che li aveva raggiunti. «Perché chiunque fosse giunto in questo luogo in seguito potesse rendersi conto di che cosa quel pazzo stava per scatenare sulla terra!» aggiunse Khaima. Vargo continuava a guardarsi attorno. «No, forse no... Forse non è questo il motivo» mormorò all'improvviso. «Forse non è stato qualcun altro, ma lui stesso!» «E perché, allora?» gli chiese Khaima. «Non capite? A ogni piano dette vita a uno stadio delle sue ricerche: ascoltava le Tenebre e seguiva i loro insegnamenti. E intanto sprofondava nella follia. Ma forse, in uno dei suoi ultimi istanti di lucidità, deve essersi reso conto di quello che stava prendendo forma qui dentro.» Fece una breve pausa. «Ne sono certo. E anche quelle parole sul muro sono state scritte da lui.» Amnor si volse verso il punto indicato. Si avvicinò alla scritta, che vedeva adesso per la prima volta. «Sì, è possibile. Questa è la sua mano...» disse toccando i caratteri graffiati sulla pietra, come se volesse assorbirne attraverso le incisioni la forza di chi le aveva impresse. «Ma non significano quello che tu pensi. È un grido d'orgoglio.» «E per cosa?» «Prima seguì i loro insegnamenti, poi andò oltre. Lassù» seguitò puntando la mano in alto «ha creato qualcosa di terribile. Da solo.» «Andiamocene!» esclamò Shanda con un brivido. Amnor toccò ancora una volta la scritta, poi parve riscuotersi. «Sì, muoviamoci. È nella sua città che troveremo le risposte che cerco.» 15 L'ancella si introdusse silenziosa nella vasta sala. Si avvicinò ad un tavolo di legno scolpito e vi depose sopra il piatto di frutta che stringeva tra
le braccia. Poi dopo un rapido inchino tornò verso la porta. «Ordina a Marca di venire da me.» La donna aveva parlato senza voltarsi. Era in piedi, davanti a una finestra schermata da una delicata tenda di mussola. Fissava davanti a sé i lontani edifici che chiudevano l'orizzonte al di sopra del mare di casupole che circondavano il suo palazzo. L'ancella sparì silenziosa come era apparsa. Passarono pochi istanti e un'altra giovane fece il suo ingresso. «Eccomi, Signora» si limitò a dire, fermandosi a qualche passo di distanza dalla donna, che continuava a guardare nella stessa direzione. Si era inginocchiata, in attesa. «Le insegne dell'Impero sventolano sulle guglie del Palazzo» disse la donna. «Dunque l'Imperatore ha abbandonato la residenza per porsi alla testa delle sue truppe» aggiunse in tono ironico. «L'Imperatore è sempre felice di trovarsi tra uomini» ridacchiò Morva. «Che siano i suoi o di altri. Ma quanto all'affrontare una campagna...» La donna si voltò verso la ragazza. Era alta, rivestita di un lungo velo scarlatto che le scendeva fino alle caviglie. Il tessuto, disposto con maestria, sottolineava anziché nascondere le forme del suo corpo statuario. Anche il viso, dai tratti imperiosi, era completamente ricoperto da una sorta di lacca rossa che sfumava sulla fronte nel colore identico dei capélli, acconciati in una miriade di trecce. Sarebbe stato difficile attribuirle un'età precisa: solo il tono grave della voce ne rivelava la maturità. La Signora Rossa si mosse verso Morva e le sfiorò con benevolenza la testa con la mano. «Puoi rialzarti, mia cara» disse traendola a sé con una carezza. «Chi guida allora le truppe?» «Si dice il Duca di Verennia, il cugino dell'Imperatore. O almeno le sue insegne sono state viste alla piana di Singha, dove si concentrava l'esercito» aggiunse Morva in tono cauto. «Sì, anche io trovo strano che il Duca abbia deciso di allontanarsi da Menthor proprio in questo momento» mormorò la Signora dopo un attimo di riflessione. «Sa bene che soltanto qui può tentare il suo gioco, e sperare nella nostra benevolenza.» «Confida nel nostro aiuto.» «Sa che lo avrà. Senza di noi non avrebbe mai l'ardire di sfidare il cugino.» «E lo farà?»
«Sì. Ma solo un'ora dopo che noi avremo avvertito l'Imperatore. È questo che non sa.» Corse di nuovo con lo sguardo al palazzo lontano. «Che notizie hai delle mie figlie?» «Hanno seguito la colonna come avevi ordinato. E preso contatto con i due uomini che si nascondono tra i soldati.» «E poi?» La ragazza esitò un attimo. «La Guardia ha attaccato la Porta. Da quel momento non abbiamo più ricevuto alcun messaggio... ho inviato un'altra sorella sulle loro tracce.» «È successo loro qualcosa?» mormorò la Signora con un fremito. «No... non nello scontro, almeno. È stato segnalato il loro carro, abbandonato. Ma di loro nessun segno. Non erano tra i caduti, né tra i feriti delle battaglie.» «Battaglie?» «La porta ha resistito. Gli imperiali hanno dovuto andare all'assalto due volte prima di averne ragione. Shanda e Khaima sono scomparse nell'intervallo tra i due attacchi.» La Signora emise un sospiro di sollievo. «Sono abili. In qualche modo devono essere passate per prime. Sapevo di potermi fidare di loro. E devono essere con quei due. Adesso dobbiamo solo attendere, e sperare che in qualche modo riescano a mettersi in contatto. Nel Vuoto nemmeno noi abbiamo informatori.» «Signora?» «Dimmi.» «Posso farvi una domanda?» La donna sorrise. «Lo sai che ho un debole per te, Morva. Puoi chiedermi quasi tutto» rispose poi, carezzandole la guancia. «Perché è così importante questa missione? Aiutare degli uomini?» Aveva pronunciato l'ultima parola senza riuscire a trattenere un certo tono di scherno. «Sono esseri capricciosi, figlia mia. Oppressi da sogni e maledizioni, ed entrambi troppo deboli per combattere. Eppure qualche volta uno di loro scopre una piccola verità. Come quel vecchio: pieno di boria e di sapienza inutile e confusa. Ma ci ha dato la prova che la città perduta esiste davvero, e così i tesori del Re. Abbiamo bisogno di quelle ricchezze, se vogliamo condurre a buon fine il disegno. Per questo era necessario aiutarlo nella sua impresa.»
«L'uomo vi ha rivelato quello che aveva scoperto?» La Signora scoppiò a ridere. «Non credo che sappia di averlo fatto. Ma il vino e il canto delle Sgualdrine aprono tutte le porte. Ogni segreto opprime il cuore come un macigno. Basta saper aspettare, e viene sempre il momento in cui anche il più discreto degli uomini cede. Anche per lui, Amnor di Memnon, è venuto il momento: due anni fa, nella penisola di Mergon, dove cercava di sfuggire alla caccia degli imperiali. È lì che ha incontrato Shila dai capelli d'oro.» «E l'altro, il giovane? Quello che chiamano Vargo?» La Signora alzò l'indice. «Non pronunciare mai quel nome. La sua è una storia diversa. Ma anche lui ha qualcosa da darci, figlia mia.» «E cosa?» La donna tornò a guardare lontano, oltre la finestra. «Il suo sangue, Marva» mormorò. «Il suo sangue.» Vargo e i suoi compagni ripresero a salire, penetrando all'interno della catena montuosa tra creste di roccia sempre più alte. «Siete sicuro che sia la strada giusta?» chiese preoccupato al vecchio. «Forse...» rispose Amnor. «Sì, ci siamo!» Gli zoccoli dei cavalli erano tornati a risuonare sulle pietre di basalto nero. L'antica strada era riemersa dal nulla, come per incanto, e si snodava davanti a loro affondando dritta nella roccia. Anche qui le pareti del canalone mostravano segni inequivocabili dell'opera dell'uomo. Continuarono per alcune miglia in un paesaggio scabro, senza la minima variazione. Dopo una curva la strada sembrò terminare contro una parete a picco, posta di traverso a chiudere la via. «E adesso?» esclamò Shanda. «Non è possibile» replicò il vecchio. «Deve esserci un passaggio, forse una galleria sotto il monte.» «Non mi sembra di vedere nulla» disse Vargo. «La roccia sembra compatta... A meno che...» Un segno più scuro era visibile sulla parete, che risaliva verso l'alto con degli stretti tornanti. «C'è una rampa!» esclamò il giovane, quando furono più vicini. Alla base della parete la strada piegava da un lato. Anche qui, come nella torre, la montagna stessa era stata modellata per piegarla ai desideri di un uomo. Terrazze dietro terrazze si succedevano per realizzare un camminamento tanto largo da poter essere percorso anche da quattro uomini
affiancati. Amnor si era arrestato e guardava pensoso verso l'alto. Vargo ne approfittò per scendere di sella ed esaminare la bestia, che da qualche tempo aveva preso a recalcitrare, zoppicando. Si chinò a osservare la zampa: una fessura attraversava tutta l'unghia, e il garretto si stava gonfiando. Dietro di lui anche i cavalli delle ragazze si avvicinarono sbuffando e di malavoglia. «Le bestie sono stanche» disse. «Forse è meglio farle riposare.» «Anche noi siamo stanche» rispose Shanda, «non solo le tue bestie. Sembra che tu abbia più attenzioni per loro che per noi... E abbiamo sete!» Le riserve si erano andate assottigliando, e gli otri pendevano ormai semivuoti dalle selle. Vargo si guardò intorno in cerca di un segno che lasciasse sperare nella presenza di acqua. Ma non c'era nulla. «No. Dobbiamo raggiungere la cima della montagna» borbottò Amnor. «C'è un segno sulla mappa, forse una parola, che non sono riuscito a decifrare. Probabilmente un insediamento, dove potremo trovare dell'acqua. La strada sale fino lassù, e deve esserci un passo, ne sono certo.» «Oppure il luogo ideale per un agguato» obiettò Vargo, osservando le pareti di roccia a strapiombo. «Forse» replicò il vecchio. Ma in ogni caso è meglio affrontarlo finché c'è luce.» Il cammino si faceva sempre più aspro, a mano a mano che risalivano lungo i tornanti. A ogni passo i cavalli rischiavano di scivolare sulle pietre sconnesse. Il gruppo procedeva cauto. Verso la sommità, la cresta del monte sembrava spaccata da un taglio netto. Vargo alzò gli occhi, attirato da uno stridio. Sulle loro teste roteavano stormi di uccelli, che avevano i loro nidi più in alto. Parevano avvoltoi, dalle grandi ali distese. Per un attimo il ricordo dell'essere alato della torre gli ghiacciò il sangue. «Sembrano aspettarci» mormorò preoccupato, mentre si infilava per primo nel canalone. In quel punto le pareti del corridoio di pietra si restringevano sempre più, costringendoli a disporsi in fila indiana. Vargo si girò verso Amnor. «Sei sicuro che sia la direzione giusta? Di qui non potrebbe passare neppure un carro.» Amnor indicò verso terra. «Vedi le lastre di basalto? Siamo ancora sulla strada. Ma è successo qualcosa.» Tornò a indicare in basso, questa volta verso i bordi della fessura. Le pietre nere apparivano sollevate e spezzate. «Un tempo la strada era molto
più larga. Un terremoto deve aver scosso tutta la catena di montagne. Le due pareti si sono avvicinate, stritolando tutto quello che incontravano come una tenaglia.» Vargo sentì un brivido corrergli lungo la schiena al pensiero che potesse accadere di muovo. «Avanti, affrettiamoci» disse spronando il cavallo. «Meglio uscire prima possibile.» A un centinaio di passi la fenditura nella roccia si apriva su uno spazio libero. Amnor fece segno di arrestarsi, estraendo dalla sacca la pelle arrotolata. «Dovremmo essere qui» disse indicando la mappa, dopo una rapida occhiata. «Ma non c'è segnato nulla. Il passo sembrerebbe molto più lungo. Forse è soltanto una dilatazione momentanea del canalone...» Percorso il breve spazio, la strettoia fra le pareti di pietra si allargava in un vasto anfiteatro naturale. Vargo girò lo sguardo tutt'intorno. Erano entrati in un pozzo, del diametro di un centinaio di passi. In alto sulle pareti si apriva una miriade di piccole caverne, simili a bocche da forno. «Che cosa è questo...?» chiese Vargo. «Non ho mai visto niente di simile.» «Io sì» rispose il vecchio dopo un attimo di silenzio. «A Khoran, nella cripta del santuario. Il Silenzio. Dove riposano i monaci dopo la morte.» «Sono tombe?» chiese Khaima con una smorfia. Shanda aveva afferrato il suo amuleto e mormorava qualcosa. Poi, a voce più alta: «C'è mai qualcosa di vivo sulla vostra strada, uomini?» chiese. Il lastricato di basalto si interrompeva al centro della cavità, là dove una polla d'acqua affiorava gorgogliando dal terreno. Qualcuno aveva eretto intorno alla sorgente un anello di piccoli massi, trasformandola in una sorta di piscina. Intorno spuntavano dalla roccia alcuni alberelli, alla cui chioma era stata data un'insolita forma piramidale. «Cimitero o no, qualcuno però deve averle tagliate, quelle piante...» disse Vargo. Poi ci fu un movimento lungo le pareti del pozzo. Con una vibrazione rapida dai fori nella pietra una miriade di filamenti scendeva verso terra. Vargo si ritrasse d'istinto e sfoderò la spada. Anche i cavalli avevano percepito un pericolo. Nitrivano terrorizzati. Le Sgualdrine avevano lanciato il loro grido di allarme, disponendosi schiena contro schiena, gli archi in pugno. Subito dopo dalle cavità emersero delle forme scure, che si lasciarono
cadere come ragni lungo i filamenti fino ad allinearsi intorno alle pareti. Erano uomini. Forse un centinaio, ricoperti da lunghi mantelli che li avvolgevano come bozzoli. Solo le facce pallide emergevano dai cappucci. Vargo faceva muovere il cavallo in cerchio, minacciandoli con la spada. Ma quelli non sembravano volerli aggredire. Uno di loro, lentamente, si fece avanti. La fronte alta e prominente spariva sotto il cappuccio. Le vesti erano simili a quelle di tutti gli altri. Solo una banda rossa sull'orlo del mantello distingueva i suoi abiti. «Lasciate parlare me» sussurrò Amnor a denti stretti. «Chi siete?» lo interruppe l'altro. Aveva parlato nell'antica lingua sacra. La sua voce era fredda e incolore. Anche il volto glabro e pallido sembrava impassibile, lo sguardo fisso in un punto incerto dell'orizzonte. «Mercanti di Hirush» rispose pronto Amnor. «Venite da settentrione?» chiese l'uomo. Il tono si era fatto curioso, nonostante la fissità della sua espressione. «La nostra carovana è stata assaltata dai nomadi, dopo che gli imperiali hanno preso la Porta. Siamo fuggiti, perdendoci nel deserto. Siamo i soli sopravvissuti.» «La Porta è caduta?» All'improvviso l'uomo sembrò ansioso, preoccupato. «E gli imperiali avanzano nel Vuoto?» Anche gli altri suoi compagni parevano agitati. Un brusio indefinito corse dall'uno all'altro, e qualcuno mosse un passo in avanti verso chi aveva parlato. Sembravano davvero tutti uguali, notò Vargo. Lo stesso aspetto impassibile, come se i volti fossero privi di muscolatura. Nella fretta del movimento il cappuccio di uno di loro era scivolato, mettendo a nudo la pelle tesa del cranio completamente rasato, attraversato al colmo della nuca da una sottile linea grigia. Passò solo un attimo prima che quello si ricoprisse con uno scatto nervoso. Ma a Vargo fu sufficiente per essere certo di una cosa: l'espressione immobile era dovuta ad una maschera che ognuno di loro portava sul volto, una maschera di materiale sottile e simile alla pelle umana. Tanto simile, pensò, da suggerire che avessero strappato il volto a qualcuno. «Non sappiamo nulla degli imperiali» stava rispondendo il vecchio. «Abbiamo visto la Guardia attaccare la Porta. Avevano con loro il Pugno, e il bastione non ha resistito. Poi hanno varcato la stretta. Noi siamo passati dopo, in cerca di qualche buon affare da trattare con qualcuno degli abitanti del Vuoto...»
L'uomo scosse il capo. Dietro la maschera traspariva evidente la sua disperazione. «Non devono!» gridò. «Non dovete! Voi non potete sapere...» «Sapere cosa?» chiese Amnor. Ormai non gli importava più nascondersi. Di colpo era tornato il gelido sapiente di sempre. Forse si era reso conto di essersi tradito, ma adesso pareva che la cosa non fosse più importante. «Chi siete?» «Mi chiamo Temon, centoventesimo di questo nome.» Amnor stava per replicare, ma l'altro lo fermò con un gesto. Poi si avvicinò alla vasca e immerse le dita nel liquido. Le portò alle labbra e bevve con avidità. «Siete voi, allora!» disse squadrandoli. «Due uomini. Uno giovane, e porterà il marchio. Il secondo, con il volto segnato da molte stagioni. E due donne con loro. Così era scritto, alla fine dei tempi...» Un fremito percorse la schiera dei compagni di Temon, ancora allineati lungo la parete. Qualcuno aveva mosso un passo avanti, ma subito era tornato ad arretrare, fulminato da un gesto secco dell'uomo. Vargo sorvegliava attento le loro mosse. Ansimavano, osservando sempre la polla d'acqua, serrando i pugni come se solo l'autorità dell'uomo potesse trattenerli dal gettarsi verso la fontana. Anche Amnor doveva aver notato qualcosa. «I vostri compagni sembrano assetati. C'è un motivo per cui non possano bere anche loro?» Invece di rispondere Temon additò il bordo di pietra della vasca. Sopra c'era scolpita una frase nell'antica lingua. Vargo lesse silenziosamente: Solo il maledetto deve bere. «Quell'acqua... è una punizione?» Gli occhi di Temon, dietro la maschera, si velarono per un attimo. «Quando qualcuno beve, il ricordo di ciò che è stato ritorna. Ma solo uno, il Primo, è condannato alla sofferenza della memoria della colpa, mentre per gli altri i ricordi sono solo immagini confuse, un ammasso senza forma e senza senso. Questo volle Vemerin...» «Vemerin... è stato qui?» chiese Amnor. «Qui Vemerin percosse la roccia con il suo scettro. E richiamò qualcosa dalle profondità. Una forza segreta che accende la memoria.» Temon si passò la mano sulla fronte. «Tutti i miei confratelli non sanno da cosa sono scampati. E da quale orrore il divieto li preserva.» Il suo volto restava impassibile, ma a Vargo non sfuggì qualcosa nel suo sguardo, come un senso di tenerezza verso gli altri. «Bene, noi abbiamo sete» disse brusca alle loro spalle Shanda, scenden-
do da cavallo e avvicinandosi con il suo otre vuoto alla sorgente. Il Primo non cercò di fermarla. Si limitò ad alzare la mano. «Fatelo. Ma siate certi che dietro di voi non ci sia nulla che non volete ricordare.» La ragazza scrollò le spalle con indifferenza e immerse l'otre. Poi lo ritrasse gocciolante, portandolo alle labbra. Ma sul punto di inghiottire il primo sorso si arrestò. Rimase immobile per un istante, poi lo tese a Khaima. «Bevi tu, sorella. Devi aver più sete di me.» L'altra Sgualdrina si chinò dalla sella verso di lei. Tese la mano, ma poi la ritrasse subito. «In fondo non ho poi così sete» disse. «E se c'è qualche diavoleria nell'acqua, non voglio essere io a provarla per prima!» Amnor aveva seguito la scena senza dire nulla. Con una mossa brusca strappò l'otre dalle mani della ragazza e bevve un lungo sorso, sotto lo sguardo attento del Primo. «Non hai nulla da dimenticare?» chiese il Primo. «Il mio tempo è breve. Presto incontrerò le mie ombre. E voglio farlo con tutto il libro della mia vita bene aperto.» L'altro annuì in silenzio. Dapprima l'acqua non sembrò avere alcun effetto visibile sul vecchio. Si passò il dorso della mano sulle labbra, poi lentamente la sua espressione si incupì. Temon continuava ad osservarlo attentamente. Amnor si rattrappì, come se un peso improvviso fosse sceso sulle sue spalle. Il suo sguardo si perse per qualche attimo lontano. «Sì, adesso capisco perché sottraete ai vostri fratelli quest'acqua» mormorò, annaspando in cerca d'aria. «Ma perché vi nascondete nelle stanze del Silenzio?» seguitò a bassa voce, accennando con la mano alla fitta trama di caverne sulle loro teste. Il Primo alzò lo sguardo. Sembrava sul punto di aggiungere altro, ma cambiò bruscamente discorso. «Sarete stanchi. E affamati. Salite con noi nel grande capitolo. Là potremo continuare a parlare, mentre vi rifocillate.» Avvicinandosi, gli strani filamenti si rivelarono essere solo semplici corde, annodate a intervalli regolari. Temon si issò per primo, invitando gli altri a seguirlo. Raggiunsero rapidamente la bocca della caverna, che dava su un ampio spazio scavato nella roccia. Vargo si guardò intorno, abbagliato dall'inaspettato splendore dell'interno. Tutta la cavità, divisa da serie regolari di colonne scanalate, era decorata a colori vivaci. Ricordava la cattedrale di Khoran: ma invece che in tre
navate, qui lo spazio era segmentato in un'apparente infinità di corridoi che si intersecavano. Sotto i suoi piedi il pavimento originario di arenaria era stato ricoperto da un elaborato mosaico di pietre multicolori, che davano vita a un intreccio pressoché indecifrabile di figure geometriche. Negli spazi laterali, allineate lungo le pareti, erano disposte delle lunghe tavole di legno scuro. Accarezzò una delle colonne, scoprendo che essa costituiva un corpo unico con la pietra della cavità. Qualcuno, con l'opera paziente di secoli, aveva scolpito quelle strutture direttamente dalla roccia. «Siete stati voi a far questo?» chiese ammirato al Primo. «Coloro che ci hanno preceduto. Hanno portato con sé il ricordo di ciò che avevano abbandonato. Ma venite.» Temor li invitò a sedere al tavolo accanto a lui. Qualcuno aveva già predisposto dei semplici cibi per loro: pane, una bevanda scura simile al vino e piccoli cesti ripieni di formaggio fresco. Nello stesso silenzio, a uno a uno, anche altri monaci avevano preso posto alle lunghe tavole. Senza parlare, gli occhi fissi sui propri piatti, il gruppo di uomini prese a mangiare, mentre anche Vargo e i suoi compagni si gettavano affamati sul cibo. La cena procedette silenziosa, come un banchetto funebre. Anche Shanda e Khaima, dopo qualche tentativo di attaccare discorso, si erano chiuse in un mutismo nervoso. Fu Amnor a rompere il silenzio. «Avete detto che ci aspettavate. Come potevate saperlo? Cosa avete ricordato, bevendo?» Non aveva provato nemmeno a ripetere la storia dei mercanti di Hirush. Il Primo lo fissò attraverso le fessure della sua strana maschera. «Noi siamo i discendenti dei saggi che un giorno vissero in Anharra. Sacerdoti di un Re che fu giusto.» «Voi?» «Coloro che accompagnarono il Re Pazzo nella sua discesa agli inferi» continuò con voce atona, senza badare all'interruzione. «Coloro che ci precedettero gli furono compagni nei suoi primi studi, lo aiutarono con il loro ingegno a penetrare nei segreti della terra. Le loro mani si macchiarono di ogni suo misfatto. Noi siamo quello che resta del Collegio di Vemerin.» «Il Collegio degli Arcani...» balbettò Amnor incredulo. «Si parlava di voi, nelle carte di Menthor. Siete qui da trenta secoli? E questa sala... riproduce uno degli edifici di Anharra?» «Ne è solo la pallida imitazione. In un luogo simile a questo il primo
Collegio consumò il suo errore» rispose enigmatico Temon. «E noi ne dividiamo la colpa, e la condanna.» «Il disegno sul pavimento, cosa rappresenta?» L'altro parve esitare. Per un attimo i suoi occhi corsero al mosaico che si perdeva tra le colonne. «Questa è la mappa della tomba del Re. Qui si tengono ancora i nostri riti: lungo il disegno delle sue mura si snodano le processioni, come un tempo avveniva intorno al suo confine di pietra. Ma è una trascrizione simbolica, non esatta... una memoria alterata dal terrore.» Amnor si portò verso il centro della sala, da dove poteva abbracciare con lo sguardo l'insieme del mosaico. Fece qualche passò intorno, poi si chinò a osservare un particolare. «Questa è la tomba...» mormorò rialzandosi e procedendo lungo tutto il perimetro del disegno, fino a tornare al tavolo che aveva lasciato. Il Primo e i suoi compagni avevano seguito le sue mosse in silenzio. «Per trenta volte cento anni abbiamo atteso qui, come i nostri padri prima di noi» disse Temon, quando il vecchio ebbe terminato il suo esame. «E sapevamo che al trascorrere del trentesimo secolo qualcuno si sarebbe messo di nuovo sulla via per la Città. Al centro del Vuoto» aggiunse. «A incontrare ancora la maledizione di Vemerin il Folle.» Aveva pronunciato quel nome con disprezzo. «Vemerin? Ma avete appena detto di lui che fu un re giusto» disse Vargo. Temon scosse la testa, come se trovasse troppo difficile spiegare il senso delle sue parole. «Nel cielo è apparsa Nester la Splendente» disse poi. «Il segno che temevamo da secoli. Un pericolo immenso grava sul Vuoto e su tutta la terra.» «Nester? È la parola che gridava il Popolo del deserto durante il suo rito!» esclamò Vargo. «Un astro fulgido, come se qualcuno oltre i cieli avesse aperto il suo occhio su di noi?» lo interruppe Amnor. «L'ho notato anch'io. Quale pericolo annuncia? Che c'è ad Anharra? Ditecelo, visto che è là che siamo diretti.» «No! Non dovete! La luce della stella sta per riflettersi nei suoi pozzi, nelle sue fontane avvelenate!» mormorò Temon. Sembrava impietrito. Lungo i tavoli lo stesso movimento sconfortato si estese a tutti gli altri monaci, seduti a capo chino. Poi senza alcun preavviso l'uomo si alzò di scatto, intonando a voce alta un canto in una lingua sconosciuta. La sua voce squillava, salendo lungo le armoniche come in una spirale. Gli altri monaci rispondevano a tratti, inserendosi nel canto secondo un
ordine imprevedibile, ma che nelle loro menti doveva seguire una regola antica e ben nota. Poi, come a un segnale, si levarono tutti in piedi disponendosi in una lunga fila alle spalle del Primo, e cominciarono a muoversi intorno ai confini del disegno come aveva già fatto Amnor. Vargo seguiva attento le loro mosse, cercando inutilmente di farsi un'idea di quale potesse essere il senso di quelle parole, gridate in tono sempre più alto. Aveva notato che, a mano a mano che l'intensità del canto progrediva, uno dopo l'altro i sacerdoti avevano alzato i loro volti spenti verso il cielo, e poi anche le braccia si erano levate in alto. La processione si era arrestata, formando un anello umano intorno al disegno. All'improvviso, a uno a uno i sacerdoti cominciarono a rompere il ritmo del canto. Anche se incomprensibile, fino a quel momento la sequenza sonora aveva seguito un ordine. Ma adesso l'iniziale armonia era stata sopraffatta da un torrente di suoni striduli e di grida prive di ogni senso. Le urla avevano raggiunto un livello da lacerare i timpani. Vargo d'istinto si portò le mani alle orecchie. Eccitati dal canto i sacerdoti, sempre allineati intorno al mosaico, si erano scoperti di colpo il petto, e con le unghie avevano preso a tracciare dei solchi sanguinosi sulla pelle. «Perché fate questo?» gridò a sua volta Vargo per farsi udire. Quel gruppo di uomini sembrava trasformato in uno stormo di corvi gracchianti e impazziti. Approfittando di un momento in cui Temon taceva, le braccia ancora levate in alto, Amnor gli si fece accanto. «Che cosa state gridando?» L'altro non ascoltava. Sembrava aspettare qualcosa. D'un tratto tutti tacquero all'unisono. Il silenzio precipitò nella sala. Poi Temon emise un ultimo urlo inumano, di una potenza inimmaginabile, e quindi si accasciò esausto. «Che cosa avete urlato?» chiese ostinato Amnor. «Un nostro antico canone» gli rispose lui, ansimando per lo sforzo. «L'Invocazione Quinta.» «Un'invocazione?» esclamò Amnor. «Avete invocato il vostro signore?» Temon rivolse la sua faccia immobile verso il vecchio. «Non lui! Ma le potenze che lo tengono in vincoli! La morte, che ancora lo stringe. Perché non ceda e non allenti le sue catene. Ogni giorno e ogni notte, da allora, ripetiamo il rito contro il ritorno dei demoni... ma la nostra forza è debole. E i segni indicano che il tempo è ormai vicino. Venite!» Temon sembrava essersi ripreso. Afferrò Amnor per la manica e prese a
trascinarlo verso la porta della sala. Anche Vargo si mosse, seguito da Shanda e Khaima. «Dobbiamo salire all'osservatorio. Dovete vedere con i vostri occhi.» Li guidò in una sala attigua, completamente vuota. In alto la luminescenza delle stelle penetrava attraverso uno squarcio nel soffitto di pietra. Lungo le pareti era stata intagliata una stretta scala che si avvitava su se stessa salendo verso l'apertura. Temon la indicò agli altri, avviandosi verso l'inizio della rampa. Raggiunsero la cima, in vetta alla rupe. Da lì potevano vedere chiaramente il pozzo rotondo e lo stretto sentiero del passo. E più avanti un'immensa vallata oscura, che si perdeva nella notte. Ma la volta celeste, che si curvava illimitata sopra le loro teste, segnata dal fulgore di strane costellazioni, era lo spettacolo più sconvolgente. Per quanto andasse con la memoria alle tante notti di guardia, passate con gli occhi al cielo misurando lo scorrere delle ore, Vargo non riusciva a ricordare di aver mai visto quelle geometrie che legavano gli astri tra loro. Temon si avvicinò al bordo della terrazza, tendendo la mano verso oriente. Basso sull'orizzonte risplendeva un astro solitario, circondato da un alone di fuoco. «È tornata nei mesi scorsi. Nester, la stella che brillava allo zenith quando Vemerin regnava sul Vuoto.» «Ma è morto da trenta secoli, come potete temerlo ancora?» chiese Amnor. «La traccia che Vemerin ha lasciato sulla terra non si è estinta. Nulla di ciò che è stato suo è davvero finito, nulla di ciò che ha fatto è davvero compiuto!» «Impossibile!» disse Vargo. «Perché la sua follia dovrebbe costituire ancora un pericolo?» «Sei giovane. Ma imparerai presto che ogni cosa è per sempre: il male è un incendio che non si spegne. O forse lo hai già imparato...» mormorò, fissando la cicatrice sulla fronte del giovane. «Guardate!» gridò poi. Si era portato la mano alla base del collo. Lo videro agire con le dita su qualcosa, poi lentamente il suo volto parve disfarsi. La maschera dai tratti impassibili scivolò via, rivelando un nulla informe, un ammasso grigiastro squarciato dalle piaghe. «Con questo morbo egli maledisse i nostri antenati, gli uomini di scienza della corte di Anharra. Coloro che nella sua follia egli accusò di essere gli artefici della sua morte. E da trenta secoli il morbo scatenato dalla sua ma-
ledizione ci perseguita.» Amnor, Vargo e le due ragazze continuavano a osservare esterrefatti. «Tutti gli altri del Collegio sono nelle stesse condizioni?» chiese il vecchio. Temon annuì. «Ma non è per questo che vi ho condotto quassù. Quando dopo la fuga da Anharra i nostri antenati si rifugiarono tra queste pietre, eressero la torre dell'osservatorio per sorvegliare il cielo, in modo da avvertire per primi ogni segno del ritorno di Nester. Ma la innalzarono soprattutto per sorvegliare quello che più temevano: la città stessa, con la tomba di chi li aveva maledetti.» «Anharra è visibile da qui?» domandò eccitato Amnor. «E dove?» Vargo mosse gli occhi verso la direzione che Temon indicava. Lontano, nel buio, un cupo bagliore sembrava rispondere sul terreno allo splendore della stella. «Ecco, la città è da quella parte. Qualcosa tra le sue strade ha sentito l'avvicinarsi del tempo. Da alcune notti è apparso quel bagliore laggiù.» Il Primo tornò a celarsi dietro la maschera, riprendendo la sua espressione impassibile. «Nulla scamperà alla devastazione, nemmeno le case degli dei.» «Abbiamo incontrato un tempio bruciato, lungo il cammino» disse Amnor. «Il tempio dell'Attesa» rispose Temon, annuendo lentamente. «Fu eretto da Vemerin. Un santuario dove si celebrasse il suo culto.» «Deve esservi accaduta una disgrazia spaventosa.» «Non fu una disgrazia» replicò il sacerdote. Amnor si chinò verso di lui. «Quella strage non fu una disgrazia?» «Fu un abominio. Fu Vemerin.» «Ma perché? Una ferocia insensata: era questa la sua follia?» Temon scosse la testa. «Era folle, certo. La sua mente era stata trascinata negli abissi da quello che aveva visto. Ma quello che fece era dettato da un disegno, un piano perverso. Voleva che il suo esercito aumentasse di numero, e che l'armata dei morti pareggiasse quella dei vivi.» «Come, pareggiare i morti con i vivi?» chiese Vargo. Temon lo guardò. «Che cosa sapete di Anharra, a cui cercate di avvicinarvi? E cosa sapete di Vemerin?» «Il Re pazzo. Le sue immense ricchezze. Il suo sapere. La sua arte di vedere oltre la morte. E quello che vide oltre la barriera, trascritto nei suoi Canti. Questo ho appreso nella biblioteca di Menthor: Anharra, dove morti
e vivi si daranno la mano» replicò Amnor. «Voi non sapete nulla» rispose Temon con voce sorda. «Nulla!» Chinò la testa e restò fermo a lungo. Poi, lentamente, scacciando un'ombra invisibile davanti al viso, come se quello che andava narrando prendesse corpo davanti ai suoi occhi in tutta la sua forza dolorosa, riprese. «Vemerin fu un re saggio e giusto. Ma la sua anima era minata dall'ansia di sapere. Una volta sceso al fondo di tutta la scienza del suo tempo, chiamò dai quattro angoli del suo regno ogni sapiente della cui esistenza fosse a conoscenza, perché lo aiutassero nella sua ultima impresa. Vedere cosa si stende oltre i confini del tempo e della morte stessa. Così nacque il Collegio. E i suoi studi proseguirono sempre più avanti sulla strada della perdizione.» Vargo lanciò un'occhiata ad Amnor. Il vecchio ascoltava assorto, il volto rigido come la maschera del loro interlocutore. «Fra quei saggi c'era un maestro delle visioni, che aveva sperimentato ogni tipo di cristallo. Fu lui a indirizzarlo verso i segreti dell'ottica. E con i suoi insegnamenti, dopo anni di esperimenti, Vemerin riuscì a far precipitare nel suo laboratorio un cristallo di berillio di straordinaria purezza. Mai l'avesse fatto!» Le ultime parole le aveva pronunciate quasi gridando. «Mai l'avesse fatto! La notte in cui guardò per la prima volta attraverso lo smeraldo, Vemerin vide. E le Tenebre lo accolsero nel loro seno.» «Le Tenebre?» mormorò Vargo. All'improvviso le parole del cartografo morente gli erano tornate alla memoria. «Le Tenebre. Potenze che regnano oltre il confine della morte. Potenze che risposero ai suoi appelli. Vemerin si sedette ai piedi del loro trono, e quelle aprirono per lui lo scrigno degli arcani. Gli svelarono l'arte di rianimare i morti, di trasformarli in docili strumenti per i suoi disegni. Gli dischiusero la visione di ciò che sarebbe accaduto nelle prossime ere, segnate dal periodico ritorno della stella Nester nell'alto del cielo.» «Che cosa gli dissero? Lo sapete?» lo interruppe Amnor in tono concitato. L'uomo scosse la testa. «Nessuno del Collegio poteva udire le voci. Solo Vemerin. Voci che lui prese a trascrivere, perché la sua mente vacillava ad ogni nuovo incontro con le Tenebre.» «I Canti, i Canti di Vemerin. Sono quei suoni che abbiamo ascoltato po-
co fa?» «I Canti sono inudibili per un orecchio umano. Quello che avete sentito è solo qualche frammento dell'opera, che i nostri antenati poterono ascoltare e trasmisero fino a noi. Ma sono solo un'ombra di ciò che è l'intero.» Fece una pausa, fissandoli. «Più la conoscenza di Vemerin si accresceva, più sprofondava nella follia. Fu allora che eresse Anharra, la città figlia delle sue visioni. E intanto devastava il suo stesso regno, razziando e uccidendo. Le Tenebre gli avevano ordinato di farsi re di tutta la terra. E molti dei popoli del Vuoto si arruolarono sotto le sue bandiere, affascinati dalla sua potenza e gloria, e dalla promessa di dominio. Da Anharra le sue armate presero a insinuarsi nel Vuoto sempre più a fondo, fino a raggiungerne i confini. Guidate dalla più oscena arma che la mente abbia potuto concepire: la Legione. «Che cos'era?» chiese Vargo. «Un'armata in cui i morti e i vivi combattono fianco a fianco, un guerriero incatenato all'altro! Uno vivo e visibile, inebriato dalla forza delle arti magiche di Vemerin, e l'altro morto e invisibile, ma altrettanto letale!» Vargo emise un'esclamazione di sorpresa. «Il Settimo Grado della Spada!» «Cosa?» «Il Settimo Grado della Spada, il più alto grado dell'insegnamento della scuola delle Armi. La lotta con l'avversario invisibile! I Maestri lo sapevano, e si preparavano a questo scontro estremo! Allora non capii la cura e lo sforzo per apprendere questa tecnica, che mi sembrava inutile... Ma i saggi della sua Corte assistevano inerti a tutto questo?» domandò il giovane incredulo. Temon esitò un istante prima di rispondere. «Il terrore si era insinuato tra le mura di Anharra. I membri del Collegio assistevano inorriditi al male che stava invadendo la città, le sue strade che si popolavano di morti in armi e di vivi accecati dalla follia come il loro Re. E guardavano paralizzati la stella che già aveva fatto la sua apparizione all'orizzonte. La loro volontà sembrava spezzata dall'enormità di ciò che stava accadendo. E Vemerin non si fermava. Dalla parola delle Tenebre apprese come fondere tra loro le varie forme viventi. L'Orda.» «L'Orda?» chiese Vargo. «Qualcosa, se possibile, di ancora più terribile della Legione. Il frutto dell'insolenza di Vemerin contro gli dei. Aveva conosciuto l'ultimo segreto delle Tenebre, e volle scalare il trono degli dei stessi, emularli nella crea-
zione.» «Vemerin ha dato vita a degli esseri innaturali? Quello che abbiamo visto alla Torre non era solo una serie di insensati esperimenti. Quelle... creature hanno conosciuto la vita?» balbettò il giovane inorridito. Temon annuì. «Così si dice. Ma nessuno dei viventi ne ha mai saputo nulla. Essi si nascondono. E nessuno di quelli che li hanno visti è mai sopravvissuto per poterne riferire. Se siete arrivati qui avete visto la Torre delle Imperfezioni. Vemerin la fece erigere perché nessuno potesse assistere alla sua ultima impresa. Voleva condurla a termine in solitudine. Forse nella sua mente devastata sopravviveva ancora una scintilla di consapevolezza, la vergogna di ciò che era diventato...» Temon si interruppe. Levò gli occhi al cielo, dove la fiamma di Nester brillava. «Quando le creature di Vemerin cominciarono a sciamare sulla terra, alcuni dei Saggi vinsero la paura che li aveva resi complici dell'abominio. Era troppo tardi per riparare al dolore e alla devastazione che era già stata inflitta, ma l'istinto di sopravvivenza alla fine prevalse. Capirono quale fosse il disegno ultimo delle Tenebre, di cui Vemerin si era fatto strumento. La stella avrebbe segnato non l'inizio di una nuova era, ma la fine del tempo degli uomini. Altre razze, figlie di menti infernali, avrebbero preso il loro posto per cancellarne anche la memoria. Questo gridavano i Canti delle Tenebre!» La voce di Temon si spezzò di nuovo. «Presero a incontrarsi segretamente. Fu stretta un'intesa con quelli tra i popoli del Vuoto che più avevano sofferto delle scorrerie delle armate di Vemerin. Ma le forze riunite erano troppo scarse per affrontare la Legione in campo aperto. Allora si fecero avanti i capi della tribù di Zennar.» «Zennar. La tribù perduta. Un popolo di cui non esistono più tracce» disse Amnor. «Nelle Tavole c'era qualcosa su una tribù scomparsa...» «Non scomparsa. Distrutta» mormorò Temon. «Un popolo forte. Di eroi. Capirono che solo il sacrificio di alcuni avrebbe potuto salvarci. Si radunarono in armi, facendo girare la voce che intendessero ribellarsi al volere di Vemerin. Gli uomini si schierarono in campo aperto, nei pressi del lago salato, mentre i vecchi e le donne con i loro bambini si rifugiavano nel tempio. La Legione si mosse, e la ferocia dei vivi e dei morti si scatenò su di loro.» Gli occhi di Temon si riempirono di lacrime. Anche Vargo era commosso, al ricordo di quello che aveva visto. Le cataste dei teschi di bambini, gli scheletri fatti a brani con i denti...
«E mentre Anharra era sguarnita, nella notte del solstizio un piccolo gruppo di sacerdoti del Collegio penetrò nella sala del Trono, dove Vemerin era a colloquio con le Tenebre. Lo catturarono dopo una lotta disperata, e molti furono uccisi. Ma alla fine gli uomini prevalsero. Vemerin fu seppellito nella tomba inviolabile che i suoi architetti avevano approntato, insieme con tutti i suoi tesori maledetti.» «I Canti!» lo interruppe concitato Amnor. «Dove sono? Hai detto che il re li trascrisse: furono seppelliti con lui?» «Forse. Ma nessuno lo sa. Mentre lo trascinavano alla tomba, si dice che Vemerin abbia intonato quello più terribile, il Canto del Ritorno. Per una nuova vita, quando Nester fosse riapparsa.» Vargo aveva ascoltato sbigottito. «Perché il suo corpo non è stato bruciato?» chiese. «Se davvero i vostri antenati credevano che potesse risorgere, perché si sono limitati a seppellirlo?» «Non lo sappiamo» rispose sconsolato Temon. «Forse nell'ebbrezza della liberazione trascurarono questa precauzione, certi che l'enormità del tempo che li separava dal ritorno di Nester la rendesse superflua, e che il corpo si sarebbe comunque disfatto nei secoli. O forse pensarono di farlo, ma troppo tardi.» «Troppo tardi?» «La Legione fece ritorno dalla sua strage. Non più guidata dalla volontà di Vemerin, l'armata si disfece, trasformandosi in una massa di assassini ciechi che sciamò per la città annientando tutto quello che trovava sulla sua strada. E con lei tornarono dai loro rifugi nel Vuoto anche le creature che erano fuggite dalla torre, e che si erano intanto riprodotte con frenesia innaturale. I saggi del Collegio tentarono di fuggire, ma furono quasi tutti sterminati. Solo in pochi riuscirono a salvarsi in questo antico cimitero. Noi ne siamo gli eredi, come vi ho detto. Ma più deboli, e senza la loro saggezza. Custodi soltanto di qualche frammento della loro memoria. Non possiamo nulla, se non attendere e pregare.» Khaima e Shanda avevano ascoltato in silenzio, appoggiate ai loro archi. «Dunque nella tomba del Re furono davvero sepolti i suoi tesori?» chiese freddamente la prima. «La Signora Rossa era ben informata, come sempre.» Temon si volse verso di loro, scuotendo la testa. «È questa stessa avidità che ha corrotto Vemerin, e che corromperà anche voi. Quei tesori varranno meno di nulla, quando il Re tornerà a calpestare la terra! Restate con noi
invece, aiutateci a respingere il suo risveglio. Date forza alle nostre voci!» ripeté accorato. «No» disse Amnor. «Devo sapere cosa è nascosto in quella città. La mia vita declina, non voglio mancare l'ultima conoscenza.» Temon si volse smarrito verso Vargo, stringendolo alle braccia. «E tu? La tua giovinezza, perché vuoi spegnerla così? Per sete di una conoscenza vana?» Vargo distolse lo sguardo. «Non per quello. Ma anch'io devo andare. Ho un debito, che forse solo lì riuscirò a saldare.» Temon lo fissò intensamente attraverso i fori della maschera, poi sollevò lentamente la mano a sfiorare il segno sulla sua fronte. «Porti sulla tua carne il segno... tu e pochi altri siete stati messi in condizione di affrontare la minaccia... Ma quanti siete? Uno? Una dozzina? E pensate di affrontare così la sua armata?» Le due ragazze avevano seguito la scena senza battere ciglio. «Anche voi avete intenzione di gettare via la vostra vita?» chiese loro Temon. Le Sgualdrine lo fissarono per un attimo, poi ridacchiarono tra di loro prima di rispondere. «Non sappiamo niente di quello di cui parli. Ma dove andranno loro andremo anche noi. C'è un tesoro ad Anharra» ripeté Khaima ostinata. E la Signora Rossa vuole la sua parte.» «Siete pazzi!» gridò Temon afferrando Amnor per il polso. «È solo qui, nel Silenzio, che possiamo resistere! Anharra è un labirinto infinito, chiuso da mura impenetrabili. Nessuno che sia vivo le ha più varcate da allora!» «Sì, invece» rispose Amnor, liberandosi dalla stretta. «Qualcuno vi è entrato, e ha fatto ritorno.» «No... non è possibile» balbettò interdetto l'altro. «E poi... non riuscireste ad aprire la tomba! Le migliori menti del Collegio lavorarono per renderla inaccessibile!» «Erano i vostri antenati. Voi dovete conoscere il segreto!» replicò Amnor. «Sì...» mormorò Temon con voce rotta, passandosi una mano sul volto. «Colui che beve l'acqua lo conosce. Ma conosce anche la prova terribile che vi aspetta. Dunque non volete darmi ascolto?» Sotto l'imperturbabilità della maschera si percepiva tutta la sua disperazione. «Dei della luce!» gridò, alzando gli occhi al cielo. «Perché non soc-
correte il vostro servo! Perché rendete debole la sua parola!» Poi tornò a rivolgersi verso di loro, vinto. «Prendete almeno con voi il Cantore! Che possa aiutarvi quando sarete al cospetto dell'Abominio. Lui conosce il rito per rigettare Vemerin nell'abisso.» «Non abbiamo bisogno di nessuno, amico» replicò beffarda Khaima. «Non capite, egli conosce l'Invocazione! La intonerà davanti al corpo di colui che non muore per rafforzare le sue catene! Portatelo con voi, vi prego!» Amnor annuì grave. «Potrà aiutarci, quando entreremo ad Anharra? O il ricordo delle sue strade è davvero perduto per sempre?» chiese poi. «Stanotte berrà. E ricorderà. Prima che Vemerin ritrovi il suo popolo» seguitò Temon, indicando di nuovo la vallata. Mentre gli altri parlavano Vargo era tornato a fissare l'orizzonte. Il bagliore lontano pulsava con la sua presenza maligna. Ma non era l'unica luce visibile. Tutto intorno, a una distanza indefinibile nell'oscurità, altre luci brillavano sparse nelle tenebre. «Guardate» disse, richiamando l'attenzione degli altri su quello spettacolo. «Cosa sono quelle luci?» «Sono cominciate ad apparire dopo l'arrivo di Nester, di colpo» rispose Temon. «Sembrano fuochi di bivacco» disse Amnor. «Le tribù che vivono nel Vuoto si sono messe in moto. Sappiamo che i loro capi hanno tenuto un convegno alle fonti del fiume Gondor. E i loro stregoni hanno annunciato che il ritorno di Vemerin è prossimo. I barbari stanno calando su Anharra: hanno rinnegato i loro dei, e rotto il patto dell'alleanza della luce. Hanno incendiato i santuari, e scendono dalle alture devastando tutto quello che trovano sul loro cammino.» Amnor lanciò un altro sguardo preoccupato alle fiammelle lontane. «Sì, abbiamo incontrato alcuni di loro. Partiremo prima dell'alba. Dite al vostro Cantore di trovarsi pronto al varco del passo.» «Tutti i confratelli veglieranno per accompagnare il vostro viaggio. C'è qualcosa che è necessario fare, prima che tentiate la sorte.» Amnor sembrava soprappensiero. Poi si riscosse. «Provvedi a che tutto sia pronto per la partenza» disse al giovane. «Io voglio tornare nella sala del capitolo, a studiare ancora il disegno tracciato sul pavimento. Se Temon ha detto il giusto, è la più antica rappresentazione della Tomba: forse potrà rivelarmi qualcuno dei suoi segreti. Ma prima dammi il tuo abaco.» Vargo gli passò il piccolo strumento. Le dita del vecchio cominciarono a
correre veloci sulle file di palline di legno. «Sto cercando di calcolare le miglia che abbiamo percorso da quando abbiamo varcato la porta di bronzo. A Menthor stimai la distanza in tre gradi del cerchio della terra. Avevo ragione.» «Non servono i tuoi calcoli. È là» mormorò il giovane, indicando la sagoma immobile di Temon, che era tornato a fissare nel buio. Amnor alzò lo sguardo alla stella, annuendo. «Sembra che siamo arrivati insieme al nostro appuntamento.» Serrò i pugni. «Trenta secoli... per questo. Hai mai pensato, Vargo, quale abisso di tempo ci separa dall'epoca in cui per la prima volta Anharra emerse dalle sabbie per volontà di un uomo? Quale infinità di esseri si sono succeduti, quanti destini hanno dovuto compiersi perché noi oggi fossimo qui?» «Io non credo nel destino» replicò il giovane a denti stretti. Senza volere la sua mano era corsa a sfiorare la cicatrice, il singolare marchio che portava con sé da quando aveva memoria. Se il vecchio aveva ragione, anche quello faceva parte di un disegno? «Davvero puoi pensare che tutto questo sia casuale?» insistette Amnor. «C'è una cosa che non ti ho detto. Una cosa che lessi sulle Tavole, l'ultima notte...» Si interruppe per un momento, come se temesse la reazione del giovane. Poi riprese. «Una tradizione. Più antica della stessa Anharra. O meglio un ricordo. Il ricordo di un giovane eroe, segnato sulla fronte dal marchio del Sole. Hai visto il Primo, lo hai ascoltato. Anche lui ti ha riconosciuto.» Vargo si passò la mano sulla fronte. «Che cosa sapete del mio passato?» chiese subito infuriato. Amnor alzò una mano, come per arrestare la sua foga. «Molto. E un giorno ti dirò quello che vuoi sapere. Ma non ora. Ora dobbiamo completare il disegno che ci ha condotti fin qui.» Vargo tornò a sfiorare la sua cicatrice, con un gesto stizzito. «State mentendo.» «No, Vargo. Quello che ci attende è quello che è già stato. Tutto si ripete nell'esistenza, le ere si susseguono ripetendosi nel ciclo eterno. Noi siamo già stati qui, e un giorno ci torneremo di nuovo. Nulla può impedirlo. È questa la nostra gloria e la nostra condanna. Nessuna speranza, nessun delitto può interrompere la nostra marcia.» 16
Le ore trascorrevano lente. Vargo si era spinto fino al termine del passo. Si sedette su uno spuntone di roccia, avvolgendosi nel mantello. Guardava verso oriente, in attesa del primo chiarore. Ma la notte sembrava resistere con tenacia, come se il tempo si fosse fermato. Bassi sull'orizzonte i fuochi dei bivacchi dei Popoli brillavano lontani, confondendosi con le stelle della volta celeste. Sobbalzò, sentendo una mano sulla spalla. «Non dormi?» gli chiese Amnor, che si era avvicinato in silenzio. «Qualche ora di riposo potrebbe giovarti, per quello che ci aspetta.» «Nemmeno voi dormite. Avete studiato il disegno? Avete scoperto il segreto della Tomba?» «Forse. Ho un'idea di come possa esser fatta. Ma solo quando saremo là saprò se ho visto giusto.» Il vecchio gli si sedette accanto. «Il sonno mi ha abbandonato da molto tempo» riprese all'improvviso. «O forse è la mia anima che lo respinge. Quando gli anni si accumulano, il sonno non è più un conforto, ma un ladro che viene solo a rubarci altra sabbia dalla clessidra, della poca che è rimasta.» Vargo si volse verso Amnor. Gli pareva di avvertire nel suono della sua voce un tono nuovo, diverso dalla solita freddezza. Come se cercasse di dire qualcosa, forse di confidarsi. In fondo di quell'uomo lui non sapeva quasi nulla. Era davvero la sete di sapere, come gli aveva detto, la forza che lo spingeva avanti? Davvero l'ansia di conoscere poteva bruciare dentro come il rimorso? «O forse perché il sonno è una porta» continuò Amnor, «una porta senza custodi, o un chiavistello, sulla soglia. Che si apre sul fondo della nostra coscienza. E talvolta non è facile affacciarsi su quel baratro.» Vargo cercò il suo sguardo. «Anche voi portate un peso?» «Tutta la strada che ho percorso. Mi ha consumato.» «Ma avete cercato il sapere. Non è la più straordinaria delle ricchezze?» Il vecchio non rispose subito, come se cercasse le parole per farlo. «Sapere è la più spaventosa delle condanne...» Sconcertato, Vargo scoprì che il volto di Amnor era rigato dalle lacrime. «Continua ad attraversare il tuo deserto, senza sollevare le pietre! Sotto non ci sono che nidi di serpenti.» D'istinto Vargo tese la mano verso il vecchio. «Fermatevi allora! Se sa-
pere è davvero così terribile, laggiù ci aspetta solo dolore. Avete sentito anche voi ciò che ha detto Temon!» L'altro pareva non ascoltarlo. Vargo gli strinse il braccio con forza. «Andrò io, con il Cantore. Scoprirò se tutto questo ha un senso... e poi dietro a noi ci sono gli imperiali! Tra un giorno saranno anche loro sotto le mura di Anharra. La distruggeranno, e l'abominio sarà cancellato. Tornate indietro!» Amnor scosse la testa, liberandosi dalla stretta del giovane. «E non seguirti nell'ultimo tratto, dopo che ti ho trascinato qui? No, amico mio, è troppo tardi.» Puntò l'indice verso il buio. «Se mi fermassi adesso, cosa sarebbe la mia vita? Un'inutile catena di delitti. Sarei solo un assassino, inseguito dalle ombre delle sue vittime» aggiunse con voce cupa. Stavolta fu la sua mano a cercare quella del giovane. Vargo credette di sentire un'insolita tenerezza nel calore delle sue dita. «Ma tu, invece! Puoi ancora salvarti. Torna indietro, e porta con te le donne.» Amnor si era levato in piedi. Vargo alzò gli occhi verso la sua figura imponente. Provava uno strano disagio, in quella posizione. Fece per alzarsi anche lui, ma qualcosa lo trattenne. Nella sua mente si era accesa una luce improvvisa. Un'immagine confusa, che affondava in un'età remota, l'area oscura dei primi ricordi. L'immagine di un altro uomo, che ridendo torreggiava altissimo su di lui, tendendogli le braccia. Quasi senza rendersene conto abbracciò il vecchio. «No, è troppo tardi anche per me. Andremo insieme. Ma le ragazze, forse è davvero meglio che restino qui. Muoviamoci subito, all'alba saremo già lontani.» «Che quadretto delizioso!» sibilò una voce sarcastica alle loro spalle. Il giovane si voltò di scatto. Shanda e Khaima erano in piedi dietro una roccia, a pochi passi di distanza. «E così gli uomini hanno deciso di fare da soli» continuò Khaima, ancora più aspra. «Hai sentito, sorella? Si preoccupano delle Sgualdrine.» «Cos'è, non ti piacciono più le donne?» disse Shanda, avvicinandosi a Vargo e strusciandosi al suo fianco come una gattina. Senza badarle Khaima si rivolse ad Amnor. «Non mi incanti, vecchio. Tu vuoi tenere per te il tesoro.» «Davvero volevi abbandonarmi?» mormorò Shanda a Vargo, continuando ad accarezzarlo. Sembrava delusa, invece che infuriata come la sorella. «No... sì» borbottò confuso il giovane. «Ma non è come credi...» «E com'è allora?» si intromise Khaima. «Spiegalo a me, non a quella sciocca di mia sorella.»
«Volevamo risparmiarvi...» «Abbiamo diviso tutto, venendo qui. Divideremo anche quello che ci aspetta. Abbiamo già sellato i cavalli. Qualcosa mi diceva che volevate giocarci. Ma non è facile, con le servitrici della Regina Rossa.» Vargo stava per replicare, ma in quella una sottile striscia luminosa apparve all'improvviso sulla cresta dei monti, annunciando il nuovo giorno. «È l'ora» disse Amnor fissando il chiarore. «Dobbiamo andare.» Per tutta la notte i membri del Collegio si erano stretti in cerchio attorno alla fontana sacra, ripetendo ossessivamente il loro canto. Tacquero solo quando i primi raggi del sole arrivarono a lambire il bordo della vasca. Temon indicò uno degli individui nel cerchio. «Ecco chi verrà con voi, Atana il Cantore. Il migliore di noi. Stanotte ha bevuto l'acqua della memoria, e la sua mente è affondata per lunghe ore nella convulsione. Egli adesso sa tutto, ed è pronto per l'ultimo rito.» A quelle parole l'uomo uscì dal gruppo. Giunto accanto a loro si fermò, con gli occhi levati al cielo e le braccia aperte, mormorando qualcosa. Poi cadde in ginocchio, rivolto verso Temon, spalancando la bocca. Lento Temon sollevò una sottile lama dorata, che aveva estratto da sotto la veste, e la immerse nella cavità oscura che si era aperta dietro la maschera. Quando la estrasse la punta era bagnata di sangue: il Cantore emise un gemito sordo, mentre la voce degli oranti esplodeva in un ultimo grido stridulo. Con una reazione del tutto inattesa l'uomo si unì agli altri, superando la loro voce con una potenza inaudita. Poi si rialzò barcollando. Vargo aveva seguito la scena sconcertato, al pari dei suoi compagni. Si mosse verso di lui, sostenendolo: attraverso la stoffa sentiva il tremolio del suo braccio, esile come quello di un bambino. «Cosa gli avete fatto?» gridò. «Ho reciso una delle sue corde vocali, secondo la tradizione. Solo chi abbia subito questa prova può intonare il Canone.» Il Cantore sembrava essersi ripreso. Si liberò dalla stretta e si avvicinò ai cavalli. Una goccia rossa sulla maschera sembrava il solo ricordo dell'accaduto. «La città!» gridò Amnor. «Adesso puoi farci da guida?» L'uomo annuì lentamente. Sembrava incerto. «Ha la mente ancora confusa» disse Temon, «ma la sua visione si farà più chiara, quando sarete là.»
17 Erano in marcia. Gli animali nitrivano sempre più agitati mentre discendevano verso la valle sottostante, ancora parzialmente nascosta dai banchi di nebbia dell'umidità notturna. Il bagliore intenso della notte si era trasformato in un fuoco rossastro, che brillava sotto di loro esplodendo con mille barbagli sullo sperone di roccia che si levava dalla pianura sabbiosa. «Anharra!» esclamò Amnor. Dietro di lui il Cantore emise un mugolio rauco. Le Sgualdrine gli avevano ceduto un cavallo, e loro due montavano insieme, schiena contro schiena, secondo il loro strano costume. D'un tratto, senza che nessuno avesse dato l'ordine, tutti spronarono le cavalcature. Ogni timore pareva dimenticato, spazzato via dall'urgenza di conoscere finalmente quello che li aspettava. Corsero fino a sfiancare i cavalli, inseguendosi e sorpassandosi con grida eccitate, in preda a un entusiasmo infantile. Nessuno di loro avrebbe saputo dire per quanto galopparono. Sopra le loro teste il sole aveva percorso un lungo arco nel cielo, continuando ad accendere di fuoco la loro meta. Il grande cerchio rosso stava tramontando quando Amnor impennò il suo cavallo alla base della rupe. Anche Vargo arrestò con uno strappo delle redini la sua bestia stremata, grondante di sudore. Poi alzò gli occhi, facendosi schermo con la mano. Tutta l'altura era cinta in alto da una muraglia lampeggiante, in apparenza formata da un blocco contìnuo di rame, sulla quale si riflettevano i raggi del sole calante. Sembrava che tutta la collina fosse in fiamme. Interi millenni dovevano essere scivolati su quel fronte di metallo. Gigantesche coppie di torrioni emergevano a intervalli dalla muraglia, stringendo tra loro porte maestose. Eppure, pensò Vargo, c'era qualcosa che minava la sua potenza. Qua e là striature più opache, accompagnate da cascate polverose di ossido verdastro, scendevano lungo le mura come se la città piangesse fuori tutto il suo dolore. Osservarono lo spettacolo in silenzio, affascinati. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Persino le ragazze tacevano. Lo sguardo di Amnor era carico d'emozione. «Non avrei mai immaginato... questo» mormorò Vargo sconcertato. «Sembra non esserci alcuna apertura. Come fecero a entrare, i due carto-
grafi?» Amnor aveva estratto qualcosa dalla bisaccia. Vargo riconobbe l'antica mappa; il vecchio la esaminò rapido, poi con un gesto brusco appallottolò la pelle gettandola in terra. «Ormai è inutile» disse, mentre gli zoccoli del suo cavallo la calpestavano. «Adesso soltanto quello che è scritto nella tua mente può aiutarci» disse rivolto al Cantore. L'uomo socchiuse gli occhi, concentrandosi. «Anharra è cinta da settantasette porte» mormorò con la sua voce rauca, che sembrava sorgere dal fondo della gola, anziché dalle labbra. «Ma nelle Tavole era scritto qualcosa di diverso: sette sono le porte della città» lo interruppe il vecchio. «... Sì, soltanto sette sono quelle che possono essere aperte: le altre sono semplici simulacri» replicò l'altro. «Per ingannare gli assalitori in caso di assedio?» «Per ingannare tutti» replicò l'altro enigmatico. Raccolto da terra un ramo secco cominciò a scavare sulla sabbia uno schema di cerchi e strutture concentriche, scivolando in continuazione con lo sguardo dalla muraglia a quello che andava tracciando. Il sole era parzialmente disceso dietro la collina, e le prime zone d'ombra avevano preso a distendersi sulla cinta, attenuando il bagliore. La luce si era fatta radente, rendendo visibili altri particolari. Un reticolo sottile rivelava le connessioni delle piastre di metallo con cui era stata realizzata l'opera, fissate tra loro da una miriade di chiodi più grandi della testa di un uomo. E su ognuno di questi la mano degli antichi artefici aveva impresso la forma di un teschio ghignante. Shanda, che aveva notato il particolare, attirò l'attenzione della sorella. Ma l'altra rispose con un'alzata di spalle, affrontando il Cantore. L'uomo seguitava a modificare e correggere quello che andava tracciando sulla sabbia. «Allora quali sono le porte che si aprono?» chiese. Ma visto che l'uomo non rispondeva, spazientita la giovane cancellò con un calcio parte del disegno. «È tanto difficile capirlo? Ci hai fatto credere che la tua scienza conoscesse tutto!» «Vemerin ordinò la costruzione della cerchia di mura secondo un disegno che ricalca le infinite permutazioni degli elementi. Quello che vediamo è solo una parte del bastione: ci sono altre mura, nascoste nell'interno.» Indicò le linee che aveva tracciato. «Il segreto è questo: non un cerchio
di mura, ma tre, concentrici. Ogni giorno il congegno da lui escogitato faceva ruotare secondo un principio e una regola segreta le cinte, in modo che le sette porte funzionanti fossero all'alba ogni volta diverse.» Un sibilo aveva rotto il perfetto silenzio del deserto. Il sibilo dopo pochi istanti si era arricchito di una vibrazione metallica. Amnor ascoltava attento, la testa leggermente sollevata per cogliere il suono in ogni particolare. «Ma tutto questo deve avvenire secondo una regola!» disse poi. «Nelle Tavole era scritto:... il Re Pazzo trascinò il cielo sulla terra. A ogni porta veniva attribuito il nome di una stella, Hastur, Ypsalla, Merkha, Fulgex... Forse i varchi si aprono secondo il ritmo con cui queste stelle sorgono all'orizzonte...» Il Cantore scosse il capo, additando le mura sfolgoranti. «Lo schema è diverso. Anche le sue stelle non sono quelle che conosciamo. Anharra è lo specchio delle visioni di Vemerin» disse il Cantore. «Non delle cose come sono, ma come gli furono dettate dalle Tenebre.» «Il Re Pazzo ha disegnato intorno a sé un universo creato dalla sua mente?» «Sì. La sala del trono, al centro della città, doveva coincidere con il centro del nuovo mondo. Era questo il suo disegno: rappresentare nella pietra l'intera cosmogonia degli dei che verranno.» Amnor sembrava disorientato. Era come se l'impresa in cui si era gettato solo adesso gli gravasse addosso in tutta la sua enormità. Si passò una mano sulla fronte. «Non immaginavo questo... pensavo di aver compreso il suo segreto... i moti celesti...» «Ma il congegno non può funzionare ancora, dopo tanti secoli! Forse almeno uno dei varchi è aperto...» disse Vargo. Il Cantore scrollò le spalle. «Vemerin eresse la sua città sulla pendice di un vulcano. Questo è tramandato. Dalle sue profondità la macchina attingeva l'immane energia di cui aveva bisogno per le permutazioni. Senti questo sibilo?» disse rivolgendosi al giovane. «La città sta attingendo al vapore bollente delle profondità, per attivare la macchina che muove le porte. E nulla può aver spento la forza della montagna. No, anche in questo momento le porte stanno apparendo e sparendo sotto i nostri occhi.» «Straordinario! E ci hai trascinato in questa trappola, senza entrata e senza uscita!» gridò ancora Khaima, rabbiosa. «Se almeno potessimo costruire qualcosa di simile al Pugno di cui dispongono gli imperiali...» disse Vargo cupo. «Ma non c'è nulla, nemmeno
un albero...» «Sarebbe inutile... il Pugno può travolgere un ostacolo eretto dagli uomini. Ma non il metallo di queste mura.» Shanda scoppiò in una risata aspra. «Così nemmeno una porta sei più in grado di aprire, vecchio» sibilò ironica. «Ma noi del Cerchio non ci fermeremo davvero adesso!» Alzò lo sguardo sulla massa di metallo, poi con uno scatto della criniera rossa puntò il dito avanti. «Possiamo tentare di scavalcare la muraglia. In fondo siamo riusciti a entrare nella Torre, possiamo farcela ancora.» Vargo fissò a sua volta sconfortato la superficie liscia, che sembrava innalzarsi fino al cielo. Le maschere ghignanti erano a troppa distanza l'una dall'altra per costituire un appiglio. «Certo non qui. Proviamo a seguire la cerchia delle mura. Forse c'è un punto più favorevole» disse poco convinto. Spronarono i cavalli. Le mura sembravano proseguire all'infinito, proiettando la loro ombra sempre più lontano, a mano a mano che il sole si nascondeva dietro di loro. Anche le porte si susseguivano, identiche le une alle altre. A un certo punto Vargo notò la prima irregolarità nella struttura: le lastre di rame apparivano piegate, come se una mano gigantesca le avesse spinte verso l'interno. Il metallo era contorto per alcune braccia, poi riprendeva la sua forma consueta. Anche gli altri avevano notato la diversità. «C'è una spaccatura in corrispondenza della distorsione» affermò Amnor indicando una lunga faglia che giungeva dal deserto lontano, fino ad arrestarsi contro il muro. «Il terreno deve aver ceduto, in un'epoca remota.» «Forse lo stesso terremoto che ha scosso le montagne» ipotizzò Vargo. «Tanto forte da aver sollevato la città stessa» replicò Amnor. «La faglia oltrepassa la cerchia di mura, e penetra di sicuro oltre.» «No» rispose il giovane. «Guardate meglio. È solo una piega del metallo. Le lastre hanno resistito alla pressione. Di qui non si passa.» «C'è qualcosa, laggiù!» gridò allarmata Khaima, che si era allontanata di qualche tratto proseguendo lungo la muraglia. «Là, accanto alla porta!» Si arrestarono di colpo. L'immenso dragone di ferro giaceva immobile all'inizio della rampa, inclinato su un fianco come se fosse sul punto di avventarsi contro di loro. I due grandi occhi di rubino, affondati tra le scaglie della testa crestata, sembravano seguire le mosse del gruppo. Il dorso,
fatto di piastre di bronzo saldate le une alle altre, sembrava quello di un serpente. «Una statua!» Vargo sentì un brivido corrergli lungo la schiena: anche se era una semplice riproduzione, i suoi artefici avevano impresso in quel corpo smisurato l'impronta dello spirito maligno che li aveva ispirati. Sul muso aguzzo una chiostra di zanne spuntava dalle fauci come una selva di sciabole. Dalla parte opposta, il corpo terminava con una coda tozza come un maglio, coperta di punte metalliche. Vargo fece qualche passo in avanti, cauto. Vide con la coda dell'occhio che anche le Sgualdrine si erano avvicinate insieme ad Amnor. Solo Atana il Cantore era rimasto indietro, agitando le mani in segno di allarme. Khaima raccolse una pietra da terra e la lanciò con forza contro il mostro. Il metallo risuonò con un rimbombo sordo contro il fianco della rupe. «Vedete! Che c'è da temere da una vecchia statua?» gridò irridente la giovane. Anche Shanda prese un sasso e colpì di nuovo il bestione poco sotto l'occhio. All'improvviso l'enorme testa della bestia si volse verso di lei con uno stridio metallico. Le zanne scattarono enormi, mordendo l'aria a pochi palmi dalla sua gola. Shanda cadde a terra urlando. Paralizzata dal terrore se ne stava immobile, coprendosi con un braccio gli occhi alla vista della belva che si apprestava a schiacciarla. Vargo si slanciò in avanti spinto dall'istinto, afferrandola per un braccio e trascinandola lontana. Ma il mostro non sembrava volersi muovere ancora. Era tornato alla sua immobilità secolare: solo una nuvola di polvere rugginosa che fuoriusciva dalla bocca stava lì a provare la cieca ferocia di un attimo prima. «Non è una semplice statua» dichiarò dopo un rapido esame Amnor. Si era spinto fin sotto il fianco del mostro: «Ci sono delle ruote che fuoriescono dal corpo, legate con dei denti. Come la macina di un mulino alla ruota. È una macchina, concepita per muoversi. Forse nelle sue mandibole ci sono delle molle, o un sistema di contrappesi che è scattato quando è stato colpito.» «Può farlo di nuovo?» balbettò Shanda, ancora scossa. «Non credo. Probabilmente era rimasta dell'energia accumulata.» Il vecchio continuava nel suo esame del drago. «Sembra costruito per essere governato da qualcuno. Ecco, è lì che si entra» disse indicando una delle
piastre su un fianco, dalla quale spuntava una maniglia circolare. «Ho un'idea! Bisogna cercare di raggiungere il portello, e aprirlo. Prendete una corda.» Shanda si era ripresa dallo spavento. Dopo qualche attimo tornò con una fune arrotolata sul braccio. La lanciò con abilità verso il punto indicato, facendola arrotolare attorno alla maniglia. Poi saggiò con uno strappo la resistenza della fune e prese a inerpicarsi sul fianco della bestia. Vargo si afferrò a sua volta alla fune, seguendola rapido. La maniglia resistette per un po' ai loro sforzi congiunti, prima di cedere con uno scricchiolio. La piastra girò sui suoi cardini, rivelando un'apertura che immetteva nel ventre del mostro. Subito oltre c'era una scala arrotolata, fatta di maglie metalliche. Vargo ne tolse i fermi, lasciando che si srotolasse verso il basso. «Salite!» gridò ad Amnor e Khaima rimasti in basso. «E portate una torcia!» Dalla parte della coda dentata del mostro c'era un enorme cilindro di metallo su cui si aprivano quattro sportelli. Da lì partiva una serie di tubi che si perdeva nel buio. Dalla parte opposta invece c'era uno stretto camminamento, in fondo al quale si intravedeva un tenue bagliore rossastro. Vargo pensò agli occhi di rubino del mostro: quella cavità doveva trovarsi all'interno della testa. Si inerpicò nello stretto passaggio, strisciando sui gomiti fino alla luce. Come aveva immaginato sbucò in un piccolo antro: attraverso le due finestre poteva scorgere chiaramente la porta e un tratto di mura davanti, il rame reso ancor più incandescente dal filtro colorato del cristallo. Amnor, intanto, si guardava attorno ammirato. «È una specie di caldaia» sentenziò, passando un dito sul bordo delle aperture del cilindro e ritraendolo sporco di fuliggine. «Questa macchina funziona con il fuoco. Ricordate quella di cui abbiamo visto i frammenti sul campo della battaglia? Non è stata distrutta dal fuoco degli assalitori, ma da quello che covava al suo interno...» Meditò per qualche attimo tra sé. «I draghi del fuoco... questo era scritto nelle Tavole. Dunque erano macchine, macchine come questa... azionate dal calore. La stessa forza che muove le porte.» Guardò anche lui attraverso gli occhi del drago, preso da un'idea improvvisa. «Punta ancora verso la porta... Se riuscissimo ad azionarlo, sarebbe l'ariete che ci serve. Abbiamo bisogno di legna. Oppure...» Accanto alla caldaia c'era un grosso contenitore, colmo di pietre scure.
Amnor ne raccolse una, annusandola e grattandone poi qualche scheggia con le unghie. «Sembra carbone... ma non ottenuto dai tronchi. Una sorta di minerale... forse è questo l'alimento della macchina. Proviamo a vedere se brucia.» Ne gettò una manciata nella caldaia, poi con la torcia cercò di appiccarvi il fuoco. Le pietre da principio si limitarono a sfrigolare, emettendo un leggero vapore, poi sembrò che reagissero alla fiamma, arrossandosi. Un calore crescente prese a uscire dalla caldaia. Trascorse più di un'ora. Ormai fuori il sole era scomparso dietro la città, ma la luce del crepuscolo ancora vivida. Le pietre continuavano a bruciare, trasformando le viscere del mostro in una fornace torrida. Presto non sarebbe stato più possibile resistere. Eppure non succedeva nulla. Anche Amnor sembrava deluso. «Aggiungete altre pietre!» ordinò deciso. «Queste fornaci devono pur servire a qualcosa!» «Solo a uccidere noi, vecchio!» esclamò Shanda, in tono di scherno. «Hai deciso di cuocerci? Andiamocene!» Un sibilo soffocò la sua voce. Il ventre del mostro aveva iniziato a tremare, come se nelle sue viscere il fuoco avesse finalmente mosso qualcosa. Le fiamme ruggivano attraverso la bocca incandescente della caldaia, mentre improvvisi getti di vapore fuoriuscivano dai giunti delle tubature. Amnor si concentrò su un grande oblò di vetro che si apriva sulla parete, al di là del quale una sbarra metallica si stava sollevando. «È questo che ho letto negli antichi libri. Che Vemerin aveva scoperto il modo di strappare ai vulcani la loro forza, e rinchiuderla nei suoi mostri!» «Adesso cosa facciamo?» chiese Vargo, preoccupato dalle scosse sempre più forti della macchina. «Non lo so... Ma se c'è un modo di guidare il drago, deve essere nella sua testa!» Il vecchio risalì insieme a Vargo lungo la strettoia verso la camera dalle finestre di rubino. Al centro spuntava dal pavimento una lunga leva, bloccata in alto da una maniglia. Amnor ruotò il congegno liberandolo, e spinse in avanti la leva. Il mostro oscillò violentemente su un fianco, poi la spinta parve trasferirsi sull'altro lato. Intorno la struttura aveva preso a sobbalzare sempre più violentemente, come se il drago cercasse di liberarsi dalla catena che lo tratteneva. Prima di aver il tempo di realizzare cosa stava accadendo Vargo si sentì afferrare
il polso dal vecchio. «Dobbiamo uscire di qui!» Poi con uno schianto il gigante si mise in moto, accelerando. Tutta la macchina tremava e ondeggiava paurosamente, costringendoli ad afferrarsi con tutte le forze a ogni appiglio per non essere scagliati contro le pareti di ferro. A fatica percorsero a ritroso la strada verso il portello d'entrata, fuoriuscendo sulla schiena del drago. «Troppo tardi!» gridò Amnor aggrappandosi a una delle giunture che legavano le piastre della pelle corazzata del mostro. Le mura di Anharra correvano loro incontro, mentre la rampa in salita verso il portale scompariva sotto le zampe del drago. «È troppo veloce: se ci gettiamo di sotto corriamo il rischio di essere calpestati! Meglio cercare di resistere dove siamo!» gridò ancora il vecchio, tentando di vincere l'urlo del vapore che sfiatava dalla pancia del mostro. Anche Vargo e le due ragazze si aggrapparono a delle sporgenze del mantello di ferro, sdraiandosi sulla sua superficie. Ormai erano a poche braccia dalla porta. Il drago coprì in un lampo la breve distanza, poi urtò con tutto il suo peso contro l'ostacolo. La superficie della porta vibrò come un'enorme campana, mentre i cardini si piegavano scricchiolando. Il metallo iniziò a flettersi, poi tornò a distendersi nella sua posizione originaria, emettendo una nota cupa. E per la seconda volta il mostro si avventò in avanti. Di nuovo la porta assorbì il colpo, rimbombando. Ma questa volta il drago si appoggiò alla parete di metallo e rimase immobile, limitandosi a emettere una nuvola di vapore. Subito Vargo, Amnor e le due ragazze scivolarono a terra e corsero via, allontanandosi. Il mostro continuava a tremare, tra sfiati di vapore. Vargo si girò a osservare lo spettacolo con un'esclamazione delusa. La porta era stata curvata dalla spinta del drago, ma non era caduta. Era ancora lì a sbarrare la strada. «È stato inutile» borbottò sconsolato. All'improvviso un'esplosione immane sollevò una nuvola di polvere e di detriti metallici. Vargo si sentì afferrare alle spalle da una mano che lo schiacciò verso terra, mentre schegge infuocate gli sibilavano intorno. Quando riuscì a risollevarsi, nelle mura si apriva uno squarcio, là dove fino a un istante prima sorgeva l'imponente portale. La testa del mostro, con i suoi occhi di rubino di cui restavano solo poche schegge, era volata in alto,
ricadendo con un boato accanto ai loro corpi. Cautamente il gruppo si avvicinò al varco, tra rottami di metallo rovente. Intorno il fumo dell'esplosione si andava diradando. Vargo si affacciò per primo sull'apertura, la spada in pugno. Appena oltre la porta sventrata scorgeva un cortile lastricato, circondato da mura su cui si aprivano una serie di archi ciechi. L'unico passaggio era sulla sinistra, una stretta rampa che saliva tra due contrafforti di pietra. Una trappola ideale, pensò il giovane tendendo il braccio per arrestare gli altri che lo seguivano. «Che succede?» chiese Amnor accostandosi. «La porta. Ci costringe a infilarci là dentro. Se c'è qualcuno appostato lassù...» «Anharra è stata abbandonata da millenni. Solo le ombre la abitano, ormai» mormorò rauco il Cantore. Le Sgualdrine avevano impugnato i loro archi e scrutavano attente la rampa. Si scambiarono un'occhiata. Poi Khaima tese l'arco e scagliò una freccia, diretta con precisione nell'intervallo tra due merli. «Nulla. Forse davvero non c'è nessuno» disse Shanda. «Non dimenticate l'altra porta, quella sul confine del Vuoto. Potrebbe essere armata con gli stessi congegni. No, non mi fido» replicò Vargo. «Possibile che non ci sia un'altra strada?» «Gli archi. Sembrano chiusi. Ma qualcuno di loro potrebbe celare un passaggio» disse Amnor. «Se le porte ruotavano, secondo il loro ciclo, anche quegli archi dovevano consentire il passaggio, al momento stabilito. Ma come...» «Non c'è tempo» disse il Cantore. «La città è immensa, e la nostra meta lontana. Nester stanotte sarà allo zenith, le acque avvelenate dalla sua luce traboccheranno da ogni fonte.» «L'ultimo arco, guardate!» esclamò Shanda, che si era attardata di qualche passo. Nella parete di pietra, in corrispondenza dell'arco sull'estrema destra, c'era un crepa profonda. Uno dei due pilastri sembrava aver ceduto, e un'ampia fessura correva lungo tutto il bordo in alto. Vargo poggiò la mano sulla parete. «Non sembra pietra! Piuttosto...» «Sì, è metallo» confermò il vecchio, battendo con le nocche sulla superficie. «E dev'essere mobile. Ma il Cantore ha ragione, non c'è tempo. Dob-
biamo passare per quella fessura.» «Vado io per primo» disse Vargo afferrandosi a un'irregolarità della superficie e arrampicandosi a forza di braccia. Quando fu vicino alla fessura si volse verso il basso. «Il passaggio è appena sufficiente, ma forse dovremmo farcela.» Appoggiò i piedi sul bordo del capitello da cui partiva l'arco e allungò una mano verso il basso. «Salite. Prima le ragazze!» Khaima e Shanda si inerpicarono con facilità. Al momento di sormontare l'ostacolo Shanda emise un lamento, agitando una mano. «Attenti al bordo, è tagliente come la lama di un rasoio!» Subito dopo salì il Cantore, impacciato dalla lunga veste, e quindi Amnor. Nel momento in cui il vecchio strisciava nell'apertura la terra parve muoversi, e tutta l'arcata vibrare con un rumore sinistro. L'apertura si restrinse di qualche pollice, come se il varco stesse per richiudersi. Per un attimo il giovane temette che Amnor venisse tagliato in due dal bordo metallico, ma il movimento si arrestò e il vecchio poté scivolare via incolume. Anche Vargo si inserì nel passaggio, dopo una breve esitazione. La terra aveva ripreso a tremare: la chiusura si strinse di un altro pollice. Il giovane passò rapido dall'altra parte. Appena in tempo: l'arco si chiuse alle sue spalle con uno stridore sinistro. Ora davanti a loro si apriva una strada lunghissima, che pareva affondare nell'interno della città fino a sparire in lontananza, ridotta a un punto confuso. Anche se non c'era traccia di esseri viventi, il giovane ordinò ai suoi compagni di tenersi accosto ai muri, le armi pronte. Tutta la via appariva lastricata dalle tessere di un immenso mosaico multicolore. Vargo fissò il tappeto di figure che scivolavano via verso l'orizzonte: un intreccio lussureggiante di piante, animali ed esseri umani uniti in un abbraccio caotico, come se il suo artefice avesse voluto trasmettere all'osservatore tutto il senso di provvisorietà e di casualità dell'esistenza. Una vitalità morbosa emanava dalle immagini. Anche gli altri osservavano inquieti. Vargo alzò gli occhi verso le facciate dei palazzi allineati lungo la via. Le guglie erano spezzate, e le cupole - che un tempo dovevano essere ornate da piastre d'oro - erano spoglie. Le muraglie, ancora coperte di colori accesi, erano quasi tutte in rovina. «Dove andiamo?» chiese rivolto al Cantore. «Cosa dice il tuo ricordo?»
L'uomo si guardava intorno disorientato. «Io so quello che conobbero i miei avi... La tomba di Vemerin fu eretta non lontano dal suo palazzo. Ma questa strada così diritta... non dovrebbe esserci» mormorò sconcertato. «Che diavolo c'era in quell'acqua, maschera?» esclamò alle sue spalle Shanda, sarcastica. «Tanto valeva che avessi bevuto il vino di Hirush!» «È tutto diverso» esclamò il sacerdote in preda a un terrore improvviso. «Andiamocene, prima che sia troppo tardi!» «No!» gridò il vecchio. «Aspettate! Deve esserci una spiegazione! Forse il moto delle cose non è limitato al cerchio delle mura, ma anche il resto della città si trasforma di volta in volta. Dobbiamo procedere oltre e trovare un punto di riferimento...» «Così questo è il tuo regno di morti!» lo interruppe Shanda. «Non c'è nulla davanti a noi.» Era furiosa, frustrata. Si strappò dalla schiena l'arco e incoccò una freccia. Poi la scagliò con rabbia avanti a sé. La freccia volò dritta, poi con uno schiocco sembrò urtare una barriera invisibile e cadde sulla superficie del mosaico. Le due Sgualdrine sgranarono gli occhi stupite. Amnor invece scoppiò in una risata tonante. «Il tuo ricordo era giusto, Cantore! Adesso capisco.» Il vecchio si mosse correndo in avanti, seguito dagli altri. Giunto nel punto dove era caduta la freccia si fermò, allargando le braccia come se volesse abbracciare l'aria avanti a sé. «Eccolo, è qui, davanti ai nostri occhi!» esultò. La strada era tagliata da una parete. Sulla sua superficie la mano di un antico artefice aveva riprodotto con maestria la strada stessa, con l'esatta prospettiva di una sua prosecuzione all'infinito. «È un trucco... un fondale da baraccone...» mormorò Vargo sconcertato. Anche le due ragazze si erano avvicinate e verificavano con le mani l'ostacolo. «E questa è la magia terribile di Vemerin?» sghignazzò Khaima. «L'ultimo degli illusionisti a Menthor sarebbe capace di meglio!» «È un modo per disorientare un eventuale aggressore, che avesse superato come noi la cinta delle mura» disse il giovane. «Sembra banale, ma nella concitazione di uno scontro potrebbe avere la sua efficacia.» Amnor scosse il capo. «Non credo che fosse questo il motivo.» «E quale sarebbe, allora?» chiese Vargo sorpreso. «Vemerin. La sua mente.»
«Cosa vuoi dire?» «Rifletti. Ha eretto la più possente delle città. Chiusa da mura di metallo, guardata da macchine poderose. Circondata da un deserto impenetrabile per qualsiasi esercito. Che cosa avrebbe dovuto temere? No, ripensa allo schema delle porte, con il suo disegno ispirato a cieli sconosciuti. Vemerin volle dare alla sua città la forma di un altro luogo, quello che vedeva a mano a mano che sprofondava nella sua follia. Scrivere nella pietra l'idea che tutto quello che vediamo è un'illusione, dietro la quale si nasconde qualcosa di indicibile.» Vargo volse lo sguardo intorno. «Quello che vediamo non è reale? Ma le mura di queste case sono solide! È pietra quello che tocchiamo!» «Sì, è reale, ma dobbiamo aspettarci altre sorprese... adesso la questione è da quale parte dirigerci.» Vargo indicò un edificio, un grande tamburo di pietra, le cui pareti erano scandite da una serie di finestre cieche, che si ripetevano in una serie di ordini successivi fino al tetto. Al livello della strada si apriva una porta larga e bassa. «Se riuscissimo a salire sul tetto di quella torre, da lì potremmo avere una visione più precisa della città.» «Certo più precisa dei vaneggiamenti della maschera» rimarcò velenosa Khaima. Amnor non le rispose neppure. Alzò gli occhi verso la sommità della costruzione, stimandone l'altezza. «Sì, da lì potremmo vedere oltre il fronte degli edifici che danno su questa strada. Proviamo.» Si avvicinarono con cautela all'ingresso. Il Cantore si fermò esitante sulla soglia, pronunciando una breve serie di parole a bassa voce. «Cosa c'è?» chiese Vargo, intuendo qualcosa. «Avverti un pericolo?» L'uomo scosse la sua maschera impassibile. «Non un pericolo. Non immediato, almeno. Ma dolore. Un dolore antico.» Vargo si volse perplesso verso Amnor. Ma il vecchio alzò le spalle con indifferenza. «Anharra stessa è il tempio del dolore.» Varcata la porta si ritrovarono in un ambiente vasto e oscuro. Un odore soffocante di polvere permeava tutto. Vargo si avvicinò alla struttura che si sviluppava immediatamente davanti a loro. Un'immensa ruota, posta in posizione orizzontale, dal bordo decorato da una serie di incisioni. Il suo perno centrale, spesso come il più grande degli alberi, saliva verso il soffit-
to e si perdeva all'interno di un cilindro di bronzo. «Sembra una macina da mulino. Ma nemmeno i mulini imperiali hanno qualcosa di così grande...» «È una macchina, un'altra macchina...» disse Amnor. «Ma non un mulino. Guarda, il suo bordo è scolpito: una corona di denti, fatti per trascinare la catena che li avvolge.» Lentamente gli occhi di Vargo si stavano abituando alla penombra. Vide che il vecchio aveva ragione: quella che dapprima gli era parsa una decorazione era in realtà una profonda scanalatura, al cui interno erano ancorati gli anelli di una catena doppia. La catena, alta più di tre uomini, circondava la ruota per più di metà della sua circonferenza, poi se ne allontanava fino a sparire in una fessura nella parete di roccia. A qualunque cosa fosse servita, il suo peso da solo doveva essere superiore a quello di parecchie delle galee che solcavano il mare interno. «Quale forza può metterla in moto?» chiese il giovane sbalordito. Amnor stava guardando verso il soffitto. «In alto... l'asse della ruota penetra nel piano superiore. È straordinario...» Vemerin e le sue ricchezze, la meraviglia delle sue visioni, il segreto del canto delle Tenebre, tutto sembrò per un attimo dimenticato. Trovarono una scala e salirono. Amnor per primo, seguito da Vargo. Poi Shanda, Khaima e il Cantore. Al termine della scala si apriva una botola, al di là della quale si estendeva il secondo piano dell'edificio. Dall'asse che saliva dal piano inferiore e si allungava anche qui fino a sparire nel soffitto, partivano catene di ruote dentate, ingranate le une nelle altre. Amnor si chinò scivolando al di sotto di una di esse, cercando di avvicinarsi all'asse centrale. In quella zona c'era un piccolo spazio libero, all'interno del quale il vecchio prese ad aggirarsi scrutando con attenzione tutto quello che lo circondava. Poi, dopo un tempo che a Vargo parve lunghissimo, si rivolse al giovane con gli occhi scintillanti. «È meraviglioso... un sistema di riduzione delle forze...» «Non dovevamo salire sul tetto?» chiese Shanda. «Perché perdiamo tempo con questa ferraglia? Vargo la tacitò con un gesto brusco. «Cos'è un riduttore delle forze?» Amnor fece un gesto vago e alzò di nuovo gli occhi al soffitto. «L'asse centrale... scommetto che attraversa la torre per tutta la sua lunghezza. E in cima... in cima, cosa?» mormorò, improvvisamente scuro in volto. Per qualche motivo non sembrava più così entusiasta di quello che lo circon-
dava. «Continuiamo. Dobbiamo salire sul tetto per orientarci.» «Ricordi, Vargo, il pavimento della sala del Silenzio?» disse il vecchio. «C'era un particolare nello schema che mi colpì. Sul momento non sono riuscito a capire che cosa significasse. Ma adesso.... Tu lo sai, vero?» continuò rivolto al Cantore. L'uomo scosse il capo. «Posso dire soltanto ciò che sento. In questa torre ha albergato il dolore. In un epoca remota. Ma i lamenti e l'angoscia hanno impregnato le pietre e urlano nella mia mente.» Vargo tese le orecchie. Forse era solo il vento che filtrava attraverso le pietre millenarie, ma per un attimo ebbe l'impressione di udire davvero il furore delle grida. Anche le due Sgualdrine erano ammutolite. Scrollò con forza la testa per liberarsi da quella sensazione. «Andiamo! E stavolta fino in cima.» Oltre il secondo livello si apriva un nuovo spazio, molto più esteso in altezza dei precedenti. Di nuovo l'asse metallico fuoriusciva dal pavimento e saliva verso il soffitto, a un'altezza vertiginosa. Lungo tutta la sua lunghezza ancora una quantità innumerevole di ingranaggi uniti tra loro secondo uno schema incomprensibile. «Un altro demoltiplicatore...» mormorò Amnor. «Che cosa significa?» chiese ancora Vargo, mentre continuava a salire. «Quell'asse. Se qualcuno in alto potesse farlo ruotare, alla base esso svilupperebbe una forza smisurata. E la catena che è collegata alla ruota più grande sarebbe in grado di trascinare con sé una montagna...» Avevano raggiunto l'ingresso del piano superiore. Amnor si arrestò per un istante sull'uscio. «Le porte! Ecco cosa comandava la successione delle aperture!» mormorò con voce turbata. «Cosa?» chiese il giovane dietro le sue spalle. «Il dolore» disse il vecchio, facendosi da parte per consentirgli di vedere. Vargo si sporse in avanti, poi arretrò di nuovo, incredulo. Lo spazio smisurato era popolato da migliaia di corpi immobili. Due colonne contrapposte, ognuna formata da più di cento individui, legati per le spalle con delle corregge a una catena tesa tra due cilindri rotanti. Corpi di uomini e di donne che erano stati vivi un giorno, raggelati nello sforzo di azionare la macchina con tutte le loro forze. I muscoli sembravano ancora contratti, le vene gonfie per la spinta di un sangue che da secoli si era trasformato in polvere. La loro pelle si era disfatta, e solo qualche brandello restava appeso alla carne grigiastra. Eppure le loro espressioni di dolore erano ancora
leggibili nelle smorfie delle bocche senza labbra. «Sono morti...» mormorò Shanda soffocando il ribrezzo. «Ma cosa li tiene in piedi?» disse Khaima. Il Cantore tese lentamente la mano verso il cadavere più vicino. «La pena.» Al centro del petto dell'uomo spuntava una serie di uncini, infissi in modo da agganciare le costole. A ognuno di quegli ami era legata una striscia di cuoio, teso fino ad altri uncini, piantati nella schiena della donna che immediatamente lo precedeva nella colonna. «Erano tutti ancorati tra loro, un'immensa rete che scatenava un dolore atroce, se uno solo di loro avesse perso il ritmo e la distanza del passo. Erano condannati alla schiavitù, e allo stesso tempo a essere custodi e aguzzini di se stessi. Hanno marciato insieme fino al crepuscolo di Anharra, e insieme sono morti. In piedi, trattenuti dai loro legami» disse Amnor. «Le Tavole parlavano di loro: i Camminanti, i muli di Vemerin. Schiavi strappati ai nomadi del deserto, alle razze più temprate nella marcia.» Shanda aveva ascoltato con attenzione. Inaspettatamente sul suo volto spuntò un'espressione misericordiosa. Alzò la mano verso il volto della donna, ancora contratto nello sforzo, sfiorandolo con una carezza. Ma sotto il suo tocco il viso prese a disfarsi, cadendo in polvere. Poi tutto il corpo lo seguì in terra, in un mucchio informe. La ragazza si ritrasse con un grido di spavento. Anche Vargo si voltò inorridito. Non più sostenuto dalla fragile consistenza del cadavere che si era disfatto, quello più vicino prese a sua volta a scivolare in terra, trasmettendo il suo moto agli altri. In un silenzio assordante, rotto soltanto dal soffio dei corpi che si disfacevano, l'intero esercito dei Camminanti stava tornando nel nulla. Un pulviscolo denso e scuro si alzò nell'aria. Uscirono in fretta da quella stanza, e di corsa salirono ansimando l'ultima rampa della scala, fino a raggiungere una porta di ferro. Sotto di loro la polvere dei morti era diventata una nube nera che cresceva. «È bloccata!» esclamò Khaima, che aveva afferrato per prima il chiavistello. Anche Vargo si aggrappò all'anello, cercando con tutte le forze di smuoverlo. «Là, guardate!» gridò in quel momento Shanda. Dalla scala uno stretto cornicione si estendeva lungo l'arco della costruzione. Da un punto a qualche decina di passi filtrava della luce. «Dev'esserci una finestra.» Il cornicione strettissimo dava su una voragine. Vargo dette un altro strappo all'anello, anche stavolta senza risultato. Tossiva per l'acre polvere
dei morti, che gli penetrava nel naso e nei polmoni. Vide che anche i suoi compagni cominciavano a soffocare. «Tentiamo!» Si avviarono tutti per lo stretto camminamento, sbucando su una terrazza. Da lì un altro camminamento aereo collegava la torre a un edifico vicino. La copertura era franata, trascinando nella caduta diversi piani interni della costruzione. Vargo si affacciò. L'interno era ridotto a una sorta di camino senza fondo. Al centro della rovina un'imponente scala a chiocciola di marmo restava ancora in piedi nel vuoto, come la colonna solitaria di un tempio abbandonato dagli dei. La testa della scala terminava poche braccia sotto il livello del tetto. «Se riuscissimo a raggiungerla, potremmo tornare a terra» esclamò Vargo, misurando con l'occhio la distanza che li separava dall'obiettivo. Si guardò intorno in cerca di qualcosa che potesse servire alla bisogna, tavole o altro. Ma non vide nulla. «Temo che saremo costretti a tornare indietro.» «Ma l'aria nella torre della macchina è irrespirabile! Da quella parte è impossibile» esclamò Shanda. Vargo annuì sconfortato. La ragazza aveva ragione: continuò a guardarsi intorno, alzando lo sguardo verso l'orizzonte. Lontano, verso quello che doveva essere il centro della città, brillava alla luce una costruzione colossale. E al suo fianco ancora una cupola, sfolgorante al sole. Quella doveva essere la loro meta, si disse con rabbia. Ed erano bloccati lì! Anche l'edificio su cui si trovavano un tempo doveva essere stato adornato da una cupola. Una trave lunga almeno trenta braccia, unico resto di quella che probabilmente era stata la sua armatura, restava ancora in piedi. «Ho un'idea...» disse il giovane all'improvviso. Costeggiando la voragine si spinse fino alla trave, afferrandola e tentando di scrollarla con tutte le sue forze. L'asse vibrò appena. «È ancora solida!» gridò. «Tentiamo di farla cadere verso la scala. Se siamo fortunati possiamo crearci una via di scampo. Al comando di Vargo si misero tutti a spingere e tirare ritmicamente, cercando di svellere la trave dal suo basamento. La struttura prese a oscillare, prima in modo quasi inavvertibile, poi con sempre maggiore violenza, accompagnata da uno scricchiolio crescente di legno. Quindi, di colpo precipitò. La testa della trave colpì violentemente la scala, imprimendole una forte
scossa. Per un attimo parve che stesse per cadere. La massa ondeggiò più volte, poi si fermò, miracolosamente intatta. «Possiamo passare!» esclamò Vargo, affrontando per primo la passerella di fortuna. Si muoveva con estrema cautela per evitare ogni ulteriore, anche minima, scossa. «Venite, seguitemi» disse agli altri. «E in fretta!» aggiunse, avvertendo un tremolio sotto i piedi. Accelerò il passo. Sentiva i suoi compagni dietro di sé, e la scala che rispondeva alla loro discesa con una vibrazione sempre più accentuata. «Più veloci!» gridò. «Ormai la prudenza è inutile, sta per crollare!» Si misero a correre il più velocemente possibile. La scala si stava inclinando sul suo asse. Vargo avvertì una scossa e sentì i gradini mancargli sotto i piedi. Con uno schianto pauroso la rampa era precipitata verso il basso. Sopra la sua testa Shanda e Khaima urlarono. Vargo riuscì ad afferrare per un braccio Shanda, che stava scivolando nel vuoto, saltò e toccò terra, tra i resti della scala, seguito dagli altri. Poi, con un frastuono orribile, la trave della cupola si abbatté a pochi passi da loro. «Fuori, presto!» gridò, indicando una porta, e corse da quella parte trascinando Shanda. Alle loro spalle la scala crollò completamente. 18 Una nuvola di polvere si levò dalla cima dell'edificio, mentre intorno risuonava ancora l'eco del crollo della scala. Si fermarono a riprendere fiato, ancora scossi, all'ombra di un gigantesco obelisco. Shanda in particolare sembrava la più provata. Si accarezzava una caviglia, lamentandosi. «E dunque, ora che facciamo?» chiese Khaima. «Da qualche parte si potrà pur passare!» Ai lati dell'obelisco si aprivano due strade in direzioni opposte. Il Cantore non accennava a muoversi. Fissò il monolite con la sua maschera impassibile, poi si avvicinò fino a sfiorare con la mano la superficie. «La pietra dell'Apparizione...» disse. «Qui le Tenebre si manifestarono per la prima volta al Re, mentre sfilava in corteo con i suoi sacerdoti, diretto alla cattedrale.» «Scelsero una cerimonia sacra per comparire?» «La loro profanazione non aveva limiti. E vollero che il luogo venisse
celebrato da un segno, che servisse da meridiana per il loro tempo, quando sarebbe venuto.» Amnor osservò l'ombra che il monolite proiettava a terra. «Ma per adesso segna ancora il tempo di questa terra. Siamo entrati in città da nord. Secondo l'ombra del sole, il centro dovrebbe essere...» Si guardò intorno, ma Khaima, spazientita, imboccò decisa la via sulla destra. «Proviamo da questa parte.» La ragazza avanzava scrutando con attenzione le facciate delle case. «Non c'è davvero nessuno qui... Questa città è più morta del deserto!» Prima che Vargo potesse trattenerla Khaima mosse ancora un passo, poi scomparve sotto i loro occhi. Shanda la chiamò urlando. «Sono qui!» rispose la voce lontana della ragazza. Non vi vedo più! Dove siete?» «Nemmeno noi ti vediamo» rispose Vargo, avanzando con cautela. «Resta ferma dove sei, e continua a far sentire la tua voce!» Khaima si mise a cantare. Da qualche parte davanti a loro cominciarono ad arrivare le strofe irriverenti di una canzonaccia da taverna, gridate a squarciagola. Vargo, seguito da Amnor, Shanda e il Cantore, continuò a procedere verso il punto da cui gli sembrava venisse la voce. C'era qualcosa di strano, più avanti. Una sottile irregolarità nelle facciate delle costruzioni, come se mancasse qualcosa. Di colpo urtò contro una barriera invisibile. «Uno specchio!» esclamò dopo un attimo di sorpresa. «Sì. È un cristallo, posto ad angolo» disse Amnor. «Per questo non riflette la nostra immagine. Quello che vediamo è il fianco della strada.» La voce di Khaima si fece più vicina. «Sta' attenta!» gridò Vargo, poi sferrò un violento colpo di spada contro lo specchio. L'immagine delle case si crepò, poi cadde a terra in una cascata di vetri infranti. Dall'altra parte apparve Khaima, curva sotto il braccio piegato a ripararsi dalle schegge. «Ce ne avete messo di tempo!» «Che cosa è successo?» chiese Vargo. «Ho sentito qualcosa che scattava, e un movimento d'aria dietro le spalle. Quando mi sono voltata eravate spariti. E poi...» La ragazza tendeva il braccio, indicando davanti a sé. Attenti a evitare le schegge taglienti, nessuno di loro aveva osservato con attenzione quello che li circondava.
Davanti a loro c'era il nulla. La strada terminava di colpo un centinaio di passi più avanti. La città sembrava scomparsa. «Un'altra illusione...» mormorò Vargo. Anche Amnor sembrava disorientato. «No... Al termine della strada, là dev'esserci il palazzo reale» disse il Cantore con voce ferma. Proseguirono verso il vuoto. All'uscita dalla strada compresero come mai non avessero visto nulla. La via sfociava su una piazza enorme, i cui confini si perdevano in lontananza. A destra, sul fondo, una scalinata conduceva a una costruzione quadrata, lunga forse un miglio, il cui frontale si ergeva su giganteschi pilastri. Il grande timpano che lo coronava in alto portava inciso un fregio con una scena di trionfo: un'enorme massa di uomini e cavalli in fila davanti ad un carro da guerra, il cui conducente si voltava a salutare la folla esultante. «È il Re?» chiese Vargo. Il volto dell'uomo ritratto era nascosto nell'elmo. «Vemerin che torna vincitore» rispose il Cantore, in preda a un tremito improvviso. «Una guerra che avrebbe potuto combattersi là dentro» replicò il giovane indicando la costruzione smisurata. Intorno le ombre della sera si erano fatte più cupe, e la avvolgevano rendendone incerti i contorni. «Cos'è?» chiese. «Quella...» balbettò il Cantore. «I nostri antenati ne hanno tramandato la memoria. La sala delle mille colonne. È lì che avvenne tutto. È il palazzo reale di Vemerin, con la sala del trono. Nel suo giardino è contenuta la tomba.» Amnor lo scosse rudemente. «Non è il momento di tremare!» gridò tentando di trascinarlo verso la scalinata. Il Cantore, però, resisteva puntando i piedi, e per un momento sembrò un bambino spaventato. «È la sala del trono... cosa c'è di tanto pauroso?» chiese Vargo. «Voi non capite... è lì che avvenne...» Con un gesto di insofferenza Amnor si mosse deciso verso la scalinata, lasciandoli indietro. Quando il Cantore vide che anche Vargo e le due ragazze lo stavano abbandonando, finalmente si decise a seguirli. Entrarono attraverso uno degli intervalli tra i pilastri, penetrando in quel-
lo che sembrava un grande atrio, che si estendeva per almeno un centinaio di passi fino alla parete di fronte. Infisse in anelli di bronzo confitti nella pietra, un gran numero di torce pendevano dalle pareti. «Portiamone con noi qualcuna» ordinò Vargo. «Potremmo averne bisogno, una volta all'interno.» Ne legò insieme un gruppo con un pezzo di corda, gettandosele a tracolla, imitato dalle Sgualdrine. Poi riprese il cammino verso un ingresso imponente, incorniciato da uno stipite scolpito, che segnava l'accesso allo spazio interno. La porta del nuovo ambiente giaceva a terra, divelta dai cardini. Una delle ante mostrava ancora netta sulla superficie metallica una profonda crepa, là dove un ariete doveva aver colpito per forzarla. Vargo si fermò, facendo un cenno ai suoi compagni. Indicò lo stipite sopra di loro. «Cosa c'è scritto sopra? Lo capite?» Amnor si concentrò sui segni che vi erano incisi. «Sì... Arca del Regno, o qualcosa di simile. È l'archivio di Vemerin!» esclamò dopo un attimo, illuminandosi. «I Canti! Devono essere qui!» Spostò bruscamente la mano del giovane, avvicinandosi alla soglia. «Aspettate!» gridò Vargo. «Perché qualcuno dovrebbe avere sfondato la porta? Forse...» «C'è stato qualcuno! Li hanno presi!» gridò Amnor disperato, penetrando a forza attraverso lo squarcio, incurante di ogni rischio. Il giovane lo seguì immediatamente, pronto a sostenerlo in caso di pericolo. Ma appena dall'altra parte si immobilizzò, sconcertato. Per un attimo Vargo pensò di trovarsi di fronte a un esercito di colossi schierati in battaglia. Il grande spazio era occupato da un numero incalcolabile di urne di pietra, alte più di due uomini, ognuna chiusa in alto da un coperchio della stessa materia. Solo i colori le distinguevano tra loro. Per la maggior parte erano ancora intatte, disposte ognuna al centro di un riquadro della scacchiera infinita che costituiva il pavimento della sala. Ma parecchie giacevano spezzate in terra, con il loro contenuto sparso intorno. Una delle urne infrante aveva ancora annodati intorno i resti semipolverizzati della fune con cui era stata rovesciata in terra. Vicino alla bocca spaccata c'era un mucchio di quelle che sembravano tavolette d'argilla,
coperte di segni. Vargo si chinò a raccoglierne una. Prima di poterla osservare nei particolari se la sentì strappare dalle mani. Amnor l'aveva afferrata e leggeva avidamente. Poi con un gesto di stizza la scagliò in terra, frantumandola. Si chinò a esaminare le altre. «Stupidi elenchi!» esclamò, gettando via anche quelle allo stesso modo. «Cosa c'è scritto?» chiese Vargo. «Resoconti di tributi pagati dai Popoli al Re. Registri catastali...» rispose l'altro. «Niente che valga qualcosa?» si intromise Khaima. «Dove sono i tesori?» Il vecchio alzò le spalle. «Forse sono ancora qui» seguitò tra sé. «Continuiamo a cercare!» «Non c'è tempo» mormorò il Cantore, indicando le urne che sembravano estendersi all'infinito. «Anche i membri del primo Collegio abbandonarono l'impresa.» «Ma forse furono interrotti...» «È inutile, vecchio» si intromise Khaima. «Se i tuoi Canti sono così preziosi saranno nella sala del tesoro. O nella tomba.» «Eppure qualcuno ha cercato qualcosa, qui dentro» osservò Vargo. «Hai ragione» convenne Amnor. Si mosse rapido verso un'altra delle urne infrante: questa doveva aver contenuto volumi di pergamena, a giudicare dai rotoli sparsi intorno. Il vecchio si mise a rovistare freneticamente, poi ne afferrò uno. Il suo atteggiamento mutò di colpo. Vargo vide la sua fronte aggrottarsi. Si avvicinò anche lui, cercando di vedere da dietro le sue spalle. Sulla pergamena campeggiava una serie di disegni multicolori, i cui inchiostri brillavano ancora vividi. Si sarebbero dette immagini di viscere. Come tutti gli ufficiali della Guardia, anche Vargo aveva ricevuto all'Accademia qualche nozione di medicina, insieme con i rudimenti di chirurgia da campo. Sarebbe stato in grado di riconoscere gli organi interni di uomo, se ne avesse visto la riproduzione. «Che cosa sono?» chiese con ribrezzo, indicando gli strani intrecci di arterie, nervi e muscolatura sotto i loro occhi. «Sono atlanti anatomici. Ma di una razza sconosciuta...» «I mostri della torre?» «Sì, credo di sì. Ecco cosa cercava chi ha forzato la porta. Il segreto del-
la loro natura» rispose Amnor continuando a studiare la pergamena, con un'espressione tesa. «Come replicare quegli esseri?» chiese Vargo disgustato. «O come distruggerli.» «Ma perché hanno lasciato qui tutto?» In quel momento un tremito accompagnato da un rombo lontano scosse il pavimento. Le urne oscillarono pericolosamente, e più di una rovinò fragorosamente al suolo. «Presto!» ripeté il Cantore allarmato. «Dobbiamo andare! La terra si muove, come nel giorno della morte del Re!» Amnor raccolse rapidamente una manciata di fogli, nascondendoli sotto la veste. Di nuovo il pavimento oscillò violentemente. «Correte!» gridò Vargo. Un'urna accanto a loro si inclinò e cadde, sfiorandoli. Il giovane afferrò per un braccio il Cantore, che era scivolato, evitando che venisse travolto, poi si lanciò in avanti dopo essersi assicurato che gli altri lo seguissero. Corsero freneticamente, mentre le urne continuavano a precipitare come alberi di una foresta colpita dall'uragano. In fondo si apriva una nuova sala. L'ambiente interno occupava praticamente tutta la superficie dell'edificio. Altissime colonne di marmo verde scandivano lo spazio sterminato, con regolarità ossessionante, a perdita d'occhio. Anche qui il terremoto che aveva sconvolto la città aveva inferto il suo colpo. Alcune delle colonne apparivano pericolosamente inclinate, altre erano rovinate a terra, infrangendosi in frammenti enormi sul pavimento, che a sua volta era percorso per tutta la sua lunghezza da una vasta frattura. Vargo si fermò sulla soglia, frastornato. Lo schiacciava un senso di oppressione, generato dalla violenta sproporzione di quanto lo circondava. Quello spazio non era stato pensato per accogliere degli esseri umani. Vargo osservò il Cantore, che era immobile e tremante. L'uomo sembrò leggergli nella mente la domanda. «Questa fu la sala del trono. Ma il re la volle smisurata perché qui avrebbe dato la sua udienza suprema, quando le Tenebre sarebbero salite sulla terra! E qui... qui i miei predecessori vinsero la paura che li soggiogava...» «Ma non la tua!» esclamò Khaima muovendosi per prima. «Che hai da tremare? Avanti, è qui che deve trovarsi il tesoro!» «Il suo trono... i custodi lo vegliano...»
«Che vuoi dire?» chiese Amnor. Il Cantore si prese la testa tra le mani. «Non lo so... il ricordo è confuso.» «E allora non ci resta che continuare» disse Vargo. Cominciarono ad avanzare nell'immensità, in cui il suono dei loro passi spariva come se camminassero sull'acqua. Dopo aver percorso un lungo tratto, oltrepassando decine di colonne, Vargo notò che il fondo sembrava ancora lontano, come quando avevano varcato l'ingresso. Pareva che la sala crescesse sotto di loro, rispondendo ai movimenti con una sorta di vita propria. «Non è possibile...» mormorò Amnor, che aveva notato lo stesso fenomeno. «È un'altra delle sue illusioni... le colonne sembrano infinite...» «Aspettate, c'è qualcosa!» «Il trono di Vemerin... come abbiamo fatto a non vederlo? Era lì!» All'improvviso, come sorto dal nulla, un trono imponente era apparso davanti ai loro occhi. Una maestosa scultura d'oro massiccio, incrostata di pietre luminescenti, sorretta ai quattro angoli da rappresentazioni di draghi e altre creature ormai scomparse dalla terra da ere remote. Un anello di pietra verde lo circondava. «Lì sedeva il Re durante le udienze» disse il Cantore. «E intorno i saggi del Collegio. Prima che le Tenebre prendessero il loro posto. Quando non vi fu più alcuna udienza, e il Re iniziò ad abbeverarsi alla loro parola oscena» seguitò lugubre. Amnor si guardò intorno. Il colonnato continuava a estendersi all'infinito in ogni direzione. «Dovremmo essere al centro della sala... ma il centro sembra essere dappertutto...» Il Cantore emise un gemito. «Non esiste un centro, per le Tenebre...» «No!» replicò il vecchio. «Deve esserci un gioco di specchi. Sono loro che moltiplicano all'infinito le colonne...» Vargo si accostò al monumento.. Dietro di lui le Sgualdrine si erano precipitate a toccare il metallo. «È oro!» gridò Shanda. «Oro!» confermò estasiata la sua compagna. Con la punta del pugnale scalzò una delle pietre più grandi, l'occhio di uno dei dragoni del basamento. «Questa farà piacere alla Signora Rossa!» esclamò riponendo la pietra sotto la veste. «Smettetela!» disse Vargo. «Ascoltate!»
Da qualche istante le sue orecchie avevano cominciato a percepire qualcosa. Come un ronzio confuso, mescolato a un rumore di passi soffocati... un'eco di parole inintelligibili. Poi un fremito prese a riempire lo spazio intorno. Un suono incerto, come se qualcosa di viscido avesse iniziato a muoversi. «C'è qualcosa, tra le colonne!» Subito le ragazze assunsero la loro posizione di combattimento. Si protesero a destra e sinistra, cercando di scorgere eventuali aggressori. Ma la sala continuava ad apparire deserta. «Non c'è nessuno qui!» gridarono. Ma l'eco e i mormorii proseguivano più forti. Adesso anche loro dovevano averli sentiti, a giudicare dall'espressione preoccupata dei loro volti. Vargo arretrò di qualche passo, subito imitato dalla Sgualdrine. Continuava a non vedere nulla. La fuga delle enormi colonne seguitava a scandire lo spazio deserto con la sua fredda ripetizione, in apparenza senza nascondere nulla alla vista. A meno che qualcuno non fosse celato dietro i loro fusti. Il giovane scattò di lato, cercando di scoprire se davvero vi fosse qualcuno nascosto dietro le colonne. Ma anche nella nuova posizione, la prospettiva si allargava su un infinito totalmente vuoto. «Non c'è nessuno!» esclamò. «Non è possibile!» replicò Shanda. «Non sentite? C'è qualcosa che striscia attorno a noi!» Il rumore continuava ad aumentare. Poi, con uno schianto soffocato, una delle colonne più vicine al trono sembrò cedere sotto il suo peso, scivolando verso il basso. Amnor, il più vicino, era balzato indietro per non essere travolto. Ma la colonna, invece di infrangersi, sì era abbattuta al suolo in una massa apparentemente fluida, quasi fosse di fango invece che di pietra. Per un momento rimase immobile, mentre un odore di fanghiglia si spargeva per l'aria. Poi sembrò muoversi, mentre una seconda colonna, emettendo lo stesso rumore, cominciava a liquefarsi. «Attenti, non sono colonne!» gridò Amnor. Vargo fissava stupefatto il primo mucchio informe, che sembrava attraversato da una convulsione interna. Il blocco si inarcò, poi tornò a distendersi, come se volesse riprendere la sua forma originaria. Intanto anche le altre due colonne più vicine al trono stavano scivolando giù, in mucchi indistinti.
«Si muove!» gridò Khaima. «Viene verso di noi!» Di nuovo l'odore pestilenziale colpì le narici di Vargo, questa volta accompagnato da un ruggito spaventoso. La cosa si inarcò, sollevandosi verso il giovane, mentre alla sua estremità si apriva una bocca che morsicò l'aria a pochi palmi dal suo volto con zanne aguzze. Vargo colpì alla cieca la mostruosità, schiantando con la lama uno dei denti che gli erano balzati addosso. Poi, senza nemmeno il tempo di pensare, reagendo per puro istinto, si spostò lungo il fianco della cosa. Alzò a due mani la spada e la conficcò con tutte le sue forze a un braccio dalla bocca, in quella che poteva essere la testa dell'essere. Dalle mascelle esplose un nuovo ruggito, mentre sulla coda della creatura si aprì una seconda chiostra di denti, che a sua volta saettò in avanti cercando di azzannarlo. Vargo riuscì nuovamente a schivare le zanne, ma il muso cieco lo colpì con violenza a una spalla, scagliandolo lontano. Amnor era arretrato, trascinando con sé il Cantore per metterlo in salvo. Poi, assicuratosi che l'uomo fosse a distanza di sicurezza, scattò in avanti, rivelando una volta ancora una forza e un'agilità insospettate. Anche lui aveva sfoderato la spada, e colpì l'altra estremità della bestia infliggendole una serie di colpi furiosi che penetrarono nella sua carne gelatinosa fino a tagliarla quasi a metà. La cosa non smetteva di ruggire, ma i suoi movimenti avevano preso a farsi più lenti e incerti. Un liquido vischioso e maleodorante fuoriusciva dalle ferite, e con esso l'enorme energia della creatura sembrava disperdersi sul pavimento. Ma le altre tre che si erano animate avevano preso a strisciare verso gli uomini con velocità crescente. Shanda corse in avanti d'istinto, balzando sul trono dorato. Di lì scagliò una prima freccia verso l'essere più vicino, urlando di rabbia. Il dardo si immerse a fondo nel corpo che si trascinava verso di lei, scomparendo nella massa verdastra. La donna tese di nuovo l'arco con tutte le sue forze, scagliando una seconda freccia. Il dardo affondò senza sortire alcun effetto apparente, tranne quello di scatenare ancor di più la furia del mostro, che adesso si dirigeva deciso verso il trono. In preda al terrore la Sgualdrina invocò l'aiuto della sorella. Khaima aggirò una delle creature che piegava dalla sua parte e corse verso di lei, immergendo il suo piccolo pugnale nel dorso gelatinoso, gridando per attirare la sua attenzione. Distratto dalla mossa della giovane, il mostro si volse dalla parte della
sua assalitrice, dimenticando per un attimo il suo bersaglio. Intanto due nuovi tonfi, seguiti da un viscido sciacquio sul pavimento, dettero il segnale che altre colonne stavano prendendo vita. Le nuove creature stavano abbandonando la loro posizione, tra cielo e terra, con le bocche strette intorno ai capitelli e ai piedistalli sul pavimento, per unirsi agli altri mostri. Vargo sentì la morsa del terrore mozzargli il respiro. «Cantore!» gridò disperato. «Che possiamo fare? Cosa sono questi esseri?» L'uomo, dal rifugio dove era stato messo al riparo da Amnor, aveva seguito la scena dietro la sua maschera impassibile. Rispose con la sua voce roca, appena velata dall'emozione. «Questi sono i cani di Vemerin... la guardia al suo trono. Solo adesso la visione mi è chiara... Ma troppo tardi...» «Tacete! E restate immobili!» ordinò Amnor a bassa voce. «Che cosa...» gridò Shanda, che si guardava orripilata intorno, in cerca di una via di fuga. «Tacete, ho detto!» sibilò infuriato il vecchio. «Queste bestie sono cieche. Vengono guidate dalle nostre grida! E forse...» Senza aggiungere altro si mosse verso la carcassa squarciata del primo mostro, dalla quale il liquame interno era colato a formare una grande pozza sul pavimento. Avvicinatosi a passi felpati, Amnor immerse le mani nella massa fetida e si cosparse le vesti con alcune manciate della poltiglia. Poi invitò silenziosamente Vargo a fare altrettanto. Il giovane si avvicinò riluttante, e ripeté i gesti dell'altro. Riuscì a stento a trattenere un conato di vomito, nel sentire l'odore tremendo che emanava da quella materia ributtante. «Forse sono guidati anche dall'odorato, come le sanguisughe delle paludi. Infettati del loro puzzo dovremmo disorientarli» gli sussurrò Amnor all'orecchio. «Adesso resta immobile, qualunque cosa succeda!» Uno dei mostri doveva aver percepito le parole del vecchio, per quanto pronunciate a voce bassissima. Si volse di scatto verso di loro, avvicinandosi con il suo movimento spaventoso. Vargo tratteneva il respiro, cercando di reprimere l'istinto di darsi alla fuga. Il mostro si avvicinò a non più di due braccia di distanza dai suoi piedi, poi si arrestò sollevando la bocca spalancata. La chiostra multipla di denti balenò nell'aria, mentre la creatura sembrava fiutare intorno a sé. Si avvicinò ancora, fino a sfiorare il volto di Vargo. Il giovane si sentì perduto. Poi, con una mossa brusca, la bestia si volse
di lato allontanandosi. Vargo la seguì con lo sguardo, mentre tutti i suoi muscoli vibravano per la tensione. Momentaneamente libero dal pericolo, Amnor afferrò per un braccio il Cantore, spingendolo a sporcarsi le vesti con il liquame. Poi si strappò un lembo del mantello e lo intinse a sua volta nella pozza. Con la tela colante in mano si mosse alla volta del trono d'oro, dove le due ragazze avevano seguito trepidanti tutta la scena, e la lanciò a una certa distanza. Lo straccio si abbatté sul pavimento, attirando alcuni dei mostri. Le Sgualdrine approfittarono dello stretto corridoio che si era aperto per correre silenziose verso gli altri. Quando furono tutti riuniti, Amnor indicò alle due donne la carcassa e la pozza verdastra. Shanda arricciò il naso e scosse la testa con decisione. «Non lo farò mai, vecchio. Ci siete già voi tre che puzzate come la bocca dell'inferno. Bastate voi.» Khaima si era limitata a un'alzata di spalle. Amnor serrò i pugni, ma non disse nulla. Le bestie si erano radunate attorno allo straccio fetido, e a turno protendevano le bocche come se cercassero qualcosa. «Allontaniamoci. La tomba dovrebbe essere dall'altra parte, oltre il trono» sussurrò Amnor muovendo nella direzione indicata. «Oltre la sala delle mille colonne c'è il viale che conduce alla tomba» mormorò il Cantore. «La Via del Dolore.» Ripresero a muoversi quasi di corsa. I rumori alle loro spalle si andavano attenuando. In lontananza videro che le bestie, con un movimento sinuoso, una dopo l'altra tornavano ad avvitarsi verso l'alto, riassumendo l'aspetto di colonne di marmo verde. Finalmente raggiunsero quella che sembrava l'ultima fila. Oltre si trovava una parete di pietra, attraversata per tutta la sua lunghezza da una crepa che saliva dal pavimento. Al centro del muro c'era una pesante porta che sbarrava loro il cammino. Sui pannelli di quercia una mano raffinata aveva scolpito una corona di immagini lussuriose, che sembravano protendersi dagli stipiti come per trascinare il visitatore in una danza voluttuosa. Donne giovani e seminude, dalle movenze armoniose, ritratte durante i loro giochi d'amore. Eppure c'era qualcosa di inquietante in ciò che vedeva, pensò Vargo. Come se in quelle donne raggelate in un movimento interrotto ci fosse qualcosa di diverso dall'eccitazione erotica. Come se... ecco cos'era: l'e-
spressione dei loro volti! Quella tensione che nella penombra aveva scambiato per piacere era qualcosa di molto diverso. Era paura, paura stampata sui volti, gli occhi dilatati, le bocche serrate. Il loro era un invito a una danza di morte. Il giovane si volse verso i suoi compagni per capire se anche gli altri avessero avvertito la stessa sensazione. Ma ad Amnor pareva non importare. «Dobbiamo aprire questa porta, ci siamo! Forse sono le stanze del Re.» «Sembra piuttosto la porta di una tomba» replicò Vargo dubbioso. «Non farti prendere da strani deliri proprio ora!» replicò il vecchio, sguainando la spada e cominciando a fare leva tra gli stipiti. Poco convinto Vargo dopo un attimo lo imitò. I pesanti pannelli, però, resistevano alla loro spinta. Vargo cominciò a chiedersi se dietro la superficie di legno non si nascondesse un ben più solido strato di metallo. «Tentiamo dalla parte dei cardini» disse il vecchio, estraendo la spada dalla fessura e conficcandola dalla parte del muro. Alla seconda spinta la porta sembrò sussultare, poi finalmente uno dei cardini cedette. Vargo e Amnor si appoggiarono contro l'anta, che si era inclinata di un palmo. Lentamente la possente struttura di legno, trascinata dal suo stesso peso, si inclinò ancora, fino ad abbattersi sul pavimento di pietra. Le alte finestre erano schermate da pesanti tendaggi, e la luce che filtrava era scarsa. Vargo faticava a rendersi conto di cosa lo circondava. Al centro della sala si ergeva qualcosa di luminescente, simile a un blocco di cristallo sfaccettato. Il cristallo riluceva debolmente, e sulla sua superficie sembravano specchiarsi delle figure femminili. Vargo afferrò il lembo di una delle tende, strappandola con decisione. Dalla finestra penetrò un fiotto di luce, permettendo di distinguere meglio le forme umane, raggelate nelle movenze di una danza senza tempo. In quel momento uno stridio lontano di metallo in movimento spezzò il silenzio. Sembrava che enormi catene scorressero su ruote, accelerando progressivamente il loro movimento. Vargo estrasse la spada, avvicinandosi al cerchio delle immagini e girando tutto intorno al suo perimetro. Aveva l'impressione che una vibrazione scuotesse il blocco di cristallo, mentre un'improvvisa corrente d'aria
gli accarezzava i capelli. Temette che qualche porta segreta si fosse aperta nel buio delle pareti, ma non riusciva a vedere nulla. Anche i suoi compagni si erano immobilizzati, le orecchie tese. Vide che il blocco prendeva lentamente a ruotare intorno al suo asse. Poi anche le immagini presero ad animarsi. Lo stridio metallico si era fatto più intenso, un suono di cavi che si tendevano e si rilasciavano come le corde di uno strumento nascosto. Un singhiozzo spezzò la voce del Cantore. «Questo suono... Sentite? È l'arpa di Vemerin, la musica del suo banchetto... quella con cui temperava gli assalti della sua follia! È qui, è qui vi dico!» La maschera che gli nascondeva il volto manteneva la sua impassibilità, ma attraverso i fori degli occhi lo sguardo era terrorizzato. «E guardate le sue femmine!» gridò ancora. «Si preparano ad accoglierlo! Rendono omaggio al suo ritorno!» I corpi di donna sussultavano con le movenze di una danza primitiva, dai passi incerti. Inarcavano le schiene offrendosi alla vista, agitando le braccia e chinandosi sulle ginocchia, in preda ai movimenti di un'orgia scomposta. «Ma sono ancora vive... non è possibile...» si sorprese a dire Vargo, che aveva abbassato inavvertitamente la spada. Intanto il movimento delle danzatrici aveva preso a farsi più fluido e sensuale, come se i loro corpi stessero riacquistando la memoria dei gesti. Adesso lo stuolo di donne si agitava ad un ritmo frenetico, dando vita a un effetto armonico di straordinaria bellezza. Anche il suono che le accompagnava sembrava liberarsi progressivamente del suo colore metallico, per avvicinarsi ad una melodia di flauti lontani. Ma più la danza perdeva le sue connotazioni meccaniche, più paradossalmente diventava inumana. C'era qualcosa di troppo perfetto nei loro passi, una ripetizione talmente esatta dei gesti da sembrare impossibile per degli esseri viventi. «No... È di nuovo un'illusione» disse Vargo. Si avvicinò al blocco che ruotava al centro della stanza. Forse il segreto era nascosto oltre il cristallo. Forse, per qualche misteriosa magia, delle autentiche danzatrici si celavano dietro la parete di cristallo. Il giovane sguainò la spada e colpì con forza. Il fragore del vetro infranto e quello della cascata di frammenti che si infrangeva al suolo cancellò la melodia dei flauti, mentre le danzatrici si disfacevano sotto i suoi occhi. «Sono specchi, ancora...»
Alzò lo sguardo verso la parete opposta. Una striscia di figure in posizioni diverse ruotava vorticosamente, allo stesso modo del blocco di cristallo. Erano le immagini di donna disegnate sulla parete che si erano riflesse negli specchi, generando in qualche modo l'illusione del movimento. «Smettiamola di perdere tempo con questi spettri!» disse Shanda. «Guardate invece cosa c'è nelle nicchie dei muri!» Presi dalla fantasmagoria delle apparizioni nessuno di loro aveva fino a quel punto notato che tutta la parete circolare della sala era percorsa da una serie di piccole cappelle scavate nel muro. Dentro ognuna di esse c'era una donna. Decine di corpi femminili immobili, seduti nella composta rigidità della morte. «Le mogli del Re...» mormorò Amnor. «Le Tavole dicevano di questo... È il suo harem, dove le sue compagne hanno assistito nel terrore alla corruzione della sua mente...» I raggi del sole rilucevano sulla cascata di pietre preziose che tempestavano i diademi sulle fronti delle donne, e sulle collane di perle intrecciate nei capelli che scendevano dalle tempie sfiorando i loro corpi nudi. I cerchi d'oro ai polsi e alle caviglie si erano accesi del caldo colore del metallo. Alle spalle di Vargo le Sgualdrine bisbigliavano, indicandosi avidamente l'un l'altra i gioielli. Sembravano indifferenti a quello che aveva colpito invece il giovane: l'espressione di terrore ancora stampata su quei volti avvizziti dal tempo, come nelle figure intagliate sulla porta d'accesso. Vargo si avvicinò a una delle donne, poi sempre più sorpreso ne esaminò rapidamente altre. Ventinove donne sedevano intorno, ogni parte dei loro corpi nudi minutamente istoriata di segni. Erano lettere, lettere e numeri di un alfabeto misterioso. «Sembra che qualcuno abbia scritto sui loro corpi» disse il giovane, continuando a esaminare con attenzione una dopo l'altra le spoglie. «Su di loro Vemerin ha tracciato i suoi Canti... Questo lo ricordo» disse il Cantore. «I Ventinove Canti dettati dalle Tenebre.» «I Canti?» esclamò con voce soffocata Amnor. «Sono questi?» esclamò, gettandosi avido verso i corpi. «Ma questi segni sono solo le convulsioni della mano di un pazzo! Non significano nulla!» esclamò Vargo. Il Cantore scosse la testa. «Sono scritti nella lingua che solo egli conosceva... il linguaggio delle Tenebre. La lingua con cui le potenze oscure
versavano il loro veleno nelle orecchie del Re.» «Sì... se solo avessi tempo... tempo...» mormorò Amnor eccitato. «Devo sapere... il loro ordine...» Il vecchio correva da un corpo all'altro, scrutando affannosamente i segni. Poi dalle sue labbra eruppe un'imprecazione. Sotto i suoi occhi la trama minuta della scrittura stava impallidendo. «La luce!» gridò indicando la finestra. «La luce cancella lo scritto! La tenda, richiudetela!» Poi balzò su uno dei cadaveri scrollandolo con furia, prima di scaraventarlo a terra. «Parlatemi, maledette!» urlò ancora. Poi afferrò il Cantore per la tunica. «Tu puoi capire quello che c'è scritto, devi ricordarlo!» L'uomo scosse la testa. «Nessuno può farlo.» Amnor sembrava impazzito. Prese a colpirsi la testa con i pugni, imprecando. «Tempo, spiriti di Khoran! Datemi tempo!» «È la sola cosa che non abbiamo, vecchio!» esclamò Khaima, che aveva seguito tutta la scena con una smorfia. «Perché ti ostini con quelle mummie, quando ci siamo noi, belle e vive?» gli gridò dietro. «Perché non cerchi il nostro, di canto?» le fece eco Shanda, unendosi al sarcasmo della compagna. Ma subito il sorriso si gelò sulle loro bocche. Amnor era stravolto. Di colpo, vinto dall'emozione, crollò a terra come se fosse stato colpito da un fulmine. «Aiutatelo a riprendersi» gridò Vargo, che si era allontanato dagli altri risalendo lungo il cerchio dei corpi. Il suo sguardo cadde su una delle donne, posta al centro dell'emiciclo. La bocca gli si aprì involontariamente per lo stupore. A differenza delle altre questa giaceva distesa all'interno di un sarcofago di bronzo, dalle pareti di cristallo, che permettevano di osservarla in tutto il suo splendore. Quel corpo era in condizioni completamente diverse da tutti gli altri. Intatto e pieno, come se si fosse appena disteso in un sonno senza tempo. Una piccola catena di segni, incisa sulla sua fronte, spiccava tra gli altri. «Questo è scritto. Questo sarà» mormorò il Cantore. Due righe, appena sopra gli occhi vitrei, socchiusi come se rivivessero ancora la lontana agonia. Doveva essere stata una donna bellissima, pensò Vargo. Un corpo dove tutte le varie razze del deserto si erano mescolate in una sintesi di dolcezza straordinaria, purificandosi da tutte le asprezze. Trenta secoli non avevano alterato la linea delle palpebre, che sembra-
vano appena calate sugli occhi immersi nel sonno. Si accostò ancora, fin quasi a sfiorare con le sue le labbra della donna, illudendosi di avvertirne quasi il fremito del respiro. La punta del chirurgo doveva aver iniettato nella pelle non soltanto il colore. Ma certo anche una sostanza portentosa, in grado di preservare la carne per un intero ciclo di Nester. Anche gli altri si erano avvicinati. «Che altro c'è scritto?» chiese Shanda, indicando le linee che segnavano la pelle rosata. Sotto la volta della sala la domanda prese a rimbombare in un'ondata di echi, come se ognuna delle ventinove custodi dei Canti la ripetesse all'infinito. «Che altro c'è scritto? Che altro? Che altro? Che...» «È l'ultimo dei Canti di Anharra. Il Trentesimo... Vemerin lo scrisse quando ancora la sua mente non era sprofondata nell'abisso. Da questo forse sperava la salvezza» disse il Cantore. «Il Canto che Serra le Porte. Quello che fermerà le Tenebre...». Esitò per un istante. «Non è possibile. C'è scritto: In questa donna ho versato il mio seme... ella genererà la mia discendenza...» Si coprì il volto con un braccio per sottrarsi a quello che aveva visto. «Vemerin aveva una figlia!» disse Amnor stupefatto. «Questa... questa è lei...» Il vecchio continuava a fissare la donna, come paralizzato. Vargo lo afferrò per un braccio, scrollandolo. «Ritorna in te! Dobbiamo ancora raggiungere la tomba!» Il vecchio scosse la testa con energia, come se cercasse di tornare padrone di sé. «Sì... dobbiamo proseguire. Avanti, da quella parte» esclamò il Cantore indicando il fondo della sala, dove si apriva l'ingresso di una lunga galleria. «Là si va per la Via.» 19 Il Cantore fu il primo a muoversi verso il lunghissimo corridoio che si apriva sul fondo, seguito da Vargo che trascinava a forza Amnor. Il lato opposto del percorso era quasi invisibile per la lontananza. Una serie di enormi candelabri di bronzo erano appesi alle pareti, intervallati da grandi riquadri coperti da veli oscuri. «Una raccolta di quadri?» chiese Vargo al Cantore. «Cosa dice il vostro ricordo?»
«Siamo nella galleria delle memorie. Sì, sono quadri» rispose l'altro, continuando ad avanzare con lo sguardo fisso in avanti come se volesse evitare di guardare le pareti. «Ma perché sono coperti?» chiese Shanda. «Vediamo» disse il giovane, allungando la mano verso il velo più vicino. Con una mossa inattesa il Cantore gli afferrò il polso, bloccandolo. «No. Fermo.» «Perché?» «È la galleria reale. Dove Vemerin raccolse la sua collezione di immagini. Furono i nostri antenati a velarle. Questo narra la tradizione.» «Ma perché?» insistette Shanda. «Se sono ritratti del Re, voglio vederlo, finalmente!» «Vemerin non fece ritrarre se stesso.» «E cosa, allora?» chiese Vargo. «Nessuno lo sa. I nostri antenati non vollero tramandarlo. Allontaniamoci in fretta da questo luogo» rispose il Cantore con un fremito nella voce. Sul pavimento un prezioso intarsio di marmi policromi sembrava una guida trionfale, distesa per invitare a procedere. «Vado avanti io» disse il giovane avanzando di alcuni passi. Mentre procedeva saggiava prima con la punta della spada il pavimento davanti a sé, nel timore che potesse nascondere qualche trappola. Percorso il primo tratto, fece cenno agli altri di seguirlo. Procedettero per un centinaio di passi. La galleria sembrava non aver termine, come se le sue mura si allungassero a mano a mano che procedevano. Dovevano aver superato la metà del cammino, stimò Vargo, ma la fine appariva ancora lontana. Poi un grido si levò dal fondo. Sembrava un lamento doloroso, come quello di un animale ferito. «Cos'è?» gridò Khaima. Il Cantore si era immobilizzato. «Vedrà l'orrore. E latrerà come un cane. Questa è la voce di Vemerin! Questo dice la nostra tradizione: quando il Re ebbe visto le Tenebre, prese ad aggirarsi per il palazzo urlando. È lui!» «Vemerin? È morto, uomo!» replicò aspra Shanda. «Cosa vuoi farci credere?» Il Cantore si volse indietro. «Il suo corpo giace, ma la sua voce è rimasta
imprigionata tra le sue mura. Sentite?» L'ululato si era fatto più intenso e straziante. Adesso la sua fonte sembrava essersi spostata. Sembrava provenire dalla parte da cui erano entrati. «È alle nostre spalle» esclamò Amnor. Senza riflettere, presi soltanto dall'impulso cieco di allontanarsi da quel luogo, cominciarono a correre affannosamente. Al loro passaggio convulso i veli che celavano le immagini ondeggiavano per lo spostamento d'aria. Ormai il grido sembrava provenire da ogni parte. Si era trasformato in un ruggito che penetrava nella mente come un morso doloroso. Vargo dubitava che avrebbero potuto resistere ancora a quel suono assordante, quando cominciò a intravedere più definita la parete di fondo, dove al centro si apriva una grande porta dalle ante semiaperte. «Resistete! Ancora poco e siamo fuori!» gridò rivolgendosi ai suoi compagni, per essere sicuro che lo stessero seguendo. Arrivò sulla soglia e si fermò, aspettando che passassero tutti. Shanda arrivò per ultima. Vargo le tese la mano per aiutarla, ma vide la ragazza arrestarsi all'improvviso: si allungò verso il telo che copriva l'ultimo quadro e lo strappò con un gesto deciso. Rimase per un attimo immobile, poi portò la mano alla bocca con un gemito. Cominciò ad arretrare, a occhi chiusi. Vargo si precipitò verso di lei, resistendo alla tentazione di guardare a sua volta il quadro, e afferrò per un braccio la ragazza che barcollava disorientata. «Da questa parte!» le gridò. Shanda prima reagì con un grido di terrore, cercando di liberarsi dalla stretta con tutte le sue forze. Poi, finalmente riconoscendolo, si aggrappò a lui con la forza della disperazione, lasciandosi trascinare al di là della porta. Dall'altra parte della soglia il resto del gruppo era in attesa. Vargo lasciò la mano della Sgualdrina e si appoggiò con la schiena alla porta di bronzo. «Aiutatemi a chiuderla!» gridò, mentre l'urlo di Vemerin continuava a uscire dal varco. La grande anta, bloccata dal suo enorme peso, resisteva. Anche Amnor, Khaima e il Cantore si unirono alla spinta, finché lentamente la porta prese a muoversi. A mano a mano che il passaggio si chiudeva anche l'urlo scemava, finché fu soffocato dallo scatto del massiccio chiavistello.
Vargo si appoggiò alla lastra di bronzo, ansimando per lo sforzo. Shanda continuava a fissare nel vuoto. Sembrava non vedere Amnor, che si era avvicinato e scrutava nelle sue pupille mordendosi le labbra. «Che cosa hai visto?» La ragazza si volse verso di lui, ancora inebetita. Sembrava non capire la domanda. Poi si riscosse. «Non... lo so. Qualcosa. Un'ombra. Non ricordo... non ricordo.» Il vecchio la afferrò per le spalle, scuotendola. «Cerca di tornare in te! Che cosa hai visto?» «Non lo ricordo!» balbettò la ragazza, scoppiando a piangere. «Qualcosa...» «È inutile. Lei non era pronta per la visione» disse il Cantore. «Quello che ha visto era eccessivo per la sua mente, ed è affondato nella sua coscienza come una pietra nell'acqua torbida. Ma un giorno la memoria riaffiorerà, e anche lei latrerà come Vemerin, implorando la misericordia dell'oblio.» 20 In fondo al corridoio si apriva un vasto giardino. Alla luce incerta dell'ultimo crepuscolo videro un viale costeggiato da centinaia di statue di guerrieri, che portava verso un edificio circolare circondato da colonne e chiuso in alto da un'imponente cupola di porfido rosso. Alcune statue erano rovesciate a terra, altre mostravano al cielo i moncherini e i loro arti spezzati. In un punto l'intero fondo stradale si era sollevato, dove il terremoto aveva scosso la città con maggior furia. Al colmo della cupola si innalzava la statua colossale di un uomo, priva di testa, come se un colpo netto l'avesse spiccata dal busto. Anche parte delle colonne aveva ceduto, e tutta la cupola era attraversata da una spaccatura profonda. «La Via del Dolore» mormorò il Cantore. «L'ultima immagine del suo regno che Vemerin vide, prima di essere chiuso nella sua tomba.» «Quella?» disse Amnor, fissando assorto la costruzione. «Sì, eccola» rispose l'altro. «Il cerchio maledetto, intorno a cui mille volte ho girato con i miei compagni, nel Silenzio, invocandone la distruzione!» «E quel colosso decapitato era l'immagine del Re?»
«Finalmente vedremo la sua faccia!» esclamò Khaima, indicando il punto in cui giaceva la testa precipitata. Affrontarono la lunga strada. Di tanto in tanto Vargo si girava a osservare le statue ai due lati del viale, colpito dalle loro singolari espressioni di terrore. Paura, ancora. Dovunque. Tutto grondava paura. A metà del percorso raggiunsero un enorme blocco di pietra, affondato nel fango. «È lui?» chiese Shanda. «Ma dov'è il suo volto?» La testa non mostrava alcun lineamento definito. Il suo artefice si era limitato ad abbozzare appena due fori al posto degli occhi e una lieve protuberanza dove avrebbe dovuto trovarsi il naso. La bocca era un cratere irregolare, che dava l'idea di un urlo silenzioso. «Che cos'è questa roba?» disse Shanda. «La statua non è stata terminata?» Il Cantore scosse la testa. «L'opera fu compiuta, innumerevoli volte.» «Che vuoi dire?» chiese Amnor. «Per anni il più grande scultore di Anharra lavorò a completarla. Ma quando il Re iniziò il suo colloquio con le Tenebre, il suo volto prese a trasformarsi. E nemmeno la mano di un maestro riuscì a tener dietro ai mutamenti che si susseguivano. Continuamente l'uomo scalpellava via il lavoro fatto, e riprendeva da capo. Finché un giorno assistette alla sua trasformazione definitiva. Allora salì di nuovo sulla cupola, cancellò ancora una volta la sua opera e si gettò nel vuoto.» «Non poteva essere più orribile di così» disse Shanda alzando le spalle. «Il Re era bellissimo» replicò il Cantore. «E il suo splendore si accresceva, a mano a mano che le Tenebre lo iniziavano ai suoi segreti. Finché fu costretto a velare con una maschera il suo splendore, per non turbare il suo popolo...» «Ci prendi in giro, Cantore!» lo aggredì Khaima. «Magari anche sotto la tua maschera si nasconde una bellezza sfolgorante! Sono proprio curiosa...» esclamò stendendo la mano verso il volto dell'uomo. Vargo le afferrò il polso, bloccandola. «Smettila! Non c'è tempo per la tua insolenza!» Per tutta risposta la giovane gli morse il polso, liberandosi. «Le donne sono curiose, non lo sai? Ma sì, andiamo!» aggiunse poi, improvvisamente inquieta. Abbandonarono la testa, riprendendo il cammino verso la tomba. Subito dietro il cerchio di colonne sorgeva un muro continuo, che chiudeva tutto
intorno la cella interna. Sulla porta di metallo dorato che si trovarono di fronte campeggiavano di nuovo le parole: Questo è scritto. Questo sarà. «Come facciamo a entrare?» chiese Shanda. Ma prima che qualcuno potesse risponderle, la porta prese a ruotare con un fragore di remoti ingranaggi sui suoi cardini, schiudendosi completamente. «Sembra che qualcuno ci stia aspettando» sussurrò Khaima con un brivido. Di colpo sembrava aver perso tutta la sua sfrontatezza. «Egli ci attende» disse il Cantore. «E noi dobbiamo raggiungerlo prima che il Risveglio abbia luogo!» All'interno la cupola appariva ancor più smisurata. Vargo avanzò cauto, facendosi largo tra macerie e frammenti di pietra ammassati sul pavimento. A mano a mano che si allontanava dall'entrata le tenebre avevano preso ad infittirsi, e adesso brancolava nel buio, urtando ad ogni passo contro nuovi ostacoli. Vincendo il timore di nuove sorprese accese una torcia e la sollevò sulla testa. Shanda e Khaima si erano strette a lui, le spade in pugno, i volti segnati dalla tensione. Vargo levò per un istante lo sguardo al soffitto. Sulla sua testa un'enorme massa di travi e mattoni gravava senza quasi più sostegni. Eppure dovevano essere secoli che quel crollo, sempre sul punto di verificarsi, era fermato da qualcosa. Una mano lo afferrò alla spalla, facendolo trasalire. Tornò a guardare avanti, verso il punto che Khaima gli indicava con la spada. A un centinaio di passi si intravedevano delle sagome confuse, gigantesche figure umane raggruppate su una sorta di piedistallo circolare. D'impulso il giovane soffiò sulla torcia, spegnendola. Ma le sagome continuavano ad essere visibili. Si gettò a terra, subito imitato dalle due donne, e cercò di vedere meglio mettendosi al riparo di un cumulo di macerie. Disposti in cerchio, sette colossi se ne stavano perfettamente immobili, un ginocchio poggiato al suolo, mentre con le mani si sostenevano alle spade confitte in un grande tamburo di bronzo che sembrava emergere dal pavimento. Era come se fossero raccolti in preghiera. «I Custodi della Tomba. Morti che guardano altri morti» bisbigliò il Cantore al suo orecchio. Un monumento funebre, pensò il giovane. C'era davvero qualcosa di grandioso in quella composizione. Ma anche di macabro, nella sua immobilità. Vargo sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Invece Amnor
sembrava in preda a una grande eccitazione. «Finalmente!» gridò facendosi avanti. «No, fermi!» gridò il giovane trattenendolo per un braccio. «Osservate le statue...» Amnor si era arrestato. «Che cosa c'è? Sono sempre le stesse. Simili ai guerrieri lungo la strada di accesso, solo più grandi. Cavalieri oranti.» «No. Osservate meglio i loro corpi.» «Vigilano la sua tomba. Ma sono solo statue, come quelle che nella cattedrale di Khoran affiancano le tombe imperiali» replicò il vecchio. «Statue di straordinaria fattura...» Passò con lo sguardo lentamente da una scultura all'altra, più volte. La mano che le aveva realizzate doveva essere stata quella di un maestro. Il profilo dei volti, il turgore dei muscoli delle braccia appoggiate alle spade. Il bronzo sembrava guizzare come carne viva, sotto la patina verdastra del tempo. «Non stanno pregando...» disse ancora Vargo. La sua voce si era abbassata, un sussurro. «Vedete? Guardate la tensione dei muscoli: i corpi non sono semplicemente appoggiati all'elsa delle spade. Ma spingono verso il basso, con tutte le loro forze.» Amnor fece un passo avanti per vedere meglio. Alzò gli occhi sulla statua più vicina, tendendo la mano verso il braccio metallico. Ma all'ultimo fermò il gesto, limitandosi a sfiorare con le dita il bronzo dell'avambraccio. Poi fissò il volto scolpito. «Sì...» disse. «Pensavo che fossero ritratti nell'atto di pregare. E invece...» «È paura. Di nuovo visi stravolti dal terrore» esclamò una voce femminile alle loro spalle. Silenziosamente Shanda si era affiancata al giovane, seguita dalla sua compagna. Vargo tornò a fissare le sculture. La Sgualdrina aveva ragione. Ora anche il tamburo di bronzo che faceva da piedistallo alle sculture aveva assunto un aspetto più sinistro. Non era un semplice basamento, ma una porta. Un varco su un ignoto spaventoso. «Lì sotto è la cripta dove giace Vemerin.» Volse lo sguardo in giro per cogliere altri particolari del luogo. Accanto al tamburo di bronzo c'erano grandi bacini di marmo colmi d'acqua. Pronti per qualche rito di purificazione, pensò il giovane. Poi la sua attenzione fu
attratta dal bassorilievo che circondava per intero il tamburo. Racchiuse in grandi riquadri, decine e decine di figure davano vita a una vicenda tormentata. Avvicinò la torcia, e la fiamma accese sulla superficie metallica un ondeggiare di riflessi luminosi e di ombre, che sembravano imprimere un movimento convulso alle forme sbalzate nel metallo. Il Cantore si chinò a sfiorare con le dita la superficie. Chiuse gli occhi, palpando con un brivido un corpo ritratto di schiena, nell'atto di aggirarsi barcollando tra corpi di donna seduti su scanni dagli alti schienali. «Vemerin!» gridò con voce spezzata. «Sì, ricordo tutto!» Nel quadro successivo la figura era china davanti a una donna che non sembrava udire nulla, e le abbracciava le ginocchia nude. Le baciava i piedi gelidi, bagnandoli di lacrime. «Vemerin...» disse ancora il Cantore. «Quando ancora la sua mente non era perduta...» Ma subito dopo l'uomo era ritratto in piedi. Sembrava aggirarsi in preda a una forza misteriosa. Poi, come se di nuovo un ordine misterioso lo avesse richiamato, nel quadro successivo era ritratto mentre faceva ingresso nella sala del trono. Le mille colonne che sorreggevano il tetto d'oro scolpito rilucevano dello stesso colore del suo occhio maligno. L'artista lo aveva ritratto mentre vagava nella foresta di marmo, aggirandosi tra le colonne in preda a un improvviso riso isterico. Era solo, per la prima volta da tanto tempo. Sembrava tendere l'orecchio, cercando di cogliere in quel freddo deserto l'eco di un passo. Come in cerca di qualcosa, si protendeva dietro a ogni colonna che raggiungeva per scorgere se vi fosse qualcuno nascosto. «La mia Guardia» mormorò ancora il Cantore, come se le immagini attraverso il tatto delle mani gli trasmettessero il suono di un tempo lontano. «La mia Legione. Dov'è? Chi ha osato abbandonarmi?» Il Cantore si arrestò di colpo. Alzò al cielo il viso e prese a urlare. Erano le sillabe di un canto mai udito. Una voce possente e stridula, spezzata dalle colonne e ripetuta dai mille echi che queste generavano. «Dove siete?» urlò ancora, interrompendo quella tempesta di suoni inarticolati. «Dove siete? Io vi ho aperto la Porta! Ho segnato la strada sulla terra!» Spalancò le braccia, come se volesse accogliere dentro di sé il fiato che soffiava nella sala, agitando i suoi capelli. Nel nuovo quadro del bassorilievo, il volto del Re sembrava esplodere in guizzi di luce. «Ecco! Ecco! Vi vedo!» urlò il Cantore. «Ascolto le vostre voci! Aprite-
mi l'ultimo segreto!» Un'espressione di folle beatitudine si era distesa sul suo volto, che ripeteva con spaventosa esattezza quella dell'immagine del Re impressa nel bronzo. Il Cantore continuava a procedere lungo il bassorilievo come un sonnambulo. Nel bronzo sotto le sue mani la sala deserta si era improvvisamente popolata, come per magia. Da dietro le colonne era comparso un gruppo di uomini coperti delle lunghe vesti del Collegio. I primi avanti di qualche passo, fermi a una certa distanza dal Re, pressati dagli altri che seguivano. Nel pugno alcuni di loro stringevano ancora le daghe, intrise del sangue delle guardie. Il volto del bassorilievo era distorto dall'angoscia. Il Cantore emise un grido feroce, quello che doveva essere fuoriuscito dalla bocca spalancata del Re: nel quadro successivo molti si accasciavano a terra, lasciando cadere le daghe e portandosi le mani alle tempie. Quelli che seguivano erano colti nella loro esitazione, i volti una maschera di terrore, nonostante la cera che avevano colato nei propri orecchi. Ma poi avanzavano, calpestando affannosamente i caduti, fino a serrare da vicino Vemerin. Questi continuava nel suo delirio, aggirandosi tra i corpi come se non vedesse nulla. Il Cantore gemeva di dolore. Nel quadro seguente uno dei sacerdoti, quello che era giunto più vicino, si strappava di dosso con disperazione il manto e lo gettava sulla testa del Re, afferrandolo alla vita incurante delle sue grida infernali. Il Cantore continuava a rivivere quelle immagini, la fronte madida di sudore. Gridò: «Aiutatemi a trattenerlo!» con voce storpiata dalla paura. Il suo timbro adesso era diverso, una voce finora sconosciuta. Nel bronzo altri sacerdoti, vincendo finalmente il timore, si gettavano anch'essi sul Re, stringendolo con le corde che avevano con sé. Di nuovo nella gola del Cantore tornò la voce cavernosa di Vemerin, che uscì soffocata, maledicendo con parole indicibili i suoi assalitori. Il Cantore chiamava nomi sconosciuti, invocando i membri dell'antico Collegio. Nel bronzo le immagini dei sacerdoti erano segnate da una smorfia di paura per quell'elenco che doveva essere una chiamata all'orrore. La voce del Cantore adesso si era fatta di ghiaccio. Continuava a elencare i nomi dei congiurati, senza aggiungere alcuna minaccia. Ma nel suono dei loro nomi, chiamati da una voce che sembrava provenire dall'oltretomba, quegli uomini disperati leggevano la più terribile delle promesse.
Nel quadro successivo l'uomo che aveva immobilizzato Vemerin ordinava qualcosa, mentre dal fondo avanzava una lettiga, portata a braccia da otto sacerdoti. Anche il suo volto appariva segnato dal terrore, ma più degli altri sembrava padrone di sé. Vargo continuava seguire la tragica vicenda. Guidata dalla voce del Cantore, anche la sua immaginazione sembrava essere in grado di leggere l'accaduto. I volti eccitati e spauriti dei sacerdoti, i gesti frenetici con cui indicavano in alto, verso una stella che rifulgeva nel bronzo come se fosse animata di luce propria. Nester, con il suo carico di presagi. Vemerin gettato sulla lettiga, sui cuscini intessuti di fili d'oro. Un corteo di uomini che avanza nelle tenebre alla luce delle torce, sfilando tra le colonne che sembrano infinite. Mentre un popolo di ombre comincia a prendere corpo, una corrente impetuosa che gonfia le vesti dei fuggitivi. E poi fuori, lungo la Via del Dolore, tra i guardiani immobili, che paiono prendere vita quando le fiamme li illuminano. Il Cantore adesso stava emettendo una serie di suoni gorgoglianti, le orazioni del Canone dei Morti, così come dovevano essere state formulate da quegli uomini. Nella paura, mentre il vento diventava una tempesta di voci e di urla, e la terra vibrava sotto i loro passi, tra suoni indecifrabili. La frenesia di gesti del Primo sacerdote, il suo incitare a far presto. Più presto, più presto. Vemerin che si contorce sulla lettiga, la bocca distorta sotto le pieghe del mantello. Il suo ultimo Canto che si leva nella foresta di pietra, chiamando le Tenebre. L'orrore che si impadronisce dei sacerdoti, la portantina che si inclina sotto l'urlo disumano che proviene da quella bocca, mentre la terra trema sempre più forte, si apre squassando le mura e le porte, infrangendo le colonne. Vargo continuava a seguire il Cantore, che si muoveva brancolando lungo la fascia scolpita. Ancora un quadro. Il primo sacerdote è balzato sulla portantina. In ginocchio sul petto di Vemerin, gli preme sulla bocca uno dei cuscini cercando di soffocarlo, le orecchie e la mente lacerate dal canto del Re che continua. «Mi senti? Mi senti? Taci, maledetto! Taci!» grida l'uomo attraverso la bocca del Cantore, mentre preme con tutte le sue forze, e il corpo di Vemerin sotto di lui resiste con volontà disperata, scalciando e sobbalzando. Poi le forze del Re cedono di colpo. Sono sulla porta della tomba, quan-
do uno scoppio di tuono violento e un nuovo sommovimento del terreno scuote la cupola di porfido dalle fondamenta. I sacerdoti azionano il meccanismo, i giganti di bronzo cominciano a spingere verso il basso il tamburo che sigilla l'avello. «È fatto!» sembra gridare il Primo sacerdote. «È fatto! Per un'intera era nessuno ascolterà più la sua voce.» Fuori, in lontananza, un frastuono di ali d'insetto si sta avvicinando, un immenso sciame che giunge dal deserto a ricoprire la volta di porfido che grava sulle loro teste. Qualcosa di enorme sembra animarsi nel bronzo, intorno alle figure stravolte. L'uomo che ha parlato impallidisce di colpo, mentre i suoi compagni si stringono intorno a lui. «Adesso prepariamoci a morire» dice il Cantore, dandogli l'ultima voce. Vargo arretrò di un paio di passi, inorridito. Quello che aveva appena visto stava per ripetersi? Accanto a lui il Cantore sembrava ancora sotto l'effetto della sua visione e barcollava appoggiandosi ai rilievi. La sensazione di essere circondati di presenze invisibili si accentuava. Vargo si chiese se fossero ancora in tempo per fermare quello che sembrava in marcia. Si volse con lo sguardo a cercare Amnor per avere una conferma, ma il vecchio continuava a fissare il bassorilievo, rapito. Il Cantore accennava a riprendersi. «Temon ha detto che tu conosci il segreto dell'apertura della tomba» gli disse il giovane. «Questo è il momento di farlo!» L'uomo parve esitare, lo sguardo vitreo attraverso i fori della maschera. «Sì» mormorò lentamente. «È il momento.» Tornò ad avvicinarsi al tamburo di bronzo e prese lentamente a scorrere con le mani lungo la massa dei rilievi, penetrando con le dita nel groviglio delle forme come se cercasse qualcosa. Poi parve trovarlo. Vargo udì uno scatto, e una piccola sezione del bassorilievo ruotò su dei perni nascosti, rivelando una cavità. Il Cantore afferrò una corta leva e la tirò verso di sé. Tutti avevano seguito con trepidazione i suoi movimenti. Per qualche istante non sembrò accadere nulla, poi un rumore metallico segnalò che qualcosa si stava muovendo nella grande struttura. Le statue dei Custodi avevano preso a vibrare, come se fossero sul punto di prendere vita. I muscoli di metallo sembravano guizzare sotto la luce
delle torce, poi le loro braccia si tesero. Come un solo corpo i sette inarcarono le schiene, estraendo le lame dal metallo con uno stridore impressionante. Poi si drizzarono in piedi, portando le spade contro il petto, alte verso il cielo, e rimasero immobili. Vargo aveva seguito stupefatto l'azione. Il tamburo di bronzo vibrava impercettibilmente, con le forme scolpite che parevano accendersi di vita propria. Poi la massa metallica cominciò a muoversi ruotando sul suo asse, mentre soffi di aria pestilenziale sfiatavano dalle fessure che si aprivano in basso. Vargo balzò indietro, imitato dalle ragazze. Amnor invece restò immobile accanto alla grande massa di metallo in movimento, gli occhi dilatati a cogliere ogni particolare di quanto stava avvenendo. Con uno stridore lacerante, come se avesse vinto la forza che si opponeva al suo moto, il tamburo accelerò la rotazione. Vargo e gli altri si erano rifugiati dietro uno dei bacini. Il tamburo continuava a sollevarsi di una spanna a ogni giro. Un fiato proveniente dalla profondità della terra continuava a fuggire sempre più forte dalla fessura che andava aprendosi in basso, mentre comparivano anche guizzi di luce di un colore verde intenso. Amnor seguiva stupefatto la scena. Si passò una mano sugli occhi, come se volesse esser certo di quello che vedeva. Poi si abbandonò a un'esclamazione di gioia. «Certo, ho capito!» «Cosa?» «I giganti, le statue. Non sono dei demoni! Ah, Vemerin era davvero un genio! Una mente straordinaria, prima di affondare nella follia! Aveva previsto tutto!» Stridendo il tamburo continuava a salire dalla terra, mentre sopra di lui i giganti sembravano celebrare il movimento inneggiando con le loro spade. «Le statue! I giganti sono dei congegni... delle enormi molle... come quelle che animano le catapulte dell'Impero. Nei loro arti scorre l'olio al posto del sangue, sono stati concepiti per trattenere il cilindro al suo posto, perché nessuno venisse a turbare anzitempo il sonno del Re.» Tremila anni, e quelle macchine hanno aspettato, trattenendo a terra il coperchio della tomba. Il tamburo oscillò ancora un attimo, poi si arrestò con un ultimo scricchiolio. Dalle giunture nascoste della macchina fuoriuscivano gocce di un liquido scuro, denso, che stillava lentamente lungo i rilievi della decora-
zione per poi raccogliersi in piccoli rivoli a terra. Pareva che tutta la massa metallica sanguinasse sotto lo sforzo. «Venite! Da questa parte c'è un'apertura» disse Amnor, dirigendosi verso un arco che si era aperto nella parete di bronzo, grazie alla salita del tamburo. Il passaggio richiedeva di essere attraversato quasi carponi. Per un istante Vargo immaginò che la macchina potesse in qualche modo invertire la sua marcia e rinchiuderli per sempre nella prigione di metallo. Quasi a confermare i suoi timori il bronzo sotto tensione emise un nuovo stridore lacerante, mentre i colossi in alto tornavano a vibrare. Forse i Custodi non si erano arresi. Forse il meccanismo prevedeva proprio questa apparente resa: una diabolica trappola per eliminare i profanatori. Stava per dire qualcosa ad Amnor, ma il vecchio era già sparito oltre l'apertura. Tese il braccio per bloccare le due Sgualdrine che scendevano dietro di lui. «Avanti, Vargo» disse Khaima suadente. «Non vorrai fermarti proprio ora?» «Potremmo non essere più in condizione di uscire di nuovo, una volta dentro.» «Dietro quell'arco c'è il più grande tesoro di tutti i tempi. Un solo pugno delle pietre di Vemerin potrebbe bastare per acquistare un regno.» «Un trono e l'amore delle Sgualdrine» aggiunse Shanda stringendosi al suo fianco. «Che altro può esserci di meglio?» «Il perdono...» mormorò Vargo senza guardare le ragazze. Si volse in cerca del Cantore. L'uomo sembrava paralizzato dal terrore. Vargo lo scosse rudemente, afferrandolo per un braccio. «Avanti, possiamo entrare!» «Il tempo è concluso!» gorgogliò l'uomo indicando verso l'alto. Vargo seguì la direzione del suo sguardo: le spade dei giganti rilucevano nel buio come torce. Un raggio di luce intensa, che penetrava dalla fessura nella cupola, le inondava con il suo fulgore. Anche i bacini ricolmi avevano preso a brillare, inondati dal raggio. «Nester! Sta avvelenando le acque!» mormorò ancora il Cantore. A una a una le vasche avevano preso a ribollire, sempre più violentemente, mentre il contenuto cristallino si andava trasformando in una fanghiglia verdastra. «Fra poco le Tenebre chiameranno il nome del Re!» «Ragione di più per fare in fretta!» replicò il giovane, trascinandoselo dietro. Tutto quello che desiderava poteva essere lì dentro, pensò con il
cuore in gola. Finalmente avrebbe saputo se esisteva davvero un modo per rivedere i suoi compagni, per parlare con loro ancora una volta. Subito dopo l'entrata si apriva un breve corridoio, con le pareti e la volta ricoperte di porfido. Amnor sollevò in alto la torcia, osservando con attenzione quel primo ambiente della tomba. Le lastre rosso cupo sembravano screziate da una fitta rete di piccole crepe. Vargo si avvicinò a una parete, passando la mano sulla superficie. Migliaia di piccoli segni regolari la ricoprivano lungo tutte le pareti, tracce di una scrittura remota. «Cosa c'è scritto?» chiese il giovane. Amnor passava con lo sguardo da un punto all'altro, soffermandosi brevemente qua e là su un particolare. «Qualcosa sulle Tenebre... È difficile, sono parole che non conosco. Sulle Tavole non c'era nulla di tutto questo. Sembra... sembra una sola frase, ripetuta infinite volte...» Di colpo sulla faccia del vecchio apparve un'espressione di disgusto. Lanciò un'occhiata verso il fondo del corridoio, che terminava con una superficie lucida. Poi si strinse nelle spalle e riprese ad avanzare. «Allora, cosa c'è scritto?» insistette Vargo. «Una maledizione.» «In ogni tomba c'è una maledizione per i profanatori, vecchio» disse beffarda Khaima. «E nessuno di quelli che si sono arricchiti con i tesori dei morti hanno mai perduto un solo giorno della loro vita.» «La scritta non maledice i profanatori. Ma colui che dorme oltre quella porta» replicò cupo il Cantore, indicando la lastra di bronzo davanti a loro. «Vemerin ha maledetto se stesso?» «Sì. In un intervallo di lucidità, mentre sentiva la propria mente sprofondare nella follia. Voleva condannare se stesso alla segregazione perpetua.» «Il Canone! Sei pronto a intonarlo quando saremo al cospetto del Re?» domandò Vargo. Il Cantore chinò la testa silenzioso, in segno di assenso. La superficie splendente che sbarrava il percorso si rivelò, a mano a mano che il gruppo si faceva più vicino, coperta da immagini di corpi avvinghiati simili a quelle dell'esterno. Sulle figure in rilievo di uomini e demoni la luce della torcia suscitava lo stesso effetto di movimento convulso. Due sculture in particolare spiccavano tra le altre: due demoni orrendi che stringevano tra gli artigli i battenti di una porta scavata nel bronzo. Sembravano un ultimo avvertimento a non procedere.
Oltre la porta si trovava una camera circolare, dall'alta volta ricoperta di decorazioni policrome. Lo splendore degli smalti, per nulla appannati dal tempo trascorso, rimandava in basso, trasformata in fiotti multicolori, la luce della torcia. Ma tutta l'attenzione di Vargo e degli altri era rivolta a ciò che giaceva al centro della sala: un'antica portantina di legno dorato sulla quale giaceva la sagoma di un corpo, parzialmente nascosta da un mantello di seta scarlatto che scendeva fino ad aprirsi a ventaglio sul pavimento. Sotto il manto si intravedeva netta la forma delle mani di Vemerin sollevate ad artiglio in cerca d'aria, mentre all'altezza della testa una piega segnava il punto in cui i suoi denti avevano stretto con rabbia il tessuto, nell'ultimo grido. «Vemerin...» mormorò Amnor con un singulto. «Finalmente...» Si avvicinò al catafalco e si fermò per qualche istante. Poi afferrò per un lembo il manto, all'altezza delle ginocchia, scoprendolo. La seta scivolò mettendo a nudo il corpo solo fino al collo, trattenuta all'ultimo dal lembo ancora stretto tra le mascelle del morto. Sembrava che Vemerin volesse nascondersi alla vista. La veste sul petto era aperta, e sulla pelle delle lacerazioni profonde tracciavano una rete di segni, ancora sporchi di sangue raggrumato. Le stesse tracce che apparivano sulle unghie spezzate delle sue mani contratte. «Vemerin nella sua agonia ha cercato di scrivere qualcosa su se stesso. Nella sua rabbia impotente ha infierito a sangue contro il proprio corpo» fremette Amnor. «Cosa ha scritto?» chiese Vargo, vincendo il ribrezzo e avvicinandosi a sua volta. «La maledizione. Ha maledetto se stesso» rispose il vecchio. Poi afferrò di nuovo il manto, strappando quello che restava del sudario dalla stretta dei denti. La seta si lacerò, rivelando il volto di Vemerin. 21 Un lampo verde abbagliò Vargo, impedendogli di distinguere con precisione le fattezze del Re. Si avvicinò titubante, poi allungò la mano verso il suo volto. Solo allora vide. Un viso dalla pelle asciugata dai secoli, ma in cui i tratti dell'antica no-
biltà erano ancora perfettamente riconoscibili. La fronte alta e maestosa, segnata da rughe profonde, come se quella testa stesse ancora pensando. Il naso diritto e crudele, le labbra superbe, appena segnate dall'aridità dei secoli. Adesso aveva compreso le parole del Cantore: davvero su quel volto erano impresse le tracce di una grande bellezza. Ma di una bellezza disumana, gelida, lontana per sempre dal calore della vita. La palpebra destra, sollevata verso l'arcata, copriva appena la grande pietra luminosa. Sui bordi dell'orbita si scorgevano ancora i segni dove i chirurghi di Corte avevano inciso la carne per far posto allo smeraldo magico, e le tracce più scure delle suture con cui avevano poi completato la loro opera. Era l'altro occhio però a suscitare l'impressione più terribile. Aperto, vitreo, un vetro sporco a paragone dello splendore dello smeraldo. Eppure in quella pupilla parevano concentrarsi tutte le visioni del mondo. Nel centro scuro dell'iride qualcosa tremolava. Doveva essere il riflesso della torcia, si disse Vargo. Sembrava che Vemerin li stesse osservando. Il giovane combatteva contro quell'idea con tutte le sue forze: era soltanto la paura e la suggestione che lo stavano vincendo, urlò a se stesso con rabbia. Fu distratto da un'esclamazione di giubilo delle ragazze. Apparentemente insensibili alla terribile maestà di quello che avevano davanti, si stavano scambiando osservazioni molto più pratiche. Si additavano l'un l'altra una serie di grandi cofani che circondavano il trono, da cui traboccavano gioielli e monete d'oro. Senza attendere altro si erano gettate a cercare nelle casse, estraendone il contenuto con rapacità, in cerca di quanto vi fosse di più prezioso. Prima di gettare in terra quello che riuscivano ad afferrare, per passare ad altro, si adornavano dei gioielli più sfolgoranti. Khaima aveva indossato una tiara tempestata di diamanti, Shanda si era impossessata per un attimo dello scettro d'oro, ma poi lo aveva gettato via con indifferenza, attratta da un pettorale degno di una regina. In quel momento Vargo avvertì un movimento davanti a sé. Gli parve che il corpo rannicchiato si fosse mosso impercettibilmente, sollevando appena la testa. Guardò meglio. Ma il corpo sembrava di nuovo immobile. Doveva essere stata un'allucinazione, pensò. Davanti a lui le Sgualdrine continuavano a coprirsi di gemme, tra esclamazioni di sorpresa e scoppi di risa argentine.
Un senso di delusione profonda si impadronì di lui. Era solo un sogno! Tutto quello che aveva affrontato, il viaggio e la lotta, era stato solo un correre dietro alle visioni di pazzi. Anharra, dove i vivi e i morti si incontrano! Non c'era niente intorno a lui! Niente! Solo le vestigia di un regno perduto da trenta secoli, un cumulo di macerie disertate dagli dei. Tesori rubati, e forse i segreti di una saggezza antica, ma inutili come lo erano stati per i corpi rinsecchiti che popolavano quella città. A cominciare da quello del suo Re, disteso davanti a lui nella stretta della morte, solo un mucchio di polvere tenuto insieme da una leggenda. Con un moto rabbioso si volse verso uno dei cofani colmi di gioielli: voleva affondare anche lui le mani in quell'oro, sentirne lo splendore caldo sulle dita. Era l'unica cosa vera e viva lì dentro, come i corpi armoniosi delle due ragazze. Il loro riso, i loro desideri semplici! Alla fine avevano avuto ragione loro. Avvertì il peso di una mano sulla sua spalla. Amnor era dietro di lui, e fissava assorto il corpo del Re. Si chiese se anche lui provasse la sua stessa delusione. Ma l'espressione del vecchio era indecifrabile. «Dunque è così...» lo sentì mormorare. «Ecco la pietra che ci aprirà la porta...» Di colpo ricordò le parole di Temon: lo smeraldo di Vemerin, quello che gli aveva svelato la visione delle Tenebre. Forse c'era davvero ancora un modo... Tese la mano verso la pietra, tremando per l'emozione. Lo sfolgorio verde sembrava ancora più intenso: esitò un attimo, poi con un gesto deciso lo estrasse dall'orbita. Lo smeraldo sembrava bruciargli le dita. Lo sollevò lentamente davanti a sé. Non riusciva a mettere a fuoco l'immagine, quasi che i suoi occhi si rifiutassero fino all'ultimo di vedere. L'alone esterno della pietra colorava tutto il corpo di Vemerin del suo colore innaturale. Poi il cuore gli balzò in gola. Dal nulla il deserto della tomba si era riempito di una folla silenziosa. Un popolo di ombre si stringeva intorno al corpo del Re, afferrandolo per le braccia e scrollandolo. Forme che erano state uomini. Uomini di guerra, ancora ricoperti delle loro armature. Una selva di spade si levava al cielo, come se quelle presenze stessero invocando il loro capo morto perché tornasse a rimettersi alla loro testa.
Attonito, Vargo continuava a fissare la scena. La folla delle ombre si faceva sempre più tumultuosa. Dalla porta sul corridoio di accesso decine e decine di corpi impalpabili continuavano a fare il loro ingresso, affollandosi reverenti intorno ai più vicini. Due delle ombre si erano staccate dalla massa ondeggiante avvicinandosi. «Banthor! E Vilna!» gridò accorato, tendendo la mano verso i suoi vecchi compagni. «Alla stretta di Kendor non vi ho traditi! Ascoltatemi! Lasciate che vi spieghi...» Le due ombre continuavano ad avanzare, le spade protese verso di lui. Vide le mascelle scheletriche muoversi, come se formulassero dei suoni. Riusciva a leggere il loro urlo muto: Se è vero vieni con noi. Vieni con noi, Vargo... Le lame arrugginite si protesero verso la sua gola, le braccia dai muscoli atrofizzati tese per vibrare il colpo. Sopraffatto dall'emozione, la sua mano tremò. Le dita si allargarono e lo smeraldo scivolò a terra. Di colpo la tomba era tornata deserta, piena soltanto delle sue ricchezze e del corpo del Re Folle. Si prese la testa tra le mani, cercando di vincere le vertigini. La visione era scomparsa, solo un tremore impalpabile nell'aria svelava la presenza di qualcosa. «Lo stanno ridestando!» gridò con tutto il fiato di cui disponeva. «Loro! Sono intorno a noi!» «Chi? Non c'è nessuno oltre noi!» rispose Shanda. Il corpo vibrò di nuovo. Stavolta anche Shanda doveva aver percepito qualcosa. Si strinse a Khaima nella consueta posizione di combattimento e tesero gli archi. Dai loro volti era scomparsa ogni traccia di cupidigia, sostituita dall'espressione tesa della lotta. «Il suo occhio è tornato a vedere!» gridò Shanda, incoccando una freccia. Amnor si era fatto avanti. La vibrazione si andava trasformando in una serie di piccoli movimenti più decisi. Vargo afferrò per il braccio il vecchio, trascinandolo indietro. «A Cantore! Adesso è il suo momento!» Il sacerdote era rimasto fino ad allora in disparte, insensibile alla frenesia degli altri. Non aveva distolto per un attimo lo sguardo carico d'odio dalla figura immobile sulla portantina. Si scoprì la testa con un gesto riso-
luto, gettando all'indietro il cappuccio nero, e si strappò la maschera dal volto, aprendo la bocca e riempiendo a dismisura i polmoni dell'aria stagnante della tomba. Lanciò un grido possente, come se stesse chiamando a sé tutte le potenze degli spiriti. Poi la sua voce si tramutò in un gemito stridulo, in cui il suono delle parole della lingua perduta ferivano le orecchie come lame. Il Cantore modulava la voce con maestria, l'urlo iniziale si stava trasformando in un concerto di armoniche che spaziavano attraverso le ottave di una scala di toni non nati per una gola umana. Intorno l'atmosfera si stava caricando di una strana tensione: l'aria sembrava farsi più densa, come se la stessa tomba stesse cercando di ostacolare la diffusione del suono sotto la volta. Il corpo sulla portantina aveva preso a vibrare più forte, poi si levò lento in piedi. Il Cantore stava raddoppiando i suoi sforzi. Il corpo di Vemerin sotto l'urto del canto sembrava piegarsi come una canna investita dall'uragano, ma pur oscillando resisteva in piedi. Aveva levato il suo braccio scheletrico e lo agitava avanti a sé, come se stesse richiamando in aiuto tutte le potenze al suo comando. Ma il Cantore proseguiva implacabile, la voce sempre più alta e sonante. Adesso strida di uccello si erano frammiste alle parole incomprensibili. Il Re Pazzo prese a oscillare violentemente, come se tutta la sua struttura di ossa si stesse slegando per riprecipitare nella morte. Vargo lo vide portare la mano all'orbita vuota, mentre l'altro occhio lampeggiava di rabbia impotente e le labbra si dilatavano in una smorfia inumana. Allora il canto si spezzò bruscamente, con un singulto. Vargo, che stava seguendo affascinato quell'epilogo, si volse verso il Cantore: l'uomo era immobile, la bocca informe ancora spalancata sull'emissione dell'ultima nota. Il suo volto piagato sembrava sul punto di disfarsi. Lo vide annaspare nell'aria, come se cercasse un appiglio nel vuoto, poi lentamente scivolò al suolo mentre l'aria che aveva accumulato nei polmoni si liberava con un estremo lamento. Alle sue spalle Amnor stringeva in mano un pugnale dalla lunga lama, ancora intriso del sangue del monaco. «Che hai fatto, maledetto!» gridò Vargo chinandosi sull'uomo morente. «Adesso nessuno lo fermerà!» gridò ancora, additando il Re davanti a loro. L'urlo del giovane spezzò il silenzio che aveva fatto seguito alla morte del Cantore. Vemerin era tornato a ergersi in tutta la sua altezza, emetten-
do dalla bocca spalancata un fiato maligno. Intorno alla sua figura imponente la folla delle ombre, prima invisibili, prendeva consistenza, come statue di vetro appannate da un vento gelido. «È quello che voglio» sibilò trionfante il vecchio. «Non capisci? Guardalo! La più grande potestà che sia mai apparsa sulla terra! Pensa ai segreti che custodisce! La conoscenza di ciò che è stato e che sarà! Nella sua mente è racchiuso il segreto del bene e del male!» «Nella sua mente sono racchiusi soltanto l'orrore e la follia! La follia che ha generato questo inferno!» gridò Vargo alzando la spada sulla testa del vecchio. Un furore cieco si era impossessato di lui, di fronte a quell'ennesimo tradimento. Calò un colpo con tutta la sua forza, diretto verso il collo dell'uomo. Ma qualcosa di invisibile si interpose sul percorso della lama. La spada urtò con violenza un ostacolo che risuonò con uno schianto metallico, poi scivolò di lato sfiorando senza danno la spalla di Amnor. Sconcertato Vargo tornò a colpire, solo per incontrare di nuovo lo stesso ostacolo invisibile. L'aria davanti a lui continuava a vibrare. Intravide la sagoma di un uomo armato accanto al vecchio, che lo proteggeva con il suo scudo. Altre ombre si stavano stringendo intorno, anch'esse con gli scudi levati. «Inchinati con me davanti alla sua maestà!» disse Amnor. «Risvegliandolo abbiamo stretto un patto con lui: ci accoglierà tra le sue braccia, saremo primi nella sua Corte! Pensa, Vargo!» esclamò afferrandolo per un braccio e stringendolo allo spasimo. «Correremo su tutta le terra nella sua ombra, pronti a raccogliere la gloria dei suoi trionfi! Berremo con lui alla coppa degli dei!» «Tu vuoi farci schiavi di un mostro!» urlò il giovane, lottando per sottrarsi alla stretta. Amnor, incurante delle sue parole, lo lasciò di colpo per chinarsi a raccogliere lo smeraldo che era rotolato ai loro piedi. Poi con uno scatto lo alzò davanti ai suoi occhi, concentrò lo sguardo avanti a sé e vide. Il suo volto si distese in un'espressione estatica. «Ecco...» mormorò. «Ecco chi giunge in compagnia del Re...» Poi si contrasse in una smorfia, mentre le sue dita si allargavano abbandonando lo smeraldo. Un urlo di paura gli lacerò la gola. Scivolò indietro, le braccia abbandonate come se fosse stato folgorato. Vargo si gettò a sua volta sulla pietra per guardare di nuovo. Fu per afferrarla, ma poi l'istinto di conservazione prevalse. Arretrò anche lui, mentre avvertiva un sibilo accanto all'orecchio: Khaima aveva scagliato la sua freccia con precisione,
diretta al cuore di Vemerin. Il dardo attraversò l'aria con un fremito, prima di urtare la corazza d'oro del Re e perdersi nel buio. La ragazza incoccò in un lampo una seconda freccia e tornò a scagliarla, stavolta puntando al volto. Il giovane vide Vemerin muovere di scatto la mano e afferrare il dardo, spezzandolo. Come se quel gesto avesse scatenato un'onda di marea sotto la volta, centinaia di ombre si mossero verso di loro, brandendo le spade. «Via!» gridò. «Via o siamo perduti!» Amnor continuava a tremare, senza accennare a muoversi. Sembrava tramortito. Poi lentamente cadde in ginocchio davanti al Re, spalancando le braccia. «Lasciamolo lì, quel maledetto!» gridò Shanda. «Dobbiamo portarlo con noi! Ha visto attraverso lo Smeraldo. E forse ha appreso qualcosa che può salvarci tutti» esclamò Vargo. «È troppo tardi!» gli fece eco Khaima. «Guardalo!» Davanti a loro Vemerin aveva raggiunto Amnor, che continuava inebetito a fissarlo gorgogliando parole sconnesse. Il Re allungò una mano scheletrica sul suo capo, come per accogliere quel gesto di sottomissione. Un corteo di ombre sempre più folte appariva dal nulla, genuflesse intorno alla sua figura barcollante. «No!» gridò Vargo balzando in avanti. Afferrò per un braccio il vecchio tirandolo via. «Aiutatemi! Portiamolo verso l'uscita.» Anche Shanda e Khaima si erano fatte avanti, vincendo il timore. Sottrassero il vecchio a Vargo, lasciandolo libero di difendersi dalla selva di lame che si era sollevata avventandosi contro di loro. Ormai gli spettri erano pienamente visibili: con il ritorno alla vita di Vemerin anche la sua Corte tornava sulla terra. Il giovane respinse i più vicini con la forza della disperazione, poi cominciò ad arretrare, cercando di proteggere col proprio corpo le Sgualdrine che fuggivano trascinando a forza Amnor. 22 Vargo correva facendo appello a tutte le sue forze, sollevando di peso Amnor quando le gambe del vecchio cedevano, mentre le Sgualdrine, dandogli il cambio, continuavano a bersagliare di frecce la massa di ombre urlanti che sciamavano nel corridoio d'ingresso. Ogni colpo andava a segno, abbattendo una delle ombre e penetrando
nei corpi di quelle che seguivano. Ma subito il posto dei caduti era occupato da altri che accorrevano dal profondo della tomba. Davanti a loro l'arco della porta di accesso brillava come l'ultima speranza di salvezza. «Cercate di trattenerli!» gridò Vargo raddoppiando gli sforzi per mantenere la distanza che ancora li separava dagli inseguitori. Amnor era accanto a loro, notò con un sospiro di sollievo. Fissava nel vuoto inebetito, un'espressione raggelata sul volto. «Muoviti, vecchio!» gli gridò Shanda, spingendolo dietro le spalle. Khaima si era arrestata per scagliare un'altra freccia. «È inutile» gridò alla sorella, «il suo corpo è qui, ma la mente è restata nella tomba. È incatenato a quell'orrore!» Il vecchio mormorava qualcosa tra sé, balbettando. Vargo credette per un attimo di riconoscere gli stessi suoni indecifrabili che aveva udito evocare dal Cantore. Poi di colpo Amnor sembrò recuperare energia. Con uno strattone si liberò dalla presa delle Sgualdrine e tornò indietro, verso la massa urlante che si avvicinava. «Fermatelo!» gridò Vargo. «Ha studiato le Tavole! È il solo che può riuscire a decifrare il Canto del Ritorno!» «È inutile» ripeté Khaima. «È perduto. Pensiamo a noi.» Amnor aveva allargato le braccia, gridando qualcosa alla massa tumultuante in arrivo. «Non capisci? Sta chiedendo che lo accolgano tra di loro!» disse Shanda. Con una smorfia Vargo si gettò di nuovo indietro, raggiungendolo. Lo afferrò per il mantello e con uno strappo violento lo costrinse a voltarsi. Il vecchio lo fissò senza dar segno di riconoscerlo. «Sono qui» mormorò. Vargo gli strinse il polso e lo trascinò con sé, riprendendo a correre verso la salvezza. Il vecchio lo seguiva senza opporre resistenza. Nemmeno doveva capire che cosa gli stesse succedendo, e chi si era impadronito di lui. «Sono qui!» gridò ancora, a voce più alta. «Parlatemi!» Vargo percorse l'ultimo tratto dando fondo a tutta la sua energia, poi si lanciò fuori, seguito dalle due ragazze che continuavano a colpire gli inseguitori attraverso l'apertura. Trafelato lasciò per un momento Amnor e corse intorno al tamburo di bronzo, cercando il comando che azionava il meccanismo di chiusura dell'altare. Aveva pochi attimi per metterlo in azione. Gli sembrava di ricordare il punto del bassorilievo dove si nascondeva. Raggiunse lo sportello aperto
alla base del cilindro e spinse la leva. Il metallo rispose con un sussulto. I compressori, liberati dal blocco, presero lentamente a spingere verso il basso il cilindro. Sopra il tamburo i muscoli di bronzo dei giganti erano tornati a guizzare, mentre il complesso di leve e molle spingeva verso il basso tra sbuffi di vapore. Gemendo la massa ruotava in senso inverso rispetto alla prima volta, chiudendo progressivamente l'apertura. Poi, di colpo, il tamburo si arrestò, mentre con un clangore violento i colossi tornarono a infliggere le spade nel metallo, riassumendo la loro posizione di attesa. Prima però che la chiusura fosse completa Vargo intravide una dozzina di ombre scivolare fuori. Subito i loro corpi cadenti erano scomparsi con un tremolio nelle tenebre della tomba, appena attenuate dal raggio della stella che penetrava dalla crepa. Eppure sentiva che erano ancora lì: il pavimento di pietra era percorso da una vibrazione che si andava avvicinando, come se numerosi piedi invisibili lo calpestassero sollevando la polvere depositata dai secoli. «Fuori!» gridò alle Sgualdrine che continuavano a trascinare il vecchio. Ripresero la corsa verso il portale, mentre dietro di loro con un rombo il tamburo di bronzo sobbalzava violentemente. «Stanno cercando di aprire!» gridò Shanda, che si era voltata. Di nuovo il tamburo si mosse, stavolta con tanta forza da squassare tutta la struttura dell'edificio. Una cascata di frammenti piovve dall'alto della cupola, mentre la crepa si allargava pericolosamente. «Le Tenebre!» esclamò il giovane. «Sono loro che spingono dalle profondità!» Sul tamburo le sagome dei Custodi erano tese allo spasimo, le lame delle spade che gemevano per lo sforzo cui erano sottoposte. «L'altare non reggerà a lungo, speriamo solo che ci dia il tempo di uscire di qui!» Si ritrovarono all'inizio della Via del Dolore. Fuori la luce di Nester si irradiava violenta, vincendo la stessa luna bassa sull'orizzonte. Si fermarono stremati per un momento a riprendere fiato. Vargo si era appoggiato alla spada, ansimando. Ma subito fu costretto a scattare di nuovo in posizione di difesa. Per un momento gli era parso che le statue dei guerrieri avessero preso vita: ma si rianimò riconoscendo i volti coperti di gesso, perfettamente visibili in quella luce straordinaria: l'avanguardia delle tribù del deserto, di cui avevano avvistato i fuochi da campo nelle notti precedenti, li
aveva raggiunti prima di quanto si aspettasse. Anche loro li avevano visti. Erano tutti giovanissimi, forse alla prima esperienza di lotta. Sei, sette uomini. Poteva farcela, si disse respingendo il primo assalto. Senza un piano preciso aveva assunto la posizione di guardia del Settimo Grado della Spada. L'istinto allenato nelle lunghe ore di esercizio era tornato ad animare il suo corpo. I suoi muscoli guizzavano come se uno spirito invisibile lo guidasse in una rete di attacchi e parate fulminee. La sua lama penetrò di punta nel petto del primo assalitore che gli si era gettato addosso, poi colpì alla cieca alle proprie spalle, ruotando su un fianco per affrontare altri due barbari che gli si stavano avventando contro da due direzioni opposte. D'impulso si gettò a terra evitando la spada del nuovo assalitore che gli passò sulla testa, mentre con la destra colpiva al fianco il secondo barbaro. Poi, mentre il primo, trascinato dal suo slancio, si curvava su di lui, con un guizzo lo trapassò da parte a parte. Gli altri si erano arrestati, sconcertati dalla rapida fine dei loro compagni. Si lanciavano sguardi e grida di incitamento, ma ormai la furia iniziale si era spezzata, e adesso era subentrata la cautela del combattente che si rende conto di trovarsi davanti un avversario pericoloso. Avanzavano di un passo e si ritraevano rapidi, in un balletto di finte e di provocazioni sterili, senza riuscire a coordinare in alcun modo le loro azioni. Poi, come se un panico improvviso si fosse impadronito di loro, li vide arretrare e sparire veloci nelle tenebre. Vargo si chinò sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato. Vicino a lui le due ragazze continuavano a fronteggiare altri assalitori. All'improvviso sentì una di loro gettare un grido. Khaima protendeva la testa all'indietro, cercando di resistere e di liberarsi da una mano invisibile che l'aveva afferrata per i capelli e la trascinava con forza. Vargo si volse verso di lei, mentre Shanda afferrava la compagna per cercare di aiutarla a resistere. Un borbottio cupo si levò nell'aria. Parole lontane, stentate. Poi il giovane vide un'ombra prendere corpo dietro le spalle di Khaima, una spada levata a tagliarle la gola. «Il mio anello» credette di capire, mentre con la sua spada riusciva a deviare il colpo diretto al collo della giovane. Shanda balzò in avanti, troncando con un colpo netto della sua corta spada il braccio dell'essere che
ancora stringeva i capelli della sorella. «Il mio anello!» gridò ancora l'ombra, insensibile al colpo. «Lo voglio!» Liberata dalla stretta, Khaima si voltò con uno scatto serpentino verso il suo aggressore, che continuava ad agitare il moncherino verso di lei. Nella sua testa, nascosta da un elmo arrugginito, mancava la mascella inferiore. La voce emergeva cavernosa dalle profondità del petto coperto da una corazza a brandelli. «Sei sfacciato, amico, a chiedere indietro qualcosa a una Sgualdrina» gli gridò in tono di sfida. Alzò la mano verso l'ombra, ostentando il gioiello che brillava all'indice. «È questo che cerchi?» L'essere mosse un passo verso di lei. «Dammelo» soffiò di nuovo. Shanda incoccò rapida una freccia e la scagliò. Il dardo sfondò senza alcun rumore la visiera metallica dell'elmo e si conficcò nella sua fronte. «Dammelo» ripeté lo spettro, continuando ad avanzare senza accusare il colpo. Per la prima volta Khaima diede segni d'incertezza. Lanciò un'occhiata a Shanda in cerca d'aiuto. Vargo si gettò verso il suo assalitore, colpendolo con tutte le forze. La lama penetrò a fondo nella spalla del cadavere, staccando quasi la testa dal collo. Il corpo seguitava a restare in piedi. «Dammelo!» gorgogliò ancora, sollevando di nuovo il moncherino. «Dagli quel dannato anello!» gridò Vargo furioso. «No. Adesso è mio» replicò Khaima con ostinazione. Vargo capì che non c'era nulla da fare. Lo spettro continuava a muoversi minaccioso, ma l'ultimo colpo pareva averlo disorientato. Approfittando del momentaneo vantaggio si lanciarono tutti in una corsa disperata. 23 Senza più la guida del Cantore si gettarono nei vicoli e nelle strade cieche della città, sperando di raggiungere in qualche modo le mura. Se ci fossero riusciti prima che l'armata degli spettri dilagasse per la città, pensò Vargo, avrebbero ancora potuto salvarsi attraverso la porta aperta. L'angoscia di non fare in tempo a fuggire prima che il risveglio di Vemerin si fosse completato mozzava loro il respiro, più che la corsa a perdifiato. «Dobbiamo tentare di ripercorrere il cammino che abbiamo fatto!» ordinò agli altri. «Sperando che nel frattempo la città non muti la sua forma!» «No, non ci torno in quel posto!» gridò Khaima indicando il Palazzo
delle Colonne che si stagliava in lontananza. «Dobbiamo! Lì dentro c'è l'unica cosa che può salvarci!» «Cosa?» Le loro voci furono sopraffatte da un ronzio violento. La cupola di porfido, che fino a un attimo prima brillava in lontananza immersa nella luce di Nester, adesso sembrava circondata da una nuvola. Sembrava essere quella l'origine del rumore. «Gli esseri alati! Stanno arrivando al richiamo di Vemerin!» gridò Shanda, per la prima volta con voce spezzata dal terrore. In quel momento con un rombo sordo la tomba tremò dalle fondamenta, mentre la crepa che l'attraversava si allargava a dismisura. Poi videro l'intera cupola muoversi e rovinare al suolo. «L'altare ha ceduto!» Davanti a loro la strada piegava improvvisamente ad angolo retto, sparendo alla vista dietro lo spigolo dell'edificio. Vargo d'istinto rallentò il passo. Forse era solo un'altra delle illusioni di quel luogo maledetto, ma gli parve di sentire il respiro di qualcuno nascosto. Con la mano libera fece segno alle ragazze di arrestarsi dietro di lui. «Non lasciate che Amnor si allontani, per nessun motivo!» Poi si lanciò fuori, sdraiandosi sul lastrico di pietra e roteando sulla schiena in modo da sorprendere dal basso l'eventuale assalitore. Il suo istinto non lo aveva tradito: sentì una lama roteare sopra di sé, accompagnata da un'imprecazione sonora. Se fosse stato in piedi il colpo lo avrebbe tagliato in due. Mosse a sua volta la spada di punta verso l'avversario, ma quello balzò all'indietro, evitando il colpo. Una nuova imprecazione squarciò il ronzio di ali nell'aria. Qualcosa trattenne la mano del giovane, che si apprestava a colpire di nuovo. Gli pareva di aver riconosciuto quella voce. Quell'incertezza quasi gli costò la vita: l'altro sollevò la spada sulla testa e tornò a calarla con tutte le sue forze sopra di lui. Vargo vide di nuovo il bagliore dell'acciaio corrergli incontro, e ancora riuscì ad evitarlo per un soffio, con un colpo di reni all'indietro. «Smettila di saltare come un gatto e affrontami, vigliacco!» gridò l'uomo, mentre cercava di riprendere l'equilibrio sbilanciato dal colpo. «Sapevo che ti avrei ritrovato!» Vargo abbassò la spada, pur continuando mantenersi a distanza di sicurezza. «Sergente Kon! Come diavolo...»
«Sta' fermo, bamboccio! Voglio farti qualche striscia sulla schiena, come premio di quello scherzo giù alla porta sul confine!» gridò l'arruolatore, facendosi avanti minaccioso. «Tu e quel maledetto vecchio del tuo amico! Dov'è finito? Ho un conto anche con lui! Ero dietro di voi quando avete spezzato la catena. Per poco non mi troncava la testa. Ho giurato che vi avrei riportato al campo a calci, prima di consegnarvi alla corte marziale. E vi tirerò i piedi io stesso, quando vi impiccheranno per diserzione!» Puntò di nuovo la spada verso il giovane, che parò senza difficoltà, replicando con un colpo di taglio. «Pensi di saperla più lunga di me?» gridò il sergente. «Siete arrivato qui da solo?» gli chiese il giovane, continuando a parare i colpi che l'altro faceva piovere su di lui. Il sergente si arrestò un attimo. Sembrava provato dallo sforzo. «Abbiamo trovato una porta aperta, nella cerchia delle mura. Mi chiedevo chi ci avesse fatto quel favore. Comincio a pensare che sia stato tu, bamboccio. Ma non credere che questo compensi l'altro scherzo!» Poi improvvisamente si fece scuro in volto. «Qualcosa ha ucciso i miei uomini. Una... piazza... una piazza, è sembrata ingoiarli. Lì, da quella parte» aggiunse indicando uno slargo nella via, a un centinaio di passi. La sua voce si era fatta incerta. «Tutta la mia pattuglia è scomparsa... Ma metterò anche questo sul vostro conto.» Al rumore delle voci anche le due Sgualdrine erano sbucate da dietro l'angolo. «Smettetela, idioti!» disse Khaima. «Guardate quello che ci aspetta!» Lo slargo che fino ad un istante prima era apparso deserto adesso si andava popolando di forme scure, che sembravano sorgere dal terreno come da una pozza d'acqua fangosa. «Sono i miei uomini!» disse il sergente, muovendosi verso di loro. «No, aspettate!» disse Vargo. Ma l'altro senza dargli ascolto continuò ad avanzare. «Dove eravate finiti? Cosa è successo?» Prima di finire la frase il sergente aveva raggiunto il gruppo. Un'espressione soffocata gli uscì dalla bocca, mentre si voltava per un attimo sconcertato verso Vargo. «Ma sono...» Lo stavano circondando. Sembravano davvero uomini della Guardia imperiale, ma come invecchiati di colpo. Vargo intravide un grigiore confuso, i volti segnati sotto gli elmi di cuoio e le divise lacere, quasi fosse trascorsa un'eternità dal momento in cui si erano separati dal loro capo.
All'unisono levarono in alto le spade arrugginite, abbattendole con furia sul sergente. L'uomo, passato il primo istante di sbigottimento, stava reagendo con la forza della disperazione. Parò in rapida successione una prima serie di colpi, mettendo in luce una forza e una capacità ammirevole. Ma qualcosa stava spezzando la sua fibra. Era diventato terreo in volto, come se la frana del tempo stesse trascinando via anche lui. Con un fendente troncò di netto il braccio di uno degli assalitori più vicini. Senza emettere nemmeno un lamento l'uomo continuò ad avanzare, cercando di colpire il sergente con il moncherino, mentre altri si facevano più sotto. Da dietro, un altro degli attaccanti stava per menare una stoccata alla schiena del sergente. Vargo lo raggiunse e si buttò subito nella mischia: deviò il colpo, poi affondò la spada nel petto del soldato. «Voi badate alla sinistra!» gridò al sergente. Kon sembrava inebetito: continuava meccanicamente a difendersi, distribuendo intorno colpi a casaccio, del tutto inefficaci contro la selva di lame che si stava serrando sempre di più. «Non posso uccidere i miei uomini...» balbettò confusamente. «Non sono più i tuoi uomini! Guardali!» urlò Vargo. «Non sono uomini!» Finalmente il sergente sembrò scuotersi e tornare lucido. «Va bene, bamboccio, non sei certo tu che puoi insegnarmi il mio mestiere!» replicò con voce decisa, colpendo con una spallata due assalitori e rigettandoli indietro. «Alla malora questi maledetti. Devono essere impazziti, per ribellarsi in questo modo. Oppure si sono venduti ai Popoli. Ma in caso o nell'altro...» Si interruppe un attimo, il tempo di sferrare una ginocchiata al ventre di un attaccante e di spezzare con un calcio violento il ginocchio di un altro. L'uomo colpito, tradito dalla gamba che cedeva sotto di lui, rovinò a terra finendo tra i piedi dei suoi compagni che premevano da dietro. Approfittando del momentaneo vantaggio il sergente e Vargo si sottrassero alla stretta degli assalitori, guadagnando una posizione più vantaggiosa per la difesa. Il giovane copriva il fianco destro, mentre l'altro, mancino, lavorava sulla sinistra chiudendo il passaggio dall'altra parte della stretta strada. Così affiancati i due si erano trasformati in una macchina da guerra implacabile. Nonostante la superiorità i soldati sembravano impacciati dal loro stesso numero. Vargo cominciava a notare una ripetitività meccanica nelle mosse degli uomini della Guardia. Si limitavano ad avanzare in gruppo secondo uno schema sempre uguale.
Anche il sergente sembrava aver notato la stessa cosa. «Ma che fanno questi idioti...» sibilò tra i denti. «Non hanno imparato niente...» Pure nell'assurdità della situazione, Vargo sentì in quelle parole l'umiliazione di un capo, di un maestro che vede disatteso ogni suo insegnamento. Forse, pensò, quell'uomo era qualcosa di più del semplice ammasso di muscoli senza cervello che pareva a prima vista. E forse qualcosa di più di un semplice assassino a pagamento, come erano gran parte dei membri della Guardia imperiale. A uno a uno i soldati cadevano sotto i loro colpi. Ma anche trafitti in modo orrendo, tornavano a rialzarsi e a cercare di combattere ancora. Alcuni, però, restavano a terra... «La testa! Bisogna colpirli alla testa!» gridò Vargo. «Me ne sono accorto, non serve che strepiti così, bamboccio» replicò il sergente, tagliando di netto il collo di un assalitore. «Togliamo di mezzo questi ultimi due!» Lo scontro era durato appena pochi attimi, ma era parso lunghissimo. Vargo e il sergente ansimavano, immersi tra i cadaveri accumulati nella strada. «È strano» disse dopo qualche istante il sergente. «Cosa?» «Il sangue.» L'uomo si guardava le mani, le vesti, poi spostava lo sguardo sui corpi a terra, sconcertato. «Il sangue. Non c'è. Per molto meno mi sono ridotto come un macellaio. E qui niente, a parte i nostri graffi. Ma con chi abbiamo combattuto?» seguitò chinandosi e afferrando per il ciuffo dell'elmo di cuoio una delle teste più vicine. Era come se volesse una conferma di ciò che aveva visto quando gli uomini della Guardia gli erano venuti incontro. Con un gesto brusco afferrò la visiera dell'elmo e la strappò via. Emise un singulto soffocato e lasciò cadere la testa, che rotolò via. «Sono... sono spettri...» ansimò inorridito. La testa, liberata dalla sua protezione, rivelava i tratti scarnificati e corrosi di un cadavere spento da lungo tempo. Le guance ridotte e brandelli si sfaldavano dal teschio. Il sergente si guardò intorno. Il suo sguardo si soffermò sulle Sgualdrine, come se le vedesse adesso per la prima volta, poi sembrò riconoscere Amnor. «E così il vecchio è ancora vivo. E loro... dove siamo finiti, dannazione...?»
«Non c'è tempo, dobbiamo allontanarci. Ma prima è necessario tornare nella sala dell'harem!» «Cosa?» gridò Khaima. «In mezzo a quelle mummie? O vuoi rubare qualcosa anche tu?» «La donna! La figlia di Vemerin! Dobbiamo portarla con noi! È lei la custode del Trentesimo Canto, il solo modo di fermarlo!» Rientrarono nel palazzo, correndo verso il luogo dove giaceva la donna misteriosa. Il coro della fanciulle morte non sembrava esser stato raggiunto dal torrente di orrore che aveva invaso la tomba. Continuavano a giacere immote sui loro scanni, immerse nel sonno secolare. Vargo giunse davanti alla figlia di Vemerin, e nonostante l'urgenza non riuscì a non guardare di nuovo quelle fattezze impressionanti. Il suo volto divino, limpido, gli smosse di nuovo qualcosa dentro, come se frammenti di un ricordo antico cercassero di prendere forma. Qualcosa che un tempo doveva aver visto e amato, qualcosa che viveva da sempre dentro di lui. Respinse rapidamente quei pensieri, mentre afferrava il sarcofago e cercava si staccarlo dal basamento. La teca resisteva ai suoi sforzi. Sentì alle sue spalle il sergente che lo spostava rudemente. «Levati, bamboccio. Questo è lavoro per uomini.» Afferrò a due mani il sarcofago, e con un grugnito ne divelse le zeppe che lo ancoravano. Poi senza sforzo apparente se lo caricò su una spalla. «Perché rubiamo questo corpo?» chiese, mentre distribuiva meglio il peso. «A quale tomba lo strappiamo? C'è il malaugurio a fare questo!» «Il malaugurio, ma forse anche la salvezza» rispose Vargo, lanciando un ultimo sguardo alla donna distesa. «Andiamo, ci sarà tempo per spiegare. Là, da quella parte. Alla porta schiantata dal dragone. Possiamo ancora farcela.» Si mosse per tornare sui suoi passi. Ma subito si arrestò, disorientato. C'era qualcosa di diverso, il passaggio da cui erano entrati sembrava scomparso. «Le pareti... si sono mosse...» mormorò Shanda dietro di lui, con un tremito involontario nella voce. In quella il pavimento oscillò violentemente sotto i loro piedi, mentre un rombo assordante scuoteva l'edificio dalle fondamenta. «Che diavolo succede?» gridò Kon, che cercava di resistere a gambe ben piantate, curvo sotto il suo carico.
«La città si trasforma! Anche le sue mura si torcono per accogliere il Re!» «Bella sorpresa, bamboccio! E adesso?» Due nuovi passaggi erano apparsi dal nulla. Una porta e la testa di una scala che scendeva nelle viscere della terra. «Nemmeno morta voglio andare là sotto!» anticipò Khaima. Il giovane annuì, muovendo deciso verso l'altra apertura. Percorse alcuni passi all'interno della nuova sala. Una serie di tavoli di pietra occupavano lo spazio, disposti intorno a una gabbia metallica che pendeva da una catena legata al soffitto. Dentro c'era un corpo, con le membra rattrappite. Il giovane si avvicinò. La morte dell'uomo doveva essere giunta tra gli spasimi, pensò con ribrezzo. Accanto alla gabbia giacevano ancora in terra gli strumenti che dovevano essere serviti per torturarlo. «Questo Vemerin non era troppo diverso dall'Imperatore, alla fine!» sogghignò il sergente guardandosi intorno. «Sembra la sala delle Afflizioni a Menthor! Ma che fa il vecchio?» Amnor si era avvicinato barcollando. Sfiorava con le mani i tavoli, come se cercasse un ricordo attraverso il contatto con la pietra. Urtò qualcosa, con un rumore metallico. Si chinò in terra a raccogliere una lunga pinza, poi si accostò alla gabbia. I suoi occhi sembravano adesso più vivi, come se lentamente stesse tornando in sé. Tese la pinza attraverso le sbarre, verso il fianco del cadavere. Indugiò qualche attimo, cercando un punto preciso tra le costole. Quindi, come obbedendo a un'antica abitudine, infisse la punta dello strumento, strappando un lembo di carne corrosa. Il cadavere si contorse, mentre la sua mascella serrata si apriva di scatto. La scena era avvenuta in un silenzio perfetto, eppure ognuno di loro avrebbe giurato di aver udito qualcosa: un gemito, parole soffocate. Amnor continuava a infierire, poi, prima che gli altri potessero superare lo sconcerto, lasciò cadere la pinza. «Dove sono...» mormorò, passandosi la mano sulla fronte. Con uno scatto scrollò la testa, mentre il suo volto si illuminava di consapevolezza. «In mezzo ai morti, maledetto!» gridò Khaima. «È questo il tuo posto!» Amnor si volse verso Vargo, con una luce nuova negli occhi. Sembrava di colpo tornato l'uomo di un tempo. «Da quella parte» disse gelido, ignorando le parole della ragazza. «Che ne sa il vecchio, della strada?» chiese sospettoso Kon. «Con chi ha
parlato?» «Meglio non chiedercelo» rispose Vargo con un brivido. «Ma non abbiamo scelta, seguiamolo.» «Sì, non avete scelta» sibilò Amnor, muovendosi per primo. 24 Riattraversarono le vie della città come in un incubo, guidati da Amnor. Nessuno di loro avrebbe saputo dire come raggiunsero la porta. I cavalli si trovavano ancora dove li avevano lasciati, legati a una ruota della macchina esplosa. Scalpitavano e nitrivano inquieti, i morsi imbrattati di sangue per gli strappi che avevano dato ai finimenti cercando di liberarsi. La presenza degli esseri umani servì a riportarli un poco alla calma. «Siamo in troppi per queste bestie» disse il sergente, deponendo a terra il sarcofago con un grugnito. «Sì, ma non possiamo fare altro» rispose Vargo. «Cerchiamo di distribuire il peso, e speriamo che riescano almeno a portarci via da qui, prima di crollare. Aiutami a caricare il sarcofago.» «Possiamo rompere il cristallo e tirare fuori quella donna, visto che ci tieni tanto» disse l'uomo sollevando la spada. Vargo gli fermò il braccio prima che calasse il colpo. «No, credo che sia grazie a quello che il suo corpo si è preservato. Abbiamo bisogno che resti integra! Leghiamo il sarcofago su una delle bestie, le ragazze saliranno in due sull'altra, e io e il vecchio sul terzo. Ne rimane uno per te.» Il giovane aiutò Amnor a salire su uno dei cavalli. Poiché il vecchio non sembrava in condizione di reggersi, così strappò rapidamente una striscia dal suo mantello e gli legò le mani attorno al collo della bestia, affidando le briglie a Khaima, che era salita insieme con la sorella. Gettò sul sarcofago una delle loro coperte, poi anche lui balzò in groppa. Per un attimo aveva avuto l'impressione che le palpebre della figlia del Re non fossero più serrate come quando l'aveva trovata, immersa nel sonno dei secoli. «Seguitemi, presto!» ordinò, dando di sprone seguito dagli altri puntando verso lo spazio aperto. Una nuvola scura stava scendendo sulla città alle loro spalle. Corsero ventre a terra per un paio di leghe, poi improvvisamente Vargo arrestò il cavallo con uno strappo, fissando l'orizzonte. «C'è qualcuno... Sembrano uomini in marcia...»
Il sergente si era levato sulle staffe, aguzzando gli occhi. «Sono le nostre truppe! Il grosso dell'armata, che era dietro la mia pattuglia!» esclamò con un grido di giubilo. «Finalmente! Adesso possiamo tornare là dentro, e fare piazza pulita di tutti quei mostri!» Spronò di nuovo, puntando verso le linee in avvicinamento. «Aspetta un momento, soldato!» squillò dietro di lui la voce di Khaima, attraversata da un tremito. «Non hai visto tutto.» La nube scura sulla città vibrava e si gonfiava sempre più. A tratti sembrava che la stessa cupola precipitata fosse tornata al suo posto, trascinata in alto da quella forza ronzante. Lentamente assunse l'apparenza di un turbine, una immensa colonna rotante che saliva verso il cielo, poi si mosse verso la pianura come se volesse sbarrare la strada agli uomini che avanzavano. Vargo si guardò rapido intorno. Sulla loro destra, a circa un miglio, uno sperone di roccia si levava per un centinaio di braccia dalla pianura calcinata. «Da quella parte!» gridò, volgendo il cavallo. «Perché? Voglio raggiungere i miei uomini! Non sono un disertore come te!» rispose il sergente, brusco. Vargo era già avanti. Si limitò a un cenno imperioso di richiamo. «Non c'è tempo!» Per un momento l'uomo sembrò esitare. Ma c'era qualcosa nella voce del giovane... Non paura, piuttosto un senso di allarme... Lo sperone aveva su un fianco un camminamento che lo avvolgeva in stretti tornanti, rendendo possibile la salita fino alla cima. Si avviarono rapidi verso l'alto, raggiungendo la sommità in pochi attimi. Sulla cima erano ancora in piedi i resti di una torre in rovina. Forse un posto di guardia. Vargo, Amnor, le Sgualdrine e il sergente misero al riparo i loro cavalli in un vasto ambiente al livello del terreno, poi salirono su quello che restava del tetto della torre. Da quella posizione avevano una visione perfetta della piana sotto le mura della città. Potevano vedere le ante rovesciate della porta d'entrata. La colonna degli imperiali seguitava ad avanzare. Attraverso la polvere sollevata dalla loro marcia cominciavano a essere percepibili il suono ritmico dei tamburi che cadenzavano il passo e il nitrito eccitato dei cavalli. Delle grida giungevano dalle prime fila, ordini secchi, imprecazioni che vincevano a tratti il rombo sempre più sordo del turbine sulla città. Tutta la testa della colonna stava abbandonando la posizione di marcia per allargarsi su un fronte più ampio. Nella massa compatta alle spalle dell'avanguardia Vargo vide aprirsi dei corridoi, attraverso i quali venivano avanti dei
traini a cavalli. «Le catapulte!» gridò il sergente esultante. «I nostri stanno per attaccare!» Vargo volse d'istinto lo sguardo verso la città. Un suono acuto e lacerante lo colpì. Dalle mura infiammate dal sole sembrava levarsi un gemito, come se un gran numero di barre metalliche venissero torte da una forza immane. Poi lo stridore lasciò il passo a un grido, il lamento agghiacciante di un essere torturato a morte. Il rumore sovrastò di colpo il ronzio della nuvola turbinante, come se infinite voci si andassero sommando alla prima che aveva gridato. La città urlava dalle sue viscere, mentre le mura si arrossavano sempre di più. «Che cosa..?» balbettò il sergente impallidendo. Un'esplosione di voci sovrumane li costrinse a proteggersi le orecchie con le mani. Nella sala inferiore i cavalli nitrivano imbizzarriti, scalciando e cercando di strappare i finimenti che li trattenevano. «Il Canto! Il Canto del Ritorno'» disse Vargo, cercando di superare l'eco dell'urlo che saliva verso il cielo. «Vemerin chiama le Tenebre!» Il sergente non pareva capire. Fissava affascinato lo spettacolo. Tutto il fianco della rupe vibrava, mentre un moto affannoso sembrava essersi impadronito anche delle truppe imperiali. La cavalleria si stava disponendo sui fianchi dello schieramento. Gli inservienti terminavano di approntare le macchine d'assedio, e già le prime catapulte venivano caricate. In quell'istante l'urlo crebbe ancora d'intensità, poi di colpo il cerchio delle mura parve muoversi. Tutte le settantasette porte si spalancarono, e da ognuna di esse un torrente di forme scure proruppe fuori, precipitandosi verso la piana. Alla loro vista le truppe imperiali sbandarono, colte alla sprovvista. Disposte in uno schieramento organizzato per un assedio, si trovavano adesso nella necessità improvvisa di far fronte a un assalto tumultuoso da direzioni diverse. «Chiudete le ali!» gridò il sergente serrando i pugni. «Serrate al centro! Ma che fanno quegli idioti!» urlò ancora, come se l'esercito lontano potesse sentirlo. Gli addetti alle catapulte stavano cercando di riorientare le loro macchine, puntando verso i nugoli che si avvicinavano. I primi colpi presero a innalzarsi in una parabola stretta, ricadendo sulla massa in arrivo. Le pietre aprivano dei varchi nei ranghi degli assalitori, che subito, però, venivano colmati. Lo spazio tra i due schieramenti andava restringendosi, mentre
l'urlo della città si faceva sempre più insopportabile. La prima linea degli imperiali sembrò reggere l'urto, ma poi cominciò ad arretrare. Vargo vide le catapulte ondeggiare e poi rovesciarsi, sommerse dall'orda che continuava ad avanzare. Ormai l'esercito imperiale era circondato da ogni parte, impossibilitato a qualunque manovra. Il sergente osservava la scena impietrito. «Devono tenere... Se reggono al centro...» balbettava. L'armata imperiale tentava di resistere. Ma il quadrato delle divise multicolori si faceva ad ogni istante più esiguo, perso nella marea scura che lo avvolgeva. Gli uomini combattevano con disperazione, spalla a spalla, arretrando lentamente tra i cadaveri che si ammassavano ai loro piedi. Poi il Canto nella città mutò di colpo. Il ronzio del turbine che continuava a gravare sulla cupola crebbe repentinamente d'intensità, oltrepassò le mura e sciamò sulla piana. Improvvisamente il chiarore abbacinante del giorno si attenuò, fino a precipitare tutta la valle in una specie di crepuscolo, e tutta la nuvola volante calò sul campo di battaglia. Il Canto aveva raggiunto un livello insopportabile. Vargo, che si teneva la testa stringendo i denti, vide Shanda e Khaima che si gettavano a terra con una smorfia di dolore, cercando di trovare tra le pietre della torre un riparo a quel suono lancinante. Solo il sergente continuava a restare immobile. «Devo raggiungere i miei uomini...» mormorò. In basso la nuvola scura scendeva a ondate, penetrando nella schiera degli imperiali. Piccoli lampi colorati apparivano qua e là al suo interno, poi erano di nuovo sommersi. «Non c'è più nessuno da raggiungere» disse cupo Vargo. Il sergente si coprì il volto con le mani, lasciandosi sfuggire un singhiozzo. «Era più facile bruciare i villaggi sul Confine, vero?» disse Khaima. Il sergente non rispose. Sembrava svuotato di ogni energia. Le gambe gli cedettero e si lasciò cadere in ginocchio. Vargo tornò a fissare il campo di battaglia, dove la massa delle ombre continuava ad aggirarsi come uno sterminato branco di cani affamati. Il grido di Shanda lo strappò da quella visione. «La donna! È viva!» La ragazza indicava sconvolta il sarcofago. Attraverso il vetro la luce del sole batteva sul volto della figlia di Vemerin. I suoi occhi si erano aperti. Per un attimo Vargo ebbe l'impressione di vedere una vibrazione sulle sue
labbra e di udire un suono soffocato, come se la donna stesse sussurrando qualcosa. Ma era stato solo un attimo. Gli occhi tornarono a richiudersi, nell'immobilità di prima. Eppure, il colore rosato della vita sembrava tornato sulla sua pelle, rendendo più visibili e chiari i segni minuti che le istoriavano il corpo. E il suo petto sembrava sollevarsi. «È solo un'illusione» disse il giovane, ma di nuovo dal sarcofago gli parve di udire un mormorio, come se la figlia del Re rispondesse al Canto che proveniva dalle mura della città. «Dobbiamo tornare nelle terre dell'Impero» disse Vargo scuotendosi. «Avvertire gli uomini di quello che si sta preparando qui.» «E cosa potranno fare, gli uomini» chiese sconsolata Shanda «di fronte a quegli esseri?» Lo sguardo del giovane scivolò di nuovo sulla figlia di Vemerin, che sembrava immersa ancora nei suoi sogni. «Porta su di sé il segreto dell'ultima visione del padre. Il Canto che respinge le Tenebre. E Amnor è l'unico in grado di decifrare le antiche parole dell'orrore. Se riuscissimo a conoscere il Canto potremo batterci. Forse il nostro destino non è segnato.» Anche il sergente fissava la donna, incerto. «Certo è bella...» disse, con voce per un momento quasi commossa. Poi si volse verso Vargo. «Hai detto bene, bamboccio. Dobbiamo batterci. Ho un conto da saldare.» Shanda alzò una mano a sfiorare la cicatrice sulla fronte di Vargo. Anche Khaima si era avvicinata, come un cucciolo spaurito. «Bisogna avvertire la Signora Rossa...» mormorò. «Dobbiamo avvertire tutti. Anche i nostri dei! Abbiamo una lunga strada davanti a noi» disse Vargo, puntando il dito verso settentrione. Dal basso giungeva il nitrito dei cavalli. Sentivano la paura nell'aria, con l'istinto di ogni bestia. Vargo lanciò un'occhiata ai suoi compagni. Per un istante nessuno parlò. Ma erano pronti. Poi le armate di Vemerin si rovesciarono sul paese. Fame che divora, Peste con le sue piaghe e Guerra che avvelena si sparsero nel Vuoto. Morte rimase invece con il suo signore. E prese verso settentrione, diretta alle terre di Khur. Qui, al suono del-
le trombe, cominciò la festa della follia. dalle Tavole, conservate nella Sala Negata della Biblioteca di Menthor FINE