PARAMAHANSA YOGANANDA AUTOBIOGRAFIA DI UNO YOGI
Prefazione di M.Y. EVANS-WENTZ Il valore dell'Autobiografia di Yoganan...
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PARAMAHANSA YOGANANDA AUTOBIOGRAFIA DI UNO YOGI
Prefazione di M.Y. EVANS-WENTZ Il valore dell'Autobiografia di Yogananda è notevolmente accresciuto dal fatto che esso è uno dei pochi libri pubblicati in inglese sui saggi dell'India, scritti non da un giornalista o da uno straniero, ma da uno della loro stessa razza e educazione: in breve, è un libro di uno yoghi. Quale relazione di un testimonio oculare delle straordinarie vite e degli straordinari poteri dei moderni santi indù, questo libro ha importanza nel tempo e fuori del tempo. Possa ogni lettore rendere al suo illustre autore, che ho avuto il piacere di incontrare sia in India che in America, l'omaggio e la gratitudine che gli spettano. La sua non comune descrizione della propria vita è certamente una fra le più rivelatrici della profondità della mente e del cuore degli indù e della ricchezza spirituale dell'India, che mai siano state pubblicate in Occidente. E' stato mio privilegio incontrare uno dei saggi della cui vita si narra qui la storia: Sri Yukteswar Giri. Un'immagine del venerabile santo è apparsa quale parte del frontespizio nel mio libro Tibetan Yoga and Secret Doctrines (Nota : Oxford University Press, 1935. Fine nota). Fu a Puri, Orissa, nella baia del Bengala, che incontrai Sri Yukteswar. Era allora capo di un tranquillo ashram sulle rive del mare in quella località, ed era principalmente occupato nell'addestramento spirituale di un gruppo di giovani discepoli. Egli espresse allora un vivo interesse al benessere dei popoli degli Stati Uniti e di tutte le Americhe ed anche dell'Inghilterra, e mi interrogò sulle lontane attività, soprattutto quelle svolte in California, del suo principale discepolo, Paramahansa Yogananda, che egli amava teneramente e che aveva inviato nel 1920 in Occidente quale suo emissario. Sri Yukteswar era dolce nell'espressione e nella voce e di piacevole aspetto, e degno della venerazione che i suoi seguaci spontaneamente gli tributavano. Tutti quelli che lo conoscevano, appartenenti o no alla sua comunità, lo tenevano nella più alta stima. Ricordo vivamente la sua figura ascetica, alta e diritta, avvolta nella veste color zafferano propria di chi ha rinunciato alle richieste del mondo, mentre stava eretto sull'entrata dell'eremitaggio per darmi il benvenuto. I suoi capelli erano lunghi e un po' ricciuti e il suo volto barbuto. Aveva un corpo sodo e muscoloso, ma magro e ben formato, e il
passo energico. Aveva scelto per sua dimora terrena la sacra città di Puri, dove moltitudini di religiosi indù, rappresentanti d'ogni provincia dell'india, vengono giornalmente in pellegrinaggio al famoso tempio di Jagannath, "Signore del Mondo". Fu a Puri che Sri Yukteswar chiuse i suoi occhi mortali, nel 1936, alle scene di questo transitorio stato di esistenza e passò oltre, sapendo che la sua incarnazione era stata condotta a un trionfale compimento. Sono invero lieto di poter rendere questa testimonianza dell'altissimo carattere e della santità di Sri Yukteswar. Contento di rimanere lontano dalle moltitudini, si era dato senza riserve e in tranquillità a quella vita ideale che Paramahansa Yogananda, suo discepolo, ha ora descritto per i secoli a venire. W. Y. Evans-Wentz.
CAPITOLO 1 I MIEI GENITORI, I PRIMI ANNI DI VITA Il tratto caratteristico della cultura indiana è sempre stato la ricerca delle verità supreme e il conseguente rapporto discepolo-guru (Nota : Maestro spirituale, dalla radice sanscrita gur: innalzare). La mia via mi condusse verso un Saggio simile al Cristo, la cui vita esemplare fu cesellata per i secoli. Egli era uno di quei grandi Maestri che sono la ricchezza imperitura dell'India. Poiché ne sorgono in seno a ogni generazione, essi hanno salvato il loro paese dal destino della Babilonia e dell'Egitto. I miei primi ricordi portano i segni anacronistici di una precedente incarnazione. Avevo chiare memorie di una vita lontana, di uno yoghi fra le nevi dell'Himalaya. Per qualche inafferrabile legame, questi sprazzi del passato mi aprivano anche uno spiraglio sul futuro.(Nota :Yoghi = Uno che pratichi lo yoga, cioè l'unione, l'antica scienza indiana della meditazione su Dio (v. cap. XXVI: "La scienza del Kriya Yoga"Fine nota). Le umiliazioni impotenti della prima infanzia non sono bandite dalla mia memoria. Pieno di risentimento ero cosciente del fatto di non essere capace di camminare, né di esprimermi liberamente. Ondate di preghiere si levavano dentro di me quando mi resi conto delle mie limitazioni fisiche. La mia intensa vita emotiva si espresse silenziosamente in parole di molte lingue diverse. Tra la confusione interiore degli idiomi, il mio orecchio gradualmente si abituò alle sillabe bengali pronunciate dalla gente che mi attorniava. Oh! l'affascinante panorama di una mente infantile, che gli adulti considerano interessata solo ai giocattoli e alle dita dei propri piedini! Il fermento psicologico e il mio corpo incapace provocavano in me frequenti e ostinate crisi di pianto. Ricordo lo sgomento della famiglia di fronte alla mia disperazione. Ma in me si affollano anche ricordi più felici: le carezze di mia madre e i primi tentativi di balbettare frasi, di muovere incerti passi. Questi primi trionfi che generalmente si dimenticano presto, sono tuttavia la base naturale della fiducia in se stessi. Questi lontanissimi ricordi non sono un mio particolare privilegio. Si sa che molti yoghi hanno serbato ininterrotta la coscienza di sé attraverso il drammatico trapasso da 'vita' a 'morte' e viceversa. Se l'uomo fosse solamente un corpo, la perdita di questo corpo metterebbe davvero fine
all'identità umana; ma se per millenni i profeti hanno detto il vero, l'uomo è essenzialmente di natura incorporea. Il persistente nucleo dell'io umano è legato solo temporaneamente alla percezione dei sensi. Per quanto possa sembrare strano, non è molto raro che si conservino chiari ricordi della prima infanzia. Nei molti viaggi fatti in vari paesi, ho ascoltato reminiscenze di ricordi assai precoci dalle labbra di persone veritiere. Io nacqui il 5 gennaio del 1893 e trascorsi i primi otto anni a Gorakhpur, mio paese natio nelle Province Unite dell'India Nord-Orientale, presso i monti dell'Himalaya. Eravamo otto figli: quattro maschi e quattro femmine. Io, Mukunda Lal Ghosh ero il secondo maschio e il quarto figlio. (Nota : Il mio nome mutò in quello di Yogananda quando, nel 1914, entrai nell'antico ordine monastico degli Swami. Il mio Guru mi dette la qualifica religiosa di Paramahansa nel 1935 (v. capp. XXIV e XLII Fine nota). Mio padre e mia madre erano bengali della casta Kshatriya (Nota : La seconda casta, tradizionalmente quella dei governanti e dei guerrieri Fine nota). Entrambi avevano avuto la grazia d' essere dotati di una santa natura. Il loro scambievole amore, dignitoso e tranquillo, non si esprimeva mai futilmente. Un'armonia perfetta tra i genitori era il calmo centro attorno al quale turbinava il tumulto di otto giovani vite. Mio padre, Bhagabati Charan Ghosh, era mite, grave, a volte severo. Pur amandolo molto, noi bambini stavamo a una certa distanza reverenziale da lui. Matematico e logico notevole, era guidato soprattutto dal suo intelletto. Mia madre, invece, era una vera regina di cuori e ci educava solo attraverso l'amore. Dopo la sua morte, nostro padre ci manifestò maggiormente la sua nascosta tenerezza. Mi accorsi allora che spesso il suo sguardo si tramutava in quello di mia madre. Alla presenza di mia madre facemmo i nostri primi approcci agrodolci con le sacre Scritture. Per ottemperare alle esigenze della disciplina, nostra madre chiamava opportunamente in aiuto e ci impartiva appropriati racconti tratti dal Mahabharata e dal Ramayana (Nota : Questi antichi poemi epici sono un tesoro che raccoglie in sé la storia, la mitologia e la filosofia dell'India. Ramayana e Mahabharata, un riassunto in versi scritto in inglese da Romesh Dutt, è stato pubblicato dalla SRF, Los Angeles Fine nota). Istruzione e castighi andavano di pari passo in quelle occasioni. Per compiere un quotidiano atto di rispetto verso il padre, nostra madre ci vestiva accuratamente nel pomeriggio per dargli il benvenuto quando tornava dall'ufficio. La sua posizione era pari a quella d'un vice-presidente
in una delle più importanti società dell'India: le Ferrovie Bengala-Nagpur. Il suo lavoro lo costringeva a viaggiare, perciò durante la mia fanciullezza la mia famiglia visse in varie città. Mia madre aveva sempre una mano tesa verso i poveri. Anche mio padre era d'animo buono, ma estendeva al bilancio familiare il suo rispetto per la legge e per l'ordine. Una volta mia madre, per nutrire i poveri, spese in due settimane più di quanto mio padre guadagnava in un mese. "Non ti chiedo altro che di mantenere la tua carità entro un limite ragionevole" l'ammonì mio padre. Ma persino questo lieve rimprovero da parte di suo marito fu penoso a mia madre. Senza accennare a un dissenso a noi ragazzi, ella tranquillamente si ordinò una carrozza. "Addio! Vado via, a casa di mia madre". Antico ultimatum! Scoppiammo in attoniti lamenti. Giunse a tempo opportuno il nostro zio materno; bisbigliò a mio padre qualche saggio consiglio, senza dubbio custodito da secoli e dopo qualche parola conciliativa da parte di mio padre, la mamma, tutta felice, mandò via la carrozza. Così svanì l'unica nube che abbia mai notato fra i miei genitori. Ma rammento una discussione caratteristica: "Per piacere, dammi dieci rupie per una povera donna che è venuta proprio adesso". Il sorriso di mia madre era suadente. "Perché dieci rupie? Una basta". E per giustificarsi mio padre aggiunse: "Quando il babbo e i nonni mi morirono improvvisamente, conobbi per la prima volta la povertà. La mia unica consolazione, prima di accingermi a percorrere qualche miglio di strada per andare a scuola, consisteva in una sola piccola banana. Più tardi, all'Università, ero tanto misero che chiesi a un ricco giudice l'aiuto di una rupia al mese. Rifiutò, con la scusa che anche una sola rupia aveva la sua importanza". "Con quale amarezza rammenti il rifiuto di quella rupia!". Il cuore di mia madre ebbe una logica istantanea. "Vuoi che anche questa donna ricordi così dolorosamente il tuo rifiuto di dieci rupie di cui ha urgente bisogno?". "Hai vinto!" Col gesto eterno del marito vinto, egli aprì la borsa: "Eccoti dieci rupie; gliele do con tutto il cuore!". Mio padre aveva la tendenza a rispondere subito "no" a qualsiasi nuova proposta. Il suo atteggiamento verso la donna sconosciuta che aveva così subitamente ispirato simpatia a mia madre, era un esempio della sua abituale prudenza. L'avversione ad accettare immediatamente qualsiasi cosa, in realtà fa onore al principio della "debita riflessione". Ho trovato mio padre sempre ragionevole, e anche equilibrato, nei suoi giudizi; se potevo sostenere le mie numerose richieste con uno o due buoni argomenti
invariabilmente mi concedeva ciò che desideravamo si trattasse di una gita o di un nuovo motociclo. Egli serbò sempre verso i figli, durante la nostra infanzia, una severa disciplina, ma il suo atteggiamento verso se stesso era davvero spartano. Non andava mai a teatro, per esempio, ma cercava il suo svago nelle pratiche spirituali e nella lettura della Bhagavad-Gita (Nota: Di questo altissimo poema sanscrito, che fa parte dell'epoca Mahabharata, il Mahatma Gandhi scrisse: "Chi mediterà sulla Bhagavad Gita ne trarrà ogni giorno una gioia nuova e significati nuovi. non v'è un solo problema spirituale che la Gita non possa risolvere"Fine nota). Contrario a ogni lusso, portava un unico paio di scarpe fino a che diventavano inservibili. I figli si comperarono delle automobili, quando queste divennero d'uso comune, ma mio padre si accontentò sempre del tram per la quotidiana corsa in ufficio. L'accumulare denaro per amore del potere che esso dà, era alieno alla sua natura. Quando organizzò la Banca cittadina di Calcutta, rinunciò al beneficio di serbare per sè delle azioni. Aveva voluto soltanto compiere un dovere civico, nel tempo libero a sua disposizione. Dopo vari anni che mio padre era andato in pensione, giunse un ispettore inglese per una verifica contabile alla Compagnia ferroviaria BengalaNagpur; con profonda meraviglia l'ispettore scoprì che mio padre non aveva mai reclamato le gratifiche arretrate. "Ha compiuto il lavoro di tre uomini", disse l'ispettore della Compagnia, "ed ha un credito di 125.000 rupie (circa 41.250 dollari) dovutegli per compensi arretrati". I dirigenti della compagnia inviarono a mio padre un assegno per tale cifra. Egli ne fece tanto poco caso da non comunicarlo nemmeno in famiglia. Dopo molto tempo, Bishnu, il mio fratello più giovane, avendo saputo del grosso deposito da un resoconto bancario, glie ne parlò. "Perché gioire dei vantaggi materiali?", gli rispose mio padre; "colui che persegue come mèta la serenità dell'animo non giubila per un guadagno né si deprime per una perdita. Egli sa che giunge povero su questa terra e ne riparte senza una sola rupia". Nei primi tempi del loro matrimonio i miei genitori divennero discepoli di un grande Maestro: Lahiri Mahasaya di Benares. Questo contatto rinforzò il naturale temperamento ascetico di mio padre. Mia madre fece alla mia prima sorella, Roma, una straordinaria confessione: "Tuo padre ed io viviamo insieme come marito e moglie solo una volta all'anno, allo scopo di avere dei figli".
Mio padre incontrò Lahiri Mahasaya per mezzo di Abinash Babu, impiegato nell'Ufficio di Gorakhpur della Compagnia Ferroviaria BengalaNagpur. Nota : L'appellativo di Babu (signore) viene posto dopo il nome. Fine nota. Abinash riempì le mie giovani orecchie di appassionanti racconti su molti Santi indiani. Invariabilmente concludeva il suo dire con un tributo alla gloria superiore del proprio Guru. "Hai mai conosciuto le straordinarie circostanze nelle quali tuo padre divenne discepolo di Lahiri Mahasaya?". Era un pigro pomeriggio estivo, e Abinash e io sedevamo nel giardino chiuso della mia casa, quando egli mi fece questa misteriosa domanda. Crollai il capo con un sorriso di attesa. "Molti anni fa, prima della tua nascita, chiesi al mio superiore (che era tuo padre) di concedermi una settimana di licenza per recarmi da Gorakhpur a Benares a visitare il mio Guru. Tuo padre si burlò di me: - Volete diventare un fanatico religioso? - mi domandò. - Concentratevi sul lavoro d'ufficio se volete andare avanti. "Lo stesso giorno, mentre me ne tornavo tristemente verso casa attraverso un boscoso sentiero, incontrai tuo padre in palanchino. Egli congedò servi e vettura e s'incamminò con me. Per consolarmi mi enumerò tutti i vantaggi che provengono dalla lotta per il successo mondano, ma lo ascoltavo distrattamente; il mio cuore ripeteva: 'Lahiri Mahasaya! Non posso vivere senza vederti!". "Il sentiero che seguivamo ci condusse al limite di un campo tranquillo, dove gli ultimi raggi del sole coronavano ancora la superficie ondulata della selvaggia vegetazione. Ci arrestammo ammirati. Là, nel campo, a pochi passi da noi, apparve ad un tratto la forma del mio Guru - Bhagabati, sei troppo severo col tuo dipendente! Nota: Gli straordinari poteri dei grandi maestri sono spiegati nel XXX capitolo: La legge dei miracoli. Fine nota. "La sua voce risuonò alle nostre orecchie stupite. Egli svanì misteriosamente com'era venuto. Caduto in ginocchio, esclamai: - Lahiri Mahasaya! Lahiri Mahasaya! Per qualche istante tuo padre rimase immobile e sbigottito; poi: - Abinash, non solo vi concedo la licenza, ma me la prendo anch'io per partire domani per Benares. Devo conoscere questo grande Lahiri Mahasaya che ha il potere di materializzarsi a volontà per intercedere a vostro favore. Condurrò con me mia moglie e chiederò al Maestro di avviarci sul suo sentiero spirituale. Volete condurci da lui? - Senza dubbio. "Provai un'immensa gioia per il miracoloso esaudimento della mia preghiera e per il rapido e favorevole svolgersi degli eventi.
"La sera seguente i tuoi genitori ed io partimmo per Benares. Prendemmo un carrettino a cavalli e poi dovemmo inoltrarci a piedi su stretti viottoli per giungere alla casa solitaria del mio Guru. Entrando nel salottino c'inchinammo dinanzi al Maestro, che era raccolto nella sua abituale posizione del Loto. Egli socchiuse i suoi occhi penetranti e li fissò su tuo padre. - Bhagabati, sei troppo severo col tuo dipendente! - Erano le stesse parole che aveva detto due giorni prima nel campo di Gorakhpur. E aggiunse: Sono lieto che tu abbia permesso a Abinash di venire a trovarmi, e che tu e tua moglie lo abbiate accompagnato. "Con loro grande gioia, egli iniziò i tuoi genitori agli esercizi spirituali del Kriya Yoga . Tuo padre ed io, quali confratelli dal memorabile giorno della visione, siamo diventati intimi amici. Lahiri Mahasaya si interessò particolarmente alla tua nascita. La tua vita sarà certamente legata alla sua; la benedizione del Maestro non viene mai meno". (Nota Kriya Yoga =Una tecnica yoga mediante la quale si acqueta il tumulto dei sensi permettendo all'uomo di raggiungere una sempre maggiore identità con la Coscienza Cosmica (v. Cap. XXVI). FINE NOTA Lahiri Mahasaya abbandonò questo mondo poco dopo che io vi ebbi fatto la mia entrata. Il suo ritratto, racchiuso in una bella cornice, ha sempre onorato il nostro tabernacolo familiare in tutte le diverse città dove mio padre fu trasferito per il suo ufficio. Molte mattine e molte sere mia madre e io meditammo dinanzi a un altare improvvisato, offrendo fiori intinti in una fragrante pasta di legno di sandalo. Con incenso e mirra e con le nostre preghiere unite onoravamo la divinità che aveva in Lahiri Mahasaya piena espressione. Il suo ritratto ebbe una straordinaria influenza sulla mia vita. Man mano che crescevo, cresceva con me il pensiero del Maestro. Durante la meditazione, vedevo spesso la sua immagine fotografica uscire dalla piccola cornice e, prendendo forma vivente, sedersi di fronte a me. quando cercavo di toccare il piede del suo corpo luminoso esso mutava di nuovo, ridiventando quadro. Quando da fanciullo divenni adolescente, trovai Lahiri Mahasaya trasformato nella mia mente: da una piccola immagine racchiusa in una cornice, egli divenne una vivente, illuminante presenza. Nei momenti difficili, nei momenti di turbamento, lo pregavo spesso, trovando in me il conforto della sua guida. In principio ero addolorato perché egli non viveva più fisicamente, ma quando cominciai a scoprire la sua onnipresenza segreta non mi lamentai
più. Egli stesso aveva scritto sovente a quei discepoli che erano ansiosi di vederlo: "Perché venire a vedere le mie ossa e la mia carne, quando io sono sempre nella sfera del vostro "kutastha" (vista spirituale)?". Verso gli otto anni fui benedetto da una prodigiosa guarigione, operata attraverso il ritratto di Lahiri Mahasaya. Questa esperienza diretta intensificò il mio amore. Nella proprietà di famiglia, a Ichapur nel Bengala, fui colpito da colera asiatico. Ero condannato. I medici non potevano far nulla. Accanto al mio letto, mia madre mi esortava freneticamente a guardare il ritratto di Lahiri mahasaya che stava sulla parete sopra il mio capo. "Inchinati a lui mentalmente!". Sapeva che ero troppo debole persino per sollevare le mani in segno di saluto. "Se davvero gli dimostri la tua devozione, e interiormente ti inginocchi dinanzi a lui, la tua vita sarà salva". Fissai il quadro e vidi una luce accecante che avviluppò il mio corpo e tutta la stanza. La nausea e tutti gli altri incontrollabili sintomi scomparvero. Ero guarito. A un tratto mi sentii abbastanza forte per inchinarmi e toccare i piedi di mia madre in segno di rispetto, per l'incommensurabile fede che aveva nel suo Guru. Mia madre poggiò ripetutamente il capo sul quadretto: "Oh Onnipresente Maestro, ti ringrazio per aver guarito mio figlio con la tua luce!". Mi resi conto che anch'essa si era accorta del luminoso fulgore che istantaneamente mi aveva guarito da un male in genere fatale. Uno dei miei tesori più preziosi è appunto quel ritratto. Mio padre lo ricevette personalmente da Lahiri Mahasaya: esso serba una santa vibrazione. Il ritratto ebbe un'origine miracolosa; ne appresi la storia dal confratello di mio padre, Kali Kumar Roy. Sembra che il Maestro nutrisse una vera avversione ad essere fotografato. Nonostante le sue proteste, fu ripreso insieme a un gruppo di suoi fedeli, fra cui si trovava anche Kali Kumar Roy; il fotografo rimase stupefatto quando scoprì che mentre sulla lastra erano impresse con grande chiarezza le immagini di tutti i discepoli, al centro, dove avrebbe dovuto esserci la figura del Maestro, non si vedeva che uno spazio vuoto. Si discusse a lungo su tale fenomeno. Un discepolo esperto di fotografia, Ganga Dhar Banbu, si vantò che a lui l'inafferrabile figura non sarebbe sfuggita. La mattina seguente, mentre il Guru sedeva nella posizione del Loto su di una panchetta di legno con un paravento alle spalle, Ganga Dhar giunse con il suo apparecchio. Poiché aveva preso ogni precauzione, smanioso com'era di raggiungere il suo scopo, egli usò ben dodici lastre, ma ben presto riscontrò che su
ciascuna di esse erano rimasti impressi la panca di legno e il paravento soltanto: ancora una volta la figura del Maestro mancava. Umiliato, Ganga Dhar Babu si recò piangendo dal suo Guru. Molte ore passarono prima che Lahiri Mahasaya rompesse il silenzio con un incisivo commento: "Io sono Spirito. Può il tuo apparecchio fotografico ritrarre l'Onnipresente Invisibile?". "Vedo che non lo può. Ma, Santo Signore, desidero ardentemente un ritratto del vostro tempio corporeo, poichè alla mia limitata visione sembra che in esso soltanto lo Spirito alberghi interamente". "Vieni domattina, allora, e poserò per te". Di nuovo il fotografo mise a fuoco l'apparecchio. Questa volta la sacra figura non più rivestita di misteriosa impalpabilità, risultò nitida sulla lastra. Il Maestro non posò mai più per nessun'altra fotografia; poi perlomeno, io non ne ho visto mai (Nota : Questa è veramente l'univa fotografia che fu mai fatta al Guru; così disse a Daya Mata nel 1959, un nipote di Lahiri Mahasaya. Questo nipote, Abhoy Charan Lahiri, aggiunse che suo padre Tincouri, che allora era soltanto un ragazzo, fu presente quando venne scattata quell'unica immagine. Sri Daya Mata, presidente dell'SRF-YSS, fece nel 1959 un pellegrinaggio alla casa di Lahiri Mahasaya a Benares. In una stanzetta di quella casa, che ora è considerata un luogo sacro, ella vide il palco rialzato di legno ove il grande maestro usava sedere, i suoi sandali, un panno di cui vestiva, la sua copia della Bahagavad Gita scritta a mano in sanscrito, e un recipiente contenente una parte delle sue sacre ceneri. Satya Charan Lahiri, un altro nipote eresse a Benares un Guru Mandir (tempio) in cui fece porre una bellissima statua in marmo di Lahiri Mahasaya (Nota dell'Editore) FINE NOTA. La fotografia è riprodotta in questo libro (Nota : Capitolo XXXVI, La fotografia è la stessa, fuorché per la veste che un artista bengali vi ha aggiunto per ricoprire la parte superiore del corpo di Lahiri Mahasaya. Copie di questa foto, con o senza veste, si possono ottenere dalla SRF, Los Angeles. FINE NOTA I chiari lineamenti di Lahiri Mahasaya, di tipo universale, non rilevano affatto a quale razza egli appartenesse. L'intensa gioia della comunione con Dio è appena rivelata da un sorriso un po' enigmatico. I suoi occhi semiaperti per indicare un orientamento del tutto nominale verso il mondo esteriore, sono anche semi-chiusi, rivelandolo assorto nella beatitudine interiore.
Dimentico dei miseri allettamenti della terra, egli era sempre completamente desto, pronto ad ogni istante a risolvere i problemi spirituali di coloro che lo avvicinavano per la sua generosità d'animo. Poco dopo la mia guarigione avvenuta grazie al potere del ritratto del Guru, ebbi un'imponente visione spirituale. Una mattina, mentre stavo seduto sul mio letto, caddi in una profonda fantasticheria: - che cosa vi è mai dietro l'oscurità degli occhi chiusi? Questo interrogativo penetrò con forza nella mia mente. Un immenso bagliore si manifestò in quell'istante alla mia vista interiore; divine figure di santi, seduti in meditazione dentro caverne montane, apparvero come immagini cinematografiche in miniatura sul vasto schermo di luce dietro la mia fronte. - Chi siete? - chiesi ad alta voce. - Siamo gli Yoghi dell'Himalaya. - E' difficile dare un'idea di quella celestiale risposta. Il mio cuore vibrava intensamente. - Oh, io desidero andare sull'Himalaya e diventare come voi! La visione svanì, ma i raggi argentei si diffusero in cerchi sempre più ampi, all'infinito. - Che cosa è dunque, questa mirabile luminosità? - Io sono Iswara (Nota 1:Un nome sanscrito per Dio quale Capo Regnante dell'Universo, dalla radice is = governare. Vi sono nelle Scritture Indù ben mille nomi per Dio nel Suo aspetto trino di Brahma-Vishnu-Shiva (Creatore-Preservatore-Distruttore). Ognuno di essi corrisponde a una diversa sfumatura di significato filosofico. Il Signore Iswara è Colui che crea e dissolve, in cicli ordinati, tutti gli universi. Sono la Luce. - La Voce era simile a un mormorio nelle nubi. - Voglio essere una cosa sola con te! Dal lento dileguare della mia estasi divina salvai una permanente aspirazione alla ricerca di Dio. Egli è eterna, sempre rinnovata felicità! Questo ricordo persisté a lungo dopo il giorno di quel rapimento. Un altro ricordo dei primi anni è rimasto inciso in me; letteralmente inciso, poiché ancor oggi ne porto la cicatrice. Mia sorella maggiore Uma e io sedevamo di primo mattino sotto un albero di neem nel recinto della nostra casa di Gorakhpur. Nei momenti in cui mi riusciva di togliere lo sguardo dai vicini pappagalletti che mangiavano i frutti maturi di margosa, Uma cercava di spiegarmi il sillabario bengali e si lamentava ogni tanto per un foruncolo alla gamba. A un certo punto andò a prendere un vasetto d'unguento. Mi spalmai un po' di quel balsamo sull'avambraccio. "Perché metti una medicina su un braccio sano?"
"Beh, sorellina, sento che domani avrò un foruncolo. Provo il tuo unguento al posto dove apparirà". "Ah, piccolo bugiardo!" "Sorellina, non chiamarmi bugiardo fino a quando non vedrai quello che accadrà domani mattina". Ero colmo d'indignazione. Uma non si impressionò affatto, e per tre volte tornò a canzonarmi. Una risoluzione incrollabile vibrava nella mia voce mentre le rispondevo lentamente: "Per il potere della volontà che è in me, dico che domani avrò un grosso foruncolo in questo punto preciso del braccio e che il tuo foruncolo sarà due volte più grosso di quello che è!". La mattina seguente avevo un bel foruncolo al posto indicato, e le dimensioni di quello di mia sorella erano raddoppiate. Con un grido ella corse da mia madre: "Mukunda è diventato uno stregone!". Mia madre mi redarguì gravemente, raccomandandomi di non usare mai il potere delle parole per fare del male. Ho sempre ricordato e seguito il suo consiglio. Il mio foruncolo fu curato chirurgicamente. Una grossa cicatrice dovuta all'incisione subita è visibile ancora oggi; sull'avambraccio destro porto un costante ricordo del potere che ha la parola dell'uomo. Le semplici frasi dette a Uma, in apparenza innocue ma pronunciate con profonda concentrazione, avevano avuta una forza intima tale da esplodere come bombe e produrre effetti precisi, benché deleteri. In seguito compresi che l'esplosivo potere vibratorio delle parole poteva essere saggiamente usato per liberare la nostra vita dalle difficoltà, operando così senza produrre cicatrici nè meritare rimproveri. (Nota : L'infinita potenzialità del suono deriva dal verbo Creativo Aum (Om, Amen), il cosmico potere vibratorio che sta dietro tutte le energie atomiche. Qualsiasi parola pronunciata con chiara consapevolezza e profonda concentrazione ha un valore materializzante. Ripetizioni di parole fatte ad alta voce o in silenzio sono state trovate efficaci nel metodo Coué e in sistemi simili di psicoterapia. Il segreto risiede nell'elevazione del ritmo vibratorio della mente.FINE NOTA La nostra famiglia si trasferì a Lahore nel Punjab. Là acquistai un quadretto della Madre divina sotto l'aspetto della Dea Kali, immagine che santificò un piccolo, semplice tabernacolo posto sul balcone della nostra casa. Avevo l'inequivocabile convinzione che tutte le preghiere dette in quel sacro luogo sarebbero state esaudite. Un giorno mi trovavo là con Uma e vidi due ragazzi che facevano volare i loro aquiloni sopra i tetti dei
fabbricati, dall'altro lato della strettissima strada. (Nota : Kalì è un simbolo di Dio nell'aspetto della eterna madre natura fine nota). "Perché sei così silenzioso?", mi chiese Uma dandomi uno scherzoso spintone. "Penso com'è meraviglioso che la madre divina mi conceda sempre tutto quello che le chiedo". "Suppongo che ti darebbe anche quegli aquiloni, è vero?" mi derise mia sorella. "E perché no?" Cominciai a dire fra me preghiere per ottenerli. In India si giocano partite con aquiloni che hanno le corde ricoperte di colla e di polvere di vetro per renderle più resistenti. Ogni giocatore tenta di strappare la corda del suo competitore; gli aquiloni liberati si librano sui tetti: afferrarli è un gran divertimento. Dato che Uma ed io ci trovavamo su un balcone coperto e rientrante, sembrava impossibile che essi potessero giungere fino a noi; le corde sarebbero dovute penzolare sopra al tetto, com'era naturale. I giocatori nella strada iniziarono la partita. Una corda si ruppe, e subito l'aquilone volò verso di me; indugiò un istante per un immediato arresto del vento, che bastò per farne impigliare saldamente la corda a una pianta di cactus posta in cima alla casa dirimpetto. Si formò un cappio al punto esatto perché io potessi riuscire ad afferrarlo. Offrii la preda a Uma. "E' stato un caso straordinario, ma non la risposta alla tua preghiera. Lo crederò solo se anche l'altro aquilone verrà a te". I neri occhi di mia sorella esprimevano uno stupore maggiore delle sue parole. Continuai a pregare con crescente intensità. Un movimento falso dell'altro giocatore provocò la rapida perdita del suo aquilone, che si diresse verso di me danzando nel vento. Il mio soccorrevole aiutante, la pianta di cactus, di nuovo annodò la corda penzolante formando il cappio necessario perché io potessi prenderlo. Presentai ad Uma il mio secondo trofeo. "Davvero la Madre Divina ti ascolta! Tutto questo è troppo incomprensibile per me!!", e mia sorella scappò via come un cerbiatto impaurito.
CAPITOLO II LA MORTE DI MIA MADRE E IL MISTICO AMULETO Il più grande desiderio di mia madre era che il mio fratello maggiore si sposasse. "Ah! quando vedrò il viso della moglie di Ananta troverò il cielo su questa terra!". Spesso sentivo mia madre esprimere con tali parole il suo profondo sentimento indiano per la continuità della famiglia. Avevo circa undici anni quando Ananta si fidanzò. Mia madre era a Calcutta e dirigeva gioiosamente i preparativi per le nozze. Mio padre ed io restammo soli nella nostra casa di Bareilly, nell'India settentrionale, dove egli era stato trasferito dopo due anni trascorsi a Lahore. Già prima avevo visto lo splendore dei riti nuziali in occasione delle nozze delle mie due sorelle maggiori, Roma e Uma; ma per Ananta, quale figlio maggiore, furono predisposti piani veramente elaboratissimi: mia madre accoglieva molti parenti che ogni giorno giungevano a Calcutta dalle loro case lontane. Li ospitava con ogni comodità in una grande casa di recente acquisto in Amherst Strett 50. Tutto era pronto: le leccornie del banchetto, il variopinto trono sul quale mio fratello doveva essere trasportato alla dimora della futura sposa, le lunghe file di lampade colorate, gli enormi elefanti e cammelli di cartapesta, le orchestre inglesi, scozzesi e indiane, gli artisti che esercitavano la professione di rallegrare le feste, i sacerdoti che dovevano celebrare le antiche cerimonie del rituale. Mio padre ed io, di umore festoso, progettavamo di unirci alla famiglia in tempo per la cerimonia. Poco prima del gran giorno, però, ebbi una visione nefasta. Eravamo a Bareilly. Era la mezzanotte. Dormivo accanto a mio padre sulla terrazza del nostro bungalow, quando fui risvegliato da uno strano ondeggiare della zanzariera sul letto. Le lievi cortine si spalancarono e scorsi l'amata figura di mia madre. - Sveglia tuo padre! - La sua voce era appena un soffio. Prendete il primo treno possibile, alle quattro del mattino. Correte a Calcutta, se volete vedermi. E la figura si dileguò come un fantasma.
"Padre, padre, la mamma muore!". Il terrore che era nella mia voce lo fece svegliare immediatamente. Singhiozzando, gli diedi la ferale notizia. "Non preoccupiamoci delle tue allucinazioni". Mio padre ebbe la reazione che gli era solita di fronte a tutte le situazioni nuove. "Tua madre sta benissimo. Se riceveremo cattive notizie, partiremo domani". "Non ti perdonerai mai di non essere partito all'istante". L'angoscia mi fece aggiungere con amarezza: "E nemmeno io potrò mai perdonartelo!". La malinconica mattinata ci portò queste esplicite parole: "Mamma gravemente ammalata. Matrimonio rimandato. Venite subito". Mio padre ed io partimmo precipitosamente. A un bivio, uno dei miei zii venne a incontrarci. Un treno avanzava rombando verso di noi e sembrava divenire sempre più grande. Dal mio tumulto interiore sorse una repentina decisione: lanciarmi sulle rotaie. Già privato, lo sentivo, di mia madre, non potevo più sopportare un mondo improvvisamente vuoto. Amavo mia madre come il più caro bene sulla terra. I suoi calmi e sereni occhi neri erano stati il mio più sicuro rifugio nelle futili tragedie dell'infanzia. "Vive ancora?". Mi arrestai per fare quest'ultima domanda allo zio. "Certo che vive!". Egli aveva subito compreso la disperazione dipinta sul mio volto, ma io gli credetti a stento. Giungemmo nella nostra casa di Calcutta solo per trovarci, storditi, dinanzi all'agghiacciante mistero della morte. Caddi in uno stato di prostrazione quasi mortale. Dovettero passare anni prima che la pace potesse tornare nel mio cuore. Dopo aver compiuto dei veri assalti alle porte del cielo, alla fine i miei pianti commossero la Madre Divina. Le sue parole sanarono definitivamente le mie sanguinanti ferite: - Sono Io che vigilai su di te, vita dopo vita, nella tenerezza di molte madri. Scorgi nel Mio sguardo i due occhi neri, i dolcissimi occhi perduti che cerchi! Tornai con mio padre a Bareilly subito dopo i riti della cremazione dell'amatissima scomparsa. Ogni giorno, nelle prime ore del mattino, facevo un patetico pellegrinaggio a un grande albero di sheoli che dava ombra al morbido prato verde e dorato dinanzi al nostro bungalow. In certi momenti pieni di poesia pensavo che i bianchi fiori dello sheoli si sparpagliassero con devozione cosciente sopra l'altare erboso. Mescolando le lacrime alla rugiada, spesso osservavo una strana luce, appartenente a un mondo diverso, emergere
dall'aurora. Mi assaliva allora un doloroso e intenso desiderio di Dio. L'Himalaya mi attraeva profondamente. Uno dei miei cugini, di ritorno da un viaggio ai monti sacri, venne a farci visita a Bareilly. Ascoltai avidamente i suoi racconti delle altitudini montuose dove vivono yoghi e swami (Nota : Il significato della parola sanscrita swami è Signore, maestro, quegli ch'è tutt'uno col Sé (swa). FINE NOTA "Scappiamo sull'Himalaya!". Questa mia proposta fatta un giorno a Dwarka Prasad, il giovane figlio del nostro padrone di casa a Bareilly, non fu bene accolta. Egli rivelò il progetto al mio fratello maggiore che era appena giunto per vedere nostro padre. Invece di ridere semplicemente di questa poco pratica idea di un ragazzino, Ananta si divertì a mettermi in ridicolo: "Dov'è la tua veste arancione? Non puoi essere uno Swami senza la veste!". Ma le sue parole mi eccitavano misteriosamente e mi davano la chiara visione di me stesso in giro per l'India vestito da monaco. Forse risvegliavano in me memorie di una vita passata. Comunque cominciai a rendermi conto di quanto mi sarei sentito a mio agio se avessi potuto indossare la veste di quell'antichissimo ordine monastico. Una mattina, chiacchierando con Dwarka, sentii l'amore di Dio irrompere in me con l'impeto di una valanga. Il mio compagno non prestava molta attenzione alla mia eloquenza scaturita da questa folgorazione, ma io ascoltavo me stesso con tutto il cuore. Quello stesso pomeriggio scappai verso Naimi Tal, nei contrafforti dell'Himalaya. Ananta m'inseguì e fui obbligato a ritornare tristemente a Bareily. L'unico pellegrinaggio concessomi era quello che facevo all'albero di sheoli. Il mio cuore piangeva la perdita delle mie due madri: quella terrena e la mia Madre Divina. La lacerazione lasciata nel tessuto familiare dalla morte di mia madre era irreparabile. Nei suoi rimanenti quarant'anni di vita, mio padre non si risposò mai. Assumendo per il suo piccolo gregge la difficile parte di padre e di madre, divenne più tenero, più accostabile. Con calma e perspicacia risolveva i vari problemi familiari. Dopo le ore d'ufficio si ritirava come un eremita nella cella della sua stanza, praticando il Kriya Yoga in dolce serenità. Molto tempo dopo la morte di mia madre feci il tentativo di assumere una governante inglese perché si occupasse delle piccole cose che avrebbero reso più comoda la vita di mio padre. Ma egli scosse il capo:
"Le cure per me sono finite con tua madre". Mentre diceva questo, i suoi occhi erano lontanissimi e pieni di un affetto lungo quanto la vita. "Non accetterò i servigi di nessun'altra donna". Dopo quattordici mesi dalla morte di mia madre appresi che ella mi aveva lasciato un messaggio molto importante. Ananta, che era accanto al suo letto di morte, ne aveva scritto le ultime parole. Sebbene ella avesse detto di riferirmele dopo un anno, mio fratello tardò a comunicarmele. Stava per lasciare Bareilly e recarsi a Calcutta per sposare la ragazza che mia madre aveva scelto per lui quando, una sera, mi chiamò accanto a sè. (Nota : L'abitudine che i genitori scelgano i mariti e le mogli per i loro figli ha resistito agli assalti del tempo. In India la percentuale dei matrimoni felici è alta. Fine nota). "Ero restìo a darti certe strane notizie, Mukunda". La voce di Ananta aveva un tono di rassegnazione. "Temevo di alimentare il tuo desiderio di abbandonare la casa. Ma vedo che comunque tu sei infiammato di divino ardore. Quando ti fermai recentemente sulla strada dell'Himalaya, giunsi a una risoluzione decisiva. Non dovevo più posporre lo scioglimento della mia solenne promessa". Così dicendo mi dette una piccola scatola e quindi mi riferì il messaggio di mia madre: "Che queste parole siano la mia ultima benedizione, mio amato figlio Mukunda! E' giunta l'ora di rivelarti una serie di straordinari eventi che seguirono la tua nascita. Quando eri appena un bambinetto fra le mie braccia, io già sapevo quale via ti era destinata. Ti condussi alla casa del mio Guru a Benares. Quasi completamente nascosta dietro la folla dei discepoli, potevo appena intravedere Lahiri Mahasaya, seduto in profonda meditazione. Mentre ti accarezzavo, pregavo che il grande Guru potesse scorgerci e benedirci. Quando la mia devota e silenziosa richiesta aumentò d'intensità, egli aprì gli occhi e mi fece cenno di avvicinarmi. Gli altri mi fecero ala. M'inchinai ai sacri piedi. Il Maestro ti prese in grembo e posò la mano sulla tua fonte battezzandoti spiritualmente. - Piccola madre, tuo figlio sarà uno yoghi. Quale potente motore spirituale, egli porterà molte anime al regno di Dio. "Il mio cuore balzava di gioia nell'udire la mia segreta preghiera convalidata dal Guru onnisciente. Poco prima della tua nascita già mi aveva detto che avresti seguito il suo sentiero. "Più tardi, figlio mio, io e tua sorella Roma sapemmo della tua visione della Grande Luce, poiché dalla stanza accanto ti osservavamo, immobile
sul letto. Il tuo visino era illuminato, la tua voce vibrava di ferrea sicurezza quando dicesti di voler andare sull'Himalaya alla ricerca del Divino. Così, figlio mio, ho saputo che la tua strada ti condurrà lontano dalle ambizioni del mondo. L'avvenimento più singolare della mia vita me ne ha dato un'ulteriore conferma; un avvenimento che mi impone di inviarti ora questo messaggio dal mio letto di morte. "Fu un colloquio che ebbi con un saggio nel Punjab. Quando la nostra famiglia risiedeva a Lahore, una mattina il domestico entrò precipitosamente nella mia stanza. - Signora, è giunto uno strano sadhu ; insiste per vedere la 'madre di Mukunda'.(nota sadhu = Un anacoreta; qualcuno che segue un sadhana o sentiero di disciplina spirituale. I sadhu vaganti esistono in India da tempi immemorabili. Essi non costituiscono un ordine monastico formale come quello degli Swami, ma obbediscono a certi capi venerati in tutta l'India. fine nota) "Queste semplici parole fecero vibrare in me un'eco profonda, e mi recai immediatamente a salutare il visitatore. Inchinandomi ai suoi piedi, sentii di trovarmi dinanzi a un vero uomo di Dio. - Madre, - egli disse, - i grandi Maestri vogliono che tu sappia che la tua permanenza su questa terra non sarà lunga. La tua prossima malattia è destinata a essere l'ultima (Nota : Quando scoprii da queste parole che mia madre aveva la segreta consapevolezza di una vita breve, capii per la prima volta il perché avesse tanto insistito per affrettare i progetti di matrimonio di Ananta. Sebbene sia morta prima delle nozze, il suo naturale desiderio materno era stato quello di poter assistere ai riti. fine nota) - Vi fu un silenzio durante il quale non mi sentii allarmata, ma provai solo una grande vibrazione di pace. Quindi egli si rivolse ancora a me: - Dovrai essere la custode di un certo amuleto d'argento. Non te lo darò oggi. Per dimostrarti la verità delle mie parole, il talismano si materializzerà nelle tue stesse mani, domani, mentre mediterai. Sul letto di morte dovrai incaricare il tuo primo figlio Ananta di serbare l'amuleto per un anno e poi darlo al tuo secondo figlio. Mukunda comprenderà il significato del talismano dei grandi Saggi. Dovrà riceverlo all'epoca in cui sarà pronto a rinunziare a tutte le speranze del mondo e ad iniziare la vitale ricerca di Dio. Quando avrà custodito per alcuni anni l'amuleto e quando esso sarà servito ai suoi scopi, scomparirà. Anche se serbato nel luogo più segreto, ritornerà donde venne. "Offrii delle elemosine al Santo e mi inchinai dinanzi a lui con grande reverenza. Senza prendere l'offerta, egli se ne andò benedicendomi. (Nota : Un abituale gesto di rispetto verso i sadhu. fine nota) La sera seguente,
mentre sedevo con le mani giunte in meditazione, un amuleto d'argento si materializzò tra le mie palme, proprio come aveva promesso il sadhu. Manifestò la sua presenza con un tocco liscio e freddo. Per più di due anni l'ho gelosamente conservato e ora lo affido ad Ananta. Non dolerti per me, poiché sarò condotta dal mio grande Guru nelle braccia dell'Infinito. Addio, figlio mio, la Madre Cosmica ti proteggerà". Un lampo di illuminazione interiore m'invase mentre entravo in possesso dell'amuleto .Si risvegliarono in me molti ricordi sopiti. Il talismano, rotondo e di strana e antica foggia, era ricoperto di caratteri sanscriti. Compresi che esso veniva da Maestri di vite passate che, invisibili, guidavano i miei passi. Vi era in esso, invero, anche un altro significato: ma non si può rivelare interamente il cuore di un amuleto. Come l'amuleto scomparve alla fine, in dolorosissime circostanze della mia vita, e come la sua perdita preannunciò il ritrovamento del mio Guru, non può essere detto in questo capitolo. Ma il ragazzino contrariato nei suoi tentativi di raggiungere l'Himalaya, ogni giorno viaggiava lontano sulle ali di questo suo amuleto. (Nota: L'amuleto era un oggetto prodotto astralmente. Di struttura evanescente tali oggetti devono alla fine scomparire da questa terra (Vedi Capitolo XLIII). Un mantra (parola sacra da ripetere come un cantico) era inciso nel talismano. I poteri del suono e di vach, la voce umana, non furono studiati in nessun altro luogo così profondamente come in India. La vibrazione OM che compenetra tutto l'universo, la Parola o Verbo, o la voce di molte acque di cui parla la Bibbia, ha tre manifestazioni o guna: la creazione, la conservazione e la distruzione (Taittiriya Upanishad, 1, 8). Ogni volta che un essere umano pronuncia una parola, pone in azione una delle tre qualità dell'OM. Questa è la legge e la ragione per cui tutte le Scritture ingiungono di dire sempre la verità. Il mantra sanscrito sull'amuleto possedeva, se pronunciato correttamente, una potenza vibratoria spiritualmente benefica. L'alfabeto sanscrito, costruito in maniera ideale, consiste di cinquanta lettere, ognuna delle quali ha una pronuncia fissa e invariabile. G.B. Shaw scrisse un saggio intelligente e, naturalmente, spiritoso sull'inadeguatezza fonetica dell'alfabeto inglese basato su quello latino in cui ventisei lettere lottano senza successo per sopportare il peso del suono. Con la sua abituale rudezza ("Se l'introduzione di un alfabeto inglese per la lingua inglese costerà il prezzo di una guerra civile... non me ne lamenterò), Shaw promuove con urgenza l'adozione di un nuovo alfabeto con quarantadue caratteri (v. la sua prefazione a The Miraculous Birth of Language, Philos. Library, New York). Tale alfabeto si avvicinerebbe alla perfezione fonetica
di quello sanscrito, nel quale l'uso di cinquanta lettere evita ogni pronuncia errata. La scoperta di sigilli nella valle dell'Indo induce un certo numero di studiosi ad abbandonare la teoria corrente che l'India abbia preso a prestito il suo alfabeto sanscrito da fonti semitiche. Alcune grandi città indiane furono tratte alla luce recentemente mediante scavi a Mohenjo-Daro e Harappa, dando la prova di un'eminente civiltà che "deve avere avuto un'antichissima storia sul suolo dell'India la quale ci riporta indietro a un'età che può essere solo oscuramente indovinata". (Sr John Marshall, MohenjoDaro and the Indus Civilization, 1931). Se la teoria indù di un'antichità estremamente remota dell'uomo civile su questo pianeta è giusta, diviene spiegabile perché la lingua più antica del mondo che è il sanscrito, sia anche la più perfetta. Sanskrita: levigato, completo. La lingua sanscrita è la sorella maggiore di tutte le lingue indoeuropee. Il suo alfabeto è chiamato Devanagari: divina dimora. "Colui che conosce la mia grammatica conosce Dio!" Panini, il grande filologo dell'India antica, rese questo tributo alla perfezione matematica e psicologica del sanscrito. Colui che seguisse le tracce dell'idioma fin nei suoi più remoti recessi diverrebbe, invero, onnisciente. Il linguaggio sanscrito, dice Sir William Jones fondatore della Società Asiatica, per quanto antico sia, ha una meravigliosa struttura; è più perfetto del greco, più ricco del latino e più squisitamente raffinato di entrambi". "Dalla rinascita della cultura classica" dice l'Enciclopedia Americana, "non vi fu nella storia della civiltà evento più importante della scoperta del sanscrito (da parte di studiosi occidentali) nell'ultima parte del XVIII secolo. La scienza linguistica, la grammatica comparata, la mitologia comparata, la scienza delle religioni... tutte devono la loro stessa esistenza alla scoperta del sanscrito, o vennero profondamente influenzate dallo studio di esso". FINE NOTA)
CAPITOLO III IL SANTO DAI DUE CORPI "Padre, se prometto di tornare spontaneamente a casa, posso fare un viaggio a Benares?" Mio padre ostacolava di rado la mia passione per i viaggi. Fin da giovanissimo mi permise di visitare molte città e luoghi di pellegrinaggio. In genere mi accompagnavano uno o più amici; viaggiavamo comodamente in prima classe con biglietti datici da mio padre. La sua posizione di funzionario delle Ferrovie faceva molto comodo ai membri nomadi della famiglia. Mio padre promise di pensarci. Il giorno dopo mi chiamò e mi diede un biglietto di andata e ritorno da Bareilly a Benares, un gruzzolo di rupie e due lettere. "Ho un affare da proporre a un amico di Benares, Kedar Nath Babu. Purtroppo ho perduto il suo indirizzo, ma credo che riuscirai a consegnargli questa lettera per mezzo del nostro comune amico, Swami Pranabananda. Lo Swami, mio confratello è un uomo di grande elevazione spirituale. Trarrai beneficio dalla sua compagnia. Questa seconda lettera ti servirà di presentazione". Gli occhi di mio padre brillarono maliziosamente mentre aggiunse: "Ricorda, però, non più scappate da casa!". Partii con l'entusiasmo dei miei dodici anni (sebbene il tempo non abbia diminuito la gioia che provo nel vedere nuove scene e volti nuovi). Giunto a Benares, mi recai subito alla casa dello Swami. La porta centrale era aperta; m'inoltrai sino a una lunga stanza, una specie di sala d'ingresso al secondo piano. Un uomo piuttosto tarchiato che indossava solo una fascia ai fianchi, sedeva nella posizione del Loto su di una piattaforma lievemente rialzata. Il suo capo e il suo viso senza rughe erano rasati, e un sorriso beato errava sulle sue labbra. Per dissipare in me la sensazione di essere un intruso, egli mi salutò come un vecchio amico. "Baba anand!" (La felicità sia col mio caro). Il saluto mi fu rivolto con calore, e con voce infantile. Mi inginocchiai e toccai i suoi piedi.
"Siete voi Swami Pranabananda?". Annuì. "Sei il figlio di Bhagabati?". Le parole furono pronunciate prima che avessi avuto il tempo di trarre dalla tasca la lettera di mio padre. Stupefatto gli consegnai il biglietto di presentazione che sembrava ormai superfluo. "Certamente troverò per te Kedar Nath Babu". Il Santo mi stupì di nuovo per la sua chiaroveggenza. Dette uno sguardo alla lettera e fece alcuni affettuosi apprezzamenti su mio padre. "Sai che usufruisco di due pensioni? Una mi fu concessa per intercessione di tuo padre, con il quale lavorai un tempo nelle Ferrovie. L'altra l'ho per la raccomandazione del mio Padre Celeste, per il quale ho coscienziosamente portato a termine tutti i miei doveri terreni". Trovai la sua frase molto oscura. "Che genere di pensione ricevete, signore, dal padre Celeste? Vi fa cadere in grembo dei denari?" Rise. "Volevo intendere una pensione d'inesauribile pace, una ricompensa per molti anni di profonda meditazione. Non desidero denaro ormai. Ho molto più di quel che serve alle mie poche necessità materiali. Più tardi capirai il significato di questa seconda pensione". Mettendo bruscamente fine alla conversazione, il Santo si fece immobile e grave. Un'aria da sfinge lo avviluppò. A tutta prima i suoi occhi brillarono come se osservassero qualcosa di interessante poi divennero opachi. Mi sentii confuso dalla sua parsimonia di parole; ancora non mi aveva detto come avrei potuto incontrare l'amico di mio padre. Un po' irrequieto, volsi lo sguardo in giro per la nuda stanza nella quale non eravamo che noi. I miei occhi erranti si arrestarono sui suoi sandali di legno, poggiati sotto la piattaforma dove egli sedeva. "Piccolo signore non preoccuparti. La persona che desideri incontrare sarà con te fra mezz'ora" (Nota- Choto Mahasaya è l'espressione con cui molti Santi indiani mi si rivolgevano e si traduce: "piccolo signore". Fine nota). Lo Yoghi leggeva il mio pensiero, impresa non molto difficile in quel momento. S'immerse di nuovo in un imperscrutabile silenzio. L'orologio mi disse che erano trascorsi trenta minuti. Lo Swami si scosse: "Credo che Kedar Nath Babu si avvicini alla porta". Udii qualcuno che saliva le scale. Di colpo non compresi più nulla, i miei pensieri confusi si rincorrevano. Come è mai possibile che l'amico di mio
padre sia stato chiamato qui senza l'aiuto di un messaggio? Dal momento del mio arrivo lo Swami non ha parlato ad altri che a me! Lasciai senza cerimonie la stanza e discesi le scale; a metà strada , m'imbattei in un uomo magro e dalla pelle chiara, di media statura, che sembrava aver fretta. "Siete Kedar Nath Babu?". La mia voce vibrava di eccitazione. "Si, non sei il figlio di Bhagabati che mi aspettava qui?" Sorrise con fare amichevole. "Signore, come mai siete qui?". Ero sconcertato e quasi risentito per la sua inesplicabile presenza. "Oggi tutto è misterioso! Meno di un'ora fa avevo appena finito di bagnarmi nel Gange quando Swami Pranabananda mi si avvicinò- Non so immaginare come mai sapesse di trovarmi lì a quell'ora. - Il figlio di Bhagabati ti aspetta da me, - mi disse; - vuoi venire? "Accettai con piacere. Mentre camminavamo tenendoci per mano, lo Swami con i suoi sandali di legno fu stranamente capace di camminare più in fretta di me, benché io portassi queste solide scarpe da passeggio. " - In quanto tempo potrai giungere alla mia casa? - Pranabananda si arrestò d'improvviso per pormi questa domanda. " - Fra mezz'ora circa. " - Ho qualche altra cosa da fare, ora. - E mi lanciò uno sguardo enigmatico. - Devo lasciarti indietro. Potrai raggiungermi a casa, dove il figlio di Bhagabati e io ti attenderemo. "Prima che potessi protestare, si allontanò rapidamente scomparendo nella folla. Venni qui camminando più in fretta possibile." Questa spiegazione non fece che aumentare il mio sbalordimento. Gli chiesi da quanto tempo conoscesse lo Swami. "C'incontrammo un paio di volte l'anno passato, ma di recente mai. Fui molto lieto di vederlo oggi al bagno pubblico". "Non posso credere ai miei orecchi! Sto perdendo la testa? L'avete incontrato in una visione o l'avete effettivamente veduto? Gli avete toccato la mano? Avete udito il suono dei suoi passi?". "Non so dove vuoi arrivare!". E arrossì di rabbia. "Non ti racconto bugie! Non capisci che solo dallo Swami ho potuto sapere che mi attendevi qui?". "Ma quell'uomo, Swami Pranabananda, non si è allontanato dal mio sguardo neanche per un attimo da quando son giunto qui, circa un'ora fa". E gli raccontai tutta la storia.
Gli occhi di lui si spalancarono. "Siamo realmente con i piedi in terra o stiamo sognando? Non avrei mai creduto di poter essere testimone di un simile miracolo in vita mia! Pensavo che questo Swami fosse solo un uomo comune, ma ora mi accorgo che può materializzare un altro corpo e agire con esso". Entrammo insieme nella stanza del Santo. "Ecco, sono proprio questi i sandali che portava al ghat", mi bisbigliò Kedar Nath Babu. "Indossava solo una fascia intorno alle anche, proprio come ora". Mentre il visitatore s'inchinava davanti a lui, il Santo si rivolse a me con un sorriso enigmatico. "Perché vi stupite di tutto ciò? La sottile unità del mondo fenomenico non è celata ai veri yoghi. Io istantaneamente vedo i miei discepoli e converso con loro nella lontana Calcutta. Anch'essi possono a volontà superare ogni ostacolo interposto dalla stessa materia". Forse per alimentare in me l'ardore spirituale, lo Swami accondiscese a raccontarmi dei suoi poteri radio-astrali e televisivi (Nota: Nel suo campo, la scienza fisica sta confermando la validità delle leggi scoperte dagli yoghi attraverso la scienza spirituale. Per esempio: una dimostrazione che l'uomo ha poteri televisivi fu data il 26 novembre 1934 nell'Università di Roma. "Il dottor Giuseppe Calligaris, professore di neuro-psicologia, compresse alcuni punti del corpo di un paziente e questi rispose con minute descrizioni di altre persone e oggetti che si trovavano dall'altro lato della parete. Il dottor Calligaris comunicò ad altri professori che, se alcune zone della pelle vengono stimolate, il soggetto percepisce impressioni ultrasensorie che gli permettono di vedere oggetti che diversamente non potrebbe vedere. Per mettere il soggetto in grado di discernere cose dall'altro lato della parete, il dottor Calligaris premette un punto sul lato destro del torace per 15 minuti. Il dottor Calligaris affermò anche che premendo altre zone del corpo, il soggetto può distinguere oggetti a qualsiasi distanza, li abbia o non li abbia mai veduti. Fine nota). Ma invece di suscitare in me entusiasmo, non m'ispirò che un senso di reverente timore. Poiché ero destinato a intraprendere la ricerca del Divino sotto la guida di un particolare Guru, Sri Yukteswar, con il quale non mi ero ancora incontrato, non mi sentivo disposto ad accettare Pranabananda quale mio Maestro. Lo guardavo dubbioso non sapendo più se fosse lui o l'altra sua persona che mi stava dinanzi.
Il Maestro cercò di dissipare questa mia inquietudine lasciando cadere su di me uno sguardo che risvegliava l'anima e pronunciando ispirate parole sul suo Guru: "Lahiri Mahasaya fu il più grande Yoghi ch'io abbia mai conosciuto. Era la divinità stessa in forma d'uomo". Riflettevo: se un semplice discepolo aveva il potere di materializzarsi a volontà in un secondo corpo fisico, quali miracoli non poteva fare il maestro? "Ti dirò quanto sia inestimabile l'aiuto di un Guru. Avevo l'abitudine di meditare con un altro discepolo per otto ore ogni notte. Durante il giorno dovevamo lavorare nell'ufficio delle Ferrovie. Mi riusciva penoso adempiere i miei doveri d'impiegato, desideravo poter dedicare tutto il mio tempo a Dio. Per otto anni perseverai, meditando durante metà della notte. Ottenevo risultati sorprendenti, straordinarie percezioni spirituali mi illuminavano la mente. Ma tra me e l'Infinito persisteva sempre un lievissimo velo. Malgrado l'intensità sovrumana dei miei sforzi trovavo che l'irrevocabile unione cui tendevo mi era negata. Una sera andai a trovare Lahiri Mahasaya e implorai la sua divina intercessione. Tutta la notte continuai a importunarlo. " - Angelico Guru, la mia angoscia spirituale è tale che non posso più sopportare la vita senza incontrare il Grande Amato faccia a faccia!". " - Che posso farci? Devi meditare più profondamente. " - Imploro Te, Dio mio Maestro! Ti vedo materializzato dinanzi a me in un corpo fisico. Benedicimi affinché io possa percepire Te nella Tua forma infinita! "Lahiri Mahasaya stese la mano in un gesto benigno: - Adesso puoi andare a meditare. Ho interceduto per te presso Brahma. (Nota: Dio nel suo aspetto di Creatore, la Causa Prima dell'Universo. Quando comparve il poema di Emerson Brahma nell'Atlantic Monthly del 1857, molti lettori ne furono meravigliati. Emerson ne rise: "Dite loro", disse, "di leggere Jehovah invece di Brahma e non avranno più nessuna perplessità". La radice sanscrita di brahma (o Brahman) è brih, "espandere", che rende il concetto vedico del potere divino di crescita spontanea, o dell'esplodere in attività creativa. Il cosmo, come una ragnatela, è detto evolversi (vikurute) fuori dal proprio essere. Principio immanente e trascendente ad un tempo, Brahma è chiamato nelle Upanishad il "filo" (sutra) o l'Essenza unificante che attraversa ogni forma di vita, e l'"Interiore Regnante Immortale" (antaryamritah). L'espressione di Brahma o spirito dell'individuo è chiamata atma: anima. La cosciente fusione di atma con Brahma si può dire sia tutto il contenuto dei Veda. Fine nota)
Immensamente sollevato, tornai a casa. Quella notte, nella meditazione, la mèta ardentemente sospirata della mia vita fu raggiunta. Ora godo incessantemente della pensione spirituale. Mai più da quel giorno in poi il Creatore della Gioia è rimasto celato ai miei occhi dietro la cortina dell'inganno". Il viso di Pranabananda era soffuso di luce divina. Una pace sovrumana mi penetrò nel cuore; i timori scomparvero. Il Santo mi fece ancora un'altra confidenza: "Qualche mese dopo tornai da Lahiri Mahasaya per tentare di ringraziarlo del dono infinito, e quindi parlai di un altro argomento: "- Divino Guru, non posso più lavorare in ufficio. Ti prego liberami. Brahma m'inebria incessantemente. " - Chiedi una pensione alla tua società. " - Che ragione posso addurre per chiedere di lasciare tanto presto il mio posto? " - Di' quello che senti. " Il giorno seguente compilai la domanda di congedo. Il medico s'informò delle ragioni della mia prematura richiesta: " - Mentre lavoro provo una sensazione travolgente che sale nella spina dorsale e mi pervade tutto il corpo, rendendomi inabile a compiere il mio dovere (Nota: Nella profonda meditazione la prima esperienza dello Spirito si fa sull'altare della spina dorsale e poi nel cervello. Il torrenziale rapimento è travolgente, ma lo yoghi impara a controllare le manifestazioni esteriori. Fine nota) "Senza chiedermi altro, il medico raccomandò con calore la pratica e mi ottenne la pensione, che ricevetti poco dopo. So che la divina volontà di Lahiri Mahasaya influì sul medico e sugli altri funzionari della società, compreso tuo padre. Automaticamente essi obbedirono alle direttive spirituali del grande Guru e mi lasciarono libero di dedicarmi a una vita d'ininterrotta comunione con l'Amato". Dopo questa straordinaria rivelazione Swami Pranabananda si chiuse in uno dei suoi lunghi silenzi. mentre nel prender congedo mi chinavo a toccare con reverenza i suoi piedi, egli mi benedisse. "La tua vita appartiene al sentiero della rinunzia e dello yoga. Ti rivedrò ancora in futuro, con tuo padre". Con gli anni, queste due predizioni si avverarono. Kedar Nath Babu camminava accanto a me nel buio che s'infittiva. Gli consegnai la lettera di mio padre, ch'egli lesse per la strada sotto un fanale. "Tuo padre mi propone di assumere un posto nell'ufficio di Calcutta della Compagnia Ferroviaria. Quanto sarebbe piacevole sapere che si riceverà
almeno una delle pensioni di cui gode Swami Pranabananda! Ma mi è impossibile. Non posso lasciare Benares, e ahimè, ancora non ho la possibilità di avere due corpi" (Nota: Il fenomeno dell'ubiquità è stato riscontrato nella vita di molti Santi d'ogni epoca. Un esempio contemporaneo nel mondo cristiano è quello di Teresa Neumann di Konnersreuth (vedi Cap. XXXIX), nella Storia di Therese Neymann, A.P. Schimberg descrive varie occasioni in cui Teresa apparì a persone distanti che necessitavano del suo aiuto, e conversò con loro. Un sacerdote della diocesi di Campinas nell'America del Sud raccontò che Teresa, la quale si trovava in Germania, apparì dinnanzi a lui in forma vivente e lo interrogò su un importante argomento spirituale. Descrivendo episodi delle vite di Pranabananda e di molti altri grandi Maestri che ho conosciuto, mi abbandono alla speranza di suscitare nell'anima del lettore la stessa riverente ammirazione per quegli uomini che io stesso ho lungamente conservata nel mio cuore. Gli argomenti profondi non sono facili da spiegare per mezzo della parola stampata; ma nessun cercatore di verità si lascerà facilmente scoraggiare. "Chi desidera l'oro deve andarlo a scavare", disse il filosofo greco Eraclito, "altrimenti deve accontentarsi della paglia". Una paziente ricerca della verità dà il suo frutto di chiaroveggenza interiore. "Va' dall'autore per conoscere il suo intendimento, non per trovarvi il tuo" osservò Ruskin in Sesamo e Gigli. "Se l'autore vale qualche cosa non giungerai al suo intero significato subito, ma solo dopo molto tempo".
Al tempo del nostro incontro Pranabananda era veramente un maestro illuminato ma gli avvenimenti della sua vita di lavoro, che egli mi descriveva, erano occorsi parecchi anni prima; allora Pranabananda non aveva raggiunto pienamente il nirbikalpa samadhi (Nel nirbikalpa samadhi lo yoghi dissolve le ultime vestigia del suo karma terrestre. Egli ha però ancora del karma astrale e causale da eliminare, per cui deve ancora rivestirsi di corpi astrali e poi causali in sfere vibratorie altissime.) In tale stato di coscienza perfetto e stabile uno yoghi non trova alcuna difficoltà nell'adempimento dei suoi doveri terreni. Dopo essere andato in pensione, Pranabananda scrisse la Pranab Gita, uno dei più profondi commenti della Bhagavad Gita che siano mai stati scritti. Esiste sia in bengali che in hindi. Fine nota).
CAPITOLO IV LA MIA FUGA VERSO L'HIMALAYA "Lascia la scuola con un pretesto qualunque e prendi una carrozza a nolo. Fermati nel vicolo dove nessuno di casa mia possa vederti". Queste furono le mie definitive istruzioni ad Amar Mitter, mio compagno di liceo, che progettava di accompagnarmi sull'Himalaya. Avevamo stabilito la partenza per il giorno seguente. Le precauzioni erano indispensabili perché Ananta vigilava. Era deciso a sgominare i piani di fuga ch'egli sospettava dominassero di continuo la mia mente. L'amuleto, come un lievito spirituale, lavorava silenziosamente entro di me. Fra le nevi dell'Himalaya speravo di trovare il Maestro il cui volto spesso mi appariva nelle mie visioni. La famiglia viveva ora a Calcutta, dove mio padre era stato trasferito definitivamente. Seguendo le tradizioni patriarcali indiane, Ananta aveva condotto la moglie a vivere nella nostra casa in Gurpar Road 4. Là, in una cameretta in soffitta, facevo quotidiane meditazioni e preparavo la mia mente alla ricerca divina. Quella mattina memorabile giunse con un'infausta pioggia. Quando udii il cigolio delle ruote della carrozza di Amar sulla strada, radunai in fretta in una coperta un paio di sandali, due fasce per i fianchi, un rosario per la preghiera, il ritratto di Lahiri Mahasaya e una copia della Bhagavad Gita. Gettai il pacco dalla mia finestra del terzo piano, corsi giù per le scale e oltrepassai mio zio che sulla porta comperava del pesce. "Che cos'è tutta questa eccitazione?". Il suo sguardo mi squadrò con diffidenza. Gli lanciai un sorriso non impegnativo e giunsi nel viale. Presi il mio fagotto e con prudenza da cospiratore raggiunsi Amar. Andammo in carrozza fino a Chandni Chauk, il rione dei negozi. Da mesi avevamo messo da parte i soldi della merenda per acquistare vestiti inglesi. Sapendo bene che il mio intelligente fratello avrebbe facilmente potuto improvvisarsi investigatore, pensavamo d'ingannarlo indossando vesti europee.
Sulla via della stazione ci fermammo per prendere con noi mio cugino Jotin Ghosh, che chiamavo Katinda. Era lui pure un nuovo adepto, che agognava a trovare un guru sull'Himalaya. Egli indossò il nuovo vestito che avevamo pronto per lui. Speravamo che fosse un buon travestimento!... Una profonda esaltazione era nei nostri cuori. "ora non ci occorrono che scarpe di pezza". Condussi i miei compagni in una bottega che aveva in vetrina scarpe suolate di gomma. "Per questo santo viaggio non dobbiamo servirci di articoli di pelle, che si ottengono solo con l'uccisione degli animali." Mi arrestai per la strada a strappare la copertina di pelle della Bhagavad Gita e le cinghiette di pelle del mio sola topee (casco) di fabbricazione inglese. Alla stazione comperammo i biglietti per Burdwan, da dove contavamo di andare a Hardwar nei contrafforti dell'Himalaya. (Nota: Per questo viaggio non avevamo certo biglietti provveduti da mio padre! Fine nota) Appena il treno si mise in moto, esternai alcune delle mie meravigliose previsioni. "Pensate!", esclamai, "Saremo iniziati dai maestri e proveremo l'estasi della coscienza cosmica. La nostra carne sarà tanto carica di magnetismo che le bestie feroci dell'Himalaya, domate, si avvicineranno a noi. Le tigri non saranno più che miti gattini casalinghi in attesa delle nostre carezze!". Questa osservazione che esprimeva previsioni estasianti sia dal lato metaforico che letterale, mi valse un entusiastico sorriso di Amar. Ma Jatinda guardò altrove, fissando attraverso il finestrino il fuggente paesaggio. "Dividiamo il denaro in tre parti", Jatinda ruppe così un lungo silenzio. "Ognuno di noi comprerà il proprio biglietto a Burdwan. In tal modo alla stazione nessuno potrà supporre che scappiamo insieme". Acconsentii senza sospetto. Al crepuscolo il treno si arrestò a Burdwan. Jatinda entrò nella biglietteria, Amar e io sedemmo sulla passerella. Gridammo ovunque il nome di Jatinda, con l'ansia della paura. Ma egli era sparito nell'oscuro ignoto che circondava la stazione. Ero completamente scoraggiato, scosso fino a uno strano stordimento. Come poteva Iddio tollerare questo deprimente episodio?! Questa mia prima, romantica fuga verso di Lui, preparata con tanta cura, era crudelmente fallita. "Amar, dobbiamo tornare a casa". Piangevo come un bambino. "L'antipatica azione di Jatinda è un cattivo presagio. Questo viaggio è destinato all'insuccesso!". "E' questo il tuo amore per il Signore? Non puoi sopportare la piccola prova di un compagno che ha tradito?".
Con questa citazione di un testo divino, fatta da Amar, il mio cuore si rinfrancò. Ci rifocillammo con i famosi dolci di Burdwan, sitabhog (alimento da dea) e motichur (pepite di perle dolci). Dopo poche ore partimmo per Hardwar (via Bareilly). Il giorno dopo, a Moghul Serai, cambiammo treno. Mentre eravamo in attesa sulla passerella, discutemmo su di un argomento vitale. "Amar, presto forse saremo sottoposti a uno stringente interrogatorio da parte dei funzionari del treno. non sottovaluto l'ingegnosità di mio fratello ! Avvenga quel che può, non dirò il falso!". "L'unica cosa che ti chiedo, Mukunda, è di tacere! Non ridere né ghignare mentre io parlo". In quel momento un agente della stazione un europeo, mi si avvicinò. Sventolava un telegramma di cui intuii subito il contenuto. "Scappate di casa perché siete in collera?". "No!". Fui lieto che la scelta delle sue parole mi permettesse di rispondere con enfasi. Non la collera, ma "la più divina delle brame" era la causa della mia condotta poco convenzionale. Il funzionario si rivolse quindi ad Amar. Lo spiritoso dialogo che ne seguì mi permise a stento di serbare la gravità stoica che mi era stata raccomandata. "Dov'é il terzo ragazzo?". L'uomo mise nella sua voce un tono di grande autorità. "Suvvia, dite la verità". "Signore, vedo che portate occhiali. Non vedete che non siamo che due?". Amar sorrideva impudente. "Non sono un mago, non posso creare un terzo compagno". Il funzionario, visibilmente sconcertato da questa impertinenza, cercò un nuovo piano d'attacco. "Mi chiamo Tommaso. Sono di madre inglese e di padre indiano, convertito al Cristianesimo". "E qual'è il nome del vostro compagno?" "Io lo chiamo Thompson". A questo punto la mia allegria interiore raggiunse il culmine. Senza cerimonie mi avviai al treno che provvidenzialmente già fischiava per la partenza. Amar veniva dietro col funzionario, il quale fu tanto credulo e cortese da farci salire in uno scompartimento europeo. Era evidente che gli dispiaceva che due ragazzi semi-inglesi viaggiassero nello scompartimento destinato agli indigeni. Dopo che si fu allontanato educatamente, mi buttai indietro sul sedile e scoppiai in una fragorosa risata. Il mio amico aveva un'aria di
allegra soddisfazione perché era riuscito a fuorviare un vecchio funzionario europeo. Sul marciapiede ero riuscito a leggere il telegramma. Era di mio fratello e così compilato: "Tre ragazzi bengali, vestiti da inglesi scappati da casa verso Hardwar, via Moghul-Serai. Prego trattenerli fino mio arrivo. Generosa ricompensa per vostri servizi". "Amar, ti avevo ben detto di non lasciare a casa orari ferroviari segnati". Il mio sguardo era pieno di rimprovero. "Mio fratello deve averne trovato uno". L'amico incassò il colpo senza fiatare. Facemmo una breve sosta a Bareilly dove Dwarka Prasad ci attendeva con un telegramma di Ananta. Il mio vecchio amico fece di tutto per trattenerci. Lo convinsi che la fuga non era stata intrapresa a cuor leggero. Come in una precedente occasione, Dwarka rifiutò il mio invito a seguirci sull'Himalaya. Quella notte, mentre il treno sostava in stazione ed ero semiaddormentato, Amar fu svegliato da un altro funzionario che lo interpellò. Anch'egli fu vittima degli ibridi fascini di 'Tommaso' e di 'Thompson'. Il treno ci portò trionfanti a Hardwar, dove giungemmo all'alba. In lontananza s'intravedevano le maestose, invitanti montagne. Rapidi, uscimmo dalla stazione e ci confondemmo tra la folla cittadina. Per prima cosa, indossammo di nuovo i costumi indigeni perché Ananta non so come, aveva sospettato il nostro travestimento europeo. Un presagio di cattura mi pesava sull'anima. Giudicando opportuno abbandonare subito Hardwar, acquistammo i biglietti per continuare il viaggio verso settentrione e giungere a Rishikesh, terra da lungo tempo consacrata dal passaggio di molti Maestri. Mi ero già accostato al treno, Amar stava bighellonando sul marciapiede, quando fu bruscamente fermato dal richiamo di un poliziotto. Il poco gradito guardiano ci scortò in un piccolo edificio nella stazione e prese in consegna il nostro denaro. Poi ci spiegò con garbo che era suo dovere trattenerci fino a quando non fosse giunto il mio fratello maggiore. Quando apprese che la mèta dei monelli era l'Himalaya, ci raccontò una strana storia. "Vedo che andate matti per i santi. Non incontrerete mai un uomo di Dio più grande di quello che vidi proprio ieri. Cinque giorni fa, un mio collega e io lo incontrammo per la prima volta.
Facevamo la ronda sulle rive del Gange, alla ricerca di un assassino. Avevamo l'ordine di catturarlo vivo o morto. Sapevamo che si era travestito da sadhu per poter depredare i pellegrini. Poco lungi da noi intravedemmo un uomo che rassomigliava alla descrizione data del criminale. Poiché non diede retta al nostro ordine di fermarsi, ci mettemmo a correre per catturarlo. Mi avvicinai a lui da tergo e vibrai la scure con forza straordinaria, tanto che il braccio destro dell'uomo fu quasi completamente staccato dal corpo. "Senza un lamento né uno sguardo all'orrida ferita, lo straniero, con nostra grande meraviglia, continuò la sua strada con rapido passo. quando con un alt ci ponemmo dinanzi a lui, egli disse con calma: " - Non sono l'assassino che cercate. "Rimasi profondamente mortificato per aver ferito un uomo che era evidentemente un santo. Prostrato ai suoi piedi implorai il suo perdono e offrii la tela del mio turbante per fermare i forti getti di sangue. " - Figlio, è uno sbaglio comprensibile da parte tua. - Il Santo mi guardò con benevolenza. Va' e non rimproverarti. L'Amata Madre si prende cura di me! Riaggiustò sul moncone il braccio penzolante che vi si riattaccò! e il sangue inesplicabilmente cessò di sgorgare. " - Vieni da me fra tre giorni sotto quell'albero, e mi troverai guarito. Così non avrai rimorsi!" "Ieri il mio collega ed io ci recammo ansiosamente sul posto indicatoci. Vi trovammo il sadhu, che ci permise di esaminare il suo braccio. Non vi era né cicatrice, né traccia di ferita! " - Ora vado, passando per Rishikesh, nelle solitudini dell'Himalaya - ci disse. "Ci benedisse e si allontanò rapidamente. Sento che tutta la mia vita si è elevata vedendo la santità di quel sadhu". Il funzionario concluse il suo dire con una pia giaculatoria. Quell'avvenimento senza dubbio lo aveva toccato nel profondo. Con un gesto significativo mi diede un foglietto sul quale era stampato il resoconto del miracolo. Nel solito stile usato dai giornali di tipo sensazionale (che, ahimé, non mancano neppure in India), la versione del giornalista era piuttosto esagerata: diceva che il Santo era stato quasi decapitato! Amar ed io rimpiangemmo di non aver visto il grande yoghi che sapeva perdonare i suoi persecutori in una maniera tanto cristiana. L'India, divenuta materialmente così povera in questi ultimi due secoli, ha però un fondo inesauribile di ricchezze divine; anche uomini semplici e appartenenti al
mondo come quel poliziotto vi possono incontrare "grattacieli" spirituali ai margini della strada. Ringraziammo il funzionario per averci alleviato il tedio dell'attesa col racconto della sua meravigliosa storia. Egli si riteneva certamente più fortunato di noi, poiché aveva incontrato senza fatica un Santo illuminato, mentre la nostra fervente ricerca era terminata non ai piedi di un Maestro, ma in un volgare ufficio di polizia. Tanto vicini all'Himalaya eppure tanto lontani, data la nostra cattura! Dissi ad Amar che mi sentivo più che mai spinto nell'intimo a cercare la libertà. "Sgattaioliamo via non appena se ne ripresenterà l'occasione. Possiamo andare a piedi alla santa Rishikesh". Sorrisi per incoraggiarlo. Ma il mio compagno era diventato pessimista dal momento che ci era stato tolto il nostro sostegno pratico, il gruzzoletto di denaro. "Se iniziassimo una marcia attraverso la giungla, invece di giungere alla città dei Santi finiremmo nello stomaco delle tigri"!. Ananta e il fratello di Amar giunsero dopo tre giorni. Amar salutò suo fratello con affetto e sollievo, io, invece, ero inconciliabile. Ananta non ricevette da me che un aspro rimprovero. "Comprendo ciò che provi", mi disse mio fratello, conciliante. "Ti chiedo solo di accompagnarmi a Benares per incontrarvi un certo saggio, e di venire a Calcutta per qualche giorno per visitare il tuo addolorato padre. Dopo, potrai tornare qui alla ricerca di un maestro". Amar a questo punto intervenne dichiarando di non aver più nessuna intenzione di ritornare con me a Hardwar. Si godeva il tepore della famiglia. Ma io sapevo che mai avrei abbandonato la ricerca del mio guru. Partimmo tutti per Benares. Là ricevetti un'immediata e singolare risposta alle mie preghiere. Ananta aveva fatto un piano molto intelligente. Prima di incontrarmi a Hardwar si era fermato a Benares per pregare un autorevole esperto delle Scritture di parlare, in seguito, con me. Questo pandit e suo figlio avevano promesso di dissuadermi dall'intraprendere il sentiero del sannyasi (nota: Letteralmente: rinunciante. Da radici del verbo sanscrito: gettar da parte. Fine nota). Ananta mi condusse in casa loro. Il figlio, un giovane di temperamento focoso, venne a salutarmi nel cortile e s'impegnò con me in un lungo ragionamento filosofico; dichiarando di avere una nozione chiaroveggente del mio futuro, cercò di dissuadermi dal farmi monaco. "Non avrai che guai e ti sarà impossibile trovare dio se insisti nel sottrarti alle responsabilità comuni! Non potrai liberarti del tuo karma passato, senza
esperienze terrene". (Nota Karma = Effetti di azioni del passato, compiute in questa o in una vita precedente. Dal sanscrito kri : fare. Fine nota) Per rispondergli mi vennero alle labbra le immortali parole di Krishna: "Perfino quegli che ha il peggior karma, se medita incessantemente su di Me, rapido disperde gli effetti delle sue cattive azioni passate. Arjuna, sappi questo con certezza: il devoto che pone in me la sua fede non perirà mai!" (Nota: Bhagavad Gita, IX, 30-31. Krishna fu il più grande profeta dell'India. Arjuna il suo amato discepolo, era un principe dei Pandava, che regnò sulle regioni settentrionali vicine all'attuale Delhi. L'epoca del Krishna, secondo gli studiosi indù, è il 3100 a.C. Fine nota). Ma i pronostici del giovane espressi con forza e convinzione, avevano lievemente incrinato la mia fiducia. Con tutto il fervore del mio cuore, pregai in silenzio Dio: "Liberami dallo smarrimento e rispondimi subito se vuoi ch'io segua la via della rinuncia o quella del mondo!". Mi accorsi che un sadhu di nobile aspetto stava proprio fuori del recinto della casa del pandit. Senza dubbio lo straniero aveva udito la vivace discussione tra il sedicente profeta e me, poiché mi chiamò a sé: sentii che un terribile potere si sprigionava dai suoi occhi calmi. "Figlio, non ascoltare quell'ignorante. In risposta alla tua preghiera il Signore mi dice di assicurarti che l'unico tuo sentiero in questa vita è quello della rinuncia". Meravigliato e riconoscente, sorrisi felice a questo decisivo messaggio. "Vieni via da quell'uomo!". L'ignorante mi chiamava dal cortile. La mia santa guida sollevò una mano in gesto di benedizione e lentamente si allontanò. "Quel sadhu è pazzo quanto te!". Fu il pandit dai capelli bianchi a fare questa gentilissima osservazione. Lui e il figlio mi guardavano lugubremente. "Ho saputo che anch'egli ha abbandonato la sua casa per una vaga ricerca di Dio". Voltai loro le spalle. Dissi ad Ananta che non volevo più discutere con i nostri ospiti. Mio fratello, scoraggiato, accettò di partire subito e prendemmo il treno per Calcutta. "Signor poliziotto, come hai scoperto che ero fuggito con due compagni?". Durante il viaggio di ritorno detti libero corso alla mia viva curiosità. Ananta sorrise maliziosamente. "Appresi alla tua scuola che Amar aveva abbandonato l'aula senza farvi ritorno. La mattina dopo andai a casa sua e scoprii un orario ferroviario segnato. Il padre di Amar stava uscendo in carrozza e parlava col cocchiere:
" - Mio figlio, non verrà con me stamani a scuola; è sparito - gemeva il padre. " - Ho inteso dire da un altro cocchiere che vostro figlio e altri due ragazzi, vestiti all'europea, hanno preso il treno alla stazione di Howrah disse l'uomo con nostra sorpresa. Hanno regalato le loro scarpe di pelle al cocchiere che ve li condusse. "Così ebbi in mano tre elementi: l'orario ferroviario, il terzetto dei ragazzi e i vestiti inglesi". Ascoltavo le rivelazioni di Ananta con un misto di divertimento e di irritazione. La nostra generosità verso il cocchiere era stata alquanto mal ripagata. "Naturalmente mi precipitai a telegrafare a tutti i capi-ufficio delle stazioni sottolineate da Amar nell'orario", proseguì mio fratello. "Aveva segnato Bareilly, così telegrafai colà al tuo amico Dwarka. Mi informai dai vicini a Calcutta e seppi che il cugino Jatinda era stato assente da casa una notte, ma era ritornato il mattino seguente vestito all'europea. Lo cercai, lo invitai a pranzo, disarmato dalla mia cortesia, accettò l'invito. Senza che se ne accorgesse, strada facendo lo condussi in un ufficio di polizia, dove fu circondato da vari agenti da me scelti in precedenza per il loro aspetto feroce. Terrorizzato dal loro cipiglio, Jatinda narrò loro quello che aveva fatto. " - Ero partito per l'Himalaya pieno di allegria, - ci disse, - mi sentivo ispirato all'idea di incontrare i Maestri! Ma appena Mukunda disse: 'Durante le nostre estasi nelle grotte dell'Himalaya le tigri verranno affascinate e ci staranno intorno come tanti micini', il mio entusiasmo si raggelò; sentii gocce di sudore freddo formarsi sulla mia fronte: "E poi?, pensai allora. 'Se il cattivo istinto delle tigri non venisse mutato dal potere della nostra estasi spirituale, cosa accadrà allora? Ci tratteranno davvero con la mitezza di gatti domestici? Con gli occhi della mente già mi divi forzato ospite nello stomaco di una tigre, entrato lì dentro non in una volta sola, tutto intero, ma a un pezzo per volta". La mia rabbia per la scomparsa di Jatinda si dileguò in risate. Il comico racconto mi ripagava di tutti i tormenti ch'egli mi aveva procurato. Debbo anche confessare un lieve senso di soddisfazione: anche a Jatinda non era stato risparmiato un incontro con la polizia! "Ananta, sei un segugio nato!" (Nota: Mi rivolgevo sempre a lui chiamandolo Ananta-da: da, è un suffisso di rispetto che il fratello maggiore di una famiglia indiana sempre riceve dai fratelli e dalle sorelle minori. Fine nota). Il mio sguardo divertito non era privo di una certa esasperazione. "E
dirò a Jatinda che sono lieto che egli abbia agito non per desiderio di tradire, come sembrava, ma solo per un prudente istinto di conservazione". A casa, a Calcutta, mio padre mi pregò in maniera commovente di sospendere i miei tentativi di fuga, per lo meno sino alla fine del liceo. Durante la mia assenza aveva amorevolmente architettato un piano, progettando che un santo pandit, Swami Kebalananda, venisse regolarmente a casa nostra. (Nota Al tempo del nostro incontro Kebalananda, non era ancora entrato nell'ordine degli Swami e lo si chiamava in genere "Shastri Mahasaya". Per evitare confusione coi nomi di Lahiri Mahasaya, Bhaduri Mahasaya (Cap. VII) e Maestro Mahasaya (Cap. IX), mi riferisco al mio maestro di sanscrito solo col nome monastico che assunse in seguito, Swami Kebalananda. La sua biografia è stata pubblicata di recente in bengali. Nato nel distretto di Khulna nel Bengala nel 1863, Kebalananda abbandonò le sue spoglie mortali a Benares all'età di 68 anni. Il suo nome di famiglia era Ashutosh Chatterji. Fine nota). "Il Saggio sarà il tuo insegnante di sanscrito", mi annunciò mio padre fiduciosamente. Egli sperava di poter appagare le mie aspirazioni religiose dandomi quale maestro un colto filosofo. Ma ben presto le cose mutarono; il mio nuovo maestro, invece di impartirmi delle aride lezioni di cultura, alimentò il fuoco della mia aspirazione a Dio. Senza che mio padre lo sapesse, Swami Kebalananda era un ardente discepolo di Lahiri Mahasaya. L'impareggiabile Guru aveva avuto migliaia di discepoli, silenziosamente attratti dal suo irresistibile magnetismo divino. Appresi in seguito che Lahiri Mahasaya aveva spesso definito Kebalananda un rishi cioè un Saggio illuminato. Il bel volto del mio maestro era incorniciato da folti riccioli; i suoi occhi neri erano schietti e avevano una trasparenza infantile. Tutti i movimenti del suo esile corpo erano improntati a calma sicurezza. Sempre dolce e amorevole era stabilmente ancorato nella Coscienza Infinita. Molte delle ore felici passate insieme furono dedicate alla profonda meditazione Kriya. Kebalananda era un'autorità riconosciuta negli antichi shastra o libri sacri, e la sua erudizione gli aveva ottenuto il titolo di "Shastri Mahasaya", come abitualmente lo si chiamava. Ma il mio progresso nello studio del sanscrito non era degno di nota perché coglievo ogni occasione per lasciar da parte l'arida grammatica e parlare invece dello yoga e di Lahiri Mahasaya. Gli fui molto grato un giorno, quando mi raccontò alcune cose della sua vita col Maestro. "Per straordinaria ventura mi fu concesso di trascorrere dieci anni accanto a Lahiri Mahasaya.
La sua casa di Benares era la méta dei miei pellegrinaggi serali. Il Guru si tratteneva sempre in un piccolo soggiorno al primo piano. Stava seduto nella posizione del Loto su una panchetta di legno senza spalliera; i suoi discepoli gli facevano corona, ponendosi attorno a lui a semicerchio. I suoi occhi scintillavano, illuminati dalla gioia del Divino (Nota: La vera Essenza di Dio essendo Beatitudine, il devoto in sintonia con Lui sente una gioia elementare e senza limiti. "La prima facoltà dell'anima e del volere è gioia" disse S. Giovanni della Croce, autore dell'Ascesa sul Monte Carmelo. Uno dei suoi mistici aforismi è: "Per arrivare a Ciò che non si ha, si deve seguire la via in cui nulla si ha; per arrivare a Ciò che non si è, si deve seguire la via in cui nulla si è; per ottenere il Tutto si deve abbandonare tutto". Il corpo di questo grande Santo cristiano (che morì nel 1591) fu esumato nel 1859 e trovato in istato di incorruttibilità. Fine nota) . Erano sempre semichiusi, e attraverso l'occhio telescopico interiore penetravano in una sfera di eterno splendore. Raramente, alla fine, parlava. A volte il suo sguardo si posava su uno studente che aveva bisogno d'aiuto; parole risanatrici sgorgavano allora dalle sue labbra come un torrente di luce. "Un'indescrivibile pace sorgeva in me davanti allo sguardo del Maestro. Ero permeato della sua fragranza come da un Loto dell'Infinito. Stare con lui, anche senza scambiare una parola per giorni interi, significava vivere un'esperienza che mutò tutto il mio essere. Se una qualsiasi invisibile barriera sorgeva sul sentiero della mia concentrazione, meditavo ai piedi del Guru: là percepivo gli stati più inafferrabili. Tali percezioni non mi visitavano alla presenza di altri maestri minori. Il Maestro era un tempio vivente di Dio le cui porte segrete, erano aperte a tutti i discepoli attraverso la devozione. "Lahiri Mahasaya non era un interprete letterale delle Scritture. Senza sforzo egli s'immergeva nella divina biblioteca: spume di parole e getti di pensieri sgorgavano dalla fontana della sua onniscienza. Egli possedeva la chiave meravigliosa che apriva la profonda scienza filosofica nascosta secoli fa nei Veda (Nota : I quattro antichi Veda comprendono più di cento libri canonici tuttora esistenti. nel suo Giornale Emerson rese il seguente tributo al pensiero vedico: "E' sublime come il calore e la notte e un oceano immoto senza respiro. Contiene ogni sentimento religioso, ogni più alta etica che palpiti in ogni mente nobile e poetica... E' inutile mettere da parte il libro; se mi trovo nei boschi o in una barca sul fiume, la Natura stessa mi rende brahmino. Necessità eterna, eterno compenso. Impenetrabile potere, ininterrotto silenzio... Questo è il suo credo. Pace, mi dice, e purità e assoluto abbandono. Queste panacee espiano tutti i peccati e conducono alle
beatitudini delle otto divinità" Fine nota). Se gli si chiedeva di spiegare i diversi stati di coscienza descritti negli antichi testi, egli ci acconsentiva sorridendo: " - Mi sottoporrò a questi stati e vi dirò quello che sento" - Così egli era diametralmente opposto a tutti gli altri maestri che affidano i testi alla memoria e poi ne traggono astrazioni indefinite, non sperimentate. " - Ti prego di commentare i santi versetti man mano che ti si rivela il loro significato - Il Guru taciturno spesso impartiva questo ordine a un discepolo che gli stava accanto. - Guiderò i tuoi pensieri affinché tu ne dia una giusta interpretazione. " In tal modo molte percezioni di Lahiri Mahasaya vennero registrate, con voluminosi commenti di vari studenti. Il Maestro non consigliava mai una fede supina: - Le parole sono solamente gusci, - diceva. - Acquistate la convinzione della presenza di Dio attraverso un intimo, gioioso contatto nella meditazione. "Qualunque fosse il problema di un discepolo, il Guru consigliava, per la sua soluzione, il Kriya Yoga. " - La chiave dello yoga non perderà la sua efficacia quando io non sarò più qui, presente nel corpo, per guidarvi. Questa tecnica non può essere rilegata, catalogata e dimenticata come le ispirazioni teoretiche. Procedete incessantemente sulla via della liberazione attraverso il Kriya il cui potere risiede nella pratica. "io stesso considero il Kriya come il mezzo più efficace di salvezza mediante l'autosforzo, che mai possa essere sviluppato dall'uomo nella sua ricerca dell'Infinito". Kebalananda concluse il suo dire con questa ardente testimonianza. "Con la pratica del Kriya il Dio onnipotente che si cela in tutti gli uomini si manifestò visibilmente nel corpo mortale di Lahiri Mahasaya e di vari suoi discepoli". Alla presenza di Kebalananda, Lahiri Mahasaya compì un miracolo simile a quelli del Cristo. Il mio santo maestro me ne raccontò la storia un giorno, con gli occhi assorti ben lontano dai testi sanscriti che ci stavano dinanzi. "Un discepolo cieco, Ramu, mi ispirava una grande pietà. Perché egli non doveva avere la luce degli occhi, mentre tanto fedelmente serviva il nostro Maestro in cui la Divinità risplendeva pienamente? Una mattina cercai di parlare a Ramu, che paziente, sedeva per ore intere a far vento al Guru con un punkha fatto di foglie di palma. Quando infine il devoto lasciò la stanza, lo seguii: -" - Ramu, da quanto tempo sei cieco?"
" - Dalla nascita, signore. Ma i miei occhi furono benedetti dalla vista di un barlume di sole. - Il nostro Guru onnipotente può aiutarti. Ti prego, supplicalo di farlo." Il giorno seguente Ramu si accostò timidamente a Lahiri Mahasaya. Il discepolo si vergognava di chiedere un beneficio fisico, in aggiunta alla sovrabbondanza spirituale. - Maestro, l'Illuminatore del cosmo è in voi. Vi prego di dare la sua luce ai miei occhi, affinché io possa scorgere il minore splendore del sole. " - Ramu, qualcuno vuol mettermi in difficoltà : non ho il potere di risanare. " - Signore, l'Infinito che è in voi può certamente risanare". "- Questo è diverso Ramu. Dio non ha limite in nessun luogo. Colui che accende le stelle e le cellule della carne col misterioso fulgore della vita, può certamente portare la luce nei tuoi occhi." "Il Maestro toccò la fronte di Ramu al centro fra le sopracciglia. (Nota : La sede dell'occhio "unico" o spirituale. Al momento della morte, la coscienza dell'uomo è in genere raccolta in questo sacro punto, il che spiega gli occhi rivolti in alto che si vedono nei morti. Fine nota). " - Concentra la tua mente in questo punto e canta spesso il nome del profeta Rama, per sette giorni. Lo splendore del sole avrà per te un'aurora speciale (Nota: La sacra figura centrale del poema epico sanscrito Ramayana. Fine nota). "Dopo una settimana così avvenne. Per la prima volta Ramu vide il bellissimo volto della Natura. L'onnisciente Guru aveva infallibilmente indotto il suo discepolo a ripetere il nome di Rama, da lui venerato sopra tutti gli altri Santi. La fede di Ramu fu il suolo arato dalla devozione in cui il possente germe di risanamento del Maestro poté germogliare". Kebalananda tacque per un istante, poi tributò un nuovo omaggio al suo Guru. "Era evidente in tutti i miracoli compiuti da Lahiri Mahasaya, che egli non permetteva mai al principio dell'ego di considerarsi la forza causale. Con la perfezione del completo abbandono, il maestro dava modo al potere Risanatore Primordiale di fluire liberamente attraverso di lui. (Nota Il principio dell'ego, ahankara (Letteralmente: io faccio), è la causa fondamentale del dualismo o dell'apparente separazione dell'uomo dal suo Creatore. L'ahankara assoggetta l'uomo al dominio di maya (illusione cosmica) per cui il soggetto (ego) appare erroneamente quale oggetto: le creature immaginano di essere esse stesse creatori. Fine nota). " I numerosi corpi che furono guariti in modo spettacolare da Lahiri Mahasaya, dovevano finire per alimentare le fiamme della cremazione. Ma i
silenziosi risvegli spirituali che egli compì, i discepoli che modellò simili al Cristo, sono i suoi miracoli imperituri". Non divenni mai uno studioso di sanscrito, ma Kebalananda mi insegnò una ben più divina sintassi.
CAPITOLO V IL "SANTO DEI PROFUMI" MOSTRA I SUOI PRODIGI "Ogni cosa ha la sua stagione e ogni scopo il suo tempo sotto il cielo". (Nota: Ecclesiaste, 3,1, Fine nota). Io non possedevo la saggezza di Salomone per confortarmi; ogni volta che uscivo di casa, mi guardavo attentamente intorno cercando il volto del Guru che mi era destinato. Ma la mia strada non incrociò la sua fin quando non ebbi terminato i miei studi liceali. Trascorsero due anni fra la tentata fuga con Amar verso l'Himalaya e il grande giorno dell'entrata di Sri Yukteswar nella mia vita. Durante questo lasso di tempo avevo incontrato molti Saggi; il "Santo dei Profumi", lo "Swami delle Tigri", Nagendra Nath Bhaduri, il maestro Mahasaya e il famoso scienziato bengali jagadis Chandra Bose. Il mio incontro col "Santo dei Profumi" fu preceduto da due episodi: l'uno armonico, l'altro umoristico. "Dio è semplice. Ogni altra cosa è complessa. Non cercare valori assoluti nel mondo relativo della natura". Queste massime filosofiche penetrarono dolcemente il mio orecchio mentre me ne stavo in silenzio davanti a un'immagine di Kali nel tempio. (Nota: Kali rappresenta il Principio Eterno della Natura. Essa viene tradizionalmente rappresentata come una donna con quattro braccia, eretta sulla forma coricata del dio Shiva, o l'Infinito, poiché la Natura, il mondo fenomenico, è radicata nel Noumeno. Le quattro braccia che reggono oggetti simbolici rappresentano gli attributi cardinali: due benefici, due distruttivi, e indicano la dualità essenziale della materia o creazione. Fine nota) Mi volsi e mi trovai di fronte a un uomo alto, che l'abito - o meglio la mancanza di qualsiasi abito - rivelava per un sadhu errante. "Avete davvero penetrato la perplessità che è nei miei pensieri!", dissi sorridendogli con gratitudine. "La coesistenza di aspetti benigni e terribili nella Natura, simbolizzati in Kali, hanno sconcertato menti assai più sagge della mia!".
"Pochi sono quelli che sanno risolvere il suo mistero! Il bene e il male sono l'enigma che la vita, quale sfinge, sfida ogni intelligenza umana a risolvere. "La maggior parte degli uomini che non ne cerca la soluzione paga col pegno della vita, oggi come ai tempi di Tebe. Qua e là una torreggiante figura solitaria non accetta sconfitta. Dalla maya della dualità coglie la verità invisibile dell'Unità" (Nota: maya = illusione cosmica, letteralmente: il misuratore. Maya è il potere magico nella creazione, per cui le limitazioni e le divisioni sono apparentemente presenti nell'Incommensurabile e nell'Inseparabile. Emerson scrisse la seguente poesia dal titolo Maya: "L'illusione lavora nel mistero, tessendo innumerevoli tele; le sue visioni gaie non mancano mai. S'affollano l'una sull'altra, velo su velo; incantatrice che vuol essere creduta dall'uomo, che ha sete d'inganni". Fine nota). "Parlate con convinzione, signore". "Ho esercitato a lungo un'onesta introspezione, metodo squisitamente doloroso per accostarsi alla saggezza. L'auto-esame la spietata osservazione dei propri pensieri è un'esperienza integrale e sconvolgente, che polverizza l'ego più robusto. Ma la vera auto-analisi agisce in modo da produrre matematicamente dei veggenti. la via dell'auto-espressione, il riconoscimento dei meriti individuali produce degli egoisti, sicuri del loro diritto a una personale interpretazione di Dio e dell'Universo". "Non vi è dubbio che la verità si ritrae umilmente davanti a tale arrogante originalità". La discussione mi piaceva. "L'uomo non può comprendere nessuna verità eterna fin quando non si è liberato della sua presunzione. La mente umana, denudata fino a rivelarsi una melma secolare, brulica della repellente vita di innumerevoli inganni terreni. Le lotte sui campi di battaglia divengono insignificanti, se comparate a quelle dell'uomo che affronta per la prima volta i suoi nemici interiori! Questi non sono nemici umani, che possono essere sopraffatti da un impressionante spiegamento di forze! Onnipresenti, implacabili persecutori dell'uomo perfino nel sonno, muniti di subdole armi mefitiche, questi soldati dell'ignoranza e della concupiscenza cercano di uccidervi tutti. Stolto è l'uomo che seppellisce i propri ideali, arrendendosi al comune destino. Che cosa può mai sembrare se non un essere impotente, insensibile, ignominioso?". "Rispettabile signore, non avete compassione per le masse disorientate?". Il Saggio tacque per un poco, poi riprese, rispondendo indirettamente alla mia domanda: "Spesso è assai difficile poter amare entrambi: Il Dio Invisibile Custode di tutte le Virtù, e l'uomo visibile che in apparenza non ne possiede alcuna. Ma
l'ingegnosità dell'uomo è pari al labirinto in cui si dibatte. La ricerca interiore ben presto rivela che in tutti gli animi umani esiste una certa unità, rappresentata dal forte vincolo comune del motivo egoistico. In tal senso, almeno, si rivela la fratellanza degli uomini. Una sbigottita umiltà segue a questa constatazione livellatrice: essa diventa compassione per i propri compagni, ciechi alle forze risanatrici dell'anima che attendono d'essere scoperte". "I Santi d'ogni tempo, signore, hanno sentito quello che sentite voi per i dolori del mondo". "Solo l'uomo superficiale diviene insensibile alle miserie della vita altrui e si chiude nel piccolo cerchio delle proprie sofferenze". L'austero viso del sadhu si era notevolmente addolcito: "Colui che usa il bisturi per sezionare se stesso, sentirà espandersi entro di sé la pietà universale. Egli sarà liberato dalle assordanti pretese del suo io. L'amore di Dio fiorisce su questo terreno. La creatura finalmente si rivolge al Creatore, non foss'altro che per porgli questa angosciosa domanda: - Perché Signore, perché? - Dalle brucianti frustate del dolore l'uomo è sospinto infine alla Presenza Infinita, la cui sola bellezza dovrebbe bastare ad allettarlo". Il Saggio ed io ci trovavamo a Calcutta nel tempio di Kalighat, di cui ero andato ad ammirare i ben noti splendori. Con un largo gesto, il compagno datomi dal caso disprezzò tutta quella innata magnificenza. "I mattoni e il cemento non ci cantano udibili melodie; il cuore si apre solo al canto umano dell'essere". Chiamati dall'invitante brillio del sole, ci avviammo verso l'uscita dove l'andirivieni dei devoti era continuo. "Sei giovane". Il Saggio mi esaminò pensoso. "Anche l'India è giovane. Gli antichi rishi stabilirono gl'indistruttibili modelli del vivere spirituale. Le loro antiche massime sono sufficienti per questo Paese e per quest'epoca. Tuttora insuperati, e tutt'altro che inermi di fronte alle insidie del materialismo quei precetti disciplinari plasmano l'India ancor oggi. Da millenni - che sono assai più di quanti osino computarne gli imbarazzati studiosi! - lo scettico Tempo ha convalidato la virtù dei Veda. Questa è la tua eredità" (Nota: rishi = veggenti, furono gli autori dei Veda in un'oscura antichità. Fine nota). Mentre prendevo rispettosamente congedo dall'eloquente sadhu, egli mi rivelò una sua percezione chiaroveggente: "Lasciando questo luogo oggi stesso, incontrerai sulla tua strada un'esperienza non comune". Mi allontanai dai paraggi del tempio e vagai senza mèta. Voltando l'angolo m'imbattei in una vecchia conoscenza, uno di quegli esseri ciarlieri la cui loquela ignora il tempo e abbraccia l'eternità.
"Ti lascerò andar via fra un momento se mi racconti tutto quello che ti è accaduto durante i sei anni in cui non ci siamo visti". "Quale paradosso! Io debbo andarmene, subito". Ma egli mi tratteneva per una mano, strappandomi brani di notizie. Sembrava un lupo famelico, pensavo divertito. Più parlavo e più diveniva avido di notizie. Dentro di me imploravo la Dea Kali di offrirmi un modo garbato per sfuggirgli. All'improvviso il mio compagno mi lasciò. Respirai di sollievo e affrettai il passo, temendo di ricadere in potere di quel chiacchierone. udendo rapidi passi dietro di me, accelerai ancor più la mia andatura senza osare voltarmi; ma con un salto il giovane mi raggiunse e giovialmente mi afferrò per una spalla. "Ho dimenticato di parlarti di Gandha Baba, il 'Santo dei Profumi', che onora della sua presenza quella casa". E m'indicò un'abitazione a qualche metro di distanza. "Vallo a vedere, vai; è interessante. Potrai fare un'esperienza non comune. Arrivederci!". E questa volta mi lasciò davvero. Subito mi tornò in mente la predizione espressa in modo consimile dal sadhu nel tempio di Kalighat. Incuriosito entrai nella casa e fui introdotto in un confortevole salotto. Molte persone vi si trovavano sedute alla maniera orientale, sparse qua e là su di un folto tappeto color arancione. Mi giunse all'orecchio un reverente bisbiglio: "Guardate Gandha Baba seduto sulla sua pelle di leopardo. Può dare il profumo di qualsiasi fiore a un fiore inodore, o far rivivere un fiore appassito o far sì che dalla pelle di una persona emani una deliziosa fragranza". Guardai il Santo. Il suo sguardo acuto si fissò nel mio. Era tarchiato, barbuto, con pelle scura e grandi occhi sfavillanti. "Figlio, sono lieto di vederti. Di' quello che vuoi. Gradiresti qualche profumo?". "A quale scopo?". Giudicavo le sue parole alquanto puerili. "Per farti sperimentare un modo miracoloso di godere dei profumi". "Volete usare del potere di Dio per creare profumi?". "E perché no? Dio crea profumi ad ogni modo". "Si, ma Egli modella fragili fiale di petali, perché siano usate fresche e poi buttate via. Potete materializzare dei fiori?". "Si, ma d'abitudine io materializzo profumi, mio piccolo amico". "Allora le fabbriche di profumi falliranno". "Consentirò loro di continuare la loro industria! Il mio scopo è di dimostrare la potenza di Dio".
"Signore, è proprio necessario fare la dimostrazione di Dio? Non fa Egli dei miracoli in ogni cosa, in ogni luogo?". "Si, ma anche noi dobbiamo rendere manifesta una parte della Sua infinita varietà creativa". Quanto tempo vi è occorso per rendervi padrone di quest'arte?". "Dodici anni". "Per fabbricare profumi con mezzi astrali. mi pare, onorevole Saggio che abbiate sprecato una dozzina d'anni per ottenere delle fragranze che si possono avere con poche rupie da qualsiasi fioraio". "I profumi svaniscono con i fiori". "I profumi svaniscono con la morte. Perché dovrei desiderare quello che alletta solamente il corpo?". "signor filosofo, tu mi piaci. Ora stendi la mano destra". E fece un gesto di benedizione. Mi trovavo a una certa distanza da Gandha Baba e nessun altro mi era tanto vicino da potermi sfiorare. Stesi la mano, che lo Yoghi non toccò. "Quale profumo desideri?". "quello della rosa". "E così sia". Con mia grande sorpresa, la deliziosa fragranza delle rose si diffuse con violenza dal cavo della mia mano. Sorridendo presi un grande fiore bianco inodore che si trovava in un vaso. "Può questo fiore senza profumo odorare di gelsomino?". "Così sia". Istantaneamente dai petali si sparse una fragranza di gelsomino. Ringraziai il mago e sedetti accanto a un suo discepolo. Egli mi disse che Gandha Baba, il cui vero nome era Vishudhananda, aveva appreso da un maestro del Tibet molti sorprendenti segreti yoga. Lo Yoghi tibetano - così mi fu assicurato - aveva raggiunto l'età di oltre mille anni. "Il suo discepolo Gandha Baba non opera sempre prodigi con i profumi usando semplicemente la parola, come avete visto voi". L'allievo parlava del Maestro con visibile orgoglio. "I suoi procedimenti mutano moltissimo per adeguarsi ai diversi temperamenti delle persone che lo avvicinano. E' meraviglioso! Molti membri dell'intellighentia di Calcutta sono suoi seguaci". Nel mio intimo decisi di non aumentare il loro numero. Il guru così letteralmente "meraviglioso" non era di mio gusto. Con un cortese ' grazie' a Gandha Baba me ne andai. Avviandomi pian piano verso casa, riflettevo sui tre incontri diversi che mi si erano offerti in quello stesso giorno.
Incontrai mia sorella Uma sulla porta della nostra casa in Gurpar Road. "Diventi proprio un elegantone! Ti profumi!". Senza risponderle, le feci segno di fiutare la mia mano. "Che delizioso profumo di rose! Ed è insolitamente forte!. Pensando che era davvero "fortemente insolito", in silenzio le passai sotto il naso il fiore profumato astralmente. "Oh! Adoro il gelsomino!". Prese il fiore. Un comico stupore si dipinse sul suo viso mentre aspirava ripetutamente il profumo di gelsomino da un fiore che ella ben sapeva inodore. La sua reazione dissipò il mio sospetto che Gandha Baba mi avesse portato a uno stato d'autosuggestione tale da permettere soltanto a me di percepire quei profumi. In seguito seppi da un amico, Alakananda che il "Santo dei profumi" aveva anche un potere che vorrei fosse a disposizione di tutti quei milioni di persone affamate nel mondo. "Mi trovavo con un centinaio di persone nella casa di Gandha Baba a Burdwan", mi raccontò Alakananda. "Era un giorno di festa. Poiché si diceva che lo yoghi avesse il potere di estrarre oggetti dall'aria, ridendo gli chiesi di materializzare dei mandarini, frutti allora fuori stagione. Immediatamente i luchi collocati sui piatti di foglie di banane si gonfiarono. Ogni panino racchiudeva un mandarino pelato. Morsi il mio con un po' di trepidazione e lo trovai squisito". (Nota: luchi = il pane indiano piatto e rotondo. Fine nota). Molti anni dopo, per realizzazione interiore, compresi in quale modo Gandha Baba otteneva le sue materializzazioni. Il metodo, ahimé, è al di là delle possibilità delle masse affamate che popolano il mondo! I diversi stimoli sensori a cui l'uomo reagisce, stimoli olfattivi, tattili, visivi, gustativi, uditivi, sono prodotti da variazioni vibratorie di elettroni e protoni. Le vibrazioni a loro volta sono regolate dal prana, dai "vitatroni", sottili forze vitali, energie più fini di quelle atomiche, caricate intelligentemente delle cinque distintive sostanze-idea sensorie. Gandha Baba, ponendosi in sintonia con la forza pranica mediante particolari esercizi yoga, era capace di indurre i vitatroni a modificare la loro struttura vibratoria e realizzare così in modo oggettivo i propri desideri. I miracoli che operava con i profumi, la frutta o altro, erano vere materializzazioni di vibrazioni terrene, e non sensazioni interiori prodotte ipnoticamente! (Nota: A stento i profani si rendono conto degli enormi passi fatti dalla scienza nel XX secolo. Trasformazioni di metalli ed altri sogni alchimistici vedono ogni giorno la loro realizzazione in centri di ricerche scientifiche di tutto il mondo. Il prof. Georges Claude, eminente chimico francese, operò "miracoli" a Fontaine-bleau nel 1928 dinanzi a un'assemblea
di scienziati, servendosi delle sue nozioni sulla trasformazione dell'ossigeno. La sua "bacchetta magica" era semplicemente ossigeno che gorgogliava in un tubo sulla tavola. L'Associated Press riportò che: "Lo scienziato tramutò una manciata di sabbia in pietre preziose, ridusse un pezzo di ferro in uno stato tale da sembrare cioccolato liquefatto, e dopo aver tolto a dei fiori il loro colore, li rese della consistenza del vetro". I miracoli come quelli compiuti dal "Santo dei Profumi" sono manifestazioni spettacolari, ma spiritualmente inutili. Non avendo quasi altro scopo che quello di divertire i presenti, distolgono dalla seria ricerca di Dio. L'ipnotismo è stato usato dai medici in piccoli interventi chirurgici a guisa di cloroformio psichico, su persone che non avrebbero potuto sopportare l'anestesia. Ma lo stato ipnotico è dannoso per coloro che vi si assoggettano spesso; ne deriva un effetto psicologico negativo, che con l'andar del tempo danneggia le cellule cerebrali. L'ipnotismo è una violazione del territorio della coscienza altrui. (Nota : Gli studi sulla coscienza espletati da psicologi occidentali con una massima parte limitati al subcosciente e alle malattie mentali suscettibili di cure psichiatriche e psicoanalitiche. Assai poche ricerche si fanno sull'origine e la formazione basica degli stati psichici normali e delle loro espressioni emotive e volitive: soggetto questo veramente fondamentale che la filosofia indiana non trascura. I sistemi sankhya e yoga danno una classificazione precisa delle varie concatenazioni delle modificazioni mentali normali e delle funzioni caratteristiche di buddhi (intelletto discriminante), ahankara (principio egoistico) e manas (mente o coscienza sensoria). Fine nota). I suoi fenomeni transitori non hanno nulla in comune con i miracoli compiuti da uomini dalla divina realizzazione: Essendo desti in Dio, i veri santi effettuano dei mutamenti in questo mondo di sogno per mezzo di una volontà armonicamente accordata col Cosmico sognatore Creativo. (Nota: "L'universo è rappresentato in ogni sua particella. Ogni cosa è fatta dello stesso materiale occulto. Il mondo si congloba in una goccia di rugiada... La vera dottrina dell'onnipresenza è che Dio appare in tutte le Sue parti in ogni muschio e in ogni "ragnatela". Emerson in Compensatio. Fine nota). L'ostentata manifestazione di poteri insoliti viene riprovata dai grandi Maestri. Il mistico persiano Abu Said rise una volta di alcuni fakiri (yoghi musulmani) che si vantavano di possedere miracolosi poteri sull'acqua, l'aria e lo spazio.
"Anche una rana si sente a casa sua nell'acqua", fece rilevare Abu Said con lieve disprezzo. "La cornacchia e l'avvoltoio volano nell'aria con tutta facilità; il demonio è simultaneamente presente sia in Oriente che in Occidente! un vero uomo è colui che vive con giustizia tra i propri simili, che compra e vende, ma che nemmeno per un solo istante dimentica Dio" (Nota: "Comprare e vendere, ma mai dimenticare Iddio". L'ideale è che la mano e il cuore operino insieme in armonia. Alcuni scrittori occidentali pretendono che la mèta degli indù sia una pavida "evasione" nell'inattività e nel ritiro antisociale. Ma il quadruplo piano vedico per la vita dell'uomo è invece ben equilibrato per le masse, e dedica metà del tempo allo studio e al lavoro, e l'altra metà alla contemplazione e alle pratiche meditative. La solitudine è necessaria per prender dimora stabile nel Sè, ma i Maestri, una volta divenuti tali, ritornano allora nel mondo per servirlo. Perfino quei Santi che non s'impegnano in opere esteriori elargiscono al mondo, coi loro pensieri e sacre vibrazioni, maggiori e più preziosi benefici di quanti ne possa dare la più strenua attività umanitaria degli uomini non illuminati. I grandi ciascuno alla propria maniera e spesso lottando contro un'accanita opposizione, si sforzano altruisticamente di ispirare ed elevare i loro simili. Nessun ideale indù, religioso o sociale, è soltanto negativo. L'ahimsa, la "non violenza" chiamata "virtù piena" (sakalo dharma) nel Mahabharata, è un'ingiunzione positiva in virtù del suo concetto secondo il quale chi non è d'aiuto ad altri, in un certo senso gli arreca danno. La Bhagavad Gita (III, 4-8) rileva che l'attività è una necessità inerente alla natura stessa dell'uomo. La pigrizia è semplicemente un'attività sbagliata". Nessun uomo sfuggirà all'azione Ritraendosi dall'agire; no, e nessuno Giungerà con le sole rinunce Alla perfezione. No, e nessuna minima frazione Di tempo, in nessun tempo Riposa senza azione; poiché la legge della sua natura Lo costringe, sia pur di malavoglia, ad agire. (Poiché è azione di fantasia Anche il pensiero). ... Colui che, con un corpo forte Serve la mente, Sacrifica le sue forze mortali A un degno lavoro E non cerca guadagni, Arjuna! tale uomo E' da onorare. Compi l'opera tua! Fine nota). In un'altra occasione il grande Maestro persiano espresse il proprio punto di vista sulla vita religiosa nel modo seguente: "Mettete da parte quello che avete nella testa (desideri egoistici e ambiziosi); dare generosamente quello che avete nelle mani; non ritrarsi mai dinanzi alle avversità della vita"!.
Né il saggio imparziale del tempio di Kalighat, né lo yoghi addestrato nel Tibet avevano soddisfatto il mio desiderio di trovare un guru. Il mio cuore non aveva bisogno di una guida per riconoscerlo e gridò spontaneamente il suo "bravo!", tanto più forte perché raramente veniva destato dal silenzio. Quando alla fine incontrai il mio Maestro egli m'insegnò con la sola sublimità dell'esempio, la misura del vero uomo.
CAPITOLO VI LO SWAMI DELLE TIGRI "Ho scoperto l'indirizzo dello 'Swami delle Tigri'. Andiamo a fargli una visita domani". Questa allettante proposta mi venne fatta da Chandi, uno dei miei compagni di liceo. Ero impaziente di vedere il Santo, che nella sua vita premonastica aveva catturato tigri e lottato contro di esse con la sola forza delle sue mani. Provavo un vero entusiasmo giovanile per queste gesta straordinarie. Il giorno seguente sorse con un freddo invernale, ma Chandi e io ce ne uscimmo allegramente. Dopo molto vano cercare in giro per Bhowanipur, fuori Calcutta, giungemmo infine alla casa che cercavamo. Sulla porta vi erano due anelli di ferro, con i quali bussai con tutta forza. Nonostante il clamore, il servo si avvicinò a passo lento, il suo sorriso ironico significava che i visitatori, per quanto rumore facessero, non avevano il potere di turbare la calma della casa di un Santo. Il mio compagno e io comprendemmo il muto rimprovero, e fummo perciò tanto più grati dell'invito a entrare nel salotto. La lunga attesa in quella stanza destò in noi cattivi presentimenti. Ma la legge non scritta dell'India per chi cerca davvero la verità, è la pazienza; un Maestro può con intenzione mettere alla prova il desiderio che si ha di avvicinarsi a lui. Questa astuzia psicologica è largamente praticata in Occidente da medici e dentisti! Alla fine, su invito del servo, Chandi e io entrammo in una camera. Il famoso Swami Sohong sedeva sul suo giaciglio. La vista del suo formidabile corpo ci colpì tanto, che restammo a occhi sbarrati senza parola. Mai prima di allora avevamo visto un simile torace, né bicipiti così simili a palloni da calcio. Sopra un collo enorme si ergeva il terribile e pur calmo volto dello Swami adornato di barba e baffi e fluenti capelli ricciuti. nei suoi occhi scuri splendeva un'espressione che faceva pensare a un tempo alla colomba e alla tigre. Era nudo, a eccezione di una pelle di tigre che gli
cingeva i fianchi muscolosi. (Nota: Sohong era il suo nome monastico, ma egli era comunemente noto come lo Swami delle Tigri. Fine nota). Il mio amico e io ritrovammo la voce per salutare il monaco e gli esprimemmo tutta la nostra ammirazione per le sue prodezze nella straordinaria arena delle tigri. "Volete dirci, per favore, come è possibile soggiogare coi pugni nudi la più feroce delle belve della giungla, la tigre reale del Bengala?". "Figli miei, è cosa da nulla per me lottare con le tigri. Potrei farlo anche oggi, se necessario". Rise come un bambino. "Voi considerate le tigri come tigri: per me sono gattini". "Swamiji, forse potrei convincere il mio subcosciente che le tigri sono gattini, ma come farlo credere alle tigri?". "Naturalmente, anche la forza è necessaria! Non si può certo aspettarsi la vittoria su una tigre da un bambino, convinto che la tigre sia un gatto domestico! A me, come arma, bastano le mie potenti mani". Ci chiese di seguirlo nel patio, dove colpì col pugno chiuso l'orlo di un muro; un mattone rovinò a terra, e attraverso il varco aperto come un dente mancante nella muraglia, il cielo ammiccò sfacciatamente. Quasi barcollai dallo stupore. - Colui che può far cadere con un solo colpo un mattone cementato con la calce in un solido muro, - pensavo - deve certamente esser capace di far saltare via i denti alle tigri! "Parecchi uomini posseggono una forza fisica pari alla mia, però mancano di una tranquilla fiducia. uomini forti fisicamente, ma non mentalmente, possono sentirsi venir meno alla sola vista di una bestia feroce che balza liberamente nella giungla. La tigre, nella sua ferocia e nel suo ambiente naturale, è assai diversa da quella nutrita d'oppio che si vede nei circhi! Molti uomini, pur dotati di forza erculea, furono ridotti dal terrore a un'abbietta impotenza di fronte all'assalto di una tigre del Bengala. Così è la tigre che ha ridotto l'uomo, nella propria mente, allo stato di un inerme e debole gattino. Un uomo dal corpo vigoroso e dalla volontà fortissima può avere il sopravvento sulla tigre e convincerla che è lei ad essere un gattino senza difesa. Quante volte io l'ho fatto!". Ero ormai prontissimo a credere che il titano che avevo di fronte fosse capace di operare la metamorfosi della tigre in un gatto. Sembrava in vena d'impartirci i suoi insegnamenti; Chandi e io lo ascoltavamo con deferenza. "E' la mente che comanda i muscoli. La forza di una martellata dipende dall'energia con la quale viene assestata. La forza fisica di un uomo dipende dalla sua volontà aggressiva e dal suo coraggio. Il corpo è letteralmente plasmato e sostenuto dalla mente.
Sospinte dagli istinti di vite trascorse, le forze o le debolezze filtrano gradatamente nell'umana coscienza. Esse si manifestano in abitudini che poi a loro volta si concretano in un corpo debole o robusto. La fragilità fisica ha un'origine mentale; preso in un circolo vizioso, il corpo, legato alle abitudini, ostacola la mente. Se il padrone si lascia comandare da un servo, questi diventa un vero autocrate; allo stesso modo la mente diventa schiava del corpo, se si sottomette alla sua dittatura". A nostra richiesta l'impressionante Swami acconsentì a raccontarci qualche episodio della sua vita. "La mia prima ambizione, fu quella di lottare con le tigri. La mia volontà era potente, ma il mio corpo era debole". Mi sfuggì un'esclamazione di sorpresa; sembrava davvero impossibile che quell'uomo munito di spalle da Atlante, atte a sopportare qualsiasi peso, avesse mai potuto conoscere la debolezza. "Fu il mio indomito insistere in pensieri di salute e di forza che m'aiutò a superare quello stato d'inferiorità. Ho tutte le ragioni per esaltare l'efficacia decisiva del vigore mentale, che considero come il solo vero domatore delle tigri". "Reverendo Swami, credete che un giorno potrò anch'io lottare con le tigri?". Questa fu la prima e anche l'ultima volta che una simile stravagante ambizione attraversò la mia mente! "Si", mi rispose sorridendo. "Ma vi sono molte specie di tigri: ve ne sono di quelle che si aggirano nella giungla delle passioni umane. Non si trae alcun beneficio spirituale dal picchiare delle belve fino a ridurle all'incoscienza: è meglio cercare di vincere le belve interiori". "Signore, possiamo sapere come, da domatore di bestie feroci, vi mutaste in domatore di passioni selvagge"?. Lo Swami delle Tigri rimase in silenzio. Il suo sguardo divenne remoto, mentr'egli richiamava visioni d'anni lontani. Mi accorsi che in lui stava avvenendo una piccola lotta: doveva accontentare o no la mia richiesta? Finalmente sorrise, acquiescente. "Quando raggiunse l'apice, la mia fama portò con sé il veleno dell'orgoglio. Decisi, non solo di combattere le tigri, ma di presentarle al pubblico in esercizi vari. La mia ambizione era di costringere le bestie feroci a condursi come animali domestici. Incominciai a sfoggiare la mia abilità in pubblico con lusinghiero successo. "Una sera mio padre entrò nella mia stanza con aria preoccupata.
" - Figlio, voglio darti un avvertimento. Vorrei salvarti da mali futuri che possono provenirti dalle inesorabili ruote della legge di causa-effetto. " - Padre, siete fatalista? Si deve dunque permettere alla superstizione di togliere ogni colore alle possenti acque della mia attività?" " - Figlio, non sono fatalista, ma credo nelle giuste leggi del contrappasso, così come insegnano le sante Scritture. Nella famiglia della giungla vi è molto risentimento contro di te, e forse un giorno esso potrà recarti danno." " - Padre, mi stupite! Voi ben sapete come sono le tigri: bellissime, ma spietate! Perfino dopo un lauto pasto fatto a spese di qualche sfortunata creatura, la tigre, alla vista di una nuova preda, è subito di nuovo invasa dall'ingordigia. Può toccare a una gioiosa gazzella che saltella sul prato della giungla; catturandola e addentandola alla morbida gola, la belva malvagia assapora appena un poco di quel povero sangue che piange in silenzio, e subito dopo riprende il suo crudele vagabondaggio. Le tigri sono la razza più spregevole della giungla! Chissà? I miei colpi potrebbero far rinsavire un poco le loro teste dure. Mi pare quasi d'essere il direttore di una scuola di perfezionamento della foresta, sorta per insegnare alle tigri modi più gentili! Vi prego padre, ritenetemi sempre un domatore, e non un uccisore di tigri. Come potrebbero le mie buone azioni portarmi del male? Vi supplico di non impormi di mutare il mio modo di vivere". Chandi e io stavamo attentissimi, ben comprendendo l'antico dilemma. In India non è facile per un figlio disobbedire ai voleri del padre. "Mio padre ascoltò la mia spiegazione in stoico silenzio, e subito dopo disse gravemente: " - Figlio, tu mi obblighi a rivelarti una predizione funesta raccolta dalle labbra di un Santo, il quale mi si accostò ieri mentre sedevo sulla veranda, assorto nella mia quotidiana meditazione: 'Caro amico, vengo con un messaggio per il tuo combattivo figliolo. Fa' ch'egli ponga fine alla sua selvaggia attività, altrimenti nel suo prossimo scontro con le tigri verrà ferito gravemente e per sei mesi starà fra la vita e la morte. Dopo di che, egli abbandonerà la vita che ha condotto finora, e si farà monaco'. "Questa storia non m'impressionò affatto e pensai che mio padre fosse stato vittima di un fanatico visionario". Lo Swami delle Tigri fece questa confessione con un gesto d'impazienza, come se si trattasse di una vera sciocchezza. Rimase a lungo in un arcigno silenzio; sembrava quasi aver dimenticato la nostra presenza. Fu all'improvviso che riprese, a bassa voce, il filo interrotto del racconto. "Non molto tempo dopo l'avvertimento datomi da mio padre, mi recai nella capitale di Cooch Behar. Quel pittoresco paese era nuovo per me, e
speravo di trovare un po' di ristoro in quel cambiamento. Come dappertutto, una folla curiosa mi seguiva per le vie. Mi giungevano ogni tanto brani di commenti fatti a bassa voce: " - E' l'uomo che lotta con le tigri selvagge". " - Sono gambe, le sue, o tronchi d'albero?" " - Guardagli il viso! Deve essere proprio una incarnazione del re delle tigri" " - Sapete bene che i monelli di un villaggio sono come l'ultima edizione di un giornale! E con quale rapidità gli ultimi bollettini delle chiacchiere delle donne circolano di casa in casa! In poche ore tutta la città era piombata in uno stato di eccitazione a causa della mia presenza. "La sera, mentre mi rilassavo tranquillamente, udii uno scalpitio di cavalli al galoppo che si fermarono davanti alla casa dove abitavo. Entrarono vari poliziotti d'alta statura, con turbanti in testa. "Ne fui colpito. Pensai che tutto era possibile a quei rappresentanti della legge umana; chissà se mi avrebbero arrestato, accusandomi di cose che ignoravo? Ma le guardie mi salutarono con inusitata cortesia: " - Onorevole signore, siamo venuti per portarvi il benvenuto del Principe di Cooch Behar. Egli ha il piacere d'invitarvi al suo palazzo per domani mattina! "Rimuginai un po' su questo invito e non so perché mi rammaricai profondamente per quella brusca interruzione del mio tranquillo viaggetto. Ma le maniere gentili dei poliziotti mi persuasero, e accettai l'invito. "Il giorno dopo fui stupito di vedermi ossequiosamente scortato dalla mia porta a una magnifica carrozza a quattro cavalli. Un servo teneva aperto un ombrello ricamato per proteggermi dai cocenti raggi del sole. La passeggiata attraverso la città e i dintorni boscosi mi piacque molto. Il regale rampollo era a ricevermi alla porta del palazzo. Mi offrì il suo seggio di broccato e oro, mentre lui sedette sorridendomi, su una sedia molto più modesta. "Tutte queste cortesie mi costeranno certamente qualche cosa", pensavo sempre più meravigliato. Lo scopo del principe mi fu rivelato ben presto. " - In tutta la mia città corre voce che voi siete capace di combattere con le tigri senz'altra arma che le vostre mani nude. E' vero?". " - Si, è verissimo. " - Stento a crederlo! Siete un bengalese di Calcutta nutrito col riso bianco della gente di città. Siate sincero, dunque. Non avete forse combattuto con delle bestie indebolite e nutrite d'oppio? - Parlava a voce alta, con tono sarcastico e accento leggermente provinciale.
"Non risposi a questa domanda offensiva". " - Vi sfido a battervi con la mia tigre catturata di recente: Raja Begum. (Nota: Principe- principessa, così chiamata per indicare che la bestia possedeva la doppia ferocia della tigre maschio e femmina. Fine nota). Se riuscirete a resisterle con successo, a incatenarla e a uscire dalla gabbia in stato di perfetta coscienza, ve ne farò dono. E vi saranno offerti anche altri doni e parecchie migliaia di rupie. Se rifiutate di battervi con la mia tigre, io bollerò il vostro nome in tutto lo stato col marchio d'impostore! "Queste insolenti parole mi colpirono come una scarica di proiettili. Pieno di rabbia, accettai la sfida. Sollevato a metà dalla sedia per l'eccitazione, il principe vi ricadde con un sadico sorriso. Mi ricordai degli imperatori romani che godevano nel mandare i cristiani nelle arene del circo. " - L'incontro avrà luogo tra una settimana. Mi duole di non potervi permettere di vedere prima la tigre". "Forse il principe temeva ch'io potessi ipnotizzare la bestia o propinarle segretamente dell'oppio!" "Lasciai il palazzo osservando, divertito, che questa volta non vi era né ombrello regale, né carrozza con baldacchino. "Durante la settimana preparai con metodo mente e corpo alla prova che mi attendeva. Dal mio servo appresi i fantastici racconti che circolavano. La terribile predizione fatta dal Santo a mio padre era stata risaputa e si era arricchita strada facendo. Molti paesani credevano che uno spirito maligno, maledetto dagli dèi, si fosse incarnato in una tigre che di notte assumeva vari aspetti demoniaci, mentre durante il giorno era soltanto una belva screziata e si supponeva che questa tigre-demonio fosse proprio quella destinata a rovinarmi. Ed ecco un'altra fantastica versione: la preghiera rivolta dalle belve al Cielo delle Tigri era stata esaudita mettendo contro di me Raja Begum. Essa doveva essere lo strumento prescelto per punire me, il bipede audace che tanto offendeva l'intera specie delle tigri! Un uomo senza pelo né zanne che osava sfidare tigri dalle forti membra e munite di artigli! L'odio concentrato di tutte le tigri umiliate - così dicevano i paesani - aveva raggiunto ormai un'energia sufficiente per mettere in azione certe leggi misteriose che avrebbero provocato la sconfitta dell'orgoglioso domatore. "Altre informazioni avute dal mio servo mi portarono a conoscenza che il principe si trovava nel suo elemento dirigendo i preparativi per la prova tra l'uomo e la belva. Aveva sorvegliato personalmente la costruzione di un padiglione a prova d'assalto, destinato ad accogliere migliaia di spettatori. Al centro era situata
l'enorme gabbia in ferro di Raja Begum, circondata da un recinto di sicurezza. "La prigioniera emetteva continui ruggiti da agghiacciare il sangue. La nutrivano poco per suscitare in lei un furibondo appetito. Forse il principe sperava di poterla compensare offrendole in pasto la mia persona! "Una gran folla, venuta dalla città e dai sobborghi, si precipitava avidamente ad acquistare i biglietti seguendo il suono dei tamburi che annunziavano la straordinaria contesa. Il giorno fissato per la lotta vidi centinaia di persone tornare indietro per mancanza di posti. Molti si spinsero dentro attraverso le aperture delle tende o si affollavano in ogni luogo sotto le arcate". Man mano che il racconto dello Swami delle Tigri giungeva al suo punto culminante, la mia emozione aumentava; anche Chandi era in uno stato di muto rapimento. "Fra le possenti esplosioni dei ruggiti di Raja Begum e il tumulto della folla atterrita, io feci tranquillamente la mia apparizione. Indossavo solo una fascia intorno ai fianchi, senza altra veste per proteggermi. Aprii il catenaccio della porta che immetteva nel recinto di sicurezza, e con calma lo richiusi dietro di me. La tigre avvertì l'odore del sangue. Gettandosi contro le sbarre con uno schianto terribile mi lanciò uno spaventoso benvenuto. La folla ammutolì di pietosa paura; sembravo un mansueto agnellino dinanzi alla belva furente. "In un baleno mi trovai entro la gabbia; ne avevo appena richiusa la porta, che Raja Begum era già sopra di me. La mano destra mi fu orrendamente lacerata. Il sangue umano, la più squisita leccornia che una tigre conosca, scorreva a fiotti. La profezia del Santo pareva stesse per avverarsi in pieno. "Mi ripresi subito dallo shock prodottomi dalla prima seria ferita che avessi mai ricevuta. Nascondendo la mano insanguinata sotto la cintura feci scattare il braccio sinistro, assestando un colpo da rompere le ossa. La bestia vacillò, si ritrasse, girò vorticosamente in fondo alla gabbia, poi di nuovo si lanciò in avanti, convulsa. La mia famosa scarica di pugni le piovve sulla testa. Ma il sapore del sangue aveva agito su Raja Begum come il primo sorso di vino su un dipsomaniaco, privo da tempo di alcool; sembrava impazzita. Punteggiati da assordanti ruggiti, gli assalti della belva divennero sempre più furibondi. "La mia difesa, inadeguata dato che potevo usare una sola mano, mi rendeva vulnerabile di fronte a zanne e artigli. Tuttavia la ripagai in modo terribile. Entrambi sanguinanti, combattevamo una lotta per la vita. Nella
gabbia c'era il pandemonio; il sangue spruzzava in tutte le direzioni, e feroci esplosioni di dolore e di brama di uccidere uscivano dalla gola della belva. " - Sparatele! Uccidete la tigre! - urlavano gli spettatori. L'uomo e la belva si muovevano con tale rapidità che il colpo di moschetto di una guardia andò perduto. Radunai tutta la mia forza di volontà, lanciai un urlo feroce e misi a segno un decisivo colpo finale. La tigre si abbatté al suolo e lì giacque, tranquilla". "Come un micino!"- Interruppi. Lo Swami rise di cuore a questo mio commento e continuò a narrare la sua appassionante storia. "Raja Begum finalmente era vinta. Il suo regale orgoglio venne umiliato ancor più, perché con le mie mani lacerate le aprii audacemente le fauci. Durante un drammatico istante tenni la mia testa fra quelle mascelle apportatrici di morte. Mi volsi intorno in cerca di una catena: ne trassi una da un mucchio che giaceva in terra, la cinsi al collo della tigre e legai l'altro capo alle sbarre della gabbia. E, trionfante, mi incamminai verso la porta. "Ma Raja Begum, quel diavolo incarnato, aveva poteri di riserva degni della sua supposta origine demoniaca. Con un incredibile balzo schiantò la catena e mi assalì alla schiena. Con una spalla tra le sua mascelle caddi violentemente a terra. In un batter d'occhio però, riuscii a immobilizzarla sotto di me, e menando implacabili colpi abbattei, sino a ridurlo in uno stato di semi-incoscienza, l'animale traditore. Questa volta lo legai con maggiore attenzione e uscii lentamente dalla gabbia. "Mi trovai in mezzo a un nuovo tumulto, ma questa volta di gioia. Le acclamazioni della folla scoppiarono come da un'unica gigantesca gola. Pur disastrosamente conciato, avevo ottemperato alle tre condizioni della lotta: stordire la tigre, incatenarla e lasciarla lì, senza chiedere aiuto di sorta. In più, avevo così vigorosamente colpito e impaurito la belva aggressiva che essa aveva perfino trascurato di cogliere il premio della mia testa tra le sue fauci! "Bendate che furono le mie ferite, mi vennero tributati onori e fui inghirlandato. Centinaia di monete d'oro piovvero ai miei piedi. L'intera città fu in festa. Discussioni senza fine si accesero da ogni parte sulla vittoria da me ottenuta su una delle più grandi e feroci tigri che si fossero mai viste al mondo. Come mi era stato promesso, ebbi in dono Raja Begum, ma non ne provai alcuna gioia. Un mutamento spirituale era avvenuto nel mio animo. Sembrava che, uscendo da quella gabbia, io mi fossi chiuso alle spalle anche la porta delle mie ambizioni terrene.
"Seguì un periodo dolorosissimo. Per sei mesi restai tra la vita e la morte per un avvelenamento del sangue. Appena fui in grado di lasciare Cooch Behar, tornai alla mia città natale. "So adesso, - dissi umilmente a mio padre, - che il mio Maestro deve essere il Santo che vi dette quel saggio avvertimento! Oh! Se solo potessi ritrovarlo! - Il mio desiderio era sincero, perché infatti un giorno il Santo giunse senza essere chiamato. " - Basta col domare le tigri! - disse con serena sicurezza. - Vieni con me, t'insegnerò come soggiogare le belve dell'ignoranza che errano nella giungla dell'animo umano. Sei abituato agli spettatori: che essi siano uno stuolo di agnelli e si rallegrino della tua stupefacente maestria nello yoga! "Fui iniziato al sentiero spirituale del mio santo Guru. Egli aprì le porte della mia anima arruginite e bloccate dal lungo disuso. Tenendoci per mano, ben presto partimmo per iniziare la mia educazione sull'Himalaya". Chandi e io c'inchinammo ai piedi del Maestro, nel gesto di riverenza che è vecchio quanto le Scritture antiche dell'India, e lo ringraziammo per averci narrato così vivacemente la sua ciclonica vita. Così il mio amico ed io fummo largamente ripagati della lunga attesa probatoria nel freddo salottino!
CAPITOLO VII IL SANTO DELLA LEVITAZIONE "Ieri sera in una riunione di gruppo, ho visto uno yoghi che si sollevava a vari piedi da terra e restava sospeso in aria". Il mio amico Upendra Mohun Chowdhury, così dicendo, sembrava impressionato. Gli risposi con un sorriso entusiasta. "Forse posso indovinare il suo nome; non era Bhaduri Mahasaya, che abita nella Upper Circular Road?" Upendra fece cenno di si, un po' rammaricato di non darmi una notizia nuova. Il mio interesse per i Santi era ben conosciuto dai miei amici, ed essi erano sempre felici di potermi mettere su una nuova pista. "Lo Yoghi vive tanto vicino a casa mia che vado spesso da lui". Sul viso di Upendra comparve un interessamento così vivo che gli feci un'altra confidenza. "Gli ho visto fare degli esperimenti notevoli; egli è completamente padrone dei vari pranayama (Nota: Modo di controllare la forza vitale (prana) mediante la regolazione del respiro. Il pranayama Bhastrika (Mantice) rende la mente ferma. Fine nota) contenuti negli antichi otto metodi Yoga descritti da Patanjiali (Nota: Il più grande antico esponente dello Yoga. Fine nota). Una volta Bhaduri Mahasaya compì dinanzi a me il Bhastrika Pranayama con forza così stupefacente, da sembrare che una vera tempesta si fosse scatenata nella stanza! Poi frenò il tuonante respiro e rimase immobile, immerso in un altissimo stato di supercoscienza (Nota: Il professor Jules Bois della Sorbona disse nel 1928 che psicologi francesi avevano studiato e riconosciuto in pieno la supercoscienza la quale, nella sua grandiosa entità, "è precisamente il contrario del subcosciente di Freud, e racchiude quelle facoltà che rendono l'uomo veramente uomo e non solamente un superanimale". Lo scienziato francese spiegò che il risveglio della coscienza superiore "non deve essere confuso col couèismo né con l'ipnotismo. L'esistenza di una mente supercosciente è stata da lungo tempo riconosciuta dalla filosofia, poiché in realtà è la Super-Anima di cui parla Emerson; ma solo recentemente le si è dato un riconoscimento scientifico". In "The Over-Soul" (la Super-Anima), Emerson scrisse: "L'uomo è la
facciata di un tempio in cui risiede tutta la saggezza e tutto il bene. Ciò che comunemente chiamiamo uomo, l'uomo che mangia, beve, pianta, fa di conto, non rappresenta così come lo conosciamo, se stesso, ma distorce la propria immagine. Noi non rispettiamo lui; ma l'anima di cui egli è l'organo, ci farebbe piegare il ginocchio in venerazione se la lasciasse apparire attraverso le sue azioni... Con una parte del nostro essere noi siamo aperti alle profondità della natura spirituale, a tutti gli attributi di Dio". L'aura di pace che sopravvenne, dopo la tempesta era così vivida da restare davvero indimenticabile". "Ho inteso dire che il Santo non esce mai di casa". Il tono di Upendra era piuttosto incredulo. "E' proprio vero! E' vissuto in casa durante gli ultimi venti anni. Nel periodo delle sante feste rallenta un poco il rigore della regola che si è imposta e si reca fino al marciapiede di fronte. Là si raccolgono i poveri, perché il Santo Bhaduri è conosciuto per il suo buon cuore". "Come mai può restare sospeso in aria, sfidando la legge di gravità?". "Il corpo di uno yoghi perde la sua densità dopo aver praticato certi particolari pranayama. Allora può levitare o saltare come una rana. Si conoscono perfino dei santi che non praticarono uno yoga vero e proprio, eppure conobbero la levitazione durante stati di intenso rapimento in Dio". "Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su quel Saggio. Vai la sera alle sue riunioni?". Gli occhi di Upendra brillavano di curiosità. "Si, ci vado spesso; mi piace molto l'umorismo che pervade la sua saggezza. A volte le mie prolungate risate turbano la solennità delle sue riunioni. Il Santo non se ne dispiace, ma i suoi discepoli mi fulminano con lo sguardo". Quel pomeriggio tornando a casa da scuola, passai dinanzi al chiostro di Bhaduri Mahasaya e decisi di fargli una visita. Lo Yoghi era in generale inaccessibile al pubblico. Un solitario discepolo abitante al piano terreno vigilava sulla solitudine del Maestro. Questo studente era un po' pignolo sulle formalità. Mi chiese se avevo "appuntamento"; ma il suo Guru in quel momento comparve, risparmiandomi un'espulsione sommaria. "Lascia che Mukunda venga quando vuole". Gli occhi del vecchio Saggio ammiccavano. "La mia regola d'isolamento non è per la comodità mia, ma per quella degli altri. La gente del mondo non ama la schiettezza che disperde le loro illusioni. I santi non sono solo rari, ma sconcertanti. Perfino nelle sante Scritture, a volte, ci mettono in imbarazzo".
Seguii Bhaduri Mahasaya nelle sue austere stanze all'ultimo piano, da cui si muoveva raramente. I Maestri spesso ignorano il panorama degli eventi del mondo, che si mantengono sfocati ai loro occhi finché non sono centrati nei secoli. I contemporanei di un saggio non sono soltanto quelli del limitato presente. "Maharishi, siete il primo yoghi ch'io conosca che sta sempre in casa" (nota: Maharishi = Grande saggio. Fine nota). "Dio pianta a volte i suoi santi in terreni imprevisti, affinché non pensiamo di poter costringere Dio entro una regola". Il Santo raccolse il suo corpo vibrante nella posizione del Loto. Malgrado i suoi settant'anni, egli non mostrava spiacevoli segni di vecchiaia né di vita sedentaria. Robusto e diritto, era una figura ideale sotto ogni riguardo. Il suo viso era quello di un rishi, quale vien descritto negli antichi testi. Nobile testa, barba folta, sedeva sempre ben eretto mentre i suoi calmi occhi fissavano l'onnipresente. Il Santo ed io entrammo nello stato beato della meditazione. Dopo un'ora la sua voce gentile mi destò: "Spesso ti sprofondi nel silenzio, ma hai sviluppato in te l'anubhava"? Il Santo mi ricordava che si deve amare Dio più della meditazione. "Non confondere la tecnica con la Mèta". Mi offrì dei frutti di mango. Con quella vena umoristica che io trovavo così deliziosa nel suo carattere serio, osservò: "La gente in genere ama più il Jala Yoga (unione con gli alimenti) che il Dhyna Yoga (unione con Dio)". La sua battuta yoga provocò in me un tumulto di risa. Il suo viso era sempre serio, eppure sfiorato da un estatico sorriso. I suoi grandi occhi di loto celavano un riso divino. "Quelle lettere giungono dalla lontana America". Il Saggio m'indicò molte grosse buste che giacevano sulla tavola. "Sono in corrispondenza con alcune società i cui membri s'interessano allo yoga. Stanno scoprendo un'altra volta l'India, ma con un miglior senso d'orientamento di quello che aveva Colombo! Sono lieto di aiutarli. La conoscenza dello yoga come la luce del giorno, è offerta liberamente a tutti coloro che sono pronti a riceverla. "Quello che i rishi consideravano indispensabile per l'umana salvezza non ha bisogno d'essere diluito per l'Occidente, poiché nell'anima, nonostante la diversità delle apparenze esteriori, Oriente e Occidente sono eguali e non potranno prosperare se non seguono una qualsiasi forma di disciplina yoga". Il Santo mi fissava con occhi tranquilli. Non mi accorsi che il suo discorso era una velata guida profetica; solo adesso, mentre trascrivo queste parole, comprendo appieno il significato delle allusioni casuali con le quali
egli spesso mi ripeteva che un giorno avrei portato in America gli insegnamenti dell'India. "Maharishi, vorrei che scriveste un libro sullo yoga, per il bene del mondo". "Io ammaestro discepoli. Essi e la discendenza dei loro allievi saranno libri viventi, inattaccabili dalle naturali disintegrazioni provocate dal tempo e dalle elaborate interpretazioni dei critici". Alle sue spiritose parole scoppiai un'altra volta in una risata. Rimasi solo con lo Yoghi fino a sera, quando giunsero i suoi discepoli. Bhaduri Mahasaya iniziò uno dei suoi inimitabili discorsi. Come una pacifica marea, egli spazzò via i detriti mentali dei suoi ascoltatori, trasportandoli verso Dio. Le sue singolari parabole erano dette in perfetto bengali. Quella sera Bhaduri Mahasaya espose vari argomenti filosofici in rapporto alla vita di Mirabai, una principessa medievale Rajputani che abbandonò la vita di corte per cercare la compagnia dei sadhu. Un grande sannyasi rifiutò di riceverla, perché ella era una donna; ma la sua risposta glielo condusse umilmente ai piedi: - Dite al Maestro che non sapevo che vi fossero altri Maschi nell'Universo fuorché Dio; non siamo tutti femmine dinanzi a Lui? (Un concetto di Dio che si trova nelle Scritture, nelle quali Egli viene designato quale Unico Principio Positivo Creativo, non essendo la Sua creazione altro che una maya passiva) (Nota: "Dio solo è vita; tutte le Sue creature devono tendere al ritorno in Lui. Man mano che un essere umano impara a manifestare le virtù 'femminili': umiltà, altruismo, devozione e amore incondizionato, guadagna la sua vita inoltrandosi sempre più vicino al cuore dell'Amante Eterno. 'Chiunque s'innalza sarà abbassato e chiunque si abbassa sarà innalzato" (Luca, 14,11). Fine nota). Mirabai compose molte ispirate canzoni, che ancor oggi in India vengono tenute in gran conto. Ne traduco qui una: 'Se facendo il bagno ogni giorno si potesse essere in Dio, vorrei essere una balena nel profondo mare; Se mangiando frutta e radici si potesse conoscerLo, felice io sceglierei la forma di una capra. Se contando i grani del rosario si potesse scoprirLo, direi le mie orazioni su rosari immensi. Se inchinandosi alle immagini di pietra si potesse svelarLo, adorerei umilmente una montagna pietrosa.
Se bevendo latte si potesse assorbire il Signore, molti vitelli e molti bimbi Lo conoscerebbero. Se l'abbandonare la propria donna chiamasse il Signore, migliaia di uomini diverrebbero eunuchi. Mirabai sa che per trovare il Divino l'unica cosa indispensabile è l'Amore.' Molti allievi misero delle rupie nelle pantofole di Bhaduri posate al suo fianco, mentre egli era seduto nella posizione yoga. Questa offerta rispettosa, abituale in India, vuole indicare che il discepolo mette ai piedidel Guru i suoi beni materiali. Gli amici riconoscenti non sono altro che il Signore travestito che vigila sul suo gregge. "Maestro, siete meraviglioso!". Un allievo, prendendo congedo, guardava con ardore il Santo venerabile. "Avete rinunciato alla ricchezza e al benessere per cercare Dio e insegnarci la saggezza". Ben si sapeva che Bhaduri Mahasaya aveva abbandonato una grande ricchezza ancora fanciullo quando, fisso in un unico pensiero, aveva intrapreso il sentiero yoga. "Voi invertite la situazione!". Il viso del Santo esprimeva un mite rimprovero. "Ho lasciato poche miserabili rupie, qualche minuscolo piacere, per un impero cosmico di felicità infinita. Come, dunque, mi sarei negato qualche cosa? Io conosco la gioia di dividere con gli altri la mia ricchezza: è questo dunque un sacrificio? Coloro che vivono nel mondo e che hanno la vista corta sono i veri rinuncianti! Essi cedono un impareggiabile bene divino per una misera manciata di balocchi terreni!". Risi a questo paradossale modo di considerare la rinuncia: un modo che mette il cappuccio di Creso su ogni santo mendicante e trasforma tutti gli orgogliosi milionari in martiri inconsapevoli. "L'ordinamento divino dispone per il nostro futuro più saggiamente di qualsiasi società d'assicurazioni". Le ultime parole del Maestro erano il credo sperimentato della sua fede. "Il mondo è pieno di inquieti e malsicuri credenti nella sicurezza esteriore. I loro amati pensieri sono come cicatrici sulle loro fronti. Colui che ci diede l'aria e il latte fin dal nostro primo respiro, sa come provvedere giorno per giorno ai suoi fedeli". Continuai il mio pellegrinaggio alla porta del Santo ogni giorno dopo la scuola. Con silenzioso zelo egli m'aiutò a conseguire l'anubhava. Ma un giorno se ne andò ad abitare in via Ram Mohan Roy, lontano dalla mia casa. I suoi discepoli gli avevano costruito un nuovo eremitaggio, noto sotto il nome di "Nagendra Math".
Sebbene quanto dirò anticipi di qualche anno il mio racconto cito qui le ultime parole che mi disse Bhaduri Mahasaya. Poco prima di imbarcarmi per l'Occidente andai a trovarlo e umilmente m'inginocchiai dinanzi a lui per ottenere la sua benedizione d'addio: "Figlio, va' in America. Ti sia scudo la dignità dell'antica India. La vittoria è scritta sulla tua fronte. Il nobile popolo lontano ti accoglierà degnamente". (Nota: Nagendra Math = Il nome completo del Santo era Nagendranath Bhaduri. Un math, è strettamente parlando, un monastero, ma il termine viene spesso applicato anche a un ashram o eremitaggio. Fra i numerosi santi cristiani che furono visti in levitazione, vogliamo nominare sant'Agnese da Montepulciano (m. nel 1317), santa Caterina da Siena (m. nel 1380), santa Teresa d'Avila (m. nel 1582), san Giuseppe da Copertino (m. nel 1633). Il mantello di sant'Agnese, quando ridiscendeva sulla terra dopo la levitazione, era spesso ricoperto da una manna simile a neve. San Giuseppe da Copertino, le cui gesta furono ampiamente documentate da testimoni oculari, andava soggetto a una terrena assenza di spirito che era in realtà una concentrazione nella memoria divina. I suoi confratelli non potevano permettergli di servire alla mensa comune, per paura ch'egli ascendesse al soffitto con tutte le stoviglie. Questo Santo era infatti singolarmente disadatto alle mansioni terrene a causa della sua incapacità di rimanere a lungo sulla terra! Spesso, la vista di una statua sacra era sufficiente a innalzare san Giuseppe in un volo perpendicolare, i due santi quello di carne e ossa e quello di pietra, si vedevano allora circolare insieme nell'aria. Teresa d'Avila, la santa dalla grande elevazione d'anima, trovava l'elevazione fisica assai sconcertante. Oberata da gravi responsabilità organizzative, ella tentava invano di sottrarsi alle sue "inalzanti" esperienze. "Ma, - ella scriveva - nessuna precauzione è efficace quando Nostro Signore vuole altrimenti". Il corpo di santa Teresa, che giace in una chiesa ad Alba, in Spagna, è rimasto incorrotto per ben quattro secoli ed emana un profumo di fiori. In quel luogo avvennero innumerevoli miracoli. Fine nota).
CAPITOLO VIII IL GRANDE SCIENZIATO INDIANO J. C. BOSE "Nell'invenzione del telegrafo senza fili, Jagadis Chandra Bose precedette Marconi". Questa azzardata asserzione, che giunse al mio orecchio da un gruppo appartato di professori impegnati in una discussione scientifica, mi spinse ad avvicinarmi a loro. Se il motivo fu l'orgoglio di razza, me ne dispiace. Non posso negare, però, che m'interessava vivamente avere la prova che l'India può avere una parte di primo piano nelle scienze fisiche, e non soltanto in quelle metafisiche. "Che intendete dire, signore?" Con grande cortesia il professore mi spiegò: "Bose fu il primo a inventare un radioconduttore senza fili e uno strumento per indicare la rifrazione delle onde elettromagnetiche. Ma lo scienziato indiano non ha mai sfruttato commercialmente le sue invenzioni. Ben presto egli ha rivolto la sua attenzione dal mondo inorganico a quello organico. Le sue scoperte rivoluzionarie quale fisiologo delle piante superano perfino l'importanza dei suoi lavori nel campo della fisica". Ringraziai cortesemente il mio amabile informatore. Ed egli aggiunse: "Il grande scienziato è mio collega all'Università di Presidency". Il giorno seguente mi recai a visitare il grande scienziato nella sua casa situata vicino alla mia, nella Gurpar Road. Da tempo l'ammiravo a rispettosa distanza. Il severo e solitario botanico mi accolse amabilmente. Era un bell'uomo robusto, sulla cinquantina, con folti capelli, una larga fronte e gli occhi assorti di un sognatore. La precisione delle sue parole rivelava l'abito scientifico di tutta una vita. "Sono appena tornato da una spedizione scientifica in Occidente. Gli studiosi di laggiù hanno mostrato un grandissimo interesse per i delicati strumenti di mia invenzione, che dimostrano l'indivisibile unità della vita (Nota: Qualsiasi scienza è trascendentale, altrimenti scompare. La Botanica sta ora mettendosi su questo piano teorico; gli avatar di Brahma saranno adesso i libri di testo della storia naturale" (Emerson). Fine nota)
Il crescografo Bose consente un ingrandimento di dieci milioni di volte. Il microscopio ingrandisce solo di qualche migliaio di volte, eppure ha dato alla scienza biologica un impulso vitale. Il crescografo apre incalcolabili prospettive". "Avete fatto molto per acelerare l'avvicinamento fra Oriente e Occidente con le braccia impersonali della scienza", gli dissi. "Sono stato educato a Cambridge. Come è ammirevole il metodo occidentale di sottoporre qualsiasi teoria a una scrupolosa verifica sperimentale! Tale procedimento empirico è andato in me di pari passo con il dono dell'introspezione, che rappresenta la mia eredità orientale. Le due cose unite mi hanno permesso di sondare i silenzi dei regni naturali, tanto a lungo inesplorati. I grafici rivelatori ottenuti col mio crescografo mettono in evidenza, anche per i più scettici, che le piante posseggono un sistema nervoso sensitivo e una vita emotiva complessa. Amore, odio, gioia, timore, piacere, dolore, eccitabilità, stupore e innumerevoli altre adeguate reazioni ai vari stimoli sono universali, nelle piante come negli animali". "Il fremito unico di vita che pervade tutta quanta la creazione poteva sembrare solo una fantasia poetica prima della vostra invenzione, professore! Un Santo che conobbi una volta non voleva mai cogliere fiori. Deprederò io il rosaio dell'orgoglio della sua bellezza? Posso con la mia crudele e brutale spoliazione offendere la sua dignità? - Le sue parole pietose diventano verità tangibili con le vostre scoperte!". "Il poeta conosce intimamente la verità, mentre lo scienziato vi si avvicina titubante e maldestro. Venite un giorno nel mio laboratorio a vedere l'inequivocabile testimonianza del mio crescografo". Grato, accettai l'invito e presi congedo. Seppi in seguito che il professor Bose aveva lasciato l'Università di Presidency e progettava di istituire un centro di ricerche a Calcutta. Assistetti all'inaugurazione dell'Istituto Bose. Una folla entusiasta visitò tutti gli impianti. Fui affascinato dalla bellezza e dal simbolismo spirituale del nuovo edificio scientifico. Il cancello principale, notai, era formato da antichi frammenti di un remoto santuario. Dietro lo stagno dei loti si ergeva una scultura rappresentante una donna con una torcia in mano. Essa esprimeva il rispetto che si ha in India per la donna quale immortale apportatrice di luce. Nel giardino era stato costruito un tempietto dedicato al Noumeno al di là del Fenomeno. Il pensiero della divina incorporeità era simboleggiato dall'assoluta mancanza d'immagini sacre. In questa occasione solenne, il discorso che Bose pronunciò, avrebbe potuto sgorgare dalle labbra di un ispirato, antico rishi. (Nota: Il fiore del Loto è un antico e divino simbolo in India. I suoi petali che si schiudono suggeriscono l'idea
dell'espansione dell'anima. Lo sbocciare della sua pura bellezza dal fango delle sue origini contiene una dolce promessa spirituale. Fine nota). "Inauguro oggi questo istituto non come un semplice laboratorio, ma come un tempio. La reverente solennità delle sue parole si distese quasi come un manto invisibile sulla folla dei presenti. "Nel corso delle mie ricerche, sono giunto inconsapevolmente al limite tra la fisica e la fisiologia. Con mia somma meraviglia trovai che le linee di separazione svanivano, e emergevano invece i punti di contatto con i reami del vivente e del nonvivente. La materia inorganica veniva percepita come una cosa tutt'altro che inerte; essa palpitava tutta sotto l'azione d'innumerevoli forze. "Una reazione universale sembrava porre metalli, piante e animali sotto una legge comune: essi presentavano tutti gli stessi fenomeni fondamentali di stanchezza e di depressione, con possibilità di recupero e di esaltazione, e si notava in loro anche la perenne mancanza di reattività che si associa alla morte. Pieno di rispettosa emozione dinanzi a tale stupenda generalizzazione, animato da grandi speranze presentai i miei risultati alla Royal Society: risultati avvalorati da esperimenti. Ma i fisiologi presenti mi consigliarono di limitare le mie ricerche al campo della fisica in cui i miei successi erano già noti, invece di invadere il loro terreno. Senza volerlo ero penetrato in un sistema di caste a me estraneo, offendendone la rigida etichetta. "Erano in gioco anche inconsci pregiudizi teologici, che confondono l'ignoranza con la fede. Spesso si dimentica che Colui che ci circonda con il grande mistero della creazione in continuo sviluppo, ha anche radicato in noi il desiderio di chiedere e di comprendere. Attraverso molti anni d'incomprensione mi sono infine convinto che la vita di colui che si vota alla scienza è inevitabilmente piena di lotte senza fine. Egli deve dare la sua vita come un'ardente offerta, in cui il vincere o il perdere, il successo o l'insuccesso, sono tutt'uno. "Ormai le principali società scientifiche del mondo hanno accettato le mie teorie e i risultati da me raggiunti, e hanno riconosciuto l'importante contributo dato dall'India alla scienza (Nota: "Al presente, solo il puro caso porta l'India a conoscenza d'uno studente universitario americano. Otto Università (Harward, Yale, Columbia, Princeton, Johns, Hopkins, Pennsylvania, Chicago e California) posseggono cattedre di Indologia e di Sanscrito, ma l'India è pressoché ignorata dalle facoltà di storia, filosofia, belle arti, scienze politiche e sociali, o qualsiasi altro campo intellettuale in cui, come abbiamo visto, l'India ha portato larghi contributi... Crediamo perciò che nessuna facoltà, specialmente umanistica, in una grande
università possa essere completa senza un professore specializzato in quel settore delle due discipline che riguarda l'India. Crediamo pure che ogni istituzione che voglia preparare i suoi studenti ad un lavoro intelligente nel mondo in cui dovranno vivere, debba avere nel corpo insegnante un cultore competente della civiltà indiana". Estratto da un articolo del prof. W. Norman Brown dell'Università di Pennsylvania, che fu pubblicato nel maggio 1939 nel Bollettino del Consiglio Americano delle Società Culturali, 907 15th Street, Washington, D.C. Questo numero contiene più di 100 pagine di una Bibliografia-base per studi indiani. (Recentemente le università del Kentucky e di Washington, di Cornell e Colgate hanno inserito nei loro corsi degli studi sull'India). Fine nota) Può una qualsiasi nozione ristretta e circoscritta appagare la mente indiana? In forza di una continua, viva tradizione e di un vitale potere di ringiovanimento, il nostro paese è sempre riuscito a rimettersi in sesto attraverso innumerevoli trasformazioni. Vi sono sempre stati degli indiani i quali trascurando l'ebbrezza dell'immediato successo, hanno cercato di realizzare i più alti ideali della vita, non attraverso la rinunzia passiva, ma lottando strenuamente. Il debole che si è sottratto alla lotta e non ha conquistato nulla, non ha niente a cui rinunciare. Solo colui che ha lottato e vinto può arricchire il mondo, offrendogli i frutti della sua vittoriosa esperienza. "Il lavoro già compiuto nel Laboratorio Bose sulla relatività della materia e le inattese rivelazioni sulla vita delle piante hanno aperto un vastissimo campo di ricerche nella fisica, nella fisiologia, nella medicina, nell'agricoltura e perfino nella psicologia. Problemi prima considerati insolubili sono stati portati nella sfera delle ricerche sperimentali. "Ma non è possibile ottenere grandi risultati senza un'assoluta esattezza. Ecco perciò la lunga batteria di strumenti super-sensibili, e di apparecchi di mia invenzione che oggi vedete nella sala d'ingresso entro le loro custodie. Essi vi parlano dei lunghi sforzi compiuti per penetrare al di là dell'illusoria apparenza, nella realtà che rimane invisibile; di tutto il lavoro, la tenacia e l'ingegnosità messi in opera per superare le limitazioni umane. Tutti i veri scienziati che creano, sanno che il vero laboratorio è la mente dove, dietro le illusioni, essi scoprono le leggi della verità. "Le conferenze che si terranno qui non saranno semplici esposizioni di fatti appresi di seconda mano. Annunzieranno invece nuove scoperte che saranno dimostrate per la prima volta in queste aule. Mediante regolari pubblicazioni sul lavoro svolto dall'Istituto, il contributo indiano alla cultura
universale sarà conosciuto in tutto il mondo. Esso diventerà proprietà pubblica. Non si prenderà mai alcun brevetto. Lo spirito della cultura nazionale esige che noi rimaniamo sempre liberi dal'esecranda abitudine di utilizzare le nostre conoscenze solo per un profitto personale. "Desidero inoltre che le agevolazioni offerte da questo Istituto siano a disposizione - per quanto è possibile - degli studiosi di tutti i paesi. In tal modo cerco di continuare la tradizione del mio paese. Già venticinque secoli fa, l'India accoglieva nelle sue antiche università di Nalanda e di Taxila studiosi provenienti da tutte le parti del mondo. "Sebbene la scienza non sia un monopolio né dell'Oriente né dell'Occidente, ma sia internazionale nella sua universalità, l'India è specialmente adatta per apportarvi un vasto contributo. La fervida immaginazione indiana che può trarre nuove leggi da una massa di fatti in apparenza contraddittori, è tenuta sotto controllo dell'abitudine alla concentrazione. Questo freno conferisce la facoltà di mantenere la mente con pazienza infinita sul sentiero della ricerca della verità". (Nota: La struttura atomica della materia era ben nota agli antichi Indù. Uno dei sei sistemi della filosofia indiana è il Vaisesika, dalla radice sanscrita visesas, "individualità atomica". Uno dei maggiori esponenti del Vaisesika fu Aulukya, chiamato anche Kanada, "il mangiatore dell'atomo", nato circa 2800 anni fa. In un articolo di "East-West" dell'aprile 1934, un sunto delle conoscenze scientifiche del Vaisesika fu dato nel modo seguente: "Sebbene la teoria atomica moderna sia comunemente considerata un progresso scientifico, essa fu brillantemente esposta molti, moltissimi anni fa da Kanada, il mangiatore dell'atomo. L'espressione sanscrita anus può essere appropriatamente tradotta in 'atomo' nel senso letterale greco di 'nonsezionato', o 'indivisibile'. Fra le esposizioni scientifiche del trattato Vaisesika dell'era prima di Cristono sono da menzionare: 1) i movimenti degli aghi verso i magneti, 2) la circolazione dell'acqua nelle piante, 3) l'akash o etere, inerte e senza struttura, quale base per il mondo delle forze sottili, 4) il fuoco solare quale causa d'ogni altra forma di calore, 5) il calore quale causa di mutamenti molecolari, 6) la legge di gravità causata dalla qualità inerente agli atomi della terra, tale da dar loro un potere d'attrazione o trazione verso il basso, 7) la natura cinetica d'ogni energia, e ogni causa sempre radicata in un dispendio di energia o una ridistribuzione del movimento, 8) la dissoluzione universale a causa della disintegrazione degli atomi, 9) la radiazione di raggi di calore e di luce, particelle infinitamente piccole che si lanciano in ogni direzione con inconcepibile velocità ('la
teoria moderna dei raggi cosmici'), 10) la relatività del tempo e dello spazio. Il Vaisesika attribuì l'origine del mondo agli atomi, eterni nella loro natura, e cioé nella loro ultima essenza. Si consideravano questi atomi come dotati di un incessante movimento vibratorio. La recente scoperta che un atomo è un sistema solare in miniatura, non sarebbe affatto una novità per gli antichi filosofi Vaisesika, che ridussero anche il tempo al suo estremo concetto matematico descrivendo la più piccola unità di tempo (kala) come il periodo impiegato da un atomo per attraversare la propria unità di spazio". Fine nota) Alle ultime parole dello scienziato mi vennero le lacrime agli occhi. La "pazienza" non è forse un sinonimo dell'India, che sconcerta sia il Tempo che gli storici? Visitai di nuovo il Centro di Ricerche qualche giorno dopo l'inaugurazione. Il grande botanico, rammentando la promessa fattami, mi condusse nel suo tranquillo laboratorio. "Applicherò il crescografo a questa felce; essa diventerà enorme. Se lo strisciare di una lumaca venisse amplificato nelle stesse proporzioni ci sembrerebbe di vederla filare come un treno espresso". Il mio sguardo era fisso sullo schermo che rifletteva l'ombra ingigantita dellafelce. Ora si vedevano chiaramente i minutissimi movimenti vitali; lo scienziato ne toccò la cima con una piccola sbarra di ferro: la pantomima che si stava svolgendo si arrestò bruscamente e riprese il suo ritmo eloquente non appena la sbarretta venne ritirata. "Avete visto come la più piccola interferenza esterna è nociva ai sensibilissimi tessuti", mi fece rilevare Bose. "Osservate: ora somministrerò alla pianta del cloroformio e poi un antidoto". L'effetto del cloroformio arrestò la crescita; l'antidoto la riattivò. L'andamento dello sviluppo che appariva sullo schermo mi teneva avvinto più di un film dal complicato intreccio. Il mio compagno (che ora aveva assunto la parte dell' "uomo cattivo"), inferse alla felce un colpo con uno strumento tagliente. Spasmodiche contrazioni indicarono il dolore. Quando egli infilò un rasoio nel gambo, l'ombra si agitò con violenza, poi si arrestò con i sobbalzi finali della morte. "Sono riuscito a trapiantare con successo un enorme albero, cloroformizzandolo. In genere questi re della foresta muoiono assai presto, quando sono stati rimossi dal luogo d'origine. Jagadis sorrideva contento mentre raccontava la sua manovra di salvamento. "I grafici del mio sensibilissimo apparecchio provano che gli alberi posseggono un sistema circolatorio; i movimenti della loro linfa corrispondono alla pressione sanguigna del corpo animale. L'ascesa della
linfa non è spiegabile mediante i concetti meccanici comunemente ammessi, quale, ad esempio, l'attrazione capillare. Il fenomeno è stato spiegato per mezzo del crescografo come un'attività di cellule vitali. Le onde peristaltiche vengono emesse da un tubo cilindrico che si estende lungo l'albero e funziona da cuore! Più profonde sono le nostre percezioni, più diventa per noi chiaro che un ordine unico abbraccia ogni forma della multiforme natura". Il grande scienziato m'indicò un altro suo strumento. "Vi mostrerò degli esperimenti su di un pezzo di stagno. La forza vitale nei metalli risponde agli stimoli sia in modo positivo che negativo. Dei tracciati a inchiostro registreranno le varie reazioni". Affascinato, fissavo il grafico che registrava le caratteristiche onde della struttura atomica. Quando il professore applicava del cloroformio sullo stagno, i grafici vibratori si arrestavano; ricominciavano non appena il metallo riprendeva lentamente il suo stato normale. Il professore propinò una sostanza chimica velenosa: col cessare dell'ultimo brivido dello stagno, l'ago descrisse sul foglio un tragico segno di morte. "Gli strumenti Bose hanno dimostrato che i metalli, quale ad esempio l'acciaio usato per le forbici e i macchinari, sono soggetti a stanchezza, e riprendono la loro efficienza dopo un periodico riposo. Il polso vitale dei metalli viene seriamente danneggiato e perfino distrutto dall'applicazione di correnti elettriche o di un'alta pressione. Mi guardai intorno per la stanza dov'erano raccolte le numerose invenzioni, eloquenti testimonianze di un'instancabile genialità. "Signore, è davvero un peccato che il progresso agricolo non venga accelerato mediante un più largo uso delle vostre meravigliose macchine. Non sarebbe possibile impiegare alcune di esse in rapidi esperimenti di laboratorio per stabilire l'influenza dei vari tipi di concimi sullo sviluppo delle piante?". "Avete ragione, le future generazioni useranno in infiniti modi gli strumenti Bose. Lo scienziato ottiene raramente un riconoscimento dai contemporanei. La gioia di aver creato qualcosa di utile deve bastare". Presi congedo dall'infaticabile Saggio con espressioni d'illimitata gratitudine, pensando: - La sua meravigliosa fertilità d'ingegno potrà mai esaurirsi? Gli anni non la diminuirono. Con l'invenzione di un complicato strumento, "il cardiografo sonoro", Bose compì molte ricerche su innumerevoli piante indiane. Si rivelò così un'enorme e insospettata
farmacopea di utilissimi medicinali. Il cardiografo è costruito con straordinaria precisione, tanto da registrare graficamente la centesima parte di un secondo. Registrazioni sonore misurano pulsazioni infinitesimali nelle piante, negli animali e negli esseri umani. Il grande botanico predisse che l'uso del suo cardiografo avrebbe condotto a praticare la vivisezione, più umanamente, sulle piante invece che sugli animali. "Registrazioni comparate degli effetti prodotti da una medicina somministrata simultaneamente a una pianta e a un animale, hanno dato una stupefacente uguaglianza di risultati", egli dichiarò. "Ogni cosa esistente nell'uomo è abbozzata anche nelle piante. Le conoscenze acquisite con gli esperimenti sulla vegetazione contribuiranno a lenire le sofferenze negli animali e negli uomini". Dopo molti anni le scoperte del pioniere Bose sono state utilizzate da altri scienziati. Il lavoro fatto nel 1938 alla Columbia University è stato riferito nel New York Times con queste parole: 'In questi ultimi anni fu stabilito che, quando i nervi trasmettono messaggi dal cervello alle altre parti del corpo, si generano minuscoli stimoli elettrici. Questi stimoli sono stati misurati e amplificati milioni di volte con sensibilissimi galvanometri e moderni apparecchi amplificatori. Finora non era stato trovato alcun metodo atto a studiare il passaggio degli stimoli lungo le fibre nervose degli animali o degli uomini, data la loro enorme velocità. 'I dottori K. S. Cole e H. J. Curtis hanno riferito di avere scoperto che le singole cellule della pianta acquatica nitella, che di frequente si usa mettere nei globi di vetro dei pesci rossi, sono virtualmente identiche alle singole fibre nervose. Inoltre essi hanno scoperto che le fibre della nitella, se eccitate, propagano onde elettriche simili in tutto, fuorché nella velocità, a quelle delle fibre nervose degli animali e dell'uomo. Si è trovato che gli impulsi nervosi sono molto più lenti nella pianta che negli animali. Tale scoperta fu utilizzata dagli studiosi dell'Università di Columbia, i quali ripresero cinematograficamente, al rallentatore, il passaggio degli stimoli elettrici sui nervi. La pianta di nitella può così diventare una specie di stele di Rosetta per decifrare i segreti gelosamente custoditi che si trovano al confine tra lo spirito e la materia' (Nota: Stele trovata a Rosetta sul delta del Nilo durante la campagna napoleonica (1799) recante lo stesso scritto in greco e in egizio, nelle due grafie feroglifia e demotica. Questa iscrizione servì di base per la decifrazione dei geroglifici. Fine nota)
Il poeta Rabindranath Tagore era un fedele amico dello scienziato idealista indiano. A lui, il dolce cantore bengali dedicò i seguenti versi (Nota Tradotti in inglese dal bengali di Rabindranath Tagore da Manmohan Ghoshi in Visvabbarati Quaterly, Santiniketanm, India. Fine nota): O Eremita, chiama tu con le autentiche parole Di quell'antico inno detto Sama: "Sorgi! Ridestati! Richiama il presuntuoso Che vanta la sua shastrica sapienza Dalle infruttuose dispute pedanti, Richiama quel millantatore stolto, Fallo venire in faccia alla natura Di questa vasta terra. Manda il richiamo alla tua banda d'eruditi Riunisci tutti intorno al sacro fuoco Sacrificale. Possa così la nostra India, La nostra antica terra ritornare a se stessa, E ritornare al solido lavoro, A dovere e devozione ed al suo rapimento Nella meditazione; fa' che sieda Di nuovo calma, senza avidità, nè lotta, pura Un'altra volta sul suo alto seggio E piedistallo, ad insegnare al mondo (Nota: L'inno detto Sama della poesia di Tagore è uno dei quattro antichi Veda. Gli altri tre Veda sono: Rig, Yajur e Atharva. I Vedanta, brevi riassunti dei Veda, hanno ispirato molti grandi pensatori occidentali. Lo storico francese Victor Cousin disse: "Se leggiamo con attenzione i monumenti poetici e filosofici dell'Oriente - e soprattutto dell'India - vi scopriamo molte verità così profonde... che siamo costretti a flettere il ginocchio davanti alla filosofia dell'Oriente e a vedere in questa culla dell'umana razza la patria della più alta filosofia". Schlegel osservò: "Perfino la più elevata filosofia europea - l'idealismo della ragione dei filosofi greci - appare, a confronto del vigore vitale dell'idealismo orientale, come una debole scintilla prometeica accanto all'inondante luce solare". Nell'immensa letteratura dell'India, i Veda (dalla radice vid, sapere) sono gli unici testi cui non viene attribuito alcun autore; il Rig, Veda (X, 90, 9) ascrive loro un'origine divina, e ci dice che essi ci sono stati tramandati da 'tempi antichi', rivestiti di un linguaggio nuovo. Si dice che i Veda, rivelati da fonte divina d'epoca in epoca ai rishi o 'veggenti', posseggono nityatva, ossia 'validità che trascende il tempo'. I Veda furono rivelati per mezzo del suono, 'direttamente uditi' (shruti) dai rishi. Essi sono principalmente opere di canto e di recitazione. Per millenni perciò, i centomila versi dei Veda non furono scritti, ma vennero tramandati oralmente dai sacerdoti brahmini. La carta e la pietra sono entrambe soggette agli effetti distruttori del tempo. Queste Scritture hanno sfidato i secoli perché i rishi compresero la superiorità della mente sulla materia, e quale fosse il vero mezzo imperituro di trasmissione. Quale cosa può mai superare le 'tavole del cuore'? Osservando l'ordine particolare (anupurvi) in cui si succedono le parole vediche, e con l'aiuto di regole fonetiche per la combinazione dei suoni (sandhi) e per i rapporti delle lettere fra loro
(sanatana), nonché "provando" con determinati metodi matematici l'esattezza dei testi mandati a memoria, i brahmini hanno conservato in maniera unica, da un'antichità remotissima, l'originale purezza dei Veda. Ogni sillaba (akshara) di una parola vedica è dotata di significato e di efficacia (V. Cap. XXXV). Fine nota).
CAPITOLO IX IL DEVOTO ESTATICO E IL ROMANZO COSMICO "Piccolo signore, ti prego, siedi. Sono in colloquio con la Madre divina". Ero entrato nella stanza silenziosamente, con grande rispetto. L'angelica vista del Maestro Mahasaya quasi mi abbacinò. Con la bianca, seriva barba e i grandi occhi lucenti, sembrava un'incarnazione della purezza. Il mento sollevato e le mani conserte mi fecero capire che la mia prima visita lo aveva disturbato nel mezzo delle sue preghiere. Le sue semplici parole di saluto mi colpirono più di quanto mi avesse mai colpito qualunque altra cosa. Credevo che l'amara separazione da mia madre, causata dalla sua morte, fosse il limite massimo dell'angoscia. Ora una nuova coscienza di separazione dalla mia MadreDivina era divenuta un'indescrivibile tortura dello spirito. Caddi a terra gemendo. "Piccolo signore, calmati!". Il Santo sembrava pietosamente addolorato. In preda a un'oceanica desolazione, mi aggrappai ai suoi piedi come all'unica mia àncora di salvezza. "Santo signore, intercedete per me! Chiedete alla Madre Divina se posso sperare nella sua clemenza". La sacra promessa d'intercessione di un Santo non si ottiene facilmente; il Maestro, infatti, rimase in silenzio. Ero convinto al di là d'ogni dubbio che il Maestro Mahasaya stesse in intima conversazione con la Madre Universale. Era per me un'umiliazione profonda rendermi conto che i miei occhi erano ciechi per Lei, che in quello stesso istante era visibile all'immacolato sguardo del Santo. Afferrando i suoi piedi senza vergogna alcuna, sordo alle sue gentili rimostranze, implorai ripetutamente la grazia della sua intercessione. "Supplicherò per te l'Amata". Il Maestro alla fine capitolò con un lento e compassionevole sorriso. Quale potere era mai racchiuso in quelle poche parole, se tutto il mio essere si sentì liberato dal suo tempestoso esilio? "Signore, rammentate il vostro impegno! Presto tornerò per conoscere il Suo messaggio!".
Un'attesa gioiosa vibrava nella mia voce, che solo un istante prima era soffocata dai singhiozzi per il dolore. Scendendo la lunga scalinata, fui sopraffatto dai ricordi. Quella casa in Amherst Strett 50, che ora era abitazione del Maestro Mahasaya, era stata un tempo la dimora della mia famiglia, e vi era morta mia madre. Proprio fra quelle mura il mio cuore umano si era spezzato per la scomparsa di mia madre, e qui stesso, oggi, il mio spirito era stato crocefisso dall'assenza della Madre Divina. Sacre, antiche mura! Silenziosi testimobi delle mie dolorose ferite e della mia guarigione finale! Rapidi erano i miei passi mentre ritornavo alla mia casa nella Giurpar Road. Anelavo alla solitudine del mio piccolo attico, dove rimasi in meditazione fino alle dieci. L'oscurità della calda notte indiana s'illuminò ad un tratto di una meravigliosa visione. Circondata da un alone luminoso, la Madre Divina era davanti a me; il suo viso teneramente sorridente era la bellezza stessa. "Sempre ti ho amato! Sempre ti amerò!". Mentre gli accenti celestiali ancora vibravano nell'aria, Ella scomparve. Il mattino seguente il sole non si era ancora levato a un'altezza appena decorosa quando feci la mia seconda visita al Maestro Mahasaya. Salendo le scale della casa così piena di vividi ricordi, giunsi alla stanza del quarto piano. La maniglia della porta chiusa era avviluppata in un panno. Ne dedussi che il Santo desiderava star solo. Mentre, indeciso, sostavo sulla soglia, la porta fu aperta dal Maestro stesso, che mi salutò affettuosamente. Mi inginocchiai ai suoi piedi. Per scherzo nascosi la mia divina letizia dando un'espressione solenne al mio viso. "Maestro, sono venuto molto presto, lo confesso, per ricevere il vostro messaggio. La Divina Madre vi ha detto nulla di me?". "Piccolo signore malizioso"! Non volle dire altro. La gravità del mio viso non gli faceva, a quanto pare, nessuna impressione. "Perché tanto mistero? Perché siete tanto evasivo? I Santi non possono dunque mai parlare con semplicità?". Forse ero un po' irritato. "Devi proprio mettermi alla prova?". I suoi calmi occhi erano pieni di comprensione. "Che cosa posso aggiungere questa mattina all'assicurazione che hai avuta, ieri sera alle dieci, dalla Bellissima Madre in persona?". Il Maestro Mahasaya aveva il potere di aprire le chiuse che contenevano l'impeto dell'anima mia; di nuovo mi prostrai ai suoi piedi. Ma questa volta le mie lacrime sgorgavano da un'insostenibile estasi, e non dal dolore.
"Credi tu che la tua devozione non abbia toccato la Misericordia Infinita? La Maternità di Dio che hai venerata nelle sue due forme umana e divina, non poteva mancare di rispondere al tuo disperato appello". Chi era mai questo semplice Santo la cui minima richiesta rivolta allo Spirito Universale otteneva un dolce consenso? Il suo ruolo nel mondo era umile, come conveniva al più grande spirito d'umiltà ch'io mai conobbi. Nella casa di Amherst Street il Maestro Mahasaya dirigeva un piccolo liceo maschile. (Nota: Questo è un titolo di rispetto con cui abitualmente ci si rivolgeva a lui. Il suo nome era Mahendra Nath Gupta. Firmava i suoi lavori letterari con una semplice "M". Fine nota) Nessuna parola di castigo usciva mai dalle sue labbra; né rigide regole né sferza mantenevano la disciplina. In quella modesta stanza si insegnava una matematica superiore e una chimica dell'amore che non si trova nei libri di testo. Egli diffondeva la sua saggezza per contagio spirituale, più che attraverso precetti difficili a capire. Consumato da un'istintiva passione per la Madre Divina, il Saggio non reclamava maggiori forme esteriori di rispetto di quanto farebbe un bambino. "Non sono il tuo Guru. Egli verrà più tardi", mi disse. "Sotto la sua guida, le tue esperienze del Divino fatte nel campo dell'amore e della devozione si tradurranno nei suoi termini di infinita saggezza". Tutti i pomeriggi, sul tardi, mi recavo ad Amherst Street. Cercavo la celeste coppa del Maestro Mahasaya, così ricolma che le sue gocce ogni giorno traboccavano inondando tutto il mio essere. Mai prima di allora mi ero inchinato con tanta reverenza e, consideravo un privilegio incommensurabile perfino il poter calpestare lo stesso suolo che le orme del Maestro Mahasaya avevano santificato. "Signore, vi prego, mettetevi questa ghirlanda di champak che ho fatto espressamente per voi". Giunsi una sera tenendo in mano il mio serto di fiori; ma, schivo, il Maestro si ritrasse, rifiutando più volte l'omaggio. Accortosi del mio dispiacere, alla fine l'accettò con un sorriso. "Poiché entrambi siamo devoti alla Madre Divina, puoi porre la ghirlanda su questo tempio corporeo quale offerta a Colei che vi dimora". In tutto il suo essere non vi era posto per la benché minima considerazione egoistica. "Andiamo domani al tempio di Dakshineswar, per sempre consacrato dal mio Guru". Il Maestro Mahasaya era stato discepolo di Sri Ramakrishna Paramahansa, un Maestro assai simile al Cristo che aveva passato la maggior parte della sua sublime esistenza terrena a Darkshineswar. Il giorno dopo iniziammo con un battello il nostro viaggio di quattro miglia sul Gange.
Entrammo nel tempio dalle nove cupole dedicato a Kali, dove le immagini della Madre Divina e di Shiva riposano su un loto d'argento brunito, dai mille petali minuziosamente cesellati. Il Maestro Mahasaya era raggiante, incantato: stava vivendo il suo inesauribile romanzo con l'Amata. Appena prese a cantare il Suo nome il mio cuore, rapito, parve frangersi in mille parti, come il fiore del loto. Più tardi vagabondammo in quei sacri luoghi arrestandoci in un boschetto di tamerici. La caratteristica manna che essuda quest'albero era il simbolo del cibo celeste elargito dal Maestro Mahasaya. Le sue invocazioni divine continuarono. Sedevo rigidamente immobile sull'erba, fra i leggerissimi, rosei fiori; temporaneamente assente dal mio corpo, m'inalzai alle sfere superne. Questo fu il primo dei molti pellegrinaggi che feci a Dakshineswar con il santo Maestro. Da lui imparai a conoscere la dolcezza di Dio nel suo aspetto di Madre, o Divina Misericordia. Il Santo tanto simile a un fanciullo era scarsamente attratto dall'aspetto del Padre, o Divina Giustizia; un giudizio severo, autoritario, matematico era alieno alla sua mite natura. - Egli può essere il prototipo terreno dei veri angeli del cielo! - pensavo guardandolo con affetto un giorno mentre pregava. Senza il minimo senso di censura o di critica, egli osservava il mondo con occhi da lungo tempo abituati alla luce della Purezza Iniziale. Il corpo, la mente, la parola, lesenzazioni di lui s'intonavano senza alcuno sforzo alla semplicità dell'anima sua. Il Santo, evitando ogni affermazione personale, aveva l'abitudine di terminare ogni saggio consiglio con il seguente invariabile atto di omaggio: "Il mio Maestro così mi diceva". Tanto profondo era il suo senso d'identità con Sri Ramakrishna, che il Maestro Mahasaya non considerava più suoi i suoi stessi pensieri. Tenendoci per mano, una sera il Santo ed io camminavamo intorno all'isolato della scuola. La mia gioia fu adombrata dall'arrivo di un presuntuoso conoscente, che ci assordò con un lungo discorso. "Vedo che quest'uomo non ti piace". Le parole bisbigliate dal Santo non furono udite da quell'egocentrico affascinato dal suo stesso monologo."Ne ho parlato alla Madre Divina; Ella comprende la nostra triste situazione. Appena oltrepasseremo quella casa rossa che ci sta davanti, Ella ha promesso che gli rammenterà un affare più urgente". I miei occhi erano incollati sul luogo della nostra salvezza. Appena raggiunto il cancello rosso, l'uomo, senza ragione alcuna, si volse e se ne andò senza terminare la frase né salutare. La pace ridiscese su di noi. Un altro giorno camminavo solo accanto alla stazione ferroviaria di Howrah. Mi ero fermato un istante vicino a un tempio, criticando in silenzio
un gruppetto d'uomini che, con tamburi e cembali, urlavano enfaticamente un cantico. - Con quale mancanza di devozione usano il divino nome del Signore ripetendolo così meccanicamente! - pensavo; e mi meravigliai molto quando vidi avvicinarsi in fretta il Maestro Mahasaya. "Maestro, come mai siete qui?". Il Santo, ignorando la domanda, rispose al mio pensiero. "Non è forse vero, signorino, che il nome dell'Amata risuona dolcemente su ogni labbro, saggio o ignorante che sia? Egli mi cinse affettuosamente col braccio e sul suo tappeto magico mi sentii trasportare dinanzi alla Misericordiosa Presenza. "Ti piacerebbe vedere un bioscopio?". Questa domanda rivoltami un pomeriggio dal solitario e schivo Maestro Mahasaya, mi lasciò interdetto. Il termine era usato a quel tempo in India per indicare il cinematografo. Accettai, felice di stare in sua compagnia in qualsiasi circostanza. Una rapida passeggiata ci condusse al giardino che stava di fronte all'Università di Calcutta. Il mio compagno m'indicò una panca vicino al goldighi, o stagno. "Sediamo qui per qualche minuto. Il mio Maestro m'invitava sempre a meditare ovunque fosse uno specchio d'acqua. La sua placidità ci rammenta l'infinita calma di Dio. Come tutte le cose si possono riflettere nell'acqua, così tutto l'universo si rispecchia nel lago della Mente Cosmica. Così diceva spesso il mio Gurudeva". Presto entrammo in un'aula dell'Università, dove si svolgeva una conferenza: era di un'abissale monotonia, sebbene interrotta di tanto in tanto da alcune proiezioni, anch'esse assai poco interessanti. - Oh! è dunque questo il genere di bioscopio che il Maestro voleva mostrarmi. - Il mio pensiero era impaziente, eppure non volevo dispiacere al Santo mostrandomi annoiato. Ma egli si protese confidenzialmente verso di me: "Vedo, signorino, che questo bioscopio non ti piace; l'ho detto alla Madre Divina. Essa ci comprende pienamente. Mi dice che fra poco la luce elettrica si spegnerà e non si riaccenderà prima che noi riusciamo a svignarcela". Aveva appena terminato di bisbigliarmi queste parole, che la sala piombò nel buio. La stridente voce del professore si arrestò meravigliata, poi disse: "Sembra che l'impianto elettrico in questa sala sia difettoso". Ma già il maestro Mahasaya ed io eravamo fuori dell'aula, salvi. Dando uno sguardo indietro, dal corridoio, vidi che la scena del nostro martirio era di nuovo illuminata.
"Signorino, quel bioscopio ti ha deluso, ma credo che un altro, diverso, ti piacerà". Il Santo ed io ci trovammo sul marciapiede di fronte alla Università. Egli mi diede un dolce colpetto nel punto del cuore. Ne risultò un silenzio che trasformò tutto. Come nei moderni film parlati, quando si guasta il sonoro, la scena diventa muta, così il tocco della Mano Divina, per uno strano miracolo, sprofondò nel silenzio ogni rumore terreno. I pedoni, i tram, le automobili, i carri, i buoi e le carrozze coi cerchioni delle ruote in ferro; tutti si muovevano silenziosamente come ombre. Come se fossi stato dotato di un occhio onniveggente, io potevo osservare le scene che si svolgevano dietro, ai lati e dinanzi a me, con uguale facilità. Lo spettacolo completo dell'attività che si svolgeva in quel piccolo settore di Calcutta, passava davanti ai miei occhi senza un suono. Come il bagliore offuscato di un fuoco intravisto sotto una lieve copertura di cenere, una morbida luminosità si rifletteva su tutto il panorama. Il mio corpo stesso non sembrava che una delle tante ombre, benché fosse immobile mentre queste andavano e venivano in silenzio. Parecchi ragazzi, amici miei, si avvicinavano e passavano oltre senza riconoscermi, pur avendomi guardato direttamente in faccia. Questa pantomima unica mi sprofondò in un'estasi indicibile. Bevvi profondamente a una fonte di beatitudine. A un tratto ricevetti dal Maestro un altro lieve colpo sul petto. Il pandemonio del mondo assordò di nuovo le mie orecchie riluttanti. Vacillai, come se fossi stato bruscamente svegliato da un sogno etereo: il vino trascendentale era stato allontanato da me. "Signorino, vedo che questo secondo bioscopio ti è piaciuto", mi disse il Santo sorridendo. (Nota: Il nuovo dizionario internazionale Webster's del 1934 dà, come rara, questa definizione della parola bioscopio: "Una veduta della vita. Quello che ci dà tale visione". La scelta della parola fatta dal maestro Mahasaya era dunque, in quel caso, particolarmente giustificata. Fine nota) Feci per prostrarmi dinanzi a lui, desideroso di esprimergli la mia gratitudine, ma egli mi trattenne: "Non puoi più farlo, adesso. Sai che Dio è anche nel tuo tempio! Non posso permettere alla Madre Divina di toccare i miei piedi con le tue mani!". Se qualcuno avesse osservato il modesto Maestro e me mentre ci allontanavamo dalla strada affollata, certamente ci avrebbe creduti due ubriachi. Sentivo che perfino le ombre della sera che scendeva, erano
armoniosamente ebbre di Dio. Quando il giorno si risvegliò dal notturno deliquio, affrontai il nuovo mattino ormai privato della mia estasi. Ma per sempre è rimasto nel santuario della mia mente il serafico figlio della Madre Divina: il Maestro Mahasaya. Mentre cerco con povere parole di rendere omaggio alla sua bontà, mi chiedo se il Maestro Mahasaya e gli altri Santi profondamente chiaroveggenti incontrati sul mio cammino sapessero che un giorno, dopo molti anni e in un paese occidentale, avrei descritto le loro vite di devoti di Dio. La loro prescienza non mi sorprenderebbe, come non sorprenderebbe spero - i lettori che sono giunti con me fino a questo punto. Santi d'ogni religione hanno realizzato Iddio attraverso il semplice concetto dell'Amato Cosmico. Poiché l'Assoluto è nirguna, 'privo di qualità', e acintya 'inconcepibile', il pensiero e il desiderio umano Lo hanno personificato nella madre Universale. La combinazione di un teismo personale con la filosofia dell'Assoluto è un'antica conquista del pensiero indù, esposta nei Veda e nella Bhagavad Gita. Questa 'riconciliazione degli opposti' soddisfa la mente e il cuore. Bhakti (devozione) e jnana (saggezza) sono essenzialmente una cosa sola. Prapatti, il 'trovar rifugio' in Dio e saranagati, o 'buttarsi nella Divina Compassione' sono in realtà vie del più alto sapere. L'umiltà del Maestro Mahasaya e di tutti i santi ha la sua origine nel riconoscimento della loro dipendenza totale (seshatva) dal Signore, solo Giudice e sola Vita. Poiché la natura stessa di Dio è Estasi, l'uomo che è in sintonia con Lui prova una gioia spontanea e immensa. "La prima passione dell'anima e della volontà è la gioia". (Nota: San Giovanni della Croce, Sir Francis Younghusband (Atlantic Monthly, dicembre 1936), racconta la propria esperienza della gioia cosmica con queste parole: "M'invase qualcosa che era assai più che esaltazione o letizia; ero fuori di me per un'intensa gioia, e con questa indescrivibile e quasi insostenibile gioia mi venne la rivelazione della essenziale bontà del mondo. Ero incontrovertibilmente convinto che gli uomini, nel loro cuore, sono buoni, che il male in essi è superficie". Fine nota) Devoti di tutti i tempi che si avvicinarono alla Madre con spirito infantile, rendono testimonianza di averLa trovata sempre disposta al gioco con loro. Nella vita del maestro Mahasaya le manifestazioni del Divino gioco avvenivano sia in occasioni importanti, sia in futili circostanze.
Agli occhi di Dio nulla è piccolo o grande. Se non fosse per la Sua accuratezza nel costruire l'atomo, potrebbero i cieli portare le superbe costruzioni di Vega e Arcturus? La distinzione fra 'importante' e 'futile' deve essere sconosciuta al Signore, altrimenti per la mancanza di uno spillo, il cosmo potrebbe crollare.
CAPITOLO X INCONTRO IL MIO MAESTRO, SRI YUKTESWAR. "La fede in Dio può produrre qualsiasi miracolo, fuorché uno: far passare agli esami senza studiare". Disgustato, misi da parte il libro ' ispiratore' che avevo preso a caso in un momento d'ozio. Pensai: - Questa eccezione dimostra la completa mancanza di fede dell'autore. Poveretto! Ha un grande rispetto per l'olio di mezzanotte! Avevo formalmente promesso a mio padre di terminare gli studi liceali, ma non posso vantarmi d'essere stato diligente. I mesi che passavano mi vedevano assai più raramente a scuola che non in luoghi solitari, lungo i gath dei bagni di Calcutta. I recinti crematori lì accanto, impressionanti specialmente di notte, sono considerati attraentissimi dagli yoghi. A chi cerca l'Essenza Immortale non debbono fare impressione pochi crani disadorni. L'insufficienza umana si rivela lampante nell'oscuro ricettacolo di un ammasso d'ossa. Le mie veglie notturne erano perciò di natura assai diversa da quelle di uno studente. La settimana degli esami finali al Liceo Indù si avvicinava rapidamente. Come gli antri sepolcrali, questo periodo d'interrogazioni incute un ben noto terrore. Ciò nonostante l'animo mio era in pace. Sfidando i fantasmi, io adunavo un sapere che non si trova nelle aule scolastiche. Mi mancava, però, l'arte dello Swami Pranabananda, che poteva facilmente mostrarsi in due luoghi alla volta. Il problema della mia istruzione era chiaramente di competenza dell'Ingegno Infinito. Il mio ragionamento, per quanto possa, purtroppo, sembrare illogico a molti, era che il Signore si sarebbe accorto del mio imbarazzo e me ne avrebbe tirato fuori. L'irrazionalità del devoto scaturisce dalle migliaia d'inesplicabili prove dell'intervento di Dio nei momenti difficili. "Ciao, Mukunda! Ti ho intravisto appena, in questi giorni!", mi disse un compagno di classe, fermandomi un pomeriggio sulla Gurpar Road.
"Ciao, Nantu! L'essermi reso invisibile a scuola pare mi abbia messo in una posizione decisamente scabrosa, vero?". Il suo sguardo amichevole mi permise d'esser sincero. Nantu, che era un ottimo studente, rise di cuore, il mio dramma non era privo di comicità. "Sei del tutto impreparato agli esami finali! Temo proprio che dovrò aiutarti io!". Queste semplici parole risuonarono ai miei orecchi come una divina promessa. Con grande zelo mi recai a casa del mio amico, che molto cortesemente m'indicò la soluzione di vari problemi che riteneva probabile mi sarebbero stati sottoposti dagli esaminatori. "Queste domande sono l'esca che farà cadere molti fiduciosi ragazzi nel tranello degli esami. Rammenta le mie risposte e ti salverai senza troppi rischi". Era notte fonda quando me ne andai. Traboccante di erudizione mal digerita, pregai con fervore di poterla conservare in me per quei pochi giorni critici. Nantu mi aveva preparato in varie materie, ma sotto l'assillo del tempo avevamo dimenticato il mio corso di sanscrito. Con fervore ricordai a Dio questa dimenticanza. Il mattino dopo uscii per una breve passeggiata, passando in rassegna le mie nuove cognizioni sul ritmo dei miei passi. Mentre prendevo una scorciatoia attraverso le erbacce di un luogo incolto i miei occhi caddero su alcuni fogli stampati sparsi al suolo. Li raccolsi con un balzo trionfante: tenevo in mano dei versi sanscriti! Cercai un pandit per farmi aiutare nella mia incerta interpretazione. La sua voce calda riempì l'aria di tutta la levigata e dolcissima bellezza dell'antico idioma. (Nota: Sanskrita: levigato, completo. La lingua sanscrita è la sorella maggiore di tutte le lingue indoeuropee. Il suo alfabeto è chiamato Devanagari: divina dimora. "Colui che conosce la mia grammatica conosce Dio!". Panini, il grande filologo dell'India antica, rese questo tributo alla perfezione matematica e psicologica del sanscrito. Colui che seguisse le tracce dell'idioma fin nei suoi più remoti recessi diverrebbe, invero, onnisciente. Fine nota). "Questi versi eccezionali non possono certo aiutarti nel tuo esame", mi disse quel dotto e, scettico, li mise da parte. Ma fu la conoscenza di quel particolare poema che mi mise in grado il giorno seguente, di superare l'esame di sanscrito. Con l'oculato aiuto che Nantu mi aveva dato, riuscii anche ad ottenere i punti minimi richiesti per la promozione in tutte le altre materie.
Mio padre fu molto soddisfatto perché avevo mantenuto la parola data e portato così a termine i miei studi secondari. La mia gratitudine volò al Signore, la cui sola guida io vedevo nel fatto di avermi fatto incontrare Nantu e di aver diretto i miei passi verso l'inusitata scorciatoia attraverso il terreno colmo di detriti, ove avevo trovato i frammenti del poema. Scherzosamente, Egli aveva dato due espressioni diverse all'aiuto che mi aveva voluto concedere per salvarmi al momento opportuno. Ritrovai il libro da me ripudiato, in cui l'autore aveva negato a Dio la precedenza nell'aula degli esami. Non potei frenare una risatina nel fare un silenzioso commento personale: - Se questo tale sapesse che la meditazione divina fra i cadaveri è una scorciatoia per prendere una licenza liceale, la sua confusione sarebbe anche maggiore. Forte della mia nuova dignità, adesso facevo aperti progetti per abbandonare la casa. Con un giovane amico Jitendra Mazumdar, decisi di recarmi all'eremitaggio Mahamandal di Benares per assoggettarmi alla sua disciplina spirituale. (Nota. Jitendra Mazumdar non era Jatinda (Jotin Ghosh) che, si ricorderà, aveva un'avversione per le tigri! Fine nota). Al pensiero di separarmi dalla mia famiglia, una mattina fui invaso da grande sconforto. Dopo la morte di mia madre il mio affetto, specialmente per i miei due fratelli minori, Sananda e Bishnu e per mia sorella Thamu, era diventato più tenero. Mi precipitai nel mio rifugio, il piccolo attico testimone di tante scene del mio turbolento sadhana (Nota: sadhana = sentiero o via preliminare verso Dio. Fine nota). Dopo aver pianto per due ore fiumi di lacrime, mi sentii stranamente diverso, come se mi fossi chimicamente purificato. Ogni attaccamento scomparve e la mia risoluzione di cercare in Dio l'Amico Supremo divenne incrollabile. Rapidamente completai i preparativi per il viaggio. (Nota: attaccamento = Le Scritture indiane insegnano che l'attaccamento familiare è ingannevole se impedisce al devoto la ricerca del Donatore d'ogni grazia, compresa quella dell'affetto dei congiunti e della vita stessa. Anche Gesù disse: "Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me". (Matteo, 10, 37) Fine nota). "Te lo chiedo per un'ultima volta! Non abbandonare me e i tuoi addolorati fratelli e sorelle!", mi disse mio padre, afflittissimo, mentre gli stavo dinanzi per chiedere la sua ultima benedizione. "Riverito padre, come posso dirvi tutto il mio affetto? Ma anche più grande è il mio amore per il Padre Celeste, che mi ha concesso il dono di un padre perfetto sulla terra. Lasciatemi andare, affinché un giorno io possa ritornare ricco di una più divina comprensione".
Munito del riluttante consenso paterno, partii per raggiungere Jitendra che si trovava già all'eremitaggio di Benares. Al mio arrivo il giovane capo swami, Dayananda, mi accolse con cordialità. Alto e magro, con un'espressione pensosa sul volto, mi fece buona impressione. Il suo bel viso aveva una compostezza da Buddha. Fui lieto che la mia nuova casa avesse un attico dove cercavo di trascorrere le ore mattutine. I membri dell'ashram, conoscendo poco gli esercizi di meditazione, pensavano che io dovessi dedicare tutto il mio tempo a mansioni organizzative. Il lavoro che svolgevo il pomeriggio nel loro ufficio ne riscosse le lodi. "Non cercare di agguantare Dio così presto!". Queste parole di scherno dette da un compagno residente colà, accompagnarono una delle mie partenze mattiniere verso il solaio. Andai da Dayananda che era occupato nel suo piccolo santuario in vista del Gange. "Swamij, non capisco che cosa, qui, si voglia da me. Io cerco la percezione diretta di Dio. Senza di Lui non posso accontentarmi né di una disciplina, né di credi, né di opere buone". Il monaco dalla veste arancione mi diede un affettuoso colpetto. Con un tono scherzoso di finto rimprovero, si rivolse ad alcuni discepoli che gli stavano vicino e ammonì: "Non molestate Mukunda. Imparerà le nostre abitudini". (Nota: Swamji = Il ji è un abituale suffisso di rispetto usato soprattutto quando si rivolge direttamente la parola. Così swamiji, guruji, Sri Yukteswarji, Paramahansaji, Gandhoji. La radice sanscrita ji significa "vincere" (se stesso). Fine nota) Educatamente nascosi il mio dubbio. Gli studente se ne andarono, non eccessivamente prostrati dal rimprovero subìto. Dayananda aveva da dirmi altre cose. "Vedo, Mukunda, che tuo padre ti invia regolarmente del denaro. Ti prego di restituirglielo. Qui non ti occorre. E un'altra norma disciplinare riguarda gli alimenti: anche quando hai appetito, non dirlo". Se la fame trasparisse dai miei occhi non so, ma ben sapevo di aver fame. L'ora invariabile del primo pasto all'eremitaggio era il mezzogiorno. A casa ero abituato a consumare una copiosa colazione alle nove del mattino. Le tre ore di attesa diventavano ogni giorno più interminabili. Erano passati gli anni di Calcutta in cui potevo sgridare il cuoco per un ritardo di dieci minuti.
Adesso cercavo di controllare il mio appetito. Una volta digiunai per ventiquattr'ore e con raddoppiato gusto attesi il mezzodì del giorno seguente: "Il treno di Dayanandaji ritarda. Non mangeremo prima del suo arrivo". Fu Jitendra a darmi questa orribile notizia. Per dare il benvenuto allo Swami che era stato assente due settimane, si erano preparate molte leccornie. Un aroma che eccitava l'appetito si spandeva nell'aria. Null'altro venendo offerto, che mai potevo ingoiare se non l'orgoglio per il mio digiuno del giorno prima? - Signore Iddio, affretta l'arrivo del treno! Il Provveditore Celeste, pensavo, certamente non poteva essere incluso nell'interdizione con la quale Dayananda mi aveva ridotto al silenzio. Ma l'attenzione Divina era rivolta altrove. L'orgoglio inesorabilmente batteva le ore. Già scendeva la sera quando il nostro capo varcò la porta. Il mio saluto fu pieno di sincera gioia. "Dayanandaji dovrà prendere il bagno e meditare prima che si possa servire il pranzo". Jitendra mi si avvicinò un'altra volta come un uccello di malaugurio. Mi sentivo quasi svenire. Il mio giovane stomaco, così nuovo alle privazioni, protestava con mordente vigore. Balenavano come spettri dinanzi ai miei occhi visioni di morti per fame che una volta avevo visto in fotografia. - La prossima morte per inedia a Benares avverrà proprio adesso in questo eremitaggio - pensavo. L'incombente destino fu scongiurato alle ore ventuno. Che gioia! Nella mia memoria, il ricordo di quel pasto è rimasto vivido come una delle ore più belle della mia vita. Pur essendo profondamente assorbito dalla mia occupazione, mi accorgevo che Dayananda mangiava distrattamente. Evidentemente era assai al di là dei miei volgari piaceri. "Swamji, non avete appetito?". Felicemente satollo, mi trovavo solo col nostro capo nel suo studio. "Oh, si! In questi ultimi quattro giorni non ho mai mangiato, né bevuto. Non mangio mai nei treni, che sono così pieni di vibrazioni eterogenee di gente materialista. Osservo rigidamente le regole shastriche per i monaci del mio ordine. Alcuni problemi del nostro lavoro organizzativo occupano la mia mente. Stasera qui ho trascurato il pranzo. Che è mai la fretta? Domani m'impegnerò a fare un buon pasto regolare". E rise allegramente.
Ovviamente la cosa non aveva importanza per lui! (Nota: shastriche = che appartengono ai Shastra, letteralmente "libri sacri", i quali comprendono quattro classi di Scritture, shruti, smriti, purana, tantra. Questi vasti trattati si riferiscono ad ogni aspetto della vita sia religiosa che sociale, alla legge, la medicina, l'architettura, l'arte ecc. Le shruti sono scritture "udite direttamente" o "rivelate", cioè i Veda. le smriti o dottrine "ricordate", furono finalmente fissate per iscritto in un remoto passato nei più lunghi poemi epici del mondo; il Mahabbarata e il Ramayana. Le purana (18 in tutto) sono letteralmente allegorie 'antiche'; tantra letteralmente significa 'riti' o 'rituali'. Questi trattati contengono profonde verità sotto il velame di un dettagliato simbolismo. Fine nota) La vergogna mi soffocò; ma quel giorno di tortura, non potevo dimenticarlo facilmente. Arrischiai un'altra domanda: "Swamji, sono perplesso. Supponiamo che seguendo le vostre istruzioni io non chieda mai cibo e che nessuno me ne dia: morirei d'inedia". "Allora, muori!" Questo allarmante consiglio fendette l'aria. "Muori se devi morire, Mukunda. Non credere mai di vivere per il potere del cibo e non per quello di Dio! Colui che ha creato ogni forma di nutrimento, Colui che ti ha dato l'appetito, certamente provvederà a che il Suo devoto si sostenti! Non pensare che il riso ti conservi in vita, o che siano il denaro o gli uomini a mantenerti vivo. Potrebbero essi aiutarti se il Signore ritirasse da te il soffio della vita? Essi sono soltanto i Suoi strumenti indiretti. E' forse per tua abilità che gli alimenti vengono digeriti nel tuo stomaco ? Usa la spada della discriminazione, Mukunda! Spezza le catene dell'azione e cerca di percepire la Causa Unica!". Le sue incisive parole mi penetrarono sino al midollo. Non esisteva più l'antico inganno per cui gli imperativi corporei potevano frodare l'anima. In quell'istante sentii come lo Spirito bastasse a tutto. In quante città sconosciute, nella mia vita di continui viaggi, ebbi la prova di quanto fosse stata utile quella lezione dell'ashram di Benares! L'unico tesoro che avevo portato con me da Calcutta era l'amuleto d'argento del sadhu, lasciatomi da mia madre. L'avevo serbato per anni ed ora era nascosto accuratamente nella mia stanzetta dell'ashram. Per rinnovare la gioia che mi veniva dalla presenza del talismano, una mattina riaprii la scatola chiusa. L'involucro era suggellato, intatto, ma ahimé! l'amuleto non c'era più. Tristemente strappai la busta in cui era stato avvolto, per esserne matematicamente sicuro; ma, come aveva predetto il sadhu, esso era scomparso nell'etere da dove era venuto.
I miei rapporti con i discepoli di Dayananda peggiorarono sempre più. Tutti si sentivano estranei nei miei confronti ed erano feriti dalla distanza che serbavo con loro. La mia severa disciplina di meditazione sull'Unico Ideale, per cui avevo abbandonato la casa e ogni ambizione terrena, suscitava da ogni parte critiche superficiali. Lacerato dall'angoscia spirituale, una volta mi recai all'alba nella mia soffitta, deciso a pregare finché non mi venisse concessa una risposta. "Madre Misericordiosa dell'Universo, istruiscimi Tu stessa per mezzo di visioni o per mezzo di un guru inviato da Te!". Trascorsero le ore ed ero sempre lì, a singhiozzare e supplicare invano. A un tratto mi sentii sollevare quasi materialmente in una sfera infinita. "Il tuo Maestro verrà oggi!". Una divina Voce femminile venne da ovunque e da nessun luogo. Questa esperienza superna venne lacerata da un violento richiamo che mi giunse invece da un luogo ben definito. Un giovane prete soprannominato Habu, mi chiamava dalla cucina: "Mukunda, basta con la meditazione! C'è bisogno di te per una commissione". In un'altra occasione avrei potuto rispondere con impazienza; ma questa volta mi asciugai il viso gonfio di pianto e docilmente obbedii all'ordine ricevuto. Con Habu m'incamminai verso una lontana piazza del mercato nel quartiere bengali di Benares. L'inclemente sole indiano non era ancora al suo zenith mentre facevamo i nostri acquisti nei bazar. Ci facemmo largo tra la variopinta folla di massaie, guide, preti, vedove dalle semplici vesti, dignitosi brahmini e degli onnipresenti tori sacri. Procedendo con Habu, mi volsi per contemplare un vicolo stretto e poco appariscente. Un uomo simile al Cristo, nella veste color ocra degli swami, stava immobile al limite di quel vicolo. Istantaneamente mi parve di riconoscerlo, di averlo conosciuto da sempre; per un attimo il mio sguardo si nutrì avidamente di lui. Ma fui assalito dal dubbio. Pensai: - Tu confondi questo monaco girovago con qualcun altro a te noto. Sognatore, cammina! Dopo dieci minuti sentii i piedi pesanti, come fossero divenuti di pietra. Non potevo più camminare. Mi girai con uno sforzo; i piedi tornarono normali. Mi rigirai ancora in direzione opposta, e di nuovo fui oppresso da quella strana pesantezza. - Il santo mi attira a sé con un magnetico potere! - Mentre pensavo questo, ammonticchiai tutti i miei pacchi sulle braccia di Habu. Egli aveva osservato con stupore lo sregolato lavorìo dei miei piedi, e ora scoppiò a ridere:
"Che mai ti prende? Sei pazzo?" La mia tumultuosa emozione m'impedì di rispondergli. In silenzio mi allontanai rapidamente. Ricalcando i miei passi con le ali ai piedi, giunsi nella stradina. Rapido, il mio sguardo scoprì la calma figura che guardava fissamente nella mia direzione. Ancora qualche altro passo ed eccomi ai suoi piedi. "Gurudeva"! Il suo volto divino era quello che avevo intravisto in migliaia di visioni. Quegli occhi d'alcione in un campo leonino con la barba a punta e riccioli fluenti spesso si erano affacciati dall'oscurità delle mie fantasticherie notturne, rivelando una promessa che non avevo capita appieno. (Nota: Gurudeva = 'Divino Maestro', l'abituale termine sanscrito usato per il proprio precettore spirituale. Fine nota). "O mia creatura sei venuto a me!". Il mio Guru non si stancava di ripetere queste parole in bengali, con voce tremante di gioia. "Quanti anni ti ho atteso!". Entrammo in una profonda silenziosa comunione; ogni parola sembrava estremamente superflua. L'eloquenza sgorgava in un cantico senza suono dal cuore, andava dal Maestro al discepolo. Come attraverso un'antenna d'inoppugnabile vista interiore, percepivo che il mio Guru conosceva Iddio e che mi avrebbe condotto a Lui. Le oscure ombre della mia vita scomparvero in una tenue aurora di prenatali memorie. Tempo drammatico! Il passato, il presente, il futuro sono le sue cicliche scene: questo non era il primo sole che mi vedeva prostrato dinanzi a quei piedi divini! Con la mia mano nella sua, il Guru mi condusse alla sua temporanea dimora, sita nel quartiere Rana Nahal della città. La sua atletica figura camminava con passo fermo. Alto, diritto, dell'età di cinquantacinque anni circa a quell'epoca, era attivo e pieno di vigore come un giovane. Aveva grandi occhi scuri, bellissimi, rispecchianti un'infinita saggezza. Il suo viso, che esprimeva una potenza che colpiva, era addolcito da una cornice di capelli leggermente ricciuti. La forza vi si fondeva sottilmente con la dolcezza. Mentre ci dirigemmo verso la balconata in pietra di una casa che guardava il Gange egli mi disse con affetto: "Ti darò il mio eremitaggio e tutto quanto possiedo". "Maestro, vengo da voi per apprendere la saggezza e il contatto di Dio: questi sono i tesori che cerco!". Il veloce crepuscolo indiano era già per metà disceso prima che il mio Maestro riprendesse a parlare. I suoi occhi esprimevano un'infinita saggezza.
"Ti do tutto il mio incondizionato amore" Preziose parole! Passò un quarto di secolo prima che egli mi desse un'altra prova verbale del suo affetto. Le sue labbra erano estranee alle espressioni ardenti; il silenzio si addiceva al suo oceanico cuore. "Mi darai tu lo stesso incondizionato affetto?". Così dicendo egli mi fissò con infantile fiducia. "Vi amerò eternamente, Gurudeva!". "L'amore comune è egoista, oscuramente radicato nei desideri e negli appagamenti. L'amore divino è incondizionato, senza limiti e senza mutamento. Il flusso del cuore umano si dissolve per sempre al trafiggente tocco del puro amore". E aggiunse: "Se mai mi vedessi decadere dal mio stato di perfetta unione con Dio, ti prego, promettimi di porre il mio capo sul tuo petto e d'aiutarmi a tornare all'Amato Cosmico che entrambi adoriamo". Si alzò poi nella sopraggiunta oscurità e mi condusse in una stanza interna. Mentre mangiavamo frutti di mango e dolci di mandorle, egli rivelò senza parere, nella conversazione, un'intima conoscenza della mia natura. Mi sentii intimorito e reverente nel riconoscere tutta l'immensità della sua saggezza, squisitamente abbinata a un'innata umiltà. "Non rattristarti per il tuo amuleto; è servito al suo scopo". Come uno specchio divino il mio Guru sembrava aver carpito un riflesso di tutta la mia vita. "La vivente realtà della vostra presenza, Maestro, è una gioia che va al di là d'ogni simbolo". "E' tempo che tu cambi vita; la tua situazione nell'eremitaggio è infelice". Non avevo parlato affatto della mia vita e sembrava ormai superfluo il farlo. Dai suoi modi semplici e naturali, compresi ch'egli non desiderava udirmi uscire in meravigliate esclamazioni per la sua chiaroveggenza. "Dovresti tornare a Calcutta. Perché escludere i parenti dal tuo amore per l'umanità?". La sua proposta mi costernò. La mia famiglia si aspettava il mio ritorno, sebbene io non avessi mai ceduto alle insistenti preghiere che mi avevano rivolte per lettera. 'Lasciate volare il giovane uccello nei cieli metafisici', aveva detto Ananta. 'Le sue ali si stancheranno nell'atmosfera pesante; lo vedremo piombare a casa, serrar le ali e mettersi umilmente a riposo nel nido familiare'. Con
questo vivace e scoraggiante paragone fisso nella mente, ero deciso a non 'piombare' nella direzione di Calcutta. "No, Gurudeva, non tornerò a casa. Ma vi seguirò ovunque. Vi prego, ditemi il vostro nome e il vostro indirizzo". "Swami Sri Yukteswar Giri. Il mio eremitaggio principale si trova a Serampore, sul Rai Ghat Lane. Sono qui solo per pochi giorni per visitare mia madre". Meditavo su quanto è intricato il gioco di Dio con i suoi fedeli. Serampore è a sole dieci miglia da Calcutta, eppure là non avevo mai intravisto il mio Guru. Per incontrarci avevamo dovuto viaggiare entrambi fino all'antica città di Kasi (Benares), venerata per i ricordi di Lahiri Mahasaya, e di cui anche i piedi del Buddha, di Shankaracharya e d'altri Cristici yoghi avevano santificato il suolo. (Nota: Shankaracharya (Shankara), il più grande filosofo dell'India, fu discepolo di Giovinda Jati e del Guru di quest'ultimo, Gaudapada. Shankara scrisse un famoso commentario a un trattato di Gaudapada, il Mandukuya Karika. Con inoppugnabile logica e uno stile pieno di grazia, egli interpretò i Vedanta con spirito strettamente advaita (non-dualistico, monista). Il grande monista compose anche poemi d'amore devozionale. La sua Preghiera alla Madre Divina per il Perdono dei Peccati ha il ritornello: "Benché siano molti i figli cattivi, una madre cattiva non vi fu mai". Sanandana, discepolo di Shankara, scrisse un commento ai Brahma Sutra (filosofia dei Vedanta). Il manoscritto andò perduto in un'incendio, ma Shankara che lo aveva scorso una volta sola, lo ripetè al suo discepolo, parola per parola. Questo testo, conosciuto sotto il nome di Panchapadika, è materia di studio. Il chela Sanandana ebbe un nuovo nome dopo un bellissimo incidente occorsogli. Seduto sulla riva d'un fiume, udì Shankara che lo chiamava dalla sponda opposta. Sanandana entrò nell'acqua senza esitare. La sua fede e i suoi piedi vennero simultaneamente sostenuti quando Shankara materializzò nelle acque turbinanti del fiume una serie di fiori di loto. Dopo di ciò, il discepolo rimase noto col nome di Padmapada, "piede-di- loto". Nel Panchapadika, Padmapada offre al suo Guru numerosi tributi di affetto. Shankara stesso scrisse queste bellissime righe: "Non vi è nulla nei tre mondi che possa essere comparato a un vero Guru. Se la pietra filosofale potesse essere veramente considerata tale, sarebbe soltanto trasformare il ferro in oro e non in un'altra pietra filosofale. Il venerato Maestro, invece, crea l'eguaglianza con se stesso nel discepolo che si rifugia ai suoi piedi.
Il Guru è perciò ineguagliabile, anzi trascendentale" (Century of Verses, 1). Shankara fu una rara combinazione di un santo, un dotto e un uomo d'azione. Benché non vivesse oltre i trentadue anni, molti di questi anni li spese viaggiando avventurosamente in ogni parte dell'India, diffondendo la sua dottrina advaita. Enormi moltitudini si radunavano per ascoltare il confortante flusso di saggezza che sgorgava dalle labbra del giovane monaco scalzo. Lo zelo riformatore di Shankara si estese alla riorganizzazione dell'antico Ordine degli Swami. Fondò anche dei math (centri educativi monastici) in quattro località: Mysore nel Sud, Puri nell'Est, Dwaraka nell'Ovest e Badrinath nel Nord himalayano. I quattro math del grande monista, generosamente dotati da principi e da gente comune, davano istruzione gratuita in grammatica sanscrita, logica e filosofia Vedanta. L'obiettivo di Shankara nel porre i suoi math nei quattro angoli dell'India era di promuovere l'unità religiosa e nazionale in tutto il vasto paese. Ora come nel passato ogni pio indù trova vitto e alloggio gratuito nei choultrie e sattram (luoghi di ristoro lungo le strade abitualmente percorse nei pellegrinaggi), che sono mantenuti dalla beneficenza pubblica. Fine nota). "Verrai da me fra quattro settimane". Per la prima volta la voce di Sri Yukteswar aveva un tono severo. "Perché ti ho detto che ti amerò sempre e ti ho dimostrato la mia felicità nell'averti trovato, ti senti libero di non prendere in considerazione la mia richiesta. La prossima volta che c'incontreremo, dovrai risvegliare di nuovo il mio interesse per te; non ti accetterò così facilmente come discepolo. Dovrà esservi in te una dedizione completa e un'assoluta obbedienza ai miei severi insegnamenti". Rimasi ostinatamente in silenzio. Il mio Guru comprese subito le mie difficoltà. "Non tornerò a casa". "Vi tornerai fra trenta giorni". "No, mai". Inchinandomi con reverenza ai suoi piedi, presi congedo senza alleggerire la tensione nata dalla controversia. Camminando nell'oscurità della mezzanotte, mi chiedevo perché il miracoloso incontro era terminato su una nota discordante. La duale bilancia di maya che equilibra ogni gioia col dolore! Il mio giovane cuore non era ancora abbastanza malleabile per le dita del mio Guru, pronte a trasformarlo.
La mattina seguente mi accorsi di un'intensificata ostilità nell'atteggiamento dei membri dell'eremitaggio. Le mie giornate furono punteggiate da continue scortesie. Dopo tre settimane Dayananda lasciò l'ashram per partecipare a una conferenza a Bombay. Scoppiò il pandemonio sul mio capo inerme. "Mukunda è un parassita che accetta l'ospitalità dell'eremitaggio senza dar nulla in cambio". Come udii, per caso e per la prima volta questo apprezzamento, mi dispiacque di aver obbedito alla richiesta di rimandare a mio padre il denaro che m'aveva inviato. Col cuore di piombo, andai alla ricerca del mio unico amico, Jitendra. "Me ne vado. Ti prego di porgere il mio rispettoso e addolorato saluto a Dayanandaji quando tornerà". "Ma anch'io me ne vado! I miei tentativi di meditazione non trovano qui migliore accoglienza dei tuoi". Jitendra parlava con tono deciso. "Ho incontrato un Santo simile al Cristo. Andiamo a trovarlo a Serampore". E così l'uccello si preparò a 'piombare' pericolosamente vicino a Calcutta.
CAPITOLO XI DUE RAGAZZI SENZA UN SOLDO A BRINDABAN "Meriteresti proprio che tuo padre ti diseredasse, Mukunda. Come sei stupido a sciupare così la tua vita!". Questa predica del mio fratello maggiore aggredì le mie orecchie. Jitendra e io, scesi freschi freschi dal treno (per modo di dire, perché eravamo coperti di polvere!), eravamo appena giunti alla casa di Ananta, il quale da poco era stato trasferito da Calcutta all'antica città di Agra. Mio fratello era funzionario del Dipartimento Lavori Pubblici Governativi. "Tu sai bene, Ananta, che io attendo la mia eredità dal Padre Celeste". "Prima il denaro: Dio può arrivare anche dopo! Chissà! La vita potrebbe essere troppo lunga!". "Dio prima. Il denaro è Suo schiavo. Chi può dirlo? La vita potrebbe esser troppo breve". La mia risposta fu dettata dall'esigenza del momento, e non da presentimenti. Tuttavia le pagine del tempo si voltavano con una precisa finalità per Ananta; ahimé! qualche anno dopo egli andava in quella terra dove i biglietti di banca non servono né prima né dopo. (Nota. Vedi cap. XXV. Fine nota). "Saggezza appresa nell'eremitaggio, suppongo! Ma vedo che hai abbandonato Benares". Gli occhi di Ananta brillarono di soddisfazione. Egli sperava ancora di farmi ripiegare le ali nel nido familiare. "Il mio soggiorno a Benares non è stato inutile. Vi ho trovato tutto quello che il mio cuore desiderava. Stai certo che non era il tuo pandit o suo figlio!". Ananta si mise a ridere con me, ricordando. Doveva ammettere che il "veggente" di Benares ch'egli aveva scelto si era dimostrato piuttosto miope. "Quali sono i tuoi progetti, fratello mio vagabondo?". "Jitendra mi ha persuaso a venire ad Agra. Visiteremo qui le bellezze del Taj Mahal (Nota: Un mausoleo di fama mondiale. Fine nota), gli spiegai.
"Poi andremo dal mio Guru che ho appena trovato e che ha un eremitaggio a Serampore". Ananta ci offrì cordiale ospitalità. Varie volte durante la serata mi accorsi ch'egli mi fissava meditabondo. - Conosco quello sguardo! - pensavo - Sta certo architettando un piano. La rivelazione si ebbe durante la prima colazione. "Dunque, ti consideri completamente indipendente dalla fortuna di tuo padre". Lo sguardo di Ananta era quanto mai ingenuo, mentre riprendeva le fila della conversazione del giorno prima. "Io so che dipendo da Dio". "Le parole sono a buon mercato! La vita ti ha risparmiato sino ad oggi! Che accadrebbe se tu dovessi ricorrere alla Mano Invisibile per avere vitto e alloggio? Ben presto chiederesti l'elemosina per le strade!". "Mai! Non riporrei certo la mia fiducia nei passanti anziché in Dio! Egli dispone per i suoi devoti di migliaia d'altre risorse oltre la ciotola delle elemosine". "Ancora retorica! E se ti proponessi di mettere alla prova la tua millantata filosofia in questo mondo tangibile?". "Accetterei! Vorresti limitare Dio a un mondo speculativo?". "Vedremo. Oggi stesso ti sarà offerta l'opportunità di allargare o di confermare le mie idee". Ananta tacque per un istante davvero drammatico. Indi parlò lentamente e con grande serietà. "Propongo che tu e il tuo condiscepolo Jitendra andiate stamani alla vicina città di Brindaban. Non dovrete portare con voi neanche una rupia; non dovrete elemosinare né per cibo né per denaro; non dovrete rivelare a nessuno il vostro proposito; non dovrete però privarvi dei pasti, né arenarvi a Brindaban. Se tornerete al mio bungalow prima della mezzanotte di oggi senza aver infranto nessuna di queste norme la persona più meravigliata di Agra sarò io!". "Accetto la sfida". Non v'era esitazione nelle mie parole né nel mio intimo. Riconoscenti ricordi dell'Immediato Soccorso balenavano alla mia mente: la mia guarigione dal colera avvenuta invocando il ritratto di Lahiri Mahasaya; il dono scherzoso dei due aquiloni sul tetto di Lahore, con Uma; l'amuleto giunto opportunamente al momento del mio scoraggiamento a Bareilly; il decisivo messaggio datomi dall'ignoto sadhu di Benares davanti al cortile del pandit; la visione della Madre Divina e le sue sublimi parole
d'Amore; il Suo immediato aiuto attraverso il Maestro Mahasaya per le mie piccole difficoltà; la buona indicazione datami all'ultimo momento, che mi permise di conseguire il diploma liceale; e l'ultimo dono: il mio Guru vivente sorto dalla nebbia dei sogni di tutta la mia vita. Non potevo ammettere che la mia "filosofia" non fosse all'altezza di qualsiasi lotta che dovessi sostenere sul duro campo di prova del mondo! "La tua accondiscendenza ti fa onore. Ti accompagnerò fino al treno, e subito". E Ananta si rivolse a Jitendra, che stava a bocca aperta: "Tu accompagnerai Mukunda quale testimone, e più probabilmente come vittima". Mezz'ora dopo Jitendra ed io eravamo in possesso di un biglietto di andata per il nostro improvvisato viaggio. In un angolo appartato della stazione ci sottoponemmo a un'accurata perquisizione. Ananta fu subito soddisfatto nel constatare che non portavamo con noi alcun gruzzolo nascosto; i nostri semplici dhoti celavano solo il necessario. (Nota: dhoti = un panno avvolto intorno alla vita e che copre le gambe. Fine nota). Poiché la fede veniva a invadere il campo della finanza, il mio amico protestò: "Ananta, dammi una o due rupie per maggior sicurezza. Così potrò telegrafarti in caso di disgrazia". "Jitendra!". La mia esclamazione fu di aspro rimprovero. "Non continuerò la prova se accetti del denaro come ultima salvaguardia". "Vi è un certo che di rassicurante nel tintinnio delle monete." Ma Jitendra tacque quando lo fissai severamente. "Mukunda non sono senza cuore". una nota di umiltà si era infiltrata nella voce di Ananta. Forse gli rimordeva la coscienza, sia alla idea di mandare due ragazzi senza un centesimo in una città straniera, sia per il proprio scetticismo religioso. "Se per caso o per grazia divina superi con successo la prova di Brindaban, ti chiederò d'iniziarmi alla vita religiosa quale tuo discepolo". Era una promessa un po' insolita, come insolita era la situazione. Il fratello maggiore, in una famiglia indiana, raramente s'inchina ai minori, e riceve tributi di rispetto e d'obbedienza subito dopo il padre. Ma non vi era tempo per far commenti: il treno stava per partire. Jitendra rimase immerso in un lugubre silenzio mentre il treno divorava i chilometri. Finalmente si riprese; chinatosi, mi dette un pizzico in un certo posto. "Non vedo il minimo segno che Dio provvederà al nostro prossimo pasto!". "Stai tranquillo, incredulo Tommaso; il Signore lavora per noi".
"Puoi ottenere anche che Egli si affretti? Alla sola idea di quel che ci aspetta, mi sento già morire di fame! Ho lasciato Benares per visitare il mausoleo di Taj, non per entrare nel mio!". "Coraggio Jitendra! Non dobbiamo ammirare per la prima volta le sacre meraviglie di Brindaban? Provo una gioia immensa al pensiero di calpestare anch'io il suolo su cui poggiarono i piedi del Signore Krishna". (Nota: Brindaban, nel distretto Muttra delle Province Unite, è la Gerusalemme Indù. Qui l'avatar Sri Krishna si mostrò in tutta la sua gloria per il bene dell'umanità. La sacra città, sul fiume Jumna, è mèta di pellegrinaggi per milioni di indù. Fine nota). La porta del nostro compartimento si aprì. Entrarono due uomini e sedettero. La prossima fermata del treno sarebbe stata l'ultima. "Giovanotti, avete amici a Brindaban?". Il viaggiatore seduto dinanzi a me ci dimostrava un sorprendente interesse. "Questo non vi riguarda!", dissi e poco educatamente evitai il suo sguardo. "Forse fuggite dalle vostre famiglie sotto l'incanto del Ladro dei Cuori? Anch'io sono di temperamento devoto. Sarà mio dovere vigilare perché non manchiate né di vitto né di asilo, con questo caldo estenuante" (Nota: Hari = un nome affettuoso con cui il Signore Krishna è conosciuto ai suoi devoti. Fine nota). La conversazione non ebbe seguito. Il treno si fermò. Mentre Jitendra e io scendevamo sul marciapiede, i nostri compagni occasionali ci presero sotto braccio e chiamarono una carrozza. Scendemmo dinanzi a un magnifico eremitaggio, posto fra gli alberi verdeggianti d'un giardino ben curato. Evidentemente i nostri benefattori erano conosciuti in questo luogo; un ragazzo sorridente ci condusse senza commenti in un salotto. Presto ci raggiunse una donna di mezza età, dal portamento dignitoso. "Gauri Ma, i principi non sono potuti venire", disse uno degli uomini, rivolgendosi alla padrona dell'ashram. "All'ultimo momento hanno dovuto mutare i loro piani e ve ne esprimono tutto il loro dispiacere. Ma ho condotto altri due ospiti. Non appena li ebbi incontrati in treno, mi sentii subito attratto verso di loro, come verso fedeli del Signore Krishna". "Arrivederci, miei giovani amici". Le nostre due nuove conoscenze si avviarono verso l'uscio. "A Dio piacendo c'incontreremo di nuovo!".
"Siate i benvenuti qui!". Gauri Ma sorrise maternamente ai due ospiti inattesi. "Non potevate giungere in un giorno migliore. Aspettavo due regali patroni di questo eremitaggio. Sarebbe un vero peccato se la mia cucina non avesse trovato nessuno per apprezzarla!. Tali parole, fatte apposta per eccitare l'appetito ebbero un effetto inatteso su Jitendra il quale scoppiò in lacrime. Le "tristi privazioni" ch'egli tanto temeva a Brindaban si mutavano in un regale simposio. Questo improvviso capovolgimento d'idee era troppo per lui. La nostra ospite lo guardò incuriosita, ma senza far domande. Forse conosceva bene i grilli degli adolescenti. Fu annunziato il pranzo. Gauri Ma ci condusse in un patio dove si pranzava e dove l'aria era piena di odori appetitosi; poi scomparve nell'attigua cucina. Attendevo questo istante. Scegliendo il posto migliore nell'anatomia di Jitendra, gli diedi un pizzico grosso quanto quello che avevo ricevuto in treno. "Incredulo Tommaso, il Signore lavora e anche in fretta!". L'ospite rientrò con un punkha. Alla maniera orientale, ella ci fece vento continuamente mentre ci accosciavamo su coperte ricamate. I discepoli dell'ashram andarono avanti e indietro con una trentina di portate. Anziché un pasto il nostro potrebbe essere definito un sontuoso banchetto. Dal nostro arrivo in questo pianeta, Jitendra ed io non avevamo mai assaggiato tali manicaretti. "Onorata Madre, sono davvero vivande da principi! Non riesco a immaginare che cosa i vostri regali padroni abbiano potuto trovare di più urgente da fare che partecipare a un simile banchetto. Ci avete dato di che ricordarci per tutta la vita!". Costretti al silenzio dall'espressa richiesta di Ananta, non potevamo dire alla gentilissima signora che i nostri ringraziamenti avevano un doppio significato. Per lo meno la nostra sincerità era fuori discussione. Andammo via con la sua benedizione e l'allettante invito a ritornare all'eremitaggio. Il caldo, nelle strade era spietato. Jitendra ed io cercammo rifugio sotto un superbo albero di cadamba accanto al cancello dell'ashram. Corsero tra noi pungenti parole; di nuovo il mio amico era invaso da tristi presentimenti. "Mi hai messo in un bell'imbroglio! Abbiamo pranzato solo per un colpo di fortuna! Come possiamo visitare le bellezze della città senza un centesimo? E come diavolo farai a riportarmi da Ananta?!". "Dimentichi Dio assai presto quando hai lo stomaco pieno!".
Le mie parole pur non essendo amare, erano accusatrici. Com'è corta la memoria umana riguardo ai favori divini! Eppure non esiste uomo che non abbia visto esaudita qualche sua preghiera. "Non è probabile ch'io dimentichi la follia commessa nell'andare così alla ventura con un matto come te!". "Sta' zitto, Jitendra. Lo stesso Signore che ci ha nutriti ci farà visitare Brindaban e ci ricondurrà ad Agra". Un giovanotto magro e di aspetto simpatico si avvicinava a noi a rapidi passi; fermatosi sotto il nostro albero, s'inchinò dinanzi a me. "Caro amico, credo che voi e il vostro compagno siate stranieri in questa città. Permettetemi di farvi da ospite e da guida". E' quasi impossibile per un indiano impallidire, ma il viso di Jitendra sembrò ad un tratto quello di un malato. Declinai cortesemente l'offerta. "Ma non vorrete certo respingermi?". L'agitazione dello sconosciuto sarebbe stata comica in qualsiasi altra circostanza. "E perché no?". "Perché voi siete il mio Guru". Fiduciosi i suoi occhi cercarono i miei. "Durante le mie preghiere del mezzogiorno, il santo Signore Krishna mi è apparso in una visione e mi ha mostrato due figure sperdute proprio sotto quest'albero. Uno di quei visi era il vostro o mio Maestro! Spesso vi ho visto nelle mie meditazioni. Che gioia per me se vi degnate di accettare i miei umili servigi!". "Anch'io sono contento che mi abbiate trovato. Né Dio né gli uomini ci hanno abbandonati!". Sebbene restassi immobile, sorridendo al volto ansioso che mi guardava, un senso interiore di obbedienza mi prostrava ai Piedi Divini. "Amici cari, non volete onorare la mia casa di una visita?". "Siete gentile, ma non è possibile; siamo già ospiti di mio fratello ad Agra". "Per lo meno lasciatemi il ricordo di aver visitato Brindaban con voi". Acconsentii volentieri. Il giovanotto che disse di chiamarsi Pratap Chatterji, prese una carrozza. Visitammo il tempio di Madanamohana e altri luoghi sacri a Krishna. Si fece notte mentre eravamo devotamente raccolti nel tempio. "Scusateci, vado a prendere del sandesh" (Nota: Dolce indiano. Fine nota). Pratap entrò in una bottega accanto alla stazione. Jitendra ed io passeggiavamo lungo la strada ormai affollata nella relativa frescura. Il nostro amico ritornò poco dopo carico di dolciumi che volle regalarci.
"Vi prego concedetemi di guadagnarmi questo piccolo merito religioso". Pratap sorrideva, mentre stendeva la mano in cui erano un fascio di rupie e due biglietti ferroviari per Agra, da lui comprati in quel momento. Accettai per reverente rispetto dalla Mano invisibile. Schernita da Ananta, la sua generosità non aveva forse superato largamente le necessita'? Cercammo un luogo appartato accanto alla stazione. "Pratap, t'insegnerò il Kriya Yoga di Lahiri Mahasaya, il più grande yoghi dell'epoca moderna. La sua tecnica sarà il tuo guru". L'iniziazione si conclude in una mezz'ora. "Il Kriya è il tuo chintamani, dissi al muovo allievo. (Nota. Chintamanani = Una gemma mitologica che ha il potere di esaudire i desideri; è anche un nome di Dio. Fine nota). "La tecnica che, come vedi, è semplice, rappresenta l'arte di accelerare l'evoluzione spirituale dell'uomo. Le scritture indiane insegnano che l'Io che s'incarna richiede un milione d'anni per raggiungere la liberazione da maya. Questo periodo naturale viene notevolmente abbreviato col Kriya Yoga. Come Jagadis Chandra Bose ha dimostrato che la crescita delle piante può essere accelerata ben oltre il suo tempo normale, così anche lo sviluppo psichico dell'uomo può essere accelerato da una scienza interiore. Praticane gli esercizi con fedele costanza, e ti avvicinerai al Guru di tutti i guri". "Sono felice di aver trovato questa chiave dello yoga che ho tanto cercata!", disse Pratap, pensieroso. "Il suo effetto svincolante mi renderà libero dai legami dei sensi per raggiungere sfere più alte. La visione del Signore Krishna, avuta oggi può significare soltanto il più grande bene per me." Sedemmo un poco in silenziosa reciproca comprensione, poi lentamente c'incamminammo verso la stazione. La gioia era in me mentre salivo sul treno; ma per Jitendra quello era il giorno delle lacrime. Il mio affettuoso commiato da Pratap fu sottolineato dai singhiozzi repressi di entrambi i miei compagni. Anche il viaggio di ritorno vide Jitendra tutto immerso nel dolore; ma questa volta non per sé, bensì contro di sé. "Com'è arida la mia fede! Il mio cuore era di pietra. Mai più dubiterò in futuro della protezione di Dio!". Si avvicinava la mezzanotte. Le due 'Cenerentole' mandate fuori di casa senza un soldo, entravano nella camera da letto di Ananta. La sua faccia, come lui stesso aveva predetto, era la vera immagine dello stupore. In silenzio feci cadere sulla tavola una pioggia di rupie. "Jitendra, fuori la verità!". Il tono di Ananta era burlesco. "Questo ragazzo non ha assalito nessuno per la strada?".
Ma quando gli fu raccontata tutta la storia, mio fratello divenne serio, poi solenne. "La legge di domanda e offerta si estende fino a campi più sottili di quello che avrei supposto", disse Ananta, con un entusiasmo spirituale mai rivelato prima. "capisco per la prima volta la tua indifferenza per le ricchezze e per la volgare cupidigia del mondo". Malgrado l'ora tardissima, mio fratello insisté per ricevere la diksha (Nota: Iniziazione spirituale; dalla radice sanscrita diksh: votarsi. Fine nota) nel Kriya Yoga. Il "Guru" Mukunda dovette in un solo giorno addossarsi la responsabilità di due impensati discepoli! La prima colazione del mattino si svolse in un'atmosfera di armonia, che il giorno prima era completamente mancata. Sorridevo a Jitendra. "Non sarai privato del Taj. Visitiamolo prima di partire per Serampore". Preso congedo da Ananta, il mio amico ed io ben presto giungemmo dinanzi alla gloria di Agra, il tempio del Taj Mahal; marmo bianco che scintilla al sole, visione di purissima simmetria. La sua cornice perfetta è costituita da oscuri cipressi, prato lucente e stagno tranquillo. L'interno del mausoleo è bellissimo, con intagli lievi come merletti, incastonati di pietre dure. Delicate ghirlande e intricate volute fioriscono dai marmi bruni e violetti. Dalla cupola la luce discende sui cenotafi dell'Imperatore Shah-Jahan e di Mummataz Mahall, regina dei suoi reami e del suo cuore. Basta con i giri turistici! Avevo nostalgia del mio Guru. Ben presto Jitendra ed io eravamo in viaggio verso il Sud, in treno sulla via del Bengala. "Mukunda, da mesi non vedo la mia famiglia. Ho cambiato idea. Forse in futuro visiterò il tuo Maestro a Serampore". Il mio amico che, con molta indulgenza può essere descritto come un temperamento indeciso, mi lasciò a Calcutta. Con un treno locale raggiunsi subito Serampore, dodici miglia a settentrione. Un sussulto di meraviglia mi assalì quando mi resi conto ch'erano passati proprio ventotto giorni dall'incontro a Benares col mio Guru. - Verrai da me fra quattro settimane! - ed ero davvero lì col cuore in tumulto, nel suo cortile, nella tranquilla Rai Ghat Lane. Per la prima volta entrai in quell'eremitaggio dove dovevo trascorrere la parte migliore dei miei futuri dieci anni, col Jnanavatar dell'India, "incarnazione della saggezza".
CAPITOLO XII GLI ANNI TRASCORSI NELL'EREMITAGGIO DEL MIO MAESTRO "Sei venuto". Così mi salutò Sri Yukteswar, seduto su una pelle di tigre distesa sul pavimento di un salotto con balcone. La sua voce era fredda, i suoi gesti compassati. "Si, caro Maestro, sono qui per seguirvi". Inginocchiatomi, toccai i suoi piedi. "Come può essere? Tu tieni in non cale i miei desideri". "Non più Guruji! Il vostro desiderio sarà la mia legge". "Così va meglio! Adesso posso assumermi la responsabilità della tua vita". "Volentieri ne trasferisco a voi il peso, maestro!". "Il mio primo desiderio, allora, è che tu ritorni a casa, dalla tua famiglia. Voglio che tu ti iscriva all'Università di Calcutta. La tua istruzione deve continuare". "Benissimo signore!". Nascosi la mia costernazione. I libri importuni dovevano dunque continuare a perseguitarmi per anni? Prima mio padre, ora Sri Yukteswar! "Un giorno andrai in Occidente. La gente presterà ascolto più attentamente all'antica saggezza indiana se lo strano maestro indù avrà una laurea". "Guruji, voi sapete meglio di me quel che debbo fare". La mia tristezza scomparve. L'allusione all'occidente mi sembrava lontana e confusa, ma l'occasione di far piacere al Maestro con la mia ubbidienza era viva e immediata. "A Calcutta sarai vicino. Vieni da me ogni volta che ne troverai il tempo". "Ogni giorno, se sarà possibile, Maestro! Con gratitudine accetto la vostra autorità in ogni particolare della mia vita, a una sola condizione". "Ah! sì?". "Che promettiate di rivelarmi Dio!". Seguì una schermaglia verbale che durò un'ora. La parola di un Maestro non può tradire, e non viene data con leggerezza. Le implicazioni contenute in tale promessa aprono vaste vedute metafisiche. Un Guru deve essere
davvero in intimi rapporti col Creatore prima di poterLo costringere a rivelarsi! Percepivo la divina unione di Sri Yukteswar, ed ero deciso a trarne vantaggio quale suo discepolo. "Hai un temperamento esigente!." Poi il consenso del Maestro venne compassionevole, definitivo: "Sia il tuo volere il mio volere". Le ombre che avevano offuscato tutta la mia vita scomparvero dal mio cuore: la vaga, inquieta ricerca era terminata. Avevo trovato l'eterno rifugio in un vero Guru. "Vieni, ti mostrerò l'eremitaggio". Il Maestro si alzò dalla pelle di tigre. Mi guardai intorno e il mio sguardo meravigliato cadde su un ritratto appeso al muro, infiorato di un ramo di gelsomini. "Lahiri Mahasaya!". "Si, il mio divino Guru!". La voce di Sri Yukteswar vibrava di venerazione. "Quale uomo e quale yoghi era! Il più grande di tutti i Maestri la cui vita sia entrata nel raggio delle mie ricerche". M'inchinai silenzioso dinanzi al ben noto ritratto. L'anima tributò un omaggio al Maestro incomparabile, che benedicendo la mia infanzia aveva guidato i miei passi fino all'ora presente. Seguii il mio Guru in una visita alla casa e al giardino. Spazioso, antico e ben costruito, l'eremitaggio poggiante su massicce colonne circondava un cortile. I muri esterni erano ricoperti di muschio; piccioni svolazzavano sopra il tetto piatto e grigio, e usufruivano senza troppe cerimonie delle stanze dell'ashram. Il piacevole giardino dietro la casa era pieno d'alberi di jackfruit, di mango e di banane. Balconi a balaustra, appartenenti alle stanze superiori dell'edificio a due piani, si affacciavano da tre lati sul cortile. La spaziosa sala d'ingresso al pianterreno, con un alto soffitto sostenuto da colonnati, veniva usata soprattutto - così mi disse il maestro - durante le feste annuali della Durgapuja. (Nota: Culto di Durga. Questa è la principale festa dell'anno bengali e dura 9 giorni; cade intorno alla fine di settembre (la sua data dipende dal calendario lunare). La segue immediatamente la festa di 10 giorni del Dashahara ("Colui che rimuove dieci peccati", tre del corpo, tre della mente, quattro della parola). Entrambe le puja sono sacre a Durga, (letteralmente "l'Inaccessibile"), un aspetto della Madre Divina, Shatki, la personificata forza creatrice femminile. Fine nota). Una stretta scala conduceva alla stanza di soggiorno di Sri Yukteswar, il cui balconcino guardava sulla strada. L'ashram era ammobiliato alla buona; ogni cosa era semplice, pulita e pratica. Parecchie sedie, panche e tavole di stile occidentale vi facevano bella mostra. Il Maestro m'invitò a trascorrere
la notte nell'ashram. Una cena di curry e verdure fu servita da due giovani discepoli che venivano istruiti nell'eremitaggio. "Vi prego, Guruji, ditemi qualcosa della vostra vita". Stavo accosciato su una stuoia di paglia accanto alla pelle di tigre. Al di là del balcone le amiche stelle sembravano vicinissime. "Il mio nome di famiglia era Priya Nath Karar. Nacqui qui a Serampore, dove mio padre era un facoltoso uomo d'affari. Mi lasciò la casa avita, ch'è ora il mio eremitaggio. La mia istruzione scolastica ufficiale fu scarsa. La trovavo lenta e superficiale. Appena adulto, mi accollai le responsabilità d'un capofamiglia ed ho una figlia, ora sposata. La mia maturità fu benedetta dalla guida spirituale di Lahiri Mahasaya. Dopo la morte di mia moglie entrai nell'Ordine degli Swami e ricevetti il nuovo nome di Sri Yukteswar Giri. Questa è la mia semplice biografia". (Nota. Sri Yukteswar nacque il 10 maggio 1855. Yukteswar significa "unito a Ishwara" (uno dei nomi di Dio). Giri (montagna) è un termine di classifica distintivo d'uno dei dieci antichi rami dell'Ordine degli Swami. Sri, per uomini e donne, significa "santo". Non è un nome ma un titolo di rispetto. Fine nota). Il Maestro sorrise vedendo l'espressione avida del mio viso. Come un qualsiasi schizzo biografico le sue parole avevano rilevato i fatti esteriori, ma non l'uomo interiore. "Guruji, mi piacerebbe udire qualche episodio della vostra infanzia". "Te ne racconterò qualcuno, e ognuno con una morale!". Gli occhi di Sri Yukteswar scintillarono, dandomi tale avvertimento. "Una volta mia madre tentò d'impaurirmi con la spaventosa storia di un fantasma in una camera buia. Io andai subito in quella stanza e espressi poi la mia delusione per non averlo incontrato. Mia madre non mi raccontò mai più storie paurose. Morale: guarda la paura in faccia ed essa cesserà di turbarti. "Un altro ricordo è il mio desiderio di possedere un brutto cane che apparteneva a un vicino; per settimane intere misi in subbuglio tutta la casa per ottenerlo. Le mie orecchie erano sorde all'offerta di cuccioli di aspetto assai più avvenente. Morale: la passione acceca; essa cinge di un'immaginaria aureola di bellezza l'oggetto desiderato. "Una terza storia ci dice quanto sia malleabile una mente giovane. Per caso udii fare da mia madre questo apprezzamento: - Un uomo che accetta di lavorare alle dipendenze di un altro uomo è uno schiavo. - Queste parole si fissarono così indelebilmente in me, che anche dopo il matrimonio rifiutai ogni incarico che mi veniva offerto. Affrontai le spese di famiglia
investendo il mio capitale in terre. Morale: buoni e pratici consigli dovrebbero sempre istruire le sensibili orecchie dei bambini. Le prime idee rimangono profondamente incise nella mente". Il Maestro sprofondò in un placido silenzio. Verso la mezzanotte mi condusse a un modesto giaciglio. Il mio sonno fu dolce e profondo quella prima notte sotto il tetto del mio Guru. Sri Yukteswar scelse la mattina seguente per concedermi l'iniziazione al Kriya Yoga. La tecnica l'avevo già appresa da due discepoli di Lahiri Mahasaya (mio padre e il mio insegnante Swami Kebalananda); ma il Maestro aveva un potere che mi trasformò completamente. Al suo tocco una grande luce inondò il mio essere, come una gloria d'innumerevoli soli che ardessero tutti insieme. Un fiotto d'ineffabile estasi sommerse il mio cuore fin nel profondo. Riuscii ad allontanarmi dall'eremitaggio solo nel tardo pomeriggio del giorno seguente. "Tornerai fra trenta giorni". Mentre entravo nella mia casa di Calcutta, il compimento della predizione del Maestro vi entrò con me. Nessuno fece le pungenti osservazioni che avevo temute, sulla ricomparsa dell'uccello che piomba a casa'. Salii al pio piccolo attico e lo guardai affettuosamente, come fosse una presenza viva. - Sei stato testimone delle mie meditazioni, delle lacrime e delle tempeste del mio sadhana. Ora ho raggiunto il porto del mio divino Maestro. "Figlio, sono felice per te e per me". Mio padre e io sedevamo nella calma della sera. "Tu hai trovato il tuo Guru in modo miracoloso, come una volta io trovai il mio. La mano santa di Lahiri Mahasaya vigila sulla nostra vita. Il tuo Guru si è rivelato non un inaccessibile santo dell'Himalaya, ma un nostro vicino. Le mie preghiere sono state esaudite; nella tua ricerca di Dio non sei stato allontanato da me per sempre!". Mio padre era inoltre contento che io riprendessi gli studi. Mi iscrissi il giorno seguente allo Scottish Church College di Calcutta. Passarono rapidi mesi felici. I miei lettori avranno senza dubbio già fatto la perspicace supposizione che mi si vedeva di rado nelle aule universitarie; l'eremitaggio di Serampore rappresentava per me un'attrazione irresistibile. Il Maestro accettò senza commenti la mia apparente ubiquità; con mio grande sollievo, parlava raramente dei miei studi universitari. Benché risultasse chiaro a tutti che non ero nato per essere uno studioso, di tanto in tanto mi davo da fare per ottenere i punti minimi richiesti per i passaggi di classe. La vita quotidiana nell'ashram si svolgeva tranquillamente, e di rado variava.
Il mio Guru si svegliava prima dell'alba. Disteso sul letto, o a volte seduto, entrava in samadhi (Nota: letteralmente "dirigere insieme". Samadhi è uno stato supercosciente di estasi, in cui lo yoghi percepisce l'identità fra l'anima individuale e lo Spirito Cosmico. Fine nota). Era semplicissimo accorgersi del risveglio del Maestro: brusco arresto di stupendo russare. Un sospiro o due, forse un lieve movimento del corpo, poi una silenziosa sospensione del respiro; ed egli era nella profonda gioia dello yoga. (Nota: Il russare, secondo alcuni fisiologi, indica un completo riposo (solo per il dormiente, però!. Fine nota). Poi, niente colazione; prima una lunga passeggiata sulle rive del Gange. Quelle passeggiate mattutine col mio Guru, come mi sembrano ancor vive e reali! Nel facile ridestarsi della memoria, spesso mi ritrovo accanto a lui mentre il primo sole riscalda il fiume. La sua voce risuona alle mie orecchie, ricca di verità e saggezza. Un bagno, quindi il pasto di mezzogiorno scrupolosamente allestito, secondo le direttive giornaliere del Maestro, dai giovani discepoli. Il mio Guru era vegetariano. Prima di diventar monaco, tuttavia, aveva mangiato uova e pesce. Il consiglio che dava ai suoi allievi era quello di seguire una dieta qualsiasi, purché semplice e adatta alla propria costituzione. Il Maestro mangiava poco: spesso del riso colorato con una spruzzatina di curcuma, oppure con sugo di bietole o spinaci, lievemente cosparso di ghee di bufala (burro fuso). Altri giorni si nutriva di dhal di lenticchie (Nota: è una densa zuppa di piselli sbucciati e spaccati, o di altri legumi. Fine nota) oppure di curry di channa con verdure (Nota: è un formaggio di latte cagliato fresco, spesso tagliato a quadratini e mescolato con curry e parate. Fine nota). Per fine pranzo: mango o arance con budino di riso, o succo di jackfruit. Nel pomeriggio venivano i visitatori; un continuo flusso si riversava dal mondo della tranquillità dell'eremitaggio. Ogni ospite veniva trattato da Sri Yukteswar con sollecitudine. Un Maestro, ossia un uomo che ha realizzato se stesso come l'anima onnipresente, e non come il corpo, o l'ego, percepisce in tutti gli uomini una sorprendente uguaglianza. L'imparzialità dei Santi è radicata nella saggezza. Essi non soggiacciono più all'influenza dei mutevoli volti di maya, né alle simpatie o antipatie che confondono il giudizio dei non illuminati. Sri Yukteswar non dimostrava alcuna considerazione speciale per coloro che erano ricchi, potenti o istruiti; e nemmeno disprezzava altri per la loro povertà o ignoranza. Era capace di
ascoltare pieno di rispetto parole di verità dette da un bambino e talvolta di ignorare apertamente un presuntuoso pandit. Gli ospiti del pomeriggio talvolta indugiavano oltre le otto, ora della cena. Il mio Guru non si permetteva di mangiare da solo; nessuno lasciava il suo ashram affamato o insoddisfatto. Sri Yukteswar non era mai imbarazzato o sgomento per l'apparizione di ospiti inattesi; sotto la sua direzione piena di risorse, pochi cibi diventavano un banchetto. Eppure era economo; i suoi modesti fondi andavano lontano. "State comodi entro la vostra borsa" usava dire. "Le stravaganze vi portano il disagio". Sia nei dettagli della condotta dell'eremitaggio sia per i lavori di costruzione o riparazione od altre faccende pratiche, il Maestro manifestava tutta l'originalità di uno spirito creativo. Le tranquille ore della sera ci portavano spesso uno dei discorsi del mio Guru, tesori che sfidano il tempo. Ogni sua espressione era cesellata dalla saggezza. Una sublime sicurezza marcava il suo modo di esprimersi: era unico. Parlava come mai ho udito altri parlare. I suoi pensieri venivano soppesati su una sensibilissima bilancia di discriminazione, prima ch'egli permettesse loro di prender forma nella parola. L'essenza della verità, onnipervadente perfino sotto un aspetto fisico, emanava da lui come un fragrante profumo dell'anima. Ero sempre cosciente d'essere alla presenza di una vivente manifestazione di Dio. Il peso della sua divinità induceva automaticamente la mia fronte a chinarsi dinanzi a lui. Se degli ospiti si accorgevano che Sri Yukteswar stava entrando in contatto con l'infinito, egli immediatamente li impegnava in una conversazione. Era incapace di assumere una posa o di ostentare il proprio ritiro in se stesso. Sempre unito a Dio, non aveva bisogno di un tempo speciale per entrare in comunione con Lui. Un Maestro autorealizzato si è già lasciato dietro il trampolino della meditazione. "Il fiore cade quando appare il frutto". Ma i santi spesso continuano a praticare esercizi spirituali per dare l'esempio ai discepoli. Quando si avvicinava la mezzanotte, il mio Guru spesso si addormentava con la naturalezza di un bimbo. Non c'era da preoccuparsi per il letto. Spesso si stendeva, senza nemmeno un cuscino, su uno stretto divano che faceva da sfondo al suo abituale sedile di pelle di tigre. Non era raro il caso che si trascorresse tutta una notte in discussioni filosofiche, che il vivo interesse di qualsiasi discepolo poteva provocare. Allora non provavo né stanchezza né desiderio di dormire. Le vive parole del maestro mi bastavano. "Oh! E' l'alba! andiamo al Gange", e con queste parole terminavano molte di quelle notti edificanti.
I primi mesi che trascorsi con Sri Yukteswar culminarono in un'utile lezione: 'come sopraffare una zanzara!'. A casa, la mia famiglia usava sempre delle zanzariere; fui sgomento quando scoprii che nell'eremitaggio di Serampore non si seguiva questa prudente abitudine. Eppure gli insetti vi pullulavano; io ne ero mangiato dalla testa ai piedi. Il mio Guru ebbe pietà di me. "Comprati una zanzariera e comprane una anche per me". Rise e aggiunse: "Se ne compri una solo per te tutte le zanzare si aduneranno su di me!". Fui felicissimo di accontentarlo ogni notte che trascorrevo a Serampore, il mio Guru mi chiedeva di assestarci le zanzariere per la notte. Una sera le zanzare avevano una particolare virulenza; ma il Guru non mi dette le abituali istruzioni. Ascoltavo con grande nervosismo il brusio ammonitore degli insetti. Mettendomi a letto, lanciai loro una preghiera propiziatoria. Dopo mezz'ora tossii con intenzione per richiamare l'attenzione del Guru. Credevo di impazzire per le punture, e soprattutto per il ronzio delle zanzare che celebravano sanguinosi riti. Nessun movimento da parte del maestro. Mi avvicinai a lui con precauzione: non respirava. Era la prima volta che lo osservavo nella estasi yoga; fui invaso dalla paura. "Gli sarà mancato il cuore!". Gli posi uno specchio sotto il naso: nessun alito lo appannò. Per essere maggiormente sicuro per qualche minuto gli serrai la bocca e le narici con le dita. Il suo corpo era freddo e immobile. In un lampo corsi alla porta per chiedere aiuto. "Ma bravo il mio sperimentatore in erba! Oh, il mio povero naso!". La voce del maestro era scossa dal ridere. "Perché non vai a letto? Il mondo intero deve mutare per te? Cerca di mutare te stesso liberati della coscienza delle zanzare!". Docilmente, tornai a letto. Nessun insetto osò avvicinarsi. Capii che il Guru aveva accettato la zanzariera solo per farmi piacere. Non temeva le zanzare. Il suo potere yoga era tale che egli poteva indurle a non pungerlo, oppure, volendolo, poteva rifugiarsi in un ulteriore invulnerabilità. - Ha voluto darmi una dimostrazione - pensavo. - Questo è lo stato yoga al quale devo sforzarmi di giungere. - Un vero yoghi è capace di entrare e di rimanere nello stato di supercoscienza, incurante delle molte distrazioni che non mancano mai su questa terra: il ronzio degli insetti!, l'invadente abbaglio della luce del giorno! Nel primo stadio del Samadhi (sabikalpa), lo yoghi si chiude completamente alla percezione sensoria del mondo esterno. Egli è allora ricompensato da suoni e visioni di mondi interiori più leggiadri dell'antico Eden (nota: l'onnipresente potere di uno yoghi per cui
egli vede, ode, gusta, odora e sente la sua unità con la creazione senza l'uso degli organi sensori, è stato descritto nel Taittiriya Aranyaka nel modo seguente: "l'uomo cieco forò la perla quello che non aveva dita la infilò, quello senza collo la portò e quello che era muto la esaltò. Fine nota".) Le istruttive zanzare servirono a impartirmi un altro insegnamento che presto ricevetti all'ashram. Era la dolce ora dell'imbrunire. Quasi al buio, il mio Guru stava interpretando in modo incomparabile gli antichi testi. Io sedevo ai suoi piedi in pace perfetta. Un'insolente zanzara turbò l'idillio mettendosi in gara per accaparrarsi la mia attenzione. Mentre essa inseriva nella mia coscia il suo 'ago ipodermico' velenoso , automaticamente alzai una mano vendicatrice. - Sospendi l'esecuzione! - opportunamente mi era tornato alla memoria l'aforisma di Patanjali sull'ahimsa (non violenza) (nota "alla presenza di un uomo perfezionato nell'ahimsa (non- violenza) l'inimicizia (in qualsiasi creatura) non insorge". Yoga Sutra, 2,35. fine nota.). "Perché non hai compiuto l'opera?". "Maestro sostenete il diritto di togliere la vita?". "No, ma mentalmente tu avevi già inferto il colpo mortale" "Non capisco" "L'intendimento di Patanjali era quello di annullare il desiderio di uccidere". Sri Yukteswar aveva seguito il mio processo mentale come su un libro aperto. "Questo mondo è male organizzato per una pratica letterale dell' ahimsa. L'uomo può essere obbligato a sterminare delle creature nocive; non è però ugualmente forzato a sentire collera o animosità contro di esse. Ogni forma di vita ha eguale diritto a respirare l'aria di maya. Il santo cui è rivelato il segreto della creazione sarà in armonia con tutte le innumerevoli e sconcertanti espressioni della natura. Tutti gli uomini possono comprendere questa verità, annullando l'impulso interiore alla distruzione". "Guruji, dobbiamo offrirci in olocausto piuttosto che uccidere una bestia feroce?". "No, il corpo dell'uomo è prezioso. Possiede il più alto valore evolutivo grazie al suo particolare cervello e centri spinali. Questi permettono al discepolo avanzato di afferrare ed esprimere pienamente gli aspetti più sublimi della divinità. Nessuna forma inferiore è così attrezzata. E' vero che si contrae il debito di un peccato minore, se si è obbligati a uccidere un animale o una qualsiasi cosa vivente; ma i sacri shastra insegnano che l'inutile perdita di un corpo umano è un grave peccato contro la legge del karma". Trassi un sospiro di sollievo; non sempre le Scritture convalidano gl'istinti naturali dell'uomo.
Per quanto mi risulta, il Maestro non si trovò mai alle prese con una tigre o un leopardo; ma un micidiale cobra una volta lo affrontò solo per essere anch'esso conquistato dall'amore del mio Guru. Il pericoloso incontro avvenne a Puri, dove Sri Yukteswar aveva un secondo eremitaggio deliziosamente situato sul mare. Prafulla, un giovane discepolo degli ultimi anni, si trovava in quell'occasione col Maestro. Egli mi raccontò: "Eravamo seduti all'aria aperta fuori dell'ashram; un cobra lungo più di un metro comparve vicino a noi, il terrore personificato. Il suo cappuccio era irosamente dilatato mentre ci si avvicinava con rapidità. Il Guru se ne uscì con un risolino di benvenuto come si fa con un bambino. Fui costernato oltre ogni dire quando vidi il Maestro battere le mani ritmicamente (Nota: il cobra si lancia su qualsiasi oggetto che si nuova vicino a lui. L'unica salvezza in genere è la più completa immobilità. Il cobra è temutissimo in India, dove causa annualmente circa cinquemila morti. Fine nota) per intrattenere il minaccioso visitatore! Rimasi assolutamente immobile, pronunciando entro di me le più ferventi preghiere che mi venissero in mente. Il serpente, ormai vicinissimo al Guru, rimaneva ora fermo e sembrava ipnotizzato da quel carezzevole atteggiamento; il terribile cappuccio si ritrasse a poco a poco, il serpente scivolò fra i piedi del Maestro, poi scomparve tra i cespugli. "Perché il mio Guru battesse le mani e perché il cobra non gli si avventasse contro, rimase per me inesplicabile", concluse Prafulla. "Ma poi realizzai che il mio divino Maestro è ormai al di là d'ogni timore di un male che possa venirgli da qualsiasi creatura vivente". Un pomeriggio, durante i miei primi mesi all'ashram, vidi gli occhi penetranti di Sri Yukteswar fissarsi su di me. "Sei troppo magro, Mukunda". Questo apprezzamento colpiva un punto sensibile. I miei occhi incavati e il mio aspetto emaciato non piacevano neanche a me. Una quantità di bottiglie di tonici stava sugli scaffali della mia stanza al numero 4 della Gurpar Road a Calcutta. Nessuna mi aveva giovato. Una dispepsia cronica mi perseguitava fin dall'infanzia. La mia disperazione a volte era tale che giungevo a chiedermi se valesse la pena di continuare a vivere con un corpo così gracile. "Le medicine hanno un limite, la divina forza vitale non ne ha; credi in questo: sarai forte e sano". Le parole di Sri Yukteswar mi convinsero istantaneamente che avrei potuto applicare con successo questa verità a me stesso. Nessun altro guaritore - e ne avevo consultati tanti! - era stato capace di suscitare in me una fede così profonda.
Ed ecco, giorno per giorno io aumentavo di peso! Due settimane dopo la segreta benedizione del mio Maestro ero rinvigorito e avevo raggiunto quel peso che in passato non mi era mai riuscito di acquistare. I miei persistenti dolori di stomaco sparirono per sempre. In altre occasioni, ebbi in seguito il privilegio d'essere testimone oculare di divine guarigioni istantanee compiute dal mio Guru su persone sofferenti di gravissimi mali: tubercolosi, diabete, epilessia, paralisi. "Anni fa anch'io mi preoccupavo del mio peso", mi disse Sri Yukteswar. "Durante la convalescenza da una grave malattia mi recai a Benares per visitare Lahiri Mahasaya: " - maestro, sono stato malissimo e ho perduto molti chili. " - Capisco, Yukteswar. Ti sei reso malato e ora pensi di esser magro." (Nota: Lahiri Mahasaya precisamente disse "Priya" (nome di nascita) e non "Yukteswar" (nome monastico non ancora ricevuto dal mio Guru durante la vita di Lahiri Mahasaya). (V.) Yukteswar" è sostituito qui e in poche altre pagine del libro per evitare confusione al lettore. Fine nota) "Queste parole erano assai diverse da quelle che mi aspettavo. Ma il mio Guru aggiunse per incoraggiarmi: " - Vediamo un po'. Sono certo che dovresti sentirti meglio domani". "La mia mente ricettiva accettò le sue parole come una segreta promessa che egli mi avrebbe risanato. Non mi meravigliai perciò la mattina seguente di ritrovarmi più in forze. Cercai il Maestro e esultante esclamai: " - Signore, mi sento assai meglio, oggi!" " - Davvero, oggi ti sei rinvigorito. " - No, Maestro - protestai, - siete voi che mi avete aiutato. E' la prima volta dopo molte settimane che sento in me un po' di energia". " - Oh, si! La tua malattia è stata davvero grave. Il tuo corpo è ancora gracile; chi può dire come ti sentirai domani?" "Un brivido di paura mi serpeggiò dentro al solo pensiero di un possibile ritorno della mia debolezza. Il giorno dopo, a stento mi trascinai alla casa di Lahiri Mahasaya. " - Maestro, sono di nuovo ammalato". "Lo sguardo del mio Guru era canzonatorio: - E così, ti rendi ammalato un'altra volta?" " - Gurudeva, adesso mi accorgo che giorno per giorno, vi siete burlato di me. - La mia pazienza era al limite. - Non capisco perché non volete credere alla verità di quanto dico. " - In verità sono stati i tuoi stessi pensieri che ti hanno fatto sentire alternativamente debole e forte. - Il Maestro mi guardò con affetto - Hai
visto da te stesso come la tua salute ha corrisposto perfettamente alle tue aspettative. Il pensiero è una forza, proprio come l'elettricità e la gravitazione. La mente umana è una scintilla dell'onnipresente Coscienza di Dio. Potrei provarti che qualsiasi cosa la tua mente potente credesse con grande intensità, si avvererebbe all'istante. "Poiché sapevo che Lahiri Mahasaya non parlava mai a vanvera, mi rivolsi a lui con grande rispetto e gratitudine: - Maestro, se credo di star bene e di aver riacquistato il mio peso, ciò può avvenire?" " - Proprio così! Anche in questo stesso istante! - Il mio Guru parlava con gravità e il suo sguardo era concentrato nei miei occhi. "Oh! meraviglia! Sentii all'istante non solo aumentare la mia forza, ma anche il mio peso. Lahiri Mahasaya si ritirò nel silenzio. Dopo qualche ora trascorsa ai suoi piedi, tornai a casa di mia madre dove abitavo durante le mie visite a Benares. " - Figlio mio, che ti succede? Stai diventando idropico? - Mia madre credeva a stento ai propri occhi. Il mio corpo aveva ripreso le robuste dimensioni di prima della malattia. "Mi pesai; in un sol giorno ero cresciuto di venticinque chili, che non persi mai più. Amici e conoscenti che avevano visto la mia figura emaciata, rimasero senza parole per la meraviglia. Molti di essi mutarono il loro tenore di vita e divennero discepoli di Lahiri Mahasaya per effetto di tale miracolo. "Il mio Guru, sempre desto in Dio, sapeva che questo mondo non è altro che un sogno oggettivato del Creatore; poiché era perfettamente conscio della sua unità col Divino Sognatore, Lahiri Mahasaya poteva materializzare, o disgregare, o mutare in qualsiasi modo gli atomi di sogno del mondo dei fenomeni" (Nota: "Per questo vi dico: tutto ciò che voi domandate nella preghiera, credete che l'otterrete e l'avrete" (Marco, 11, 24). I Maestri che possiedono la divina unione sono perfettamente capaci di trasferire le loro realizzazioni ai discepoli più maturi, come fece in questa occasione Lahiri Mahasaya per Sri Yukteswar. Fine nota). "Tutta la creazione è governata da leggi", concluse Sri Yukteswar. "Le leggi che si manifestano nell'universo esteriore e che gli scienziati possono scoprire, vengono chiamate naturali. Ma vi sono leggi assai più sottili, che governano i piani spirituali nascosti e i reami interiori della coscienza. Tali principi possono essere conosciuti mediante la scienza dello yoga. Non lo studioso di fisica, bensì il Maestro autorealizzato è colui che comprende la vera natura della materia. Così il Cristo riusciva a riattaccare al suo posto l'orecchio del servo, troncato da un colpo di spada del discepolo Pietro".
Sri Yukteswar era un interprete impareggiabile delle Scritture. Molti dei miei ricordi più felici sono legati ai suoi discorsi. Ma i suoi pensieri, simili a pietre preziose, non venivano gettati nelle ceneri della negligenza o della stupidità; un irrequieto movimento del mio corpo o un solo attimo di distrazione bastavano per porre bruscamente termine alla spiegazione del mio Guru. "Tu non sei qui". Un pomeriggio egli si interruppe con questa constatazione. Come sempre, egli seguiva il cammino della mia attenzione con un'immediatezza veramente terribile. "Guruji". La mia voce aveva un tono di protesta. "Non mi sono mosso, non ho battuto ciglio, posso ripetere ogni parola che avete pronunziata!". "Eppure non eri completamente con me. La tua obiezione mi obbliga a farti osservare che nel fondo della tua mente, stavi cercando tre istituzioni: un eremitaggio tra i boschi in pianura, un altro su una collina, un terzo in riva all'oceano". Questi pensieri vagamente formulati erano davvero quasi inconsciamente in me. Lo guardai con espressione di scusa: "Ma che cosa posso fare con un simile Maestro che penetra i miei più incerti pensieri?". "Sei tu che me ne hai dato il diritto. Le sottili verità che ti sto esponendo non possono essere afferrate senza la più completa concentrazione da parte tua. Quando non è assolutamente necessario, io non invado il segreto dell'altrui mente. L'uomo possiede per natura il privilegio di vagare segretamente tra i propri pensieri. Il Signore non vi penetra se non chiamato; e nemmeno io mi azzarderei a farvi intrusione". "Voi siete sempre il benvenuto Maestro!". "I progetti che sogni si materializzeranno in seguito. Adesso è tempo di studiare!. Così, incidentalmente il mio Guru rivelò nella sua semplice maniera il futuro avverarsi di tre grandi eventi della mia vita. Fin dalla prima giovinezza avevo intravisto misteriosamente in me le immagini di tre costruzioni, ciascuna in un luogo diverso. Nell'esatto ordine indicato da Sri Yukteswar queste visioni divennero realtà. Prima fondai la mia scuola yoga per ragazzi su una pianura di Ranchi, poi la casa-madre americana su una collina di Los Angeles, e infine un eremitaggio e colonia yoga nel mezzogiorno della California sulle rive del Pacifico. Il Maestro non asseriva mai con arroganza: "Profetizzo che accadrà questo o quest'altro", ma piuttosto insinuava: "non credi che questo potrà
accadere?". Eppure le sue semplici parole celavano la forza di un vaticinio. Egli non si ritrattava mai; mai le sue parole velate risultarono false. Sri Yukteswar era nel suo comportamento riservato e assai positivo. Non vi era nulla in lui del vago o sciocco visionario. I piedi saldamente poggiati sulla terra, aveva la mente ancorata nel porto del cielo. Ammirava la gente pratica. "Santità non vuol dire ottusità. Le percezioni divine non rendono incapaci!", egli diceva. "L'espressione attiva della virtù affina anche la più acuta intelligenza". Il mio Guru era restìo a discutere di temi metafisici. La sua sola aura "meravigliosa" era quella di un'estrema e perfetta semplicità. Nella conversazione schivava gli argomenti sorprendenti: nell'azione si esprimeva con naturalezza. Molti Maestri parlavano di miracoli ma non erano capaci di farne; Sri Yukteswar raramente citava le leggi segrete, ma segretamente le metteva in pratica a volontà. "Un uomo che ha realizzato il Sé non attua alcun miracolo se prima non ne ha avuto l'autorizzazione interiore", spiegava il maestro. "Dio non desidera che i segreti della Sua creazione vengano rivelati a chicchessia. Inoltre ciascun individuo a questo mondo ha l'inalienabile diritto al suo libero arbitrio. Un santo non interferirà mai con tale indipendenza". (Nota: Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle dinanzi ai porci, che talora non le pestino coi piedi e, rivoltatisi contro voi, non vi sbranino" (Matteo, 7, 6). Fine nota). Il silenzio abituale a Sri Yukteswar proveniva dalle sue profonde percezioni dell'Infinito. Non gli restava tempo per le interminabili "rivelazioni" che occupano l'intera giornata di maestri che non hanno realizzato nulla. "Negli uomini superficiali, i pesciolini dei piccoli pensieri muovono molto le acque. Nelle menti oceaniche, le balene dell'ispirazione fanno appena un'increspatura". Questa citazione delle Scritture indù non manca di un certo spiritoso buonsenso. A causa dell'apparenza esteriore poco spettacolare del mio Guru, solo pochi suoi contemporanei riconobbero in lui un superuomo. L'adagio popolare: "Chi non sa nascondere la propria saggezza è uno sciocco" non sarebbe potuto mai essere applicato al mio profondo e tranquillo Maestro. Sebbene nato uomo mortale come tutti noi Sri Yukteswar aveva raggiunto l'identità col Signore del tempo e dello spazio. Nella sua vita io scorgevo una divina unità. Egli non aveva trovato nessun ostacolo insuperabile a una fusione perfetta dell'umano col Divino. Compresi che tali barriere non esistono che nella pusillanimità spirituale dell'uomo.
Quando toccavo i sacri piedi di Sri Yukteswar, mi sentivo sempre come elettrizzato. Gli yoghi insegnano che un discepolo viene spiritualmente magnetizzato dal riverente contatto con un maestro; si genera tra loro una misteriosa corrente. Gli indesiderabili meccanismi delle abitudini mentali del devoto vengono spesso come cauterizzati; i solchi profondamente incisi delle sue tendenze terrene sono beneficamente alterati. Almeno per un momento egli potrà vedere i segreti veli di maya sollevarsi, e intravedere per un attimo la realtà della beatitudine divina. Ogni volta che mi prostravo alla maniera indiana dinanzi al mio Guru, tutto il mio corpo era pervaso da una fiamma liberatrice. "Anche quando Lahiri Mahasaya taceva", mi disse il Maestro, "o quando conversava di argomenti non strettamente religiosi, scoprivo che mi aveva tuttavia trasmesso un'ineffabile conoscenza". Lo stesso effetto aveva su di me Sri Yukteswar. Se giungevo all'eremitaggio in uno stato d'animo preoccupato o indifferente, la mia disposizione mentale a poco a poco mutava. Una calma risanatrice discendeva su me alla sola vista del mio Guru. Ogni giorno che passavo con lui era un'esperienza nuova di gioia, di pace, di saggezza. Mai lo trovai illuso o turbato da desideri, emozioni, collera, o da qualsiasi altro vincolo umano. "L'oscurità di maya silenziosamente s'avvicina. Affrettiamoci a casa, dentro di noi". Con queste parole il Maestro rammentava costantemente ai suoi discepoli la necessità, per loro, del Kriya Yoga. Uno studente nuovo esprimeva a volte il dubbio di non essere degno d'intraprendere la disciplina yoga. "Dimentica il passato", lo consolava Sri Yukteswar. "Le vite passate di tutti gli uomini sono macchiate da molte vergogne. La condotta umana non darà mai affidamento fin quando non si è ancorati nel Divino. Ogni cosa in futuro migliorerà, se compirai uno sforzo spirituale ora". Nel suo eremitaggio, il Maestro aveva sempre dei giovani chela. La loro educazione spirituale e intellettuale costituì l'interesse di tutta la sua vita; perfino poco prima del trapasso egli accettò quali residenti all'eremitaggio due bambini di sei anni e un ragazzo di sedici. Educava tutti coloro che gli erano affidati con molta cura; le parole 'discepolo' e 'disciplina' sono imparentate, nell'etimologia e nella pratica. (Nota: Chela (pronuncia 'cela'): discepolo, dalla radice sanscrita 'servire'. Fine nota). Questi ospiti permanenti dell'ashram amavano e riverivano il loro Guru. Un lieve batter di mani li conduceva tutti zelanti al suo fianco.
Quando egli desiderava restare in silenzio e raccogliersi, nessuno osava parlare; quando il suo riso echeggiava gioviale, anche i bambini lo consideravano uno dei loro. Raramente il maestro chiedeva agli altri di rendergli un servizio personale, né accettava alcun aiuto da un allievo se non gli veniva offerto con gioia. Il mio Guru si lavava tranquillamente le proprie vesti, se i discepoli trascuravano di compiere tale privilegiato lavoro. Sri Yukteswar indossava la veste tradizionale color ocra degli swami; le scarpe senza lacci che portava in casa erano, secondo l'usanza yoga, di pelle di tigre o di cervo. Sri Yukteswar parlava correntemente l'inglese, il francese, l'indi e il bengali. Il suo sanscrito era buono. Con grande pazienza istruiva i giovani discepoli mediante certe scorciatoie ingegnosamente da lui inventate per facilitare lo studio dell'inglese e del sanscrito. Il Maestro si prendeva cura del suo corpo, pur evitando un eccessivo attaccamento a tale sollecitudine. "Il Divino, - egli diceva - si manifesta perfettamente attraverso la salute fisica e mentale". Disapprovava qualsiasi esagerazione. A un discepolo che voleva mantenere un lungo digiuno, il mio Guru chiese ridendo: "Perché mai non gettare un osso al cane?". (Nota: Il mio Guru approvava il digiuno come l'ideale metodo naturale di purificazione; ma quel particolare discepolo si preoccupava eccessivamente del proprio corpo. Fine nota). La salute di Sri Yukteswar era eccellente. Non lo vidi mai ammalato (Nota: Si ammalò una volta nel Kashmir, mentre io non ero con lui. Fine nota). Per rispetto verso le tradizioni del mondo, permetteva ai discepoli di consultare un medico, se lo desideravano. "I medici - diceva - devono compiere il loro dovere di curare gli uomini attraverso le leggi di Dio applicate alla materia". Però esaltava la superiorità delle terapie mentale e spesso ripeteva: "La saggezza è il depurativo più efficace". "Il corpo è un amico malfido - egli diceva anche ai suoi chela; - dategli quello che gli è dovuto e non di più". "La sofferenza e il piacere sono transitori; sopportate ogni dualità con calma, cercando allo stesso tempo di portarvi al di là del loro potere. L'immaginazione è la porta da cui entrano sia la malattia che la guarigione. Rifiutate di credere alla realtà della malattia, anche quando siete ammalati; un visitatore non accolto scappa via presto!". Il Maestro annoverava molti medici fra i suoi discepoli. "Coloro che hanno investigato le leggi fisiche dovrebbero andare oltre e studiare la scienza dell'anima", diceva loro. "Un delicatissimo meccanismo spirituale si cela proprio dietro la struttura del corpo". (Nota: Un medico coraggioso, Charles Robert Richet, cui fu assegnato il premio Nobel per la fisiologia,
scrisse quanto segue: "La metafisica non è ancora riconosciuta ufficialmente quale scienza, ma lo sarà... A Edimburgo ho potuto affermare dinanzi a cento fisiologi che i nostri cinque sensi non sono i nostri soli mezzi di conoscenza e che un frammento della realtà a volte raggiunge l'intelligenza in altri modi... Se un fatto è raro non vuol dire che non esista. Se uno studio è difficile, è questa una ragione per non comprenderlo?... Coloro che hanno relegato la metafisica fra le scienze occulte si vergogneranno di se stessi come coloro che rifiutarono la chimica basandosi sul fatto che la ricerca della pietra filosofale era illusoria. In materia di principi non vi sono che quelli di Lavoisier, di Claude Bernard e di Pasteur: lo sperimentare sempre e dovunque. Salutiamo dunque la nuova scienza che muterà l'orientamento del pensiero umano". Fine nota). Sri Yukteswar consigliava i suoi studenti di essere legami viventi tra le virtù occidentali e quelle orientali. Egli stesso, praticamente un occidentale nelle abitudini esteriori, era interiormente e spiritualmente un orientale. Apprezzava il progresso, le risorse e le abitudini igieniche dell'Occidente e gli ideali religiosi che conferiscono all'oriente un secolare alone di luce. La disciplina non era per me cosa nuova; a casa, mio padre era severo e Ananta spesso duro, ma la severità di Sri Yukteswar non poteva essere definita altro che drastica. Poiché tendeva in tutto alla perfezione, il mio Guru criticava spietatamente i suoi discepoli, sia nelle cose importanti, sia nelle sottili sfumature del comportamento. "Le buone maniere senza sincerità sono come una bella donna senza vita", rilevava al momento opportuno. "La dirittura senza gentilezza è come il coltello di un chirurgo: utile ma spiacevole. La schiettezza unita alla cortesia è utile e ammirevole". Il Maestro era apparentemente soddisfatto dei miei progressi spirituali, perché ne parlava di rado: su altri argomenti, alle mie orecchie non venivano risparmiati rimproveri. La mia colpa maggiore era la disattenzione, il frequente indulgere nella malinconia, la mancata osservazione di alcune regole di etichetta, e a volte la mancanza di metodicità. "Osserva come le attività che svolge tuo padre Bhagabati sono bene organizzate ed equilibrate", mi ripeteva il mio Guru. I due discepoli di Lahiri Mahasaya s'erano incontrati poco dopo la mia prima visita all'eremitaggio di Serampore. Mio padre e Sri Yukteswar si ammiravano profondamente a vicenda. Entrambi si erano costruiti una bellissima vita interiore su fondamenta spirituali granitiche, a prova dei secoli.
Da un occasionale maestro della mia infanzia avevo ricevuto insegnamenti errati. Mi si era detto che un chela non doveva preoccuparsi troppo dei doveri terreni; quando ero stato negligente o disattento nei miei compiti, non venivo punito. La natura umana assimila molto facilmente questi precetti. Sotto la sferza spietata del Maestro, però, mi ripresi presto dal piacevole inganno dell'irresponsabilità. "Coloro che sono troppo buoni per questo mondo ne ornano un altro", diceva Sri Yukteswar. "Fin quando respiri la libera aria della terra, hai l'obbligo di servire con animo grato. Solo chi si è reso compiutamente padrone della sospensione del respiro (Nota: Nel samadhi o supercoscienza. Fine nota ) è liberato dagli imperativi cosmici". E aggiungeva, asciutto: "Non mancherò di farti sapere quando avrai raggiunto la perfezione finale". Neppure l'amore poteva comprare il mio Guru. Non dimostrava alcuna indulgenza per chi, come me, gli si era spontaneamente offerto come discepolo. Sia che il Maestro ed io fossimo circondati dai suoi allievi o da estranei, sia che fossimo soli, egli parlava sempre chiaro e rimproverava con asprezza. Nemmeno la più lieve caduta nella superficialità o nella leggerezza sfuggiva ai suoi rimbrotti. Questo trattamento schiacciante era durissimo da sopportare, ma avevo deciso di consentire a Sri Yukteswar di stirare a ferro caldo tutte le mie pieghe psichiche. Mentre gli si affaticava a compiere questa titanica trasformazione, molte volte tremavo sotto il peso del suo martello disciplinare. "Se non ti piacciono le mie parole sei libero di andartene in qualsiasi momento", mi assicurava il Maestro. "Non voglio altro da te che il tuo progresso spirituale. Rimani qui soltanto se vi trovi un beneficio". Per ogni colpo umiliante che sferrò contro la mia vanità, per ogni dente malato che egli, metaforicamente mi sradicò con doloroso strappo, gli sono grato oltre ogni dire. Il duro nocciolo dell'egoismo umano è difficile da estirpare senza una buona dose di brutalità. Quando infine è rimosso, il Divino trova finalmente un libero canale d'afflusso; invano Esso cerca d'infiltrarsi nel suolo pietroso dell'egoismo. L'intuizione di Sri Yukteswar era così penetrante che, senza curarsi di ciò che veniva detto, spesso egli rispondeva ai pensieri inespressi. "Le parole usate da una persona e ciò che veramente nascondono, possono essere due cose perfettamente opposte", diceva il io Guru. "Mediante la calma, cerca di sentire i pensieri celati dietro la confusione dell'umana verbosità". Ma le scoperte della divina penetrazione hanno spesso un suono sgradevole alle orecchie mortali; il Maestro non godeva di molta popolarità fra gli allievi superficiali. Quelli saggi, invece, (sempre poco numerosi) lo
veneravano profondamente. Oso dire che Sri Yukteswar sarebbe stato il Guru più ricercato dell'India, se le sue parole non fossero state tanto schiette e taglienti. "Sono duro con coloro che vengono per essere formati da me", ammetteva. "Questo è il mio modo di agire. Prendere o lasciare. Non accetterò mai un compromesso. Ma tu sarai molto più gentile con i tuoi discepoli; questo è il tuo modo di essere. Io cerco di purificare soltanto nel fuoco della severità, cauterizzando al di là della sopportazione media. Ma anche il dolce tocco dell'amore può trasfigurare le creature umane. il metodo inflessibile e quello dolce sono egualmente efficaci, se applicati con saggezza. Tu andrai in paesi lontani,, dove i bruschi assalti contro l'ego non sono apprezzati. Un Maestro non potrà mai divulgare il messaggio dell'India in Occidente senza una larga dose di accomodante pazienza e tolleranza". Rinunzio a dire quante volte, in America, io abbia ripensato in seguito a queste parole del maestro! Sebbene l'indissimulato linguaggio del mio Guru gli negasse un largo seguito durante gli anni ch'egli trascorse sulla terra, tuttavia il suo spirito vivente si manifesta oggi in tutto il mondo attraverso un numero sempre crescente di fedeli studiosi dei suoi insegnamenti. I guerrieri come Alessandro cercano il dominio sul suolo della terra; Maestri come Sri Yukteswar conquistano un territorio ben più vasto nelle anime umane. Il Maestro aveva l'abitudine di rilevare semplici, trascurabili mancanze dei suoi discepoli con un'aria di straordinaria gravità. Un giorno mio padre giunse per salutare Sri Yukteswar. Assai probabilmente il mio genitore sperava di sentirgli dire qualche parola di lode a mio riguardo. Fu invece molto scosso nell'udire un lungo elenco dei miei difetti. Si precipitò a cercarmi: "Dalle parole del tuo Guru mi aspettavo di trovarti in pieno naufragio!". Il mio genitore combatteva fra le lacrime e il riso. L'unica ragione dello scontento di Sri Yukteswar in quel momento, proveniva dal fatto che avevo cercato, contro il suo discreto avvertimento, di convincere una certa persona a cercare il sentiero spirituale. Indignato, andai di corsa dal mio Guru. Mi ricevette a occhi bassi, come se avesse coscienza d'esser colpevole. Fu quella l'unica volta che vidi il divino leone umile dinanzi a me. Quell'unico istante lo assaporai appieno. "Maestro, perché mai mi avete giudicato con una tale mancanza di misericordia dinanzi al mio povero padre confuso? E' giusto questo?".
"Non lo farò mai più". Il tono di voce del Maestro era di scusa. Fui subito disarmato. Con quale prontezza il grande uomo ammetteva un suo errore! Sebbene mai più dopo quella volta egli abbia turbato la tranquillità d'animo di mio padre, il mio Guru continuò senza tregua a vivisezionarmi come e quando voleva. Spesso i nuovi discepoli si univano a Sri Yukteswar in un coro di feroci critiche contro gli altri. Saggi come il Guru! Modelli d'immacolata discriminazione! Ma colui che prende l'offensiva dovrebbe essere inattaccabile a sua volta. Gli stessi cavillosi studenti fuggirono a precipizio non appena il Maestro scoccò pubblicamente nella loro direzione alcune frecce dalla sua faretra analitica. "I punti deboli dell'animo che si ribellano anche al tocco d'una blanda critica, sono simili alle parti ammalate di un corpo, che si ritraggono al più delicato contatto". Questo era il divertito commento di Sri Yukteswar su coloro che eran fuggiti. Ci sono molti discepoli che cercano un guru fatto a loro stessa immagine. Tali allievi spesso si lamentavano di non capire Sri Yukteswar. "E nemmeno comprendete Iddio!", risposi loro una volta. "Se poteste comprendere un santo, sareste santi". Fra gli innumerevoli misteri che ogni secondo riempiono l'inesplicabile universo, chi può mai pretendere di capire l'insondabile natura di un maestro? Gli studenti venivano e in genere, poi, se ne andavano. Quelli che cercavano un sentiero facile, di ovattata simpatia e di confortante riconoscimento dei propri meriti, non lo trovavano di certo all'eremitaggio. Il Maestro offriva asilo e guida per i secoli, ma molti discepoli, ahimé! reclamavano anche avidamente un balsamo per il loro egoismo. Essi se ne andavano, preferendo all'umiltà le infinite umiliazioni della vita. Gli splendenti raggi del Maestro, la libera e penetrante luce solare della sua saggezza, erano troppo forti per il loro male spirituale. Essi cercavano qualche maestro minore che, riparandoli all'ombra dell'adulazione, consentisse loro l'incerto sonno dell'ignoranza. Durante i primi mesi trascorsi col Maestro, la mia suscettibilità aveva timore dei suoi rimproveri. Presto però mi accorsi che le sue vivisezioni verbali erano riservate a quei discepoli che, come me, gli avevano chiesto d'essere sottoposti alla sua disciplina. Se qualche studente troppo tormentato, protestava, Sri Yukteswar senza offendersi si ritirava nel silenzio. Le sue parole non erano mai iraconde ma impersonali e permeate di saggezza.
I rimproveri del Maestro non si rivolgevano ai visitatori occasionali; egli raramente sottolineava i loro difetti, anche se erano vistosi. Ma verso gli allievi che cercavano il suo consiglio, Sri Yukteswar sentiva una grave responsabilità. E' davvero coraggioso il guru che intraprende la trasformazione del minerale grezzo di questa umanità permeata di egoismo! Il coraggio di un santo ha le sue radici nella compassione per i poveri ciechi di questo mondo, che disorientati dalla maya, inciampano ovunque. Quando riuscii a non provare più alcun risentimento interiore, mi accorsi che le mie punizioni diminuivano sensibilmente. In una forma molto velata il Maestro si addolcì, divenendo relativamente clemente. Col tempo demolii ogni muraglia di razionalità e d'inconscia riserva dietro cui la personalità umana in genere si ripara. (Nota: "La nostra natura cosciente e subcosciente, è coronata da una supercoscienza" asserì il rabbino Israel H. Levinthal in una conferenza tenuta a New York. Molti anni or sono, lo psicologo F.W.H. Mysers suggerì che "celati nelle profondità del nostro essere stanno un mucchio di spazzatura e uno scrigno di tesori. Il contrasto con la psicologia che accentra tutte le sue ricerche sulla natura subcosciente dell'uomo, questa nuova psicologia della supercoscienza fissa l'attenzione sullo scrigno dei tesori, la regione che sola può spiegare le grandi, generose, eroiche azioni umane". Fine nota). La ricompensa fu una spontanea armonia che si stabilì tra me e il mio Guru; allora scoprii ch'egli era riguardoso, fiducioso e che mi amava in silenzio. Riservatissimo, però, non si lasciava mai sfuggire una parola affettuosa. Il mio temperamento è incline soprattutto alla devozione. A tutta prima era sconcertante per me trovare che il mio Guru, saturo di jnana ma in apparenza completamente arido di bhakti (Nota: Jnana: saggezza; bhakti: devozione. Due dei principali sentieri che conducono a Dio. Fine nota), si esprimeva quasi solo in termini di fredda matematica spirituale. Ma quando mi misi in sintonia con la sua natura, scoprii che il mio devoto avvicinamento a Dio non era in diminuzione, ma anzi in aumento. Un maestro autorealizzato è perfettamente capace di guidare i suoi vari discepoli seguendo le linee naturali delle loro tendenze fondamentali. Il mio rapporto con Sri Yukteswar, benché in parte inarticolato, possedeva tuttavia una grande eloquenza segreta. Spesso egli avallava in silenzio i miei pensieri, cosa che rendeva inutile ogni discorso. Seduto tranquillamente accanto a lui, sentivo la sua ricchezza interiore riversarsi su tutto il mio essere, in pace. L'imparziale senso di giustizia di Sri Yukteswar si rivelò in modo chiarissimo durante le vacanze del mio primo anno universitario. Con vera
gioia attendevo questa occasione per trascorrere senza interruzione alcuni mesi a Serampore col mio Guru. "Potrai occuparti dell'eremitaggio". Il Maestro era lieto dell'entusiasmo col quale ero giunto. "Il tuo compito sarà quello di ricevere gli ospiti e di controllare il lavoro degli altri discepoli". Kumar, un giovane di campagna del Bengala orientale, fu accolto come allievo all'eremitaggio quindici giorni dopo. D'intelligenza notevole, ben presto egli conquisto l'affetto di Sri Yukteswar. Per qualche impenetrabile ragione il Maestro era molto indulgente col nuovo venuto. "Mukunda, Kumar assumerà i tuoi compiti. Tu puoi occupare il tuo tempo a spazzare e cucinare". Il Maestro mi dette queste istruzioni dopo un mese che il ragazzo era con noi. Elevato a un posto di comando, Kumar esercitò una meschina tirannia nel governo di casa. In silenziosa ribellione, gli altri discepoli continuarono a rivolgersi a me per consiglio. Questa situazione durò per tre settimane poi colsi un dialogo svoltosi tra Kumar e il Maestro. "Mukunda è insopportabile! Voi mi avete affidato la direzione della casa e gli altri invece vanno da lui e gli obbediscono". "Ecco la ragione per cui ho assegnato lui alla cucina e te al salotto". Il tono secco di Sri Yukteswar era nuovo per Kumar. "In questo modo avrai potuto accorgerti che un degno capo ha il desiderio di servire, e non quello di dominare. Tu volevi la posizione di Mukunda ma non puoi sostenerla col tuo merito. Ritorna ora al tuo precedente lavoro di aiuto in cucina". Dopo questo umiliante incidente il Maestro riprese verso Kumar il suo atteggiamento d'insolita indulgenza. Chi può mai svelare il mistero di un'attrazione? In Kumar il nostro Guru aveva scoperto una sorgente di fascino che tuttavia non sgorgava per gli altri discepoli. Benché il nuovo ragazzo fosse apertamente il favorito di Sri Yukteswar non ne provavo dispiacere. Le preferenze personali cui perfino i maestri vanno soggetti, offrono una ricchissima complessità ai vari schemi della vita. Raramente la mia natura si lascia dominare da un particolare; io cercavo presso Sri Yukteswar un bene assai più profondo che non quello di una lode esteriore. Un giorno, senza ragione, Kumar mi parlò con livore. ne fui profondamente ferito. "La tua testa si sta gonfiando al punto di scoppiare". E aggiunsi un avvertimento la cui verità percepivo intuitivamente: "Se non modifichi il tuo modo di agire, un giorno verrai pregato di andartene dall'ashram".
Con un riso sarcastico Kumar riferì le mie parole al nostro Guru, che era appena entrato nella stanza. Convinto che sarei stato sgridato, mi ritirai mogio mogio in un angolo. "Forse Mukunda ha ragione". La risposta del Maestro al ragazzo fu insolitamente fredda. Non fui punito. Un anno dopo Kumar partì per una visita alla sua casa natìa. Egli ignorò la silenziosa disapprovazione di Sri Yukteswar, che non influenzava mai in modo autoritario i movimenti dei suoi discepoli. Quando, dopo qualche mese, il ragazzo ritornò a Serampore, apparve chiaro in lui uno spiacevole mutamento; l'altero Kumar dal viso raggiante e sereno, non esisteva più. Dinanzi a noi stava solamente un volgare contadino, che aveva recentemente acquistato una quantità di cattive abitudini. Il Maestro mi chiamò e con dolore commentò il fatto che ormai il ragazzo non era più adatto alla vita monastica dell'eremitaggio. "Mukunda, incarico te di dirgli che entro domani deve lasciare l'ashram. Io non ho il coraggio di farlo!". Gli occhi di Sri Yukteswar erano umidi ma ben presto egli si controllò. "Se il ragazzo mi avesse ascoltato e non fosse andato via per mescolarsi a compagni indesiderabili, non sarebbe caduto così in basso. Egli ha respinto la mia protezione; il duro mondo dovrà ancora essere il suo guru". La partenza di Kumar non mi fece alcun piacere. Mi chiedevo con tristezza come mai qualcuno che aveva avuto il potere di conquistare l'amore del Maestro, potesse lasciarsi così facilmente adescare da tanta volgarità. I godimenti del vino e del sesso sono radicati nell'uomo primitivo e non richiedono, per essere apprezzati, nessuna delicatezza di percezione. Gli inganni dei sensi possono essere paragonati all'oleandro sempreverde; fragrante nei suoi fiori multicolori, ma velenoso in ogni sua parte. Il regno della vera salute sta dentro di noi e irradia quella felicità che ciecamente noi ricerchiamo in mille e mille direzioni sbagliate. (Nota: "L'uomo nello stato di veglia compie innumerevoli sforzi per sperimentare i piaceri dei sensi; quando tutti gli organi dei sensi sono stanchi, egli dimentica perfino il piacere che ha sottomano e si sprofonda nel sonno per godere del riposo nell'anima, che è la sua vera natura" scrisse Shankara, il grande studioso dei Veda. "Il rapimento ultrasensorio e perciò assai facile da raggiungersi ed è molto superiore ai piaceri dei sensi, che sempre terminano in disgusto". Fine nota) L'intelligenza acuta è come una lama a doppio taglio, disse una volta il Maestro riferendosi alla brillante mente di Kumar. "Può essere usata per il bene o per il male, per tagliare l'ascesso dell'ignoranza o per decapitare il
proprio sé. L'intelligenza è guidata a dovere solo se la mente ha riconosciuto l'ineluttabilità della legge spirituale". "Nel sonno tu non sai se sei uomo o donna", diceva. "Come un attore che reciti una parte femminile non per questo diventa una donna, così l'anima che può rivestire la parte sia dell'uomo che della donna non ha sesso. L'anima è immutabile e illimitata immagine di Dio". Sri Yukteswar non evitava o biasimava mai le donne quali cause della . "Gli uomini", diceva, "rappresentano anch'essi una tentazione per le donne". Una volta chiesi al mio Guru perché un grande e antico Santo avesse definito la donna 'la porta dell'inferno'. "Una ragazza deve avergli dato molto filo da torcere per conservare la pace del suo spirito, in gioventù", rispose causticamente il mio Guru. "Altrimenti egli avrebbe accusato non la donna, ma qualche imperfezione del proprio autocontrollo." Se un visitatore osava raccontare, nell'eremitaggio, una storia un po' ardita, il maestro si racchiudeva in una silenziosa indifferenza: "Non permettete a voi stessi di rimanere colpiti dalla provocante frusta di un bel viso", diceva ai discepoli. "Come possono gli schiavi dei sensi gioire del mondo? I suoi delicatissimi sapori sono perduti per coloro che s'impantanano nel fango primitivo. L'uomo dalle passioni elementari non sa distinguere le cose belle". L'uomo soggetto a maya deve iniziare il proprio ritorno alla divinità esercitando l'autocontrollo sul corpo. A tutti gli allievi che cercavano il suo aiuto per vincere i richiami naturali , Sri Yukteswar impartiva consigli pazienti e comprensivi. Come la fame, ma non l'ingordigia, ha un legittimo scopo, così l'istinto sessuale ci è stato dato dalla natura per la propagazione della specie secondo la legge naturale, e non per eccitare insaziabili brame", diceva il Maestro. "Distruggete adesso i desideri cattivi, altrimenti essi vi seguiranno anche dopo che il corpo astrale si sarà separato dal suo involucro fisico. Anche quando la carne è debole, la mente dovrebbe resistere con costanza. Se la tentazione vi assale con crudele violenza, superatela con l'analisi obiettiva e con un'indomita volontà. Ogni passione istintiva può essere dominata. "Conservate le vostre forze. Siate come il vasto oceano che assorbe quietamente in sé tutti i fiumi tributari dei sensi. Le brame dei sensi, rinnovate ogni giorno, minano la vostra pace interiore; esse sono come i fiori in un serbatoio, che permettono alle acque vitali di disperdersi nel desertico suolo del materialismo. Il prepotente, azionante impulso del desiderio è il più grande nemico della felicità dell'uomo. Andate per il mondo come leoni dell'autocontrollo; non permettete alle rane delle
debolezze dei sensi di prendervi a calci per farvi saltare intorno a modo loro". Il vero e fedele devoto viene alla fine liberato da ogni costrizione istintiva. Egli trasforma il suo bisogno d'affetto umano nell'aspirazione verso Dio solo, un amore solitario perché onnipresente. La madre di Sri Yukteswar viveva nel distretto di Rana Mahal a Benares, dove la prima volta avevo visitato il mio Guru. Amabile e gentile, era però una donna dalle convinzioni assai decise. Un giorno, stando sul balcone della sua casa, osservavo madre e figlio che parlavano tra di loro. Nel suo modo calmo e ragionevole il Maestro cercava di convincerla di qualcosa. Evidentemente non ebbe successo, poiché ella scuoteva vigorosamente il capo: "No, no, figlio mio! Vattene adesso! Le tue sagge parole non sono per me! Non sono tua discepola!". Senza ulteriori discussioni, Sri Yukteswar si ritirò come un bimbo sgridato. Mi commosse il grande rispetto ch'egli nutriva per la madre, anche quando ella si mostrava irragionevole. Ella lo considerava solo come il suo bambino e non come un Saggio. Vi era un fascino speciale in questo piccolo incidente; esso gettò una luce inattesa su un lato della singolare natura del mio Guru, umile nel fondo dell'animo suo quanto esteriormente inflessibile. Le regole monastiche non permettono a uno swami di serbare legami umani dopo il suo distacco ufficiale. Egli non può celebrare il cerimoniale dei riti familiari, obbligatorio per un capo- famiglia. Però Shankara, l'antico riorganizzatore dell'ordine degli Swami, contravvenne a questa regola. Quando morì la sua amata madre, egli ne cremò il corpo col fuoco celeste che fece scaturire dalla sua mano levata. Anche Sri Yukteswar ignorò le restrizioni, sebbene in modo meno spettacolare. Quando sua madre morì, egli organizzo il rito crematorio sulle sponde del sacro Gange a Benares e diede da mangiare a molti brahmini, in conformità a un'usanza secolare per i capi-famiglia. Le restrizioni shastriche avevano lo scopo d'aiutare gli swami a superare tutti i ristretti vincoli umani. Shankara e Sri Yukteswar avevano completamente sommerso il loro essere nello Spirito Impersonale; essi non avevano bisogno delle norme per salvarsi. A volte, anche un Maestro ignora volutamente un canone per sostenere il principio, superiore e indipendente dalla forma. Così Gesù permise ai discepoli affamati di raccogliere spighe di grano nel giorno del riposo. Agli inevitabili critici egli rispose con
acutezza: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!". (Nota: Marco, 2, 27. Fine nota). A eccezione dei testi delle Scritture, raramente un libro veniva onorato dell'attenzione di Sri Yukteswar; eppure egli era sempre al corrente delle ultime scoperte scientifiche e di altri progressi nel sapere. (Nota: Quando voleva, il maestro poteva istantaneamente mettersi in sintonia con la mente di qualsiasi uomo (un potere yoghico di cui parlano le Yoga Sutra, III, 19). I suoi poteri come radioricevente umana, e la natura dei pensieri, sono spiegati in seguito. Fine nota). Brillante conversatore, gli piaceva scambiare idee con i suoi ospiti su innumerevoli argomenti. Lo spirito acuto e pronto del mio Guru e il suo riso festoso rendevano vivace ogni discussione. Spesso serio, il maestro non era mai tetro. "Per cercare Dio non è necessario sfigurare la propria faccia", osservava citando la Bibbia. (Nota: Matteo, 6, 16. Fine nota). "Ricordate che trovare Dio significherà dare seppellimento a tutti i dolori". Tra filosofi, professori, avvocati e scienziati che venivano all'eremitaggio ve n'erano parecchi che, alla loro prima vista, credevano di trovare un religioso ortodosso. Un arrogante sorriso o uno sguardo di divertita tolleranza tradiva a volte il fatto che essi non si aspettavano altro che poche trite e pie banalità. Ma dopo avergli parlato, la loro riluttanza ad andarsene dimostrava che Sri Jukteswar aveva manifestato un'acuta penetrazione nei loro specifici campi d'interesse. Il mio Guru, in genere, era gentile e affabile con gli ospiti; li accoglieva con incantevole cordialità. Però gli inveterati egotisti ricevevano da lui talvolta una salutare sferzata. Essi trovavano nel Maestro o una gelida indifferenza, o una formidabile opposizione! Ghiaccio o ferro! Una volta, un noto chimico venne ai ferri corti con Sri Yukteswar. Il visitatore non voleva ammettere l'esistenza di Dio, poiché la scienza non offre nessun mezzo per dimostrarla. "Così inesplicabilmente, non siete riuscito a isolare il Supremo Potere nei vostri alambicchi! Lo sguardo del maestro era severo. "Vi raccomando un esperimento nuovissimo: esaminate attentamente per ventiquattr'ore i vostri pensieri; poi non vi stupirete più di non trovarvi Iddio". Un celebre pandit ricevette uno scossone analogo. Ciò avvenne durante la sua prima visita all'ashram. Con ostentato zelo, lo studioso fece tremare le travi dell'ashram recitando altisonanti brani del Mahabbarata, dalle Upanishad, dalle bhasya (commentari) di Shankara. (Nota: Le Upanishad o
Vedanta (letteralmente "fine dei Veda") si trovano in certe parti dei Veda quale compendio essenziale, che costituisce la base dottrinale della religione induista. Schopenhauer lodò il loro "pensiero profondo, originale e sublime". Egli scrisse: "La preparazione ai Veda attraverso le (traduzioni occidentali delle) Upanishad mi sembra il più grande privilegio di cui questo secolo possa vantarsi dinanzi a tutte le epoche passate". Fine nota). "Sono qui in attesa di ascoltarvi!". Il tono di Sri Yukteswar era interrogativo, come se fino allora avesse regnato un profondo silenzio. Il pandit era sconcertato. "Citazioni ne sono state fatte in sovrabbondanza". Le parole del Maestro mi diedero un convulso d'ilarità, mentre stavo accosciato nel mio angolo, a rispettosa distanza dal visitatore. "Ma quale commento originale potete espormi, traendolo dall'unicità della vostra vita individuale? Quali sacri testi avete assimilati e fatti vostri? In qual modo quelle eterne verità hanno rinnovato il vostro essere? Siete soddisfatto d'essere una vuota macchina parlante che ripete meccanicamente le parole altrui?". "Mi do per vinto!". Il dispiacere dello studioso era comico. "Non ho conseguito alcuna realizzazione interiore". Forse per la prima volta , comprese che la maestria nel porre con discernimento una virgola (comma), non riscatta il fatto d'avere la mente in coma. "Questi anemici pedanti puzzano di lampada", sentenziò il Guru dopo la partenza del mortificato pandit. "Considerano la filosofia come un blando esercizio intellettuale da porre in scena. I loro alati pensieri sono mantenuti miracolosamente privi d'ogni rapporto sia con la cruda realtà dell'azione esteriore, sia con ogni cauterizzante disciplina interiore". Anche in altre occasioni il maestro fece sempre rilevare la futilità di una cultura tratta unicamente dai libri. Egli soleva dire: "Non confondete la comprensione con un vasto vocabolario. Le sacre Scritture sono utili per stimolare il desiderio di realizzazione interiore, se si assimila lentamente un versetto alla volta. Altrimenti, un continuo studio intellettuale può avere per risultato la vanità e la falsa soddisfazione di un sapere non digerito". Sri Yukteswar raccontò una propria esperienza riguardo all'assimilazione delle Scritture. La scena si svolse in un eremitaggio situato in una foresta del Bengala orientale, dove egli seguiva l'insegnamento di un famoso maestro, Dabhu Ballav. Il metodo di quest'ultimo, a un tempo semplice e difficile, era molto in uso nell'India antica.
Dabhu Ballav aveva radunato intorno a sé i suoi discepoli nella solitudine silvestre. La sacra Bhagavad-Gita stava aperta dinanzi ad essi. Con costanza, tutti fissarono un brano del testo per una mezz'ora, quindi chiusero gli occhi. Un'altra mezz'ora scivolò via. Il Maestro fece allora un breve commento. Immobili, meditarono di nuovo per un'ora. Finalmente il Guru disse: "Avete capito?". "Si, signore", osò affermare uno del gruppo. "No. Non completamente. Cercate la vitalità spirituale che ha dato a queste parole il potere di ringiovanire l'India secolo dopo secolo". Un'altra ora trascorse in silenzio. Il Maestro congedò gli studenti e si rivolse a Sri Yukteswar: "Conosci la Bhagavad-Gita?". "No, signore. Non la conosco veramente, sebbene i miei occhi e la mia mente abbiano percorso molte volte le sue pagine". "Migliaia di persone mi hanno risposto in modo diverso!". Il grande Saggio sorrise a Sri Yukteswar, benedicendolo. "Se ci si mette a far sfoggio di una ricca conoscenza esteriore delle Scritture, quale tempo rimane per tuffarsi nel silenzio entro se stessi alla ricerca delle inestimabili perle preziose?". Sri Yukteswar dirigeva lo studio dei suoi discepoli seguendo lo stesso metodo d'intensa concentrazione su di un sol punto. "La saggezza non si assimila con gli occhi, ma con gli atomi", egli diceva. Quando la convinzione di una verità non è ancorata solo nel tuo cervello, ma in tutto il tuo essere, allora puoi cautamente avallarne il significato". Scoraggiava ogni tendenza degli allievi a considerare la cultura acquisita dai libri come passo necessario per raggiungere la realizzazione spirituale. "I rishi scrissero in una sola frase cose talmente profonde, che tengono occupati i commentatori per generazioni intere", ci faceva osservare il Maestro. "Le infinite controversie letterarie sono per le menti pigre. Quale pensiero è più liberatore di questo: 'Dio è', anzi, semplicemente: 'Dio'? Ma l'uomo non ritorna facilmente alla semplicità. Raramente è "Dio" per un intellettuale, che preferisce le pomposità erudite. Il suo ego si compiace di riuscire ad afferrare tale erudizione. A uomini che erano orgogliosamente coscienti della loro ricchezza o alta posizione sociale, poteva facilmente accadere, alla presenza del maestro, di dover aggiungere alle loro conquiste l'umiltà. Una volta un magistrato locale, richiese un'intervista all'eremitaggio di Puri, sulla riva del mare. L'uomo, che aveva la reputazione d'essere spietato e senza riguardi, aveva
anche l'autorità di cacciarci dall'ashram. Avvertii il mio Guru del suo dispotico potere. Ma il Maestro si sedette con aria indifferente e non si alzò neppure per dare il benvenuto al visitatore. Un po' innervosito, mi accosciai accanto all'uscio. Il magistrato dovette accontentarsi di una cassa come sedile, giacché il mio Guru non mi disse neanche di offrirgli una sedia. Nessuno appagava l'evidente aspettativa del magistrato di veder riconosciuta cerimoniosamente la sua importanza. Seguì una discussione metafisica; l'ospite brillava per i suoi errori d'interpretazione delle scritture. Man mano che diminuiva la sua precisione, aumentava la sua ira. "Sapete che sono stato il primo all'esame di lettere?". Non era più in grado di ragionare, ma poteva ancora gridare. "Signor Magistrato, dimenticate che questa non è la vostra aula giudiziaria", rispose il Maestro con calma. "Dai ragionamenti infantili che fate, avrei immaginato che la vostra carriera universitaria fosse stata assai modesta. Una laurea, comunque, non è in alcun rapporto con la realizzazione Vedica. I Santi non si sfornano ad ogni semestre come i laureati!". Dopo uno stupefatto silenzio, il visitatore scoppiò in una cordiale risata. "Questo è il mio primo incontro con un magistrato del cielo", disse. In seguito inoltrò una richiesta formale, compilata nei termini legali che evidentemente facevano parte essenziale della sua natura, per venire accolto in qualità di discepolo 'in prova'. In varie occasioni Sri Yukteswar, come già Lahiri Mahasaya, scoraggiò studenti immaturi dall'entrare nell'ordine degli Swami. "Portare la veste ocra senza avere la realizzazione divina è un inganno alla società", usavano dire i due maestri. "Dimenticate i simboli esteriori della rinunzia, che possono farvi del male tentando il vostro falso orgoglio. Nulla è importante fuorché il vostro costante e giornaliero progresso spirituale; per ottenerlo, praticate il Kriya Yoga". Nel misurare il valore di un uomo, i Santi usano un criterio invariabile, ben differente dalle instabili misure usate dal mondo. L'umanità - così varia ai propri occhi! - si divide agli occhi di un maestro in due sole classi: quella degli ignoranti che non cercano Dio, e quella dei saggi che Lo cercano. Il mio Guru si occupava personalmente di tutti i particolari d'amministrazione della sua proprietà. Persone poco scrupolose avevano tentato in varie occasioni di assicurarsi il possesso delle terre tramandate al Maestro dai suoi antenati. Con ferma decisione, e perfino iniziando processi giudiziari, Sri Yukteswar mise fuori combattimento tutti gli avversari. Si
sottopose a queste penose esperienze per il desiderio di non diventare un guru mendicante o un peso per i suoi discepoli. La sua indipendenza finanziaria era una delle ragioni che permettevano al mio Maestro, franco in così allarmante misura, d'ignorare candidamente ogni scaltrezza diplomatica. A differenza di quei maestri che sono costretti ad adulare i loro protettori, il mio Guru era impenetrabile a ogni influenza, palese o nascosta, dell'altrui ricchezza. Non gli ho mai sentito chiedere denaro, e nemmeno accennarvi, per nessuna ragione. L'insegnamento nel suo eremitaggio veniva impartito gratuitamente a tutti i discepoli. Un ufficiale giudiziario si presentò un giorno all'ashram di Serampore per consegnare a Sri Yukteswar una citazione. Un discepolo di nome Kanai ed io lo introducemmo alla presenza del Maestro. L'atteggiamento del funzionario verso Sri Yukteswar era offensivo. "Vi farà bene abbandonare le ombre del vostro eremitaggio e respirare l'onesta atmosfera di un'aula di tribunale", disse con un ghigno dispregiativo. Non potei trattenermi. "Un'altra parola impudente e vi troverete steso sul pavimento!", dissi, avanzando minaccioso. "Miserabile!". Il grido di Kanai fu simultaneo al mio. "Osate portare le vostre bestemmie in questo sacro ashram?". Ma il Maestro si mise dinanzi a colui che lo aveva oltraggiato, per proteggerlo. "Non eccitatevi per nulla. Quest'uomo non sta compiendo che il suo legittimo dovere". Stupefatto da quest'accoglienza così diversa, l'ufficiale giudiziario pronunciò con rispetto qualche parola di scusa e se ne andò. Era impressionante vedere come un Maestro animato da una volontà così focosa poteva esser così calmo interiormente. Egli rispondeva alla definizione Vedica dell'uomo di Dio: "Più delicato d'un fiore nella gentilezza, più forte del tuono quando i principi sono in causa". In questo mondo vi sono sempre coloro che, secondo le parole di Browing, non sopportano la luce perché sono essi stessi oscuri". A volte qualche estraneo all'ashram, eccitato per un'immaginaria offesa, biasimava violentemente Sri Yukteswar. Il mio imperturbabile Guru ascoltava educatamente, analizzandosi per scoprire se nell'accusa vi fosse un filo di verità. Queste scene mi riportavano alla mente una delle impareggiabili osservazioni del Maestro: "Certe persone cercano di farsi alte tagliando la testa agli altri!".
La perenne compostezza di un santo impressiona più d'ogni predica. "Chi è lento all'ira vale più del potente; e meglio vale chi domina il proprio animo, di chi s'impadronisce di una città" (Nota: Proverbi, 16, 32. Altra versione: Meglio l'uomo paziente che l'uomo forte; e chi domina l'animo suo è da più di un espugnatore di città. Fine nota). Spesso riflettevo che il mio augusto Maestro sarebbe potuto essere facilmente un imperatore o un guerriero atto a sconvolgere il mondo, se la sua mente si fosse volta verso la fama o avesse avuto aspirazioni terrene. Invece egli aveva scelto di scuotere dalle fondamenta le città - delle passioni interiori dell'ira e dell'egoismo, la cui caduta significa l'ascesa dell'uomo.
CAPITOLO XIII IL SANTO SENZA SONNO "Permettetemi, vi prego, di andare nell'Himalaya. Nella solitudine ininterrotta spero di raggiungere una continua comunione con Dio". Proprio queste furono le ingrate parole che rivolsi un giorno al mio Guru. Vittima d'una di quelle imprevedibili illusioni che a volte assalgono il devoto, sentivo crescere in me l'intolleranza verso i doveri dell'eremitaggio e gli studi universitari. V'era solo una lieve attenuante: la mia proposta fu fatta quando ero con Sri Yukteswar soltanto da sei mesi. Ancora non avevo misurato appieno la torreggiante altezza della sua statura morale. "Molti montanari vivono sull'Himalaya, eppure non hanno la percezione di Dio". La risposta del mio Guru giunse lentamente e semplicemente. "La saggezza, è meglio cercarla presso un uomo autorealizzato che non presso un'inerte montagna". Ignorando la chiara allusione di Sri Yukteswar, che lui, cioè, e non una montagna era il mio maestro, ripetei la richiesta. Sri Yukteswar non rispose. Interpretai il silenzio come un consenso. un'interpretazione precaria, ma che prontamente si accetta quando fa comodo. Nella mia casa di Calcutta quella sera, mi occupai dei preparativi per il viaggio. Mentre avvolgevo poche cose in una coperta, rammentai un involto simile a questo, gettato di nascosto dalla finestra della mia soffitta qualche anno prima. Mi chiedevo se questa sarebbe stata un'altra fuga verso l'Himalaya nata sotto una cattiva stella. La prima volta, la mia gioia spirituale era stata grande; quella sera mi rimordeva la coscienza al pensiero di lasciare il mio Guru. La mattina seguente cercai Behari Pandit, il mio professore di sanscrito allo Scottish Church College. "Signore, mi avete parlato della vostra amicizia con un grande discepolo di Lahiri Mahasaya. Volete darmi il suo indirizzo?".
"Vuoi dire Ram Gopal Muzumdar. Io lo chiamo il Santo-che-non-dorme. Rimane sempre sveglio, immerso in uno stato di coscienza estatica. La sua casa si trova a Ranbajpur, vicino a Tarakeswar". Ringraziai il pandit e presi immediatamente il treno per Tarakeswar. Speravo di far tacere i miei timori estorcendo l'approvazione del Santo-chenon-dorme al mio progetto d'intraprendere la solitaria meditazione sull'Himalaya. Avevo inteso dire che l'amico di Behari aveva ricevuto l'illuminazione divina dopo aver praticato per molti anni il Kriya Yoga nelle caverne isolate del Bengala. A Tarakeswar mi recai a un famoso tempio. Gli indù lo considerano con la stessa venerazione che i cattolici tributano al santuario di Lourdes, in Francia. Innumerevoli guarigioni miracolose sono avvenute a Tarakeswar, e fra esse anche quella di un membro della mia famiglia. La più anziana delle mie zie aveva narrato: "Rimasi seduta in quel tempio per una settimana, osservando un completo digiuno. Pregavo per la guarigione di tuo zio Sarada, che era affetto da una malattia cronica. Al settimo giorno un'erba si materializzò nelle mie mani! Ne feci un decotto e lo feci bere a tuo zio. Il suo male sparì d'un tratto e non è mai più riapparso". Entrai nel sacro tempio di Tarakeswar; l'altare non contiene altro che una pietra rotonda; la sua circonferenza, senza principio e senza fine, esprime bene il concetto dell'Infinito. Le astrazioni cosmiche non sono estranee nemmeno al più umile e illetterato contadino indiano; egli è infatti spesso accusato dagli occidentali di vivere di astrazioni. Il mio stato d'animo in quel momento era così austero che non mi sentivo disposto a inchinarmi dinanzi a un simbolo di pietra. Pensavo che Dio dovesse ricercarsi solo entro la nostra anima. Mi allontanai dal tempio senza genuflettermi e camminai in fretta verso il lontano villaggio di Ranbajpur. Chiesi a un passante di darmi alcune indicazioni, e ciò lo fece piombare in una lunga riflessione. "Quando giungerete a un crocicchio, voltate a destra e continuate per quella via", mi disse alla fine, come se pronunziasse un oracolo. Seguendo la direzione datami, costeggiai le sponde di un canale finché cadde l'oscurità. I limiti del villaggio nella giungla vibravano di lucciole ammiccanti e di urla di sciacalli vicini. I raggi della luna erano troppo tenui per darmi aiuto. Girovagai alla cieca, inciampando, per due ore. Oh, benvenuto il suono del campanaccio d'una mucca! Le mie ripetute grida richiamarono infine al mio fianco un contadino. "Cerco Ram Gopal Babu".
"Nessuno di questo nome vive nel nostro villaggio", disse l'uomo con voce arcigna. "Probabilmente siete un poliziotto bugiardo". Nella speranza di calmare i sospetti della sua mente turbata dalla passione politica, spiegai in maniera commovente i guai in cui mi trovavo. Mi condusse nella sua casa e mi offerse una cordiale ospitalità. "Ranbajpur è lontana da qui", mi disse. "Al crocicchio avreste dovuto girare a sinistra e non a destra". Pensai tristemente che il mio primo informatore costituiva un vero pericolo per i viandanti. Dopo un pasto saporito fatto di riso grezzo, dhal di lenticchie e curry di patate con banane crude, mi ritirai in una capannuccia vicino al cortile. In lontananza i contadini cantavano, accompagnandosi rumorosamente con mridanga (Nota: Tamburi percossi a mano, usati solo per la musica religiosa. Fine nota) e cembali. Quella notte non mi fu possibile dormire molto. Pregai con fervore di poter raggiungere Ram Gopal, lo yoghi segreto. Alle prime luci dell'alba che penetravano attraverso le fessure della mia oscura capanna, m'incamminai verso Rambajpur. Attraversando accidentati campi di riso, procedevo con fatica tra le stoppie falciate e pungenti e i mucchi di argilla secca. Qualche contadino che ogni tanto incontravo per caso m'informava, invariabilmente, che la mia destinazione distava "solo di una krosha" (due miglia). In sei ore il sole viaggiava trionfalmente da oriente a mezzogiorno, ma io cominciai a pensare che sarei sempre stato lontano da Ranbajpur la solita krosha. A metà del pomeriggio, il mio mondo era ancora solo uno sterminato campo di riso. Il caldo che scendeva dal cielo inesorabile mi faceva quasi svenire. A un uomo che si avvicinava a lenti passi osai porre la solita domanda, nel timore di sentirmi rispondere ancora una volta: "Solo un'altra krosha". Ma lo sconosciuto si fermò accanto a me. Piccolo e magro, aveva un aspetto comune, a eccezione di due straordinari occhi scuri e penetranti. "Avevo in animo di lasciare Ranbajpur, ma il tuo fine era buono, per questo ti ho aspettato". Agitò il dito davanti alla mia faccia sorpresa. "Ma non hai cervello, per pensare di potermi saltare addosso così senza annunciarti prima? Quel professor Behari non aveva il diritto di darti il mio indirizzo". Considerando che autopresentarsi a un tale Maestro sarebbe equivalso soltanto a uno spreco di parole, rimasi muto, un po' ferito dall'accoglienza. La sua seconda frase fu pronunciata bruscamente: "Dimmi dove credi che sia Dio?".
"Ma... è dentro di me e in ogni luogo". Dovevo sembrare tanto confuso quanto lo ero in realtà. "Pervade tutto, eh?. Il Santo sogghignò. "Allora perché mai, signorino, non ti sei inchinato ieri dinanzi all'Infinito, simboleggiato nella pietra del tempio di Tarakeswar? Il tuo orgoglio ha richiamato su di te la punizione di farti incontrare quel passante che non si preoccupava di fare sottili distinzioni tra la sinistra e la destra. Anche oggi hai avuto dei momenti poco piacevoli per la stessa ragione!". Lo ammisi senza riserve, meravigliato e colpito nel constatare che un occhio onnisciente si nascondeva nel corpo comunissimo che mi stava dinanzi. Dallo yoghi emanava una forza salutare; immediatamente, su quel campo bruciante, mi sentii rinfrescato. "Il devoto tende a credere che il suo sentiero sia l'unico che porti a Dio". Lo yoga, per il cui mezzo troviamo la divinità in noi, è senza dubbio la via più sublime; così ci disse Lahiri Mahasaya. Ma scoprendo Dio entro di noi, ben presto Lo percepiamo anche al di fuori. I santuari a Tarakeswar e altrove sono giustamente venerati quali nuclei del potere spirituale". L'atteggiamento di biasimo del Santo scomparve; i suoi occhi divennero compassionevoli e dolci. Egli mi batté sulla spalla. "Giovane yoghi, vedo che te ne scappi via dal tuo maestro. Egli possiede tutto ciò che ti occorre; devi tornare da lui. Le montagne non possono essere il tuo guru". Ram Gopal ripeteva le stesse parole che Sri Yukteswar aveva pronunciate due giorni prima. "I Maestri non hanno nessun obbligo cosmico di vivere soltanto sulle montagne". Il Maestro mi lanciò uno sguardo ironico. "L'Himalaya, nell'India e nel Tibet, non ha il monopolio de santi. Quello che non ci diamo la pena di trovare dentro di noi, non verrà mai scoperto trasportando il nostro corpo di qua e di là. Non appena il devoto si sente disposto a andare fino ai limiti della terra per cercare l'illuminazione spirituale, il suo guru si troverà accanto a lui. Approvai in silenzio, rammentando la mia preghiera nell'eremitaggio di Benares seguita, subito dopo, dall'incontro con Sri Yukteswar lungo una strada affollata. "Ti è possibile avere una cameretta dove puoi chiudere la porta e rimanere solo?". "Si". Riflettei che il Santo scendeva dai concetti generali ai particolari con sconcertante rapidità.
"Quella è la tua grotta". Lo yoghi mi fissò con uno sguardo illuminante che non ho mai dimenticato. "Quella è la tua montagna sacra. Là troverai il regno di Dio". Le sue semplici parole fecero istantaneamente scomparire l'ossessione dell'Himalaya che mi aveva perseguitato per tutta la vita. Nel mezzo di un affocato campo di riso, mi risvegliai dal mio sogno di montagne e di nevi eterne. "Giovane signore, la tua sete del divino è lodevole. Sento un grande amore per te". Ram Gopal mi prese la mano e mi condusse in un bizzarro, piccolo villaggio in una radura della giungla. Le case di mattoni cotti al sole erano coperte di foglie di cocco e rusticamente ornate, sopra le entrate, di freschi fiori tropicali. Il Santo mi fece sedere sulla ombreggiata piattaforma di bambù dinanzi alla sua capanna. Dopo avermi offerto del succo di lime e un pezzo di zucchero candido, entrammo nel suo patio e sedemmo nella posizione del loto. (Nota: lime = varietà di limone, più aspro di quello comune. Fine nota). Dopo circa quattro ore uscii dalla meditazione e scorsi la figura dello yoghi illuminata dalla luna, ancora perfettamente immobile. Mentre con severità ricordavo al mio stomaco che l'uomo non vive di solo pane, Ram Gopal, si alzò dal suo posto. "Vedo che sei affamato. Il pasto sarà subito pronto". Fu acceso il fuoco sotto una stufa di argilla nel patio, e ben presto mi venne servito del riso con dhal su grandi foglie di banane. Il mio ospite aveva cortesemente rifiutato ogni mio aiuto nell'allestimento delle vivande. "L'ospite è Dio". Questo proverbio indiano è stato fedelmente osservato in India fin da tempi immemorabili. Nei miei viaggi attraverso il mondo, fui lietissimo di rilevare che un simile sentimento di rispetto per i visitatori esiste nelle campagne di molti paesi. A chi vive in città, la lama affilata dell'ospitalità è spuntata, a causa della sovrabbondanza di visi estranei. I traffici e le preoccupazioni umane mi sembravano remotissimi, mentre stavo accosciato accanto allo yoghi nell'isolamento di quel minuscolo villaggio della giungla. La stanza della capanna era misteriosamente rischiarata da una tenue luminosità. Ram Gopal aggiustò sul pavimento delle coperte stracciate che dovevano servirmi da letto, ed egli sedette nella posizione del loto su una stuoia di paglia. Completamente travolto dal suo magnetismo spirituale, arrischiai una domanda: "Signore, perché non mi concedete un samadhi?". "Mio caro, sarei felice di infonderti il divino contatto, ma non è mio compito di farlo". Il Santo mi guardò con gli occhi socchiusi. "Il tuo Maestro ben presto ti procurerà questa esperienza. Il tuo corpo non è ancora
bene armonizzato per questo. Come una debole lampadina non può sopportare un voltaggio elettrico eccessivo, così i tuoi nervi non sono ancora pronti ad accogliere la corrente cosmica. Se ti dessi in questo momento l'estasi infinita, bruceresti come se ogni tua cellula fosse di fuoco. "Tu chiedi l'illuminazione a me", continuò lo yoghi in tono pensieroso, "proprio nel momento in cui mi sto chiedendo, indegno di considerazione come sono e avendo meditato così poco, se mi sia riuscito di piacere a Dio e quale clemenza potrò trovare ai Suoi occhi il giorno della finale chiusura dei conti". "Ma come? Non avete cercato unicamente Dio con tutto il cuore e per tanto tempo?". "Non ho fatto molto. Behari ti avrà certo raccontato qualcosa della mia vita. Per vent'anni vissi in una grotta segreta, meditando diciotto ore al giorno. Indi mi recai in una caverna ancora più inaccessibile, dove rimasi per venticinque anni, permanendo nella divina unione yoga per venti ore al giorno. Non avevo bisogno di dormire perché ero sempre con Dio. Il mio corpo si riposava di più nella calma completa della supercoscienza, di quanto avrebbe potuto fare nella pace parziale del comune stato subcosciente del sonno. "I muscoli si abbandonano durante il sonno; ma il cuore, i polmoni, i sistemi circolatorii sono sempre al lavoro, non hanno mai riposo. Nello stato di supercoscienza gli organi interni sospendono i loro moti essendo elettrizzati dall'energia cosmica. In tal modo non ho trovato necessario dormire, per anni interi. Verrà il tempo in cui anche tu potrai fare a meno di dormire". "Dio mio, avete meditato tanto e siete ancora così poco sicuro della benevolenza di Dio!". Lo guardai stupefatto: "Che cosa sarà, allora di noi poveri mortali?" "Ma non ti rendi conto, caro ragazzo, che Dio è l'Eternità Stessa? Presumere che Lo si possa conoscere appieno attraverso quarantacinque anni di meditazione, è una pretesa alquanto assurda. Babaji ci assicura comunque, che perfino una breve meditazione aiuta a salvarci dalle terribili paure della morte e dagli stati dopo la morte. Non fissare il tuo ideale spirituale su una piccola montagna, ma agganciati alla stella dell'infinito raggiungimento divino. Se ti ci metti con lena, vi giungerai!". Entusiasmato a tale prospettiva, gli chiesi di dirmi altre parole illuminanti. Mi raccontò allora la straordinaria storia del suo primo incontro col Maestro di Lahiri Mahasaya, Babaji.
Verso la mezzanotte Ran Gopal si chiuse nel silenzio, e io mi distesi sulle coperte. Chiudendo gli occhi, vidi sprazzi di luce; il vasto spazio dentro di me era inondato di luce diffusa. Aprii gli occhi e vidi lo stesso abbagliante fulgore. La stanza divenne parte di quella volta infinita che appariva alla mia vista interiore. "Perché non dormi?". "Signore, come posso dormire in presenza di lampi che mi abbagliano, tanto se tengo gli occhi chiusi che se li tengo aperti?". "Tu sei privilegiato poiché ti è stata concessa una simile esperienza. Le radiazioni spirituali non si scorgono facilmente." E a queste parole il Santo aggiunse altre espressioni di affetto. All'alba, Ram Gopal mi dette ancora dei canditi e mi disse che dovevo partire. Ero tanto riluttante a prender congedo da lui, che i miei occhi si riempirono di lacrime. "Non ti lascerò andar via a mani vuote!", mi disse teneramente lo yoghi, "farò qualcosa per te". Sorrise e mi guardò fissamente. Rimasi immobile come radicato al suolo, e le vibrazioni di pace che emanavano dal Santo invasero come un'ondata immensa tutto il mio essere. Di colpo fui guarito da un dolore alle reni che da anni, ogni tanto mi tormentava. Rinnovato, immerso in un mare di gioia luminosa, non piangevo più. Dopo aver toccato i piedi del Santo, me ne andai nella giungla, facendomi strada nei grovigli delle piante tropicali e attraverso molte risaie, fin quando raggiunsi Tarakeswar. Là feci il mio secondo pellegrinaggio al famoso tempio e mi prosternai dinanzi all'altare. La pietra rotonda si allargò dinanzi alla mia vista interiore fino a diventare la cosmica sfera che, girone per girone, zona dopo zona, mi si manifestò tutta ricolma di divinità. Un'ora dopo partii felice per Calcutta. Il mio viaggio terminò non sulle alte montagne, ma alla presenza, giganteggiante come l'Himalaya, del mio Maestro.
CAPITOLO XIV UN'ESPERIENZA DI COSCIENZA COSMICA. "Guruji, sono qui". La mia espressione vergognosa era più eloquente delle mie parole. "Andiamo in cucina a vedere se c'è qualcosa da mangiare". I modi di Sri Yukteswar erano così naturali come se ore, e non giorni, ci avessero separati. "Maestro, vi devo aver dato un dispiacere abbandonando così bruscamente tutti i miei doveri, qui. Credevo che foste in collera con me". "No, certo! La collera nasce solo dai desideri contrariati. Io nulla attendo dagli altri, perciò le loro azioni non possono essere in contrasto con i miei desideri. Non saprei disporre di te per i miei fini personali. Sono felice solo se tu sei veramente felice". "Signore, si ode parlare in modo vago di amore divino, ma oggi per la prima volta ne vedo un esempio concreto nella vostra angelica personalità! Nel mondo, nemmeno un padre perdona facilmente al figlio se questi, senza alcun preavviso, abbandona gli affari paterni. Ma voi non mostrate il più lieve rancore, nonostante abbiate dovuto trovarvi in un serio impaccio per le molte cose incompiute che mi son lasciate dietro". Ci guardammo l'un l'altro negli occhi, dove lucevano delle lacrime. Un'ondata di beatitudine mi sommerse; ero conscio che il Signore, nella persona del mio Guru, espandeva i piccoli ardori del mio cuore fino all'incommensurabile estensione dell'Amore cosmico. Qualche mattina dopo entrai nel soggiorno vuoto del mio Maestro. Avevo intenzione di meditare, ma il mio lodevole proposito non era condiviso dai miei disobbedienti pensieri, che fuggivano qua e là come uccelli inseguiti dal cacciatore. "Mukunda!". La voce di Sri Yukteswar mi giunse da una lontana balconata interna. Mi sentii ribelle come i miei pensieri. - Il Maestro mi incita sempre alla meditazione, - borbottai fra me e me; non dovrebbe disturbarmi, quando egli sa bene la ragione per cui sono venuto nella sua stanza.
Mi chiamò di nuovo; rimasi ostinatamente in silenzio. La terza volta, nella sua voce si avvertiva il rimbrotto. "Signore, sto meditando", gridai in tono di protesta. "So bene come stai meditando", mi gridò di rimando, "con la mente sfarfallante come le foglie in una tempesta. Vieni qui da me". Sgridato e smascherato, mi avviai tristemente verso di lui. "Povero ragazzo! Le montagne non potevano darti quello che cercavi". Il Maestro parlava carezzevolmente, desideroso di confortarmi. Il suo sguardo calmo era impenetrabile. "Il desiderio del tuo cuore sarà esaudito". Raramente Sri Yukteswar si permetteva di parlare per enigmi. Ero confuso. Mi toccò lievemente il petto, sopra il cuore. Il mio cuore divenne immobile e come radicato al suolo. Non respiravo più, come se un immenso magnete avesse ritirato l'aria dai miei polmoni. Anima e mente perdettero all'istante i loro vincoli fisici e uscirono come un'ondata di fluida e penetrantissima luce da ogni mio poro. La carne era come morta, eppure nella mia intensa consapevolezza sentivo che mai, prima d'allora, ero stato pienamente vivo. Il mio senso d'identità non era più limitato da un corpo, ma abbracciava tutti gli atomi circostanti. La gente in strade lontane sembrava si muovesse dolcemente nella mia remota periferia. Le radici delle piante e degli alberi mi apparivano attraverso un'opaca trasparenza del suolo; distinguevo il fluire della loro linfa. Tutto quello che mi era vicino era nudo davanti a me. La mia abituale visione frontale s'era mutata in una vasta vista sferica che percepiva tutto simultaneamente. Attraverso la parte posteriore della mia testa, vedevo le persone camminare lontano sulla via Rai Ghat e mi accorsi anche di una mucca bianca che si avvicinava lentamente; quando giunse sullo spiazzo dinanzi al cancello aperto dell'ashram, la osservai come con i miei occhi fisici. Quando passò dietro il muro di mattoni del cortile, la vidi ancora con perfetta chiarezza. Tutti gli oggetti nel raggio della mia visuale panoramica tremolavano e vibravano come figure sullo schermo. Il mio corpo, quello del Maestro, il cortile dai pilastri, i mobili e il pavimento, gli alberi e i raggi del sole si agitavano con violenza sino a che tutto si fondeva in un mare luminoso, come cristalli di zucchero messi in un bicchiere d'acqua si sciolgono dopo essere stati agitati. La luce unificatrice si alternava con le materializzazioni delle forme, e le metamorfosi rivelavano la legge di causa e effetto presente nella creazione. Un'oceanica gioia scoppiò sulle rive calme e infinite dell'anima mia.
Realizzai che lo Spirito di Dio è inesauribile Beatitudine. Il Suo corpo è fatto di innumerevoli tessuti di luce. Una luce gloriosa che si espandeva sempre più dentro di me cominciò ad avviluppare città, continenti, la terra, i sistemi solari e stellari, le tenui nebulose e i fluttuanti universi. L'intero cosmo dolcemente luminoso, simile a una città che si scorga lontana nella notte, scintillava nell'infinità del mio essere. L'abbagliante luce al di là dei profili sferici acutamente incisi si attenuava un poco agli estremi limiti, dove potevo scorgere una morbida radiazione che non diminuiva mai. Essa era indescrivibilmente sottile; i quadri planetari erano formati da una luce più densa. (Nota: La Luce quale essenza della creazione è spiegata nel Cap. XXX. Fine nota). La divina diffusione di raggi scaturiva da un'Eterna Sorgente che fiammeggiava in galassie, trasfigurate da aure ineffabili. Incessantemente vedevo i raggi creatori condensarsi in costellazioni e poi risolversi in lembi di trasparente fiamma; con ritma inversione, miriadi di mondi si tramutavano in diafana luminescenza; poi il fuoco divenne firmamento. Conobbi il centro dell'empireo quale punto di percezione intuitiva nel mio cuore. Uno splendore irradiante sorgeva dal mio nucleo e si distendeva su ogni parte della struttura universale. La divina amrita, nettare dell'immortalità, pulsava attraverso me con una fluidità d'argento vivo. Udii la Voce creativa di Dio risuonare come Om, la vibrazione del Motore Cosmico. (Nota: "In principio era il Verbo e il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio" (Giovanni, 1,1). Fine nota). A un tratto l'aria ritornò nei miei polmoni e respirai di nuovo. Con una delusione quasi insostenibile, capii di aver perduto la mia immensità infinita. Di nuovo ero costretto nella umiliante gabbia di un corpo, che difficilmente si adatta allo Spirito. Come un figliuol prodigo ero fuggito dalla mia casa macrocosmica e avevo imprigionato me stesso in uno stretto e meschino microcosmo. Il mio Guru era immobile dinanzi a me. Stavo per prostrarmi ai suoi sacri piedi, pieno di gratitudine per quell'esperienza di coscienza cosmica così a lungo e appassionatamente cercata. Egli me lo impedì e parlò con calma e semplicità: "Non devi troppo inebriarti d'estasi. Molto lavoro ti resta ancora da fare nel mondo. Vieni spazziamo il balcone, poi andremo a passeggiare sulle sponde del Gange". Andai a cercare una scopa. Sapevo che il Maestro mi stava insegnando il segreto dell'equilibrio nella vita. L'anima deve tendersi sugli abissi cosmogonici mentre il corpo compie i suoi quotidiani doveri. Quando, più tardi, uscimmo per la passeggiata, ero ancora rapito in
un'indicibile estasi. Scorgevo i nostri corpi come due figure astrali che si muovevano lungo una strada accanto al fiume, la cui essenza era pura luce. "E' lo Spirito di Dio che sostiene attivamente ogni forma e forza nell'universo; eppure Egli esiste, trascendente e distante, nell'estatico vuoto increato al di là dei mondi dei fenomeni vibratori", spiegò il Maestro. "Coloro che hanno raggiunto l'autorealizzazione sulla terra vivono tale duplice esistenza. Pur compiendo coscienziosamente i lavori loro assegnati in questo mondo, essi rimangono tuttavia immersi nella beatitudine interiore. "Il signore creò tutti gli uomini dalla illimitabile gioia del Suo Essere. Sebbene essi siano dolorosamente inceppati dal loro corpo, Dio nondimeno sa che le anime fatte a Sua somiglianza si eleveranno alla fine al di là d'ogni identificazione coi sensi, e si riuniranno a Lui". La visione cosmica mi lasciò molti insegnamenti durevoli. Mettendo giornalmente a tacere i miei pensieri, riuscivo a liberarmi dalla illusoria convinzione che il mio corpo fosse una massa di carne e ossa in movimento sul duro suolo della materia. Mi rendevo conto che il respiro e la mente inquieta sono simili a tempeste che sferzano l'oceano di luce sollevando onde di forme materiali: terra, cielo, esseri umani, animali, uccelli, alberi. Nessuna percezione si può avere dell'Infinito quale unica Luce, se prima non si fermano quelle tempeste. Ogni volta che mi riusciva di sedare le due tempeste naturali, vedevo le molteplici onde della creazione placate e unite in un unico mare lucente, proprio come le onde dell'oceano, superata la procella, si ricompongono serenamente in unità. Un Maestro concede l'esperienza divina della coscienza cosmica quando il discepolo, attraverso la meditazione, ha rinvigorito la sua mente a tal punto che le vaste visioni non possono più sopraffarlo. (Nota: "Inoltre il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figliuolo" (Giovanni, 5, 22). "Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, ce lo ha fatto conoscere". (Giovanni, 1, 18). "In verità, in verità vi dico che chi crede in me farà anch'egli le opere che io faccio; e ne farà di maggiori perché io me ne vo al Padre". (Giovanni, 14. 12). "Ma il Paraclito (Consolatore), lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quello che vi ho detto". (Giovanni, 14, 26). Queste parole bibliche si riferiscono alla trinità della natura di Dio quale Padre, Figlio e Spirito Santo (Sat, Tat, Aum nelle Scritture Indù). Dio, Padre è l'Assoluto, il Non Manifestato, che esiste al di là della creazione vibratoria; Dio il Figlio è la Coscienza Cristica (Brahma o Kutasha Chaitanya) che esiste nella creazione vibratoria; questa Coscienza
di Cristo è "l'unigenito" o solo riflesso dell'Infinito Increato. La sua manifestazione esteriore o "testimonianza" (v. Apocalisse, 3, 14: "il testimone fedele e verace") è Aum (pron. Om; viene scritto con tre lettere quale simbolo della divina Trinità, N.d.T.), o Amen o Spirito Santo, l'unico Fattore, la sola forza causale e attiva, il divino invisibile Potere che sostiene tutta la creazione mediante la vibrazione. Aum, il Beato Consolatore, si ode nella meditazione; esso rivela al devoto la Verità ultima. Fine nota). Il solo buon volere intellettuale o una mente aperta non bastano a far ottenere quest'esperienza. Solo un opportuno allargamento di coscienza attraverso la pratica yoga e la bakti devozionale, può preparare la mente a sostenere l'urto liberatore dell'onnipresenza. Per il devoto sincero questo stato giunge con estrema naturalezza. Il suo intenso desiderio comincia a attirarlo verso Dio con forza irresistibile. Il Signore, quale Visione Cosmica, è attirato dal magnetico ardore del ricercatore entro la zona della sua coscienza. Negli anni che seguirono scrissi il seguente poema, Samadhi", sforzandomi di trasfondere in esso tutta la gloria dello stato cosmico: Svaniti di luce e d'ombra i veli, Sollevata ogni nebbia di dolore, Sparita ogni alba di fugage gioia E scomparso dei sensi l'incerto miraggio, Amore, odio , salute, malattia, vita, morte: Periron queste false ombre sullo schermo Della dualità. Onde di risa, Turbini di sarcasmo, vortici Di tristezza si fondono nel vasto oceano Del rapimento. Di Maya la tempesta s'è acquetata Per incanto della profonda intuizione. L'universo, obliato sogno, occhieggia nel subconscio, Pronto a invadere l'appena ridestata Memoria del Divino. Io vivo senza La cosmica ombra, ma essa non è viva Se divisa da me, Come il mare esiste senza onde, Ma non le onde senza il mare. Sogni, risvegli, profondo sonno tyriya, Presente, passato, futuro per me non sono più: Ma eternamente onnipresente Io, io dovunque. Pianeti, stelle, nebulose, terra, Vulcanici cataclismi da Giorno del Giudizio, Fornace plasmante la creazione, Ghiacciai di silenti raggi X, Brucianti torrenti d'elettroni, Pensieri passati, presenti, futuri degli uomini tutti. Ogni filo d'erba, me, l'umanità, Ogni particella di polvere degli universi, Collera, avidità, bene, male, salvezza, lussuria, Tutto inghiottii, tramutando tutto Nel vasto oceano del sangue del mio stesso e solo Essere.
Gioia covante sotto le ceneri, spesso attizzata Dalla meditazione, accecante i miei occhi di pianto, Divampò nelle immortali fiamme dell'estasi, Consumò le mie lagrime, la mia forma, tutto me stesso. Tu sei me, io sono Te, Conoscenza, Conoscitore, Conosciuto in Uno. Quieto, ininterrotto brivido, eterna vita, sempre nuova pace! Godibile oltre ogni immaginazione, estasi del samadhi! Non uno stato inconscio, O narcosi mentale senza voluto ritorno E' il samadhi; esso espande il regno della mia coscienza Oltre i limiti della mia forma mortale, Fino ai più lontani margini Dell'eternità, ove Io, Cosmico Mare, Guardo il piccolo ego fluttuare in Me. Un passerotto, un granello di sabbia Non sfuggono al Mio sguardo. Tutto lo spazio è fluttuante come un iceberg nel Mio mare mentale. L'infinito Contenitore sono Io d'ogni cosa creata. Dalle lunghe, profonde, assetate meditazioni insegnatemi dal Guru Viene questo samadhi celestiale. S'odono i mobili mormorii degli atomi. L'oscura terra, monti, valli, ecco, son liquido fuso! Fluenti mari si tramutano in vapori di nebulose! Om soffia sui vapori, squarciando meravigliosamente i loro veli. Stan rivelati oceani, scintillanti elettroni, Finché all'ultimo tocco del cosmico tamburo (Nota: Om, la Vibrazione creativa che manifesta tutta la creazione. Fine nota) Le luci più dense svaniscono nei raggi eterni Dell'onnipervadente beatitudine. Io venni dalla gioia, di gioia vivo, in sacra gioia mi dissolvo. Oceano di mente, Io bevo Tutte le onde della creazione. Quattro veli: solidi, liquidi, vapori, luce Si sollevano dinanzi a me. Io stesso, in ogni cosa, entro nel Grande Me stesso. Svanite son per sempre le incostanti, Vacillanti ombre di memorie mortali. Immacolato è il mio cielo mentale sotto, davanti, in alto. L'Eternità ed io, un solo raggio. Da piccolissima bolla di riso, io sono divenuto Il Mare stesso dell'Allegrezza. Sri Yukteswar , m'insegnò come richiamare a volontà la felice esperienza e anche come trasmetterla ad altri, se le loro vie intuitive sono sviluppate. (Nota: Ho trasmesso la Visione Cosmica a vari Kriya Yoghi sia in Oriente che in Occidente. Fine nota)
Per mesi interi vissi in quell'estatica unione e compresi perché le Upanishad dicono che Dio è rasa: "il più squisito". Ma un giorno sottoposi al Maestro un problema: "Desidererei sapere, Maestro, quando troverò Dio?". "Lo hai trovato". "Oh! no, signore, non credo"!. Il mio Guru sorrideva: "Sono certo che tu non ti aspetti di vedere un venerabile Personaggio assiso su un trono in qualche asettico angolo del cosmo! Vedo, invece, che tu credi che il possesso di poteri miracolosi equivalga a conoscere Dio. No. Si potrebbe avere l'intero universo e non trovare ancora Dio! Il progresso spirituale non si misura dai poteri esteriori, ma solo dalla profondità della beatitudine che si prova nella meditazione. "Dio è la gioia sempre nuova. Egli è inesauribile; mentre continuerai a meditare attraverso gli anni, Egli ti sedurrà con ingegnosità infinita. I devoti che come te hanno trovato la strada di Dio, non sognano neppure di cambiarLo con nessun'altra gioia al mondo; Egli è seducente al di là d'ogni possibilità di confronto! "Come ci stanchiamo presto dei piaceri terreni! La brama di cose materiali non ha mai fine; l'uomo non è mai completamente soddisfatto e insegue una mèta dopo l'altra. Quel 'qualcos'altro' ch'egli cerca è il Signore, che solo può garantire una gioia eterna. "Le brame esteriori ci scacciano dall'Eden interiore, offrono falsi piaceri che sono soltanto simboli della felicità dell'anima. Il Paradiso Perduto viene prontamente riconquistato attraverso la divina meditazione. Poiché Dio è Imprevedibile e Sempre nuovo, noi non ce ne stanchiamo mai. Come potremmo mai saziarci di una felicità deliziosamente variata attraverso l'eternità?". "Comprendo adesso, Maestro, perché i santi chiamano Dio l'Insondabile. Anche una vita eterna non potrebbe bastare per valutarLo". "E' vero. Ma Egli è anche vicino e caro. Dopo che lo spirito umano, mediante il Kriya Yoga, s'è liberato degli ostacoli forniti dai sensi, la meditazione offre una duplice testimonianza di Dio: la sempre nuova gioia dà un'evidenza della Sua esistenza, convincente fino in ogni nostro atomo; inoltre, nella meditazione si trova la Sua guida immediata, la Sua giusta risposta a ogni difficoltà". "Comprendo, Guruji; avete risolto il mio problema". Sorrisi, grato. "So adesso di avere trovato Dio, poiché ogni volta che la gioia della meditazione ritornava inconsciamente in me durante i periodi di attività, fui
misteriosamente diretto a scegliere la condotta giusta in ogni cosa, perfino nei minimi particolari". "La vita umana è piena di dolore, fin quando non impariamo a armonizzarla con il Divino Volere, il cui 'giusto corso' spesso rende perplessa l'intelligenza egoistica" disse il maestro. "Dio solo può dare un consiglio infallibile; chi, se non Lui, porta il peso del cosmo?".
CAPITOLO XV IL FURTO DEL CAVOLFIORE "Maestro, un regalo per voi! Questi sei enormi cavolfiori li ho piantati io con le mie mani; ho sorvegliato la loro crescita con l'affettuosa premura di una madre che alleva il suo bambino" dissi, presentando al Maestro con fare cerimonioso il paniere di ortaggi. "Grazie!". Il caldo sorriso di Sri Yukteswar mostrò che apprezzava il dono. "Ti prego, serbali nella tua stanza; mi serviranno domani per un pranzo speciale". Ero appena giunto a Puri per trascorrere le vacanze estive col mio Guru nel suo eremitaggio sul mare. Costruito dal Maestro e dai suoi discepoli, l'allegro piccolo rifugio a due piani guardava con la sua facciata la baia del Bengala. (Nota: Puri si trova a circa 310 miglia a Sud di Calcutta. E' una famosa città di pellegrinaggi per i devoti di Krishna. Vi si celebra il suo culto con due favolose feste annuali: la Snanayatra e la Rathayatra. Fine nota.) La mattina seguente mi svegliai presto, rinfrescato dalla brezza salina del mare e dal tranquillo fascino di tutto quanto mi circondava. La voce melodiosa di Sri Yukteswar mi chiamava. Lanciai uno sguardo ai miei cari cavolfiori e li nascosi sotto il letto. "Vieni, andiamo alla spiaggia". Il Maestro camminava in testa, seguito da un gruppo sparso di discepoli. Il nostro Guru ci esaminava con benevolo spirito critico. "Quando i nostri fratelli occidentali camminano in gruppo, di solito sono molto orgogliosi di farlo all'unisono. Perciò, vi prego, camminate in due file e cercate di andare al passo". Sri Yukteswar ci guardava mentre obbedivamo; cominciò a cantare: "I ragazzi van su e giù, il bel passo uniti, orsù". Non potevo che ammirare la facilità con cui il Maestro si adeguava al vivace passo dei suoi giovani allievi. "Alt!". Gli occhi inquisitori del Maestro cercarono i miei. "Ti sei ricordato di chiudere a chiave la porta posteriore dell'eremitaggio?". "Credo di si".
Sri Yukteswar tacque un istante, mentre un malcelato sorriso gli sfiorava le labbra, poi disse: "No, lo hai dimenticato. La divina contemplazione non deve essere una scusa per trascurare le cose materiali. Hai trasgredito al tuo dovere di custodire l'ashram: sarai punito". Credetti che scherzasse in modo oscuro, quando aggiunse: "Ben presto i tuoi sei cavolfiori non saranno più che cinque". Seguendo gli ordini del Maestro, facemmo marcia indietro e tornammo nei pressi dell'eremitaggio. "Fermati un istante, Mukunda, e guarda oltre il recinto, a sinistra. Sulla strada vedrai presto giungere un uomo: sarà lui lo strumento della tua punizione". Nascosi l'irritazione provocatami da queste sibilline parole. Ben presto un contadino apparve sulla strada; danzava grottescamente agitando le braccia in gesti insensati. Quasi paralizzato dalla curiosità incollai gli occhi sul comico spettacolo. Quando l'uomo giunse al punto della strada dove non lo si sarebbe più potuto scorgere, Sri Yukteswar disse: "Adesso ritornerà". Il contadino cambiò immediatamente direzione e s'incamminò verso il retro dell'ashram. Attraversando un tratto sabbioso, entrò nello stabile dalla porta posteriore: l'avevo lasciata aperta, proprio come aveva detto il Guru. Poco dopo, l'uomo riapparve tenendo in mano uno dei miei cavolfiori. Ora camminava con rispettabile lentezza, tutto compreso della dignità del possesso. La farsa che si stava svolgendo e in cui la mia parte era quella della povera vittima stupefatta e confusa, non era tuttavia così sconcertante da togliermi la possibilità di correre, indignato, all'inseguimento. Già mi trovavo a mezza strada quando il Maestro mi richiamò. Era scosso da capo a piedi dalle risate. Fra scoppi d'ilarità egli spiegò: "Quel povero pazzo desiderava tanto un cavolfiore! Ho pensato che fosse una buona idea fargliene avere uno dei tuoi, così mal custoditi!". Mi precipitai nella mia camera, dove constatai che il ladro - senza dubbio un maniaco degli ortaggi - non aveva toccato nulla: né gli anelli d'oro, né l'orologio, né il denaro che avevo lasciati sul letto: si era invece insinuato sotto il letto, dove uno dei miei cavolfiori, accuratamente nascosti, aveva destato la sua cupidigia. La sera, chiesi a Sri Yukteswar di spiegarmi l'incidente che aveva per me dei punti incomprensibili. Il Guru scosse lentamente il capo: "Lo
comprenderai un giorno. Ben presto la scienza scoprirà alcune di queste leggi segrete." Quando alcuni anni più tardi, le meraviglie della radio si rivelarono alle orecchie attonite del mondo, rammentai la predizione del Maestro. Gli antichi concetti di tempo e spazio erano annullati; non vi era ormai la più piccola casa di contadini dove Londra o Calcutta non potessero entrare. L'intelligenza più limitata si allargava dinanzi alle irrefutabili prove d'uno degli aspetti dell'onnipresenza dell'uomo. La "trama" della commedia del cavolfiore può essere meglio compresa facendo un'analogia con la radio. (Nota: L'invenzione fatta nel 1939, di un radio-microscopio, rivelò un nuovo mondo di raggi sconosciuti fino allora. "L'uomo stesso, come ogni materia supposta inerte, emette costantemente quei raggi che questo apparecchio 'vede'", così riferiva l'Associated Press. "Coloro che credono nella telepatia, nella seconda vista e nella chiaroveggenza, trovano in questo annunzio la prima prova scientifica dell'esistenza di raggi invisibili che si trasmettono da una persona all'altra. Il meccanismo della radio è effettivamente uno spettroscopio di radiofrequenza. Compie la stessa funzione per la materia fredda, opaca, di quella compiuta dallo spettroscopio quando rivela il genere di atomi che formano le stelle... L'esistenza di tali raggi, che vengono emessi dall'uomo e da ogni altra cosa vivente, fu sospettata dagli scienziati per molti anni. Oggi ne abbiamo la prova sperimentale. La scoperta dimostra che ogni atomo e ogni molecola, in natura, è una stazione radiotrasmittente continua... Così anche dopo la morte, la sostanza che formava l'uomo continua a emettere i suoi sottilissimi raggi. La lunghezza d'onda di tali raggi varia tra quelle più corte delle cortissime attualmente usate nelle radiotrasmissioni, e le più lunghe onde radio. Il confuso miscuglio di questi raggi è quasi inconcepibile. Ve ne sono a milioni. Una sola grande molecola può emettere contemporaneamente un milione di lunghezze d'onda diverse. Le onde più lunghe di questa specie viaggiano con la facilità e la rapidità delle onde radio. Fra le nuove radio onde e quelle già conosciute, come quelle della luce, vi è una sola impressionante differenza: cioè il tempo prolungato, ammontante a migliaia di anni, che queste radio molecole continuano ad essere emesse dalla immutata materia". Fine nota). Sri Yukteswar era una perfetta radio umana. I pensieri non sono altro che vibrazioni sottilissime che procedono nell'etere. Proprio come una radio ben sintonizzata sceglie il brano di musica voluto fra migliaia di programmi trasmessi da ogni direzione, così il mio Guru aveva potuto captare un
particolare pensiero (quello dell'uomo pazzoide che bramava un cavolfiore) fra gli innumerevoli pensieri emessi dalle trasmittenti del mondo. Durante la passeggiata verso la spiaggia, non appena il Maestro percepì l'ingenuo desiderio del contadino, decise all'istante di esaudirlo. L'occhio divino di Sri Yukteswar scoprì l'uomo danzante lungo la strada prima che fosse visibile ai discepoli. La mia dimenticanza di chiudere a chiave la porta dell'ashram fornì al Maestro una buona scusa per privarmi del mio cavolfiore. Dopo avere così funzionato da radioricevente umana, Sri Yukteswar si trasformò, in virtù della sua volontà straordinariamente potente, in uno strumento mentale trasmittente che riuscì a dirigere il contadino e a fargli volgere i passi verso una data stanza per prendere un singolo cavolfiore. L'intuizione è la guida dell'anima che si rivela spontaneamente nell'uomo, nei momenti in cui la mente è calma. Quasi tutti hanno fatto almeno una volta l'esperienza di un'intuizione inesplicabilmente giusta, o hanno efficacemente trasmesso ad altri il proprio pensiero. La mente umana liberata dalle perturbazioni dell'irrequietezza ha la facoltà di esplicare, attraverso l'antenna dell'intuizione, tutte le funzioni del complicato meccanismo della radio, ricevendo ed emettendo pensieri ed escludendo quelli indesiderati. Come la potenzialità di una radiotrasmittente dipende dalla quantità di energia elettrica che può utilizzare, così l'efficienza della radio umana è proporzionata alla forza di volontà posseduta da ciascun individuo. Tutti i pensieri vibrano nel cosmo in eterno. Mediante una profonda concentrazione, un Maestro può captare i pensieri di qualsiasi individuo, vivo o morto. Le origini dei pensieri sono universali e non individuali; una verità non può essere creata, ma solo percepita. Ogni pensiero erroneo dell'uomo risulta da un'imperfezione, grande o piccola, del suo discernimento. Lo scopo della scienza yoga è quello di calmare la mente, perché possa ricevere senza distorsioni l'infallibile guida della Voce Interiore. La radio e la televisione hanno portato suoni e immagini di lontanissime genti nelle case di milioni di persone; è il primo, debole indizio scientifico che l'uomo è uno spirito che tutto pervade. Benché l'ego s'industri nei più barbari modi per renderlo schiavo, l'uomo non è un corpo confinato in un punto dello spazio, ma è essenzialmente l'anima onnipresente. "Fenomeni stranissimi e meravigliosi, apparentemente assai improbabili, potranno ancora apparire; fenomeni che, una volta riconosciuti, non ci meraviglieranno più di quanto ci meravigli oggi tutto ciò che la scienza ci ha insegnato durante il secolo scorso", dichiarò Charles Robert Richet,
premio Nobel per la fisiologia. "Si dice che i fenomeni che noi oggi accettiamo senz'alcuna sorpresa, non provocano più meraviglia perché li comprendiamo. Ma non è così. Se non ci sorprendono più non è perché siano compresi, ma perché ci sono divenuti familiari; infatti, se tutto ciò che non si comprende dovesse sorprenderti, ci dovremmo meravigliare d'ogni cosa; la caduta d'una pietra lanciata in aria, la ghianda che diventa una quercia, il mercurio che si dilata quando è riscaldato, il ferro che è attratto da un magnete, il fiammifero che si accende quando è sfregato... Oggi la scienza è una cosa facile; le rivoluzioni e le evoluzioni che essa subirà fra un centinaio di anni supereranno di gran lunga le più audaci previsioni. Le verità, quelle sorprendenti, stupefacenti, imprevedibili verità che i nostri discendenti scopriranno, sono già fin d'ora attorno a noi; ci fissano negli occhi, per così dire, eppure non le vediamo. Ma non basta dire che non le vediamo; noi non vogliamo vederle. Infatti, appena accade un fatto inatteso e eccezionale, cerchiamo d'inquadrarlo tra i fenomeni comuni delle conoscenze acquisite e accettate, e ci indigna che qualcuno osi fare ulteriori ricerche". Qualche giorno dopo l'inverosimile furto del cavolfiore, accadde un episodio comico. Non si trovava una certa lampada a petrolio. Poiché avevo così recentemente sperimentato l'onniscienza del mio Guru, pensai ch'egli ci avrebbe dimostrato che era un gioco da bambini trovare la lampada. Il Maestro comprese ciò che mi aspettavo; con esagerata serietà interpellò tutti gli abitanti dell'ashram. Un giovane discepolo confessò di aver usato la lampada per recarsi alla fonte del cortile. Sri Yukteswar consigliò con solennità: "Cercate la lampada accanto alla fontana". Corsi in un lampo: nulla! Nessuna lampada! Mortificato, tornai dal mio Guru. Ora egli rideva di cuore, senza commuoversi affatto della mia delusione. "E' proprio un peccato che io non abbia saputo dirigerti verso la lampada scomparsa. Ma non sono un indovino!". E con gli occhi brillanti di malizia, aggiunse: "Non sono nemmeno un buon Sherlock Holmes!". Capii che il Maestro non avrebbe mai mostrato i suoi poteri se sfidato, o per una sciocchezza. Incantevoli settimane passarono rapide. Sri Yukteswar progettava una processione religiosa. Mi chiese di guidare i discepoli attraverso la città e sulla spiaggia di Puri. Quel giorno di festa (il solstizio d'estate) si annunciò come una delle più torride giornate estive. "Guruji, come posso condurre gli allievi a piedi nudi sulla sabbia infocata?", esclamai sfiduciato.
"Ti dirò un segreto", rispose il Maestro. "Il Signore invierà un ombrello di nubi e camminerete tutti comodamente". Felice, organizzai la processione; il nostro gruppo partì dall'ashram con una bandiera Satsanga, (Nota: Sat significa letteralmente "l'essere", cioè "essenza, verità, realtà". Sanga: "associazione". Sri Yukteswar aveva denominato l'organizzazione del suo eremitaggio Satsanga, ossia "associazione con la verità". Fine nota), disegnata da Sri Yukteswar, che portava il simbolo dell'occhio singolo, lo sguardo telescopico dell'intuizione. (Nota: "Se dunque il tuo occhio è singolo, tutto il tuo corpo sarà illuminato". (Matteo, 6, 22). (E' da presumere che le Bibbie più antiche dicessero proprio 'occhio singolo', forma che si trova nella Bibbia di Martin Lutero e ancor oggi nelle traduzioni greche e inglesi. Più tardi, non comprendendo il vero significato della parola, i traduttori cambiarono 'singolo' in 'semplice' e poi ancora in 'puro' N.d.T.). Durante la meditazione profonda, l'occhio unico o spirituale diventa visibile nella parte centrale della fronte. Le Scritture si riferiscono in vari modi a questo occhio onnisciente: quale terzo occhio, stella d'Oriente, l'occhio interiore, la colomba che scende dal cielo, l'occhio di Shiva, l'occhio dell'intuizione, ecc. Fine nota). Avevamo appena lasciato l'eremitaggio, quando la parte del cielo a noi sovrastante si coprì di nubi come per magia. Accompagnata da stupefatte esclamazioni, cadde una lievissima pioggia che rinfrescò le strade della città e le ardenti rive del mare. Le gocce riconfortanti vennero giù durante le due ore della processione. Nell'istante stesso in cui il gruppo rientrò nell'ashram, le nuvole e la pioggia disparvero senza lasciar traccia. "Vedi come Dio ci protegge", disse il Maestro quando gli espressi tutta la mia gratitudine. "Il Signore risponde a tutti e lavora per tutti. Come ha mandato la pioggia invocata da me, così Egli esaudisce qualsiasi desiderio sincero dei fedeli. Raramente gli uomini si accorgono quanto spesso Dio esaudisce le loro preghiere. Egli non è parziale verso pochi, ma ascolta tutti coloro che si rivolgono fiduciosi a Lui. I suoi figli dovrebbero sempre avere una fede incrollabile nell'amorosa bontà del loro Padre Onnipotente". (Nota: "Chi ha piantato l'orecchio non udrà? Chi ha formato l'occhio non vedrebbe?... Colui che insegna all'uomo la sapienza non saprà?". Salmo 94 (93), 9. Fine nota). Sri Yukteswar patrocinava quattro festività annuali, agli equinozi e ai solstizi, quando i suoi allievi si radunavano giungendo da ogni luogo, vicino o lontano. La celebrazione del solstizio d'inverno si svolgeva a Serampore; la prima a cui assistetti mi lasciò una benedizione permanente.
La cerimonia s'iniziò al mattino con una processione a piedi nudi lungo le strade. Le voci di un centinaio di discepoli si elevavano in dolci canti religiosi; alcuni musici suonavano il flauto e i khol kartal (tamburi e cembali). La gente entusiasta copriva la via di fiori, felice d'essere allontanata per un poco dal peso dei prosaici lavori quotidiani, richiamata dai nostri canti che lodavano il nome benedetto del Signore. Il lungo giro terminò nel cortile dell'eremitaggio. Là circondammo il nostro Guru mentre alcuni allievi, dalle balconate superiori, ci cospargevano di calendule. Molti ospiti salirono in casa per ricevere un budino di channa e delle arance. Mi unii a un gruppo di condiscepoli che quel giorno funzionavano da cuochi. Per tanta gente, il vitto dovette essere cucinato all'aria aperta in enormi caldaie. Gli improvvisati fornelli di mattoni a legna fumavano e facevano lacrimare gli occhi; ma noi, lavorando, ridevamo allegramente. Le festività religiose, in India, non sono mai considerate una seccatura; ciascuno dà gioiosamente il proprio contributo offrendo denaro, riso, verdure o i suoi servigi. Presto il Maestro si unì a noi controllando tutti i particolari della festa. Instancabile, teneva il passo col più giovane e alacre studente. Un sankirtan (canto in coro), accompagnato dall'armonium e d tamburi indiani percossi a mano, veniva eseguito al secondo piano; Sri Yukteswar ascoltava. Il suo senso musicale era acuto e perfetto. "Son fuori tono!". Il Maestro lasciò i cuochi e si unì agli artisti. La melodia riprese, ma questa volta nel tono giusto. Il Sama Veda contiene gli scritti più antichi del mondo sulla scienza della musica. In India la musica, come la pittura e il dramma, è considerata un'arte divina, Brahma, Vishnu, Shiva - la Trinità Eterna - furono i primi musici. Shiva nel suo aspetto di Nataraja, il Danzatore Divino, è rappresentato figurativamente come Colui che realizzò gli infiniti mondi del ritmo nella Sua cosmica danza della universale creazione, conservazione e dissoluzione, mentre Brahma con i suoi altisonanti cembali, e Vishnu sonando il santo mridanga o tamburo. Krishna, un'incarnazione di Vishnu, è spesso rappresentato nell'arte indù con un flauto, sul quale egli suona l'estasiante melodia che richiama alla loro vera dimora le anime umane vaganti nell'inganno di maya. Sarasvati, la dea della saggezza, viene simboleggiata in una suonatrice divina, la madre di tutti gli strumenti a corda. La pietra angolare della musica indù è costituita dai raga o scale melodiche fisse. I sei raga di base si sviluppano in 126 ragini (mogli) e
putra (figli). Ogni raga ha un minimo di cinque note: una nota principale (vadi o re), una nota secondaria (samavadi o primo ministro), note ausiliarie (anvadi o aiutanti), e una note dissonante (vivadi, il nemico). Ciascuno dei sei raga principali ha una naturale rispondenza con una data ora del giorno, una stagione dell'anno e una divinità patrona che gli conferisce una particolare potenza. Così l'Hindole Raga si ode solo all'alba in primavera, per evocare il sentimento di amore universale; il Deepaka Raga si suona durante le sere estive per risvegliare la compassione; il Megha Raga è una melodia da suonare a mezzogiorno nella stagione delle piogge per riprender coraggio; il Bhairava Raga si suona nei mattini di agosto, settembre e ottobre per raggiungere la tranquillità; il Sri Raga è riservato ai crepuscoli autunnali per conseguire il puro amore; il Malkounsa Raga si ode nelle notti invernali a mezzanotte per ritemprare l'audacia. Furono gli antichi rishi a scoprire le leggi di questi rapporti fra la natura e l'uomo attraverso il suono. Poiché la natura è un'oggettivazione di Om, il Suono Primordiale o Parola Vibratoria, (Nota: Il Verbo (N.d.T.) Fine nota) l'uomo può ottenere il controllo su tutte le manifestazioni naturali attraverso l'uso di alcuni mantra, o cantici (Nota: Il folklore di tutti i popoli contiene riferimenti a incantesimi che conferiscono il potere sulla natura. E' noto che gli indiani d'America hanno composto dei rituali musicali per la pioggia e il vento. Tan Sen, il grande musicista indù, col potere del suo canto riusciva a spegnere il fuoco. Charles Kellogg, naturalista californiano, dette una dimostrazione dell'effetto della vibrazione tonale sul fuoco dinanzi a un gruppo di pompieri nel 1926. "Passando rapidamente un archetto più largo di quello da violino su un corista d'alluminio (strumento usato a percussione per dare il 'la' per l'esatta accordatura degli strumenti musicali, N.d.T.), si produsse uno stridore come quello di un radio-sintonizzatore. Immediatamente la fiamma gialla del gas, alta circa 75 cm. e racchiusa in un tubo di vetro vuoto, scese a 15 cm. diventando una vacillante e incerta fiammella di colore azzurro. Un altro tentativo con l'archetto e un altro stridio di vibrazione la spensero". Fine nota). Documenti storici ci informano degli straordinari poteri posseduti da Miyan Tan Sen, musicista del sedicesimo secolo alla corte di Akbar il Grande. L'imperatore gli ordinò di cantare un raga notturno, mentre il sole era ancora alto. Tan Sen intonò un mantra che fece piombare immediatamente l'intero palazzo nell'oscurità. La musica indiana suddivide l'ottava in ventidue sruti, o mezzi semitoni.
Questi intervalli microtonali permettono le più lievi sfumature di espressione musicale, che non possono essere ottenute dalla scala cromatica occidentale di dodici semitoni. Ognuna delle sette note basse dell'ottava, nella mitologia indù è associata a un colore e al grido naturale di un uccello o di un altro animale: il Do col verde e il pavone; il Re col rosso e l'allodola; il Mi col color oro e la capra; il Fa col bianco giallognolo e l'airone; il Sol col nero e l'usignolo; il La col giallo e il cavallo; il Si con una combinazione di tutti i colori e l'elefante. Tre scale: maggiore, minore armonica e minore melodica - sono le uniche usate dalla musica occidentale; quella indiana invece ha settantadue thata o scale. Il musicista ha il campo aperto a infinite improvvisazioni sulla melodia tradizionale o raga; egli si concentra sul sentimento o la disposizione d'animo che definisce il tema iniziale, e poi ci ricama sopra sino agli estremi limiti della propria originalità. Il musicista indù non legge note stabilite: ad ogni esecuzione egli riveste a nuovo il nudo scheletro del raga, spesso limitandosi a una singola sequenza melodica facendo risaltare, con la ripetizione, tutte le sue minime vibrazioni microtonali e ritmiche. Bach, fra i musicisti occidentali, ha compreso il fascino e il potere della ripetizione dei suoni lievemente differenziati in cento complessi modi diversi. L'antica letteratura sanscrita descrive centoventi tala o misure di tempo. Il tradizionale fondatore della musica indù, Bharata, si dice che abbia riconosciuto trentadue tala nel canto di un'allodola. L'origine del tala o ritmo è radicata nei movimenti umani: due tempi nel camminare, tre tempi nella respirazione. L'India ha sempre considerato la voce umana come il più perfetto strumento di suono; perciò la musica indiana si è in massima parte limitata alle tre ottave della voce. Per la stessa ragione la melodia (rapporto di note successive) è stata più sviluppata dell'armonia (rapporto di note simultanee). La musica indiana è sempre stata un'arte soggettiva, spirituale e individuale che non mira a brillanti effetti sinfonici, ma a una personale armonia con la Super-Anima. La parola sanscrita per designare il musicista è bhagavathar, colui che canta le lodi di Dio. I sankirtan, o riunioni musicali, sono una forma efficace dello yoga o della disciplina spirituale, che richiedono una profonda concentrazione, un intenso assorbimento nel pensiero e suono base. Poiché l'uomo stesso è un'espressione della Parola Creativa, il suono ha su di lui un effetto potente e immediato. Tutte le grandi composizioni religiose d'Oriente e d'Occidente, trasmettono gioia, causando un temporaneo risveglio vibratorio d'uno degli occulti centri spinali nell'uomo. In quei beati istanti gli ritorna una vaga
memoria della sua origine divina. (Nota: Il risveglio dei centri occulti cerebro-spinali (chakra o loti astrali) è la sacra mèta dello yoghi. Gli esegeti occidentali non hanno compreso che il capitolo del Nuovo Testamento chiamato "Apocalisse" contiene l'esposizione simbolica di una scienza yoghica, insegnata a san Giovanni e ad altri intimi discepoli dal Signore Gesù. Giovanni accenna (Apocalisse, 1, 20) al "mistero delle sette stelle e alle "sette chiese", simboli che si riferiscono ai sette loti di luce, descritti nei trattati di yoga come i "sette trabocchetti" nell'asse cerebro-spinale. Attraverso queste 'vie d'uscita' volute dal piano divino, lo yoghi, mediante una meditazione scientifica, evade dalla prigione del corpo e riacquista la sua vera identità con lo Spirito. (V. Cap. XXVI). Il settimo centro, o 'loto dai mille petali' che ha sede nel cervello, è il trono della Coscienza Infinita. Si dice che nello stato di divina illuminazione, lo yoghi percepisce Brahma, o Dio Creatore, quale Padmaja, ossia "l'Uno nato dal loto". La "posizione del loto" è così chiamata perché in questa tradizionale posizione lo yoghi vede i loti (padma) dai vari colori, dei centri cerebrospinali. Ogni loto possiede un differente numero di petali o raggi, composti di prana (forza vitale). I padma sono anche conosciuti come chakra (pron. ciacra) o ruote. Il migliore asana per lo yoghi sia orientale che occidentale è la posizione del loto (padmasana). Questa posizione mantiene la colonna vertebrale ben eretta e assicura il corpo contro il pericolo di cadere in avanti o all'indietro durante lo stato di 'trance' (sabikalpa samadhi). Il padmasana esercita una benefica pressione su alcuni nervi particolari, inducendo fermezza fisica e mentale. Al principio questa posizione suscita la dolorosa protesta delle ginocchia e delle cosce negli occidentali adulti, ma pochi minuti di esercizio giornaliero danno buoni risultati in capo a qualche mese. Fine nota). I sankirtan che si cantavano al secondo piano dell'eremitaggio di Sri Yukteswar in quel giorno di festa, ispiravano i cuochi che si affaccendavano tra le pentole fumanti. Tutti cantavano gioiosamente i ritornelli battendo il tempo con le mani. Al tramonto avevano servito alle centinaia di visitatori khichuri (riso e lenticchie), curry di verdure, budino di riso. Stendemmo delle coperte di cotone nel cortile; ben presto tutti si accosciarono sotto la volta stellata ad ascoltare, calmi e attenti, la saggezza che sgorgava dalle labbra di Sri Yukteswar. I suoi pubblici discorsi esaltavano il valore del Kriya Yoga e di una vita d'autorispetto, di calma, decisione, dieta semplice e regolare esercizio. Un gruppo di giovanissimi discepoli cantò poi inni sacri. La riunione terminò con un fervente sankirtan. Dalle dieci di sera alla mezzanotte i
discepoli residenti nell'ashram lavarono scodelle e pentole e spazzarono il cortile. Il mio Guru mi chiamò al suo fianco. "Sono contento che tu abbia compiuto allegramente le tue fatiche di oggi e tutti i preparativi della settimana scorsa. Ti voglio con me. Questa notte puoi dormire nel mio letto". Era un privilegio che non credevo mi sarebbe stato mai concesso. Ci sedemmo per un poco, in uno stato d'intensa e divina tranquillità. Eravamo a letto da appena dieci minuti, quando il Maestro si alzò e cominciò a vestirsi. "Che c'è Maestro?". La gioia inattesa di dormire accanto al mio Guru improvvisamente divenne irreale. "Penso che alcuni studenti che hanno perduto la coincidenza del treno, saranno qui tra poco. Prepariamo loro qualcosa da mangiare". "Guruji , ma nessuno verrà all'una del mattino!". "Resta a letto, hai lavorato molto. Cucinerò io". Al tono risoluto di Sri Yukteswar balzai giù dal letto e lo seguii nella cucinetta che usavamo abitualmente, adiacente alla balconata interna del secondo piano. Ben presto riso e dhal erano a bollire. Il mio Guru sorrise affettuosamente. "Questa notte hai conquistato la vittoria sulla stanchezza e sul timore del pesante lavoro; queste cose non ti molesteranno mai più in avvenire". Mentre pronunciava queste parole, che erano una benedizione per tutta la vita, si udirono dei passi in cortile. Corsi giù e feci entrare un gruppo di studenti. "Caro fratello, come ci dispiace disturbare il Maestro a quest'ora!", mi disse uno di loro, scusandosi, "ma abbiamo sbagliato l'orario del treno e non potevamo ritornare alle nostre case senza aver riveduto il nostro Guru". "Egli vi aspetta e vi sta anche preparando da mangiare". Si udì la sonora voce di Sri Yukteswar che dava loro il benvenuto. Condussi gli stupidi visitatori nella cucina. Il Maestro si volse verso di me con gli occhi che gli brillavano. "Ora che hai finito di prendere informazioni, sarai certamente convinto che i nostri ospiti hanno davvero perduto il treno!". Lo seguii nella camera da letto una mezz'ora più tardi, profondamente cosciente che mi accingevo a dormire accanto a un Guru divino.
CAPITOLO XVI SCONFIGGERE GLI ASTRI "Mukunda, perché non porti un bracciale astrologico?". "Dovrei farlo, Maestro? Non credo nell'astrologia". "Non è questione di credere; l'unico atteggiamento scientifico che si dovrebbe assumere di fronte a qualsiasi soggetto è quello di sapere se sia vero. La legge della gravitazione era ugualmente attiva prima e dopo Newton. Il cosmo sarebbe davvero piuttosto caotico se le sue leggi non potessero operare senza la sanzione della credenza umana. "I ciarlatani hanno discreditato l'antica scienza degli astri. L'astrologia è troppo vasta, sia dal punto di vista matematico che da quello filosofico, per essere giustamente afferrata se non da uomini dalla profonda comprensione. (Nota: Dai riferimenti astronomici contenuti nell'antica letteratura indiana, gli studiosi hanno potuto accertare le epoche degli autori. La conoscenza scientifica dei rishi era vastissima; nel Kaushitaki Brahmana troviamo riferimenti astronomici esattissimi, dimostranti che nel 3100 a.C. gli indù erano avanzatissimi nell'astronomia, la quale aveva un valore pratico nel determinare i tempi di buon auspicio per le cerimonie astrologiche. In un articolo del febbraio 1934 dell'East-West si trova il seguente commento sul Jyotish, il complesso dei trattati astronomici Vedici: "Esso contiene il sapere scientifico che pose l'India all'avanguardia di tutti i popoli antichi e la fece diventare la Mecca dei ricercatori della conoscenza. L'antichissimo Brahmagupta, una delle opere Jyotish, è un trattato astronomico che comprende argomenti come: il movimento eliocentrico dei corpi planetari nel sistema solare, l'obliquità dell'eclittica, la forma sferica della terra, la luce riflessa della luna, la rivoluzione quotidiana assiale della terra, la presenza di stelle fisse nella Via Lattea, la legge di gravitazione e altri fenomeni scientifici che non si rivelarono al mondo occidentale prima di Copernico e di Newton". I cosiddetti "numeri arabi", di valore inestimabile per lo sviluppo dell'alta matematica occidentale, giunsero in Europa nel XIX secolo, con gli Arabi, dall'India, dove il sistema era stato elaborato sin dai tempi antichi.
Ulteriori informazioni sulla vasta eredità scientifica dell'India si troveranno nella History Of Hindu Chemistry del dott. P. C. Ray, in Positive Sciences of the Ancient Hindus, del dott. B.N. Seal, in Hindu Achievements in Exact Science e The Positive Background of Hindu Sociology di B. K. Sarkar, e in Materia Medica of the Hindus di U.C. Dutt. Fine nota). Che gli ignoranti leggano male nei cieli e vi scorgano degli scarabocchi invece di uno scritto, ciò è ben naturale e prevedibile in questo mondo imperfetto. Non si deve scartare la saggezza insieme ai 'saggi'. "Tutte le parti della creazione sono congiunte fra loro e si influenzano scambievolmente. Il ritmo equilibrato dell'universo è radicato nella reciprocità", continuò il mio Guru. "L'uomo, nel suo aspetto umano, deve combattere due tipi di forze diverse: primo, il tumulto del suo intimo, provocato dalla mescolanza di elementi: terra, acqua, fuoco, aria ed etere; secondo, le forze disintegranti esterne della natura. Fin quando l'uomo combatte con la sua natura mortale, egli sottostà all'influsso degli innumerevoli mutamenti del cielo e della terra. "L'astrologia è lo studio delle reazioni dell'uomo agli stimoli planetari. Le stelle non hanno alcuna benevolenza o animosità cosciente; emettono solamente radiazioni positive o negative. Queste, per se stesse, non aiutano né danneggiano l'umanità, ma sono il mezzo esteriore che permette alla legge karmica di causa e effetto che ogni uomo ha messo in moto nel passato, di esplicare la sua azione equilibratrice. "Un bimbo nasce nel giorno e nell'ora in cui i raggi celesti si trovano in armonia matematica col suo karma individuale. Il suo oroscopo è un ritratto accusatore che rivela il suo inalterabile passato e i suoi probabili risultati futuri. Ma questo certificato di nascita può essere interpretato esattamente solo da uomini dotati di saggezza intuitiva; e sono pochi. "Il messaggio arditamente proclamato attraverso i cieli al momento della nascita non va inteso nel senso di dare un'importanza strettamente determinante al fato, cioè al risultato del bene e del male compiuti nel passato, ma al contrario, deve risvegliare la volontà dell'uomo di sottrarsi al suo asservimento. Ciò che egli ha fatto, egli stesso può disfarlo. Nessuno all'infuori di lui ha promosso quelle cause che determinano gli effetti dominanti la sua vita attuale. Egli può superare ogni limitazione, perché egli stesso la creò con i suoi atti, e perché è in possesso di risorse spirituali non soggette alle pressioni planetarie. "Un superstizioso timore riverenziale dell'astrologia rende l'uomo un automa, schiavo della propria sottomissione a una guida meccanica. L'uomo saggio vince i propri pianeti - cioè il proprio passato - assoggettandosi
invece che alla creazione, al Creatore. Più egli si rende conto della sua unità con lo Spirito, meno potrà essere dominato dalla materia. L'anima è sempre libera; non ha fine perché non ha principio. Non può essere soggiogata dalle stelle. "L'uomo è un'anima ed ha un corpo. Quando ha giustamente collocato il proprio senso d'identità, si lascia alle spalle ogni condizionamento coattivante. Fin quando resta nel confuso stato di amnesia spirituale che gli è solito, sarà incatenato alla legge che lo circonda. "Dio è armonia; il devoto che s'intona ad essa non compirà mai un'azione sbagliata; le sue attività si accorderanno sempre in modo giusto e naturale al ritmo della legge astrologica. Dopo aver pregato e meditato profondamente, egli sarà in contatto con la propria coscienza divina; non c'è potere più grande di questa protezione interiore". "Allora, caro Maestro, perché volete ch'io porti un bracciale astrologico?". Arrischiai questa domanda dopo un lungo silenzio, durante il quale avevo cercato di assimilare le elevate spiegazioni di Sri Yukteswar, che contenevano pensieri assai nuovi per me. "Solo quando un viaggiatore ha raggiunto la mèta può buttar via le sue carte. Durante il viaggio, egli trae vantaggio da ogni utile scorciatoia. Gli antichi rishi scoprirono molte vie per abbreviare il periodo dell'esilio umano nell'illusione. Nella legge del karma vi sono alcune configurazioni meccaniche che possono essere abilmente aggiustate dalle dita della saggezza. "Tutti i mali del mondo sono provocati da qualche trasgressione alla legge universale. Le Scritture mettono in rilievo il fatto che l'uomo deve ottemperare alle leggi della natura, pur non discreditando l'onnipotenza divina. Egli dovrebbe dire: "Signore, ho fede in Te e so che Tu puoi aiutarmi, ma anch'io farò del mio meglio per annullare ogni male che ho fatto". Con vari mezzi: la preghiera, la volontà, la meditazione yoga, col chieder consiglio ai santi e portando bracciali astrologici, gli effetti deleteri degli errori passati possono essere diminuiti o annullati, "Come una casa può essere fornita di un'asta di rame sul tetto per la protezione dai fulmini, così il tempio corporeo può beneficiare di varie misure protettive. Secoli fa, i nostri rishi studiarono il problema del come combattere gli effetti nocivi delle sottili influenze cosmiche. Essi scoprirono che i metalli puri emettono una luce astrale che reagisce fortemente all'influsso negativo dei pianeti. Soprattutto efficaci sono le pietre preziose perfette, non più piccole di due carati.
"Gli usi pratici preventivi dell'astrologia ben di rado sono stati studiati seriamente fuori dell'India. Un fatto poco noto è che i gioielli, i metalli e i preparati di piante sono senza efficacia se non hanno il peso richiesto e se questi agenti salutari non sono messi a diretto contatto con la pelle". "Maestro, seguirò certamente i vostri consigli e mi procurerò un bracciale. Sono un po' imbarazzato all'idea di turlupinare un pianeta!". "In linea generale, consiglio l'uso di un braccialetto fatto d'oro, d'argento e rame. Ma per uno scopo particolare voglio che tu ne abbia uno d'argento e piombo". E Sri Yukteswar aggiunse altri opportuni consigli. "Guruji, a quale scopo particolare alludete?" "Mukunda, le stelle stanno per interessarsi a te in modo poco amichevole. Non temere, sarai protetto. Fra circa un mese il tuo fegato ti darà molte noie. E' stabilito che la malattia duri sei mesi, ma l'uso di un braccialetto astrologico abbrevierà questo periodo, riducendolo a ventiquattro giorni". Il giorno seguente andai da un gioielliere, e poco dopo portavo il bracciale. La mia salute era eccellente; la predizione del Maestro mi scivolò dalla mente. Egli lasciò Serampore per visitare Benares. Trenta giorni dopo la nostra conversazione, a un tratto provai un forte dolore alla regione epatica. Le settimane che seguirono furono un incubo di terribile sofferenza. Non volendo disturbare il mio Guru, decisi di sopportare coraggiosamente la prova da solo. Ma ventitré giorni di torture fiaccarono la mia risoluzione; partii per Benares. Là il Maestro mi accolse con inusitato calore, ma non mi offrì l'occasione di raccontargli in privato i miei guai. In quel giorno molti devoti visitarono il maestro, solo per avere un darshan (Nota: La benedizione derivante anche dalla sola vista di un Santo. Fine nota). Ammalato e trascurato, io sedevo in un angolo. Solo dopo cena tutti gli ospiti se n'erano andati. Il mio Guru mi chiamò accanto a sé, sulla balconata ottagonale della casa. "Certamente sei venuto per i tuoi disturbi di fegato". Sri Yukteswar non mi guardava; camminava su e giù intercettando ogni tanto i raggi della luna. "Vediamo un po'; sei ammalato da ventiquattro giorni, non è vero?". "Si, signore". "Per piacere, fai l'esercizio di stomaco che ti ho insegnato". "Maestro, se sapeste fino a che punto soffro non mi chiedereste di fare un simile esercizio". Feci però un debole tentativo di ubbidirgli. "Tu dici di aver dolori. Io dico che non ne hai. Come può essere una simile contraddizione?".
Il mio Guru mi guardò interrogativamente. Fui abbagliato, e poi travolto da una felice sensazione di sollievo. Non provavo più quel dolore continuo che mi aveva reso quasi insonne per settimane intere; alle parole di Sri Yukteswar, il tormento svanì come se non fosse mai esistito. Cercai d'inginocchiarmi ai suoi piedi in segno di gratitudine, ma egli, rapido me lo impedì. "Non fare il bambino! Alzati e godi della bellezza della luna sul Gange!". Ma gli occhi del Maestro brillavano di gioia mentre restavo in silenzio accanto a lui. Compresi dal suo atteggiamento ch'egli voleva farmi sentire che non lui, ma Dio mi aveva risanato. Ancora oggi porto il pesante bracciale di argento e piombo, in ricordo di quel giorno ormai tanto lontano, ma sempre caro alla mia memoria, nel quale mi resi conto una volta di più, di vivere accanto a un essere veramente sovrumano. In altre occasioni, quando conducevo da Sri Yukteswar degli amici per farli curare, egli invariabilmente consigliava di portare pietre preziose e bracciali, lodandone l'uso come un atto di saggezza astrologica. Fin dall'infanzia avevo avuto delle prevenzioni contro l'astrologia, in parte perché avevo visto che molta gente la segue supinamente, e in parte per una predizione fattami dal nostro astrologo di famiglia. Egli mi aveva detto: "Sposerai tre volte, rimanendo vedovo due volte". Avevo fantasticato su questa cosa, sentendomi come una capra che attende il sacrificio dinanzi al tempio del triplice matrimonio. "Puoi rassegnarti al tuo destino", aveva osservato mio fratello Ananta, "Il tuo oroscopo scritto ha predetto molto giustamente che saresti scappato da casa verso l'Himalaya da giovanissimo, ma che tu saresti stato obbligato a tornare indietro. La predizione dei tuoi matrimoni dovrà perciò anch'essa avverarsi". Una notte ebbi la chiara intuizione che la profezia era completamente falsa. Bruciai il rotolo dell'oroscopo e ne raccolsi le ceneri in una busta, su cui scrissi: "I semi del passato karma non possono germogliare se vengono bruciati nel fuoco divino della saggezza". Misi la busta bene in vista; Ananta lesse immediatamente il mio commento di sfida. "Non puoi distruggere la verità così facilmente come hai bruciato questo rotolo", disse mio fratello con riso sprezzante. Sta di fatto che per tre volte, prima ch'io raggiungessi la maturità, la mia famiglia cercò di combinare il mio fidanzamento. Ogni volta rifiutai di
accettare la progettata unione (Nota: Una delle ragazze che la mia famiglia aveva prescelto quale possibile moglie per me, sposò in seguito mio cugino, Prabbas Chandra Ghose (ora vice-presidente della società Yogoda Satsanga in India, affiliata alla SRF. Fine nota), ben sapendo che il mio amore per Dio era più potente di qualsiasi postulato astrologico basato sul mio passato. "Quanto più è profonda l'autorealizzazione di un uomo, tanto più egli influisce su tutto l'universo mediante le sue sottili vibrazioni spirituali, e tanto meno subisce egli stesso l'influenza del flusso fenomenico". Queste parole del Maestro mi tornavano sempre alla mente ad ispirarmi. A volte chiedevo agli astrologhi d'indicarmi i periodi peggiori della mia vita secondo i pianeti; in tali periodi avrei sempre ugualmente compiuto tutto quello che mi ero proposto. E' vero che i miei successi in dette epoche furono accompagnati da straordinarie difficoltà. Ma la mia convinzione è stata sempre giustificata; la fede nella protezione divina e il retto uso della volontà concessa all'uomo da Dio, sono forze più formidabili di qualsiasi influenza proveniente dagli astri. Compresi che ciò che scrivono le stelle al momento della nascita non significa che l'uomo sia una marionetta in balìa del proprio passato. Il loro messaggio dà piuttosto una spinta all'orgoglio. I cieli stessi cercano di risvegliare nell'uomo la determinazione di rendersi libero da ogni limitazione. Dio creò ogni uomo quale anima, dotata di individualità e perciò necessaria alla struttura dell'universo, sia il suo temporaneo ruolo quello di pilastro o di parassita. La sua libertà è definitiva e immediata, se così egli vuole; essa non dipende da vittorie esterne, ma interiori. Sri Yukteswar scoprì l'applicazione matematica di un ciclo equinoziale di 24.000 anni all'epoca attuale. (Nota: Questi cicli sono spiegati nella prima parte del libro di Sri Yukteswar, The Holy Science (SRF, Los Angeles). Fine nota). Il ciclo si divide in due curve, una ascendente e una discendente, di 12.000 anni ciascuna. In ogni curva sono comprese quattro Yuga o epoche, chiamate Kali, Dwapara, Treta e Satya, che corrispondono all'idea delle età greche del Ferro, del Bronzo, dell'Argento e dell'Oro. Il mio Guru stabilì con vari calcoli che l'ultimo Kali Yuga o Età del Ferro, nella curva ascendente, s'iniziò verso il 1500 d.C. L'Età del Ferro, della durata di 1200 anni, fu un periodo di materialismo che terminò nel 1700. Quell'anno sfociò nel Dwapara Yuga, un periodo di 2400 anni in cui si svilupparono le nozioni sull'energia elettrica e su quella atomica; è l'epoca del telegrafo, della radio, degli aeroplani e di altre scoperte annullanti lo spazio.
Il periodo di 3600 anni del Treta Yuga si inizierà nell'anno 4100 d.C., e quest'epoca sarà caratterizzata dalla universale conoscenza delle facoltà telepatiche e di altri sistemi per annullare il tempo. Durante i 4800 anni del Satya Yuga, l'età finale nella curva ascendente, l'intelligenza dell'uomo sarà altamente sviluppata; egli lavorerà in armonia con il piano divino. Una curva discendente di 12.000 anni, che si inizierà con una discendente Età dell'Oro di 4800 anni comincerà allora per il mondo (A.D. 12.500); l'uomo sprofonderà gradualmente nell'ignoranza. Questi cicli sono gli eterni ritorni di maya, contrasti e relatività del mondo fenomenico. (Nota: Le Scritture indù pongono la nostra epoca nel Kali Yuga di un ciclo universale assai più lungo del semplice ciclo equinoziale di 24.000 anni al quale si riferiva Sri Yukteswar. Il ciclo universale delle Scritture consta di 4.300.560.000 anni e corrisponde a un "Giorno? della Creazione, e cioè al periodo d'esistenza assegnato al nostro sistema planetario nella sua forma attuale. Questa enorme cifra data dai rishi si basa su un rapporto esistente fra la lunghezza dell'anno solare e un multiplo di W (3,1416: la proporzione della circonferenza al diametro del cerchio). Il periodo di esistenza di un intero universo, secondo gli antichi profeti è di 314.159.000.000.000 anni solari, o "un'epoca di Brahma". Gli scienziati stimano che l'attuale età della terra sia di circa due miliardi d'anni (oggi la scienza è giunta a valutare l'età della terra a cinque miliardi di anni N.d.T.) basando le loro deduzioni sullo studio della radioattività di filoni di piombo rimasti nelle rocce. Le scritture indù dichiarano che una terra come la nostra si dissolve per una di queste due ragioni: tutti gli abitanti in blocco diventano o perfettamente buoni o perfettamente cattivi. La mente del mondo genera così una forza che libera gli atomi incatenati, tenuti assieme sotto forma di Terra. Terribili dichiarazioni vengono spesso pubblicate sull'imminente "fine del mondo". Ma i cicli del mondo seguono un'ordinata progressione, secondo un piano divino. Nessuna dissoluzione della terra è in vista; circa due miliardi di anni di cicli equinoziali ascendenti e discendenti rimangono ancora al nostro pianeta nella sua forma attuale. Fine nota). Gli uomini, uno per uno, si sottraggono alla prigionia della dualità esistente nella creazione mentre si risvegliano alla coscienza della loro inscindibile, divina unità col Creatore. Il maestro ampliò la mia comprensione non solo dell'astrologia, ma anche delle sacre Scritture di tutto il mondo. Ponendo i sacri testi sulla tavola immacolata della sua mente, sapeva sezionarli con lo scalpello del ragionamento intuitivo, e separava così gli errori e le interpolazioni degli studiosi dalle verità originarie espresse dai profeti.
"Fissare la propria vista sulla punta del naso"; questa inesatta interpretazione di un versetto della Bhagavad Gita (Nota: Capitolo VI, 13. Fine nota), accettata dalla maggior parte dei pandit orientali e dei traduttori occidentali, provocava la critica faceta del Maestro. "Il sentiero di uno yoghi è già abbastanza singolare così com'è", faceva rilevare. "Perché consigliargli anche di farsi venire gli occhi storti? Il vero significato della parola nasikagram è la 'radice del naso', non 'la punta del naso'. Il naso comincia nel punto fra le due sopracciglia, sede della visione spirituale" (Nota: "La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque l'occhio tuo è semplice tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se è guasto,, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. bada dunque che la luce che è in te, non sia tenebre". Fine nota). Uno degli Aforismi Sankhya (Nota: Uno dei sistemi della filosofia indù. Il Sankhya insegna l'emancipazione finale attraverso la conoscenza di 25 princìpi, iniziando con prakriti (la natura), e terminando con purusha (l'anima). Fine nota). dice: Iswar ashidha (Nota: Aforismi Sankhya I, 92. Fine nota), ossia: "Un Signore della Creazione non può essere dedotto", oppure "Dio non è dimostrabile", quasi unicamente sulla base di questo versetto, molti studiosi giudicano ateistica l'intera filosofia. "Eppure il versetto non è nemmeno agnostico", spiegava Sri Yukteswar. "Esso significa semplicemente che per l'uomo non illuminato, il cui giudizio dipende dai suoi soli sensi, la dimostrazione di Dio deve rimanere sconosciuta e quindi non-esistente. I veri seguaci del Sankhya, dotati dell'incrollabile conoscenza che nasce dalla meditazione, comprendono che il Signore esiste ed è conoscibile". Il Maestro esponeva la Bibbia Cristiana con magnifica chiarezza. Fu dal mio Guru indù, ignoto agli annali delle associazioni cristiane, che imparai a intendere l'essenza immortale della Bibbia e a comprendere la verità dell'asserzione di Cristo, indubbiamente la più emozionante e intransigente che sia mai stata pronunciata. "Passeranno il cielo e la terra, ma le mie parole non passeranno" (Nota: Matteo, 24, 35 Fine nota). I Grandi Maestri dell'India plasmano le loro vite sugli stessi ideali divini che animavano Gesù. Questi uomini sono la sua proclamata stirpe: "Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei Cieli, questi mi è fratello e sorella e madre" (Nota: Matteo, 12, 5. Fine nota). "Se voi rimanete costanti nella mia parola", disse il Cristo, "Sarete veramente miei discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi" (Nota: Giovanni, 8, 31-32. San Giovanni dichiarò: "Ma a tutti coloro che lo hanno ricevuto, i quali credono nel suo nome, (a quelli, cioè, che sono stabiliti nella coscienza di Cristo) egli ha dato questo potere, d'esser fatti figliuoli di Dio", Giovanni
1,12 Fine nota). Tutti uomini liberi, signori di se stessi, gli Yoghi-Cristi dell'India partecipano alla immortale fratellanza di coloro che sono giunti alla conoscenza liberatrice dell'Unico Padre! "La storia di Adamo ed Eva è per me incomprensibile!", osservai un giorno con impeto, nel periodo delle mie prime battaglie con le allegorie. "Perché mai Dio non punì solo i due colpevoli ma anche tutte le innocenti generazioni a venire?". Il Maestro si divertì più della mia veemenza che della mia ignoranza. "La Genesi è profondamente simbolica e non può esser compresa se interpretata letteralmente", egli spiegò. "Il suo 'albero della vita' è il corpo umano. La spina dorsale è come un albero capovolto; i capelli dell'uomo sono le sue radici, e i rami sono i nervi afferenti ed efferenti. L'albero del sistema nervoso porta molti saporosi frutti, cioè le sensazioni della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto, del tatto. In essi l'uomo può legittimamente indulgere, ma gli fu proibita l'esperienza del sesso, il 'pomo' al centro del giardino corporeo. (Nota: "Del frutto delle piante che sono nel giardino ne mangiamo; ma del frutto dell'albero che è nel mezzo del paradiso Dio ci ordinò di non mangiarne e di non toccarlo, che forse non abbiamo a morirne". Genesi, 3, 2-3. Fine nota). "Il serpente rappresenta l'attorcigliata energia spinale che stimola i nervi sessuali. Adamo è la ragione. Eva il sentimento. Quando l'emozione o 'coscienza di Eva' in un essere umano è sopraffatta dall'impulso del sesso, allora la sua ragione, Adamo, soccombe anch'essa. (Nota: "E il Signore Iddio formò l'uomo dal fango della terra, egli alitò un fiato vitale; e l'uomo fu fatto anima vivente". (Genesi, 2,7). Fine nota). "Dio creò il genere umano materializzando i corpi dell'uomo e della donna col potere della Sua Volontà. Dotò la nuova specie del potere di creare dei figli nella stessa maniera, 'immacolata' o 'divina' (Nota: "Iddio creò l'uomo a sua immagine; lo creò ad immagine di Dio; maschio e femmina li creò. E li benedisse Dio, dicendo - Crescete e moltiplicatevi e popolate la terra e rendetevela soggetta..." (Genesi, 1, 27-28). Fine nota). Siccome la sua manifestazione nelle anime individualizzate era stata finora limitata agli animali, schiavi dei loro istinti e mancanti della potenzialità della ragione perfetta, Iddio fece i primi corpi umani, simbolicamente chiamati Adamo ed Eva. Egli trasferì, allo scopo di farle evolvere verso stadi superiori, le anime, ossia la divina essenza, di due animali (Nota: "La donna che mi desti per compagna m'ha dato di quel frutto e ne ho mangiato..."; e la donna disse: "Il serpente mi ha sedotta ed io ne ho mangiato". Genesi, 3, 12-13. Fine nota).
In Adamo o Uomo predominava la ragione, in Eva o Donna, il sentimento. In tal modo si esprimeva la dualità, o polarità, su cui è basato il mondo fenomenico. La ragione e il sentimento rimangono insieme in un paradiso di gioia cooperante fin quando la mente non è ingannata dall'energia serpentina delle inclinazioni animali. "Il corpo umano non era perciò solo il risultato di un'evoluzione da quello animale, ma venne prodotto da uno specifico atto creativo di Dio. Le forme animali erano troppo rozze per esprimere la piena divinità; unicamente all'essere umano originale furono dati gli occulti centri spinali acutamente sviluppati e il potenzialmente onnisciente 'loto dai mille petali' nel cervello. "Dio, o la Coscienza Divina presente nella prima coppia creata, concesse all'uomo di godere di tutte le sensazioni umane, ad eccezione però di quelle del sesso. (Nota "Ora il serpente" (la forza sessuale) "era il più astuto di tutti gli animali della terra" (cioè di qualsiasi altro senso del corpo). (Genesi, 3, 1). Fine nota). Queste ultime erano interdette per evitare all'umanità l'uso degli organi sessuali, che l'avrebbe incatenata al modo inferiore di procreazione proprio degli animali. L'avvertimento di non risvegliare le reminiscenze bestiali, presenti sempre nel subcosciente, non fu ascoltato. Riprendendo la forma bruta della procreazione, Adamo ed Eva decaddero dallo stato di gioia celestiale, insito nell'uomo originario perfetto. "Quando 'essi seppero di esser nudi', la loro coscienza d'immortalità andò perduta, come Iddio aveva predetto; essi si erano posti sotto la legge fisica, secondo la quale alla nascita fisica deve seguire la morte fisica. "La conoscenza del 'bene e del male' promessa ad Eva dal 'serpente', si riferisce alle esperienze dualistiche e opposte cui sono sottoposti da maya i mortali. Cadendo nell'illusione a causa del cattivo uso fatto del sentimento e della ragione, ossia della coscienza di Adamo-Eva, l'uomo perde il suo diritto a entrare nel celeste giardino dell'autosufficienza (Nota: "Ora il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e quivi pose l'uomo che aveva formato". (Genesi, 2,8). "Perciò il Signore Iddio mandò l'uomo fuor del giardino di Eden, per lavorare la terra, dalla quale era stato tolto". (Genesi, 3, 23). L'uomo divino, il primo fatto da Dio, aveva la coscienza accentrata nell'onnipossente occhio singolo sulla fronte (verso Oriente). I poteri creativi della sua volontà, fissati in quel punto, si perdettero per l'uomo quand'egli cominciò a "coltivare la terra" della propria natura fisica. In tal modo si pose sotto la legge fisica, per la quale la nascita corporea deve essere seguita dalla morte del corpo. Fine nota).
La responsabilità personale che incombe ad ogni essere umano è quella di riportare 'i suoi progenitori' (la natura dualistica) a un'armonia unificata o Eden". Quando Sri Yukteswar terminò il suo discorso, considerai con un rispetto nuovo le pagine della Genesi. "Caro Maestro", gli dissi, "per la prima volta sento in me un vero dovere filiale verso Adamo ed Eva". (Nota: La storia di "Adamo ed Eva" degli indù è raccontata nell'antichissimo purana, Srimad Bhagavata. Il primo uomo e la prima donna (esseri in forma fisica) vi sono chiamati Swayambhuva Manu ("uomo nato dal Creatore") e sua moglie Satarupa ("vera immagine"). I loro cinque figli contrassero matrimonio con i Prajapati, (esseri perfetti che potevano assumere forme corporee). Da queste divine famiglie nacque la razza umana. Mai, né in Oriente né in Occidente, ho udito esporre le Scritture cristiane con penetrazione così spirituale e profonda come da Sri Yukteswar. "I teologi hanno male interpretato le parole di Cristo nei passi come questo (Giovanni, 14, 6): "Io son la via, la verità e la vita; niuno viene al Padre se non per me"", osservava il Maestro. "Gesù non intese mai dire che Egli fosse l'unico figlio di Dio; significò con quelle profonde parole, che nessun uomo può giungere all'Assoluto inqualificato, il Padre trascendente che è al di là della creazione, senza avere prima manifestato il Figlio, cioè l'onnipresente Coscienza Cristica nella creazione. Gesù, che aveva raggiunto l'unità perfetta con questa Coscienza Cristica, si identificava con essa, in quanto il suo ego da molto tempo non esisteva più". Quando San Paolo scrisse: "Dio... creò tutte le cose attraverso Gesù Cristo" (Lettera agli Efesini, 3,9) (questo passo non si trova in questa forma nella versione italiana cattolica, N.d.T.) e quando Gesù disse: "Prima che Abramo nascesse, io sono", la vera essenza di queste parole è: impersonalità. Una forma di codardia spirituale induce talvolta gli uomini del mondo a credere che un solo uomo fu il figlio di Dio. "Il Cristo era il Figlio unigenito", essi ragionano, "perciò, come posso io povero mortale, tentare di emularlo?". Ma tutti gli uomini sono creati da Dio, e dovranno un giorno obbedire al comandamento del Cristo: "Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli". (Matteo, 5, 48). E San Giovanni scrisse: "A tutti quelli che l'hanno accolto, a quelli che credono nel suo nome, ha dato il potere di diventare figliuoli di Dio; i quali né da sangue né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio son nati". (Giovanni, 1, 12-13). La comprensione della legge del karma e del suo corollario, la reincarnazione (vedi Capitolo XLIII) si rivela in molti passi della Bibbia, ad esempio: "Chiunque spargerà il sangue dell'uomo,
avrà il proprio sangue sparso dall'uomo" (Genesi, 9, 6). Se ogni uccisore deve essere ucciso "dall'uomo", è ovvio che il processo reattivo richiede in molti casi più tempo di quanto duri una vita. La polizia contemporanea non è abbastanza svelta per riuscirvi! La Chiesa cristiana primitiva accettò la dottrina della reincarnazione, che fu spiegata dagli Gnostici e da vari padri della Chiesa, compresi Clemente d'Alessandria, il famoso Origene (entrambi del III secolo), e San Girolamo (V secolo). La dottrina fu dichiarata eresia solo nel 553 d.C., dal secondo Concilio di Costantinopoli. A quel tempo molti cristiani ritenevano che la dottrina della reincarnazione concedesse all'uomo un limite di tempo e spazio troppo largo per incoraggiarlo a lottare per la sua immediata salvezza. Ma la soppressione della verità conduce inevitabilmente a una legione di errori. Milioni di uomini non hanno utilizzato la loro 'unica vita' per cercare Dio, ma per godere di questo mondo, concesso per una sola volta e che presto sarà perduto per sempre! La verità è questa, che gli esseri umani si reincarnano sulla terra finché non abbiano riguadagnato coscientemente il loro stato di figli di Dio. Fine nota).
CAPITOLO XVII SASI E I TRE ZAFFIRI "Poiché tu e mio figlio tenete in così alta considerazione lo Swami Sri Yukteswar, voglio andare a dargli un'occhiata". Il tono della voce del dottor Narayan Chunder Roy, diceva chiaramente ch'egli stava prendendosi gioco del capriccio di due deficienti. Nascosi la mia indignazione, seguendo le migliori tradizioni di chi va in cerca di proseliti. Il dottor Chunder Roy, un chirurgo veterinario di Calcutta, era uno agnostico convinto. Il suo giovane figlio Santosh mi aveva supplicato di interessarmi a suo padre. Fino a quel momento il mio 'inestimabile' aiuto aveva prodotto risultati piuttosto invisibili. Il giorno seguente il dottor Roy mi accompagnò all'eremitaggio di Serampore. Dopo che il Maestro gli ebbe concesso una breve intervista, sottolineata in gran parte da ostinati silenzi da ambo le parti, il visitatore bruscamente si congedò. "Perché condurre all'ashram un uomo morto?". Sri Yukteswar mi guardò interrogativamente, appena la porta si richiuse dietro lo scettico di Calcutta. "Maestro, ma il dottore è vivissimo"!. "Si, ma fra poco sarà morto!". Tali parole mi colpirono. "Maestro, questa notizia sarà un colpo terribile per il figlio. Santosh spera ancora che il tempo muti le vedute materialistiche del padre. Vi supplico di aiutare quell'uomo!". "Va bene, per farti piacere". Il viso del mio Guru era impassibile. "L'orgoglioso medico dei cavalli è molto ammalato di diabete; sebbene egli non lo sappia. Fra quindici giorni si metterà a letto; i medici lo daranno per spacciato; il tempo che gli è concesso dalla natura per abbandonare questo mondo è di sei settimane da oggi. In virtù della tua intercessione, però in quel giorno guarirà; ma c'è una condizione: devi indurlo a portare un bracciale astrologico.
Senza dubbio vi si opporrà con la stessa violenza di uno dei suoi cavalli dinanzi ad un'operazione". E il Maestro rise. Dopo un silenzio durante il quale pensavo con quali moine Santosh e io avremmo potuto convincere il recalcitrante dottore, Sri Yukteswar mi fece altre rivelazioni. "Appena quell'individuo starà meglio, consiglialo di non mangiare carne. Non seguirà il consiglio, però, e fra sei mesi nel momento in cui si sentirà completamente guarito, cadrà morto. Anche tale prolungamento di vita di sei mesi gli è concesso solo per la tua intercessione." Il giorno dopo consigliai a Santosh di ordinare al gioielliere un bracciale. Fu pronto dopo una settimana, ma il dottor Roy rifiutò rudemente di portarlo. "Sono in perfetta salute, non m'impressionerete mai con le vostre superstizioni astrologiche". E così dicendo il dottore mi lanciò uno sguardo bellicoso. Mi divertì pensare che il Maestro aveva giustamente paragonato quell'uomo a un cavallo bizzoso. Passarono altri sette giorni; il dottore, ammalatosi d'un tratto, acconsentì docilmente a portare il bracciale. Due settimane dopo, il medico che lo curava mi disse che il suo era un caso disperato e mi fornì strazianti particolari sulle devastazioni prodotte dal diabete. Crollai il capo: "Il mio Guru ha detto che dopo una malattia di un mese il dottor Roy guarirà". Il medico mi guardò, incredulo, ma dopo quindici giorni venne a trovarmi, per scusarsi. "Il dottor Roy è completamente ristabilito!", esclamò. "E' il caso più straordinario che mi sia capitato nella mia carriera. Mai prima d'ora mi era successo di vedere un morente riprender vita in modo così inesplicabile. Il vostro Guru deve essere davvero un profeta dotato del potere di risanare!". Dopo un'intervista col dottor Roy, durante la quale gli riferì il consiglio di Sri Yukteswar di non mangiar carne, per sei mesi non lo vidi più. Una sera, mentre stavo seduto sul portico della casa di famiglia in Gurpar Road, egli, passando, si fermò a scambiare due parole. "Di' al tuo Maestro, che, mangiando spesso carne, ho ripreso del tutto le mie forze. Le sue idee antiscientifiche sulla dieta non mi hanno impressionato". E davvero il dottor Roy sembrava il ritratto della salute. Ma il giorno seguente Santosh arrivò correndo dalla sua casa situata all'isolato accanto. "Stamattina mio padre è morto!".
Questo caso costituisce una delle più straordinarie esperienze che io abbia avute col Maestro. Egli curò il veterinario ribelle malgrado la sua completa mancanza di fede, e prolungò di sei mesi il termine naturale della sua vita, solo per esaudire la mia ardente supplica .Sri Yukteswar era di una bontà infinita dinanzi alle ferventi preghiere di un devoto. Consideravo un privilegio altissimo condurre dal mio Guru dei compagni di università. Molti di essi mettevano da parte - almeno nell'ashram! - la veste accademica di moda dello scetticismo religioso. Uno dei miei amici, Sasi, trascorse vari week-end felici a Serampore. Il Maestro prese a volere un bene immenso al ragazzo, e si rammaricava che la sua vita privata fosse dissoluta e disordinata. "Sasi, se non ti modifichi, tra un anno ti ammalerai gravemente". Sri Yukteswar guardava il mio amico con un'espressione di affettuoso cruccio. "Mukunda ne è testimone, non dire poi che non ti ho messo in guardia!". Sasi rise. "Maestro, affido a voi l'incarico di interessare una dolce carità cosmica al mio triste caso! Il mio spirito è ben disposto, ma la mia volontà è debole. Voi siete il mio unico salvatore sulla terra. Non credo che in voi". "Per lo meno dovresti portare uno zaffiro azzurro di due carati. Ti potrà aiutare". "Non ho i mezzi per acquistarlo. Ma comunque, mio carissimo Guruji, se i guai verranno, credo fermamente che mi proteggerete". "Fra un anno mi porterai tre zaffiri", rispose Sri Yukteswar sibillinamente, "ma allora non ti serviranno più a nulla". Varianti di questa conversazione si ripetevano regolarmente. "Non posso cambiare!" diceva Sasi con comica disperazione. "E la mia fede in voi, Maestro, mi è più preziosa di qualsiasi pietra!". Un anno dopo andai a visitare il mio Guru a Calcutta, nella casa del suo discepolo Naren Babu. Verso le dieci del mattino, mentre Sri Yukteswar e io eravamo tranquillamente seduti nel salotto al secondo piano, udii aprire la porta d'entrata. Il Maestro s'irrigidì. "E' quel Sasi", disse con serietà. "Ormai l'anno è finito; i suoi due polmoni sono consumati. Egli non ha voluto seguire il mio consiglio; digli che non voglio vederlo". Mezzo stordito dalla severità di Sri Yukteswar, mi precipitai giù per le scale. Sasi stava salendo. "Oh! Mukunda! Spero che il Maestro ci sia; ho intuito che potevo trovarlo qui!". "Si, c'è. Ma non desidera essere disturbato".
Sasi scoppiò in lacrime e m'oltrepassò correndo. Si gettò ai piedi di Sri Yukteswar e mise in terra tre magnifici zaffiri. "O Guru onnisciente, i dottori dichiarano che sono affetto da tisi galoppante; non mi danno più di tre mesi di vita. Umilmente imploro il vostro aiuto; so che potete guarirmi!". "Non è un po' troppo tardi, ora, per preoccuparti della tua vita? Vattene con le tue pietre preziose. E' passato il tempo in cui potevano servirti". E il Maestro sedette in un inesorabile silenzio da sfinge, ritmato dai singhiozzi del giovane che chiedevano pietà. Intuitivamente si fece strada in me la convinzione che Sri Yukteswar stesse solo mettendo alla prova la fede di Sasi nel divino potere risanatore. Non fui sorpreso nel vedere, dopo una lunga ora di tensione, che il Maestro rivolgeva uno sguardo affettuoso al mio amico disfatto. "Alzati, Sasi; che subbuglio provochi in casa d'altri! Riporta i tuoi zaffiri al gioielliere; ormai sono una spesa inutile. Ma procurati un bracciale astrologico e portalo indosso. Non temere, in poche settimane guarirai". Come un improvviso raggio di sole su una pianura inondata, un sorriso illuminò il viso di Sasi bagnato di lacrime. "Amatissimo Guru, devo prendere le medicine prescrittemi dai medici?". Lo sguardo di Sri Yukteswar era longanime. "Come vuoi, prendile o buttale via, è lo stesso. E' più facile che la luna e il sole si scambino i loro posti, anziché tu muoia di tubercolosi". Poi aggiunse brusco: "Adesso va' via prima che io cambi idea!". Con un agitato inchino, il mio amico se ne andò in fretta. Andai a trovarlo più volte durante le settimane che seguirono, e fui sconvolto nel vedere che le sue condizioni peggioravano sempre. "Sasi non riuscirà a passare la notte". Queste parole dette dal suo medico e la vista del mio amico ridotto quasi uno scheletro, mi mandarono per espresso a Serampore. Il mio Guru ascoltò con freddezza il mio lacrimoso rapporto. "Perché vieni qui ad annoiarmi? Pure mi hai inteso quando ho assicurato Sasi che sarebbe guarito". M'inchinai con grande reverenza e battei in ritirata verso la porta. Sri Yukteswar non mi rivolse nemmeno una parola di saluto, ma s'immerse nel silenzio, con gli occhi immobili e semichiusi che seguivano una visione ultraterrena. Ritornai difilato alla casa di Sasi a Calcutta; con grande meraviglia trovai il mio amico seduto nel letto che beveva del latte.
"Oh, Mukunda! Quale miracolo! Quattro ore fa ho sentito nella stanza la presenza del Maestro e i terribili sintomi del mio male sono scomparsi a un tratto. Sento che per grazia sua adesso sto completamente bene". In poche settimane Sasi divenne sano e forte più di quanto fosse mai stato. (Nota: Nel 1936 appresi da un mio amico che Sasi godeva ancora ottima salute. Fine nota). Ma la sua strana reazione alla guarigione ebbe una nota ingrata; egli non tornò che assai di rado da Sri Yukteswar! Il mio amico mi dichiarò un giorno che era talmente mortificato della sua vita passata, che si vergognava di comparire davanti al Maestro. Dovetti concludere che la malattia di Sasi aveva avuto il risultato contraddittorio di fortificare la sua volontà e peggiorare le sue maniere. I miei primi due anni d'Università allo Scottish Church College volgevano al termine. Avevo frequentato la scuola a sobbalzi; quel poco studiare che facevo, era solo per aver pace in famiglia. Due insegnanti privati venivano regolarmente a casa mia, e regolarmente io ero assente. Mi ero distinto nella carriera scolastica almeno per questa regolarità. In India, due anni di Università coronati da successo portano a ottenere un diploma intermedio, che permette allo studente di affrontare altri due anni di lavoro per giungere alla laurea. Già gli esami finali per il diploma intermedio mi sovrastavano minacciosi. Fuggii a Puri, dove il mio Guru trascorreva qualche settimana. Nella vaga speranza che egli sanzionasse il mio desiderio di non presentarmi agli esami, lo informai della mia estrema impreparazione. Ma il Maestro ebbe un sorriso consolante: "Tu hai seguito i tuoi doveri spirituali con tutto il cuore e non hai potuto fare a meno, perciò, di trascurare gli studi universitari. Nella prossima settimana applicati con diligenza ai tuoi libri, e supererai la prova senza fallo". Tornai a Calcutta soffocando con fermezza i ragionevoli dubbi che spesso si affacciavano in me. Guardando la montagna di libri che occupava la mia scrivania, mi sentivo come un viaggiatore sperduto nel deserto. Una lunga meditazione m'ispirò un buon metodo di lavoro: aprendo ogni libro a caso, studiavo solo le pagine che mi si presentavano sotto gli occhi. Dopo aver seguito tale metodo per diciotto ore al giorno durante una settimana, mi sentii autorizzato a considerarmi un esperto dell'arte di infarcirsi di nozioni! I giorni che seguirono nell'aula degli esami giustificarono questa mia procedura, apparentemente arrischiata. Superai tutte le prove, anche se per un pelo. Le congratulazioni della famiglia e
degli amici erano comicamente mescolate a esclamazioni che tradivano il loro stupore. Al tuo ritorno da Puri, Sri Yukteswar mi fece una piacevole sorpresa. "I tuoi studi a Calcutta sono ormai terminati", mi disse; "cercherò di farti seguire gli ultimi due anni universitari qui, a Serampore!". Non ci capivo nulla: "Ma Signore in questa città non vi sono corsi superiori, fuorché del primo biennio". Il Maestro sorrise maliziosamente: "Sono troppo vecchio per andare in giro a raccogliere fondi allo scopo di istituire per te un secondo corso superiore! Penso che dovrò sistemare le cose con l'aiuto di qualcun altro". Due mesi dopo, il professor Howells, preside dell'Università di Serampore, annunciò pubblicamente d'esser riuscito a raccogliere i fondi necessari per organizzare i corsi quadriennali. Il collegio di Serampore divenne un ramo pienamente equiparato dell'Università di Calcutta. Fui uno dei primi studenti a iscrivermi a Serampore al nuovo corso. "Guruji, quanto siete buono con me! Desideravo tanto lasciare Calcutta per stare sempre accanto a voi a Serampore. Il professor Howells non immagina quanto vi deve per il vostro silenzioso aiuto!. Sri Yukteswar mi guardò con finta severità. "Ormai non dovrai più perdere tante ore in treno; quanto tempo libero avrai per i tuoi studi! Forse diventerai uno studioso e non più uno sgobbone dell'ultimo minuto". Ma il suo tono mancava di convinzione. (Nota: Sri Yukteswar, come molti altri Saggi, si affliggeva per l'indirizzo materialistico dell'educazione moderna. Poche scuole infatti espongono le leggi spirituali che procurano la felicità, o danno peso al fatto che la saggezza consiste nel condurre la propria vita nel 'timore di Dio', ossia nel religioso rispetto del nostro Fattore. I giovani di oggi imparano nelle scuole superiori e nelle università che l'uomo non è che 'un animale superiore', spesso diventano atei. Non fanno alcun tentativo di esplorare l'anima, né si considerano, nella loro natura essenziale, 'immagini di Dio'. Emerson osservò: "Solo ciò che abbiamo dentro, noi possiamo vedere di fuori. Se non vediamo Dei, è perché non ne ospitiamo in noi". Chi immagina che la natura animale sia l'unica sua realtà, rimane escluso dalle aspirazioni divine. Un sistema di educazione che non presenti lo Spirito come Fatto centrale dell'esistenza umana, offre avidya, o falsa conoscenza. "Tu dici, io sono ricco, con dovizia di beni e non ho bisogno di nulla; e non sai che sei miserabile, e povero, e cieco e nudo". (Apocalisse, 3, 16). L'educazione dei giovani nell'India antica era ideale. All'età di nove anni, l'allievo era accolto 'come figlio' in un gurukula (la casa di famiglia di un
guru quale centro d'insegnamento). "Un ragazzo moderno passa annualmente a scuola un ottavo del suo tempo; l'indù vi passava la totalità del suo tempo", scrive il professor S.V. Venkateswara nel suo India Culture Through the Ages (Vol. I, Longmans & Co.). "Vi era un sano senso di solidarietà e di responsabilità, e ampia occasione per l'esercizio della fiducia in se stesso e dell'individualità. Vi era un alto livello di cultura, di disciplina auto-imposta e di un severo rispetto del dovere, dell'azione altruistica e del sacrificio, unito al rispetto di sé e alla reverenza verso gli altri; un alto livello di dignità accademico e un senso della... nobiltà e dell'alto scopo della vita umana". Fine nota)
CAPITOLO XVIII UN MAGO MAOMETTANO "Anni fa, proprio in questa stanza dove abiti adesso, un mago maomettano mi fece assistere a quattro miracoli!". Sri Yukteswar fece questa sorprendente dichiarazione durante la sua prima visita alla mia nuova abitazione. Subito dopo essere entrato all'Università di Serampore, avevo affittato una stanza in una pensione chiamata Panthi, situata accanto all'eremitaggio: un antiquato edificio di mattoni che guardava il Gange. "Maestro, quale coincidenza! Queste pareti decorate a nuovo racchiudono davvero tanti antichi ricordi?" E mi volsi in giro per guardare con rinnovato interesse la mia cameretta ammobiliata con semplicità. "E' una lunga storia". Il mio Guru sorrise mentre ricordava. "Il nome del fakiro era Afzal Khan (Nota: Fachiro = Uno yoghi maomettano, dall'arabo faqir, 'povero'; originariamente, nome applicato ai dervishi che hanno fatto voto di povertà. Fine nota). Aveva acquistato i suoi straordinari poteri a seguito di un incontro fortuito con uno yoghi indù. "Un giorno, durante la fanciullezza di Afzal, in un piccolo villaggio del Bengala orientale, un sannyasi ricoperto di polvere si rivolse al ragazzo con la seguente richiesta: - Figlio, ho sete, portami dell'acqua." "Maestro, sono un maomettano; come potete, voi indù, accettare da bere dalle mie mani?" " - La tua sincerità mi piace, bambino mio; non osservo le norme ostracistiche di un settarismo contrario alle leggi di Dio. Va', portami presto dell'acqua". "La reverente ubbidienza di Afzal fu ricompensata dall'affettuoso sguardo dello yoghi". " - Possiedi un buon karma dalle tue precedenti vite, - egli disse al ragazzo con solennità. Ti insegnerò un certo metodo yoga che ti darà il comando su uno dei regni invisibili. I grandi poteri di cui sarai munito dovranno essere diretti a degni fini; non impiegarli mai per scopi egoistici! Sento, ahimé, che dal tuo
passato hai portato con te alcuni semi di tendenze distruttive. Non permettere loro di germogliare, innaffiandoli con nuove azioni cattive. La complessità del tuo precedente karma è tale, che dovrai dedicare questa tua vita a conciliare i tuoi raggiungimenti yoga con le più alte mète umanitarie." "Dopo aver istruito il ragazzo stupefatto in una tecnica complicata, il Maestro scomparve. "Afzal eseguì fedelmente per vent'anni i suoi esercizi yoga. Le sue miracolose gesta cominciarono a attirare l'attenzione di tutti. Sembra che fosse sempre accompagnato da uno spirito disincarnato che chiamava 'Hazart'. Questa entità invisibile era capace di esaudire ogni minimo desiderio del fakiro. "Non tenendo conto dell'avvertimento del Maestro, Afzal cominciò a far cattivo uso dei suoi poteri. Qualsiasi oggetto egli toccasse e poi rimettesse a posto, ben presto spariva senza lasciare traccia. Questo fatto sconcertante rendeva spesso il maomettano un ospite di dubbio gradimento. "Di tanto in tanto egli si recava nelle grandi gioiellerie di Calcutta e si presentava come un possibile acquirente. Qualsiasi oggetto toccasse, spariva non appena egli usciva dal negozio. "Spesso Afzal era attorniato da varie centinaia di discepoli, attratti dalla speranza di imparare i suoi segreti. A volte il fakiro li invitava a viaggiare con lui. Alla stazione ferroviaria cercava di toccare un rotolo di biglietti, che restituiva poi regolarmente al bigliettaio: - Ho cambiato idea. Non acquisterò i biglietti, per ora. - Ma quando si avvicinava al treno col suo seguito, Afzal era in possesso dei biglietti necessari. (Nota: Mio padre disse in seguito che la sua Compagnia delle Ferrovie Nagpur-Bengal, era stata una delle vittime di Afzal Khan. Fine nota). "Tali gesta provocarono un clamore d'indignazione. I gioiellieri e i bigliettai bengalesi erano in preda a collassi nervosi! La polizia, che voleva arrestare Afzal, era però del tutto impotente a farlo, poiché il fakiro sapeva far sparire ogni prova a suo danno, dicendo semplicemente - Hazrat, porta via questo". Sri Yukteswar si alzò per andare sulla balconata della mia stanza, che guardava sul Gange. Lo seguii, curioso di sapere di più sulle stupefacenti malefatte del Raffles maomettano. "La pensione Panthi apparteneva allora a un mio amico, che conobbe Afzal e lo invitò qui insieme a una ventina di amici del vicinato, me incluso. Allora non ero che un giovinetto e il ben noto fakiro m'incuriosiva molto". Il Maestro rise. "Ebbi la precauzione di non portare su di me alcun oggetto di valore. Afzal mi squadrò con uno sguardo investigatore e mi disse: - Hai
delle mani vigorose; va' nel giardino, prendi una pietra levigata e scrivici sopra col gesso il tuo nome, poi getta la pietra il più lontano possibile nel Gange. "Obbedii. Appena la pietra scomparve nelle onde lontane, il maomettano si rivolse ancora a me: " - Riempi un vaso con acqua del Gange, prendendola accanto alla porta di casa". "Appena tornai con l'acqua, il fakiro gridò: - Hazart, metti la pietra nel vaso! "La pietra scomparve immediatamente; la trassi fuori e vidi la mia firma scritta così chiaramente come quando l'avevo appena tracciata. "Babu (Nota: non rammento il nome dell'amico di Sri Yukteswar e devo riferirmi a lui solo col nome di 'Babu' (signore). Fine nota), uno dei miei amici che si trovava là, aveva indosso una pesante e antica catena d'oro con orologio. Il fakiro l'osservò con ammirazione sospetta. Ben presto catena e orologio sparirono. " - Afzal, ti prego, restituiscimi la mia preziosa eredità! - Babu quasi piangeva. Il maomettano rimase un certo tempo in stoico silenzio, poi disse: - Hai 500 rupie in una cassaforte di ferro: portamele, e ti dirò dove trovare il tuo orologio. "Babu, sconvolto, partì immediatamente per casa sua; poco dopo ritornò portando seco la somma richiesta, che diede ad Afzal. " - Vai al ponticello accanto alla tua casa, - disse il fakiro a Babu, - e chiama Hazrat che ti darà la catena e l'orologio. "Babu scappò via. Quando lo rivedemmo, aveva un largo sorriso sulle labbra e nessun oggetto prezioso indosso. " - Quando chiamai Hazrat, come mi è stato detto, - annunciò, - il mio orologio cadde dall'aria nella mia mano destra. E potete esser certi che prima di tornare qui ho messo sotto chiave il mio tesoro! "Gli amici di Babu, testimoni della tragicommedia del riscatto dell'orologio, guardarono Afzal con risentimento. Ma egli parlò in tono conciliante: " - Vi prego di nominare qualsiasi bevanda desideriate; Hazrat ve la farà avere. "Alcuni chiesero del latte, altri del succo di frutta. Non mi scandalizzai troppo quando il depresso Babu chiese del whisky! Il maomettano diede un ordine, e il cortese Hazrat inviò dei recipienti suggellati, che ondeggiarono nell'aria e caddero pesantemente a terra. Ognuno vi trovò la bevanda desiderata.
"La promessa della quarta prova spettacolare della giornata riuscì certamente graditissima al nostro ospite: Afzal si offrì di fornire un pranzo immediato. " - Ordiniamo le pietanze più costose, - disse Babu cupamente. - Voglio un pranzo prelibato per le mie 500 rupie, e servito su piatti d'oro! "Appena ciascuno dei presenti ebbe espresso le sue preferenze, il fakiro si rivolse all'inesauribile Hazrat. Ci fu un gran fracasso, e ai nostri piedi piovvero dal nulla piatti d'oro colmi di curry preparato in maniera complicata, di luchi caldi e di molta frutta fuori stagione. Tutto era delizioso. Dopo aver gozzovigliato per un'ora, ci accingemmo a uscire dalla stanza. Un tremendo rumore come l'acciottolìo di piatti rudemente maneggiati, ci fece voltare. Non vi era più alcuna traccia né dei piatti scintillanti né dei resti del pasto!". "Guruji", interruppi, "se Afzal poteva con tanta facilità fornire dei piatti d'oro, perché mai ambiva alla roba altrui?". "Il fakiro non era molto sviluppato spiritualmente", spiegò Sri Yukteswar. "La padronanza di una certa tecnica yoga gli dava accesso a un piano astrale dove qualsiasi desiderio viene immediatamente materializzato. Con l'aiuto di una creatura astrale, Hazrat, il maomettano riusciva a radunare gli atomi di qualsiasi oggetto dall'energia eterica, con un fortissimo sforzo di volontà. Ma tali oggetti, prodotti astralmente, non possono essere conservati a lungo. (Nota: Proprio come il mio amuleto d'argento, un oggetto prodotto astralmente, alla fine svanì dalla faccia della terra. La natura degli oggetti e delle forze astrali è spiegata nel Capitolo XLIII. Fine nota). Afzal bramava ancora le ricchezze del mondo che, benché si guadagnino con maggior difficoltà, danno anche maggior affidamento d'esser durevoli". Risi. "Anch'esse a volte svaniscono in modo misterioso!". "Afzal non era un uomo che avesse realizzato Dio", continuò il Maestro. "I miracoli di natura permanente e benefica vengono compiuti dai veri santi, perché essi si mettono in sintonia con l'Onnipotente Creatore. Afzal era solo un uomo qualunque, munito di uno straordinario potere che lo metteva in grado di penetrare in un reame sottilissimo, in cui solitamente gli esseri umani non entrano prima del trapasso". "Adesso comprendo, Guruji. Pare che il mondo dell'aldilà abbia delle piacevolissime caratteristiche". Il Maestro ne convenne. "Dopo quel giorno non vidi più Afzal; ma alcuni anni dopo, Babu venne a casa mia per mostrarmi un giornale in cui si parlava della confessione pubblica fatta dal maomettano. Da essa appresi i
fatti che ti ho raccontato, sulla prima iniziazione di Afzal, fatta da un Guru indù". Il fulcro dell'ultima parte del documento pubblicato dal giornale secondo il ricordo di Sri Yukteswar, era questo: "Io, Afzal Khan, scrivo queste parole quale atto di penitenza e come avvertimento per coloro che cercano il possesso di poteri miracolosi. Per anni io abusai delle meravigliose capacità datemi per grazia di Dio dal mio Guru. Mi ubriacai di egoismo, sentendomi al di sopra delle comuni leggi della morale. Il giorno della resa dei conti è giunto anche per me. Poco tempo fa incontrai, lungo una strada fuori Calcutta, un vecchio che si trascinava zoppicando penosamente e portava un oggetto luccicante che sembrava d'oro. Mi rivolsi a lui, col cuore pieno di cupidigia: - Sono Afzal Khan, il grande fakiro. Che cosa hai lì? - Questa palla d'oro è la mia unica ricchezza materiale; non può interessare un fakiro. V'imploro, signore, di guarire la mia gamba zoppa. "Toccai la palla e me ne andai senza rispondere. Il vecchio mi zoppicò dietro affannosamente. Ben presto diede un grido: - Il mio oro è scomparso! "Poiché non gli prestavo attenzione, egli a un tratto parlò con voce stentorea, che risuonava stranamente uscendo da quel fragile corpo: - Non mi riconosci? "Rimasi senza parola, sconvolto dalla tardiva scoperta che quel povero zoppo così poco appariscente altri non era se non il grande Santo che, tanti anni prima, mi aveva iniziato allo yoga. Si raddrizzò, e il suo corpo divenne istantaneamente forte e giovanile. - E' così? - Lo sguardo del mio Guru era di fuoco. - Vedo con i miei occhi come usi i tuoi poteri, non per alleviare la sofferenza umana ma per speculare su di essa come un volgarissimo ladro! Ti ritiro tutti i poteri occulti. Hazrat adesso è libero da te. Non sarai più il terrore del Bengala! "Con accenti angosciosi implorai Hazrat. Ma per la prima volta egli non apparve alla mia vista interiore. Un velo oscuro si squarciò all'improvviso entro di me, e vidi chiaramente tutto l'orrore della mia vita. - Mio Guru, vi ringrazio d'essere venuto per allontanare da me il lungo inganno. - Mi gettai singhiozzando ai suoi piedi. - Vi prometto di abbandonare tutte le mie ambizioni terrene. Mi ritirerò fra le montagne, nella solitaria meditazione su Dio, nella speranza di espiare la mia passata malvagità! "Il mio maestro mi fissò con uno sguardo di silenziosa compassione.
- Sento che sei sincero, - disse. Per i tuoi anni di rigida ubbidienza e per il tuo pentimento di oggi, ti concedo un unico dono. Gli altri tuoi poteri ormai sono scomparsi, ma ogni volta che avrai bisogno di vesti e nutrimento, potrai chiederli a Hazrat e li otterrai. Dedicati interamente alla divina comprensione nella solitudine delle montagne! "Il mio Guru scomparve e io rimasi solo con le mie lacrime e le mie riflessioni. Addio, mondo! Vado alla ricerca del perdono dell'Amato Cosmico".
CAPITOLO XIX IL MIO GURU, STANDO A CALCUTTA, APPARE A SERAMPORE "Sono spesso invaso da dubbi ateistici. Pure, a volte mi ossessionano torturanti interrogativi: non possono esistere possibilità dell'anima affatto ignorate? Se l'uomo non riesce a scoprirle, non fallisce egli il suo destino?". Queste osservazioni di Dijen Babu, il mio compagno di stanza alla pensione Panthi, mi furono da lui espresse dopo che lo ebbi invitato a visitare il mio Guru. "Sri Yukteswar, ti inizierà al Kriya Yoga", risposi. "Questa disciplina calma il tumulto dualistico, dando a chi la pratica una divina certezza interiore". Quella sera Dijem mi accompagnò all'eremitaggio. Alla presenza del Maestro il mio amico provò una tale pace spirituale, che ben presto divenne un costante visitatore. Le volgari preoccupazioni della vita quotidiana non bastano a soddisfare il bisogno più profondo dell'uomo; egli ha istintivamente fame anche di saggezza. Dalle parole di Sri Yukteswar Dijen ricevette la spinta per intraprendere il tentativo di scoprire entro di sé un Sé più reale del piccolo ego superficiale di un'incarnazione temporanea. Poiché Dijen e io seguivamo entrambi i corsi del secondo biennio universitario a Serampore, prendemmo l'abitudine di andare insieme all'ashram appena terminavano le lezioni. Spesso trovavamo Sri Yukteswar in piedi sulla balconata del secondo piano, a darci il benvenuto con un sorriso. Un pomeriggio Kanai, un giovane ospite dell'eremitaggio, ci venne incontro sulla porta di casa con una spiacevole notizia: "Il Maestro non c'è. E' stato chiamato d'urgenza a Calcutta". Il giorno dopo ricevetti una cartolina dal mio Guru. 'Lascerò Calcutta mercoledì mattina', scriveva. "Tu e Dijen venitemi incontro alla stazione di Serampore al treno delle nove". Verso le otto e mezzo di mercoledì mattina un messaggio telepatico di Sri Yukteswar mi attraversò la mente con insistenza: "Sono stato trattenuto; non venire al treno delle nove".
Comunicai le ultime istruzioni a Dijen, che era pronto per uscire. "Tu e la tua intuizione!". La voce del mio amico era sprezzante. "Io preferisco credere alle parole scritte del Maestro". Scrollai le spalle e sedetti tranquillo. Borbottando rabbiosamente, Dijen s'incamminò verso la porta e la richiuse rumorosamente dietro di sé. Poiché la stanza era piuttosto buia, mi accostai alla finestra che dava sulla strada. Il sole pallido assunse a un tratto un intenso splendore, in cui la finestra munita di sbarre di ferro scomparve completamente. In mezzo a quell'accecante bagliore si materializzò con estrema chiarezza la figura di Sri Yukteswar. Sconvolto al punto di venir meno, mi alzai dalla sedia e m'inginocchiai dinanzi a lui. Col mio abituale gesto di rispettoso saluto mi inchinai ai piedi del mio Guru, gli toccai le scarpe. Conoscevo bene quel paio di pantofole di tela color arancione, con la suola di corda, ch'egli portava spesso quand'era in viaggio. La sua veste ocra di swami mi sfiorò; distintamente palpai, non solo il tessuto del vestito, ma anche la ruvida superficie delle scarpe, e sentii dentro di esse la pressione delle dita dei suoi piedi. Troppo stupito per pronunciare una sola parola mi alzai e lo fissai interrogativamente. "Mi fa piacere che tu abbia ricevuto il mio messaggio telepatico", disse il Maestro con voce tranquilla, perfettamente normale. "Ho terminato adesso i miei affari a Calcutta; giungerò a Serampore col treno delle dieci". Lo fissavo ancora, muto, e Sri Yukteswar continuò: "Questa non è un'apparizione, ma la mia stessa forma in carne e ossa. Ho ricevuto il divino comando di concederti questa esperienza, rara su questa terra. Vieni a incontrarmi alla stazione. Tu e Dijen mi vedrete venire verso di voi vestito come ora. Mi precederà un compagno di viaggio: un ragazzino che porterà con sé una brocca d'argento". Il mio Guru posò le due mani sul mio capo e bisbigliò una benedizione. Dopo che ebbe pronunciato le parole Taba asi (Nota: L'"arrivederci" bengali; letteralmente è un paradosso pieno di speranza: "Poi vengo". Fine nota), udii un singolare suono simile a un sordo brontolìo (Nota: Il caratteristico suono della smaterializzazione degli atomi corporei. Fine nota). A poco a poco il suo corpo svanì nella luce penetrante. Prima scomparvero i piedi e le braccia, poi il torso e la testa, come un rotolo di carta che si avvolge. Fino all'ultimo sentii le sue dita posate lievemente sui miei capelli. Il fulgore svanì. Nulla restò dinanzi a me, fuorché la finestra sbarrata a una pallida striscia di sole.
Rimasi mezzo intontito e confuso, chiedendomi se non ero stato vittima di un'allucinazione. Un Dijen mogio mogio entrò poco dopo nella stanza. "Il Maestro non era sul treno delle nove e nemmeno su quello delle nove e mezzo", mi disse l'amico con un lieve tono di scusa. "Vieni allora, so che arriverà alle dieci!". Lo presi per mano e lo costrinsi con forza a correre con me, non curandomi delle sue proteste. In circa dieci minuti eravamo alla stazione, dove già il treno si arrestava sbuffando. "Tutto il treno è soffuso della luce dell'aura del maestro. E' arrivato!" esclamai gioiosamente. "Sogni?" Dijen rise beffardo. "Aspettiamolo qui". Descrissi all'amico in tutti i particolari come il Guru si sarebbe avvicinato a noi. Terminata che fu la mia descrizione, Sri Yukteswar apparve, con indosso la stessa veste che avevo visto poco prima. Camminava lento, preceduto da un ragazzino con una brocca d'argento. Per un istante fui attraversato da un brivido freddo di paura, pensando all'incredibile stranezza della mia esperienza. Sentivo il mondo materialista del XX secolo scivolare via da me; vivevo io forse di nuovo in uno di quei lontani giorni in cui Gesù apparve a Pietro sul mare? Appena Sri Yukteswar, moderno Yoghi-Cristo, giunse al punto in cui Dijen e io stavamo immobili e silenziosi, il Maestro sorrise al mio amico dicendogli: "Ho inviato pure a te un messaggio, ma non sei stato capace di captarlo". Dijen taceva, ma mi fissava sospettoso. Dopo avere scortato il nostro Guru all'eremitaggio, ce ne andammo verso l'Università di Serampore. Dijen si fermò sulla strada: traboccava d'indignazione da ogni poro. "Ah! è così? Il Maestro mi ha inviato un messaggio e me lo hai nascosto! Ti chiedo una spiegazione". "Che posso farci io se il tuo specchio mentale oscilla con tale irrequietezza che non ti riesce di registrare le istruzioni del nostro Guru?", gli risposi. La collera scomparve dal viso di Dijen. "Capisco quello che vuoi dire", disse avvilito. "Ma ti prego, spiegami come hai potuto sapere del ragazzo che portava la brocca?". Mentre spiegavo la storia della straordinaria apparizione del Maestro giungemmo all'Università. "Tutto quello che mi hai detto sui poteri del nostro Guru", rispose Djen, "mi fa sentire che qualsiasi università del mondo non è altro che un asilo infantile". (Nota: "Mi sono state rivelate tali verità che ciò che ho scritto e imparato mi appare di poco valore ed ora spero in Dio che come qui finisce la mia dottrina, così finisca presto la mia vita".
"Venit finis scriptures meae, quia talia sunt mihi revelata, quod ea quae scripsi et docui, modica mihi videntur et ex hoc spero in Deo quod sicut doctrinae meae sic cito finis erit et vitae". (S. Tomaso d'Aquino, nell'estasi del 6 dicembre 1273; dalla Vitae S. Thomae Aquinatis, Cap. XLVII, pag. 120 di Guglielmo Tocco, Ediz. Prummer). Così parlò S. Tomaso d'Aquino, il Principe degli Scolastici, in risposta alle ansiose sollecitudini fattegli dal suo segretario di completare la sua trattazione Summa Theologiae. Il Dottore Angelico era già autore di innumerevoli trattati filosofici e teologici. Un giorno, nel 1273, durante la Messa in una chiesa di Napoli, egli ebbe una suprema visione mistica interiore. La gloria della Sapienza Divina sommerse san Tomaso a tal punto che da allora non dimostrò più alcun interesse all'intellettualità. Socrate (nel Fedone di Platone) disse: "In quanto a me, tutto ciò che so, è che non so nulla".
CAPITOLO XX NON VISITIAMO IL KASHMIR "Padre, vorrei invitare il Maestro e quattro amici ad accompagnarmi sui contrafforti dell'Himalaya, durante le vacanze estive. Potreste darmi sei biglietti ferroviari fino al Kashmir e anche denaro sufficiente per sopperire alle spese di viaggio?". Come mi aspettavo, mio padre scoppiò in una sonora risata. "E' la terza volta che mi racconti questa storiella. Non mi hai fatto la stessa richiesta l'anno scorso e due anni fa? All'ultimo momento, Sri Yukteswar rifiuta di partire". "E' vero, padre mio. Non so perché il mio Guru non vuol dirmi la sua ultima parola riguardo al Kashmir (Nota: Benché il Maestro non abbia mai dato nessuna spiegazione, la sua riluttanza a recarsi nel Kashmir poteva dipendere dalla prescienza che non era ancor giunto il tempo nel quale si sarebbe ammalato in quel paese". Fine nota). Ma se gli dico di avere già ottenuto da voi i biglietti, penso che acconsentirà a intraprendere il viaggio". Mio padre sul momento non parve convinto; ma il giorno seguente, dopo avermi preso un po' in giro bonariamente, mi diede i sei biglietti e un rotolo di biglietti da dieci rupie. "Non credo che il tuo viaggio teorico abbia bisogno di questi appoggi pratici, tuttavia eccoli qua". Quello stesso pomeriggio mostrai a Sri Yukteswar il mio bottino. Sebbene egli sorridesse al mio entusiasmo, le sue parole non mi persuasero troppo. "Mi piacerebbe andare! Vedremo!". Non fece commenti quando chiesi al suo piccolo discepolo nell'eremitaggio, Kanai, di accompagnarci. Invitai anche altri tre amici, Rajendra, Nath Mitra, Jotin Auddy e un altro ragazzo. La data di partenza fu stabilita per il lunedì successivo. Il sabato e la domenica rimasi a Calcutta, poiché a casa si celebrava il matrimonio di un nostro cugino. Il lunedì mattina presto giunsi col mio bagaglio a Serampore. Rajendra venne a incontrarmi sulla porta dell'eremitaggio:
"Il Maestro è uscito a passeggiare. Rifiuta di partire". Ne fui addolorato, ma mi ostinai nel mio proposito. "Non voglio dare a mio padre una terza occasione di porre in ridicolo i miei chimerici progetti sul Kashmir. Vieni, in ogni caso vi andremo noi". Rajendra accettò. Lasciai l'ashram per cercare un domestico. Sapevo che Kanai non sarebbe partito senza il Maestro, e ci occorreva qualcuno che potesse occuparsi del bagaglio. Pensai a Behari, un servo di casa nostra che adesso era al servizio di un insegnante di Serampore. Mentre camminavo in fretta, incontrai il mio Guru di fronte alla chiesa cristiana, accanto al tribunale. "Dove vai?" mi chiese Sri Yukteswar con viso serio. "Maestro, mi si dice che voi e Kanai non intraprenderete più il viaggio che avevamo progettato. Vado alla ricerca di Behari; ricorderete che l'anno scorso egli desiderava tanto vedere il Kashmir che ci offrì persino gratuitamente i suoi servigi". "Rammento. Malgrado ciò non credo che Behari sarà disposto a venire con voi", Ero esasperato. "Non fa che aspettare con ansia questa occasione!". Il mio Guru riprese a camminare in silenzio. Giunsi presso alla casa dell'insegnante; Behari, nel cortile mi salutò con effusione amichevole, che sparì bruscamente non appena gli accennai al viaggio nel Kashmir. Mormorando parole di scusa, il servo mi lasciò e rientrò nella casa del suo padrone. Attesi mezz'ora cercando nervosamente di convincermi che il ritardo di Behari era dovuto ai suoi preparativi per il viaggio. Alla fine bussai alla porta d'entrata. "Mezz'ora fa Behari se n'è andato per la porta di servizio", mi disse un uomo, mentre un lieve sorriso gli sfiorava le labbra. Me ne andai rattristato, chiedendomi se il mio invito non avesse avuto un tono troppo coercitivo, oppure se fosse in gioco l'invisibile influenza del Maestro. Passando davanti alla chiesa cristiana, di nuovo vidi il mio Guru camminare lentamente verso di me. Senza attendere che gli dicessi nulla, esclamò: "Behari non è voluto venire! E ora quali sono i tuoi progetti?". Mi sentii come un bimbo recalcitrante che ha deciso di sfidare l'autorità paterna: "Chiederò a mio zio di prestarmi il suo servo Lal Dhari". "Va' da tuo zio, se vuoi", rispose Sri Yukteswar con una risatina e un eccesso d'ilarità cominciò a scuoterlo da capo a piedi. "Temo però che non sarai molto contento della visita".
Timoroso, ma ribelle, lasciai il mio Guru e entrai nel Tribunale di Serampore. Sarada Ghosh, mio zio paterno e procuratore di Stato, mi accolse con affetto. "Parto oggi per il Kashmir con degli amici", gli dissi. "Da anni desidero fare questo viaggio verso l'Himalaya!". "Ne sono felice per te, Mukunda. Posso fare qualche cosa per renderti più piacevole la gita?". Queste parole m'incoraggiarono. "Mio caro zio", dissi "potreste forse cedermi il vostro servo Lal Dhari?". La mia semplice richiesta produsse l'effetto di un terremoto. Lo zio fece un salto così violento che la sua sedia si rovesciò, le carte sulla scrivania volarono in ogni direzione e la sua pipa - un lungo pipone dal cannello di cocco - cadde a terra con gran fracasso. "Ragazzo egoista", gridò, tremando di collera, "che idea inaudita! E chi mai si occuperà di me, se per tuo divertimento ti porti via il mio domestico?". Nascosi la mia sorpresa, riflettendo che il rapido voltafaccia del mio amabile zio non era che un altro enigma in quel giorno interamente dedicato alle cose incomprensibili. Me ne andai dal tribunale con più fretta che dignità. Ritornai all'eremitaggio, dove i miei amici s'erano radunati in attesa. Si faceva strada in me la convinzione che l'atteggiamento del Maestro nascondesse qualche motivo importante, sebbene estremamente recondito. Fui vinto dal rimorso per aver cercato di contrariare la volontà del mio Guru. "Mukunda, non vorresti restare ancora un po' con me?" egli mi chiese. "Rajendra e gli altri possono precederti e aspettarti a Calcutta. Ci sarà tempo sufficiente per prendere l'ultimo treno serale che va da Calcutta al Kashmir." "Maestro, non m'importa di andarvi senza di voi", gli risposi con tristezza. I miei amici non fecero caso alle mie parole. Chiamarono una carrozza e partirono con tutto il bagaglio. Kanai ed io sedemmo tranquillamente ai piedi del Maestro. Dopo mezz'ora il Maestro si alzò dirigendosi verso il patio da pranzo del secondo piano. "Kanai, servi il pranzo a Mukunda. Il suo treno parte fra poco". Come mi alzai dalla coperta dove ero seduto, improvvisamente vacillai, preso da nausea e da un terribile sconvolgimento allo stomaco. Il dolore fu così lancinante che mi parve d'esser piombato a un tratto in un atroce inferno. Annaspando ciecamente verso il mio Guru, caddi davanti a lui, in
preda a tutti i sintomi del terribile colera asiatico. Sri Yukteswar e Kanai mi portarono nel salotto. Torcendomi dal dolore gridai: "Maestro, rendo la mia vita nelle vostre mani!", poiché ero convinto di sentirla defluire rapidamente dalle rive del mio essere corporeo. Sri Yukteswar pose la mia testa sul suo grembo, accarezzandomi la fronte con angelica tenerezza. "Vedi adesso quello che sarebbe accaduto se ti fossi trovato alla stazione con gli amici", disse. "Ho dovuto prendermi cura di te in questo strano modo, poiché hai preferito porre in dubbio il mio parere sull'opportunità d'intraprendere il viaggio in questo particolare momento". Alla fine compresi. I grandi Maestri raramente ritengono opportuno mostrare apertamente i loro poteri; ecco perché un osservatore casuale del susseguirsi degli eventi di quel giorno li avrebbe giudicati perfettamente naturali. L'intervento del mio Guru era stato troppo accorto e sottile per poter essere sospettato. Egli aveva fatto agire la sua volontà attraverso Behari, e mio zio Sarada, e Rajendra, e gli altri, in modo tanto discreto da far pensare a tutti, fuorché a me, che gli avvenimenti avessero avuto una sequenza logica e normale. Sri Yukteswar, che non dimenticava mai i suoi obblighi sociali, disse a Kanai di andare a chiamare uno specialista e d'informare mio zio. "Maestro", protestai in un debole bisbiglio, "voi solo potete curarmi. Ormai sto troppo male per qualsiasi dottore". "Figliolo, la Divina Misericordia ti protegge. Non preoccuparti del dottore; egli non ti troverà in questo stato. Sei già guarito!" Alle parole del mio Guru le sofferenze che mi straziavano, si calmarono. Mi rimisi a sedere, sentendomi assai debole. Presto giunse un dottore, che mi esaminò accuratamente. "Sembra che abbiate superato il peggio! Preleverò qualche campione per analizzarlo nel mio laboratorio". La mattina seguente il dottore giunse di corsa. Ero seduto e di buon umore. "Bene, bene! Eccovi qui a parlare e sorridere come se non aveste sfiorato la morte!". Mi diede gentilmente dei colpetti sulla mano. "Non ero certo di trovarvi in vita dopo aver scoperto dall'analisi che il vostro male era il colera asiatico! Siete fortunato giovanotto, di avere un Guru che ha tali divini poteri risananti. Questa è la verità!". Con tutto il cuore ne convenni. Mentre il dottore stava per andarsene, Rajendra e Auddy comparvero sulla porta. Il risentimento dipinto sulle loro
facce si mutò in compassione quando videro il medico e il mio aspetto malandato. "Eravamo in collera perché non sei arrivato in tempo per prendere il treno a Calcutta, come d'accordo. Sei stato male?". "Si". Non potei fare a meno di ridere quando vidi i miei amici posare i bagagli nell'identico posto ove stavano il giorno prima. E citai: "C'era un battello che in Spagna andò, e prima di giungervi, indietro tornò!". Il maestro entrò nella stanza. Mi presi una libertà da convalescente e afferrai con affetto la sua mano. "Guruji," dissi, "Da quando avevo dodici anni ho sempre tentato senza successo di raggiungere l'Himalaja. Sono ormai convinto che senza la vostra benedizione, la dea Parvati non mi accoglierà". (Nota: Letteralmente 'delle montagne'. Parvati nella mitologia è rappresentata come figlia del Re Himalaya (letteralmente: 'Dimora delle Nevi'). L'abitazione del re Himalaya e di Parvati viene descritta dai poeti antichi come situata su un picco al confine del Tibet. Intrepidi viaggiatori moderni che passarono accanto a quel picco inaccessibile, descrissero il loro impressionato stupore nel vedere da lontano una imponente formazione nevosa che rassomigliava a un palazzo, con torrette e cupole di ghiaccio. Parvati, Kali, Durga, Uma e altre dee sono aspetti di Jaganmatri, la 'Divina Madre del mondo', chiamata in vari modi per indicare le sue varie funzioni. Dio o Shiva nel Suo para o aspetto trascendente, non è attivo nella creazione; la Sua shakti (energia o forza attiva) è relegata fra le Sue 'consorti', le forze produttive 'femminili' che rendono possibili gli infiniti sviluppi nel cosmo. I racconti mitologici nel Purana dànno l'Himalaya come dimora di Shiva. La dea Ganga discese dal cielo per essere la deità protettrice del fiume che prende origine nell'Himalaya. Si dice perciò con immagine poetica, che il Gange scorre dal cielo alla terra attraverso i capelli di Shiva, "Re degli Yoghi", il Distruttore-Rinnovatore della Trinità Kalidasa, lo 'Shakespeare indiano', descrive l'Himalaya come 'le risa ammassate di Shiva'. "Il lettore può riuscire a immaginare quella distesa di grandi denti bianchi" scrive F.W. Thomas in The Legacy of India (Oxford). Ma il concetto pieno può tuttavia sfuggirgli se non riesce a visualizzare vivamente la figura del grande Asceta, eternamente assiso sul trono dell'imponente regno della montagna dove il Gange, nella sua discesa dal cielo, passa per i suoi riccioli intrecciati cui la luna fa da diadema". Nell'arte indù, Shiva è spesso rappresentato con indosso una pelle d'antilope di un nero vellutato che simboleggia l'oscurità e il mistero della
notte, l'unico indumento di Colui che è diganbara, 'vestito di cielo'. Gli appartenenti ad alcune sette devote a Shiva non portano indosso alcun indumento, per onorare il Signore che nulla - e tutto - possiede. Una santa patrona del Kashmir, Lalla Yogiswari (Suprema Maestra dello Yoga) era una devota di Shiva 'vestita di cielo'. Un suo contemporaneo scandalizzato le chiese un giorno perché osservasse la nudità. "Perché no?" replicò Lalla rudemente. "Non vedo uomini intorno a me". Per il modo di pensare piuttosto drastico di Lalla, chi non aveva la realizzazione divina non meritava l'appellativo di 'uomo'. Ella praticava una tecnica strettamente affine al Kriya Yoga, e ne celebrò la potenza liberatrice in numerose quartine. Qui ne traduco una: Qual è l'acido di dolore che non ho mai bevuto? Innumerevoli i miei cicli di nascite e morti. Ma ecco! Solo nettare nella mia tazza, Sorseggiato con l'arte del respiro. Non soggetta a morte, la Santa si smaterializzò nel fuoco. Più tardi apparve agli abitanti della città in lutto, come forma vivente avvolta in vesti d'oro: finalmente, interamente vestita! Fine nota).
CAPITOLO XXI VISITIAMO IL KASHMIR "Adesso sei abbastanza forte per viaggiare: ti accompagnerò nel Kashmir", mi disse Sri Yukteswar due giorni dopo la mia miracolosa guarigione dal colera asiatico. Quella sera stessa, la nostra comitiva composta di sei persone partì per il Nord. Facemmo la prima tappa a Simla, una regale città posata sul trono dei contrafforti dell'Himalaya. Passeggiammo per le ripide strade, ammirando il magnifico panorama. "Fragole inglesi da vendere!", gridava una vecchia accoccolata in un pittoresco mercato all'aria aperta. Il Maestro s'incuriosì nel vedere gli strani piccoli frutti rossi. Ne comperò un paniere e ne offrì a Kanai e a me che gli eravamo accanto. Assaggiai una fragola, ma in tutta fretta la sputai. "Signore, che frutto aspro! Le fragole non potranno mai piacermi!". Il mio Guru rise. "Oh! si che ti piaceranno! Ma in America, quando la tua ospite te le offrirà condite con zucchero e panna. Dopo aver schiacciato le fragole con una forchetta, te le farà assaggiare e tu esclamerai: - Che fragole deliziose! - E allora rammenterai questo giorno a Simla!". La predizione di Sri Yukteswar svanì dalla mia mente; ma si riaffacciò molti anni dopo, al mio primo arrivo in America. Ero a pranzo dalla signora Alice T. Hasey (Sorella Yogmata) a West Somerville nel Massachusetts. Quando furono portate in tavola le fragole, la signora prese una forchetta e schiacciò le mie, aggiungendovi zucchero e panna. "Le fragole sono piuttosto aspre. Credo che vi piaceranno preparate così" mi disse. Ne assaggiai. "Che fragole deliziose!" esclamai. E a un tratto la predizione di Sri Yukteswar sorse di nuovo dai profondi meandri della memoria. Fui impressionato nel rendermi conto che tanto tempo prima la mente di Sri Yukteswar, intonata a Dio, aveva sensibilmente captato il programma degli eventi karmici che vagavano nell'etere del futuro. La nostra comitiva ben presto lasciò Simla e riprese il treno per Rawalpindi.
Là noleggiammo una grande carrozza chiusa tirata da due cavalli, con la quale partimmo per un viaggio di sette giorni verso Srinagar, la capitale del Kashmir. Il secondo giorno di viaggio verso il Nord portò alla nostra vista la vera immensità dell'Himalaya. Mentre le ruote della nostra carrozza cigolavano lungo le strade pietrose e infuocate, noi guardavamo rapiti il mutevole aspetto di quelle superbe montagne. "Signore", disse Auddy al Maestro, "io godo enormemente nel contemplare questi grandiosi spettacoli nella vostra santa compagnia". Il mio cuore balzò di piacere all'apprezzamento di Auddy, poiché ero io che offrivo ai miei ospiti quel viaggio. Sri Yukteswar lesse il mio pensiero, e rivolgendosi a me bisbigliò: "Non illuderti troppo. Auddy non è tanto entusiasta dello scenario, quanto dell'idea di allontanarsi da noi il tempo sufficiente per fumare una sigaretta". Rimasi male: "Maestro", risposi a bassa voce, "vi prego, non sciupate la nostra armonia con queste parole spiacevoli! Non posso credere che Auddy abbia tanto desiderio di fumare". (Nota: In India fumare alla presenza degli anziani o dei superiori, è considerato una mancanza di rispetto. Fine nota). E con apprensione fissai il mio Guru, solitamente infallibile. "Va bene. Non dirò nulla a Auddy", ridacchiò il Maestro, "ma vedrai che fra poco, quando la carrozza si fermerà, Auddy sarà svelto a approfittare dell'occasione". La carrozza giunse a un piccolo caravanserraglio. Mentre si conducevano i cavalli a bere, Auddy chiese al Maestro: "Non vi dispiace se mi siedo un poco accanto al cocchiere? Vorrei prendere un po' d'aria fresca". La carrozza riprese il suo rumoroso cammino sulla strada polverosa. Gli occhi del Maestro brillavano furbescamente; egli mi disse: "Allunga il collo attraverso lo sportello, e guarda cosa fa Auddy con l'aria!". Ubbidii, e trasalii nel vedere Auddy nell'atto di esalare cerchietti di fumo da una sigaretta. Rivolsi uno sguardo di scusa al Maestro. "Avete, come sempre, ragione. Auddy sta gustando una boccata di fumo, insieme al panorama". Supposi che avesse ricevuto un regalo dal cocchiere, poiché sapevo che non si era portato sigarette da Calcutta. Continuammo la strada, che si svolgeva a mo' di labirinto deliziando la vista con vedute di fiumi, valli, precipizi rocciosi e lunghe catene di montagne. Ogni notte ci arrestavamo in rustiche locande e ci preparavamo il vitto. Sri Yukteswar si prendeva cura speciale della mia dieta, insistendo
che bevessi del succo di cedro ad ogni pasto. Ero ancora debole, ma miglioravo ogni giorno, sebbene la carrozza coi suoi sobbalzi fosse un perfetto strumento di disagio. I nostri cuori erano pieni di gaia attesa mentre ci avvicinavamo al Kashmir centrale, terra paradisiaca di laghi dai fiori di loto, di giardini galleggianti, di casette sull'acqua dalle gaie tende multicolori, di molti ponticelli sul fiume Jhelum e di pascoli fioriti, il tutto circondato dalla maestà dell'Himalaya. Ci avvicinammo a Srinagar percorrendo un lungo viale di bellissimi alberi. Fissammo delle stanze in una locanda a due piani che guardava le imponenti montagne. Non vi era acqua corrente, e dovevamo andare a rifornirci per il nostro fabbisogno a un pozzo vicino. Il tempo estivo era ideale, con giornate calde, ma notti piuttosto fredde. Ci recammo in pellegrinaggio all'antico tempio di Srinagar dedicato a Swami Shankara. Guardando l'eremitaggio che sulla vetta di un monte si ergeva ardito contro il cielo, caddi in estasi. Mi apparve la visione di un edificio situato in cima a una collina, in un lontano paese. L'aereo tempio di Shankara a Srinagar si trasformò per me nell'edificio dove, molti anni dopo, avrei fondato la casa-madre dell'Autorealizzazione in America. Quando per la prima volta andai a Los Angeles e vidi il grande edificio sulla cima del Mount Washington, lo riconobbi subito. Era simile a quello apparsomi nelle visioni, nel Kashmir e altrove. Pochi giorni a Srinagar, poi a Gulmarg ('sentieri montani fioriti') a circa duemila metri di altezza. Là, per la prima volta, montai un cavallo molto grande, mentre Rajendra cavalcava un piccolo trottatore, il cui cuore era roso dall'ambizione della velocità. Ci arrischiammo sul ripidissimo Khilanmarg; il sentiero si svolgeva attraverso una fitta foresta piena d'alberi ricoperti di licheni, dove le piste avvolte nella nebbia erano spesso precarie. Ma il cavallino di Rajendra non concedeva un minuto di sosta al mio stallone dall'esagerata statura, nemmeno nelle svolte più pericolose. Avanti, sempre avanti, infaticabile, si arrampicava, dimentico di tutto fuorché della gioia della gara. La nostra intrepida corsa fu ricompensata da un panorama superbo, da mozzare il respiro. Per la prima volta in questa vita potevo contemplare su ogni lato le cime sublimi dell'Himalaya ricoperte di nevi eterne, che si stendevano, fila dietro fila, come le sagome d'immensi orsi polari. I miei occhi esultavano, inebriandosi d'infinite distese di ghiaccio contro i cieli azzurri luminosi di sole. Ruzzolavo allegramente sopra i candidi, scintillanti pendii con i miei giovani compagni che, tutti, indossavano cappotti. Nello scendere,
scorgemmo da lontano un vasto tappeto di fiori gialli che trasfigurava completamente la nudità delle colline. Le nostre escursioni ci portarono ai famosi "giardini di piacere" dell'imperatore Jehangir, a Shalimar e Nishat Bagh. L'antico palazzo di Nishat Bagh è costruito proprio sopra una cascata naturale. Precipitando direttamente dalle montagne, il torrente fu costretto con ingegnosi artifici a scorrere attraverso variopinte terrazze e a zampillare nelle fontane tra abbaglianti tappeti di fiori. Il corso d'acqua penetra anche in varie stanze del palazzo per andare a riversarsi, fantasmagoricamente, nel lago sottostante. Gli immensi giardini sono sgargianti di colori: rose di varie tinte, gelsomini, gigli, bocche di leone, fiori di lavanda, viole del pensiero e papaveri. Una siepe smeraldina fatta di simmetriche file di chinar (Nota: Platano orientale. Fine nota), cipressi e ciliegi circondano i giardini. Su tutto sovrasta la bianca austerità dell'Himalaya. La cosiddetta uva del Kashmir è considerata prelibata a Calcutta. Rajendra, che si era ripromesso lauti banchetti d'uva del Kashmir, fu deluso di non trovarvi grandi vigneti. Ogni tanto lo canzonavo amichevolmente per la sua attesa delusa. "Ho mangiato tanta uva che non posso più camminare!", dicevo. "Gli invisibili grappoli fermentano dentro di me!". In seguito seppi che l'uva dolce cresce in abbondanza a Kabul, occidente del Kashmir. Ci consolammo con dei gelati fatti di rabri, un latte fortemente condensato, reso gustoso da pistacchi interi. Facemmo varie escursioni sulle shikara, case galleggianti ombreggiate da baldacchini ricamati in rosso, che scivolavano sulle intricate vie acquee del Lago Dal: una rete di canali simile a una ragnatela acquosa. Qui i numerosi giardini galleggianti, rozzamente improvvisati con ceppi e terra, colpiscono di stupore, tanto sembra strano vedere per la prima volta ortaggi e meloni crescere in mezzo a vaste distese d'acqua. A volte si scorge uno di questi contadini che disdegnano d'"esser radicati al suolo", rimorchiare il suo piccolo quadrato di "terra" in un'altra località del lago dalle molte diramazioni. In questa leggendaria vallata si trova un compendio di tutte le bellezze della terra. La 'Signora del Kashmir' è coronata di montagne, inghirlandata di laghi e calzata di fiori. Più tardi, dopo aver girato il mondo, compresi perché il Kashmir è spesso chiamato il più bel luogo della terra. Esso possiede il fascino delle Alpi Svizzere, di Loch Lomond in Scozia e dei bellissimi laghi inglesi. Un viaggiatore americano può trovarvi molte cose che gli rammentano l'aspra grandiosità dell'Alaska e del Pikes Peak vicino a Denver.
Se si indicesse un concorso di bellezza panoramica, io darei il primo premio, o alle sgargianti vedute di Xochimilco nel Messico, dove le montagne, il cielo, i pioppi si riflettono in mezzo ai pesci giocosi, in innumerevoli corsi d'acqua, oppure ai laghi ingioiellati del Kashmir, protetti, come bellissime fanciulle, dalla severa vigilanza dell'Himalaya. Questi luoghi rimangono nella mia memoria come i due posti più belli del mondo. Ma fui anche profondamente colpito quando per la prima volta mirai le meraviglie del Parco Nazionale Yellowstone, del Grand Canyon del fiume Colorado, e dell'Alaska. Nello Yellowstone Park si possono vedere decine e decine di geyser zampillare altissimi nell'aria, con sistematica regolarità. In questa zona vulcanica la Natura ci ha lasciato un campionario d'una creazione più antica: bacini color opale e zaffiro, sorgenti calde solforose, irruenti geyser, orsi, bisonti, lupi e altri animali selvatici che si aggirano liberi nel parco. Mentre percorrevo in automobile le strade del Wyoming che portano al "Devil's Paint Pot" (Pentola dei Colori del Diavolo) di fango bollente, e ovunque mi trovavo dinanzi gorgoglianti sorgenti, vaporose fontane e geyser da ogni parte, ero pronto a dichiarare che Yellowstone meritava un premio speciale per la sua unicità. Nel parco di Yosemite, in California, le antiche maestose sequoie che elevano le loro imponenti colonne alte verso il cielo sono verdi cattedrali naturali, disegnate con arte divina. Sebbene in Oriente vi siano cascate meravigliose, nessuna di esse è paragonabile alla torrenziale bellezza del Niagara, nello Stato di New York, vicino alla frontiera canadese. Le Caverne Mammoth del Kentucky e quelle di Carlsbad nel Nuovo Messico, sono strani paesi di fate. Lunghe stalattiti a spirale che pendono dalle volte rocciose e si riflettono nell'acqua sottostante, offrono un quadro d'altri mondi, conosciuti dall'uomo soltanto nelle sue fantasie. Per la maggior parte, gli Indiani del Kashmir, noti nel mondo per la loro bellezza, sono bianchi come gli Europei e hanno pure la stessa struttura ossea e gli stessi tratti fisici. Molti hanno occhi azzurri e capelli biondi. Vestiti con indumenti occidentali, sembrano americani. Il freddo dell'Himalaya protegge gli abitanti del Kashmir dal sole ardente e mantiene chiare le loro carnagioni. Viaggiando verso le latitudini tropicali dell'India, si nota che gli abitanti si fanno progressivamente sempre più scuri. Dopo aver trascorso alcune felici settimane nel Kashmir, dovetti apprestarmi a ritornare nel Bengala per riprendere gli studi a Serampore. Sri Yukteswar, con Kanai e Auddy, sarebbe rimasto a Srinagar. Prima della mia
partenza, il Maestro mi accennò che nel Kashmir il suo corpo sarebbe stato sottoposto a sofferenze. "Maestro, siete il ritratto stesso della salute", protestai. "Vi è perfino la possibilità che io abbandoni questa terra". "Guruji!". Caddi ai suoi piedi con un gesto di implorazione. "Promettetemi che non abbandonerete adesso il vostro corpo. Sono assolutamente impreparato a vivere senza di voi". Sri Yukteswar rimase in silenzio, ma mi sorrise con tanta pietà che ne fui rassicurato. Lo lasciai a malincuore. "Maestro gravemente ammalato". Ricevetti questo telegramma di Auddy poco dopo il mio ritorno a Serampore. Telegrafai disperato al mio Guru: "Vi chiesi la promessa di non abbandonarmi. Vi prego, serbate il vostro corpo, diversamente morirò anch'io". "Sia come tu vuoi". Questa fu la risposta di Sri Yukteswar dal Kashmir. Dopo qualche giorno giunse una lettera di Auddy che mi annunziava che il Maestro era guarito. Al suo ritorno a Serampore dopo due settimane, fui profondamente rattristato nel vedere il corpo del mio Guru ridotto alla metà del suo solito peso. Fortunatamente per i suoi discepoli, Sri Yukteswar bruciò nel Kashmir molti dei loro peccati nel fuoco della grave febbre che lo afflisse. Il processo metafisico del trasferimento fisico del male è conosciuto dagli yoghi altamente evoluti. Un uomo forte può aiutare, uno più debole a portare un grave peso; un superuomo spirituale può diminuire i mali fisici o mentali di un altro, condividendo il karma delle sue azioni passate. Proprio come l'uomo ricco perde parte del suo denaro quando paga un grosso debito per il suo figliuol prodigo, che viene in tal modo salvato dalle conseguenze della propria follia, così un Maestro sacrifica volontariamente una parte del suo patrimonio di salute fisica per alleggerire le miserie dei suoi discepoli. (Nota: Molti santi cristiani, compresa Teresa Neumann, ben conoscono il trasferimento metafisico della malattia. Fine nota). Usando un metodo segreto, lo yoghi unisce la propria mente e il proprio veicolo astrale a quelli dell'individuo sofferente; il male di questi viene trasferito, tutto o in parte, nel corpo del Santo. Avendo ormai compiuto il raccolto di Dio nel campo fisico, un Maestro non si cura più del benessere della propria forma materiale. Sebbene egli possa permettere al corpo di prendere su di sé qualsiasi male per sollevare altre persone, la sua mente incontaminabile non ne è mai toccata: egli si considera fortunato di poter offrire un tale aiuto.
Raggiungere la salvezza finale nel Signore significa invero rendersi conto che il corpo umano ha completamente assolto il proprio compito; un Maestro lo usa allora come meglio crede. L'opera di un Guru nel mondo è quella di alleviare le sofferenze dell'umanità, sia con mezzi spirituali, sia mediante consigli intellettuali, o anche col potere della volontà, o infine col trasferimento fisico delle malattie. Libero di evadere nel supercosciente ogni volta che lo desidera, un maestro può ignorare completamente le sofferenze fisiche; a volte egli decide di sopportare stoicamente pene corporali per essere d'esempio ai suoi discepoli. Assumendosi i mali degli altri, uno yoghi può soddisfare in vece loro la legge karmica di causa ed effetto. Questa legge agisce meccanicamente, ossia automaticamente; le sue azioni possono esser manipolate scientificamente da uomini dalla divina saggezza. La legge spirituale non esige che un Maestro si ammali ogni qualvolta egli risana un'altra persona; la guarigione, in genere, avviene in virtù della conoscenza che il Santo possiede di vari metodi di cura immediata che non arrecano alcun danno al risanatore spirituale. Tuttavia in varie occasioni, un Maestro che voglia affrettare di molto l'evoluzione dei propri discepoli, può volontariamente espiare nel proprio corpo gran parte del loro karma cattivo. Gesù si offrì in olocausto per riscattare i peccati degli uomini. Munito di poteri divini, il suo corpo non sarebbe mai stato soggetto alla morte per crocifissione se egli non avesse voluto liberamente cooperare con le sottili leggi cosmiche di causa-effetto. (Nota: Cristo disse, poco prima d'esser crocifisso: "Pensi tu forse che io non possa ora pregare il Padre mio, il quale subito mi manderebbe più di dodici legioni di angeli? Ma come dunque sarebbero adempiute le Scritture, le quali dicono che conviene che così avvenga?" (Matteo, 26.53-54). E ancora: "Allora Pilato gli disse: - Non sai tu che io ho potestà di crocifiggerti e potestà di liberarti? - Gesù rispose: - Tu non avresti alcuna potestà contro me se ciò non ti fosse dato dall'alto". (Giovanni, 19, 10-11). Fine nota). Egli si assunse così le conseguenze del karma altrui e specialmente quello dei suoi discepoli. Così essi vennero totalmente purificati e posti in grado di ricevere l'onnipresente coscienza, o Spirito Santo, che in seguito discese su di loro. Solo un Maestro giunto alla piena realizzazione del Sé può trasferire la sua forza vitale, o accogliere nel proprio corpo i mali altrui. Un uomo comune non può usare questo metodo di cura yoga; né è desiderabile che egli lo usi, perché uno strumento fisico inadatto è un impedimento alla
profonda meditazione su Dio. Le Scritture indù insegnano che serbare il proprio corpo in buone condizioni è un imperioso dovere per l'uomo; diversamente la sua mente non può rimanere ferma in devota concentrazione. Una mente fortissima può tuttavia trascendere ogni difficoltà fisica per giungere alla realizzazione di Dio. Molti Santi ignorarono i loro mali e riuscirono nella divina ricerca. San Francesco d'Assisi, gravemente colpito da malattie, guariva egli stesso i malati. Conobbi un Santo indiano il cui corpo era stato un tempo per metà ricoperto di piaghe purulente; il suo diabete era tanto grave, che gli era difficile restar seduto più di quindici minuti di seguito. Ma la sua aspirazione spirituale era incrollabile. "Signore", egli pregava, "vuoi Tu venire nel mio tempio distrutto?". Con una padronanza continua della propria volontà, il Santo riuscì a poco a poco a restar seduto nella posizione del loto ogni giorno per 18 ore di seguito, immerso nell'estasi. "E dopo tre anni", egli mi disse, "mi accorsi che la Luce Infinita fiammeggiava nella mia frantumata spoglia. Nel gaudio del divino splendore dimenticai il mio corpo. In seguito mi accorsi ch'esso era risanato per grazia divina". Una storica guarigione viene messa in rapporto col re Baber (1483-1530), fondatore dell'impero mongolo in India. Il principe Humayun, suo figlio, era mortalmente ammalato. Il padre implorava, angosciato ma deciso, d'esser colpito lui stesso dalla malattia perché il figlio potesse essere risparmiato. Quando tutti i medici avevano perduto ogni speranza, Humayun guarì. Immediatamente Baber si ammalò e morì dello stesso male che aveva colpito il figlio. Humayun successe a Baber quale imperatore dell'Indostan (Nota: Humayun divenne padre del grande Akbar. Un fatto notevole del regno di Akbar fu l'erezione a Delhi di un mausoleo a Humayun. Questo magnifico edificio di pietra rossa intarsiata di marmo bianco, servì da modello per l'incomparabile Tai Mahal (1653). L'imperatore Akbar, con islamico zelo, perseguitò dapprima gli indù. Più tardi disse: "Crescendo in sapienza, fui sopraffatto dalla vergogna... Miracoli accadono nei santuari d'ogni fede". Il grande islamista, che ordinò una traduzione in persiano della Bhagavad Gita, si deliziava nell'udire la spiegazione dei Veda fatta dai dotti brahmini. Dimostrò anche un profondo interesse al cristianesimo e invitò vari Padri Gesuiti alla propria Corte. Sull'arco di trionfo nella sua nuova città di
Fathpur Sikri, Akbar con molto amore ma pocao esattezza storica, fece apporre la seguente iscrizione: "Gesù figlio di Maria (pace a lui) disse: - Il mondo è un ponte: passatevi sopra, ma non costruitevi una casa". Fine nota). Molta gente immagina che un Maestro spirituale debba avere la forza fisica di un Sandow (Nota: Atleta germanico (m. 1925) conosciuto come 'l'uomo più forte del mondo'. Fine nota). La supposizione è infondata. Un corpo ammalato non indica che un Guru non sia in rapporto con i divini poteri, come una perfetta salute non è prova d'illuminazione interiore. Le qualità che contraddistinguono un Maestro non sono d'ordine fisico, bensì spirituale. Molti studiosi dalle idee confuse, in Occidente, credono erroneamente che un eloquente oratore o scrittore di argomenti metafisici debba essere un Maestro. Ma l'unica prova che si tratti veramente di un Maestro è data dalla capacità di entrare a volontà nello stato di sospensione del respiro (sabikalpa samadhi), e dal raggiungimento dell'immutabile estasi (nirbikalpa samadhi). I rishi han fatto notare che solo per tali realizzazioni un essere umano dimostra di aver 'padroneggiato' la maya, ovvero la dualistica Illusione Cosmica. Allora soltanto egli può dire, dalle profondità della sua realizzazione: "Ekam sat" (Uno solo esiste). Shankara, il grande monista, scrisse: "Dove c'è dualità a cagione dell'ignoranza, si vedono tutte le cose come distinte dal Sé. Quando ogni cosa è conosciuta come Sè, allora neppure un atomo è veduto come cosa diversa dal Sé. "Non appena la conoscenza della Realtà è sorta, non vi possono essere più conseguenze di azioni passate da subire, data l'irrealtà del corpo; al modo stesso che non vi può essere sogno dopo il risveglio". Solo i grandi Guru possono addossarsi il karma dei discepoli. Sri Yukteswar non si sarebbe ammalato a Srinagar, se lo Spirito che era in lui non gli avesse concesso d'aiutare i suoi discepoli in quello strano modo. Pochi santi furono dotati di maggior saggezza e sensibilità per eseguire i comandi divini, di quanto lo fu il mio Maestro, perfettamente intonato a Dio. Quando arrischiai poche parole di compassione per la sua figura emaciata, il mio Guru mi rispose allegramente: "Ha il suo lato buono! Adesso posso indossare certi ganji (sottovesti) troppo stretti, che non potevo usare da anni!". Ascoltando il riso giovanile del Guru, rammentai le parole di San Francesco di Sales: "Un santo triste è un triste santo!".
CAPITOLO XXII IL CUORE DI UN'IMMAGINE DI PIETRA "Da buona moglie indù, non desidero lamentarmi di mio marito, ma vorrei tanto che abbandonasse le sue idee materialiste. Egli si diverte a mettere in ridicolo le effigi dei Santi che tengo nella mia stanza di meditazione. Caro fratello, credo fermamente che tu possa aiutarmi. Vorrai farlo? La maggiore delle mie sorelle, Roma, mi rivolgeva uno sguardo supplichevole mentre le facevo una breve visita nella sua casa di Calcutta in Girish Vidyaratna Lane. La sua preghiera mi commosse, poiché ella aveva esercitato sulla mia infanzia una profonda influenza spirituale, e con amore aveva cercato di riempire il grande vuoto che la morte di nostra madre aveva lasciato nella famiglia. "Amata sorella, farò certamente tutto quello che posso". Sorrisi, volendo ad ogni costo diradare le evidenti ombre di tristezza che velavano il suo volto, contrastando con la sua solita espressione allegra e serena. Roma ed io sedemmo un poco in silenziosa preghiera per implorare un cenno che ci servisse da guida. Un anno prima, mia sorella mi aveva chiesto d'iniziarla al Kriya Yoga, in cui faceva notevoli progressi. Ebbi un'ispirazione. "Domani", dissi, "vado al Tempio di Kali a Dakshineswar; accompagnami e persuadi tuo marito a venire con noi. Sento che nelle vibrazioni di quel santo luogo, la Madre Divina gli toccherà il cuore; ma non dirgli la ragione per cui desidero che venga con noi". Piena di speranza, mia sorella si disse d'accordo con me. Il mattino seguente, assai presto, fui lieto di trovare Roma e il marito pronti per il viaggetto. Mentre la nostra carrozza traballava lungo la Upper Circular Road verso Dakshineswar, mio cognato, Satish Chandra Bose si divertiva a deridere i Maestri spirituali del passato, del presente e del futuro. Mi accorsi che Roma piangeva in silenzio. "Stai di buon animo sorella", le bisbigliai, "non dare a tuo marito la soddisfazione di credere che prendiamo sul serio i suoi motteggi".
"Mukunda, come puoi ammirare tanti inutili impostori?", diceva Satish. Il solo aspetto di un sadhu è ripugnante: o è magro come uno scheletro, o è profondamente grasso come un elefante". Ero scosso dalle risa. La mia reazione allegra indispose Satish, che si chiuse in un imbronciato silenzio. Quando la carrozza entrò nel recinto di Dakshineswar, egli ebbe un ghigno sarcastico e disse: "Immagino che questa escursione abbia lo scopo di convertirmi?". Siccome mi voltai senza rispondere, egli mi afferrò per un braccio: "Giovane signor monaco", disse, "non dimenticare di prendere opportuni accordi con le autorità del tempio perché ci preparino la colazione". Satish voleva evitare d'esser costretto a parlare ai preti. "Ora vado a meditare. Non preoccuparti della tua colazione", gli risposi bruscamente, "la Madre divina ci penserà". "Non credo che la Madre Divina farà la benché minima cosa per me, ma rendo responsabile te del mio pasto". Il tono di Satish era minaccioso. Me ne andai da solo nella sala delle colonne che sta dinanzi al tempio di Kali (Dio nel suo aspetto di Madre Natura). Scelsi un posto ombreggiato accanto a uno dei pilastri e sedetti nella posizione del Loto. Benché non fossero che le sette del mattino, il sole ben presto sarebbe divenuto opprimente. Man mano che sprofondavo nell'estasi, il mondo svaniva. La mia mente si concentrava sulla Dea Kali, la cui immagine in quello stesso tempio a Dakshineswar, era stata oggetto di speciale adorazione da parte del grande Maestro Sri Ramakrishna Paramahansa. In risposta alle sue angosciate suppliche, l'immagine di pietra di quel tempio aveva preso spesso forma vivente e gli aveva parlato. "Madre silente dal cuore di pietra", pregavo. "Ti animasti alla supplica del Tuo amato devoto Ramakrishna; perché non accogli anche le ansiose implorazioni di quest'altro Tuo figlio?". Il mio silente anelito cresceva senza limiti, accompagnato da una divina pace. Eppure, trascorse cinque ore, la Dea che visualizzavo nel mio intimo non mi aveva risposto. Ne ero piuttosto scoraggiato. A volte il ritardo nell'esaudire una nostra preghiera è una prova che Dio ci impone. Ma infine, al fedele che persiste, Egli appare in quella forma che il devoto ha cara: un cristiano vedrà Gesù, un indù Krishna o la Dea Kalì, o una Luce che si espande, se la sua adorazione assume una forma impersonale. Con riluttanza aprii gli occhi, e mi avvidi che un prete stava chiudendo a chiave le porte del tempio, come usava farsi a mezzogiorno. Mi alzai dal mio posticino nascosto sotto il colonnato e mi recai nel cortile. Il pavimento
di pietra ardeva sotto il sole di mezzogiorno e i miei piedi nudi bruciavano dolorosamente. "Madre Divina", mi lamentai, "non sei voluta venire a me nella visione, e ora Ti nascondi nel tempio dietro le porte sbarrate. Oggi volevo offrirti una speciale preghiera per Satish". La mia supplica interiore fu immediatamente accolta. Prima, una deliziosa ondata fredda discese lungo la mia schiena e sotto i miei piedi, annullando ogni sensazione di pena; poi, con mia grande meraviglia, il tempio mi apparve straordinariamente ingrandito. La sua grande porta si aprì lentamente rivelando la figura di pietra della Dea Kali, che a poco a poco si tramutò in forma vivente e chinò il capo sorridendo in cenno di saluto, pervadendomi d'indescrivibile gioia. Come aspirato da una mistica siringa, il respiro mi venne tolto dai polmoni e il mio corpo divenne molto quieto, sebbene non inerte. Seguì un'estatica espansione della mia coscienza; potevo vedere per molte miglia oltre il Gange alla mia sinistra, e al di là del Tempio che mi stava dinanzi, tutta la zona di Daksihneswar. I muri di tutti gli edifici rilucevano, in trasparenza; attraverso di essi vedevo le persone camminare su e giù, su lontane distese di terra. Sebbene non respirassi e il mio corpo fosse in uno stato di quiete, potevo muovere liberamente mani e piedi. Per parecchi minuti provai a chiudere e aprire gli occhi: chiusi o aperti che fossero, vedevo distintamente tutto il panorama di Dakshineswar. Come i raggi X, la vista spirituale penetra tutta la materia; l'occhio divino è centro ovunque, circonferenza mai. Stando nell'assolato cortile, mi convinsi una volta di più che quando l'uomo cessa di essere un figliol prodigo di Dio, assorbito dal mondo fisico che in realtà è sogno, senza base come una bolla di sapone, torna a possedere i reami eterni che gli appartengono per eredità divina. Se evadere è un bisogno dell'uomo rinchiuso nella sua ristretta personalità, quale evasione può essere paragonata alla maestà dell'Onnipresenza? Nella sacra esperienza da me fatta a Dakshineswar, le uniche cose straordinariamente ingrandite erano il Tempio e le forme della Dea; ogni altra cosa appariva nelle sue normali dimensioni, sebbene circondata da un alone di morbida luce bianca, azzurra e dalle tinte pastello dell'arcobaleno. Il mio corpo sembrava fatto di sostanza eterea, pronto alla levitazione. Perfettamente conscio di tutto quanto mi circondava, mi guardavo intorno e facevo anche qualche passo, senza turbare la continuità della mia felice visione.
Dietro i muri del tempio vidi a un tratto mio cognato, seduto sotto gli spinosi rami di un sacro albero di bel. Senza sforzo potevo discernere lo svolgersi dei suoi pensieri. Quantunque un po' sollevata dalla divina influenza del luogo, la sua mente faceva ancora degli apprezzamenti poco gentili su di me. Mi volsi direttamente alla graziosa forma della Dea. "Madre Divina", pregai, "non vuoi Tu mutare spiritualmente il marito di mia sorella?". Il bellissimo Viso, finora muto, alla fine parlò: "Il tuo desiderio è appagato!". Felice, guardai Satish. Come istintivamente conscio che qualche potere spirituale era all'opera, egli si alzò risentito, dal posto ove sedeva, e lo vidi correre dietro il tempio; poi mi si avvicinò con i pugni tesi. La visione che tutto abbracciava svanì. Non scorgevo più la bella Dea; il tempio riprese le sue dimensioni normali senza trasparenza, e di nuovo il mio corpo si sentì soffocare sotto i feroci raggi del sole. Con un salto mi portai al riparo del colonnato, dove Satish, incollerito, mi seguì. Guardai l'ora: era l'una; la divina visione era durata un'ora. "Sciocco che non sei altro!", esplose mio cognato. "Sei stato a occhi storti e gambe incrociate per ben sei ore. Ti ho guardato tutto il tempo. Dov'è la mia colazione? Ormai il Tempio è chiuso e non ti sei ricordato d'informare i custodi della nostra presenza. Oggi non mangeremo." L'esaltazione provata alla presenza della Dea vibrava ancora in me. Mi sentii incoraggiato a esclamare: "La Madre Divina penserà a noi". Satish era fuori di sé dalla rabbia. "Una volta per sempre, mi piacerebbe vedere la tua Madre Divina fornirci da mangiare senza accordi preliminari"!. Aveva appena pronunciato queste parole che un sacerdote del tempio attraversò il cortile e ci venne vicino. "Figlio", disse rivolgendosi a me, "ho osservato il tuo viso che risplendeva serenamente per ore intere di meditazione. Ho assistito all'arrivo della tua comitiva stamani, e ho voluto mettere da parte qualche buona cosa per rifocillarvi. E' contro la regola del tempio dar da mangiare a coloro che non ne abbiano fatta previa richiesta, ma per te ho fatto un'eccezione". Lo ringraziai e guardai Satish fisso negli occhi. Egli arrossì commosso, abbassando lo sguardo in silenzioso pentimento. Quando ci fu servito un copioso pasto, che comprendeva dei manghi fuori stagione, notai che l'appetito di mio cognato era scarso. Era sconvolto profondamente immerso in un mare di pensieri. Sulla via del ritorno verso Calcutta, Satish ogni tanto mi guardava supplichevole, con espressione raddolcita. Ma non disse più
una parola dal momento in cui il prete, come in diretta risposta alla sfida di Satish, era venuto a invitarci a colazione. Il pomeriggio del giorno seguente andai a casa di mia sorella. Ella mi accolse con effusione: "Caro fratello", mi disse, "quale miracolo! Ieri sera mio marito pianse apertamente davanti a me e mi disse: - Amata devi (Nota: Dea, Deva (cfr. il latino deus) significa Dio o spendente; dalla radice sanscrita div, splendere. Fine nota), sono felice oltre ogni dire che il progetto di tuo fratello per convertirmi abbia compiuto in me una trasformazione. Voglio annullare ogni male, ogni torto che ti ho fatto. Da questa notte in poi useremo la nostra grande camera da letto solamente come luogo d'adorazione, e la tua stanzetta di meditazione ci servirà per dormire. Mi dispiace sinceramente di aver riso di tuo fratello. Come punizione per la mia vergognosa condotta, non parlerò a Mukunda fino a quando non avrò fatto dei progressi sul sentiero spirituale. D'ora in poi cercherò profondamente la Madre Divina. Un giorno certamente La troverò". Dopo anni (nel 1936), andai a far visita a mio cognato a Delhi. Fui felicissimo di trovarlo molto avanti sulla via dell'autorealizzazione. Egli era stato benedetto dalla visione della Madre Divina. Durante il mio soggiorno in casa sua mi accorsi che Satish, in segreto, passava la maggior parte delle sue notti in divina meditazione, nonostante soffrisse di un grave male e trascorresse l'intera giornata lavorando in ufficio. Mi venne l'idea che il periodo di vita ancora concesso a mio cognato non sarebbe stato lungo. Roma dovette leggere nei miei pensieri. "Caro fratello", ella mi disse, "io sto bene e mio marito è ammalato. Tuttavia voglio che tu sappia che, quale devota moglie indù, io sarò la prima a morire. Fra poco ormai sarà finita per me". (Nota: La moglie indù, crede che sia un segno di elevazione spirituale morire prima del marito, quale prova del suo leale servizio verso di lui; cioè "morire sulla breccia". Fine nota). Impressionato da tali tristi parole, sentii in esse purtroppo un'eco di verità. Ero in America quando mia sorella morì, diciotto mesi dopo la sua predizione. Il mio fratello minore, Bishnu, mi diede in seguito tutti i dettagli del suo trapasso. "Quando Roma morì, lei e Satish si trovavano a Calcutta. Quella mattina ella indossò la sua veste nuziale. Satish le chiese: - Perché mai metti questa veste, oggi? - Questo è l'ultimo giorno che ti servo su questa terra - gli rispose Roma.
"Poco dopo ebbe un attacco cardiaco. Al figlio in procinto di correr fuori per chiedere aiuto, disse: "Figlio, non lasciarmi, non serve. Prima che possa giungere un medico, io me ne sarò andata. "Dieci minuti dopo, stringendo i piedi del marito fra le mani in segno di reverenza, Roma abbandonò coscientemente il corpo, felice e senza soffrire. "Dopo la morte della moglie, Satish divenne molto solitario", continuò Bishnu. "Un giorno lui ed io guardavamo una fotografia di Roma sorridente: " - Perché sorridi? - esclamò a un tratto Satish, come se la moglie fosse ancora presente. Credi di aver fatto una bella cosa a volertene andare prima di me? Ti dimostrerò che non potrai restare per molto tempo senza di me; presto ti raggiungerò. "Sebbene a quell'epoca fosse perfettamente guarito e godesse di un'ottima salute, Satish morì, senza causa apparente, poco dopo aver pronunciato quella strana frase dinanzi al ritratto della moglie". Così, profeticamente, si estinsero la mia carissima sorella maggiore Roma e suo marito Satish, colui che a Dakshineswar era stato trasformato da convinto materialista in un silenzioso santo. Contro la propria volontà, il cuore di Satish aveva dato un'ardente risposta alla Madre Misericordiosa che, per il suo bene, si degnò di glorificare un'immagine di pietra.
CAPITOLO XXIII PRENDO LA LAUREA "Non sai assolutamente nulla degli argomenti trattati nel tuo testo di filosofia. Non vi è dubbio che fai assegnamento su "un'intuizione" poco faticosa per riuscire a superare gli esami. Ma, a meno che non ti applichi con maggior impegno, farò in modo che tu non sia promosso", mi diceva il professor D. C. Ghoshal della Università di Serampore. Se non fossi riuscito a superare la sua ultima prova scritta in classe, non avrei potuto dare gli esami finali. Il loro programma è compilato dall'università di Calcutta, che annovera tra i suoi rami affiliati il Collegio di Serampore. Nelle Università indiane lo studente bocciato in una sola materia all'esame finale per la laurea deve ripetere tutti gli esami l'anno seguente. In genere i miei professori dell'Università di Serampore mi trattavano con bontà, non priva di una certa divertita tolleranza. "Mukunda è un po' troppo ubriaco di religione". Con questo giudizio che mi riassumeva, essi, pieni di tatto, mi risparmiavano l'imbarazzo di dover rispondere a un'interrogazione in classe; avevano fiducia negli scritti finali che mi avrebbero eliminato dalla lista dei candidati alla laurea. Il giudizio che su me davano i compagni era espresso nel nomignolo che mi avevano affibbiato: 'Il monaco matto'. Ricorsi a uno stratagemma ingegnoso per annullare la minaccia del professor Ghoshal di bocciarmi in filosofia. Quando i risultati finali stavano per essere annunziati pubblicamente, chiesi a un compagno di classe di accompagnarmi nello studio del professore. "Vieni con me, mi occorre un testimone", gli dissi. "Sarei molto deluso se non fossi riuscito a farla al professore". Il professor Ghoshal scrollò il capo quando gli chiesi quali punti avessi ottenuto. "Non sei tra i promossi", disse trionfante, e frugò tra un mucchio di carte sulla scrivania. "Il tuo lavoro non risulta nemmeno. In ogni caso sei bocciato per non esserti presentato agli esami".
Risi. "Ma professore, io c'ero. Posso guardare fra le carte?". Il professore, imbarazzato, me ne dette il permesso. Subito trovai il mio lavoro, su cui deliberatamente avevo omesso di porre ogni possibilità d'identificazione, fuorché il mio numero di matricola. Poiché la "bandiera rossa" del mio nome non lo aveva messo in guardia, il professore aveva dato una buona votazione alle mie risposte, sebbene esse non fossero abbellite da citazioni dal libro di testo (Nota: Devo rendere giustizia al prof. Ghoshal ammettendo che la tensione nei nostri rapporti era dovuta non a un suo malvolere, ma solo alle mie assenze dalle lezioni e alla mia disattenzione. Il professor Ghoshal era ed è un eminente oratore di vasta erudizione filosofica. Negli ultimi anni giungemmo a una mutua e cordiale comprensione. Fine nota). Accortosi ora del mio trucco, tempestò: "Hai soltanto una fortuna infernale!". E pieno di speranza, aggiunse: "Sicuramente cadrai agli esami finali!". Per gli esami nelle altre materie mi feci istruire anche e soprattutto dal mio caro amico e cugino Prabhas Chandra Ghosh (Nota: Mio cugino e io abbiamo lo stesso cognome Ghosh; ma Prabhas lo ha inglesizzato in Ghose. Fine nota), figlio di mio zio Sarada. Zoppicando penosamente, ma efficacemente, superai - con i voti più bassi possibili - tutte le mie prove finali. Ormai, dopo quattro anni di Università, avrei potuto affrontare gli esami di laurea, ma non credevo davvero di potermi giovare di questo privilegio. Gli esami al Collegio di Serampore erano un gioco da bambini a paragone dei durissimi esami di laurea all'Università di Calcutta. Le mie visite quasi quotidiane a Sri Yukteswar mi lasciavano poco tempo per frequentare le aule universitarie. Era la mia presenza, piuttosto che la mia assenza, a provocare esclamazioni di meraviglia da parte dei compagni! Quasi ogni giorno, ero solito partire in bicicletta verso le nove e mezzo del mattino. In una mano portavo un'offerta per il mio Guru: fiori dal giardino della mia pensione Panthi. Egli mi accoglieva affabilmente e m'invitava a colazione, e io invariabilmente mi affrettavo ad accettare, felice di non dover pensare all'Università, per quel giorno. Dopo aver trascorso delle ore con Sri Yukteswar, accogliendo in me l'incomparabile flusso della sua saggezza o aiutandolo nelle varie mansioni dell'ashram, ritornavo con riluttanza alla Panthi verso la mezzanotte. A volte rimanevo tutta la notte col mio Guru, così felicemente assorto nella sua conversazione, che mi accorgevo appena quando l'oscurità digradava nell'alba. Una sera verso le undici, mentre infilavo le scarpe (Nota: in un eremitaggio indiano, sempre il discepolo si toglie le scarpe. Fine nota) per
prepararmi alla corsa in bicicletta verso la pensione, il Maestro mi interrogò gravemente: "Quando iniziano i tuoi esami finali?" "Fra cinque giorni". "Spero che tu sia pronto ad affrontarli". Allarmatissimo, rimasi con una scarpa in aria. "Signore", protestai, "Voi sapete che ho trascorso le mie giornate più con voi che con i professori! Come posso recitare la farsa di presentarmi a degli esami tanto difficili?". Gli occhi di Sri Yukteswar mi fissarono, penetranti. "Devi presentarti!". Il suo tono era freddo e perentorio. "Non dobbiamo dare né a tuo padre, né agli altri parenti l'occasione di criticare la tua preferenza per la vita dell'ashram. Promettimi solo che ti presenterai, e risponderai alle interrogazioni come meglio potrai". Irrefrenabili lacrime mi solcavano il viso. Mi pareva che l'ordine del Maestro fosse irragionevole e il suo interessamento, a dir poco, tardivo. "Se volete, mi presenterò", balbettai singhiozzando, "ma non mi rimane tempo per un'adeguata preparazione". E mormorai sottovoce: "Riempirò i fogli dei vostri insegnamenti, in risposta a quanto mi chiederanno!". Quando il giorno seguente entrai nell'eremitaggio all'ora solita, presentai con aria dolente il mio mazzo di fiori a Sri Yukteswar. Questi rise della mia aria funerea. "Mukunda, ti ha mai abbandonato il Signore, in un esame o in qualsiasi altra circostanza?". "No, Maestro", risposi con calore. Fiotti di grati ricordi mi rifluivano alla mente, ritemprandomi. "Non la pigrizia, ma uno zelo ardente per Iddio ti ha impedito di ricercare gli onori universitari", disse il mio Guru con bontà. E dopo un silenzio citò: "Ma cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù". (Nota: Matteo, 6,33, Fine nota). Per la millesima volta sentii i miei affanni svanire alla presenza del Maestro. Finito che ebbimo di far colazione, egli mi suggerì di ritornare alla Panthi. "Il tuo amico Romesh Chandra Dutt abita sempre là?". "Si". "Mettiti in rapporto con lui; il Signore gli ispirerà d'aiutarti per gli esami". "Va bene, signore. Ma Romesh è straordinariamente occupato. E' il primo del corso e ha maggiori responsabilità degli altri". Il Maestro non si curò della mia obiezione. "Romesh troverà il tempo per te. Vai, ora".
Tornai in bicicletta alla pensione. La prima persona che vi incontrai fu appunto Romesh. Come se le sue giornate fossero completamente libere, egli accondiscese con molta gentilezza alla mia impacciata richiesta. "Ma certo! Sono a tua disposizione!". E molte ore di quel pomeriggio e dei giorni seguenti egli le trascorse aiutandomi a prepararmi nelle varie materie. "Credo che molte domande sulla letteratura inglese riguarderanno la rotta seguita da Childe Harold", egli mi disse. "Dobbiamo subito trovare una carta geografica". Mi affrettai a andare da mio zio Sarada e mi feci prestare un atlante. Romesh mi segnò sulla carta d'Europa i vari luoghi visitati dal romantico viaggiatore byroniano. Alcuni compagni ci circondarono per ascoltare le spiegazioni. "Romesh ti consiglia male", commentò uno di essi alla fine di una seduta. "In genere, solo in cinquanta per cento delle domande sono fatte sui libri, l'altra metà riguarda la vita degli autori". Quando, il giorno dopo, mi trovai presente all'esame di letteratura inglese, il primo sguardo che diedi al foglio delle domande provocò lacrime di riconoscenza che, scendendo dalle mie guance, bagnarono le mie carte. L'assistente mi si accostò e s'informò premurosamente della ragione del mio pianto. "Il mio grande Guru aveva predetto che Romesh mi avrebbe aiutato", gli spiegai. "Guardate, le stesse domande dettatemi da lui figurano sul foglio d'esame! Fortunatamente per me, quest'anno vi sono ben poche interrogazioni sugli autori inglesi, la cui vita è circondata di profondo mistero, almeno per me!. Quando tornai alla pensione, la trovai tutta sossopra. I ragazzi che si erano burlati di me per la mia fede nel metodo di Romesh, ora quasi mi assordavano con le loro felicitazioni. Durante la settimana degli esami passai molte ore con Romesh, il quale mi fece tutte le domande che riteneva probabile mi sarebbero state poste dai professori. Giorno per giorno le stesse domande apparivano, quasi nella stessa forma sul foglio degli esami. Corse voce all'Università che una specie di miracolo stava accadendo e che il successo sembrava arridere al "monaco pazzo dalla mente assente". Non tentai di nascondere i fatti. I professori locali non avevano il potere di modificare le domande, che erano state compilate dall'Università di Calcutta. Ripensando all'esame di letteratura inglese mi accorsi, una mattina, che avevo fatto un grave sbaglio. Un gruppo di domande era stato diviso in due parti: A o B; C o D.
Invece di rispondere a una sola delle interrogazioni in ognuno dei due gruppi, per distrazione avevo risposto solo alle due del primo gruppo, senza curarmi affatto di quelle del secondo. Il miglior punto che potevo attendermi dunque era 33, mentre per passare era indispensabile il 46. Scappai dal Maestro per sfogare con lui tutte le mie pene. "Ho fatto un pasticcio imperdonabile. Non merito la benedizione divina che mi è stata concessa attraverso Romesh. Ne sono davvero indegno". "Stai di buon animo, Mukunda". Il tono di voce di Sri Yukteswar era leggero e spensierato. Egli m'indicò col dito la volta azzurra del cielo. "Sarebbe più facile al sole e alla luna di scambiarsi i loro posti nello spazio, che a te di non riuscire a ottenere la tua laurea". Lasciai l'eremitaggio in uno stato d'animo più tranquillo, sebbene mi sembrasse matematicamente impossibile che io potessi superare gli esami. Guardai una o due volte il cielo con apprensione: il Signore del Giorno, pareva saldamente ancorato al suo solito posto! Quando giunsi alla Panthi, udii per caso l'osservazione di un collega: "Ho saputo adesso che quest'anno, per la prima volta, i punti richiesti in letteratura inglese sono stati diminuiti". Entrai con tale fretta nella stanza del ragazzo, che questi mi guardò impaurito. Lo interrogai febbrilmente. "Monaco dai capelli lunghi", egli mi disse ridendo, "perché mai questo subitaneo interesse per le cose di scuola? Perché piangere all'undicesima ora? Però è vero che i punti sono stati ridotti a 33!". Raggiunsi in pochi allegri salti la mia camera, dove mi gettai in ginocchio e lodai le perfezioni matematiche del mio Padre Divino. Ogni giorno vibravo di emozione nella consapevolezza di una Presenza Divina che mi guidava attraverso Romesh. Un significativo incidente accadde a proposito dell'esame di bengali. Romesh, che aveva curato poco questa materia, mi richiamò una mattina mentre mi avviavo agli esami. "Romesh ti chiama", mi disse un compagno di classe. "Non tornare indietro; saremo in ritardo". Senza ascoltarlo, tornai di corsa da Romesh, che mi disse: "L'esame di bengali di solito è facile per i bengalesi, ma ho avuto ora l'intuizione che quest'anno i professori tartasseranno gli studenti con domande sul libro di testo". E il mio amico mi riassunse brevemente alcune storie dal libro, fra cui due episodi della vita di Vidyasagar, un rinomato filantropo bengali vissuto al principio del XIX secolo. Ringraziai Romesh e di corsa, in bicicletta, raggiunsi l'Università. Il foglio d'esami di bengali era diviso in due parti. La prima domanda era:
'Scrivete due esempi della carità di Vidyasagar' (Nota: Non ricordo il testo esatto della domanda, ma rammento che concerneva le due storie su Vidyasagar che Romesh mi aveva appena raccontate. A cagione della sua erudizione, il pandit Ishwar Chandra era largamente conosciuto nel Bengala semplicemente sotto l'appellativo di Vidyasagar (Oceano di Sapere). Fine nota). Mentre trascrivevo sul foglio le cognizioni che avevo acquisite di fresco, bisbigliai poche parole di ringraziamento per aver risposto al richiamo di Romesh all'ultimo momento. Se non avessi conosciuto le benemerenze di Vidyasagar verso l'umanità (incluso, per ultimo, anche me stesso), non avrei potuto superare l'esame di bengali. Bocciato in una materia, avrei dovuto per forza sottopormi di nuovo a tutti gli esami l'anno seguente. E si comprende bene come questa prospettiva fosse per me orribile. La seconda interrogazione era: 'Scrivete un saggio in bengali sulla vita dell'uomo che più di tutti vi ha ispirato'. Caro lettore, è inutile ch'io ti dica chi fu l'uomo che prescelsi per il mio tema. Mentre riempivo pagine su pagine di lodi del mio Guru, sorridevo dentro di me nel vedere che la mia predizione borbottata con malumore si avverava: "Riempirò i fogli con i vostri insegnamenti"!. Non avevo avuto voglia d'interpellare Romesh sul mio corso di filosofia. Pieno di fiducia nel lungo allenamento fatto con Sri Yukteswar, trascurai saggiamente le spiegazioni del libro di testo. I punti più alti, li ebbi in filosofia. Tutte le altre materie mi permisero appena di ottenere il voto minimo per la promozione. E' un vero piacere per me segnalare che il mio altruistico amico Romesh Chandra Dutt ricevette la sua laurea cum laude. Mio padre fu tutto sorrisi, felice della mia laurea. "Non credevo che saresti stato promosso, Mukunda", mi confessò. "Trascorri tutto il tempo col tuo Guru!". Il Maestro aveva intuito con esattezza la silenziosa critica di mio padre. Per anni avevo dubitato di poter un giorno vedere accanto al mio nome la qualifica di laureato. Raramente uso questo titolo senza ricordare che è un dono divino, concessomi per ragioni piuttosto oscure. Spesso odo dei laureati dichiarare quanto poco sia loro rimasto delle farraginose nozioni apprese per ottenere il titolo, e ciò mi conforta un poco delle mie indubbie deficienze accademiche. Nel giorno in cui ricevetti la laurea dall'Università di Calcutta (nel giugno 1914) m'inginocchiai ai piedi del mio Guru e lo ringraziai per tutte le benedizioni che dalla sua vita entravano nella mia (Nota: Il potere di
influenzare l'altrui mente e il corso degli eventi è una vibhuti (potere yoghico). Vi accenna Patanjiali nelle Yoga Sutra (III, 24) dicendo che è un risultato della 'simpatia universale'. (Due dotti libri sulle Sutra sono: Yoga System di Patanjiali (Vol. XVII, Serie Orientale, Università di Harward), e Yoga Philosophy di Dasgupta (Trubner's Londra). Tutte le Scritture proclamano che il Signore creò l'uomo nella sua immagine onnipotente. Avere il controllo dell'universo appare cosa sovrannaturale, ma in verità tale potere è inerente e naturale in ogni uomo che abbia risvegliato la 'giusta memoria' della sua origine divina. Gli uomini dalla divina realizzazione come Sri Yukteswar sono privi del principio dell'ego (ahankara) e dei suoi insorgenti desideri personali; gli atti dei veri Maestri sono, naturalmente e senza sforzo, conformi a rita, la naturale giustizia. Per dirlo con parole di Emerson, tutti i Grandi divengono "non virtuosi, ma Virtù; allora il fine della creazione è conosciuto, e Dio si compiace". Ogni uomo che ha realizzato Iddio potrebbe compiere miracoli, poiché come il Cristo, egli comprende le leggi sottili che governano la Creazione; ma non tutti i Maestri vogliono mostrare i loro eccezionali poteri. Ogni santo riflette Iddio a modo proprio; l'espressione dell'individualità è essenziale in un mondo dove nemmeno due granelli di sabbia sono uguali. Non si possono formulare regole fisse riguardo ai santi illuminati da Dio; alcuni compiono miracoli, altri no; alcuni sono inattivi, mentre altri (come re Janaka nell'India antica e Santa Teresa d'Avila) hanno una vasta attività; alcuni insegnano, viaggiano e accolgono discepoli, mentre altri passano la loro vita in silenzio e ignorati come ombre. Nessun apprezzamento terreno è capace di leggere la scheda segreta del karma (azioni passate), che per ogni Santo dà una lettura diversa. Fine nota). "Alzati Mukunda", egli mi disse con indulgenza. "Il Signore ha semplicemente ritenuto più conveniente farti ottenere la laurea, che non mutare il corso del sole e della luna!".
CAPITOLO XXIV DIVENTO MONACO DELL'ORDINE DEGLI SWAMI "Maestro", dissi, "mio padre desiderava molto che io accettassi un posto direttivo nelle Ferrovie Bengala-Nagpur, ma ho definitivamente rifiutato". E pieno di speranza, aggiunsi: "Maestro, non volete farmi monaco dell'Ordine degli Swami?". Guardai supplichevole il mio Guru che negli anni precedenti, per mettere alla prova la serietà della mia vocazione, aveva sempre risposto negativamente a quella stessa domanda. Oggi, invece, sorrise benevolmente. "Benissimo. Domani ti inizierò alla vita monastica dell'Ordine". E continuò con calma: "Sono felice che tu abbia persistito nel desiderio di diventare un monaco. Lahiri Mahasaya diceva spesso: 'Se non invitate Dio a esser vostro Ospite nell'estate, Egli non verrà a voi nell'inverno della vita'". "Mio caro Maestro, mai potevo venir meno alla mèta prescelta di far parte, come voi, dell'Ordine degli Swami". E gli sorrisi con affetto infinito. "Colui che è celibe prende cura delle cose che appartengono al Signore, per esser gradito al Signore; ma colui che è sposato prende cura delle cose del mondo per esser gradito alla moglie" (Nota: Lettera ai Corinti, I, 7, 3233. Fine nota)- Avevo analizzato la vita di molti miei amici che, dopo essersi sottoposti a una certa disciplina spirituale, si erano in seguito sposati. Lanciati sul mare delle responsabilità terrene, avevano dimenticato la loro risoluzione di continuare a meditare profondamente. Concedere a Dio un posto di secondo piano nella vita era per me inconcepibile. (Nota: Chi offre a Dio un secondo posto, non Gli offre alcun posto", Ruskin. Fine nota). Egli è l'unico Padrone del cosmo, che in silenzio colma l'uomo dei Suoi doni di vita in vita. V'è un solo dono che l'uomo possa offrirgli in cambio, e che ogni cuore umano ha la facoltà di negare o di concedere: l'amore. Il Creatore che si è dato tanta pena per ricoprire di mistero la Sua Presenza in ogni atomo della creazione, ha potuto essere spinto a ciò da un'unica ragione: il delicato desiderio che gli esseri umani Lo cerchino solo per loro libera volontà. Con quale guanto vellutato di umiltà Egli ha ricoperto la ferrea mano dell'Onnipotenza!
Il giorno seguente fu uno dei più memorabili della mia vita. Era un giovedì pieno di sole del luglio 1914, qualche settimana dopo la mia laurea. Sulla balconata interna del suo eremitaggio di Serampore, il Maestro immerse una pezza nuova di seta bianca in una tinta ocra, il colore tradizionale dell'Ordine degli Swami. Appena asciugata la seta, il mio Guru me la drappeggiò addosso quale veste del rinunciante. "Un giorno andrai in Occidente, dove si preferisce la seta", disse. "Come simbolo ho scelto per te questa stoffa di seta invece del solito cotone". In India, dove i monaci abbracciano l'ideale della povertà, uno swami vestito di seta è cosa insolita. Molti yoghi però indossano vesti di seta, perché essa isola alcune sottili correnti corporee meglio del cotone. "Sono contrario alle cerimonie", osservò Sri Yukteswar. "Ti consacrerò swami nella forma bidwat (senza cerimonie)". La bibidisa, o elaborata iniziazione all'Oriente, comporta una cerimonia del fuoco durante la quale si svolgono simbolici riti funebri. Il corpo fisico del discepolo viene rappresentato come morto, cremato nella fiamma della saggezza. Al nuovo swami viene quindi dato un mantra, come per esempio: 'Questo atma è Brahma' (Nota: Letteralmente: "Quest'anima è Spirito". Lo Spirito Supremo, l'Increato, è completamente incondizionato (neti neti, non questo, non quello), ma spesso vi si riferisce nei Vedanta come Sat-ChitAnanda, e cioè come Essere, Intelligenza, Estasi. Fine nota). oppure: 'Tu sei Quello' o 'Io sono Lui'. Ma Sri Yukteswar, che amava la semplicità, fece a meno di tutti questi riti formali e mi chiese solamente di scegliere il mio nuovo nome. "Ti concederò il privilegio di sceglierlo da te", disse sorridendo. "Yogananda" (Nota: Yogananda è un nome abbastanza comune tra gli swami. Fine nota), risposi dopo un momento di riflessione. Il nome letteralmente significa: estasi (ananda) attraverso la divina unione (yoga). "Così sia. Abbandonando il tuo nome di famiglia Mukunda Lal Ghosh, d'ora in poi sarai chiamato Yogananda del ramo Giri dell'Ordine degli Swami". Mentre ero inginocchiato dinanzi a Sri Yukteswar, e per la prima volta gli udivo pronunciare il mio nuovo nome, il mio cuore traboccava di gratitudine. Con quanto infaticabile amore egli aveva lavorato affinché il ragazzo Mukunda potesse un giorno trasformarsi nel monaco Yogananda! Con gioia cantai alcuni versi di un lungo cantico sanscrito di Shankara: (Nota: Riorganizzatore nel IX secolo dell'antico ordine degli Swami, Shankaracharya (Shankara) fondò quattro grandi math (monasteri), i cui capi in successione apostolica portano il titolo di Jagadguru Shankaracharya. Jagadguru significa "Maestro del mondo".
Sua Santità Jagadguru Shankarachrya Bharati Krishna Tirtha (18761960), capo dello storico Math Gowardhan a Puri fondato dal primo Shankaracharya, visitò l'America nel 1958. La Self-Realization Fellowship ebbe l'onore di farsi mallevadore di quella visita durata tre mesi. Fu questa la prima volta nella storia dell'antico Ordine degli Swami che uno degli Shankaracharya visitò l'Occidente. Il Jagadguru, che aveva allora ottantadue anni fu invitato a parlare in quasi tutte le principali Università d'America. All'Università di Washington e Lee a Lexington, Virginia, Sua Santità tenne il 26 marzo 1958 una pubblica discussione con lo storico britannico dottor Arnold J. Toynbee, sul soggetto della pace mondiale. Quattordici mesi dopo, in India, Sri Shankaracharya iniziò all'Ordine degli Swami due monaci dell'YSS-SRF. Il famoso capo religioso celebrò la cerimonia nel Samadhi Mandir (tempio-mausoleo) dello Swami Sri Yukteswar sulla proprietà dell'ashram Yogoda Satsanga a Puri (N.d.T). Fine nota). Non mente, né sensi, né ego io son, Cielo o terra, o metalli non son: Sono Lui, sono Lui, Beato Spirito, io son Lui! Non nascita o morte né casta io ho; Padre o madre io non ho; Sono Lui, sono Lui, Beato Spirito, io son Lui! Al di là dei voli della fantasia, senza forma, Io sono Permeate le membra d'ogni vita. Non temo legami; son libero per sempre. Sono Lui, sono Lui, Beato Spirito, io son Lui! Ogni Swami appartiene all'Ordine monastico onorato in India da tempi antichissimi. Riorganizzato nella sua forma presente secoli or sono da Shankaracharya, ebbe a capo, da allora, una linea ininterrotta di santi maestri, di cui ogni successivo porta il titolo di Jagadguru Sri Shankaracharya (Nota: Shankara è spesso chiamato Shankaracharya; acharya significa insegnante religioso. L'epoca in cui visse Shankara è oggetto di dispute scolastiche. Alcuni dati indicherebbero che l'incomparabile monista sia vissuto nel sesto secolo a.C. Alcuni storici occidentali invece pongono Shankara nel tardo VIII secolo d.C. Un'affinità valevole per molte epoche! Fine nota). Molti monaci, forse un milione, formano l'Ordine degli Swami; per entrarvi essi devono ricevere l'iniziazione da uomini che siano pur essi Swami. Tutti i monaci dell'Ordine degli Swami risalgono così spiritualmente a un guru comune, Adi ("il primo")
Shankaracharya. Essi prendono i voti di povertà (non-attaccamento al possesso), castità e obbedienza al capo, ossia all'autorità spirituale. Sotto molti aspetti, gli Ordini monastici cattolici assomigliano all'antico Ordine degli Swami. In aggiunta al nuovo nome, lo swami assume un titolo che indica la sua appartenenza ufficiale a uno dei dieci rami dell'Ordine. Questi dasanami, le dieci denominazioni, comprendono il Giri (pron. 'Ghiri') (montagna), a cui Sri Yukteswar, e ora anch'io, apparteniamo. Fra gli altri rami vi sono: il Sagar (mare), Bharati (terra), Aranya (foresta), Puri (regione), Tirtha (luogo di pellegrinaggio), e Saraswati (saggezza della Natura). Il nome monastico di uno swami, che in genere termina in ananda (estasi suprema), rappresenta la sua aspirazione a raggiungere l'emancipazione per mezzo di un particolare sentiero, stato o qualità divina: amore, saggezza, discernimento, devozione, dedizione, yoga. Il suo secondo nome indica l'armonia interiore con la natura, espressa nella vastità infinita dei suoi oceani, delle sue montagne, dei suoi cieli. L'ideale di servire con abnegazione tutta l'umanità, rinunziando a qualsiasi ambizione e vincolo personale, induce la maggioranza degli swami a impegnarsi attivamente in lavori umanitari e educativi, in India e talvolta anche in paesi stranieri. Mettendo da parte ogni pregiudizio di casta, fede, classe, colore, sesso, razza, uno swami segue i precetti dell'umana fratellanza. Il suo scopo è l'unione assoluta con lo Spirito. Imbevendo la propria coscienza, nel sonno e nella veglia, del pensiero: 'io sono Lui', egli gira contento per il mondo ma non appartiene al mondo. Solo in questo modo egli può giustificare il suo titolo di swami, e cioè: colui che cerca di raggiungere l'unione con lo Swa, o Sé. E' inutile dire che non tutti gli swami consacrati riescono in egual modo a raggiungere la loro alta meta. Sri Yukteswar era swami e yoghi insieme. Uno swami, ufficialmente un monaco per la sua dipendenza dall'antico Ordine, non è sempre uno yoghi. Chiunque pratichi una tecnica scientifica per giungere al contatto con Dio, è uno yoghi; egli può essere coniugato o scapolo, un uomo che abbia responsabilità materiali o che abbia contratto formali vincoli religiosi. Uno swami potrebbe anche seguire unicamente un sentiero di ragionamento e di fredda rinunzia; ma uno yoghi s'impegna, passo per passo, in una disciplina progressiva ben definita, mediante la quale il corpo e la mente vengono dominati e l'anima è resa libera. Non accettando nulla per certo sulla sola base di ragioni emotive o fideistiche, uno yoghi pratica una serie di esercizi ben sperimentati, che furono descritti per la prima volta dagli antichi rishi.
In ogni epoca, la disciplina yoga ha prodotto in India uomini divenuti realmente liberi: dei veri Yoghi-Cristo. Come qualunque altra scienza, così lo yoga può essere seguito da persone d'ogni età e paese. La teoria sostenuta da alcuni scrittori ignoranti, che lo yoga, cioè, sia una disciplina "inadatta agli Occidentali", è completamente falsa, e ha purtroppo impedito a molti cercatori sinceri d'usufruire delle sue molteplici benedizioni. Lo yoga è un metodo per frenare la naturale turbolenza dei pensieri, che altrimenti impediscono imparzialmente, ad ogni uomo d'ogni paese, di scorgere la propria vera natura spirituale. Come la luce risanatrice del sole, lo yoga è egualmente benefico per gli uomini d'Oriente e d'Occidente. I pensieri della grande maggioranza delle persone sono capricciosi e inquieti, ed esiste ovunque un palese bisogno di yoga: la scienza del controllo della mente. L'antico rishi Patanjali (Nota: L'epoca in cui visse Patanjali è ignota, sebbene molti studiosi la pongano nel II secolo a.C. I rishi compilarono trattati su un gran numero d'argomenti con una tale chiaroveggenza che i secoli non hanno potuto invecchiarli; eppure, con grande costernazione degli storici, quei saggi non si sono affatto preoccupati di fornire date e di imprimere alle loro opere letterarie il marchio della loro personalità. Essi sapevano che la breve spanna della loro vita non aveva importanza, se non temporanea come sprazzo della Vita Infinita, e che la verità e al di là del tempo e non richiede brevetti né attestati di proprietà. Fine nota), definisce lo yoga quale "neutralizzazione delle onde alterne della coscienza" (Nota: "Chitta vritti nirodha" (Yoga Sutra, I, 2), che si può anche tradurre in "cessazione delle modificazioni della sostanza mentale". Chitta (pron. Citta) è un termine vasto indicante il principio del pensiero, che comprende in sé le forze vitali praniche, manas (la mente o coscienza sensoria), ahamkara (il principio dell'ego) e buddhi (l'intelligenza intuitiva). Vritti (letteralmente: mulinello) si riferisce alle onde del pensiero e delle emozioni che incessantemente sorgono e si placano nella coscienza umana. Nirodha significa neutralizzazione, cessazione, controllo. Fine nota). La sua breve e magistrale opera, gli Yoga Sutra (conosciuti anche sotto il nome di Aforismi di Patanjali) formano uno dei sei sistemi della filosofia indù (Nota: I sei sistemi ortodossi basati sui Veda sono: Sankhya, Yoga, Vedanta, Mimamsa, Nyaya e Vaisesika. I lettori che tendono a tali studi gioiranno delle sottigliezze e delle vaste vedute di questi antichi scritti raccolti in inglese in A. History of Indian Philosophy, vol. I, del professor Surendranath Das Gupta (Cambridge University Press, 1922). Fine nota).
Contrariamente alle filosofie occidentali, tutti i sei sistemi indù contengono insegnamenti non solo teorici, ma anche pratici. Oltre ad ogni concepibile ricerca ontologica, i sei sistemi formulano sei discipline ben definite che mirano alla rimozione perenne d'ogni sofferenza e al raggiungimento di un'estasi senza fine. Le più tardive Upanishad sostengono che fra i sei sistemi, gli Yoga Sutra contengono i metodi più efficaci per raggiungere la percezione diretta della verità. Attraverso la pratica delle tecniche yoga, l'uomo lascia per sempre dietro di sé gli sterili campi della speculazione e perviene a conoscere per esperienza diretta, la vera Essenza. Il sistema Yoga di Patanjiali è conosciuto quale 'Sentiero dagli Otto Passi' (Nota: Da non confondersi con il "Nobile Ottuplo Sentiero" del buddhismo, una guida per la condotta dell'uomo nella vita e cioè: 1) giusto ideale, 2) giusto motivo, 3) giusta parola, 4) giusta azione, 5) giusto vivere, 6) giusto sforzo, 7) giusto ricordo (del Sé), 8) giusta realizzazione (samadhi). Fine nota). I primi due sono: 1) Yama, o condotta morale; 2) Niyama, osservanze religiose. I comandamenti di yama sono i seguenti: non recar danno agli altri, non mentire, non rubare, non essere incontinente, non accettare doni (che comportano obblighi), non desiderare la roba altrui. Le richieste di niyama invece sono: purezza del corpo e della mente, contentezza in ogni circostanza, autodisciplina, studio di se stessi (contemplazione), devozione a Dio e Guru. I successivi passi sono: 3) asana (o retta posizione): la colonna vertebrale deve esser tenuta diritta e il corpo fermo in una posizione comoda per la meditazione; 4) pranayama (controllo del prana, sottili correnti di vita); 5) pratyahara (ritirare i sensi dagli oggetti esteriori). Gli ultimi passi sono forme dello yoga vero e proprio: 6) dharana (concentrazione): mantenere la mente assorta in un unico pensiero; 7) dhyana (meditazione); 8) samadhi (esperienza della supercoscienza). Questo è l'Ottuplo Sentiero che porta alla mèta ultima del Kaivalya (Assoluto), in cui lo yoghi conosce la Verità al di là d'ogni concetto intellettuale. Ci si può chiedere: "Chi è più grande: uno swami o uno yoghi?". Quando viene raggiunta l'unità finale con Dio, la distinzione tra i vari sentieri scompare. Ma la Bhagavad Gita (pron. 'Ghita') rileva che i metodi della disciplina yoga abbracciano tutto. Le sue tecniche non riguardano soltanto alcuni tipi o temperamenti, come quei pochi individui che tendono alla vita monastica; lo yoga non richiede
un'obbedienza formale. Poiché la scienza yoga risponde a un bisogno universale, essa ha una sua naturale universalità di applicazione. Un vero Yoghi può rimanere nel mondo, ligio ai propri doveri; quivi egli permarrà integro come il burro nell'acqua, e non sarà come il latte, facilmente diluibile, dell'indisciplinata e grezza umanità. L'ottemperare alle proprie responsabilità terrene non separa l'uomo da Dio, purché lo yoghi mantenga un assoluto distacco dai desideri egoistici e assolva il suo compito da volenteroso strumento di Dio. Vi sono oggi molte grandi anime racchiuse in corpi americani, europei, o comunque non indù, che pur non avendo mai udite le parole yoghi e swami, sono esempi effettivi di tali termini. Col servire disinteressatamente l'umanità; col dominio sulle passioni e sui pensieri, con il loro amore offerto unicamente a Dio, o infine con il loro grande potere di concentrazione, essi sono in un certo senso degli yoghi; si sono cioè prefissi la mèta dello yoga: l'autocontrollo. Questi esseri umani potrebbero elevarsi ancor più se si insegnasse loro la ben definita scienza dello yoga, che permette di dare una direttiva più cosciente alla propria mente e alla propria vita. Lo yoga è stato interpretato male e in maniera superficiale da alcuni scrittori occidentali, ma i suoi critici non lo hanno mai praticato. Tra i molti profondi riconoscimenti dati allo yoga, si può citare quello del professor Jung, il famoso psicologo svizzero. "Quando un metodo religioso si raccomanda quale metodo 'scientifico', si può essere certi che troverà il suo pubblico in Occidente. Lo yoga risponde a questa aspettativa, scrive Jung (Nota: Jung partecipò al Congresso Indiano delle Scienze nel 1937 e ricevette una laurea ad honorem dall'Università di Calcutta. Fine nota). A prescindere dal fascino del nuovo e dell'attrazione esercitata da ciò che si comprende solo a metà, esistono ottime ragioni perché lo yoga abbia molti aderenti. Esso offre la possibilità di esperienze controllabili, e soddisfa in tal modo l'esigenza scientifica di fatti; oltre a ciò per la sua vastità e profondità, la sua età venerabile, la sua dottrina e il suo metodo che comprendono ogni fase della vita - esso offre impensate possibilità. "Ogni pratica religiosa o filosofica implica una disciplina psicologica, cioè un metodo d'igiene mentale. I vari procedimenti puramente fisici dello yoga (Nota: Jung si riferisce qui all'Hata Yoga, un ramo speciale di posizioni e tecniche fisiche per la salute e la longevità. L'Hata Yoga è utile e produce spettacolari risultati fisici, ma questo ramo dello yoga è poco usato dagli yoghi che tendono alla liberazione spirituale. Fine nota) corrispondono anch'essi a un'igiene fisiologica, superiore a quella
dei soliti esercizi di ginnastica e di respirazione, poiché essa non è solamente meccanica e scientifica, ma anche filosofica; esercitando le varie parti del corpo, essa le unisce a tutto l'insieme dello spirito, come risulta chiarissimo, per esempio, negli esercizi del pranayama, dove il prana rappresenta e il respiro e la dinamica universale del cosmo... "La pratica dello yoga... sarebbe inefficace senza i concetti su cui si basa lo yoga. Esso unisce la parte fisica a quella spirituale in modo assolutamente completo. "In Oriente dove tali idee e metodi hanno avuto origine e si sono evoluti, e dove un'ininterrotta tradizione di migliaia d'anni ha creato le basi spirituali necessarie, lo yoga - non stento a crederlo - è il metodo più perfetto e adatto per fondere insieme corpo e mente, onde formare un'unità indiscutibile. Questa unità crea una disposizione psicologica che rende possibili delle intuizioni che trascendono la coscienza". Si sta davvero avvicinando il giorno in cui l'Occidente troverà necessaria la scienza interiore dell'autocontrollo quanto la conquista esteriore della natura. La nuova era atomica vedrà la mente dell'uomo più sobria e più aperta, poiché avrà accolto l'ormai indiscutibile verità scientifica che la materia è, in realtà, un condensato di energie. Le forze più sottili della mente umana possono e debbono liberare energie maggiori di quelle racchiuse nelle pietre e nei metalli, affinché il gigante atomico della materia, spezzati ormai i freni, non riduca il mondo a un folle ammasso di rovine. Uno dei benefici indiretti che l'umanità trarrà dall'invenzione delle bombe atomiche, sarà probabilmente un accresciuto interesse pratico alla scienza dello yoga, che è veramente un rifugio "a prova di bomba". (Nota: I male informati parlano spesso dello yoga come di qualche pratica oscura e misteriosa di riti magici per acquistare poteri sbalorditivi. Tuttavia, quando gli studiosi parlano di yoga, essi intendono il sistema filosofico esposto da Patanjali negli Yoga Sutra. Questo trattato racchiude concetti filosofici di tale grandiosità, da aver suscitato i commenti di alcuni fra i più grandi pensatori dell'India, compreso l'illuminato Maestro Sadasivendra. In conformità con gli altri sistemi filosofici ortodossi (basati sui Veda), gli Yoga Sutra insistono sulla 'magia' della purezza morale (i "dieci comandamenti" di yama e niyama) quale primo e indispensabile passo per una seria indagine filosofica. Questo requisito personale, sul quale l'Occidente non insiste, conferì alle sei discipline indù una vitalità duratura. L'ordine cosmico (rita) che sostiene l'universo non differisce dall'ordine morale che governa i destini dell'uomo. Chi è restio a seguire i precetti morali universali non è seriamente deciso a perseguire la verità. La Sezione III degli Yoga Sutra dà una rassegna di vari
poteri miracolosi (vibhuti e siddhi) che accompagnano la realizzazione yoghica. Il vero Sapere è sempre Potere. Il sentiero yoga si suddivide in quattro gradi, ognuno dei quali ha una propria espressione vibhuti. Quando si trova in possesso di un determinato potere, lo yoghi sa di aver superato le prove di uno dei quattro gradi. L'emergere dei poteri caratteristici è l'evidenza della natura scientifica del sistema yoga, dove sono bandite le immaginazioni illusorie del proprio "progresso spirituale", occorrono le prove! Patanjali avverte i devoti che la sola e unica mèta deve essere l'unione con lo Spirito e non il possesso di vibhuti o siddhi, che sono soltanto i fiori che incidentalmente si incontrano sul santo cammino. Si ricerchi il Donatore Eterno e non i Suoi doni fenomenali! Dio non si rivela a chi, nella sua ricerca, si accontenta di conseguimenti inferiori. Perciò lo yoghi che lotta per avanzare sul suo cammino si guarda bene dall'esercitare i suoi straordinari poteri, affinché essi non suscitino in lui del falso orgoglio, impedendogli così di entrare nello stato finale della realizzazione, il Kaivalya. Quando uno yoghi ha raggiunto la Mèta Infinita, egli esercita o rifiuta di esercitare le vibhuti a piacimento. Ogni sua azione miracolosa o no, si compie allora libera da legami karmici. Le limature del ferro del karma vengono attratte solo dove esiste ancora la calamita personale dell'ego. Fine nota). Fine prima parte.
CAPITOLO XXV MIO FRATELLO ANANTA E MIA SORELLA NALINI. Ananta non può vivere; la sabbia del suo karma nella clessidra di questa vita è ormai esaurita. Queste inesorabili parole colpirono la mia coscienza interiore una mattina, mentre ero raccolto in profonda meditazione. Ero da poco tempo entrato a far parte dell'Ordine degli Swami, quando tornai al paese natio, Gorakhpur, per una breve visita, e fui ospite di Ananta, mio fratello maggiore. Una fulminea malattia lo aveva inchiodato a letto: lo curai con affetto. Il solenne verdetto mi calò nel dolore. Sentivo che non avrei tollerato di rimanere a Gorakhpur solo per vedere mio fratello spegnersi davanti al mio sguardo impotente. Fra le critiche incomprensive di tutti i miei parenti, lasciai l'India col primo piroscafo disponibile. Esso andava in Giappone passando per Burma e il Mar della Cina. Sbarcai a Kobe, dove trascorsi solo pochi giorni. Mi pesava troppo il cuore perché potessi fare dei giri turistici. Nel viaggio di ritorno, il piroscafo toccò Shangai. Là il dottor Misra, il medico di bordo, mi condusse in varie botteghe di curiosità locali, dove scelsi regali per Sri Yukteswar, per la mia famiglia e per gli amici. Per Ananta comprai un grosso oggetto di bambù scolpito. Appena il mercante cinese me lo porse, lo lasciai cadere esclamando: L'ho comperato per il mio caro fratello morto! Avevo a un tratto chiaramente avvertito che proprio in quel momento la sua anima si era librata nell'Infinito. Il ricordino che avevo acquistato per lui, nella caduta si era fortemente e simbolicamente incrinato. Singhiozzando, scrissi sul pezzo di bambù: Per il mio amato Ananta, ormai scomparso. Il dottore osservava quanto facevo con un sorriso sardonico. Risparmiate le vostre lacrime, mi disse, perché spargerle prima di esser certo che è morto? Quando il piroscafo giunse a Calcutta, il dottor Misra di nuovo mi si accompagnò. Al porto mi attendeva Bishnu, il mio fratello minore.
"So che Ananta ha abbandonato questa vita", dissi a Bishnu prima che avesse il tempo di pronunciare una sola parola. "Dimmi, ti prego, e dillo anche al dottore, quando è morto Ananta". Bishnu disse la data: era appunto quella del giorno in cui avevo acquistato il ricordino a Shangai. "Perbacco!" esclamò il dottor Misra. "Non dite una parola in giro di tutto questo! I professori aggiungerebbero un anno di studio sulla telepatia ai corsi di medicina, che son già lunghi abbastanza!". Quando entrai nella casa di Gurpar Road, mio padre mi abbracciò con effusione. "Sei venuto! mi disse teneramente, e due lacrime gli solcarono il viso. In genere molto riservato, non mi aveva mai dimostrato tali segni esteriori d'affetto. In apparenza padre severissimo, aveva il cuore tenero di una madre, e questa sua doppia parte era evidentissima in tutti i suoi rapporti con la famiglia. Subito dopo la morte di Ananta, Nalini, la minore delle mie sorelle, sfuggì alla morte per misericordia divina. Prima di raccontare questo fatto, narrerò alcuni particolari delle fasi precedenti della nostra vita. Durante l'infanzia, i rapporti fra Nalini e me non erano stati fra i migliori. Io ero magrissimo; ella ancor di più. Per un inconscio motivo o 'complesso' che gli psichiatri non avranno difficoltà a identificare, spesso prendevo in giro mia sorella per il suo aspetto cadaverico. Ella mi ribatteva con la cruda franchezza della prima gioventù. A volte nostra madre interveniva, mettendo temporaneamente fine ai nostri litigi con un lieve schiaffetto a me quale fratello maggiore. Finito che ebbe le scuole, Nalini venne fidanzata a un simpatico e giovane medico di Calcutta, Panchanon Bose. Mio padre gli dette una generosa dote (forse, mi affrettai a far rilevare a mia sorella, per ricompensare il futuro sposo dell'amaro destino che lo attendeva: quello di unirsi a una umana pertica da fagioli). A tempo opportuno si celebrarono i complessi riti matrimoniali. La sera delle nozze mi unii al numeroso e gaio gruppo di parenti nel soggiorno della nostra casa di Calcutta. Lo sposo si appoggiava a un grandissimo cuscino di broccato d'oro, con Nalini al fianco. Un ricchissimo sari (Nota: la graziosa veste drappeggiata delle donne indiane. Fine nota) di seta purpurea non poteva, ahimè, nascondere completamente l'angolosità della sposa. Mi rifugiai dietro il cuscino di mio cognato e gli feci una smorfia amichevole. Egli non aveva mai visto Nalini
fino al giorno della cerimonia nuziale, quando alla fine seppe ciò che gli era toccato nella lotteria del matrimonio. Sentendo la mia simpatia, il dottor Bose, indicando senza farsi scorgere da Nalini, mi bisbigliò in un orecchio: "Dimmi ma cos'è questo?". "Ma dottore", gli risposi, "è uno scheletro adattissimo per i vostri studi!" Convulsi dal ridere, mio cognato e io riuscimmo a stento a mantenere una certa dignità dinanzi all'assemblea dei parenti. Negli anni che seguirono, il dottor Bose si affezionò sempre più alla nostra famiglia, che lo chiamava per ogni anche lieve indisposizione. Diventammo grandi amici, spesso scherzavamo insieme, facendo quasi sempre di Nalini il nostro bersaglio. "E' una curiosità medica", mi disse un giorno mio cognato. "Ho tentato di tutto sulla tua magra sorella: olio di fegato di merluzzo, burro, malto, miele, pesce, carne, uova, tonici. Eppure non riesce a sporgere da nessuna parte, neppure di un centesimo di millimetro". Ridemmo entrambi. Dopo qualche giorno mi recai dai Bose. Non dovevo fermarmi più di qualche minuto e stavo già per andarmene, pensando che Nalini non si fosse neppure accorta di me. Giunto sulla porta d'entrata, udii la sua voce cordiale, ma imperiosa. "Fratello, vieni qua, non mi sfuggirai questa volta; ti voglio parlare". Risalii le scale e entrai nella sua stanza. Con mia grande sorpresa la trovai in lacrime. "Mio caro fratello, seppelliamo la vecchia ascia di guerra. Mi accorgo che i tuoi piedi sono ormai saldamente ancorati sul sentiero spirituale. Voglio diventare simile a te sotto tutti i rapporti". E aggiunse piena di fiducia: "Tu sei ora d'aspetto robusto, puoi aiutarmi? Mio marito non si accosta mai a me e io lo amo tanto! Ma desidero ancor più progredire nella realizzazione di Dio, sia pure a costo di restare magra e poco attraente". (Nota: Poiché in India molta gente è magra, l'esser discretamente grassi è considerata cosa desiderabilissima. Fine nota). Il mio cuore fu profondamente toccato dalle sue supplichevoli parole. La nostra nuova amicizia divenne sempre più cordiale, e un giorno ella mi chiese di divenire mia discepola. "Sottoponimi a qualsiasi disciplina tu voglia. Io pongo la mia fede in Dio e non nei tonici". Raccolse un mucchio di medicine e le gettò giù da uno scarico che si trovava fuori della finestra. Quale testimonianza della sua fede, le chiesi di eliminare dal suo vitto pesce, carne, uova.
Dopo vari mesi nei quali Nalini aveva scrupolosamente osservato le varie regole che le avevo imposte, e nonostante ogni difficoltà aveva seguito la dieta vegetariana che le avevo prescritta, andai a farle visita. "Sorellina, hai seguito con coscienza le ingiunzioni spirituali; la tua ricompensa è vicina". Sorrisi malizioso: "Quando vuoi essere grassa? Vuoi essere come nostra zia, che da anni non ha più visto i suoi piedi?". "No, ma desidero essere robusta come te". Le risposi solennemente: "Per grazia di Dio, come ho sempre detto la verità, così anche ora dico il vero. (Nota: Le Scritture indiane dichiarano che coloro che abitualmente dicono la verità, sviluppano il potere di materializzare le loro parole. Qualsiasi comando essi proferiscano dal cuore, diviene realtà nella vita. (Yoga Sutra, II, 36). Poiché sulla verità sono costruiti i mondi, le Scritture la esaltano come quella virtù per il cui mezzo qualsiasi uomo può porre la propria vita in sintonia con l'Infinito. Il Mahatma Gandhi usava dire: "La Verità è Dio"; lo sforzo di tutta la sua vita fu rivolto al conseguimento della verità perfetta nel pensiero, nella parola e negli atti. In ogni secolo, l'ideale di satya (verità) permeò la società indiana. Marco Polo racconta che i brahmini "non direbbero una bugia per nulla al mondo". Un giudice inglese che operò in India, William Sleeman, scrisse nel suo Viaggio attraverso l'Oudh, nel 1849-50: "Ho avuto dinanzi centinaia di casi in cui il patrimonio, la libertà e la vita di un uomo dipendevano da una bugia che avrebbe potuto dire, e che si rifiutò di proferire". Fine nota). Per divina benedizione, il tuo corpo da oggi in poi muterà completamente; in un mese raggiungerai lo stesso mio peso". Queste parole, che pronunciai dal fondo del cuore, furono esaudite. In trenta giorni il peso di Nalini raggiunse il mio. Le nuove rotondità le diedero bellezza, e il marito se ne innamorò profondamente. Il loro matrimonio, iniziatosi sotto cattivi auspici, divenne idealmente felice. Al mio ritorno dal Giappone, seppi che durante la mia assenza Nalini era stata colpita da febbre tifoidea. Corsi da lei e fui spaventato nel vederla ridotta a un puro scheletro. Era in coma. "Prima che la sua mente si annebbiasse per la malattia", mi raccontò mio cognato, "spesso diceva: - Se mio fratello Mukunda fosse qui non starei così male!". E con disperazione aggiunse: "Gli altri dottori e io stesso non abbiamo più speranza! Dopo la lunga lotta col tifo, adesso è sopraggiunta la dissenteria emorragica". Cominciai a smuovere cielo e terra con le mie preghiere. Chiamata un'infermiera anglo-indiana che cooperò appieno con me, applicai su mia sorella varie tecniche yoga di cura: la dissenteria emorragica scomparve.
Ma il dottor Bose continuava a scrollare il capo con tristezza: "Non ha più una sola goccia di sangue da perdere". "Guarirà", dissi con energia. "Fra sette giorni non avrà più febbre". Una settimana dopo provai un'intensa emozione nel vedere Nalini aprire gli occhi e fissarmi con affetto, riconoscendomi. Da quel giorno la sua guarigione proseguì rapidamente. Sebbene riprendesse il suo peso normale, la malattia quasi mortale le lasciò una grave conseguenza: la paralisi delle gambe. Specialisti inglesi e indiani dichiararono che non vi era nulla da sperare; sarebbe rimasta invalida per tutta la vita. L'incessante lotta che avevo combattuto per la sua vita, riscattandola con le preghiere, mi aveva esaurito. Andai a Serampore per chiedere aiuto a Sri Yukteswar. I suoi occhi espressero una profonda simpatia quando lo misi al corrente delle condizioni di Nalini. "Fra un mese le gambe di tua sorella saranno di nuovo normali". E aggiunse: "Fa' che porti sulla pelle una fascia con una perla di due carati, non perforata, tenuta da un fermaglio". Mi prostrai ai suoi piedi, gioiosamente sollevato. "Siete un Maestro, la vostra parola per la sua guarigione basta. Ma se insistete, cercherò immediatamente la perla". Il mio Guru annuì: "Si, fallo." E continuò descrivendo le caratteristiche fisiche e mentali di Nalini, che non aveva mai vista. "Signore", gli chiesi, "è un'analisi astrologica questa? Ignorate la data e l'ora della sua nascita". Sri Yukteswar sorrise. "Esiste un'astrologia più profonda, indipendente dalle testimonianze dei calendari e degli orologi. Ogni uomo è una parte del Creatore, o Uomo Cosmico; egli ha un corpo celestiale e uno terreno. L'occhio umano scorge la forma fisica, ma l'occhio interiore penetra più a fondo, sino al disegno universale di cui ogni uomo è parte integrante e individuale". Ritornai a Calcutta e acquistai una perla per Nalini. Un mese dopo le sue gambe paralizzate guarirono completamente. (Nota: Le perle e altri gioielli, come pure certe piante e metalli se applicati direttamente sulla pelle, esercitano un'azione elettromagnetica sulle cellule del corpo umano. Questo contiene carbonio e vari elementi minerali che si trovano anche nelle piante, nei metalli e nei gioielli. Le scoperte che i rishi fecero in questo campo verranno senza dubbio confermate un giorno dai fisiologi. Il corpo sensibile dell'uomo, con le sue correnti elettriche vitali, è un nucleo di molti misteri ancora da svelare.
Benché i gioielli e i braccialetti di metallo abbiano un valore curativo reale per il corpo umano, Sri Yukteswar aveva un'altra ragione per raccomandarli. I Maestri non desiderano mai di apparire come grandi guaritori. Dio solo è Colui che guarisce. I Santi perciò camuffano spesso in varie guise i poteri che hanno nelle cose tangibili; quando gli ammalati venivano dal mio Guru per farsi guarire, egli li consigliava di portare un bracciale o un gioiello per suscitare in essi la fede, e anche per stornare da sé la loro attenzione. I bracciali e i gioielli, oltre alle loro intrinseche potenzialità curative elettromagnetiche, portavano in sé la benedizione spirituale segreta del Maestro. Fine nota). Mia sorella mi chiese di esprimere al mio Guru tutta la sua gratitudine. Egli accolse il suo messaggio in silenzio, ma mentre stavo per accomiatarmi fece un commento che m'impressionò: "Molti medici hanno detto a tua sorella che non potrà mai avere bambini. Assicurala che fra qualche anno ella darà alla luce due figlie". Infatti qualche anno dopo, con sua grande gioia, Nalini ebbe una bambina, seguita dopo tre anni da un'altra.
CAPITOLO XXVI LA SCIENZA DEL KRIYA YOGA La scienza del Kriya Yoga, così spesso citata in queste pagine, è divenuta molto nota nell'India moderna ad opera di Lahiri Mahasaya, il Guru del mio Guru. La radice verbale sanscrita di Kriya è Kri, fare, agire, reagire; la stessa radice si trova nella parola Karma, il principio naturale di causaeffetto. Kriya Yoga perciò significa "unione" (yoga) con l'Infinito attraverso una data azione o rito (Kriya)". Uno yoghi che ne segua scrupolosamente la tecnica viene gradualmente liberato del Karma, la catena della legge di causa-effetto e delle sue azioni equilibranti. In obbedienza a certe antiche regole yoghiche, non posso dare una spiegazione completa del Kriya Yoga in un libro destinato al pubblico. La tecnica effettiva va imparata da un Kriyaban o Kriya-Yoghi autorizzato dalla SRF-YSS; qui dovrà bastare un ampio cenno. Il Kriya Yoga è un metodo semplice, psicofisico mediante il quale il sangue umano viene purificato dell'anidride carbonica e risaturato di ossigeno. Gli atomi di questo ossigeno in sovrappiù si tramutano in correnti di vita per ringiovanire il cervello e i centri spinali. Fermando l'accumularsi del sangue venoso, lo yoghi può diminuire o interrompere il logorio dei tessuti; uno yoghi molto progredito tramuta le sue cellule in pura energia. Elia, Gesù, Kabir e altri profeti antichi furono maestri nell'usare il Kriya o una tecnica simile, mediante la quale riuscivano a smaterializzare i loro corpi a volontà. Il Kriya è un'antica scienza. Lahiri Mahasaya la ricevette dal suo Guru Babaji, che ne riscoprì e delucidò la tecnica perdutasi nelle età oscure. Babaji la ribattezzò semplicemente Kriya Yoga. "Il Kriya Yoga che attraverso te io do al mondo in questo diciannovesimo secolo", disse Babaji a Lahiri Mahasaya, "è la stessa scienza, riesumata, che Krishna diede migliaia d'anni fa ad Arjuna, e che in seguito fu conosciuta da Patanjali e Cristo, da San Giovanni, San Paolo e da altri suoi discepoli". Krishna, il più grande profeta dell'India, si riferisce al Kriya Yoga in due versetti della Bhagavad Gita: "Immettendo respiro inalante nel respiro
esalante, e respiro esalante nel respiro inalante, lo yoghi neutralizza entrambi questi respiri; così egli sottrae prana al cuore e lo porta sotto il suo controllo" (Nota: Bhagavad Gita, IV, 29. Fine nota). Ciò s'interpreta nel modo seguente: Calmando l'attività dei polmoni e del cuore, lo yoghi arresta la decadenza del corpo, e arresta altresì le alterazioni di crescita nelle cellule mediante il controllo di apana (la corrente eliminatoria). Neutralizzando così il logorio e lo sviluppo, lo yoghi acquista il controllo della forza vitale. Un altro versetto della Gita dice: "Si rende libero in eterno quell'esperto di mediazione (muni) che, cercando la Mèta Suprema, è capace di ritrarsi dai fenomeni esterni fissando lo sguardo nel punto centrale fra le sopracciglia e neutralizzando le correnti uniformi di prana e di apana nelle narici e nei polmoni e di dominare la propria mente sensoria e l'intelletto, nonché di rendersi libero dai desideri, dal timore e dall'ira" (Nota: Ibidem, V. 26-27. Fine nota). Krishna riferisce anche (Nota: Ibidem, IV, 1-2. Fine nota) che fu lui, in una precedente incarnazione, a comunicare l'indistruttibile yoga a un antico illuminato, Vivasvat, che lo passò a Manu (Nota: Il preistorico autore dei Manava Dharma Shastra, o leggi di Manu. Questi istituti di tradizionale legge canonica sono in vigore in India ancora al giorno d'oggi. Fine nota). Questi a sua volta istruì Ikshwaku, fondatore della solare dinastia guerriera dell'India. Passando così dall'uno all'altro, lo yoga regale fu custodito dai rishi fino al sorgere dell'era materialistica (Nota: Secondo i calcoli delle Scritture indiane, l'inizio dell'epoca materialistica data dal 3102 a.C. quando principiò l'ultimo Dwapara Yuga discendente del Ciclo Equinoziale, e anche il principio del Kali Yuga del Ciclo Universale. Molti studiosi moderni, credendo che 10.000 anni fa tutti gli uomini fossero sprofondati in una barbara età della pietra, ripudiarono con leggerezza, tacciandole di 'miti', tutte le diffusissime tradizioni di civiltà antichissime come quelle della Lemuria, di Atlantide, dell'India, della Cina, dell'Egitto, del Messico e di molti altri paesi. Fine nota). Poi, per la segretezza dei sacerdoti e l'indifferenza degli uomini, la sacra sapienza divenne a poco a poco inaccessibile. Il Kriya Yoga è citato due volte dall'antico saggio Patanjali, principale esponente dello yoga, il quale scrisse: "Il Kriya Yoga consta di disciplina corporea, controllo mentale e meditazione sull'Aum (Om, Amen) (nota: Yoga Sutra (Aforismi) di Patanjali, II, 1. Usando le parole Kriya Yoga, Patanjali si riferiva, o alla tecnica esatta insegnata più tardi da Babaji, oppure a una molto simile. Che fosse una tecnica ben definita di controllo vitale è provato dall'Aforisma degli Yoga Sutra, II, 49. Fine nota). Patanjali parla di Dio come del reale suono cosmico Om che s'ode nella meditazione.
(Nota: Yoga Sutra (Aforismi) di Patanjali, 1, 27. Fine nota). Om è la parola Creativa, il suono del Motore Vibratorio, il testimone della Divina Presenza (Nota: Queste cose dice l'Amen, testimone fedele e verace, il principio della creazione di Dio". (Apocalisse, III, 14). "Nel principio era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta". (Giovanni I, 1-3). L'Om dei Veda divenne la sacra parola Amin dei Musulmani, l'Hum dei Tibetani e l'Amen degli Egizi, Greci, Ebrei, Romani e dei Cristiani. (Il suo significato in ebraico è : sicuro, fedele). Fine nota). Perfino colui che appena s'inizia allo yoga, spesso riesce ben presto a percepire nel suo intimo il suono meraviglioso dell'Om. Ricevendo questo sublime incoraggiamento spirituale, il devoto ha la sicurezza di essere realmente in rapporto con i reami divini. Patanjali si riferisce una seconda volta al controllo vitale, o tecnica Kriya, nel modo seguente: "La liberazione può essere raggiunta mediante quel pranayama a cui si arriva separando i processi dell'inspirazione e dell'espirazione" (Nota: Aforismi, II, 49. Fine nota). San Paolo conosceva il Kriya Yoga o una tecnica molto simile, con la quale poteva immettere o togliere le correnti vitali nei propri sensi. Per questo poteva dire: "Io muoio ogni giorno; sì, per la gloria di voi, ch'io ho in Cristo Gesù, Nostro Signore" (Nota: I, Ai Corinti, XV, 31. La traduzione corretta è di noi e non come viene tradotto abitualmente di voi, poiché san Paolo si riferiva all'universalità della Coscienza di Cristo. Fine nota). Con un metodo per accentrare nel proprio interno tutta la forza vitale corporea (che ordinariamente è diretta solo verso l'esterno, cioè verso il mondo dei sensi, conferendo in tal modo a quest'ultimo la sua apparente validità), San Paolo viveva giornalmente una vera unione yoghica con la "gloria" (beatitudine) della Coscienza Cristica. In questo stato di felicità egli era conscio d'essere morto all'inganno sensorio di maya. Nel primo stadio della divina unione (sabikalpa samadhi), la coscienza del devoto si immerge nello Spirito Cosmico; la sua forza vitale è sottratta al corpo che appare "morto", cioè immobile e rigido. Lo yoghi è pienamente conscio del suo stato di animazione sospesa del corpo. Progredendo però verso più alti stadi spirituali (nirbikalpa samadhi) egli comunica con Dio senza la fissità del corpo e mantenendo desta la sua coscienza normale, anche nel mezzo delle attività e delle mansioni terrene (Nota: La parola sanscrita bikalpa significa 'differenza, non-identità'; sabikalpa è lo stato del samadhi 'con differenza', mentre nirbikalpa è lo stato
'senza differenza'. Ciò vuol dire che nel sabikalpa samadhi egli realizza in modo perfetto la sua identità con lo Spirito. Fine nota). "Il Kryia Yoga è uno strumento mediante il quale l'evoluzione umana può essere affrettata", spiegava Sri Yukteswar ai suoi allievi. "Gli antichi yoghi scoprirono che il segreto della Coscienza Cosmica è intimamente legato alla padronanza del respiro. Questo è il contributo impareggiabile e immortale che l'India ha apportato al patrimonio di conoscenze del mondo. La forza vitale, che normalmente viene assorbita dal compito di sostenere il pulsare del cuore, deve essere liberata per svolgere attività più elevate, con l'aiuto di un metodo per acquietare le incessanti esigenze del respiro". "Il Kriya Yoghi dirige mentalmente la propria energia vitale, facendola rotare in su e in giù, attorno ai sei centri spinali (i plessi midollare, cervicale, dorsale, lombare, sacrale e coccigeo) che corrispondono ai dodici segni astrali dello Zodiaco, il simbolico Uomo Cosmico. Mezzo minuto di rivoluzione dell'energia intorno alla spina dorsale dell'uomo determina sottili progressi nella sua evoluzione; quel mezzo minuto di Kriya equivale a un anno di naturale sviluppo spirituale. Il sistema astrale di un essere umano, con sei (dodici a causa della polarità) costellazioni interiori che girano intorno al sole dell'onnisciente occhio spirituale, è in rapporto col sole fisico e con i dodici segni dello zodiaco. Tutti gli esseri umani subiscono così l'influenza di un universo interiore e di un posteriore. Gli antichi rishi scoprirono che l'ambiente terreno e quello celeste dell'uomo lo sospingono innanzi in cicli di dodici anni sul suo naturale sentiero. Le Scritture dicono che all'uomo occorre un milione d'anni di evoluzione normale esente da malattie per perfezionare il suo cervello somatico in modo tale da poter esprimere la Coscienza Cosmica. Mille Kriya eseguiti in otto ore e mezzo danno allo yoghi in un sol giorno, l'equivalente di mille anni di evoluzione naturale; 365.000 anni di evoluzione in un anno. In tre anni, un Kriya Yoghi può così ottenere, con un proprio intelligente sforzo, lo stesso risultato che la natura concede in un milione d'anni. S'intende che la scorciatoia del Kriya può essere presa solamente da yoghi profondamente evoluti. Con la guida di un guru, tali chela hanno accuratamente preparato il loro corpo e la loro mente per poter sopportare l'enorme potenza generata dalla pratica intensiva di questa tecnica. Il principiante Kriya Yoghi esegue il suo esercizio solo da quattordici a ventiquattro volte, due volte al giorno. Alcuni yoghi giungono alla liberazione in sei, dodici, ventiquattro o quarantotto anni. Uno yoghi che muore prima di aver raggiunto la piena realizzazione, porta con sé il buon
Karma del suo precedente sforzo Kriya; nella nuova vita egli sarà sospinto verso la Mèta Infinita. Il corpo dell'uomo comune è come una lampada da cinquanta watt, che non può sostenere i miliardi di watt di energia suscitati da una eccessiva pratica del Kriya. Mediante un aumento graduale e regolare del semplice e "comprovato" metodo del Kriya, il corpo umano si trasforma astralmente giorno per giorno, e alla fine è capace di sostenere quel potenziale infinito di energia cosmica che costituisce la prima espressione materialmente attiva dello Spirito. Il Kriya Yoga non ha nulla in comune con gli ascientifici esercizi di respirazione insegnati da alcuni zelanti male informati. I tentativi di trattenere per forza il fiato nei polmoni sono contro natura, e inoltre decisamente spiacevoli. Il Kriya invece è accompagnato fin dall'inizio da un senso di pace ritemprante, e dà sensazioni calmanti nella spina dorsale, che producono un effetto rigenerante. Questa antica tecnica yoghica trasforma il respiro in sostanza mentale. Con l'evoluzione spirituale si diviene capaci di conoscere il respiro quale atto mentale: un respiro di sogno. Si potrebbero dare numerosi esempi del rapporto matematico tra il ritmo respiratorio di un essere umano e le variazioni dei suoi stati di coscienza. Una persona la cui attenzione è completamente assorbita da qualche intricato argomento intellettuale, o da qualche delicato o difficile atto fisico, automaticamente respira con molta lentezza. La fissità dell'attenzione si unisce alla lentezza del respiro; una respirazione accelerata o irregolare inevitabilmente accompagna stati emotivi dannosi come la paura, la lussuria, la collera. La scimmia irrequieta respira trentadue volte al minuto. L'elefante, la tartaruga, la serpe e altri animali noti per la loro longevità hanno un ritmo respiratorio più lento di quello dell'uomo. La tartaruga gigante, per esempio, che vive fino ai 300 anni, respira solo quattro volte al minuto. Gli effetti ristoratori del sonno sono dovuti al fatto che l'uomo perde temporaneamente la coscienza del proprio corpo e della respirazione. L'uomo che dorme diventa uno yoghi; ogni notte egli compie inconsciamente il rito yoga di liberarsi dall'identificazione col proprio corpo, e di fondere la forza vitale con le correnti risanatrici nella regione principale del cervello e nelle sei sotto-dinamo dei centri spinali. Il dormiente attinge in tal modo, senza saperlo, al serbatoio di energia cosmica che alimenta tutta la vita.
Lo yoghi volontario attua un processo semplice e naturale in modo cosciente, invece che inconsciamente come fa colui che dorme. Il Kriya Yoghi usa la sua tecnica per saturare e alimentare tutte le cellule del suo corpo con una luce immortale, serbandole così spiritualmente magnetizzate. Scientificamente, egli rende inutile il respiro senza tuttavia entrare, durante la pratica, negli stati negativi del sonno, dell'incoscienza o della morte. Negli uomini soggetti a maya, la legge naturale, il flusso dell'energia vitale è diretto verso il mondo esterno; le correnti vengono sprecate e male utilizzate nei sensi. La pratica del Kriya inverte la direzione del loro fluire; la forza vitale viene mentalmente ricondotta verso il cosmo interiore e si riunisce alle sottili energie spinali. Con tale rafforzamento della forza vitale, il corpo e le cellule cerebrali dello yoghi vengono rinnovati da un elisir spirituale. Il cibo adatto, la luce solare e i pensieri armoniosi produrranno l'autorealizzazione nell'uomo che sottostà unicamente alle leggi della Natura e del suo piano divino, solo in un milione d'anni. Occorrono dodici anni di normale vita sana per produrre anche il più lieve affinamento percettibile nella struttura cerebrale, e si richiedono un milione di cicli solari per affinare la struttura cerebrale in modo che possa esprimere la coscienza cosmica. Un Kriya Yoghi può tuttavia sottrarsi, per mezzo di una scienza spirituale, alla necessità di un lungo periodo di scrupolosa osservanza delle leggi naturali. Sciogliendo il legame del respiro che incatena l'anima al corpo, il Kriya prolunga la vita e allarga la coscienza all'infinito. La tecnica yoga supera l'eterna lotta esistente fra la mente e i sensi legati alla materia, e rende il devoto libero di rientrare in possesso della sua eredità del regno eterno. Egli riconosce allora che il suo vero essere non è incatenato né all'involucro fisico, né al respiro, simbolo dell'asservimento dei mortali all'aria, alle coercizioni elementari della natura. Padrone della mente e del corpo, il Kriya Yoghi consegue alla fine la vittoria sull'"ultimo nemico": la Morte (Nota: "Ultimo nemico sarà annientata la morte" (Ai Corinti, I, 15, 26). L'incorruttibilità del corpo di Paramahansa Yogananda dopo la morte (v. nota sul suo mahasamadhi) sta a dimostrare ch'egli era un perfetto Kriya Yoghi. Tuttavia non tutti i grandi Maestri manifestano dopo la morte l'incorruttibilità del corpo. Le Scritture indù ci informano che tali miracoli avvengono soltanto per un determinato fine. Nel caso di Paramahansa Yogananda il 'determinato fine' era certamente quello di convincere l'Occidente del valore dello yoga.
Babaji e Sri Yukteswar avevano ingiunto a Yoganandaji di servire l'Occidente; Paramahansa compì la sua missione nella vita e nella morte. (N.d.E.) Fine nota). Così ti nutrirai di morte, che d'uomini si ciba; E, morta la Morte, non vi sarà più il morire. (Nota: Shakespeare, Sonetto 146. Fine nota). L'introspezione, lo "stare nel silenzio", è una maniera ascientifica di tentar di dividere la mente dai sensi, legati gli uni all'altra dalla forza vitale. La mente contemplativa che cerca di effettuare il suo ritorno alla divinità viene costantemente trascinata indietro verso i sensi dalle correnti vitali. Il Kriya, che controlla la mente direttamente attraverso la forza vitale, è la via più facile, efficace e scientifica per giungere all'Infinito. A differenza del lento e incerto "carro a buoi" della via teologica verso Dio, il Kriya Yoga può essere giustamente detto la "via aerea". La scienza yoga è basata sull'esame pratico di tutte le forme di esercizi di concentrazione e meditazione. Lo Yoga permette al devoto di inserire e interrompere a volontà la corrente vitale nei sensi, i cinque "telefoni" della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto. Avendo raggiunto questa facoltà di distacco dai sensi, lo yoghi troverà facile immergere l'anima a volontà nei reami divini o nel mondo della materia. Egli non è più costretto dalla forza vitale a rientrare suo malgrado nella sfera terrena delle sensazioni turbolente e dei pensieri irrequieti. La vita d'uno yoghi già progredito è influenzata non dagli effetti delle azioni passate, ma solo dalle direttive date dall'anima. Il devoto evita così la lenta azione evolutiva svolta dagli effetti delle azioni egoistiche, buone e cattive, della vita comune: educatori, questi, incomodi e tardi come lumache per chi ha il cuore d'aquila. Questo metodo superiore di vita dell'anima rende libero lo yoghi, il quale, svincolato dalla prigione dell'ego, respira l'aria libera dell'onnipresenza. La schiavitù della vita naturale segue, al confronto, un ritmo umiliante. Conformando la propria vita solo a un ordine di evoluzione naturale, l'uomo non può esigere dalla natura alcuna remissione di tempo; pur vivendo senza contravvenire alle leggi che governano le sue facoltà fisiche e mentali, egli avrà bisogno ancora per un milione d'anni circa, di prendere travestimenti vari reincarnandosi, prima di conoscere l'emancipazione finale. I metodi telescopici per mezzo dei quali uno yoghi si libera delle identificazioni fisiche e mentali a favore dell'individualità dell'anima, si addicono a chi si ribella alla prospettiva di attendere migliaia e migliaia d'anni. Questo panorama numerico si allarga ancora per l'uomo comune che
non vive in armonia né con la natura né con la propria anima, e insegue invece complessità innaturali, offendendo così nel corpo e nei pensieri la dolce sanità della natura. Per lui, due milioni d'anni saranno scarsamente sufficienti per condurlo alla liberazione L'uomo rozzo si rende conto solo raramente, e forse mai, che il suo corpo è un regno governato dall'Anima, Imperatrice assisa sul trono del cranio, la quale ha dei reggenti sussidiari nei sei centri spinali o sfere di coscienza. Questa teocrazia si estende su una folla di sudditi ubbidienti: ventisettemila miliardi di cellule munite di sicura, sebbene apparentemente automatica, intelligenza, mediante la quale esse assolvono tutti i loro compiti per lo sviluppo, la trasformazione e la dissoluzione del corpo, e cinquanta milioni di pensieri-base, di emozioni e variazioni di fasi che si alterano nella coscienza umana in una vita media di sessant'anni. Ogni apparente insurrezione delle cellule fisiche o mentali contro l'Anima Imperatrice, sotto forma di malattia o di depressione, non è dovuta a slealtà degli umili cittadini, ma all'uso inopportuno, passato o presente, che l'uomo fa della propria individualità, o del libero arbitrio, donatogli simultaneamente all'anima e mai più revocabile. Identificando se stesso con un ego superficiale, l'uomo ritiene per certo d'essere lui che pensa, vuole, sente, digerisce alimenti e si conserva vivo; non riflette mai (e di riflessione ne basterebbe poca!), che nella vita d'ogni giorno egli non è che un burattino manovrato dalle sue azioni passate (Karma), dalla natura e dall'ambiente. In ogni uomo, le reazioni intellettive, i sentimenti, gli stati d'animo e le abitudini sono il corollario di cause passate, da ricercarsi sia nella sua vita attuale, sia in quelle precedenti. Intoccabile, tuttavia e al di sopra di tali influenze sta la sua anima regale. Disdegnando le verità e libertà transitorie, il Kriya Yoghi trascende ogni disillusione per giungere al suo Essere finalmente libero. Tutte le Scritture dichiarano che l'uomo non è un corpo corruttibile ma un'anima immortale; nel Kriya egli possiede un metodo preciso per attestare la verità delle Scritture. "I riti esteriori non possono distruggere l'ignoranza, perché non sono in contrasto con essa" scrisse Shankara nel suo famoso Century of Verses. "Solo la conoscenza realizzata distrugge l'ignoranza... La conoscenza non può scaturire se non dalla ricerca. - Chi sono io? Come è nato questo universo, chi lo ha fatto? Qual è la sua causa materiale? - Questo è il genere di domande e di ricerche cui si allude". L'intelletto non ha risposte per tali quesiti; perciò i rishi svilupparono lo yoga quale tecnica di ricerca spirituale.
Il vero yoghi, negandosi integralmente - mente, volontà e sentimento alle false identificazioni coi desideri del corpo, unendo la propria mente alle forze supercoscienti nei sacrari spinali, vive in questo mondo come Dio ha stabilito, non costretto da impulsi del passato né dalle stoltezze di nuovi moventi umani. Un tale yoghi ha appagato il Desiderio Supremo ed è giunto sano e salvo al porto finale dell'inesauribile beato Spirito. Riferendosi alla sicura e metodica efficacia dello yoga, Krishna loda lo yoghi che pratica le tecniche, con le seguenti parole: "Lo yoghi è più grande degli asceti che si sottopongono alla disciplina corporea, più grande anche di coloro che seguono il sentiero della saggezza (Jnana Yoga), o il sentiero dell'azione (Karma Yoga): sii tu, o discepolo Arjuna, uno Yoghi" (Nota: La scienza moderna ha già iniziato la scoperta degli effetti curativi veramente straordinari che l'assenza del respiro ha sul corpo e sull'anima. Il dottor Alvan L. Barach dell'Università medico-chirurgica di Nuova York diede origine a una terapia locale di riposo polmonare che ha ridato la salute a molti sofferenti di tubercolosi. L'uso di una camera pneumatica a pressione equilibrante pone il paziente in grado di arrestare il respiro. Il New York Times del 1° febbraio 1947 parlò del dottor Barach come segue: "L'effetto della cessazione del respiro sul sistema nervoso centrale è di interesse considerevole. L'impulso a contrarre i muscoli volontari delle estremità è diminuito in misura assai evidente. Il paziente può stare sdraiato nella camera a pressione per delle ore senza muovere le mani o cambiar posizione. Il desiderio di fumare scompare cessando la respirazione volontaria, anche in pazienti abituati a fumare quotidianamente due pacchetti di sigarette. In molti casi il rilassamento è tale che il paziente non richiede alcuna occupazione o svago". Nel 1951 Barach confermò pubblicamente il valore della terapia che egli disse "non solo dà riposo ai polmoni ma al corpo intero e, a quanto pare, anche alla mente. Ad esempio il cuore trova il proprio lavoro diminuito di un terzo. Il soggetto cessa di preoccuparsi. Nessuno prova un senso di noia". Dal rapporto di cui sopra s'incomincia a capire come sia possibile agli yoghi di sedere immobili per lunghi periodi di tempo senza sentire il bisogno fisico o mentale di un'occupazione irrequieta. Solo attraverso la quiete, l'anima può ritrovare la sua strada che la condurrà a Dio. Benché gli uomini comuni debbano rimanere in una camera pneumatica per ottenere taluni benefici derivanti dalla cessazione del respiro, lo yoghi non abbisogna di nulla fuorché della tecnica Kriya, per essere ritemprato nel corpo, nella mente e nell'anima. Fine nota.) Il Kriya Yoga è il vero 'rito del fuoco' spesso esaltato nella Bhagavad Gita.
Lo yoghi getta le sue brame umane in un monoteistico falò dedicato all'impareggiabile Iddio: questa è la vera, yoghica cerimonia del fuoco; cerimonia in cui tutti i desideri presenti e passati sono combustibili che si consumano nel fuoco dell'amore divino. L'Ultima Fiamma accoglie il sacrificio di tutta l'umana follia, e l'uomo si libera così da ogni scoria. Scarnite metaforicamente le sue ossa dalla desiosa carne, sbiancato il suo scheletro karmico dall'antisettico sole della saggezza, alla fine egli è purificato, non più atto a offendere né l'uomo, né il Creatore.
CAPITOLO XXVII FONDO UNA SCUOLA YOGA A RANCHI "Perché sei contrario al lavoro organizzativo?" La domanda del maestro mi allarmò un poco. A quel tempo ero davvero convinto che le organizzazioni non fossero altro che 'nidi di vespe'. "E' un compito ingrato, signore", gli risposi. "Qualunque cosa faccia o non faccia, il capo viene sempre criticato". "Vuoi serbare tutto il channa (giuncata) divino per te solo?", ribatté il mio Guru con sguardo severo. "Potresti tu, o qualsiasi altra persona, giungere alla comunione con Dio attraverso lo yoga, se non vi fosse stata una catena di Maestri dal cuore generoso, disposti a impartire agli altri la loro saggezza?". E aggiunse: "Dio è il Miele, le organizzazioni sono le arnie; entrambi sono necessari. Certamente qualsiasi forma esteriore è inutile senza lo spirito; ma perché tu non dovresti organizzare degli alveari attivi, colmi di nettare spirituale?". Il suo consiglio m'impressionò profondamente. Pur non rispondendo in modo esplicito, sentii sorgere in me una risoluzione incrollabile; avrei condiviso con i miei simili, per quanto era mio potere, le verità liberatrici che avevo imparate ai piedi del mio Guru. "Signore", pregai, "possa il Tuo amore risplendere per sempre sul santuario della mia devozione, e possa io esser capace di risvegliare questo amore in tutti i cuori". In una circostanza precedente la mia entrata nell'Ordine monastico, Sri Yukteswar aveva fatto un'osservazione quanto mai inattesa: "Quanto ti mancherà, nella vecchiaia, la compagnia di una moglie!", aveva detto. "Non ti pare che l'uomo di famiglia, impegnato in un lavoro pratico per mantenere la moglie e i figli, compia un'azione meritevole agli occhi di Dio?". "Maestro", avevo protestato, in allarme, "voi sapete che in questa vita io desidero solo unirmi all'Amato Cosmico". Il Maestro aveva riso così allegramente, da farmi comprendere che la sua osservazione era stata fatta solo per mettermi alla prova.
"Ricorda" egli aveva detto lentamente, "che chi respinge da sé i comuni doveri terreni, può essere giustificato soltanto se si accolla delle responsabilità verso una famiglia assai più numerosa". L'ideale di poter dare ai giovani un'educazione completa era sempre stato assai caro al mio cuore. Vedevo chiaramente gli aridi risultati dell'educazione comune, che mira solo allo sviluppo del corpo e dell'intelletto. I valori morali e spirituali, senza i quali nessun uomo può avvicinarsi alla felicità, non erano ancora inclusi nei programmi ufficiali. Decisi dunque di fondare una scuola dove i giovinetti potessero divenire uomini completi. Iniziai la mia opera con sette ragazzi, a Dihika, un paesino del Bengala. L'anno seguente, nel 1918, grazie alla generosità di Sir Manindra Chandra Nundy, Maharaja di Kasimbazar, potei trasferire il mio gruppo che aumentava rapidamente, a Ranchi. Questa città del Bihar, a circa duecento miglia da Calcutta, è benedetta da un clima tra i più salubri dell'India. Il Palazzo di Kasimbazar, a Ranchi, divenne l'edificio principale della sede della nuova scuola che chiamai Yogoda Satsanga Brahmacharya Vidyalaya (Nota: Vidyalaya, scuola; Brahmacharya si riferisce qui a uno dei quattro stadi della vita dell'uomo secondo il piano dei Veda. Essi comprendono: 1) lo studente celibe (brahmachari); 2) il capo di casa con responsabilità terrene (grihastha); 3) l'eremita (vanaprastha); 4) l'abitatore della foresta o monaco errante, libero da ogni legame terreno (sannyasi). Questo schema ideale di vita, sebbene non sia largamente osservato nell'India moderna, ha ancora molti devoti seguaci. Si passa religiosamente attraverso i quattro stadi, sotto la perenne guida di un guru. Fine nota). Organizzai un programma sia di scuola elementare, sia di scuola superiore. L'insegnamento riguardava l'agricoltura, l'industria, il commercio e le materie accademiche. Seguendo gli ideali educativi dei rishi, i cui ashram nei boschi erano anticamente i luoghi d'insegnamento laico e religioso della gioventù indiana, disposi che la maggior parte delle lezioni venissero tenute all'aperto. Agli studenti di Ranchi si insegna la meditazione yoga e un sistema impareggiabile per la salute e lo sviluppo fisico, lo Yogoda, i cui principi avevo scoperto nel 1916. Accortomi che il corpo dell'uomo può essere paragonato a una batteria elettrica, pensai che esso poteva esser ricaricato di energia mediante l'azione diretta della volontà umana. Poiché nessun atto, semplice o importante, è possibile senza l'intervento della volontà, l'uomo può usufruire del suo
primo principio azionante, la volontà, per rinnovare le proprie forze senza fastidiosi apparecchi o esercizi meccanici. Con la mia semplice tecnica Yogoda è possibile ricaricarsi coscientemente e instantaneamente della forza vitale (accentrata nel midollo allungato dell'uomo), attingendo all'illimitata riserva di energia cosmica. I ragazzi rispondevano magnificamente a questo metodo educativo, sviluppando straordinarie capacità di trasferire l'energia vitale da una parte all'altra del corpo e di stare seduti in perfetto equilibrio in difficili asana (posizioni) (Nota: In seguito al crescente interesse dell'Occidente per gli asana (posizioni yoga benefiche alla salute), molti libri illustrati sono stati pubblicati su questo soggetto. Fine nota). Essi compivano imprese di forza e resistenza che pochi adulti vigorosi erano in grado di eguagliare. Il mio fratello più giovane, Bishnu Charan Ghosh, si iscrisse alla scuola di Ranchi, e in seguito divenne un eminente specialista di cultura fisica nel Bengala. Egli e un suo allievo viaggiarono in Europa e in America negli anni 1938-39, esibendosi in esercizi di forza e di controllo dei muscoli. I dotti professori della Columbia University a Nuova York e di molte altre università d'America e d'Europa rimasero sbalorditi dalle dimostrazioni del potere che la mente ha sul corpo. Alla fine del primo anno le domande di ammissione a Ranchi erano giunte a duemila. Ma la scuola, che a quei tempi era solo per studenti interni, poteva accoglierne solo un centinaio. Ben presto si aggiunsero dei corsi esterni. Nel Vidyalaya (scuola) dovevo fare ai bambini piccoli da padre e da madre, e affrontare molte difficoltà organizzative. Spesso rammentavo le parole del Cristo: "Io vi dico in verità che non vi è alcuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o moglie, o figliuoli, o campi, per amore di me e per amore dell'evangelo, il quale ora, in questo tempo non ne riceva cento volte tanto; case, fratelli, sorelle, madri, figliuoli, campi, insieme a persecuzioni; e nel mondo a venire, la vita eterna" (Nota: Marco, 10, 29-30. Fine nota). Sri Yukteswar aveva interpretato queste parole nel modo seguente: 'Il fedele che si priva dell'esperienza di vita del matrimonio e della famiglia, e baratta i problemi di una piccola casa da dirigere e di attività limitate con le più vaste responsabilità che comporta il servire la società in genere, si assume un compito che spesso è accompagnato da persecuzioni da parte di un mondo che non comprende. Ma tali più vaste immedesimazioni aiutano il devoto a superare l'egoismo e gli portano una divina ricompensa'.
Un giorno mio padre giunse a Ranchi per darmi la paterna benedizione che mi aveva a lungo negata, essendosi offeso del mio rifiuto di occupare il posto da lui offertomi nelle Ferrovie Bengala-Nagpur. "Figlio", mi disse, "mi sono ora riconciliato con la vita che hai scelto. Mi dà gioia vederti fra questi giovinetti felici e avidi di sapere; tu appartieni ad essi assai più che agli aridi numeri di una tabella ferroviaria". Agitò una mano verso un gruppo di una dozzina di piccoli che si affollavano alle mie calcagna. "Non ho avuto che otto figli", osservò ammiccando "ma ti posso comprendere appieno!". Con un grande frutteto e sei ettari di terreno fertilissimo messi a nostra disposizione, gli studenti, i maestri e io stesso passavamo molte ore piacevoli coltivando i giardini e eseguendo altri lavori all'aria aperta in quei luoghi incantevoli. Avevamo molti animali: cani, gatti, capre, mucche un giovane cervo, idolatrato dai bambini. Anch'io amavo tanto il cerbiatto che lo facevo dormire nella mia stanza. Alle luci dell'alba la bestiola trotterellava verso il mio letto per ricevere la carezza mattutina. Un giorno gli diedi da mangiare prima dell'ora solita, poiché dovevo recarmi in città per affari. Nonostante avessi avvertito i ragazzi di non dargli altro nutrimento fino al mio ritorno, uno di essi disubbidì e fece bere al cerbiatto una grande quantità di latte. Quando tornai la sera, tristi notizie mi attendevano: il cerbiatto stava per morire di indigestione. In lacrime, presi in grembo la bestiola che già sembrava senza vita, e implorai Dio di risparmiarla. Qualche ora dopo la creaturina riaprì gli occhi, si sollevò e cominciò lentamente a camminare. Tutta la scuola fece festa. Ma quella notte mi fu data una profonda lezione che non potrò mai dimenticare. Fino alle due del mattino vegliai col cerbiatto, poi mi addormentai. Esso mi apparve in sogno e mi disse: - Tu mi trattieni! Ti prego, lasciami andare! Lasciami andare! - Sta bene - gli risposi in sogno. Mi svegliai immediatamente e gridai: "Ragazzi, il cerbiatto muore". Tutti i bambini si precipitarono accanto a me. Corsi all'angolo della stanza dove avevo adagiato il piccolo. Esso compì un ultimo sforzo per sollevarsi, fece un passo barcollante verso di me, poi cadde ai miei piedi, morto. Secondo il karma collettivo che guida e regola il destino degli animali, la vita del cerbiatto era terminata ed esso era pronto a rinascere in una forma superiore. Ma per il mio profondo attaccamento, di cui in seguito riconobbi l'egoismo, e con le mie fervide preghiere, ero riuscito a trattenerlo ancora entro i limiti della forma animale nella quale la sua anima si dibatteva
agognando alla liberazione. L'anima del cerbiatto mi supplicò nel sogno, poiché senza il mio affettuoso consenso non avrebbe voluto, o potuto, andar via. Appena acconsentii, se ne andò. Non sentii più dolore; compresi una volta di più che Dio vuole che i Suoi figli amino tutte le cose come parte di Lui, e che non soggiacciano all'illusione che la morte sia la fine di tutto. L'uomo ignorante vede solo l'insormontabile muro della morte che nasconde in apparenza per sempre, coloro che ama. Ma l'uomo distaccato, colui che ama gli altri quali manifestazioni del Signore, comprende che al momento della morte coloro che gli sono cari non fanno che ritornare a Lui per un breve respiro di gioia. La scuola di Ranchi divenne, dopo i suoi modesti e semplici inizi, un'istituzione che ormai è ben nota nel Bihar e nel Bengala. Molte sezioni della scuola si sostengono con i contributi volontari di coloro che amano vedere perpetuati gli ideali educativi dei rishi. Sotto il nome comune di Yogoda Satsanga altre scuole fiorenti, che dipendono tutte da Ranchi, furono aperte a Midnapore, Lakshmanpur e Puri. La casa-madre di Ranchi ha una sezione medica, dove le medicine e l'assistenza medica vengono offerte gratuitamente ai poveri del luogo. La media annua delle persone curate raggiunge e supera i 18.000 casi. Il Vidyalaya ha anche brillantemente partecipato alle competizioni sportive indiane, e nel campo scolastico molti alunni di Ranchi si sono distinti in seguito nella vita universitaria. La scuola, (che col 1958 è entrata nella sua quarta decade) (Nota: N.d.E. Fine nota), è il centro di molte attività, ed è stata onorata della visita di uomini e donne illustri, sia orientali che occidentali. Una delle prime figure eminenti che ispezionarono il Vidyalaya nel suo primo anno di vita fu lo Swami Pranabananda, il santo di Benares "dai due corpi". Quando il grande maestro assistette alle suggestive lezioni all'aperto sotto gli alberi e la sera vide i ragazzi sedere immobili per delle ore in meditazione yoga, ne fu profondamente commosso. "La gioia m'inonda il cuore nel vedere che gli ideali di Lahiri Mahasaya per una giusta educazione della gioventù vengono messi in atto in questa istituzione", mi disse. "Le benedizioni del mio Guru la proteggano". Un ragazzo che mi sedeva accanto osò fare al grande Santo una domanda: "Signore, sarò io un monaco? Sarà la mia vita dedicata a Dio solo?". Nonostante Swami Pranabananda sorridesse gentilmente, i suoi occhi penetravano il futuro.
"Figliolo", rispose. "per quando sarai grande una bellissima sposa ti aspetta". Ed effettivamente il ragazzo si sposò, dopo aver progettato per anni di entrare nell'Ordine degli Swami. Poco dopo la visita dello swami Pranabananda a Ranchi, accompagnai mio padre a visitare lo yoghi nella casa di Calcutta dove egli alloggiava provvisoriamente. La predizione fattami da lui tanti anni prima mi balenò alla mente. "Ti vedrò più tardi con tuo padre". Quando mio padre entrò nella stanza del grande yoghi, questi si alzò dal suo sedile e lo abbracciò con affettuosa reverenza. "Bhagabati", esclamò, "che fai? Non vedi tuo figlio correre verso l'Infinito?". Arrossii sentendomi lodare dinanzi a mio padre. Lo Swami continuò: "Rammenti quante volte il nostro Guru benedetto diceva : - Banat, banat, ban iai - Pratica perciò senza tregua il Kriya Yoga e raggiungerai rapidamente le porte divine". (nota: Una delle frasi preferite di Lahiri Mahasaya che egli diceva per incoraggiare i suoi allievi alla perseveranza: "Facendo, facendo, un giorno fatto". Liberamente si potrebbe tradurre così: "Lottando, lottando, ecco un giorno raggiunta la Mèta Divina". Fine nota) Il corpo di Pranabananda, che mi era apparso così sano e forte nella mia prima emozionante visita a Benares, appariva ora decisamente invecchiato, sebbene il suo portamento fosse ancora ammirevolmente eretto. "Swamiji", gli chiesi guardandolo diritto negli occhi, "vi prego, ditemi la verità: non sentite che gli anni passano? Mentre il corpo si indebolisce, non diminuisce anche la vostra percezione di Dio?". Sorrise angelicamente: "Ora più che mai l'Amato è con me!". La sua assoluta certezza mi commosse mente e anima. Egli continuò: "Godo ancora delle due pensioni, l'una concessami da Bhagabati e l'altra dall'Alto". E puntando il dito verso il cielo, il Santo cadde per qualche tempo in estasi, il viso illuminato da un divino splendore. Era la più esauriente risposta alla mia domanda! Poiché m'ero accorto che la stanza di Pranabananda era piena di piante e di pacchi di semi, gliene chiesi il perché. "Ho lasciato per sempre Benares," mi disse, "e sto per avviarmi verso l'Himalaya. Là aprirò un ashram per i miei discepoli. Questi semi produrranno spinaci e qualche altro ortaggio. I miei cari vivranno semplicemente, trascorrendo il loro tempo nella felice unione con Dio. Null'altro è necessario". Mio padre chiese al suo condiscepolo quando sarebbe ritornato a Calcutta. "Mai più!", rispose il Santo. "Quest'anno è proprio quello in cui Lahiri Mahasaya predisse che avrei lasciato la mia cara Benares per sempre e sarei andato sull'Himalaya per abbandonare lì la mia spoglia mortale".
A tali parole gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ma lo Swami sorrise tranquillamente; mi sembrava un piccolo bambino celeste seduto fiduciosamente in grembo alla Madre Divina. Il peso degli anni non ha alcuna influenza negativa sulla piena padronanza dei supremi poteri spirituali di cui è munito un grande yoghi. Egli può rinnovare il proprio corpo a volontà; tuttavia talvolta egli non desidera ritardare il processo degli anni, ma lascia che il suo karma si consumi sul piano fisico, usando il suo presente corpo quale elemento accelerante, per evitare di dover smaltire degli ultimi frammenti di karma in una nuova incarnazione. Dopo alcuni mesi incontrai un vecchio amico, Sanandan, che era uno dei discepoli più stretti di Pranabananda. "Il mio adorabile Guru se n'è andato", mi disse fra i singhiozzi. "Fondò un eremitaggio vicino a Rishikesh, e là ci impartì amorevolmente il suo insegnamento. Quando fummo abbastanza ben sistemati e facevamo ormai con lui rapidi progressi spirituali, un giorno egli ci propose di dar da mangiare a un'enorme folla che veniva da Rishikesh. Gli chiesi perché desiderasse ospitare tanta gente. - Questa è la mia ultima cerimonia, - mi rispose. Non compresi appieno il significato delle sue parole. Pranabanandaji ci aiutò a cucinare enormi quantità di cibo. Servimmo più di duemila ospiti. Dopo la festa il Maestro sedette su un'alta piattaforma e pronunciò un ispirato sermone sull'Infinito. Poi, davanti a tutti i presenti, si rivolse a me che gli sedevo accanto e parlò con insolita forza: - Sanandan, preparati. Sto per dare il calcio alla mia forma (Nota: Ossia abbandonare il corpo. Fine nota). "Dopo un istante di sbalordito silenzio, urlai: - No, Maestro, non lo fate! Vi prego, vi prego, non fatelo! "La folla era ammutolita, perplessa alle mie parole. Pranabanandaji sorrise, ma il suo sguardo solenne era già fisso nell'Eternità: - Non essere egoista e non soffrire per me. Per molto tempo vi ho serviti tutti lietamente; adesso gioite e auguratemi buon viaggio. Vado a incontrare l'Amato Cosmico. - Poi aggiunse in un alito: - Presto rinascerò. Dopo aver gioito per un breve periodo dell'Estasi Infinita, ritornerò sulla terra, e mi unirò a Babaji. Ben presto saprai quando e dove la mia anima sarà racchiusa in un nuovo corpo". (Nota: Il Guru di Lahiri Mahasaya tuttora vivente - V. Cap. XXXIII. Fine nota). "Gridò ancora: - Sanandan, ecco che dò il calcio alla mia forma col secondo Kriya (Nota: Il secondo Kriya, insegnato da Lahiri Mahasaya, permette al devoto che se ne è reso padrone di abbandonare il corpo e tornarvi coscientemente, in qualsiasi istante. Gli yoghi progrediti usano la
tecnica del secondo Kriya durante l'ultima uscita dal corpo al momento del trapasso, momento che invariabilmente essi conoscono in precedenza. I grandi yoghi vanno "dentro e fuori" dall'occhio spirituale, la pratica stella, "porta" della salvezza. Il Cristo disse: "Io sono la porta. Chi entrerà per me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascoli. Il ladro (maya o illusione) non viene se non per rubare, uccidere e distruggere. Io (la Coscienza Cristica) sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano più abbondantemente" (Giovanni, 10, 9-10). Fine nota). "Lanciò uno sguardo a quel mare di visi che stavano dinanzi a noi, e ci benedì. Poi rivolse lo sguardo all'interno, all'occhio spirituale, e divenne immobile. Mentre la folla disorientata pensava che stesse meditando in estasi, egli aveva già lasciato il tabernacolo della carne e aveva immerso la sua anima nella vastità cosmica. I discepoli ne toccarono il corpo seduto nella posizione del Loto, ma esso non era più calda carne. Rimaneva solo una rigida spoglia, il cui abitante era fuggito verso la riva immortale". Quando Sanandan ebbe finito il suo racconto, pensai che la morte del benedetto Santo dai due corpi era stata spettacolare e drammatica come la sua vita. Chiesi dove Pranabananda dovesse rinascere. "Questo è un segreto sacro che non posso rivelare a nessuno", mi rispose Sanandan. "Forse potrai scoprirlo per altre vie". Molti anni dopo, infatti, seppi dallo Swami Keshabananda che Pranabananda, dopo la sua rinascita in un corpo nuovo, era andato a Badrinarayan nell'Himalaya e là si era unito al gruppo di Maestri adunati intorno al grande Babaji.
CAPITOLO XXVIII KASHI RINATO E RITROVATO "Per piacere, non andate nell'acqua. Se vogliamo fare il bagno, attingiamo l'acqua con i secchi", dicevo ai giovani di Ranchi che mi accompagnavano in una gita di otto miglia a un vicino colle. Lo stagno che ci stava dinanzi era invitante, ma provavo verso di esso un senso di repulsione. Il gruppo che mi stava vicino seguì il mio esempio , attingendo l'acqua coi secchi, ma alcuni ragazzi cedettero alla tentazione dell'acqua freschissima. Non appena si tuffarono vennero circondati da grosse bisce acquatiche. Che urla e che spruzzi! E con quale comica fretta i ragazzi uscirono dallo stagno! Raggiunta la nostra mèta facemmo una bella colazione sull'erba; poi sedetti sotto un albero, circondato da un gruppo di studenti. Vedendo che ero di umore ispirato, essi mi assalirono di domande. "Per piacere, signore, ditemi se resterò sempre con voi, seguendo il sentiero della rinuncia", mi chiese uno di essi. "Oh no!", gli risposi. "Verrai costretto a tornare a casa, e poi sposerai!". Incredulo, il ragazzo protestò con veemenza: "Solo morto mi si condurrà a casa". (Ma pochi mesi dopo i genitori vennero a prenderselo nonostante la sua resistenza e le sue lacrime, e dopo qualche anno si sposò). Dopo che ebbi risposto a varie domande, me ne fu rivolta una da un giovanetto che si chiamava Kashi. Aveva circa dodici anni, studiava con esito brillante e tutti gli volevano bene. "Signore", mi chiese, "quale sarà il mio destino?". "Morirai presto". La risposta mi salì alle labbra con forza irresistibile. Questa inattesa rivelazione colpì e addolorò me come tutti i presenti. Rimproverando me stesso per essermi comportato come un enfant terrible, rifiutai di rispondere ad altre domande. "Se morirò, mi cercherete quando sarò rinato e mi riporterete sul sentiero spirituale?", mi chiese singhiozzando. Mi sentii costretto a rifiutare questa occulta e grave responsabilità, ma per molte settimane Kashi insistette ostinatamente. Accorgendomi che era tanto depresso da star male, alla fine lo consolai.
"Si,", gli promisi. "Se il Padre Celeste mi concederà il Suo aiuto cercherò di ritrovarti". Durante le vacanze estive partii per un breve viaggio. Dolente di non poter condurre Kashi con me, prima di partire lo chiamai nella mia stanza e con tutto l'affetto gli consigliai di rimanere, contro ogni tentativo di persuasione, in seno alle vibrazioni spirituali della scuola. In certo modo sentivo che se non fosse andato a casa, forse avrebbe potuto evitare la calamità incombente su di lui. Appena fui partito, il padre di Kashi giunse a Ranchi. Per quindici giorni egli cercò di piegare la volontà del figlio, assicurandolo che se fosse andato solo per quattro giorni a Calcutta a vedere la madre, sarebbe potuto ritornare subito indietro. Kashi persisteva nel rifiuto. Allora il padre dichiarò che lo avrebbe portato via con l'aiuto della polizia. La minaccia turbò Kashi, che non voleva esser causa di una pubblicità dannosa per la scuola. Non vide altra soluzione che andarsene. Ritornai a Ranchi pochi giorni dopo. Quando seppi in che modo Kashi era stato portato via, partii subito per Calcutta. Presi una carrozza e, cosa strana, mentre la vettura passava sul ponte Howrah, sul Gange, le prime persone che vidi furono il padre e altri parenti di Kashi vestiti a lutto. Gridai al cocchiere di fermare, scesi di corsa e fissai in volto lo sfortunato padre. "Assassino!", gli gridai piuttosto irragionevolmente, "avete ucciso il mio ragazzo!". Il padre già si era reso conto del male che aveva fatto conducendo per forza Kashi a Calcutta. Durante i pochi giorni che il ragazzo vi era rimasto, aveva mangiato cibi infetti, aveva tratto il colera ed era morto. Il mio amore per Kashi e il mio impegno di ritrovarlo dopo la morte mi ossessionavano notte e giorno. Dovunque andavo, il suo viso mi appariva dinanzi agli occhi. Cominciai una memorabile ricerca, come tanto, tanto tempo prima avevo cercato la mia madre perduta. Sentivo che, avendo ricevuto da Dio il potere della ragione, dovevo utilizzarlo e mettere alla prova tutte le mie facoltà per scoprire le sottilissime leggi mediante le quali avrei potuto conoscere i vagabondaggi astrali del ragazzo. Egli era - ne ero conscio - un'anima che vibrava d'inappagati desideri, una massa di luce fluttuante tra milioni di anime luminose nelle regioni astrali. Come potevo mettermi in rapporto con lui, fra tante e tante luci vibranti di altre anime? Mettendo in pratica una segreta tecnica yoga, trasmisi il mio amore all'anima di Kashi attraverso il 'microfono' dell'occhio spirituale, il punto interiore situato fra le sopracciglia. (Nota: La volontà proiettata dal punto che sta fra le sopracciglia è conosciuta dagli yoghi come l'apparecchio
trasmittente del pensiero. Quando il sentire è tranquillamente concentrato nel cuore, agisce come una radio mentale e può ricevere gli altrui messaggi, sia da lontano che da vicino. In telepatia, le lievi vibrazioni del pensiero nella mente di una persona vengono trasmesse attraverso le sottili vibrazioni dell'etere astrale e poi attraverso il più spesso etere terreno, creando onde elettriche che a loro volta si traducono in onde- pensiero nella mente dell'altra persona. Fine nota). Per intuito sentivo che ben presto Kashi sarebbe ritornato su questa terra, e che se continuavo senza tregua a trasmettergli il mio richiamo, la sua anima mi avrebbe risposto. Sapevo che il più lieve impulso inviato da Kashi sarebbe stato captato dai nervi nelle mie dita, nelle mie braccia e nella mia spina dorsale. Con l'antenna delle mani sollevate in alto spesso mi volgevo intorno, cercando di localizzare la direzione del luogo in cui credevo ch'egli fosse già rinato in embrione. Speravo di ricevere da lui una risposta nella radio del mio cuore, sintonizzata mediante la concentrazione. Con mai diminuito zelo praticai costantemente il metodo yoga per circa sei mesi consecutivi dopo la morte di Kashi. Una mattina, mentre camminavo con pochi amici nell'affollato quartiere di Bowbazar a Calcutta, sollevai le mani nel gesto abituale. Per la prima volta avvertii una risposta. Fui elettrizzato nel percepire gli impulsi elettrici che mi scorrevano lungo le dita e le palme delle mani. Queste correnti si traducevano in un unico pensiero dominante che mi veniva dai profondi recessi della coscienza: Sono Kashi! Sono Kashi! Vieni da me! Il pensiero divenne quasi udibile, mentre mi concentravo nella radio del mio cuore. Nel suo caratteristico bisbiglio leggermente rauco (Nota: Ogni anima nel suo stato puro è onnisciente. L'anima di Kashi ricordava tutte le caratteristiche di Kashi, il ragazzo; perciò imitava la sua voce rauca per farsi riconoscere. Fine nota), udii i richiami di Kashi ripetersi sempre più chiari. Afferrai il braccio d'uno dei miei compagni, Prokash Dash, e gli sorrisi giocondamente. "Credo di aver ritrovato Kashi!". Cominciai a girare intorno a me stesso, con evidente divertimento dei miei amici e della gente che passava. Le scosse elettriche vibravano nelle mie dita solo quando ero rivolto verso una strada vicina chiamata ben a proposito Via Serpentina. Se mi volgevo in altre direzioni, le correnti astrali sparivano. "Ah!", esclamai, "l'anima di Kashi deve vivere nel grembo di una madre che abita in questa strada". I miei compagni e io ci avvicinammo alla via
Serpentina e le vibrazioni divennero più intense e più chiare. Una specie di forza magnetica mi spingeva verso il lato destro della strada. Giunto sulla porta di una certa casa, mi meravigliai di sentirmi come inchiodato. Bussai alla porta in uno stato d'intensa eccitazione e trattenendo il respiro; sentivo d'esser giunto felicemente al termine della mia lunga, ardua e certo non comune ricerca! Una cameriera aprì la porta e mi disse che il padrone era in casa. Questi scese le scale dal secondo piano e mi sorrise interrogativamente. Non sapevo come formulare la mia domanda che era pertinente e impertinente insieme. "Signore, vi prego di dirmi se da circa sei mesi attendete un bimbo da vostra moglie". (Nota: benché molte anime, dopo la morte fisica, rimangano nel mondo astrale per 500 o 1000 anni, non esiste una regola fissa circa la durata del tempo fra due incarnazioni (v. Cap. XLIII). La spanna di tempo concessa all'uomo in un corpo fisico o astrale è karmicamente prestabilita. Kashi aveva desiderato di ritornare immediatamente su questa terra, e io sentivo entro di me la certezza che questo desiderio sarebbe stato esaudito. La dea della Morte è un simbolo del Dharma, la Legge. La morte, e, in verità anche il sonno ("la piccola morte"), sono una necessità dei mortali, che liberano transitoriamente l'essere umano non illuminato dalle pastoie dei sensi. La natura essenziale dell'uomo essendo Spirito, egli riacquista nel sonno e nella morte taluni ricordi della sua incorporeità. La morte prematura di Kashi era il risultato d'una coazione karmica. La legge equilibratrice del karma, spiegata nelle Scritture indù, è quella di azione e reazione, causa e effetto, semina e raccolto. Nel corso della naturale giustizia (rita) ogni uomo, con i suoi pensieri e i suoi atti plasma il proprio destino. Quali che siano le energie universali che egli stesso, da saggio o da stolto, abbia messo in moto, esse dovranno ritornare a lui quale punto di partenza, come un circolo che necessariamente si completa in se stesso. "Il mondo ci appare come un'equazione matematica che, giratela come volete, inevitabilmente si compensa. Ogni segreto è svelato, ogni delitto punito, ogni virtù ricompensata, ogni torto raddrizzato, in silenzio e con certezza". Emerson, Compensation. La comprensione del karma quale legge di giustizia che sta alla base delle disuguaglianze della vita, serve a liberare la mente dell'uomo dal risentimento verso Dio e verso gli uomini. Fine nota). "Si, è proprio così". Nell'accorgersi che ero uno swami, un uomo che aveva rinunciato al mondo e che indossava la tradizionale veste arancione, aggiunse educatamente: "Vi prego di dirmi come siete a conoscenza delle mie faccende".
Quando apprese la storia di Kashi e seppe della mia promessa, l'uomo meravigliato credette alle mie parole. "Vi nascerà un maschio di colore chiaro", gli dissi. "Avrà un viso largo e un segno sulla fronte. Le sue tendenze saranno fortemente spirituali". Ero sicuro che il neonato sarebbe somigliato a Kashi in questi particolari. In seguito andai a trovare il bambino, cui i genitori avevano dato il suo vecchio nome di Kashi. Sebbene così piccino, aveva un'impressionante rassomiglianza col mio caro allievo di Ranchi. Il bimbo mi dimostrò un affetto istantaneo; l'attrazione del passato si risvegliava con raddoppiata intensità. Mentre ero in America, il ragazzo già grande, mi comunicò per lettera il suo intenso desiderio di seguire il sentiero della rinuncia. Lo indirizzai a un Maestro dell'Himalaya che accettò il rinato Kashi come discepolo.
CAPITOLO XXIX RABINDRANATH TAGORE ED IO CONFRONTIAMO LE NOSTRE SCUOLE "Rabindranath Tagore ci ha insegnato a cantare; il canto dovrebbe essere una forma naturale di espressione, come lo è per gli uccelli". Bhola Nath, un vivace ragazzo di quattordici anni della mia scuola di Ranchi mi diede questa spiegazione una mattina dopo che mi ero congratulato con lui per le sue melodiose effusioni. Ne fosse richiesto o no, il ragazzo faceva sgorgare dalla gola un'ondata di armonia. In precedenza aveva frequentato la famosa scuola di Tagore "Santiniketan" (Porto di Pace) a Bolpur. "I canti di Rabindranath sono stati sulle mie labbra fin dalla prima giovinezza", dissi allo scolaro; "tutto il Bengala, e perfino i contadini analfabeti, si dilettano dei suoi versi sublimi". Bhola e io cantammo insieme alcuni ritornelli di Tagore, il quale musicò migliaia di poemi indiani, alcuni suoi, altri antichissimi. "Incontrai Rabindranath Tagore poco dopo che gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura", dissi appena terminato il nostro canto. "Mi spinse a fargli visita l'ammirazione per il poco diplomatico coraggio con cui aveva sistemato i suoi critici letterari" aggiunsi ridacchiando. Bhola, incuriosito, mi chiese di narrargliene la storia. "I letterati scorticavano Tagore senza pietà perché aveva introdotto uno stile nuovo nella poesia bengali, mescolando espressioni del linguaggio parlato a quello classico e trascurando completamente tutte le limitazioni tradizionali tanto care al cuore dei pandit. I suoi canti racchiudono profonde verità filosofiche rivestite di espressioni che fanno appello al sentimento, ma non rispettano affatto le forme letterarie tradizionali. Un critico influente aveva parlato con malignità di Rabindranath, definendolo 'un piccione-poeta che vendeva il suo tubare stampato per una rupia'. Ma la vendetta di Tagore era pronta. Tutto il mondo occidentale gli rese omaggio quando tradusse in inglese il suo Gitanjali (Offerte di Canti). Un treno carico di pandit, compresi i suoi critici di un tempo, giunse a Santiniketan per congratularsi con lui.
"Rabindranath ricevette i suoi ospiti dopo averli sottoposti a un'attesa intenzionalmente lunga, e ascoltò le loro lodi in stoico silenzio. Alla fine volse contro di loro le stesse armi di critica che essi usavano abitualmente: - Signori, - disse, - i fragranti incensi che mi offrite sono incongruamente mescolati ai putridi odori del vostro antico disprezzo. Vi è forse un rapporto tra il conferimento del premio Nobel e l'improvviso acutizzarsi delle vostre facoltà di giudizio? Io sono sempre lo stesso poeta che tanto vi spiacque quando per la prima volta offrì i suoi umili fiori sugli altari del Bengala. "I giornali diedero un resoconto dell'ardita punizione inferta da Tagore, e io ammirai le franche parole di quell'uomo non ipnotizzato dall'adulazione. Gli fui presentato a Calcutta dal suo segretario, C. E. Andrews (Nota: Lo scrittore e giornalista inglese, intimo amico del Mahatma Gandhi. Il signor Andrews è molto stimato in India per i servigi resi al suo paese adottivo. Fine nota), che indossava un semplice dhoti bengali. Costui parlava affettuosamente di Tagore come del suo Gurudeva. "Rabindranath mi ricevette con molta cortesia. Spirava da lui un'aura di fascino, di cultura e di gentilezza. Rispondendo alla mia domanda circa le origini delle sue ispirazioni letterarie, egli mi disse d'essere stato influenzato soprattutto dai nostri poemi epici religiosi e dalle opere di Vidyapati, un popolare poeta vissuto nel XVI secolo". Mosso da questi ricordi, intonai la versione di Tagore di un antico canto del Bengala: "Accendi la lampada del Tuo Amore". Bhola ed io cantammo gioiosamente, mentre passeggiavamo nel giardino dei Vidyalaya. Circa due anni dopo la fondazione della scuola a Ranchi, ricevetti da Tagore un cordiale invito a recarmi da lui a Santiniketan per discutere insieme i nostri ideali educativi. Vi andai con piacere. Quando entrai, il poeta era seduto nel suo studio; come già al nostro primo incontro, mi apparve come il più impressionante modello di superba virilità che un pittore avrebbe potuto desiderare; un nobilissimo volto da patrizio, meravigliosamente modellato, incorniciato da lunghi capelli e da una barba fluente; grandi occhi dolcissimi, un angelico sorriso e una voce flautata, semplicemente incantevole. Forte, alto e grave, univa a una soavità quasi femminea la deliziosa spontaneità di un bambino. Nessuna concezione idealizzata di un poeta poteva trovare una personificazione più perfetta di questo dolce cantore. Tagore e io c'immergemmo presto nello studio comparato delle nostre scuole, entrambe fondate su basi non ortodosse. Scoprimmo molte caratteristiche affini: istruzione all'aria aperta, semplicità, vaste possibilità offerte allo spirito creativo del bambino.
Rabindranath, però, dava anche grande importanza allo studio della letteratura e della poesia, e alla possibilità di esprimersi attraverso la musica e il canto, cosa questa che avevo già rilevata nel caso di Bhola. I ragazzi di Santiniketan osservavano dei periodi di silenzio, ma non s'insegnava loro nessuno speciale esercizio yoga. Il poeta ascoltò con lusinghiera attenzione la mia descrizione degli esercizi "Yogoda", generatori di energia, e delle tecniche per la concentrazione yoga che si insegnano a tutti gli allievi di Ranchi. Tagore mi raccontò le sue prime esperienze scolastiche: "Scappai da scuola dopo il quinto corso", mi disse ridendo. Comprendevo bene come la sua innata delicatezza poetica potesse essere stata offesa dall'arida atmosfera disciplinare di un'aula scolastica. "Ecco perché ho aperto Santiniketan all'ombra degli alberi e sotto le glorie del cielo". E in modo eloquente accennò a un gruppetto di scolari che studiava nel bellissimo giardino. "Un bimbo è nel suo ambiente naturale tra i fiori e i canti degli uccelli; qui esso può manifestare più facilmente la nascosta ricchezza delle sue doti individuali. Una vera educazione non può essere inculcata a forza dall'esterno; deve invece aiutare a trarre spontaneamente alla superficie l'infinito tesoro di saggezza che si nasconde in lui". (Nota "Poiché l'anima si è incarnata molte volte o, come dicono gli Indù, 'percorre il sentiero dell'esistenza attraverso migliaia di rinascite...', non vi è nulla che essa non conosca; non meraviglia dunque che sia capace di rammentare.. quello che già sapeva. Sia per la ricerca che per lo studio la reminiscenza è tutto". Emerson. Fine nota). Mi dichiarai d'accordo e aggiunsi: "Nelle scuole ordinarie, le tendenze idealistiche e il culto degli eroi, vibranti nei giovani vengono fatti morire d'inedia con una dieta fatta di statistiche e di date". Il poeta parlò affettuosamente del proprio padre, Devendranath, al quale Santiniketan doveva i suoi inizi. "Mio padre mi offrì questa fertile terra, dove già aveva costruito una casa per gli ospiti e un tempio", disse Rabindranath. "Nel 1901 iniziai qui il mio esperimento educativo con soli dieci ragazzi. Le ottomila sterline del premio Nobel sono servite tutte al mantenimento della scuola". Il vecchio Tagore, Devendranath, largamente conosciuto sotto il nome di "Maharishi" (grande Saggio), era un uomo notevolissimo, come si può facilmente dedurre dalla sua Autobiografia. Trascorse due anni della sua età virile in meditazione sull'Himalaya. A sua volta il padre di lui, Dwarkanath Tagore, era stato famoso in tutto il Bengala per le sue munifiche beneficenze pubbliche. Da questo ceppo illustre nacque una famiglia di geni. Non solo Rabindranath, ma tutti i suoi
parenti si distinsero per le loro attività creative. I nipoti Gogonendra e Abanindra sono annoverati fra i migliori artisti dell'india (Nota: Anche Rabindranath a sessant'anni incominciò a studiare seriamente la pittura. I suoi lavori, influenzati dalla corrente 'futurista' furono esposti alcuni anni fa nelle capitali d'Europa e a Nuova York. Fine nota); suo fratello Dwijendra fu filosofo veggente, amato perfino dagli uccelli e dalle creature del bosco. Rabindranath m'invitò a trascorrere la notte nella sua casa degli ospiti. Era davvero uno spettacolo delizioso, la sera, vedere il poeta seduto nel patio con un gruppo di allievi. Il tempo camminò a ritroso; la scena che si svolgeva davanti ai miei occhi somigliava a quella di un antico eremitaggio. Il gioioso cantore circondato dai suoi fedeli, tutti immersi in un'aureola di amore divino. Tagore annodava ogni legame con i vincoli dell'armonia. Senza essere mai categorico, egli avvinceva e catturava ogni cuore con un magnetismo irresistibile, raro fiore di poesia sbocciato nel giardino del Signore, che attraeva gli uomini con la sua naturale fragranza! Con la sua voce melodiosa Rabindranath ci lesse alcuni dei suoi più recenti, squisiti poemi. La maggior parte dei suoi canti e delle sue commedie furono composti a Santiniketan per il diletto degli studenti. La bellezza dei suoi scritti risiede, per me, nell'arte di riferirsi a Dio quasi in ogni verso, pur pronunciando di rado il 'sacro Nome': "Ebbro del rapimento del canto", egli scrisse, "dimentico me stesso e chiamo mio amico Te, che sei il mio Signore". Il giorno seguente, dopo colazione, presi congedo a malincuore dal poeta. Sono lieto che la sua piccola scuola sia divenuta ora un'università internazionale, Visva-Bharati (Nota: Nonostante l'amato poeta sia morto nel 1941, la sua istituzione Visva-Bharati è fiorente a tutt'oggi. Nel gennaio del 1950, sessantacinque insegnanti e studenti del Santiniketan fecero una visita di dieci giorni alla scuola Yogoda Satsanga di Ranchi. Il gruppo era guidato da Sri S. N. Ghoshal, rettore di una sezione del Visva-Bharati. Gli ospiti allietarono gli studenti di Ranchi con una rappresentazione drammatica del bellissimo poema di Rabindranath, Purjarini. Fine nota), dove gli studiosi di molti paesi trovano un ambiente ideale. Dove la mente è impavida e il capo è eretto, Dove libero è il sapere Ed il mondo non fu ridotto in briciole da ristrette domestiche mura; Dove le parole sgorgano dalle profondità del vero; Dove indefessa lotta tende le braccia verso la perfezione; Dove il chiaro fluir della ragione non s'è perduto fra desertiche sabbie delle morte abitudini;
Dove la mente è da Te sospinta verso sempre più vasti atti e pensieri; In quel cielo di libertà, o mio Padre, fa' che il mio paese si risvegli! RABINDRANATH TAGORE (Nota: Gitanjali (Macmillan C.). Un profondo studio del poeta si troverà in The Philosophy of Rabindranath Tagore del famoso studioso, Sir S. Radhakrishnan (Macmillan, 1918). Fine nota).
CAPITOLO XXX LA LEGGE DEI MIRACOLI Il grande scrittore Leone Tolstoi scrisse una deliziosa leggenda: I Tre Eremiti, che il suo amico Nicola Roerich riassume come segue: "In un'isola vivevano tre vecchi eremiti. Erano tanto semplici che l'unica preghiera che dicevano era questa: - Siamo tre; Tu sei Tre; abbi pietà di noi. - Durante questa ingenua preghiera avvenivano grandi miracoli. (Nota: Tolstoi condivise molti ideali col Mahatma Gandhi; i due uomini corrispondevano sul soggetto della non-violenza. Tolstoi considerava il 'non resistere al malvagio' (col male, Matteo, 5, 39), come il nucleo centrale dell'insegnamento del Cristo. Al male si dovrebbe 'resistere' solo col suo logico e vero opposto, cioè il bene e il male. Fine nota). "Il vescovo del luogo (Nota: Il racconto sembra abbia una base storica. Una nota editoriale ci informa che il vescovo incontrò i tre monaci mentre partiva da Arcangelo per il monastero di Slovetsky sulla foce del fiume Divina. Fine nota) seppe dei tre eremiti e della loro inammissibile preghiera, e decise di andare a visitarli per insegnare loro le invocazioni canoniche. Giunse all'isola, disse agli eremiti che la loro supplica al cielo non era dignitosa, e fece loro imparare molte cose delle solite preghiere; poi il vescovo se ne andò. Imbarcatosi su un battello, si accorse che esso era seguito da una luce radiosa. Mentre la luce si avvicinava sempre più distinse i tre eremiti che tenendosi per mano, correvano sulle onde sforzandosi di raggiungere il battello: " - Abbiamo dimenticato le preghiere che ci hai insegnato, - essi gridarono appena ebbero raggiunto il vescovo, - e ti siamo corsi dietro perché tu ce le ripeta. - Il vescovo, pieno di profonda reverenza, scosse il capo: " - Miei cari, - rispose umilmente -, continuate con la vostra vecchia preghiera". Come mai i tre Santi potevano camminare sull'acqua? Come poté il Cristo risuscitare il proprio corpo crocifisso?
Come potevano Lahiri Mahasaya e Sri Yukteswar compiere i loro miracoli? La scienza moderna non ha ancora trovato la risposta a tali domande, sebbene con l'avvento della bomba atomica e le meraviglie del radar il campo intellettuale dell'umanità si sia bruscamente allargato. La parola "impossibile" occupa un posto sempre più ristretto nel linguaggio dell'uomo. Le antiche Scritture Veda dichiarano che il mondo fisico sottostà a un'unica legge fondamentale: quella di maya, il principio della relatività e della dualità. Dio, l'Unica Vita, è Unità Assoluta. Egli non può apparire come manifestazioni separate e multiple della Sua creazione, se non coprendosi di un velo ingannevole e irreale. Questo velo dualistico, illusorio è la maya (V. Capp. IV e V. Fine nota). Molte grandi scoperte scientifiche dei tempi moderni sono valse a confermare questa semplice affermazione dei rishi antichi. La legge del moto di Newton è una legge della maya: "Ad ogni azione corrisponde una equivalente reazione contraria; le azioni in mutuo rapporto di due corpi qualsiasi sono sempre equivalenti e seguono direzioni opposte". Perciò l'azione e la reazione si bilanciano esattamente. "Trovare una forza singola è impossibile; vi deve essere, e sempre vi è, una coppia di forze equivalenti e contrarie". Le fondamentali attività naturali tradiscono, tutte, la loro origine maya. L'elettricità, ad esempio, è un fenomeno di repulsione e di attrazione; i suoi elettroni e protoni sono opposti elettrici. Un altro esempio: l'atomo, o particella "ultima" della materia è, come la terra stessa, un magnete con i due poli: positivo e negativo. Tutto il mondo fenomenico è sotto l'inesorabile dominio della polarità; nessuna legge fisica o chimica e nessun'altra legge naturale è stata mai esente da princìpi opposti o contrastanti. La scienza fisica, dunque, non può formulare leggi al di fuori della maya, che è il materiale e la struttura stessa della creazione. La natura stessa è maya; la scienza naturale deve per forza occuparsi della sua ineluttabile essenza. Nel proprio campo essa è eterna e inesauribile, gli scienziati dell'avvenire non potranno fare altro che esaminare un aspetto dopo l'altro della sua varietà infinita. La scienza, perciò, rimane in un perpetuo fluttuare, incapace di raggiungere l'ultima conoscenza; è atta a formulare le leggi di un cosmo già esistente e funzionante, ma incapace di svelare il Compilatore delle leggi e l'Unico Operatore. Le grandiose manifestazioni della legge di gravità e dell'elettricità sono note, ma che cosa siano la gravitazione e
l'elettricità nessun mortale conosce. (Nota: Marconi, il grande inventore, fece la seguente dichiarazione sull'impotenza della scienza dinanzi alla conoscenza ultima: "L'incapacità della scienza di risolvere la vita è assoluta. Questo fatto spaventerebbe se non vi fosse la fede. Il mistero della vita è certamente il problema più persistente che sia mai stato posto al pensiero dell'uomo. Fine nota). Superare la maya era il compito assegnato al genere umano dai profeti di millenni. Sollevarsi al di sopra della dualità della creazione e percepire l'unità del Creatore è considerato il più alto compito che sia stato assegnato all'uomo. Coloro che si afferrano all'illusione cosmica debbono accettare la sua legge essenziale della polarità: flusso e riflusso, salita e discesa, giorno e notte, piacere e dolore, bene e male, nascita e morte. Questo schema ciclico assume una certa angosciosa monotonia dopo che l'uomo è passato attraverso qualche migliaio di nascite umane; egli incomincia a guardare speranzoso oltre le coercizioni di maya. Strappare il velo di maya è penetrare il segreto della creazione. Colui che in tal modo svela l'universo è l'unico vero monoteista. Tutti gli altri venerano immagini idolatriche. Fin quando l'uomo sarà schiavo del dualistico inganno della natura, la sua dea è maya dal volto di Giano, ed egli non può conoscere l'unico, vero Dio. Mentre opera nella mente dell'uomo, l'illusione del mondo, maya, è chiamata avidya e cioè letteralmente: non-conoscenza, ignoranza, inganno. Maya o avidya non si distrugge mai attraverso una convinzione intellettuale o un'analisi, ma solo raggiungendo lo stato interiore del nirbikalpa samadhi. I profeti dell'Antico Testamento, i veggenti di tutti i paesi e di tutte le età parlarono da questo stato di coscienza. Dice Ezechiele (43, 1-2): 'Poi egli mi condusse alla porta che guardava verso l'Oriente. Ed ecco la gloria dell'Iddio d'Israele che veniva dall'Oriente; e la sua voce era simile al suono di grandi acque; e la terra risplendeva della sua gloria'. Attraverso l'occhio divino sulla fronte (oriente) lo yoghi pilota la propria coscienza verso l'onnipresenza udendo la Parola, Om, suono divino di molte "acque": vibrazioni di luce che costituiscono l'unica realtà della creazione. Fra gli infiniti misteri del cosmo, il più straordinario è la luce. A differenza delle onde sonore, la cui trasmissione richiede l'aria o altro elemento vettore, le onde-luce passano liberamente attraverso il vuoto dello spazio interstellare. Perfino l'ipotetico etere, considerato come un medium interplanetario di luce nella teoria ondulatoria, può essere scartato basandosi sulla teoria di Einstein, la quale afferma che le proprietà geometriche dello spazio rendono inutile il concetto dell'etere. In ambedue le ipotesi, la luce
rimane la manifestazione naturale più sottile e la più libera dalle dipendenze materiali. Nelle titaniche concezioni di Einstein, la velocità della luce - 186.300 miglia al secondo - domina l'intera teoria della Relatività. Egli fornisce la prova matematica che la velocità della luce è - per quanto riguarda la mente finita dell'uomo - l'unica costante in un universo instabile e fluttuante. Sull'unico "assoluto" della velocità della luce si basano tutti i criteri umani di tempo e spazio. Non astrattamente eterni, come venivano considerati una volta, tempo e spazio sono fattori relativi e finiti, la cui misura risulta valida solo in rapporto a quella della velocità-luce. Ponendosi allato allo spazio come relatività dimensionale, il tempo ha rinunciato alla sua secolare pretesa a un valore immutabile. Il tempo è ormai ridotto alla sua vera natura: una semplice essenza di ambiguità! Con pochi temi di equazioni tracciati con la penna Einstein bandì dal cosmo qualsiasi realtà fissa, fuorché quella della luce. Sviluppando ulteriormente i suoi studi con la teoria del campo unificato, il grande fisico sintetizza in un'unica formula matematica, le leggi di gravità ed elettromagnetiche. Riducendo la struttura cosmica a delle semplici varianti di un'unica legge, Einstein si unisce, attraverso i secoli, ai rishi, i quali affermano che la creazione ha una struttura unica: quella della maya proteiforme. Dalla famosa teoria della relatività sono sorte le possibilità matematiche di esplorare l'atomo ultimo. Grandi scienziati affermano ora arditamente non solo che l'atomo è energia e non materia, ma che l'energia atomica è essenzialmente di natura mentale. "La franca ammissione che la scienza fisica è in rapporto con un mondo di ombre, è uno dei progressi più significativi", scrive Sir Arthur Stanley Eddington in The Nature of Physical World. "Nel mondo della fisica noi osserviamo, proiettato in un gioco d'ombre, il dramma della vita d'ogni giorno. Il mio gomito-ombra riposa sul tavolo-ombra, come l'inchiostroombra fluisce sulla carta-ombra. Tutto è simbolico e i fisici lasciano che rimanga simbolo. Poi viene la Mente alchimista che trasforma i simboli... Per dirla in parole povere, la stoffa di cui è fatto il mondo è di natura mentale..." Con la recente invenzione del microscopio elettronico abbiamo avuto la prova definitiva dell'essenza-luce degli atomi e dell'inevitabile dualità della natura. Il New York Times pubblicò il seguente resoconto sulla dimostrazione del microscopio elettronico data nel 1937 davanti a una riunione dell'Associazione Americana per il Progresso della Scienza:
"La struttura cristallina del tungsteno, conosciuta prima solo indirettamente per mezzo dei raggi X, ci stava dinanzi arditamente delineata su uno schermo fluorescente, che presentava nove atomi nel loro esatto reticolo spaziale: un cubo con un atomo in ogni angolo e uno al centro. Gli atomi nello spazio cristallino del tungsteno apparivano sullo schermo fluorescente come punti di luce, disposti in forma geometrica. Contro questo cubo cristallino di luce le molecole d'aria bombardanti si rivelano come punti luminosi danzanti, simili a punti di sole che scintillano sulle acque mosse... Il principio del microscopio elettronico fu scoperto per la prima volta nel 1927 da Clinton J. Davisson e Lester H. Germer dei Laboratori Telefonici Bell di New York City; essi scoprirono la duplice personalità dell'elettrone, che possiede le caratteristiche sia di una particella, sia di un'onda (Nota: Ossia di materia ed energia insieme. Fine nota). La qualità 'onda' dava all'elettrone la caratteristica della luce. S'iniziò così la ricerca dei mezzi per mettere a fuoco gli elettroni in modo simile alla messa a fuoco della luce, per mezzo di una lente. "Per la sua scoperta delle qualità "Jekyll-Hide" dell'elettrone, che corroborò la predizione fatta nel 1924 dal De Broglie (lo scienziato francese, premio Nobel per la fisica, il quale dimostrò che l'intero campo della natura fisica ha una doppia personalità), Davisson ottenne anch'egli il Premio Nobel per la fisica". "La corrente del sapere", scrive Sir James Jeans in The Mysterious Universe "tende verso una realtà anti-meccanica; l'universo comincia ad assumere l'aspetto, invece che di una grande macchina, di un grande pensiero". La scienza del XX secolo fa pensare perciò a una pagina degli antichi Veda. Dalla scienza, dunque, se così deve essere, l'uomo apprenda la verità filosofica che non esiste un universo materiale; il suo ordito e la sua trama sono maya, illusione. L'analisi annulla tutti i suoi miraggi di realtà. Man mano che le rassicuranti prove di un cosmo materiale s'infrangono l'una dietro l'altra, l'uomo percepisce oscuramente il carattere idolatrico della sua falsa sicurezza, e la sua antica trasgressione al divino comandamento. "Non avrai altro Dio al di fuori di Me." (Nota: (Esodo, 20, 3. Fine nota). Nella sua famosa equazione che esprime l'equivalenza della massa e dell'energia, Einstein dimostrò che l'energia in ogni particella di materia è uguale alla sua massa, o peso, moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. La liberazione dell'energia atomica è causata dal dissolvimento
delle particelle materiali. La "morte" della materia fu la "nascita" dell'Era Atomica. La velocità-luce è una costante matematica non perché 186.300 miglia al secondo siano un valore assoluto, ma perché nessun corpo materiale, la cui massa aumenta con la velocità, può mai raggiungere la velocità della luce. Detto in altre parole: la velocità della luce potrebbe essere eguagliata solo da un corpo la cui massa fosse infinita. Questo concetto ci porta alla legge dei miracoli. I Maestri che sanno materializzare e smaterializzare i loro corpi o qualsiasi altro oggetto, muoversi con la velocità della luce, e utilizzare i raggi di luce creativa per portare alla vista istantaneamente qualsiasi manifestazione fisica, hanno raggiunto la condizione inderogabile posta da Einstein: la loro massa è infinita. La coscienza di uno yoghi giunto alla perfezione s'identifica senza sforzo non con un corpo limitato, ma con la struttura universale. La gravitazione si tratti della 'forza' di Newton o della 'dimostrazione d'inerzia' di Einstein è incapace di costringere un Maestro ad assumere la proprietà del 'peso' che è la condizione particolare di gravitazione che distingue tutti gli oggetti materiali. Colui che conosce se stesso come lo Spirito Onnipresente, non è più soggetto alle costrizioni di un corpo nel tempo e nello spazio. Il suo impenetrabile carcere si è arrestato ed è svanito dinanzi all' "io sono Lui". "Fiat Lux". E la Luce fu! (Genesi, 1, 3). Nella creazione dell'universo il primo comandamento di Dio diede origine all'essenza d'ogni struttura: la luce. E' sui raggi di questo mezzo immateriale che avvengono tutte le divine manifestazioni. Devoti di tutti i tempi resero testimonianza dell'apparizione di Dio quale fiamma e luce "...i suoi occhi (erano) come fiamma di fuoco... e la sua faccia come il sole (allorché) splende nella sua potenza". Lo yoghi che per mezzo della meditazione perfetta ha fuso la propria coscienza col Creatore, percepisce l'essenza cosmica quale luce; per lui non v'è differenza tra i raggi di luce che compongono l'acqua e quelli che compongono la terra. Affrancato dalla coscienza della materia, non più legato alle tre dimensioni dello spazio e alla quarta dimensione del tempo, un Maestro trasferisce il suo corpo di luce con uguale facilità sopra o attraverso i raggi di luce della terra, dell'acqua, del fuoco e dell'aria. "Se perciò il tuo occhio è singolo, tutto il tuo corpo sarà pieno di luce" (Matteo, 6, 22). Una lunga concentrazione sull'occhio spirituale liberatore rende lo yoghi capace di distruggere ogni illusione concernente la materia e il suo peso di gravità; da allora in poi egli vede l'universo come una massa essenzialmente indifferenziata di luce.
"Le immagini ottiche", dice il dottor L.T. Troland, dell'Università di Harvard, "si basano sullo stesso principio delle comuni incisioni a mezzatinta, sono fatte cioè di minutissimi puntini o lineette troppo piccoli per essere scorti dall'occhio... La sensibilità della rétina è tanto grande che una sensazione visiva può esser prodotta da un quantitativo relativamente scarso della giusta qualità di luce". La legge dei miracoli può esser resa operante da qualsiasi uomo che abbia raggiunto la consapevolezza che l'essenza della creazione è luce. Mediante la divina conoscenza dei fenomeni della luce, un Maestro può istantaneamente proiettare in manifestazioni percettibili gli atomi di luce presenti ovunque. La forma reale di tale proiezione, qualunque essa sia: un albero, una medicina, un palazzo o un corpo umano, risponde al volere dello yoghi e ai suoi poteri di volontà e di visualizzazione. Di notte, l'uomo entra nello stato di coscienza del sogno e evade dalle false limitazioni egoistiche che ogni giorno lo cingono e lo imprigionano. Nel sogno egli riceve una ripetuta dimostrazione dell'onnipotenza della propria mente. Ecco, nel sogno, gli amici morti da tempo, i più remoti continenti, le scene risorte della sua fanciullezza. Questo stato di coscienza libero e incondizionato che ogni uomo può conoscere, sia pur brevemente, nelle esperienze di taluni sogni, è lo stato permanente della mente di un Maestro in armonia con Dio. Essendo privo d'ogni movente personale, e impiegando la volontà creativa concessagli dal Creatore, lo yoghi riorganizza gli atomi-luce dell'universo per soddisfare qualunque preghiera sincera di un fedele. A questo fine Dio creò l'uomo e la creazione: affinché egli si elevasse da padrone sulla maya, conoscendo il proprio dominio sul cosmo. "Poi Dio disse: - Facciamo l'uomo a nostra immagine e simiglianza; ed abbia signoria sopra i pesci del mare, e sopra gli uccelli del cielo e sopra le bestie, e sopra tutta la terra, e sopra ogni rettile che striscia sopra la terra". (Genesi, 1, 26). Nel 1915 ero da poco entrato nell'Ordine degli Swami, quando ebbi una visione piena di violenti contrasti. Per mezzo suo riuscii a comprendere la relatività della coscienza umana e a percepire con limpida chiarezza l'unità dell'Eterna Luce dietro la penosa dualità della maya. Ebbi questa visione una mattina mentre sedevo nel mio piccolo attico in casa di mio padre, in Gurpar Road. Già da mesi la prima guerra mondiale infieriva sull'Europa, e io riflettevo tristemente su quell'immenso tributo richiesto dalla morte.
Mentre chiudevo gli occhi in meditazione la mia coscienza si trasferì a un tratto nel corpo di un capitano che comandava una nave da guerra. Il rombo dei cannoni fendeva l'aria mentre le batterie della costa e i cannoni di bordo sparavano gli uni sugli altri. Un'enorme scheggia colpì la polveriera della mia nave ed essa affondò. Saltai nell'acqua con i pochi uomini che erano sopravvissuti all'esplosione; col batticuore, giunsi salvo alla riva. Ma ahimé! Una pallottola sperduta terminò il suo furioso volo penetrando nel mio petto. Gemendo, caddi a terra: tutto il mio corpo era paralizzato, eppure ero cosciente di averlo, come si è consci di una gamba addormentata. Pensai: Alla fine il misterioso passo della morte mi ha raggiunto. Con un ultimo respiro stavo per piombare nell'incoscienza, quand'ecco, mi ritrovai seduto nella posizione del loto nella mia cameretta di Gurpa Road. Lacrime isteriche sgorgavano dai miei occhi, mentre pieno di gioia accarezzavo e pizzicavo il mio ritrovato possesso: un corpo intatto da qualsiasi foro di proiettile. Mi dondolai, aspirando ed espirando per convincermi di esser vivo. Mentre mi congratulavo con me stesso, sentii di nuovo che la mia coscienza si trasferiva nel corpo del capitano morto sulla riva insanguinata. Fui vinto da un'enorme confusione mentale. "Signore", invocai, "sono morto o vivo?". Un grande sprazzo di luce illuminò tutto l'orizzonte. Una lieve mormorante vibrazione si tramutò in parole: "Che cosa hanno a che fare vita e morte con la Luce? A immagine della mia Luce Io ti ho fatto. La relatività della vita e della morte appartiene al sogno cosmico. Guarda il tuo essere senza più sognare! Svegliati figlio Mio, svegliati!". Quali passi graduali verso il risveglio degli uomini, Dio ispira agli scienziati di scoprire, a tempo e luogo opportuni, i segreti della Sua creazione. Molte moderne scoperte aiutano gli uomini a comprendere il cosmo come espressione infinitamente variata di un'unica forza, la luce, guidata dall'Intelligenza Divina. Le meraviglie del cinematografo, della radio, della televisione, del radar e della cellula fotoelettrica - "l'occhio elettrico" che tutto vede - o delle energie atomiche, si basano tutte sul fenomeno elettromagnetico della luce. Il cinematografo può produrre qualsiasi miracolo. Dal punto di vista dell'impressione visiva, nessuna meraviglia è negata ai trucchi cinematografici. Un uomo può essere visto come trasparente corpo astrale uscente dalla sua solida forma fisica; può camminare sulle acque, risuscitare
i morti, invertire la naturale sequenza degli eventi e distruggere tempo e spazio. Raggruppando come gli aggrada le immagini fotografiche, l'esperto compie miracoli ottici che un vero Maestro produce con veri raggi di luce. Con le sue immagini simili alla vita, il cinematografo illustra molte verità della creazione. Il Regista Cosmico scrisse le sue commedie e chiamò sulla scena un immenso numero di attori per lo spettacolo dei secoli. Dall'oscura cabina dell'eternità, Egli invia i Suoi raggi di luce attraverso i film delle successive età, e le scene si proiettano sullo schermo dello spazio. E come le immagini di una pellicola cinematografica sembrano reali, pur non essendo altro che combinazioni di luci e d'ombra, così la varietà universale non è che un'ingannevole apparenza. Le sfere planetarie con le loro innumerevoli forme di vita altro non sono che figure di un film cosmico, temporaneamente reali alla percezione dei cinque sensi; le transitorie scene vengono proiettate dal Suo Infinito raggio creativo sullo schermo della coscienza umana. Gli spettatori in un cinematografo possono constatare, alzando gli occhi che le immagini prendono forma sullo schermo per mezzo di un unico raggio di luce scevro di figure. Anche il variopinto dramma universale scaturisce dall'unica bianca luce di una Fonte Cosmica. Con inconcepibile genio, Dio pone in scena un super-spettacolo per i Suoi figli umani, facendoli a un tempo attori e spettatori nel Suo teatro planetario. Un giorno entrai in un cinema per vedere un documentario ripreso sui campi di battaglia europei. In Occidente si combatteva ancora la prima guerra mondiale; il documentario riproduceva la carneficina con tale realismo, che lasciai il cinema col cuore sconvolto. "Signore!", pregai "perché permetti simili sofferenze?". Con mia intensa sorpresa mi giunse un'immediata risposta, sotto forma di una visione dei reali campi di battaglia europei: il quadro di tutti quei morti e morenti superava di gran lunga in orrore e crudeltà qualsiasi immagine del documentario. "Guarda intensamente" disse una Voce soave alla mia coscienza interiore. "Vedrai che queste scene che ora si svolgono in Francia non sono altro che un gioco di chiaroscuri. (Nota: in italiano nel testo. Fine nota). Sono le pellicole cinematografiche del cosmo, tanto reali e tanto irreali quanto lo spettacolo cinematografico cui hai assistito: una scena in una scena". Ma il mio cuore non trovava ancora conforto. La Voce Divina continuò: "La creazione è luce e ombra, altrimenti nessun quadro sarebbe possibile. Il bene e il male di maya devono alternamente prevalere l'uno sull'altro. Se la
gioia fosse incessante in questo mondo, l'uomo ne cercherebbe mai un altro? Senza la sofferenza, l'uomo non si curerebbe di rammentare che ha abbandonato la sua casa eterna. Il dolore è un incentivo a ricordare. L'unica via di scampo è la saggezza! La tragedia della morte è irreale; coloro che tremano dinanzi ad essa sono come l'attore ignorante che muore di paura, sulla scena, quando sparano su di lui con una pistola caricata a salve. I Miei figli sono creature di luce; non rimarranno per sempre assopiti nell'inganno". Sebbene avessi letto di maya nelle Scritture, pure non ero riuscito a penetrarne il significato così profondamente come attraverso le mie visioni personali e le parole consolanti che le accompagnavano. Tutti i nostri valori vengono profondamente mutati quando ci rendiamo finalmente conto che la creazione è solo una grandiosa pellicola cinematografica e che non in essa ma al di là di essa si trova la nostra realtà. Terminato che ebbi di scrivere questo capitolo, sedetti sul mio letto nella posizione del loto. La mia stanza era fiocamente illuminata da due lampade velate. Levando lo sguardo, mi accorsi che il soffitto era punteggiato di piccole luci color senape che scintillavano e tremavano con un luccichio fosforescente; miriadi di raggi di luce simili a cortine di pioggia, si radunavano a fasci e scendevano silenziosamente su di me. In quell'istante il mio corpo perdette la sua consistenza fisica e si tramutò in materia astrale. Provai una sensazione fluttuante quando, toccando appena il letto il mio corpo senza peso ondeggiò leggermente e alternamente da sinistra a destra. Mi guardai intorno nella stanza: i mobili e le pareti erano come sempre ma la piccola massa di luce si era moltiplicata tanto da rendere invisibile il soffitto. Fui colpito da meraviglia. "Questo è il meccanismo del cinema cosmico", disse una Voce che sembrava provenire dalla luce stessa. "Spargendo i suoi raggi sul bianco schermo della coltre del tuo letto, esso produce la figura del tuo corpo. Guarda! La tua forma non è altro che luce!. Guardai le mie braccia, le mossi avanti e indietro, eppure non ne sentivo il peso. Un'estatica gioia mi travolse. Quel cosmico stelo di luce che fioriva nella forma del mio corpo sembrava una copia divina dei raggi di luce uscenti dalla cabina di proiezione di un cinematografo, e che si manifestano sullo schermo sotto forma di immagini. A lungo osservai quella proiezione del mio corpo nel teatro fiocamente illuminato della mia camera da letto. Sebbene io abbia avuto molte visioni, nessun'altra fu più singolare di questa.
Quando l'illusione di avere un corpo solido si fu completamente dileguata, e si fu approfondita in me la coscienza che l'essenza di tutti gli oggetti è luce, alzai lo sguardo verso il pulsante fiotto di vitatroni e supplicai: (Nota: il testo inglese dice: "lifetrons", per analogia con 'electrons'; noi traduciamo con 'vitatroni'. (N.d.T.) Fine nota) - Luce Divina, assorbi, ti prego, in Te l'umile figura del mio corpo, come Elia, che fu tratto in cielo da un turbine di fiamma!" (Nota: II, Re, 2, 11. Fine nota). Questa preghiera era evidentemente troppo ardita poiché il raggio scomparve. Il mio corpo riprese il suo peso normale e ricadde sul letto; lo stuolo di abbagliante luce sul soffitto oscillò e svanì. L'ora in cui mi sarebbe stato concesso di abbandonare questo mondo evidentemente non era ancora giunta. - E per di più, - pensai filosoficamente, - il profeta Elia potrebbe ben dispiacersi della mia presunzione! (Nota: Un 'miracolo' è comunemente considerato un effetto o un evento senza legge, oppure trascendente ogni legge. Ma, nel nostro universo così meticolosamente ordinato, tutti gli eventi derivano da una legge e possono essere spiegati con una legge. I cosiddetti poteri miracolosi di un grande Maestro sono un naturale attributo che accompagna l'esatta comprensione di leggi sottili che operano nel cosmo interiore della coscienza. Nulla può essere propriamente detto un miracolo, fuorché in quel senso profondo per cui tutto è un miracolo. Che ognuno di noi sia racchiuso in un complicatissimo organismo e posto su una terra che gira vertiginosamente attraverso lo spazio fra le stelle: vi è forse cosa più comune - e più miracolosa di questa? I grandi profeti come Cristo e Lahiri Mahasaya di solito compiono molti miracoli. Tali maestri hanno una vasta e difficile missione spirituale da compiere verso l'umanità; l'aiutare in modo miracoloso coloro che sono in pena sembra far parte di questa loro missione. Dei "fiat" divini sono necessari per vincere le malattie incurabili e i problemi umani insolubili. Quando l'ufficiale del Re a Cafarnao chiese al Cristo di guarire suo figlio, Gesù rispose con ironia: "Se voi non vedete dei segni e dei prodigi non credete". Però aggiunse: "Va' tuo figlio vive" (Giovanni, 4, 46-54). Ho dato in questo capitolo la spiegazione vedica di maya, il magico potere dell'illusione che sta alla base dei mondi fenomenici. La scienza occidentale ha già scoperto che una 'magia d'irrealtà' pervade la 'materia' atomica.
Tuttavia non soltanto la natura ma anche l'uomo (nel suo aspetto mortale) è soggetto a maya, al principio della relatività, del contrasto, del dualismo, dell'inversione, di tutti gli opposti. Non si deve immaginare che la verità sulla maya fosse stata compresa soltanto dai rishi. I profeti dell'Antico Testamento chiamavano la maya col nome di Satana (letteralmente, in ebraico, 'l'avversario'). Il Testamento greco usa, quale equivalente di Satana, la parola Diavolo. Satana o Maya è il mago cosmico che produce la molteplicità delle forme per nascondere la Verità Unica che è senza forma. Nel piano e nel gioco (lila) di Dio, l'unica funzione di Satana è quella di cercare di attirare l'uomo verso la materia distraendolo dallo Spirito, allontanandolo dalla Realtà per portarlo verso l'irreale. Il Cristo descrive maya in modo pittoresco come un diavolo, un assassino o un mentitore. "Il diavolo... era omicida fin da principio, e non perseverò nella verità, perché la verità non è in lui. Quando dice la menzogna parla del suo perché è bugiardo e padre di quella" (Giovanni, 8, 44). "Chi commette il peccato, è del diavolo; perché il diavolo pecca dal principio. Per questo venne il Figliuol di Dio, per distruggere le opere del diavolo". (I Lettera di Giovanni, 3, 8). Ciò vuol dire che la manifestazione della Coscienza Cristica nell'uomo distrugge senza sforzo gli inganni, o "opere del diavolo". Maya è senza inizio ('dal principio', come fecero notare Gesù e Giovanni), a causa della sua natura inerente al mondo dei fenomeni. questo è in perpetuo fluire, in perpetua transizione, quale antitesi alla Divina Immutabilità. Fine nota).
CAPITOLO XXXI UN'INTERVISTA CON LA MADRE SANTA "Reverenda Madre, nell'infanzia fui battezzato da vostro marito, il profeta. Egli fu il Guru dei miei genitori e del mio stesso Guru, Sri Yukteswarji. Volete dunque concedermi il privilegio di conoscere alcuni avvenimenti della vostra santa vita?". Così mi rivolgevo a Srimati Kashi Moni, la compagna della vita di Lahiri Mahasaya. Trovandomi a Benares per un breve soggiorno, appagavo l'antico desiderio di far visita alla venerabile signora. Ella mi accolse gentilmente nella vecchia casa dei Lahiri, nel quartiere Garudeswar Mohulla di Benares. Sebbene anziana, era fiorente come un loto ed emanava una silenziosa fragranza spirituale. Era di media statura, aveva collo sottile e pelle chiara; grandi occhi splendenti ammorbidivano il suo viso materno. "Figlio, sei il benvenuto. Sali!". Kashi Moni mi condusse in una piccolissima stanza dove un tempo era vissuta col marito. Mi sentii onorato di poter vedere il luogo sacro nel quale l'impareggiabile Maestro aveva accondisceso a recitare la sua parte nel dramma umano del matrimonio. L'amabile signora m'invitò a sedere su di un cuscino accanto a lei. "Ci vollero anni prima che mi rendessi conto della divina statura spirituale di mio marito", ella cominciò a dire. "Una notte, in questa stessa stanza, ebbi un sogno molto vivido: angeli gloriosi ondeggiavano con grazia indescrivibile sopra di me. Quello che vedevo era tanto reale che mi svegliai subito; la stanza era stranamente immersa in una luce abbagliante. "Mio marito, assiso nella posizione del loto, levitava al centro della stanza, circondato da angeli adoranti a mani giunte e levate verso di lui in un gesto di supplice dignità. Meravigliata oltre ogni dire, ero convinta di stare ancora sognando. " - Donna, - disse Lahiri Mahasaya, - non sogni; rinunzia una volta per sempre al tuo sonno. E mentre egli lentamente ridiscendeva sul pavimento, anch'io mi prostrai ai suoi piedi.
" - Maestro, - esclamai piangendo, - io m'inchino e sempre m'inchinerò dinanzi a te! Vorrai perdonarmi di averti considerato come mio marito? Muoio di vergogna nell'accorgermi di aver dormito nell'ignoranza, accanto a qualcuno che è divinamente desto. Da questa notte in poi non sei più mio marito, ma il mio Guru. Vuoi accettare il mio essere insignificante in qualità di discepola? "Il Maestro mi toccò lievemente: - Anima sacra, sorgi. Sei accettata! - e indicandomi gli angeli: - Ti prego inchinati a turno ad ognuno di questi santi benedetti. "Quando ebbi terminato le mie umili genuflessioni, le angeliche voci risuonarono insieme come il coro di una Scrittura antica: "Consorte del Divino, tu sei benedetta. Noi ti rendiamo omaggio! - Essi s'inchinarono ai miei piedi, e le loro forme fulgenti sparirono. La stanza si oscurò. "Il mio Guru mi propose di iniziarmi al Kriya Yoga. " - Certamente - gli risposi - mi spiace di non aver avuto prima nella vita tale benedizione. " - Il tempo non era maturo. - Lahiri Mahasaya sorrise, consolante. Silenziosamente t'ho aiutata a disfarti di una gran parte del tuo karma. Adesso sei ben disposta e pronta. "Egli mi toccò la fronte; apparvero masse di luce rotanti, e il fulgore gradatamente si trasformò nell'azzurro opalino dell'occhio spirituale circondato d'oro, con al centro una bianca stella pentagonale. " - Fai penetrare la tua coscienza, attraverso la stella, nel regno dell'Infinito. - La voce del mio Guru aveva un tono nuovo, dolce come una musica lontana. "Visioni e visioni si frangevano l'una dopo l'altra, come la risacca dell'oceano, sulle rive dell'anima mia. Le sfere panoramiche alla fine si fusero in un mare di rapimento. Mi perdetti in un'infinita marea di beatitudine. Quando, dopo molte ore, riacquistai coscienza di questo mondo, il Maestro m'impartì la tecnica del Kriya Yoga. "Da quella notte Lahiri Mahasaya non dormì mai più nella mia stanza. Né da allora dormì più; rimase con i suoi discepoli nella stanza sul davanti al pianterreno, di giorno e di notte." L'illustre signora tacque. Consapevole dei rapporti unici e straordinari che la legavano al sublime yoghi, osai infine chiederle di narrarmi altri episodi della loro vita. "Figlio, sei esigente. Tuttavia ti racconterò un'altra storia". Sorrise un po' vergognosa. "Ti confesserò un peccato che commisi contro il mio Gurumarito. Qualche mese dopo la mia iniziazione, cominciai a sentirmi
abbandonata e negletta. Una mattina Lahiri Mahasaya entrò in questa stanzetta per cercarvi qualcosa. Lo seguii. Sopraffatta da una violenta delusione, gli rivolsi la parola con asprezza. " - Passi tutto il tuo tempo con i discepoli. E le tue responsabilità verso tua moglie e i tuoi figli? Mi duole che non ti preoccupi di procurare un po' più di denaro per la tua famiglia. "Il Maestro mi fissò un momento e purtroppo disparve. Impaurita e piena di reverenza, udii una voce risuonare da ogni parte della stanza: " - Non vedi che tutto è nulla? Come potrebbe un nulla come me produrre per te delle ricchezze? " - Guruji - gridai, - un milione di volte imploro il tuo perdono! I miei occhi colpevoli non possono più vederti; ti prego, appari nella tua sacra forma. " - Sono qui, - udii rispondere dall'alto. Alzai il viso e vidi il Maestro materializzarsi nell'aria, con la testa che toccava il soffitto. I suoi occhi erano come fiamme accecanti. Fuori di me dalla paura, caddi ai suoi piedi singhiozzando, dopo che egli fu tranquillamente sceso di nuovo a terra. "- Donna, - disse - cerca la ricchezza divina e non il vile orpello della terra. Quando avrai acquistato il tesoro interiore, ti accorgerai che quanto occorre per la vita materiale viene sempre. - E aggiunse: - Uno dei miei figli spirituali provvederà a te. "Naturalmente le parole del mio Guru si avverarono : un discepolo lasciò una notevole somma per la nostra famiglia". Ringraziai Kashi Moni per avermi confidato alcuni dei suoi straordinari ricordi. (Nota: La venerabile madre si spense a Benares nel 1930. Fine nota). Il giorno seguente ritornai alla sua casa e trascorsi piacevoli ore in discussioni filosofiche con Tincouri e Ducouri Lahidi. Questi due santi figli del grande Guru dell'India seguivano fedelmente il cammino ideale da lui tracciato. Entrambi erano di colorito chiaro, con folte barbe e voci suadenti, e un fascino d'altri tempi nelle maniere. La moglie non era l'unica donna discepola di Lahiri Mahasaya; ve n'erano centinaia d'altre, fra cui anche mia madre. Una chela (Pron. 'cela': discepola N.d.T.) chiese una volta al Guru la sua fotografia. Egli gliene diede una copia dicendole: "Se la consideri una protezione, sarà così; altrimenti sarà solo un ritratto". Qualche giorno dopo, questa donna e la nuora di Lahiri Mahasaya studiavano la Bhagavad Gita su un tavolo dietro al quale era appesa, alla
parete, la fotografia del Guru. Una tempesta di fulmini scoppiò violentissima. - Lahiri Mahasaya proteggici! - Le donne s'inchinarono dinanzi al ritratto. Una folgore colpì il libro su cui le donne studiavano, ma esse rimasero incolumi. "Ho avuto la sensazione che un sottile strato di ghiaccio mi fosse stato messo intorno per proteggermi dal calore bruciante", spiegò la chela. Lahiri Mahasaya compì due miracoli per una discepola, Abhoya. Costei e il marito, un avvocato di Calcutta, partirono un giorno per visitare il Guru a Benares. A causa del grande traffico la loro carrozza giunse in ritardo, ed essi arrivarono alla stazione principale di Howrah mentre il treno per Benares già fischiava la partenza. Abhoya, che era accanto allo sportello dei biglietti, rimase tranquilla. - Lahiri Mahasaya, ti supplico di fermare il treno! - pregò in silenzio. Non posso sopportare l'ansia di attendere ancora un giorno per vederti. - Le ruote del treno che sbuffava continuavano a girare, a girare senza avanzare di un millimetro. Il macchinista e i passeggeri discesero dal treno per osservare il fenomeno. Una guardia ferroviaria inglese si avvicinò ad Abhoya e a suo marito e, cosa assolutamente senza precedenti offrì i suoi servigi. "Babu, datemi il denaro, comprerò i vostri biglietti mentre salite in treno". Non appena la coppia si fu seduta ed ebbe ricevuto i biglietti il treno lentamente incominciò a muoversi. Presi dal panico, il macchinista e i passeggeri risalirono ai loro posti, senza sapere perché il treno si fosse rimesso in moto né perché in un primo tempo si fosse fermato. Quando giunsero alla casa di Lahiri Mahasaya a Benares. Abhoya si prostrò in silenzio dinanzi al Maestro e cercò di toccargli i piedi. "Riprenditi Abhoya! Ti diverti proprio a importunarmi! Come se non fossi potuta venire qui col prossimo treno!", osservò il maestro. Abhoya visitò Lahiri Mahasaya in un'altra memorabile occasione. Questa volta ella implorava la sua intercessione non per un treno, ma per una ... cicogna. "Beneditemi affinché il mio nono figlio possa vivere!", ella disse. "Mi sono nati otto bambini, ma sono morti tutti poco dopo". Il Maestro sorrise, pieno di comprensione. "Il figlio che attendi vivrà. Segui con attenzione le mie istruzioni. Sarà una bambina e nascerà di notte; vigila affinché la lampada a olio arda fino all'alba. Non addormentarti, per non lasciare che il lume si spenga". Ad Abhoya nacque una bambina, nella notte, proprio come aveva predetto il Guru onnisciente. La madre ordinò all'infermiera di tenere la
lampada sempre piena d'olio. Le due donne vegliarono quasi fino all'alba, ma poi s'addormentarono. La lampada stava per spegnersi, la luce ondeggiava fievolmente. La porta della camera da letto si spalancò con un violento rumore. Le due donne, impaurite, si svegliarono: i loro occhi stupefatti videro la forma di Lahiri Mahasaya. "Abhoya, stai attenta! La luce è quasi spenta!". E indicò la lampada che l'infermiera s'affrettò ad alimentare di nuovo. Appena la fiamma tornò ad ardere il Maestro scomparve, la porta si chiuse e il chiavistello fu tirato da mani invisibili. La nona creatura di Abhoya sopravvisse. Nel 1935 seppi che era ancora viva. Uno dei discepoli di Lahiri Mahasaya, il venerabile Kali Kumar Roy, mi narrò molti affascinanti particolari della sua vita col Maestro. "Spesso ero suo ospite a Benares per intere settimane", raccontò Roy. "Mi accorgevo che molti santi personaggi, dandi swami (Nota: un particolare Ordine di monaci che portano un bastone di bambù (danda), simbolo della colonna vertebrale dell'uomo. Il risveglio dei sette centri cerebrospinali costituisce il vero sentiero verso l'Infinito. Fine nota) giungevano nella pace della notte per sedere ai piedi del Guru. A volte si ingolfavano in discussioni su questioni filosofiche o sulla meditazione. All'alba gli illustri ospiti se ne andavano. Durante le mie visite rilevai che Lahiri Mahasaya non andò a dormire neppure una volta. "Durante il primo periodo della mia unione col Maestro dovetti lottare contro l'opposizione del mio principale, il quale era un materialista convinto. " - Fra i miei impiegati non voglio dei fanatici religiosi, - diceva schernendomi. - Se mai incontro quel ciarlatano del tuo Guru, ricorderà le mie parole! "Questa allarmante minaccia non valse a interrompere il mio abituale programma; trascorrevo infatti quasi tutte le sere col mio Guru. Una notte, il mio capo mi seguì ed entrò bruscamente nel salotto. Senza dubbio era ben deciso a lanciare le invettive che aveva minacciate. Non appena si fu seduto, Lahiri Mahasaya si rivolse al gruppetto di discepoli, circa una dozzina: " - Vi piacerebbe vedere un quadro? "Noi annuimmo, ed egli ci ordinò di oscurare la stanza. - Sedete l'uno dietro l'altro in circolo e ponete le mani sugli occhi della persona che vi sta dinanzi.
"Non mi meravigliai nel vedere che anche il mio principale, sebbene a malincuore, seguiva le istruzioni del Maestro. Dopo pochi istanti Lahiri Mahasaya ci chiese quello che vedevamo. " - Maestro - risposi - si vede una bellissima donna. Ella indossa un sari bordato di rosso e sta ritta accanto a una pianta d'orecchio di elefante. "Tutti gli altri discepoli fecero la stessa descrizione. Il Maestro si rivolse al mio capo: - Riconosci quella donna? " Si! - Egli lottava in modo evidente con delle emozioni nuove per la sua natura. - Sono stato un pazzo a spendere tanto denaro per lei pur avendo un'ottima moglie. Mi vergogno dei motivi che mi hanno condotto qui. Volete perdonarmi e accogliermi quale vostro discepolo? " - Se condurrai una vita morale per sei mesi, ti accetterò. - E il Maestro aggiunse enigmaticamente: - Altrimenti non avrò bisogno d'iniziarti. "Per tre mesi il mio capo resistette a ogni tentazione poi riprese i suoi antichi rapporti con la donna e dopo due mesi morì. Compresi allora la velata profezia del mio Guru sull'improbabile iniziazione di quell'uomo". Lahiri Mahasaya ebbe un amico assai famoso, Swami Trailanga, che si diceva avesse più di trecento anni. I due yoghi spesso sedevano insieme in meditazione. La fama di Trailanga è così diffusa che ben pochi indù negherebbero la possibilità di qualsiasi storia riguardante i suoi stupefacenti miracoli. Se Cristo tornasse sulla terra e camminasse per le vie di New York, manifestando i suoi divini poteri, provocherebbe lo stesso subbuglio che suscitava Trailanga decine d'anni fa quando attraversava le affollate vie di Benares. Egli fu uno di quei siddha (esseri perfetti) che cementarono l'India, rendendola inattaccabile dalle erosioni del tempo. In molte occasioni lo swami fu visto bere i più potenti veleni senza alcun inconveniente. Migliaia di persone, alcune delle quali vivono tuttora, videro Trailanga galleggiare sul Gange. Per giornate intere egli sedeva sul pelo dell'acqua o restava nascosto per lungo tempo sotto le onde. Uno spettacolo abituale per i bagnanti nei ghat di Benares era quello di vedere il corpo immobile dello swami poggiato sulla pietra infocata, completamente esposto all'inclemente sole indiano. Con questi mezzi Trailanga cercava d'insegnare agli uomini che la vita di uno yoghi non dipende dall'ossigeno o dalle condizioni e precauzioni ordinarie; che stesse sopra o sotto l'acqua, che sfidasse o no i feroci raggi del sole, il Maestro dimostrava di vivere per mezzo della divina coscienza; la morte non poteva toccarlo.
Lo yoghi era grande non solo spiritualmente, ma anche fisicamente: pesava 135 chili, ossia una libbra per ogni suo anno di vita! Poiché mangiava assai raramente, il mistero è anche maggiore! Ma un Maestro può facilmente ignorare ogni norma comune per star bene in salute, quando desidera farlo per qualche ragione speciale, spesso nota a lui solo. I grandi Santi che si sono destati dal cosmico sogno di maya e hanno compreso che questo mondo è solo un'idea della Mente Divina, possono disporre come vogliono del loro corpo considerandolo soltanto una forma malleabile di energia condensata o congelata. Sebbene gli studiosi di fisica ammettano ormai anch'essi che la materia non è altro che energia congelata, i Maestri pienamente illuminati sono passati già da molto tempo dalla teoria alla pratica nel campo del controllo della materia. Trailanga stava sempre completamente nudo. La polizia di Benares, preoccupata, giunse a considerarlo un "bambino difficile". Lo swami, innocente come Adamo nei giardini dell'Eden, non era affatto conscio della sua nudità; ne era ben conscia, invece, la polizia che, senza tanti complimenti, lo mise in carcere. Ne risultò un trambusto generale: ben presto si vide l'enorme corpo di Trailanga, nella sua abituale interezza, passeggiare sul tetto della prigione. La sua cella sempre ben chiusa non lasciava capire come avesse potuto evaderne. I rappresentanti della legge, benché scoraggiati, compirono ancora una volta il loro dovere, mettendo però una sentinella dinanzi alla porta della sua cella. Di nuovo il potere si arrese alla legge; ma ben presto si rivide Trailanga passeggiare, col suo passo indolente, sul tetto. La Giustizia è cieca; la polizia, sconfitta, decise di seguire il suo esempio. Il grande yoghi serbava abitualmente il silenzio. (Nota: Egli era un muni, un monaco che osserva il mauna, o silenzio spirituale. La radice sanscrita muni è affine alla parola greca monos, "unico, solo" dalla quale derivano le parole monaco, monismo ecc. Il nudismo di Trailanga, corrisponde a una pratica dei gidambara, i "vestiti di cielo". Fine nota). Malgrado la faccia tonda e l'enorme ventre a bariletto, Trailanga mangiava solo eccezionalmente, di quando in quando. Dopo intere settimane di digiuno lo interrompeva bevendo ciotole di latte acido offerto dai suoi devoti. Uno scettico decise un giorno di dimostrare che Trailanga era un ciarlatano; presentò allo swami una brocca riempita di una mistura di calce viva, che si usava per imbiancare i muri. "Maestro", disse il materialista con burlesca reverenza, "vi ho portato del latte cagliato: bevetelo!". Trailanga bevve senza esitare fino all'ultima goccia la calce caustica. Pochi istanti dopo l'uomo malvagio cadde a terra in agonia.
"Aiuto, swami aiuto!", gridava. "Io brucio! Perdonate la mia infame prova!". Il grande yoghi infranse il suo abituale silenzio e gli disse: "Schernitore, quando mi hai offerto il veleno non sapevi che la mia vita è tutt'uno con la tua? Se io non avessi piena coscienza che Dio è presente nel mio stomaco come in ogni atomo della creazione, la calce mi avrebbe ucciso. Ora che sai il divino significato del boomerang, non fare più scherzi del genere a nessuno". Il peccatore purgato e guarito dalle parole di Trailanga, sgattaiolò via in silenzio. La reversione della sofferenza non era dovuta ad alcun atto di volontà del Maestro, ma si attuò nell'applicazione infallibile della legge di giustizia (Nota: Il Re, 2, 19-24. Dopo che Eliseo ebbe risanato le acque in Gerico, un gruppo di fanciulletti lo sbeffeggiò "...e uscirono due orsi dalla foresta che sbranarono quarantadue di quei fanciulli". Fine nota) che sostiene i più lontani movimenti dell'orbe e ogni cosa del creato. La legge divina ha un'azione istantanea per gli uomini come Trailanga che hanno realizzato Dio, poiché essi hanno bandito per sempre ogni controcorrente ritardatrice proveniente dall'ego. La fede nelle compensazioni automatiche della giustizia, che spesso paga in moneta imprevista - come nel caso di Trailanga e del suo virtuale assassino, - mitiga la nostra troppo precipitosa indignazione contro l'ingiustizia umana. 'Mia è la vendetta, Mia la retribuzione', dice il Signore (Nota: (Ai Romani, 12, 19, Fine nota). Quale bisogno c'è delle povere risorse dell'uomo? L'universo intero collabora al fine di creare la giusta retribuzione. Le menti limitate discreditano le possibilità della divina giustizia, dell'amore, dell'onniscienza, dell'immortalità. "Inconsistenti congetture delle Scritture!". Gli uomini che hanno questo punto di vista limitato e ottuso, privo di reverenza dinanzi allo spettacolo cosmico, danno nella loro vita l'avvio a un seguito di eventi discordanti, che portano in sé il germe del risveglio. E' all'onnipotenza della legge spirituale che si riferiva il Cristo in occasione della sua entrata trionfale in Gerusalemme. Mentre i discepoli e la moltitudine urlavano di gioia e gridavano: "Pace nei Cieli e gloria all'Altissimo", alcuni farisei si lagnarono del poco dignitoso spettacolo: "Maestro", protestarono, "rimprovera i tuoi discepoli". E Gesù rispose: "Io vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno" (Nota: (Luca 19, 37-40. Fine nota).
Riprendendo in tal modo i farisei, il Cristo volle significare che la giustizia divina non è un'astrazione figurativa, e che un uomo di pace, anche se ha la lingua strappata, troverà sempre il proprio linguaggio e la propria difesa nella roccaforte della creazione, ossia nello stesso ordine universale. "Credete voi", diceva Gesù, "di poter far tacere gli uomini apportatori di pace? Potreste nella stessa maniera sperare di soffocare la voce di Dio, di cui le pietre stesse proclamano la gloria e l'onnipresenza. Chiedete voi che gli uomini non si adunino per onorare la pace nei cieli, ma che le folle si riuniscano solo per chiedere la guerra sulla terra? Allora fate i vostri preparativi, farisei, per sconvolgere le fondamenta del mondo; poiché non solo gli uomini mansueti, ma le pietre, la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria sorgeranno contro di voi per rendere testimonianza della Sua armonia nel creato". Trailanga, lo yoghi che emulava il Cristo, concesse un giorno la grazia al mio sajo mama (zio materno). Una mattina, ai bagni (ghat) di Benares, lo zio vide lo yoghi circondato da una folla di devoti. Riuscì a stento a farsi strada verso di lui e gli toccò i piedi con umiltà. Lo zio si meravigliò di trovarsi istantaneamente guarito da un doloroso disturbo cronico (Nota: La vita di Trailanga e d'altri Maestri ricorda le parole di Gesù: "Or questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto; nel mio nome (la coscienza di Gesù) cacceranno i demoni, parleranno in lingue nuove, prenderanno in mano dei serpenti, e se pur bevessero alcunché di mortifero non ne avranno alcun male, imporranno le mani agli infermi ed essi guariranno" (Marco, 16, 17-18). Fine nota). L'unico discepolo vivente del grande yoghi che si conosca è una donna: Shankari Mai Jew. Figlia di un discepolo di Trailanga, ricevette gli insegnamenti e la disciplina dello Swami fin dalla prima infanzia. Visse quarant'anni in diverse caverne solitarie sull'Himalaya, vicino a Badrinath, Kedarnath, Amarnath e Pasupatinath. La brahmacharini (donna asceta), nata nel 1826m ha ora ben oltrepassato il secolo. Tuttavia nell'aspetto non è invecchiata, ha conservato i suoi capelli neri, denti scintillanti e la sua straordinaria energia. A intervalli di anni, abbandona la sua reclusione per partecipare a dei periodici mela o feste religiose. Questa santa donna visitava sovente Lahiri Mahasaya. Ella narrò che un giorno, nel quartiere Barackpur vicino a Calcutta, mentre sedeva accanto a Lahiri Mahasaya, il suo grande Guru Babaj entrò tranquillamente nella stanza e si mise a conversare con entrambi. "Il Maestro immortale portava attorno ai fianchi un panno bagnato, come fosse appena uscito da un bagno nel Gange. Mi concesse la benedizione del suo consiglio spirituale".
Una volta il Maestro Trailanga, a Benares, ruppe il suo abituale silenzio per rendere pubblicamente onore a Lahiri Mahasaya. Un discepolo lo criticò dicendogli: "Signore, perché mai voi, Swami, un uomo che ha rinunciato a tutto, mostrate tanto rispetto per un uomo sposato?". "Figlio mio", rispose Trailanga, "Lahiri Mahasaya è come un divino gattino che resta dovunque lo metta la Madre Divina. Mentre svolge coscienziosamente la sua parte di uomo e di sposo nel mondo egli ha raggiunto quella perfetta auto-realizzazione per cui io ho rinunciato a tutto perfino al mio perizoma".
CAPITOLO XXXII RAMA RISUSCITA DA MORTE "Or vi è un ammalato, un certo Lazzaro... Gesù udito ciò disse: - Questa malattia non è per la morte ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figliuolo di Dio sia glorificato" (Nota: Giovanni, 11, 1-4, Fine nota). In un mattino pieno di sole Sri Yukteswar stava spiegando le Scritture cristiane sul balcone del suo eremitaggio, a Serampore. Il suo uditorio consisteva in pochi discepoli del Maestro, incluso me stesso, e un gruppetto dei miei allievi di Ranchi. "In questo passo Gesù chiama se stesso il Figlio di Dio. Sebbene egli fosse davvero tutt'uno con Dio, questo riferimento ha qui un profondo significato impersonale", spiegò il mio Guru. "Il Figlio di Dio è il Cristo, o Divina Coscienza, nell'uomo. Nessun mortale può glorificare Dio. L'unico onore che l'uomo può tributare al Creatore è di cercarLo; non si può glorificare un'Astrazione che non si conosce. La "gloria", o nimbo, intorno al capo dei Santi, è una simbolica testimonianza delle loro capacità di rendere omaggio a Dio". Sri Yukteswar continuò a leggere la meravigliosa storia della resurrezione di Lazzaro. Dopo aver terminato, il Maestro piombò in un profondo silenzio, con il libro sacro aperto sulle ginocchia. "Anch'io ho avuto il privilegio di assistere a un simile miracolo", disse alla fine il Guru in tono solenne. "Lahiri Mahasaya risuscitò da morte uno dei miei amici". I ragazzi che mi stavano accanto sorridevano, interessatissimi. In me vi era ancora tanto spirito infantile da farmi godere, non solo della filosofia, ma di qualsiasi storia che potevo indurre Sri Yukteswar a narrare sulle mirabili esperienze da lui avute col suo Guru. "Il mio amico Rama ed io eravamo inseparabili", cominciò il Maestro. "Egli era timido e schivo, perciò preferiva visitare il nostro Guru Lahiri Mahasaya solo durante le ore da mezzanotte all'alba, quando la folla dei discepoli che lo visitavano durante il giorno era assente. Come intimo amico di Rama, raccoglievo le sue confidenze riguardo a molte sue profonde esperienze spirituali. La sua ideale amicizia era per me elemento di ispirazione". Il viso del mio Guru si addolcì nei ricordi.
"Rama fu improvvisamente sottoposto a una dura prova: fu colpito dal colera asiatico. Poiché il Maestro mai si opponeva a che fosse chiamato un medico in casi gravi, furono convocati due specialisti. Mentre essi si affannavano a curare il poveretto, io pregavo ardentemente Lahiri Mahasaya, per ottenere il suo aiuto. Corsi a casa sua e fra i singhiozzi gli raccontai tutto. " - I dottori curano Rama. Egli guarirà, - disse il Guru sorridendo giovialmente. "Ritornai accanto al letto del mio amico col cuore leggero, ma lo trovai moribondo. " - Non può durare più di un'ora o due, - mi disse uno dei medici con un gesto di sconforto. Corsi di nuovo da Lahiri Mahasaya. "I dottori sono uomini coscienziosi. Sono certo che Rama guarirà". E il Maestro mi congedò allegramente. "A casa di Rama trovai che i due medici se n'erano andati. Uno di essi mi aveva lasciato questo breve messaggio scritto: 'Abbiamo fatto del nostro meglio, ma il caso è disperato'. "Il mio amico offriva davvero il quadro d'un uomo che muore. Non comprendevo come le parole di Lahiri Mahasaya potessero non avverarsi, eppure la vista di Rama che rapidamente si avvicinava alla fine continuava a suscitare in me questo pensiero: - Ormai tutto è finito. - Dibattuto così fra alterne tempeste di fede e di dubbio angoscioso, assistetti l'amico come meglio potevo. Egli si sollevò e gridò: " - Yukteswar, corri dal maestro e digli che me ne sono andato. Chiedigli di benedire il mio corpo prima degli ultimi riti. - Con queste parole Rama esalò un profondo respiro e rese l'anima a Dio. (Nota: Le vittime del colera sono spesso pienamente coscienti fino all'ultimo momento della morte. Fine nota). "Piansi per un'ora accanto alla cara spoglia. Aveva sempre amato la quiete e ora aveva raggiunto la pace assoluta della morte. Un altro discepolo entrò, gli chiesi di rimanere finché io fossi tornato. Mezzo intontito, mi trascinai dal mio Guru. " - Come sta Rama adesso? - Il viso di Lahiri Mahasaya era tutto un sorriso. " - Maestro, ben presto vedrete come sta, - esclamai tutto agitato. - Fra qualche ora vedrete il suo corpo prima che sia trasportato alla cremazione. "Non ressi più e scoppiai in lacrime. " - Yukteswar, controllati. Siedi in tutta calma e medita.
"Il mio guru si ritirò nel samadhi. Quel pomeriggio e quella notte passarono in silenzio ininterrotto. Lottavo invano per ritrovare la mia tranquillità interiore. "All'alba Lahiri Mahasaya mi fissò con uno sguardo consolante. " - Mi avvedo che sei ancora turbato. Perché ieri non mi hai spiegato che desideravi ch'io dessi a Rama un aiuto tangibile, sotto forma di medicina? "E il Maestro indicò una lampada a forma di coppa che conteneva puro olio di ricino: "Riempi una bottiglietta con l'olio della lampada e mettine sette gocce nella bocca di Rama. " - Maestro, - protestai - è morto ieri a mezzogiorno. A che cosa può servire quest'olio? " - Non preoccuparti. Fai quello che ti dico. "L'allegria del mio Guru era per me incomprensibile. Soffrivo ancora l'insostenibile angoscia della separazione. Prendendo con me quel po' di olio, tornai alla casa di Rama "Trovai il corpo del mio amico irrigidito nella morte. non facendo caso alla sua spaventosa condizione, gli aprii le labbra con l'indice destro, e con la mano sinistra e l'aiuto del tappo riuscii a far cadere l'olio a goccia a goccia tra i suoi denti serrati. Quando la settima goccia toccò le sue gelide labbra, Rama fu scosso da un brivido violento, i suoi muscoli vibrarono dalla testa ai piedi, mentre, stupito, si alzava a sedere sul letto. " - Ho visto Lahiri Mahasaya in un fulgore di luce, - mi disse. - Brillava come il sole. 'Alzati, abbandona il tuo sonno', mi comandò; 'vieni con Yukteswar a vedermi'. "Quasi non potevo credere ai miei occhi quando Rama si vestì e dopo quella malattia fatale trovò la forza sufficiente per camminare fino alla casa del nostro Guru. Là si gettò ai piedi di Lahiri Mahasaya, versando lacrime di gratitudine. "Il Maestro impazziva d'ilarità; i suoi occhi scintillavano maliziosamente. " - Yukteswar, - disse, - certamente d'ora in poi non mancherai di portare sempre con te una bottiglietta d'olio di ricino. Dovunque vedrai un cadavere, darai l'olio. E che! Sette gocce d'olio di lampada devono ben distruggere il potere di Yama (Nota: Dio della Morte. Fine nota). " - Guruji, vi prendete gioco di me! Non comprendo! Per piacere chiaritemi la natura del mio errore. "Ti dissi due volte che Rama sarebbe guarito; eppure non mi hai creduto. Non intendevo dire che i dottori lo avrebbero potuto risanare; dissi solo che lo assistevano. Non vi era nessun rapporto causale fra le mie due
dichiarazioni. Non volevo intralciare i dottori; anch'essi hanno il diritto di vivere. "E con una voce che vibrava di gioia il mio Guru aggiunse: "Ricordati sempre che l'inesauribile Paramatman (Nota: Letteralmente: Anima Suprema. Fine nota) può guarire chiunque, con o senza dottori." " - Vedo il mio errore, - riconobbi pieno di rimorsi. - So adesso che la vostra semplice parola impegna il cosmo intero". Quando Sri Yukteswar terminò questa storia straordinaria, uno dei ragazzi di Ranchi osò fare una domanda che, da parte di un bambino, era doppiamente comprensibile: "Maestro, perché mai il vostro Guru fece uso dell'olio di ricino?". "Ragazzo mio, l'olio non aveva altro significato che quello di darmi, come desideravo, un mezzo materiale, e Lahiri Mahasaya scelse l'olio che gli era vicino, come un simbolo obiettivo per risvegliare in me una fede più forte. Il Maestro permise a Rama di morire perché io avevo parzialmente dubitato. Ma il mio Guru divino sapeva che, avendo detto che il suo discepolo sarebbe guarito, ciò sarebbe accaduto anche se avesse dovuto guarire Rama dalla morte; un male, questo, di solito definitivo!". Sri Yukteswar congedò il piccolo gruppo e mi fece sedere su una coperta ai suoi piedi. "Yogananda", disse con inusitata gravità, "tu fosti circondato fin dalla nascita da discepoli diretti di Lahiri Mahasaya. Il grande Maestro visse la sua vita sublime in parziale reclusione e ricusò sempre con fermezza ai suoi seguaci il permesso di fondare una qualsiasi organizzazione sulla base dei suoi insegnamenti. Ciò malgrado egli fece una significativa predizione. " - Circa cinquant'anni dopo il mio trapasso - egli disse, - verrà scritto un racconto della mia vita, perché sorgerà in Occidente un profondo interesse per lo yoga. Il messaggio yoga si diffonderà per tutto il globo terrestre e contribuirà a stabilire fra gli uomini quella fraternità che risulta dalla percezione diretta dell'Unico Padre. "Figlio mio Yogananda", seguitò Sri Yukteswar, "tu devi fare la tua parte diffondendo questo messaggio e scrivendo la storia di quella santa vita". Nel 1945 erano trascorsi cinquant'anni dalla fine di Lahiri Mahasaya, avvenuta nel 1895, e appunto in quell'anno terminai questo libro. Non posso non essere colpito da una coincidenza: proprio nel 1945 si è iniziata una nuova era: l'era delle rivoluzionarie energie atomiche. Tutte le grandi menti si rivolgono, ora come non mai, agli impellenti problemi della pace e della fratellanza, affinché l'uso continuo delle forze fisiche non distrugga, con i problemi, anche gli uomini.
Sebbene le opere della razza umana possano sparire senza lasciare traccia per l'azione del tempo o delle bombe atomiche, il sole non modifica il suo corso e le stelle continuano la loro invariabile veglia. La legge cosmica non può essere fermata né modificata, e l'uomo farebbe assai bene a porsi in armonia con essa. Se il cosmo è contro l'uso della forza, se il sole non fa guerra ai pianeti, ma si ritira a tempo debito per lasciare alle stelle il loro piccolo dominio, a che serve il nostro pugno armato? Potrà mai venirne fuori una qualsiasi pace? Non la crudeltà, ma la buona volontà sostiene l'universo; una umanità di pace conoscerà gli infiniti frutti della vittoria, più dolci di quelli cresciuti su un terreno insanguinato. La vera Lega delle Nazioni sarà una naturale e anonima lega dei cuori umani. La simpatia universale e la profonda comprensione che sono necessarie per sanare i mali della terra non potranno scaturire dalla semplice considerazione intellettuale della diversità fra gli uomini, ma unicamente dalla conoscenza della più profonda unità che affratella tutti gli esseri umani: la nostra parentela con Dio. Per la realizzazione del più alto ideale umano: la pace attraverso la fratellanza, possa lo yoga, la scienza del contatto personale col Divino, essere impartito, col tempo, a tutti gli uomini di tutti i paesi. Benché l'India possieda una civiltà più antica d'ogni altro paese, pochi storici riconobbero che la sua straordinaria sopravvivenza non è un fatto casuale, ma una logica conseguenza dell'impareggiabile devozione alle verità eterne che l'India offrì in ogni generazione con i suoi uomini migliori. Con la semplice continuità della sua esistenza, non intaccata dai secoli (e possano gli studiosi di polverose scartoffie davvero dirci quanti sono?) l'India ha dato fra tutti i popoli la più degna risposta alla sfida del tempo. Il racconto biblico (Nota: Genesi, 18, 23-32. Fine nota). in cui Abramo supplica il Signore di risparmiare la città di Sodoma se vi si troveranno dieci uomini giusti, e la risposta divina: 'Io non la distruggerò per amore di quei dieci', assume un nuovo significato se pensiamo che L'India si salvò dall'oblio in cui caddero i potenti imperi di Babilonia, Egitto, Roma, nazioni maestre nell'arte di guerra che dell'India furono contemporanee. La risposta del Signore dimostra chiaramente che un paese sopravvive non nelle sue conquiste materiali, ma nella grandezza dei suoi uomini. Siano udite ancora una volta le divine parole, in questo XX secolo due volte arrossato di sangue ancor prima che la metà ne sia trascorsa. Nessuna nazione che possa produrre dieci uomini grandi agli occhi del Giudice incorruttibile, conoscerà l'estinzione.
Forte di tale persuasione, l'India dimostrò di non essere inerme di fronte alle mille astuzie del tempo. In ogni secolo, Maestri autorealizzati ne santificarono il suolo. Saggi moderni simili al Cristo, come Lahiri Mahasaya e il suo discepolo Sri Yukteswar, sorgono a proclamare che la scienza dello yoga è più vitale di qualsiasi progresso materiale per la felicità dell'uomo e per la longevità di una nazione. Scarsissime sono le notizie diffuse dalla stampa sulla vita e sulla dottrina universale di Lahiri Mahasaya (Nota: Una breve biografia in bengali, Sri Charan Lahiri Mahasaya, fu pubblicata nel 1941 da Swami Satyananda. Ho tradotto alcuni brani dal suo libro inserendoli qui, in questo capitolo dedicato a Lahiri Mahasaya. Sri, prefisso che significa "santo", è scritto di solito due o tre volte prima del nome dei grandi Maestri indiani. Fine nota). Durante tre decenni trovai in India, in America e in Europa un profondo e sincero interesse per il suo messaggio dello yoga liberatore. Com'egli aveva predetto, una narrazione scritta della sua vita si rende ormai necessaria in Occidente, dove poco si sa delle vite dei grandi yoghi del nostro tempo. Lahiri Mahasaya nacque il 30 settembre 1828 da una religiosissima famiglia brahmina di antico lignaggio. Il suo luogo di nascita fu il piccolo villaggio di Ghurni, nel distretto Nadia vicino a Krishnagar, nel Bengala. Egli era l'unico figlio di Muktakashi, seconda moglie dello stimatissimo Gaur Moham Lahidi. (La prima moglie dopo la nascita di tre figli, era morta durante un pellegrinaggio). La madre del ragazzo morì durante l'infanzia di questi. Poco si sa di lei, eccetto che era un'ardente devota di Shiva, designato nelle Scritture come "Re degli Yoghi". (Nota: Uno della trinità del Dio Supremo: Brahma-Vishnu-Shiva, il cui universale compito è rispettivamente: creazione, conservazione, dissoluzione-restaurazione. Shiva (a volte scritto Siva) è rappresentato nella mitologia quale Signore dei rinuncianti. Nelle visioni dei suoi devoti egli appare sotto vari aspetti come quello di Mahadeva, l'asceta dai capelli intrecciati, o di Nataraja, il Danzatore cosmico. A molti riesce difficile concepire il Signore sotto l'aspetto di Shiva o Distruttore. Nel Mahimnastava, un inno del devoto di Shiva, Puspadanta, questi chiede angosciato: "Perché hai creato i mondi soltanto per distruggerli?". Un versetto del Mahimnastava (da una traduzione di Arthur Avalon) suona così: "Il pestar dei tuoi piedi ha posto la terra in improvviso periglio; Il muover delle tue braccia, forti come canne di ferro, Ha disperso nell'etere le stelle.
Frustati dai tuoi capelli disciolti, furon turbati i cieli... Invero, bene danzasti! Ma affliggere il mondo per salvarlo, Qual mistero è mai questo?" Ma l'antico poeta conclude: "Grande è la differenza tra la mente mia, Capace di poco intelletto e soggetta al dolore E la tua eterna gloria che trascende ogni attributo". Fine nota) Il piccolo Lahiri, che si chiamava Shyama Charan, trascorse i suoi primi anni nell'avita casa di Ghurni. A tre o quattro anni lo si vedeva spesso seduto nella sabbia in una certa posizione yoga, il corpo completamente nascosto, fuorché la testa. La proprietà di Lahiri fu distrutta nell'inverno 1833 quando il vicino fiume Jalangi deviò il proprio corso, e disparve nelle profondità del Gange. Uno dei templi di Shiva fondato dai Lahiri si inabissò nel fiume con la casa avita. Un devoto salvò l'immagine di pietra del Signore Shiva dall'impeto delle acque, e la pose in un nuovo tempio, ora noto col nome di Sito del Shiva di Ghurni. Gaur Mohan Lahiri con la famiglia abbandonò Ghurni e si stabilì a Benares, dove immediatamente eresse un tempio a Shiva. Egli diresse la sua casa secondo le norme della disciplina Vedica, osservando regolarmente i riti religiosi, gli atti di carità e lo studio delle Scritture. Giusto e di mente aperta, egli no ignorava però la benefica corrente delle idee moderne. Il ragazzo Lahiri prese lezioni collettive in indi e in urdu con un gruppo di studio a Benares. Frequentò una scuola diretta da Joy Narayan Ghosal, ricevendo istruzione in sanscrito, in bengali, in francese e in inglese. Applicandosi allo studio approfondito dei Veda, il giovane yoghi ascoltava avidamente le dispute sulle Scritture tenute da colti brahmini, fra cui un pandit di Mahratta, chiamato Nag-Bhatta. Shyama Charan era un giovinetto buono, gentile e coraggioso, amato da tutti i suoi compagni. Dotato di un corpo ben proporzionato, sano e vigoroso, eccelleva nel nuoto e in molte abilità manuali. Nel 1846 Shyama Charan Lahiri sposò Srimati Kashi Moni, figlia di Sri Debnarayan Sanyal. Vero modello di sposa indiana, Kashi Moni assolse lietamente tutti i suoi doveri di donna di casa osservando gli obblighi tradizionali di servire ospiti e poveri. Questa unione fu benedetta da due santi figli: Tincouri e Ducouri, e da due figlie.
Nel 1851, a 23 anni, Lahiri Mahasaya s'impiegò quale contabile nel Dipartimento del Genio Militare del Governo Inglese. Ottenne molte promozioni durante il suo servizio. Non solo egli era un Maestro dinanzi agli occhi di Dio, ma anche un uomo di successo nel piccolo dramma umano, nel quale sosteneva l'umile parte di lavoratore d'ufficio nel mondo. In vari periodi, Lahiri Mahasaya fu trasferito dal Genio Militare negli uffici dipendenti di Gazipur, Mirjapur, Naini Tal, Danapur e Benares. Dopo la morte del padre, il giovane Lahiri dovette assumersi le responsabilità di tutta la sua famiglia. Acquistò per essa una tranquilla proprietà nell'appartata località di Garudeswar Mohulla, nelle vicinanze di Benares. (Nota: Nel 1947 il Governo dell'india soppresse la forma anglicizzante Benares sostituendola con Banaras. Fine nota). Fu nel suo trentatreesimo anno che Lahiri Mahasaya (Nota: Il titolo religioso sanscrito Mahasaya significa 'largo di mente'. Fine nota) vide adempiersi il fine per cui era stato reincarnato sulla terra. Incontrò in quell'anno il suo grande Guru, Babaj, vicino a Ranikhet, nell'Himalaya e fu da lui iniziato al Kriya Yoga. Questo grande avvenimento non riguardò Lahiri Mahasaya soltanto, ma rappresentò un fortunato evento per tutto il genere umano. Con esso l'arte suprema dello yoga, già perduta o da lungo tempo scomparsa, veniva riportata alla luce. Come nella leggenda dei Purana, la Madre Ganga discende dal cielo alla terra per offrire all'arsura del devoto Bhagirath un divino ristoro, così nel 1861 il celeste flusso del Kriya si riversò dalle fortezze segrete dell'Himalaya nei polverosi ricoveri degli uomini. (Nota: Le acque della Madre Ganga, il fiume sacro agli indù, hanno origine in una grotta di ghiaccio dell'Himalaya, tra le nevi eterne egli eterni silenzi. In tutti i secoli, migliaia di Santi gioirono nel rimanere vicino al Gange e lasciarono sulle sue rive un'aura di benedizioni. Una particolarità straordinaria e forse unica del Gange (propria anche delle acque di Lourdes, N.d.T.) è la sua incontaminabilità. Nessun germe patogeno sopravvive nella sua permanente sterilità. Milioni di indù si bagnano nelle sue acque e ne bevono senza riportarne alcun danno. Questo fatto rende perplessi gli scienziati moderni. Uno di essi, John Howard Northrop, co- detentore del premio Nobel per la chimica del 1946, disse di recente: "Sappiamo che il Gange è altamente infetto. Eppure gli indù ne bevono, vi nuotano e a quanto pare, non si ammalano". E aggiunge speranzoso: "Forse un batteriofago (virus che distrugge i batteri) rende sterile il fiume". I Veda inculcano reverenza per tutti i fenomeni naturali. Il devoto indù ben
comprende il cantico di San Francesco d'Assisi: "Lodato sii, mio Signore, per nostra sorella acqua, ch'è utile, e umile, e preziosa, e casta". Fine nota).
CAPITOLO XXXIII BABAJI, IL CRISTICO YOGHI DELL'INDIA MODERNA I picchi settentrionali dell'Himalaya vicino a Badrinarayan sono tuttora benedetti dalla presenza vivente di Babaji, Guru di Lahiri Mahasaya. Il Maestro che vive appartato dal mondo ha mantenuto per secoli, e forse per millenni, la sua forma fisica. Babaji, che non conosce la morte, è un avatar; questa parola sanscrita significa "discesa"; le sue radici sono: ava, "giù" e tri "passare". Nelle Scritture indù, avata indica la discesa della Divinità nella carne dell'uomo. "Lo stato spirituale di Babaj trascende la comprensione umana", mi spiegò Sri Yukteswar. "La limitatissima vista dell'uomo non può penetrare fino alla sua stella trascendente. E' vano anche solo tentare d'immaginare quanto sia elevato l'avatar. Esso è inconcepibile". Le Upanishad hanno minutamente classificato ogni stadio di avanzamento spirituale. Un siddha ("essere perfetto") è progredito dallo stato di un jivanmukta ("liberato mentre vive") a quello di paramukta ("supremamente libero", avente pieno potere sulla morte); quest'ultimo si è completamente sottratto alla schiavitù della maya e al suo ciclo di reincarnazioni. Il paramukta, perciò, raramente ritorna in un corpo fisico; se vi ritorna è un avatar, un essere prescelto da Dio per apportare superne benedizioni al mondo. Un avatar non è soggetto all'economia universale; il suo puro corpo visibile quale immagine di luce, è libero da ogni debito verso la natura. Lo sguardo distratto può non scorgere alcunché di straordinario nelle fattezze di un avatar, ma egli non getta ombra, né lascia tracce di passi sul suolo. Queste sono simboliche prove esteriori dell'assenza di oscurità interiore e di legami materiali. Solo un tale uomo divino conosce la Verità celata dietro la relatività della vita e della morte. Omar Khayyam, così grossolanamente misconosciuto, cantò quest'uomo liberato nella sua opera immortale, Il Rubaiyat : 'Oh! Luna della mia Gioia che non conosci declino, La Luna del Cielo risorge un'altra volta; Quante volte in futuro, levandosi, cercherà me, vanamente in questo stesso Giardino!'
"La luna della Gioia che non conosce declino" è Dio, eterno Polo Fisso, sempre presente. La "Luna del Cielo che risorge un'altra volta" è il cosmo esterno, imprigionato nella legge della ricorrenza periodica. Attraverso l'autorealizzazione il veggente persiano si era liberato per sempre dai forzati ritorni alla terra, ossia al "giardino" della natura, o Maya. "Quante volte in futuro... mi cercherà invano!". Quale frustrazione della ricerca da parte di un meraviglioso universo, di ciò che non esiste più! Il Cristo espresse la propria libertà in altra maniera: "Allora uno scriba gli si accostò per dirgli: - Maestro, io ti seguirò ovunque tu vada. - Gli rispose Gesù: - Le volpi han delle tane e gli uccelli dell'aria hanno dei nidi, ma il Figliuol dell'uomo non ha dove posare il capo" (Nota: Matteo, 8, 19-20. Fine nota). Immenso nella sua onnipresenza, poteva il Cristo essere davvero seguito da alcuno fuorché nelle sfere dello Spirito? Krishna, Rama, Buddha e Patanjali erano antichi avatar indiani. Una ricca letteratura poetica in tamil è sorta intorno ad Agastya, un avatar dell'India meridionale. Egli compì molti miracoli durante i secoli che precedettero e seguirono l'era cristiana, e si crede che egli serbi la sua forma fisica ancora oggi. La missione di Babaji in India fu quella di assistere i profeti nell'adempimento dei compiti speciali loro affidati; per questo egli merita il titolo definito nelle Scritture, di Mahavatar (Grande Avatar). Egli dichiarò di avere iniziato allo yoga l'impareggiabile Shankara, filosofo dell'India e antico riorganizzatore dell'ordine degli Swami (Nota: Shamkara, il cui Guru storicamente conosciuto fu Giovinda Jati, ricevette l'iniziazione Yoga da Babaji a Benares. Raccontando l'episodio agli affascinati discepoli Lahiri Mahasaya e Swami Kebalananda, Babaji ricordò molti interessanti particolari del suo incontro col grande monista. Fine nota), nonché Kabir, il famoso Maestro del Medio Evo. Il suo maggior discepolo nel secolo diciannovesimo fu, come sappiamo, Lahiri Mahasaya, che fece rivivere la perduta arte del Kriya. Babaji è in costante comunione col Cristo; insieme essi emettono vibrazioni redentrici e insieme hanno concretato la tecnica spirituale della salvezza per questa nostra era. L'opera di questi due grandi Maestri illuminati - l'uno nel corpo, l'altro senza - è quella di indurre i popoli ad abbandonare le guerre suicide, l'odio di razza, il settarismo religioso e tutti i mali del materialismo che, come il boomerang, rimbalzano su chi li ha lanciati. Babaji ben conosce le tendenze dei tempi moderni e soprattutto l'influsso della complessa civiltà occidentale, e comprende la necessità di
divulgare ovunque, in Occidente come in Oriente, la dottrina d'autoliberazione dello yoga. Non ci meravigli il fatto che non esiste alcun riferimento storico a Babaji. Il grande Guru non apparve mai apertamente, in nessun secolo; l'abbaglio della pubblicità non trova posto nei suoi piani millenari. Come il Creatore, l'unico ma silenzioso Potere, Babaji lavora in umile oscurità. I grandi profeti come il Cristo e Krishna vengono sulla terra con una missione specifica e clamorosa, e se ne vanno appena l'hanno compiuta. Altri avatar, come Babaji, svolgono un'opera che favorisce il lento progresso evolutivo dell'uomo nel corso dei secoli, piuttosto che renderli protagonisti di un grande, storico evento. Tali Maestri si celano sempre allo sguardo della massa, e hanno il potere di rendersi invisibili a volontà. Per queste ragioni, e anche perché solitamente essi ordinano ai discepoli di mantenere il silenzio su di loro, molte altissime figure spirituali rimangono ignote al mondo. In queste pagine io accenno appena alla vita di Babaji, solo quel poco ch'egli crede utile e opportuno portare a conoscenza del pubblico. Non fu mai possibile scoprire dati limitanti - tanto cari al cuore dei biografi - sulla famiglia o sul luogo di nascita di Babaj. Egli, di solito, parla in indi, ma può facilmente conversare in qualsiasi lingua. Ha assunto il semplice nome di Babaj (reverendo padre (Nota: Babaj è un titolo comune. Occasionalmente si trovano in libri indiani, vecchi e nuovi, riferimenti a Maestri religiosi chiamati Babaji, ma nessuno di questi è il Mahavatar Babaji, Guru di Lahiri Mahasaya. L'esistenza del Mahavatar fu rivelata al pubblico per la prima volta nel 1946, attraverso l'Autobiografia di uno Yoghi. Fine nota); altri appellativi di rispetto datigli dai discepoli di Lahiri Mahasaya, sono: Mahamuni Babaji Maharaj (Supremo Maestro Estatico), Maha Yoghi (il grande Yoghi), Trambak Baba e Shiva Baba (titolo degli avatar di Shiva). Che importa se non conosciamo il nome di famiglia di un Maestro completamente liberato da ogni vincolo terreno? "Ogni qualvolta un devoto pronunzia con reverenza il nome di Babaji", diceva Lahiri Mahasaya, "attira su di sé un'immediata benedizione spirituale". Il corpo del Guru immortale non mostra alcun segno degli anni; il suo aspetto è quello di un giovane di non più di venticinque anni. Pelle chiara, statura e corporatura medie. Il bellissimo e vigoroso corpo di Babaj irradia una visibile luce. Ha occhi neri, calmi e teneri; i suoi lunghi e lucidi capelli hanno il colore del rame. Un fatto strano è che a volte Babaj rassomiglia in modo straordinario al suo discepolo, Lahiri Mahasaya. La rassomiglianza è
apparsa talvolta così spiccata, che nei suoi ultimi anni Lahiri Mahasaya poteva benissimo sembrare il padre dell'eternamente giovane Babaji. Swami Kebalananda, il mio santo professore di sanscrito, trascorse un periodo di tempo con Babaji sull'Himalaya. "L'impareggiabile maestro, col suo gruppo di discepoli, si reca da un luogo all'altro nelle montagne", mi raccontò Kebalananda. "Nel suo piccolo gruppo vi sono due discepoli americani molto progrediti. Dopo essere rimasto un po' di tempo in una località, Babaji dice: - Dera danda uthao (trasferiamo altrove il nostro campo e bastone). - Porta con sé un danda simbolico (bastone di bambù). Le sue parole sono il segnale per un immediato trasferimento del gruppo in altro luogo. Non sempre usa però questo metodo di viaggio astrale; a volte va a piedi di picco in picco. "Babaji può esser visto o riconosciuto dagli altri solo quando egli vuole. Si sa che egli è apparso a vari devoti in molte forme, leggermente diverse; a volte con barba e baffi, a volte senza. Poiché il suo corpo, che non conosce decadenza, non richiede alimenti, il Maestro mangia di rado. Per cortesia verso i discepoli che lo visitano, a volte accetta frutta o riso cotto con latte e burro depurato. "Conosco due straordinari avvenimenti della vita di Babaji", continuò Kebalananda. "I suoi discepoli sedevano una notte dinanzi a un enorme fuoco che ardeva per una sacra cerimonia vedica. Il Maestro a un tratto prese un tizzone ardente, e con esso toccò leggermente la spalla nuda di un chela che stava molto vicino al fuoco. " - Signore, che crudeltà! - esclamò Lahiri Mahasaya, lì presente." "Avresti preferito vederlo incenerirsi dinanzi ai tuoi occhi, secondo il decreto del suo karma passato?" "Con queste parole Babaji posò la sua mano risanatrice sulla spalla sfigurata del chela. Questa sera ti ho liberato da una morte atroce. La legge karmica è stata appagata con la lieve sofferenza che ti ha procurato il fuoco. "In un'altra occasione il sacro circolo di Babaji fu disturbato dall'arrivo di uno straniero, che si era arrampicato con straordinaria abilità fino alla quasi inaccessibile cengia vicino al campo del Maestro: " - Signore, voi dovete essere il grande Babaji. - Il volto dell'uomo era illuminato da un'inesprimibile reverenza. - Da mesi vi sto cercando incessantemente e invano fra queste rocce impervie. Vi supplico di accettarmi fra i vostri discepoli. "Poiché il grande Guru non rispose, l'uomo indicò il precipizio che si apriva ai suoi piedi.
" - Se mi rifiutate mi butterò da questa montagna. Per me la vita non ha più alcun valore, se non posso ottenere d'esser guidato da voi verso il Divino. " - Salta, dunque, - rispose Babaji impassibile. - Non posso accettarti nel tuo stato attuale di evoluzione." "L'uomo spiccò immediatamente un salto dal picco. Babaji, ordinò ai discepoli impressionati di andare a prendere il corpo dello straniero. "Quando essi ritornarono con la spoglia sfigurata, il Maestro pose la sua divina mano sul morto, che aprì gli occhi e si prostrò umilmente dinanzi a quell'onnipossente. " - Ora sei pronto per il discepolato. - Babaji era raggiante d'affetto per il suo chela risorto. - Hai coraggiosamente superato una prova difficile (Nota: Questa era una prova d'obbedienza. Quando l'illuminato Maestro disse: "Salta", l'uomo obbedì. Se avesse esitato, avrebbe contraddetto la propria asserzione che considerava, la vita priva d'ogni valore senza la guida di Babaji. Se avesse esitato, avrebbe tradito la sua mancanza di fede incondizionata e completa nel Guru. Perciò la prova, benché drastica e insolita, era, in queste circostanze, perfetta. Fine nota) . La morte non ti toccherà più; ormai fai parte del nostro gruppo immortale. - Quindi Babaji pronunciò la sua solita frase, segnale di partenza: - Dera danda uthao, - e tutto il gruppo scomparve dalla montagna". Un avatar vive nello Spirito onnipresente; per lui non esistono limitazioni di tempo e luogo. Un'unica ragione, perciò, può spingere Babaji a serbare attraverso i secoli la sua forma fisica: il desiderio di dare all'umanità un esempio concreto delle possibilità insite in ciascuno di noi. Se non gli fosse mai dato di scorgere una particella del Divino incarnata in forma umana, l'uomo rimarrebbe oppresso dalla pesante illusione magica di non poter trascendere la propria mortalità. Gesù conosceva fin dal principio lo svolgimento della propria vita; egli visse ogni evento non per sé né per alcuna imposizione karmica, ma unicamente per l'elevazione degli uomini a uno stato cosciente e riflessivo. I suoi quattro discepoli-cronisti, Matteo, Marco, Luca e Giovanni, scrissero l'ineffabile dramma per il bene delle generazioni future. Anche per Babaji non esiste la relatività del passato, presente e futuro; fin dal principio egli conosceva tutte le fasi della sua vita. Adattandosi alla limitata comprensione degli uomini, egli recitò molti atti della sua vita divina dinanzi ad uno o più testimoni. Così accade che un discepolo di Lahiri Mahasaya fosse presente quando Babaji ritenne giunto il momento opportuno per proclamare la possibilità di un'immortalità del corpo.
Egli pronunciò questa promessa dinanzi a Ram Gopal Muzumdar (Nota: L'onnipresente yoghi che aveva osservato che non mi ero inchinato dinanzi al santuario di Tarakeswar. (Cap. XIII). Fine nota), perché potesse essere alfine conosciuta e ispirare altri cuori ansiosi di ricerca. I Grandi pronunciano le loro parole e partecipano al corso apparentemente naturale degli eventi, unicamente per il bene degli uomini. Anche Cristo disse: "Padre... io ben sapevo che tu mi esaudisci sempre; ma ho detto questo a motivo della folla che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato" (Nota: Giovanni, 11, 41-42. Fine nota). Durante la mia visita a Ranbajpur fatta a Ram Gopal, il 'Santo senza Sonno', questi mi riferì la miracolosa storia del suo primo incontro con Babaji. "A volte lasciavo la mia caverna isolata per sedere ai piedi di Lahiri Mahasaya, a Benares", mi raccontò Ram Gopal. "Una notte, mentre sedevo a mezzanotte in silenziosa meditazione fra un gruppo di discepoli, il Maestro mi chiese di fare una cosa strana: " - Ram Gopal, - disse, - vai subito al gath dei bagni di Dasasamedh! "Presto raggiunsi quel luogo solitario. La notte era rischiarata dalla luna e dalle brillanti stelle. Dopo esser rimasto seduto per un po' in paziente silenzio, la mia attenzione fu attratta da un'enorme lastra di pietra ai miei piedi, che si sollevò gradatamente rivelando una grotta sottostante. Mentre la pietra restava sospesa per un ignoto potere, dalla grotta si elevò alta nell'aria la forma drappeggiata di una bellissima e giovane donna. Circondata da un morbido alone, lentamente ella discese dinanzi a me che stavo immobile, immerso in una profonda estasi. Alla fine ella si mosse e parlò gentilmente: " - Sono Mataji (Nota: "Madre Santa". Anche Mataji è vissuta attraverso i secoli ed è spiritualmente avanzata quasi quanto il fratello. Ella rimane in estasi in una grotta sotterranea segreta vicino al ghat di Dassamedh. Fine nota), sorella di Babaji. Ho chiesto a lui e a Lahiri Mahasaya di venire stanotte alla mia grotta per parlare di una questione di grande importanza. "Una nebbia luminosa e fluttuante si approssimava rapidamente sul Gange. La strana luce si rifletteva nelle acque opache. Si avvicinò sempre più finché in un lampo accecante, appavre accanto a Mataji e si condensò subitamente nella forma umana di Lahiri Mahasaya. Egli s'inchinò umilmente ai piedi della santa donna. "Prima che riuscissi a riprendermi dal mio stupore, fui nuovamente colpito da meraviglia nello scorgere una massa rotante di mistica luce che attraversava il cielo.
Discendendo rapidamente, il mulinello fiammeggiante s'accostò al nostro gruppo e si materializzò nel corpo di un bellissimo giovane che, lo compresi subito, era Babaji. Rassomigliava a Lahiri Mahasaya; solamente, Babaji appariva assai più giovane del suo discepolo e aveva i capelli lunghi e chiari. "Lahiri Mahasaya, Mataji ed io c'inginocchiammo ai sacri piedi del grande Guru. Un'eterea sensazione di gloriosa beatitudine faceva vibrare ogni fibra del mio essere mentre toccavo la sua carne divina. " - Sorella mia benedetta - disse Babaji, - ho intenzione di lasciare la mia forma e d'immergermi nella Corrente Infinita. " - Ho già intuito il tuo progetto, amato Maestro. Volevo parlarne con te questa notte. Perché vuoi abbandonare il tuo corpo? - La meravigliosa donna lo fissava supplichevole. " - Che differenza c'è se porto un'onda visibile o invisibile sull'oceano del mio Spirito? "Mataji rispose con un sottile tratto di spirito: - Guru immortale, se non vi è nessuna differenza, allora ti prego di non abbandonare mai la tua forma (Nota: Questo incidente ne ricorda uno narrato da Talete. Il grande filosofo greco insegnava che non vi è differenza tra la vita e la morte. "Allora perché non muori?" chiese un critico. "Perché non fa nessuna differenza", rispose Talete. Fine nota). " - Così sia - disse Babaji solennemente. - Non abbandonerò mai il mio corpo fisico. Esso rimarrà sempre visibile, per lo meno a un piccolo gruppo di persone su questa terra. Il Signore ha espresso la Sua volontà dalle tue labbra. "Mentre ascoltavo con reverenza la conversazione tra i due altissimi esseri, il grande Guru si rivolse a me con un gesto benigno: " - Non temere, Ram Gopal, - disse, - tu sei benedetto per essere stato testimone di questa scena e di questa immortale promessa. "Mentre la dolce melodia della voce di Babaji, si affievoliva, la sua forma e quella di Lahiri Mahasaya lentamente levitavano dirigendosi all'indietro verso il Gange. Un'aureola di luce abbagliante avvolgeva i loro corpi mentre si perdevano nel cielo notturno. "La forma di Mataji fluttuò verso la grotta e ridiscese; la grossa pietra si abbassò da sé, come se fosse stata manovrata da un'invisibile leva. Infinitamente ispirato, ripresi la strada per tornare alla casa di Lahiri Mahasaya. Mentre m'inginocchiavo dinanzi a lui alle prime luci dell'alba, il Guru mi sorrise con aria d'intesa:
" - Sono lieto per te, Ram Gopal, - disse - Il desiderio d'incontrare Babaji e Mataji, sovente da te espresso, ha avuto alla fine il suo grande e sacro esaudimento." "I miei condiscepoli mi dissero che Lahiri Mahasaya non si era mosso dal suo posto fin dalla sera precedente. " - Ci tenne un memorabile discorso sull'immortalità, quando te ne andasti al ghat di Dasasamedh - disse un chela. Per la prima volta compresi la verità dei versetti delle Scritture: 'Un uomo che ha realizzato il Sé può apparire in luoghi diversi, in due o più corpi contemporaneamente'. "In seguito Lahiri Mahasaya mi spiegò molti punti metafisici riguardanti il piano segreto di Dio per questa terra", concluse Ram Gopal. "Babaji è stato prescelto da Dio per rimanere nel corpo per tutta la durata di questo particolare ciclo del mondo. Le età verranno e passeranno, eppure il Maestro immortale sarà ancora e sempre presente sulla ribalta terrestre a osservare il dramma dei secoli". (Nota: "In verità, in verità vi dico che se alcuno custodirà la mia parola" (rimanendo ininterrottamente nella coscienza di Cristo), "non vedrà la morte in eterno" (Giovanni, 8, 51). Gesù non si riferiva, con queste parole, alla vita immortale nel corpo: confinamento monotono al quale non si vorrebbe condannare nemmeno un peccatore, e tanto meno un santo! L'illuminato di cui parlava Gesù è uno che si è risvegliato dal sonno mortale dell'ignoranza alla Vita Eterna (V. Cap. XLIII). La vera essenza dell'uomo è Spirito privo di forma e onnipresente. L'incarnazione coatta o karmica proviene dall'avidya, o ignoranza. Le Scritture indù insegnano che vita e morte hanno un loro significato solo nel mondo della relatività. Babaji non è limitato a un corpo fisico o a questo pianeta, ma egli sta compiendo una missione speciale sulla terra secondo il volere di Dio. I grandi Maestri, come Sri Swami Pranabananda che ritornano in un nuovo corpo sulla terra, lo fanno per ragioni che essi soli conoscono. Le loro incarnazioni su questo pianeta non sono soggette alle rigide restrizioni del karma. Tali ritorni volontari sono chiamati vyutthana o ritorno alla vita terrestre dopo cessata l'azione di maya che rende ciechi. Qualunque sia il modo, comune o spettacolare, in cui muore un Maestro dalla realizzazione divina e perfetta, egli è capace di risuscitare il proprio corpo e di apparire in esso dinanzi agli occhi degli abitanti del mondo. Lo sforzo di materializzare gli atomi di un corpo fisico non può certo essere eccessivo per i poteri di un uomo unito a Dio, a Colui i Cui sistemi solari sfidano ogni calcolo. "... io do la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla." (Giovanni, 10, 17-18) Fine nota.
CAPITOLO XXXIV IL CONVEGNO INCANTATO SULL'HIMALAYA "Il primo incontro di Lahiri Mahasaya con Babaji è una storia affascinante, una delle poche che ci dia un'immagine particolareggiata del Guru immortale", disse Swami Kebalananda come preambolo a uno straordinario racconto. La prima volta che l'udii rimasi muto dallo stupore. In seguito costrinsi il mio gentile professore di sanscrito a ripeterlo in molte altre occasioni. La stessa narrazione mi fu fatta più tardi anche da Sri Yukteswar, e quasi con le identiche parole. Questi due discepoli di Lahiri Mahasaya avevano raccolto dalle stesse labbra del loro Guru l'impressionante episodio. "Il mio primo incontro con Babaji avvenne nel trentatreesimo anno di vita", aveva detto Lahiri Mahasaya. "Nell'autunno del 1861 mi trovavo nella sede di Danapur quale funzionario governativo nel Dipartimento del Genio Militare. Una mattina il direttore d'ufficio mi chiamò: " - Lahiri - disse - un telegramma è giunto or ora dalla sede centrale. Dovete esser trasferito a Ranikhert dove si sta organizzando una base militare (Nota: Più tardi divenne un sanatorio militare. Nel 1861 il governo locale aveva già stabilito delle comunicazioni telegrafiche in India. Fine nota). "Con un unico servo partii per il mio viaggio di 500 miglia. Un po' a cavallo e un po' in calessino giungemmo in trenta giorni a Ranikhet nell'Himalaya (Nota: Ranikhet nel distretto di Almora, è situato ai piedi del Nanda Devi, uno dei più alti picchi dell'Himalaya (circa 8.000 metri) Fine nota.) "I miei doveri d'ufficio non erano onerosi. Potevo passare molte ore a vagabondare per le magnifiche montagne. Poiché mi era giunta voce che dei grandi asceti santificavano quella regione con la loro presenza, sentivo in me un gran desiderio d'incontrarli. Durante una passeggiata di primo pomeriggio fui stupito nell'udire una voce, lontana che mi chiamava per nome. Continuai l'impervia salita sul monte Drongiri. Ero un po' preoccupato al pensiero che forse non avrei saputo trovare la via del ritorno prima che la notte scendesse sulla giungla.
"Alla fine giunsi a una piccola spianata i cui lati erano punteggiati da grotte. In piedi su una delle sporgenze rocciose, un giovane sorridente mi tendeva la mano in segno di benvenuto. Notai con meraviglia che, eccetto per i suoi capelli color rame, egli mi somigliava molto. " - Lahiri, sei venuto! - Il Santo mi rivolse affettuosamente la parola in indi. - Risposi in questa grotta. Sono io che t'ho chiamato. "Entrai in una linda, piccola grotta in cui erano varie coperte di lana e alcuni kamandalu (ciotole per l'acqua). " - Lahiri, rammenti questo posto? - E lo yoghi m'indicò una coperta piegata in un angolo. " - No, signore. - Un po' confuso per la stranezza della mia avventura, aggiunsi: - Devo andarmene adesso, prima che scenda la notte. Ho da lavorare domattina in ufficio. "Il misterioso Santo rispose in inglese: - L'ufficio è stato fatto per te, non tu per l'ufficio. "Ero strabiliato che questo asceta della foresta non solo parlasse in inglese, ma parafrasasse le parole del Cristo. (Nota: "Il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato" (Marco, 2, 27). Fine nota). " - Vedo che il mio telegramma ha raggiunto il suo scopo. - Le parole dello yoghi mi erano incomprensibili; gliene chiesi spiegazione. " - Mi riferisco al telegramma che ti chiamava in questi luoghi solitari. Fui io a suggerire silenziosamente al tuo superiore di trasferirti qui. Quando si sente la propria unità con tutti gli uomini, tutte le menti divengono stazioni trasmittenti per il cui tramite si può agire a volontà. E dolcemente aggiunse: - Lahiri, questa grotta certamente la conosci. "Poiché serbavo un silenzio impacciato, il Santo si avvicinò e mi colpì lievemente sulla fronte. Al suo tocco magnetico una miracolosa corrente mi attraversò il cervello, liberando le dolci memorie assopite della mia precedente vita. " - Rammento! - La mia voce era spezzata da gioiosi singhiozzi. - Voi siete il mio Guru Babaji, che mi appartiene da sempre! Le scene del passato mi ritornano vive alla memoria; questa è la grotta in cui ho trascorso tanti anni della mia ultima incarnazione! Ineffabili ricordi m'invasero, e piangendo abbracciai i piedi del mio Maestro. " - Per più di tre decenni ho atteso che ritornassi a me! - La voce di Babaji risuonava di amore celestiale. - Sei scivolato via e sei scomparso nelle tumultuose onde della vita al di là della morte. La bacchetta magica del tuo karma ti toccò e te ne andasti.
Sebbene tu non fossi più conscio di me, io non ti ho mai perduto di vista. Ti ho inseguito sul luminescente mare astrale dove veleggiavano gli angeli gloriosi. Attraverso il buio, le tempeste, gli sconvolgimenti e la luce, io ti ho seguito come un uccello madre che protegge i suoi piccoli. Mentre vivevi la tua vita uterina, e quando venisti al mondo, il mio occhio era sempre su di te. Quando nella tua fanciullezza sistemavi le tue piccole membra nella posizione del loto sotto le sabbie di Nadia, ero presente benché invisibile. Pazientemente, mese per mese, anno per anno, ho vigilato su di te attendendo questo giorno perfetto. Ora sei con me! Guarda! Ecco la grotta che amavi. L'ho sempre serbata pulita e pronta per te. Questa è la tua sacra coperta per gli asana dove sedevi ogni giorno per colmare di Dio il tuo cuore che si allargava. Ecco la tua ciotola da cui tanto spesso bevesti il nettare preparato da me! Guarda come ti ho serbato lucida la coppa di rame, affinché tu vi possa bere ancora. Creaturina mia, comprendi adesso? " - Mio Guru, che posso dire? - mormorai con voce rotta. - Dove mai si è visto un simile amore immortale? - Guardai a lungo estasiato il mio eterno tesoro, il Guru, mio nella vita e nella morte. " - Lahirihai bisogno di purificarti. Bevi l'olio di questa ciotola e sdraiati accanto al fiume. - La pratica saggezza di Babaji, pensai con un rapido sorriso pieno di reminiscenze, predominava sempre. "Ubbidii alle sue istruzioni. Scendeva la gelida notte dell'Himalaya eppure una calda radiazione confortante cominciò a pulsare in me. Me ne meravigliai. Quell'ignoto olio era forse dotato di un calore cosmico? "Il vento tagliente mi sferzava nel buio, urlando la sua sfida feroce. Le gelide onde del fiume Gogash ogni tanto lambivano il mio corpo disteso sulle rive rocciose. Ululavano le tigri vicine, ma il mio cuore era libero da ogni paura. La forza irradiante che si era generata in me mi dava la certezza di una protezione invincibile. Le ore passavano rapide; memorie sbiadite di un'altra vita s'intessevano nel brillante disegno della mia nuova unione col mio Guru divino. "Le mie solitarie fantasie furono interrotte da un rumore di passi che si avvicinavano. Nel buio, la mano di un uomo mi aiutò gentilmente a rialzarmi e mi diede delle vesti asciutte. " - Vieni fratello, - disse il mio compagno, - il Maestro ti attende. - E mi guidò attraverso la foresta. Giunti che fummo a una svolta del sentiero, l'oscura notte si illuminò ad un tratto, in lontananza, di una luminosità costante.
" - E' già l'alba? - chiesi. - Non è possibile che già sia trascorsa tutta la notte. - E' mezzanotte. - La mia guida rise piano. - Quella luce è il fulgore di un palazzo d'oro che l'impareggiabile Babaji ha materializzato qui in questa notte. Nell'oscuro passato, una volta tu esprimesti il desiderio di godere delle bellezze di un palazzo. Il Maestro ora appaga il tuo desiderio, liberandoti dal tuo ultimo vincolo karmico (Nota: La legge karmica reclama che ogni desiderio umano trovi il suo appagamento finale. Il desiderio è perciò la catena che lega l'uomo alla ruota delle rinascite. Fine nota). E aggiunse: - Il magnifico palazzo sarà questa notte teatro della tua iniziazione al Kriya Yoga. Tutti i tuoi fratelli qui si uniscono in un peana di gioia, esultanti perché il tuo lungo esilio è giunto alla fine. Guarda! "Un immenso palazzo d'oro splendente si ergeva dinanzi a noi. Tempestato d'innumerevoli pietre preziose e posto in mezzo a magnifici giardini panoramici dove tranquilli laghetti riflettevano la sua immagine, esso offriva uno spettacolo di grandiosità impareggiabile. Le altissime arcate erano elaboratamente ornate di grandi brillanti, zaffiri e smeraldi. Uomini dai visi angelici sostavano presso cancelli che risplendevano rossi della luce di scintillanti rubini. "Seguii il mio compagno in una grande sala da ricevimento. Il profumo d'incenso e di rose impregnava l'aria; lampade velate spargevano una dolce luce multicolore. Piccoli gruppi di devoti, alcuni di pelle chiara, altri scuri, cantavano armoniosamente o sedevano in meditazione, immersi nella pace interiore. Una gioia vibrante permeava l'atmosfera. " - Pasci i tuoi occhi, godi degli artistici splendori di questo palazzo, perché esso è stato realizzato solo in tuo onore. - La mia guida sorrise comprensiva quando proruppi in esclamazioni di meraviglia. " - Fratello, - dissi, - la bellezza di questo edificio sorpassa i limiti d'ogni immaginazione umana. Ti prego, chiariscimi il mistero della sua origine. " - Ti illuminerò ben volentieri. - Gli occhi scuri del mio compagno brillavano di saggezza. In realtà non vi è nulla d'inspiegabile in questa materializzazione. Tutto il cosmo non è che un pensiero proiettato del Creatore. Questa greve zolla terrestre che fluttua nello spazio è un sogno di Dio. Egli fece tutte le cose creandole dalla Sua mente, così come l'uomo, nella coscienza del sogno, riproduce e dà vita a una creazione con le sue creature. " - Dio creò la Terra dapprima come idea, indi la ravvivò; l'energia atomica e poi la materia iniziarono la loro esistenza. Egli coordinò gli atomi
in modo che formassero questa solida sfera; tutte le sue molecole sono tenute in coesione dalla volontà di Dio. Quando Iddio ritirerà la Sua volontà, gli atomi della terra si trasformeranno di nuovo in energia. L'energia atomica ritornerà alla sua origine: la coscienza; la terra-idea scomparirà dall'oggettività. " - La sostanza di un sogno è foggiata dal pensiero subconscio di chi sogna. Quando quel pensiero creativo viene annullato dal risveglio, il sogno e i suoi elementi si dissolvono. Un uomo può chiudere gli occhi e edificare una creazione di sogno, che al risveglio egli dissolve senza alcun sforzo; quell'uomo segue il modello-archetipo divino. Analogamente, quando si ridesterà nella Coscienza Cosmica, egli dissolverà senza sforzo le illusioni del sogno terrestre. " - Babaji, essendo unito alla Volontà Infinita che effettua ogni cosa, è in grado di imporre agli atomi elementari di organizzarsi e manifestarsi in qualsiasi forma. Questo palazzo d'oro, creato in un solo istante, è reale com'è reale questa nostra terra. Babaji creò questo stupendo edificio dalla sua mente e ne mantiene in coesione gli atomi con la forza della sua volontà, così come Iddio creò la terra e la Sua volontà la mantiene in esistenza. - E aggiunse: Quando questo edificio sarà servito al suo scopo, Babaji lo dissolverà. "Siccome me ne stavo in reverente silenzio, la mia guida fece un largo gesto: - Questo risplendente palazzo ornato di splendide gemme non è stato eretto da nessuno sforzo umano; né l'oro e le gemme furono estratti faticosamente da qualche miniera. Chiunque, come Babaji, si realizzi quale figlio di Dio, può raggiungere qualsiasi scopo usando gli infiniti poteri che si celano in lui. Una comunissima pietra racchiude in sé i meravigliosi segreti dell'energia atomica; così pure il più umile dei mortali è un serbatoio della potenza divina. (Nota: La teoria della struttura atomica della materia è spiegata negli antichi trattati indù Vaisesika e Nyaya. "Vi sono vasti mondi racchiusi negli spazi contenuti in ogni atomo, innumerevoli come i granelli di polvere in un raggio di sole". Yoga Vasishtha. Fine nota) "Il saggio raccolse da una tavola un grazioso vaso il cui manico scintillava di diamanti. - Il nostro grande Guru ha creato questo palazzo solidificando miriadi di raggi cosmici liberi, - egli proseguì. - Tocca questo vaso e i suoi diamanti; essi reggeranno ad ogni esame dei tuoi sensi. "Esaminai il vaso. Le sue gemme erano degne della collezione di un re. Passai la mano sulle lisce pareti della stanza, che erano d'oro massiccio e lucente. Una profonda soddisfazione invase la mia mente; un desiderio
sommerso, celato nel mio inconscio da vite ormai passate, sembrava essere simultaneamente appagato ed estinto. "Il mio augusto compagno mi condusse attraverso ornati portici e corridoi in una serie di stanze riccamente ammobiliate nello stile di un palazzo imperiale. Entrammo in un'immensa sala. Nel centro stava un trono d'oro ornato di gioielli rutilanti in un brillante arcobaleno di colori. Qui, assiso nella posizione del loto, stava il supremo Babaji. M'inginocchiai sul rilucente pavimento ai suoi piedi. " - Lahiri, stai ancora pascendoti del tuo sogno di un palazzo d'oro? - Gli occhi del mio Guru brillavano come i suoi zaffiri. " - Svegliati! Tutti i tuoi desideri terreni saranno fra breve estinti per sempre. - Mormorò alcune mistiche parole di benedizione. - Figlio mio, alzati. Ricevi la tua iniziazione al regno di Dio attraverso il Kriya Yoga. "Babaji stese una mano e apparve un fuoco homa (sacrificale) circondato da frutti e fiori. Dinanzi a questo fiammeggiante altare fui iniziato alla tecnica yoga liberatrice. "I riti terminarono alle prime luci dell'alba. Non sentivo il bisogno di dormire in quel mio stato d'estasi, e giravo per il palazzo colmo da ogni parte di tesori e squisiti oggetti d'arte. Quando discesi nei fragranti giardini, osservai lì vicino le stesse caverne e le nude rocce che ieri non vantavano la vicinanza di alcun palazzo né di terrazze fiorite. "Rientrando al palazzo, scintillante in modo fiabesco nel freddo sole dell'Himalaya, cercai il mio Maestro. Era ancora seduto sul suo trono, circondato da molti silenziosi discepoli. " - Lahiri, - disse, - tu hai fame. Chiudi gli occhi. "Quando li riaprii, l'incantevole palazzo e i suoi pittoreschi giardini erano scomparsi. Il mio corpo e le forme di Babaji e dei discepoli erano ora seduti tutti sulla nuda terra, nel punto esatto del palazzo scomparso, non lontano dagli ingressi delle grotte rocciose, ora toccati dal sole. Rammentai che la mia guida aveva detto che il palazzo sarebbe stato smaterializzato, e i suoi atomi imprigionati sarebbero stati liberati per ritornare nelle essenzepensiero dalle quali erano venuti. Benché stordito, guardai fiducioso il mio Guru. Non sapevo che cosa attendermi da questo giorno di miracoli. " - Lo scopo per cui il palazzo fu creato, ora è raggiunto, - spiegò Babaji. Prese da terra un recipiente di terracotta: - Metti qui la mano e ricevi il cibo che desideri. "Non appena ebbi toccato la larga ciotola vuota, essa si riempì di luchi caldi imburrati, curry e dolci. Mi servii osservando che il recipiente
rimaneva sempre pieno. Alla fine del pasto mi guardai intorno cercando dell'acqua. Il mio Guru m'indicò la ciotola che avevo dinanzi, ed ecco che il cibo era sparito; al suo posto vi era dell'acqua, chiara come quella di un ruscello montano. " - Pochi mortali sanno che il Regno di Dio include anche il regno degli esaudimenti terreni - osservò Babaji. - Il reame divino si estende a quello terreno; ma quest'ultimo, essendo illusorio, non può includere l'essenza della Realtà. " - Amato Guru, questa notte mi avete dato una dimostrazione dei legami esistenti fra la bellezza celeste e quella terrena! "Sorrisi, ricordando il palazzo svanito; certamente nessun semplice yoghi aveva mai ricevuto l'iniziazione agli augusti misteri dello Spirito in un ambiente più spettacolare e lussuoso! Osservai con occhio tranquillo lo stridente contrasto con la scena attuale. L'arido suolo, la volta celeste, le caverne che offrivano un rifugio primitivo, tutto sembrava una graziosa cornice naturale per i serafici Santi che mi circondavano. "Quel pomeriggio rimasi seduto sulla mia coperta, santificato dai ricordi di realizzazioni raggiunte in vite passate. Il mio divino Guru si avvicinò e passò la mano sul mio capo. Entrai nello stato del nirbikalpa samadhi, e rimasi in quel rapimento ininterrottamente per sette giorni. Attraversando i successivi strati dell'autoconoscienza, penetrai nei reami immortali della Realtà. Tutte le limitazioni illusorie si dileguarono. La mia anima si stabilì pienamente sull'altare dello Spirito Cosmico. All'ottavo giorno caddi ai piedi del mio Guru e lo implorai di tenermi sempre accanto a sé in quel sacro luogo selvaggio. " - Figlio mio, - disse Babaji abbracciandomi, - la parte che ti è affidata in questa incarnazione deve svolgersi dinanzi agli occhi delle moltitudini. Già benedetto nel tuo stato prenatale da molte vite di solitaria meditazione, tu devi ora mescolarti al mondo degli uomini. " - Una profonda ragione giustifica il fatto che tu non mi abbia incontrato questa volta prima d'essere già un uomo sposato, con delle modeste responsabilità familiari e di lavoro. Devi mettere da parte il pensiero di volerti unire al nostro gruppo segreto nell'Himalaya; la tua vita deve essere vissuta tra la folla cittadina, per fornire l'esempio di uno yoghi capofamiglia ideale. " - Le grida di molti esseri umani sperduti nel mondo non sono giunte invano alle orecchie dei Grandi - egli continuò. - Tu sei stato prescelto per portare mediante il Kriya Yoga, conforto spirituale a molti cercatori sinceri. Milioni di persone inceppate dai legami familiari e dai pesanti doveri del
mondo attingeranno date nuova speranza, poiché anche tu sei un capofamiglia come loro. Dovrai dimostrare loro che i più alti conseguimenti yoga non sono negati all'uomo che è a capo di una famiglia. Anche stando nel mondo, lo yoghi che onestamente adempie le proprie responsabilità senza un movente o attaccamento personale, percorre la via sicura d'illuminazione. " - Nessuna necessità ti costringe a lasciare il mondo, poiché interiormente hai già spezzato ogni legame karmico con esso. Pur non appartenendo a questo mondo, devi vivere in esso. Molti anni ti restano ancora, durante i quali dovrai coscienziosamente ottemperare ai tuoi doveri familiari, civili, lavorativi e spirituali. Un dolce e nuovo soffio di divina speranza penetrerà negli aridi cuori degli uomini nel mondo. Osservando la tua vita equilibrata essi comprenderanno che la liberazione dipende dalle rinunzie interiori, più che da quelle esteriori. "Come mi sembravano lontani la mia famiglia, l'ufficio, il mondo, mentre ascoltavo il mio Guru sulle alte solitudini dell'Himalaya! Eppure una verità adamantina risuonava nelle sue parole. Con sottomissione accettai di abbandonare quel benedetto porto di pace. Babaji mi istruì nelle antiche e rigide norme che governano la trasmissione dell'arte yoga dal guru al discepolo. " - Affida la chiave del Kriya Yoga solo a dei chela qualificati, - disse Babaji. - Chi fa voto di sacrificare tutto alla ricerca del Divino è idoneo a sciogliere gli ultimi misteri della vita tramite la scienza della meditazione. " - Angelico Guru, poiché avete già favorito l'umanità facendo risorgere la perduta arte del Kriya, non volete accrescere tale beneficio allentando le severissime regole imposte per il discepolato? - chiesi, fissando supplichevole Babaji. - Ve ne prego, permettetemi di comunicare il Kriya a tutti coloro che cercano sinceramente, anche se a tutta prima non possono votarsi alla completa rinuncia interiore. Il genere umano, torturato, perseguitato da un triplice ordine di sofferenze ha bisogno di uno speciale incoraggiamento. Questa gente potrebbe non tentare mai la via della liberazione, se l'iniziazione Kriya fosse loro negata. (Nota: Sofferenze fisiche, mentali e spirituali, che si manifestano rispettivamente in malattie, turbe psicologiche o "complessi", e ignoranza dell'anima. Fine nota). " - Così sia. La volontà divina è stata espressa attraverso te. "Con queste semplici parole il Guru misericordioso annullò le rigorose barriere che per secoli avevano sottratto il Kriya alla conoscenza del mondo: - Offri liberamente il Kriya a tutti coloro che umilmente cercano aiuto.
"Dopo una pausa Babaji aggiunse: - A ognuno dei tuoi discepoli ripeti quest'alta promessa della Bhagavad Gita (Nota: Cap. II, 40. Fine nota): 'Swalpampyasya dharmasya, trayate mahato bhayat' (Anche solo un po' della pratica di questo dharma - rito religioso o giusta azione - ti salverà da grandi paure (mbato bhayat): le enormi sofferenze inerenti ai cicli ricorrenti di vita e morte). "Quando la mattina appresso m'inginocchiai ai piedi del mio Guru per chiedergli la benedizione d'addio, egli sentì la mia profonda riluttanza ad abbandonarlo. " - Per noi non vi è separazione, mio amato figlio. - Mi toccò la spalla con affetto: - Dovunque tu sia, ogni volta che mi chiamerai, all'istante sarò con te. "Consolato da questa meravigliosa promessa e ricco del mio nuovo tesoro di saggezza di Dio, ripresi la via che scendeva a valle. All'ufficio fui accolto festosamente dai miei compagni di lavoro, che per dieci giorni mi avevano creduto disperso nelle giungle dell'Himalaya. Ben presto giunse una lettera dall'ufficio centrale che diceva: 'Lahiri ritorni all'ufficio di Danapur (Nota: Città vicino a Benares. Fine nota); il suo trasferimento a Ranikhet è dovuto a un errore. Altro funzionario doveva essere inviato per gestire l'ufficio'. "Sorrisi, riflettendo alle vie segrete che mi avevano condotto in quel lontanissimo paesino dell'India. "Prima di ritornare a Danapur trascorsi qualche giorno in una famiglia bengalese a Moradabad. Una comitiva di sei amici vi si riunì per salutarmi. Poiché avevo avviato la conversazione su argomenti spirituali, il mio ospite osservò malinconicamente: - Purtroppo in quest'epoca l'India manca di santi! " - Babu, - protestai con calore, - vi sono ancora dei grandi santi in questo paese! "In uno stato di esaltato fervore, mi sentii spinto a raccontare le mie miracolose esperienze sull'Himalaya. I miei ascoltatori rimasero educatamente increduli. " - Lahiri, - disse uno di essi con blandizie, - la tua mente è stata sottoposta a una certa tensione, nell'aria rarefatta dell'Himalaya. E' un sogno ad occhi aperti quello che ci hai raccontato. "Ardente di tutto l'entusiasmo della verità, allora parlai senza riflettere: " - Se lo chiamo, il mio Guru apparirà proprio qui, in questa casa! "In tutti gli occhi passò un lampo d'interesse. Non c'era da meravigliarsi se gli amici erano avidi di assistere a tale fenomeno. Un po' riluttante richiesi una camera tranquilla e due coperte di lana nuove.
" - Il Maestro si materializzerà dall'etere, - dissi. - Restate in silenzio fuori della porta. Presto vi chiamerò. "Mi raccolsi in meditazione, chiamando umilmente il mio Guru. La camera oscurata ben presto si riempì d'una fioca e dolce luminescenza; la luminosa figura di Babaji emerse. " - Lahiri, mi chiami per un nonnulla? - Lo sguardo del Maestro era severo. La verità è solo per coloro che la cercano seriamente e non per quelli che provano soltanto una vana curiosità. E' facile credere quando si vede; nessuna ricerca dell'anima è allora necessaria. La verità ultrasensoria viene meritatamente scoperta da coloro che riescono a superare il loro naturale scetticismo materialistico. - E aggiunge con gravità: - Lasciami andare! "Caddi supplichevole ai suoi piedi. - Santo Guru, mi accorgo del mio grave errore. Ne chiedo umilmente perdono. era per creare la fede in quelle menti spiritualmente cieche che ho osato chiamarvi. Poiché siete graziosamente apparso alla mia preghiera, vi prego di non andar via senza aver impartito una benedizione ai miei amici. Per quanto scettici, erano pronti a verificare l'esattezza delle mie strane affermazioni. " - Sta bene. Rimarrò un poco. Non voglio che le tue parole siano messe in dubbio dai tuoi amici. - Il volto di Babaji si era addolcito; aggiunse però con gentilezza: - D'ora in poi, figlio mio, verrò da te quando ne avrai bisogno, e non ogni volta che mi chiamerai (Nota: Sulla vita dell'Infinito, perfino Maestri illuminati come Lahiri Mahasaya possono peccare per eccesso di zelo e necessitare di una disciplina. Nella Bhagavad Gita leggiamo in molti versetti che il Guru divino, Krishna, redarguisce il principe dei devoti, Arjuna. Fine nota). "Un silenzio teso regnava nel gruppetto quando aprii la porta. Come se non credessero ai loro occhi, i miei amici fissavano la luminosa figura assisa sulla coperta. " - Questo è ipnotismo collettivo, - disse uno di loro ridendo rumorosamente. - Nessuno avrebbe potuto entrare nella stanza senza che lo vedessimo. "Babaji avanzò sorridendo e chiese a ciascuno dei presenti di toccare la solida, calda carne del suo corpo. Scomparsi i dubbi, i miei amici si prostrarono in reverente pentimento. " - Si prepari l'halua (Nota: Una pappa di crema di frumento fritta nel burro e bollita col latte. Fine nota). - Babaji fece questa richiesta, lo sapevo, per convincere ancor più il gruppo della sua realtà fisica. Mentre la zuppa di
frumento cuoceva, il Guru divino si mise a conversare affabilmente. Grande fu la metamorfosi di quegli increduli Tommasi, trasformati in ferventi San Paoli. Dopo aver mangiato, Babaji vi benedisse tutti, uno per uno. Poi vi fu un lampo subitaneo; assistemmo all'istantanea dissoluzione degli elettroni del corpo di Babaji in una vaporosa luce diffusa. Il potere di volontà del Maestro, intonato alla volontà di Dio, aveva allentato la stretta sugli atomi eterei riuniti insieme a costituire il suo corpo; subito i miliardi di minuscole scintille vitatroniche sparirono nell'infinito serbatoio cosmico. " - Con i miei occhi ho visto colui che vince la morte, - diceva con reverenza Maitra (Nota: Quest'uomo, conosciuto più tardi col nome di Maitra Mahasaya, divenne altamente avanzato nell'autorealizzazione. Io lo incontrai subito dopo aver conseguito la mia licenza liceale; egli visitò l'eremitaggio di Mahamandal, a Benares, quando vi risiedevo. Mi disse allora della materializzazione di Babaji dinanzi al gruppo di amici a Moradabad. "Quale risultato del miracolo", spiegò Maitra, "divenni un discepolo di Lahiri Mahasaya, per tutta la vita. Fine nota), uno del gruppo; e il suo viso era trasfigurato dalla gioia del suo recente risveglio. Il mio Guru supremo ha giocato col tempo e con lo spazio, come un bimbo gioca con le bolle di sapone. Ho veduto uno che possiede le chiavi del cielo e della terra". "Presto ritornai a Danapur", concluse Lahiri Mahasaya. "Fermamente ancorato nello Spirito, ripresi ad adempiere i molti obblighi familiari e di lavoro imposti dalla mia qualità di capofamiglia". Lahiri Mahasaya riferì a Swami Kebalananda e a Sri Yukteswar anche un altro suo incontro con Babaji, avvenuto in circostanze che ricordavano la promessa del Guru: - Verrò sempre, quando avrai bisogno di me. "Il fatto avvenne a un Kumbha Mela, ad Allahabad, dove mi ero recato durante una breve licenza", raccontò Lahiri Mahasaya ai suoi discepoli. "Mentre mi aggiravo tra una folla di monaci e di sadhu venuti da paesi lontanissimi per partecipare alle sante feste, notai un asceta ricoperto di cenere che teneva in mano una ciotola da elemosine. Nella mia mente si formò l'idea che l'uomo fosse un ipocrita che portava i segni esteriori della rinuncia, senza una corrispondente grazia interiore. "Appena ebbi oltrepassato l'asceta, i miei occhi caddero stupefatti su Babaji: era inginocchiato dinanzi a un anacoreta dai capelli intrecciati. " - Guruji, - dissi correndo verso di lui. - Signore che fate qui? " - Lavo i piedi a quest'uomo che ha rinunciato al mondo e poi laverò i suoi utensili da cucina. - Babaji mi sorrise come un bimbo; capii che mi ordinava in tal modo di non criticare nessuno, ma di renderti conto che il Signore risiede egualmente in ogni tempio umano, sia che appartenga ad
esseri inferiori o superiori. E il grande Guru aggiunse: - Nel servire i sadhu, saggi o ignoranti che siano, imparo la virtù più grande e piacente a Dio più d'ogni altra : l'umiltà". (Nota: Egli si umilia guardando le cose che sono in cielo ed in terra" (Salmi). "Chiunque si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato" (Matteo, 223, 12). Umiliare l'ego o falso 'io' significa scoprire la propria realtà eterna. Fine nota).
CAPITOLO XXXV LA VITA ESEMPLARE DI LAHIRI MAHASAYA 'Conviene che noi adempiamo così ogni giustizia' (Nota: Matteo, 3, 15. Fine nota). Con queste parole rivolte a Giovanni Battista per chiedergli di battezzarlo, Gesù riconobbe i diritti divini del suo guru. Avendo studiato con grande reverenza la Bibbia da un punto di vista orientale, e anche per una percezione intuitiva, sono convinto che Giovanni Battista fu, nelle vite precedenti, il guru del Cristo. (Nota: Molti passi della Bibbia rivelano che la legge della reincarnazione era compresa e accettata. I cicli di reincarnazione sono una spiegazione più logica per i diversi stadi di evoluzione in cui si trova l'umanità, che con la teoria occidentale, la quale presuppone che qualcosa (la coscienza dell'ego) nasca dal nulla, esista in vari stadi di vigore per trenta o novant'anni, e poi ritorni nel vuoto originale. L'inconcepibile natura di un tale vuoto è un problema da deliziare il cuore di uno Scolastico medioevale. Fine nota). Vi sono molti passi nella Bibbia che fanno pensare che Giovanni e Gesù, nella loro precedente incarnazione, fossero rispettivamente Elijah e il suo discepolo Elisha. (Questi nomi erano scritti così nel Vecchio Testamento. I traduttori greci scrissero invece Elia ed Eliseo, e in questa forma essi riappaiono nel Nuovo Testamento). Le ultime parole del Vecchio Testamento sono una predizione della reincarnazione di Elia ed Eliseo: 'Ecco vi mando il profeta Elia avanti che venga quel grande e spaventevole giorno del Signore' (Nota: Malachia, 4, 5. Fine nota) Così Giovanni (Elia) inviato 'prima dell'arrivo... del Signore' nacque un po' prima per poter fare da araldo al Cristo. Un angelo apparve al padre Zaccaria, a testimoniare che il figlio Giovanni, che stava per giungere, non era altri che Elia. 'Ma l'angelo disse: - Non temere, Zaccaria, poiché la tua preghiera è stata esaudita; e tua moglie Elisabetta ti partorirà un figliolo al quale darai il nome di Giovanni... e molti si rallegreranno per la sua nascita... e convertirà molti figli d'Israele al Signor Iddio loro; ed egli andrà innanzi a lui (Nota: "Innanzi a lui"; cioè "dinanzi al Signore" Fine nota), con lo spirito e la potenza di Elia per riportare il cuore dei padri ai figlioli e i ribelli alla saviezza dei giusti, al fine di preparare al Signore un popolo ben disposto (Nota: Luca, 1, 16-17. Fine nota).
Gesù due volte, senza possibilità di equivoco, identificò Elijah (Elia) con Giovanni: 'Ma io vi dico: - Elia è già venuto, e non l'hanno riconosciuto... Allora i discepoli intesero ch'era di Giovanni Battista che egli aveva loro parlato (Nota: Matteo, 17, 12-13. Fine nota). E di nuovo disse il Cristo: 'Poiché tutti i profeti e la legge hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accogliere, egli è quell'Elia che doveva venire (Nota: Matteo, 11, 1314. Fine nota). Quando Giovanni negò di essere Elia (Elijah) (Nota: Giovanni, 1, 21. Fine nota) volle significare che nell'umile veste di Giovanni egli non appariva più nell'esteriore dignità di Elijah, il grande Guru. Nella sua precedente incarnazione, aveva dato il 'mantello' della sua gloria e la sua ricchezza spirituale al suo discepolo Elisha. 'Ed Eliseo disse: - Deh! siami data la parte doppia del tuo spirito. - Ed Elia gli disse: - Tu hai domandato una cosa difficile; se mi vedi quando io sarò tolto dappresso a te, ti sarà fatto così... - Ed egli prese il mantello di Elia che gli era caduto di dosso' (Nota: Il Re, 2, 9-13. Fine nota). Le parti s'invertirono perché non occorreva più che Elija-Giovanni fosse l'ostensibile Guru di Elisha-Gesù, il quale aveva ormai raggiunto la perfetta, divina realizzazione. Quando avvenne la trasfigurazione di Cristo sulla Montagna (Nota: Matteo, 17, 3. Fine nota), fu il suo Guru Elia che egli vide con Mosé. Di nuovo nella sua ultima ora di agonia sulla croce, Gesù pronunziò il nome divino: ' Eli, Eli, lamma sabachtani?' che significa: 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'. Ma alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: 'Costui chiama Elia... Vediamo se Elia viene a salvarlo' (nota: Matteo, 27, 46-49. Fine nota). Il legame eterno tra Guru e discepolo che esisteva tra Giovanni e Gesù, era presente anche tra Babaji e Lahiri Mahasaya. Con tenera sollecitudine il Guru immortale attraversò le acque abissali del Lete che scorrevano tra una vita e l'altra del suo chela, e guidò gradualmente i passi del bimbo e poi dell'uomo Lahiri Mahasaya. Solo quando il discepolo ebbe compiuto i trentatré anni, Babaji giudicò maturo il tempo per ristabilire apertamente il vincolo mai spezzato. Dopo il loro breve incontro presso Ranikhet, il Guru che non conosceva egoismo, non trattenne presso di sé l'amato discepolo, ma lo lasciò libero perché potesse svolgere una missione nel mondo. "Figlio mio, verrò da te ogni volta che avrai bisogno di me". Quale amante mortale potrebbe mai adempiere una simile illimitata promessa?
Ignota al mondo in generale, una grande rinascita spirituale prese inizio nel 1861 in un angolo remoto di Benares. Come la fragranza dei fiori non può esser repressa, così Lahiri Mahasaya, vivendo quietamente da capofamiglia perfetto, non poteva nascondere la sua grandezza interiore. Da ogni parte dell'india i devoti, come api, presero ad affluire in cerca del divino nettare che il maestro liberato dispensava. Il sovrintendente inglese del suo ufficio fu uno dei primi ad accorgersi di uno strano mutamento trascendentale nel suo impiegato, ch'egli affettuosamente chiamava "l'estatico Babu". "Signore, avete l'aria triste. Che cosa avete?" domandò con simpatia una mattina Lahiri Mahasaya al suo capo. "Mia moglie, in Inghilterra, è gravemente ammalata. Sono dilaniato dall'ansia". "Vi farò avere sue notizie". Lahiri Mahasaya uscì dalla stanza e sedette per qualche istante in un luogo appartato. Tornando, sorrideva in modo consolante. "Vostra moglie sta meglio. Vi sta scrivendo una lettera". E lo yoghi onnisciente citò alcune frasi della missiva. "Estatico Babu, so già che non siete una persona comune; ma ancora non posso credere che voi possiate, a volontà, bandire il tempo e lo spazio!". La lettera promessa alla fine giunse. Il sovrintendente, attonito, vi trovò non solo la buona notizia della guarigione della moglie, ma anche le stesse parole che Lahiri Mahasaya gli aveva riferite qualche settimana prima. Dopo alcuni mesi la moglie arrivò in India e visitò l'ufficio dove Lahiri Mahasaya stava quietamente seduto dinanzi alla sua scrivania. La donna gli si avvicinò con rispetto e gli disse: "Signore, era la vostra forma, circondata da un'aureola di luce, che vidi accanto al mio letto a Londra. Da quell'istante fui completamente guarita! Poco dopo ero in grado d'intraprendere questo lungo viaggio per mare". Giorno per giorno, uno o due devoti venivano dal sublime Guru per essere iniziati al Kriya. In aggiunta a questi doveri spirituali e alle responsabilità' verso la famiglia e l'ufficio, il grande Maestro si dedicava con entusiastico interesse all'istruzione dei giovani. Organizzò associazioni culturali ed ebbe una parte attiva nello sviluppo di un grande liceo nel quartiere Bengalitola di Benares. Nelle riunioni settimanali, che vennero chiamate la sua "Assemblea Gita", il Guru spiegava le Scritture a molti sinceri ricercatori della Verità. Con queste molteplici attività, Lahiri Mahasaya cercava di dare una risposta alla comune obiezione: "Dopo aver adempiuto i propri doveri sociali e di lavoro, a chi rimane tempo per la devozione e la meditazione?". La vita così armoniosamente equilibrata del grande Guru- capofamiglia
ispirò silenziosamente migliaia di cuori carichi di interrogativi. Contento di un modesto stipendio, parco e frugale, senza ostentazioni, accessibile a tutti, il Maestro seguiva naturalmente e serenamente il sentiero della sua disciplinata vita terrena. Benché insediato sul trono dell'Uno Supremo, Lahiri Mahasaya tributava rispetto a tutti gli uomini, senza tener conto dei loro differenti meriti. Quando i suoi devoti lo salutavano, egli ricambiava il saluto inchinandosi dinanzi a loro. Con l'umiltà di un bimbo, il maestro toccava spesso i piedi degli altri, ma raramente permetteva che gli si tributasse un simile onore, anche se tale segno di rispetto verso il Guru è un'antica tradizione in Oriente. Un tratto caratteristico della vita di Lahiri Mahasaya era quello di dare l'iniziazione Kriya a uomini d'ogni fede. Tra i suoi principali discepoli si trovavano non soltanto indù, ma anche musulmani e cristiani. Monisti e dualisti, uomini d'ogni fede o di nessuna determinata fede, tutti venivano accolti imparzialmente e il grande Guru li istruiva tutti. Uno dei suoi chela più altamente progrediti fu Abdul Gufoor Khan, un maomettano; ciò dimostra un grande coraggio da parte di Lahiri Mahasaya, che, pur essendo un brahmino di alta classe, fece di tutto per annullare il rigido pregiudizio di casta del suo tempo. Tutti coloro che vennero a lui, da ogni sentiero della vita, trovarono rifugio sotto le onnipresenti ali del Maestro. Come tutti i profeti ispirati da Dio, Lahiri Mahasaya diede nuove speranze ai reietti e ai calpestati dalla società. "Ricorda sempre che non appartieni a nessuno e che nessuno ti appartiene. Rifletti che un giorno, all'improvviso, dovrai abbandonare tutto in questo mondo; perciò cerca di fare la conoscenza di Dio adesso" diceva il grande Guru ai suoi discepoli. "Preparati per il viaggio astrale della morte che dovrà venire, inalzandoti ogni giorno nell'aerostato della percezione di Dio. L'illusione ti induce a sentirti una piccola massa di carne ed ossa, capace di essere, al più, un nido di guai (Nota: Quante specie di morte sono nel nostro corpo! In esso non vi è altro che morte. (Martin Lutero in Conversazioni). Fine nota). Medita senza tregua, per poter presto conoscer te stesso come l'Essenza Infinita, libera da ogni miseria. Cessa di esser prigioniero del tuo corpo; usando la chiave segreta del Kriya, impara a rifugiarti nello Spirito. L'impareggiabile Guru incoraggiava i suoi vari allievi a uniformarsi ciascuno alla buona, tradizionale disciplina della propria fede. Insistendo sulla natura universale del Kriya quale tecnica pratica di liberazione, Lahiri
Mahasaya dava poi ai suoi discepoli la facoltà di vivere secondo l'educazione e l'ambiente loro naturali. "Un musulmano deve adempiere il suo culto namaj cinque volte al giorno", diceva il Maestro. (Nota: namaj = la principale preghiera dei maomettani, ripetuta cinque volte al giorno. Fine nota.). "Un indù deve sedere quattro volte al giorno in meditazione, un cristiano inginocchiarsi quattro volte al giorno per pregare Iddio e poi leggere la Bibbia". Con saggio discernimento il Guru guidava i suoi seguaci sui sentieri del Bhakti (devozione), Karma (azione), Jnana (saggezza), o Raja (reale o completo), Yoga, secondo le naturali tendenze d'ogni individuo. Il Maestro esitava a lungo prima di dare il suo benestare ai devoti che desideravano farsi monaci, e li esortava sempre a riflettere molto bene sulle austerità imposte dalla vita monastica. Il grande Guru insegnava ai suoi discepoli a evitare discussioni teoriche sulle Scritture. "E' saggio solo colui che si dedica a vivere, e non solo a leggere, le antiche rivelazioni", diceva. "Risolvete tutti i vostri problemi con la meditazione. (Nota: "Cerca la verità nella meditazione e non nei libri ammuffiti. Per cercare la luce guarda il cielo, e non nello stagno". (Proverbio persiano). Fine nota). Preferite alle inutili speculazioni religiose, la reale comunione con Dio. Sbarazzate la mente dai detriti teologici e dogmatici; lasciate entrare le fresche acque risanatrici della percezione diretta. Mettetevi in sintonia con l'attiva Guida interiore; la Voce Divina può risolvere ogni dilemma della vita. Benché l'abilità dell'uomo nel procurarsi dei guai sembri illimitata, l'Infinito Soccorso non è meno ricco di risorse". L'onnipresenza del Maestro si palesò un giorno dinanzi a un gruppo di discepoli che ascoltava la sua esposizione della Bhagavad Gita. Mentre stava spiegando il significato del Kutastha Chaitanya, la Coscienza Cristica in tutta la creazione vibratoria, Lahiri Mahasaya ad un tratto inspirò affannosamente ed esclamò: "Sto affogando nei corpi di molte anime sulle coste del Giappone!". La mattina dopo i chela lessero sul giornale il resoconto della morte di un certo numero di persone che si trovava su una nave affondata il giorno prima non lontano dalle coste del Giappone. Molti discepoli lontani di Lahiri Mahasaya sentivano la sua avvolgente presenza. "Io sono sempre vicino a coloro che praticano il Kriya", diceva per consolare i chela che non potevano restargli vicino. "Vi guiderò alla Cosmica dimora attraverso la vostra sempre crescente facoltà di percezione."
Sri Bhupendra Nath Sanyal (nota: Sri Sanyal morì nel 1962. Fine nota), un eminente discepolo del grande Guru raccontò che da giovinetto nel 1892, non essendo in grado di andare a Benares, rivolse la sua preghiera al Maestro per ricevere da lui l'istruzione spirituale. Lahiri Mahasaya apparve a Bhupendra in un sogno e gli diede la diksha (iniziazione). Più tardi il ragazzo andò a Benares e chiese al Guru la diksha. "Io ti ho già iniziato, in sogno" replicò Lahiri Mahasaya. Se un discepolo trascurava qualcuno dei suoi obblighi terreni, il maestro con dolcezza lo correggeva e gli imponeva la sua disciplina. "Le parole di Lahiri Mahasaya erano miti e risananti, anche quand'era costretto a parlare apertamente degli errori di un chela", mi disse una volta Sri Yukteswar. E aggiunse tristemente: "Nessun discepolo fuggì mai a causa degli strali del nostro Maestro". Non potei fare a meno di ridere, ma assicurai Sri Yukteswar con sincerità che, tagliente o meno, ogni sua parola era una musica ai miei orecchi. Lahiri Mahasaya graduava il Kriya Yoga in quattro distinte iniziazioni progressive. (Nota: Il Kriya Yoga ha molte ramificazioni: Lahiri Mahasaya ne distingueva i quattro gradi essenziali, quelli che posseggono il massimo valore pratico. Fine nota) Egli concedeva le tre tecniche superiori solo ai devoti che avevano dato prova di un reale e sicuro progresso spirituale. Un giorno un certo discepolo, convinto che il suo valore non fosse debitamente apprezzato, dichiarò il suo malcontento. "Maestro", disse, "senza dubbio ormai sono pronto per la seconda iniziazione". In quel momento la porta si aprì per introdurre un umile chela, Brinda Bhagat, un postino di Benares. "Brinda, siedi qui accanto a me", disse il grande Guru sorridendogli affettuosamente. "Dimmi, sei pronto per la seconda tecnica Kriya?" Il piccolo postino giunse le mani supplichevole: "Gurudeva", disse allarmato, "non più iniziazioni, vi prego! Come posso assimilare un più alto insegnamento? Sono venuto a chiedere la vostra benedizione, proprio perché il primo divino Kriya mi ha tanto inebriato che non mi riesce più di consegnare le mie lettere!". "Già Brinda nuota nel mare dello Spirito". A queste parole di Lahiri Mahasaya l'altro discepolo chinò il capo. "Maestro", disse, "mi accorgo di essere stato un cattivo operaio che dava la colpa ai suoi arnesi". Mediante il Kriya il postino, che era un uomo semplice e privo d'istruzione, sviluppò col tempo la profondità della vista interiore a tal
punto, che a volte gli studiosi si rivolgevano a lui per chiedergli la spiegazione di certi passi difficili delle Scritture. Vergine di peccati quanto di sintassi, il piccolo Brinda divenne celebre nell'ambiente dei colti pandit. Oltre ai numerosi discepoli che Lahiri Mahasaya aveva a Benares ne venivano a lui a centinaia dalle più lontane parti dell'India. Egli stesso, in varie occasioni, viaggiò nel Bengala, visitando le case dei suoceri dei suoi due figli. Benedetto così dalla sua presenza, il Bengala divenne un alveare di piccoli gruppi Kriya. Specialmente nei distretti di Krishnagar e Bishnupur, molti silenziosi devoti mantengono viva tuttora l'invisibile corrente della meditazione spirituale. Fra i molti Santi che furono iniziati al Kriya da Lahiri Mahasaya, si può annoverare il nome dell'illustre Swami Bhaskarananda Saraswti di Benares, e il grande asceta del Deogarh, Balananda Brahmachari. Per un certo tempo Lahiri Mahasaya fu il precettore privato del figlio del Maharaja Iswari Narayan Sinha Bahadur di Benares. Riconoscendo le alte cime spirituali raggiunte dal Maestro, il Maharaja e il figlio vollero essere iniziati al Kriya, e così fece pure il Maharaja Jotindra Mohan Thakur. Un gruppo di discepoli del Maestro che occupavano posizioni autorevoli nel mondo desideravano estendere, attraverso la propaganda, la cerchia di coloro che avevano la conoscenza del Kriya. Il Guru rifiutò il suo permesso. Un chela, medico ufficiale del principe di Benares, iniziò una campagna organizzata per divulgare il nome del Maestro quale Kashi Baba (il Sublime di Benares). (Nota: Altri titoli datigli dai suoi discepoli erano: Yogibar (il più grande degli yoghi); Yogiraj (re degli yoghi); Munibar (il più grande dei Santi), ai quali io ho aggiunto Yogavatar (incarnazione dello yoga). Fine nota). Di nuovo il Guru lo proibì. "Lascia che la fragranza del fiore del Kriya si espanda naturalmente senza dar spettacolo", disse. "I suoi semi prenderanno sicuramente radice nel terreno di cuori spiritualmente fertili". Sebbene non avesse adottato il sistema di predicare coi mezzi moderni di un'organizzazione, o attraverso la stampa, il grande Maestro sapeva bene che il potere del suo messaggio si sarebbe espanso incontenibile come un fiume in piena, inondando con la sua sola forza le rive delle menti umane. Le vite mutate e purificate dei devoti erano le naturali e sicure garanzie dell'immortale vitalità del Kriya. Nel 1886 venticinque anni dopo la sua iniziazione a Ranikhet, Lahiri Mahasaya si ritirò in pensione (Nota: Aveva prestato trentacinque anni di servizio in un dipartimento governativo. Quale yoghi-capofamiglia, Lahiri Mahasaya recò un messaggio pratico, adatto alle necessità del mondo
moderno. Le floride condizioni economiche e religiose dell'India antica non sussistono ormai più. Il grande Guru perciò non incoraggiò l'antico ideale di uno yoghi-asceta ambulante con la ciotola dell'elemosina. Insisteva invece sui vantaggi, per uno yoghi moderno, di guadagnarsi la vita col proprio lavoro, in modo da non pesare per il proprio sostentamento su una società impoverita, in preda alla miseria, e di praticare lo yoga nell'intimità della propria casa. A questo consiglio Lahiri Mahasaya aggiungeva l'incoraggiante potenza del suo esempio. Egli era uno yoghi ultimo modello, diremo 'aerodinamico'. Il suo modo di vivere, voluto da Babaji, intendeva essere una guida per gli aspiranti yoghi, non soltanto d'Oriente, ma anche e particolarmente d'Occidente. Fine nota). Ora che era disponibile anche durante il giorno, i discepoli affluivano in numero sempre crescente. Ormai il grande Guru trascorreva la maggior parte del suo tempo seduto in silenzio, raccolto nella tranquilla posizione del loto. Raramente abbandonava il suo salottino, foss'anche solo per una passeggiata o per andare in altre parti della casa. Una quieta fiumana di chela giungeva quasi ininterrottamente per un darshan (santa contemplazione) del Guru. A ispirare anche maggior reverenza a tutti coloro che lo visitavano, valeva il fatto che lo stato fisico abituale del Guru manifestava le caratteristiche superumane della sospensione del respiro, della rinuncia totale al sonno, della cessazione dei battiti del polso e del cuore, degli occhi fermi, privi per ore intere di ogni battito di palpebre, e di una profonda aura di pace. Nessun visitatore se ne andava senza sentirsi spiritualmente elevato; tutti erano consapevoli di aver ricevuto la tacita benedizione di un vero uomo di Dio. Il Maestro permise allora al suo discepolo Panchanon Bhattachrya di aprire a Calcutta un centro yoga, la 'Missione Arya'. Il centro preparava e distribuiva alcune medicine yoga fatte di erbe (Nota: I trattati di medicina indù si chiamavano Ayurveda. I medici dei Veda usavano delicatissimi strumenti chirurgici, praticavano la chirurgia plastica, conoscevano i modi per combattere gli effetti di gas tossici, praticavano tagli cesarei e operazioni al cervello, erano provetti nell'uso delle droghe. Ippocrate, famoso medico del V secolo a.C., attinse gran parte della sua scienza medica a fonti indù. Fine nota), e pubblicò le prime edizioni popolari in bengali della Bhagavad Gita. L'Arya Mission Gita, in indi e in bengali, entrò così in migliaia di case indù. Secondo un'antica usanza, il Maestro dava generalmente un olio di neem per la cura di alcune malattie (Nota: L'albero margosa dell'India orientale. Il suo valore terapeutico è ormai riconosciuto in Occidente, dove l'amara
corteccia di neem è usata come tonico e l'olio del frutto e dei semi è stato trovato d'estrema utilità nella cura della lebbra e d'altre malattie. Fine nota). Quando il Guru chiedeva a un discepolo di distillare quest'olio, il compito era facile. Se qualcun altro tentava di farlo, incontrava strane difficoltà, poiché dopo i necessari processi di distillazione, l'olio medicinale era quasi completamente evaporato. Evidentemente la benedizione del Maestro era un ingrediente essenziale. Ecco la scrittura e la firma di Lahiri Mahasaya in caratteri bengali: Le poche righe qui riprodotte sono tratte da una lettera a un chela. Il grande Maestro interpreta un verso sanscrito come segue: 'Colui che ha raggiunto uno stato di quiete nel quale le sue palpebre non tremano, ha compiuto il Sambhadi Mudra. Firmato: Sri Shyama Charan Deva Sharman'. (Nota: Una mudra è generalmente un gesto delle dita e delle mani; Sambhadi Mudra, ossia "il gesto che produce la pace", agisce su taluni nervi in maniera che ne derivi un profondo stato di calma mentale. Le antiche Scritture hanno minuziosamente classificato i nadi (settantaduemila vie nervose nel corpo) e i loro rapporti con la mente. I mudra usati nell'adorazione e nello yoga hanno perciò una base scientifica. Un complicato linguaggio di mudra, o gesti, si trova anche nell'iconografia e nelle danze rituali dell'India. Fine nota). L'istituto della Missione Arya intraprese la pubblicazione di molti commenti del Guru sulle Scritture. Come molti altri grandi profeti, Lahiri Mahasaya stesso non scrisse alcun libro; ma egli istruì vari discepoli nelle sue profonde interpretazioni delle Scritture; esse furono da questi annotate e riunite. In virtù del loro zelo, il mondo possiede gli impareggiabili commenti su ventisei antiche Scritture. Il mio caro amico Sri Ananda Mohan Lahiri, un nipote del Maestro, scrisse quanto segue: "I testi della Bhagavad Gita e di altre parti del Mahabharata contengono vari punti cruciali (vyas-kutas). Se non ci poniamo domande su tali punti essenziali, ci troviamo di fronte soltanto a storie mitiche strane e facilmente fraintese. E se non ci spieghiamo questi punti cruciali, avremo perduto una scienza che l'India ha conservato con sovrumana pazienza dopo una ricerca sperimentale di migliaia di anni. (Nota: Molti sigilli recentemente scavati nella zona archeologica della vallata dell'Indo, datanti dal 3000 a.C., presentano delle figure sedute nell'atteggiamento meditativo usato oggi nel metodo Yoga. Questa è una prova che anche a quei tempi già si conoscevano alcuni rudimenti dello yoga. Non è irrazionale trarne la conclusione che l'introspezione sistematica, con l'aiuto di metodi accuratamente studiati, sia praticata in India da 5000 anni". Estratto da un
articolo del prof. N. Norman Brown nel Bollettino dell'American Council of Learned Societies, Washington D.C., del maggio 1949. Fine nota). "Lahiri Mahasaya ha portato alla luce, libera da allegorie, la scienza religiosa tanto abilmente celata nelle Scritture in un rebus di immagini. Le formule del culto vedico cessarono d'essere un gioco di prestigio con parole inintelligibili e si rivelarono, attraverso le spiegazioni del Maestro, piene di significato scientifico. "Sappiamo che l'uomo è generalmente indifeso contro le ondate dilaganti delle cattive passioni; ma queste sono ridotte all'impotenza e l'uomo non trova motivo d'indulgervi quando sorge in lui la coscienza d'una beatitudine superiore e durevole attraverso il Kriya. Qui la rinunzia, la negazione della bassa natura, va di pari passo con una conquista: l'esperienza della beatitudine. "Se così non fosse, centinaia di massime morali che esprimono soltanto negazioni sarebbero inutili per noi. "Dietro tutte le manifestazioni fenomeniche sta l'Infinito, l'Oceano di Potere. Il desiderio di attività materiale uccide in noi il senso di riverenziale rispetto spirituale. Poiché la scienza moderna ci insegna a utilizzare le forze della natura, noi manchiamo di comprendere la Grande Vita che sta alla base di tutti i nomi e di tutte le forme. La familiarità con la natura ha creato in noi il disprezzo per i suoi ultimi segreti; i nostri rapporti con essa sono di natura eminentemente pratica. Noi la stuzzichiamo, per così dire, per scoprire come possiamo costringerla a servire i nostri scopi, e sfruttiamo le sue energie, la cui Fonte tuttavia ci rimane ignota. Nella scienza i nostri rapporti con la natura sono simili a quelli che esistono tra un uomo arrogante e il suo servo; oppure, in senso filosofico, la natura è una prigioniera nella gabbia degli imputati. La interroghiamo, la provochiamo e valutiamo minutamente le sue prove con intendimenti umani, che non possono dare la giusta valutazione dei suoi valori segreti. "D'altra parte, quando l'Io è in comunione con un potere superiore, la natura automaticamente ubbidisce senza sforzo alla volontà dell'uomo. Questo spontaneo dominio sulla natura è chiamato 'miracoloso' dal materialista, che non comprende. "La vita di Lahiri Mahasaya diede un esempio atto a sfatare l'errata convinzione che lo yoga sia una pratica misteriosa. A dispetto della materialità della scienza fisica, per mezzo del Kriya ogni uomo può giungere a capire il proprio giusto rapporto con la natura e a risvegliare in sé il riverente rispetto per ogni fenomeno, sia esso di carattere mistico o comune. (Nota: Si pensa qui all'osservazione di Carlyle nel Sartor Resartus:
"L'uomo incapace di meraviglia, che abitualmente non si stupisce, né adora, fosse anche il presidente di innumerevoli società scientifiche e portasse... nel cervello i compendi di tutti i laboratori e osservatori e i loro risultati, non è altro che un paio di occhiali dietro i quali non vi sono occhi". Fine nota). Dobbiamo rammentarci che molte cose che erano inspiegabili un migliaio d'anni fa, oggi non lo sono più, e che molti fenomeni oggi misteriosi, potranno fra qualche anno rivelarci le loro leggi. "La scienza del Kriya Yoga è eterna. Essa è vera come la matematica; come le semplici norme di addizione e sottrazione, la legge del Kriya Yoga non può mai essere negata o distrutta. Bruciate tutti i libri di matematica, e le menti logiche scopriranno sempre di nuovo tali verità; distruggete tutti i libri sacri sullo yoga, e le sue leggi fondamentali verranno nuovamente rivelate dovunque comparirà un vero saggio dalla devozione pura e, perciò, dalla pura conoscenza". Come Babaji è un avatar fra i più grandi, un Mahavatar, e come Sri Yukteswar può essere giustamente considerato un Jnanavatar, o Incarnazione di Saggezza, così Lahiri Mahasaya era uno Yogavatar, Incarnazione dello Yoga. (Nota: Dopo il trapasso di Paramahansaji, il suo maggior discepolo, Rajasi Janakananda (James J. Lynn) conferì a Yoganandaji l'appropriatissimo titolo di Premavatar, Incarnazione d'Amore. (N.d.E.). Fine nota). Il grande Maestro elevò il livello spirituale della società sotto un punto di vista sia qualitativo che quantitativo. Per la sua facoltà di elevare i suoi discepoli più stretti a una statura spirituale simile a quella del Cristo, e per la larga diffusione ella verità fra le masse, Lahiri Mahasaya s'inserisce tra i salvatori della umanità. La sua unicità come profeta consiste nell'aver posto l'accento sulla pratica di un metodo ben definito, il Kriya, aprendo per la prima volta le porte dello yoga liberamente a tutti gli uomini. A parte i miracoli della sua vita, lo Yogavatar ha certamente raggiunto il culmine di tutti i miracoli riducendo le antiche complessità dei metodi yoga a una semplicità pratica ed efficace, accessibile a tutti. Per quanto riguarda i miracoli, Lahiri Mahasaya spesso diceva: "L'azione delle sottilissime leggi ignote alla massa non dovrebbe essere discussa pubblicamente, o pubblicata senza le dovute discriminazioni". Se può sembrare che in queste pagine io non abbia rispettato le sue prudenti parole, è perché egli me ne diede, nell'intimo, il permesso. Tuttavia, nel narrare le vite di Babaji, Lahiri Mahasaya e Sri Yukteswar, ho creduto opportuno omettere certi racconti miracolosi, a spiegazione de quali avrei dovuto inserire tutto un volume di astrusa filosofia.
Nuove speranze per uomini nuovi! "La divina unione", proclamava lo Yogavatar, "si raggiunge mediante il proprio sforzo, e non dipende da credenze teologiche o dall'arbitraria volontà di un Dittatore Cosmico". Adoperando la chiave del Kriya, coloro che non riescono a credere nella divinità di nessun uomo vedranno, alla fine, la piena divinità di sé stessi.
CAPITOLO XXXVI BABAJI E L'OCCIDENTE "Maestro, avete mai incontrato Babaji?" Era una calma sera d'estate a Serampore; le grandi stelle dei tropici scintillavano sopra di noi, mentre sedevo accanto a Sri Yukteswar sul balcone al secondo piano dell'eremitaggio. "Si". Il Maestro sorrise alla mia domanda senza preamboli. Gli occhi gli si accesero di reverenza. "Tre volte sono stato benedetto dalla vista dell'immortale Guru. Il nostro primo incontro avvenne a Allahabad, in occasione di un Kumbha Mela". Le feste religiose che si svolgono in India da tempi immemorabili sono conosciute col nome di Kumba Mela; esse hanno mantenuto le méte spirituali costantemente presenti agli occhi delle moltitudini. I devoti indù si riuniscono a milioni ogni sei anni per incontrarsi con migliaia di sadhu, yoghi, swami e asceti d'ogni genere. Molti sono eremiti che non abbandonano mai i loro solitari rifugi se non per partecipare ai mela e impartire la loro benedizione agli uomini e alle donne del mondo. "All'epoca del mio incontro con Babaji non ero ancora uno swami", continuò Sri Yukteswar, ma avevo già ricevuto da Lahiri Mahasaya la iniziazione Kriya. Egli m'incoraggiò a partecipare al mela che doveva aver luogo ad Allahabad nel gennaio 1894. Fu la mia prima esperienza di un Kumbha; mi sentivo un po' stordito dal clamore e dall'incalzare della folla. Cercando, mi guardavo intorno, ma non scorgevo alcun illuminato volto di Maestro. Attraversando un ponte sulle rive del Gange notai un mio conoscente che, in piedi lì accanto, tendeva la ciotola dell'elemosina. - Oh! questa festa non è altro che un caos di rumori e di mendicanti, pensai deluso. - Mi chiedo se gli scienziati occidentali che pazientemente ampliano i campi della conoscenza per il bene materiale dell'umanità, non siano più graditi a Dio di questi fannulloni che professano idee religiose, ma in realtà si concentrano solo sulle elemosine. "Le mie silenziose ma appassionate riflessioni sulle riforme sociali furono interrotte dalla voce di un sannyasi d'alta statura, che si fermò dinanzi a me. " - Signore, - disse, - un Santo vi chiama. " - Chi è?
" - Venite, e lo vedrete. "Esitante, seguii il suo laconico consiglio e ben presto mi trovai accanto a un albero dai grandi rami, sotto la cui ombra sedeva un guru circondato da un attraente gruppo di discepoli. Il Maestro, una luminosa e insolita figura dagli occhi scuri scintillanti, si alzò al mio arrivo e mi abbracciò. " - Benvenuto, Swamiji - disse affettuosamente. " - Signore, - risposi con enfasi, - non sono uno swami. " - Coloro a cui io, per divino comando, concedo il titolo di swami, non lo rifiutano mai. – Il Santo si rivolgeva a me con semplicità, ma una profonda convinzione di verità vibrava nelle sue parole; fui travolto da una subitanea elevazione all'antico Ordine monastico, mi inchinai ai piedi di quell'ovviamente grande e angelico essere in forma umana, che così mi aveva onorato. (Nota: Sri Yukteswar in seguito fu iniziato ufficialmente nell'Ordine degli Swami dal Mahant (superiore del Monastero) di Buddh Gaya. Fine nota). "Babaji - poiché era proprio lui - mi fece sedere accanto a sé sotto l'albero. Era forte e giovane, e somigliava a Lahiri Mahasaya; eppure questa rassomiglianza non mi colpì, pur avendone spesso sentito parlare. Babaji ha in sé un potere che può impedire a qualsiasi pensiero specifico di sorgere nella mente di una persona. Evidentemente il grande Guru voleva che io fossi perfettamente spontaneo in sua presenza e non turbato dalla conoscenza della sua identità. " - Che cosa pensi del Kumbha Mela? " - Ne sono rimasto assai deluso, Signore, - dissi, ma aggiunsi subito, fino al momento in cui ho incontrato voi. Mi sembra che i santi e tutta questa confusione non vadano d'accordo. " - Figliolo, - disse il maestro, sebbene io dimostrassi il doppio della sua età, - per colpa di molti non giudicare il tutto. Ogni cosa sulla terra ha un duplice carattere, come un miscuglio di sabbia e zucchero. Sii come la saggia formica che sceglie solo lo zucchero e non tocca la sabbia. benché molti dei sadhu che si trovano qui errino ancora nell'illusione, pure il Mela è benedetto dalla presenza di alcuni uomini dalla realizzazione divina. "In considerazione del mio incontro personale con questo grandissimo Maestro mi dichiarai subito d'accordo con lui. " - Signore, - confessai, - stavo pensando agli scienziati occidentali di gran lunga più intelligenti della maggior parte delle persone qui riunite, che vivono nella lontana Europa e nelle Americhe, professano fedi diverse e ignorano i valori di una festa come questo Mela. Sono uomini che
potrebbero trarre grande profitto da un incontro con i Maestri dell'India. Ma, sebbene avanzatissimi nelle cose intellettuali, molti occidentali restano abbarbicati a un sorpassato materialismo. Altri uomini, eminenti nelle scienze e nella filosofia, non riconoscono l'unità essenziale insita in tutte le religioni. I loro vari credi erigono barriere insormontabili che minacciano di separarli da noi per sempre. " - Avevo notato che ti interessi all'Occidente come all'Oriente! - Il volto di Babaji era raggiante di approvazione. - Ho sentito l'angoscia del tuo cuore che è abbastanza grande per accogliere tutti gli uomini. Ecco perché ti ho chiamato qui. " - Oriente e Occidente, - egli continuò, - devono creare un'area via di mezzo, fatta di attività e spiritualità combinate. L'India ha molto da imparare dall'Occidente nel campo del progresso materiale; in compenso l'India può insegnare i metodi universali, mediante i quali l'Occidente potrà basare le proprie credenze religiose sulle incrollabili fondamenta della scienza yoga. " - Tu, Swamiji, avrai una parte da svolgere nel futuro armonico scambio tra Oriente e Occidente. Fra qualche anno ti manderò un discepolo che potrai allenare al compito di diffondere lo yoga in Occidente. Come una marea, giungono a me le vibrazioni di molte anime alla ricerca spirituale laggiù. Sento che vi sono, in America e in Europa, molti santi in potenza che attendono d'esser risvegliati". A questo punto del suo racconto, Sri Yukteswar mi guardò dritto negli occhi. "Figlio mio", disse sorridendomi nel chiaro di luna; "tu sei il discepolo che anni fa, Babaji promise di mandarmi". Fui lieto di sapere che Babaji aveva diretto i miei passi verso Sri Yukteswar, tuttavia mi riusciva difficile vedermi nel remoto Occidente, lontano dal mio amato Guru e dalla semplice pace dell'eremitaggio. "Babaji quindi parlò della Bhagavad Gita", riprese a dire Sri Yukteswar. "Dalle poche parole di lode che mi rivolse, appresi con stupore ch'egli sapeva che avevo scritto delle interpretazioni di vari capitoli della Gita. " - Ti prego, Swamiji, fai per me un'altra cosa ancora, - disse il grande Maestro: - Vuoi scrivere un breve libro sull'unità basilare esistente fra le Scritture cristiane e quelle indù, unità ora trascurata dalle differenze settarie create dagli uomini? Dimostra con riferimenti paralleli che gli ispirati figli di Dio hanno detto le stesse verità.
" - Maharaj!, - risposi sfiduciato, - quale ordine mi date! Sarò io mai in grado di eseguirlo? (Nota: Maharaj = Grande Re. Titolo di rispetto. Fine nota). "Babaji rise dolcemente. - Figlio mio, perché ne dubiti? - mi rassicurò. Di Chi tutto questo è opera e Chi è l'Esecutore d'ogni azione? Tutto quello che il Signore mi ha ispirato di dire non può non diventare realtà. "Mi sentii investito di un nuovo potere dalla benedizione del Santo, e accettai di scrivere il libro. Con riluttanza, sentendo che era giunta l'ora della separazione, mi alzai dal mio verde sedile di foglie. " - Conosci Lahiri? (Nota: Un guru, in genere, si riferisce al suo discepolo solamente col nome, omettendo ogni titolo. Babaji disse Lahiri e non Lahiri Mahasaya. Fine nota) - chiese il Maestro. - E' una grande anima, non è vero? Digli del nostro incontro! - E mi diede un messaggio per Lahiri Mahasaya. "Dopo che mi fui inchinato umilmente per congedarmi, il Santo mi sorrise benignamente. - Quando avrai terminato il tuo libro ti farò una visita promise. - Arrivederci, per ora. "Il giorno seguente partii da Allahabad per Benares. Giunto dal mio Guru, gli raccontai subito tutta la storia dello straordinario Santo del Kumbha Mela. " - Oh! ma non l'hai riconosciuto? - Negli occhi di Lahiri Mahasaya brillava il riso. - Vedo che non potevi riconoscerlo, perché egli te lo ha impedito. E' il mio incomparabile Guru, il celestiale Babaji! " - Babaji! - ripetei stralunato. - Babaji, lo Yoghi-Cristo! L'invisibile e visibile Salvatore Babaji! Oh! se potessi richiamare il passato ad essere di nuovo alla sua presenza per porre tutta la mia devozione ai suoi sacri piedi di Loto! " - Non fa nulla, - mi confortò Lahiri Mahasaya, - ha promesso di rivederti! " - Gurudeva, il divino Maestro mi ha incaricato di portarvi un messaggio: "Di' a Lahiri", mi ha detto, "che la sua riserva di energia per questa vita sta diminuendo, è quasi finita!". "Mentre pronunziavo queste enigmatiche parole, la figura di Lahiri Mahasaya, tremò come se fosse stata toccata da una scarica elettrica. In un istante tutto in lui fu silenzio, la sua sorridente espressione si fece incredibilmente grave. Come una statua di legno, cupo e immobile al posto in cui era seduto, il suo corpo si scolorò. Ne fui allarmato e sconvolto. Mai in vita mia avevo visto quell'anima gioiosa assumere una così tremenda gravità. Anche gli altri discepoli presenti lo guardavano allarmati.
"Passarono tre ore in assoluto silenzio; poi Lahiri Mahasaya riprese il suo aspetto semplice e gaio e parlò con affetto a ognuno dei suoi chela. Tutti respirammo di sollievo. "Compresi dalla reazione del mio maestro che il messaggio di Babaji era stato per Lahiri Mahasaya un indubbio avviso che il suo corpo ben presto si sarebbe separato da lui. Il suo spaventoso silenzio provava che il mio Guru aveva istantaneamente controllato il proprio essere e tagliato l'ultimo legame che l'univa al mondo materiale, per rifugiarsi nella sua eterna identità con lo Spirito. Le parole di Babaji erano state il suo modo di dirgli: - Sarò sempre con te! "Benché Babaji e Lahiri Mahasaya fossero onniscienti e non avessero bisogno di me o di qualsiasi intermediario per comunicare fra loro, i grandi accondiscendono spesso ad assumere una parte nel dramma umano. Occasionalmente essi trasmettono le loro profezie in modo comune servendosi di un messaggero, perché più tardi la conferma delle loro parole possa infondere in una vasta cerchia d'uomini che apprenderanno l'accaduto, una più grande fede in Dio. "Presto lasciai Benares e a Serampore cominciai il lavoro sulle Scritture comandatomi da Babaji. Non appena iniziato lo studio, fui ispirato a comporre un poema dedicato al Guru immortale. I versi fluivano naturalmente melodiosi dalla mia penna, sebbene mai prima di allora avessi tentato di scrivere poesie in sanscrito. "Nel silenzio della notte studiavo, comparando la Bibbia e le Scritture del Sanatan Dharma (Nota: Letteralmente "religione eterna", nome dato al corpo degli insegnamenti vedici. Sanatan Dharma venne chiamato Induismo fin dal tempo dei Greci, i quali designarono il popolo vivente sulle rive del fiume Indo col nome di Indu, o Hindu. La parola Indù propriamente detta si riferisce solo ai seguaci del Sanatan Dharma o Induismo. Il termine Indiano si riferisce sia agli Indù che ai Maomettani e ad altri abitanti della terra d'India (e anche, per l'errore geografico di Colombo, agli aborigeni mongoloidi americani). L'antico nome dell'India è Aryavarta, letteralmente "sede degli Ariani". La radice sanscrita arya significa: degno, santo, nobile. Il più tardivo uso etimologico errato della parola Ariano, che allude a caratteristiche non spirituali, ma fisiche, ha indotto il grande orientalista Max Muller a dire bizzarramente: "Per me un etnologo che parla di razza ariana, di sangue ariano, di occhi e capelli ariani, è in errore quanto un glottologo che parlasse di un dizionario dolicocefalo o di una grammatica brachicefala". Fine nota). Citando le parole del benedetto Signore Gesù, dimostrai che i suoi insegnamenti erano essenzialmente tutt'uno con le rivelazioni dei Veda.
Per la grazia del mio Paramguru (Nota: Paramguru ha il significato letterale di "guru al di là" che indica una linea di successione di maestri. Babaji, guru di Lahiri Mahasaya, è il Paramguru di Sri Yukteswar ed il guru supremo di tutti i membri SRF-YSS che praticano fedelmente il Kriya Yoga. Fine nota) il mio libro, "La Sacra Scienza" (Nota: The Holy Science, ora pubblicato dalla Self-Realization Fellowship, Los Angeles, California. Fine nota), fu ultimato in un tempo assai breve. I vari capitoli furono pubblicati dapprima nel giornale Sadhusambad e in seguito stampati privatamente e raccolti in volume da uno dei miei discepoli di Kidderpore". Il maestro continuò : "La mattina che seguì la fine del mio sforzo letterario, andai al Rai Ghat per bagnarmi nel Gange. Il ghat era deserto. Rimasi lì tranquillo un poco a godermi la pace piena di sole; poi, dopo un tuffo nelle acque scintillanti, ripresi la via di casa. Nel grande silenzio non s'udiva che il fruscio delle mie vesti bagnate, che si agitavano ad ogni mio passo. Oltrepassato un grande albero di banyan accanto alla riva, un invincibile impulso mi costrinse a voltarmi indietro. Là, all'ombra dell'albero sedeva, circondato da alcuni discepoli, il grande Babaji. " - Salute, Swamiji! - La bellissima voce del Maestro risuonò alta per assicurarmi che non stavo sognando. Ho visto che hai completato con successo il tuo libro. Come avevo promesso, eccomi qui a ringraziarti. "Col cuore che mi batteva forte, mi prostrai ai suoi piedi. - Paramguruji, implorai - non volete, con i vostri chela, onorare della vostra presenza la mia casa qui accanto? " Il grande Guru declinò sorridendo l'invito. - No, figliolo, - rispose siamo gente che ama la protezione degli alberi; questo luogo è comodissimo. " - Vi prego, soffermatevi ancora un poco, Maestro, - continuai con sguardo supplichevole. Sarò subito di ritorno con dei dolci speciali. (Nota: Non offrire dei rinfreschi al guru, è considerato in India una mancanza di rispetto. Fine nota). "Quando dopo pochi minuti tornai con un piatto di dolciumi, il maestoso albero di banyan non copriva più con la sua ombra il gruppo celestiale. Guardai in giro per tutto il ghat, ma in cuor mio sapevo che il gruppetto era già volato via su ali eteree. "Ne fui profondamente ferito. - Anche se c'incontrassimo un'altra volta, non vorrei neppure più parlargli - assicuravo a me stesso. - E' stato scortese a lasciarmi così all'improvviso. Questa, naturalmente, era collera amorosa e nulla più.
"Alcuni mesi dopo visitai Lahiri Mahasaya a Benares. Quando entrai nel suo salottino, il Guru mi sorrise per darmi il benvenuto, e mi chiese: " - Non hai incontrato Babaji proprio ora sulla soglia della stanza? " - No davvero, - gli risposi sorpreso. " - Vieni qua. - Lahiri Mahasaya mi toccò lievemente la fronte e subito scorsi accanto alla porta la figura di Babaji, fiorente come un loto perfetto. "Ricordando la mia antica ferita, non m'inchinai. Lahiri Mahasaya mi guardò con stupore. "Il divino Guru mi fissò coi suoi impenetrabili occhi. - Tu sei in collera con me. " - Signore, come potrei non esserlo? Col vostro magico gruppo veniste dall'aria e nell'aria svaniste. " - Ti dissi che sarei venuto a trovarti, ma non ti dissi quanto tempo sarei rimasto. - Babaji rise dolcemente. - Eri tanto eccitato! Ti assicuro che fui quasi soffiato via nell'etere dalle raffiche della tua agitazione! "Questa spiegazione poco lusinghiera per me, mi calmò subito. Mi inginocchiai ai suoi piedi. Il grande Guru mi batté gentilmente sulla spalla. " - Figliolo, - mi disse, - devi meditare di più. Il tuo sguardo non è ancora perfetto; non potresti scorgermi se io mi nascondessi dietro la luce del sole. - Con queste parole, dette con la voce di un flauto celestiale, Babaji sparì celandosi nel segreto splendore. "Questa fu una delle ultime visite che feci a Benares per vedere il mio Guru", concluse Sri Yukteswar. "Come aveva predetto Babaji al Kumbha Mela, l'incarnazione del capofamiglia Lahiri Mahasaya si approssimava al suo termine. Durante l'estate del 1895 il suo vigoroso corpo sviluppò un piccolo ascesso sulla schiena. Egli non volle farlo incidere; nella sua carne egli consumava il cattivo karma di alcuni discepoli. Alla fine le insistenze dei chela si fecero molto vive; il maestro rispose enigmaticamente: " - Il corpo deve trovare una ragione per potersene andare. Vi lascerò fare tutto ciò che volete. "Poco dopo, l'incomparabile Guru abbandonò a Benares la sua spoglia terrena. Ora non ho più bisogno di cercarlo nel suo salottino; ogni giorno della mia vita è benedetto dalla sua onnipresente guida". Molti anni dopo appresi dalle labbra di Swami Keshabananda, un discepolo assai progredito, molti meravigliosi particolari sul trapasso di Lahiri Mahasaya. "Pochi giorni prima che abbandonasse il suo corpo", mi disse Keshabananda, "il mio Guru si materializzò dinanzi a me, mentre sedevo nel mio eremitaggio di Hardwar.
" - Vieni subito a Benares, - mi disse, e scomparve. "Partii immediatamente per Benares. A casa del mio Guru trovai riuniti molti discepoli. Per ore, quel giorno, il Maestro spiegò la Gita, poi si volse a noi con semplicità: (Nota: Il 26 settembre 1895 Lahiri Mahasaya abbandonò il suo corpo. Pochi giorni dopo avrebbe compiuto 67 anni. Fine nota). " - Me ne vado a casa. "Singhiozzi d'angoscia eruppero dai nostri petti come un torrente irrefrenabile. " - Consolatevi; risorgerò. - Dopo questa dichiarazione Lahiri Mahasaya si alzò dal suo sedile, rigirò il suo corpo tre volte in circolo, quindi rivolto a Nord e assunta la posizione del Loto, gloriosamente entrò nel mahasamadhi finale. (Nota: Girare tre volte il corpo in circolo e quindi volgersi a Nord, fa parte del rito Vedico usato dai Maestri che sanno in precedenza quando sta per scoccare l'ultima ora di vita per il loro corpo fisico. L'ultima meditazione durante la quale il Maestro s'immerge nel cosmico Om, si chiama il maha (grande) samadhi. Fine nota.) "Il bellissimo corpo di Lahiri Mahasaia, tanto caro ai suoi devoti, fu cremato al Manikarnika Ghat sul sacro Gange, coi riti solenni dovuti a un capofamiglia. Il giorno seguente alle dieci del mattino mentre ero ancora a Benares, la mia stanza si riempì di una grande luce e dinanzi a me, in carne e ossa, comparve la figura del Maestro. Sembrava il suo stesso corpo, ma con un aspetto più giovane e radiante. Il divino Guru mi disse: " - Keshabananda, sono io. Dagli atomi disintegrati del mio corpo cremato ho fatto risorgere una forma nuova. Il mio compito di padre di famiglia nel mondo è finito; ma non lascio completamente la terra. D'ora innanzi trascorrerò un periodo di tempo con Babaji sull'Himalaya e con Babaji nel cosmo. "Con poche parole di benedizione il trascendente Maestro svanì. Una miracolosa ispirazione mi riempì il cuore. Fui elevato nello Spirito come i discepoli del Cristo e di Kabir, quando ebbero veduto i loro Guru viventi dopo la morte fisica". (Nota: Kabir fu un grande Santo del XVI secolo, il cui largo seguito comprendeva egualmente Indù e Maomettani. Alla sua morte, i discepoli litigarono sul come si dovessero svolgere i riti funebri. Il Maestro esasperato si sollevò dal suo sonno finale e impartì le sue istruzioni: "Metà dei miei resti dovranno essere sepolti col rito dei Maomettani, l'altra metà cremata col rito indù", disse e poi scomparve. Quando i discepoli sollevarono il sudario che aveva ricoperto il suo corpo, non vi trovarono altro che una splendente massa di fiori di champak color dell'oro. In obbedienza al Maestro, metà di tali fiori furono sepolti a Maghar dai Maomettani, che ancora oggi venerano il suo tabernacolo. L'altra metà
venne cremata secondo l'usanza indù. In gioventù Kabir fu avvicinato da due discepoli che volevano da lui una dettagliata guida intellettuale sul come seguire il mistico sentiero. Il Maestro rispose loro semplicemente: "Il sentiero presuppone distanza; Se Egli è vicino non ti occorre alcun sentiero. In verità mi fa sorridere Di sentire d'un pesce che nell'acqua ha sete!" (Fine nota.). E Keshabananda continuò: "Quando tornai al mio solitario eremitaggio di Hardwar, portai con me una parte delle sacre ceneri del mio Guru. Sapevo che egli è fuggito dalla gabbia del tempo e dello spazio; l'uccello dell'onnipotenza è liberato. Nondimeno per il mio cuore era un conforto custodire i suoi sacri resti". Un altro discepolo che fu benedetto dalla vista del suo Guru risorto fu il santo Panchanon Bhattacharya (Nota: Pancharon eresse un tempio di Shiva in un giardino di 17 acri a Deogarh nel Bihar, in cui si trova un ritratto a olio di Lahiri Mahasaya. Nel 1928 avvicinandosi il centenario della nascita di Lahiri Mahasaya, il nipote di questi, Sri Ananda Moham Lahiri, desiderava commemorare il sacro evento. Aveva in mente una statua del grande Maestro, al quale nessun monumento era stato mai eretto. Con sua meraviglia, poco tempo dopo aver formulato il suo progetto, Sri Ananta Mohan ricevette da Jadu Nath Pal, famoso scultore di Krishnagar, una bellissima statua in pietra raffigurante Lahiri Mahasaya. Jadu Nath disse d'essere stato indotto da una visione divina a scolpire la statua e a farne dono a Sri Ananda. Sri Bhupendra Nath Sanyal, che eresse un tempio di Lahiri Mahasaya a Puri, vi pose una statua in marmo dello Yogavatar. Sri Bhupendra è uno dei pochi discepoli diretti di Lahiri Mahasaya tuttora viventi. (Sri Bhupendra morì nel 1962). Nato nel 1877, a quindici anni si sottomise alla guida spirituale dello Yogavatar. Questo santo discepolo pubblicò un trattato esemplare sulla Bhagavad Gita in bengali, cui aggiunse i commenti, da lungo tempo esauriti nella stampa, di Lahiri Mahasaya. Fine nota). Feci una visita a Panchanon nella sua casa di Calcutta e ascoltai deliziato la storia dei molti anni da lui trascorsi col Maestro. Per concludere, mi raccontò l'avvenimento più straordinario della sua vita. "Qui a Calcutta", disse Panchanon, "alle dieci del mattino dopo la sua cremazione, Lahiri Mahasaya mi apparve in tutta la sua gloria vivente". Swami Pranabananda, il Santo dai due corpi, mi confidò pure lui i particolari della soprannaturale esperienza da lui vissuta. "Pochi giorni prima che Lahiri Mahasaya abbandonasse il suo corpo", mi raccontò Pranabananda quando venne a visitare la mia scuola a Ranchi,
"ricevetti da lui una lettera che m'invitava a recarmi subito a Benares. Fui trattenuto e non potei partire immediatamente. Mentre ero nel bel mezzo dei preparativi per il viaggio, verso le dieci del mattino, fui a un tratto sopraffatto da un senso di gioia nel vedere la luminosa figura del mio Guru. " - Perché precipitarti a Benares? - disse Lahiri Mahasaya sorridendo. Non mi ci troverai più. "Quando mi balenò il significato delle sue parole, lanciai un grido disperato, credendo di vederlo solo in una visione. "Il Maestro mi si avvicinò per confortarmi. - Ecco, tocca la mia carne disse. - Sono vivo come sempre. Non lamentarti. non sono forse con te in eterno? Dalle labbra di questi tre grandi discepoli è emersa la testimonianza di una verità miracolosa: alle dieci del mattino, il giorno dopo che il corpo di Lahiri Mahasaya era stato affidato alle fiamme vicino al sacro Gange, il maestro, risorto in un corpo reale, ma trasfigurato, apparve contemporaneamente dinanzi a tre discepoli che stavano ognuno, in una città diversa. "Poiché bisogna che questo corpo corruttibile rivesta l'incorruttibilità, e che questo mortale rivesta l'immortalità. E quando questo mortale rivestirà l'immortalità, allora si avvererà la parola che è scritta: E' stata assorbita la morte nella vittoria. O morte, dov'è la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?" (nota: Ai Corinti, I ,15, 53-55. "E sembra a voi incredibile che Dio risusciti i morti?. Atti degli Apostoli, 26, 8. Fine nota).
CAPITOLO XXXVII PARTENZA PER L'AMERICA - L'America! Certamente questi sono americani! - Tale fu il mio pensiero quando la visione di una folla di visi occidentali si presentò alla mia vista interiore. (Nota: Molti di quei visi li ho visti poi in Occidente e li ho subito riconosciuti. Fine nota). Immerso nella meditazione sedevo dietro alcune scatole polverose nel deposito della scuola di Ranchi. (Nota: Nel 1959 Sorella Daya Mata, presidente dell'SRF-YSS, dedicò a Yogananda una "Yogananda Hall" o "Stanza della Visione", costruita sul posto dell'antico magazzino a Ranchi. (N.d.E.). Fine nota). Era difficile trovare un posticino solitario in quegli anni così presi dall'educazione dei giovani! La visione continuò: una grande moltitudine attraversava, fissandomi intensamente, come tanti attori, la scena della mia coscienza. La porta del deposito si aprì: come sempre accadeva, uno dei ragazzi aveva scoperto il mio nascondiglio. "Vieni qui, Bimal", gli gridai allegramente. "Ho delle notizie da darti. Il Signore mi chiama in America!". "In America?". Il ragazzo ripeté le mie parole con un tono come se avessi detto: 'nella luna'. "Si! Vado a scoprire l'America, come Colombo. Egli credeva di aver trovato l'India! Senza dubbio ci dev'essere qualche legale karmico tra questi due paesi!". Bimal scappò via e ben presto quella gazzetta a due gambe ebbe informato tutta la scuola. Riunii il consiglio direttivo degli insegnanti stupefatti, e affidai loro la scuola. "So che serberete sempre vivi gli ideali educativi dello yoga di Lahiri Mahasaya", dissi loro. "Vi scriverò spesso, e, a Dio piacendo, un giorno tornerò fra voi". Mi vennero le lacrime agli occhi mentre lanciavo un ultimo sguardo ai ragazzini e alle terre soleggiate di Ranchi. Sapevo che si chiudeva così, definitivamente un periodo della mia vita; da allora in poi sarei vissuto in terre lontane. Dopo qualche ora dalla mia visione partivo per Calcutta. Il giorno seguente ricevetti da un amico bengalese un invito a partecipare,
come delegato dell'India, a un Congresso Internazionale di Liberali Religiosi in America; congresso che doveva aver luogo quell'anno a Boston, sotto gli auspici dell'Associazione Unitaria Americana. Con la testa che mi girava corsi a cercare il Maestro a Serampore. "Guruji, ho ricevuto proprio adesso un invito a partecipare a un Congresso religioso in America: debbo andarvi?". "Tutte le porte ti sono aperte", risposte il maestro semplicemente. "Ora o mai più". "Ma, Signore", dissi confuso, "come saprò parlare in pubblico? Ho tenuto ben di rado una conferenza e mai in inglese". "In inglese o non in inglese, le tue parole sullo yoga saranno ascoltate e comprese in Occidente". "Ebbene, mio caro Guruji", dissi ridendo, "non credo che gli americani impareranno il bengali. Datemi, vi prego, con la vostra benedizione, una spinta che mi faccia superare l'ostacolo dei pasticci che combinerò con il mio inglese". (Nota: Sri Yukteswar e io parlavamo di solito in bengali. Fine nota). Quando comunicai i miei progetti a mio padre, egli ne fu molto scosso. A lui l'America sembrava incredibilmente lontana, e temeva di non rivedermi mai più. "Come farai ad andarvi?", chiese severamente. "Chi ti darà il denaro?". Poiché con tanto affetto egli aveva sempre provveduto alle spese della mia educazione e di tutta la mia vita, con questa domanda egli sperava di porre un insormontabile ostacolo al mio progetto. "Certamente il Signore mi finanzierà". Mentre gli rispondevo così rammentai un'analoga risposta data a mio fratello Ananta, ad Agra, tanti anni prima. E con poca diplomazia aggiunsi. "Padre forse Dio vi ispirerà d'aiutarmi". "No, mai!" e mi guardò con occhi infelici. Perciò rimasi stupito quando, il giorno seguente, egli mi diede un assegno per una grossa somma. "Ti do questo denaro non in veste di padre, ma di fedele discepolo di Lahiri Mahasaya. Va' dunque in quel lontano paese d'Occidente e divulga i liberi insegnamenti del Kriya Yoga." Lo spirito altruistico con cui mio padre era stato capace di mettere da parte così rapidamente i suoi desideri personali mi commosse immensamente. Durante la notte egli aveva compreso che il movente che mi spingeva a questo viaggio non era un banale desiderio di vedere paesi lontani.
"Forse non c'incontreremo mai più in questa vita", egli mi disse tristemente. Aveva allora sessantasette anni. Una convinzione intuitiva mi fece rispondere: "Certamente il Signore ci riunirà ancora una volta". Mentre mi preparavo a lasciare il Maestro e la mia terra per le ignote rive d'America, trepidavo non poco. Avevo udito tanti racconti sull'ambiente materialista d'Occidente, d'un paese così diverso dall'India permeata dell'aura secolare dei santi. E pensavo: - Un maestro orientale che osi affrontare l'atmosfera ambientale dell'Occidente deve essere ben corazzato, assai più che se dovesse difendersi dai geli dell'Himalaya. Una mattina all'alba cominciai a pregare con le ferrea decisione di continuare, a costo di morire pregando, finché non avessi udito la Voce di Dio. Volevo la Sua benedizione, e l'assicurazione che non mi sarei smarrito nelle nebbie dell'utilitarismo moderno. Il mio cuore era deciso ad andare in America, ma ancor più fortemente deciso a ricevere prima la consolazione del divino consenso. Pregai e pregai, soffocando i singhiozzi. Non venne nessuna risposta. La mia silenziosa implorazione aumentò in un esasperante crescendo, fino a quando, a mezzogiorno, raggiunse l'apice; il mio cervello non resisteva più alla pressione del mio tormento, mi pareva che sarebbe scoppiato se avessi implorato una sola volta ancora, accrescendo la profondità della mia passione. In quell'istante si udì un colpo alla porta di casa nella Gurpar Road, dove mi trovavo. Aperta la porta, vidi un giovane nella succinta veste di un rinunciante. Entrò, richiuse la porta dietro di sé e rifiutando di sedersi mi fece intender con un gesto che desiderava parlarmi rimanendo in piedi. - Deve essere Babaji, - pensai abbacinato, poiché chi mi stava dinanzi aveva i lineamenti ringiovaniti di Lahiri Mahasaya. Egli rispose al mio pensiero recondito: "Si, sono Babaji". Parlava melodiosamente in indi. "Il nostro Padre Celeste ha ascoltato la tua preghiera e mi ordina di dirti: Segui il comando del tuo Guru e va' in America. Non temere, sarai protetto.". Dopo una pausa vibrante, Babaji si rivolse ancora a me: "Tu sei colui che ho prescelto per diffondere il messaggio del Kriya Yoga in Occidente. Molto tempo fa incontrai il tuo Guru Yukteswar a un Kumbha Mela; gli dissi allora che ti avrei mandato a lui in qualità di discepolo". Ero ammutolito, soffocato da timorosa venerazione per la sua presenza e profondamente commosso nell'udire dalle sue stesse labbra che proprio lui mi aveva guidato verso Sri Yukteswar.
M'inchinai fino a terra dinanzi al Guru immortale. Gentilmente, egli mi sollevò. Mi disse molte cose della mia vita; indi mi diede alcune istruzioni personali pronunciando delle profezie segrete. "Il Kriya Yoga, la tecnica scientifica della realizzazione di Dio", disse infine con solennità, "finirà per diffondersi in tutti i Paesi e contribuirà a unire in armoniosa fratellanza le Nazioni attraverso la trascendente percezione personale, da parte dell'uomo, del Padre Infinito". Con lo sguardo colmo di maestoso potere, il Maestro mi elettrizzò con un lampo della sua coscienza cosmica. Se d'un tratto avvenisse in mezzo ai cieli L'esplosione solar di mille soli Che la terra inondasse d'impensabili Raggi, allora forse di quell'Uno Santo La maestà, il fulgore incomparabili Potrebber divenire concepibili. (Nota: Dalla Bhagavad Gita, XI, 12. Fine nota). Dopo un breve lasso di tempo, Babaji si avviò verso la porta. "Non cercare di seguirmi", disse, "non saresti capace di farlo". "Vi prego, Babaji, non andate via!", implorai più volte. "Portatemi con voi!". Volgendosi, rispose: "Non ora, un'altra volta!". Sopraffatto dall'emozione, non mi curai del suo avvertimento; cercai di seguirlo, ma mi accorsi che i miei piedi erano fermamente radicati al suolo. Dalla soglia, Babaji mi lanciò un ultimo, affettuoso sguardo, sollevò la mano in gesto di benedizione e se ne andò, seguito di miei occhi avidamente fissi su di lui. Dopo qualche minuti mi sentii i piedi liberi. Sedetti di nuovo ed entrai in profonda meditazione, ringraziando incessantemente Dio non solo per aver esaudito le mie preghiere, ma anche per avermi benedetto, facendomi incontrare Babaji. Tutto il mio corpo sembrava santificato dal tocco dell'antichissimo e sempre giovane Maestro. Da lungo tempo avevo custodito l'ardente desiderio di vederlo! Fino ad ora non avevo raccontato a nessuno la storia del mio incontro con Babaji; serbandola come la più sacra delle mie esperienze umane, l'avevo celata nel mio cuore. Ma ho pensato che i lettori di questa biografia saranno più portati a credere alla realtà del solitario Babaji e al suo interessamento per le cose del mondo, apprendendo che l'ho visto io stesso con i miei occhi fisici. Ho aiutato un artista a tracciare un ritratto somigliante del grande YoghiCristo dell'India moderna. Il disegno si trova in questo libro. Trascorsi la vigilia della mia partenza per gli Stati Uniti alla santa presenza di Sri Yukteswar. "Dimentica d'esser nato fra gli indù, e non
adottare nemmeno tutte le maniere degli americani: prendi il meglio dei due popoli", mi disse il Maestro con la sua calma saggezza. "Sii il vero te stesso, un figlio di Dio. Cerca e assimila in te le qualità migliori di tutti i tuoi fratelli sparsi sulla terra, di qualunque razza siano". Quindi mi benedì. "Tutti coloro che verranno a te con fede per cercare Dio, saranno aiutati. Quando li guiderai, la corrente spirituale che emana dai tuoi occhi penetrerà loro nel cervello e muterà le loro abitudini materialistiche, rendendoli maggiormente consci di Dio!". E continuò: "La tua facoltà di attirare anime sincere è forte. Dovunque andrai, anche in un deserto, troverai degli amici". Entrambe le sue benedizioni sono state ampiamente dimostrate. Venni in America, solo come in un deserto senza un amico; ma qui ne trovai a migliaia, pronti ad accogliere gli eterni insegnamenti spirituali dello yoga. Lasciai l'India nell'agosto del 1920 sul 'Città di Sparta', il primo battello passeggeri che partiva per l'America dopo la fine della prima guerra mondiale. Ero riuscito a fissare un posto dopo aver superato, in modo quasi miracoloso, infinite difficoltà burocratiche per ottenere il passaporto. Durante i due mesi di traversata, un passeggero scoprì che ero il delegato indiano al Congresso di Boston. "Swami Yogananda", egli disse col primo dei molti bizzarri modi di pronunciare il mio nome che in seguito ebbi a sentire da parte degli americani, "vi prego offrite giovedì sera ai passeggeri il piacere di una vostra conferenza. A tutti farebbe tanto bene ascoltare una conversazione sulla battaglia della vita e sul modo di combatterla". Ahimé! che dovevo combattere la mia propria battaglia della vita, lo scoprii il mercoledì. Dopo aver cercato disperatamente di organizzare le mie idee per preparare una conferenza in inglese, decisi alla fine di abbandonare ogni tentativo del genere. I miei pensieri, come puledri indomiti che si impennano alla vista di una sella, rifiutavano ostinatamente di cooperare con le regole grammaticali inglesi; ma poiché avevo illimitata fiducia nelle assicurazioni datemi dal Maestro, mi presentai comunque al pubblico nel salone del piroscafo, Ma nessun suono saliva alle mie labbra; e rimasi muto dinanzi all'assemblea. Dopo una lotta di resistenza che durò ben dieci minuti, la gente, accortasi del mio imbarazzo, cominciò a ridere. Per me, però, la situazione non era affatto divertente; indignato, rivolsi una silenziosa preghiera al Maestro. - Tu lo puoi! Parla! La sua voce risuonò immediatamente nella mia coscienza.
Subito i miei pensieri si posero in intimo rapporto con le espressioni della lingua inglese. Dopo tre quarti d'ora il pubblico era ancora attentissimo. La conferenza mi procurò molti inviti a parlare in future riunioni dinanzi a diverse associazioni americane. In seguito non mi riuscì mai di ricordare una sola parola di quello che avevo detto. Con discrezione cercai di informarmene, e mi fu risposto da vari passeggeri: "Avete detto cose interessantissime, e in ottimo inglese!". A questa meravigliosa notizia ringraziai con umiltà il mio Guru per il suo tempestivo aiuto, convinto una volta di più che egli era sempre con me, annullando le barriere di tempo e spazio. Ogni tanto, durante la traversata, avvertivo una fitta d'apprensione pensando alle conferenze che avrei dovuto tenere in inglese al Congresso di Boston. - Signore, - pregavo con fervore, - Ti supplico, sii Tu solo a ispirarmi. Il 'Città di Sparta' attraccò presso Boston a fine settembre. Il sei di ottobre tenni al Congresso la mia prima conferenza americana. Fu bene accolta e respirai di sollievo. Il gentilissimo segretario dell'Associazione Unitaria Americana pubblicò in una relazione del Congresso stesso il seguente rapporto. (Nota: New Pilgrimage of the Spirit (Boston, Beacon Press, 1921). Fine nota). "Lo Swami Yogananda, delegato dell'Ashram Brahmachrya di Ranchi, India, ha portato al Congresso il saluto della sua Associazione. In buon inglese e con grande eloquenza egli ha tenuto un discorso di carattere filosofico sulla "Scienza della Religione", discorso che pubblicato in opuscolo per una più vasta diffusione. Egli vi sostiene che la religione è unica e universale: non si possono sempre generalizzare le abitudini e le convinzioni particolari, ma l'elemento comune a tutte le religioni, si, e noi possiamo chiedere a tutti egualmente di seguirlo e ubbidirlo". Grazie alla generosità di mio padre potei rimanere in America anche dopo la fine del Congresso. Trascorsi quattro anni felici a Boston, in condizioni umili. Tenevo conferenze pubbliche e corsi privati, e scrissi un libro di poemi: I Canti dell'Anima, con prefazione del Dottor Frederick B. Robinson, presidente dell'Università della Città di New York (Nota: Il dottor Robinson e la signora visitarono l'India nel 1939 e furono graditi ospiti a una riunione di Yogoda Satsanga a Ranchi. Fine nota).
Avendo intrapreso un giro transcontinentale nell'estate del 1924, parlai dinanzi a migliaia di persone in molte delle principali città. A Seattle mi imbarcai per trascorrere un periodo di vacanze nella bellissima Alaska. Con l'aiuto di alcuni generosi allievi, fondai alla fine del 1925 un Centro americano a Mount Washington Estates, Los Angeles. L'edificio è proprio quello che avevo intravisto nella mia visione tanti anni prima, nel Kashmir. Mi affrettai ad inviare a Sri Yukteswar alcune fotografie testimonianti le mie attività nella lontana America. Egli mi rispose con una cartolina in bengali che qui traduco: 11 Agosto 1926 - Figlio del mio cuore, o Yogananda! Nel vedere le fotografie della tua scuola e dei tuoi allievi m'inonda una gioia così grande da non potersi esprimere a parole. Mi sento sommergere dalla gioia nel guardare i tuoi allievi di yoga nelle varie città. Nell'udire dei tuoi metodi di affermazioni cantate, vibrazioni risananti e divine preghiere di guarigione, non posso trattenermi dal ringraziarti di tutto cuore. Vedendo il cancello, la tortuosa strada che porta in collina e il bellissimo scenario che si estende sotto Mount Washington Estates, sorge in me un gran desiderio di vedere tutto ciò con i miei propri occhi! Qui tutto procede bene. Che tu possa sempre, con la grazia di Dio, essere benedetto e felice! Sri Yukteswar Giri. Passarono gli anni. Tenni conferenze in ogni luogo della mia nuova patria e parlai a centinaia di associazioni, circoli, scuole, chiese e altri gruppi d'ogni specie. Decine di migliaia di americani furono iniziati allo yoga; a essi dedicai nel 1928 un nuovo libro di preghiere e pensieri mistici Whispers from Eternity [Sussurri dall'Eternità]. (Nota: La prefazione al libro fu scritta da Amelita Galli-Curci. La signora Galli-Gurci e suo marito, il pianista Homer Samuels, furono per vent'anni discepoli del Kriya Yoga. Una biografia della famosa primadonna fu pubblicata di recente (Galli Curci's Life of Song, E. E. Le Massena, Paeber Co., New York, 1945.) Fine nota). A volte (e generalmente nei primi giorni del mese, quando le fatture si ammucchiavano e bisognava far fronte alle spese del Centro di Mount Washington, Casa madre della Fratellanza d'Autorealizzazione), pensavo con nostalgia alla semplice pace dell'India. Ma ogni giorno vedevo nascere una maggiore comprensione tra Occidente e Oriente, e il mio cuore ne gioiva. George Washington, il 'padre dell'America', la cui vita conobbe visioni mistiche e la coscienza di una guida divina, pronunciò (nel suo 'Discorso d'Addio') queste parole di grande ispirazione spirituale per l'America:
"Sarà degno di una nazione libera, illuminata - in periodo non più lontano - grande, il dare all'umanità l'esempio generoso, e ancora troppo nuovo, di un popolo guidato sempre da un'elevata benevolenza e giustizia. Chi può dubitare che, nel corso dei tempo e degli eventi, i frutti di tale piano ripagheranno ampiamente ogni vantaggio temporale che potrà andar perduto mantenendosi fermi e costanti in tale atteggiamento? Può mai essere che la Provvidenza non abbia abbinato la permanente felicità di un popolo con la sua virtù?" INNO ALL'AMERICA di Walt Whitman (da 'Thou Mother with Thy Equal Brood') 'Tu nel tuo avvenire, Tu nella tua più larga, più sana progenie, femminile e maschile, Tu nei tuoi atleti morali, spirituali; Sud, Nord, Est e Ovest; Tu nella tua ricchezza e civiltà morali (finché non raggiunte, la tua orgogliosa civiltà materiale è vana); Tu nel tuo culto che tutti soddisfa e tutto racchiude, non limitato a una sola bibbia, a un solo salvatore; Innumeri i tuoi salvatori latenti in te stessa, pari a chiunque, come chiunque divini... Questi! Questi in te (è certo che verranno) oggi profeticamente annuncio!'
CAPITOLO XXXVIII LUTHER BURBANK : UN SANTO FRA LE ROSE "Il segreto per una migliore coltivazione delle piante, oltre alle nozioni scientifiche è l'amore". Luther Burbank diede voce a questa sua saggezza mentre passeggiavamo nel suo giardino di Santa Rosa in California. Ci arrestammo vicino a un'aiuola di cactus commestibili. "Spesso, mentre facevo esperimenti per creare una specie di cactus senza spine", continuò, "parlavo alle piante per creare tra noi una vibrazione d'amore. Dicevo loro: - Non avete nulla da temere. Non vi occorrono spine di difesa: vi proteggerò io. - E a poco a poco l'utile pianta del deserto si trasformò in una varietà senza spine". Ero affascinato da tale miracolo. "Ti prego, caro Luther, dammi qualche foglia di cactus da piantare nel giardino di Mount Washington." Un operaio che si trovava lì accanto si accinse a staccare alcune foglie. Burbank glielo impedì. "Io stesso le coglierò per lo Swami". E mi diede tre foglie che in seguito piantai, lieto di vederle svilupparsi in magnifiche ed enormi piante. Il grande orticoltore mi disse che il suo primi notevole trionfo fu la grossa patata ormai ben conosciuta col suo nome. Infaticabile come ogni persona di genio, egli continuò a donare al mondo centinaia di prodotti migliorati mediante incroci: tutte le nuove varietà Burbank di pomodori, granoturco, zucche, ciliege, prugne, pesche, bacche, papaveri, gigli, rose. Misi a fuoco, la mia macchina fotografica quando Burbank mi condusse dinanzi al famoso albero di noce, che gli era servito per dimostrare che l'evoluzione naturale può essere enormemente accelerata. "In soli sedici anni", disse, "questo noce ha raggiunto una produzione di frutti che la natura non aiutata avrebbe potuto dare solo in una trentina d'anni, se non di più". La piccola figlia adottiva di Burbank, Betty, irruppe correndo nel giardino col suo cane Bonita. "E' la mia piantina umana". Luther la salutò affettuosamente con la mano. "Io vedo ormai l'umanità come un'immensa pianta bisognosa, per i suoi più alti compimenti, soltanto di amore, delle naturali benedizioni della grand'aria aperta, e di intelligenti selezioni e incroci.
Durante tutta la mia vita ho osservato un tale mirabile progresso nell'evoluzione delle piante, che sono sinceramente ottimista e fiducioso che il mondo futuro potrà esser sano e felice non appena ai bambini verranno insegnati i principi di una vita semplice e razionale. Noi dobbiamo ritornare alla Natura e al Dio della Natura". "Luther, la mia scuola di Ranchi con le sue lezioni all'aperto e la sua atmosfera di letizia e di semplicità ti piacerebbe". Le mie parole toccarono la corda più profonda del cuore di Burbank: l'educazione dell'infanzia. Mi assediò di domande, e i suoi profondi occhi sereni brillavano di interesse. "Swamiji", mi disse alla fine "le scuole come la vostra sono l'unica speranza per il millennio a venire. Mi ribello contro i sistemi educativi dell'epoca nostra, lontani dalla natura e atti a soffocare ogni individualismo. Sono con voi anima e cuore, per i vostri pratici ideali educativi". Mentre prendevo congedo dall'amabile saggio, egli mi offrì un suo volumetto con una dedica. (Nota: Burbank mi diede anche una sua fotografia firmata. La serbo, come un tesoro, proprio come quel mercante indù serbava un ritratto di Lincoln; l'indù, che si trovava in America durante gli anni della guerra civile, aveva una tale ammirazione per Lincoln, che non voleva tornare in India fino a quando non avesse ottenuto un ritratto del grande Emancipatore. Si piantò dinanzi alla porta di casa Lincoln e rifiutò d'andarsene prima d'esser riuscito a indurre il Presidente meravigliato a farsi ritrarre dal famoso pittore Daniel Huntington di New York. Quando il ritratto fu terminato, l'indiano lo portò in trionfo a Calcutta. Fine nota) "Eccovi il mio libro sul Trattamento della Pianta Umana (Nota: The Training of the Human Plant, New York, Century Co., 1922. Fine nota). Occorrono nuovi metodi di educazione, esperimenti audaci. A volte i tentativi più spinti hanno prodotto i fiori e le frutta migliori. Le innovazioni nell'educazione dei fanciulli dovrebbero anch'esse moltiplicarsi ed essere più coraggiose". Con grande interesse lessi quella stessa notte il libriccino. Con lo sguardo volto a un glorioso avvenire della razza umana, Burbank scriveva: "In questo mondo la cosa vivente più ostinata e difficile da correggere è una pianta già fissata in certe particolari abitudini... Si rammenti che quella pianta ha conservato la sua individualità attraverso i secoli; forse è una pianta che può esser rintracciata, riandando indietro di migliaia di anni, come fossile nelle rocce stesse, senza aver subito grandi variazioni durante questi vasti periodi di tempo.
Credete voi che dopo tanti secoli di ripetizione invariata, la pianta non abbia sviluppato in sé una volontà - se così si può definirla d'incomparabile tenacia? Esistono delle piante - ad esempio, alcune palme così costanti che nessun potere umano è ancora riuscito a modificarle. La volontà umana è una debole cosa a paragone della volontà di una pianta. Ma osservate come la perenne caparbietà d'una pianta può essere piegata semplicemente unendo ad essa una nuova vita, provocando, mediante l'incrocio, una completa e profonda trasformazione delle sue caratteristiche. Quando questa avviene, fissatela con un paziente controllo e selezione per generazioni, e la nuova pianta si avvierà per la sua nuova strada, non tornando mai più alla primitiva struttura; la sua tenace volontà, alla fine, sarà vinta e modificata. "Quando si ha da fare con una cosa tanto sensibile e malleabile come la natura di un bambino, il problema diviene assai più facile. Insegnate al bimbo il rispetto di sé, inoculategli qualità migliori, come un coltivatore di piante conferisce a queste ultime caratteristiche migliori. Soprattutto ricordate l'utilità della ripetizione, dell'uso reiterato di una data influenza. E' questo che fissa i caratteri in una pianta: la ripetizione costante di un determinato influsso. Non potete permettervi di lasciarvi scoraggiare. Avete a che fare con qualcosa di assai più prezioso di qualsiasi pianta: l'anima di un bambino, che non ha prezzo". Attratto da una forza magnetica verso questo grande americano, ritornai da lui molte volte. Una mattina giunsi a casa sua nel momento stesso in cui vi giungeva il postino, il quale gli consegnò circa un migliaio di lettere. Orticoltori gli scrivevano da tutte le parti del mondo. "Swamiji, la vostra presenza è proprio il pretesto che mi occorre per andare in giardino", mi disse Luther allegramente. Aprì un grande cassetto che conteneva centinaia di prospetti di viaggi. "Ecco come io viaggio per il mondo. Legato alle mie piante e alla corrispondenza, appago il desiderio di conoscere paesi lontani guardando ogni giorno queste fotografie". La mia automobile stava dinanzi al cancello di casa; Luther e io vi salimmo e facemmo un giretto per le strade della cittadina, adorna di giardini pieni delle sue varietà di rose: Santa Rosa, Peachblow e Burbank. "Il mio amico Henry Ford e io crediamo nella teoria antichissima della reincarnazione", mi disse Luther. "Essa illumina alcuni aspetti della vita che diversamente sarebbero inesplicabili. La memoria non è testimonianza di verità; che l'uomo non possa ricordare le sue precedenti vite non prova che egli non le abbia vissute. Non ricorda nulla nemmeno della sua vita uterina
e di quella della prima infanzia, eppure credo che l'uomo sia passato per esse, non è vero?!". E rise. Il grande scienziato aveva ricevuto l'iniziazione al Kriya durante una mia precedente visita. "Swamiji, io pratico la tecnica con devozione", mi disse quietamente; e dopo molte attente domande sui vari aspetti dello yoga, Luther osservò: "Davvero l'Oriente possiede un tesoro immenso di conoscenza che l'Occidente ha appena cominciato ad esplorare" (Nota: Julian Huxley, il famoso biologo inglese direttore dell'UNESCO, affermò recentemente che gli scienziati occidentali dovrebbero "imparare le tecniche orientali per entrare nello stato di trance e per il controllo del respiro". "Che cosa avviene? Come è possibile?" egli chiede. Un telegramma della Associate Press inviato da Londra il 21 agosto 1948 diceva: "Il dottor Huxley disse alla Federazione Mondiale per la Salute Mentale, ch'essa potrebbe bene porre lo sguardo sulle tradizioni mistiche d'Oriente per approfondirle. - Se queste tradizioni potessero essere esaminate scientificamente , - egli suggerì agli specialisti di malattie mentali, - allora credo si potrebbe fare nel vostro campo un enorme passo avanti". Fine nota). L'intima comunione con la natura che gli aveva rivelato molti dei suoi segreti più gelosamente custoditi, aveva ispirato a Burbank un'infinita reverenza spirituale. "A volte mi sento molto vicino al Potere Infinito", mi confidò timidamente. Il suo bel volto espressivo si soffuse della luce dei ricordi. "Allora mi riesce di guarire delle persone ammalate, come pure molte piante sofferenti". Mi parlò della madre, una sincera cristiana. "Molte volte, dopo la sua morte", mi disse, "sono stato benedetto da visioni di lei ed essa mi ha parlato". Con dispiacere tornammo alla sua casa, dove attendeva quel migliaio di lettere. "Luther", gli dissi, "il mese venturo inizierò la pubblicazione di una rivista che parlerà delle verità offerte dall'oriente e dall'Occidente. Aiutami a scegliere un buon titolo". Discutemmo sull'argomento e all fine fummo d'accordo di chiamarla East-West [Oriente-Occidente]. (Nota: Fondata nel 1925. Nel 1948 fu intitolata Self-Realization Magazine. Fine nota).Quando rientrammo nel suo studio, Burbank mi diede un articolo da lui scritto su 'Scienza e Civiltà'. "Lo pubblicherò nel primo numero di East-West", gli dissi, grato. Approfondendosi la nostra amicizia, presi a chiamare Burbanmk il mio "santo americano". Ecco un uomo in cui non v'è malizia!" parafrasai. Il suo
cuore incommensurabilmente profondo da gran tempo conosceva l'umiltà, la pazienza, il sacrificio. La sua casetta fra le rose era semplice e austera; egli conosceva la vanità del lusso e la gioia di possedere poche cose. La modestia con cui portava la sua fama scientifica mi rammentava spesso gli alberi generosi curvati dal carico dei loro frutti maturi; è l'albero sterile e spoglio che tiene alto il capo in vuota alterigia. Ero a New York quando, nel 1926, il mio caro amico morì. Piangendo pensai: - Oh! quanto volentieri farei a piedi tutta la strada da qui a Santa Rosa pur di vederlo ancora un volta! Sottrattomi alla vista dei segretari e dei visitatori, trascorsi ventiquattr'ore in solitario ritiro. Il giorno dopo celebrai un rito vedico in memoria di Luther: dinanzi a un suo grande ritratto. Un gruppo di miei allievi americani indossanti le vesti da cerimonia indù, cantarono gli antichi inni mentre facevo un'offerta di fiori, acqua e fuoco, simboli degli elementi corporei e del loro ritorno alla Fonte Infinita. Sebbene la spoglia mortale di Burbank riposi a Santa Rosa sotto un cedro del Libano che anni prima egli stesso aveva piantato nel suo giardino, per me la sua anima è racchiusa in ogni fiore che sboccia ai margini della strada. Riassorbito per un certo tempo nel vasto spirito della natura, non è Luther stesso che bisbiglia nel vento e cammina nell'alba? Il suo nome ormai è passato a far parte del linguaggio comune: includendo il termine burbank nei verbi transitivi, il Webster's New International Dictionary così lo definisce: 'Incrociare o innestare una pianta; perciò figurativamente migliorare (qualsiasi cosa, come un procedimento o una istituzione), selezionando le caratteristiche buone e scartando le cattive, oppure aggiungendone delle buone. "Amato Burbank", esclamai dopo aver letto questa definizione, "il tuo nome stesso è ormai divenuto sinonimo di bontà". Luther Burbank Santa Rosa, California, U.S.A. 24 dicembre 1924 Ho esaminato il sistema Yogoda dello Swami Yogananda e a mio parere esso è il metodo ideale per educare e armonizzare la natura fisica, mentale e spirituale dell'uomo. Lo scopo dello Swami è quello di fondare delle scuole d'"Arte del vivere" in tutto il mondo; scuole nelle quali l'educazione non si limiti allo sviluppo intellettuale, ma si estenda all'educazione del corpo, della volontà e dei sentimenti. Con il sistema Yogoda di evoluzione fisica, mentale e spirituale conseguita con metodi semplici e scientifici di concentrazione e meditazione, molti problemi complessi della vita potrebbero esser risolti e pace e buona volontà esser portate sulla terra. L'idea dello Swami di una
giusta educazione si basa sul semplice buon senso, scevro da ogni misticismo e impraticità. Se così non fosse, non avrebbe la mia approvazione. Sono lieto che mi si offra l'occasione di unirmi di tutto cuore allo Swami nel suo appello per la fondazione di scuole internazionali dell'Arte del Vivere, che, se si organizzeranno, daranno a questo millennio qualcosa di assolutamente nuovo. Firmato Luther Burbank.
CAPITOLO XXXIX TERESA NEUMANN. LA CATTOLICA DALLE STIGMATE "Ritorna in India. Ti ho atteso pazientemente per quindici anni. Presto uscirò dal mio corpo per andare alla Raggiante Dimora. Yogananda, vieni!" La voce di Sri Yukteswar mi fece sussultare, risuonando vibrante al mio orecchio interiore mentre sedevo in meditazione al mio Centro di Mount Washington. Attraversando diecimila miglia in un baleno, il suo messaggio penetrò il mio essere come una folgore. Quindici anni! Si, pensai, adesso siamo nel 1935. Ho trascorso quindici anni diffondendo in America gli insegnamenti del mio Guru. Ora egli mi richiama. Quel pomeriggio raccontai la mia esperienza al mio caro amico James J. Lynn (che più tardi prese il nome di Rajasi Janakananda), il quale era venuto a farmi visita. Il suo sviluppo spirituale, conquistato con la pratica quotidiana del Kriya Yoga, era così notevole che lo chiamavo spesso "san Lynn". In lui, e in diversi altri occidentali vedo felicemente avverarsi la profezia di Babaji che anche l'Occidente avrebbe prodotto, sull'antico sentiero dello yoga, dei santi dalla autentica autorealizzazione. Questo discepolo, con vari altri, insistette generosamente nell'offrirmi le spese di viaggio. Risolto così il problema economico, feci i preparativi per salpare, via Europa, alla volta dell'India. Occupatissime settimane a Mount Washington! Nel marzo del 1935 la Self-Realization Fellowship (SRF) fu riconosciuta dalle leggi dello Stato di California quale Associazione senza fini economici o settari, destinata a esistere in perpetuità. Alla SRF donai tutto ciò che possedevo in America, inclusi i diritti d'autore per tutti i libri che ho scritto. La SRF è mantenuta dalla vendita dei miei scritti e, come molte altre istituzioni educative e religiose, da donazioni da parte dei suoi membri e del pubblico. "Tornerò" dissi ai miei studenti. "Non dimenticherò mai l'America". Al banchetto d'addio offertomi dai cari amici a Los Angeles, fissai a lungo i loro volti e pensai con profonda gratitudine: - Signore, a colui che ricorda Te quale Unico Donatore non mancherà mai la dolcezza dell'amicizia fra i mortali.
Salpai da New York il 9 giugno 1935 sull' "Europa". Due discepoli mi accompagnavano: il mio segretario C. Richard Wright e una anziana signorina di Cincinnati: Ettie Bletch. Godemmo molto quei giorni di pace in mezzo all'oceano in piacevole contrasto con le ultime settimane di febbrile attività. Ma il nostro periodo di riposo fu breve; la velocità delle navi moderne ha dei tratti spiacevoli! Come un gruppo qualsiasi di turisti curiosi, passammo il nostro primo giorno a visitare rapidamente la grande e antica città di Londra. Il giorno seguente fui invitato a parlare ad una riunione al Caxton Hall, dove fui presentato al pubblico da Sir Francis Young-husband. La nostra comitiva trascorse una piacevole giornata quale ospite di Sir Harry Lauder nella sua proprietà in Scozia. Pochi giorni dopo attraversammo la Manica per giungere sul continente poiché volevo fare uno speciale pellegrinaggio in Baviera. Sapevo che questa era per me la sola occasione di visitare la grande mistica cristiana: Teresa Neumann, di Konnersreuth. Molti anni prima avevo letto uno straordinario resoconto su Teresa. Ecco quanto era scritto nell'articolo in questione: 1) Teresa, nata il venerdì santo del 1898, all'età di venti anni ebbe un incidente gravissimo e divenne cieca e paralitica. 2) Riacquistò miracolosamente la vista nel 1923 pregando Santa Teresa, "il piccolo Fiore". In seguito, le gambe di Teresa Neumann, all'improvviso guarirono. 3) Dal 1923 in poi, Teresa non ha preso più né cibo né bevanda, fuorché, ogni giorno, una piccola ostia consacrata. 4) Le stimmate, o sacre ferite di Cristo, apparvero nel 1926 sul capo, sul seno, sulle mani e sui piedi di Teresa. Da allora, il venerdì d'ogni settimana, ella rivive la Passione di Cristo soffrendo nel proprio corpo tutta la storica agonia di Lui. (Nota: Dagli anni di guerra in poi, Teresa non ha più vissuto la Passione ogni venerdì ma solo in certi giorni santi dell'anno. Altri scritti sulla sua vita sono: Teresa Neumann, una donna che ha ricevuto le stigmate e Altre cronache di Teresa Neumann, entrambi scritti da Friedrich Ritter von Mala e La storia di Therese e Neumann di A.P. Schimberg (1947); tutti pubblicati da Bruce Pub. Co. Milwaukee; e Therese Neumann di Johannes Steiner, tutti pubblicati in inglese da Alba House, Stalen Island, New York. Fine nota). 5) Pur non conoscendo altre lingue fuorché il semplice dialetto tedesco del suo villaggio, nelle sue estasi del venerdì Teresa pronunzia frasi che gli studiosi hanno dichiarato essere in aramaico antico. Nelle sue visioni ella parla anche ebraico o greco.
6) Con autorizzazione ecclesiastica, Teresa fu varie volte oggetto di attenta indagine scientifica. Il dottor Fritz Gerlich, editore di un giornale protestante tedesco, si recò a Konnersreuth per "svelare la frode cattolica". Ma quando ritornò, scrisse con profonda venerazione la biografia di Teresa. Come sempre, in Oriente o in Occidente, ero avido di conoscere dei Santi. Mi rallegrai quando il 16 luglio, la nostra piccola comitiva raggiunge l'antico villaggio di Konnersreuth. I contadini bavaresi dimostrarono un vivo interesse alla Ford che avevamo portato dall'America e al nostro strano gruppo: un giovanotto americano, una attempata signora e un orientale di colore olivastro, dai lunghi capelli cacciati sotto il bavero del cappotto. La casetta di Teresa, piccola e linda, con i gerani in fiore accanto a un pozzo molto primitivo, ahimé! era chiusa e silenziosa. I vicini e lo stesso postino del villaggio non sapevano darci informazioni. La pioggia cominciò a cadere; i miei compagni proposero di andarcene. "No", dissi caparbio. "Starò qui fin quando non avrò trovato il modo di vedere Teresa". Due ore dopo eravamo ancora seduti nell'automobile sotto una pioggia dirotta. - Signore! - sospiravo lamentosamente. Perché m'hai condotto fin qui se ella è scomparsa? Un uomo che parlava l'inglese si avvicinò alla nostra macchina e educatamente ci offrì i suoi servigi. "Non so precisamente dove sia Teresa", disse "ma spesso ella si reca alla casa del professor Franz Wutz, un insegnante di lingue straniere all'Università di Eichstatt, a ottanta miglia da qui". La mattina dopo partimmo in macchina per la tranquilla cittadina di Eichstatt, dalle stradine lastricate di ciottoli. Il professor Wutz ci accolse con cordialità nella sua casa: "Si, Teresa è qui". La informò dei visitatori e presto ritornò con la sua risposta: "Benché il Vescovo mi abbia imposto di non ricevere nessuno senza il suo permesso, riceverò quest'uomo di Dio che viene dall'India". Profondamente commosso da queste parole, seguii il dottor Wutz in un salottino al piano superiore. Subito Teresa entrò, irradiando un'aura di pace e di gioia. Indossava un vestito nero e portava in testa un fazzoletto bianchissimo. Aveva a quell'epoca trentasette anni, ma sembrava assai più giovane; possedeva una freschezza e un fascino infantili. Sana, robusta, dalle guance rosee, allegra, questa è la Santa che non mangia!
Teresa mi salutò con una stretta di mano estremamente gentile. Eravamo entrambi raggianti, uniti in una silenziosa comunione, consci di amare entrambi profondamente Iddio. Il professor Wutz si offrì cortesemente come interprete. Mentre sedevamo notai che Teresa mi guardava con ingenua curiosità. Senza dubbio gli indù erano rari in Baviera. "Non mangiate mai nulla?". Volevo averne conferma dalle sue stesse labbra. "No. Solo un'ostia consacrata ogni mattina alle sei". "Quanto è grande l'ostia?". "Sottile come la carta e non più grande di un soldo". E aggiunse: "La prendo come sacramento; se non è consacrata, non mi riesce d'inghiottirla". "Ma non è possibile che abbiate vissuto solo di questo per dodici anni!". "Vivo della luce di Dio!". Come era semplice la sua risposta, e come Einsteniana! "Vedo che vi rendete conto che l'energia fluisce nel vostro corpo dall'etere, dal sole e dall'aria!. Un rapido sorriso le illuminò il volto. "Sono così felice che comprendiate come vivo!". "La vostra santa vita è una quotidiana dimostrazione della verità pronunciata dal Cristo: 'Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio" (Nota: Matteo, 4,4,. La batteria del corpo umano non è alimentata soltanto dal cibo solido (pane), ma dall'Energia cosmica vibratoria (la Parola, Om, Amen). L'invisibile potere entra nel corpo umano dal cancello del midollo allungato. Il sesto centro nel corpo è situato nella nuca, in cima ai cinque chakra spinali (in sanscrito "ruote", o centri di forza vitale irradiante). Il midollo allungato, o bulbo rachideo, è la principale via d'accesso per rifornire il corpo dell'energia vitale universale (Om), ed è direttamente collegato mediante polarità, col centro della Coscienza Cristica (Kutasha) nell'occhio singolo tra le sopracciglia: la sede della volontà dell'uomo. L'energia cosmica viene allora accumulata nel settimo centro situato nel cervello, che è un serbatoio di potenzialità infinita di cui i Veda parlano poeticamente come del "Loto di luce dai mille petali". Quando la Bibbia nomina il "Verbo", "Amen", o lo "Spirito Santo", invariabilmente si riferisce ad Om, l'invisibile forza vitale che divinamente sostiene tutta la Creazione. "E non sapete voi che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi, che lo avete da Dio e che non appartenete a voi stessi?" Ai Corinti, I, 6, 19. Fine nota).
Di nuovo manifestò gioia alla mia spiegazione. "E' proprio così. Una delle ragioni per cui sono oggi sulla terra, è appunto quella di dimostrare che l'uomo può vivere dell'invisibile luce di Dio, e non di cibo soltanto". "Potete insegnare ad altri come si fa a vivere senza mangiare?". Sembrò un po' urtata dalla mia domanda. "Non posso farlo. Dio non vuole". Il mio sguardo cadde sulle sue mani forti e graziose. Teresa mi mostrò una ferita quadrata, appena rimarginata, sul dorso d'ogni mano. Sulle palme m'indicò due ferite più piccole, a forma di mezzaluna, anch'esse appena chiuse. Ogni ferita trafiggeva la mano da una parte all'altra. Vedendo ciò, mi tornò distintamente alla memoria il ricordo dei grossi chiodi di ferro quadrati con punte a mezzaluna in uso ancor oggi in Oriente, ma che non ricordo di aver mai visti in Occidente. La Santa mi raccontò qualcosa delle sue estasi settimanali. "Come un povero e impotente spettatore assisto a tutta la Passione di Cristo." Ogni settimana dalla mezzanotte del giovedì fino alle tredici del venerdì, le sue ferite si aprono e sanguinano. Ella perde quattro chili e mezzo del suo peso, che è di sessanta chili. Pur soffrendo intensamente per la sua amorosa pietà, Teresa attende con gioia questa settimanale visione del Signore. Mi resi subito conto che, per mezzo della sua strana vita, Dio aveva voluto dimostrare a tutti i cristiani l'autenticità storica della vita di Gesù e della sua crocifissione com'è narrata nel Nuovo Testamento, e palesare in modo drammatico l'eterno vincolo esistente tra il Maestro di Galilea e i suoi fedeli. Il professor Wutz mi narrò alcuni episodi, da lui controllati, riguardanti la Santa. "Un gruppo di noi, inclusa Teresa, spesso viaggia per giorni interi in giro per la Germania", mi disse. "Fa impressione il contrasto fra i nostri tre pasti giornalieri, e Teresa che non mangia nulla. Ella rimane fresca come una rosa, e la stanchezza che vince noi non la tocca. Quando affamati, noi andiamo a caccia di un'osteria, ella ride allegramente". Il professore aggiunse altri interessanti dettagli fisiologici: "Poiché Teresa non prende cibo, il suo stomaco si è atrofizzato. Non ha escrezioni, ma le sue glandole sudorifere funzionano, la sua pelle è sempre morbida ed elastica". Al momento di partire espressi a Teresa il mio desiderio di assistere alla sua estasi.
"Si, venite venerdì prossimo a Konnersreuth", disse gentilmente. "Il vescovo vi darà un permesso. Mi fa molto piacere che siate venuto a trovarmi ad Eichstatt". Teresa ci strinse la mano molte volte, con dolcezza, e ci accompagnò fino al cancello. Wright aprì la radio dell'automobile: la Santa la esaminò con brevi, entusiastici scoppi di risa. Poiché una gran folla di ragazzi si andava radunando intorno a noi, Teresa si ritirò in casa. La vedemmo affacciata a una finestra da dove ci sbirciava, come una bambina, agitando la mano in segno di saluto. Da una conversazione che ebbi il giorno seguente con due suoi fratelli, molto cortesi e amabili, appresi che la santa donna, di notte, dorme solo una o due ore. Nonostante le molte ferite nel suo corpo, essa è attiva e piena d'energia. Ama gli uccelli, si prende cura di un piccolo acquario e spesso coltiva il suo giardino. Tiene una vasta corrispondenza. I devoti cattolici le scrivono per chiederle preghiere e benedizioni. Molti, mercé il suo aiuto, sono guariti da gravi malattie. Il fratello Ferdinando, di circa ventitré anni, mi disse che Teresa ha il potere, per mezzo della preghiera, di prendere sul suo corpo i mali altrui. L'astinenza dal cibo della Santa data dal tempo in cui ella pregò il Signore di trasferire a lei il male alla gola di un giovane della sua parrocchia, che in quel momento si preparava a entrare negli ordini sacri. Il giovedì pomeriggio ci recammo dal Vescovo, che guardò con una certa sorpresa le mie chiome spioventi. Concesse subito il necessario permesso. Non vi era nulla da pagare; l'ordine dato dalla Chiesa aveva il solo scopo di proteggere Teresa dall'assedio dei turisti, che negli anni precedenti giungevano a Konnersreuth a migliaia ogni venerdì. Alle nove e mezzo del venerdì eravamo a Konnersreuth. Notai che la casetta di Teresa aveva una larga lastra di vetro sul tetto per darle abbondanza di luce. Ci fece piacere trovare le porte non più sbarrate, ma spalancate e accoglienti. Una fila di venti visitatori che avevano ciascuno un permesso scritto, includeva gente venuta da molto lontano per assistere alla mistica estasi. Teresa aveva già sostenuto con me la prima prova nella casa del professore, mostrando di sapere per intuitiva saggezza che io volevo vederla per ragioni spirituali e non per volgare curiosità. La seconda prova mi fu data quando, prima di salire le scale che conducevano alla sua stanzetta, mi sprofondai in uno stato di estasi yoghica per entrare con lei in rapporto telepatico e televisivo. Entrai nella stanza,
piena di visitatori; ella era stesa sul letto e indossava una veste bianca. Wright mi seguiva dappresso e io mi arrestai sulla soglia, colpito da uno strano e impressionante spettacolo. Dalle palpebre inferiori di Teresa scorreva un sottile e continuo rivolo di sangue largo un dito. Il suo sguardo era fisso in alto nell'occhio spirituale al centro della fronte. Il panno che le avvolgeva il capo era inzuppato del sangue che usciva dalle stigmate corrispondenti alle ferite prodotte dalla corona di spine. La bianca veste aveva una macchia rossa al posto del cuore per la ferita al costato dove il corpo di Cristo ebbe, tanti secoli fa, quell'ultimo insulto dalla lancia di un soldato. Le mani di Teresa erano distese in un gesto materno e supplichevole. Il suo viso aveva un'espressione torturata e allo stesso tempo divina. Sembrava più magra e mutata non solo fisicamente ma anche in varie altre maniere inafferrabili. Mormorando parole in lingua straniera parlava, con labbra lievemente tremanti, a qualcuno visibile solo al suo occhio interiore. Poiché ero in perfetta sintonia con lei, cominciai a vedere le scene della sua visione. Ella fissava Gesù mentre Egli portava il legno della croce tra la moltitudine che lo derideva. (Nota: Nelle ore che precedettero il mio arrivo, Teresa aveva già avuto molte visioni degli ultimi giorni della vita di Cristo. La sua estasi in genere s'inizia con gli avvenimenti che seguirono l'Ultima Cena e termina con la morte di Gesù sulla Croce; a volte con la Sua sepoltura. Fine nota). A un tratto sollevò il capo costernata: il Signore era caduto sotto il terribile peso. La visione scomparve. Affranta da un'infinita pietà, Teresa si abbandonò pesantemente sui cuscini. In quell'istante udii dietro di me un forte colpo. Mi volsi per un secondo e vidi due uomini portare via un corpo abbattuto. Uscivo appena allora da un profondo stato supercosciente, per questo non riconobbi subito la persona che era caduta. Fissai di nuovo il viso di Teresa pallidissimo e solcato da rivoli di sangue, ma calmo e ormai irradiante purezza e santità. Più tardi guardai dietro di me e mi accorsi che Wright stava in piedi con una mano contro la guancia che sanguinava. "Dick!" chiesi ansiosamente, "sei tu che sei caduto?". "Si, sono svenuto dinanzi al terrificante spettacolo". "Ebbene", gli dissi per consolarlo, "sei stato proprio coraggioso a ritornare per guardarlo ancora". Ricordando la paziente fila dei pellegrini che attendevano, Wright e io demmo a Teresa un silenzioso addio e ci ritirammo dalla sua santa presenza. (Nota: Un telegramma dell'agenzia d'informazione INS spedito dalla Germania il 26 marzo 1948, riferiva: "Una contadina tedesca giaceva questo Venerdì Santo sul suo lettino, col capo, le mani e le spalle sanguinanti nei
punti in cui il corpo di Cristo fu ferito dai chiodi della Croce e dalla Corona di Spine. Migliaia di tedeschi e di americani reverenti sfilavano in silenzio accanto al lettino di Therese Neumann". Fine nota). Il giorno dopo la nostra piccola comitiva partì per il Sud, felice di non dover dipendere dai treni e di poter fermare la Ford dove più ci piacesse. Godemmo ogni istante del nostro giro attraverso la Germania, l'Olanda, la Francia e le Alpi Svizzere. In Italia facemmo una gita speciale ad Assisi per onorare l'apostolo dell'umiltà, San Francesco. Il nostro giro dell'Europa terminò in Grecia, dove visitammo i templi ateniesi e la prigione dove il mite Socrate trangugiò la mortale bevanda. (Nota: Un passo in Eusebio riferisce un interessante incontro fra Socrate e un saggio indù. Il passo è questo: "Aristossene, il musico, raccontò la seguente storia sugli Indù. Uno di essi incontrò Socrate ad Atene e gli chiese quale fosse lo scopo della sua filosofia: - Lo studio dei fenomeni umani, - rispose Socrate. A queste parole l'indù scoppiò a ridere: - Ma come può l'uomo comprendere i fenomeni umani - disse - ignorando completamente quelli divini? Aristossene era allievo di Aristotele e ben noto musicista. Visse nel 330 a.C. L'ideale dei Greci che si ritrova nelle filosofie occidentali è: "Uomo, conosci te stesso". Un indù direbbe: "Uomo, conosci il tuo Sé". Il detto di Cartesio: "Cogito, ergo sum", filosoficamente non è valido. La facoltà raziocinante non può gettar luce sul vero Essere dell'uomo. La mente umana come il mondo fenomenico ch'essa conosce, è in perpetuo fluire e non può contenere nulla di assoluto. La soddisfazione dell'intelletto non è la méta più alta. Colui che cerca Dio è il vero amante di vidya, la verità immutabile; tutto il resto è avidya, o relativo sapere. Fine nota). Si rimane ammirati nel vedere con quale arte i Greci hanno saputo dar vita alla loro fantasia incidendola nell'alabastro. Prendemmo un piroscafo per attraversare il soleggiato Mediterraneo e sbarcammo in Palestina. Nel visitare la Terra Santa, mi convincevo ogni giorno di più del valore dei pellegrinaggi. Lo spirito di Cristo pervade tutta la Palestina. Camminai con reverenza accanto a Lui a Betlemme, a Getsemani, sul Calvario, sul sacro Monte degli Ulivi, sulle rive del Giordano e del mare di Galilea. Visitammo la stalla della Nascita, la bottega di falegname di Giuseppe, la tomba di Lazzaro, la casa di Marta e di Maria, il luogo dell'Ultima Cena. L'antichità si rivelava; vidi svolgersi scena dopo scena il dramma divino che Cristo visse una volta per tutti i secoli.
E giungemmo in Egitto, con la sua Cairo moderna e le antiche Piramidi. Poi una nave ci portò, dallo stretto Mar Rosso, sul vasto mare Arabico; ed ecco l'India!
CAPITOLO XL RITORNO IN INDIA Con gioia e gratitudine respiravo di nuovo l'aria benedetta dell'India. Il nostro piroscafo 'Rajputana' attraccò il 22 agosto 1935 nell'immenso porto di Bombay. Già questo mio primo giorno a riva dopo lo sbarco mi diede una pregustazione di ciò che mi attendeva: dodici mesi di incessante attività. Gli amici ci aspettavano al porto con saluti e ghirlande di fiori; il nostro appartamento all'albergo Taj Mahal fu ben presto invaso da una folla di giornalisti e fotografi. Bombay era una città nuova per me; la trovai dinamicamente moderna e piena di innovazioni occidentali. Lunghi filari di palme costeggiano le larghe strade, magnifici edifici statali gareggiano per interesse con gli antichi templi. Però avevamo assai poco tempo per andare in giro. Ardevo dall'impazienza di rivedere il mio amato Guru e gli altri miei cari. Consegnata la Ford a un vagone ferroviario, partimmo subito in treno per Calcutta. (Nota: Interrompemmo il viaggio alle Provincie Centrali, a metà del continente, per visitare il Mahatma Ghandi a Wardha. La visita è descritta nel cap. XLIV. Fine nota). Alla stazione di Howrah, trovammo una folla così imponente venuta a salutarci, che per qualche tempo non ci riuscì di scendere dal treno. Il giovane Maharaja di Kasimbazar e mio fratello Bishnu erano a capo del comitato delle onoranze; non ero davvero preparato all'entusiasmo e alla magnificenza con cui fummo accolti. Preceduti da una fila di automobili e motociclette e tra i gioiosi suoni dei tamburi e dei corni a conchiglia, la signorina Bletch, Wright e io, ricoperti di ghirlande di fiori dalla testa ai piedi, c'inoltrammo lentamente verso la casa di mio padre. Il mio vecchio genitore m'abbracciò come se fossi resuscitato da morte; a lungo ci fissammo negli occhi, muti dalla gioia. Fratelli e sorelle, zii e zie, cugini, discepoli e amici d'anni lontani mi circondarono, e nessuno di noi aveva gli occhi asciutti. Questa scena, fissata ormai negli archivi della memoria, rimarrà sempre viva e indimenticabile nel mio cuore. Per descrivere l'incontro con Sri Yukteswar mi mancano le parole. La descrizione che segue, fatta dal mio segretario, dovrà bastare.
"Oggi, colmo della più gioiosa attesa, condussi Yoganandaji in macchina da Calcutta a Serampore", scrive Wright nel suo diario di viaggio. "Passammo accanto a bizzarre botteghe, in una delle quali Yoganandaji consumava abitualmente i suoi pasti quand'era studente, e alla fine entrammo in una stradina cintata. Una brusca svolta a sinistra, ed ecco dinanzi a noi l'ashram del Maestro, una costruzione in mattoni a due piani con la balconata munita di grate che si protendeva dal secondo piano. Fummo pervasi dalla sensazione di una solitudine permeata di pace. "In raccolta umiltà seguii Yoganandaji nel cortile interno dell'eremitaggio. Col cuore in tumulto salimmo i vecchi scalini di cemento, consumati, senza dubbio, dai passi d'innumerevoli ricercatori di Verità. Più avanzavamo, più la tensione si faceva acuta. Dinanzi a noi, a capo delle scale, apparve quietamente il grande Guru, lo Swami Sri Yukteswar se lo strinse ripetutamente al petto. "Il mio cuore si gonfiò fin quasi a scoppiare per l'emozione d'esser benedetto dal privilegio di trovarmi alla sua sublime presenza. "Le lacrime mi offuscarono la vista quando Yoganandaji cadde in ginocchio e con la testa china offerse al Maestro la sua profonda gratitudine e il saluto dell'anima, toccando con la mano i piedi del suo Guru e poi la propria fronte in segno di sottomissione. Quando si alzò Sri Yukteswar se lo strinse al petto da ambo le parti. "A tutta prima non fu pronunciata parola, ma il più intenso sentimento era espresso nel muto linguaggio dell'anima. Come scintillavano i loro occhi, accesi del fuoco di una rinnovata unione d'anime! Una vibrazione di tenerezza si diffuse sul patio tranquillo e perfino il sole uscì dalle nubi per aggiungervi un subitaneo, glorioso fulgore. "In ginocchio dinanzi al Maestro, anch'io gli offrii il mio amore e il mio ringraziamento inespressi toccando i suoi piedi induriti dal tempo e dai servizi resi, e ne ricevetti la benedizione; indi mi sollevai e mi trovai di fronte a due bellissimi occhi ardenti del fuoco interiore dell'introspezione, eppure raggianti di gioia. "Entrammo quindi nel suo salottino, di cui un'intera parete si apre sulla balconata esterna che avevo notata prima dalla strada. Il Maestro sedette su un materasso ricoperto, posto sul pavimento di cemento, appoggiandosi contro un logoro, largo divano. Yoganandaji ed io sedemmo accanto ai piedi del Guru, con dei cuscini arancione per appoggiarci e per rendere più comoda la nostra posizione sulla stuoia di paglia.
"Tentati con scarso successo di afferrare il succo della conversazione in bengali dei due Swamiji, poiché quando sono insieme essi non parlano l'inglese, anche se lo Swamiji Maharaj (come il grande Guru è chiamato da alcuni), lo conosce e lo parla spesso. Ma il suo sorriso che riscalda il cuore e i suoi occhi scintillanti mi trasmisero la percezione di tutta la santità del Grande. Una qualità che facilmente si discerne nella sua conversazione, gaia o seria che sia, è la decisa sicurezza di giudizio: il marchio dell'uomo saggio che sa di sapere, perché conosce Dio. La sua grande saggezza, la forza della sua volontà e della sua sicurezza si rivelano in ogni atto e parola. "Era vestito con semplicità; dhoti e camicia, già di color ocra carico, sono ora sbiaditi a un colore arancione pallido. Studiandolo ogni tanto con riverente rispetto, notai che è di corporatura imponente e atletica; il suo fisico è temprato dalle prove e dai sacrifici della rinuncia. Il suo portamento è maestoso. Incede con passo dignitoso, la figura eretta. Il suo riso gioviale e scrosciante, allegro e spontaneo, gli sale dal fondo del petto e lo fa tremare e sobbalzare con tutto il corpo. "Il suo volto austero colpisce con un'impressione di divina potenza. I suoi capelli divisi nel mezzo sono bianchi intorno alla fronte, striati altrove d'oro argenteo e di nero argenteo e terminano in riccioli sulle spalle. barba e baffi sono radi o sfoltiti e sembrano dare maggior risalto ai lineamenti. i suoi occhi scuri sono circondati da un etereo alone azzurro; naso piuttosto grande e comune, con cui si gingilla nei momenti d'ozio, tormentandolo e dandogli dei colpetti con le dita, come un bambino. Nel riposo la sua bocca è severa, eppure toccata da un'espressione di celata tenerezza. "Guardandomi intorno, osservai che la stanza, piuttosto cadente, dimostra il distacco del suo abitante da ogni comodità materiale. Le bianche pareti della lunga stanza, chiazzate d'umidità, sono striate di un intonaco blu ormai sbiadito. In fondo alla stanza pende dal muro l'unico ritratto di Lahiri Mahasaya, devotamente ornato d'una semplice ghirlanda. C'è anche un vecchio ritratto di Yoganandaji al suo primo arrivo a Boston con i delegati del Congresso delle Religioni. "Notai che il moderno e l'antico vi stavano stranamente fianco a fianco, in un bizzarro contrasto. Un enorme candeliere di cristallo è ricoperto di ragnatele per il lungo disuso, mentre sulla parete si vede un calendario policromo e aggiornato. In tutta la stanza aleggia un'aura di pace e felicità. Oltre le balconate si scorgono palme di cocco torreggianti sull'eremitaggio in silenziosa protezione. "Il Maestro non ha che da battere le mani e prima ancora di aver finito, è subito servito da qualche piccolo discepolo. Uno di essi, un giovanetto magro chiamato Prafulla (Nota: Prafulla è il ragazzo che era presente
quando il cobra si avvicinò al Maestro. Vedi cap. XII. Fine nota), ha lunghi capelli neri, un paio d'occhi neri scintillanti e un sorriso celestiale; i suoi occhi ammiccano quando solleva gli angoli della bocca, come stelle e una falce di luna che appaiono improvvisamente al crepuscolo. "La gioia dello Swami Sri Yukteswar per il ritorno del suo 'prodotto' (e sembra che sia piuttosto indagatore circa il 'prodotto del suo prodotto', ossia riguardo a me), è ovviamente grande. Tuttavia il predominio della saggezza in questo Grande fa sì che egli non dia un'espressione esteriore ai suoi sentimenti. "Yoganandaji offerse al Maestro dei doni, come d'uso quando il discepolo torna dal suo Guru. Più tardi ci sedemmo per consumare un pranzo semplice ma ben cucinato, di verdure e riso. Sri Yukteswar si compiacque nel vedermi seguire alcune abitudini indiane, come ad esempio quella di mangiare con le mani. "Dopo molte ore di frasi in bengali che si incrociavano e lo scambio di calorosi sorrisi e sguardi di gioia, c'inchinammo ai suoi piedi, prendendo congedo con un pronam (Nota: Letteralmente "salutazione completa", dalla radice sanscrita nam, salutare, ossia inchinarsi e dal prefisso pro, completamente. Un pronam viene effettuato sollevando le mani congiunte dal cuore alla fronte. In India esso prende il posto della stretta di mano. Fine nota), e partimmo per Calcutta con il ricordo indimenticabile di un sacro incontro. Pur avendo ora descritto solo le mie impressioni esteriori su Sri Yukteswar, ho sempre avuto coscienza della vera natura del Santo: la sua gloria spirituale. Ne ho sentito il potere, e porterò sempre con me questo sentimento come la mia divina benedizione". Dall'America, dall'Europa e dalla Palestina avevo portato molti regali per Sri Yukteswar. Egli li accolse sorridendo, ma senza fare apprezzamenti. per me avevo comperato in Germania un bastone-ombrello. In India decisi di offrirlo al Maestro. "Questo regalo lo apprezzo davvero!". Gli occhi del mio Guru si volsero a me con affettuosa comprensione, facendo questo inusitato commento. Fra tutti i doni ricevuti, egli mostrava ai visitatori solo il bastone-ombrello. "Maestro, permettetemi di procurare un tappeto nuovo per il salotto". M'ero accorto che la pelle di tigre di Sri Yukteswar posava su un tappeto stracciato. "Fallo, se ti fa piacere". La voce del mio Guru non esprimeva alcun entusiasmo. "Come vedi, la mia pelle di tigre è ancora bella e pulita. Sono re nel mio piccolo regno; al di là vi è il vasto mondo che s'interessa solo delle cose esteriori".
Mentre pronunciava queste parole, mi parve che il tempo fosse retrocesso: ero di nuovo un giovane discepolo, quotidianamente purgato nel fuoco della punizione! Appena potei distaccarmi da Serampore e da Calcutta, partii con Wright per Ranchi. Quale accoglienza ricevemmo là! Una vera, commovente ovazione! Avevo gli occhi pieni di lacrime mentre abbracciavo tutti quegli insegnanti scevri d'ogni egoismo, che avevano tenuto alta la bandiera della scuola durante i miei quindici anni di assenza. Le facce sveglie e il gaio sorriso degli allievi, sia interni che esterni, testimoniavano ampiamente del valore della loro educazione scolastica e spirituale. Eppure, la scuola di Ranchi si trovava purtroppo in gravi difficoltà finanziarie. Sir Manindra Chandra Nundy, il vecchio Maharaja il cui palazzo di Kasimbazar era stato trasformato nell'edificio centrale della scuola e che le aveva fatto tante regali donazioni, era morto. Molte attività gratuite e benefiche della scuola erano perciò seriamente minacciate per mancanza di sufficiente appoggio da parte del pubblico. Non avevo trascorso vari anni in America senza imparare qualcosa dalla sua saggezza pratica e dal suo spirito intrepido dinanzi alle difficoltà. Rimasi a Ranchi una settimana dibattendomi tra problemi assai critici. Poi, a Calcutta, vennero le interviste con eminenti uomini e educatori, una lunga conversazione col giovane Maharaja di Kasimbazar, un appello di natura economica rivolto a mio padre, e così le tentennanti basi della scuola di Ranchi si consolidarono. Molte donazioni, tra le quali un enorme assegno, arrivarono in un lampo da parte dei miei studenti americani. Entro pochi mesi dal mio arrivo in India, ebbi la gioia di vedere la scuola di Ranchi riconosciuta ufficialmente. Il sogno di tutta la mia vita di avere un centro educativo yoga garantito per sempre, s'era realizzato. Questa aspirazione mi aveva sempre accompagnato fin dai modesti inizi, nel 1917, con il primo gruppetto di sette ragazzi. La scuola, Yogoda Satsanga Vidyalaya, tiene lezioni all'aperto di materie elementari e superiori. Gli studenti interni ed esterni ricevono anche istruzione professionale di vario tipo. I ragazzi regolano da se stessi gran parte delle loro attività per mezzo di comitati autonomi. Nella mia carriera di educatore mi ero accorto ben presto che i ragazzi che godono diabolicamente nel farla a un maestro, accettano invece di buon grado le norme disciplinari imposte dai loro stessi compagni. Non essendo mai stato personalmente un allievo modello, ero sempre pronto a simpatizzare con tutte le marachelle e i problemi dei ragazzi.
Gli sport e i giochi vengono incoraggiati: i campi risuonano delle esercitazioni al gioco del calcio e dell'hockey. Spesso gli studenti di Ranchi vincono la coppa nelle gare sportive. Ai ragazzi viene insegnato ilo metodo Yogoda per ricaricare i muscoli mediante il potere della volontà, inviando mentalmente l'energia vitale in qualsiasi parte del corpo. Ai ragazzi si insegnano pure gli asana (posizioni), e i giochi della spada e del lathi (bastone). Addestrati al pronto soccorso, gli studenti di Ranchi hanno reso encomiabili servigi alla loro zona nei tragici eventi d'inondazioni e carestie. Essi lavorano pure la terra e coltivano i loro ortaggi. L'istruzione elementare viene impartita in indi ai Kol, Santal e Munda, tribù indigene di quella provincia. Alcuni corsi femminili sono stati organizzati nei villaggi vicini. La caratteristica particolare di Ranchi è l'iniziazione al Kriya Yoga. I ragazzi compiono giornalmente i loro esercizi spirituali, studiano i canti Gira e imparano dai precetti e dall'esempio le virtù della semplicità, del sacrificio, dell'onore e della verità. Si indica loro il male quale causa d'ogni miseria, il bene sotto forma di quelle azioni che creano la vera felicità. Il male può esser paragonato al miele avvelenato che ci tenta, ma è carico di morte. Vincendo l'irrequietezza del corpo e della mente con la tecnica della concentrazione, si sono ottenuti risultati sorprendenti; non è cosa insolita vedere a Ranchi una commovente figurina di nove o dieci anni sedere in una posa immobile per un'ora o più, con lo sguardo fissamente rivolto all'occhio spirituale. Nel frutteto si erge un tempio di Shiva con una statua del benedetto Maestro Lahiri Mahasaya. Quotidiane preghiere e lezioni sulle Scritture si tengono in giardino sotto i pergolati d'alberi di mango. Lo Yogoda Satsanga Sevashram (Casa del Servigio) sui terreni di Ranchi offre gratuitamente assistenza medica e chirurgica a molte migliaia di indiani poveri. Ranchi è situata a circa seicento metri sul livello del mare. Il clima è uniforme. La proprietà di venticinque acri, situata presso una grande piscina, comprende anche uno dei più bei frutteti d'India; cinquecento alberi da frutta: mango, guava, litch, jackfruit, datteri. Una casa per gli ospiti è aperta a tutti i visitatori. La biblioteca di Ranchi contiene molte riviste e circa mille volumi, in inglese e in bengali, giunti in dono da Oriente a Occidente. Vi è una collezione di testi sacri del mondo intero. Un ben ordinato museo pone in mostra pietre preziose, oggetti archeologici, geologici e
antropologici: in gran parte trofei da me raccolti nei miei viaggi nelle varie terre del Signore (Nota: Un altro museo, in Occidente, che contiene pezzi simili raccolti da Paramahasa Yogananda si trova presso l'SRF Lake Shrine a Pacific Palisades, California. Fine nota). Succursali della scuola, con le stesse caratteristiche di Ranchi furono inaugurale e sono in piena attività. Esse sono: la Yogoda Satsanga Vidyapith (scuola) per i maschi, a Lakshmanpur, nel Bengala; e la Scuola Superiore ed eremitaggio Yogoda Satsanga, a Ejmalichak, nel Midmapore, Bengala. (Nota: Yogoda è derivato da yoga: unione, armonia, equilibrio, e da: che impartisce. Satsanga è composto da sat: verità, e sanga: associazione, comunione. Yogoda è parola coniata da Paramahansa Yogananda nel 1916, quando scoprì i principi del ricaricamento del corpo umano con l'energia proveniente dalla sorgente cosmica. Sri Yukteswar chiamò la sua organizzazione nell'eremitaggio Satsanga (Associazione con la Verità). Il suo discepolo Paramahansaji volle, naturalmente, mantenere questo nome. La Società Yogoda Satsanga è un'organizzazione educativa che non ha il fine di trarre profitto dalla sua attività, ed è destinata a esistere in perpetuità. Sotto questo nome Yoganandaji incorporò la sua opera e le sue fondazioni in India, che vengono ora abilmente amministrate da un Consiglio Direttivo. Lo Yogacharya Swami Shyamananda Giri è segretario generale e tesoriere della Società Yogoda Satsanga d'India. Molti piccoli e grandi centri di meditazione YSS nascono ora in varie parti dell'India. In Occidente, per evitare l'uso di parole sanscrite, Paramahansa Yogananda registrò la sua opera sotto il nome di Self-Realization Fellowship. Sri Daya Mata è fin dal 1955 Presidente tanto della YSS quanto della SRF (N.d.E.). Fine nota). Un grande Yogoda Math (ashram) fu inaugurato nel 1938 a Dakshineswar, proprio sul Gange. Situato a poche miglia a Nord di Calcutta, il nuovo eremitaggio offre un asilo di pace agli abitanti della città. Comode sistemazioni vengono offerte agli ospiti occidentali, specialmente a quei ricercatori che dedicano con intensità la propria vita alla realizzazione spirituale. La "Missione Shuama Charan Lahiri Mahasaya" allo Yogoda Math è un centro medico con dispensario gratuito all'aria aperta. Il Math a Dakshineswar è il quartier generale indiano della Società Yogoda Satsanga (YSS), delle sue scuole e dei suoi centri ed eremitaggio nelle varie parti dell'India. L'YSS è legalmente affiliata alla Casa Madre internazionale, la Self-Realization Fellowship (SRF) [Nota: In italiano: Fratellanza d'Autorealizzazione. Fine nota] di Los Angeles, California, Stati Uniti d'America.
Le varie attività della YSS comprendono la pubblicazione del trimestrale Yogoda Magazine e la spedizione bisettimanale delle Lezioni YSS-SRF agli studenti in ogni parte dell'India. Queste lezioni danno istruzione dettagliata nelle tecniche SRF di ricarica d'energia, concentrazione e meditazione. La loro pratica regolare e coscienziosa costituisce la base essenziale per gli insegnamenti superiori del Kriya Yoga che vengono dati nelle lezioni successive agli studenti qualificati. E' superfluo dire che tutta quest'opera educativa e umanitaria richiede il servizio e l'abnegazione di molti insegnanti e di molti lavoratori. Non faccio qui i loro nomi perché sono troppi, ma nel mio cuore ciascuno di essi è inciso con lettere luminose. Ispirandosi agli ideali di Lahiri Mahasaya, questi maestri hanno abbandonato ogni allettante mèta nel mondo per servire umilmente e donare a piene mani. Wright strinse molte salde amicizie fra i ragazzi di Ranchi. Vestito di un semplice dhoti, egli visse con loro per parecchio tempo. A Ranchi, a Calcutta, a Serampore, dovunque si recasse, il mio segretario - che ha il dono delle brillanti descrizioni - tirava fuori il suo diario di viaggio per trascrivervi le esperienze giornaliere. Una sera gli posi una comanda: "Dick, qual è la tua impressione sull'India?" "Pace", egli rispose pensieroso. "L'aura che circonda la razza indiana è la pace".
CAPITOLO XLI UN IDILLIO NELL'INDIA DEL SUD "Dick, sei il primo occidentale che penetra in questo sacrario. Molti lo hanno tentato invano". Alle mie parole, Wright mi guardò dapprima allarmato, poi soddisfatto. Avevamo appena lasciato il bellissimo tempio di Chamundi sulle colline che sovrastano Mysore, nell'India meridionale. Là ci eravamo inchinati dinanzi agli altari d'oro e d'argento della Dea Chamundi, patrona della famiglia dei Maharaja regnanti sul Mysore. "Come ricordo dello specialissimo onore", disse Wright, avvolgendo con cura alcuni petali di rose, "serberò per sempre questi petali, benedetti dal sacerdote con acqua di rose". Il mio compagno ed io trascorremmo il mese di novembre del 1935 come ospiti dello Stato di Mysore. (Nota: La signorina Bletch, non potendo seguire il nostro passo, rimase, felice, dai miei parenti a Calcutta. Fine nota). Il Maharaja S.A. Sri Krishnaraya Wadyar IV, fu un principe modello che si dedicò al suo popolo con molta intelligenza. Il Maharaja, piissimo indù, nominò quale suo Dewan, o Primo Ministro, un maomettano, l'abile Lirza Ismail. Sia dell'Assemblea che del Consiglio Legislativo, fa parte la rappresentanza popolare di sette milioni di abitanti di Mysore. L'erede del Maharaja, S.A. lo Yuvaraja Sir Krishna Narasingharaj Wadiyar, aveva invitato il mio segretario e me a visitare il suo illuminato e progreditissimo regno. Durante i primi quindici giorni avevo parlato a migliaia di cittadini e studenti della città di Mysore nella sala del Municipio, nel Collegio del Maharaja, nella Facoltà Medica dell'Università, e avevo tenuto tre riunioni di massa al Liceo Nazionale, al Collegio Intermedio e nella sala del Municipio di Chetty, dove si erano riunite più di tremila persone. Non so se gli attenti ascoltatori riuscissero a prestar fede alla vivida descrizione che feci loro dell'America; ma sempre, quando parlavo loro dei benefici bilaterali che potevano risultare dal reciproco scambio del meglio che possano offrire la vita orientale e quella occidentale, gli applausi erano più scroscianti. Ora Wright e io ci ricreavamo nella pace tropicale. Il suo diario di viaggio riporta queste impressioni del Mysore:
"Campi di riso d'un verde brillante, alternati con appezzamenti di canne da zucchero, si annidano sotto la protezione delle alture rocciose - alture che punteggiano il panorama smeraldino come escrescenza di pietra nera - e il gioco dei colori è reso più intenso dall'improvvisa e drammatica scomparsa del sole che va a riposo dietro i monti. "Molti istanti di rapimento ci furono dati mentre contemplavamo quasi distrattamente il dipinto sempre mutevole di Dio disteso attraverso il firmamento; poiché unicamente il Suo tocco è capace di produrre colori che vibrano della freschezza della vita. Questa giovinezza di colori si perde quando l'uomo tenta di imitarla mediante sostanze coloranti, perché il Signore ricorre a un mezzo più semplice e più efficace: sostanze che non sono olii né pigmenti, ma puri raggi di luce. Egli getta una macchia di luce qui, ed essa riflette il rosso; agita ancora il suo pennello e il rosso lentamente sfuma nell'arancione e nell'oro; indi con un violento colpo pugnala le nuvole colorandole di una striscia purpurea che lascia un alone o una frangia di rosso stillante dalla ferita delle nubi. E così via, eternamente Egli si diletta nella sera come nel mattino, sempre vario, sempre fresco, sempre nuovo. Non vi sono duplicati, non schemi di colori identici. La bellezza dei mutamenti tra giorno e notte in India non ha eguali in nessuna parte del mondo. Spesso il cielo suggerisce l'idea che Dio abbia radunato tutti i colori della Sua tavolozza per gettarli poi, con un possente lancio caleidoscopico, nei cieli. "Devo ora descrivere lo splendore di una visita fatta al crepuscolo all'immensa diga Krishnaraja Sagar, costruita a dodici miglia dalla città di Mysore. (Nota: Questa diga, un immenso impianto idroelettrico, illumina la città di Mysore e fornisce la forza motrice alle industrie della seta, del sapone e dell'olio di sandalo. Fine nota). Yoganandaji ed io salimmo su un piccolo autobus, e con un ragazzino che aveva l'ufficiale incarico di girare la manovella d'avvio sostituendo la batteria, ci inoltrammo per una liscia strada terrosa, mentre il sole calava schiacciandosi all'orizzonte come un pomodoro troppo maturo. "La nostra via ci condusse lungo gli onnipresenti campi di riso quadrati, attraverso un boschetto di confortanti alberi banyan e in mezzo a torreggianti palme di cocco; quasi ovunque la vegetazione era folta come nella giungla. Alla fine, mentre ci avvicinavamo alla cima di un'altura, ci trovammo dinanzi a un immenso lago artificiale in cui si riflettevano le stelle e una frangia di palme e d'altri alberi. Il lago era circondato da meravigliosi giardini pensili e da file di luci elettriche. Sotto il margine della diga, i nostri occhi incontrarono l'abbagliante spettacolo di raggi multicolori che illuminavano fontane simili a geyser, facendole
rassomigliare a zampilli d'inchiostri colorati: meravigliose cascate blu, rosse, verdi, gialle; e maestosi elefanti di pietra che emettevano zampilli d'acqua. La diga, le cui fontane luminose mi ricordavano quelle dell'Esposizione mondiale di Chicago, è un'opera modernissima che risalta in questo antico paese di campi di riso e di gente semplice, che ci ha accolti con tale effetto da farmi temere che ci vorrà qualcosa di più della mia sola forza per riportare Yoganandaji in America. "Un altro privilegio raro fu la mia prima passeggiata, in groppa a un elefante. Ieri lo Yuvaraja ci invitò al suo palazzo d'estate per farci godere una passeggiata a dorso d'uno dei suoi elefanti, un bestione enorme. Salii sulla scaletta portatile che serviva per arrampicarsi sulla howdah o sella, una specie di scatola imbottita di cuscini di seta; ed eccomi rotolare, sobbalzare, ondeggiare, sussultare, salire e ridiscendere come risucchiato da una voragine, troppo eccitato per preoccuparmi o esclamare, ma aggrappandomi con tutte le forze per salvare la pelle!". (Fine Diario Wright) L'India meridionale, ricca di cimeli storici e archeologici, è un paese pieno di particolare, eppure indefinibile fascino. A settentrione di Mysore si trova Hyderabad, un pittoresco altipiano tagliato in due dal maestoso fiume Godavari, con vaste e fertili pianure, con le deliziose Nilgiri o 'Montagne Azzurre', e altrove con colline brulle di albarese o di granito. La storia di Hyderabad è assai lunga e varia; s'inizia tremila anni fa sotto i re Andhra e continua sotto dinastie indù fino al 1924 d.C., quando passò a una dinastia di capi maomettani. I più impressionanti monumenti architettonici, scultorei e pittorici di tutta l'India si trovano a Hyderabad, nelle antiche caverne scolpite nella roccia di Ellora e Ajanta. Il Kailasa ad Ellora, un enorme tempio monolitico, reca scolpite figure di divinità, uomini e bestie di stupende proporzioni michelangiolesche. Ad Anjanta vi sono cinque cattedrali e venticinque monasteri, tutti scavati nelle rocce e sostenuti da possenti pilastri affrescati, su cui artisti e scultori hanno immortalato il loro genio. Nella città di Hyderabad ha sede l'importante Università di Osmania, e vi è l'imponente Moschea Mecca Masjid, dove diecimila maomettani si raccolgono in preghiera. Lo Stato di Mysore è uno scenario fiabesco posto a circa novecento metri sul livello del mare, lussureggiante di foreste tropicali dove trovano rifugio elefanti selvaggi, bisonti, orsi, pantere, tigri. Le due principali città, Bangalore e Mysore, sono pulite, attraenti, con molti parchi e giardini pubblici.
L'architettura e la scultura indù hanno raggiunto la loro più alta espressione a Mysore sotto il mecenatismo dei re indù dall'XI al XV secolo. Il tempio di Belur, un capolavoro dell'XI secolo completato durante il regno di Vishnuvardhana, non ha l'eguale nel mondo intero per la delicatezza dei particolari e le esuberanti figurazioni statuarie. Gli editti incisi sulla roccia, trovati nel Mysore settentrionale, datano dal III secolo a.C. e illuminano la memoria del re Asoka, il cui vasto impero includeva l'India, l'Afganistan e il Belutchistan. (Nota: L'imperatore Asoka fece erigere in varie parti dell'India 84.000 stupa (santuari). Quattordici editti scolpiti nella roccia e dieci colonne in pietra esistono ancora. Ogni colonna rappresenta un monumento trionfale di ingegneria, di architettura e scultura. Asoka fece costruire anche molti serbatoi, dighe e chiuse d'irrigazione, strade maestre e strade ombreggiate d'alberi, disseminate di case per offrire riposo ai viaggiatori e ospedali per uomini e bestie. Fine nota). Incisi in vari dialetto, i "sermoni di pietra" di Asoka recano testimonianza della larga diffusione dell'arte di leggere e scrivere di cui godeva a quel tempo il Paese. L'editto XIII denuncia le guerre: "Non considerare vera nessuna conquista, che non sia quella della religione". L'editto X dichiara che la vera gloria di un re dipende dal progresso morale ch'egli aiuta il suo popolo a conseguire. L'editto XI dice che il 'vero dono' non consiste in beni, ma nel Bene, nella diffusione della verità. nell'editto VI l'amato sovrano invita i suoi sudditi a conferire con lui sulla cosa pubblica a 'qualsiasi ora del giorno o della notte', aggiungendo che, ottemperando fedelmente ai propri doveri di re, egli si guadagnava la liberazione dal proprio debito verso gli uomini. Asoka fu il pronipote del formidabile Chandragupta Maurya (conosciuto dai Greci col nome di Sandrocottus), che annientò le guarnigioni lasciate in India da Alessandro Magno e che nel 305 a.C. sconfisse l'esercito invasore macedone condotto da Seleuco. Egli ricevette poi nella sua corte di Pataliputra (Nota: La città di Pataliputra (l'odierna Parna) ha una storia affascinante. Buddha visitò quel sito nel VI secolo a.C., quando ancora non era che un forte di scarsa importanza. Egli fece questa profezia: "Fin dove si ritrovano popoli ariani, fin dove viaggiano i mercanti, Pataliputra diverrà per essi la principale città, un centro per lo scambio d'ogni sorta di merci". (Mahaparinirbana Sutra). Due secoli dopo, Pataliputra divenne la capitale dell'immenso impero di Chandragupta Maturya. Suo nipote Asoka portò la metropoli a una prosperità e a uno splendore ancor più grandi. Fine nota) l'ambasciatore ellenico Megasthene, che ci lasciò descrizioni conservate fino ad oggi, della felice e intraprendente India di quel tempo.
Nel 298 a.C. il vittorioso Chandragupta depose il governo dell'India nelle mani del figlio. Andò nel Sud dell'India e visse gli ultimi dodici anni della sua vita da poverissimo asceta, cercando l'autorealizzazione in una caverna rocciosa a Sravanabelangola, che oggi è uno dei santuari del Mysore. La stessa regione vanta il possesso della statua più grande del mondo, scolpita dai Jaini nell'anno 983 d.C. e ricavata da un enorme masso erratico in onore del saggio Gomateswara. Interessantissimi episodi furono minutamente descritti dagli storici greci e da altri che accompagnarono o seguirono Alessandro nella sua spedizione in India. I racconti di Arriano, Diodoro, Plutarco e Strabone il geografo, furono tradotti (Nota: in inglese. N.d.T. Fine nota) dal dottor J. W. Mc Crindle per gettar luce sull'India antica. (Nota: Sei volumi sull'india Antica (Ancient India. Calcutta, Chucjervertty, Chatterjce & Co., 15 College Square, 1879). Ristampati nel 1927. Fine nota). Il risultato più notevole della sfortunata invasione di Alessandro fu il profondo interesse ch'egli dimostrò per la filosofia indù e per i santi uomini e yoghi che di tanto in tanto incontrava e la cui compagnia egli cercava avidamente. Quando il grande guerriero occidentale giunse a Taxila nell'India Settentrionale, inviò un messaggero, Onesikritos, seguace della scuola di Diogene, a cercare un maestro indiano, Dandamis, grande sannyasi di Taxila. - Salute a te, o Maestro dei Brahmini! - disse Onesikritos dopo aver scovato Dandamis nel suo rifugio nella foresta. - Il figlio del possente dio Zeus, Alessandro, signore di tutti gli uomini, ti chiede di andare da lui. Se accetti ti compenserà con grandi doni; se rifiuti egli ti farà tagliare la testa. Lo Yoghi accolse questo invito piuttosto coercitivo con calma, e nemmeno sollevò il capo dal suo giaciglio di foglie. - Anch'io sono figlio di Zeus, se lo è Alessandro, - commentò. - Non voglio nulla di ciò che Alessandro possiede, perché io sono soddisfatto di quello che ho, mentre vedo che egli erra con i suoi uomini per terre e per mari senza alcun vantaggio e non pone mai fine al suo vagabondare. Va' e dì ad Alessandro che Dio, il Re Supremo non è mai l'Autore d'insolenti ingiustizie, ma è Creatore di luce, pace, vita, dell'acqua, del corpo dell'uomo e delle anime. Egli accoglie tutti gli uomini quando la morte li libera, poiché allora non sono più soggetti a brutti mali. Il solo Dio a cui rendo omaggio è Colui che aborrisce i massacri e non istiga alle guerre. - Alessandro non è un dio, poiché dovrà provare il sapore della morte, continuò il saggio con calmo disprezzo. - Come può un pari suo essere il padrone del mondo, quando ancora non si è assiso sul trono del dominio
universale interiore? Né è mai entrato vivo nell'Ade, né conosce il corso del sole attraverso tutte le vaste regioni della terra, dove moltissimi paesi non hanno nemmeno mai udito il suo nome! Dopo questo rimbrotto, certamente il più caustico che mai fosse stato mandato a percuotere le orecchie del 'Signore del Mondo' il Saggio aggiunse con ironia: - Se gli attuali possedimenti di Alessandro non sono abbastanza vasti per i suoi desideri, fategli attraversare il fiume Gange; là troverà una regione capace di sostentare tutti i suoi uomini. (Nota: Né Alessandro né alcuno dei suoi generali attraversarono mai il Gange. Trovando decisa resistenza nel Nod-Ovest, l'esercito macedone si ammutinò rifiutandosi di andare oltre; Alessandro dovette lasciare l'India e cercare le sue conquiste in Persia. Fine nota). - Sappi comunque che i doni che Alessandro promette sono per me assolutamente inutili - continuò Dandamis. - Le cose che apprezzo e che trovo veramente utili e di valore sono gli alberi che formano il mio tetto, le piante in fiore che mi forniscono il cibo quotidiano, e l'acqua che spegne la mia sete. I possessi ansiosamente ammassati risultano rovinosi per coloro che li raccolgono, poiché procurano solo i dispiaceri e le vessazioni che affliggono ogni comune mortale non illuminato. Io mi distendo sul fogliame della foresta e, non avendo nulla da sorvegliare con cura gelosa, chiudo gli occhi in un sonno tranquilli, mentre se dovessi vigilare su qualcosa, il sonno fuggirebbe. La terra mi fornisce ogni cosa, come la madre dà il latte al suo bambino. Vado dovunque mi piaccia e nessuna preoccupazione mi tormenta. - Se anche mi tagliasse la testa, Alessandro non potrebbe distruggere la mia anima. La mia testa, allora ammutolita, e il mio corpo, inutile come una veste stracciata, rimarrebbero sulla terra, donde vennero gli elementi che li costituivano. Ma io, divenuto Spirito, ascenderei al mio Dio che ci ha rinchiusi nella carne e ci ha posti sulla terra per vedere se quaggiù vivremo in obbedienza ai Suoi comandamenti, e che, quando giungeremo alla Sua presenza, chiederà conto a noi tutti della nostra condotta, poiché Egli è il giudice d'ogni malefatta e farà dei gemiti degli oppressi, la colonna dell'oppressore. - Che Alessandro atterrisca dunque con le sue minacce coloro che temono la morte e desiderano le ricchezze! Contro i brahmini queste armi sono impotenti! Noi non amiamo l'oro né temiamo la morte. Va' dunque e di' questo ad Alessandro: 'A Dandamis non serve nulla di ciò che tu hai e perciò non verrà da te, ma se vuoi qualcosa da Dandamis, va' tu da lui'!. Alessandro ascoltò attentamente il messaggio dello yoghi trasmessogli da Onesikritos, e provò un desiderio ancora più intenso di vedere Dandamis
che, malgrado fosse vecchio e nudo, era l'unico antagonista che il Conquistatore di molti popoli avesse trovato più forte di lui. Alessandro invitò a Taxila molti asceti brahmini, noti per la loro destrezza nel rispondere saggiamente a quesiti filosofici. Plutarco riferisce una di queste schermaglie verbali. Alessandro stesso preparò tutte le domande: - Chi sono i più numerosi, i vivi o i morti? - I vivi, perché i morti non sono. - Chi genera gli animali più grossi, il mare o la terra? - La terra, poiché il mare è solo una parte della terra. - Qual'è la più intelligente della bestie? - Quella che l'uomo ancora non conosce. - (L'uomo teme l'ignoto). - Esisté prima il giorno o la notte? - Il giorno fu prima per un giorno. - Questa risposta meravigliò Alessandro e il brahmino aggiunse: - Domande assurde richiedono risposte assurde. - Qual'è per un uomo, il modo migliore di farsi amare? - L'uomo sarà amato se, pur in possesso di un grande potere, non si farà temere. - Come può l'uomo diventare un dio? (Nota: Da questa domanda possiamo ben dedurre che il figlio di Zeus ogni tanto dubitava di aver raggiunto la perfezione. Fine nota) - Facendo ciò che un uomo non può fare. - Che cosa è più forte, la vita o la morte? - La vita, perché sopporta tanti mali. Ad Alessandro riuscì di condur via dall'India, come suo maestro, un vero yoghi. Questi era Kalyana (lo swami Shipnes), chiamato "Kalanos" dai greci, perché il Santo adorava Dio nella forma di Kali e aiutava tutti col Suo nome augurale. Kalanos accompagnò Alessandro in Persia. In un giorno stabilito, a Susa, in Persia, Kalanos abbandonò il suo vecchio corpo salendo su una pira funeraria dinanzi a tutto l'esercito macedone. Gli storici parlano dello stupore dei soldati nel vedere che lo yoghi non aveva paura alcuna né della sofferenza né della morte e che non si mosse neppure una volta dalla sua posizione mentre le fiamme lo consumavano. Prima di farsi cremare, Kalanos aveva abbracciato molti suoi compagni, ma non aveva salutato Alessandro, cui il saggio indiano aveva solo detto: - Ti rivedrò in Babilonia.
Alessandro lasciò la Persia e un anno dopo morì in Babilonia. Le parole del suo Guru indiano avevano voluto significargli che egli sarebbe rimasto con Alessandro in vita e in morte. Gli storici greci ci hanno lasciato molte belle e vivaci descrizioni della società indiana. La legge indù, ci dice Arriano, protegge degli individui e "ordina che nessuno fra loro debba, in nessuna circostanza, essere schiavo, ma che tutti, godendo loro stessi della libertà, debbano rispettare il medesimo universale diritto negli altri. Essi pensano infatti che, chi ha imparato a non tiranneggiare né ad abbassarsi di fronte ad altri, affronterà nel modo migliore le vicissitudini del destino" (Nota: Tutti gli osservatori greci commentano la mancanza di schiavitù in India, come in assoluto contrasto con la struttura della società ellenica. Fine nota) "Gli Indiani", dice un altro testo, "non dànno denaro a usura né sanno prenderlo in prestito. E' contrario alle abitudini tradizionali che un Indiano faccia del male o ne riceva, ed è per questa ragione che non si stipulano contratti né si richiedono garanzie." Si racconta che le cure mediche venivano basate su mezzi semplici e naturali. "Le cure si fanno regolando la dieta piuttosto che prendendo medicine. I rimedi più in auge sono gli unguenti e gli impiastri; tutti gli altri sono considerati generalmente perniciosi". L'arruolamento per la guerra era limitato ai Ksgatriya, ossia alla casta dei guerrieri. "Né un nemico, trovando un contadino al lavoro nel suo podere, gli farebbe del male, poiché gli uomini di tale casta sono considerati benefattori pubblici e sono protetti da ogni offesa. In tal modo il paese non viene saccheggiato e produce ricche messi, fornendo agli abitanti quanto occorre per rendere piacevole la vita. (Nota: Creative India del prof. Benoy Kumar Sarkar, dà una chiara descrizione di quanto l'India antica e moderna ha fatto in economia politica, scienze, letteratura, arte e filosofia sociale. (Labore: Motilal Banarsi Dass. Ed. 1937) Un altro volume che si raccomanda è Indian Culture through ages di S. V. Venkatesvara (New York Longmans Green & Co. Fine nota). I santuari, onnipresenti nel Mysore, sono un costante ricordo dei molti, grandi Santi che popolarono l'India meridionale. Uno di tali Maestri, Thayumanavar, ci lasciò questa poesia, che è tutta una sfida: Potrai domare un elefante infuriato, Alla tigre e all'orso potrai chiudere la bocca E cavalcare un leone e scherzare col cobra E guadagnarti il pane con l'alchimia. In incognito potrai esplorare l'universo, Renderti vassalli gli dei, rimaner giovane sempre. Potrai camminare su l'acque e vivere nel fuoco;
Ma dominare la mente è meglio, e più difficile. Nel bellissimo e ubertoso stato di Travancore, nell'estremo meridione dell'India dove il traffico si instrada su fiumi e canali, il maharaja scioglie ogni anno l'obbligo ereditario d'espiare il peccato commesso nel lontano passato con le guerre e l'annessione di vari piccoli stati a quello di Travancore. Per cinquantasei giorni all'anno il maharaja visita il tempio tre volte al dì per ascoltare gli inni vedici e le preghiere; la cerimonia espiatoria termina col lakshadipam, l'illuminazione del tempio con centomila luci. La provincia di Madras, sulla costa sud-orientale dell'India, include la piatta e spaziosa città marina di Madras e la Città d'Oro, Conjeeveram, capitale e sede della dinastia Pallava, i cui re tennero il potere durante i primi secoli dell'era cristiana. Nella moderna provincia di Madras gli ideali della non-violenza caldeggiati dal Mahatma Gandhi hanno avuto grande sviluppo. I bianchi "berretti alla Gandhi" che distinguono i suoi seguaci si scorgono ovunque. Nel mezzogiorno in genere, il Mahatma ha attuato molte importanti riforme religiose riguardanti gli 'intoccabili', e riforme dei sistemi di casta. L'origine del sistema di caste, compilato dal grande legislatore Manu, è mirabile. Egli vide chiaramente che gli uomini si distinguono per evoluzione naturale in quattro grandi classi: quelli capaci di prestare i loro servigi alla società mediante il lavoro fisico (Sudra); quelli che servono con la mente, con l'abilità, l'agricoltura, i mestieri, il commercio e in genere la vita degli affari (Vaisya); quelli che posseggono capacità amministrative, esecutive e protettive; i capi o guerrieri (Kshatriya); e quelli della natura contemplativa, gli spiritualmente ispirati e ispiratori (Brahmini). "Né nascita, né sacramenti, né studi, né antenati possono decidere se una persona è nata due volta (cioè un brahmino)", dichiara il Mahabharata; "possono deciderlo solamente il suo carattere e la sua condotta". (Nota: "L'appartenenza di una persona a una delle quattro classi originarie dipendeva non dalla sua nascita ma dalle sue capacità naturali, indicate dalla mèta che presceglieva nella vita" ci dice un articolo di East-West del gennaio 1935. "Questa mèta poteva essere: 1) karma, desiderio, attività della vita dei sensi [stadio Sutra]; 2) artha, guadagno, appagando ma controllando i desideri [stadio Vaisya]; 3) dharma, autodisciplina, vita di responsabilità e retta azione [stadio Kashatriya]; 4) moksa, liberazione, la vita spirituale e dell'insegnamento religioso [stadio Brahmino]. Queste quattro caste rendono servigio all'umanità con: 1) il corpo; 2) la mente; 3) la forza di volontà; 4) lo Spirito. "I quattro stadi corrispondono agli eterni guna, o qualità della natura, cioè tamas, rajas, sattva: ostruzione, attività, espansione; ossia: massa, energia, intelligenza. Le quattro caste naturali
sono contrassegnate dai guna così: 1) tamas (ignoranza); 2) tamas-rajas (misto di ignoranza e di attività); 3) rajas-sattva (misto di giusta attività e di illuminazione); 4) sattva (illuminazione). Così la natura ha assegnato ogni uomo alla sua casta mediante il predominio in lui di un guna o di una miscela di due guna. Certamente ogni essere umano possiede tutti e tre i guna in proporzioni diverse. Il guru saprà decidere con giustizia quale sia la casta di un uomo, cioè il suo stato di evoluzione. "Fino a un certo punto tutte le razze e tutte le nazioni seguono, in pratica se non in teoria, le caratteristiche di casta. Dove vi è grande licenza o cosiddetta libertà, specialmente nei matrimoni fra estremi nelle caste naturali, la razza si debilita e si estingue. Il Purana Samhita paragona le progenie di tali unioni a ibridi sterili come il mulo, che non può propagare la sua specie. Le specie artificiali col tempo si eliminano; la storia ci offre abbondanti esempi di molte grandi razze che non hanno più rappresentanti viventi. Il sistema di casta dell'India è avvalorato dai suoi più grandi pensatori, che lo considerano un freno o un preventivo contro la licenza che ha preservato la purezza della razza e l'ha salvata attraverso millenni di vicissitudini, mentre altre razze sono completamente scomparse". Fine nota). Manu insegnò alla società a tributar rispetto ai propri membri secondo la loro saggezza, virtù, età, parentela, o, per ultimo, la loro ricchezza. Nell'India vedica la ricchezza era sempre disprezzata se accumulata inutilmente e non per essere spesa a scopi caritatevoli. Agli uomini di grande ricchezza, ma ingenerosi, era asssegnato un bassissimo rango sociale. Gravi furono i mali che insorsero quando il sistema di casta, irrigiditosi attraverso i secoli, venne ad esser considerato un diritto ereditario. L'India, che dal 1947 ha ottenuto l'autogoverno, fa oggi lenti ma sicuri progressi nel ristabilire gli antichi valori di casta, basati unicamente su qualità naturali e non sulla nascita. Ogni nazione della terra ha il suo particolare karma, fonte di miserie, con cui deve lottare e che deve onorevolmente vincere. L'India, col suo spirito versatile e invitto, si dimostrerà pari a se stessa nel compito della riforma di casta. Il mezzogiorno dell'india è tanto affascinante, che Wright e io avevamo un gran desiderio di prolungare il nostro idillio; ma il tempo, con la sua millenaria scortesia, non volle concedervi dilazioni. Subito fui impegnato a parlare alla sessione di chiusura del Congresso Filosofico Indiano all'Università di Calcutta. Al termine della nostra visita a Mysore ebbi una conversazione piacevolissima con Sir C. V. Raman, presidente dell'Accademia Indiana delle Scienze. A questo brillante fisico indù fu
riconosciuto nel 1930, il Premio Nobel per la sua importante scoperta dell'"effetto Raman" sulla diffusione della luce. Dopo un melanconico addio a una folla di studenti e di amici di Madras, partii con Wright per il Settentrione. Sulla strada ci fermammo davanti a un piccolo santuario dedicato alla memoria di Sadasiva Brahman, santo vissuto nel XVIII secolo e la cui storia straripa di miracoli. (Nota: Il titolo formale col quale firmava i suoi libri (commenti sui brahma-Sutra e sugli Yoga Sutra di Patanjali) era Sri Sadasivendra Saraswati Swami. Egli è altamente venerato dai filosofi d'India del giorno d'oggi. Il defunto Sri Shankaracharya di Sringeri Math nel Mysore, Sua Santità Sri Chandrasekhara Swaminah Bharati scrisse una bellissima ode dedicata a Sadasiva. Nell'East-West del luglio 1942 vi era un articolo sulla vita di Sadasiva. Fine nota).Un tempio più grande di Sadasiva, eretto a Nerur del Raja di Pudukkottai, è mèta di pellegrini e fu teatro di molte divine guarigioni. I successivi regnanti del Pudukkottai fecero religiosamente tesoro degli insegnamenti scritti da Sadasiva nel 1750 a guida morale del principe regnante. Molte storie singolari intorno a Sadasiva, un amabile e illuminato Maestro, circolano ancora fra i villici indiani del Sud. Immerso un giorno nel samadhi sulla sponda del fiume Kaveri, lo si vede a un tratto portato via da un'ondata. Dopo varie settimane, si ritrovò Sadasiva sepolto sotto un cumulo di terra presso Kodumundi, nel distretto Coimbatore. Quando le vanghe dei contadini urtarono il suo corpo, il Santo s'alzò in piedi e se ne andò con passo svelto. Sadasiva divenne un muni (santo silenzioso) in seguito a un rimprovero fattogli dal suo Guru per aver sopraffatto, in una disputa, un anziano studioso dei Vedanta. "Quando tu che sei un giovinetto, imparerai a tener la bocca chiusa?" gli aveva detto il Guru. "Con la vostra benedizione, anche da questo stesso momento". Il Guru di Sadasiva era Sri Paramasivendra Saraszati Swami, che ci lasciò il suo Daharavidya Prakasika, come pure un illuminato commento dell'Uttara Gita. Egli andava giustamente orgoglioso del suo grande discepolo yoghi, com'è dimostrato da questo episodio. Alcuni profani, scandalizzati perché Sadasiva, ebbro di Dio, fu spesso visto danzare "indecorosamente" per le strade, vennero a lamentarsi presso il suo dotto Guru. "Signore", dichiararono "Sadasiva non è altro che un pazzo". Ma Paramasivendra sorrise gioiosamente: "Oh!", esclamò, "Dio volesse che altri avessero la sua follia!". La vita di Sadasiva è contrassegnata da molte strane e bellissime manifestazioni della Mano- che-interviene. Nel mondo vi è tanta apparente
ingiustizia, ma i devoti di Dio possono recar testimonianza di innumerevoli esempi della Sua immediata giustizia. Una notte, mentre era immerso nel samadhi, Sadasiva si fermò vicino al granaio di un ricco capofamiglia. Tre servitori, messi lì a fare la guardia contro i ladri, alzarono i bastoni per colpire il Santo; ma ecco, le loro braccia furono immobilizzate; i tre rimasero come statue, con le braccia alzate, a formare un quadro unico nel suo genere fino all'alba, quando Sadasiva se ne andò. In un'altra occasione il grande Maestro fu rudemente costretto al lavoro da un sorvegliante i cui uomini trasportavano dei combustibili. Il Santo silenzioso portò umilmente il proprio carico alla destinazione voluta, e ivi lo posò in cima a un enorme mucchio; nel medesimo istante tutto il cumulo di combustibili divampò in fiamme! Sadasiva come lo Swami Trailanga, non portava vesti. Una mattina lo yoghi, nudo, entrò per distrazione nella tenda di un capo-tribù maomettano. Le donne strillarono allarmate; il guerriero assalì Sadasiva con la spada e gli troncò un braccio. Il Maestro se ne andò, indifferente. Invaso dal rimorso, il maomettano sollevò il braccio da terra e seguì Sadasiva. Tranquillamente lo yoghi riattaccò il braccio al moncone sanguinante. Quando il guerriero chiese umilmente un indirizzo spirituale, Sadasiva scrisse con un dito sulla sabbia: "Non fare quello che desideri: allora potrai fare quello che vuoi". La mente del maomettano fu elevata a un altissimo grado di purificazione ed egli comprese il paradossale consiglio del Santo, di guidare l'anima alla liberazione attraverso la padronanza dell'ego. Così grande fu l'impulso dato da quelle poche parole che quel capo divenne un buon discepolo e il suo ambiente abituale non lo rivide più. I bambini del villaggio espressero un giorno a Sadasiva il desiderio di vedere la festa religiosa di Madura, a 150 miglia di distanza. Lo yoghi disse ai piccini di toccare il suo corpo e - oh meraviglia! - immediatamente il gruppetto fu trasportato a Madura. I bambini si aggirarono gaiamente fra le migliaia di pellegrini. Dopo alcune ore lo yoghi ricondusse a casa la sua piccola comitiva col suo semplice mezzo di trasporto. I genitori, meravigliati, ascoltarono le colorite descrizioni della processione delle immagini e videro che molti bambini avevano dei pacchi di dolci di Madura. Un giovanottino incredulo si burlò del Santo e del suo racconto. Il giorno dopo si avvicinò a Sadasiva: "maestro", gli disse sdegnoso, "perché non mi portate alla festa di Srirangam, come avete portato gli altri ragazzi a Madura?".
Sadasiva accondiscese; il giovinetto si trovò immediatamente in mezzo alla folla della lontana città. Ma, ahimé dov'era mai il Santo quando egli volle ritornare a casa? Il ragazzo vi tornò, stanco morto, con l'antico e prosaico mezzo di locomozione dei propri piedi. Prima di lasciare l'India meridionale, Wright ed io andammo in pellegrinaggio alla sacra montagna di Arumachala presso Tiruvannamalai per incontrare Sri Ramana Maharishi. Il Saggio che ci accolse amorevolmente nel suo ashram, ci indicò lì vicino una pila di riviste EastWest. Durante le ore che passammo con lui e i suoi discepoli egli rimase per la maggior parte in silenzio, il suo viso gentile raggiante di divino amore e saggezza. Per aiutare l'umanità sofferente a riconquistare il suo stato di perfezione dimenticato, Sri Ramana insegna a chiedersi costantemente: "Chi sono io?". - Invero, la Grande Domanda! Allontanando rigidamente ogni altro pensiero, il devoto si trova ben presto in procinto di entrare sempre più profondamente nel suo vero Sé, e le distraenti interferenze degli altri pensieri cessano di insorgere. L'illuminato rishi dell'India del Sud ha scritto: Dualità e trinità si afferrano a qualche cosa; senza supporto non appaiono mai. Cercate quel supporto, ed esse cadranno. Qui è la verità. Chi vede questo non vacilla mai.
CAPITOLO XLII GLI ULTIMI GIORNI TRASCORSI COL MIO GURU "Guruji, sono lieto di trovarvi solo, questa mattina". Ero appena arrivato all'eremitaggio di Serampore, con un fragrante fardello di frutta e di rose. Sri Yukteswar mi guardò con dolcezza. "Qual è la domanda che mi vuoi fare?". Il Maestro si guardò intorno come se cercasse una scappatoia. "Guruji, sono venuto a voi quando ero uno studente di liceo. Adesso sono adulto ed ho anche qualche capello bianco. Sebbene mi abbiate inondato di silenzioso affetto fin dal primo momento che vi ho incontrato, vi siete accorto che solo una volta, il giorno del nostro incontro, mi avete detto: - Ti voglio bene?". E lo guardai supplichevole. Il Maestro abbassò lo sguardo: "Yoganada, devo portare nel freddo reame del linguaggio i caldi sentimenti che sono meglio serbati nel silenzio del cuore?". "Sia come tu vuoi. Nella mia vita coniugale spesso ho desiderato un figlio per portarlo sul sentiero dello yoga; ma quando giungesti tu nella mia vita, fui appagato. In te ho trovato mio figlio". Due limpide lacrime brillavano negli occhi di Sri Yukteswar. "Yogananda, ti amerò per sempre". "La vostra risposta è il mio passaporto per il cielo". Sentii un peso togliermisi dal cuore e dissolversi per sempre al suono delle sue parole. Spesso il suo silenzio mi aveva preoccupato; sapevo che egli era antiemotivo e padrone di sé, ma spesso temevo di non essere riuscito a soddisfarlo compiutamente. Aveva uno strano carattere che non si poteva mai conoscere appieno; un carattere calmo e profondo, insondabile dal mondo esteriore, i cui valori egli aveva da lungo tempo superati. Pochi giorni dopo, quando parlai dinanzi a un enorme pubblico all'Albert Hall di Calcutta, Sri Yukteswar acconsentì a sedere accanto a me sul podio, col Maharaja di Santosh e il sindaco di Calcutta. Il Maestro non fece alcun apprezzamento, ma durante la conferenza lo guardavo ogni tanto e mi pareva di vedere nei suoi occhi una luce di compiacimento.
Parlai quindi agli alunni dell'Università di Serampore. Mentre guardavo i miei antichi compagni di classe, ed essi guardavano il loro vecchio "Monaco pazzo", lacrime di gioia si mostravano senza vergogna. Il mio professore di filosofia, il dottor Ghoshal 'dalla lingua d'argento', venne a salutarmi. Tutta la nostra passata incomprensione era stata dissolta dall'alchimia del tempo. La festa del Solstizio d'Inverno fu celebrata alla fine di dicembre nell'eremitaggio di Serampore. Come sempre, i discepoli di Sri Yukteswar vi si riunirono tutti, venendo da vicino e da lontano. I devoti sankirtan, gli assolo cantati dalla voce dolcissima del famoso cantante bengali Kristo-da, il festino servito da giovani discepoli, le commoventi parole del Maestro pronunciate sotto le stelle nell'affollato cortile dell'ashram... Ricordi! ricordi! Gioiose feste di anni lontani! Quella notte, però, doveva accadere qualcosa di nuovo. "Yogananda, ti prego di parlare agli ospiti in inglese!" Gli occhi del Maestro ridevano, mentre egli mi faceva questa richiesta doppiamente insolita. Ricordava forse la mia imbarazzante situazione a bordo della nave, che aveva preceduto la mia prima conferenza in inglese? Raccontai la storia ai miei confratelli, terminando con fervide parole di omaggio per il nostro Guru. "La sua onnipotente guida è stata sempre con me, non solo sulla nave", conclusi, "ma ogni giorno di tutti i quindici anni trascorsi nella grande e ospitale America". Quando gli ospiti se ne andarono, Sri Yukteswar mi chiamò nella stessa camera da letto dove una sola volta, dopo una festa come questa, mi era stato concesso di dormire nel suo letto. Oggi il mio Guru vi stava quietamente seduto e i discepoli erano disposti in semicerchio ai suoi piedi. Sorrise, nel vedermi entrare in fretta nella stanza. "Yogananda, parti adesso per Calcutta? Ti prego di tornare qui domani. Ho alcune cose da dirti". Il pomeriggio seguente, con poche e semplici parole di benedizione Sri Yukteswar m'insignì del mio nuovo titolo monastico di Paramahansa (Nota: Letteralmente parama, altissimo, o supremo; hansa, cigno. Il hansa è rappresentato nelle Scritture quale vecchio veicolo di Brahma, Spirito Supremo. Quale simbolo discriminante, si crede che il bianco cigno hansa possa separare il vero nettare soma da una miscela di acqua e latte. Ham Sa (pronunciato Hong so) sono due parole sacre dei cantici sanscriti che hanno un rapporto vibratorio con l'inspirazione e l'espirazione del fiato. Aham-sa
significa letteralmente: "Io sono Lui". Così inconsciamente, l'uomo asserisce con ogni respiro la verità del suo essere. Fine nota). "Questo nome prende ora ufficialmente il posto di quello precedente di Swami", mi disse mentre m'inginocchiavo dinanzi a lui. Ridendo silenziosamente, pensai a tutti gli sforzi che avrebbero fatto i miei allievi americani per pronunciare 'Paramahansaji?. (Nota: Hanno in genere evitato la difficoltà chiamandomi "signore". Fine nota). "Il mio compito sulla terra è ormai terminato; tu devi continuarlo". Il Maestro parlava calmo, i suoi occhi erano dolci e tranquilli; il cuore mi palpitava di paura. "Ti prego di mandare qualcuno per assumere le responsabilità del nostro ashram di Puri", continuò Sri Yukteswar. "Lascio tutto nelle tue mani. Tu saprai guidare con successo la nave della tua vita e dell'organizzazione verso le divine sponde". Piangendo, abbracciai i suoi piedi. Egli si alzò e mi benedisse con amore. Il giorno seguente chiamai da Ranchi un discepolo, Swami Sebananda, e lo mandai a Puri a dirigere l'eremitaggio. (Nota: Nell'ashram di Puri c'è ora una piccola e fiorente scuola yoga per ragazzi, la Sri Yukteswar Vidyapith, e dei gruppi di meditazione per adulti. Periodicamente vi si tengono riunioni di sadhu e di pandit. Fine nota). Il mio Guru discusse con me i dettagli legali per la sistemazione dei suoi averi. Era ansioso di evitare contestazione da parte di parenti, dopo la sua morte, per il possesso dei due eremitaggio e di altre proprietà che egli desiderava devolvere solo a scopi caritatevoli. "Recentemente si sono fatti dei preparativi perché il Maestro visitasse Kidderpore", mi disse, un pomeriggio, il condiscepolo Amulaya Rabu, "ma egli non ci volle andare". (nota: Kidderpore = una sezione di Calcutta). Sentii in me un gelo premonitore. Alle mie incalzanti domande Sri Yukteswar rispose solo: "Non andrò a Kidderpore", e per un istante il Maestro tremò come un bimbo impaurito. ("L'attaccamento dell'uomo alla dimora fisica, che è insito nella natura stessa" (Nota: Che risale cioè a radici immemorabili, di passate esperienze di morte. Questo passo si trova negli Yoga Sutra di Pataniali, II, 9. Fine nota), scrisse Patanjali, "esiste in lieve misura perfino nei grandi Santi". In alcuni suoi discorsi sulla morte, il mio Guru aveva aggiunto: "Proprio come un uccello che è stato a lungo imprigionato in una gabbia, esita ad abbandonare la sua solita dimora quando trova la porta aperta"). "Guruji", lo pregai fra i singhiozzi, "non dite questo! Non ditemi più parole simili!". Il viso di Sri Yukteswar si distese in un placido sorriso. Sebbene prossimo a compiere ottantun anni, appariva sano e forte.
Scaldandomi giorno per giorno al sole dell'amore del mio Guru, inespresso ma profondamente sentito, allontanai dalla mia mente cosciente le varie allusioni che egli aveva fatte sul suo prossimo trapasso. "Maestro, il Kumbha Mela si raduna questo mese ad Allahabad", dissi mostrando al Guru le date del Mela in un almanacco bengali. (Nota: Già nell'antico Mahabharata si parla di Mela religiosi. Il pellegrino cinese Hieuem Tsiang lasciò la descrizione di un grande Kumbha Mela svoltosi ad Allahanbad nel 644 d.C. In quell'occasione Harsha, re della maggior parte dell'India Settentrionale, distribuì ai monaci e asceti riuniti, e ai poveri, l'intera ricchezza (accumulata in cinque anni) del tesoro reale. L'autore cinese narra che, per la carità di harsha, erano giornalmente nutriti 1500 monaci buddhisti e brahmini. Quando Hieuen Tsiang lasciò l'India per la Cina, rifiutò i doni di addio di Harsha, che consistevano in gioielli rari e 10.000 monete d'oro, ma si portò via - come dono di maggior valore - 657 manoscritti religiosi. La vita di Harsha, che scrisse poesie e drammi ammirevoli, è descritta da R. Mukerji (Macmillan) in Men and Thought in Ancient India (Uomini e Pensiero dell'India Antica) che contiene anche le biografie di quattro altri indiani: Yajnavalkya, un Saggio vedico che discute di filosofia col santo Re Janaka; il Signore Buddha, il Compassionevole; l'imperatore Asoka, grande e buono; il dotto Re Samudragupta, il "Napoleone indiano" del IV secolo. Il mela più importante ha luogo ogni dodici anni; il meno importante (Ardha, o metà, Kumbha) ogni sei anni. Mela minori si svolgono ogni tre anni e radunano circa un milione di devoti. Le quattro città sacre per il mela sono: Allahabad, Hardwar, Nasik, Ujjain. Fine nota). "Vuoi davvero andarvi?". Non avvertii la riluttanza di Sri Yukteswar a lasciarmi andare e continuai: "Una volta voi aveste la fortuna d'incontrare Babaji al Kumbha di Allahabad. Forse questa volta avrò anch'io la ventura di vederlo". "Non credo che lo incontrerai là", mi rispose il Guru e poi tacque, non desiderando opporsi ai miei progetti. Quando ventiquattr'ore dopo partii per Allahabad con un piccolo gruppo, il Maestro mi benedisse quietamente nel solito modo. A quanto pare, io rimanevo immemore e insensibile ai sottintesi nell'atteggiamento di Sri Yukteswar, perché il Signore voleva risparmiarmi il dolore di dover assistere impotente alla fine del mio Guru. Nella mia vita è sempre avvenuto che, alla morte di coloro che ho profondamente amato, Dio provvedesse misericordiosamente a tenermi lontano dalla scena. (Nota: Non fui presente né alla morte di mia madre, né a quella di mio fratello Ananda né di mia sorella Roma, né del mio maestro,
né di mio padre né di vari discepoli che mi furono molto cari. (Mio padre morì a Calcutta nel 1942 all'età di ottantotto anni. Fine nota). La nostra comitiva giunse al Kumbha Mela il 23 gennaio 1936. La riboccante folla di oltre due milioni di persone costituiva uno spettacolo impressionante. La caratteristica particolare del popolo è la riverenza innata - anche nel più semplice contadino - per i valori dello Spirito e per i monaci e sadhu che hanno rinunciato ai legami del mondo per cercare un divino ancoraggio. Vi sono, è vero, degli impostori e degli ipocriti, ma l'India rispetta tutti, per amore di quei pochi che illuminano la nostra terra di superne benedizioni. Agli occidentali che assistevano a quello spettacolo era offerta un'occasione unica per sentire il polso vitale del paese, l'ardore spirituale al quale l'India deve la sua inesausta vitalità insopprimibile dai colpi inferti dal tempo. Il nostro gruppo trascorse il primo giorno in sbalordita contemplazione. Vedemmo migliaia di pellegrini tuffarsi nel fiume sacro per ottenere la remissione dei peccati; assistemmo a solenni riti religiosi celebrati da sacerdoti brahmini; vedemmo devote offerte gettate ai piedi di silenziosi sannyasi; guardammo passare teorie di elefanti, di cavalli con gualdrappe e cammelli di Rajputana dal lento passo, seguiti da una strana parata religiosa di sadhu nudi che sventolavano scettri d'oro e d'argento, bandiere e gagliardetti di velluto di seta. Anacoreti dai fianchi stretti in una fascia, unico indumento, sedevano tranquillamente a piccoli gruppi, i corpi cosparsi delle ceneri che proteggono dal caldo e dal freddo. L'occhio spirituale era palesemente segnato sulla loro fronte da una macchia fatta con pasta di legno di sandalo. A migliaia si vedevano swami dalla testa rasata, vestiti di color ocra, con il loro bastone di bambù e la ciotola delle elemosine. I loro visi splendevano della pace di chi ha rinunciato al mondo, mentre con i discepoli camminavano e discuteva di argomenti filosofici. Qua e là sotto gli alberi, intorno a immense cataste di ceppi ardenti, stavano pittoreschi sadhu con i capelli intrecciati e attorcigliati sul sommo del capo (Nota: le centinaia di migliaia di sadhu indiani sono controllati da un comitato di sette capi che rappresentano sette vaste regioni dell'India. L'attuale mahamandadeswar, o presidente, è Joyendra Puri. Questo sant'uomo è oltremodo riservato e spesso limita il suo discorso a tre sole parole: Verità, Amore, Lavoro. Davvero un esauriente discorso. Fine nota). Alcuni avevano barbe lunghissime avvolte a spirale e legate in un nodo. Meditavano calmi o stendevano le mani in un gesto di benedizione sulla folla che passava: mendicanti, maharaja assisi su elefanti, donne avvolte in
sari multicolori e con i braccialetti tintinnanti ai polsi e alle caviglie, fakiri dalle sottili braccia grottescamente sollevate, brahmachari che portavano sostegni per poggiare i gomiti durante la meditazione, e umili saggi la cui solennità celava un intimo rapimento. E su tutto questo frastuono si udiva l'incessante richiamo delle campane del tempio. Nel nostro secondo giorno di mela entrammo in vari ashram e capanne provvisorie, offrendo il nostro pronam a santi personaggi. Ricevemmo la benedizione del capo del ramo Giri dell'ordine Swami, un magro e ascetico monaco con ridenti occhi di fuoco. Poi ci recammo a visitare un eremitaggio, il cui guru aveva osservato il voto del silenzio e di una rigida dieta di frutta durante gli ultimi nove anni. Sul palco centrale nell'atrio dell'ashram sedeva un sadhu cieco, Prajna Chakshu (Nota: Titolo che viene dato a quel saggio; significa 'uno che vede con l'intelligenza' [non avendo la vista fisica]. Fine nota), profondamente versato nei shastra e molto rispettato da tutte le sette. Dopo un breve discorso da me tenuto in indi sui Vedanta, il nostro gruppo lasciò il pacifico eremitaggio per salutare uno swami che era lì accanto, Krishnananda, un bel monaco dalle guance rosee e dalle potenti spalle. Distesa accanto a lui, una leonessa addomesticata. Vinta dal fascino spirituale del monaco - e non, ne sono convinto, dal suo fisico possente! - la belva della giungla rifiuta la carne e preferisce il riso e latte. Lo swami ha insegnato al fulvo animale a pronunziare: "Om" in un profondo e suggestivo ruggito. Un devoto felino! Un altro nostro incontro, un'intervista con un dotto giovane sadhu, è ben descritta nel brillante diario di viaggio del signor Wright: "Attraversammo con la Ford il bassissimo Gange su uno scricchiolante ponte di zattere; insinuandoci a mo' di serpe ci facemmo strada in mezzo alla folla e per strette, intricate stradine giungemmo al punto sul fiume che Yoganandaji m'indicò come il luogo del primo incontro tra Babaji e Sri Yukteswarji. Poco dopo scendemmo dalla macchina e camminammo per un tratto fra il denso fumo dei fuochi dei sadhu e su sabbie sdrucciolevoli, per giungere a un gruppo di minuscole capanne di fango e paglia. Ci fermammo dinanzi ad una di queste abitazioni provvisorie, che aveva una minuscola entrata senza porta. Era l'asilo di Kara Patri, un giovane sadhu errante, noto per la sua eccezionale intelligenza. Egli sedeva a gambe incrociate su un mucchio di paglia gialla. Sua unica copertura, e anche l'unico suo possesso, era un panno color ocra gettato sulle sue spalle. "Un volto davvero divino ci sorrise dopo che tutti e quattro fummo entrati, a quattro zampe, nella capanna ed ebbimo offerto il pronam a quell'anima illuminata, mentre la lanterna a petrolio sull'entrata gettava
fantastiche ombre danzanti sui muri ricoperti di paglia. Gli occhi del sadhu brillavano di felicità, i suoi denti perfetti scintillavano. Non ero in grado di comprendere ciò che diceva in indi, ma il suo volto esprimeva entusiasmo, amore e una radiante bellezza spirituale. Nessuno poteva ingannarsi sulla sua grandezza. "Immaginate la sua vita beata! E' distaccato dal mondo materiale: libero dai problemi del vestire, libero dal desiderio di un cibo variato, mangia vitto cotto solo a giorni alterni, non porta mai la ciotola per l'elemosina; è libero da ogni difficoltà economica, non maneggia soldi, non conserva mai nulla, sempre fidando in Dio. Libero dalle noie dei trasporti, non sale mai in un veicolo, ma cammina a piedi lungo le rive dei fiumi sacri, non resta mai in un luogo più a lungo di una settimana per evitare qualsiasi possibilità di attaccamento. "Un'anima modesta, nonostante la conoscenza non comune dei Veda e la laurea col titolo di Shastri (maestro delle Scritture) della Università di Benares. Un sentimento sublime m'invase mentre sedevo ai suoi piedi; tutto sembrava rispondere al mio desiderio di vedere la vera, l'antica India, poiché costui è un vero rappresentante di questo Paese di giganti spirituali". Interrogai Kara Patri sulla sua vita errante: "Non hai altre vesti per l'inverno?". "No, questa basta". "Non hai libri con te?". "No. Insegno a memoria alle persone che desiderano ascoltarmi". "Che altro fai?". "Vado errando qua e là lungo il Gange". A queste tranquille parole fui vinto dalla nostalgia di una vita semplice come la sua. Rammentavo l'America e tutte le responsabilità che mi gravavano sulle spalle. - No, Yogananda, - dissi a me stesso in un momento di tristezza, - in questa vita l'errare sulle rive del Gange non ti è concesso. Dopo che il sadhu ci ebbe illustrato alcune delle sue realizzazioni spirituali, gli posi una brusca domanda: "Queste descrizioni le prendi da un testo delle Scritture, o sono tue esperienze interiori?". "Metà le prendo da quanto ho appreso dai libri", mi rispose con un aperto sorriso, "e metà dalle mie proprie esperienze". Sedemmo per un poco, felici, in meditativo silenzio. Dopo esserci allontanati dalla sua santa presenza, dissi a Wright: "E' un re assiso su un trono di paglia d'oro".
Quella sera pranzammo sul terreno del mela, sotto le stelle, mangiando su piatti di foglie unite tra loro con dei bastoncini. La lavatura dei piatti è ridotta al minimo, in India! Ancora due giorni dell'affascinante kumbha: poi verso nord-ovest lungo le rive del Jumma, ad Agra. Vidi un'altra volta il Taj Mahal; nella memoria Jitendra mi stava a fianco, impressionato da quel sogno di marmo; procedemmo poi per giungere a Brindaban, all'ashram di Swami Keshabananda. Il mio scopo nell'andare a trovare Keshabananda si collegava a questo libro. Non avevo mai dimenticato la richiesta fattami da Sri Yukteswar di scrivere la vita di Lahiri Mahasaya. Durante il mio soggiorno in India coglievo ogni occasione per entrare in diretto contatto con i discepoli e i parenti dello Yogavatar. Registravo le loro conversazioni in voluminosi appunti; verificavo fatti e date e raccoglievo fotografie, vecchie lettere, documenti. Il mio incartamento su Lahiri Mahasaya diventava sempre più voluminoso, e mi avvidi con costernazione che mi attendeva un arduo lavoro di scrittore. Pregai di poter essere un biografo degno del grandissimo Guru. Vari suoi discepoli temevano che in un resoconto scritto il loro Maestro potesse risultare rimpicciolito o erroneamente interpretato. "E' difficile rendere giustizia con la fredda parola alla vita di un'incarnazione divina", mi aveva detto una volta Panchanon Bhattacharya. Anche altri discepoli molto vicini al Maestro si accontentavano di serbare lo Yogavatar celato nel loro cuore, come il precettore immortale. Nondimeno, memore della predizione di Lahiri Mahasaya sulla sua biografia, non risparmiai alcuno sforzo per scoprire e convalidare i fatti della sua vita terrena. Lo swami Keshabananda accolse con calorosa cordialità la nostra piccola comitiva a Brindaban, nel suo ashram di Katyayani Peith, un imponente edificio in mattoni con massicci pilastri neri, situato in un bellissimo giardino. Egli ci fece subito entrare in un salotto adornato da una grande fotografia di Lahiri Mahasaya. Lo swami si avvicinava ai novant'anni ma il suo corpo muscoloso irradiava forza e salute e i lunghi capelli, la barba bianca come neve, gli occhi brillanti di gioia gli conferivano davvero un aspetto patriarcale. Gli dissi che desideravo nominarlo nel mio libro sui Maestri dell'India. "Raccontatemi, vi prego, della vostra gioventù", gli chiesi con un supplichevole sorriso. I grandi yoghi sono spesso poco comunicativi.
Keshabananda ebbe un gesto d'umiltà: "C'è assai poco che abbia un'importanza esteriore. Praticamente tutta la mia vita si è svolta nelle solitudini dell'Himalaya viaggiando a piedi da una silente caverna all'altra. Per un po' di tempo ebbi un piccolo ashram fuori Hardwar, circondato da un boschetto d'alti alberi. Era un luogo di pace dove venivano pochi visitatori; la presenza ovunque dei cobra li teneva lontani", Keshabananda rise. "Poi l'inondazione del Gange spazzò via eremitaggio e cobra. Allora i miei discepoli m'aiutarono a costruire questo ashram a Brindaban". Uno della nostra comitiva chiese allo Swami come si era protetto dalle tigri dell'Himalaya (Nota: Pare che vi siano molti metodi per difendersi dalle tigri. Un esploratore australiano Francis Birtles, raccontò di aver trovato le jungle indiane "varie, bellissime e sicure". Il suo incantesimo per renderle sicure era la carta moschicida. "Ogni notte", egli spiegò, "distendevo una quantità di fogli di carta moschicida intorno al mio accampamento e non fu mai disturbato. La ragione è psicologica: la tigre è un animale di grande e cosciente dignità; gira in cerca di preda e sfida l'uomo finché non giunge alla carta moschicida: allora furtivamente se ne va umiliata. Nessuna dignitosa tigre oserebbe presentarsi alla faccia dell'uomo dopo essersi acquattata su un'appiccicosa carta moschicida!". Fine nota). Keshabananda scosse il capo: "In quelle altitudini spirituali", disse, "è raro che le fiere molestino uno yoghi. Una volta, nella giungla, m'incontrai faccia a faccia con una tigre; alla mia subitanea esclamazione la belva si arrestò come impietrita". E di nuovo lo Swami ebbe una risatina, nel ricordare. "A volte abbandonavo il mio ritiro per visitare il mio Guru a Benares. Egli scherzava con me sui miei continui viaggi nell'Himalaya selvaggio. " - Hai il marchio del vagabondaggio sui piedi, - mi disse un giorno Sono contento che il sacro Himalaya sia abbastanza esteso per te. "Molte volte", continuò Keshabananda, "prima e dopo il decesso, Lahiri Mahasaya mi è apparso nel corpo. Per lui, nessuna cima himalayana è inaccessibile!." Due ore più tardi lo Swami ci condusse nel patio da pranzo. Sospirai in silenziosa costernazione: un altro pranzo di quindici portate! In meno di un anno di ospitalità indiana ero ingrassato di venticinque chili. Eppure rifiutare anche una sola delle vivande preparate con tanta cura per gli interminabili banchetti in mio onore sarebbe stato considerato il colmo della scortesia. In India (e ahimé in nessun altro paese!) uno swami ben imbottito è considerato un bellissimo spettacolo. (Nota: Dopo il ritorno in America persi circa trenta chili. Fine nota).
Dopo il pranzo, Keshabananda mi condusse in una nicchia appartata. "Il tuo arrivo non mi è giunto inaspettato", mi disse. "Ho un messaggio per te." Rimasi sorpreso; nessuno aveva saputo della mia intenzione di andare a trovare Keshabananda. Lo Swami continuò: "Mentre vagavo l'anno scorso, per le montagne dell'Himalaya settentrionale presso Badrinarayan, smarrii la strada. Trovai rifugio in una grotta spaziosa e vuota, benché delle braci ardessero in una buca del terreno roccioso. Sedetti vicino al fuoco, lo sguardo fisso sull'entrata della caverna inondata di sole, chiedendomi chi potesse essere l'abitatore di quel solitario ritiro. " - Keshabananda, sono lieto che tu sia qui, - risuonò una voce alle mie spalle. Mi volsi spaventato e rimasi abbagliato alla vista di Babaji! Il grande Guru si era materializzato in un recesso della caverna. Traboccante della gioia di poterlo rivedere dopo tanti anni, mi prostrai ai suoi sacri piedi. - Ti ho chiamato qui, - continuò Babaji; - è per questo che hai smarrito la strada e sei stato condotto alla mia temporanea dimora in questa caverna. Molto tempo è passato dal nostro ultimo incontro; sono lieto di poterti salutare un'altra volta. "L'immortale Maestro mi benedì con alcune parole di elevazione spirituale; poi aggiunse: - Ti do un messaggio per Yogananda. Egli ti farà una visita quando tornerà in India. Molte faccende in rapporto col suo Guru e con i discepoli sopravvissuti di Lahiri Mahasaya terranno Yogananda pienamente occupato; digli, allora, che questa volta non verrò da lui, com'egli invece ardentemente spera. Lo vedrò in qualche altra occasione". Fui profondamente commosso nell'udire dalle labbra di Keshabananda la consolante promessa di Nanaji. Una certa ferita nel mio cuore si rimarginò all'istante; non mi doleva più il fatto che, come Sri Yukteswar aveva predetto, Babaji non fosse apparso al Kumbha Mela. Dopo aver trascorso una notte quali ospiti dell'ashram, la nostra comitiva ripartì nel pomeriggio seguente per Calcutta. Nell'attraversare un ponte sul fiume Jumma ci fu offerto il magnifico spettacolo del sole calante dietro Brindaban che infiammò il cielo; una vera fornace di Vulcano che si rifletteva nelle calmissime acque sotto di noi. Il lido di Jumma è santificato dai ricordi di Sri Krishna bambino. Qui, egli con dolce innocenza, si dava ai suoi lila (giochi) con le gopi (ancelle), dando esempio del supremo amore che sempre esiste fra un'incarnazione divina e i suoi fedeli. La vita di Krishna Signore è stata mal compresa da molti commentatori occidentali. Le allegorie nelle Scritture confondono le menti letterate; per chiarire efficacemente questo punto, cito il comico equivoco in cui incorse un traduttore di un ispirato santo del Medio Evo, il
ciabattino Ravidas, che col semplice linguaggio del suo mestiere canta la gloria spirituale che si cela in tutta l'umanità: Sotto la vasta volta azzurra Vive la divinità ammantata di segreto. Vien fatto di voltarsi per nascondere un sorriso nell'udire la pedestre interpretazione del poema di Ravidas, fatta da un erudito scrittore occidentale: "Poi costruì una capanna e vi pose un idolo che egli stesso aveva ricavato da un pezzo di cuoio, e si accinse a adorarlo". (Nota: La falsa interpretazione è dovuta alla parola hide, che in inglese significa segreto, nascosto e anche cotenna, cuoio. Fine nota). Ravidas, un confratello del grande Kabir, fu il Guru di una degna chela, la Rani (Principessa) di Chitor. Ella invitò un gran numero di Brahmini a una festa da lei data in onore del suo Maestro, ma essi rifiutarono di mangiare con un umile ciabattino. Sedutisi a dignitosa distanza per consumare ciascuno il proprio incontaminato pasto, ogni brahmino trovò accanto a sé la forma di Ravidas. Questa visione collettiva provocò una vasta e intensa rinascita spirituale a Chitor. In pochi giorni il nostro gruppetto raggiunse Calcutta. Ansioso di vedere Sri Yukteswar, fui deluso nell'apprendere che aveva lasciato Serampore e stava ora a Puri, circa trecento miglia a sud. "Vieni subito all'ashram di Puri". Questo telegramma fu inviato l'8 marzo da un confratello ad Arul Chandra Roy Chowchry, uno dei chela del Maestro a Calcutta. Seppi del messaggio, e angosciato per il suo significato implicito caddi in ginocchio e implorai Dio di risparmiare la vita del mio Guru. Mentre mi accingevo a lasciare la casa di mio padre per prendere il treno, una Voce Divina parlò dentro di me: - Non andare a Puri stasera. La tua preghiera non può essere esaudita. Colpito dal dolore, esclamai: "Signore, Tu non vuoi che io vado a Puri, perché non desideri dover continuamente respingere le mie incessanti preghiere per la vita del Maestro. Deve egli dunque andarsene per compiere più alti doveri al Tuo comando?". In obbedienza all'ordine interiore quella sera non andai a Puri. La sera dopo l'incamminai verso il treno; sulla strada, alle sette, una nera nuvola astrale a un tratto ricoprì il cielo. (Nota: Il mio Guru entrò nel mahasamadhi appunto a quell'ora, cioè alle sette di sera del 9 marzo 1936. Fine nota). Più tardi, in treno, mentre il convoglio sbuffava procedendo verso Puri, la visione di Sri Yukteswar apparve davanti a me: Egli sedeva con espressione molto grave e con una luce a ogni lato. "E' tutto finito?". Sollevai le braccia supplichevole.
Egli annuì, poi lentamente scomparve. La mattina seguente, a Puri, mentre ero sulla piattaforma del treno, ancora sperando malgrado tutto, uno sconosciuto mi si avvicinò e mi disse: "Avete saputo che il vostro Maestro se n'è andato?". E mi lasciò senza dire altro; non riuscii mai a scoprire chi fosse, né come avesse saputo dove trovarmi. Ammutolito, barcollai contro la parete della piattaforma, comprendendo che, in modi diversi, il mio Guru cercava di darli la terribile notizia. Bollente di ribellione, la mia anima era un vulcano. Quando giunsi all'eremitaggio ero vicino a un collasso. La Voce interiore mi ripeteva teneramente: - Stai calmo. Riprenditi. Tremando, entrai nella stanza dell'ashram dove il corpo del Maestro, che pareva incredibilmente vivo, era seduto nella posizione del loto, vero ritratto di salute e di bellezza. Poco prima di morire, il Guru era stato colto da una leggera febbre, ma prima del giorno della sua ascesa all'Infinito il suo corpo era completamente guarito. Per quanto fissassi le sue care forme, non riuscivo a convincermi che non avessero più vita: la pelle era liscia e morbida, il viso aveva un'espressione beata di tranquillità. Aveva abbandonato coscientemente il suo corpo, nell'ora del mistico richiamo. "Il leone del Bengala non è più!", gridai disperato. Condussi i riti solenni il 10 marzo. Sri Yukteswar fu sepolto con l'antico rituale degli swami, nel giardino del suo eremitaggio di Puri. (Nota: Le tradizioni funerarie in India richiedono la cremazione per i capi di famiglia. Gli swami e i monaci di altri Ordini non vengono cremati, bensì sepolti. [A volte vi sono delle eccezioni]. Si considera simbolicamente che i corpi dei monaci abbiano già subito la cremazione nel fuoco della saggezza al momento di prendere i voti monastici. Fine nota). In seguito, i discepoli giunsero da ogni parte per onorare il Maestro con una cerimonia che si svolse all'equinozio di primavera. L'Amrita Bazar Patrika, il principale giornale di Calcutta, ne riportò, col suo ritratto, la relazione seguente: "La cerimonia funebre Bhandara per Srimat Swami Sri Yukteswar Giri Maharaj, di 80 anni, ha avuto luogo a Puri il 21 marzo. Molti discepoli erano giunti a Puri per il rito. "Lo Swami Maharaj, uno dei maggiori commentatori della Bhagavad Gita, era un grande discepolo dello Yogiraj Sri Shyama Charan Lahiri Mahasaya di Benares. Swami Maharaj fu il fondatore in India di vari centri Yogoda Satsanga (comunità d'Autorealizzazione), e fu il grande ispiratore del movimento Yoga portato in Occidente da Swami Yogananda, il suo maggiore discepolo. Furono i poteri profetici e le profonde realizzazioni di
Sri Yukteswar che ispirarono lo Swami Yogananda ad attraversare gli oceani per divulgare in Occidente il messaggio dei Maestri dell'India. "Le sue interpretazioni della Bhagavad Gita e di altre Scritture dimostrano la profonda padronanza che Sri Yukteswar aveva della filosofia sia orientale che occidentale, e aprono gli occhi al mondo sull'essenziale unità fra Oriente e Occidente. Convinto assertore dell'unità di tutte le fedi religiose, Sri Yukteswar fondò la Sadhu Sabha (Società dei Santi) con la cooperazione dei capi di varie sette e religioni, per la diffusione di uno spirito scientifico della religione. Quando si ritirò dalle sue attività, egli nominò Swami Yogananda suo successore alla presidenza del Sadhu Sabha. "L'India è oggi davvero impoverita dal trapasso di questo grande uomo. Possano tutti coloro che ebbero la fortuna di avvicinarlo, inculcare su se stessi il vero spirito della cultura indiana e del sadhana (disciplina spirituale) personificati in lui". Tornai a Calcutta. Poiché non avevo ancora la forza di recarmi all'eremitaggio di Serampore, così pieno delle sacre memorie del mio Guru, feci chiamare Prafulla, il piccolo discepolo di Sri Yukteswar a Serampore, e presi accordi con lui per farlo entrare nella scuola di Ranchi. "La mattina che partiste per il Mela di Allahabad", disse Prafulla, "il Maestro cadde pesantemente sul divano e gridò: "Yogananda se n'è andato! Yogananda se n'è andato! - e aggiunse misteriosamente: - Dovrò dirglielo in qualche modo. - Poi sedette per ore in silenzio". I miei giorni erano riempiti da conferenze, lezioni, interviste e incontri con vecchi amici. Sotto il mio vuoto sorriso e una vita di incessante attività, una corrente di neri pensieri inquinava l'intimo fiume dell'estasi che da tanti anni serpeggiava sotto le sabbie di tutte le mie percezioni. "Dov'è andato quel Saggio divino? - piangevo silenziosamente nelle profondità del mio spirito tormentato. Nessuna risposta veniva. - E' meglio che il Maestro abbia completato la sua unione con l'Amato Cosmico, - mi assicurava la mente. - Egli brilla eternamente nel regno dell'immortalità. - Mai più lo rivedrai nella vecchia casa di Serampore, - gemeva il mio cuore. - Non più condurrai gli amici a visitarlo, né dirai con orgoglio: 'Vedete, ecco lo Jnanavatar dell'India!'. Wright prese accordi perché la nostra comitiva potesse salpare da Bombay ai primi di giugno per tornare in Occidente. In maggio, dopo quindici giorni di banchetti d'addio e discorsi a Calcutta, partimmo nella
Ford per Bombay. Al nostro arrivo, le autorità navali ci chiesero di rinunciare all'imbarco perché non si trovava posto per la Ford, di cui avremmo avuto ancora bisogno in Europa. "Non importa", dissi cupamente a Wright, "voglio ritornare ancora una volta a Puri". E aggiunsi dentro di me: - Vadano le mie lacrime ancora una volta a bagnare la tomba del mio Guru.
CAPITOLO XLIII LA RESURREZIONE DI SRI YUKTESWAR "Krishna Signore!" La forma gloriosa dell'avatar apparve in un tremolante sfolgorìo, mentre sedevo nella mia stanza al Regent Hotel di Bombay. Sospesa sopra il tetto di un grande edificio che mi stava di fronte, l'ineffabile visione era sorta a un tratto dinanzi a me, mentre guardavo fuori dalla finestra aperta del terzo piano. La divina figura mi fece un cenno di saluto, sorridendo e chinando il campo. Quando vide che non potevo comprendere con precisione il suo messaggio, il Signore Krishna se ne andò con un gesto di benedizione, lasciandomi in uno stato di meravigliosa elevazione interiore; sentii che si preannunziava un evento spirituale. Per il momento il mio viaggio in Occidente era stato rinviato. Dovevo tenere varie conferenze pubbliche a Bombay prima di ripartire per una visita d'addio a Calcutta e a Puri. Seduto sul mio letto nell'albergo a Bombay, alle tre del pomeriggio del 19 giugno 1936, una settimana dopo la visione di Sri Krishna, fui strappato alla mia meditazione dall'apparire di una luce divina. Dinanzi ai miei occhi aperti e stupiti tutta la stanza si era trasformata in un mondo strano, e la luce del sole in un superno splendore. Ondate di rapimento mi sommersero quando vidi dinanzi a me, in carne ed ossa, la figura di Sri Yukteswar! "Figlio mio!". Il Maestro parlava con tenerezza e il suo volto era soffuso di un sorriso da incantare gli angeli. Per la prima volta in vita mia non m'inginocchiai ai suoi piedi per salutarlo, ma mi slanciai istantaneamente verso di lui per stringerlo bramosamente fra le mie braccia. Momento indicibile! Tutta l'angoscia dei mesi passati era ripagata e cancellata dal torrente di felicità che si riversava ora su di me. "Maestro mio, amato del mio cuore, perché mi avete lasciato?". L'eccesso della gioia mi rendeva incoerente. "Perché mi lasciaste andare al Kumbha Mela? Quanto amaramente mi sono rimproverato d'essere andato via!". "Non volevo guastare la tua gioia alla prospettiva di vedere il luogo di pellegrinaggio dove per la prima volta incontrai Babaj. Ti ho lasciato solo per un poco! Non sono forse ancora con te?".
"Ma siete proprio voi, Maestro, proprio il Leone di Dio? Avete ancora un corpo come quello che seppellii sotto le crudeli sabbie di Puri?". "Si, figlio mio, sono lo stesso. Questo è un corpo di carne e ossa. Sebbene io lo veda etereo, alla tua vista esso è fisico. Dagli atomi cosmici ho creato un corpo completamente nuovo, esattamente uguale a quel corpo fisico del cosmico sogno che tu ponesti sotto le sabbie di sogno a Puri, nel tuo mondo di sogno. Sono in verità risorto; non sulla terra, ma su un pianeta astrale i cui abitanti possono, meglio degli uomini, porsi al mio livello spirituale. Là, un giorno, tu e i grandi spiriti che ami, verrete con me!". "Guru immortale! Ditemi di più". Il Maestro scoppiò in una risatina rapida e allegra. "Ti prego, caro, non puoi allentare un poco la tua stretta?". "Solo un poco!". Lo abbracciavo con una stretta tentacolare e percepivo lo stesso lieve, fragrante odore naturale che era stato caratteristico del suo corpo terreno. L'elettrizzante contatto della sua carne divina ancora si rinnova nella parte interna delle mie braccia e nelle palme delle mie mani ogni volta che richiamo alla memoria quelle ore gloriose. "Come i profeti vengono inviati sulla terra per aiutare gli uomini a liberarsi del loro karma nel mondo fisico, così io fui mandato da Dio a servire su un pianeta astrale come salvatore", spiegò Sri Yukteswar. "Questo pianeta si chiama Hiramyaloka, o 'Illuminato Pianeta Astrale'. Là aiuto gli esseri progrediti a liberarsi del loro karma astrale e a giungere così alla liberazione da nuove rinascite astrali. Coloro che vivono sull'Hiranyaloka sono altamente sviluppati spiritualmente; tutti, nella loro ultima incarnazione terrena, avevano già acquisito il potere che si ottiene attraverso la meditazione, di abbandonare coscientemente il corpo fisico al momento della morte. Nessuno può entrare nell'Hiranyaloka se non ha conseguito, oltre lo stato del sabikalpa samadhi, anche il più alto stato del nirbikalpa samadhi. (Nota: V. Cap. XXVI. Nel sabikalpa samadhi il devoto raggiunge la realizzazione, ossia la coscienza temporanea della propria unità con lo Spirito, ma non può serbare la coscienza cosmica fuorché nell'immobile stato dell'estasi. Con la continua meditazione egli raggiunge lo stato superiore del nirbikalpa samadhi, dove liberamente si muove nel mondo e compie tutti i suoi doveri esteriori senza perdere la percezione di Dio. Nel nirbikalpa samadhi lo yoghi dissolve le ultime vestigia del suo karma terrestre. Egli ha però ancora del karma astrale e causale da eliminare, per cui deve ancora rivestirsi di corpi astrali e poi causali in sfere vibratorie altissime. Fine nota).
"Coloro che abitano l'Hiranyaloka hanno già attraversato le comuni sfere astrali, dove quasi tutti gli esseri della terra devono andare al momento della morte. Là essi hanno bruciato molti semi del loro karma accumulato nel cosmo astrale. Solo gli spiriti progrediti possono compiere efficacemente tale opera di redenzione nei mondi astrali. (Nota: Perché la maggior parte delle anime, affascinata dalla bellezza e dalle gioie del mondo astrale, non sente alcuna necessità di fare uno strenuo sforzo per progredire. Fine nota) Allora per liberarsi d'ogni traccia di irredento karma astrale, questi esseri superiori furono condotti dalla legge cosmica a rinascere con nuovi corpi astrali sull'Hiranyaloka, il sole astrale o cielo, dove io sono risorto per aiutarli. Là si trovano pure esseri quasi perfetti venuti da un mondo superiore, cioè quello causale, allo scopo di imparare certe lezioni". La mia mente era ormai in sintonia così perfetta con quella del mio Guru che egli mi comunicava tutto ciò in parte con parole e in parte mediante la trasmissione del pensiero. Perciò accoglievo rapidamente i suoi schemi di idee. Il Maestro proseguì: "Hai letto nelle Scritture che Dio racchiuse l'anima umana successivamente in tre corpi: il corpo-idea, o corpo causale; il sottile corpo astrale, sede della natura mentale e emotiva dell'uomo; e lo spesso corpo fisico. Sulla terra l'uomo è munito dei suoi sensi fisici. Un essere astrale opera con la coscienza e i sentimenti e con un corpo fatto di vitatroni. (Nota: Sri Yukteswar [che parlò in bengali durante tutta la lunga conversazione] usò la parola prana, che ho tradotta in "vitatroni". Le Scritture indù parlano dell'anju [atomo], del paramanu [al di là dell'atomo] e del prana [forza creativa vitatronica]. Atomi e elettroni sono forze cieche, mentre il prana è intrinsecamente intelligente. Ad esempio il prana, [o vitatroni] nello spermatozoo e nell'ovulo, determina lo sviluppo dell'embrione secondo uno schema karmico. Fine nota). Un essere dotato del solo corpo causale rimane nel mirabile regno delle idee. Il mio compito si svolge presso quegli esseri astrali che si preparano a entrare, o a rientrare, nel mondo causale". "Adorabile Maestro, vi prego, ditemi ancora qualcosa sul cosmo astrale". Sebbene avessi un po' allentato la stretta, secondo la richiesta di Sri Yukteswar, le mie braccia ancora lo cingevano. Tesoro al di là di ogni tesoro il mio Guru, che si era fatto beffe della morte per raggiungermi! "Vi sono molte sfere astrali piene di tali esseri", ricominciò a dire il Maestro. "I loro abitanti usano veicoli astrali o masse di luce, per viaggiare da un pianeta all'altro più velocemente dell'elettricità e delle energie radioattive.
"L'universo astrale, fatto di sottili vibrazioni di luce e di colori, è centinaia di volte più grande del cosmo materiale. Tutta la creazione fisica è appesa come un solido, piccolo paniere all'immenso pallone della sfera astrale. Come vi sono molti soli e molte stelle fisiche che viaggiano nello spazio, così vi sono pure innumerevoli sistemi solari e stellari astrali. "I soli e le lune astrali sono assai più belli di quelli fisici. Le luci astrali assomigliano alle aurore boreali; ma la solare aurora astrale è più splendente della mite aurora lunare. I giorni e le notti astrali sono più lunghi di quelli della terra. "Il mondo astrale è bello, nitido, puro, ordinato. Non vi sono pianeti morti né terre sterili. Tutte le imperfezioni della terra: erbe cattive, batteri, insetti, serpi, sono assenti. A differenza dei climi variabili e delle stagioni terrestri, i pianeti astrali mantengono costantemente la temperatura di un'eterna primavera, interrotta a volte da bianche nevi luminose e piogge di luci multicolori. Nei pianeti astrali abbondano laghi opalini, mari lucenti e fiumi iridati. "L'universo astrale comune - non il più etereo cielo astrale di Hiranyaloka - è popolato da milioni di esseri astrali che vi sono giunti dalla terra in periodi più o meno recenti, e anche da miriadi di fate, sirene, pesci, animali, folletti e gnomi, semidei e fantasmi: tutti risiedono in pianeti astrali diversi, secondo le loro qualifiche karmiche. Differenti zone sferiche o regioni vibratorie sono pronte per ricevere gli spiriti buoni e cattivi. I buoni possono spostarsi liberamente, ma gli spiriti cattivi sono confinati in zone limitate. Come gli esseri umani vivono sulla superficie ella terra, i vermi nell'interno del suolo, i pesci nell'acqua e gli uccelli nell'aria, così gli esseri astrali di gradi diversi vengono assegnati a regioni vibratorie diverse a loro adatte. "Fra i tenebrosi angeli caduti, espulsi da vari mondi astrali, avvengono liti e guerre mediante bombe vitatroniche, o raggi vibratori di mantram mentali. (Nota: Tali mantram sono 'semi' di suoni cantati, sparati mentalmente dal cannone della concentrazione. I Purana [antichi shastra o trattati] descrivono tali guerre mantriche fra deva e asura [dei e demoni]. Una volta un asura cercò di uccidere un deva con un potente cantico, ma avendolo pronunciato male, la bomba mentale agì da boomerang e uccise il demone. Fine nota). Questi esseri sono relegati nelle oscure regioni del cosmo astrale inferiore, dove opera il loro cattivo karma. "Nei vasti reami al di là dell'oscura prigione astrale, tutto è bello e luminoso. Il cosmo astrale è più naturalmente intonato alla volontà e al piano di perfezione divini che non la terra. Ogni oggetto astrale è
manifestato primariamente dalla volontà di Dio e in parte dal richiamo della volontà degli esseri astrali. Essi hanno il potere di modificare la forma o di aumentare la grazia di qualsiasi cosa già creata dal Signore. Egli diede alle sue creature astrali il felice privilegio di mutare o ricombinare a volontà le sostanze astrali. Sulla terra un corpo solido deve esser trasformato in liquido o in altra forma mediante un processo naturale o chimico; ma i corpi solidi astrali si trasformano in liquidi, in gas o energia atomica istantaneamente e unicamente per il volere degli abitanti. Questi effettuano trasformazioni istantanee nei loro corpi o in altri oggetti mediante l'uso della forza vitatronica (o pranica) e per mezzo di vibrazioni mantriche. "Il mondo è funestato da guerre e assassinii in mare, in terra e nell'aria", continuò il mio Guru, "ma i reami astrali conoscono solo una felice armonia e giustizia. Gli esseri astrali smaterializzano o materializzano le loro forme a volontà; i fiori, i pesci e gli altri animali possono trasformarsi, per un certo tempo, in uomini astrali. Tutti gli esseri astrali sono liberi di assumere qualsiasi forma e possono facilmente comunicare fra loro. Nessuna legge naturale fissa può limitarli; per esempio, a ogni albero astrale si può richiedere di produrre un mango astrale o un altro frutto o fiore o qualsiasi cosa si desideri. Esistono alcune restrizioni karmiche, ma nel mondo astrale nessuna forma è più o meno desiderabile. Ogni cosa vibra della luce creativa di Dio. "Nessuno è nato da donna. Gli esseri astrali possono materializzare la loro progenie in forme astrali di conformazione significativa, mediante la sola volontà intonata alla volontà divina. L'essere disincarnato di recente sulla terra giunge in una famiglia astrale dietro invito, attratto da tendenze mentali e spirituali affini. "Il corpo astrale non è soggetto al freddo, al caldo o ad altre condizioni naturali. L'anatomia annovera un cervello astrale, in cui l'onnisciente loto di luce dai mille petali è parzialmente attivo, e sei centri risvegliati nel sushumna, l'asse cerebro-spinale astrale. Il cuore assorbe energia cosmica e luce dal cervello astrale e le pompa nei nervi e nelle cellule corporee astrali, o vitatroni. "Gli esseri astrali sono in grado di effettuare cambiamenti della loro forma mediante la forza vitatronica e sacre vibrazioni mantriche. "Nella maggior parte dei casi il corpo astrale è una copia esatta dell'ultima forma fisica. Il volto e la figura d'una persona astrale rassomigliano a quelli della sua giovinezza nel precedente soggiorno terreno. Talvolta, qualcuno, come me, sceglie di serbare l'aspetto della sua vecchiaia". Il Maestro, che emanava l'essenza stessa della gioventù, ebbe una risatina.
"A differenza del mondo fisico spaziale e tridimensionale conosciuto dall'uomo solo mediante i cinque sensi", continuò Sri Yukteswar, "le sfere astrali sono percepite dal sesto senso che include tutto, cioè l'intuizione. Per pura sensazione intuitiva, tutti gli esseri astrali vedono, odono, odorano, gustano e toccano. Essi posseggono tre occhi, due dei quali sono parzialmente chiusi. Il terzo e principali occhio astrale, piazzato verticalmente sulla fronte, è aperto. Gli uomini astrali hanno tutti gli organi sensori esterni: orecchi, occhi, naso, lingua, pelle; ma usano il senso intuitivo per avvertire le sensazioni con qualsiasi parte del corpo; essi possono vedere con l'orecchio o il naso o la pelle, udire con gli occhi o con la lingua, gustare sapori attraverso le orecchie o la pelle e così via. (Nota: Esempi di tali poteri non mancano nemmeno sulla terra, come nel caso di Helen Keller e altri esseri speciali. Fine nota). "Il corpo fisico dell'uomo è esposto a infiniti pericoli e può facilmente esser ferito o mutilato; l'etereo corpo astrale può a volte esser lacerato o contuso, ma risana subito mediante la sola volontà". "Gurudeva, sono tutti belli gli esseri astrali?". "Nel mondo astrale si sa che la bellezza è una qualità spirituale e non una conformazione esteriore", mi rispose Sri Yukteswar. "Perciò gli esseri astrali danno poca importanza ai tratti del volto; tuttavia essi hanno il privilegio di potersi rivestire a volontà di corpi nuovi, coloriti, materializzati astralmente. Proprio come gli uomini sulla terra mettono vesti nuove per i giorni di gala, così gli esseri astrali in date occasioni assumono forme particolari. "Le grandi e gioiose feste sui più alti pianeti astrali come l'Hirnyaloka hanno luogo quando un essere si libera dal mondo astrale mediante il progresso spirituale, ed è perciò pronto per entrare nel cielo del mondo causale. In tali occasioni l'invisibile Padre Celeste e i Santi immersi nel Suo essere, si materializzano in meravigliosi corpi astrali e partecipano alla celebrazione. Per compiacere il Suo amato figlio, il Signore assume qualsiasi forma che sia a questi più cara. Se il devoto Lo ha adorato sotto forma della Madre Divina, egli Lo vede in tale veste. Gesù era attratto soprattutto dall'aspetto paterno dell'Uno Infinito. L'individualità di cui il Creatore ha dotato ognuna delle Sue creature avanza pretese concepibili e inconcepibili alla versatilità del Signore". Il mio Guru ed io ridemmo insieme, felici. "Coloro che furono amici in altre vite, facilmente si riconoscono nel mondo astrale", continuò a dire Sri Yukteswar con la sua bellissima voce flautata. "Rallegrandosi dell'immortalità dell'amicizia, essi realizzano
l'indistruttibilità dell'amore, tante volte messa in dubbio al momento delle tristi e ingannevoli separazioni nella vita terrena. "L'intuizione degli esseri astrali penetra attraverso il velo e osserva le attività umane sulla terra, ma l'uomo non può scorgere il mondo astrale, a meno che il suo sesto senso non sia sviluppato in modo particolare. Migliaia di persone sulla terra hanno intravisto per un attimo un essere astrale o un mondo astrale. (Nota: Sulla terra, talvolta, fanciulli dall'animo puro possono vedere i graziosi corpi astrali delle fate. Le droghe o l'alcool, proibiti da tutte le Scritture, possono così sconvolgere la mente di un uomo da costringerlo a vedere le terribile forme che popolano gli inferni astrali. Fine nota). "Gli esseri progrediti dell'hiranyaloka rimangono generalmente svegli nell'estasi del nirbikalpa durante i lunghi giorni e le lunghe notti astrali, aiutando a risolvere gli intricati problemi del governo cosmico e adoperandosi perla redenzione dei figliuoli prodighi, le anime legate alla terra. Quando dormono, gli esseri dell'Hiranyaloka hanno a volte esperienze e visioni astrali simili ai sogni. "Ma gli abitanti di tutte le parti del cosmo astrale sono ancora soggetti alle sofferenze mentali. Le menti sensibili degli esseri superiori, sui pianeti come l'Hiranyaloka, provano un'acutissima pena se vedono compiere errori nella condotta o nella percezione della verità. Questi esseri superiori si sforzano di adeguare ogni loro atto e pensiero alla perfezione della legge spirituale. "Le comunicazioni fra gli abitanti di tutti i mondi astrali si attuano unicamente mediante la telepatia e la 'televisione astrale'. Le confusioni e i malintesi causati sulla terra dalla parola, enunciata o scritta, sono sconosciuti nei regni astrali. Come noi possiamo capire che i personaggi sullo schermo sono immagini prodotte dalla luce, che si muovono e agiscono senza respirare, così si possono concepire gli abitanti dei mondi astrali quali persone la cui essenza è luce, e che camminano e lavorano quali esseri intelligentemente guidati e coordinati, senza che la loro animazione dipenda dall'ossigeno. L'uomo ha bisogno, per il suo sostentamento, dei corpi solidi, liquidi, gassosi e dell'energia vitale dell'aria; ma gli esseri astrali si alimentano principalmente di luce cosmica". "Maestro mio, gli esseri astrali mangiano?". Mi abbeveravo dei suoi meravigliosi chiarimenti con tutte le mie facoltà: mente, cuore e anima. Le fuggevoli esperienze e le impressioni dei sensi non sono che temporaneamente e relativamente vere, e presto, nel ricordo, perdono ogni
sembianza di vita. Ma le percezioni supercoscienti della verità sono perennemente reali e immutabili. Le parole del mio Guru sono impresse così profondamente in me che in qualsiasi momento, entrando nel samadhi, posso chiaramente rivivere la divina esperienza. "Luminosi ortaggi di natura radiante abbondano nei terreni astrali", egli mi rispose. "Gli esseri astrali mangiano verdure e bevono un nettare che sgorga da gloriose fontane di luce e da ruscelli e fiumi astrali. Come, sulla terra, immagini visibili possono essere captate dell'etere, rese visibili mediante un apparecchio televisivo e poi di nuovo svanire nello spazio, così gli invisibili modelli astrali di ortaggi, frutta e piante creati da Dio e fluttuanti nell'etere, vengono precipitati sui pianeti astrali dalla volontà dei suoi abitanti. Allo stesso modo, dalle casuali fantasie degli esseri astrali nascono immensi giardini di fiori fragranti, per essere poi restituiti alla loro eterea invisibilità. "Benché gli abitanti dei pianeti celesti come l'Hiranyaloka, siano pressoché liberi dalla necessità di prender cibo, ancora più libera e incondizionata è l'esistenza degli esseri quasi perfetti del mondo causale, che non si nutrono che della manna dell'estasi. "L'essere astrale incontra una moltitudine di figli, padri, mogli, mariti e amici avuti durante le varie incarnazioni sulla terra, quando di tanto in tanto, quegli esseri appaiono in varie parti del cosmo astrale. (Nota: Al Signore Buddha un giorno fu chiesto perché un uomo deve amare tutti in egual modo. Il grande Maestro rispose: "Perché negli innumerevoli e vari periodi di vita di un uomo, ogni altro essere, una volta gli è stato caro". L'Isa Upanishad dà un altro orientamento a questo pensiero: "Colui che vede tutti gli esseri in se stesso, e se stesso in tutti gli esseri, non farà del male a nessuno". Fine nota). Egli perciò non sa più chi amare in particolare e impara a domare un divino e uguale amore a tutti, quali figli e manifestazioni individualizzate di Dio. Sebbene l'aspetto esteriore di coloro che abbiamo amati possa essere più o meno mutato secondo lo sviluppo di nuove qualità acquisite nell'ultima vita vissuta da ogni singola anima, l'essere astrale fa uso del suo infallibile intuito per riconoscere tutti coloro che gli furon cari su altri piani d'esistenza, e li accoglie nella loro nuova dimora astrale. Poiché nella creazione ogni atomo è munito di inestinguibile individualità, un amico astrale verrà sempre riconosciuto, qualsiasi veste egli indossi, proprio come accade sulla terra ove è possibile riconoscere l'identità di un attore, se lo si osserva attentamente, a dispetto d'ogni travestimento. (Nota: Le otto qualità elementari che si trovano in ogni vita
creata, dall'atomo all'uomo, sono: la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria, l'etere, il movimento, la mente e l'individualità. [Bhagavad Gita, VII, ]. Fine nota). "Un individuo rimane sul pianeta astrale per un periodo determinato dal suo karma materiale il quale, dopo un certo tempo prestabilito, inesorabilmente lo attira nuovamente sul piano terrestre. Alcuni individui, dopo la morte fisica, ritornano immediatamente sulla terra, di solito sospinti dal loro forte desiderio. La durata media dell'incarnazione astrale di esseri abbastanza progrediti è dai cinquecento ai mille anni (misurati in termini terrestri). Ma, come le sequoie sopravvivono ad altri alberi per millenni e come alcuni yoghi vivono varie centinaia d'anni, mentre la maggioranza degli individui muore prima dei sessanta, così alcuni esseri astrali eccezionali vivono nella sfera astrale anche fino a duemila anni. "L'essere astrale non deve combattere penosamente con la morte al momento di separarsi dal suo corpo luminoso; tuttavia alcuni di questi esseri provano un leggero nervosismo al pensiero di perdere la loro forma astrale per assumere quella più sottile nel mondo causale. "Il mondo astrale è libero da morte non voluta, da malattie e vecchiaia: queste tre minacce sono la maledizione della terra, dove l'uomo ha permesso alla sua coscienza d'identificarsi quasi completamente con un fragile corpo fisico che reclama il costante aiuto d'aria, cibo e sonno per continuare a esistere. "La morte fisica avviene con la cessazione del respiro e la disintegrazione delle cellule della carne. La morte astrale consiste invece nella dispersione dei vitatroni, le manifeste unità di energia che costituiscono la vita corporea degli esseri astrali. Al momento della morte fisica l'essere perde coscienza della carne e diviene consapevole del suo corpo sottile nel mondo astrale. Poiché a suo tempo sperimenterà anche la morte astrale, l'essere passa così dalla consapevolezza della nascita e della morte astrale a quella della nascita e morte fisica. Questi cicli ricorrenti di rivestimenti astrali e fisici sono l'ineluttabile destino di tutti gli esseri non illuminati. Le definizioni che le Scritture danno del cielo e dell'inferno, a volte agitano nell'uomo ricordi che sorgono da regioni più profonde del subcosciente, della lunga serie di esperienze avute nel felice mondo astrale e nel deludente mondo terreno". "Maestro amatissimo", gli chiesi, "volete per favore descrivermi con maggiori particolari la differenza tra la rinascita sulla terra e quella in altre sfere?". "L'uomo, quale anima individualizzata, è essenzialmente dotato di un corpo causale", egli mi spiegò. "Quella forma è una matrice delle trentacinque idee di Dio, ossia di quelle forze- pensiero basilari, o causali,
che Egli in seguito divise onde formare il sottile corpo astrale composto di diciannove elementi, e il denso corpo fisico di sedici elementi. "I diciannove elementi del corpo astrale sono mentali, emotivi e vitatronici. Essi sono: intelligenza, ego, sentimento, mente (coscienza sensoria); cinque strumenti di conoscenza, ossia i duplicati sottili dei sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto); cinque strumenti d'azione, ossia la controparte mentale delle facoltà esecutive: procreazione, escrezione, favella, deambulazione, esercizio delle capacità manuali; e infine cinque strumenti di forza vitale, che hanno la facoltà di svolgere le funzioni della cristallizzazione, assimilazione, eliminazione, metabolismo e circolazione. Questo sottile involucro astrale di diciannove elementi sopravvive alla morte del corpo fisico, che è costituito da sedici elementi densi, chimici e organici. "In trentacinque categorie-pensiero del corpo causale, Dio elaborò tutte le complessità dei corrispondenti diciannove elementi astrali e dei sedici elementi fisici nell'uomo. Mediante la condensazione delle forze vibratorie, prima sottili e poi spesse, Egli produsse il corpo astrale dell'uomo e infine la sua forma fisica. In virtù della legge di relatività, per cui la Semplicità Originaria divenne una sconcertante molteplicità, il cosmo e il corpo causali sono diversi dal cosmo e dal corpo astrali; e il cosmo fisico e il corpo fisico sono pure caratteristicamente diversi dalle altre forme della creazione. "Dio pensò in Se stesso idee diverse e le proiettò in sogni. Nacque così il Sogno Cosmico, abbellito da tutti i colossali e infiniti ornamenti della relatività. "Il corpo carnale è fatto dei sogni fissati e oggettivati del Creatore. Il dualismo è sempre presente sulla terra: malattia e salute, dolore e gioia, perdite e guadagno. Gli esseri umani trovano limitazione e resistenza nella materia tridimensionale. Quando la brama di vivere dell'uomo è gravemente scossa dalla malattia o da altre cause, sopraggiunge la morte; il pesante rivestimento di carne viene temporaneamente deposto. L'anima però resta racchiusa nei corpi astrale e causale. (nota: 'corpo' definisce qualsiasi involucro dell'anima, sia esso spesso o sottile. I tre corpi sono altrettante gabbie per l'uccello del Paradiso. Fine nota). La forza coesiva per cui i tre corpi si mantengono uniti è il desiderio. Il potere dinamico dei desideri inappagati è la radice della schiavitù dell'uomo. "Le brame fisiche scaturiscono dall'egoismo e dai piaceri dei sensi. La coercizione, o tentazione, che spinge all'esperienza sensoria è più potente
della forza del desiderio derivante dagli attaccamenti astrali o dalle percezioni causali. "I desideri astrali sono accentrati nel godimento in termini di vibrazioni. Gli esseri astrali gioiscono dell'eterea musica delle sfere e sono affascinati dalla vista di tutta la creazione quale inesauribile emanazione di luce cangiante. Così gli esseri astrali odorano, gustano e toccano la luce. I desideri astrali sono connessi al potere degli esseri astrali di partecipare tutti gli oggetti quali forme di luce e di vivere vibranti esperienze nel pensiero o nel sogno. "I desideri causali vengono appagati dalla sola percezione. Gli individui quasi liberi, racchiusi solo nel corpo causale, vedono l'intero universo quale proiezione dei sogni-idea di Dio; tali esseri vivono ogni esperienza solo nel puro pensiero. Essi considerano perciò il godimento delle sensazioni fisiche o delle delizie astrali come grossolano e soffocante per la fine sensibilità dell'anima. Gli esseri causali appagano ed eliminano i loro desideri materializzandoli istantaneamente. (Nota: Così Babaj aiutò Lahiri Mahasaya a liberarsi di un desiderio subconscio di qualche vita passata, di possedere cioè un palazzo, come descritto al Cap. XXXIV. Fine nota). Coloro che sono ricoperti solo del delicato velo del corpo causale, possono render manifesti interi universi, proprio come il Creatore. Poiché ogni Creazione è fatta del materiale di sogno cosmico, l'anima rivestita del lievissimo corpo causale possiede grandi poteri di realizzazione. "L'anima, essendo per sua natura invisibile, può essere distinta solo per la presenza del suo corpo o dei suoi corpi. Basta la presenza di un corpo per significare che la sua esistenza è resa possibile da desideri inappagati. (Nota: "Egli disse loro : "Dovunque è il corpo, là si raduneranno le aquile". [Luca, 17, 37]. Dovunque l'anima è racchiusa, sia nel corpo fisico sia in quello astrale o causale, le aquile del desiderio che si precipitano sull'umana debolezza dei sensi o sui legami astrali o causali, si raduneranno per tenere l'anima prigioniera. Fine nota). "Finché l'anima dell'uomo è racchiusa in uno, due o tre gusci corporei saldamente suggellati dai tappi dell'ignoranza e del desiderio, essa non può fondersi nel mare dello Spirito. quando il grossolano ricettacolo fisico è reciso dalla falce della morte, gli altri due involucri (l'astrale e il casuale) rimangono ad impedire all'anima di ricongiungersi consciamente alla Vita Onnipresente. Quando, attraverso la saggezza, si raggiunge l'annullamento dei desideri, il potere della saggezza disintegra i due involucri restanti. Allora la minuscola anima umana ne emerge finalmente libera, e diviene tutt'uno con l'Incommensurabile Ampiezza".
Chiesi al mio Guru divino di illuminarmi ancora sull'alto e misterioso mondo causale. "La sfera causale è indescrivibilmente sottile", egli rispose. "Per comprenderla, si dovrebbero possedere tali tremendi poteri di concentrazione da riuscire a visualizzare, chiudendo gli occhi, il cosmo astrale il cosmo fisico in tutta la loro immensità: il pallone luminoso con il solido paniere, come esistenti solamente in idea. Se, mediante questa sovrumana concentrazione, si riuscisse a convertire o a risolvere in pure idee i due cosmi con tutte le loro complessità, allora l'essere raggiungerebbe il mondo causale e si troverebbe sul limite della fusione tra mente e materia. Qui si percepiscono tutte le cose create: solidi, liquidi, gas, elettricità, energia e tutti gli esseri: divinità, uomini, animali, piante, batteri, quali forme di coscienza, così come un uomo può chiudere gli occhi ed essere conscio di esistere, anche se il suo corpo è invisibile al suo occhio fisico e gli è solamente presente come idea. "Tutto ciò che un essere umano può fare nella fantasia, un essere causale può attuarlo nella realtà. La più grande e fantasiosa intelligenza umana è solo mentalmente capace d andare col pensiero da un estremo all'altro, di balzare di pianeta a pianeta, o di precipitare senza fine in un abisso d'eternità, di lanciarsi come un razzo verso la volta celeste o di scintillare come una meteora fra le galassie e gli spazi siderali. "Ma gli esseri del mondo causale hanno una libertà d'azione assai maggiore e possono senza sforzo proiettare i loro pensieri oggettivandoli immediatamente, senza nessun ostacolo materiale o astrale o limitazione karmica. "Gli esseri causali realizzano che il cosmo fisico non è primariamente costruito di elettroni, né il cosmo astrale è formato basilarmente di vitatroni; entrambi sono in realtà creati da minute particelle del pensiero di Dio, spaccate e divise da maya, la legge di relatività che in apparenza interviene a separare il Fenomeno dal Noumeno, la creazione dal suo Creatore. "Gli esseri del mondo causale si riconoscono fra di loro come particelle individualizzate del gioioso Spirito; le loro cose-pensiero sono i soli oggetti che li circondano. Gli esseri causali vedono che le differenze tra i corpi e i pensieri non sono che idee. Come un uomo, chiudendo gli occhi, può visualizzare un'abbagliante luce bianca o una nebbia di un pallido azzurro, così gli esseri causali possono vedere, sentire, udire, gustare e toccare solo attraverso il pensiero; essi creano tutte le cose, o le dissolvono, col potere della mente cosmica.
"Sia la morte che la rinascita nel mondo causale avvengono nel pensiero. Gli esseri dal corpo causale si nutrono solo dell'ambrosia di una conoscenza eternamente nuova, si dissetano a sorgenti di pace, vagabondano per le terre vergini delle divine percezioni, nuotano nell'oceanica infinità dell'estasi. Oh! vedere i loro luminosi corpi-pensiero elevarsi al di sopra di trilioni di pianeti creati dallo Spirito, fresche bolle di universi, stelle di saggezza, sogni spettrali di nebulose d'oro sul seno celestiale dell'infinito! "Molti esseri rimangono per migliaia d'anni nel cosmo causale. Attraverso estasi più profonde, l'anima si libera e si ritira allora dal tenue corpo causale per rivestirsi della vastità del cosmo causale. Tutti i singoli turbini d'idee, le separate onde di potere, di amore, volontà, gioia, pace, intuizione, calma, autocontrollo e concentrazione si fondono nell'inesauribile Mare dell'Estasi. L'anima non è più costretta a percepire la sua gioia quale onda invididualizzata di coscienza, ma è fusa con l'Oceano Cosmico Unico con tutte le sue onde: riso eterno, brividi, palpiti eterni, la varietà nell'Unità da tanto tempo agognata. "Quando un'anima è uscita dal bozzolo dei tre involucri corporei, si sottrae per sempre alla legge della relatività e diviene l'ineffabile Sempre Esistente. (Nota: "Chi vince, io lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, ed egli non ne uscirà mai più... (cioè: non si reincarnerà più...). A chi vince io darò di seder meco sul mio trono, come anch'io ho vinto e mi son posto a sedere col Padre mio sul suo trono". [Apocalisse, 3, 12 e 21]. Fine nota). Oh! mira la farfalla dell'Onnipresenza con le ali bordate di stelle, di lune e di soli! L'anima che si è perduta nello Spirito rimane sola nella regione della luce senza luce, nell'ombra senz'ombra, del pensiero senza pensiero, ebbra della sua estasi di gioia nel sogno divino della creazione cosmica". "Un'anima libera!", balbettai con riverente rispetto. "Quando alla fine l'anima si svincola dai tre recipienti delle illusioni corporee", continuò il Maestro, "essa diviene tutt'uno con l'Infinito, senza perdere la sua individualità. Il Cristo aveva conquistato questa finale liberazione anche prima di nascere col nome di Gesù. In tre stadi del suo passato, simboleggiati nella sua vita terrena nei tre giorni della sua esperienza di morte e resurrezione, Egli aveva raggiunto pienamente il potere di entrare nello Spirito. "L'uomo deve passare per innumerevoli incarnazioni terrene, astrali e causali per emergere dai suoi tre corpi. Quando ha finalmente raggiunto la sua libertà finale, egli può scegliere di ritornare sulla terra come profeta per ricondurre a Dio altri esseri umani, oppure, come ho fatto io, di risiedere nel cosmo astrale. Ivi un salvatore prende su di sé parte del peso karmico dei suoi abitanti (Nota: Sri Yukteswar voleva dire che anche nella sua
incarnazione terrena egli a volte si era assunto il peso della malattia per alleggerire il karma dei suoi discepoli; così nel mondo astrale la sua missione di salvatore gli permetteva di assumere un certo karma astrale degli abitatori dell'Hiranyaloka e di affrettare in tal modo la loro evoluzione verso il più alto mondo causale. Fine nota), e in tal modo li aiuta a terminare i loro cicli di reincarnazioni nel cosmo astrale e ad avviarsi per sempre verso le sfere causali. Oppure, un'anima liberata può entrare nel mondo causale per aiutare quegli esseri ad abbreviare il loro periodo di permanenza nel corpo causale e giungere così alla Libertà Assoluta". "Oh! Risorto, voglio sapere ancora di più sul karma che obbliga le anime a ritornare nei tre mondi". Avrei potuto ascoltare all'infinito il mio onnisciente Maestro. Mai, durante la sua vita terrena, mi era stato concesso di assimilare in una volta sola tanta sua saggezza. Ora per la prima volta, ricevevo una chiara e precisa visione degli enigmatici interspazi sulla scacchiera della vita e della morte. "Il karma fisico ossia ogni desiderio dell'uomo, deve essere completamente bruciato prima che sia possibile all'anima di risiedere in permanenza nei mondi astrali", mi spiegò il Guru con la sua voce vibrante. "Due categorie di esseri vivono nelle sfere astrali. Quelli che ancora serbano del karma terreno, e debbono perciò tornare ad abitare un rozzo corpo fisico per riscattare i loro debiti karmici, possono essere classificati, dopo la morte fisica, tra i visitatori temporanei del mondo astrale e non fra i suoi abitatori permanenti. Agli esseri che non hanno riscattato il loro karma terreno non è concesso, dopo la morte astrale, di penetrare nell'alta sfera causale delle idee cosmiche; essi debbono andare e venire solo tra i mondi fisico e astrale, successivamente consci del loro corpo fisico composto di sedici elementi spessi, e del loro corpo astrale di diciannove elementi sottili. Tuttavia un essere terreno inevoluto rimane, dopo ogni perdita del corpo fisico, in massima parte nel profondo stupore del sonno della morte, e difficilmente si accorge delle bellezze della sfera astrale. Dopo il riposo astrale, tale essere ritorna sul piano materiale per ricevere ulteriori insegnamenti e si abitua così solo gradualmente, attraverso ripetuti viaggi, ai mondi della sottile struttura astrale. I residenti normali, stabiliti colà da molto tempo, sono invece quelli che, liberati per sempre da tutti i desideri materiali, non hanno più necessità di ritornare alle grossolane vibrazioni della terra. Tali esseri non hanno più che da riscattare il loro karma astrale e causale. Al momento della morte astrale essi migrano nel mondo causale, assai più fine e delicato. Alla fine di un
dato periodo stabilito dalla legge cosmica, essi, spogliandosi della formapensiero del corpo causale, ritornano all'Himalaya o a un altro simile, altissimo pianeta astrale, rinati in un nuovo corpo astrale, per eliminare ciò che ri,ane del loro karma astrale. "Figlio mio, adesso potrai meglio comprendere ch'io son risorto per decreto divino", continuò Sri Yukteswar, "soprattutto quale salvatore delle anime che si rincarnano astralmente tornando dalla sfera causale, piuttosto che di quegli esseri astrali che arrivano dalla terra. Questi, se ancora serbano in sé vestigia di karma materialel non si elevano agli altissimi pianeti astrali come l'Hiranyaloka. "Come la maggior parte degli uomini sulla terra non ha appreso mediante la veggenza acquisita con la meditazione, ad apprezzare le gioie e i vantaggi superiori della vita astrale e perciò al momento della morte desidera ritornare ai limitati e imperfetti piaceri della terra, così molti esseri astrali, durante il normale dissolvimento dei loro corpi astrali, non riescono a figurarsi lo stato avanzato di gioia spirituale di cui si gode nel mondo causale; dimorando nel pensiero della più densa e gaudiosa felicità del paradiso astrale, essi bramano di ritornarvi. Tali esseri devono riscattare un greve karna astrale prima di poter ottenere, dopo lamorte astrale, permanente dimora nel mondo-pensiero causale, che solo un velo sottilissimo divide dal Creatore. "Solo quando un essere non nutre più alcun desiderio di ulteriori esperienze nel cosmo astrale che soddisfa l'occhio, e non può più esser tentato di ritornarvi esso rimane nel mondo causale. Completando ivi l'opera di riscatto del proprio karma causale mediante la distruzione d'ogni germe di desideri passati, l'anima confinatra fa saltare l'ultimo tappo d'ignoranza e emergendo dall'ultimo suo recipiente, il corpo causale, si fonde con l'Eterno. "Comprendi adesso?". Il Maestro sorrise in modo così incantevole! "Sì, per grazia vostra. Sono ammutolito dalla gioia e dalla gratitudine". Ma, né da un canto né da un racconto, avevo ricevuto una conoscenza così ispirante. Sebbene le Scritture indù accennino ai mondi causale e astrale e ai tre corpi dell'uomo, quanto lontane e insignificanti sembravano quelle pagine a paragone con la viva autenticità delle parole del mio maestro risorto! Per lui davvero non esisteva più alcun "paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore ritorna" (Nota: Amleto, Atto III, scena I. Fine nota) "L'interpretazione dei tre corpi dell'uomo si esprime in molte maniere attraverso la sua triplice natura", disse ancora il mio grande Guru. "Allo stato di veglia, l'uomo è più o meno conscio dei suoi tre veicoli. Quando i suoi sensi sono attivi, intenti a gustare, odorare, toccare, ascoltare o
guardare, egli opera soprattutto mediante il suo corpo fisico. Quando esercita l'immaginazione o la volontà agisce principalmente attraverso il corpo astrale. Il suo mezzo causale entra in azione quando l'uomo pensa o si addentra profondamente nell'introspezione o nella meditazione; i cosmici pensieri del genio vengono a colui che è abitualmente in contatto con il corpo causale. In questo senso un individuo può essere classificato a grandi tratti come prevalentemente: 'uomo materiale, 'uomo attivo' o 'uomo intellettuale'. "L'uomo si identifica per circa sedici ore al giorno con il suo mezzo fisico, Poi dorme; se sogna, rimane nel corpo astrale creando senza sforzo qualsiasi oggetto, come fanno gli esseri astrali. Se il sonno dell'uomo è profondo e senza sogni, egli può trasferire per varie ore la sua coscienza, o senso dell'Io, al corpo causale; un tale sonno è corroborante. Chi sogna è in contatto col proprio corpo astrale e non col corpo causale; il sonno non lo riposa completamente." Mentre Sri Yukteswar diceva queste cose, lo osservavo con amore. "Angelico Guru", dissi, "il vostro corpo sembra identico a quello sul quale piansi nell'eremitaggio di Puri". "Oh sì! Il mio corpo è una copia perfetta dell'antico. Materializzo o dissolvo questa forma a volontà, assai più spesso di quanto facessi quand'ero sulla terra. Con istantanea disintegrazione adesso mi sposto per luce-espresso da un pianeta all'altro, o per meglio dire dal cosmo causale a quello astrale o a quello fisico". Il mio divino Guru sorrise: "Benché in questi giorni tu corressi continuamente in giro, non ho avuto difficoltà a trovarti a Bombay!". "Oh! Maestro! Soffrivo tanto per la vostra morte!". "Ah sono morto? Non ti pare che ci sia una contraddizione?". Gli occhi di Sri Yukteswar brillavano amorevoli e divertiti. "Tu sognavi soltanto, sulla terra; su questa terra-di-sogno vedevi il mio corpo-di-sogno", continuò. "Più tardi hai sepolto quell'immagine sognata. Adesso il corpo-di-sogno più sottile che tu vedi - e che ancora stringi un po' troppo! - è risorto in un altro più sottile pianeta- sogno di Dio. Un giorno questo più sottile pianeta sognato e questo corpo sognato scompariranno; essi non sono eterni. Tutte le chimere sognate devono infrangersi al tocco finale del risveglio. Figlio mio Yogananda, impara a distinguere i sogni dalla Realtà". Queste vedantiche idee mi colpirono di meraviglia. (Nota: La vita e la morte come mere relatività di pensiero. Il Vedanta dice che Dio è l'unica realtà; tutta la creazione, cioè ogni esistenza separata, è maya o illusione. Questa filosofia del monismo ricevette la sua più alta espressione nei
commenti di Sri Shankaracharya alle antiche Upanisthad (riassunti dei Veda. Fine nota). Mi vergognai di aver compianto il maestro vedendo a Puri il suo corpo senza vita. Compresi alla fine che il mio Guru era sempre stato perfettamente desto in Dio, poiché aveva percepito la sua vita e morte terrena e la sua attuale resurrezione, come null'altro che relatività delle idee divine nel sogno cosmico. "Adesso ti ho detto, Yogananda, le verità della mia vita, morte e resurrezione. Non piangermi ma piuttosto divulga in ogni luogo la storia della mia resurrezione dal mondo terreno, sognato da Dio, in un altro pianeta, anch'esso sogno di Dio, abitato dalle anime astrali. Una nuova speranza si infonderà nei sognatori del mondo, folli d'infelicità e di paura della morte!". "Si, Maestro!". Con quale gioia avrei condiviso con gli altri il mio giubilo per la resurrezione! "Sulla terra le mie esigenze erano troppo elevate per esser comode; erano inadatte alla natura della maggioranza degli uomini. Spesso ti ho redarguito più di quello che avrei dovuto. Hai superato la prova che ti imposi; il tuo amore risplendeva attraverso le nubi di qualsiasi rimprovero". E aggiunse con tenerezza: "Sono venuto anche per dirti questo: mai più avrò il severo cipiglio della critica. Non ti sgriderò mai più." Quanto mi erano mancati i rimproveri del mio grande Guru! Ognuno di essi era stato per me un angelo custode che mi proteggeva! "Carissimo Maestro! Rimproveratemi ancora un milione di volte! Sgridatemi anche adesso!". "Non brontolerò più". La sua voce divina era grave, eppure vi echeggiava un riso trattenuto. "Tu ed io sorrideremo insieme fintanto che le nostre due forme appariranno diverse nel magico sogno di Dio. Alla fine ci fonderemo come una cosa sola nell'Amato Cosmico; i nostri sorrisi saranno il Suo sorriso; il nostro unico canto di gioia vibrerà attraverso l'eternità per essere trasmesso alle anime che sono in armonia col Signore! Sri Yukteswar mi illuminò su alcuni argomenti che non posso qui rivelare. Durante le due ore trascorse con me nella camera d'albergo di Bombay, rispose a ogni mia domanda. Molte profezie sul mondo, dette da lui in quella giornata di giugno del 1936, si sono già avverate. "Adesso ti lascio mio amatissimo!". A queste parole sentii il Maestro dissolversi entro le mie braccia che ancora lo cingevano.
"Figlio mio", la sua voce risuonò vibrante nel firmamento interiore dell'anima mia: "Ogni volta che varcherai la soglia del nirbikalpa samadhi e mi chiamerai, verrò a te in carne e ossa come oggi!". Con questa celestiale promessa Sri Yukteswar svanì dal mio sguardo. Una voce che sembrava provenire da una nube ripeteva musicalmente: "Dillo a tutti! Chiunque conosce, attraverso la realizzazione del nirbikalpa, che la terra è un sogno di Dio, può raggiungere il più fine pianeta dell'Hiranyaloka, anch'esso creato dal sogno, e là mi troverà risorto in un corpo esattamente uguale a quello che avevo sulla terra. Yogananda, dillo a tutti!". Non vi era più lo schianto del distacco. Il dolore per la sua morte, che a lungo aveva minato la mia pace, s'era dileguato in profonda vergogna. La beatitudine sgorgava in me come una fonte da infiniti poi riaperti dell'anima. Nell'erompente flutto dell'estasi i pori dell'anima, già ostruiti dal lungo disuso, ora si riaprivano in purezza. Le mie passate incarnazioni apparirono al mio sguardo interiore in sequenze simili a immagini cinematografiche. Il karma buono e cattivo appartenente a quelle figure di sogno era stato dissolto nella luce cosmica riversatasi su di me durante la visita divina del Maestro. In questo capitolo della mia autobiografia ho ubbidito al comando del mio Guru di divulgare la lieta novella, anche se potrà sconcertare una volta di più una generazione indolente. L'uomo sa bene come grufolare nella terra: raramente ignora la disperazione; eppure queste sono cose perverse e non fanno parte della vera eredità umana. Il giorno che veramente lo vuole, l'uomo viene posto sul sentiero della liberazione. Tropo a lungo egli ha prestato orecchio al cupo pessimismo di coloro che gli ripetevano: "sei polvere", senza curarsi dell'anima invincibile. Non fui il solo ad avere il privilegio di vedere il Guru risorto. Una chela di Sri Yukteswar era una donna anziana, conosciuta affettuosamente col nome di Ma (Madre). La sua casa era vicina all'eremitaggio di Puri. Spesso, durante la sua passeggiata mattutina, il Maestro si fermava per scambiare con lei qualche parola. La sera del 16 marzo 1936 Ma giunse all'eremitaggio e chiese di vedere il Guru. "Ma il Maestro è morto una settimana fa!" le rispose Swami Sebananda che ora dirige l'eremitaggio di Puri, guardandola tristemente. "Non è possibile!" protestò ella sorridendo. "Forse volete proteggere il Guru dai molesti visitatori?". "No". Sebananda le raccontò i particolari della sepoltura. "Vieni", le disse, "ti condurrò nel giardino davanti alla casa per mostrarti la tomba di Sri Yukteswar".
Ma scrollò il capo: "Non vi è tomba per lui! Questa mattina alle dieci è passato dinanzi alla mia porta come al solito durante la sua passeggiata. Ho parlato con lui per vari minuti all'aperto sotto il sole: - Vieni stasera all'ashram - mi ha detto. "Eccomi qua! Benedizioni piovono su questo mio vecchio capo grigio! Il Guru immortale ha voluto farmi comprendere in quale corpo trascendente egli mi ha visitata stamane!". Sebananda sconvolto, s'inginocchiò dinanzi a lei. "Ma", le disse, "quale enorme peso di dolore togli dal mio cuore! Egli è risorto!".
CAPITOLO XLIV COL MAHATMA GANDHI A WARDHA "Benvenuti a Wardha!". Con queste cordiali parole e col dono di corone di khuddar (cotone filato a mano) Mahadev Desai, segretario del Mahatma Gandhi salutò Miss Bletch, Wright e me. Il nostro gruppetto era appena sceso alla stazione di Wardha, in quella mattina di agosto, ed eravamo contenti di lasciare la polvere e il caldo del treno. Dopo aver messo il bagaglio su un carro tirato da buoi, salimmo in un'automobile aperta col signor Desai e i suoi amici, Babasaheb Deshmukh e il dottor Pingale. Una breve corsa attraverso le fangose strade di campagna ci condusse al Maganvadi, l'ashram del santo politico dell'India. Il signor Desai ci fece subito entrare nello studio dove il Mahatma Gandhi sedeva a gambe incrociate, in una mano la penna, nell'altra un foglio di carta e sul suo viso un largo, cattivante e schietto sorriso. 'Benvenuti', egli scarabocchiò in hindi. Era lunedì, il suo giorno settimanale di silenzio. Benché quello fosse il nostro primo incontro, ci sorridemmo raggianti d'affetto. Nel 1925 il Mahatma Gandhi aveva onorato di una sua visita la scuola di Ranchi, e aveva scritto nel libro degli ospiti cortesi espressioni di approvazione. L'esilissimo Santo che non pesava più di 45 chili, irradiava una profonda salute fisica, mentale e spirituale; i suoi dolci occhi bruni brillavano d'intelligenza, sincerità e discernimento. Quest'uomo di Stato ha incrociato le armi dell'intelligenza ed è riuscito vittorioso in mille battaglie legali, sociali e politiche. Nessun altro capo al mondo vive nel cuore del suo popolo come Gandhi in quello di milioni di indiani illetterati. Il loro spontaneo tributo è il famoso titolo di Mahatma [grande anima] a lui conferito. (Nota Il suo nome di famiglia è Mohandas Karamchand Gandhi. Egli non parla mai di sé come "Mahatma". Al contrario egli ha più volte protestato, umilmente ma in maniera spiritosa, contro questo titolo. Fine nota.). Solo per loro, Gandhi limita le sue vesti alla fascia sui fianchi (oggetto di tante caricature), simbolo della sua stretta solidarietà con le misere masse oppresse che non possono avere altro.
"I residenti dell'ashram sono interamente a vostra disposizione per tutto quanto può occorrervi." Con la sua abituale cortesia il Mahatma mi passò questo biglietto scritto in fretta, mentre il signor Desai ci conduceva dallo studio alla foresteria. Attraversammo orti e campi fioriti per arrivare a una costruzione dal tetto ricoperto di tegole e con finestre munite di grate. Una fontana situata nel cortile a sette metri di distanza dalla casa, forniva l'approvvigionamento d'acqua; nei pressi girava una ruota di cemento per trebbiare il riso. Le nostre camerette non contenevano che il minimo indispensabile: un letto di corda, fatto a mano. La cucinetta imbiancata a calce faceva sfoggio di un cannello per l'acqua in un angolo, e di una buca per accendervi il fuoco, in un altro. Giungevano al nostro orecchio semplici suoni arcadici: i gridi delle cornacchie e dei passeri, il mugghiare degli armenti e il rumore dei scalpelli che spaccavano le pietre. Vedendo il diario di viaggio di Wright, Desai l'aprì e su una pagina scrisse l'elenco dei voti Satyagraba (Nota: La traduzione letterale dal sanscrito è 'ligi alla verità'. Fine nota), fatti da tutti i seguaci del Mahatma (satyagradhi). 'Non-violenza; sincerità; onestà; castità; povertà; lavoro fisico; controllo della gola; intrepidità; uguale rispetto di tutte le religioni; swadeshi (uso dei prodotti fatti in casa; libertà dall'intoccabilità. Questi undici principi siano osservati come voti in spirito di umiltà.' (Gandhi stesso firmò il giorno dopo questa pagina apponendovi anche la data: 27 agosto 1935). Due ore dopo il nostro arrivo fummo chiamati a desinare. Il Mahatma era già seduto sotto le arcate del portico dell'ashram, oltre il cortile di fronte al suo studio. Circa venticinque satyagrahi scalzi stavano accosciati dinanzi a tazze e piatti di ottone. Un coro di preghiere all'unisono, indi un pasto servito in grandi recipienti di ottone che contenevano chapatis (pane integrale non lievitato) cosparso di ghee; talsari (ortaggi bolliti e tagliati a quadretti) e una marmellata di limone. Il Mahatma mangiò chapatis, biete bollite, alcune verdure crude e arance. Su un lato del suo piatto v'era una grande quantità di amarissime foglie di neem, un notevole mezzo per depurare il sangue. Con un cucchiaio egli ne prese una porzione e la miste nel mio piatto. L'ingoiai con un sorso d'acqua, ricordando i giorni dell'infanzia quando mia madre mi obbligava a ingurgitare lo spiacevole cibo, Gandhi, invece, pezzetto per pezzetto assaporava il neem come se mangiasse una pietanza squisita.
In questo insignificante incidente notai l'abilità del Mahatma nel distaccare a volontà la mente dai sensi. Rammentai la famosa operazione di appendicite cui dovette sottostare anni or sono. Rifiutando gli anestetici, il Santo aveva allegramente conversato con i discepoli durante il corso dell'operazione, mentre il suo calmo sorriso rivelava ch'egli non avvertiva il dolore. Il pomeriggio mi fornì l'occasione di fare una chiacchierata con un'eminente discepola di Gandhi, figlia di un ammiraglio inglese: Miss Madeleine Slade, ora chiamata Mira Behn. (Nota: o Mirabai. Ella pubblicò delle lettere scritte dal Mahatma che rivelano l'allenamento autodisciplinare datole dal suo Guru (Gandhi's Letters to a Disciple, New York; Harper & Bros., 1950). In un libro successivo (The Spirit's Pilgrimage, New York, Coward-McCamm, 1960), Miss Slade menzionò il grande numero di persone che visitarono Gandhi a Wardha. Ella scrisse: "A questa distanza di tempo non posso ricordare molti di essi, ma due rimangono vividi nella mia mente: Halide Edib Hanum, la famosa scrittrice turca, e Swami Yogananda, fondatore della SelfRealization Fellowship in America" (N.d.E.). Fine nota). Il suo volto calmo e forte s'illuminò di entusiasmo mentre mi enumerava in perfetto hindi, le sue attività quotidiane. "Il lavoro di ricostruzione fra i contadini dà grandi soddisfazioni! Un gruppo di noi va ogni mattina alle cinque ad aiutare i contadini vicini e ad insegnare loro l'igiene più semplice. Poniamo il nostro orgoglio nel pulire le loro latrine e le loro capanne ricoperte di paglia e fango. I contadini sono analfabeti; non si possono educare che con l'esempio". E risi allegramente. Fissavo con ammirazione questa nobile inglese, la cui umiltà cristiana la pone in grado di eseguire lavori da spazzino, generalmente eseguiti solo dagli "intoccabili". "Venni in India nel 1925", mi disse. "In questo paese mi sento 'tornata a casa'. Ormai non potrei più ritornare alla mia vita di prima e agli antichi interessi". Discutemmo un poco sull'America. "E' sempre con piacere e meraviglia che osservo quale profondo interesse ai problemi spirituali dimostrano gli americani che visitano l'India". (Nota: Miss Slade mi ricordava un'altra distinta signora occidentale, Miss Margaret Wilson, figlia del grande Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Ella si interessava vivamente all'India. Le diedi a New York l'iniziazione al Kriya Yoga. Si recò in seguito a Pondicherry, dove trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita,
seguendo felicemente un sentiero di disciplina ai piedi di Sri Aurobindo Ghosh (il santo che non parla mai e saluta silenziosamente i suoi discepoli solo tre volte l'anno. Fine nota). Le mani di Mirabai presto furono occupate con il charka (filatoio) presente in tutte le stanze dell'ashram e, per interessamento del Mahatma, ora in tutta l'India rurale. Gandhi ha serie ragioni economiche e culturali per incoraggiare la ripresa delle industrie casalinghe, ma non consiglia il ripudio fanatico d'ogni progresso moderno: macchinari, treni, automobili, telegrafo ebbero una parte importantissima nella sua straordinaria vita! Cinquant'anni di servizio pubblico, sia in prigione che fuori, dibattendosi giornalmente fra particolari pratici e crude realtà politiche, hanno solo aumentato il suo equilibrio, allargato la sua mente, accresciuto la precisione e l'acume dei suoi arguti giudizi sul bizzarro spettacolo umano. Alle sei pomeridiane ci fu offerto da Babasaheb Deshmukh un piacevole pranzo. La preghiera delle sette ci radunò tutti di nuovo sul tetto dell'ashram di Maganvadi, dove trenta satyagrahi erano raggruppati in semicerchio intorno a Gandhi. Egli era accosciato su una stuoia di paglia con un vecchio orologio da tasca posto dinanzi a sé. Il sole calante illuminava con un ultimo raggio le palme e i banyan; i vari rumori della notte e lo stridìo dei grilli cominciavano. L'atmosfera era tutta serenità. Ero rapito. A un solenne canto iniziato dal signor Desai rispondeva in coro tutto il gruppo; quindi vi fu la lettura di alcune pagine della Gita. Il Mahatma mi chiese con un gesto di pronunciare la preghiera di chiusura. Che comunione divina di pensieri e di aspirazioni! Un ricordo incancellabile: la meditazione sul tetto a Wardha, sotto le prime stelle. Alle otto in punto Gandhi pose fine al suo silenzio. Le fatiche erculee della sua vita esigono che egli suddivida il suo tempo con scrupolosa esattezza.
"Benvenuto, Swamiji!". Questa volta il saluto del Mahatma non mi fu dato per via cartacea. Eravamo appena discesi dal tetto nel suo studio, semplicemente ammobiliato con alcune stuoie quadrate (senza sedie), di una scrivania bassa piena di libri, di carte e di alcune penne comuni (non stilografiche); un indescrivibile orologio batteva le ore in un angolo. Un'aura di pace e di
devozione pervadeva ogni cosa. Gandhi elargiva uno dei suoi cattivanti, cavernosi sorrisi quasi completamente sdentati. "Anni fa", egli spiegò, "cominciai ad osservare settimanalmente un giorno di silenzio, come mezzo per guadagnare tempo e per dedicarmi alla mia corrispondenza. Ma ora quelle ventiquattr'ore sono diventate un vitale bisogno spirituale. Una periodica imposizione di silenzio non è una tortura, ma una benedizione". Fui pienamente d'accordo con lui. (Nota: Per anni in America, avevo osservato periodi di silenzio, fra la costernazione dei visitatori e dei segretari. Fine nota). Il Mahatma mi fece varie domande sull'America e sull'Europa. Discutemmo le condizioni dell'India e quelle del Mondo. "Mahadev", disse Gandhi al signor Desai, che era entrato nella stanza, "per favore, prendete accordi affinché Swamiji possa parlare nella Sala del Municipio domani sera: parlerà sullo yoga". Mentre prendevo congedo dal Mahatma augurandogli la buona notte, egli mi diede opportunamente una bottiglia d'olio di citronella. "Le zanzare di Wardha ignorano tutto sull'ahimsa, Swamiji!", disse ridendo. (Nota: Non far male, non-violenza; questa è la pietra base del credo di Gandhi. Già in tenera età egli subì l'influenza dei Jaini, che onorano l'ahimsa quale base di tutte le virtù. Il Jainismo, che è una setta dell'Induismo, fu fondata nel VI secolo a.C. da Mahavita, un contemporaneo di Buddha. Mahavita significa: "grande eroe". Possa egli proteggere attraverso i secoli il suo eroico figlio Gandhi! Fine nota). La mattina seguente, assai presto, il nostro gruppetto fece una prima colazione di pappa di grano integrale con melassa e latte. Alle dieci e mezzo fummo chiamati sotto il portico dell'ashram per la seconda colazione con Gandhi e i satyagrahi. Il menu odierno era: riso nero, una nuova selezione di ortaggi e semi di cardamomo. A mezzogiorno passeggiavo per le terre dell'ashram, nella campagna dove pascolavano alcune imperturbabili mucche. La protezione delle vacche è una passione di Gandhi. "Per me la vacca sintetizza tutto il mondo sub-umano, e permette all'uomo di estendere la propria simpatia anche al di là della propria specie", ha spiegato il Mahatma. "Attraverso la vacca, l'uomo è incitato a riconoscere la sua identità con tutto ciò che vive. La ragione per cui gli antichi rishi prescelsero la vacca per l'apoteosi è ovvia, almeno per me. In India, la vacca era il termine di paragone migliore;
essa è la donatrice per eccellenza: non solo dà il latte, ma rende possibile l'agricoltura. "La vacca è un poema di pietà; la pietà si legge negli occhi di quella mite bestia, che ' la seconda madre per milioni di esseri umani. Proteggere la vacca significa proteggere tutte le creature di Dio. Le forme inferiori della creazione hanno un potere di richiamo tanto più forte in quanto non hanno la parola" (Nota: Gandhi scrisse magnificamente su mille soggetti. Della preghiera egli disse: "Serve a ricordarci che siamo impotenti senza l'aiuto di Dio. Nessuno sforzo è completo senza la preghiera, senza un deciso riconoscimento che i migliori sforzi dell'uomo non producono alcun effetto se non sono spalleggiati dalle benedizioni di Dio. La preghiera è un richiamo all'umiltà; è un richiamo all'auto-purificazione, alla ricerca interiore". Fine nota).. Alcuni riti quotidiani sono obbligatori per l'Indù ortodosso. Uno di questi è il Bhuta Yaina, un'offerta di cibo al mondo animale: questa cerimonia simboleggia la comprensione dell'uomo per i suoi obblighi verso le forme meno evolute della creazione, che sono legate per istinto all'identificazione del corpo (illusione, questa, che affligge anche l'uomo), ma mancano della facoltà liberatrice del raziocinio che è proprio soltanto dell'essere umano. Il Bhuta Yajna si sviluppa così la prontezza dell'uomo a soccorrere il debole, come egli a sua volta è confortato dall'infinita sollecitudine degli esseri invisibili superiori. Ma l'uomo è debitore verso la natura anche dei doni rigeneranti che riceve generosamente dalla terra, dal mare e dal cielo. La barriera d'incomunicabilità dovuta alla differente evoluzione fra la natura, gli animali, l'uomo e gli angeli astrali è così superata con le quotidiane cerimonie yajna, cerimonie di tacito amore. Altri due yajna sono il Pitri e il Nri. Il Pitri Yajna è un'offerta di oblazione agli avi quale simbolo che l'uomo riconosce il proprio debito verso il passato, i cui tesori di saggezza illuminano l'umanità di oggi. Il Nri Yajna è un'offerta di cibo ad estranei o ai poveri, quale simbolo delle responsabilità dell'uomo e dei suoi doveri verso i contemporanei. Nel primo pomeriggio feci un Nri Yajna di buon vicinato, visitando l'ashram di Gandhi per bambine. Wright mi accompagnò nel tragitto di dieci minuti. Oh, i minuscoli vasi infantili simili a corolle fiorenti in cima agli steli dei lunghi sari multicolori! Alla fine di un breve discorso in hindi (Nota: L'hindi è la lingua franca di tutta l'India. Idioma indo-ariano che si basa principalmente su radici sanscrite, l'hindo è il maggior vernacolo dell'India settentrionale. Il dialetto principale dell'hindi occidentale è l'hindostano, scritto sia in caratteri Devangari (sanscriti) che in caratteri
arabici. L'Urdu, suo sub-dialetto, è parlato dai maomettani e dagli indiani di settentrione. Fine nota) che pronunciai all'aperto, il cielo mandò giù un improvviso acquazzone. Ridendo, Wright e io risalimmo in macchina e ritornammo in gran fretta al Maganvadi fra cortine di pioggia argentea. Che diluvio tropicale e che fango! Di ritorno alla foresteria, di nuovo mi colpì la sua severa semplicità e le prove di abnegazione presenti ovunque. Il voto di povertà di Gandhi fu attuato ben presto dopo il suo matrimonio, quando, lasciata la sua vasta attività legale che gli procurava un reddito di oltre ventila dollari l'anno, il Mahatma distribuì tutto quanto possedeva ai poveri. Sri Yukteswar usava parlare con blanda e gentile ironia del modo sbagliato col quale di solito si concepisce la rinuncia. "Un mendicante non può rinunciare alla ricchezza", diceva il Maestro. "Se un uomo si lamenta: - I miei affari sono andati male, mia moglie mi ha abbandonato, rinunzierò a tutto ed entrerò in un convento, - di quali sacrifici terreni parla mai? Egli non ha rinunciato alla ricchezza e all'amore; sono essi che hanno rinunciato a lui!". I santi come Gandhi, invece, hanno fatto non solo sacrifici materiali tangibili, ma anche la più difficile delle rinunzie, la rinuncia ad ogni motivo egoistico e ad ogni fine privato, e hanno fatto confluire il loro essere col fiume dell'umanità tutta, divenendo tutt'uno con essa. L'illustre moglie del Mahatma, Kasturabai, non fece opposizione alcune quando egli non accantonò nemmeno una parte della sua ricchezza per la moglie e i figli. Sposatisi giovanissimi, Gandhi e la moglie fecero voto di castità dopo la nascita di quattro figli (Nota: Gandhi ha descritto la sua vita con sconcertante candore nella Storia dei miei Esperimenti con la Verità (The Story of my Experiments with Truth, Ahmedabad: Navajivan Press.) Questa biografia è stata riassunta in Mahatma Gandhi, His Own Story (Il Mahatma Gandhi, la sua Storia), edita da C.F. Andrews con una introduzione di John Haynes Holmes, New York, Macmillan Co., 1930). Molte autobiografie piene di nomi famosi e di avvenimenti importanti sottacciono quasi completamente ogni fase di analisi o sviluppo interiore. Sono libri che lasciano insoddisfatti e di cui si pensa: "Ecco un uomo che conosceva molte persone importanti, ma che non ha mai conosciuto se stesso". Con l'autobiografia di Gandhi questa reazione è impossibile. Egli espone i suoi sbagli e i suoi sotterfugi con un culto impersonale della verità, raro negli annali di qualsiasi epoca. Fine nota). Silenziosa eroina dell'emozionante dramma che fu la loro vita in comune, Kasturabai ha
seguito il marito in carcere, ha condiviso i suoi digiuni di tre settimane e si è pienamente assunta la propria parte nelle infinite responsabilità di Gandhi. Ella ha reso a Gandhi il seguente omaggio personale: "Ti ringrazio di avermi concesso il privilegio di essere stata per tutta la vita la tua compagna e collaboratrice. Ti ringrazio per il più perfetto matrimonio del mondo, basato sul brahmacharya (autocontrollo) e non sul sesso. Ti ringrazio di avermi considerata tua pari nel lavoro che hai svolto dedicando la tua vita a favore dell'India. Ti ringrazio di non essere uno di quei mariti che trascorrono il loro tempo al gioco, alle corse, con le donne, con vino e canti, e che si stancano della moglie e dei figli come il bambino presto si stanca dei suoi balocchi. E come ti sono grata di non essere uno di quei mariti che dedicano il loro tempo ad ammassare ricchezze sfruttando il lavoro altrui! "Quanto ti sono grata di aver anteposto Dio e il Paese ai vantaggi materiali, e di aver avuto il coraggio delle tue convinzioni e un'assoluta e piena fede in Dio ! Come sono grata per aver avuto in te un marito che ha posto Dio e il suo Paese prima di me! Come ti sono grata per aver tollerato me e le mie giovanili mancanze, quando protestai e mi ribellai perché portasti il nostro modo di vivere da tanto che possedevamo, a tanto poco! "Da bambina vissi nella casa dei tuoi genitori. Tua madre era una donna buona e grande. Ella mi allevò, mi insegnò a essere una moglie brava e coraggiosa, e a conservare l'amore e il rispetto di suo figlio, mio futuro marito. Quando passarono gli anni e diventasti il Capo più amato dell'India, non ebbi alcun timore d'essere messa in disparte come accade a molte donne quando il marito è giunto all'apice del successo, e come spesso capita in altri paesi. Sapevo che la morte ci avrebbe trovati ancora marito e moglie". Per anni Kasturabai ha svolto l'incarico di tesoriera dei fondi pubblici, che l'adorato Mahatma è capace di raccogliere a milioni. Nelle famiglie indiane si raccontano molte storie comiche sui timori che nutrono gli uomini quando le loro mogli si adornano di gioielli per andare a una riunione tenuta da Gandhi. La magica parola del Mahatma che perora la causa degli oppressi, ha l'arcano potere di trasferire immediatamente i bracciali d'oro e le collane di diamanti dalle braccia e dal collo dei ricchi, nel paniere delle elemosine! Un giorno la tesoriera Kasturabai non poteva giustificare una spesa di quattro rupie. Gandhi doverosamente sottopose la cosa a un controllo ufficiale e inesorabilmente denunciò in pubblico questo ammanco imputabile alla moglie.
Avevo spesso raccontato questo fatto dinanzi ai miei allievi americani, ma una sera una donna che era nell'aula non seppe frenare la sua indignazione e sboccò: "Mahatma o non Mahatma, se fosse stato mio marito gli avrei fatto un occhio nero per quell'inutile insulto pubblico". Dopo un'allegra schermaglia generale sull'argomento 'moglie indiana e moglie americana', mi accinsi a dare una spiegazione più esaudiente: "La signora Gandhi considera il Mahatma non come suo marito, ma come il suo Guru, che ha il diritto di rimproverarla per qualsiasi errore, anche minimo. Poco dopo quel rimprovero pubblico a Kasturabai, Gandhi fu condotto in carcere per ragioni politiche. Mentre egli prendeva serenamente congedo dalla moglie, ella cadde ai suoi piedi: - Maestro, - gli disse umilmente, - se mai ti ho offeso, perdonami" (Kasturabai Gandhi morì in carcere a Poona il 22 febbraio 1944. Gandhi in genere impassibile, pianse silenziosamente. Poco dopo che i suoi ammiratori ebbero proposto la formazione di un Fondo Ricordo in onor suo, circa quattro milioni di dollari piovvero da tutta l'India. Gandhi ne destinò i fondi all'assistenza delle donne e dei figli dei contadini. Fine nota). Alle tre di quel pomeriggio a Wardha, mi recai - previo appuntamento nello studio del Santo che era stato capace di fare della moglie, raro miracolo, una fedelissima discepola! Gandhi sollevò il capo e mi guardò col suo indimenticabile sorriso: " Mahatmaji", gli dissi, mentre mi accosciavo accanto a lui sulla stuoia senza cuscini, "vi prego di darmi la vostra definizione dell'ahimsa". "Evitare il male ad ogni creatura vivente, sia nel pensiero che nell'azione." "Bellissimo ideale! Ma il mondo chiederà sempre: - Si può fare a meno di uccidere un cobra per proteggere un bambino, o se stesso?" "Non potrei uccidere il cobra senza violare due dei miei voti: quello di intrepidità e quello di non-violenza. Cercherei piuttosto di calmare la serpe con vibrazioni d'amore. Non potrrei abbassare i miei principi morali per adattarli alle circostanze". E con il suo stupefacente candore aggiunse: "Confesso che non potrei continuare serenamente questa conversazione se mi trovassi faccia a faccia con un cobra!". Rilevai che sulla sua scrivania v'erano molti libri occidentali di recentissima pubblicazione, sulla dietetica. "Si, la dieta è importante nel movimento Satyagraha, come dappertutto", disse con una risatina. "Poiché dai satyagrahi esigo l'assoluta continenza, debbo sempre cercare di scoprire la dieta più adatta al celibato. Si deve vincere la gola, prima di
poter controllare l'istinto della procreazione; la semi-inedia o la dieta non equilibrata non risolvono nulla. Dopo aver superato l'avidità del cibo, il satyagrahi deve continuare a seguire una razionale dieta vegetariana ricca di tutte le necessarie vitamine, minerali, calorie, e così via. Con la saggezza interiore ed esteriore riguardante il cibo, il fluido sessuale del satyagrahi si trasforma facilmente in energia vitale a vantaggio di tutto il corpo". Il Mahatma ed io parlammo dei buoni sostitutivi della carne di cui eravamo a conoscenza. Dissi: "L'avocado è eccellente. Vi sono molti boschetti di avocado accanto al mio centro in California". Il viso di Gandhi si illuminò di interesse. "Chissà se si potrebbe coltivarlo a Wardha? I Satyagrahi apprezzerebbero un cibo nuovo!". "Invierò senza fallo delle piante di avocado da Los Angeles a Wardha" (Nota: Appena tornato in America spedii l'avocado a Wardha, ma le piante purtroppo si seccarono completamente, non avendo resistito ai rigori del trasporto oceanico. Fine nota), continuai. "Le uova sono un alimento ricco di proteine. Sono permesse ai satyagrahi?". "Quelle non fecondate, si". Il Mahatma rise, ricordando: "Per anni non volli tollerarne l'uso, e ancor oggi personalmente non ne mangio. Un volta una delle mie nuore stava per morire di denutrizione. Il dottore insisteva sulle uova; io non volevo ammetterle e consigliai di darle un surrogato di uova. - Gandhiji, - mi disse il dottore, - le uova non fecondate non contengono germi vitali e non implicano nessuna uccisione. - Allora con piacere concessi a mia nuora il permesso di mangiare uova, e ben presto guarì". La sera innanzi Gandhi aveva espresso il desiderio d'essere iniziato al Kriya Yoga di Lahiri Mahasaya. Rimasi commosso di fronte alla larghezza mentale del Mahatma e al suo spirito investigativo. Nella sua divina ricerca egli è simile ad un bimbo, e rivela quella pura ricettività che Gesù apprezzava nei fanciulli... ' dei quali è il regno dei Cieli'. Era giunta l'ora della promessa iniziazione. Vari satyagrahi entrarono nella stanza: il signor Desai, il dottor Pingale e qualche altro che desiderava apprendere la tecnica Kriya. Alla piccola classe insegnai innanzi tutto gli esercizi fisici dello Yogoda. Si considera il corpo come diviso in venti parti; la volontà dirige a turno l'energia in ogni settore. Ben presto, davanti a me ognuno vibrava come un motore umano. Era facile osservare l'effetto elettrizzante sulle venti parti del corpo di Gandhi, quasi tutte completamente esposte alla vista. Benché
magrissimo, Gandhi non è spiacevole a guardarsi; la sua pelle è morbida e liscia. (Nota: Gandhi è sottoposto a molti digiuni, brevi e lunghi. Egli gode di eccellente salute. I suoi libri: Diet and Diet Reform, Nature Cure e Key to Health si trovano presso la Navajivan Publishing House, Ahmedabad, India. Fine nota). In seguito iniziai il gruppo alla tecnica liberatrice del Kriya Yoga. Il Mahatma ha reverentemente studiato tutte le religioni del mondo. Le Scritture Jainiste, il Nuovo Testamento della Bibbia e gli scritti sociologici di Tolstoi (Nota: Thoreau, Ruskin e Mazzini sono altri tre scrittori occidentali che Gandhi ha studiato attentamente dal punto di vista sociologico. Fine nota) sono le tre fonti principali del principio di nonviolenza di Gandhi. Ecco il suo credo: "Credo che la Bibbia, il Corano e gli Zend-Avesta (Nota: La Sacra Scrittura data alla Persia da Zoroastro verso il 1000 a.C. Fine nota) siano altrettanto divinamente ispirati come i Veda. Credo nell'istituzione dei Guru, ma in questo secolo milioni di esseri umani debbono farne a meno, poiché è cosa rara trovare una fusione di perfetta purezza e perfetto sapere. Ma non si deve disperare di conoscere la verità della propria religione, poiché i fondamenti dell'iduismo, come quelli di qualsiasi altra grande religione, sono immutabili e si comprendono facilmente. "Come ogni Indù, credo nel Dio unico, nella rinascita e nella salvezza... Non posso descrivere i miei sentimenti per l'induismo, come non posso descrivere quelli che mi uniscono a mia moglie. Ella mi commuove più di qualsiasi altra donna sulla terra. Non perché essa non abbia difetti; penso che ne abbia assai più di quelli che io possa vedere, ma perché mi unisce a lei il senso di un legame indissolubile. E' lo stesso sentimento che provo verso l'induismo, pur vedendone tutti i difetti e le limitazioni. Nulla mi delizia quanto la muscia della Gita o del Ramayana di Tulsidas. Quando credevo di star per esalare l'ultimo respiro, la Gita fu la mia consolazione. "L'induismo non è una religione esclusiva; in essa vi è posto per la venerazione di tutti i profeti del mondo. (Nora: La caratteristica propria soltanto all'Induismo fra tutte le religioni del mondo è che esso deriva non da un unico grande fondatore, bensì dalle impersonali Scritture Vediche. Perciò l'induismo è abbastanza vasto per accogliere devotamente in sé i profeti di tutti i paesi e di tutte le età. Le Scritture Vediche non regolano solamente le pratiche religiose, ma anche tutte le principali usanze sociali, sforzandosi di porre ogni atto dell'uomo in armonia con la legge divina. Fine nota). Non è una religione missionaria, nel senso comune della parola. Senza dubbio ha assorbito molte greggi nel suo ovile, ma tale assorbimento
ebbe carattere evolutivo e impercettibile. L'induismo insegna ad ogni essere umano a adorare Iddio secondo la propria fede o dharma e perciò vive in pace con tutte le religioni" (Nota: dharma: una parola sanscrita dal vasto significato per definire la legge, conformità alla legge o giustizia naturale; il dovere inerente a 'qualsiasi circostanza in cui l'uomo in qualsiasi momento si venga a trovare. Le scritture definiscono il dharma così: "La legge universale, la cui osservanza permette all'uomo di salvarsi dalla degradazione e dalla sofferenza". Fine nota). Sul Cristo Gandhi ha scritto: "Sono certo che se Egli vivesse ora fra gli uomini, benedirebbe la vita di molti che forse non hanno neanche mai udito il Suo nome... proprio come è scritto: - Non chiunque mi dice Signore, Signore... ma colui che fa la volontà del Padre mio... (Nota: Matteo, 7, 21, Fine nota). - Con l'esempio della Sua vita, Gesù diede all'umanità la magnifica mèta e l'obiettivo unico verso il quale tutti dovremmo tendere. Credo che Egli appartenga non alla sola Cristianità, ma a tutto il mondo, a tutti i paesi e a tutte le razze." Nell'ultima sera a Wardha, parlai alla riunione indetta dal signor Desai nella sala del Municipio. La sala straripava fin sui davanzali delle finestre con una folla di più di quattrocento persone desiderose di ascoltare la conferenza sulla yoga. Parlai prima in hindi, poi in inglese. Il nostro gruppetto tornò all'ashram in tempo per augurare la buona notte a Gandhi, profondamente immerso nella pace e nella corrispondenza. Era ancora notte quando, alle cinque del mattino, mi alzai. La vita del villaggio già riprendeva. Accanto al cancello dell'ashram passò prima un carro a buoi, poi un contadino con un enorme fardello precariamente tenuto in bilico sul capo. Dopo la prima colazione, il nostro terzetto cercò Gandhi per i pronam dell'addio. Il Santo si alza alle quattro per la sua preghiera mattutina. "Mahatmaji, arrivederci!". M'inginocchiai per toccargli i piedi. "L'India è sicura nelle vostre mani". Molti anni sono passati dai giorni idilliaci di Wardha. La terra, gli oceani, i cieli si sono arroventati per un mondo in guerra. Unico fra i grandi condottieri, Gandhi offrì una pratica alternativa di non-violenza alla potenza armata. Per correggere i torti e abolire le ingiustizie, il Mahatma ha usato mezzi pacifici che più e più volte hanno dimostrato la loro efficacia. Egli definisce così la sua dottrina: "Ho fatto l'esperienza che la vita persiste in mezzo alla distruzione; perciò deve esistere una legge superiore a quella della distruzione. Solo sotto tale legge è pensabile una società ben regolata, e la vita apparirebbe degna d'essere vissuta.
"Se questa è la legge della vita, dobbiamo metterla in pratica nella nostra esistenza d'ogni giorno. Ovunque vi sia antagonismo, ovunque vi sia un avversario da affrontare, dobbiamo conquistarlo per mezzo dell'amore. Nella mia vita ho sperimentato che la sicura legge dell'amore ha sempre risposto assai meglio di quanto abbia mai fatto la legge della distruzione. "In India abbiamo avuto la dimostrazione tangibile dell'azione di questa legge, e sulla più vasca scala possibile. Non intendo affermare che la nonviolenza sia divenuta la legge di 360 milioni di Indiani, ma sostengo che essa, in un tempo incredibilmente breve, è penetrata in profondità più di qualsiasi altra dottrina. "Per raggiungere uno stato mentale di non-violenza, occorre uno strenuo allenamento: una vita disciplinata, la vita di un soldato. Si raggiunge lo stato perfetto solo quando la mente, il corpo e le parola sono opportunamente coordinati. Se davvero decidiamo di adottare la legge della verità e della non-violenza come legge di vita, ogni problema potrà trovare la sua soluzione. "Come uno scienziato trarrà meraviglie dalle varie applicazioni delle leggi di natura, così l'uomo che applichi con precisione scientifica le leggi dell'amore potrà fare miracoli ancora più grandi. "La non-violenza è una forza infinitamente più meravigliosa e sottile di quelle della natura, come ad esempio l'elettricità. La legge dell'amore è una scienza assai più grande di qualsiasi altra scienza moderna". La spaventosa marcia degli eventi politici mondiali indica inesorabilmente che senza una visione spirituale, i popoli periscono. La scienza, se non la religione, ha risvegliato nell'umanità un oscuro senso dell'insicurezza e perfino dell'inconsistenza di tutte le cose materiali. Dove allora può rivolgersi l'uomo se non alla propria Sorgente e Origine, lo Spirito dentro di lui? Consultando la storia, si può ragionevolmente dichiarare che i problemi dell'umanità non sono stati risolti con l'uso della forza bruta. La prima grande guerra produsse una valanga di terribile karma che ha agghiacciato il mondo e che si è ingrossata fino a travolgerlo nella seconda guerra mondiale. Solo il calore della fratellanza può dissolvere questa colossale valanga di sanguinoso karma, che diversamente rischia d'ingrossarsi fino a provocare una terza guerra mondiale. Questa malaugurata trinità può abolire per sempre la possibilità di una quarta guerra e tutti quanti i problemi umani, mediante l'uso conclusivo della bomba atomica. L'usare la logica della giungla invece della ragione umana per risolvere le controversie, rifarà della terra una giungla. Allora, se non fratelli in vita, saremo fratelli accomunati nella morte violenta. Non è per consentire tale ignominia che io
ha amorevolmente permesso all'uomo di scoprire il segreto delle energie atomiche! La guerra, come il delitto, non porta mai bene. I miliari di dollari volatilizzati nel fumo di un niente esplosivo sarebbero bastati per creare un mondo nuovo, un mondo quasi privo di malanni e completamente scevro di miseria. Non una terra di paure, caos, fame, pestilenza, vera danse macabre, bensì un mondo di pace, di prosperità e di sempre più vasta conoscenza. Il richiamo di Gandhi alla non-violenza si rivolge alla più elevata coscienza dell'uomo. Facciamo sì che le Nazioni stringano alleanza non più con la morte, ma con la vita; non più con la distruzione, ma con la costruzione; non più con le annichilanti forze dell'odio, ma con i miracoli creativi dell'amore. Dice il Mahabharata: 'Qualunque sia l'offesa, si deve perdonare. E' stato detto che la continuazione della specie, è dovuta al perdono dell'uomo. Il perdono è santità: col perdono l'universo si mantiene unito. Il perdono è la forza del potente; il perdono è sacrificio; il perdono è pace dell'anima; il perdono e la dolcezza sono le qualità possedute da chi è padrone di se stesso. Esse rappresentano la virtù eterna'. La non-violenza è la risultante naturale della legge del perdono e dell'amore. "Se la perdita di una vita si rendesse necessaria in una giusta battaglia", proclama Gandhi, "si dovrebbe esser pronti, come Gesù, a spargere il proprio sangue, non quello degli altri. Vi sarebbe così meno sangue versato nel mondo". Un giorno si scriveranno poemi epici sui satyagrahi indiani che hanno resistito all'odio con l'amore, alla violenza con la non-violenza, che accettarono d'esser trucidati senza pietà, piuttosto che prender le armi. Come risultato di ciò, è accaduto in circostanze storiche che gli avversari armati gettassero i loro fucili e fuggissero pieni di vergogna, scossi nel profondo dalla vita di uomini che davano valore alla vita altrui più che alla propria. "Preferirei attendere per secoli, se necessario", dice Gandhi, "piuttosto che cercar di dare la libertà al mio paese con mezzi cruenti". Il Mahatma non dimentica mai il solenne avvertimento: - Chi di spada ferisce, di spada perisce. (Nota: Matteo, 26, 52. Questo è uno dei numerosi passi nella Bibbia che suggeriscono implicitamente la necessità di reincarnazione dell'uomo. Molte complessità della vita si possono spiegare soltanto per mezzo della comprensione della legge karmica di giustizia. Fine nota).
"Mi considero un nazionalista", egli scrisse, "ma il mio nazionalismo è vasto quanto l'universo: racchiude in sé tutte le nazioni della terra. (Nota: "L'uomo non si glorii di amare il proprio paese; si glorii piuttosto di amare la propria specie". Proverbio persiano. Fine nota). Il mio nazionalismo include il benessere di tutto il mondo. Non voglio che la mia India sorga sulle ceneri d'altre nazioni. Non voglio che l'India speculi su qualsiasi essere umano. Voglio che l'India sia forte, perché possa comunicare la sua forza anche alle altre nazioni. Questo, oggi, non accade per nessuna nazione europea: nessuna di esse dà forza alle altre. "Nell'esporre i suoi bellissimi quattordici punti il Presidente Wilson disse: - Se questi nostri sforzi per raggiungere la pace falliranno, ripiegheremo sulle nostre armi. - Io voglio capovolgere questa posizione e dire: - Le armi hanno già fallito. Cerchiamo allora qualche cosa di nuovo; proviamo a usare la forza dell'amore e Dio, che è la verità. Quando avremo ottenuto questo, non desidereremo più nulla". Con l'insegnamento impartito a migliaia di fedeli sayagrahi (coloro che presero gli undici rigidi voti citati nella prima parte di questo capitolo), i quali a loro volta divulgano il suo messaggio; educando pazientemente le masse indiane alla comprensione dei benefici spirituali, e a volte anche materiali, della non-violenza; armando la sua gente delle armi psichiche di non- cooperazione con l'ingiustizia; incitandoli a sopportare gli affronti, il carcere e perfino la morte pur di non ricorrere alle armi; conquistandosi le simpatie del mondo intero con innumerevoli esempi d'eroico martirio fra i satyagrahi, Gandhi ha dimostrato in modo impressionante la praticità della non-violenza, e il suo straordinario potere di risolvere gli attriti senza guerra. Con mezzi non-violenti Gandhi ha già conquistato al suo Paese concessioni assai maggiori di quelle ottenute da qualsiasi capo, di qualunque altro paese, con l'uso delle armi. I metodi della non-violenza, usati per sradicare mali e ingiustizie, sono stati applicati brillantemente non solo nel campo politico, ma anche in quello complicatissimo e delicato delle riforme sociali. Gandhi e i suoi seguaci hanno risolto molte annosissime controversie tra indù e maomettani; centinaia di migliaia di islamiti considerano il Mahatma loro capo. Gli intoccabili hanno trovato in lui il loro intrepido e trionfante campione. "Se vi sarà reincarnazione per me", ha scritto Gandhi, "mi auguro di rinascere paria in mezzo ai paria, poiché in tal modo potrò rendere loro maggiori e più efficaci servigi".
Il Mahatma è davvero una "grande anima"; furono i milioni di analfabeti che ebbero il discernimento di dargli questo titolo. Questo dolce Profeta è venerato nella propria patria. L'umile contadino ha saputo elevarsi fino al livello dell'altissima sfida lanciata da Gandhi. Il Mahatma crede con tutto il suo cuore alla nobiltà inerente all'uomo. Gli immancabili insuccessi non lo hanno mai disilluso. "Anche se per venti volte l'avversario gli dà prova di falsità", egli scrive, "il satyagrahi è pronto a concedergli la sua fiducia la ventunesima volta, poiché una fiducia implicita nella natura umana è la vera essenza del nostro credo". "Mahatmaji, voi siete un uomo eccezionale; non potete attendervi che il mondo agisca come voi", gli fece osservare un critico. Gandhi rispose: "E' davvero curioso come ci si inganna pensando che il corpo può essere migliorato, ma che sia impossibile richiamare i segreti poteri dell'anima. Io cerco di dimostrare che, anche se ho qualcuno di tali poteri, pure sono un fragile mortale come tutti, e che mai ci fu, né c'era ora, in me qualcosa di straordinario. Sono un semplice individuo soggetto a sbagliare come qualsiasi mortale. Riconosco però di avere sufficiente umiltà nel confessare i miei errori e ricredermi. Riconosco di avere un'incrollabile fede in Dio e nella sua bontà, e un'inestinguibile passione per la verità e l'amore. Ma tutto questo non è forse latente in ogni essere umano?". E aggiunse: "Se vogliamo progredire, non dobbiamo ripetere la storia, ma farne una nuova. All'eredità lasciateci dai nostri padri dobbiamo aggiungere qualcosa. Se possiamo fare nuove scoperte e nuove invenzioni nel mondo fenomenico, perché mai dobbiamo dichiarare bancarotta nel dominio dello spirito? E' forse impossibile moltiplicare le eccezioni tanto da farne la regola? Deve l'uomo essere sempre prima una bestia e poi, se mai, un uomo?" (Nota: Roger W. Babson chiese una volta al grande ingegnere elettrotecnico Charles P. Steinmetz: "Quale sarà il genere di ricerca che si svilupperà maggiormente nei futuri cinquant'anni?". "Credo che la più grande scoperta sarà fatta nel campo spirituale", rispose Steinmetz. "Qui risiede una forza che, come la storia insegna, fu la più importante per lo sviluppo dell'umanità. Eppure abbiamo solo scherzato con essa e non l'abbiamo mai studiata seriamente, come abbiamo fatto per le forze fisiche. Un giorno la mente imparerà che le cose materiali non arrecano felicità e poco servono a rendere gli uomini creativi e forti. Allora gli scienziati del mondo trasformeranno i loro laboratori e studieranno Dio, la preghiera e le forze spirituali che finora non sono state quasi mai indagata. Quando verrà quel
giorno, il mondo assisterà in una sola generazione a un progresso maggiore di quello che ha visto nelle ultime quattro". Fine nota). Gli americani possono ben ricordare con orgoglio il vittorioso esperimento di non-violenza compiuto da William Penn, quando, nel XVII secolo, fondò la sua colonia in Pennsylvania. Là non vi erano "né fortezze, né soldati, né milizie, né armi". Mentre tra i nuovi coloni e i pellirosse avvenivano selvagge guerre di frontiera e massacri, i Quaccheri della Pennsylvania rimaneva indisturbati. "Gli altri venivano uccisi e massacrati, ma essi erano al sicuro. Non una donna quacchera subì violenza, non un bambino quacchero fu ucciso, non un uomo quacchero torturato. Quando, alla fine, i Quaccheri furono costretti a cedere il governo di quello Stato, scoppiò la guerra e qualche pennsylvano venne ucciso; ma tra essi vi erano solo tre quaccheri che erano venuti meno alla loro fede e avevano usato armi di difesa." "Il ricorso alla forza che si è fatto nella Grande Guerra del 1914-1918 non è riuscito a portare la tranquillità", ha scritto Krankin D. Roosevelt. "Vittoria e sconfitta furono sterili entrambe: questa è la lezione che il mondo dovrebbe aver imparato". Lao-Tse insegnava: "Più armi per la violenza, maggior miseria per l'umanità. Il trionfo della violenza termina in un baccanale di lutti". E Gandhi disse: "Non lotto per niente di meno che per la pace nel mondo. Se il movimento indiano raggiungerà il successo sulle basi della nonviolenza satyagraha, esso darà un nuovo significato al patriottismo; e, se posso dire così in assoluta umiltà, anche alla vita stessa." Prima che l'occidente scarti il programma di Gandhi perché poco pratico e tracciato da un sognatore, sarà opportuno riflettere su una definizione del satyagraha data dal Maestro di Galilea: "Voi avete udito che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. - Ma io vi dico: non resistete al malvagio, anzi se alcuni ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra" (Cioè, non opporre il male al male [Matteo, 5, 38-39]. Fine nota). L'epoca di Gandhi si è inserita con la splendida precisione degli avvenimenti cosmici, in un secolo già desolato e devastato da due guerre mondiali. Una parola divina è scolpita sul muro granitico della sua vita, un monito al mondo contro ogni ulteriore spargimento di sangue fraterno. SCRITTURA DI GANDHI, IN INDI
Il Mahatma Gandhi visitò la scuola Yogoda Satsanga Vidyalaya dove si impartisce l'insegnamento Yoga a Ranchi, e scrisse gentilmente alcune righe nel libro degli ospiti. Eccone la traduzione: 'Questo istituto ha profondamente impressionato il mio animo. Nutro grandi speranze che questa scuola incoraggerà per l'avvenire l'uso pratico del filatoio. 17 settembre 1925. Firmato Mohandas Gandhi.
MAHATMA GANDHI IN MEMORIA "Egli fu nel vero senso della parola il padre della nazione e un pazzo lo ha ucciso. Milioni e milioni lo piangono perché una luce si è spenta... La luce che brillava in questo paese non era una luce comune. Per mille anni ancora essa risplenderà in questa nazione, visibile al mondo". Queste le parole del Primo Ministro dell'India poco dopo l'assassinio di Mahatma Gandhi a Nuova Delhi il 30 gennaio 1948. Cinque mesi prima l'India aveva ottenuto con mezzi pacifici l'indipendenza. L'opera del sessantottenne Gandhi era compiuta ed egli si rendeva conto che la sua ora era vicina. "Ava, portami tutte le carte importanti", disse a suo nipote. "Devo rispondere oggi, potrebbe non esserci un domani". In molti passi dei suoi scritti Gandhi fece allusione al suo incombente destino. Mentre si accasciava lentamente al suolo con tre pallottole nel suo fragile corpo, il Mahatma morente alzò le mani nel tradizionale gesto di saluto (pronam), dando così forma al suo silenzioso perdono. Genuino artista quale fu in tutte le opere della sua vita, Gandhi divenne artista supremo nel momento della morte. Tutti i sacrifici della sua vita impregnata d'altruismo resero possibile quel gesto finale d'amore. Albert Einstein rese a Gandhi il seguente tributo d'onore: "Forse le generazioni che verranno stenteranno a credere che un simile uomo sia veramente vissuto in carne e ossa sulla terra". Un telegramma del Vaticano
di Roma diceva: "L'assassinio ha provocato gran lutto tra noi. Gandhi è pianto come un apostolo delle virtù cristiane". Tutte le vite dei grandi uomini che seguono sulla terra per il compimento di un particolare atto di giustizia, sono cariche di significato simbolico. La drammatica morte di Gandhi per la causa dell'unità dell'India ha trasmesso luminosamente il suo messaggio a tutto il mondo dilaniato dalla discordia. Egli ha formulato con parole profetiche questo messaggio: "La non-violenza è venuta tra gli uomini e sopravvivrà. Essa è foriera nella pace nel mondo".
CAPITOLO XLV LA "MADRE PERMEATA DI GIOIA" DEL BENGALA "Signore, vi prego di non lasciare l'India senza aver visto Nirmala Devi. La sua santità è grande. E' conosciuta dappertutto col nome di Ananda Moyi Ma (Madre permeata di gioia)". Mio nipote, Amiyo Bose, mi fissava con serietà. "Certamente!", risposi. "Desidero moltissimo vedere la santa donna". E aggiunsi: "Ho letto degli articoli che parlavano del suo avanzatissimo stato di realizzazione divina. Un articoletto su di lei è apparso anni fa nella rivista East-West." "Io l'ho veduta", seguitò Amiyo. "E' venuta di recente nella mia cittadina di Jamshedpur. In seguito alle suppliche di un discepolo del posto, Ananda Moyi Ma si recò da un uomo che stava morendo. Si fermò accanto al suo letto e non appena la sua mano toccò la fronte dell'agonizzante, il rantolo della morte cessò; il male scomparve d'un tratto: l'uomo, con sua grande e lieta meraviglia, era guarito". Dopo pochi giorni seppi che la Beata Madre stava in casa di un discepolo nel quartiere Bhowanipur di Calcutta. Wright e io lasciammo subito la casa di mio padre per recarci colò; mentre la Ford si avvicinava alla casa di Bhowanipur, assistemmo per la strada a una scena insolita: Ananda Moy Ma in piedi in una macchina aperta, benediceva una piccola folla di circa cento discepoli. Evidentemente stava per partire. Wright fermò l'auto a una certa distanza, e a piedi ci dirigemmo insieme verso il silenzioso assembramento. La santa donna volse uno sguardo verso di noi, scese dalla macchina e ci venne incontro con vivacità. "Padre, sei venuto!", ella disse con fervore, cingendomi il collo con le braccia e posando il capo sulla mia spalla. Wright, cui avevo appena detto che non conoscevo la santa, godeva enormemente di questa straordinaria accoglienza. Tutti i chela fissavano anch'essi sorpresi quella dimostrazione di affetto. Mi accorsi subito che la Santa era in uno stato di altissimo samadhi. Completamente dimentica delle sue esteriori fattezze di donna, ella sapeva solo di essere un'anima immutabile, e da quel piano di realizzazione spirituale salutava gioiosa un altro devoto di Dio. Mi condusse per mano alla sua macchina.
"Ananda Moyi Ma, ritardo il tuo viaggio", protestai. "Padre, ti incontro per la prima volta in questa vita, dopo secoli! Ti prego, non andartene di già!". Sedemmo accanto nell'automobile. La beata Madre ben presto piombò nell'immobilità estatica. I suoi bellissimi occhi guardavano verso il cielo: semiaperti e tranquilli, fissavano il vicino e lontanissimo Elisio interiore. I discepoli cantavano sommessi: "Vittoria alla Madre Divina!". In India avevo incontrato molti uomini che avevano realizzato Dio, ma mai prima d'ora mi ero imbattuto in una donna così sublimemente santa. Il suo viso gentile risplendeva soffuso di un'indicibile gioia, il che le aveva procurato il nome di Beata Madre. Lunghe trecce nere ricadevano dietro il suo capo scoperto. Una macchia rossa di pasta di legno di sandalo sulla sua fronte simboleggiava l'occhio spirituale, sempre aperto in lei. Piccolo viso, piccolissime mani, piccolissimi piedi: un vero contrasto con la sua grandezza spirituale. Mentre Ananda Moyi Ma rimaneva in estasi, feci qualche domanda a una chela che mi stava vicino. "La Beata Madre viaggia molto per tutta l'india. In molte parti del Paese ha centinaia di discepoli", disse la chela. "I suoi coraggiosi sforzi sono riusciti a ottenere molte auspicate riforme sociali. Sebbene sia una brahmina, la santa non ammette distinzioni di casta (Nota: Ananda Moyi Ma nacque nel 1896 nel villaggio di Kheora, nella provincia di Tripura (Bengala dell'Est). Fine nota). Un gruppo di noi viaggia sempre con lei, vigilando sul suo benessere. Siamo noi che dobbiamo prenderci cura di lei come d'un bambino, poiché essa non prende nota del proprio corpo. Se non le si desse da mangiare, non prenderebbe né chiederebbe cibo. Anche se gli alimenti le vengono posti davanti, non li tocca. Per evitare la sua scomparsa da questo mondo, noi discepoli la nutriamo con le nostre mani. Rimane nell'estasi divina per giorni interi, respirando appena e con gli occhi immobili. Uno dei suoi maggiori discepoli è il marito. Molti anni fa, poco dopo il matrimonio egli si votò al silenzio". E la chela m'indicò un bell'uomo dalle larghe spalle, con lunghi capelli e folta barba, che stava tranquillamente in mezzo alla folla, con le mani giunte nell'atteggiamento di un reverente discepolo. Rinfrescata dal suo tuffo nell'Infinito, Ananda Moyi Ma rivolse ora la propria attenzione al mondo materiale. "Padre, dimmi, ti prego, dove abiti". La sua voce era chiara e melodiosa. "Adesso sto a Calcutta, o a Ranchi, ma ben presto tornerò in America". "In America?".
"Sì. Una Santa indiana sarebbe molto apprezzata dai ricercatori dello Spirito, laggiù. Vorresti venirci?". "Se il Padre può condurmici, vi andrò". Questa risposta allarmò i discepoli che le stavano accanto. (Nota: Ananda Moyi Ma non chiama nessuno suo "discepolo". Con impersonale saggezza ella elargisce a tutti, nuovi arrivati e devoti conosciuti da molto tempo, il divino amore della Madre Universale. Fine nota). "Una ventina e più di noi accompagnano sempre la Beata Madre", disse uno di essi, deciso. "Non potremmo vivere senza di lei. Dovunque lei vada, andremo anche noi". Rinunziai con dispiacere al mio progetto, dato che assumeva proporzioni poco pratiche! "Per piacere, vieni almeno a Ranchi con i tuoi discepoli", dissi prendendo congedo dalla Santa. "Poiché sei tu stessa una divina fanciulla, ti farà piacere vedere i piccoli della mia scuola". "Dovunque il Padre mi vuole, verrò con piacere". Poco tempo dopo, il Vidyalaya di Ranchi era in veste di gala per accogliere la Santa. I giovanetti attendevano sempre con gioia ogni giorno di festa: niente lezioni, ore di musica e un festino superlativo! "Vittoria! Ananda Moyi Ma, ki jai!". Questo canto ripetuto da tante entusiastiche piccole gole canore accolse la comitiva della Santa al suo ingresso dai cancelli della scuola. Una pioggia di calendule, un tintinnio di cembali, un allegro suonar di corni a conchiglia e rullìo di tamburi miridanga! La Beata Madre camminava sorridendo per gli assolati viali del Vidyalaya, portando sempre in sé il suo paradiso ambulante. "E' bellissimo qui", disse Ananda Moyi Ma graziosamente, mentre la conducevo nell'edificio principale. Con un sorriso da bimba si sedette accanto a me. La sentivo come l'amica più intima e più cara, eppure era sempre circondata come da un'aura di lontananza: il paradossale isolamento reato dall'Onnipresenza. "Dimmi qualcosa della tua vita, ti prego". "Il padre sa tutto di essa. A che serve ripetersi? Era chiaro che ella giudicava la storia di una breve incarnazione come cosa di nessuna importanza. Sorrisi, ripetendo gentilmente la domanda. "Padre, vi è poco da dire". Distese le mani graziose in un gesto supplichevole. "La mia coscienza non s i è mai associata a questo mio corpo provvisorio. Prima di venire su questa terra padre, 'ero la stessa'. (Nota: Ananda Moyi Ma non dice mai "io", ma usa circonlocuzioni come "questo corpo", o "questa bimba" o "tua figlia". Fine nota). Da bambina 'ero la
stessa'; divenni donna, ma 'ero sempre ancora la stessa'; quando la famiglia da cui ero nata decise che questo corpo dovesse sposare, 'ero la stessa'. E, padre, anche ora dinanzi a te 'io sono la stessa'. E per sempre in seguito, benché la danza della creazione muti intorno a me nell'eternità, 'io sarò la stessa'". Ananda Moyi Ma cadde in uno stato di profonda meditazione. La sua forma era immobile come una statua; era fuggita nel suo reame dall'eterno richiamo. Gli oscuri stagni dei suoi occhi sembravano senza vita, vitrei. Questa espressione si vede spesso nei santi allorché scindono la coscienza dal loro corpo fisico, che divenne poco più di un pezzo d'argilla inanimato. Per un'ora sedemmo insieme in estatico rapimento. Poi essa ritornò in questo mondo con una gaia risatina. "Ti prego, Ananda Moyi Ma", le dissi, "vieni con me in giardino. Il signor Wright vuol fare delle fotografie". "Certamente, Padre, la tua volontà è la mia volontà". Mentre posava per varie fotografie, i suoi occhi luminosi serbarono l'immutabile divino splendore. Ed era giunta l'ora del banchetto! Ananda Moyi Ma si accosciò sulla coperta, con un discepolo al fianco che le desse da mangiare. Come un bimbo, la Santa ingoiava ubbidiente i cibi che il chela le portava alle labbra. Era chiaro che la Beata Madre non s'accorgeva di alcuna differenza tra il curry e i dolci! Al crepuscolo, la Sata partì con la sua comitiva, sotto una pioggia di petali di rose, mentre, con le mani sollevate, benediceva i ragazzini. I volti di questi erano raggianti di tutto l'affetto ch'ella aveva risvegliato senza sforzo nei loro cuori. "Ama dunque il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua e con tutta la tua mente e con tutta la tua forza: questo è il primo comandamento", proclamò il Cristo. (Nota: Marco, 12, 30, Fine nota). Rifiutando ogni legame inferiore, Ananda Moy Ma offre tutta la sua fedeltà al Signore. Non mediante le cavillose distinzioni degli studiosi, ma con la sicura logica della fede, la Santa tanto simile a una fanciulla ha risolto l'unico problema della vita umana: quello di stabilire l'unità con Dio. L'uomo ha dimenticato questa semplicità assoluta, ormai offuscata da innumerevoli deviazioni. Mentre negano a Dio un amore monoteistico, unico, le nazioni camuffano la loro infedeltà col puntiglioso rispetto delle forme esteriori della carità. Tali gesti umanitari hanno valore perché per un attimo distolgono l'attenzione dell'uomo da se stesso, ma non lo dispensano dalla sua prima responsabilità nella vita, quella a cui Gesù si riferisce quale primo
comandamento. L'alto dovere di amare Iddio, l'uomo lo assume quando col primo vagito, egli respira per la prima volta un'aria liberamente prodigatagli dal suo unico Benefattore (Nota: "Molti sentono il bisogno di creare un mondo nuovo e migliore. Piuttosto che fissare il pensiero in tali cose, dovreste concentrarvi su Quello nella Cui contemplazione è la speranza di una pace perfetta. E' dovere dell'uomo diventare un ricercatore di Dio o della Verità". Ananda Moyi Ma. Fine nota). Dopo la sua visita a Ranchi ebbi occasione di vedere ancora una volta Ananda Moyi Ma. Alcuni mesi dopo, ella stava tra i suoi discepoli sul marciapiede della stazione di Serampore, in attesa del treno. "Padre, vado nell'Himalaya", mi disse. "Alcuni generosi discepoli hanno costruito per noi un eremitaggio a Dehra Dun". Mentre si accostava al treno, mi meravigliai nel vedere che né tra la folla, né sul treno, né a un banchetto, né quando se ne stava seduta in silenzio, mai i suoi occhi si distoglievano da Dio. Dentro di me, odo ancora la sua voce come un'eco di infinita dolcezza: "Guarda! Ora e sempre una cosa sola con l'Eterno. 'Io sono sempre la stessa'".
CAPITOLO XLVI LA YOGHINI CHE NON MANGIA MAI "Signore, dove andiamo questa mattina?". Wright che stava guidando la Ford, si volse un momento per lanciarmi uno sguardo interrogativo. Non sapeva mai, da un giorno all'altro, quale parte del Bengala gli avrei fatto scoprire. "A Dio piacendo" risposi con devozione, andiamo a vedere l'ottava meraviglia del mondo: una Santa la cui dieta consiste di pura aria!". "Una seconda 'ottava meraviglia' allora, dopo Teresa Neumann" Wright rise, pieno di entusiasmo, e accelerò perfino l'andatura della macchina: si profilava un'altra storia straordinaria per il suo diario di viaggio, che non era certamente quello di un viaggiatore comune!. Avevamo lasciato da poco la scuola di Ranchi, essendoci alzati prima dell'alba, e avevamo con noi altri tre amici bengalesi. Nell'aria esilarante, bevevamo il vino naturale del mattino. Il nostro autista guidava cautamente la macchina fra contadini mattinieri e carretti a due ruote tirati lentamente da buoi gobbi aggiogati in coppia, in vena di contendere la strada al rumoroso intruso. "Vorremmo sapere qualcosa di più sulla Santa del digiuno", dissero i miei compagni. "Il suo nome è Giri (nota: pron. Ghiri. Fine nota) Bala", risposi. "Ne udii parlare la prima volta tanti anni fa da Sthiti Lal Nundy, uno studioso che veniva spesso in Gurpar Road per dare lezioni a mio fratello Bishnu. Conosco bene Giri Bala", - mi disse Sthiti Babu. - Pratica una certa tecnica yoga che permette di vivere senza mangiare. Poiché abitavo accanto a lei a Nawabganj, vicino a Ichapur (Nota: Nel Nord del Bengala. Fine nota), presi l'impegno con me stesso di vigilarla attentamente; non la vidi mai né mangiare né bere. Tanto mi interessai a lei, che mi rivolsi al Maharaja di Burdwan (Nota: S.A. Sir Bijay Chand Mahtab, ora deceduto. La sua famiglia è certamente in possesso di notizie sulle tre inchieste fatte dal Maharaja su Giri Bala. Fine nota), e lo pregai di ordinare un'inchiesta su Giri Bala. Meravigliato di quanto gli avevo narrato, il Maharaja mandò a chiamare la donna, che accettò di sottoporsi a una prova e visse per due mesi chiusa a chiave in un appartamento del palazzo; vi ritornò di nuovo per venti giorni e
ancora una terza volta per una prova di quindici giorno. Il Maharaja stesso mi disse che quei tre rigorosi controllo lo avevano pienamente convinto del suo perenne digiuno. "Il racconto di Sthiti Babu mi rimase impresso nella mente per oltre venticinque anni. A volte, in America, pensavo: chissà se il fiume del tempo non avrà travolto lo yoghini (nota: La donna yoga. Fine nota), prima ch'io possa incontrarla. Ormai deve essere abbastanza vecchia. Non so neppure se e dove viva. Ma fra qualche ora giungeremo a Purulia, dove abita suo fratello". Alle dieci e mezzo il nostro gruppetto era a Purulia e conversava con l'avvocato Lambodar Dey, fratello della Santa. "Sì, mia sorella è viva. Qualche volta vive qui con me, ma adesso è nella nostra casa di famiglia a Biur". Lambodar guardò dubbioso la Ford. "Temo, Swamiji, che nessuna automobile sia mai penetrata all'interno da poter giungere fino a Biur. Sarebbe meglio che vi rassegnaste all'antico mezzo di trasporto del carro a buoi". Come un sol uomo affermammo tutti la nostra fiducia nell'"orgoglio di Detroit". "La Ford viene dall'America", dissi all'avvocato; "sarebbe una vergogna privarla dell'opportunità di conoscere il cuore del Bengala". "Che Ganesh (Nota: "Colui che rimuove gli ostacoli". Il dio della buona fortuna. Fine nota) vi accompagni!" disse Lambodar Babu ridendo; e aggiunse con cortesia: "Se mai vi giungerete, sono sicuro che mia sorella sarà felice di vedervi. Si avvicina ai settant'anni, ma è sempre in ottima salute. "Ditemi vi prego, è proprio vero che non mangia mai nulla?" e fissai l'avvocato negli occhi, le finestre rivelatrici della mente. "E' vero". Il suo sguardo era franco e aperto. "Da più di cinquant'anni non le ho mai visto ingoiare un boccone. Se il mondo finisse a un tratto, non mi meraviglierei di più che se vedessi mia sorella prender cibo". Ridemmo insieme dell'improbabilità di questi due eventi cosmici. "Giri Bala non ha mai cercato un'inaccessibile solitudine per le sue pratiche yoga", continuò Lambodar Babu. "Ha vissuto tutta la sua vita circondata dalla famiglia e dagli amici. Tutti si sono ormai abituati al suo strano modo di vivere; non ve n'è uno che non rimarrebbe stupefatto se Giri Bala decidesse a un tratto di mangiare qualche cosa. Mia sorella vive naturalmente ritiratissima, come si addice a una vedova indù; ma il nostro piccolo circolo, sia a Purilia che a Biur, è convinto che ella sia davvero una donna eccezionale.
La sincerità del fratello era palese. Lo ringraziammo calorosamente e partimmo per Biur. Ci fermammo a una bottega sulla strada per comperare curry e luchi (Nota: Pron. luci, Fine nota), richiamando intorno a noi una pleiade di monelli che circondarono il signor Wright per vederlo mangiare con le mani, al semplice modo indù. Un ottimo appetito ci indusse a far provvista di energie per un pomeriggio che (in quel momento non lo sapevamo), doveva essere molto laborioso. La strada ci portava ora verso oriente, attraverso campi di riso arsi dal sole, nel settore Burdwan del Bengala; e avanti per strade bordate di folta vegetazione. I canti dei mayna e dei bulbul dalla gola variegata si riversavano dagli alberi dagli immensi rami a ombrello. Ogni tanto incontravamo un carro a buoi che cigolava col caratteristico rini, rini, mangiu, mangiu del suo asse e delle sue ruote di legno ferrato, così diverso dal rapido fruscio delle gomme d'automobile sull'aristocratico asfalto della città. "Ferma, Dick!". La mia improvvisa ingiunzione provocò un salto di protesta della Ford. "Quel sovraccarico albero di mango ci grida quasi un invito!". Tutti e cinque corremmo come bambini verso l'albero, che benevolmente aveva sparso al suolo i suoi frutti maturi. E io parafrasai: "Molti manghi nascon per rimanere occulti e sprecar la lor dolcezza sul pietroso suolo". "Non vi è nulla di simile in America, eh, Swamiji?" rise Sailesh Mazumdar, uno dei miei allievi bengali. "No", ammisi, pieno di succo di mango e di soddisfazione. "Quanto mi è mancato questo frutto in Occidente! Per un indiano il cielo è inconcepibile senza manghi!". Presi una pietra e feci cadere a terra un'orgogliosa bellezza, insufficientemente nascosta fra i rami più alti. "Dick", chiesi fra un boccone e l'altro di ambrosia calda di sole tropicale, "le macchine fotografiche sono tutte nell'auto?". "Si, nel bagagliaio". "Se Giri Bala è davvero una santa, scriverò di lei quando sarò in Occidente. Una yoghini indù con tali poteri d'ispirazione non deve vivere e morire ignorata come molti di questi manghi". Mezz'ora dopo stavo ancora passeggiando fra la pace silvana, ma Wright mi richiamò: "Signore, dovremmo giungere da Giri Bala prima del tramonto, altrimenti non avremo abbastanza luce per prendere delle fotografie". E aggiunse, ironico: "Gli occidentali sono scettici; non
possiamo pretendere che credano a questa signora senza vederne le immagini". Questa saggezza era irrefutabile. Volsi le spalle alla tentazione e risalii in macchina. "Hai ragione, Dick", sospirai mentre correvamo sulla strada. "Sacrifico il paradiso dei manghi sull'altare del realismo occidentale. Dobbiamo procurarci delle fotografie." La strada diventava sempre più malata: rughe di solchi, foruncoli di argilla secca, le tristi infermità della vecchiaia! Ogni tanto dovevamo scendere per permettere a Wright di manovrare più facilmente la Ford, che noi quattro dovevamo spingere! "Lambodar Babu aveva ragione", riconobbe Sailesh. "Non è la macchina che porta noi, ma siamo noi a portare la macchina!". Il tedio del nostro salire e scendere dall'automobile era confortato ogni tanto dalla vista di un villaggio; ciascuno di essi offriva uno spettacolo di antica semplicità. "La nostra strada s'insinuava e girava attraverso boschetti di palme, fra antichi e incontaminati villaggi annidati all'ombra della foresta", scrisse Wright nel suo diario, in data 5 maggio 1936. "Quei gruppi di capanne di fango ricoperte di paglia, con scritto sulla porta uno dei nomi di Dio, sono deliziosi; molti bimbetti innocentemente nudi giovano e si fermano a guardare, o scappano come matti per allontanarsi dal nostro enorme carro nero senza buoi, che sfreccia pazzamente attraverso il villaggio. Le donne ci sbirciano appena timidamente dall'ombra, mentre gli uomini indugiano pigramente sotto gli alberi lungo la via, curiosi nonostante l'apparente noncuranza. In un luogo, tutti i paesani facevano allegramente il bagno in una cisterna (nelle loro vesti, che poi lasciavano cadere dopo essersi accolti in altre asciutte). Le donne portavano a casa l'acqua in enormi brocche di ottone. "La strada ci obbligava a un'allegra corsa per salite e discese. Scossi, sbalzati, sballottati, affondavamo in piccoli rivoli d'acqua, giravamo intorno a un terrapieno incompiuto, scivolavamo attraverso letti di fiumi secchi e sabbiosi sinché alla fine, verso le cinque del pomeriggio, fummo prossimi alla mèta. Questo minuscolo villaggio nell'interno del distretto di Bankura, nascosto e protetto da un denso fogliame, è inaccessibile ai viaggiatori durante la stagione delle piogge, ci dissero, quando i rivoli d'acqua divengono furiosi torrenti e le strade tortuose come serpenti sputano il veleno del loro fango. "Quando chiedemmo di una guida a un gruppo di fedeli che tornavano dalla preghiera in un tempio lontano nella solitaria campagna, fummo
assediati da una dozzina di ragazzi vestiti molto sommariamente, che, arrampicatisi sui predellini della macchina, volevano tutti condurci da Giri Bala. "La strada ci conduceva verso un boschetto di palme da datteri, che celava un gruppo di capanne di fango; ma prima che vi giungessimo, la Ford si inclinò a un certo momento pericolosamente, si scagliò in alto e ricadde. "Lo stretto sentiero aggirava alberi e cisterne, e procedeva attraverso profondi solchi, buche e rialzi. L'automobile si arenò in un gruppo di cespugli, poi affondò su una montagnola, e per rimuoverla si dovettero spostare zolle di terra; quindi procedemmo lenti, con molta precauzione. A un tratto il nostro cammino fu sbarrato da un mucchio di sterpaglia nel bel mezzo della carreggiata, il che ci costrinse a svoltare bruscamente e a scendere a precipizio già per uno scosceso pendio fin dentro una cisterna asciutta, per toglierci dalla quale dovemmo al quanto raschiare, tagliare, spalare. La strada sembrava diventare sempre più impraticabile, ma il pellegrinaggio doveva pur continuare; ragazzi servizievoli cercarono delle vanghe e abbatterono gli ostacoli (benedizione di Ganesh!), mentre centinaia di bambini e i loro genitori ci guardavano a bocca aperta. "Ben presto ci facemmo strada lungo i due antichissimi solchi della carreggiata; le donne ci fissavano ad occhi spalancati dalla soglia delle loro capanne, gli uomini scortavano la macchina dietro e accanto a noi, e i bambini correvano per ingrossare la processione. La nostra era la prima automobile che passava per quelle strade; l'"Unione dei carretti a buoi" deve essere onnipossente qui! E che impressione facevamo! Un gruppo pilotato da un americano in un'automobile sbuffante che assaliva la tranquilla fortezza del villaggio invadendone l'antica intimità e santità! "Ci fermammo in una stretta viuzza a un centinaio di passi dalla casa avita di Giri Bala. Provavamo tutta l'emozione dell'esaudimento per un'opera condotta bruscamente a termine dopo lunghe peripezie stradali. Ci avvicinammo a un grande edificio di mattoni e stucco a due piani, che dominava le circostanti capanne in laterizio. La casa era ovviamente in riparazione; ciò era dimostrato dalla impalcatura di bambù, caratteristica dei tropici. "Pieni di febbrile attesa e di gioia repressa, sostammo dinanzi alla casa aperta della Santa benedetta dal tocco del Signore che le aveva tolto la fame! I villici, giovani e vecchi, nudi e vestiti, continuavano a osservarci a bocca aperta: le donne riservate ma anch'esse incuriosite, gli uomini e i bimbi senza soggezione alle nostre calcagna, stupefatti per l'insolito spettacolo.
"Sulla soglia apparve una bassa figura: Giri Bala! Avvolta in una stoffa di seta color oro spento, ella avanzò nella tipica maniera indiana, modesta e esitante, guardando al di sotto della piega superiore del suo swadeshi. I suoi occhi brillavano come tizzoni ardenti e all'ombra del suo copricapo; ci innamorò il suo viso gentile e benevolo, un viso pieno d'autorealizzazione, libero da ogni riflesso di legami terreni. "Giri Bala si accostò a noi e graziosamente accondiscese a lasciarci prendere un certo numero di fotografie e a girare qualche ripresa. (Nota: Wright fece una ripresa cinematografica anche di Sri Yukteswar durante l'ultima festa del Solstizio d'Inverno a Serampore. Fine nota). Paziente e timida, si sottopose alle nostre esigenze tecniche di posa e di luce, e così ottenemmo per i posteri molte fotografie dell'unica donna al mondo nota in questo secolo per aver vissuto senza mangiare né bere per oltre cinquant'anni. (Teresa Neumann digiuna solo dal 1923). "Dolcemente materna era l'impressione di Giri Bala mentre stava di fronte a noi, completamente avvolta in un ampio drappo; del suo corpo non si scorgeva altro che il viso con gli occhi chini, le mani e i minuscoli piedi. Il suo volto dal largo labbro tremante e infantile, dal naso femmineo, dagli stretti occhi scintillanti e dal pensoso sorriso, spirava una rara pace e innocente saggezza". L'impressione che Wright ebbe di Giri Bala è condivisa da me. La spiritualità l'avviluppava come il suo velo soavemente luminoso. Ella mi offrì il pronam, il gesto abituale di saluto di una donna di casa a un monaco. Il suo semplice fascino e il suo quieto sorriso ci dettero un benvenuto assai più eloquente di una melata oratoria. Il nostro difficile e polveroso viaggio era completamente dimenticato. La piccola Santa sedette a gambe incrociate sulla veranda. Sebbene si scorgessero in lei le tracce degli anni, non aveva l'aria emaciata e la sua pelle olivastra era rimasta tersa e di un bel colorito sano. "Madre", le dissi in bengali, "per oltre venticinque anni ho pensato con grande desiderio a questo pellegrinaggio. Seppi della vostra santa vita da Sthiti Lal Nundy Babu". Ella annuì. "Si, il mio buon vicino di Nawabganj". "Durante questi anni ho attraversato gli oceani, ma non ho mai dimenticato il mio antico progetto di venire a trovarvi, una volta o l'altra. Il dramma sublime, che vivete in tanta modestia, dovrebbe esser reso noto dovunque, in un mondo che da molto tempo ha dimenticato il divino alimento interiore". La Santa sollevò un attimo gli occhi, sorridendo con sereno interesse. "Baba (onorato padre) sa quel che è meglio", rispose mitemente.
Ero felice che non si fosse sentita urtata. Non si sa mai come i grandi yoghi o le yoghini reagiranno al pensiero della pubblicità. Di regola la evitano, desiderando proseguire nel silenzio le profonde ricerche dell'anima; ma avvertono un'ingiunzione interiore quando giunge il momento opportuno di render manifesta la loro vita, per il bene di coloro che cercano la verità. "Madre", continuai, "perdonatemi allora se vi annoierò con molte domande. Rispondete, per favore, solo a quelle che vi sono gradite. Comprenderò anche il vostro silenzio". Ella allargò le mani in un gesto grazioso. "Sono lieta di rispondere, per quanto una persona insignificante come me possa dare soddisfacenti risposte". "Oh no! non insignificante!", protestai con sincerità. "Siete una grande anima!". "Sono l'umile serva di tutti". E aggiunse bizzarramente: "Mi piace cucinare, per dar da mangiare agli altri". Strano passatempo, pensai per una Santa che non mangia mai! "Ditemi con le vostre stesse labbra, madre, vivete davvero senza prender cibo?". "Si, è vero". Tacque per un momento; da quanto disse in seguito, si capì che lottava dentro di sé con l'aritmetica. "Dall'età di dodici anni e quattro mesi, fino ad ora che ne ho sessantotto - un periodo di oltre cinquantasei anni - non mangio né bevo". "E non siete mai tentata di farlo?". "Se sentissi il bisogno di mangiare, dovrei mangiare". Semplicemente, ma regalmente, enunciò questa verità assiomatica, troppo ben conosciuta da un mondo che gira attorno ai tre pasti giornalieri! "Ma mangiate pure qualche cosa!". Il mio tono aveva una nota di rimostranza. "Certamente!". Ella sorrise con rapida comprensione. "Il nutrimento vi è dato dalle più fini energie del sole e dell'aria (Nota: "Quello che noi mangiamo sono radiazioni, il nostro alimento è un 'quantum' di energia" dichiarò il dott. George W. Crile di Cleveland a una riunione di medici il 17 maggio 1933, a Memphis. Parte del suo discorso venne riportato come segue: "Questa radiazione di primaria importanza, che immette correnti elettriche nel circuito elettrico del corpo, cioè del sistema nervoso, è ceduta agli alimenti dai raggi del sole. Gli atomi", dice il dott. Crile, "sono sistemi solari. Essi sono i veicoli che si caricano come molle compresse di radiazione solare.
Questi innumerevoli atomi d'energia vengono assorbiti come alimento. Giunti nel corpo umano, questi veicoli saturi d'energia, gli atomi, si scaricano protoplasma; e l'irradiazione fornisce nuove energie chimiche e nuove correnti elettriche. Il vostro corpo è fatto i tali atomi", dice il dott. Crile. "Essi sono i vostri muscoli, il vostro cervello, i vostri organi sensori, come gli occhi e le orecchie". Un giorno gli scienziati scopriranno che l'uomo può vivere unicamente di energia solare. "La clorofilla è l'unica sostanza conosciuta in natura che in un certo modo ha il potere di agire come una 'trappola di luce solare'", scrive William L. Laurence nel New York Times. "Essa cattura l'energia dei raggi solari e la deposita nella pianta. Senza di ciò nessuna vita potrebbe esistere. Otteniamo l'energia che ci occorre per vivere dall'energia solare depositata negli alimenti vegetali che mangiamo, o nella carne degli animali che si nutrono delle piante. L'energia che otteniamo dal carbone e dal petrolio è energia solare catturata dalla clorofilla durante la vita delle piante milioni d'anni fa. Noi viviamo del sole attraverso l'azione della clorofilla." Fine nota) e dal potere cosmico che ricarica il vostro corpo attraverso il midollo allungato". "Baba lo sa". Ella assentì di nuovo in modo semplice e dolce. "Madre, parlatemi un poco della vostra gioventù. E' molto interessante per noi tutti in India, e anche per i nostri fratelli e sorelle al di là del mare". Giri Bala mise da parte la sua abituale riservatezza e si abbandonò a conversare. "E sia così". La sua voce era bassa e sicura. "Nacqui in queste regioni boscose. La mia fu un'infanzia qualunque, fuorché per il fatto che ero vittima di un appetito insaziabile. Mi fidanzarono quando avevo nove anni circa. - Figlia mia, - mi ammoniva spesso mia madre, - cerca di controllare la tua ingordigia. Quando verrà il momento di vivere con degli estranei, nella famiglia di tuo marito, che cosa penseranno di te se trascorrerai le giornate mangiando? "La calamità che aveva previsto si avverò. Avevo solo dodici anni quando andai a vivere con la famiglia di mio marito a Nawabganj. Mia suocera mi mortificava mattina, mezzogiorno e sera per la mia ghiottoneria. Ma le sue sgridate erano benedizioni camuffate; esse svegliarono le mie tendenze spirituali assopite. Una mattina ella si burlò di me senza pietà. Punta sul vivo, dissi: - Ben presto vi proverò che non toccherò più cibo sino a che avrà vita. "Mia suocera rise, schernendomi: - Ah! E' così. E come potrai vivere senza mangiare, se non puoi vivere senza mangiare a crepapelle?
"A queste osservazioni non v'era risposta! Eppure una ferrea risoluzione s'impossessò di me. In un luogo appartato, cercai con ansia il mio Padre Celeste. - Signore , - pregai incessantemente. - Ti prego, mandami un guru che possa insegnarmi il modo di vivere della Tua Luce e non di cibo. "Un'estasi divina m'invase. Guidata da un divino incanto mi incamminai verso il ghat di Mawabganj sul Gange. Strada facendo incontrai il prete della famiglia di mio marito. - Venerabile signore, - gli chiesi, piena di fiducia, - ditemi, vi prego come si fa a vivere senza mangiare. "Mi fissò meravigliato, senza rispondere. Alla fine mi disse in modo consolante: - Figlia, vieni questa sera al tempio. Farò una speciale cerimonia vedica per te. "Questa vaga risposta non era quella che cercavo. Continuai a camminare verso il ghat. Il sole mattutino penetrava le acque; mi purificai nel Gange, come per una sacra iniziazione. Mentre mi allontanavo dalle rive del fiume, con le vesti bagnate intorno a me, nella vasta luminosità del giorno il mio Maestro si materializzò dinanzi a me! "Mia cara piccola, - mi disse con voce piena di affettuosa compassione, sono il guru mandato qui da Dio per esaudire la tua insistente preghiera. Il Signore è stato profondamente toccato dalla sua natura veramente insolita. Da oggi in poi vivrai di luce astrale, e gli atomi del tuo corpo saranno nutriti dalla corrente infinita". Giri Bala tacque. Presi la matita e il blocchetto di Wright e tradussi in inglese una parte del racconto per sua informazione. La Santa, con la sua voce gentile, ora quasi inudibile, riprese il racconto: "Il ghat era deserto, ma il mio Guru diffuse intorno a noi un'aura di luce protettrice, affinché nessun bagnante venisse a disturbarci. Egli mi iniziò a una tecnica kria che libera il corpo dalla schiavitù dei grossolani alimenti dei mortali. La tecnica include l'uso di un certo mantra (Nota: Possente cantico vibratorio. La traduzione letterale dal sanscrito mantra è "strumento di pensiero", che indica "gli ideali suoni inaudibili che rappresentano un aspetto della creazione. Vocalizzato in sillabe, un mantra costituisce una terminologia universale". (Webster's New International Dictionary.). Gli infiniti poteri del suono derivano dall'Om o Amen, la Parola o ronzio creativo del Motore Cosmico. Fine nota) e un esercizio di respirazione più difficile di quelli che potrebbe eseguire una persona comune. Non si tratta né di medicine, né di magia; non vi è null'altro che il kria". Alla maniera dei giornalisti americani che, senza saperlo, mi avevano insegnato il loro metodo, interrogai Giri Bala su molte questioni che
ritenevo potessero interessare il mondo. Volta per volta, ella mi dette le seguenti informazioni: "Non ho mai avuto figli; molti anni fa divenni vedova. Dormo pochissimo, poiché il sonno e la veglia sono per me la stessa cosa. Medito la notte, mentre durante il giorno mi dedico ai miei lavori domestici. Sento leggermente le variazioni climatiche da stagione a stagione. Non sono mai stata ammalata, né ho mai patito fisicamente. Quando per caso mi faccio male, provo appena un leggerissimo dolore. Non ho evacuazioni. Posso controllare il cuore e il respiro. Vedo spesso il mio Guru e altre grandi anime nelle mie visioni". "Madre", le chiesi, "perché non insegnate ad altri il metodo di vivere senza nutrimento?". Le mie ambiziose speranze per i milioni di esseri che muoiono di fame nel mondo, furono subito distrutte. "No". Ella crollò il capo. "Il mio Guru mi ordinò severamente di non divulgare il segreto. Non vuole intromettersi nel dramma della creazione di Dio. I contadini non mi ringrazierebbero se insegnassi a molta gente a vivere senza mangiare! I dolci frutti giacerebbero inutili al suolo. Sembra che la miseria, la fame e le malattie siano scudisci nel nostro karma, che in definitiva ci inducono a cercare il vero significato della vita". "Madre", dissi lentamente, "a che serve che voi sola siate stata prescelta per vivere senza mangiare?". "Per dimostrare che l'uomo è Spirito". Il suo viso si illuminò di saggezza. "Per dimostrare che, attraverso il divino progresso, si può gradualmente imparare a vivere di Luce eterna, e non di alimenti" (Nota: Lo stato di emancipazione dalla necessità di alimentarsi, raggiunto da Giri Bala, è un potere yoghico di cui parla Patanjiali nelle sue Yoga Sutra (III, 31). Ella esegue un certo esercizio respiratorio che agisce sul visuddha chakra, il quinto centro di sottili energie localizzato nella spina dorsale. Il visuddha chakra, di fronte alla gola, controlla il quinto elemento, akash o etere, che permea gli spazi infra-atomici nelle cellule organiche. La concentrazione su questo chakra ("ruota") rende capaci di vivere di energia eterica. Teresa Neumann non vive di cibo materiale, né pratica una tecnica scientifica yoga per non mangiare. La spiegazione si cela nella complessità del karma individuale. Molte vite dedicate interamente a Dio precedono incarnazioni come quelle di Theresa Neumann e di Giri Bala, ma i loro mezzi di espressione differiscono l'uno dall'altro. Fra i santi cristiani che vissero senza mangiare, (stigmatizzati anch'essi) ricorderemo santa Lidwina di Schiedam, la beata Elisabetta di Rent, santa Caterina da Siena, Domenica Lazzari, la beata
Angela di Foligno e, nel XIX secolo, Louise Lateau. Il santo Nikolaus von der Flüe (bruder Klaus, l'eremita vissuto nel X secolo, la cui ardente invocazione per l'unione valse a salvare la Confederazione Elvetica), si astenne per vent'anni di toccar cibo. Fine nota). La Santa entrò in profonda meditazione. Il suo sguardo era assorto in sé, la dolce profondità dei suoi occhi perse ogni espressione. Ella emise un particolare sospiro che prelude alla trance estatica: la sospensione del respiro. Era temporaneamente fuggita verso il regno senza problemi, nel cielo dell'intima gioia. La notte tropicale era scesa. La luce di una piccola lampada a carburo ondeggiava incerta su un gruppetto di contadini che sedevano silenziosi nell'ombra. Le lucciole saettanti e le lontane lanterne a olio delle capanne tessevano luminosi e magici disegni sullo sfondo della notte vellutata. Era la triste ora del distacco; un lento, tedioso viaggio ci attendeva. "Giri Bala", dissi, quando la Santa riaprì gli occhi, "datemi, vi prego, un amuleto, un pezzetto d'uno dei vostri sari". Subito ritornò con un pezzetto di seta di Benares, e me lo tese mentre a un tratto si prostrava a terra. "Madre", esclamai con reverenza, "lasciate piuttosto che io tocchi i vostri piedi benedetti".
CAPITOLO XLVII RITORNO IN OCCIDENTE "Ho dato molte lezioni sullo yoga in India e in America, ma devo confessare che, come indù, sono insolitamente felice di poter insegnare a studenti inglesi". I miei ascoltatori londinesi risero, comprendendo quello che volevo dire; nessuna agitazione politica turbò mai la nostra pace yoga. L'India ormai non era più che un sacro ricordo. E' il settembre del 1936; sono in Inghilterra per mantenere la promessa fatta sedici mesi fa, di tenere altre conferenze a Londra. Anche l'Inghilterra è sensibile al secolare messaggio dello yoga. Giornalisti e operatori cinematografici si affollavano nel mio appartamento di Grosvenor House. Il Consiglio Nazionale Britannico dell'Associazione Mondiale delle Religioni aveva organizzato una riunione per il 29 settembre nella Chiesa Congregazionale di Whitefield, dove parlai sul ponderoso argomento: 'Come la fede nella fratellanza può salvare la civiltà'. Le conferenze, tenute alle otto di sera a Caxton Hall, richiamarono una tale folla, che per due sere la gente che non era riuscita a entrare, attese nella sala di Windsor House una mia seconda conferenza alle nove e mezzo. Le lezioni di yoga che si tennero nelle settimane seguenti erano talmente frequentate, che Wright dovette pensare a farci trasferire in una sala più grande. La tenacia inglese si manifesta in modo ammirevole nei rapporti spirituali. Gli studenti di yoga a Londra si organizzarono fedelmente, dopo la mia partenza, in un Centro d'Autorealizzazione, e vi si riunirono regolarmente ogni settimana per la meditazioni in gruppo durante tutti gli amari anni della guerra. Indimenticabili settimane in Inghilterra! Giornate trascorsi in giri turistici a Londra e nella sua bellissima campagna. Wright e io con la fedele Ford visitammo i luoghi di nascita e le tombe dei grandi poeti e degli eroi della storia britannica. Alla fine di ottobre ci imbarcammo a Southampton sul Bremen per l'America. La vista dell'imponente statua della Libertà nel porto di New York diede un piccolo sussulto di commossa gioia non solo a miss Bletch e a Wright, ma anche a me.
La Ford, benché piuttosto malconcia dopo le lotte sostenute con l'antica terra indiana, era ancora vispa, e intraprese con slancio il viaggio transcontinentale per la California. Verso la fine del 1936 ecco il nostro amato Centro di Mount Washington! Al Centro di Los Angeles, le feste di fine d'anno vengono celebrate il 24 dicembre con una meditazione collettiva della durata di otto ore (Natale spirituale), seguita il giorno dopo da un banchetto (Natale sociale). Le feste quell'anno furono ancora più grande, perché allietate dalla presenza di cari amici e allievi venuti da lontane città per salutare il ritorno dei tre giramondo. Il pranzo di Natale includeva cibi prelibati portati da quindicimila miglia lontano, proprio per quella lieta occasione. Funghi gucchi del Kashmir, rasagulla e polpa di mango in scatola, biscotti di papar e un olio del fiore indiano di Keora che diede un delicato aroma al nostro gelato. La sera ci riunimmo tutti intorno a un immenso, scintillante albero di Natale, mentre nel camino crepitavano ceppi di cipresso aromatico. Tempo di regali! Regali da tutti gli angoli della terra: Palestina, Egitto, India, Inghilterra, Francia, Italia! Con quale impegno Wright aveva contato i bauli ad ogni frontiera, perché nessuna mano ladresca potesse appropriarsi i tesori destinati ai nostri cari d'America! Frammenti del sacro olivo di Terrasanta, vaporosi merletti e ricami del Belgio e d'Olanda, tappeti persiani, delicati scialli de Kashmir, vassoi di fragrante legno di sandalo del Mysore dall'intramontabile profumo, pietre 'occhio di bove' di Shiva dalle Province Centrali, antiche monete indiane di dinastie scomparse, vani e tasse gemmate, miniature, tappezzerie, incensi e profumi, swadeshi di cotone stampato, lavori in lacca, incisioni in avorio del Mysore, pantofole persiane dal curioso alluce inquisitore, singolari manoscritti antichi ricchi di ornati, velluti, broccati, berretti alla Gandhi, vasellame, mattonelle, lavori in rame, stuoie da preghiera: bottino preso in tre continenti! Parecchi doni erano stati mandati da amici indiani ai fratelli e alle sorelle americane. Uno per uno distribuii i pacchetti avvolti in gaie carte, dall'immensa pila ammucchiata sotto l'albero. "Sorella Gyanamata!". Consegnai una lunga scatola alla santa signora americana dal dolce viso e dalla profonda realizzazione, che durante la mia assenza si era occupata di Mount Washington. Ella trasse dall'involucro di carta un sari di sera dorata di Benares. "Grazie, Signore! Questo sari porta tutto lo splendore dell'India dinanzi ai miei occhi!".
"Signor Dickinson!". Il secondo pacchetto conteneva un regalo che avevo comperato in un bazar di Calcutta. - Questo piacerà al signor Dickinson avevo pensato allora. Caro e amato discepolo, il signor E.E. Dickinson; fin da quando, nel 1925, Mount Washington era stato fondato, aveva sempre partecipato alle nostre feste natalizie. A quell'undicesima celebrazione mi stava dinanzi mentre slegava i nastri del suo piccolo pacco quadrato. "La tazza d'argento!". Soffocato dall'emozione, fissava il regalo: una grande coppa per bere. Sedette un po' in disparte, evidentemente stordito. Gli sorrisi affettuosamente prima di riprendere la mia parte di papà Natale. La serata festiva terminò con una preghiera al Donatore di tutti i doni: poi cantammo in gruppo gli inni di Natale. Qualche tempo dopo, mentre conversavamo piacevolmente insieme, Dickinson mi disse: "Permettetemi signore, di ringraziarvi adesso per la tazza d'argento. La notte di Natale non mi riuscì di trovare le parole adatte". "Quel regalo l'ho portato proprio per te!". "Ho atteso quella coppa per ben quarantatré anni! E' una lunga storia che ho sempre tenuta per me!". Dickinson mi guardò timidamente. "La storia ha un inizio drammatico; stavo per affogare. Il mio fratello maggiore mi aveva spinto, per scherzo, in uno stagno profondo oltre quaranta metri, in una cittadina del Nebraska. Avevo allora solo cinque anni. Mentre stavo per affondare nell'acqua per la seconda volta, mi apparve un'accecante luce multicolore che riempiva tutto lo spazio: in essa scorsi la figura di un uomo dagli occhi tranquilli e dal rassicurante sorriso. Il mio corpo stava affondando per la terza volta quando un compagno di mio fratello piegò un salice alto e sottile così in basso, che potei aggrapparmici con la forza della disperazione. I ragazzi mi trasportarono a riva e mi prestarono le prime cure. "Dodici anni dopo, giovanotto di diciassette anni, visitai con mia madre Chicago, dove si teneva la sessione del grande Parlamento Mondiale delle Religioni. Era il 1893. Mia madre ed io camminavamo per una via del centro, quando scorsi di nuovo quel potete lampo di luce. A pochi passi camminava piano, senza fretta, lo stesso uomo che avevo intraveduto nella mia visione anni prima. Si avvicinò all'ingresso di una grande sala da conferenze e scomparve dietro la porta. - Mamma, - gridai, - quello era l'uomo che mi apparve quando stavo per affogare.
"Ci affrettammo a entrare nella sala; l'uomo sedeva sul podio delle conferenze. "Sapemmo subito ch'egli era lo Swami Vivekananda (Nota: Il più grande discepolo del Cristico Maestro Sri Ramakrishna Paramahansa. Fine nota). Dopo che ebbe tenuto una conferenza da scuoter l'anima, mi avvicinai a lui per conoscerlo. Egli mi sorrise gentilmente, come se fossimo vecchi amici. Ero tanto giovane che non sapevo come esprimere i miei sentimenti ma nel fondo del cuore speravo ch'egli mi si offrisse come Maestro. "Egli lesse il mio pensiero. - No, figlio mio, io non sono il tuo Guru, disse, fissando i suoi bellissimi e penetranti occhi nei miei. - Il tuo Maestro verrà più tardi, e ti darà una coppa d'argento. Dopo una breve pausa aggiunse sorridendo: - Egli riverserà su di te più benedizioni di quante ne potresti accogliere adesso. "Lasciai Chicago dopo pochi giorni", continuò Dickinson, "e non vidi mai più il grande Vivekananda. Ma ogni parola da lui pronunciata restò indelebilmente impressa nella mia coscienza interiore. Passarono gli anni e non apparve nessun Maestro. Una notte del 1925 pregavo con fervore affinché il Signore mi inviasse il mio Guru; poche ore dopo fui destato dal sonno dai dolci suoni di una melodia; un coro di celestiali creature munite di flauti e d'altri strumenti mi apparve. Dopo aver inondato l'aria di musica sublime, gli angeli lentamente svanirono. "La sera dopo assistetti per la prima volta a una delle vostre conferenze qui a Los Angeles, e seppi che la mia preghiera era stata finalmente esaudita". Ci sorridemmo in silenzio. "Da undici anni sono ormai vostro discepolo nel Kriya Yoga", continuò Dickinson. "A volte fantasticavo sulla coppa d'argento. Mi ero quasi convinto che le parole di Vivekananda fossero solo una metafora. Ma la notte di natale, quando mi tendeste la scatolina quadrata accanto all'albero, vidi per la terza volta in vita mia lo stesso sprazzo di luce accecante, e dopo un attimo scorsi il dono del mio Guru che Vivekananda aveva predetto quarantatré anni prima... Una coppa d'argento!". (Nota : Il signor Dickinson incontrò lo Swami Vivekananda nel settembre del 1893, lo stesso anno in cui nacque Paramahansa Yogananda il 5 gennaio. Vivekananda evidentemente era conscio che Yogananda era di nuovo incarnato, e che sarebbe andato in America a insegnare la filosofia dell'India. Nel 1965 Mr. Dickinson tuttora sano e attivo a 89 anni, ricevette il titolo di Yogachrya (maestro do yoga) in una cerimonia tenuta alla Casa Madre SRF a Los Angeles. Egli meditò spesso per lunghi periodi con Paramahasaji e non mancò mai di praticare il Kriya Yoga, tre volte al
giorno. Due anni prima del suo trapasso nel giugno del 1967, lo Yogacharya Dickinson tenne un discorso ai monaci SRF, e raccontò loro un particolare interessante che aveva dimenticato di menzionare a Paramahamsaji. Yogacharya Dickinson disse: "Quando salii sul podio del conferenziere, a Chicago per parlare allo Swami Vivekananda, prima ch'io potessi salutarlo, egli disse: "Giovanotto, tieniti fuori dall'acqua". (N.d.E.). Fine nota.)
CAPITOLO XLVIII A ENCINITAS IN CALIFORNIA "Una sorpresa, signore! Durante la vostra permanenza all'estero vi abbiamo fatto costruire questo eremitaggio a Encinitas. E' un regalo per darvi il bentornato a casa!". Mr. Lynn, Sorella Gyanamata, Durga Ma e alcuni altri fedeli mi guidarono sorridendo attraverso un cancello e su per un viale ombreggiato d'alberi; in cima ad esso un edificio si protendeva come una grande nave bianca verso il mare azzurro. Dapprima senza parole, poi con degli "Oh!" e degli "Ah!" e infine con l'inadeguato vocabolario di cui l'uomo dispone per esprimere la gioia e la gratitudine, visitai l'ashram: sedici grandi stanze, ciascuno delle quali deliziosamente arredata. Il grande salone centrale dalle enormi finestre alte fino al soffitto, dà su un altare di prato, d'oceano e di cielo: una sinfonia di smeraldo, opale e zaffiro. Sul grande camino della sala vi sono i ritratti di Cristo, Babaji, Lahiri Mahasaya e di Sri Yukteswar che benedicono, lo sento, questo tranquillo ashram d'Occidente. Proprio sotto il salone, scavate nella roccia a picco, due solitarie grotte per la meditazione guardano l'infinità del cielo e del mare. Intorno all'ashram, angoli per i bagni di sole, sentieri di pietre piatte che conducono a calmi rifugi, roseti, un boschetto di eucalipti e un frutteto. "Possano le buone ed eroiche anime dei santi venire qui", dice una 'Preghiera' dallo Zend Avest appesa su una delle porte dell'eremitaggio, "e camminare con noi, le mani nella mano, elargendo le virtù risanatrici dei loro doni benedetti, che sono vasti come la terra, alti come i cieli!". "Questo ashram di Encinitas (Nota: Piccola città costiera, Encinitas è situata 100 miglia a Sud di Los Angeles e 25 miglia a Nord di San Diego. Fine nota) [California] con i suoi vasti terreni annessi, è un dono fatto al Centro d'Autorealizzazione da James Jesse Lynn (Nota: Dopo la morte di Paramahansaji, Mr. Lynn (Raisi Janakananda) servì come presidente della Self-Realization Fellowship e della Società Yogoda Satsanga. Del suo Guru Mr. Lynn disse: "Com'è celestiale la compagnia di un santo! Di tutte le cose che mi sono state date nella vita, le benedizioni che Paramahansaji ha riversato su di me sono il tesoro più grande." Mr. Lynn entrò nel mahasamadhi nel 1955. [N.d.E.]. Fine nota), fedele Kriya Yoghi fin dalla sua iniziazione avvenuta nel gennaio del 1932. Lynn è un uomo d'affari
americano che, come dirigente di una grande organizzazione per lo sfruttamento del petrolio e della più grande Compagnia Assicuratrice del mondo, ha infinite responsabilità; nondimeno egli trova ogni giorno il tempo per una lunga e profonda meditazione Kriya. Con una vita così perfettamente equilibrata, egli ha conquistato nel samadhi la grazia di una imperitura pace interiore. Lynn aveva amorevolmente disposto ch'io non venissi a sapere nulla dell'ashram durante il mio soggiorno in India e in Europa, dal giugno del 1935 all'ottobre del 1936. Quale meraviglia e quale gioia! Durante i primi anni trascorsi in America avevo passato al setaccio le coste della California per trovare una piccola località sul mare dove costruire un ashram. Ma ogni volta che trovavo un luogo adatto, sempre sorgeva qualche ostacolo insormontabile. Nel vasto terreno di Encinitas vidi ora la spontanea attuazione dell'antica profezia di Sri Yukteswar: "un eremitaggio accanto all'oceano". Qualche mese dopo, nella Pasquale del 1937, celebrai sui morbidi prati di Encinitas la prima delle molte funzioni pasquali del Levar del Sole. Come gli antichi Magi, molte centinaia di studenti fissavano con devota reverenza il miracolo che ogni giorno si ripete, il rito mattutino del fuoco solare nel cielo d'oriente. A occidente, l'inesauribile Pacifico rombava al cielo la sua solenne lode al Signore; in distanza una minuscola, bianca vela e il solitario volo di un gabbiano. "Cristo sei risorto! Non solo col sole di primavera, ma nell'alba eterna dello Spirito!". Passarono molti mesi felici; nella pace della bellezza perfetta, nell'eremitaggio, potei completare un'opera progettata da molto tempo: i Canti Cosmici. Misi in parole inglesi e note musicali occidentali circa quaranta canti, alcuni originali, altri miei adattamenti di melodie antiche. Fra essi vi era il Canto di Shankara: No Birth, No Death (Non Nascita o Morte), l'antichissimo canto sanscrito Hymn to Brahma (Inno a Brahma), Who is in my Temple? (Chi è nel mio Tempio?) di Tagore e molte mie composizioni come I Will be Thine Always (Per sempre sarò Tuo), in The Land Beyond my Dreams (Nel Paese oltre i miei Sogni), Come Out of the Silent Sky (Esci dal Silente Cielo), Listen to my Soul Call (Madre, la mia anima Ti chiama), In The Temple of Silence (Nel Tempio del Silenzio) e Thou art my Life (Tu sei la mia vita) (Nota;: Paramahansa Yogananda incise su dischi sei dei suoi Canti Cosmici. [N.d.T.]. Fine nota). Nella prefazione al libro dei canti raccontai la mia prima insolita esperienza della ricettività degli occidentali per le strane melodie religiose d'Oriente.
L'occasione si presentò a una conferenza pubblica, tenuta il 18 aprile 1926 nella Carnegie Hall di New York. "Signor Hunsicker", avevo confidato il 17 aprile a un allievo americano, Mr. Alvin Hunsicker, "ho intenzione di chiedere al pubblico di cantare un antico canto indù: O God Beautiful!" "Signore", protestò Hunsicker, "questi canti orientali non saranno compresi dagli americani". E aggiunse sorridendo: "Sarebbe un peccato se la conferenza dovesse esser guastata da un commento fatto di pomodori marci!". Risi, ma non fui d'accordo. "La musica è un linguaggio universale. Gli americani non mancheranno di sentire l'aspirazione dell'anima in questo altissimo canto". (Nota: Ecco in traduzione le parole del canto del Guru Nanak: Oh Dio splendido, Dio magnifico! Oh Dio splendido, Dio magnifico! Io mi prostro ai piedi Tuoi. Nella selva Tu sei verde, Alto sei nella montagna, Nel torrente sei irrequieto Nell'oceano grave sei! Per chi serve, sei servigio, Per chi ama sei l'amore, Per chi soffre sei conforto, Per lo yoghi, gioia sei! Oh Dio splendido, Dio magnifico Io mi prostro ai piedi Tuoi! (Fine nota). Durante la conferenza, Hunsicker rimase seduto dietro a me sul podio, temendo probabilmente per la mia sicurezza personale. I suoi timori erano però infondati: non solo si notò l'assenza dei poco auspicati vegetali, ma per un'ora e venticinque minuti le note di O God Beautiful! risuonarono ininterrottamente da tremila gole. Non più scettici, cari newyorkesi! I vostri cuori si sono inalzati in un semplice peana di gioia! Divine guarigioni si verificarono quella sera fra i devoti che cantavano con amore il benedetto Nome del Signore. Nel 1939 feci una visita al Centro d'Autorealizzazione (SRF) di Boston. Il dirigente del Centro, dottor M.W. Lewis mi ospitò in un appartamento artisticamente decorato. "Signore", disse sorridendo il dottor Lewis, "nei primi anni del vostro soggiorno in America abitaste in questa città in una sola cameretta senza bagno. Volevo farvi sapere che Boston può vantare anche degli appartamenti lussuosi!" Anni felici pieni di attività in California, passarono rapidamente. Una colonia SRF per la Fratellanza Mondiale fondata a Encinitas nel 1937, serve da modello a varie colonie più piccole sorte nella California del Sud. Gli
edifici di Encinitas comprendono ora tre eremitaggio, un negozio con articoli da regalo, un caffè e un ritiro per i membri della SRF. Una serie di colonne bianche affacciate sulla strada maestra porta come ornamento dei loti d'oro. (Nota: Nell'arte indiana il loto è preso a simbolo del centro della Coscienza Cosmica (Sahasrara) nel cervello, il "loto di luce dai mille petali". Fine nota). Le attività della colonia includono l'addestramento vario dei discepoli secondo gli ideali della SRF, nonché lo sviluppo di un vasto piano agricolo per fornire verdure fresche ai residenti SRF nei centri di Encinitas e di Los Angeles. "Egli fece di un sangue solo tutte le nazioni degli uomini". (Nota: Atti degli Apostoli, 17, 26. Nel testo italiano: "Egli fece che l'umana progenie, nata da uno solo, si spandesse su tutta la faccia della terra". Fine nota). La fondazione, su base spirituale, di molte colonie per la fratellanza mondiale è divenuta un bisogno urgente su questa terra dilaniata dalla guerra. "Fratellanza mondiale" è un termine vasto, ma l'uomo deve allargare le proprie simpatie e considerarsi un cittadino del mondo. A chi veramente compre che "questa è la mia America, la mia India, le mie Filippine, la mia Europa, la mia Africa" e così via, non verrà mai a mancare un campo d'azione per condurre una vita utile e felice. Anche se il corpo di Sri Yukteswar non calcò mai altro suolo che quello dell'India, egli conosceva la verità che rende gli uomini fratelli: "La mia patria è il mondo".
CAPITOLO XLIX GLI ANNI DAL 1940 AL 1951 "Abbiamo davvero imparato a conoscere il valore della meditazione e sappiamo che nulla può turbare la nostra pace interiore. Nelle ultime settimane durante le meditazioni di gruppo, abbiamo udito gli allarmi per gli attacchi aerei e le esplosioni delle bombe a azione ritardata, ma i nostri studenti continuano a riunirsi e godono intensamente delle nostre belle funzioni". Questa coraggiosa missiva, scritta dal leader del Centro SRF di Londra, non era che una delle molte lettere che mi pervenivano dall'Inghilterra e dall'Europa tormentate dalla guerra, negli anni che precedettero l'entrata dell'America fra i belligeranti della seconda guerra mondiale. Il dottor Cramer-Byng di Londra, noto editore della serie The Wisdom of the East, mi scrisse nel 1942. "Leggendo l'East-West (Nota: Oriente-Occidente, intitolato adesso SelfRealization Magazine. Fine nota), mi resi conto di quanto sembravamo lontani, come se vivessimo in due mondi diversi. Bellezza, ordine, calma e pace vengono a me da Los Angeles, ed entrano nel mio porto come un bastimento carico di benedizioni e del conforto del santo Gran in una città assediata. "Vedo come in un sogno il vostro boschetto di palme, e il tempio di Encinitas con le vaste estensioni d'Oceano e la vista sulle montagne; ma soprattutto, la fratellanza tra uomini e donne spirituali, una comunità compresa nell'unità, assorta nel lavoro creativo e paga nella contemplazione.... Saluti a tutta la Comunità (Fellowship) da un soldato comune, scritti sulla torre d'osservazione in attesa dell'alba". Una "Chiesa di Tutte le Religioni" SRF fu costruita dai membri della Fratellanza a Hollywood e inaugurata nel 1942. Un anno dopo, un'altra chiesa SRF fu fondata a San Diego, e nel 1947 un'altra ancora a Long Beach, sempre in California. Alla Self-Realization Fellowship, fu donata nel 1949 una delle più belle proprietà del mondo: un fiorito giardino di meraviglie nel quartiere Pacific Palisades di Los Angeles. Il sito, dell'estensione di dodici acri (quasi cinque ettari), è un anfiteatro naturale, circondato da colline verdeggianti. Un lago naturale, gioiello azzurro in un diadema di montagne, diede alla proprietà il
suo nome di SRF Lake Shrine (Santuario del Lago). Un bizzarro edificio a mulino a vento olandese alberga una cappella SRF, asilo di pace. Vicino a un giardino sprofondato sotto il livello del sentiero, una grande ruota solleva l'acqua e la lascia ricadere con una lenta musica continua. Due statue di marmo cinesi, una di Buddha e una di Kwan Yin (la personificazione cinese della Madre Divina) adornano il sito. Una statua in grandezza naturale del Cristo, dal viso sereno e dalle vesti fluttuanti, singolarmente illuminata nella notte, è situata su un rialzo sopra la cascata. Un monumento al Mahatma Gandhi dedicato alla pace mondiale (Mahatma Gandhi World Peace Memorial) fu inaugurato a Lake Shrine nel 1950, l'anno che segnò il tredicesimo anniversario della SRF in America. (Nota: In celebrazione di quell'anniversario, eseguii a Los Angeles il 27 agosto 1950, una sacra cerimonia delle rose e delle candele, durante la quale iniziai al Kriya Yoga cinquecento studenti. Fine nota). Una parte delle ceneri del Mahatma, trasportate dall'India, è rinchiusa in un millenario sarcofago di pietra. Nel 1951 venne fondato a Hollywood l'India Center SRF, alla cui inaugurazione erano presenti il signor Goodwin JK. Knight, vicegovernatore della California, e il signor N.R. Ahuja, Console Generale dell'India. Si trovano colà un caffè-ristorante SRF (Nota: Un caffè-ristorante vegetariano condotto da discepoli rinuncianti che hanno dedicato la loro vita al servizio dell'umanità e alla realizzazione degli ideali SRF nella propria vita. Fine nota) e una sala da conferenze capace di contenere duecentocinquanta persone. I nuovi venuti ai vari centri SRF spesso desiderano ulteriori delucidazioni sullo yoga. Una domanda che mi si pone sovente è questa: "E' vero ciò che sostengono alcune associazioni, che lo yoga non potrebbe essere studiato con profitto da materiale stampato, ma deve essere seguito soltanto sotto la guida di un Maestro fisicamente presente?". Nell'era atomica, lo yoga deve essere insegnato mediante un corso d'istruzione come le Lezioni SRF; altrimenti la scienza liberatrice subirebbe di nuovo l'antica restrizione a pochi prescelti. Sarebbe invero una immensa fortuna se ogni discepolo potesse avere al suo fianco un Guru che abbia perfezionato in sé la divina saggezza; ma il mondo si compone di molti "peccatori" e di pochi santi. Come potrebbero allora le moltitudini ricevere l'aiuto della yoga se non attraverso lo studio, a casa loro, delle istruzioni scritte da veri yoghi? L'unica alternativa sarebbe che l'"uomo comune" venisse ignorato e lasciato privo della conoscenza dello yoga. Ma tale non è il piano divino per questa epoca. Babaji ha promesso di proteggere e guidare i sinceri Kriya
Yoghi sul loro sentiero verso la Mèta (Nota: Anche Yogananda disse ai suoi allievi in Oriente e in Occidente che, dopo la sua scomparsa da questa terra, egli continuerà a vigilare sui progressi spirituali di tutti i Kriya Yoghi. La verità di questa meravigliosa promessa è stata dimostrata, fin dal giorno del suo mahasamadhi, da lettere di numerosi devoti SRF-YSS che hanno acquistato coscienza della sua guida onnipresente. (N.d.E.). Fine nota). Centinaia di migliaia, e non solo dozzine di Kriya Yoghi sono necessari per far divenire realtà quel mondo di pace e di abbondanza, che attende gli uomini che hanno cercato nel giusto modo di ristabilire il loro divino rapporto filiale col Padre Celeste. La fondazione in Occidente di un'organizzazione SRF, un "alveare per il miele spirituale", era un dovere impostomi dal mio Guru Sri Yukteswar e dal mio Param-paramguru Babaji.Lo svolgimento di questo sacro incarico non è stato privo di difficoltà. "Ditemi sinceramente, Paramahansaji, ne è valsa la pena?". Questa laconica domanda mi venne fatta una sera dal dottor Lloyd Kennel, dirigente della chiesa SRF di San Diego. Compresi che voleva dire: "Sei stato felice in America? Che pensate delle falsità messe in giro da gente sviata che vuole ad ogni costo impedire la diffusione dello yoga? Che dite delle delusioni, dei dolori, dei dirigenti di centri che non sapevano dirigere, degli studenti cui non si riusciva a insegnare?". "Benedetto colui che è provato dal Signore!" risposi. "Egli si è ricordato, ogni tanto, di impormi il fardello da portare". Pensai allora a tutti i fedeli all'amore, alla devozione e alla comprensione che illuminavano il cuore d'America. Proseguii, lentamente e con intensa convinzione: "Ma la mia risposta è sì, mille volte sì. Ne è valsa la pena, più di quanto avessi mai sognato, di vedere Oriente e Occidente ravvicinati nell'unico legame duraturo, quello spirituale!". I grandi Maestri dell'India che hanno dimostrato un sì dal vivo interesse all'Occidente, hanno ben compreso le condizioni di questo mondo moderno. Essi sanno che, se le nazioni d'Oriente e d'Occidente non assimileranno meglio le loro reciproche virtù, le cose del mondo non potranno migliorare. Ciascun emisfero ha bisogno del meglio che l'altro possa offrire. Nel corso dei miei viaggi per il mondo ho veduto con tristezza molte sofferenze. (Nota: La Voce è intorno a me come erompente mare: "E' dunque la tua terra si guastata, Coccio su coccio rotta e rovinata? Tutto ti sfugge perché Mi vuoi sfuggire! Tutto ciò che ti tolsi, te l'ho preso, Non per darti dolore, ma perché tu lo cerchi sul Mio cuore.
Tutto quello che il tuo infantile errore Credea perduto, Nella tua casa Io l'ho sempre per te serbato. Alzati, afferra la Mia mano e vieni!" Francos Thompson, in The Hound of Heaven (Il Segugio del Cielo). Fine nota). In Oriente la sofferenza è principalmente sul piano materiale, mentre in Occidente l'infelicità si trova soprattutto sul piano mentale e spirituale. Tutte le nazioni sentono i penosi effetti di una civiltà non ben equilibrata. L'India e molti paesi orientali possono trarre grande vantaggio cercando di emulare il senso pratico degli affari e l'efficienza materiale delle nazioni occidentali come l'America. I popoli occidentali, d'altro canto, necessitano di una più profonda comprensione delle basi spirituali della vita, e in particolare delle tecniche scientifiche che l'India sviluppò nei tempi antichi al fine di permettere all'uomo di raggiungere la comunione cosciente con Dio. L'idea di una civiltà sviluppata in tutti i sensi non è utopistico. Per millenni l'India fu un Paese che ebbe in egual misura la luce spirituale e una grande prosperità materiale. La povertà degli ultimi duecento anni è, nella lunga storia dell'India, soltanto una fase karmica passeggera. Per secoli, la "ricchezza dell'India fu proverbiale in tutto il mondo. (Nota: Gli annali della Storia presentano l'India fino al XVIII secolo come il paese più ricco del mondo. Detto per inciso, non vi è nulla nella letteratura o nella tradizione dell'India che valga a confermare la teoria storica occidentale, secondo la quale i primi Ariani "invasero" l'India venendo da qualche altra parte dell'Asia o dall'Europa. Gli studiosi sono comprensibilmente incapaci di stabilire quale fosse il punto di partenza di questa immigrazione immaginaria. L'evidenza interna dei Veda, che indicano l'India come il paese degli Indù fin da tempo immemorabili, viene presentata in uno straordinario e leggibilissimo volume, il Rig-Vedic India di Abinas Chandra Das, edito presso l'Università di Calcutta nel 1921. Il professor Das sostiene che emigrati dall'india si stabilirono in varie parti d'Europa e dell'Asia, ove diffusero il linguaggio e le tradizioni popolari ariane. La lingua lituana, per esempio, è sotto molti aspetti singolarmente simile al sanscrito. Il filosofo Kant, che non sapeva nulla del sanscrito, si meravigliò moltissimo della struttura scientifica della lingua lituana e ne disse: "Essa possiede la chiave che aprirà le porte di tutti gli enigmi non solo della filosofia, ma anche della storia".
La Bibbia parla dell'antica India, dicendo che le "navi di Tarshish" portarono al re Salomone "oro e argento, avorio, scimmie e pavoni" e "grandi quantità d'alberi di almug (sandalo) e pietre preziose" da Ophir (Sopara sulla costa di Bombay). Megastene, l'ambasciatore greco (IV secolo a.C.) ci lasciò un quadro particolareggiato della prosperità dell'India. Plinio (I secolo d.C.) dice che i Romani spendevano annualmente cinquanta milioni di sesterzi (cinque milioni di dollari attuali) per merci importate dall'India, che era allora una grande potenza sul mare. Viaggiatori cinesi lasciarono vivide descrizioni dell'opulenta civiltà indiana, della sua diffusa erudizione e del suo eccellente governo. Il prete cinese Fa-Hsien (V secolo) racconta che i popoli indiani erano felici, onesti e prosperi. Cfr. Buddhist Records of the Western World (l'India era per i cinesi 'il mondo occidentale!) di Samuel Beal, Trubner, London, e On Yan Chwang's Travels in India, A.D. 629-45, di Thomas Watters, Royal Asiatic Society. Quando Colombo scoprì il Nuovo Mondo nel XV secolo, in realtà cercava una via più breve per i traffici con l'india. Per secoli, l'Europa fu avida delle merci che l'India esportava: sete, tessuti rari (di tale delicatezza da meritare la descrizione di "aria tessuta" e di "bruma invisibile"), stoffe di cotone stampate, broccati, ricami, tappeti, coltelleria, armature, avorio e oggetti d'avorio artisticamente lavorati, profumi, incensi, legno di sandalo, vasellame, medicine e unguenti, indigo, riso, spezie, corallo, oro, argento, perle, rubini, smeraldi e diamanti. Mercanti portoghesi e italiani descrissero la loro reverente meraviglia alla vista della favolosa magnificenza in tutto l'impero del Vijayanagar (13361565). La meravigliosa bellezza della sua capitale fu descritta dall'ambasciatore arabo Razzak come "tale, quale occhio non vide mai; né orecchio udì parlare di alcun luogo che lo eguagli sulla terra". Nel XVI secolo, per la prima volta nella sua lunga storia, tutta l'India cadde sotto una dominazione non-indiana. In turco Baber invase il Paese nel 1524 e fondò una dinastia di monarchi musulmani. Stabilendosi nella antica terra, i nuovi re non la impoverirono. Tuttavia, indebolita da dissensi interni, la prosperosa India divenne preda, nel XVII secolo, di varie nazioni europee; alla fine, l'Inghilterra sola assunse il potere e il governo del Paese. L'India ottenne pacificamente la sua indipendenza il 15 agosto del 1947. Come molti indù, ho anch'io una 'storia che adesso si può raccontare'. Un certo gruppo di giovani che conobbi all'università, si mise in contatto con me durante la prima guerra mondiale e cercò di convincermi a mettermi a capo di un movimento rivoluzionario.
Rifiutai con queste parole: "Uccidere i nostri fratelli inglesi non può portare all'India alcun bene. La libertà dell'India non si farà con le armi, ma attraverso la sua forza spirituale." Misi in guardia i miei amici, avvertendoli che le navi germaniche cariche di armi, sulle quali essi facevano assegnamento, sarebbero state intercettate dai Britannici a Diamond Harbor, nel Bengala. I giovani però non desistettero dai loro piani, i quali naufragarono nel modo che avevo previsto. I miei amici furono liberati dalla prigione dopo qualche anno. Parecchi tra di loro, avendo rinunciato alla loro fede basata sulla violenza, si unirono al movimento politico ideale di Gandhi. Alla fine essi ebbero la gioia di vedere la vittoria ottenuta dall'India in una "guerra" combattuta con la pace. La triste divisione del Paese in India e Pakistan, e il breve ma sanguinoso interludio che ne seguì in alcune parti del Paese, furono causati da fattori economici e non, essenzialmente, da fanatismo religioso (ragione minore spesso presentata come la maggiore). Innumerevoli indù e musulmani oggi come ieri, vivono amichevolmente fianco a fianco. In grandissimo numero, uomini appartenenti a entrambe le religioni divennero discepoli del Maestro 'senza religione' Kabir (14501518); e fino al giorno d'oggi, egli ha milioni di seguaci (Kabirpanthi). Sotto il regno musulmano di Akbar il Grande, vigeva in tutta l'India la più ampia libertà religiosa immaginabile. Né vi è oggi alcun serio antagonismo religioso nel 95 per cento della popolazione semplice. La vera India, l'India che poté capire e seguire un Mahatma Gandhi, non si può trovare nelle inquiete città, ma nei pacifici 700.000 villaggi, dove le semplici e giuste forme d'autogoverno da parte di panchayat (consigli locali) vigono da tempi immemorabili. I problemi che assillano l'India odierna appena liberata saranno certamente risolti un giorno dai grandi uomini che il Paese non ha mai mancato di produrre. Fine nota). L'abbondanza materiale come quella spirituale è un'espressione della struttura stessa di rita, la legge cosmica o giustizia naturale. Non vi è parsimonia nel Divino, né nella Sua dea del fenomeno, l'esuberante Natura. Le Scritture indù insegnano che l'uomo viene attratto verso questa terra particolare per imparare, in modo più completo in ogni vita successiva, le maniere infinite nelle quali lo Spirito può essere espresso attraverso e col dominio delle condizioni materiali. Oriente e Occidente stanno imparando questa grande verità per vie diverse, e dovrebbero esser lieti di condividere le loro scoperte. Non v'è dubbio che Dio si compiace nel vedere i Suoi figli tesi nello sforzo di conseguire una civiltà mondiale scevra da povertà,
malattie e ignoranza spirituale. L'oblio, da parte dell'uomo, delle sue divine risorse (che è il risultato del cattivo uso fatto del libero arbitrio) è la radice di tutti i mali, di ogni specie di sofferenza. (Nota: Liberamente noi serviamo Perché liberamente amiamo, Poiché è nel nostro volere D'amare o no; e in ciò si sta o si cade. E alcuni caddero, in disobbedienza Caddero, e sé dal cielo nel più profondo inferno. Oh caduta da tale beatitudine In qual dolore! Milton, Paradiso Perduto. Fine nota). I malanni attribuiti a quell'astrazione antropomorfa che si chiama "società" possono più realisticamente essere messi a carico di Ognuno. (Nota: Il piano del divino lila o "gioco sportivo" per il quale i mondi fenomenici entrarono in esistenza, è di reciprocità fra le creature e il Creatore. L'unico dono che l'uomo possa offrire a Dio è l'amore; ed è sufficiente a provocare la Sua travolgente generosità. "Voi siete maledetti in penuria, e con Me lesinate tutti in generale! Portate tutte le decime al deposito (del tempio) e fate che vi sia cibo nella Mia casa! e con ciò mettetevi alla prova, dice il Signore, se non aprirò per voi le cateratte del cielo e verserò su di voi la benedizione fino all'abbondanza". Malachia, 3, 9-10. Fine nota). L'Utopia deve sorgere in seno a ognuno prima di poter fiorire e diventare una virtù civica, poiché le riforme interiori conducono naturalmente a queste esteriori. Le Scritture di tutto il mondo che il tempo ha convalidate, sono eguali nella loro essenza e ispirano l'uomo nel suo viaggio verso l'alto. Uno dei periodi più felici della mia vita, lo passai dettando per il Self-Realization Magazine la mia interpretazione del Nuovo Testamento. Implorai con fervore il Cristo di guidarmi nella divinazione del vero significato delle sue parole, molte delle quali sono state infelicemente interpretate per venti secoli. Una notte, mentre ero assorto in silenziosa preghiera, il mio salotto nell'eremitaggio di Encinitas si riempì di una luce d'un azzurro opalino, e io vidi la radiosa figura del benedetto Signore Gesù. Sembrava un uomo giovane, di circa venticinque anni, radi la barba e i baffi; i lunghi capelli neri divisi nel mezzo erano circondati da una aureola d'oro lucente. I suoi occhi erano eternamente meravigliosi; mentre li guardavo, essi mutavano infinitamente. Con ogni divino cambiamento della loro espressione, io comprendevo intuitivamente la saggezza che mi trasmettevano. Nel suo glorioso sguardo sentivo il potere che sostiene le miriadi di mondi. Un Santo Gral apparve
alla sua bocca, discese alle mie labbra e ritornò a Gesù. Dopo alcuni istanti egli pronunciò parole bellissime, di natura così personale che le serbo racchiuse nel cuore. Nel 1950 e 1951 passai molto tempo in un ritiro SRF presso il deserto Mojave in California. Qui tradussi la Bhagavad Gita e scrissi un commento particolareggiato che illustra i vari sentieri dello yoga. (Nota: Appare a puntate sul Self-Realization Magazine. La Bhagavad Gita è fra le sacre Scritture quella che gli indiani amano di più. Contiene i consigli di Krishna Signore al suo discepolo Arjuna, parole di guida spirituale che sono senza tempo nella loro adattabilità a tutti i cercatori di verità. Il messaggio fondamentale della Gita è che l'uomo può ottenere l'emancipazione attraverso l'amore per Dio, la saggezza e le buone e giuste azioni compiute con spirito distaccato. Fine nota). Riferendosi due volte (Nota: Bhagavad Gita, IV, 29 e V, 27-28. Fine nota) esplicitamente a una tecnica yoga (l'unica menzionata nella Bhagavad Gita, e la stessa che Babaji chiamò semplicemente Kriya Yoga), la più importante Scrittura dell'India offre così un insegnamento non solo morale, ma pratico. Nell'oceano del nostro mondo di sogno, il respiro è la tempesta propria dell'illusione che produce la coscienza delle onde individuali, cioè le forme degli uomini e di tutti gli oggetti materiali. Sapendo che la conoscenza puramente filosofica ed etica è insufficiente a risvegliare l'uomo dal suo doloroso sogno di un'esistenza separata, Krishna indicò la sacra scienza per mezzo della quale lo yoghi può padroneggiare il proprio corpo e trasformarlo a volontà in pura energia. La possibilità di tale raggiungimento yoga non trascende la comprensione teorica degli scienziati moderni, pionieri dell'Era atomica. Tutta la materia è trasformabile in energia. Le Scritture indù esaltano la scienza dello yoga perché può essere usata da tutti gli uomini in generale. E' vero che il mistero del respiro è stato talvolta risolto senza l'impiego di formali tecniche yogiche, come nel caso dei mistici non indù che posseggono poteri trascendenti di devozione al Signore. Tali santi cristiani, musulmani e altri furono veramente visti nello stato di estasi immobile e senza respiro (sabikalpa samadhi) (Nota: Vedi Capp. XXVI e LXIII. Tra i mistici cristiani che furono veduti nel sabikalpa samadhi possiamo nominare santa Teresa d'Avila, il cui corpo si irrigidiva nell'immobilità fino al punto che le suore del suo convento, stupite, non riuscivano a smuoverla né a risvegliarla alla coscienza esteriore. Fine nota), senza il quale nessun uomo è mai entrato nel primo stadio della percezione di Dio. (Quando tuttavia un santo ha raggiunto il nirbikalpa, cioè il più alto stato del
samadhi, egli è irrevocabilmente stabilito nel Signore, sia che respiri o che si trovi nello stato senza respiro, che sia immobile o attivo). Frate Lorenzo, il mistico cristiano del XVII secolo, ci dice che il suo primo barlume di realizzazione divina gli venne guardando un albero. Quasi tutti gli esseri umani hanno visto un albero, ma pochi, purtroppo, vi hanno veduto il Creatore dell'albero. La maggior parte degli uomini è totalmente incapace di richiamare in sé quell'irresistibile potere di devozione posseduto solo da pochi ekantin, santi che hanno solamente Dio nel cuore e che si trovano su tutti i sentieri religiosi dall'Est all'Ovest. Tuttavia non per questo l'uomo comune è escluso dalla possibilità di trovare la comunione con Dio. (Nota: L'"uomo comune" deve iniziare la sua ascesa spirituale in qualche tempo e luogo. "Il viaggio di mille miglia s'inizia con un passo solo" osservò Lao-Tse. Cfr. Buddha: "Fate che nessun uomo pensi con leggerezza al bene, dicendo entro di sé: 'Non verrà a me'. Col cader delle gocce il vaso si riempie; l'uomo saggio diviene ricolmo di bene, anche se lo raccoglie solo a poco a poco". Fine nota.). Per ritrovare la sua divina memoria egli non abbisogna che della tecnica del Kriya Yoga, di un'osservanza costante dei precetti morali e della capacità d'invocare sinceramente Dio dicendo: "Signore, desidero ardentemente conoscerTi". L'attrattiva universale dello yoga consiste perciò nella possibilità d'avvicinarsi a Dio con un metodo scientifico applicabile giornalmente, piuttosto che mediante un fervore devozionale che, per l'uomo comune, trascende le sue facoltà emotive. Vari grandi Maestri dell'India vennero chiamati tirthakara, o "coloro che preparano il guado", perché rivelano il passaggio per il quale l'umanità sperduta può giungere all'altra sponda, al di là dei mari tempestosi di samsara (la ruota karmica, o ricorrenza di vite e morti). Samsara (che letteralmente significa "un fluire con" il flusso dei fenomeni) induce l'uomo a scegliere la linea di minor resistenza. "Perciò chi sarà amico del mondo, è nemico di Dio" (Nota: Lettera di San Giacomo, 4, 4. Fine nota). Per essere amico di Dio, l'uomo deve vincere i demoni, ossia i mali del proprio karma, delle proprie azioni che lo spingono costantemente a una supina acquiescenza alle illusioni del mondo di maya. La conoscenza della ferrea legge del karma incoraggia il ricercatore sincero a trovare la via per liberarsi definitivamente delle sue catene. Poiché la servitù karmica degli esseri umani è radicata nei desideri della mente oscurata dalla maya, lo yoghi si preoccupa di acquisire il controllo sulla propria mente. (Nota: Ferma, una lampada brucia al riparo del vento; Tale è la mente di uno yoghi. Chiusa alle tempesta dei sensi, arde luminosa verso il cielo.
Quando la mente medita, in pace, placata nella santa abitudine; Quando il Sé contempla sé, ed in se stesso ha conforto, Quando conosce la gioia senza nome Oltre il piano dei sensi, che all'anima è rivelata, Soltanto all'anima! e, sapendo, non vacilla, Fedele al Vero; e quando, avendo questo, Reputa non comparabile ogni altro tesoro E nel porto ancorato non è mosso né scosso Dal più fiero dolore, questa è 'pace'. Quel felice distacco è yoga; chiamate quell'uomo Uno yoghi perfetto! Bhagavad Gita, IV, 19-23. Fine nota). Egli si spoglia dei vari paludamenti di ignoranza karmica e l'uomo percepisce se stesso nella sua originaria essenza. Il mistero della vita e della morte, la cui soluzione è il solo scopo del soggiorno dell'uomo sulla terra, è intimamente connesso col respiro. La libertà dal respiro significa libertà dalla morte. Avendo compreso questa verità, gli antichi rishi dell'India afferrarono l'unico filo conduttore, quello del respiro, e svilupparono una scienza precisa e razionale d'indipendenza dal respiro. Se l'India non avesse altri doni da elargire al mondo, il solo Kriya Yoga sarebbe sufficiente quale regale offerta. La Bibbia contiene alcuni passi che rivelano come i profeti ebraici ben sapessero che Dio fece il respiro perché servisse da sottile legame tra il corpo e l'anima. La Genesi dice: "Formò dunque il Signore Dio l'uomo dal fango della terra, e gli inspirò in faccia lo spirito della vita e l'uomo divenne un'anima vivente." (Nota: Genesi, 2, 7. Fine nota). Il corpo umano è composto di sostanze chimiche e minerali che si trovano anche nella "polvere della terra". La carne dell'uomo non potrebbe sostenere alcuna attività, né manifestare energia né movimento, se non fosse per le correnti vitali che l'anima trasmette al corpo, nell'uomo non illuminato, mediante lo strumento del respiro (energia gassosa). Le correnti vitali, che operano nel corpo umano nel quintuplo prana o energie vitali sottili, sono una manifestazione della vibrazione Aum dell'anima onnipresente. Il riflesso, la verosimiglianza di vita che splende nelle cellule della carne e proviene dalla sorgente dell'anima, è l'unico motivo dell'attaccamento dell'uomo al proprio corpo; ovviamente non renderebbe sollecito omaggio a un pezzo di argilla. L'essere umano erroneamente si identifica con la sua forma fisica perché le correnti vitali provenienti dall'anima sono convogliate dal respiro nella carne con tale potente intensità, che l'uomo scambia l'effetto per la causa e idolatra il proprio corpo, immaginando che esso abbia vita propria.
Lo stato cosciente dell'uomo è consapevolezza del corpo e del respiro. Lo stato subcosciente, attivo nel sonno, è associato alla sua temporanea separazione mentale dal corpo e dal respiro. Lo stato supercosciente è libertà dall'illusione che l'"esistenza" dipenda dal corpo e dal respiro (Nota: "Voi non gioirete mai giustamente del mondo finché il mare stesso non fluisca nelle vostre vene, finché non sarete vestiti di cielo e coronati di stelle, e non vedrete voi stessi come i soli eredi del mondo, e più di ciò, perché nel mondo vi sono uomini che sono, ciascuno di essi, l'unico erede quale sei tu; e finché non saprete cantare e gioire e rallegrarvi in Dio come gli avari fanno nell'oro e i re con il loro scettro di potenza... finché non avrete tale familiarità con le vie del Signore in tutte le Età, come l'avete col vostro camminare e con la vostra tavola; finché non conoscerete intimamente quell'ombroso nulla del quale il mondo è fatto". Thomas Traherne, Centureis of Meditation. Fine nota). Dio vive senza respiro; l'anima, fatta a Sua immagine, diviene cosciente di sé per la prima volta durante lo stato senza respiro. Quando il respiro, il legame tra l'anima e il corpo, è stato reciso ad opera del karma evoluto, ne deriva la brusca transizione chiamata 'morte'; le cellule fisiche ritornano alla loro naturale impotenza. Nel Kriya Yoga, invece, il legame del respiro è dissolto a volontà della saggezza scientifica e non dal crude intervento di una necessità karmica. Grazie a una sua reale esperienza, lo yoghi è già conscio della propria incorporeità essenziale, e non ha bisogno del cenno un po' pesante che solitamente la morte dà all'uomo per fargli capire che è sbagliato fare assegnamento su un corpo fisico. Vita dopo vita, ogni uomo progredisce col suo passo individuale (per quanto errante e indeciso che sia), verso la mèta della propria apoteosi. La morte, che non è un'interruzione del cammino che lo porta innanzi, offre semplicemente all'uomo l'ambiente più confacente di un mondo astrale, nel quale egli può purificare le proprie scorie. "Il vostro cuore non si turbi... Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore". (Nota: Giovanni, 14, 1-2. Fine nota). E' davvero improbabile che Dio abbia esaurito la Sua ingegnosità organizzando questo mondo, o che nell'altro mondo Egli non offra nulla di più interessante che uno strimpellare di arpe. La morte non è cancellazione dell'esistenza, un'evasione finale dalla vita; e non è nemmeno la porta che conduce all'immortalità. Chi sfuggì al proprio Sé per darsi alle gioie terrene, non lo ricupererà tra gli immateriali incanti di un mondo astrale, ma vi accumulerà soltanto percezioni più sottili e reazioni più sensibili al bello e al buono (che sono una cosa sola).
E' sull'incudine di questa grossolana terra che l'uomo in lotta deve forgiare l'oro imperitura dell'identità spirituale. Quando tiene in mano il suo aureo tesoro duramente conquistato, il solo dono che l'avida Morte accetti dall'uomo, l'essere umano conquista finalmente la liberazione dai cicli ricorrenti delle incarnazioni fisiche. Per vari anni ho tenuto corsi a Encinitas e Los Angeles sulle Yoga Sutra di Patanjali e altre profonde opere della filosofia indù. "Perché mai Dio ha congiunto corpo e anima?", mi chiese una sera uno studente del corso. "Qual era il Suo scopo nel mettere inizialmente in moto questo dramma evolutivo della creazione?". Innumerevoli altre persone mi hanno posto tali domande; i filosofi hanno cercato invano di rispondervi esaurientemente. "Lasciate qualche mistero da esplorare nell'Eternità", usava dire Sri Yukteswar con un sorriso. "Come potrebbe il limitato ragionamento dell'uomo comprendere gli inconcepibili motivi dell'Assoluto Increato? (Nota: Perché i miei pensieri non sono i vostri, e le vostre vie non sono le mie, dice il Signore. Perché quando il cielo è più alto della terra, altrettanto le mie vie sono più alte delle vostre, e i miei pensieri al di sopra dei vostri" Isaia, 55, 8-9. Dante testimoniò nella Divina Commedia: Nel ciel che più della sua luce prende Fu' io, e vidi cose che ridire Né sa né può qual di lassù discende; Perché appressando sé al suo disire, Nostro intelletto si profonda tanto Che dietro la memoria non può ire. Veramente quant'io del regno santo Nella mia mente potei far tesoro, Sarà ora materia del mio canto Dante, Divina Commedia, "Paradiso", Canto I. Fine nota). La facoltà raziocinante nell'uomo, imbrigliata dal principio di causa e effetto del mondo fenomenico, rimane sconcertata davanti al mistero di Dio, di Colui che è senza principio e senza causa. Tuttavia, anche se la ragione umana non può sondare gli enigmi della creazione, ogni mistero sarà alla fine risolto, per il devoto, da Dio stesso". Chi ha un sincero desiderio di saggezza si accontenta di iniziare la sua ricerca imparando umilmente a padroneggiare pochi semplici abbiccì dello schema divino e a non chiedere troppo presto una formula matematica precisa della 'teoria di Einstein' della vita. "Nessun uomo in alcun tempo ha mai veduto Iddio" (Nessun mortale nel 'tempo', nella relatività di maya (Nota: Il quotidiano ciclo terrestre, dalla luce al buio e viceversa, rammenta costantemente all'uomo che la creazione è legata alla maya, la legge degli opposti. (I periodi di transizione o periodi
equilibrati del giorno, l'alba e il crepuscolo, sono perciò considerati adatti alla meditazione). Squarciando il velo di maya intessuto di dualità, lo yoghi percepisce la trascendente Unità. Fine nota), può realizzare l'infinito); il Figlio Unigenito, che è in seno al Padre (la Coscienza Cristina riflessa o l'Intelligenza Perfetta proiettata all'infuori, la quale dirigendo tutti i fenomeni costruttivi attraverso la vibrazione Om, è emanata dal "seno", dalle profondità del Divino Increato allo scopo di manifestare la varietà nell'Unità, ce l'ha fatto conoscere (assoggettato alla forma, o manifestato (Nota: Giovanni 1, 18. Fine nota). "In verità, in verità vi dico: il Figliuolo non può fare nulla da sé, ma solo quello che vede fare dal Padre, lo fa parimenti il Figlio" (Nota: Giovanni 5, 19. Fine nota). La natura trina di Dio manifestata nei mondi fenomenici è simboleggiata nelle Scritture indù da Brahma il Creatore, Vishnu il Conservatore e Shiva il Distruttore-Rinnovatore. La loro triplice attività si manifesta incessantemente in tutta la creazione vibratoria. Siccome l'Assoluta è al di là delle facoltà concettuali dell'uomo, il devoto indù, Lo adora nelle auguste personificazioni della Trinità (Nota: Questo concetto differisce da quello della Realtà trina: Sat, Tat, Aum o Padre, Figlio, Spirito Santo. Brahma-Vishnu-Shiva rappresenta l'aspetto trino di Dio sotto forma di Tat, il Figlio la Coscienza Cristica immanente nella creazione vibratoria. Le shokti, energie o 'consorti' della Trinità, sono simboli di Om o Spirito Santo, la sola forza causale che sostiene il cosmo per mezzo della vibrazione. Fine nota). L'universale aspetto creativo-conservatore-distruttivo di Dio non è però la Sua natura ultima o essenziale (poiché la creazione cosmica è soltanto il Suo lila, il Suo sport creativo). [Nota: "Oh Signore... tu creasti tutte le cose, e per tuo piacere ebber l'esser e furono create". Apocalisse, 4, 11. Fine nota]. La Sua natura intrinseca non può esser capita, nemmeno da chi comprendesse tutti i misteri della Trinità, perché la Sua natura esteriore, manifestata nelle leggi del movimento degli atomi, Lo esprime senza rivelarLo. La natura ultima del Signore può esser conosciuta soltanto quando "il Figlio ascende al Padre". L'uomo liberato trascende allora le sfere vibratorie ed entra nell'Origine priva di vibrazioni. Tutti i grandi profeti hanno mantenuto il silenzio davanti alla richiesta di svelare gli ultimi misteri. Quando Pilato chiese: "Cos'è la verità?" (Nota: Giovanni, 18, 38. Fine nota), il Cristo non rispose. Le grandi domande ostentate dagli intellettuali come Pilato raramente scaturito da un ardente spirito di ricerca. Tali uomini parlano piuttosto mossi da una vuota
arroganza che considera la mancanza di convinzione, circa i valori spirituali, essere un indice di "larghezza di vedute". "Io son nato e venuto al mondo per rendere testimonianza della verità; chiunque è della verità, ascolta la mia voce" (Nota: Giovanni, 18, 37). In queste poche parole il Cristo disse volumi. Un figlio di Dio 'rende testimonianza' con la sua vita. Egli impersona la verità; se per di più la spiega, questa è generosa sovrabbondanza. La verità non è una teoria, non è un sistema filosofico speculativo, non è penetrazione intellettiva. La verità è l'esatta rispondenza con la realtà. Per l'uomo la verità è l'incontrovertibile conoscenza della propria vera natura, del proprio Sé quale anima. Gesù dimostrò con ogni parola e con ogni atto della sua vita che conosceva la verità del proprio essere, la sua origine in Dio. Completamente identificato con l'onnipresente Coscienza Cristica, egli poteva dire con semplicità conclusiva: "Chiunque è della verità ascolta la mia voce". Anche Buddha ricusò di far luce sulle verità ultime metafisiche, osservando, asciutto, che i pochi attimi che l'uomo rimane sulla terra verrebbero impiegati meglio a perfezionare il suo carattere morale. Il mistico cinese Lao-Tse insegnò giustamente che: "Chi sa, non dice; chi dice, non sa". Gli ultimi misteri di Dio nn sono 'aperti alla discussione'. Decifrare il suo codice segreto è un'arte che nessun uomo può comunicare a un altro uomo: l'Insegnante è Dio solo. "Fermatevi e conoscete ch'io son Dio". (Nota: Salmi, 46, 10. Fine nota) Il Signore che non ostenta mai la Sua onnipresenza, può essere udito solo negli immacolati silenzi. Penetrando tutto l'universo quale vibrazione creativa. Om, il Suono Primordiale si traduce istantaneamente in parole intelligibili al devoto che s'è posto in sintonia con Esso. Lo scopo divino della creazione, per quanto la ragione umana possa comprenderlo, è esposto nei Veda. I rishi insegnarono che ogni essere umano fu creato da Dio come anima destinata unicamente a manifestare qualche particolare attributo dell'Infinito prima di riprendere la sua Identità Assoluta. Tutti gli uomini, dotati così di una faccetta della Divina Individualità, sono ugualmente amati da Dio. La saggezza raccolta dall'India, sorella maggiore di tutte le nazioni, è patrimonio ereditario dell'umanità tutta. La verità vedica, come tutta la verità, appartiene a Dio e non all'India. I grandi rishi, le cui menti erano ricettacoli puri, atti a ricevere le divine profondità dei Veda, furono membri della razza umana, nati su questa terra, anziché su un altro pianeta, per servire tutta l'umanità. Le distinzioni di razza e nazionalità non hanno senso nei reami della verità, dove l'unica qualifica è l'idoneità spirituale a ricevere.
Dio è amore; il Suo piano per la creazione non può esser radicato altro che nell'amore. Questo semplice pensiero non offre forse consolazione al cuore umano più d'ogni ragionamento erudito? Ogni santo che sia penetrato nel cuore della Realtà, ha testimoniato che esiste un piano universale e che esso è bello e pieno di gioia. Al profeta Isaia Dio rivelò le Sue intenzioni con le seguenti parole. (Nota: Isaia, 55, 11-12. Fine nota) "Tale sarà la mia parola (l'Om creativo); una volta uscita dalla mia bocca non tornerà a me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e prospererà in quelle cose per cui l'ho inviata. Perché con allegrezza uscirete e in pace sarete ricondotti; i monti e i colli festeggeranno il vostro apparire con cantici, e tutte le piante della campagna applaudiranno". "Con allegrezza uscirete e in pace sarete ricondotti". Gli uomini di un ventesimo secolo duramente provato, ascoltano bramosi questa meravigliosa promessa. L'intera verità che essa contiene può essere realizzata da ogni devoto di Dio che lotti coraggiosamente per riconquistare la sua eredità divina. La missione benedetta del Kriya Yoga in Oriente e in Occidente è appena incominciata. Possano tutti gli uomini sapere che esiste una ben definita tecnica scientifica d'Autorealizzazione per il superamento d'ogni umana infelicità! Mentre invio vibrazioni-pensiero d'amore alle migliaia di Kriya Yoghi sparsi come splendenti gioielli sulla terra, penso spesso con gratitudine: Signore, hai dato a questo monaco una grande famiglia!
NOTA DELL'EDITORE AMERICANO Paramahamsa Yogananda entrò nel mahasamadhi (la cosciente uscita finale dal corpo di uno yoghi) a Los Angeles, California, il 7 marzo 1952, appena concluso il suo discorso tenuto durante il banchetto in onore di S. E. Binay R. Sen, ambasciatore d'India. Questo grande maestro d'importanza mondiale dimostrò il valore dello yoga non solo in vita, ma anche nella morte. Settimane dopo la sua dipartita, il suo volto era immutato e risplendeva del lustro divino dell'incorruttibilità, come fa fede la testimonianza di Mr. Harry T. Rowe, direttore del cimitero di Forest Lawn. Paramahasa Yogananda fondò due associazioni senza carattere settario e senza scopi di guadagno: SELF-REALIZATION FELLOWSHIP (SRF), in America e YOGODA SAT-SANGA (YSS) in India. Egli soleva dichiarare spesso che attraverso l'opera di queste due organizzazioni il messaggio di liberazione del Kriya Yoga verrebbe sparso in tutte le parti del mondo. "Gesù Cristo, Babaji, Lahiri Mahasaya e Sri Yukteswar, hanno dato la loro benedizione a quest'opera", disse Paramahansaji, "e hanno assicurato che essa vivrà e crescerà". Questa organizzazione viene incontro al bisogno più urgente dell'uomo fra gli allarmi dell'Era atomica, quello di conoscere e mettere in pratica precise tecniche scientifiche per ottenere un'esperienza diretta e personale di Dio. La missione del grande Maestro viene continuata dai discepoli che egli addestrò durante molti anni per questo scopo. Il secondo Presidente della SRF-YSS fu James J. Lynn (Rajasi Janakananda). La sua vita bellissima si concluse il 20 febbraio 1955. Il terzo presidente della SRF-YSS è la Madre Daya Mata dell'Oriente monastico d'Autorealizzazione. Ella servì Yoganandaji come segreteria personale dal 1931 al 1952. Durante la sua prima visita ai centri YSS in India, ella pose la pietra di fondazione per un nuovo dormitorio YSS nella scuola per ragazzi fondata dal Maestro nel 1918 a Ranchi, inaugurò una "Yogananda Hall" o "stanza della visione", costruita nel posto dell'antico magazzino a Ranchi, in cui Paramahansaji ebbe nel 1920, una visione dei suoi futuri allievi americani e inaugurò un Guru Mandir, ossia un santuario in memoria di Yogananda al quartier generale YSS a Dakshineswar.
Il grande Guru scrisse in questo libro delle parole su Lahiri Mahasaya che ora risuonano nel cuore dei più stretti discepoli di Yogananda stesso, e di quei devoti che conobbero il Maestro solo attraverso le sue Lezioni, i suoi libri e le registrazioni della sua voce: "In principio mi addoloravo perché egli non era più fisicamente in vita. Ma quando cominciai a scoprire la sua onnipresenza segreta, non mi lamentai più. Egli aveva scritto spesso a quei discepoli che bramavano troppo vederlo: 'Perché volete venire a visitare la mia carne e le mie ossa, mentre io sono sempre alla portata del vostro kutasha (visione spirituale?'"). La SELF-REALIZATION FELLOWSHIP annovera aderenti in ogni parte del mondo ed è organizzata in centri e colonie. I suoi scopi e ideali sono: Diffondere tra le nazioni la conoscenza di particolari tecniche scientifiche per raggiungere l'esperienza diretta e personale di Dio. Dimostrare la verità pratica degli insegnamenti immortali di Gesù Cristo e dei Maestri autorealizzati dell'India. Indicare agli uomini la strada maestra che conduce a Dio e nella quale convergono tutti i sentieri dei vari "credo" religiosi: la via della quotidiana meditazione. Liberare gli uomini dalla loro triplice sofferenza: malattie fisiche, disarmonie mentali e ignoranza spirituale. Dimostrare la superiorità della mente sul corpo e dell'anima sulla mente. Incoraggiare la comprensione spirituale e culturale tra Oriente e Occidente e promuovere uno scambio delle loro acquisizioni migliori. Porre in armonia la scienza e la religione attraverso la conoscenza (realizzazione) dell'unità che sta alla base dei principi di entrambe. Vincere il male col bene, il dolore con la gioia, la crudeltà con la bontà, l'ignoranza con la saggezza. Servire l'umanità come il nostro più grande Sé.