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RIVISTA DI ISAAC ASIMOV AVVENTURE SPAZIALI & FANTASY N. 3 - Primavera 1980 Indice: L'universo prescientifico di Isaac Asimov L'ultimo difensore di Camelot di Roger Zelazny Voci di Keith Minnion Il ghiaccio e il tuono di Randall Garrett La scuola delle stelle su Inferno di Joe Haldeman e Jack C. Haldeman II Cacciatori di ombre di John Kelly La storia di Gorgik di Samuel R. Delany L'UNIVERSO PRESCIENTIFICO Ho spesso avuto occasione di dire che la fantascienza è figlia degli ultimi due secoli, La fantascienza non può esistere come immagine del futuro a meno che e finché il pubblico non si renda conto che sono la scienza e la tecnologia a partorire il futuro, che sono i progressi della scienza e della tecnologia (o perlomeno i loro cambiamenti) a rendere il futuro diverso dal presente e dal passato, ed è proprio qui che nascono le possibilità di far letteratura. Naturalmente, nessuno avrebbe potuto accorgersene senza che il ritmo del progresso tecnologico e scientifico diventasse abbastanza rapido da essere recepito nel corso dell'esistenza di un individuo. Ciò accadde con la Rivoluzione Industriale - grosso modo, nel 1800 - e fu solo allora che si poté cominciare a scrivere della fantascienza. Eppure, doveva ben esserci qualcosa prima della fantascienza, qualcosa che soddisfacesse gli stessi bisogni emotivi. Dovevano pur esserci storie in cui si narrasse dello strano e del diverso, di forme di vita sconosciute e di facoltà superiori a quelle umane. Vediamo un po'. Il rispetto (o la paura, o una combinazione di entrambi) che la gente prova nei confronti della scienza e degli scienziati, è dovuta al fatto che la scienza è la chiave per la comprensione dell'Universo, e che gli scienziati sanno servirsi della scienza per usare questa chiave. Grazie alla scienza, possiamo far uso delle leggi della natura per controllare il nostro habitat e
per ampliare le nostre facoltà. Se continueremo sulla strada della comprensione di queste leggi, i nostri futuri poteri saranno sempre maggiori che nel passato. Se riusciamo ad immaginarci in che modo saranno più grandi, potremo scrivere delle storie. Nei secoli passati, tuttavia, la maggior parte degli uomini aveva un'idea molto vaga, se pure l'aveva, di cosa fossero le leggi di natura: leggi inflessibili, ordinamenti immutabili che non possono essere modificati né a nostro vantaggio né a nostro svantaggio, e che ci danno gloria e fama quando si lasciano graziosamente comprendere. Vigeva invece il concetto che l'Universo fosse un giocattolo per la vita e la volontà, che ci fossero fenomeni analoghi alle azioni umane, ma immensamente più grandi, controllati da esseri simili a quelli che conosciamo, ma più grandi e potenti. Gli esseri che controllavano i fenomeni naturali venivano dunque dipinti sotto sembianze umane, ma la loro forza, dimensioni, talenti e longevità erano sovrumani, A volte essi erano raffigurati come super-animali, o super-ibridi di animali. (Non dobbiamo stupirci se nell'inventario dell'insolito c'è un costante riferimento all'ordinario: in fin dei conti, anche le menti più fertili sono limitate, ed è davvero difficile inventare qualcosa di veramente nuovo, basti pensare alla «fantascienza» di Hollywood). Poiché spesso i fenomeni naturali ci sembrano essere privi di senso, gli dei sono spesso dipinti come pazzerelloni ed imprevedibili, spesso alle soglie dell'infantilismo. I fenomeni naturali sono spesso catastrofici, e allora gli dei devono essere collerici. I fenomeni naturali sono spesso benefici, e allora gli dei sono fondamentalmente buoni, a patto che li si tratti con rispetto e non li si faccia arrabbiare. Era inevitabile che qualcuno inventasse delle formule per placare gli dei e per persuaderli ad agire per il bene della comunità. Il bello è che la validità di queste formule in genere non può essere smentita dagli eventi: se le formule non funzionano, ci dev'essere per forza qualcuno che ha offeso gli dei. Chi aveva inventato ed utilizzava le formule, non aveva certo difficoltà a trovare capri espiatori a cui imputare il fallimento della formula in casi specifici, così che la fede popolare nelle formule non vacillava mai. (Risparmiamoci l'ironia: anche oggi continuiamo ad avere fede negli economisti, nei sociologi e nei meteorologi, anche se ben di rado le loro previsioni sono azzeccate). Nell'epoca pre-scientifica, erano il prete, il mago, lo stregone o lo sciamano (il nome poco importa) a ricoprire la funzione che ha oggi lo scien-
ziato. Era il sacerdote, o almeno così si credeva, a possedere il segreto con cui controllare l'Universo, ed erano i progressi nella conoscenza delle formule magiche ad ampliare le facoltà umane. I miti e le leggende antichi sono pieni di storie di esseri umani dotati di facoltà sovrumane. Ci sono ad esempio gli eroi leggendari che si servono di cavalli alati e tappeti volanti, vecchie stregonerie che ancor oggi ci affascinano. Credo che un ragazzo vorrebbe sperimentare simili metodi di navigazione aerea anche se stesse leggendo quelle storie a bordo di un aereo a reazione. Pensate alla sfera di cristallo, in cui si vedono fatti che stanno accadendo a molti chilometri di distanza, o alle conchiglie magiche che ci permettono di udire le voci di persone lontane: tutte cose molto più pittoresche dei televisori e dei telèfoni d'oggi. Pensate alle porte che si spalancano con un «Apriti sesamo» invece che con un comando elettronico a distanza, pensate agli stivali delle sette leghe, che vi permettono di coprire le distanze con la stessa rapidità di un'automobile. Se non vi basta, pensate ai mostri leggendari, alle creature mirabolanti inventate mescolando gli attributi di vari animali: l'uomo-cavallo Centauro, l'uomo-capra Satiro, la donna-leone Sfinge, la donna-falco Arpia, l'aquila-leone Grifone, la donna-serpente Gorgone. Nella fantascienza spesso incontriamo extra-terrestri costruiti seguendo la stessa ricetta. Lo scopo di queste antiche storie era lo stesso della fantascienza: descrivere la vita così come non è. I bisogni emotivi appagati erano gli stessi: veniva appagata la fame del meraviglioso. La differenza sta nel fatto che i miti e le leggende antichi raggiungevano quello scopo sullo sfondo di un Universo dominato da dei e demoni, che a loro volta potevano venire controllati per mezzo di formule magiche, sotto forma di incantesimi coercitivi o di preghiere suadenti. La fantascienza, invece, soddisfa gli stessi bisogni sullo sfondo di un Universo regolato da leggi impersonali ed inflessibili, che possono a loro volta essere controllate mediante una migliore comprensione della loro natura. A voler essere dogmatici, si potrebbe affermare che oggi è solo la fantascienza ad avere un valore, poiché, per quanto ne sappiamo, l'Universo segue effettivamente le leggi naturali, e non è in balia di dei e di demoni. Ciò non di meno, a volte, è meglio non essere troppo dogmatici e sicuri delle proprie opinioni. Sarebbe sciocco voler gettare via tutta una lettera-
tura che ha stimolato per millenni la fantasia umana, col solo pretesto che non è in accordo con la realtà. Dopotutto, non esiste solo la realtà. Dovremmo forse smettere di appassionarci al duello tra Achille ed Ettore solo perché non si combatte più con scudi e lance? Non dovremmo forse più entusiasmarci per le battaglie navali del 1812 e delle guerre napoleoniche soltanto perché le nostre navi non sono più di legno e non sono munite di vele? Mai! E dunque, perché alla gente a cui piacciono le avventure di fantascienza non dovrebbero piacere delle storie di avventure mitologiche? I loro Universi sono diversi, ma le strade che seguono sono identiche. Anche se sono abbastanza conservatore nella mia definizione di fantascienza, e non ammetterei mai che in essa rientrino le storie del genere cosiddetto di «spada e stregoneria», sono disposto a considerare queste ultime come equivalenti della fantascienza, ambientate in un altro Universo, un Universo pre-scientifico. Troverete dunque in questa rivista anche storie che si richiamano alla tradizione di Robert E. Howard e del suo Conan, di Fritz Leiber e del suo Fafhrd, di J.R.R. Tolkien e della sua Terra di Mezzo. Non chiederemo loro di tradire la propria vocazione e di adattarsi all'Universo della realtà con una riverniciatura scientifica o pseudoscientifica: chiederemo loro che siano coerenti al proprio ambito prescientifico, e soprattutto che siano ben scritte ed appassionanti. Isaac Asimov
ROGER ZELAZNY
L'ULTIMO DIFENSORE DI CAMELOT I tre teppisti che lo fermarono quella sera di ottobre a San Francisco non si aspettavano che il vecchio, malgrado la sua taglia, avrebbe opposto un granché di resistenza: era ben vestito, e tanto bastava. Il primo gli si avvicinò con la mano tesa, mentre gli altri due rimanevano qualche passo indietro. «Dammi il portafogli e l'orologio», disse il teppista, «e ti risparmierai un mucchio di guai». Il vecchio modificò la propria presa sul bastone da passeggio. Le sue spalle si raddrizzarono. La sua criniera bianca si scompigliò quando volse il capo per guardarlo. «Perché non venite a prenderli?». Il teppista tentò di fare un passo avanti ma non ebbe neppure il tempo di posare il piede: cadde, colpito sulla tempia sinistra da un bastone reso quasi invisibile dalla velocità con cui aveva compiuto la sua parabola. Senza un attimo d'esitazione, il vecchio impugnò il bastone nel mezzo, con la sinistra, si fece avanti e lo ficcò nello stomaco dell'uomo che gli era più vicino. Quando l'uomo si piegò in due, con un gancio diretto verso l'alto lo colpì di punta sotto la mascella, nel punto molle dietro il mento. Quando infine l'uomo cadde, gli assestò una mazzata dietro al collo col manico. Nel frattempo, il terzo uomo si era fatto avanti ed aveva preso l'avambraccio del vecchio. Lasciato cadere il bastone, il vecchio afferrò il teppista per il colletto con la sinistra e per la cintola con la destra, lo sollevò dal suolo fino a tenerlo con le braccia tese sopra la propria testa, ed infine lo scaraventò contro il muro di un edificio alla sua destra. Si ricompose gli abiti, si passò una mano tra i capelli e raccolse il proprio bastone da passeggio. Osservò per un attimo i tre corpi accasciati, poi con un'alzata di spalle riprese il cammino. Da qualche parte alla sua sinistra veniva il rumore del traffico. Al primo incrocio prese a destra. Mentre camminava, la luna apparve alta sopra le guglie della città. C'era nell'aria l'odore dell'Oceano. Aveva piovuto da poco, e l'asfalto luccicava ancora alla luce dei lampioni. Si muoveva lentamente, fermandosi di tanto in tanto ad osservare il contenuto delle vetrine buie. Dopo forse dieci minuti, s'imbatté in una strada laterale che appariva più animata di tutte le altre per cui era passato. All'angolo c'era una farmacia
ancora aperta, e più su c'erano una tavola calda e molti negozi ben illuminati. Sul marciapiedi opposto c'erano dei passanti. Un ragazzo in bicicletta passò pedalando pigramente. Imboccò quella via. I suoi occhi chiari prendevano nota di tutto. A metà dell'isolato, giunse davanti ad una vetrina sporca su cui era dipinta la parola CHIROMANTE. Sotto di essa erano raffigurate la sagoma di una mano ed alcune carte da gioco sparse. Passando davanti alla porta aperta, lanciò un'occhiata all'interno. Una donna vestita con colori vivaci e coi capelli raccolti in un fazzoletto verde se ne stava seduta e fumava in fondo alla stanza. Quando i loro sguardi s'incontrarono, lei sorrise e con l'indice piegato lo invitò ad entrare. Lui sorrise di rimando e fece per proseguire, ma... La guardò di nuovo. Che cos'era? Diede un'occhiata all'orologio. Tornando sui propri passi, entrò nella bottega e si fermò di fronte a lei. La donna si alzò. Era piccola, appena più alta di un metro e cinquanta. «Lei ha gli occhi verdi», osservò lui. «La maggior parte delle zingare che conosco hanno gli occhi scuri». La donna si strinse nelle spalle. «Così è la vita. Quale il suo problema?». «Se mi concede un minuto ne inventerò uno», rispose. «Sono entrato qui perché lei mi ricorda qualcuno... ma non so chi, e ciò mi turba». «Venga nel retro», disse lei, «e si sieda. Parleremo». Lui annuì e la seguì nella stanzetta che faceva da retrobottega. Accanto al tavolino a cui si sedettero il pavimento era coperto da un liso tappeto orientale. Le pareti erano ricoperte di stampe zodiacali e di stinti manifesti psichedelici dal soggetto pseudo-religioso. Dalla parte opposta del locale, una sfera di cristallo stava su un ripiano accanto ad un vaso di fiori recisi. Più a destra, c'era un divano su cui dormiva un gatto nero e peloso. Oltre il divano, leggermente socchiusa, c'era una porta che conduceva ad un'altra stanza. Le uniche fonti d'illuminazione erano la lampada da quattro soldi sul tavolo di fronte a lui ed una piccola candela sorretta da un basamento di gesso posto su un tavolino da caffè ricoperto da uno scialle. Si chinò verso di lei per studiarne il volto, poi scosse il capo e si riappoggiò allo schienale. Lei lasciò cadere un po' di cenere sul pavimento. «Il suo problema, dicevamo», suggerì. Lui sospirò. «Oh, non è un problema che qualcuno possa aiutarmi a risolvere. Senta,
credo di aver commesso un errore entrando qui. Ad ogni modo pagherò per il suo incomodo, come se mi avesse davvero letta la mano. Quant'è?». Fece per prendere il portafogli, ma lei levò una mano. «È forse perché lei non crede in queste cose?», domandò mentre i suoi occhi scrutavano la sua faccia. «No, al contrario», rispose lui. «Sono disposto a credere nella magia, nella divinazione ed in ogni sorta di incantesimi ed apparizioni, angelici o diabolici che siano, ma...». «Ma non in un posto di terza classe come questo?». Lui sorrise. «Senza offesa», disse. Un fischio che sembrava provenire dalla stanza adiacente riempì l'aria. «Senza offesa», disse lei, «ma l'acqua sta bollendo. Mi ero dimenticata di averla lasciata sul fuoco. Vuole prendere il tè con me? Le tazze sono pulite, e offre la ditta. Non c'è molta clientela». «Va bene». La donna si alzò ed uscì. Diede uno sguardo alla porta che dava sul negozio, poi tornò a rilassarsi nella sedia, lasciando riposare sui braccioli imbottiti le sue grandi mani solcate da vene blu. Le sue narici dilatate esplorarono gli odori della stanza e la sua testa si levò un attimo, come se avesse incontrato un aroma semidimenticato. Dopo un po', la donna tornò con un vassoio, e lo posò sul tavolino da caffè. Il gatto si svegliò, alzò la testa, ammiccò, si stiracchiò ed infine chiuse di nuovo gli occhi. «Panna e zucchero?». «Grazie. Una sola zolletta». Posò due tazze sul tavolo di fronte a lui. «Prenda quella che preferisce», disse lei. Lui sorrise e tirò a sé la tazza di sinistra. Lei pose un portacenere in mezzo al tavolo e tornò al proprio posto, portando con sé l'altra tazza. «Non era necessario», disse lui, mettendo le mani sul tavolo. La donna alzò le spalle. «Lei non mi conosce. Perché dovrebbe aver fiducia in me? Probabilmente si porta addosso un mucchio di soldi». La guardò ancora in viso. Mentre si trovava nel retro doveva essersi tolta la parte più pesante del trucco. Quelle gote, quella fronte... Distolse lo sguardo e bevve un sorso di tè.
«È un buon tè, non è il solito tipo istantaneo», disse. «Grazie». «Così lei crede in ogni tipo di magia», domandò lei, bevendo a sua volta. «Più o meno». «Per qualche ragione particolare?». «Soltanto perché spesso funziona». «Per esempio?». Lui fece un gesto vago con la mano sinistra. «Ho viaggiato molto. Ho visto delle cose strane». «E non ha problemi?». Lui ridacchiò. «È ancora decisa a predirmi il futuro? Bene. Le racconterò qualcosa di me e di ciò che voglio, e lei mi dirà se riuscirò ad ottenerlo. D'accordo?». «Ascolto». «Sono l'esperto di una grande galleria dell'Est, ho la fama di essere un'autorità sui manufatti antichi in metallo prezioso. Sono qui per partecipare ad un'asta in cui un collezionista privato metterà in vendita degli oggetti di questo tipo. Domattina andrò a dare un'occhiata ai pezzi. Naturalmente, spero di trovare qualcosa di buono. Pensa che sarò fortunato?». «Mi mostri le mani». Le tese verso di lei, col palmo in su. La donna si chinò ad esaminarle, ed immediatamente si drizzò. «Sui suoi polsi ci sono tante linee che non riesco neppure a contarle!». «Anche sui suoi, mi pare». Lo guardò negli occhi solo per un istante, poi tornò a studiare le sue mani. Lui notò che era impallidita sotto ciò che restava del suo trucco, e che il suo respiro si era fatto affannoso. «No», disse lei alla fine, ritraendosi, «non troverà qui ciò che cerca». Quando alzò la tazza, le sue mani tremavano leggermente. Lui si rabbuiò. «Non ha importanza», disse. «Dicevo così per dire. Ad ogni modo, io stesso dubito di riuscire a trovare ciò che cerco». La donna scosse il capo. «Mi dica il suo nome». «Sono francese, anche se ho perso l'accento. Mi chiamo DuLac». Lei lo guardò negli occhi, e prese ad ammiccare convulsamente. «No...», disse. «No». «E invece sì. E lei, come si chiama?».
«Madame Morgana», rispose. «L'insegna non è esposta, perché l'ho ridipinta di fresco». Lui cominciò a ridere, ma la risata gli si strozzò in gola. «Ora... ora so chi mi ricordi...». «Anche tu mi ricordavi qualcuno, ed ora anch'io so chi». Le lacrime che le sgorgavano dagli occhi le stavano sciogliendo il mascara. «Non può essere», disse lui. «Non qui... Non in un posto come questo...». «Caro», disse lei dolcemente, prendendogli la mano destra e portandola alle proprie labbra. Per un attimo sembrò che la voce le sì spezzasse, ma infine disse: «Avevo creduto di essere l'ultima, e che tu fossi sepolto a Joyous Gard. Non avrei mai immaginato...». Indicò poi con un gesto la stanza. «Questo? Solo perché mi diverte, mi aiuta a far passare il tempo. L'attesa...». S'interruppe e abbassò la sua mano. «Raccontami», disse. «L'attesa?», disse lui. «Che cosa attendi?». «La pace», disse lei. «È stata la potenza delle mie arti a regalarmi tutti questi lunghi anni. Ma tu... tu come ci sei riuscito?». «Io...». Bevve ancora un po' di tè e si guardò attorno, inquieto. «Non so da che parte cominciare», disse. «Uscii indenne dalle ultime battaglie, fui testimone impotente dello smembramento del regno ed infine lasciai l'Inghilterra. Andai alla ventura, celandomi sotto molti nomi ed offrendo i miei servigi a molte corti, finché un giorno mi accorsi che non stavo invecchiando... o che, perlomeno, stavo invecchiando molto, molto lentamente. Andai in India, in Cina... combattei nelle Crociate. Sono stato dappertutto. Ho parlato con maghi e mistici: alcuni erano ciarlatani, altri possedevano davvero il dono, ma nessuno di essi era grande quanto Merlino. Fu appunto uno di loro a confermare quello che era divenuto il mio sospetto; quanto a ciarlataneria, anche lui non scherzava, eppure...». Tacque e finì il tè. «Sei proprio sicura di voler ascoltare questa storia?», domandò. «Sì, voglio sentirla, ma prima lascia che porti dell'altro tè». Tornò col tè, accese una sigaretta e si riaccomodò. «Continua». «È... è per via del mio peccato», disse lui, «il mio peccato con... con la regina». «Non capisco».
«Ho tradito il mio signore ed amico, gli ho sottratto ciò che più gli era caro. Il mio amore era ed è ancor oggi più forte della lealtà e dell'amicizia: non posso pentirmi, e dunque non potrò esser perdonato. Erano tempi strani, magici. Vivevamo in una terra destinata a diventare mito. Il regno era percorso da correnti, forze ormai sparite dalla faccia della terra, anche se non saprei dire come o perché. Tu sai che tutto ciò è vero. In qualche modo, anch'io faccio parte di quest'ordine scomparso, e le leggi che governano la mia esistenza non sono le normali leggi del mondo naturale. Sono convinto di non poter morire, che la sorte abbia voluto che la mia punizione sia vagare per il mondo fino al compimento della Ricercar Potrò conoscere la pace solo nel giorno in cui troverò il Santo Graal. Prima di diventare noto sotto il nome di Cagliostro, Giuseppe Balsamo intuì tutto ciò e me lo spiegò. Anche se non gliene avevo mai accennato, ciò che mi disse coincideva perfettamente coi miei sospetti. E così, ho viaggiato per il mondo, cercando. Ora non sono più né un cavaliere né un soldato, ma un esperto d'arte antica. Sono stato in quasi tutti i musei del mondo ed ho visitato tutte le grandi collezioni private, eppure non sono ancora riuscito a trovarlo». «In effetti, stai diventando un po' troppo vecchio per la vita delle armi». Lui rise, sprezzante. «Non ho mai perso», disse con sicurezza. «Nel corso di dieci secoli, non sono mai uscito sconfitto da un duello. Che io sia invecchiato è vero, eppure ogniqualvolta sono in pericolo tutta la mia antica forza ritorna in me. Ho viaggiato e combattuto, ma invano: non sono mai riuscito a trovare ciò che cerco. A volte mi sembra di essere come l'Ebreo errante: colpevole, e condannato a vagare fino alla fine del mondò». Lei abbassò il capo. «...E così, mi stavi dicendo che neanche domani lo troverò?». «Non lo troverai mai», disse lei gentilmente. «Me l'hai letto sulla mano?». Lei scosse il capo. «La tua storia è affascinante, e la tua teoria è originale», cominciò, «ma Cagliostro era un ciarlatano al cento per cento. Probabilmente tradisti inavvertitamente i tuoi pensieri, e lui vi ricamò sopra un'abile panzana. Aveva torto, però. Se ti dico che non lo troverai mai, non è certo perché tu sia colpevole o indegno. No, questo mai: deve ancora nascere un cavaliere più leale di te. Non sai che Artù ti perdonò? Si trattava di un matrimonio combinato: come anche tu saprai, è un fatto che accade spesso, e dapper-
tutto. Tu le desti qualcosa che lui non le avrebbe mai potuto dare. Si trattava di pura e semplice tenerezza, e lui lo capì. Il solo perdono di cui hai bisogno è il tuo stesso perdono, che per tutti questi anni ti sei voluto negare. No, non è questa la tua sorte. Fu il tuo stesso senso di colpa a costringerti ad intraprendere una ricerca-impossibile, una ricerca che in pratica equivaleva a precludersi ogni speranza di espiazione. Hai imboccato una strada sbagliata, e per tutti questi secoli hai sofferto invano». Quando alzò lo sguardo, vide che gli occhi di lui erano duri, duri come ghiaccio o pietre preziose. Non abbassò gli occhi, e proseguì: «Il Santo Graal non esiste, non esisteva e probabilmente non è mai esistito». «Ma io lo vidi», disse lui, «quel giorno in cui passò per la Sala della Tavola. Tutti lo vedemmo». «Credesti di vederlo», lo corresse lei. «Odio dover infrangere un mito sopravvissuto attraverso tanti secoli, ma temo proprio di esserci costretta. A quel tempo, come ricorderai, il regno era in subbuglio. I cavalieri erano inquieti e davano segni di ribellione. Nel giro di un anno, forse persino di sei mesi, tutto sarebbe crollato, tutto quello che Artù aveva tanto lottato per creare. Egli sapeva che più a lungo Camelot avesse retto, più a lungo il suo nome sarebbe rimasto nella storia, e più forti si sarebbero fatti i suoi ideali. Fu così che giunse ad una decisione, una decisione puramente politica: ci voleva qualcosa che potesse ricucire l'unità del regno. Merlino a quel tempo era già semi-impazzito, ma quando Artù gli chiese consiglio ebbe ancora l'acume di capire cosa ci volesse e la capacità di fornirlo. Così nacque la Ricerca: furono i poteri di Merlino a creare quello che vedesti quel giorno. Sì, fu una menzogna, ma una gloriosa menzogna. Per anni riuscì a riunirvi tutti in un'unica fratellanza, nel nome della giustizia e dell'amore. Ispirò la letteratura, promosse la purezza dei costumi e gli studi più severi. Fu una menzogna efficace, ma fu sempre e solo una menzogna, te l'assicuro. Hai dato la caccia ad un fantasma. Mi spiace, Lancillotto, ma non avrei ragione alcuna di mentirti. So riconoscere la magia quando la vedo, e quel giorno la vidi. Fu così che tutto ebbe inizio». Lui rimase silenzioso a lungo, poi rise. «Hai una spiegazione per tutto», disse. «Se tu mi spiegassi una cosa ancora, forse potrei quasi crederti: perché sono qui? Per quale. ragione? Per l'intervento di quale forza? Come mai ho vissuto per metà dell'Evo cristiano mentre gli altri invecchiano e muoiono in una manciata d'anni? Cagliostro non poté spiegarmelo. Ci riuscirai tu?».
«Si», rispose lei, «credo di poterlo fare». Lui si alzò in piedi e cominciò a passeggiare nervosamente. Il gatto, allarmato, balzò giù dal divano e corse nella stanza sul retro. Si chinò e raccolse il bastone da passeggio, e si avviò verso la porta. «Valeva la pena di aspettare mille anni per vederti una volta tanto impaurito», disse lei. Lui si fermò. «Sei ingiusta», replicò. «Lo so. Adesso torna indietro e siediti». Quando si voltò e tornò sui propri passi, lui aveva ripreso a sorridere. «E allora?», disse. «Cosa ne pensi?». «Che Merlino lanciò il suo ultimo incantesimo su di te, ecco cosa ne penso». «Merlino? Su di me? Perché?». «Stando ai pettegolezzi, un giorno il vecchio caprone si portò Nimue nei boschi, ed essa per difendersi fu costretta ad usare contro di lui uno dei suoi stessi incantesimi, un incantesimo che lo avrebbe fatto dormire per l'eternità in qualche luogo desolato. Ad ogni modo, se davvero si tratta dell'incantesimo che io credo, credo che questa storia sia almeno in parte falsa. Non esisteva alcun antidoto conosciuto, e gli effetti dell'incantesimo lo avrebbero costretto a dormire non per l'eternità, ma solo per un millennio, dopo il quale si sarebbe svegliato. Ecco, io suppongo che la sua ultima azione prima di addormentarsi fu quella di lanciarti addosso un incantesimo, per far sì che tu fossi a portata di mano al suo risveglio». «Può anche darsi, ma per quale ragione avrebbe voluto avermi con sé?». «Perché se fossi costretta a ridestarmi in un'epoca sconosciuta, vorrei avere accanto a me un alleato fidato. Se poi potessi scegliere, vorrei che fosse il campione più forte del mio tempo». «Merlino...», rimuginò lui. «Potrebbe anche essere andata così. Cerca di capirmi, in fin dei conti hai rimesso in discussione il senso della mia intera esistenza. Se ciò che mi dici è esatto...». «Ne sono certa». «Se ciò che mi dici è esatto... Un millennio, hai detto?». «Precisamente». «Che è ormai quasi interamente trascorso». «Lo so. Non credo che questo nostro incontro di stasera sia stato casuale. Sei destinato ad incontrarlo quando si risveglierà, il che dovrebbe succedere tra non molto, ma prima qualcosa ha voluto che tu mi ritrovassi, per es-
sere messo in guardia». «Messo in guardia? Contro cosa?». «Merlino è pazzo, Lancillotto. Quando se ne andò, molti di noi si sentirono non poco sollevati: anche se alla fine il regno venne lacerato dalle lotte intestine, lui stesso sarebbe prima o poi giunto allo stesso risultato». «Mi riesce difficile crederlo. Certo, era sempre stato un tipo strano, ma chi può dire di conoscere appieno un mago? Negli ultimi anni sembrava almeno parzialmente insano, ma non mi sembrò mai malvagio». «E infatti non lo era. Era invece il tipo d'uomo più pericoloso che esista, l'idealista del tipo "o con me o contro di me". In un'epoca ed in un paese primitivi, con l'aiuto di un docile strumento come Artù, riuscì a creare una leggenda. Quali devastazioni non potrebbe provocare oggi, avendo a disposizione le armi più mostruose della storia ed un leader adatto alla bisogna? Non appena vedrà un torto, costringerà il suo paladino a cercare di raddrizzarlo in nome di quegli alti ideali che ha sempre servito... ma senza intuire la portata delle implicite complicazioni. E come potrebbe, del resto, anche se fosse sano di mente? Come potrebbe capire le moderne relazioni internazionali?». «Cosa si può fare? Qual è il mio ruolo in tutto ciò?». «Penso che dovresti tornare in Inghilterra per essere presente al suo risveglio, per scoprire le sue intenzioni, per cercare di ragionare con lui». «Sì, ma... Come farò a trovarlo?». «Come hai trovato me. Quando l'ora scoccherà, ti troverai nel posto giusto, ne sono sicura. È destino che sia così, forse a causa di una parte dell'incantesimo. Trovalo, ma non credergli mai». «Non so, Morgana», disse, fissando il muro senza vederlo, «non so». «Hai atteso tanto a lungo, e proprio ora che stai per sapere la verità esiti?». «Lo ammetto... almeno per quanto riguarda questo aspetto della questione». Riunì le mani e vi posò sopra il mento. «Non ho proprio idea di cosa farò, se davvero si risveglierà. Certo, cercherò di farlo ragionare, ma poi? Non hai altri consigli da darmi?». «Solo che tu ti trovi sul posto». «Tu hai il dono, e hai visto la mia mano. Che cosa hai letto?». Lei gli voltò le spalle. «Era confuso», disse. Quella notte, come a volte gli accadeva, sognò dei tempi da lungo anda-
ti. Erano seduti attorno alla grande Tavola, proprio come quel giorno. C'erano Galvano, e Parsifal, e Galasso... Fece una smorfia d'inquietudine. Quella era una giornata diversa dalle altre. Nell'aria c'era una tensione quasi elettrica, come nella quiete prima della tempesta. Merlino stava dalla parte opposta della sala, con le mani nascoste nelle maniche della sua lunga veste. I suoi capelli e la sua barba erano candidi ed arruffati, e i suoi occhi freddi scrutavano qualcosa... ma cosa, nessuno avrebbe saputo dire. Passata un'eternità di tempo, un bagliore rossastro apparve accanto alla porta. Tutti gli occhi si posarono su di esso. Si fece più vivido ed avanzò lentamente nella sala, informe apparizione di luce. Si sentivano dei dolci profumi, ed anche alcune note di una musica celestiale. A poco a poco, al centro di esso, cominciarono ad apparire i contorni di una forma, che poi si concretizzò in un calice. Nel sogno gli sembrò di alzarsi, e di seguirlo con lenti movimenti nel suo percorso attraverso la grande sala. Silenzioso e deciso, come se si stesse muovendo sott'acqua, lo raggiunse. E cercò di toccarlo. La sua mano penetrò nel cerchio di luce, mosse verso il centro, verso il calice che ora splendeva, e lo attraversò. Subito la luce scomparve. I contorni del calice si fecero incerti, ed esso si ripiegò su se stesso, fioco, sempre più fioco, svanito... Un suono tonante echeggiò nella sala. Risate. Si voltò e li guardò. Stavano attorno alla Tavola, lo guardavano e ridevano. Persino a Merlino sfuggiva una risatina secca. In un lampo, impugnò la sua grande spada, l'alzò e si lanciò sulla Tavola. I cavalieri più vicini si ritrassero, mentre la spada cadeva con fragore. La Tavola si spaccò in due e crollò. La sala tremò. Il tremito continuò. Dai muri si staccarono delle pietre. Una trave cadde dal soffitto. Alzò il braccio. L'intero castello cominciò a crollare attorno a lui, e ancora le risate non cessavano. Si svegliò bagnato di sudore e rimase a lungo a giacere immobile. Quel mattino stesso, comprò un biglietto per Londra. Quella sera, mentre camminava col bastone in mano, due dei tre suoni elementari del mondo vennero improvvisamente a fargli compagnia. Da dodici giorni stava girando in lungo e in largo la Cornovaglia, senza aver trovato la minima traccia di ciò che cercava. Aveva deciso di concedersi
ancora due giorni prima di rinunciare e ripartire. Il vento e la pioggia lo investirono, ed egli allungò il passo. Le stelle appena spuntate furono inghiottite da una massa di nuvole, e ciuffi di nebbia crescevano come funghi spettrali attorno a lui. S'inoltrò tra gli alberi, si fermò e poi proseguì. «Non avrei dovuto star fuori fino a quest'ora», borbottò, e, dopo molte altre pause: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita». Ridacchiò, e si fermò sotto un albero. Non era un acquazzone. Più che di pioggia si trattava di una nebbia impalpabile. Una chiazza chiara, bassa sull'orizzonte, indicava la posizione della luna, velata di nubi. Si asciugò il viso ed alzò il bavero. Studiò la posizione della luna. Dopo un po', si rimise in cammino, puntando a destra. Risuonò un lontano rombo di tuono, reso fioco dalla distanza. Attorno a lui, la nebbia continuava ad aumentare. Le foglie fradice facevano rumori umidicci sotto le sue scarpe. Un animale di mole indefinibile schizzò fuori da una macchia di arbusti vicino ad un gruppo di rocce e si perse nell'oscurità. Cinque minuti... dieci... Imprecò sottovoce. L'intensità della pioggia era aumentata. Che la roccia fosse quella? Le girò attorno. Da qualunque parte guardasse, il panorama era decisamente poco invitante. Scelse una direzione a caso, e riprese ancora una volta a camminare. Fu allora che vide in lontananza una scintilla, una luce, un lume tremolante. Scompariva e riappariva periodicamente, come se qualcosa la schermasse parzialmente e la sua apparizione fosse in funzione di un suo moto. Vi si diresse. Dopo circa mezzo minuto scomparve di nuovo alla vista, ma egli continuò a camminare verso di essa, sperando di aver stimato correttamente la sua direzione. Ci fu un altro tuono, questa volta più forte. Quando ormai sembrava che si fosse trattato di un effimero fenomeno naturale, accadde qualcos'altro nella stessa direzione. Ci fu un movimento, come il moto di un'ombra dentro l'ombra ai piedi di un grande albero. Rallentò il passo e si avvicinò cautamente. Là! Una figura si staccò dalla pozza di oscurità che gli stava davanti, a sinistra. Simile a un uomo, si muoveva con un passo lènto e pesante che strappava gemiti al terreno della foresta. Un raggio di luna fuggiasco la illumi-
nò per un attimo, ed essa apparve gialla e metallica sotto un velo di umidità. Si fermò. E così, quello davanti a lui era un cavaliere in armatura. Da quanto tempo non vedeva una cosa simile? Scosse il capo e lo guardò. Anche la figura si era fermata. Alzò il braccio destro in un cenno che invitava a seguirla, poi si voltò e prese ad allontanarsi. Esitò solo per un attimo, poi la segui. Essa girò a sinistra e imboccò un sentiero traditore, sassoso, viscido e lievemente in pendio. Seguendo il suo passo deciso, fu costretto ad usare il bastone per non perdere l'equilibrio. Guadagnò abbastanza terreno da poter sentire chiaramente lo stridore metallico del suo incedere. Scomparve, infine, inghiottita da un'oscurità ancor più nera. Avanzò fino al punto in cui l'aveva vista per l'ultima volta. Si trovava dal lato sottovento di una grande massa di pietra. Tendendo il bastone davanti a sé, si mise alla ricerca di un passaggio. Picchiettò ad intervalli regolari sulla parete più vicina, finché il bastone trovò il vuoto. Si avvicinò. C'era un'apertura, un cunicolo. Dovette mettersi di fianco per riuscire ad entrare, e in quel mentre il bagliore della luce che aveva visto gli si rivelò pienamente per alcuni secondi. Il cunicolo s'incurvava e si allargava, a volte tornando sul proprio stesso percorso e a volte conducendo in basso. Più volte si fermò e restò in ascolto, ma non c'era altro suono che il suo stesso respiro. Trasse di tasca il fazzoletto e si asciugò meticolosamente il viso e le mani. Scosse via l'umidità dal soprabito e riabbassò il bavero, poi si raschiò via dalle scarpe il fango e le foglie. Si ricompose gli abiti ed infine proseguì con passo deciso. Superò un ultimo angolo e si trovò in una grotta illuminata da una piccola lampada ad olio che tre sottili catenelle tenevano sospesa ad un punto invisibile dell'oscurità sovrastante. Il guerriero giallo se ne stava immobile dalla parte opposta. Proprio sotto la lampada, su una stuoia posta sopra un gradino di sasso, giaceva un vecchio dagli abiti laceri. Andò vicino al vecchio, e si accorse che quegli occhi scuri ed antichi erano aperti. «Merlino...?», sussurrò. L'unica risposta fu un leggero suono sibilante, un debole lamento. Si chinò più vicino a lui.
«L'elisir... nell'orcio di terracotta... là dietro, sulla roccia». Fu un sussurro, quasi un rantolo. Si girò e cercò la roccia e l'orcio. «Sai dov'è?», domandò al cavaliere giallo. Poiché non si muoveva né replicava, ma restava immobile come una statua, se ne allontanò e cercò altrove. Dopo un po', trovò ciò che cercava. Non era un sasso, ma una nicchia dissimulata nella parete, ammantata dall'ombra. Passò i polpastrelli sull'orcio e lo sollevò delicatamente. Qualcosa di liquido si agitò all'interno di esso. Dopo esser tornato nella zona illuminata, ne pulì la bocca con la manica. Di fuori, il vento fischiava, e gli sembrò di avvertire la vibrazione del tuono. Sollevò il vecchio, facendogli passare una mano dietro le spalle. Gli occhi di Merlino apparivano ancora vacui. Gli inumidì le labbra col liquido. Il vecchio passò la lingua su di esse, ed infine aprì la bocca. Gli fece dare una sorsata, poi un'altra ed un'altra ancora. Merlino gli fece segno di abbassarlo, e lui obbedì. Lanciò un'altra occhiata all'armatura gialla, ma essa era rimasta immobile. Tornò a guardare il mago e si accorse che nei suoi occhi ardeva una luce nuova, e che lo stava osservando con un pallido sorriso. «Ti senti meglio?». Merlino annuì. Passò un altro minuto, e le sue gote presero un po' di colore. Puntellandosi sui gomiti si mise a sedere e prese in mano l'orcio, lo sollevò e bevve a lungo. Finito di bere, rimase seduto immobile per molto tempo. Le sue mani sottili, che alla luce della lampada erano apparse come di cera, si fecero più carnose e colorite. Le sue spalle si raddrizzarono. Posò l'orcio accanto a sé, sul giaciglio, e stirò le braccia. La prima volta che lo fece, le giunture scricchiolarono, ma non la seconda. Gettò le gambe oltre il bordo del giaciglio e si alzò lentamente in piedi. Era di una buona spanna più basso di Lancillotto. «È finita», disse, osservando le ombre dietro di sé. «Molta acqua è passata sotto i ponti, non è vero?». «Infatti», rispose Lancillotto. «Tu sei stato testimone di tutto. Dimmi, il mondo è migliore o è come ai vecchi tempi?». «In alcune cose è migliore, in altre è peggiore. È diverso». «In che cosa è migliore?». «Si sono trovati molti modi di rendere la vita più degna di essere vissuta,
e lo spettro dell'umana conoscenza si è enormemente allargato». «E in che cosa è peggiorato?». «Oggi il mondo è molto più popolato. Di conseguenza, molta più gente è afflitta dalla povertà, dalle malattie e dall'ignoranza. Il pianeta stesso è stato corrotto, a causa dell'inquinamento e di altri attentati all'integrità della natura». «E le guerre?». «C'è sempre qualcuno che combatte, dappertutto». «Avranno bisogno d'aiuto». «Forse. O forse no». Merlino si voltò e lo fissò negli occhi. «Cosa vuoi dire?». «La gente non è cambiata. È razionale - ed irrazionale - come ai vecchi tempi. È giusta e rispettosa delle leggi - o non lo è - come è sempre stata. Si sono fatte molte nuove scoperte e molte situazioni nuove sono sorte, ma non credo che durante il tuo sonno la natura umana sia cambiata in misura apprezzabile. Non c'è nulla che tu possa fare per cambiarla. Può anche darsi che tu riesca a modificare qualche aspetto di quest'epoca, ma non so se sarebbe giusto da parte tua interferire. Oggigiorno, tutto è talmente interdipendente che nemmeno tu saresti capace di valutare le conseguenze delle tue stesse azioni. Finiresti col fare più male che bene, e comunque la natura umana rimarrà sempre la stessa». «Non ti riconosco più, Lancillotto: non mi eri mai sembrato portato alla filosofia». «Ho avuto un mucchio di tempo per meditare». «E io ho avuto un mucchio di tempo per sognare. Il tuo mestiere è la guerra, Lancillotto. Limitati ad esso». «Da molto tempo ormai ho perso il gusto della guerra». «Ma allora, che cosa sei ora?». «Un esperto d'arte antica». Merlino si voltò e bevve di nuovo. Quando tornò a rivolgersi a Lancillotto, fu come se da lui emanasse un alone d'energia veemente. «E il tuo giuramento? Raddrizzare i torti e punire i malvagi...?». «Più invecchiavo, più mi riusciva difficile decidere cosa fosse veramente un torto e chi fosse davvero malvagio. Se riuscirai a chiarirmi le idee, può darsi che ci ripensi». «Galasso non avrebbe mai osato parlarmi a questo modo». «Galasso era giovane, ingenuo ed inesperto. Non nominare mio figlio».
«Lancillotto! Lancillotto!». Gli pose una mano sul braccio. «Perché tutta questa acrimonia verso un vecchio amico che ha dormito per mille anni?». «Volevo solo mettere in chiaro fin dall'inizio la mia opinione. Temevo che tu progettassi qualche azione che potrebbe alterare catastroficamente gli equilibri di potere su cui si basa il mondo. Voglio che tu sappia che non sarò tuo complice». «Ammetti però di non sapere ciò che voglio né ciò che potrei fare». «Certo, ed è proprio per questo che ti temo. Che cosa intendi davvero fare?». «Per adesso, nulla. Voglio semplicemente dare un'occhiata in giro e rendermi conto personalmente di questi cambiamenti di cui mi hai parlato. In seguito, deciderò quali torti dovranno essere raddrizzati, chi dovrà essere punito e chi scegliere come mio campione. Te ne parlerò, e tu potrai ripensarci, come hai detto». Lancillotto sospirò. «Dovrai dimostrarmi che ciò che dirai sarà vero. La tua opinione non mi basta più». «Che tristezza», replicò l'altro. «Aspettare tanto a lungo di incontrarti, per poi scoprire che non hai più fiducia in me. Sto cominciando a riacquistare i miei poteri, Lancillotto. Non senti la magia attorno a te?». «Sento qualcosa che non sentivo da lungo tempo». «Questo sonno di secoli è stato un tonico, davvero una benedizione. Fra un po', Lancillotto, sarò più potente di quanto non sia mai stato. E tu dubiti che io possa portare indietro le lancette dell'orologio?». «No, ma dubito invece che qualcuno ne trarrà beneficio. Credimi, Merlino, mi spiace che le cose si siano mèsse in questo modo, ma ho vissuto troppo a lungo, e ho visto e conosciuto troppo dei meccanismi del mondo per poter credere ancora alle ricette per la sua salvezza. Lascialo perdere. Tu sei una leggenda, sacra e misteriosa. Non so chi tu sia davvero, ma non sprecare i tuoi poteri in una crociata. Fai qualcosa di diverso, questa volta. Fai il medico e combatti il dolore. Datti alla pittura. Diventa un professore di storia, o un antiquario. Oppure, che diavolo!, fai il critico sociale e indica alla gente quei mali che essa stessa potrà correggere». «Credi davvero che potrei accontentarmi di questo?». «L'uomo trova soddisfazione in molte cose. Dipende dall'uomo, non dalle cose. Ti sto solo dicendo che dovresti astenerti dall'usare i tuoi poteri per cambiare la società come facevamo una volta, con la violenza». «Non so quali altri cambiamenti ci siano stati, ma il fatto più ironico è
che il tempo ti ha mutato in un pacifista». «Ti sbagli». «Ammettilo! Sei finalmente giunto a temere il fragore delle armi! Un esperto d'arte antica! Ma che razza di cavaliere sei?». «Un cavaliere che si trova nel posto sbagliato e nell'epoca sbagliata, Merlino». Il mago si strinse nelle spalle e si allontanò. «E dunque, così sia. È bene che tu mi abbia voluto dire subito tutto ciò. Aspettami». Merlino si ritirò in fondo alla caverna e ritornò poco dopo, con addosso degli abiti nuovi. L'effetto era stupefacente. La sua intera persona sembrava più curata e più pulita. I suoi capelli e la sua barba tendevano ora più al grigio che al bianco, e il suo passo era fermo e sicuro. Teneva nella destra un bastone, ma non lo usava per appoggiarvicisi. «Vieni a passeggiare con me», disse. «Non è una bella notte». «Non è la stessa notte che ti sei lasciato alle spalle. Non è nemmeno lo stesso luogo». Passando di fronte all'armatura gialla, schioccò le dita davanti alla celata. Con uno scricchiolio, la figura si mosse e si volse per seguirlo. «Chi è?». Merlino sorrise. «Nessuno», rispose. Stese la mano ed alzò la celata. L'elmo era vuoto. «È incantata, animata da uno spirito», disse. «È un po' goffo, tuttavia, ed è per questo che ho chiesto a te di somministrarmi l'elisir. A differenza di altri, è comunque un servo ideale. Incredibilmente forte e svelto. Nemmeno tu da giovane avresti potuto batterlo. Quando è con me, non ho paura di niente. Vieni, voglio mostrati qualcosa». «Andiamo». Lancillotto seguì Merlino e il cavaliere vuoto fuori della caverna. Non pioveva più, e tutto era molto silenzioso. Si trovavano su una pianura illuminata da una luna incredibilmente vivida, e su cui la nebbia giocava sull'erba luccicante. In lontananza, s'intravvedevano delle forme ammantate d'ombra. «Scusami», disse Lancillotto. «Ho lasciato il mio bastone da passeggio nella caverna». Tornò sui propri passi e rientrò nella caverna. «Sì, vecchio, vallo a prendere», replicò Merlino. «Ne avrai bisogno».
Lancillotto ritornò: si appoggiava al bastone, ed ammiccava nell'oscurità. «Da questa parte», disse Merlino, «e troverai risposta alle tue domande. Cercherò di non camminare troppo in fretta, o ti stancherai». «Stancarmi io?». Il mago ridacchiò e s'incamminò per la pianura. Lancillotto lo seguì. «Non ti senti un po' stanco?», domandò. «In effetti sì, un poco. Perché mi sento cosi?». «Perché ho annullato l'incantesimo che ti ha protetto per tutti questi anni. Quelli che avverti non sono che i primi, deboli segnali della tua vera età: le ci vorrà un po' di tempo per superare le tue difese naturali ed impadronirsi di te, ma ad ogni modo sta cominciando la sua avanzata». «Perché mi fai questo?». «Perché ti ho creduto quando mi hai detto di non essere un pacifista, e parlavi con una veemenza tale che ho capito che non esiteresti a metterti contro di me. Non potevo permetterlo, poiché sapevo che la tua antica forza era ancora a tua disposizione. Ci sono cose che anche un mago teme, e così ho fatto ciò che andava fatto. Conservavi la tua forza solo grazie al mio potere, e ora la stai perdendo. Sarebbe stato bello poter lavorare di nuovo insieme, ma mi sono accorto che sarebbe impossibile». Lancillotto incespicò, riuscì ad evitare di cadere e proseguì zoppicando. Il cavaliere vuoto camminava alla destra di Merlino. «Affermi che i tuoi fini sono nobili», disse Lancillotto, «ma non ti credo. Forse, ai vecchi tempi essi erano davvero nobili, ma troppe cose sono cambiate, e non solo sul piano cronologico. Sei diverso. Non te ne accorgi?». Merlino inspirò una profonda boccata d'aria ed esalò vapore. «Dev'essere un tratto ereditario», disse. «Scherzo. Certo, che sono diverso. Tutti quanti cambiano, e tu stesso ne sei la prova lampante. Ciò che tu consideri un mutamento in peggio da parte mia non è che un sintomo del conflitto irriducibile che è sorto tra di noi nel corso dei nostri mutamenti. Per quanto mi riguarda, sono ancora fedele ai veri ideali di Camelot». Le spalle di Lancillotto s'erano incurvate, e il suo respiro s'era fatto affannoso. Le sagome scure incombevano su di loro, più grandi che mai. «Conosco questo luogo», esclamò. «Eppure, è come se non lo conoscessi. È Stonehenge, ma non è come è oggi, e anche ai tempi di Artù non era così perfetta. Come siamo arrivati qui? Cosa è successo?». Si fermò a riposare un poco, e Merlino gli fece la cortesia di fermarsi
con lui. «Questa notte siamo passati da un mondo all'altro», disse il mago. «Questa è una parte del mondo delle Fate, e quella è la vera Stonehenge, un luogo sacro. Per portarla qui, ho dovuto forzare la porta che separa i mondi. Se fossi malvagio potrei mandarti indietro insieme ad essa ed abbandonarti laggiù per l'eternità, ma voglio che anche tu possa avere un po' di pace. Vieni!». Lancillotto arrancò accanto a lui. Si stavano dirigendo verso il grande cerchio di pietre. Una lievissima brezza d'occidente scherzava con la nebbia. «Un po' di pace? Cosa vuoi dire?». «Per far sì che i miei poteri mi vengano interamente restituiti e, anzi, aumentati, dovrò celebrare un sacrificio in questo luogo». «È dunque per questo che mi volevi con te!». «No, Lancillotto, non dovevi essere tu. Chiunque sarebbe stato adatto alla bisogna, anche se tu sarai un superbo animale sacrificale. Non sarebbe accaduto, se tu avessi voluto stare al mio fianco. Hai ancora il tempo di cambiar idea». «Vorresti al tuo fianco un voltagabbana?». «Giusta osservazione». «E allora, perché chiedermi di cambiare i-dea, se non per essere meschinamente crudele?». «Se lo sono, è perché mi hai irritato». Lancillotto si fermò di nuovo quando arrivarono ai limiti del cerchio. Osservò i massicci pilastri di pietra. «Se non vuoi entrare con le tue gambe», disse Merlino, «il mio servitore sarà felice di poterti aiutare». Lancillotto sputò, si raddrizzò un poco e disse con espressione fiera e rabbiosa: «Credi che abbia paura di un'armatura vuota portata a spasso da qualche creatura vomitata dall'inferno? Persino adesso riuscirei a farla a pezzi, Merlino, e senza l'aiuto di uno stregone». Il mago rise. «Mi fa piacere che, ora che hai perduto tutto, ti rimanga almeno la spacconeria del cavaliere. Ho una mezza idea di metterti alla prova, visto che i dettagli della tua morte non sono importanti. Solo i preliminari hanno un'importanza fondamentale». «Che c'è, hai paura di perdere il tuo servo?». «No di certo, vecchio, ma dubito che tu possa reggere il peso di un'arma-
tura, per non parlare di quello di una lancia. Se vuoi provarci, comunque, così sia!». Batté tre volte per terra l'impugnatura del bastone. «Entra», disse poi. «All'interno troverai tutto ciò che ti occorre. Sono lieto che tu abbia scelto in questo modo. Eri davvero insopportabile, sai? Desideravo vederti almeno una volta sconfitto, ridotto al rango dei comuni mortali. Vorrei soltanto che la regina fosse qui, a vedere l'ultimo duello del suo campione». «Lo vorrei anch'io», disse Lancillotto, aggirando il monolito ed entrando nel cerchio. Uno stallone nero lo attendeva, con le briglie trattenute da una roccia. Appoggiati al dolmen c'erano i pezzi dell'armatura, una lancia, una spada ed uno scudo. Dalla parte diametralmente opposta al cerchio, uno stallone bianco attendeva l'arrivo del cavaliere vuoto. «Sono spiacente di non poterti fornire l'assistenza di un paggio o di uno scudiero», disse Merlino, sbucando dalla parte opposta del monolito. «Sarò comunque lieto di aiutarti, se vuoi». «Posso anche farcela da solo», replicò Lancillotto. «Il mio campione indossa la tua identica armatura», disse Merlino, «e dispone delle stesse tue armi. Dunque, non preoccuparti a vuoto!». «Anche il tuo humor non mi è mai piaciuto!». Lancillotto vezzeggiò il cavallo, poi tolse dal portafogli un filo rosso e lo legò attorno al manico della lancia. Appoggiò il bastone al dolmen e cominciò ad indossare l'armatura. Merlino, i cui capelli e la cui barba erano ormai quasi neri, si allontanò di qualche passo e cominciò a disegnare un diagramma nella polvere con la punta del suo bastone. «So che hai sempre preferito un cavallo bianco», commentò, «ma mi è sembrato preferibile dartene uno di colore opposto, visto che hai abbandonato gli ideali della Tavola Rotonda e hai tradito la memoria di Camelot». «Al contrario», replicò Lancillotto, il suo sguardo attratto verso l'alto da un inaspettato rombo di tuono. «Sono l'ultimo difensore di Camelot, e un cavallo vale l'altro». Mentre Lancillotto si armava con lentezza, Merlino continuava ad aggiungere dettagli alla figura che aveva tracciato. La brezza continuava a spirare, scompigliando la nebbia. Una saetta spaventò il cavallo, e Lancillotto lo calmò. Merlino lo fissò per un attimo, poi si stropicciò gli occhi. Lancillotto si mise l'elmo.
«Per un attimo», disse Merlino, «mi sei sembrato come cambiato...». «Davvero? Forse senti gli effetti della deprivazione da magia». Allontanò con un calcio la roccia che tratteneva le redini e montò in groppa allo stallone. Mentre il cavaliere si piegava a raccogliere la lancia, Merlino si allontanò scuotendo il capo dal diagramma ormai completo. «Ti muovi ancora con energia», disse. «Credi?». Lancillotto sollevò la lancia e la mise in posizione orizzontale. Prima di alzare lo scudo, che aveva appeso ad un lato della sella, sollevò la celata e si voltò a guardare Merlino. «Il tuo campione mi sembra pronto», disse, «e lo sono anch'io». Una nuova saetta illuminò fuggevolmente il volto che si piegava verso Merlino: era privo di rughe, con due occhi vivaci ed una frangia di riccioli dorati sulla fronte. «Che magia è questa?», domandò Merlino. «Non è magia», rispose Lancillotto. «Si tratta solo di prudenza. Prevedevo le tue intenzioni, e così, quando sono tornato nella grotta a riprendere il bastone, ho bevuto ciò che rimaneva del tuo elisir». Abbassò la celata e si voltò. «Eppure, camminavi proprio come un vecchio...». «Oh, ho avuto tempo di far pratica in tutti questi anni. Fa' segno al tuo campione di tenersi pronto». Merlino rise. «Bene! Così è ancora meglio», disse. «Ti vedrò sconfitto nel pieno delle tue forze. Malgrado tutto, non puoi sperare di vincere uno spirito!». Lancillotto sollevò lo scudo e si chinò in avanti. «Se ne sei così sicuro, cosa aspetti?». «Niente!», esclamò Merlino, poi gridò: «Uccidilo, Raxas!». Mentre galoppavano attraverso il campo, cominciò a pioggerellare. Guardando di fronte a sé, Lancillotto si accorse che dietro la celata del suo avversario c'era un baluginare di fiamme. All'ultimissimo momento, puntò l'estremità della propria lancia sull'elmo fiammeggiante del cavaliere vuoto. Ci fu un'altra saetta, e un altro tuono. Il suo scudo deviò la lancia dell'avversario, permettendogli di colpire in entrata la sua testa. Essa si staccò dalle spalle del cavaliere vuoto, e rotolò fumigante sul terreno. Proseguì fino alla parte opposta del campo. Voltatosi, si avvide che il
cavaliere decapitato stava facendo lo stesso. Dietro di esso, dove prima c'era stato solo Merlino, c'erano ora due figure. Fata Morgana, in una veste bianca e con i capelli rossi sciolti e scompigliati dal vento, stava affrontando Merlino davanti al suo disegno. Gli sembrò che stessero parlando, ma non riuscì ad afferrare le parole. Fu allora che Morgana alzò le mani, che brillavano come un fuoco gelido. Merlino tese il bastone di fronte a sé: anch'esso brillava. Non poté vedere oltre, poiché il cavaliere vuoto si stava preparando alla seconda carica. Abbassò la lancia, sollevò lo scudo, si chinò in avanti e diede il segnale alla propria cavalcatura. Mentre correva verso l'avversario, gli parve che il suo braccio fosse come una barra di ferro, e che la sua forza fosse come una inesauribile corrente elettrica. La pioggia si era fatta più insistente, e le saette cadevano ormai in continuazione. La sua lancia era puntata sullo scudo dell'altro cavaliere. Il rombo del tuono soffocava il rumore degli zoccoli, e il vento s'infrangeva fischiando sul suo elmo. Si scontrarono con un fragore tremendo. Vacillarono entrambi, e il cavaliere vuoto cadde, con lo scudo e la corazza squarciati da una lancia spezzata. Quando colpì il terreno, il suo braccio sinistro si staccò, la sua lancia si spezzò e lo scudo gli cadde accanto. Eppure, si rialzò quasi subito, estraendo con la destra la sua lunga spada. Lancillotto smontò, gettò via lo scudo e sfoderò la propria spada. Si diresse verso il suo avversario senza testa. Fu esso a colpire per primo, ma riuscì a parare, e il contraccolpo gli fece tremare le braccia. Colpì a sua volta, ma anche il suo colpo venne parato. Continuarono a scambiarsi fendenti in mezzo al campo, finché Lancillotto non trovò un'apertura ed affondò con tutte le proprie forze. Il cavaliere vuoto cadde nel fango, con la corazza spezzata proprio vicino al punto da cui ancora sporgeva il moncone della lancia. Fata Morgana gridò. Lancillotto si voltò e vide che era caduta sul disegno tracciato da Merlino. Il mago, ora avvolto da una luce bluastra, alzò il bastone e si fece innanzi. Lancillotto mosse un passo verso i due ed avvertì un dolore lancinante al fianco sinistro. Si diresse verso il cavaliere vuoto, che stava cercando di rialzarsi, pronto a menare un altro colpo. Lancillotto rovesciò la propria spada e la impugnò con entrambe le mani, con la punta rivolta verso il basso. Si gettò sull'avversario, e la sua lama lo trapassò, buttandolo indietro ed inchiodandolo a terra. Sotto di lui, un urlo stridulo risuonò nell'armatura, e un grumo di fuoco uscì dal suo collo, fuggì nell'aria e pochi istanti dopo si
spense, smorzato dalla pioggia. Lancillotto si tirò faticosamente in ginocchio. Si alzò lentamente e si volse verso le due figure, che di nuovo si stavano affrontando. Erano entrambe nel mezzo del disegno fatato, ormai indistinto, entrambe immerse in quella luce bluastra. Lancillotto fece un passo verso di loro, poi un altro. «Merlino!», gridò, continuando ad avanzare. «Ho fatto ciò che ti dicevo! Ora ti ucciderò!». Fata Morgana si volse verso di lui, con gli occhi sbarrati. «No!», gridò. «Corri, esci dal cerchio mentre io lo trattengo qui! I suoi poteri stanno scemando! Fra pochi istanti questo luogo non esisterà più! Vattene!». Dopo un istante di esitazione, Lancillotto si voltò e si diresse più in fretta che poté verso il perimetro del cerchio. Quando passò tra i monoliti, il cielo sembrava essere in ebollizione. Fece un'altra dozzina di passi, poi dovette fermarsi a riposare. Guardò ancora il campo di battaglia, dove le due figure erano ancora avvinte nel loro magico abbraccio. Quando il cielo si aprì e una cortina di fuoco calò sul cerchio, quella scena rimase per sempre impressa nel suo cervello. Abbacinato, si schermò gli occhi con una mano. Quando l'abbassò, vide che le pietre stavano crollando silenziosamente, per poi svanire del tutto prima di toccar terra. Subito la pioggia diminuì d'intensità. La fata e il mago erano svaniti come la maggior parte di quella costruzione, che ancora continuava a dissolversi. I cavalli èrano spariti. Si guardò attorno e vide una grossa pietra, e vi si sedette sopra. Si slacciò la corazza e se la tolse di dosso, lasciandola cadere a terra. Si strinse forte il fianco, che gli doleva. Si piegò in due e posò il volto sulla propria mano sinistra. La pioggia continuò a diminuire, ed infine cessò del tutto. Il vento calò. La nebbia ritornò. Respirò profondamente e ripensò al duello. Per questo, era stato per questo che era sopravvissuto a tutti gli altri, per questo aveva dovuto tanto attendere. Ora tutto era finito, e finalmente avrebbe potuto riposare. Perse i sensi. Fu risvegliato da una luce, una luce insistente che penetrò tra le sue dita ed oltre le sue palpebre. Lasciò cadere la mano ed alzò il capo, aprendo gli occhi. Gli passò davanti, avvolto da un alone di luce bianca. Tolse le dita appiccicose dal fianco e si alzò per seguirlo. Era solido, sfavillante, puro e glorioso, del tutto diverso da come gli era apparso nella sala. Lo seguì attraverso la pianura illuminata dalla luna, passando dall'ombra alla luce e
poi ancora all'ombra. Quando infine cercò di toccarlo, la nebbia lo circondò. QUI FINISCE IL LIBRO DI LANCILLOTTO ULTIMO DEI NOBILI CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA E LE SUE AVVENTURE CON RAXAS, IL CAVALIERE VUOTO, E MERLINO E FATA MORGANA ULTIMA DEI SAGGI DI CAMELOT, ALLA RICERCA DEL SANTO GRAAL QUO FAS ET GLORIA DUCUNT Titolo originale: The Last Defender of Camelot.
KEITH MINNION VOCI Anche voi sapete quanto sia difficile a volte svegliarsi e scendere dall'amaca, predisporre i sistemi primari e le sequenze per poi affrontare un nuovo giorno. Sapete quanto sia deprimente scegliere un'area da spazzare, sperare che sia pièna di rottami e poi scoprire che è un tratto di spazio assolutamente pulito. Oppure, peggio ancora, imbattersi in una ricca aggregazione di relitti e non potervisi avvicinare perché c'è la Pattuglia reale che monta la guardia attorno al suo perimetro. Alla fine, vi rendete conto che non val la pena di continuare a quel modo: Urano appartiene tutto al Re, nord e sud, anello interno ed anello esterno. Le Pattuglie sono dappertutto, ed è inutile sperare di riuscire a sgusciare tra di esse all'infinito. Prima o poi, ti metteranno con le spalle al muro e ti beccheranno. Chissà, forse potrebbe succedere proprio oggi. Inutile tentare di squagliarsela su Nettuno: anche Nettuno appartiene al Re. Quanto a Giove/Saturno, è dell'Unione, naturalmente. No, meglio farla
finita. Basta, Ecco Urano, nella notte. I suoi anelli sono come un sottile merletto. A questa distanza sono come fantasmi, vi si può guardare attraverso. E poi, il pianeta: una pallida porcellana verde con tenui venature di topazio. Uno splendido mostro. Una principessa brutta. Lo setacci, lo spogli e lo depredi, con le vele del generatore di campo graffiate dal vento planetario che soffia imprigionato tra gli anelli. E rispetti la principessa, il mostro: è la tua vita, ma con altrettanta facilità potrebbe essere la tua morte. È un lavoro solitario, ma in fondo è proprio questo suo aspetto che ti piace. Sei venuto qui per restar solo, e fino ad ora ci sei riuscito. A parte le voci. Jonquil te l'aveva detto, tanto tempo fa (davvero tanto tempo fa?): le voci sono anche qui, così lontano da casa, nel freddo spazio di Urano. Nessuno ne è a conoscenza, nessuno tranne te le sente. Meglio così. Meglio così. Nessuno sulla Terra credeva alle voci. Nessuno voleva crederci. Cristo! Allontana da te questi ricordi, ricacciali nell'oscurità da cui sono usciti. Rammenta, e rabbrividisci. Eppure sono le tue amiche, le tue sole amiche. Jonquil, Ben, Jonas e tutte le altre voci sono sempre state tue amiche, sempre. Non preoccuparti, Huck. Non devi preoccuparti di nulla. Basta che continui a setacciare lo spazio (lo spazio del Re, si disse, riuscendo malgrado tutto a sorridere), e se trovi una zona ricca, per l'amor del Cielo, tieni l'acqua in bocca. Sopra le nuvole devono esserci ancora abbastanza rottami da permetterti di vivere. Devono esserci. Devono. Sveglia, Huck. Scendi dall'amaca, c'è un nuovo giorno da affrontare. «Huck!». Era un sussurro. «Sei ancora sveglio?». Il bambino volse lo sguardo verso le ombre. «Faresti meglio a dormire, Huck. Se Mara ti pesca, ti picchierà di nuovo». Era Jonquil, una delle voci. Era stata lei la prima a parlargli. «Ho paura, Joni». «Paura? Paura di che? Di Mara?». «Tu sei vecchia», piagnucolò il bambino, nascondendo la faccia nella coperta, «e non hai paura». «Non sono poi tanto vecchia, Huck. Dopotutto, avevo solo dieci anni anni terrestri, intendo - quando...». La luce esplose nella stanza, saettò sul pavimento e il suo giallo doloroso spezzò l'oscurità. Huck ne fu investito, e nei suoi occhi sbarrati comin-
ciarono a formarsi le lacrime. «Ancora?», disse la donna sulla porta. «Chi c'è lì con te?». Naturalmente non c'era nessuno, proprio nessuno. Huck si rannicchiò in un angolo, stringendosi addosso le coperte. Mara non credeva alle voci, non riusciva a capire. «Non ho fatto apposta», disse Huck, cercando di giustificarsi. Mara lo guardava. Respirava rumorosamente, e riusciva appena a controllare la sua rabbia. «Mi spiace, Ma», gemette il bambino. «Davvero, mi...». «Chiudi il becco, e anche gli occhi. E dormi, dannazione!». La donna si voltò e afferrò la maniglia della porta. «E che sia l'ultima volta che ti sorprendo a parlare da solo!». Porta sbattuta. «Huck?». Serrò le palpebre. «Huck...?». Quando entrò, ebbe un attimo di esitazione. La Corte reale, riunita attorno al tavolo al centro della grande sala, si alzò come un sol uomo. «Venga», gli disse quello di loro che gli stava più vicino, «la prego». Un altro gli indicò una sedia, e il giovane l'occupò, palesemente contento di avere un posto tutto per sé. La sala era permeata del suo nervosismo, e alcuni membri della Corte gli lanciarono sorrisi rassicuranti e gli sussurrarono cordiali banalità. A capotavola, una donna dall'aria molto stanca e in alta uniforme si alzò in piedi, si schiarì la gola e tutti tacquero. Il giovane guardò i visi attorno a sé, cercando di capire cosa... «I miei colleghi ed io desideriamo ringraziarla per aver accettato di venire qui», disse la donna. «Naturalmente, lei si starà domandando la ragione di tutto ciò». Lui allargò le mani: non aveva accettato proprio niente, era stato prelevato e portato li. Non avrebbe forse... «Mi chiamo Reginald», proseguì la donna. «E sono la Prima segretaria di Sua Maestà Lord Talshire. Immagino che abbia già sentito questo nome». Deglutì a vuoto. Lord Talshire era il padrone di Urano e Nettuno. Il padrone, punto e basta. Certo che aveva sentito quel nome. «Perché...?», riu-
scì a dire. «Sì», disse Reginald, «dobbiamo venire subito al punto, poiché siamo alle prese con un fattore tempo piuttosto rigido». Accese uno schermo da tavolo, gli diede un'occhiata e recitò: «Sammael Huck Jastrow, ventitré anni, nato e cresciuto sulla Terra. Attualmente occupato come ricuperante abusivo nello spazio uraniano di Sua Maestà...». Huck ritrovò all'improvviso la voce: «Abusivo? Non è...». Impaziente, Reginald lo interruppe alzando una mano. «Per favore, per ora questo non ci interessa. Il prossimo particolare, invece, ci interessa molto: lei è stato definito il miglior pilota trifase a distanza ravvicinata che ci sia oltre l'orbita di Marte, e forse il migliore del Sistema». Gli rivolse un sorriso falso. «Lei è prezioso, signor Jastrow. Un uomo come lei è sempre prezioso, ma per noi oggi lei è addirittura senza prezzo». Huck inghiottì di nuovo. «Cosa dovrei fare?». Il sorriso di Reginald si allargò. «Si tratta di portare un traghetto da distanza ravvicinata verso l'interno...». «Verso il Sole?», domandò Huck, sorpreso. «Oh, no». La Prima segretaria, con un gesto quasi inconscio, indicò il pavimento. «Verso Urano», disse. «Lei dovrà avvicinarsi ad Urano più di quanto nessuno abbia mai fatto. Dovrà poi agganciare un veicolo di quota, che in questo momento si trova intrappolato in un'orbita che si sta gradualmente restringendo. Questa nave non ha la potenza sufficiente a cavarsi d'impaccio da sola». «E avete scelto me?». La Prima segretaria sospirò, paziente. «Fino a questa mattina, signor Jastrow, lei era il quarto nella classifica dei migliori piloti a distanza ravvicinata. Questa mattina, prima che la Polizia reale le facesse visita, i primi tre prescelti non sono riusciti a portare a termine la stessa missione che le sarà affidata». S'interruppe per vedere che effetto stessero facendo le sue parole, poi proseguì. «Pilotavano un quadriposto della classe Corsair, naturalmente, modificato per il volo a distanza ravvicinata. Lei piloterà una navetta biposto modificata, con una potenza molto superiore a quella richiesta dalla sua massa, il che, speriamo, le darà una chance in più». «Sembrate sicuri che sarò d'accordo», disse Huck lentamente. «Non c'è bisogno che lei sia d'accordo», replicò la Prima segretaria. «Lei lo farà, e basta». S'interruppe di nuovo. «Abbiamo voluto incontrarla a questo modo», e qui allargò le braccia, ad indicare il resto della Corte, «perché lei si rendesse conto della nostra onestà, della nostra serietà e della
nostra buona volontà. A parte la sua remunerazione, si renderà conto delle ripercussioni politiche ed economiche che potrebbero esserci...». Huck si guardò intorno, poi si guardò le mani ed infine guardò in viso la Prima segretaria. «Dev'essere proprio un pezzo grosso, eh?». «Lo ha capito, non è vero?». «Cosa?». La sua voce si era fatta un po' stridula. «Si tratta di Sua Maestà Lord Talshire, naturalmente». Fino a quel momento, le voci erano rimaste rispettosamente zitte. Fu Jonas a rompere il silenzio: «Sono una manica d'imbroglioni, ma non preoccuparti: ti hanno detto tutto sommato sinceramente come stanno le cose, e ad ogni modo ci saremo noi a darti una mano». Huck aprì la bocca, poi la richiuse. «Quando?», disse a Reginald. «Entro un'ora. Giusto il tempo di traghettarla su Miranda e farla mettere a punto». Un membro della Corte gli tese la mano. Huck decise che non gliela avrebbe stretta. «Le divarichi», disse il medico. Huck obbedì, e quando lei gli applicò le sonde rabbrividì. «Spiacente», disse. «Non ho avuto il tempo di scaldarle. Come lei, anch'io sono stata messa sotto pressione senza preavviso. Stia fermo». Huck guardò la striscia luminosa sopra l'amaca, e si accorse che non gli faceva male agli occhi. «Quando è stata la sua ultima messa a punto, signor Jastrow?». «Un anno terrestre fa, signora». «Ah-hah». Armeggiò attorno a un pannello di strumenti. «Nel suo ramo la legge prescrive messe a punto trimestrali, non lo sa?», disse. «E mi chiami Sylvia, per piacere». Huck la guardò, sorpreso, poi tornò a guardare la luce. «Le messe a punto costano troppo», le rispose. «Non posso permettermi di scialare». «È di Tritone?». «No, vengo dalla Terra». «Ah. Il suo accento avrebbe dovuto farmelo immaginare». Con un sorriso gli distrasse lo sguardo. «Cerchi di non farci caso», gli disse poi, e si sentì un click. Huck fu però costretto a farci caso. Ogni fibra nervosa del suo corpo dovette farci caso. «Cristo!», pensò quando ancora erano a metà, «È orribile!». Quando fu finita, le sonde si staccarono, e Huck cercò senza successo di
mettere a fuoco gli occhi. «Congratulazioni», disse Sylvia, dandogli un buffetto sul fondoschiena. «Tra un minuto si sentirà meglio. E adesso, un po' di scartoffie». Premette un pulsante. «Il nastro è in funzione. Dichiari che la procedura ha effettivamente avuto luogo eccetera eccetera». Huck riuscì ad annuire. «No, deve...». «Lo dichiaro», gracchiò. Il ragazzo vide gli altri bambini e si fermò. «Jonquil?». Lei gli mormorò vicino all'orecchio: «Stattene lontano, Huck. Ti stanno aspettando. Quello grosso col pallone ha voglia di fare a botte». Sconsolato, il ragazzo si appoggiò al muro, confondendosi tra le ombre. «Ma perché? Cosa faccio che gli fa venir voglia di picchiarmi, di odiarmi così?». Jonquil sospirò. «Non è colpa tua, Huck. Semmai, è colpa nostra. Sei eccezionale, perché solo tu ci senti. Non sono mai riuscita a trovare un vivente che ci sentisse bene quanto te, e credo che nessun altro di noi ci sia mai riuscito. Tu sei il solo a cui possiamo parlare, è per questo che sei eccezionale. È per questo che ti aiutiamo ogni volta che ne abbiamo la possibilità». «Ma perché parlare con me è tanto importante? Sono solo un ragazzino». Jonquil rise tristemente. «Se sapessi», disse. «Se tu solo sapessi quant'è importante, quanto sei importante». Huck sbirciò fuori dal suo rifugio d'ombra e vide che i bambini stavano giocando. Avrebbe dato il mondo intero per poter partecipare a quel gioco. Se solo Jonquil e gli altri fossero persone vere, pensò. Se solo... ma quel pensiero lo terrorizzò tanto che gli venne da piangere. Si adagiò sull'amaca, ed una serie di schermi si accese. Quando impugnò i comandi, molti altri se ne accesero. Sentiva pulsare la vita della nave nei comandi, nell'amaca e nel suo stesso corpo. Era una bella sensazione, che gli diceva che tutto sarebbe andato bene. «Pronti al decollo quando vuole», disse il controllo volo. «Bene». Metodico e preciso, senza affrettarsi, Huck portò a termine i controlli pre-decollo, poi diede inizio alla sequenza. Nel giro di pochi istanti entra-
rono in funzione due campi opposti, e la navetta si staccò dalla banchina. Accelerò con regolarità, lasciandosi dietro Miranda, la luna, e cominciò la sua caduta verso Urano, il gigante gassoso verde-blu. La nave di quota di Talshire era appena ad un migliaio di chilometri dal primo strato di nuvole di metano. Totalmente immersa nella magnetosfera, gli scudi creati dai suoi generatori di campo facevano impazzire il vento ionizzato dando luogo ad una luminescenza bianca. Anche da quell'altezza, Huck era in contatto visivo: gli sembrò che la nave sotto di lui, a pochi passi dalla morte, somigliasse ad una cometa d'argento con la coda tesa fino allo spasimo. «La teniamo d'occhio», disse il controllo volo. «Grazie». Stava cadendo. Stava cadendo verso il disco verde-blu che appariva sullo schermo principale. Il pianeta appariva innaturalmente piatto e, strano a dirsi, gli anelli contribuivano a creare quell'illusione ottica. Era verso di essi che puntava la parabola tracciata dalla navetta. Naturalmente, si sarebbe tenuto alla larga dall'anello interno, ma era comunque una visione minacciosa, inquietante. Huck odiava essere in contatto visivo ad una quota simile. Distolse lo sguardo, e poi guardò ancora. Più guardava, più gli sembrava che il pianeta non fosse più piatto, ma che stesse diventando concavo, decisamente concavo, come una ciotola o un pozzo, e che lui vi stesse cadendo a testa in giù, con gli occhi sbarrati, in quel buco verde nello spazio. «Si, dia una regolata, Huck: sta andando alla deriva». «...okay». Le vele di campo si aprirono come le ali di un cervo volante. Così dovrebbe andare, pensò. Era stato sciocco da parte sua voler guardare in gola al pianeta. Era quella la ragione per cui i giganti gassosi erano pericolosi: a distanza ravvicinata, la loro tremenda immensità annichiliva, agghiacciava. «Andrò alla cieca per un po'», disse alla fine. «Era prevedibile», ridacchiò il controllo volo. «Questo bastardo di un pianeta fa una certa impressione, non è vero?». «Già». Alcuni schermi si spensero, ritornando grigi. «Anch'io sono sceso mica male, un paio di volte», continuò il controllo volo, «ma erano navi-robot, naturalmente. Mai sceso tanto con un traghetto, però». Una pausa. «A proposito, lei se la sta cavando davvero bene, Huck». Come no. Bisogna essere matti per trovarsi qui a fare un lavoro simile.
Devo essere impazzito, sul serio. Si asciugò le mani sull'imbottitura dell'amaca. Cristo, ho paura, pensò improvvisamente. Cosa diavolo ci sto a fare, qui? Un altro schermo si spense. «Non si metterà mica a dormire, Huck?». «Chiedo scusa». Lo schermo si riaccese. Stava sudando un po'. Uno degli schermi lo mostrava assicurato all'amaca, nudo, col ventre e le cosce lucidi di sudore. Si guardò, e si asciugò. Anche l'uomo nello schermo si guardò e si asciugò. Jonas gli sussurrò nell'orecchio: «Dio mio, anche dopo tutto questo tempo mi sento spaventato. L'unica altra volta che scesi tanto non... non riuscii più a risalire. Certo, non avevo una nave come questa». Huck si guardò inutilmente attorno. Non poteva rispondergli, non poteva far altro che restare seduto ad ascoltare. «Quanto manca?», domandò alla fine. «Approssimativamente, mancano sette minuti e trentasei secondi al contatto. Nel frattempo, le spiacerebbe controllare la sequenza d'atterraggio?. Vogliamo che sia la migliore della sua vita». Huck esplose nel sentire questo. «State scherzando? Come volete che faccia a mettere a punto una procedura di quindici fasi in quarantacinque minuti? Dovete essere più suonati di me! E sperate davvero che funzioni? Per tutti...». «Aspetti, ci sono delle notizie... aspetti solo un attimo, Huck, per favore». «E dove volete che vada?», ringhiò, sentendo il sangue che gli pulsava dietro le orecchie. «...okay», disse qualche secondo dopo il controllo volo. «L'operazione è temporaneamente sospesa. Sua Maestà è riuscito ad allargare la propria orbita, e questo gli darà più o meno due giorni terrestri - circa quarantanove ore - prima che la nave raggiunga il punto del non ritorno. A dire il vero, Sua Maestà era sintonizzato sulla sua trasmissione e si è trovato d'accordo con lei. E cosi, le rimane un giorno e mezzo... faremo finta che questa sia stata una prova. Okay?». Huck scosse lentamente il capo, maledicendoli tutti, dal primo all'ultimo. Jonas disse: «Calmati. Lo sai che ti stanno registrando il polso e la pressione sanguigna. Non dar loro questa soddisfazione». «Hai ragione», borbottò Huck. «Cosa diceva, Huck?», domandò il controllo volo. «Nulla. Datemi le sequenze di risalita. Mi prudono le mani, ho bisogno
di qualcosa da fare». «...subito». Trovò un angolo del bar della Compagnia in cui le luci non lo avrebbero raggiunto e vi si aggrappò, cercando disperatamente di dimenticare tutto quello che gli si agitava nella testa. I due poliziotti reali che lo sorvegliavano si sedettero ad un tavolo vicino, cercando senza successo di non dare nell'occhio. «Allora, quando sarà la volta buona?». Alzò lo Sguardo. Lei gli si sedette di fronte. «Fra poco più di un giorno», le rispose, tornando a posare lo sguardo sul bicchiere che aveva davanti. «Come va la macelleria?». «Ahah. Huck ha finalmente ritrovato la voce. Mi sembra di ricordare che al nostro primo incontro non riuscii a farle pronunciare altro che monosillabi. Preferisce "Huck" a "signor Jastrow" non è vero?». «Sì. Huck andrà benissimo». «E lei mi può ancora chiamare Sylvia». Tamburellò con le dita sul tavolo, osservandolo. La guardò di nuovo. «Vuol bere qualcosa?». Lei scosse il capo. «No, ma mi piacerebbe far quattro chiacchiere. Le lune sono piccole, e non si può fare a meno d'incontrarsi. Miranda è una piccola luna. Per dir la verità, l'ho tenuta sotto controllo fin da dopo la messa a punto». Allungò una mano e gli toccò il braccio. Lui fece per ritrarsi, poi rimase immobile. «Allora ha sentito tutto», disse. «Ho sentito che un giovane babbeo di nome Talshire, sbronzo o impasticcato come al solito, ha preso una nave di quota reale e l'ha puntata dritta verso Urano. Le malelingue dicono che volesse attraversarlo a nuoto. Ho anche sentito che un giovane mago della navigazione a distanza ravvicinata è stato ripescato in qualche angolo sperduto dello spazio uraniano di Sua Maestà e messo al lavoro per cercare di salvare lo stolto Lord dalla sua triste situazione, a rischio della propria stessa vita». Sorrise. «Chissà quanto gliene verrà in tasca...». Huck la guardò, incredulo. «Crede che lo faccia per i soldi?». «Beh, per la gloria, forse...». Huck si alzò a metà, con espressione furibonda, ma quando la guardò negli occhi si lasciò ricadere e borbottò un'oscenità silenziosa. Sylvia gli accarezzò la mano. «So com'è», disse. «Accadde anche a me, nello stesso modo. Da una parte c'era questo principe, affetto da un raro vi-
rus esobiologico, e dall'altra c'ero io, una giovane ed innocente ricercatrice dell'università di Tritone, che - guarda caso - stava studiando da lungo tempo quello stesso virus. Fu così che vennero a prendermi quasi di peso, perché lo curassi». «E ci riuscì?». «Sfortunatamente, sì. È lui che in questo stesso istante sta pilotando quella nave di quota. C'è un'ironia feroce in tutto ciò, non trova?». «Perché non se ne andò, dopo averlo curato?». Sylvia ridacchiò. «Se me ne fossi andata, non l'avrei incontrata». «Molto carino. Stavo giusto domandandomi quanto ci avrebbe messo per arrivare al sodo. L'hanno mandata per farmi passare una notte gradevole?». Lei s'irrigidì leggermente, lo sentì nella pressione della mano di lei sulla sua. «Mi sono offerta volontariamente», disse. «Oh». Tornò a concentrarsi sul bicchiere. «Mi scusi». «Inoltre, volevo stare con lei anche per farle qualche domanda». Ora fu lui a dover sorridere. «Credo di doverglielo». S'interruppe per bere metà della propria bibita. «Okay. Dica». «Poco fa ho sentito il nastro della sua "prova". In due punti di esso c'è un tipo particolare d'interferenza, che non è attribuibile né al controllo volo, né a lei, né tantomeno agli strumenti addetti». «Che tipo d'interferenza?». «Beh, è difficile descriverla a parole. So di cosa si tratta, comunque, anche se dubito che chiunque altro ascoltasse il nastro lo capirebbe». Huck sentì qualcosa toccargli la spina dorsale. Paura? «Di che cosa sta parlando, di preciso?». «All'università, ho seguito le ricerche di alcuni miei colleghi che si occupano della biologia del dopo-morte». «Ma non è una contraddizione in...». «Naturalmente. È una scienza ancora relativamente giovane, e solo da circa cinque anni la comunità scientifica ne ha accettato i postulati. Per farla breve, questi scienziati sono riusciti a dimostrare che alcune forme di vita (o meglio, certi tipi specifici di energia controllata dall'intelletto) sopravvivono alla fine della vita materiale, fisica». Huck si senti come colpito da una mazzata. «Sarebbero cioè... fantasmi?». «Grosso modo, anche se la parola ha delle ridicole connotazioni superstiziose. Sì, fantasmi».
Huck si sentì raggelare, e il suo volto perse tutto il proprio colorito. Si accorse improvvisamente che non gli piaceva per niente la piega presa dalla conversazione. Sylvia proseguì: «Fino ad oggi, sono riusciti ad ottenere prove concrete solo tramite le pellicole impressionabili o i nastri magnetici. Sembra che i defunti siano capaci di intervenire piuttosto nettamente su questi materiali». «Ed è questo che lei ha visto nel nastro del volo?». «Per la verità, più che vederlo l'ho sentito... sì, è questo». «Il che significa?». «Che c'era una presenza, o accanto a lei sulla navetta o accanto al controllo volo». «Ma...». «Ma io ho l'impressione che si trattasse di lei. Ho controllato il suo fascicolo, naturalmente, e mi sono imbattuta in una dichiarazione di una delle sue madri, quella di nome Mara». Huck balzò in piedi, rovesciando il bicchiere. I due poliziotti al tavolo vicino gli lanciarono un'occhiata. «Lei è un tipo davvero meticoloso, non è vero?», disse, cercando di controllarsi. Si diede da fare ad asciugare il liquore rovesciato, cercando di nascondere le emozioni che gli trasparivano dal volto. «Non faccia così», disse dolcemente Sylvia, obbligandolo a fermarsi. «Io la capisco». Smascherato e vulnerabile, lui la guardò. «Ti rimangono un paio d'ore», gli disse. «Non vuoi...?». Huck aveva diciannove anni, e si vedeva. Aveva passato tre giorni al porto di Newark, mangiando poco e dormendo ancora meno. Stava cercando di andarsene, di scappare. E invece, il porto era stata per lui una amara, cocente delusione. Le grandi navi di lusso erano tutte in orbita, oppure sulla Luna. Al porto, le navi più grandi erano dei trasporti militari; la prora di due o tre di esse dominava le gru e le altre strutture delle banchine. Per il resto, c'erano tanti miseri traghetti quadriposto. Tenendo presente i fattori atmosfera e gravità, Newark non era certo il posto ideale da cui far partire o in cui far atterrare un'astronave. Era per questo che anche tutti gli altri porti della Terra erano ormai superati, antieconomici ed agonizzanti. Eppure, era sulla Terra dove lui era nato, su cui era cresciuto ed era stato istruito. Era arrivato sventolando il suo diploma di pilota trifase, ma con
grande disappunto si era dovuto accorgere che ciò non lo rendeva più appetibile degli altri novemilanovecentonovantanove trifase che si sbattevano sulle banchine. Per fortuna c'erano le voci. «Non sta guardando, Huck. Vai!». Prese tre arance dal banco, sicuro del successo. «Non posso andare avanti così, ragazzi», bisbigliò a Ben, a Jonquil e a tutti quelli del gruppo che si trovassero in ascolto. «Saremo sempre pronti a darti una mano, Huck. Sempre». «Huck», disse improvvisamente Ben, «vedi quell'uomo accucciato vicino alla catasta?». «Certo. E allora?». «E allora, vuole portarti via le arance, molto probabilmente con l'aiuto del coltello che tiene sotto il mantello. Per fortuna, il meccanismo a vibrazioni del coltello non funziona». Huck annuì, e quando passò accanto al mendicante unto e bisunto gli gettò uno dei frutti. Sorpreso, il potenziale aggressore non poté far altro che cercare di afferrarlo al volo, mentre Huck si allontanava tranquillamente. «Grazie, ragazzi», disse. È molto difficile riuscire a capirti. Non sai se sei estremamente complicato oppure semplice come un bimbo. Il guaio è che non riesci a deciderti. Si tolse i pantaloni, e poi la blusa. «Oh», disse lei. «La tua schiena». La faccia di lui nell'ombra: svuotata, stanca. «Sei tu il medico. Quale la diagnosi?». «Huck, davvero...». «No, davvero. Che cosa ne pensi?». Si voltò verso di lei e la toccò, ancora con quella espressione. «Tu... qualcuno... so che tanto tempo fa ti picchiarono duramente, ma... oh, Cristo...». Lui la abbracciò. «Scusami, è stato crudele da parte mia. Anzi, amaro. A volte, la mia amarezza diventa contagiosa. Scommetto che Mara non parlò di questo nella dichiarazione che hai letta». «Fu lei a...». «Era una donna molto frustrata... a quei tempi, ero il più piccolo dei bambini di quel Gruppo, e nessuno riusciva a capire perché fossi diverso. Passavo un mucchio di tempo da solo, nascosto... era difficile essere come
gli altri». «Ad ogni modo, avresti potuto fare qualcosa per queste cicatrici. Ci sono dei buoni medici su...». Huck la zittì poggiandole delicatamente le dita sulle labbra. «È un buon argomento per rompere il ghiaccio quando si è a letto», disse sogghignando. «E poi, ti ho già detto che gli affari non vanno troppo bene». «Ma dopodomani sarai...». «Dopodomani sarò probabilmente morto». «Ma credevo che con un po' di tempo in più...». «Il rinvio mi ha permesso di mettere a punto piuttosto bene la sequenza, è vero, ma nessuno è mai riuscito a portare a termine un salvataggio come questo. Decisamente, le probabilità non sono a mio favore». S'interruppe, e la guardò nell'oscurità. «Signorina, credevo che fossimo venuti qui per fare l'amore». «Davvero?». E si coricano insieme, mormorando piano. Si svegliò più tardi, boccheggiante ed imprigionato dalle lenzuola attorcigliate. Quando aprì gli occhi l'oscurità era assoluta, e il suo corpo per un attimo fu scosso da un tremito irrefrenabile, mentre il sudore gli scorreva lungo le costole. «...Huck?». Sonnacchiosa. «Non è niente, Sylvia». Respirò, chiuse gli occhi e li riaprì, «... non è niente». «Oh, Huck». A dispetto del buio, sapeva che lo stava guardando. «C'è qualcosa», disse lei, quasi sussurrando. Lui si coricò di nuovo. «Ho avuto un incubo. Credevo di annegare in un mare di ammoniaca, come al solito. È...». S'interruppe, respirando a fatica. «Huck, si potrebbe fare qualcosa, se tu volessi». «Qualcosa? Per gli incubi?». «I miei colleghi, quelli che studiano la vita dopo la morte... Se tu acconsentissi a farti visitare, sono sicura che...». Gli bastò uno sguardo per troncare il discorso. Poi disse, con voce tremante: «Per favore, non parliamo di questo. Sul serio. Okay?». Lei annuì, intuendo giustamente di aver toccato uno dei suoi tasti più sensibili, forse il più sensibile di tutti. La sua risata la sorprese. «Cosa...?».
Si voltò verso di lei. «Oh, scusa. Dimenticavo che non puoi sentire». «Le voci?». «Sì. Una di esse ha appena fatto degli apprezzamenti circa la tua tecnica sessuale». «La mia cosai». «Sei imbarazzata?». «No, è solo che... Beh, è un po' uno shock trovarsi all'improvviso ad affrontare qualcosa di...». «Di irreale?». «No, certo che no... è solo che...». «Che ne diresti se chiedessi loro di lasciarci un po' d'intimità?». «Se vuoi...». «L'ho appena fatto». Giacquero in silenzio per un po', poi Sylvia disse: «E allora?». «E allora cosa?». «Come sono andata?». «Come sei cosa?». «Dicevi che la voce stava commentando la mia...». «Ah, sì. Si chiama Jonas, e ha usato una parola arcaica, ma credo che capirai lo stesso: ha detto che sei una cannonata». Sylvia rimase zitta per un po', poi disse: «Ringrazia Jonas da parte mia, per favore». Ti rendi conto di quel che sta succedendo. Solo con te stesso, solo con i tuoi pensieri, sai già com'è e come sarà. Mai prima d'ora hai dovuto affrontare una cosa simile. Mai. Le tue opzioni ti stanno davanti, e sono molto chiare. Ce la farai? Sei abbastanza forte? Tutte le maniere di farla finita sono buone, tutte tranne una. All'improvviso, quel pensiero agghiacciante ti si affaccia alla mente. Cristo, è sempre stato li, in agguato nell'ombra, pronto a balzarti addosso e a sopraffarti: vuoi fallire, non è vero? Non è vero? «Congratulazioni, Huck», disse Jonquil. «Grazie». Non c'era bisogno di spiegazioni: avevano visto e sentito tutti, avevano vissuto... Huck era riuscito ad avere una cuccetta di terza classe su un incrociatore leggero reale la cui base d'operazione era Tycho. Stavano già
caricando a bordo le vettovaglie ed altre cose disparate. Ammiccando nello smog, Huck riuscì a vedere la prora della sua nave. Era il suo primo viaggio interplanetario, e ciò lo emozionava. La destinazione era Oberon, un freddo ciottolo vicino ad Urano, ma questo non importava. L'importante era andarsene, andarsene via, fuori. «Se mai tornerai», disse Ben, «ci troverai qui». Huck fu preso alla sprovvista. «Perché? Non venite con me?». Ci fu un attimo di silenzio, poi Jonquil disse: «Non possiamo andarcene, Huck. Siamo morti qui. Le ceneri dei nostri corpi sono qui. Non possiamo andarcene». «Non lo sapevo». «Se avessimo saputo che te ne saresti davvero andato, te lo avremmo detto». «Allora non ci saranno più voci, non ci sarà nessuno dopo il decollo?». «Oh, no di certo. Incontrerai delle altre voci». «Ma secondo la legge, tutti quelli che muoiono devono essere rispediti sulla Terra. Ricordo di averlo letto da qualche parte». «È vero, infatti, ma non tutti i cadaveri vengono recuperati. No, incontrerai degli altri, e saranno tutti tuoi amici, proprio come lo eravamo noi». «Come lo siete voi», corresse Huck. «No, Huck caro», disse dolcemente Jonquil. «Come lo eravamo». «Coraggio», disse, adagiandosi sull'amaca. «Diamoci da fare». «Quando vuoi, virtuoso. Aspettiamo solo il tuo segnale». Gli schermi si spensero e partì. Urano era laggiù, ma questo glielo dicevano gli strumenti. Questa volta, non aveva voglia di vederlo. Aveva il mal di testa, perché dopo la prima colazione Sylvia gli aveva fatto una nuova messa a punto. Non aveva fatto colazione, e ciò rendeva ancor peggiore il suo mal di testa. «Come va?». Parlavano dalla navetta, non dalla sua testa. «Perfettamente». «Eravamo un po' preoccupati per una vibrazione nel gruppo di vele dorsali. Ti spiacerebbe controllare?». Come se un dito gli passasse leggermente sulla spina dorsale... «Niente. Sembra tutto okay». La forza gravitazionale cominciò ad attirarlo impercettibilmente. Accese gli schermi di prua.
Miranda era rotonda, grosso modo. Era come se la sua sfera fosse andata in pezzi e fosse poi stata rimessa insieme senza badare troppo al suo schema originale. Vista da una distanza di alcune migliaia di chilometri sembrava un fiore verde posato su del velluto nero, un fiore che rifletteva il colore del pianeta attorno a cui orbitava. Huck era sospeso nel velluto tra il fiore e il gigante gassoso inanellato. Lo scafo del traghetto lo proteggeva e lo aiutava a pilotare durante la caduta libera. Portò a termine manualmente alcune operazioni, giusto per avere qualcosa da fare prima che cominciasse il lavoro vero. «Stai andando bene», disse il controllo volo. «Mancano cinque minuti al...». «Lo so. Va bene». Ci siamo, ragazzo. È giunto il momento. Devi farcela. Adesso dipende solo da te. Solo da te. Era là: la scintilla, la cometa di plasma ionizzato. La nave di quota di Lord Talshire era ottimamente schermata - poteva permetterselo! - mentre la navetta di Huck non lo era. Sarebbe stato obbligato ad entrare in picchiata, ad effettuare il recupero e poi a riprendere quota il più velocemente possibile, sperando che le vele resistessero. Facile a dirsi, ma in realtà si trattava di una manovra incredibilmente difficoltosa, tanto difficoltosa che... La cometa scomparve. Clik, come se qualcuno l'avesse spenta. Huck imprecò. Questa non ci voleva. Non ci voleva proprio. Il controllo volo si mise subito in contatto con lui: «Sembra che Sua Maestà sia sceso ancora un po'. Non riusciamo più a comunicare con lui, l'interferenza del plasma ce lo impedisce. Cosa ne pensi?». «Quel che pensi tu. E allora, cosa facciamo? È morto?». «Fammi controllare...». Accanto a lui, Jonas sussurrò: «Sappiamo che non puoi rispondere, ma ascolta lo stesso: Lord Talshire è vivo, ha ristretto l'orbita e si è portato sotto lo strato d'interferenza. Puoi ancora farcela». Huck fissava gli strumenti, e stringeva con tanta forza i comandi che le sue nocche erano bianche. «Fidati di noi, Huck. Ti aiuteremo». Poi, dal controllo volo: «Non abbiamo dati, Huck. Se è riuscito a reinserirsi in orbita in tempo, allora è ancora vivo. Comunque, la consegna è di procedere». «Siamo sicuri del fatto nostro, Huck», disse Jonas. «Ai miei tempi, avrei
detto che era un gioco da ragazzi. Devi deciderti in fretta, però: il tempo stringe». Era vero, scoprì Huck guardando gli strumenti. Capì improvvisamente di non avere scelta. Non c'era davvero nessuna alternativa. «È lì il medico?», domandò a bruciapelo. «No... non è consentito l'accesso a...». «E allora trovatela, e ditele una cosa da parte mia». «Huck, il fattore tempo...». «Sta' zitto e ascolta. Dille che andrà tutto bene. Dille che qualcuno mi aiuterà». Prima che la risposta potesse arrivargli, spinse in avanti i comandi e si lanciò in picchiata nello strato d'interferenza. Le voci. Non vuoi che nessuno lo sappia. Vivi con loro da ormai tanto tempo che sono diventate parte di te. Devono restare un segreto. Devono. Nessuno sente le voci, nessuno tranne i candidati al manicomio. Nei manicomi ti tengono sotto chiave, ti smontano e poi ti rimontano. Ne, esci felice, svuotato. E non sei più tu. Perché non ti lasciano in pace? Era tanto bello, prima, bello davvero: essere da solo, cercare rottami nello spaziò, giocare a rimpiattino con la Pattuglia reale e mettere insieme quel minimo di profitto bastante a rimanere a galla ancora un po'. Cristo, lassù il silenzio era magnifico, ci si sentiva tutt'uno col cosmo... ci si sentiva sicuri... Adesso invece sei nudo. Sei legato mani e piedi, e ti fustigheranno fino a farti spuntare le ossa dalla carne. Qualcuno lo sa. Lei dice di capirti. Le puoi credere, o no? Adesso vogliono tutti la tua fiducia. Tutti. «Ascolta, Huck», disse Jonas. «Ascoltami bene e fai quel che ti dico. Lavorerò attraverso di te. Si può fare». Huck guardò gli strumenti. Aveva la bocca semiaperta, e le sue mani artigliavano i braccioli. «No... no, non posso...». «Devi farlo! Se vuoi che ti aiuti, devi volerlo fare!». Huck sentiva accanto a sé la presenza di Jonas e degli altri, tutti gli altri, e in tutti c'era un unico pensiero, uno solo... Chiuse gli occhi ed inghiottì, mentre le sue gote pallide si imporporavano. «Cosa devo fare?». «Basta che resti seduto, e che ti rilassi... così... no, non farti prendere dal panico... con questa carretta, fra poco tu ed io faremo delle evoluzioni da farsela addosso dalla paura». Fece una pausa. «Stai sciolto...». Le mani di Huck cominciarono a muoversi da sole,. e predisposero a-
bilmente una sequenza sul pannello. Huck le guardava. Fu allora che tutti gli schermi di prua si accesero, ed egli tentò di soffocare un grido. «Tieni gli occhi aperti, Huck! Non posso andare alla cieca!». Inferno verde, profonda giungla fumante e incandescente di steli di smeraldo liquido che si protendono a toccarmi... oh, no! No, per favore. Tutto, ma non questo. Follia senza scampo, nuvole diaboliche, mari di morte... devo... devo... «Datemi una mano, per favore. Non riesco a tenergli gli occhi aperti, né a tenerlo fermo». Laggiù, qualcosa... una macchiolina nera sullo sfondo del caos, o forse un difetto dello schermo? Huck si concentrò disperatamente su di essa, cercando di orientarsi e di recuperare la propria sanità mentale. Un waldo da abbordaggio comparve su uno schermo di tribordo e, riconoscendolo, Huck tirò un sospiro di sollievo. Un secondo waldo, gemello del primo, apparve poi su uno schermo di babordo. «Stai andando benissimo. Proprio benissimo. Adesso concentrati sulla nave. Da un momento all'altro...». Una picchiata a motori accesi, con tutte le vele spiegate, pallottola d'argento munita di gambe e di braccia protese ad afferrare. Huck guardava affascinato: la nave di quota si stava facendo sempre più grossa sullo schermo di prua, con lo stemma reale che le splendeva sulla chiglia... «Aiutami, Huck. Adesso sei tu a dovermi aiutare: ho bisogno di tutta la tua esperienza di pilota trifase. Coraggio, amico...». Tocca a te. Devi affrontare te stesso, e devi affrontare l'alternativa: non ci sono che due direzioni, alto e basso. Ora hai nelle tue mani la possibilità di... Lo sai, com'è. Lo sai, com'è difficile a volte... «Dai, Jonas, dai!». Contatto. Le improvvise, veementi scariche dei motori fecero vibrare la navetta. Sullo schermo di prua apparve un orizzonte, che poi girò su se stesso e sparì... «Aiutami, Huck!». ...e apparve di nuovo, questa volta più in basso, per venire subito sostituito da un quieto manto di stelle, incredibilmente perfetto. Le vele scattarono fuori dai loro alloggiamenti. I generatori di campo erano prossimi al sovraccarico. La vibrazione era incessante, era dappertutto e in tutto. Huck guardò lo schermo e vide che la nave di quota era saldamente or-
meggiata alla fiancata del traghetto. Era come aver trovato tutto a un tratto un amico, un compagno in mezzo a tutta questa follia. «È fatta?», mormorò. «Il peggio è passato. Entrambi gli scafi sono intatti, e il Principe è vivo. E tu, come ti senti?». Huck sbuffò e si asciugò il sudore dalla faccia e dal collo. «Sono vivo», disse. «Sono vivo anch'io». Aprì, e poi richiuse piano la porta dietro di sé. Era buio. Lei si voltò. Le sue gote erano bagnate. «Ciao», sussurrò, restando vicino alla porta. «...Huck?». «Ce l'abbiamo fatta», disse lui, cominciando a sorridere. «Diavolo, se ce l'abbiamo fatta!». Titolo originale: Ghosts.
RANDALL GARRETT IL GHIACCIO E IL TUONO Ulglossen stava di nuovo pasticciando con i flussi polidimensionali d'energia. Non tentate di capire chi sia Ulglossen: non riusciremmo a comprendere la sua specie più di quanto un Australopithecus potrebbe comprendere la nostra. L'epoca di Ulglossen viene - è venuta - verrà tre milioni di anni dopo la fine del dominio dell'Homo sapiens sulla Terra. Di conseguenza, affermare che Ulglossen aveva costruito una «macchina del tempo» è inesatto - o forse esatto - quanto l'affermare che un grosso computer industriale del tardo Ventesimo secolo è un tipo di pallottoliere molto perfezionato. Per Ulglossen, fare a mente delle analisi vettoriali polidimensionali era una cosa tanto semplice ed automatica che non meritava d'essere definita un gioco da ragazzi. La vera difficoltà stava nella costruzione della macchina, ma Ulglossen vi si dedicava con quella laboriosità gioiosa con cui un patito delle corse automobilistiche rimette a nuovo la propria Ferrari, e quando fu terminata, Ulglossen provò lo stesso orgoglio. Nel corso dei propri calcoli mentali, giunto al diciannovesimo decimale, Ulglossen aveva arrotondato, poiché una precisione superiore al livello già raggiunto sarebbe stata superflua. A causa di ciò, tuttavia, la «macchina» di Ulglossen dava origine a dei piccoli vortici durante il proprio passaggio nel flusso temporale. Il fenomeno non era dissimile a quello che ha luogo su una strada, quando un'auto passa vicino ad una cartaccia appallottolata: la cartaccia viene sollevata e trascinata per alcuni metri, per poi sfuggire al vortice d'aria e ricadere al suolo. Non che Ulglossen ignorasse questo fenomeno: solo, non gliene importava niente. In effetti, la «macchina» non era altro che un corollario del vero campo di ricerca di Ulglossen, e cioè lo studio dell'attenuazione della costante gravitazionale universale nel corso di milioni di millenni. Ulglossen si trovava casualmente sulla Terra, e doveva svolgere alcuni esperimenti nel primissimo periodo pre-Cambriano. Fu così che vi si recò di persona. Cercherò di raccontarvi tutto meglio che posso. Non mi aspetto che ci crediate, poiché, primo, non ho uno straccio di prova e, secondo, io stesso non ci crederei se non fosse capitato a me.
Certo, potrebbe anche darsi che fosse un sogno, ma era tutto troppo palpabile, troppo dettagliato, logico e vero per essere un sogno. No, era tutto vero, ed è inutile fingere che non lo fosse. Tutto cominciò, credo, con la lettera che ricevetti da Sten Örnfeld. Conosco Sten da anni. Abbiamo combattuto insieme in posticini poco raccomandabili, abbiamo litigato per un mucchio di cose e una volta quasi stavamo per troncare la nostra amicizia per via di una donna. (Se la prese lui). È un buon compagno di bevute, ed è un amico di cui ci si può fidare in caso d'emergenza. Cos'altro si può desiderare? Alcuni anni prima, giù nella California meridionale, Sten ed io avevamo cominciato ad interessarci ad uno sport allora relativamente nuovo, la pistola da combattimento. È uno sport che richiede velocità nell'estrarre, nello sparare e nel ricaricare, e bisogna anche avere una buona mira, se si vogliono fare punti. Una delle regole è che bisogna usare unicamente munizioni militari, non sono ammesse munizioni di potenza inferiore. Era uno sport che piaceva a tutt'e due. Non vedevo Sten da un po' di tempo, ma non me ne preoccupavo: Sten viaggia molto ma, da buon svedese, ogni tanto sente il bisogno di tornarsene a casa. Quanto a me, sono svedese solo per metà, e sono nato negli Stati Uniti. La Svezia è un bellissimo paese, ma non è casa mia. Ad ogni modo, era arrivata quella lettera: era indirizzata a me, Theodore Sorenson, ed era stata impostata a Stoccolma. In essa, Sten diceva di aver importato in Svezia la pistola da combattimento, e di aver preparato un terreno di gara nella propria tenuta. In settembre doveva esserci un incontro, e mi chiedeva di partecipare. Inoltre, ci sarebbe stata akvavit a fiumi. Quest'ultima era un'aggiunta superflua, ma contribuì ad invogliarmi. Comprai un biglietto per la Svezia e mi occupai degli altri preparativi. Fare entrare legalmente in Svezia un'arma leggera è incredibilmente difficile. (Non potrei dire come sia farlo illegalmente, non ci ho mai provato). Anche se Sten Örnfeld conosceva un sacco di pezzi grossi, e anche se aveva firmato una dichiarazione d'intenti o qualcosa di simile, informando le autorità del previsto incontro ed ottenendone l'autorizzazione, fu lo stesso dura. Dovetti esibire un mucchio di scartoffie in cui la mia arma veniva minutamente descritta, ed altre ancora in cui si certificava che non mi ero mai macchiato di reati di tipo criminale. La lettera di Sten mi aveva fortunatamente messo in guardia, ma credo che consumai comunque un buon litro d'inchiostro solo per compilare e firmare tutti gli scartafacci. Alla fine, decisero che potevo portare in territorio svedese la mia Colt
Commander calibro 45, a patto che, naturalmente, in seguito me la riportassi a casa. Mi diffidarono dal venderla, regalarla e (presumibilmente) smarrirla, pena le più atroci sanzioni. La mia Colt Commander non è come quelle che si comprano normalmente, me l'ero fatta ricostruire da Pachmayr, di Los Angeles. È dotata di una canna di quattro pollici e mezzo, un mirino posteriore BoMar, da combattimento, regolabile, un otturatore di precisione con un rivestimento Micro anti-attrito, uno speciale meccanismo che mi permette di sparare il primo colpo a doppia azione e un sacco d'altre cosette. Con l'aiuto di un supporto, riesco a piazzare cento colpi in un bersaglio di dieci centimetri ad una distanza di cento metri. Quando Frank Pachmayr vi mette a posto una Colt Commander, potete star certi di avere in mano una delle armi leggere, più potenti e perfette del mondo. Era per questo che non avevo la minima intenzione di vendere, regalare o smarrire la mia arma. Sten Örnfeld mi aspettava all'aeroporto di Arlanda, e mi aiutò a superare le formalità burocratiche. Parlo uno svedese corretto quanto il suo (e lui parla un inglese buono quanto il mio), ma era certo lui a conoscere i costumi locali meglio di me. Prendemmo poi posto sul suo aereo, e raggiungemmo il suo piccolo rifugio tra i boschi. In effetti, il posto non era poi tanto piccolo, e più che di boschi si trattava di un'intera foresta. Era sull'Österdalàlven, il fiume Österdal, sul versante occidentale di Kjölen, la grande catena montuosa i cui picchi separano la Norvegia dalla Svezia. Ci trovavamo a qualche chilometro a nord-est di un villaggio sperduto di nome Älvadalen. Sten atterrò in una piccola radura, e disse: «Siamo arrivati, Theodore». Sten mi chiama sempre Theodore, e questa è un'altra delle ragioni per cui siamo amici. Il diminutivo, Ted, non mi è mai piaciuto. Mia madre era una O'Malley, un'irlandese dai capelli rosso-castani, e mio padre era un biondo svedese. Il prodotto fui io, un bambino dai capelli di un rosso aranciato fiammeggiante. A scuola mi chiamavano Ted il rosso, e anche cose peggiori. Come il ragazzo di nome Sue 1 , dovetti imparare presto a fare a botte, ed odiai sempre il mio diminutivo. Naturalmente, quando Sten parlava in svedese, il mio nome veniva storpiato più o meno in Taydor, ma non m'importava. Mi mostrò la casa, un edificio vecchio e robusto, col tipico tetto appunti1
Riferimento a una popolare canzone degli anni Sessanta, A Boy Named Sue.
to per far scivolare al suolo la neve. «Sei il primo arrivato», mi disse. «Siediti e bevi un goccio di akvavit. O preferisci mangiare qualcosa?». Non avevo fame, sull'aereo avevo mangiato piuttosto bene. Bevemmo akvavit e caffè, e poi un po' di ragkakor che gli aveva mandato sua madre. «Stasera», disse, «preparerò le spezie, la scorza d'arancio, le mandorle e le uvette, le lascerò a bagno nel liquore per una notte e domani le metteremo in un glögg bollente. E poi, sono d'accordo con della gente di Alvadalen: ci porteranno un julskinka che metteremo in tavola con quattordici settimane d'anticipo». «Dunque, sono il tuo unico ospite, fino ad ora», dissi. «Il primo arrivato», disse lui. «Il che costituisce un problema». Centellinai ancora un po' di akvavit. «E cioè?». «Ritengo (e sottolineo ritengo) che sarai tu il vincitore di questa gara. Ho preparato un terreno speciale, con un mucchio di bersagli "amici" o "nemici" a scomparsa. Avevo intenzione di farvi gareggiare senza aver fatto nemmeno un percorso di prova, ma so che qualcuno di quei pignoli sarebbe segretamente convinto che ti ho fatto fare una prova prima del loro arrivo. Non direbbero niente, ma lo penserebbero». «E allora, cosa pensi di fare?». «Beh, non ho ancora sistemato i bersagli, pensavo di farlo domattina. Invece, vi porterò tutti a fare un giro del terreno senza bersagli, poi andrò a sistemarli mentre voi resterete qui a sorvegliarvi a vicenda». Scoppiò in una risata. «Così, sarete tutti onesti!». Stan non è il tipico svedese: è piuttosto basso, sul metro e settanta, mentre io sono sul metro e novanta. Credo di pesare un trentasei chili più di lui, e che a mani nude potrei probabilmente avere la meglio su di lui, ma finirei comunque conciato piuttosto male. Ricordo cosa accadde a un paio di marcantoni che credevano che Sten non sarebbe stato un osso duro: alla fine, lui li pregò di rialzarsi perché voleva divertirsi ancora, solo che loro non potevano più sentirlo. «Ehi», disse, «ora che siamo riusciti ad importarlo, fammi vedere quel lussuoso pezzo d'artiglieria!». Gli mostrai di buon grado la Colt Commander elaborata da Pachmayr, e ne rimase affascinato. Il suo commento finale fu: «Diavolo, che pistola!». Quando fummo pieni del dolce tepore dell'akvavit e con la bocca permeata dell'aroma del kummel, Sten ripose la bottiglia. «Domani dovrò avere l'occhio limpido e il polso fermo per sparare», disse. «E poi, devo prepara-
re il glögg». «Vuoi una mano?». «No, grazie». «Non c'è qualche posto in cui possa sparare un po' di colpi, tanto per farmi la mano in questo clima?». «Certo. A ottanta metri a sud c'è un pino morto. Uno di questi giorni lo taglierò per farne legna da ardere, ma ogni tanto ci pianto dentro anch'io qualche pallottola. Con tutto quel piombo, quest'inverno avrò dei ciocchi dannatamente pesanti!». Rise ancora. «A proposito, non hai ancora dato un nome al tuo cannone?». «No. Non ancora». Sten aveva l'abitudine di dare un nome alle proprie armi, ma io non avevo mai avuto quel vezzo. «Vergogna. Una buona pistola dovrebbe avere un nome. Non importa, te ne verrà in mente uno. Si sta facendo tardi. Tra un'ora e mezza sarà buio. Copriti bene, e buon divertimento». Coprirmi adeguatamente non era un problema. Ero preparato: sapevo già che sugli altipiani svedesi, in settembre, può far freddo mica male. La piccola passeggiata dal piccolo hangar di Sten alla sua casa mi aveva avvertito che non ero vestito abbastanza per il pomeriggio, e dunque a maggior ragione sapevo anche che gli abiti che indossavo non sarebbero bastati per il crepuscolo. «Quali sono le previsioni del tempo per domani, Sten?», domandai, gridando per farmi sentire fin nella cucina. «Freddo e sereno», gridò a sua volta. «Sotto zero!». «Dovevo saperlo! Solo tu potevi farmi lasciare la calda California per venire a sparacchiare in Svezia con le chiappe gelate!». «Giusto! Devi pure avere un handicap, no? Chiudi il becco, e vai ad esercitarti!». Anche se il freddo non era poi tanto intenso, decisi che avrei provato quale grado d'isolamento termico mi offrissero i miei abiti. Mi infilai i miei mutandoni scandinavi, e sopra di essi una maglia alluminizzata. Compro i miei abiti sportivi da Herter's, nel Minnesota, una ditta imbattibile per qualità e prezzo. Indossai poi una camicia Guide Association Chamois Cloth marrone, un paio di pantaloni Down Artic, e stivali Yukon Leather Pac. Sopra il tutto misi un giaccone Hudson Bay Down Artic col cappuccio bordato di pelo. Quanto ai guanti, potevo scegliere tra un paio di guanti da caccia di peccary e un paio di manopole Hudson Bay di daino. Ficcai le manopole in
una tasca del giaccone e mi misi i guanti da caccia. Tanto vale provarli tutt'e due, pensai. Mi ero fatto confezionare il giaccone in modo da favorire l'estrazione rapida, e sulla destra c'era un'apertura per la pistola ed il fodero. Prima di sigillarmi dentro il giaccone indossai il cinturone, che era stato fatto su misura per me da Don Hume di Miami, nell'Oklahoma. È dotato di cinque tasche di cuoio ad apertura rapida per i caricatori di riserva, e la fondina è stata fatta espressamente per la mia arma personale. Don Hume non scherza, quando dice che soddisferà ogni vostra esigenza. «Ciao, cuoco!», gridai dalla soglia. «Vado in guerra!». «Bada che quel vecchio pino morto non spari più in fretta di te!», gridò di rimando. Fuori era freddo, ma non c'era troppo vento. Vidi il pino morto e mi ci diressi. La notte cala lentamente al nord, ma ad est dei Kjölen arriva presto, perché i monti formano un orizzonte innaturalmente alto. Sten aveva davvero usato quel pino per esercitarsi: ci aveva persino dipinto sopra un cerchio bianco di una ventina di centimetri di diametro. Raggiunsi il pino, poi mi avviai per misurare venticinque metri coi miei passi. Ero a venti passi quando il vento mi investì. Non so come descrivere ciò che accadde. Sembrava vento, eppure non lo era. Sulle prime, fu coma se tutto roteasse, e poi arrivò il vento. Fu così che mi trovai nel bel mezzo della bufera più bastarda che avessi mai incontrato dopo quel giorno in cui ero quasi morto assiderato nel Nebraska. Restai immobile. Solo un dannato idiota se ne andrebbe in giro quando non ci vede. Sapevo di essere soltanto a cinquanta metri dalla casa di Sten, e mi fidavo degli abiti che indossavo. Anche se avessi atteso che la bufera cessasse per orientarmi, non sarei certo congelato. Tesi le braccia davanti a me e mi girai lentamente. La mia mano destra toccò un albero. Non mi ricordavo che li vicino ci fosse un albero, ma era comunque un punto d'appoggio. Lo raggiunsi, e rimasi in piedi dietro di esso, dalla parte su cui non batteva il vento. Avevo mosso solo due passi, ma mi bastarono per accorgermi di qualcosa d'incredibile. La neve mi arrivava alle caviglie: era alta quasi una dozzina di centimetri.
Non c'era neve al suolo quando avevo toccato l'albero. Avevo impiegato meno di due secondi per raggiungerlo, e non esiste bufera al mondo che possa depositare dodici centimetri di neve sul terreno in meno di due secondi. Rimasi lì, domandandomi cosa diavolo fosse accaduto. La visibilità di fronte a me era ridotta a un paio di metri, e la luce fioca non era certo d'aiuto. Aspettai. L'ululato del vento era troppo forte: Sten non mi avrebbe mai sentito gridare da una distanza di cinquanta metri. Ad ogni modo, sapeva che ero fuori, e che non mi sarei fatto prendere dal panico. Potevo permettermi di aspettare. Per un po', almeno. Diedi un'occhiata all'orologio per vedere quanto tempo era passato. Molto bene. L'albero era relativamente tiepido, e nell'attesa mi appiattii contro di esso. Le mani cominciarono a farmisi fredde. Mi tolsi i guanti da caccia e mi infilai le manopole. Così andava meglio. Come a volte accade durante le tempeste di neve, il vento calò improvvisamente e divenne una brezza gentile. Nel cielo, il manto di nubi s'era dissipato. Cadevano gli ultimi, sparsi fiocchi di neve, e c'era una calma quasi assoluta. L'orologio mi disse che erano passati ventisette minuti dall'inizio della bufera. Il sole faceva scintillare la neve fresca. Il sole? Avrebbe ormai dovuto trovarsi sui picchi dei Kjölen. E invece no. Era quasi allo zenith. Mi guardai attentamente intorno. Avrei dovuto vedere il pino morto, e certo anche la casa di Sten. Non c'erano. Attorno a me non c'era altro che la foresta. Solo le lontane creste dei Kjölen avevano conservato il loro normale aspetto. Tutto ciò era impossibile, ne ero certo. Eppure, ero altrettanto certo che i miei occhi non s'ingannavano. Mia madre, Dio la benedica, quand'ero un bambino mi raccontava delle storie, vecchie storie irlandesi che parlavano del Piccolo popolo e delle Colline cave. «Se mai verrai invitato dai Piccolo popolo all'interno di una Collina cava, guardati dal toccare il loro cibo o le loro bevande: se lo farai, quando ne uscirai saranno passati cent'anni, e non una sola notte». Un'ipotesi da scartare: non ero stato invitato dentro una Collina cava, e
tantomeno avevo mangiato o bevuto. A meno che Sten... Oh, diavolo, no! Era un'idea troppo stupida. Quel che era certo, era che qualcosa non andava nel tempo. O nella mia testa. Il sole si trovava nel posto sbagliato. Se non ci si può fidare della propria stessa mente, di cos'altro ci si può fidare? Cogito ergo sum, come diceva Vattelapesca, cioè, Cartesio. Penso, dunque sono. Decisi pertanto che non solo ero, ma che ero anche sano di mente. Avevo letto qualcosa sulla criogènica. Teoricamente, un organismo gelato con le debite cautele può restare indefinitamente in uno stato d'animazione sospesa. E se fosse accaduto a me? E se un'improvvisa bufera mi avesse congelato come un merluzzo, e se io mi fossi scongelato anni dopo, senza rendermi conto del tempo passato? Non mi sembrava probabile. Sten mi avrebbe certo ritrovato, e poi, in ogni caso, mi sarei risvegliato sulla schiena, e non in piedi. No. Molto improbabile. Decisi comunque di controllare. La casa di Sten non poteva certo essersi deteriorata al punto di non aver lasciato tracce. Arrancando nella neve, che mi arrivava fino alle caviglie, mi portai sul punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la casa di Sten. Ho un buon occhio per le distanze e le direzioni, e controllai l'intera zona in cui avrebbe dovuto sorgere la casa. Niente. Sotto la neve c'erano degli aghi di pino, e sotto gli aghi di pino non c'era che terra. Nient'altro. Più o meno sul punto in cui avrebbe dovuto esserci il salotto di Sten c'era il ceppo di un albero spezzato. Spolverai via la neve che lo ricopriva e mi sedetti. Ricordo che per alcuni minuti non pensai a niente. Mi accorsi poi che mi stava venendo freddo. Dovevo fare un po' di moto, e farmi un fuoco. Raccolsi tutte le schegge di rami di pino che riuscii a trovare ed accesi un piccolo fuoco da campo accanto al ciocco. Non ebbi bisogno di strofinare due stecchi: il mio accendisigari a gas funzionava ancora. Rimasi seduto per un'ora, piuttosto depresso, domandandomi cosa fosse accaduto. So che fu un'ora, poiché consultai di nuovo l'orologio. Fu allora che sentii un rumore furtivo dietro di me. Voltai il capo e guardai. Portai la mano al fianco destro, ma non estrassi.
A meno di dieci passi da me c'erano sette uomini. Erano silenziosi ed immobili come statue di ghiaccio, ma i loro occhi mi osservavano con interesse, con curiosità e circospezione. Erano abbondantemente coperti di pellicce scure, simili alle nere pelli d'orso indossate dagli Esquimesi. Ciascuno di essi portava uno scudo rotondo e una lunga lancia. Non erano Esquimesi: gli Esquimesi non hanno gli occhi azzurri e i capelli biondi. Quegli occhi azzurri mi stavano guardando con sospetto. Sollevai piano le mani, mostrando loro che erano vuote. Non riuscivo a capire perché si portassero in giro delle lance, ma non avevo certo l'intenzione di mettermi a discutere con la popolazione locale. «Buongiorno, signori», dissi in svedese. La mia voce era bassa e controllata. «Volete dividere con me questo fuoco?». Ci fu un attimo di silenzio. Non mostravano di aver capito. Infine, uno di essi si fece avanti e disse qualcosa con una voce bassa e controllata quanto la mia. Non capii una sola parola. Eppure, aveva un suono dannatamente familiare. Oltre all'inglese, so parlar molto bene anche lo svedese, il norvegese, l'islandese e il danese. Il mio tedesco ha un accento strano, ma si lascia capire. Riesco quasi a capire l'afrikaans, ma non del tutto. Era proprio come se mi avesse parlato in afrikaans. «Non capisco», dissi. L'uomo che si era fatto avanti, e che doveva ovviamente essere il capo, si volse verso quello che gli stava vicino. Le loro voci erano così basse e dolci che non riuscii ad afferrare cosa si stessero dicendo. Il secondo uomo doveva essere il vice-comandante, immaginai. Il capo si volse di nuovo verso di me e parlò più forte, molto lentamente, sillaba per sillaba. Mi ci volle qualche secondo per capire. Non so se riuscirò a spiegarvi. Immaginate di trovarvi nella stessa situazione, e che un tipo impellicciato venga da voi e vi dica: «Uan-sa-ta-prila-ui-sis-scio-ers-su-ta-si-dro-cht-av-marsh'ès-persed'tU'si-ru-ut...». Vi sentireste un pochino confusi, no? Poi vi accorgete improvvisamente che non sta facendo altro che sillabare con molta precisione il verso di Chaucer «Whan that Aprill..e with his shourës sootë / The droghte of Marche hath percëd to the rootë...». E poi traducete in inglese moderno, ed ottenete: «Quando aprile, con le sue dolci piogge / ha sradicato la siccità di marzo...».
Fu così che ci riuscii. Compresi solo parzialmente, perché era una lingua più antica di tutte le lingue nordiche che avessi mai udito. In ogni parola c'era una quantità incredibile di inflessioni e di sillabe. Di fronte ad essa, persino l'islandese sembrava una lingua moderna. Quel che mi stava dicendo era: «Hai detto che non capisci?». Cercai di copiare la sua pronuncia e la sua sintassi, e ne uscì qualcosa più o meno così: «Sì. Me no capire». Smetterò d'annoiarvi con i miei problemi linguistici. Vi basti sapere che la conversazione fu un po' più difficoltosa del normale. «Ma capisci almeno un po'?», domandò. «Sì. Poco. Non molto bene. Mi spiace». «Chi sei, e cosa fai qui?». «Mi chiamo Theodore», dissi, ma lo pronunciai «Taydor». «Che cosa fai qui?», ripeté. Le lance non erano puntate su di me, ma erano pronte all'uso, e quelle punte di selce scheggiata non avevano un aspetto rassicurante. «Mi sono perduto», dissi. «Ho fame ed ho freddo». «Da dove vieni?». «Dall'America. Da oltre il mare d'Occidente». Si scambiarono un'occhiata, poi il capo mi guardò. «Sei solo?». «Sì, sono solo». Era una risposta pericolosa. Un uomo solo è una preda più facile di un uomo che ha degli amici, ma decisi di non bluffare, perché il mio bluff non avrebbe funzionato, e non ci tenevo a far la figura del bugiardo fin dal primo momento. Inoltre, pensavo che nella peggiore delle ipotesi sarei riuscito ad ucciderli tutti e sette prima che riuscissero a mettermi le mani addosso. Non avevo intenzione di farlo, tuttavia, a meno che non mi assalissero senza che li provocassi. Le lance rimasero pronte all'uso, ma gli uomini sembravano un po' meno tesi. «Qual è la tua condizione?», domandò il capo. Mi ci volle un attimo per capire: mi stava domandando quale fosse la mia posizione sociale. Ero uno schiavo, un uomo libero o un nobile? «Sono un uomo libero e un guerriero», risposi onestamente. Dopotutto, gli anni passati nell'Esercito dovevano pure essere serviti a qualcosa! «Però, come vedete, non ho né lancia né scudo». «Se non li hai, come possiamo sapere se dici il vero? Dove hai perso la lancia e lo scudo?». «Non li ho persi. Sono venuto in pace».
Questo li lasciò di stucco. Confabularono a lungo, mentre io restavo seduto in silenzio. Stavo suonando ad orecchio. Non sapevo cosa mi fosse successo, ma non avevo certo l'intenzione di comportarmi come uno stupido turista in una terra che non conoscevo. Alla fine, il capo disse: «Verrai con noi, Tay'or. Ti daremo da mangiare e da bere, e parleremo di te». «Vengo», dissi. Mi alzai in piedi. Strabuzzarono gli occhi, e strinsero più forte le lance. Capii perché. Finché ero rimasto seduto, non se ne erano accorti: ero più alto di loro. Nessuno di essi era più alto di Sten Örnfeld, ma avevano tutti lo stesso aspetto tosto. Incrociai le mani sul petto. «Verrò dove mi condurrete». Erano prudenti. Solo il capo e il suo vice mi voltarono le spalle. Gli altri cinque restarono dietro di me, con le lance pronte. Ci volle una ventina di minuti di cammino, e questo quadrava: il fuoco che avevo acceso aveva attirato la loro attenzione, e il suo fumo li aveva condotti da me. Non ci avevano messo molto a decidere di venirmi a cercare. Arrivammo ad un agglomerato di capanne di tronchi. Mi condussero subito alla capanna più grande ed entrammo, superando una tenda di pelle d'orso. Per passare, fui costretto ad abbassare la testa. Appena dentro, il capo si fermò e mi disse: «Sei nella sala in cui Vigalaf l'Ammazzalupi beve l'idromele. Comportati come si conviene». In mezzo al pavimento di terra battuta c'era un fuoco, e sopra di esso, nel soffitto, c'era un buco da cui usciva il fumo. Forse soltanto l'ottanta per cento del fumo riusciva ad uscire, poiché il rimanente venti per cento stagnava nell'aria. Sotto il profumo del fuoco di pino si sentiva un odore di grasso rancido e di carne arrosto. In piedi accanto al fuoco c'era un uomo dalla grande barba biondo-gialla e dai capelli lunghi. Rispetto agli altri, sembrava un gigante: doveva essere alto quasi un metro e settantacinque. Doveva essere Vigalaf l'Ammazzalupi, ed avevo ragione. Disse solo due parole: «Raccontami, Hrotokar». Hrotokar era il capo della squadra che mi aveva trovato. Raccontò la storia senza fronzoli, sottolineando il fatto che mi ero comportato docilmente. Vigalaf mi guardò per la prima volta. «Togliti il cappuccio alla mia presenza, gigante Tay'or», disse. Lo disse senza arroganza, ma soltanto con la
coscienza di ciò che gli era dovuto, abbassai sulle spalle il cappuccio del mio giaccone. «Non sei certo uno di Loro», disse. «Non hai i capelli né gli occhi dei Mangiatori di uomini. Sei davvero uno di noi, gigante?». «Sono un vostro lontano parente, Vigalaf l'Ammazzalupi», risposi. Stavo dicendo il vero, ma Dio solo sa quanto fosse distante la nostra parentela. «Mi chiamerai Padre Ammazzalupi», disse. Ancora una volta, aveva parlato senza arroganza: era solo quanto gli spettava di diritto. «Ti chiedo scusa, Padre Ammazzalupi», dissi. «Non conosco i vostri costumi. Perdonami se sbaglio». Annuì, e si adagiò su una pila di pelli, accanto al fuoco. «Siedi», disse. Mi sedetti, ma gli uomini che mi avevano scortato non mi imitarono: evidentemente sapevano che quell'ordine non era diretto a loro. Non c'erano pelli per me, così piantai il didietro sulla nuda terra del pavimento ed incrociai le gambe. «Portategli dell'idromele», disse. I miei occhi si erano ormai abituati alla penombra di quella sala senza finestre. Vidi che nel buio degli angoli c'era altra gente, tutta rivestita di pellicce. Malgrado il fuoco, faceva freddo: la maggior parte del calore si disperdeva dal buco nel soffitto. Un rumore gorgogliante risuonò in uno degli angoli bui, e una figura si fece avanti, portando un corno d'idromele. Non sto scherzando: era proprio un corno di vacca, lungo una trentina di centimetri e pieno di liquido. Ho fatto un mucchio di bevute in un mucchio di posti diversi, ma l'unico liquore che fino ad allora non avevo assaggiato era proprio l'idromele. Di sicuro, sapevo soltanto che era un distillato a base di miele, e cosi avevo una mezza idea che fosse dolce come un porto o uno sherry abboccato. Mi sbagliavo. Sapeva di birra stantia, ma la sua gradazione era ragguardevole. Prima di bere, ritenni opportuno dire qualcosa. Levai il corno e dissi: «Ti ringrazio per la tua ospitalità, Padre Ammazzalupi». Bevetti. Avevo evidentemente scelto le parole giuste. La sua barba e i suoi baffi si aprirono attorno a un sorriso. «No», disse ancora, «non sei davvero uno di Loro». Presi la palla al balzo. «Perdona la mia ignoranza, Padre Ammazzalupi, ma chi sono Loro?». Le sue folte sopracciglia si alzarono. «Non lo sai? Vieni davvero da lon-
tano! Loro sono i Demoni, i Maligni, i Mangiatori di uomini. Vengono dall'estremo Nord, vengono per uccidere e divorare. Parlano come gli animali, e sono giganti!». S'interruppe. «Non sono grandi come te, ma sono comunque giganti». Un'altra pausa. «A differenza della gente onesta, si vestono di ghiaccio, e non di pellicce». Non compresi cosa volesse dire quell'ultimo particolare, ma lo archiviai con beneficio d'inventario. «Non so nulla di loro, Padre Ammazzalupi», dissi. «Di sicuro, non possono certo essere amici miei». Erano certo loro nemici, ma chiamarli Demoni, Maligni o Mangiatori di uomini sapeva un po' troppo di propaganda. «Dici bene, gigante Tay'or», disse Vigalaf. Levò una mano. «Portategli del cibo». La stessa persona di prima uscì dall'ombra, recando una ciotola di legno. Questa volta, osservai meglio la persona che mi serviva. Radermi mi annoia, e dunque ho una barba che è rossa come il resto del mio pelo. Anche tutti gli altri uomini presenti portavano la barba. Il mio servitore doveva essere un ragazzo imberbe, oppure una donna. Per un popolo costretto ad usare la selce per le proprie lance, radersi non è solo una seccatura, è impossibile. E poi, nei suoi occhi c'era più carattere di quanto potesse mai averne un ragazzo. Con quelle pesanti pelli addosso, era difficile farsi un'idea della sua corporatura, ma il mio istinto mi diceva che non si trattava certo di un teen-ager. Il bagliore nei suoi occhi quando incontrarono i miei mi convinse di aver visto giusto. Quando mi diede la ciotola, sulle sue labbra c'era un lieve sorriso. Presi automaticamente la ciotola con la destra, poi lei tese la sua mano sinistra chiusa verso la mia. Aprii la mia sinistra, col palmo all'insù. Vi lasciò cadere tre noci e se ne andò, tornando nel suo angolo buio. Rimasi incerto per qualche secondo. La ciotola conteneva una specie di zuppa di cereali in cui galleggiava qualche pezzo di carne, ma non c'erano utensili con cui mangiarla. E cosa diavolo dovevo fare di quelle tre noci che tenevo nell'altra mano? Sentivo che tutti gli occhi erano su di me. Si trattava di una prova, ma non sapevo cosa si aspettassero da me. Cosa dovevo fare? Pensa, Sorenson. Pensa! La sala era immersa in un silenzio totale, rotto solo dal crepitio del fuoco.
Non ricordo quali furono i miei pensieri. Ricordo solo che pensai che, se non avessi superato quella prova, avrei fatto meglio a tener pronta la mano destra. Serrai nel pugno le noci, posai la ciotola sulle ginocchia e dissi: «Ti ringrazio di nuovo, Padre Ammazzalupi». Non rispose. Cominciai metodicamente a portarmi alla bocca quella zuppa densa e spessa col pollice e le prime due dita della destra. La mangiai tutta, poi posai la ciotola per terra, accanto a me. Non ci fu alcuna reazione da parte del mio pubblico. Si trattava dunque di quelle tre dannate noci! Che cosa dovevo fare? Mangiarle? Restituirle? Infilarmele nel naso? Oppure cosa? Aprii lentamente la mano, e le guardai. Erano comuni noci, pensai, ma col guscio molto più spesso e duro di quello delle noci a cui ero abituato. Mi asciugai la destra sui pantaloni: se proprio dovevo estrarre in fretta la pistola, non volevo aver la mano scivolosa. Alzai poi lentamente il capo e guardai l'Ammazzalupi, senza evitare il suo sguardo. Annuì silenziosamente, e fece un gesto con la mano. La donna bionda dalle spalle larghe portò una pietra piatta e la pose per terra, di fronte a me, prima di ritirarsi nel suo angolo. Fu allora che compresi. Tutti gli uomini presenti, e anche quella donna, portavano legato alla cintura un martelletto dalla testa di pietra. Beh, avevo corso il rischio, ma alla fine avevo capito. Però, chi lo avrebbe mai detto? Se lo volete, Frank Pachmayr vi fornirà dei caricatori con un quarto di pollice di gomma sul fondo; questo, secondo alcuni, rende più facile infilarlo nell'impugnatura quando si ricarica. Niente gomma, per me: i miei caricatori sono d'acciaio da cima a fondo. Un'idiosincrasia personale. In quel momento, ringraziai il Cielo per la mia idiosincrasia. Posai le tre noci sulla pietra ed estrassi la pistola. Non si dovrebbe mai usare una pistola a quel modo, ma, del resto, non si dovrebbe mai usare una pistola se non ce n'è davvero bisogno. Ma quella volta, mi salvò la vita. La tirai fuori, la presi a metà della canna e spezzai metodicamente il guscio delle noci con il calcio. Fu forse istinto, o intuito o quel che preferite: so solo che feci ciò che si aspettavano che facessi. Seppi più tardi che i terribili Mangiatori di uomini possedevano solo grandi asce di pietra, ma non utensili più piccoli, così che quando avevano voglia di mangiare delle noci le schiacciavano usando
la roccia più a portata di mano, da gente rozza qual erano. Detto tra di noi, le noci erano amarissime. Quando finii di mangiare l'ultima, un profondo sospiro risuonò in tutta la sala. Ammazzalupi disse: «Vuoi accettare la nostra ospitalità, gigante Tay'or?». Frugai tra quel poco che la mia memoria conservava circa le usanze nordiche. «Non ti posso offrire alcun dono, Padre Ammazzalupi». «Il tuo dono sarà la tua forza, se vorrai prestarcela. Quando i Demoni torneranno, combatterai contro di loro?». Era una domanda difficile. Riguardo a quella faccenda, avevo sentito solo la loro campana. Ma che diavolo, un uomo che non sa scegliere per paura di sbagliare è un uomo che non vale una cicca. «Non ho né lancia né scudo. Padre Ammazzalupi», dissi, sapendo benissimo che stavo scantonando. «Te li daremo noi». «E allora, combatterò con voi». «Sii mio ospite, dunque!». Scoppiò in una risata omerica. «Idromele! Idromele per tutti! Vieni, gigante, siedi accanto a me! Prendi questa pelle!». La festa ebbe inizio. Dopo il quarto corno d'idromele, Ammazzalupi si chinò su di me e disse: «Dove hai preso quello strano martello?». «L'ha fatto per me un amico che vive in un paese lontano», risposi. «Lo ha fatto in modo che io solo possa impugnarlo». Non volevo certo che il vecchio mi chiedesse di maneggiare la mia Colt. Le sue folte sopracciglia si levarono di nuovo. «Ma certo! Non è così dappertutto?». «Naturalmente, Padre Ammazzalupi». Un'altra informazione: gli schiaccianoci erano strettamente personali. Bene. Quella notte, dormii sotto una pelle d'orso, con gli abiti ancora addosso. Non mi ero lavato, ma neanche gli altri. Non c'era da ingannarsi. Mi svegliai sudato, ma col naso freddo. Attorno a me risuonavano russate poderose, ma qualcuno era già in piedi. Socchiusi gli occhi. Avrei dovuto aspettarmelo: mentre gli uomini ancora dormivano, le donne stavano preparando la prima colazione. Evidentemente, il femminismo non aveva ancora raggiunto queste latitudini. Il che mi riportava al problema di fondo: Chi diavolo era questa gente? Avevo dormito sul fianco sinistro (una calibro 45 nel suo fodero non è
un granché come materasso), con la destra sul calcio della pistola. Restai con gli occhi chiusi, cercando di accertare quali postumi mi avesse lasciato la sbornia. Stavo benissimo. Chiunque fosse il loro distillatore, ci sapeva fare. Era la prima volta che potevo davvero pensare, da quando quei sette mi avevano trovato nella foresta. Da quel momento in poi, non avevo potuto far altro che cercare di salvar la pelle. Mi resi conto di aver accettato un fatto: come lo yankee del Connecticut di Mark Twain e il Martin Padway di de Camp2 , avevo risalito il corso del tempo. Ma di quanto? Non lo sapevo, ancor oggi non lo so, e forse non lo saprò mai. Dalle mie conversazioni della notte precedente sapevo che non erano cristiani, non avevano neanche mai sentito parlare di Lui. Non avevano neppure mai sentito parlare di Roma, ma questo non dimostrava niente: in quella landa sperduta, non potevano certo essere al corrente di molte cose... come la civiltà egizia, ad esempio. Dovevo trovarmi ad almeno millecinquecento anni dalla mia epoca, suppongo, o forse ancora di più. Il fatto che lavorassero la pietra invece del metallo testimoniava della loro antichità, e non si comportavano certo come i feroci Vichinghi che tanta traccia avevano lasciato nella storia. La loro era una cultura basata sulla caccia e sullo sfruttamento della vegetazione spontanea, e molto influenzata dagli esiti della caccia durante l'inverno. Durante i mesi freddi, la loro preda d'elezione sembrava essere Torso. Un orso in ibernazione non è una preda difficile, ammesso che riusciate a trovarlo e a sorprenderlo prima che si svegli. Ha una buona carne, e le sue pelli sono utili. Le russate si stavano mutando in grugniti e colpi di tosse. Gli uomini si stavano svegliando. Mi sedetti ed uscii in un gran sbadiglio. Quasi immediatamente, la bionda dalle spalle larghe della sera prima si inginocchiò di fronte a me con una ciotola di legno piena di pezzi di carne e un corno d'idromele calda. Questa volta non ebbe paura di mostrare i denti in un sorriso. Vidi che il suo incisivo superiore sinistro era storto. Delizioso. Se solo si fosse lavata... 2
Se è certo inutile parlare del conosciutissimo romanzo di Twain, in cui un ragazzotto americano si trova improvvisamente catapultato nell'Inghilterra di Artù e della Tavola Rotonda, forse è meno conosciuto il romanzo Lest Darkness Fall (1939) di L. Sprague de Camp, in cui l'archeologo Padway viaggia a ritroso nel tempo fino a giungere nell'Italia del sesto secolo d.C.
«Come ti chiami?», domandai, dopo averla ringraziata per il cibo. Come vi ho detto, non voglio annoiarvi con i miei problemi linguistici. Sulle prime non mi capì, e dovemmo faticare un poco. «Brahenagenunda, figlia di Vigalaf l'Ammazzalupi», rispose. «Ma non devi ringraziarmi per il cibo. Ringrazia Padre Ammazzalupi, perché questo è il suo cibo». «Lo ringrazierò per il cibo», dissi. «Ma ringrazio te per averlo preparato». Dopotutto, se era la figlia di Ammazzalupi, stavo parlando ad una principessa. Arrossì. «Scusami. Devo servire gli altri». Mi venne in mente che forse, visto che tutti chiamavano «Padre» il vecchio, erano tutti nominalmente suoi figli e figlie, indipendentemente dal fatto biologico. Scoprii in seguito che solo i suoi discendenti diretti prendevano il suo nome: Brahenagenunda era davvero sua figlia. Vidi che un paio di uomini stavano uscendo: intuii la loro destinazione e li seguii. Non m'ingannavo; s'inoltrarono nel bosco. Quando tornai indietro, mi sentivo molto meglio. Certo, la neve non regge il confronto con la carta igienica, ma è meglio che niente. La temperatura ad occhio e croce, doveva essere attorno ai meno due centigradi, e il freddo non era troppo pungente. Gli abitanti delle capanne più piccole erano assorti nelle proprie attività, e il loro respiro, come il mio, formava nuvolette bianche nell'aria, come se tutti stessero fumando. Mi sentii contento di non avere il vizio del fumo: avevo la sensazione che trovare del tabacco da quelle parti sarebbe stato piuttosto difficile. Hrotokar mi stava aspettando davanti alla «reggia» di Vigalaf. «Salve Tay'or». «Salve, Hrotokar». «I miei uomini ed io andiamo a caccia di orsi. Vuoi venire con noi?». Doveva essere. un'altra prova, pensai. «Sì, verrò». «Ti daremo una lancia e uno scudo». Poi mi diede un'occhiata da capo a piedi e si fece meno sussiegoso. «Sei sicuro che questi buffi abiti che indossi ti terranno abbastanza caldo?». «Andranno benissimo», lo assicurai. Non avevo voglia di dirgli che erano probabilmente molto più caldi della roba che indossava lui. «Come vuoi», disse. «Ho una giacca e dei calzoni di ricambio, ma dubito che riusciresti ad infilarteli». «Ne dubito anch'io. Come si fa a far la caccia all'orso?». Per prima cosa, scoprii, bisognava cercare una fessura nella neve, da cui
uscissero dei piccoli sbuffi di vapore. Ciò significava che sotto la neve c'era un orso ibernato, che sopravviveva respirando lentamente e poco profondamente. Fatto questo, si controlla se non si tratti per caso di una femmina gravida, poiché si uccidono solo i maschi. Non vi annoierò raccontandovi quella giornata: non facemmo altro che cacciare, e non prendemmo niente. In compenso, Hrotokar ed io approfondimmo la conoscenza reciproca. Il nostro era un tipo di caccia durante il quale si può parlare: non c'è il pericolo che un orso in ibernazione si svegli di soprassalto. Purtroppo, quel giorno non potei farmi la mano sulla lancia e lo scudo. A San José ho un amico d'origine greca che è un appassionato cultore delle arti marziali degli antichi opliti greci. Era riuscito a riprodurne le tecniche e si esercitava con un gruppo di amici, usando lance spuntate con l'estremità imbottita. Mi ero allenato con loro, ed ero diventato piuttosto bravo, ma fare sul serio era tutta un'altra cosa. Mi ero molto allenato anche con la baionetta montata, ma non mi era mai capitato di doverla usare in combattimento, e tantomeno contro un orso, addormentato o meno. Il sole brillò per la maggior parte della giornata, ma al pomeriggio tornarono le nuvole, e quando rientrammo al villaggio riprese a nevicare. Tornavamo a mani vuote, e così pure tutte le altre squadre, tranne una. Avevano preso un orso, il che fu fonte di gioia e soddisfazione per tutta la comunità. Non ebbi mai occasione di contarle, ma credo che al villaggio ci fossero tra le cinquantacinque e le sessanta persone. Una delle altre squadre aveva visto un cervo, che era però riuscito a scappare. Durante l'inverno, l'attività principale delle donne era la raccolta della legna da ardere. Andava tutta bene, si trattasse di rami spezzati o di sterpi. Quando capitava loro di trovare un albero morto o spezzato, lasciavano un segnale sul posto ed andavano a riferirlo agli uomini. Si formava poi una squadra sia di uomini che di donne, col compito di andare a prendere l'albero. Quella sera, non fui io l'ospite d'onore. Era l'uomo che aveva ucciso l'orso, un certo Woritigeren, ad essere al centro dell'attenzione, e se lo meritava. Padre Ammazzalupi si alzò e fece un discorso sul suo coraggio e la sua bravura, poi un ometto zoppo - un bardo, immagino - improvvisò un canto, dalle cui parole si ricavava l'impressione che Woritigeren avesse ucciso a mani nude un grizzly di due tonnellate. Infine, Padre Ammazzalupi gridò: «Idromele! Portate l'idromele!». Una donna uscì dall'ombra e portò a Woritigeren il suo corno d'idrome-
le, ma non era Brahenagenunda: era più anziana, e molto più sciupata. Un'altra donna, ancor più anziana, si avvicinò e sussurrò qualcosa all'orecchio di Vigalaf l'Ammazzalupi, che si rabbuiò. C'era della tensione nell'aria, e lo si avvertiva chiaramente. L'idromele doveva essere servito all'eroe dalla figlia più giovane e più bella dell'Ammazzalupi, ma l'usanza non era stata rispettata. Tecnicamente, Woritigeren era stato snobbato. Vigalaf l'Ammazzalupi si alzò con dignità maestosa. «Eroe Woritigeren», disse, guardando il cacciatore, che ancora non aveva portato alle labbra l'idromele, «né io né le mie donne intendevamo offenderti. Mi hanno appena detto che Brahenagenunda, figlia di Vigalaf, non è tornata dalla raccolta della legna. Il sole è tramontato, e la bufera ricopre tutto». Si volse verso l'ometto zoppo. «Cantore, intona per noi una preghiera al Padre di tutti». Intonò la preghiera. Non ne capii una parola, poiché era in una lingua ancor più antica di quella che parlavano normalmente, ma in essa c'erano una tale dignità ed una tale solennità che non poteva davvero essere che una preghiera. Fu in quel momento che quasi mi tradii. Stavo per chinare il capo, ma mi accorsi in tempo che gli altri guardavano verso l'alto; stavano guardando il cielo attraverso il buco nel soffitto. Evidentemente, preferivano guardare Dio in faccia quando Gli parlavano. Finita la preghiera, l'Ammazzalupi disse: «Questo è il suo Wyrd 3 . Domattina andremo a cercarla». Aveva ragione, naturalmente. Avrei voluto lanciarmi immediatamente sulle sue tracce, ma al buio, e in una bufera, sarebbe stata una pazzia. Vigalaf e noi tutti avevamo fatto tutto ciò che era possibile fare per il momento. L'Ammazzalupi levò il proprio corno d'idromele: «Alla tua salute, eroe Woritigeren, e in tuo onore». E la festa ricominciò. Il loro comportamento potrà sembrarvi spietato. Mentre una donna (o meglio, una ragazza, poiché aveva solo sedici anni) si trovava al buio e all'addiaccio, sola e alla mercé di chiunque, i suoi amici e parenti si stavano divertendo e sbronzando. In realtà, era solo un comportamento realistico: quando non si può fare qualcosa, allora è meglio fare qualcosa d'altro. Non potevano soccorrerla, e dunque tanto valeva proseguire i festeggia3
Antica parola germanica che equivale al nostro «fato», o «sorte».
menti. Ogni cosa a tempo debito. Il mattino seguente, il cielo era di nuovo sereno. Le squadre uscirono, col doppio scopo di andare a caccia e di trovare la ragazza. Si trattasse di cervi, orsi o di Brahenagenunda, avremmo preso ciò che trovavamo. Non trovammo nulla. La neve aveva ricoperto tutto. Era alta quasi venti centimetri, e ancora di più dove il vento l'aveva ammonticchiata. Poteva anche darsi che giacesse da qualche parte, sotto la neve, ma sarebbe stato impossibile controllare ogni mucchio di neve. Quella sera, nella sala non si fece festa: non avevamo trovato né selvaggina né ragazza. Fu una notte triste. Dormii soltanto perche ero spossato. Il mattino dopo, uscii di nuovo con la squadra di Hrotokar. Eravamo ancora depressi, e parlammo poco. Fu verso mezzogiorno che incontrammo il Segno della Morte. Fu così che Hrotokar lo chiamò. «I Demoni», disse molto piano. «Loro sono qui». Vidi quel che mi stava indicando. Era un cranio umano, solo la metà superiore, poiché mancava la mascella. Era impalato su uno stecco, a circa trenta metri di distanza da noi. «Cosa significa?», domandai. «Guerra», rispose semplicemente. «Anche Loro vogliono gli orsi e i cervi. Loro vengono dal Nord, con i loro vestiti di ghiaccio. Questo è il nostro territorio di caccia, ma Loro ce lo vogliono portare via, facendoci fuggire o uccidendoci tutti. Vieni, andiamo a vedere». Ordinò al resto della squadra di stare all'erta, nel caso si trattasse di una trappola. Raggiungemmo il Segno della Morte senza vedere o sentire alcunché al di fuori del normale attorno a noi. Era un cranio fresco, e c'era ancora qualche brandello di carne bollita che aderiva ad esso. Lo stecco era stato infilato nell'apertura in cui avrebbe dovuto inserirsi la colonna vertebrale. C'erano delle orme attorno a quella cosa orrenda. Doveva essere stata messa li durante il mattino. Con la voce bassa e rauca, Hrotokar disse: «Che il Padre di tutti li maledica. Se fosse stato il cranio di un uomo, lo avrebbero conservato per berci dentro». Mi accorsi allora che l'incisivo superiore sinistro era storto. Ora so cosa significa essere colti dalla follia omicida. Lo sguardo mi si velò di una nebbia rossa di odio inestinguibile. Se ci fosse stato presente qualcuno su cui sfogare quell'odio, non avrei esitato a farlo. Non so per quanto durò quella nebbia rossa. Mi sembrò un'eternità, ma quando ne u-
scii, gli altri erano nella stessa posizione in cui li avevo lasciati. Il mio odio non era svanito, era solo diventato freddo e meditato invece che folle ed impulsivo. «Hrotokar», dissi con calma, «cosa facciamo?». «Dobbiamo dirlo all'Ammazzalupi», rispose. Dal tono della sua voce mi sembrò che lo stesso freddo odio covasse anche in lui. «E cosa farà?». «Tutti i guerrieri seguiranno le tracce, troveranno i Mangiatori di uomini e li uccideremo». Si rivolse ad uno dei suoi uomini. «Piede Veloce, vai a...». «Aspetta, Hrotokar», dissi, sperando di essere capito senza errori. «È una trappola». Non chiedetemi come lo sapessi: lo sapevo, e basta. «Se Padre Ammazzalupi ci manda tutti i guerrieri, il villaggio rimarrà indifeso. È proprio questo che Loro vogliono che facciamo. Mentre noi staremo seguendo la loro pista, Loro andranno al villaggio e ammazzeranno le donne, i vecchi e i bambini». Si accigliò. «Può darsi, Tay'or. Ma allora, cosa dovremmo fare?». «Quanti sono i Mangiatori di uomini?», domandai. «Una volta e mezzo la gente del villaggio. Forse di più. Non so se riusciremo a vincerli». Si strinse nelle spalle. «Ma dobbiamo tentare». «Ce la faremo. Ti fidi di me, Hrotokar?». Mi fissò a lungo. «Mi fido di te, gigante dai capelli di fuoco». «Bene. Ecco cosa devi fare: manda Piede Veloce ad avvertire Padre Ammazzalupi, ma deve dirgli di non mandarci più di un'altra squadra. Tutti gli altri dovranno restare al villaggio, per difenderlo dai Demoni. Intanto, noi e la seconda squadra gireremo attorno ai Demoni e li prenderemo alle spalle. Capisci?». Ebbe un sogghigno da lupo, poi annuì. «Sì. Farò come dici». La seconda squadra ci mise un'ora ad arrivare. Cominciammo a seguire le impronte, ma non per molto. Era bastato un uomo solo per piazzare il cranio dove lo avevamo trovato, e il suo compito era di sviarci. Non appena le impronte cominciarono a puntare nella direzione opposta al villaggio, Hrotokar ed io ce ne staccammo e ordinammo agli uomini di cominciare l'accerchiamento. Come previsto, il villaggio era assediato. Gli assalitori lo avevano circondato. Hrotokar aveva peccato di ottimismo, quando mi aveva detto che gli invasori erano una volta e mezzo la gente di Padre Ammazzalupi. Erano più di cinquanta i Demoni maschi che circondavano le capanne, il che significava che il loro numero totale dove-
va essere superiore a cento. I Demoni erano uomini, naturalmente. Non avevano proprio nulla di soprannaturale. Dovevano venire dall'estrema parte orientale dell'Asia, pensai. Erano alti, sul metro e ottanta, e le loro facce erano decisamente orientali. Mongoli? Unni? Non lo sapevo. Ad ogni modo, non erano certo tipi molto raccomandabili. Ero certo che non fossero Esquimesi, ma erano vestiti di «ghiaccio», cioè di pelli d'orso polare, bianche. E venivano dal Nord. Tutto sembrava coincidere. Se date un'occhiata ad una carta dell'Europa settentrionale, vi accorgerete che per raggiungere la parte meridionale della Svezia bisogna passare dal nord. Venendo dall'est, bisognerebbe attraversare la Finlandia per poi ridiscendere, al sud. Chiunque fossero, non mi piacevano. Si stavano avvicinando al villaggio quando io ed i quattordici uomini che erano con me sbucammo alle loro spalle. «Attacchiamo adesso, Capelli di fuoco?», domandò piano Hrotokar. Non so perché, ma doveva evidentemente aver deciso di passarmi le consegne. Non sembrava molto ottimista - dopotutto, eravamo in quindici contro cinquanta! - ma per qualche ragione aveva fiducia in me. «Amico», domandai sorridendo, «quanti ne potresti uccidere se li caricassimo?». Mi guardò, e i suoi occhi si strinsero. «Prendendoli alle spalle, almeno quindici. Forse trenta». «Bene. Fammene fuori quindici, e al resto penserò io». Avevo solo cinquanta colpi, e in battaglia non si può esser certi di far sempre centro. Strabuzzò gli occhi. «Me lo giuri?». «Te lo giuro sul Padre di tutti e sulla mia stessa vita», dissi. «Va', Hrotokar, amico mio. Uccidi quei cannibali figli di cani!». Aggiunsi poi: «Quando li attaccate, urlate come furie! Sarò con voi ad ogni passo». E lo fui. Quando le due squadre attaccarono, lanciando grida di guerra, ero anch'io con loro. I Demoni ci sentirono e si voltarono. Ci vennero incontro, con le lance pronte. Quando tra i due gruppi ci fu soltanto una ventina di metri, gettai via la lancia e lo scudo, puntai un ginocchio a terra ed estrassi la pistola. Con ogni colpo che sparavo, il tuono dell'arma echeggiava sul campo innevato. Credo che i miei stessi amici esitassero, quando sentirono quel
rumore, ma quando si accorsero che si trattava di me, ripresero la carica. Non dovevano certo sapere cosa pensare, ma vedevano che i Demoni, i Mangiatori di uomini, cadevano uno dopo l'altro, e che stavo facendo la mia parte, come avevo promesso. Una pallottola cal. quarantacinque sparata con una cartuccia militare fa più danni di qualsiasi altro tipo di munizione leggera esistente. Un uomo colpito non di striscio da una di quelle pallottole va giù, e resta giù. Sparavo come se stessi sparando a dei bersagli a scomparsa, solo che qui non c'erano «amici» e «nemici». Se indossava una pelle d'orso polare, era un nemico. Il freddo odio che provavo per quei mostri mi ardeva nel cervello. Erano solo bersagli, semplici bersagli. Erano oggetti da buttar giù, da distruggere. Ogni volta che il caricatore era vuoto, lo sostituivo senza neppure starci a pensare. Quando il combattimento finì, avevo ancora mezzo caricatore. Avevo fatto fuori quarantaquattro di quelle carogne. Hrotokar e i suoi uomini avevano pensato agli altri. Sedetti per terra, esausto. Uccidere non è un piacere: è orribile. È qualcosa che si è obbligati a fare per difendere la propria vita, o quella dei propri cari. Non so per quanto tempo rimasi seduto lì, con la pistola in mano, ma infine mi accorsi che qualcuno mi sovrastava. «Gigante Tay'or dai capelli di fuoco», cominciò, per poi interrompersi. Levai lo sguardo. Era Padre Ammazzalupi. Sembrava un po' spaurito. Si schiarì la voce. Mi alzai in piedi, di fronte a lui. Non riuscivo ancora a parlare. Si allontanarono tutti da me, indietreggiando, non per paura, ma in segno di riverenza. Non mi piaceva. «Ora sappiamo chi sei veramente», proseguì l'Ammazzalupi. «Noi ti...». Non poté continuare. Il mondo si mise di nuovo a roteare. Avendo completato i propri esperimenti, Ulglossen si preparò a tornare a... Un momento! C'era un'aberrazione al ventunesimo decimale: qualche forma di vita era stata strappata dal proprio spazio-tempo. Poveraccia. Sulla strada del ritorno, Ulglossen l'avrebbe riportata nella sua giusta era. Più o meno. Dopotutto, era giusto essere cortesi, ma non c'era bisogno di essere eccessivamente condiscendenti verso le forme di vita del passato.
Comunque, Ulglossen era una creatura gentile. Non c'era neve per terra. Era solo nella foresta. Di fronte a me c'era il pino morto su cui Sten Örnfeld aveva dipinto un bersaglio. Mi voltai. La casa di Sten era là, a cinquanta metri di distanza. Mi diressi verso di essa. Non svanì, ma rimase al suo posto: era solida, proprio come doveva essere. Non sapevo come, ma ero tornato nel mio tempo. Raggiunsi la porta. Credo che mi ci vollero due minuti per decidermi ad aprirla. «Sten?», dissi. «Sì? Cosa vuoi? Non eri uscito ad allenarti?». «Ho cambiato idea», dissi. «Sono a corto di munizioni». «Sciocco», disse gentilmente. «Siediti e rilassati. Appena avrò finito, berremo qualcosa». «Va bene, Sten. Va bene». Sedetti sul divano. Sapevo cos'era accaduto. Ricordavo che Hrotokar aveva dettò: «Il suo martello li distruggeva, li uccideva, e poi tornava nella sua mano!». Un errore facilmente spiegabile: ho il martello in mano, si sente un tuono, il nemico cade morto, con la testa sfasciata, e il martello mi ritorna in mano. Così. Quella gente mi aveva abbreviato il nome, da Theodore a Tey'or: perché non togliergli un'altra sillaba? Come Sten aveva suggerito, ora la mia arma ha un nome. Mi sono fatto aiutare da un uomo che conosce le rune nordiche, e un altro uomo ha inciso quelle rune sulla mia pistola, a destra, proprio sopra il grilletto. Il nome che ho fatto incidere è Mjolnir. 4 Proprio quello. L'originale. Titolo originale: Frost and Thunder.
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Mjolnir era il leggendario martello volante di Thor, che dopo Odino era il dio più potente della mitologia teutonica.
JOE HALDEMAN & JACK C. HALDEMAN II LA SCUOLA DELLE STELLE SU INFERNO Alla fine, le ginocchia mi si piegarono e caddi sulla sabbia come un sacco di patate. Mi girava la testa ed avevo sete. Mi sembrava di avere della vecchia pergamena disseccata al posto della pelle. Avrei dato tutto ciò che possedevo per un bicchier d'acqua. Ci avevano detto che Inferno non era uno scherzo, e non ci avevo creduto. Ma adesso, sì. Cercai di ripulirmi la bocca dalla sabbia e mi distesi sulla schiena. Fu un errore: il sole quasi mi accecò. Il mio dolore al fianco non voleva sapere d'andarsene. Avevo difficoltà di respirazione, e la poca aria che riuscivo a mandar giù era calda e secca. Una faccia eclissò il sole per un attimo. Era una faccia di cuoio, piena di rughe, abbellita da una collezione di cicatrici. Incombeva su di me, e si faceva più vicina. La faccia si fermò a dieci centimetri dal mio naso, e il suo alito mi avvolse come un gas tossico. «Merda», gridò. «Non sai fare di meglio che startene lì disteso come una vecchietta? Alza il deretano dalla sabbia e cammina. Avanti, cammina!». Avrei voluto dirgli che non ce la facevo più, che ero esausto, che stavo per morire, ma sapevo che non sarebbe servito a niente. Quella voce avrebbe taciuto solo quando mi sarei rimesso in moto. Odiavo quella voce e lo scimmione a cui apparteneva, e così anche tutti gli altri. Bruno Santino, il sergente di ferro che cercava di portare tutti al punto di rottura, e poi ancora un po' più in là. Avevo l'impressione che mi facesse faticare più degli altri, forse perché ero più alto di lui. La sola maniera di farlo star zitto era di muoversi. Mi rizzai in ginocchio. Ero dolorante da tutte le parti. «Bravo. Forse riusciremo a fare di te un soldato, malgrado tutto». Si voltò di scatto ed andò a rompere le scatole ad un altro studente. Sembrava essersi dimenticato che ero solo uno studente universitario, e che non volevo affatto diventare un soldato. Riuscii in qualche modo a rimettermi in piedi. In lontananza, riuscivo a scorgere il luccichio dei neri pannelli solari sui tetti della caserma. Gli edifici erano in gran parte sottoterra, e solo le loro cime sbucavano tra la sabbia e gli arbusti. Alcuni degli studenti erano già rientrati alla caserma, perché il loro percorso era più breve del mio. Quella mattina, qualcuno aveva avuto la brillante pensata di scalare i diversi livelli di sforzo, in modo che i
più grossi si facessero il percorso più lungo. Gli avrei voluto dire che avrebbe dovuto essere il contrario, invece. Misi avanti un piede. Teneva. Provai l'altro piede, e cominciai lentamente ad arrancare nel deserto. Certo, nessuno ci aveva mai promesso che Inferno sarebbe stato una passeggiata. Era sempre stato il pianeta più inospitale della Confederación, almeno fino alla colonizzazione di Springworld. Quale dei due sia peggio, non saprei, ma credo che Inferno si porterebbe via la palma per un soffio. A volte, quando mi sento stanco e sbattuto, mi sembra quasi di essere a casa, durante la mietitura del volmer. Sono di Springworld, ed è per questo che sono così grosso. Lassù la vita è dura, e così, quando fu colonizzato, gli scienziati della Confederación pasticciarono con un paio di geni, in modo che fossimo tutti grandi e forti. Quelli che riuscirono a sopravvivere diventarono ancor più grandi e forti. Sono un colono dell'ottava generazione, e ne sono orgoglioso. Forse troppo orgoglioso. Avevo scoperto a mie spese che essere grandi e grossi ha degli inconvenienti, quando non ci si trova sul proprio pianeta d'origine. Non mi ero mai mosso prima da Springworld, e probabilmente non l'avrei mai fatto se non avessi vinto una borsa di studio per la Starschool. Universidad de los astros, Starschool: un'università a zonzo tra le stelle. Mi stavo facendo una cultura di prima classe, grazie a degli ottimi insegnanti e all'esperienza diretta, come ora. Il mio fisico fa sì che io dia nell'occhio come una zucca in un campo di fragole. Peso un buon cento chili più della maggior parte degli Infernali, e sono più alto di loro di un metro circa. Ho l'impressione che questo li infastidisca. Di sicuro, sembra che facciano tutto il possibile per rendere schifoso il mio soggiorno sul loro pianeta. Inferno ha una sola industria importante: addestrare le persone alla violenza abituandole ad essere violente. Quasi tutto ciò che si muove sulla faccia di questo pianeta è capace di uccidervi, Infernali compresi. Forse soprattutto gli Infernali. I pianeti per cui la guerra è una cosa seria mandano qui i loro futuri capi militari ad imparare il mestiere. O imparano, o muoiono. Questo è il corso superiore. Per la gente importante, ad esempio i principi, c'è un altro corso. In condizioni controllate, imparano ad uccidere senza farsi uccidere. Se non ce la fanno, non muoiono, ma vengono semplicemente bocciati. Può darsi che perdano la faccia, e magari anche un braccio o due, ma rimangono vivi. E ne escono piuttosto gagliardi, anche. Questo lo chiamano il corso facile.
Naturalmente, c'è un terzo corso per gente come noi, studenti e turisti che vogliono solo farsi un'idea di quel che succede durante una tipica educazione Infernale. Lo chiamano il corso morbido. Questa mattina ci hanno buttati giù dal letto alle tre, e da allora sono passate sedici ore in cui non ci siamo fermati un attimo. Un tizio di nome Bruno continua a gridarmi in faccia che vuole fare di me un soldato. Se mi rimanesse un po' di forza, gli strapperei un braccio. Il corso morbido! Quando finalmente arrivai alla caserma, mi buttai direttamente sulla mia branda. Sembrava fatta di mattoni, ed era troppo corta di almeno un metro, ma per la prima volta non mi lamentai. Mi addormentai ancor prima che la mia testa raggiungesse il cuscino. Avrei potuto dormire dieci anni, ma quando mi svegliarono mi sembrò che fossero passati solo dieci minuti. «Svegliati, Carl», disse da lontano una voce familiare. «Manca solo mezz'ora al rancio». Aprii un occhio. Nella mia bocca c'era un sapore come se un avvoltoio vi avesse fatto il nido, ma, in compenso, la sabbia che avevo tra i denti produceva dei suoni interessanti. Finalmente riuscii a mettere a fuoco la persona che stava sulla branda accanto. Piccoletta e dai capelli neri. Francisco Bolivar. Pancho. Nativo del pianeta Selva e mio compagno di classe in questa crociera. Il mio miglior amico. «Al diavolo il rancio», gemetti. «Dormire. Ecco cosa voglio. Dormire tanto». «Hai bisogno di cibo, amigo», disse Pancho, chinandosi su di me e scuotendomi un braccio. «Il tuo corpo ha bisogno di carburante». Ciò di cui il mio corpo aveva davvero bisogno era un bel cartello di «Fuori servizio». Ogni mio muscolo stava gridando il proprio risentimento per la strapazzata subita durante l'ultima settimana. «Ci penserò», dissi, richiudendo l'occhio. Una voce come carta vetrata risuonò nella camerata. «Ah, il ragazzino di Springworld non può fare a meno del suo sonnellino di bellezza!». Maledetto Bruno. Anche il sapere che dovevamo odiarlo non era una consolazione. Riuscii non so come a mettermi a sedere, e questa volta aprii entrambi gli occhi. «Avevo solo intenzione di farmi una doccia e di mangiare un boccone». Nessuna regola diceva che non si dovesse dormire durante i pasti, ma era considerato un segno di pigrizia, e i lavativi venivano trattati piuttosto male. Il normale trattamento a cui ero soggetto mi bastava e mi avanzava. Seduto com'ero sulla sponda del letto, i miei occhi erano alla stessa al-
tezza di quelli di Bruno. Per essere un Infernale era piuttosto alto, ma lo superavo comunque di tre quarti di metro, e pesavo una ottantina di chili più di lui. Anche così, non avrei voluto trovarmelo di fronte come avversario. Gli Infernali sono tosti. Ingoiai tutte le cose che avrei voluto dirgli circa i suoi genitori e mi voltai verso Pancho. «A proposito di doccia, amigo: sei pronto?». Pancho prese due asciugamani e me ne tirò uno. «Andiamo», disse. La doccia aveva due temperature: fredda e gelida. L'acqua riciclata puzzava di stantio, a differenza dell'acqua a bordo della Starschool. Avevano dei riciclatori inefficienti, o lo facevano apposta? Su Inferno facevano un mucchio di cose antipatiche per «costruirti il carattere». Eravamo in ritardo, ma la mensa era ancora affollata e rumorosa. Tenendo in equilibrio il vassoio, diedi un'occhiata in giro e vidi un paio di posti liberi. Mi feci strada tra la calca, seguito da Pancho. Al nostro tavolo c'erano già altri tre studenti: B'oosa, l'imponente nero nurodesiano, Alegria, una ragazza piccola ed attraente che veniva da Selva, e Miko Riley, del quale meno si parla, meglio è. «Ragazzi, vi è piaciuta la nostra stimolante passeggiata mattutina?», domandò B'oosa mentre posavo il vassoio. «Sta scherzando», dissi. «Sveglia alle tre dopo aver fatto l'ultimo turno di guardia. Ginnastica fino all'alba. Trenta chilometri di marcia nella sabbia. Altroché stimolante, era un tentato omicidio!». B'oosa rise, con quella sua risata semplice e spontanea come acqua di fonte. «Quando sono nel deserto, mi sembra d'essere a casa», disse. «Mi è piaciuto potermi sgranchire le gambe. Persino in una nave grande come la Starschool dopo un po' ci si sente anchilosati». Dopo di me, B'oosa è lo studente più grosso che ci sia a bordo: è un po' più basso di me, e pesa quasi sessantacinque chili di meno. Quella mattina gli era stato assegnato il mio stesso percorso. Ricordo che, quando mi aveva sorpassato, non aveva nemmeno il fiato corto. Certo, lui è un ricòn, appartiene alle classi superiori, e deve avere una decina d'anni più di me, anche se non gli ho mai chiesto che età abbia. Non so dove prenda tutta quell'energia. «Credevo di essere in forma, prima che ci facessero correre», dissi. «Se questo è il corso morbido, Dio mi salvi dal corso superiore». «Ho sentito dire che è piuttosto duro», disse Pancho, tra un boccone e l'altro di un pallido cibo non identificabile.
«Su questo pianeta costruiscono soldati di ferro», disse Alegria. «È il loro unico prodotto esportabile». Annuii. In tutta la galassia, gli Infernali avevano la fama di essere combattenti di prima classe. Una volta ne avevo conosciuto uno, sulla Terra: era la persona più tosta che avessi mai conosciuta. Gli unici a poter competere con gli Infernali erano quelli che avevano superato il loro corso d'addestramento. Il corso superiore, intendo. «Ci attende una lunga serata», disse Miko. «Esercitazioni in tenuta da combattimento completa». Oh, no. Al mio ritorno, mi ero scordato di dare un'occhiata alla bacheca. Cos'altro non sapevo? Detestavo andarmene in giro con lo zaino tattico sulla schiena, ma non volevo ammetterlo di fronte agli altri. Di fronte a Miko, specialmente. «Beh, sempre meglio che correre sotto il sole», dissi, anche se non ne ero molto convinto. «Non ci scommetterei», disse B'oosa, alzandosi. «Ci vediamo». Posò il vassoio sull'apposito nastro rotante. Mi immaginai che al capo opposto del nastro ci fosse un mostro che divorava tutto il cibo avanzato. Se c'era, doveva avere uno stomaco in lega di titanio. Contemplai tristemente il mio vassoio, su cui stavano tre mucchietti di una sostanza grigia ed amorfa. Ci avevano detto che era nutriente, e che ci avrebbe fatti sentire pieni d'energia. Il suo sapore era ancora peggio del suo aspetto. Pancho stava mangiando a quattro palmenti. Se gli piaceva tanto, mi domandai cosa mangiasse di solito su Selva, ma non avevo troppa voglia di immaginarmelo. «Almeno, questa sera farà più fresco», disse Alegria. Pancho annuì. «Ma gli zaini tattici sono pesanti», disse. «Sembra che pesino una tonnellata», disse Miko. «È come portarsi un orso sulla schiena». «Pesano solo trentasette chili e mezzo», dissi, e subito desiderai d'esser stato zitto. «Capisco che per te non sia molto», disse Miko, «ma noialtri abbiamo solo dei corpi normali». Sembrava che scherzassimo, ma non scherzavamo. Miko e io non eravamo esattamente amici. Per lui ero un rivale, e lui per me era un rompiscatole. Alegria era arrivata sulla Starschool a Selva, il pianeta prima del mio.
Eravamo diventati buoni amici ma, a dispetto della sua statura, nutrivo una mezza speranza semi-inconscia che un giorno potessimo essere qualcosa di più l'uno per l'altra. Miko si unì a noi sulla Terra, e Alegria lo prese subito in simpatia: le piaceva qualunque cosa avesse a che fare con quel dannato cumulo di anticaglie che è la Terra. La mia antipatia nei suoi confronti era stata forse un po' troppo esplicita, e Alegria era stata costretta a prendere le sue difese. Un giorno, quel nanerottolo impudente mi aveva sfidato in palestra. Fu lui a cominciare, e non potei tirarmi indietro. Feci solo ciò che dovevo fare. Bastò un pezzetto di plasticarne per rimetterlo a posto. Alegria era furibonda, e anche Pancho. E anch'io. Solo Miko era soddisfatto: aveva avuto quel che voleva. Alegria si alzò, e raccolse il proprio vassoio. «Ho finito», disse, e si allontanò. «Miko aveva ancora del cibo nel vassoio, ma la segui lo stesso. «Cos'ho fatto di male?», domandai a Pancho. Si limitò a scuotere il capo, e finimmo di mangiare in silenzio. Arrivammo in ritardo al rapporto, e dovemmo restare in fondo, sull'attenti. L'ufficiale Infernale che stava parlando ci indirizzò uno sguardo di stanco disprezzo. «Inferno non è posto per tipi delicati», disse, «e voi studenti siete tipi particolarmente delicati. Non abbiamo molto tempo per cambiarvi, ma ci proveremo. Siete qui per imparare, e noi siamo qui ad insegnarvi qualche cosetta sulla vita e come conservarsela. Non sarà facile. Quello che abbiamo fatto fino ad ora non è che un gioco da ragazzi a confronti di ciò che vi aspetta. Il nostro obiettivo è semplice: vogliamo portare ciascuno di voi al proprio punto di rottura individuale, e poi spingerlo oltre di esso. Ci odierete, per questo. Più tardi, forse, in qualche occasione importante della vostra vita, ci ringrazierete. State attenti. Può darsi che nelle prossime due settimane riusciate ad imparare qualcosa». Si guardò attorno, si rilassò un poco e si chinò sulla cattedra. «Suppongo che a voi studenti il deserto non piaccia molto. Avete torto. Può darsi che non sia troppo ospitale, ma è sicuro. Non ci sono molti animali pericolosi, nel deserto. Oh, ce ne sono, certo, ma non troppi. Quelli veramente pericolosi sono grossi, e quando attaccano li si può vedere da lontano». Ci avevano parlato di queste creature, ma non ne avevo mai viste. Comunque, soltanto sentir parlare delle lucertole di sabbia mi era bastato: speravo di non doverne mai incontrare una.
«Di solito, alloggiamo i turisti e la gente come voi nel deserto, in caserme come questa. In questo modo, non ne perdiamo troppi. Le reclute passano di solito i primi giorni a Panoplia. Vi trasferirete là questa sera, in tenuta da combattimento completa. È un po' più pericoloso che qui, ma credo che ce la farete. Partenza alle diciotto precise. Vi affido al sergente Santino, che vi darà il riposo. È tutto». Si voltò ed uscì velocemente dalla sala. Bruno si fece avanti. «Okay, tesorucci; ora che i vostri deretani si sono riposati abbastanza, dedicheremo un po' di cure anche al resto dei vostri corpi. Sarà una lunga
notte. Appena usciti, voglio che facciate venti giri di corsa attorno alla caserma. Gli ultimi dieci dovranno fare altri venti giri. Muovetevi!». Avevo almeno la fortuna d'essere vicino all'uscita: fui il primo a schizzar fuori. Vertigini. Il deserto si stava velocemente allontanando da sotto i miei piedi. Mi tenni stretto alle cinghie e chiusi gli occhi. B'oosa rise. Erano le diciotto spaccate. Eravamo in tre, a bordo di uno dei più grossi dirigibili usati per il nostro trasferimento. Godevo di un buon panorama, anche troppo buono. I miei due metri e mezzo non ci stavano in uno dei normali seggiolini, e così mi avevano messo davanti, dove c'era un po' di posto per le mie gambe. B'oosa mi sedeva accanto, e vicino a lui c'era Bruno. La caserma sembrava ormai nient'altro che una macchia di specchietti neri sparsi, che presto sparirono. Oltrepassammo una catena di montagne e puntammo sul mare. Panoplia era un'isola piuttosto lontana dalla costa, e questo era uno dei fattori che la rendevano «sicura». L'altro fattore era che un battaglione di Infernali la setacciava periodicamente da un capo all'altro. Si diceva di essa che fosse sicura quanto ogni altro luogo non desertico di Inferno, ma questo non mi rassicurava granché. Il viaggio fu un po' più lungo del previsto. Fummo costretti ad evitare con un lungo giro la costa meridionale del Purgatorio, perché era in corso una guerra. Una guerra interplanetaria. Credo che a questo punto ci voglia una breve spiegazione. In realtà, la Confederación proibisce le guerre interplanetarie. Ciò significa che non ci sono astronavi che si danno battaglia nello spazio e che bombardano i pianeti. Ci provò una volta un pianeta chiamato Ottobre. Ottobre non esiste più: la Confederación intervenne e lo sterilizzò completamente, fece piazza pulita. Da quel giorno in poi, chi aveva simili velleità doveva pensarci due volte. Non che ne abbia mai visto la ragione, peraltro: l'interscambio monetario tra i pianeti è troppo esiguo per giustificare una guerra. Di tanto in tanto, due pianeti arrivano ai ferri corti, e allora vengono nel Purgatorio per sistemare i loro affari. Il Purgatorio è un continente piuttosto grosso che gli Infernali noleggiano ai contendenti che non vogliono mettere in disordine i propri pianeti d'origine. Entrambe le parti versano una cauzione, e poi cominciano a darsele secondo le regole. Le regole sono
semplici: è proibito usare armi più potenti di una bomba nucleare Classe 3 a bassa potenza. A parte questo limite, è ammesso l'impiego di qualsiasi altra arma. Dopo la fine della guerra, parte della cauzione viene spesa per rimettere in sesto il Purgatorio, ma gran parte di essa finisce nelle tasche degli Infernali. Alla Confederación non importa cosa la gente faccia sul proprio pianeta, e così c'è sempre una lunga lista d'attesa per i servizi offerti da Inferno. Nessun candidato da Springworld, naturalmente: combattiamo già anche troppo contro il nostro stesso pianeta, e non ci rimane tempo per nient'altro. E poi, noi non ci teniamo ad imporre a tutti un sistema rigido: se qualcosa non funziona, non facciamo altro che sperimentare tutte le possibili alternative finché non troviamo quella giusta. Cercare di «provare» che un sistema è giusto e un altro è sbagliato è uno spreco di energie e risorse. Un sistema funziona o non funziona. Mi sembra una cosa molto semplice. (Non c'è mai stata una guerra su Inferno, a parte quelle d'importazione. Strano. Dev'esserci sotto qualcosa). Scendemmo bassi sull'acqua, ad appena un metro dalla spuma delle onde, e poi la costa di Panoplia fu davanti a noi. L'isola era circondata da una stretta spiaggia sabbiosa, al di là della quale cominciava subito la muraglia impenetrabile della giungla. Entrammo in una piccola baia e scendemmo su una banchina d'atterraggio. Accanto ad essa, in uno spiazzo, c'era un gruppo di edifici. Scendemmo dai dirigibili e raggiungemmo le nostre rispettive unità d'addestramento, U.A. le chiamavano. Deliziose, quelle abbreviazioni. La nostra comprendeva il numero massimo di persone, cinque: B'oosa, Pancho, Alegria, Miko ed io. Attorno a noi, erano tutti radunati in piccoli gruppi. Un Infernale si avvicinò a noi. Sedemmo sull'erba. Dopo tutto il vento che avevo preso a bordo del dirigibile, le orecchie mi fischiavano ancora. «Mi chiamo Vito Fargnoli», disse l'Infernale, «ma di solito mi chiamano Zanzara. Chiamatemi così anche voi». Mentre parlava, estrasse un coltello dalla cintura e cominciò a passarselo da mano a mano. «Non so cosa vi abbiano raccontato di questo posto, ma state sicuri che non è certo un ospizio per vecchi. Forse un po' meno pericoloso del resto, ma questo non significa niente. Affronterete una versione annacquata della prova di sopravvivenza attraverso cui passano tutte le reclute. Per voi sarà più facile, ma non troppo. Abbiamo setacciato l'isola un paio di settimane fa, ma non si può mai dire. Può darsi che ci siamo lasciati scappare uno o due suc-
chioni». I succhioni erano animali rotondi, grandi quanto il palmo della mia mano, che si lasciavano cadere dai rami degli alberi. I loro corpi erano molli, ma il loro scheletro era formato da spine aguzze. Una volta caduti addosso alla vittima, aderivano ad essa grazie alle spine, e formavano una pseudobocca sopra il punto in cui l'avevano ferita. Se attaccavano in tanti, si rischiava di finire dissanguati, e infatti, avevano la tendenza a riunirsi in gruppi. «Non sono gli animali grandi, quelli davvero pericolosi?», domandò Miko. L'Infernale sputò sull'erba. «Non necessariamente», disse. «La cosa più grande su quest'isola è una bestia che chiamiamo spaccatutto. È alta sei metri, ed è tutta denti: tre file di denti, ma non fermatevi a contarli, o saranno l'ultima cosa che vedrete. Ad ogni modo, se uno di essi vi si sta avvicinando lo saprete un paio di secondi prima: non hanno nemici naturali, e non fanno altro che gironzolare, facendo un mucchio di baccano. Basta correre nella direzione opposta. Una vibromazza li stende in un secondo, ma un fulminatore è meglio, perché non c'è bisogno d'avvicinarsi troppo. Dovete soprattutto stare attenti agli animali piccoli, come i pipistrelli e le anguille di terra. Se seguirete il sentiero, non dovreste mettervi nei guai». «Il sentiero?», domandai. «Quale sentiero?». «Benedetti studenti», disse. «Siete proprio inesperti, eh? È molto semplice: vi portiamo in un posto, vi lasciamo lì e voi tornate qui seguendo il sentiero. I sentieri sono sicuri, ancora più sicuri del resto dell'isola. Seguite il sentiero, guardate dove mettete i piedi e ritornerete qui senza problemi. Credo che anche uno studente riesca ad afferrare questo concetto». Tolse dal proprio zaino una piccola scatola cubica di dieci centimetri di lato, e la posò di fronte a sé. «Questa è una trasmittente», disse. «Serve a trasmetterci un segnale di soccorso e a farci individuare la vostra posizione. Dovete soltanto premere questo piccolo pulsante. Quando si accende la luce rossa state trasmettendo, e quando si accende la verde significa che vi riceviamo e che stiamo venendo a prendervi. Uno di voi la prenda, e cerchi di non perderla». Fu B'oosa a prenderla. «Credo che conosciate già gli zaini tattici, non è vero?», disse l'Infernale. Annuimmo tutti. Dire che li conoscevamo era dir poco: ce li eravamo portati in spalla ogni santo giorno! Ormai, senza uno zaino addosso mi sarei sentito quasi nudo.
«Avete una razione standard di viveri disidratati, ma non credo che ne avrete bisogno. Non dovreste metterci più di un giorno. Assegneremo al vostro gruppo due vibromazze e un fulminatore, e per favore cercate di non farvi male tra di voi». Cercai di nascondere un sorriso. Sapevo usare piuttosto bene una vibromazza, e così pure B'oosa e Pancho. Da quel lato non c'era alcun problema. Nella peggiore delle ipotesi, B'oosa avrebbe potuto farsi un bastone con un ramo. Con un bastone in mano, B'oosa è invincibile. Scommetto che potrebbe affrontare anche uno spaccatutto. L'Infernale stava ancora giocherellando col coltello. Rovesciò la mano e lo lanciò, mandandolo a conficcarsi a qualche centimetro dal mio piede sinistro. «Tu», disse, guardandomi. «Da dove vieni?». «Springworld», dissi. «Ne ho sentito parlare. Dicono che sia un pianeta tosto. È vero?». Annuii, ed estrassi il coltello dal terreno. Era vero. Per riuscire a coltivare quel pianeta bisognava dare tutto di sé, e a volte anche qualcosa di più. In tutta la mia vita non avevo mai avuto un attimo di respiro. «Beh, da queste parti non basta essere tosti». Indicò col capo la giungla. «Per rimanere vivi bisogna anche essere dritti». Lanciò un'occhiata al proprio digitale. «Parlare con me non vi renderà più dritti. Andiamo». Gli porsi il suo coltello. Avrei voluto tirarglielo, ma avrei potuto sbagliar mira. Avrei potuto farlo arrabbiare. Mai fare arrabbiare un Infernale. Il piccolo dirigibile si alzò, sfiorando le cime degli alberi. Quando scomparve, cominciammo a sentire i rumori della giungla. Non erano molto forti, ma c'era un sottofondo insistente di fruscii e di passi furtivi. Qualche volta risuonava un ruggito, o uno strillo. Stavamo molto vicini l'uno all'altro. Dalla radura si dipartivano quattro sentieri. «Da che parte andiamo?», domandai. «Il dirigibile ha fatto tanti giri che ho perso l'orientamento». «Dobbiamo trovare dell'acqua», disse B'oosa. «Perché?», domandò Pancho. «Perché un corso d'acqua ci condurrà alla costa, e una volta sulla costa sarà facile trovare il campo». Mi sembrava un'ottima idea. Ci dividemmo in due gruppi per esplorare i vari sentieri. Pancho ed Alegria scoprirono che accanto ad uno di essi scorreva un torrente. Cominciammo a seguirlo.
Sulle prime, non fu difficile: il sentiero era ben delineato, e abbastanza largo da permettere il passaggio di due persone affiancate. La passeggiata non durò molto a lungo. Presto la giungla si chiuse attorno a noi, oscurando il cielo e stringendoci ai fianchi. Era quasi buio, a causa del tetto di vegetazione sulle nostre teste, e nell'aria aleggiava il fetore delle piante in decomposizione. «È sicuro che sia questa la direzione giusta?», domandai a B'oosa. Era dietro di me. Stavamo camminando lentamente, in fila indiana, lungo il sentiero. «Non esattamente, ma quasi», disse. «Il sole stava tramontando nella giusta direzione, più o meno. Quando le stelle spunteranno, farò il punto». «Non mi dirà che si è studiato le carte stellari di questo pianeta!», dissi. «Ma certo», disse. «E tu no?». Rise, senza attendere l'ovvia risposta. «Giù!», gridò Pancho, che era alla retroguardia. Toccai il terreno e mi girai sulla schiena, con la vibromazza miracolosamente già in pugno. Ma era già tutto finito. A circa un metro sopra la mia testa, vidi sparire fulmineamente la coda rosso-gialla di un tagliateste. Presi a sudare freddo. C'era mancato poco. Un tagliateste è una specie d'incrocio tra un serpente e un pipistrello, un lungo corpo stretto con delle ali come di cuoio. Il suo intero corpo è ricoperto di scaglie affilate come rasoi, scaglie che si rizzano come i peli di un gatto quando l'animale attacca. Se un taglia-teste vi sfiora una spalla, dite addio al braccio. Mi rimisi in piedi, tremante. B'oosa stava guardando nella boscaglia, Verso il punto in cui era scomparso il tagliateste. Avrei giurato che stesse sorridendo. «Immagino che se lo siano lasciato sfuggire», disse Miko. «Chi lo sa?», disse B'oosa. Alegria si alzò. «Di cosa state parlando?», domandò. «Quando l'isola viene setacciata, molti animali vengono uccisi, ma non tutti. Alcuni riescono a nascondersi, altri vengono semplicemente disattivati». «Disattivati?». «Le scaglie di quel tagliateste erano state limate. Se ti avesse colpita, non ti avrebbe fatto più di qualche contusione. Al massimo, ti avrebbe spaventata a morte. Ci sono molti animali qui in giro a cui sono state asportate le zanne e gli artigli». «Come fa a saperlo?», domandai.
«Le mie ricerche su questo pianeta non si sono limitate allo studio delle carte stellari, e nemmeno ai libri; L'altra notte, mentre voi montavate la guardia, ho bevuto un paio di birre con gli istruttori, e Bruno mi ha dato questa interessante notizia. Non gli piace che gli studenti si facciano ammazzare, anche se sono assicurati contro questo rischio». Bruno. «Il suo amico le ha anche detto quale sentiero dobbiamo seguire?». B'oosa si limitò a sorridere. «Sarà meglio che ci rimettiamo in marcia. Presto sarà buio, e non ci conviene montare il campo alla luce delle stelle». Ci rialzammo tutti, sentendoci sciocchi e spaventati, e continuammo a seguire ciò che ancora si vedeva del sentiero. Ogni tanto dovevamo sostare per tagliare le liane ed i cespugli che ci bloccavano il passaggio. La vegetazione cresce alla svelta nel clima umido della giungla. Vedemmo da lontano un altro tagliateste; non riuscii a distinguere se gli avessero limato o meno le scaglie. Proprio mentre pensavo che il sentiero stesse per cancellarsi, voltò bruscamente a sinistra e ci trovammo in una radura. Sembrava un buon posto dove montare il campo. Non riuscimmo a vedere da che parte il sentiero riprendesse, ma stava calando l'oscurità e decidemmo che l'avremmo cercato il mattino dopo. Alegria e Pancho gonfiarono la tenda, mentre Miko cominciò a preparare la cena. B'oosa, Pancho e io ispezionammo il perimetro del campo, e raccogliemmo legna da ardere. Sembrava tutto tranquillo, almeno per il momento. Ammucchiammo la legna ed accendemmo un paio di incendiari per fare il fuoco. A cena mangiammo delle razioni insapori, ma commestibili. Non sapevamo se il fuoco avrebbe attirato o spaventato gli animali, ma almeno ci dava un senso di sicurezza. Sedevamo attorno ad esso, e la sua luce mutevole creava un gioco di ombre sui nostri volti. Una specie di rana cominciò a gracidare, e presto altre mille si unirono ad essa, o almeno così sembrava. Il loro gracidio serviva almeno a coprire rumori più inquietanti. B'oosa infilò Una mano nel proprio zainetto e tirò fuori un piccolo strumento musicale. Credo venisse dalla Nurodesia, perché non ne avevo mai visto uno simile. Ci soffiò dentro, e il suono che ne scaturì era dolce e vibrante. Suonò a lungo, ed io lo ascoltai, appoggiato ai gomiti. Questo era un aspetto inedito della personalità di B'oosa. Il fuoco si spense, e vi feci rotolare sopra un altro pezzo di legno. Pancho e Miko si coricarono. Si stava facendo tardi.
«Vado a sostituire Alegria», dissi. Avevamo tirato a sorte i turni di guardia, e a me era capitato il secondo. B'oosa annuì, rimescolando i carboni con un bastoncino. «Tra poco mi coricherò anch'io». Raggiunsi il margine della radura. Alegria era seduta su un tronco. «Tutto tace?», le domandai. «No», disse, «non è silenzio, ma un senso di attesa. Non credo che questo posto possa mai essere silenzioso». «Credo che con il tempo ci si abitui», dissi. «Col tempo ci si abitua a tutto», disse lei. «Ma questo non significa che ti debba piacere». «Ti innervosisce?». «La giungla? No». «E io?». «E tu cosa?», domandò. «Io ti innervosisco?». «Perché me lo domandi?». Si volse verso di me. Metà della sua faccia era illuminata dal fuoco, l'altra metà rimaneva nell'ombra. «Avevo l'impressione che...». Non sapevo bene che parole usare. «Voglio dire, da quando Miko si è unito a noi...». «Non ricominciamo, Carl. Siete entrambi miei amici, e basta». «Ma io credevo che...». «Il tuo guaio è che pensi troppo. Grande e grosso come sei, ti fai mettere al tappeto dalle piccolezze». Mi porse il fulminatore. «Vado a dormire. Se qualcosa ti spaventa, grida». «Ma Alegria...». «Ma cosa, Carl? Cosa?». Aveva il capo fieramente levato, e sembrava più alta della sua statura. «Nulla», dissi. «Ci vediamo domattina». Ritornò al campo, senza dirmi niente. Mi sentivo sciocco. Non so perché, ma ogni volta che sono con lei non ne azzecco una. Con tutti gli altri mi sento a mio agio, ma vicino a lei il cervello mi si annebbia e finisco col fare la figura del cretino. Vidi B'oosa ed Alegria alimentare il fuoco ed andare a dormire. Sentendomi nervoso, mi misi in spalla il fulminatore e passeggiai lungo il perimetro del campo. Non servi a molto, così ripresi la passeggiata in senso opposto. Per quanto ne sapessi, nulla si muoveva attorno al campo. Si sentivano grugniti e fruscii, ma per la maggior parte doveva trattarsi delle rane. Tutto il resto sembrava molto lontano. Vidi passare nel cielo dei pipi-
strelli, ma non c'era da temere, a meno che non si avvicinassero troppo. Mi sedetti su una roccia. Stranamente, cominciai a pensare a Springworld. Quando avevo vinto la borsa di studio, mi ero sentito il più felice degli uomini. Avevo passato tutta la mia vita tra le rocce, aiutando la mia famiglia a mietere le piante di volmer. Tirava sempre un vento incredibile, e, quanto alle bufere invernali, meglio non esserci. Non eravamo mai stati ricchi, ma quand'ero un ragazzino non lo sapevo. Credevo che tutti vivessero come noi. Quando diventai più grande capii che mi sbagliavo, ma ad ogni modo sembrava che non ci si potesse fare niente: i poveri rimangono poveri. Questa è una realtà, specialmente su Springworld. Non c'è niente da fare. Quando ero davvero piccolo, credevo che mio padre fosse onnipotente. A nove anni mi accorsi che aveva colpe e difetti. A undici mi accorsi che era semplicemente un uomo che si trovava in una situazione disperata, e che cercava di fare il meglio che poteva. A tredici mi accorsi che invecchiando sarei diventato come lui. A sedici sostenni gli esami, per cercare di sfuggire al destino che mi aspettava. Era la mia sola alternativa. Non so come, ma funzionò. Ero il primo della mia famiglia ad avere la possibilità di farsi una vera cultura. In otto generazioni di Boks, ero il primo a sfuggire a una vita dominata dai raccolti, dai capricci di un pianeta ostile e dall'avidità dei mercanti che ci avevano in pugno. Ero la speranza della mia famiglia. I loro sogni erano riposti in me. Eppure, a volte pensavo che fosse tutto inutile: non sapevo e non avrei mai saputo nulla. Seduto sulla roccia, riuscivo appena a scorgere qualche stella oltre le cime degli alberi. Mi sentivo davvero lontano da casa. Mi si era addormentata una gamba. La mossi finché non riprese la circolazione. Ascoltando attentamente i rumori della notte, passeggiai di nuovo attorno alla radura. Forse Alegria aveva ragione. Forse pensavo davvero troppo. Continuai a camminare, e ben presto Miko si unì a me. Gli toccava il turno seguente. Gli diedi il fulminatore e gli dissi dove avevo lasciato la lanterna. Fino ad allora, non ne avevamo avuto bisogno. Misi un altro paio di tronchi sul fuoco, poi entrai nella tenda e strisciai nel mio sacco. Alegria era nel sacco accanto al mio, a mille anni luce di di-
stanza. Mi addormentai subito, e mi persi in sogni inquietanti. Mi svegliai quando qualcuno mi calpestò una spalla. Era B'oosa, che stava guardando fuori dall'apertura della tenda. Feci per alzarmi. Si voltò e si portò un dito alle labbra. «Cosa c'è?», sussurrai. «Guai», disse. «Guai grossi». Uscii dal sacco a pelo e strisciai vicino a lui. Guardando fuori, riuscii a vedere cinque o sei sagome ai margini della radura. Miko giaceva accanto a un tronco, addormentato, morto o svenuto. «Cosa sono?», domandai. «Non riesco a veder bene». «Lumache assassine», disse semplicemente. Era davvero un guaio grosso. Le chiamavano lumache perché avevano un guscio sul dorso, ma la somiglianza si fermava lì. Erano tutt'altro che lente: si muovevano veloci su mille piccole zampe. Attorno al guscio avevano molti grossi tentacoli, che secernevano un acido velenoso. Anche se il veleno non vi uccideva, l'acido vi faceva delle cose terribili sulla pelle. «Sono-ehm-disattivate?», domandai. «Ne dubito. Prova a respirare a fondo». Percepii, netto ed inconfondibile, l'odore mordente dell'acido idrocloridrico. Una delle creature si stava muovendo verso Miko. Procedeva lentamente, mentre i suoi tentacoli si agitavano incessantemente nell'aria. «Cosa facciamo?», domandai. «Svegliamo gli altri». «Siamo già svegli», disse Alegria, dietro di me. «Dobbiamo mettere le mani sul fulminatore», disse B'oosa. «Solo così potremo respingerle. Finché non si muove, Miko è al sicuro. Forse è solo addormentato». Forse, ma preferivamo non pensare alle altre possibilità. «Chi ha gli incendiari?», domandò. «Io», rispose Pancho. «Ne ho quasi una dozzina». «Usandoli, dovremmo riuscire a creare un diversivo. Se li butti nel fuoco, forse rimarranno abbastanza confuse da permetterci di raggiungere il fulminatore». «Usarli tutti?», domandò Pancho. «Ma faranno...». «Lo so cosa faranno», disse B'oosa. «Faranno un mucchio di chiasso, un mucchio di luce e un mucchio di fuoco. Tutto a nostro vantaggio, però». «Chi va a prendere il fulminatore?», domandai. «Tutti. Quando Pancho getterà gli incendiari nel fuoco, correrò fuori della tenda, e voi mi seguirete. Carl, tu ed Alegria terrete le vibromazze. Non
usatele se non in caso di estrema necessità: ricordate che se siete abbastanza vicini da colpirle con una vibromazza, loro sono abbastanza vicine da colpirvi coi tentacoli. Non cercate di fare prodezze. Una volta preso il fulminatore, ce la caveremo senza problemi. Pancho è disarmato, cercate di tenerlo in mezzo a voi». «Ma anche lei è disarmato», disse Pancho. B'oosa si curvò a prendere un bastone di dimensioni rispettabili e ce lo mostrò. «L'ho tagliato l'altra sera». «E la lumaca accanto a Miko?», domandò Alegria. «Dovremo pensarci noi», disse B'oosa. «Spero che l'esplosione la distragga. Se cercassimo d'avvertirlo, Miko si muoverebbe d'istinto, e la lumaca gli sarebbe addosso in un secondo». «Ecco gli incendiari», disse Pancho. Aveva già impugnato una delle vibromazze. Alegria teneva la seconda. «Mettiti davanti», disse B'oosa. «Quando sei pronto, vai. Noi ti seguiremo». Pancho balzò fuori della tenda, correndo basso, e noi gli tenemmo dietro. Ero appena riuscito a districarmi dalla tenda, quando vidi che gli incendiari stavano ricadendo verso il fuoco. Mi gettai a terra: lo spostamento d'aria mi sollevò dal suolo e mi rovesciò. Raccolsi la vibromazza e mi rimisi faticosamente in piedi. Le creature sembravano essere confuse per l'esplosione e per l'improvvisa varietà di prede potenziali che si presentava loro. Si muovevano avanti e indietro, indecise. Alegria e B'oosa erano a quattro zampe, tra il fuoco ed una delle lumache assassine. Mi diressi verso di essa. La vibromazza non sarebbe probabilmente servita a niente contro il guscio. Mi misi a gridare, e la bestia girò su se stessa con una velocità sorprendente. Mi attaccò, digrignando le mascelle ed agitando i tentacoli. Quando si trovò a pochi metri da me, accesi la vibromazza e la lanciai di sorpresa proprio davanti ad essa. Strisciò sull'arma e lanciò un terribile ululato gorgogliante. Si accasciò in avanti ed atterrò sul dorso, mentre le sue numerose zampe si contorcevano spasmodicamente. Recuperai con circospezione la vibromazza e mi guardai attorno. Ora Miko era in piedi, ma una lumaca assassina lo separava dal fulminatore. B'oosa se ne stava tenendo a bada un'altra col bastone, proteggendo anche Alegria, che stava dietro di lui. Rimasi indeciso per un secondo di troppo: i tentacoli della lumaca rovesciata si stavano agitando violentemente, ed uno di essi mi sfiorò la mano.
Fu come essere colpito da una torcia accesa. Il dolore mi fece schizzar via, e lasciai cadere l'arma. Pancho mi raggiunse e raccolse la vibromazza, poi attaccò la lumaca che ci impediva di raggiungere il fulminatore. Cominciò col girarle attorno cautamente, ma si avvicinò troppo: un tentacolo sibilò nell'aria e si attorcigliò attorno alla sua gamba sinistra. Corsi in suo aiuto, ma se la stava cavando benissimo: quando il mostro cominciò a tirarlo verso di sé per finirlo, Pancho lo colpì sul muso. La lumaca reagì con la solita capriola. Pancho rotolò lontano da essa, tenendosi la gamba e gemendo. Raccolsi il fulminatore e sparai cinque o sei colpi in rapida successione. Improvvisamente tornò la calma, a parte il crepitio del fuoco e le imprecazioni che Pancho lanciava con una voce stranamente monotona. Alegria ed io ci chinammo su di lui. L'acido gli aveva corroso la stoffa dei pantaloni, e stava cominciando a fare lo stesso sulla sua gamba. B'oosa mi spinse da parte e trasse un corredo di pronto soccorso dal proprio zainetto. Strappò la gamba dei pantaloni di Pancho fino al ginocchio, e poi gli applicò una pomata. Aveva l'aria di sapere quel che stava facendo. Mi accorsi che B'oosa era il solo ad avere addosso il proprio zainetto. Guardai automaticamente la tenda, dov'era rimasto il mio. Della tenda non rimanevano che alcuni pali anneriti ed un po' di plastica fumante. B'oosa applicò un po' di pomata anche sulla mia mano. La pomata mi diede una sensazione di frescura e mi tolse il bruciore, ma mi lasciò un sordo dolore pulsante. Potevo immaginare come si sentisse Pancho. Miko sedette accanto a me. «Cos'è successo?», domandò, «È proprio quello che avevo intenzione di domandarti», dissi bruscamente. «Devo essermi...», disse. «Voglio dire che. non le ho viste arrivare». «Ciò che vuoi dire è che ti eri addormentato», dissi. «Credo di sì». «Grazie a te, avrebbero potuto ammazzarci tutti. Tutti!». Stavo pensando più a Pancho che a me. Tutto ad un tratto mi sentii pieno di rabbia e scoramento. «È stata una dannata idiozia, una...». «Carl», disse Alegria, «comportarsi così non ci servirà a niente». «È vero», disse B'oosa. «Sarà meglio chiamare aiuto». Prese dallo zainetto la piccola trasmittente. Premette il pulsante, ma la luce rossa non s'accese, e neppure quella verde. Premette più volte il pulsante. Niente. «Sembra che dovremo cavarcela da soli», disse. «Non credo che Bruno te ne avesse parlato», dissi.
Scosse il capo. «Come ti senti, Pancho?». «Fa male, amigo, ma ce la farò». «Partiremo all'alba», disse B'oosa. «Non dovremmo essere troppo distanti». Radunammo quel po' di equipaggiamento che non era bruciato, e non era molto. B'oosa e Miko erano i soli ad avere ancora gli zaini tattici. Tutto quanto era dentro alla tenda era andato perduto. Restammo seduti per il resto della nottata. Nessuno riuscì a dormire. Ogni volta che la mano cominciava a dolermi, pensavo a Pancho ed ignoravo il dolore. Lui sì, che doveva stare davvero male. Evitai Miko, anche se B'oosa ed Alegria gli avevano parlato a lungo. Può anche darsi che non ragionassi razionalmente, ma per me la colpa di tutto era sua. All'alba, con i pali della tenda e delle liane costruimmo un'amaca per trasportare Pancho, che non era assolutamente in grado di camminare. Miko e B'oosa trovarono il punto in cui il sentiero si dipartiva dalla radura. Il fuoco si era spento, e la radura non era ormai che un pezzo di terra bruciacchiata. Le lumache non erano morte, ma non sarebbero riuscite a muoversi per un pezzo. Speravo che qualche animale passasse di lì e le divorasse. Riunimmo il poco cibo che avevamo, ne mangiammo un po' alla prima colazione e ci mettemmo in marcia. La gamba di Pancho s'era infettata. Quando veniva sballottato gli faceva male, ed attorno ad essa erano comparse delle brutte striature rosse. Aveva bisogno al più presto di cure mediche adeguate. Quanto alla mia mano, continuava a pulsare e stava cominciando a gonfiarsi. Ci dividemmo i compiti. Io stavo davanti alla barella, e Miko di dietro. Dovevo camminare piegato in due, prevalentemente, e anche a quel modo, dalla mia parte la barella era molto più in alto che dall'altra. B'oosa era il primo della fila: ci apriva il passaggio e ci guidava. Alegria era alla retroguardia, e portava lo zaino di Miko. Ad un certo punto, vide due tagliateste. Uno di essi ci si avvicinò un po' troppo, ed Alegria lo uccise col fulminatore. Le sue scaglie erano affilate come rasoi. Arrancavo dietro a B'oosa. Pancho non era molto pesante, ma avevamo fatto molta strada, e le mie braccia cominciavano ad essere stanche. Ogni tanto, B'oosa applicava ancora un po' di pomata sulla mia mano e sulla gamba di Pancho, e un po' serviva. Poco prima che ci fermassimo per il pranzo, Pancho cominciò a delirare, ed infine svenne. Mangiammo senza neppure sentire il sapore del cibo, e senza parlare. Miko sedeva su una roccia, con lo sguardo spento. Quanto a me, non riuscivo a pensare ad altro
che non fosse l'incombenza di dover mettere un piede davanti all'altro. B'oosa si gingillava con la trasmittente. Non c'era proprio niente che andasse bene. Finimmo di mangiare e ci rimettemmo in cammino. Ero sul punto di lasciarmi cadere a terra, e di dire addio a tutto e tutti. Il mio corpo stava urlando le proprie mille proteste, e mi sembrava che la mia mano fosse in un braciere ardente. La pomata era finita. Pancho aveva un febbrone da cavallo. Avevo un crampo alla gamba sinistra, e zoppicavo. Non credevo che saremmo mai riusciti a tornare al campo. Poteva anche darsi che stessimo andando nella direzione opposta. Forse B'oosa si sbagliava. Cominciai anch'io a sentirmi febbricitante, e le cose cominciarono a farsi sfocate. Ancora venti passi, mi dissi, e poi mi sarei lasciato cadere. Contai venti passi, e decisi che avrei resistito per altri venti. E poi ancora venti. Camminavo, convinto che ogni passo dovesse essere l'ultimo. Ricordo vagamente che caddi un paio di volte, e che B'oosa mi aiutò a rialzarmi. Solo che non era B'oosa, era qualcun altro. Qualcuno che conoscevo. Zanzara! Vito Fargnoli, l'Infernale che ci aveva lasciati nella giungla! E c'era anche Bruno. Cercai di dirgli qualcosa, ma tutto il mio odio mi soffocò, e non riuscii più a vederlo. Era come scivolare in un pozzo. Un pozzo buio. Quando rinvenni, ero disteso su una branda. La prima cosa di cui mi accorsi fu che la branda era troppo corta. Vidi poi la piccola fasciatura che era stata fatta alla mia mano. Mi misi a sedere, e Pancho mi sorrise dal letto accanto. «Buenas dias, amigo», disse Pancho. «Dormito bene?». «Dormito?», domandai, scuotendo il capo per schiarirmi le idee. «Hai dormito per un giorno intero», disse Pancho. «Come ti senti?». «Bene, credo. Ma tu...». «Tutto okay, amigo. Guarda». Scostò le lenzuola e mi mostrò la gamba. La plasticarne aderiva in maniera quasi perfetta alla carne vera. Diedi un'occhiata sotto la benda: anche la mia mano non era male. «Devono avere dei medici dannatamente bravi, da queste parti», dissi. «I migliori», disse Pancho. «Li fanno venire dalla Terra». «Tutto si spiega». Alcune passate esperienze mi avevano insegnato che i dottori terrestri sono davvero i migliori. «Ti hanno portato del brodo», disse Pancho. «Prova a mangiare». Guardai la ciotola che stava sul comodino accanto al letto e mi ricordai di come Pancho si era ingozzato di quel cibo grigiastro del giorno prima.
Ero affamato e ne provai un cucchiaio. Niente male. Ero sorpreso: quello era il primo cibo decente che avessi trovato su Inferno. Lo bevvi tutto. «Guarda qui», disse Pancho, scendendo dal letto. «Aspetta», dissi, «non...». «Va tutto bene, Carl, non c'è problema. Si trattava più che altro del veleno che avevo in corpo, ma è bastata un'iniezione per rimettermi a nuovo. Vedi?». Vidi, e ne fui colpito. Avevo pensato che, nella migliore delle ipotesi, dovesse starsene a letto per una settimana o due. L'ultima volta che lo avevo guardato, mi era sembrato in punto di morte. Meraviglie della medicina moderna! Mossi le dita della mano e vidi che funzionavano perfettamente. Un'altra meraviglia. «Perché sono ancora a letto?», gli domandai. «Non saprei proprio, amigo. Perché avevi voglia di dormire, immagino. Sei sempre stato un dormiglione. Vestiamoci, e andiamo a cercare gli altri». Era una buona idea. Ci vestimmo, e andammo a zonzo. Trovammo B'oosa allo spaccio, solo. Non sapeva dove fossero Alegria e Miko. Non so perché, ma questo m'irritò. B'oosa sembrava preoccupato. Ci sedemmo. «Che si dice?», domandò Pancho. Non avevo mai visto B'oosa così depresso. «Non molto», disse B'oosa, allontanando la propria tazza di caffè. «Cosa c'è che non va?», domandai. «Ci hanno seguiti passo a passo», disse piano. «Eh? Chi?». «Gli Infernali», disse B'oosa, scuotendo il capo. «Non ci hanno mai persi di vista. Abbiamo sempre avuto Zanzara e Bruno alle calcagna, e sono intervenuti solo all'ultimo minuto». «Vuole dire che hanno permesso che ci capitassero tutti quei guai?». Ero incredulo. «Credo proprio di sì», disse B'oosa. «Faceva tutto parte del corso "morbido" di addestramento alla sopravvivenza». «Sopravvivenza? Avremmo potuto lasciarci tutti la pelle!». «Non credo», disse B'oosa. «Se le cose avessero preso una piega troppo brutta, avrebbero fatto qualcosa». «Ne è sicuro?», domandai. «No, non ne sono sicuro», disse B'oosa, pensieroso. «Ma preferisco crederlo».
«E la trasmittente?». «Non era che un giocattolo, ma mi hanno assicurato che la prossima che ci daranno, funzionerà». «Come sarebbe a dire, la prossima?». B'oosa indicò la porta con un cenno del capo. «Eccoli. Ve lo spiegheranno loro». Zanzara e Bruno si stavano dirigendo verso il nostro tavolo. Avevo voglia di prendere le loro teste e sbatterle l'una contro l'altra. «Salve, sbarbati», disse Bruno. «Siete pronti per lo sbalzo di temperatura?». «Quale sbalzo di temperatura?», domandò Pancho. «Vi trasferiremo alle otto precise», disse Bruno, lasciando cadere una busta sul tavolo. «Qui c'è il programma. Questa sera, andate a ritirare il vostro equipaggiamento. Domattina andremo sull'altopiano. Ci vediamo». Ci volse le spalle e se ne andò. Zanzara rimase ancora con noi per un attimo. «Come va, Pancho?», domandò. Pancho si strinse nelle spalle. «Credo che sopravviverò». Zanzara sembrava nervoso. Arrossì un poco. «Sentite, mi dispiace per quel che è successo. Se fosse stato per me...». «Datti una mossa, Zanzara», gridò Bruno dalla porta. «Mi spiace, Pancho. Sul serio», disse, e se ne andò. B'oosa aveva aperto la busta. «Si ricomincia», disse, «ma questa volta sotto un clima artico. Peccato, non sopporto il freddo. Il caldo non è un problema per me, ma il freddo...»: «Chi di noi dovrà andare?», domandai. «Tutti», rispose B'oosa. «Neanche per idea», dissi. «Mi rifiuto di andarmene di nuovo in giro con Miko. Non quando i suoi sonni mi fanno rischiare la pelle». «Calmati, Carl», disse Pancho.. «Si sente veramente in colpa per quel che è successo, e vuole dimostrarti - e dimostrarci - che non accadrà più». «Non mi importa», dissi. «Io non vengo». «Sì che verrai», disse gentilmente B'oosa, spingendo gli ordini di servizio verso di me. Erano tutti firmati dal rettore. Se davvero avessi voluto, avrei potuto farne a meno. Certo, se avessi voluto essere bocciato e se avessi voluto fare la figura del vigliacco e dello stupido. Ero in trappola. Se solo quella non fosse stata la firma del rettore, avrei potuto tirarmi indietro. Il rettore non si prendeva la briga di firmare una scartoffia qualsiasi, e dunque doveva avere una buona ragione per vo-
ler tenere insieme la nostra unità, anche se non riuscivo a capire di quale ragione si trattasse. Mi domandai se avrebbe fatto davvero freddo. Sembrava una passeggiata, e questo bastò a rendermi sospettoso. Ci lasciarono sulla cima di una montagna. Il luogo che dovevamo raggiungere era dalla parte opposta della vallata sotto di noi. Da quella distanza, non riuscivamo nemmeno a scorgere le antenne della base. Non dovevamo far altro che scendere dalla montagna ed attraversare il delta. Roba da niente. Ci dividemmo, e ci mettemmo a cercare un percorso facile per scendere a valle. Non lo trovammo. Quanto a me, trovai almeno una dozzina di vie dalle quali avrei potuto scendere da solo, ma non in cordata con gli altri. Su Springworld avevo scalato montagne come quella fin da quando avevo cinque anni. Tra gli altri, solo B'oosa aveva un'idea di come cavarsela in montagna. Tutti gli altri erano pianuroli, come li chiamavano su Springworld. B'oosa scovò un percorso che gli sembrò adatto a tutti noi. Si trattava di una parete più o meno a strapiombo, che toccava e superava un crepaccio verticale. Le formazioni di roccia che sovrastavano il crepaccio avrebbero reso difficile la discesa a corda doppia, e saremmo stati costretti a scendere di sbieco. Superato il crepaccio, il resto non avrebbe dovuto presentare problemi. «Cosa ne pensi?», mi domandò B'oosa. Esaminai attentamente la parete. Era piuttosto accidentata, e avrebbe dovuto offrirci degli appigli abbastanza buoni sia per le mani che per i piedi. Faceva freddo, però, e doveva esserci del ghiaccio. Guardai il cielo. Era uniformemente grigio «da orizzonte ad orizzonte, e c'era il rischio che si stesse avvicinando una bufera. In condizioni normali, mi sarei ben guardato dall'iniziare una discesa con simili premesse. «Credo che ce la faremo», dissi. «Almeno non nevica». «Non ancora», disse B'oosa. Ci radunammo, e discutemmo il piano. B'oosa avrebbe aperto la cordata, e io sarei stato l'ultimo. Nessuno doveva fare un passo senza l'approvazione mia o di B'oosa. Inventariammo di nuovo il nostro equipaggiamento e ci portammo sul ciglio dello strapiombo. B'oosa andò per primo. Lo guardai scendere. Ci sapeva fare, non c'era dubbio. Muoveva una sola gamba o un solo braccio alla volta, e controllava scrupolosamente ogni appiglio prima di affidare ad esso il proprio peso.
Durante la discesa, piantava nella parete degli anelli attraverso i quali faceva scorrere la corda. Procedeva più di sbieco che verso il basso, ma ciò era dovuto alla conformazione della parete, e non alla sua volontà. Ben presto si fermò, e ci gridò di seguirlo. Mi trovavo in una condizione ottimale: la corda che mi univa a B'oosa scorreva liscia, senza incontrare curve o spigoli. Pancho fu il secondo a scendere. Andava piano, provando più volte ogni appiglio. Ogni volta che raggiungeva un anello, tirava a sé un pezzo della corda che gli stava sopra e lo faceva passare attraverso il moschettone che portava alla cintola. Si fermava un attimo, poi lasciava cadere il pezzo di corda guadagnato e superava l'anello. Era lento, ma sicuro. Quando si è in parete, non si è mai troppo prudenti. Alegria scese dopo di lui. Era sciolta ed agile. Non avevo mai visto nessuno imparare alla svelta come lei. Se non l'avessi conosciuta, avrei pensato che fosse il suo mestiere. Si muoveva con cautela, ma aggraziatamente. Seguiva i contorni della roccia come se facesse parte di essa. Non riuscii a notare in lei alcuna traccia di nervosismo. Si muoveva con l'agilità di un gatto, ed ero lieto che in mezzo ci fosse lei. Dopo Alegria scese Miko. Era incerto, ma almeno non era un incauto. Si fermò un paio di volte, incapace di individuare degli appigli che io stesso riuscivo a vedere da dove mi trovavo. Lo seguii, e gli diedi una mano. Mi ritrovai immediatamente nel mio ambiente. È strano come, una volta imparate, certe abilità non si perdono mai, anche se non si praticano costantemente. Mi sentivo a mio agio, e persino la presenza di Miko davanti a me non mi scocciava troppo. Di solito si pensa che sia il primo in cordata a correre il rischio maggiore. Non è vero: è l'ultimo a trovarsi nella posizione più pericolosa. Lo so bene, perché mi sono trovato molte volte ad entrambe le estremità della corda. Il percorso si fece un po' più difficile. B'oosa andò a infilarsi in un vicolo cieco, senza alcun appiglio per proseguire. Avrebbe potuto piantare un anello a cui sospendersi per cercare un'altra via, ma non lo fece perché gli altri non avrebbero potuto seguirlo. Fummo costretti a risalire e a seguire uh percorso diverso. Ci riuscimmo, ma perdemmo del tempo prezioso mentre il vento si stava levando. B'oosa ci fece un segnale, e proseguimmo. Quando raggiungemmo B'oosa, il vento stava ormai soffiando a tutta
forza. Non potemmo far altro che stringere i denti e andare avanti. Una volta raggiunto il crepaccio, almeno avremmo trovato riparo. Stimai che ci sarebbero voluti altri due tratti di corda. B'oosa raccolse la corda libera e proseguì. Stava cominciando a piovere. Era solo un'acquerugiola, ma il vento la rendeva più fredda di quanto in realtà non fosse. Volevo arrivare al crepaccio prima della gelata; la roccia era già scivolosa, ed eravamo costretti ad andare piano. Volevo andare più forte, e fu per questo che commisi il mio errore. Se non avessi avuto fretta, non sarebbe mai successo. Mentre io mi ero fermato a sciogliere un noioso nodo che s'era formato nella corda, Miko era andato avanti. Erano tutti spariti dietro a un costone, e mi affrettai a raggiungerli. Quando oltrepassai il costone, avevo solo due appigli e troppa corda libera. Fu una sciocchezza. Avevo un buon appoggio sotto il piede sinistro e un appiglio abbastanza sicuro con la mano sinistra, ma il mio fianco destro era bloccato dal costone. Sicuro che avrei trovato un altro appiglio, portai il corpo dall'altra parte. Durante il passaggio, sentii che stavo perdendo l'equilibrio, e capii di essere nei guai. Avevo troppa corda libera, ed ero troppo lontano dall'anello più vicino. Se non avessi trovato niente a cui afferrarmi dall'altra parte del costone, sarei caduto. Era molto semplice: nient'altro che la fisica del moto dei gravi. Non c'era alcun appiglio. Le mie dita scivolarono sulla roccia liscia e bagnata. Caddi all'indietro. Mi sembrò che tutto stesse accadendo al rallentatore. Non era certo la prima volta che cadevo, e quindi sapevo cosa aspettarmi. Non dovevo far altro che aspettare che il mio tratto di corda si esaurisse, e poi sarei rimasto a penzolare dall'anello sottostante. Cercai di non irrigidire il corpo. Sentii uno strattone alla corda, e poi un altro ancora. La mia ottimistica previsione non era più valida: doveva essersi staccato l'anello. E ora, cosa sarebbe successo? Mentre cadevo, le rocce colpivano e laceravano la mia faccia e le mie mani. Cercai di afferrarmi a qualcosa; anche se non fossi riuscito a tenermi, avrei almeno rallentato la caduta. Non ci riuscii: era impossibile far presa su delle rocce bagnate di pioggia con delle mani bagnate di sangue. Da qualche parte, qualcuno gridò. Forse fui io. Il mio piede destro urtò un piccolo spuntone. Cercai con tutte le mie forze di gettarmi contro di esso. L'attrito con la roccia mi fece sentire il fianco come trafitto da un dolore lancinante, ma rallentò la mia caduta. Con la bocca, con le mani e coi piedi cercai disperatamente un appiglio, un appi-
glio qualsiasi. Lo spuntone mi colpì sotto il mento. Abbracciai la parete. Non sapevo come, ma non stavo più cadendo. Non mi restava che aspettare il passaggio degli altri che, cadendo, mi avrebbero trascinato dietro di loro. Nulla. L'unico rumore che riuscii a sentire, fu quello affannoso del mio respiro. Non riuscivo a capire perché non stessi continuando a precipitare. Per quanto ne sapessi, non avevo neppure un appiglio. Avevo le braccia aperte, e me ne stavo appiattito il più possibile contro la parete. Mi ero cacciato in una posizione davvero scomoda: se solo avessi mosso un muscolo, avrei perso l'equilibrio. Ero in quella posizione da non più di qualche minuto, ma già mi sembravano ore. Sentivo che la corda si muoveva, ed ogni tanto mi giungevano delle voci ovattate, ma non riuscivo a capire cosa stessero dicendo. Mi venne addosso una cascatella di terra e sassolini, segno che stavano scendendo a raggiungermi. La mia gamba sinistra si trovava in una posizione innaturale, e i suoi muscoli contorti cominciavano a spasimare. Mi prudeva il naso, come invariabilmente accade quando non lo si può grattare. Più che spaventato, mi sentivo in colpa. Avevo commesso un brutto errore, ma, ciò che era più grave, avevo coinvolto in esso altre persone. Se mi fosse capitato su Springworld, solo quell'errore mi sarebbe stato fatto pagare caro, ma qui avevo addirittura trascinato altre quattro persone dietro di me. «Stavi cercando di aprire una nuova direttissima, Carl?». La voce di B'oosa mi prese di sorpresa. «Ho perso l'appiglio», dissi. «Sono scivolato». «Capita a tutti, prima o poi», disse B'oosa. Sentivo che stava piantando un anello, ma non osai muovere il capo per guardare. «Quasi ci siamo», disse. «Ancora un secondo... Ah, ecco fatto. Ho fissato la corda a due metri sopra la tua testa e a un metro alla tua sinistra. Lasciati andare e buttati a sinistra, troverai un buon appiglio». Non avevo scelta, dovevo fidarmi di lui. Ero certo che avesse fatto un buon lavoro (B'oosa non riuscirebbe a far male qualcosa neanche se lo volesse), ma devo ammettere che quando mi buttai non potei fare a meno di domandarmi se non avesse sottovalutato il mio peso. No, non l'aveva sottovalutato. Trovai facilmente l'appiglio. «Grazie», dissi col fiato corto. «Non credevo che quell'anello si sarebbe staccato». «E infatti non si è staccato, Carl», disse B'oosa lentamente. «Cosa vorrebbe dire?».
«Si è rotto. Si è spezzato in due di netto». «Ma è impossibile. So di essere pesante, ma questi anelli reggono questo ed altro». «Quello no», disse con un tono di voce che mi fece rabbrividire. «E non potrei giurare nemmeno sugli altri». Le implicazioni di questo fatto non erano gradevoli. «Torno al mio posto», disse. «A meno che tu non preferisca che stia io in coda». Compresi cosa stava cercando di dirmi. In maniera ellittica, e col suo solito tatto, mi stava domandando se non mi fosse venuta paura. «No, va bene così», dissi. Arrivammo al crepaccio dieci minuti dopo, e riposammo. Il crepaccio era in realtà una spaccatura verticale che correva lungo la faccia della montagna, fino a valle. Da quel punto in poi, scendere sarebbe stato piuttosto facile, dopodiché raggiungere la valle sarebbe stato come fare una passeggiata. La sommità del crepaccio era stretta, e riuscii a malapena ad infilarmici. Gli altri si trovavano invece a proprio agio. All'interno, le pareti erano accidentate, ed era facile appoggiare i piedi contro di esse e le spalle contro l'altra. Ci riposammo in quella posizione per alcuni minuti, prima di riprendere la discesa. La bufera stava peggiorando, ma là dentro eravamo ben protetti. Come prima, era B'oosa ad aprire la cordata, ed io ero l'ultimo. Usavamo un sistema molto semplice: io fissavo la corda, poi B'oosa portava giù gli altri finché rimaneva corda, poi io li raggiungevo e si ricominciava daccapo. Andavamo spediti. Pancho scivolò, ma senza conseguenze. Decidemmo di accamparci sul fondo del crepaccio, che era abbastanza piatto da poter accogliere la nostra tenda. Stava calando il buio, e la bufera non dava segno di voler smettere. Il primo turno di guardia toccò a me. Non c'era davvero molto da cui stare in guardia. Non riuscivo ad immaginare che razza di bestia potesse trovarsi all'aperto in un tempo come quello: se pure esisteva, doveva certo essere grossa, incattivita ed infreddolita. La pioggia diventò nevischio, e quando Miko venne a darmi il cambio andai subito a dormire. Ascoltai per qualche secondo l'ululato del vento, poi mi addormentai. B'oosa mi svegliò e mi porse una tazza di tè bollente. Fuori della tenda, il vento ruggiva ancora, e ancor più forte della sera prima. La mia piccola
caduta del giorno prima mi aveva lasciato circa un migliaio di graffi e di abrasioni, e li sentivo tutti. Uscii dalla tenda, e il freddo mi si abbatté addosso, penetrandomi fino alle ossa. Su tutto c'era un sottile strato di ghiaccio. Anche se il giorno prima avevamo fatto molta strada, eravamo ancora piuttosto in alto. La visibilità era pessima; non riuscii neppure a vedere il fondovalle. Stava ancora cadendo il nevischio. Pancho uscì e venne al mio fianco. «Cosa ne pensi, amigo?». «Hai visto il ghiaccio?», dissi. «Credo che ci vorrà tutta la giornata per riuscire a scendere». Ce ne vollero due. Furono due giornate dure, non perché la discesa fosse ripida, ma perché il tempo non si decideva a cambiare. Era difficile tenersi in equilibrio, persino nei tratti relativamente pianeggianti. Passavamo la maggior parte del tempo scivolando e rotolando. Ora capivo perché ci avevano dato cinque giorni per tornare alla base. Verso la fine del secondo giorno, B'oosa fece un brutto scivolone su una roccia gelata. Credetti che si fosse perlomeno slogato una caviglia, ma non disse niente. Credo che non si sarebbe lamentato nemmeno con una frattura multipla. Il nevischio si tramutò infine in neve. Non era un gran miglioramento, ma in quella situazione ci sembrò tale. Ci accampammo ai piedi della montagna. Il delta ci stava davanti. Era una regione piatta, fredda e senza alberi. Davvero deprimente. Il delta era un intrico caotico di fiumi e fiumiciattoli, che si staccavano da un fiume principale che sfociava nel mare del Nord. I fiumi più piccoli dovevano probabilmente essere gelati. I guai ce li avrebbero dati gli altri. Era un'area molto vasta, ed eravamo lieti di avere la trasmittente, sperando che questa volta funzionasse sul serio. Chissà se ci stavano osservando? Non era certo facile trovare un nascondiglio da quelle parti. Togliemmo il campo di buon'ora. La neve aveva smesso di cadere un po' prima dell'alba. Il cielo si era schiarito, ma era sempre di un grigio uniforme, senza un filo d'azzurro. Il vento era forte e veniva a folate, e le particelle di neve che trasportava causavano mille fredde punture ai nostri volti. Camminare non era facile. Sopra il vecchio strato di quasi venti centimetri di neve, su cui s'era già formata una crosta dura, erano caduti altri dieci centimetri di neve fresca. Tutti quanti, a parte Alegria, che era troppo leg-
gera, ogni volta che muovevamo un passo rompevamo la crosta, ed eravamo obbligati a trascinare i piedi. Continuavamo anche ad incespicare nella vegetazione, una vera e propria matassa di basse piante di rovo che si nascondeva sotto la neve. Il ghiaccio era due metri sotto il livello della riva, e da entrambe le parti c'erano delle scarpate piuttosto rigide. Prima di posarci sopra il nostro peso, saggiammo attentamente il ghiaccio. Scesi per primo: se avesse retto me, avrebbe retto tutto. Non era un fiume molto largo, e lo attraversammo senza difficoltà. Se il resto fosse stato così facile ed il tempo si fosse mantenuto, ce l'avremmo fatta senza problemi. E invece il resto non fu così facile, e il tempo non si mantenne affatto. Ricominciò di nuovo a cadere un nevischio freddo e bagnaticcio. Il secondo fiume che incontrammo era coperto da uno strato semisquagliato di ghiaccio, in cui c'erano dei grossi buchi. B'oosa scosse il capo. «Non mi piace». «Crede che il ghiaccio non ci reggerà?», domandai. «Non è questo a preoccuparmi». Discese l'argine e noi lo seguimmo, e riposammo per un istante al riparo dal vento. «Questi buchi hanno a che fare con l'ecologia invernale di questa zona. Molti animali li usano per abbeverarsi, o per pescare». «Animali grossi?», disse Alegria. «Appunto. In prossimità dei buchi vagano degli animali da preda che si cibano degli altri animali che vengono ad abbeverarsi. Alcuni di essi sono così grossi che possono tener testa a cinque persone». Ci parlò del mostro delle nevi, il peggiore. Era grosso quanto un piccolo dirigibile, con sei zampe poderose. Quando non stava correndo o nuotando, poteva usare il paio anteriore come mani, come i centauri. Era munito di grossi artigli e zanne - in una bocca tanto grande da poter decapitare un uomo con un solo morso - ed era ricoperto di una pelliccia bianca e serica. I suoi occhi erano grandi, e anch'essi bianchi. Nel mezzo di una bufera di neve si poteva anche arrivare fino a dieci metri di distanza da uno di essi senza accorgersene, e finire ammazzati senza saper come. Le vibromazze non gli facevano alcun effetto, se non sugli occhi o sulla bocca. Per fortuna, quel giorno non incontrammo mostri delle nevi. L'animale più grosso in cui c'imbattemmo fu un uccello acquatico, anche se ci arrischiammo ad attraversare quattro fiumi il cui ghiaccio era bucato. Devo ammettere che ci tenemmo piuttosto alla larga dai buchi. Il nevischio continuò a cadere, e naturalmente cessò soltanto quando ci fermammo per la
notte ed alzammo la tenda. Era difficile valutare quanta strada avessimo già percorso. Le mappe che ci avevano dato erano deliberatamente approssimative, e tutti i fiumi più piccoli sembravano uguali. Impossibile usare come metro la nostra distanza dalle montagne, poiché la visibilità non lo consentiva. Quando saremmo arrivati al grande fiume, saremmo stati certi di aver già percorso un terzo della distanza, ma quanto ci avremmo messo dipendeva dal tempo e dal terreno. La mattina dopo, il cielo era perfettamente terso, e andammo avanti speditamente. Arrivammo al grande fiume dopo un paio d'ore di cammino. Era molto più largo di quanto non ci fosse apparso dall'alto della montagna. Accanto alla riva stagnava del ghiaccio semidisciolto, ma in mezzo il fiume era praticabile, a parte alcuni grossi blocchi di ghiaccio che galleggiavano pigramente. Avremmo dovuto remare per circa duecento metri. Miko tolse il gommone dal proprio zaino e strappò il sigillo grazie al quale si sarebbe gonfiato automaticamente. Poteva contenere soltanto tre persone di taglia media, e così avremmo dovuto fare tre viaggi. I primi due viaggi andarono bene, anche se era inquietante trovarsi su una riva mentre il fulminatore era sulla riva opposta. Tenni sempre il coltello in mano e non gonfiai il giubbotto di salvataggio fino all'ultimo momento, nel caso avessi avuto bisogno di muovermi in fretta. Pancho, Alegria e Miko attraversarono per primi, poi Pancho tornò a prendere B'oosa. Col giro seguente doveva venire a prendere me, ma gli venne un crampo durante la seconda traversata, e allora toccò a Miko: B'oosa era troppo grosso, e Alegria troppo piccola. Non ne fui troppo soddisfatto, ma almeno fui contento di poter finalmente gonfiare il giubbotto e saltare a bordo. «Fino a metà strada la corrente non è forte», disse Miko, «ma quando saremo in mezzo al fiume dovremo metterci dell'olio di gomito». Quel dannato gommone non voleva saperne di farsi manovrare: remavamo dritto, e invece non ottenevamo altro risultato che andare alla deriva, lungo una diagonale curva che ci avrebbe portati sulla riva opposta. Usammo le pagaie anche per allontanare i blocchi di ghiaccio, alcuni dei quali erano così grossi che un uomo avrebbe potuto starci in piedi sopra. In fatto di navigazione, Miko era più esperto di me, ma io ero davanti in quanto ero più forte di lui. Ci stavamo dirigendo verso qualcosa che sembrava un vortice. Glielo indicai con la pagaia. «Non vuol dire che sotto c'è una roccia, o qualcosa di simile? Forse dovremmo...». «Prima non c'era», disse in fretta Miko. «Non è una roccia!».
Improvvisamente l'acqua ribollì, e ne emerse un immenso cumulo di pelliccia bianca. Si girò lentamente su se stesso e ci fissò con un grande occhio bianco. Non doveva essere a più di dieci metri di distanza da noi. Sentimmo cantare il fulminatore sulla riva opposta; il mostro delle nevi si girò ad osservarlo, poi si reimmerse con calma. «Quasi beccavano noi invece della bestia», disse Miko. Stavo remando come un pazzo. «Idiota! Il guaio è che era troppo lontana. A quella distanza, non basta un colpo solo per...». Improvvisamente, il gommone si sollevò dall'acqua così violentemente che ne fummo sbalzati fuori. Prima di cadere nell'acqua nera e gelida, feci in tempo a vedere la schiena gigantesca del mostro. Anche un uomo robusto non avrebbe potuto sopravvivere più di cinque o sei minuti in quell'acqua. Sentii freddo solo per un istante, poi subentrarono il dolore e l'insensibilità. Riemersi tossendo e col coltello in pugno, anche se si trattava di un gesto più che altro simbolico. Cercai di prendere la vibromazza, ma era in una tasca esterna del mio zainetto, sotto il giubbotto di salvataggio. Il mostro delle nevi era sparito. Miko stava nuotando furiosamente verso un grosso blocco di ghiaccio. Ero abbastanza vicino al gommone, e così mi diressi verso di esso. Non ricordo quanto ci impiegai. Dovevo costringermi a nuotare e a respirare regolarmente, senza pensare al mostro che c'era sotto di me, pronto ad uccidermi con un morso solo. Raggiunsi non so come il gommone. Le pagaie non c'erano più, allora mi issai a bordo per metà e presi a sbattere le gambe, spingendo lentamente il gommone verso la riva. Dopo alcuni minuti sentii delle grida. Alzai il capo e vidi che gli altri tre stavano gridando ed indicando qualcosa. B'oosa si accucciò in una posizione da tiratore scelto e lasciò partire una lunga raffica dal fulminatore. Stavano indicandomi Miko, che era riuscito a raggiungere il blocco di ghiaccio. Doveva aver perso i sensi, perché vi era disteso sopra. Il mostro delle nevi era a poca distanza: si stava avvicinando a nuoto, e solo la sua testa affiorava dall'acqua. Due zampe sbucarono dall'acqua e cercarono d'afferrare Miko, ma questi si era ripreso abbastanza da allontanarsi dall'orlo del blocco, così che gli artigli non poterono raggiungerlo. La bestia ululò e cominciò ad issarsi pesantemente sul ghiaccio, senza badare ai colpi del fulminatore, che B'oosa continuava a farle piovere addosso. Riuscì finalmente ad issare tutta la propria massa sul blocco galleggian-
te. Sentivo che avrei dovuto continuare a muovermi, che avrei dovuto raggiungere la riva prima di diventare il dessert del mostro, ma l'orrore mi paralizzava, mi aveva congelato come e più dell'acqua gelida. Ormai lo sovrastava, alto la metà di me anche con solo quattro zampe al suolo. Eppure, invece di afferrare Miko e di straziarlo, se ne stava lì con le zampe penzoloni e scuotendo la testa. Evidentemente, il fulminatore cominciava a fare effetto. B'oosa non aveva mai smesso di sparare. Le quattro ginocchia della creatura si piegarono ed essa cadde, con la testa a non più di un metro da Miko. «Vallo a prendere!», gridò B'oosa. «Mettilo sul gommone! Ti butteremo una cima». Mi sembrava una distanza impossibile da varcare. Mi domandai per quanto ancora la bestia sarebbe rimasta svenuta. Cominciai ad avvicinarmi. Non avrei mai potuto abbandonare qualcuno ad un destino simile, nemmeno Miko, ma quasi non sentivo più le gambe, e la mia respirazione si stava facendo affannosa. Quando finalmente raggiunsi il blocco di ghiaccio, il dolore e la fatica mi avevano gettato in una specie di trance. Riuscii ad issarmi sul blocco, ma trovarmi in piedi sopra di esso mi fece un effetto strano, come se stessi galleggiando a due metri dal suolo ed il mio corpo avesse cessato d'esistere dalla cintola in giù. Non ricordo bene, ma credo che restai a lungo in quella posizione, contento del semplice fatto di non essere più in acqua. Qualcuno stava gridando dalla riva. La bestia giaceva con gli occhi aperti, ed una delle sue narici si contraeva lentamente. Ci guardammo per un po', poi ritornai più o meno in me: il dolore mi risvegliò le gambe, e una salutare dose di paura si fece strada nel mio cervello. Trascinai Miko sul bordo e riuscii a buttarlo nel gommone senza annegarlo. Dovetti poi rientrare in acqua. Sulle prime fu come camminare in mezzo al fuoco, ma poi non sentii più niente. Ci trovavamo a una settantina di metri dalla riva. Ricominciai a sbattere le gambe, con la serena certezza che non ce l'avremmo mai fatta. Mi stavano gridando di salire sul gommone. Non capivo che senso avesse, ma almeno a bordo non avrei avuto tanto freddo. Mi ci volle molto tempo, come per tutto il resto, e dovetti stare attento a non far rovesciare il gommone. Lo sforzo ebbe quasi la meglio su di me. Avvertii un dolore nuovo, come una morsa al centro del petto. Un attacco di cuore? Mi distesi, usando Miko a mo' di cuscino. Svenni, poi mi risvegliai e svenni di nuovo. «Riesci a prenderla?», stava mormorando Miko. Perché diavolo mi ave-
va svegliato? «A prendere cosa?». «La cima. Dicono che ci hanno lanciato una cima». Sentivo delle grida, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse perché le mie orecchie ronzavano troppo. Mi sforzai di sollevarmi quel tanto che bastava a guardare oltre la sponda del gommone. C'era davvero una cima, un'estremità della quale era legata a un giubbotto di salvataggio gonfio. Ci stavamo lentamente avvicinando ad esso. L'avevano lanciata in modo che andasse a cadere su un blocco di ghiaccio, e il vento ci stava facendo andare un po' più veloci del ghiaccio. Avvertivo ancora quella morsa al petto, e le mie gambe erano come paralizzate. Attesi finché il gommone toccò la cima, poi buttai un braccio fuoribordo. Mi sedetti e richiamai il braccio, e con esso venne anche la cima. Non riuscii a chiudere le mani attorno ad essa, ma riuscii ad avvolgermela attorno a un braccio, e mi curvai all'indietro. Miko avrebbe voluto aiutarmi, ma non poteva far altro che tremare. Presero a tirarci, e la cima quasi mi sfuggì. Mi gettai su di essa e il mondo svanì, solo che questa volta, al posto dell'oscurità c'erano delle scintille bianche. Riuscii a costringere uno dei miei occhi ad aprirsi. C'era una luce amorfa, intessuta di arcobaleni. Ammiccai un po' di volte, e la mia vista migliorò. C'era una chiazza che doveva decisamente essere B'oosa, che leggeva seduto sotto la lampada della tenda. L'altra chiazza accanto a me era Miko, avvolto in un sacco a pelo, come me. Mi ci volle un po' di sforzo per tirar fuori le mani e stropicciarmi gli occhi. «Ti senti meglio, Carl?», disse B'oosa senza guardarmi. «Meglio di che?». Il mio corpo era un coacervo di dolori • sordi e di acute trafitture. Dovevo essere vivo. «Per quanto tempo ho dormito?». «Quasi due giorni». «Due giorni?». «Avevi dei brutti sintomi d'assideramento, come Miko.. È stato meglio che tu abbia riposato. Nel corredo di pronto soccorso ci sono delle meravigliose pillole rosa, molto efficaci in questi casi». «Dove siamo?». «Siamo ancora vicino al fiume». «E quel rumore di fuori?». «È una bufera, una brutta bufera». Contai i corpi addormentati. «Dov'è Pancho?».
«Fuori, di guardia». Mi venne alla mente che i cinque giorni erano ormai passati. «Ormai dovrebbero essere alla nostra ricerca, non è vero?». B'oosa si strinse nelle spalle. «Chissà». «Ha usato la trasmittente?». «Ci ho provato», disse, mostrandomi il piccolo apparecchio, «ma non ho ottenuto alcun risultato». «Di nuovo?». «Anche a me è sembrato strano, così ho aperto la trasmittente per vedere di ripararla. Ed ecco cosa ho trovato». Aprì il coperchio dell'apparecchio. L'interno dello chassis era vuoto: niente circuiti né cristalli. «Questo non è un semplice trasmettitore guasto, ma un finto trasmettitore che non avrebbe mai funzionato». «Sembra quasi che stiano cercando di ucciderci», dissi. «Ci ho pensato anch'io», disse B'oosa. «È improbabile, ma possibile». Proprio in quel momento, Pancho entrò precipitosamente nella tenda. «B'oosa, credo che - oh, ciao, Carl - cioè, mi aveva detto di...». B'oosa si alzò ed uscì in fretta, seguito da Alegria. Dopo che ebbi trovato i miei abiti, li seguii anch'io. Di fuori, il vento era così forte che si riusciva appena a stare in piedi. B'oosa ed Alegria erano chini sui sostegni della tenda. Erano stati rinforzati più volte, ma anche dal punto in cui mi trovavo si vedeva bene che non avrebbero resistito ancora per molto. «Dovremo abbassare la tenda», gridò B'oosa. Alegria annuì. «Vi darò una mano», dissi, barcollando sopra di loro. «Torna nel tuo sacco a pelo», disse B'oosa. «Sei troppo debole». Cominciai a protestare, ma le gambe mi cedettero, e caddi di lato sulla neve. Aveva ragione, ero davvero troppo debole. Tornai strisciando nella tenda. La tenda ci calò addosso. Così bassa, forse avrebbe resistito, anche perché l'avevano legata con molta cura. Pancho rientrò, carponi. «Dov'è B'oosa?», domandai. «Di fuori, amigo», rispose Pancho. «Tiene d'occhio la tenda, e gli eventuali mostri delle nevi di passaggio. Ha detto che se il tempo peggiorerà rientrerà, ma francamente sono preoccupato. I due giorni durante i quali hai dormito sono stati molto difficili, per lui. Credo che non stia bene, e che stia facendo troppo. È stato lui a tirar fuori Miko e te dall'acqua, lo sapevi?».
Non lo sapevo, ma me lo sarei aspettato, come pure mi sarei aspettato che non ne parlasse. «Là fuori è uno schifo», disse Pancho. «Ho visto l'inizio della bufera: è scesa dalle montagne, e sembrava una muraglia compatta di ghiaccio. Poi si è scontrata nella valle col vento di mare che soffiava sul delta, e da allora sta peggiorando di ora in ora. Dico sul serio, non si riesce nemmeno a vedere la propria stessa mano davanti alla faccia». A metà inverno, anche su Springworld c'erano tormente simili. Nessuno usciva di casa, naturalmente: si narrava di gente che era uscita e s'era persa a pochi metri dalle proprie case, e che aveva cominciato a girare in tondo, salvo essere ritrovata a chilometri di distanza durante il disgelo primaverile. «Quanto durerà il turno di guardia di B'oosa?». «Un'ora o due, Quando sarà stanco chiamerà me o Alegria». «O me», dissi. «Non resisterei un'ora intera, ma...». «Solo se dormirai, amigo»: Spense la luce, e lo sentii seppellirsi nel pro-
prio sacco. «Svegliatevi! Svegliatevi tutti!». Era Alegria, e la sua voce era piena di terrore. «Cosa c'è?», domandò Pancho con la voce di una persona perfettamente sveglia. «B'oosa! È scomparso!». Ci affrettammo ad uscire dalla tenda, e fummo salutati da un cielo azzurro pallido e senza vento, e da un sole appena appena tiepido. Niente B'oosa, niente impronte. Niente fulminatore. Miko barcollava, e mi si attaccò al braccio. Lo sostenni per le spalle. Era più piccolo di me, e dunque aveva sofferto di più per l'assideramento. «Merda», disse debolmente. «E adesso, cosa facciamo?». «Lo cerchiamo», disse Alegria. Nessuno di noi avrebbe avanzato un suggerimento diverso, anche se credo che tutti ci stessimo immaginando la stessa scena: B'oosa che cammina per scaldarsi, perde l'orientamento, e a meno di dieci metri da lui c'è il ripido argine del fiume. Pancho s'inerpicò sull'argine e guardò di sotto. «Qui non c'è». «Ci vorrebbe un dirigibile», dissi. «Se è... se è svenuto anche a poca distanza da qui, potremmo cercare per giorni senza trovarlo». Specialmente se il suo corpo era stato ricoperto dalla neve. «Divideremo la zona in quattro settori», disse Pancho, «e li esploreremo per sei ore, dopodiché toglieremo il campo e proseguiremo». «Con la luce del sole», dissi, «lui stesso dovrebbe dirigersi in quella direzione. Se non ricomincia a nevicare, dovremmo incrociare le sue tracce». Io stesso non ci credevo, e nemmeno gli altri, ma annuirono tutti. Avevamo soltanto tre vibromazze. Diedi la mia ad Alegria, poi presi il bastone di B'oosa e legai il mio coltello ad una delle sue estremità. In caso di bisogno, avrei mirato agli occhi. Pancho ci assegnò i rispettivi settori e ci mettemmo alla ricerca. Dopo più o meno un'ora, sentii gridare qualcuno. Doveva gridare davvero forte, se riusciva a superare il ronzio delle mie orecchie. Era Pancho: si trovava nei pressi del campo, e si sbracciava, indicando qualcosa. Mi guardai attorno per un minuto, e alla fine vidi la chiazza argentea di un dirigibile: stava scendendo dalle montagne, e puntava dritto su di noi. Mi misi a correre, e caddi lungo disteso. Mi rialzai, e ripresi a correre con più calma. Arrivai contemporaneamente al dirigibile. Non era la semplice struttura aperta che usavano per i trasferimenti: questo aveva invece una carlinga aerodinamica, sormontata da una cupola d'osservazione. La cupola si aprì;
ne uscì Bruno. Lo seguì un uomo che non conoscevo. Indossava solo una tuta mimetica e una giacca, indumenti non molto adatti a quel clima. Si strofinò le mani e vi soffiò sopra. Bruno ci guardò: «Dov'è quello grosso, il nero?». «Lo abbiamo perso. Era di guardia stanotte». «Perso». Bruno si volse verso il secondo uomo. «Peccato. Era il migliore». L'uomo alzò le spalle. «M'interessa la quantità, non la qualità». Risero entrambi, e Bruno sbottonò il fodero che portava alla cintura, e ne estrasse con calma una tozza pistola nera. La riconobbi: era una «neuroshock». «Siete morti», disse con voce fredda ed indifferente, levando la sicura. La mia lancia rudimentale non era certo un'arma di precisione, e del resto i lanci dal basso in alto non erano mai stati la mia specialità, ma gliela scagliai contro con tutte le mie forze. Contemporaneamente, la neuroshock ronzò: mi sentii come se un milione di piccoli spilli mi stesse pungendo, e persi quelle poche forze che m'erano rimaste. La lancia colpì Bruno in pieno petto, poi ricadde. Dunque, indossava un'armatura! Massaggiandosi il punto in cui era stato colpito, Bruno sparò con aria distratta, e tutti gli altri caddero. «È un duro», disse con approvazione l'altro uomo. «Ha dei buoni riflessi». Caddi lentamente nella neve. Possibile che quel cielo azzurro sarebbe stata l'ultima cosa che avrei visto? «Anche gli orsi sono dei duri», stava dicendo Bruno, «ma sono stupidi. Gettiamo nel fiume questa roba». Li sentii trascinare la tenda, e poi la sentii cadere in acqua. «Non è giusto», disse l'altro. «Tu incassi l'assicurazione per tutti e cinque, ma io...». «Affari tuoi. I patti sono patti. Aiutami a trasportare il bestione». Mi presero per i piedi e mi trascinarono. La parte anteriore del mio corpo era totalmente insensibile, ma il freddo pungente della neve che mi si insinuava nella schiena, sotto la giubba, mi teneva sveglio. Invece di gettarmi nel fiume, mi misero in piedi a forza di braccia e mi lasciarono cadere nel dirigibile. Sentii il rumore del mio naso che si rompeva contro il pavimento, ma non avvertii dolore. Il pavimento era di plastica trasparente, e vedevo la neve sotto di me. Uno dopo l'altro, mi ammucchiarono addosso i miei compagni, poi richiusero la cupola e decollammo. Guardai il fiume che si allontanava sempre di più, e vidi la traccia ca-
pricciosa che avevo lasciato durante la mia ricerca, prima che arrivasse il dirigibile. Non stavo guardando con particolare attenzione, e quasi non me ne accorsi: c'erano delle altre impronte, oltre alle mie! Erano ad un centinaio di metri dal punto in cui mi ero fermato. Dunque, B'oosa era riuscito a sopravvivere alla bufera. Le mie speranze svanirono con la stessa rapidità con cui erano nate. Doveva essere stato ancora buio, quando la neve aveva cessato di cadere. Le orme raggiungevano un fiume, e poi sparivano. «Coraggio, reclute. In piedi!». Qualcosa mi colpì forte su un piede, e mi risvegliò da un sogno angoscioso. Ci trovavamo in una stanza bianca e senza finestre, che conteneva due file di letti, per la maggior parte vuoti. L'uomo che mi aveva colpito il piede col frustino era lo stesso che era con Bruno, a bordo del dirigibile. Ora indossava un'uniforme diversa, ed i cerchi concentrici che portava sulla manica mi dissero che era un sergente Infernale. Non apparteneva dunque al mio ramo preferito della razza umana. Accanto a noi quattro, c'erano due sconosciuti che si stavano alzando dal letto con aria imbambolata. Indossavano tutti camici da ospedale, bianchi. Qualcuno mi aveva spogliato, e qualcuno aveva spogliato anche Alegria, mentre era svenuta. Se era stato il sergente, mi dissi che gli avrei strappato un braccio, e poi lo avrei usato per picchiargli in testa. «Attenti! Di fronte al letto, stupido». Aveva una neuroshock sul fianco. «Questo addestramento comincia ad essere eccessivo», disse Pancho. «Ho intenzione di...». «Sarò io a dirti cosa dovrai fare». Il sergente staffilò l'aria con il frustino, a pochi centimetri dal volto di Pancho. Pancho non batté ciglio. «E molto presto, anche». Non sapevo cosa ci avessero dato per tenerci buoni, ma mi sentivo ancora istupidito. Il naso mi faceva male, ma non come se fosse rotto. Forse avevano avuto il tempo di metterlo a posto. Inspirai profondamente e trattenni il respiro, cercando di disperdere la nebbia. Il sergente si avvicinò all'unica porta della stanza e la socchiuse. «Col suo permesso, Comandante». L'uomo che entrò sembrava troppo giovane per avere i capelli bianchi. Era alto, e molto abbronzato, con un fisico da giovane atleta. Indossava un'uniforme piuttosto attillata, che non riconobbi, su cui riluceva l'oro dei gradi. Rimase un attimo ad osservarci, con le braccia conserte ed un'e-
spressione assolutamente neutra. Quando parlò, la sua voce era profonda e calma. «Sono il capitano Forrestor, della Fanteria da sbarco di Sua Maestà. Sarò il vostro comandante per un anno o anche meno, se riusciremo a vincere prima». «Quale Maestà?», disse Pancho. Il sergente gli si avvicinò col frustino alzato, pronto a colpire. «No, sergente». Guardò Pancho. «Non siete ancora stati messi al corrente?». «Non so di cosa stia parlando». «Signore!», sibilò il sergente. «Non so di cosa stia parlando, signore», disse Pancho con voce incolore. «Per il prossimo anno, sarete tutti al servizio di Sua Maestà Phylle II, regina di Sanctuary, sul pianeta Spicelle. Siamo qui per risolvere un contrasto tra Sua Maestà e il sovrano di Feder, un'altra nazione di Spicelle. Fra due giorni incontreremo le truppe di Feder nel quadrante nord-orientale del Purgatorio, e combatteremo una bella guerra della Classe 2/D». «Signore, dev'esserci un equivoco», dissi. «Noi non siamo soldati». «Puoi dirlo forte!», borbottò il sergente. «Ora lo siete», disse il capitano. «Ho le vostre schede». «Tutto ciò è illegale», disse Alegria. «Io sono una cittadina di Selva, una studente. Siamo stati rapiti». Sorrise lievemente. «Non troverete molti avvocati, su Inferno. Non su questa parte di Inferno, questo è certo». Trasse una busta da una tasca interna, e tolse da essa alcuni fogli. «Vediamo... lei dovrebbe essere il soldato semplice Alegria de Saldaña, già cittadina del pianeta Selva, e ora una schiava, noleggiata dalla Manpower Incorporated». «No! Siamo studenti, stavamo seguendo un corso di...». «Lasci che glielo spieghi io, signore», disse il sergente. «Quando attraversaste il fiume, sconfinaste nel territorio del Nord. Nel Nord, la schiavitù è legale: non è una barbarie! Siete stati legittimamente catturati dalla Manpower Incorporated, che poi, grazie ai miei buoni uffici, vi ha noleggiati a Sua Maestà». «Noi non combatteremo», dissi. «Signore». «Non dovrete combattere tutti. Non bastano i soldati, per vincere le guerre... Il soldato Saldana, ad esempio, sarà assegnato ad un ospedale da campo, poiché ha ricevuto un addestramento paramedico. Lei, invece...». Esaminò i fogli. «Carl Bok. Lei combatterà, naturalmente».
«No, signore. Su Springworld, la guerra non esiste. Sono un contadino, e un pacifista». «Leggo qui che sulla Terra lei era un gladiatore professionista. Strano mestiere, per un pacifista». «In quel caso, non si trattava di assassinio». «Non tutti la pensano così. Ad ogni modo, lei dovrà combattere quando le verrà ordinato, oppure andrà incontro ad una morte sicura, condannato da una corte marziale o ucciso in battaglia in tempo reale». «Ma per che cosa dovremmo combattere?», disse Miko. «Non ho neanche mai sentito parlare di Sanctuary, né della sua regina!». «Questo non ha importanza. Sapete cos'è una guerra della Classe 2/D?». Nessuno rispose. Si rivolse al sergente. «Non mi aveva detto che erano stati addestrati?». «Solo fisicamente, signore». «Ah. Bene, per vostra informazione, sappiate che una guerra della Classe 2/D è la miglior guerra che possa capitare a dei soldati inesperti come voi. Abbiamo scelto questo tipo di guerra perché il nostro corpo di Fanteria da sbarco non è molto grosso, e molti dei nostri fanti abbiamo dovuto comprarli sul posto. Francamente, Sanctuary non è una nazione molto ricca, e non possiamo permetterci il lusso di assoldare un gran numero di mercenari Infernali. Dunque, la maggior parte dei vostri compagni saranno reclute noleggiate, come voi. In un conflitto della Classe 2/D non vengono impiegate né armi nucleari, né laser, né qualsiasi altro tipo d'arma inventato dopo il 1900 sulla Terra, con la sola eccezione delle modifiche cibernetiche apportate a questi strumenti primitivi. Nel giro di un giorno o due, qualsiasi persona ragionevolmente intelligente può impratichirsi di tutte le armi ammesse. Inoltre, il nostro accordo con Feder prevede che non sia ammesso l'uso dell'artiglieria, della ricognizione aerea e delle armi a frammentazione, a parte le normali granate». «Cos'è una granata?», domandò Miko. Il capitano sospirò. «Questo è il sergente Meyer, il mio assistente di campo. Per i prossimi due giorni s'incaricherà del vostro addestramento, e con l'aiuto di Dio vi insegnerà non solo cos'è una granata, ma anche a non uccidervi quando ve ne troverete una tra le mani. Ricordate soprattutto una cosa: ciò che vi è successo può sembrarvi terribilmente ingiusto, ma la giustizia individuale non ha mai avuto molto a che fare con la guerra. Se sarete buoni soldati, può darsi che riusciate a salvare la pelle e a riguadagnare la libertà. Se farete i lavativi, o se ostacolerete in qualsiasi modo la
nostra missione, non vi attendete altro che la morte». Si rivolse a Meyer. «Sergente, alle nove del mattino di sabato porti questi sei al teatro d'azione, perfettamente addestrati e pronti al combattimento». «Sissignore». Si salutarono col pugno levato, ed il capitano se ne andò. Il sergente ci squadrò con espressione malevola. «Vi metterò al corrente di alcuni dettagli che il Comandante ha trascurato. Se vi ammutinate, l'Esercito ha la facoltà di uccidervi in tre maniere diverse. La prima è un processo: se l'ufficiale che presiede la corte marziale vi trova colpevoli - ed è ciò che solitamente accade - sarete impiccati». «E moriremo per strangolamento?», domandò uno degli sconosciuti. «Non preoccuparti, il dolore dura solo pochi minuti», disse il sergente. «Naturalmente, se vi ammutinate durante una battaglia, qualsiasi ufficiale o sottufficiale - come me - è autorizzato ad uccidervi sui due piedi. Il terzo modo è il più fruttuoso: verrete affidati ai macellai della S.D.T., la Squadra diversioni tattiche, che vi disarmeranno e vi useranno come esca per attirare il fuoco nemico. Se sopravviverete, vi rappezzeranno e vi useranno di nuovo». Non sapevo che fare. Sarei stato probabilmente capace di uccidere qualcuno che voleva uccidere me, ma uccidere a sangue freddo per le opinioni politiche di qualcun'altro era un altro paio di maniche. Che diavolo, non ero disposto ad uccidere nemmeno per le mie opinioni politiche! O uccidere, o trovarsi a ballare appeso ad una corda. Sarei stato capace di morire in nome del mio pacifismo? Sarei morto in ogni caso, probabilmente. Desiderai che ci fosse anche B'oosa. Trasferirono Alegria all'ospedale da campo, e ci misero con un gruppo di una cinquantina di uomini, che si stava esercitando all'uso delle armi. Nessuno di noi era molto entusiasta ma, come ci aveva promesso l'ufficiale, le armi erano semplici. Usavamo fucili, coltelli e granate. Le granate erano bombe che si gettavano contro il nemico: quando esplodevano, si disintegravano in migliaia di piccolissimi frammenti, e se non si voleva essere investiti dall'esplosione bisognava tirarla lontano, oppure ripararsi dietro qualcosa. Il fucile sparava proiettili di metallo usando piccole cariche esplosive, e il suo funzionamento era mortalmente semplice. Se si guardava nel mirino telescopico, un punto luminoso mostrava dove sarebbe andata a finire la pallottola. C'era anche un telemetro incorporato che valutava la direzione e la velocità del vento tra voi e il vostro bersaglio, e così il punto luminoso si spostava a secondo della direzione del vento e della vostra posizione ri-
spetto al bersaglio. Ci stavano addestrando in una parte neutrale del Purgatorio, in una caserma che assomigliava ad un grande campo di concentramento, un campo di circa due chilometri per tre, circondato da un reticolato elettrificato, su cui vigilavano delle guardie armate, dall'alto di torrette poste ad intervalli regolari. Quando non ci stavamo addestrando all'uso delle armi, facevamo piegamenti o correvamo, perché ci volevano in forma. Era strano. Ci avevano confiscati gli orologi, e quindi non sapevamo che giorno fosse né quanto fosse durato il nostro sonno, ma mentre eravamo privi di sensi dovevano averci fatto qualcosa per rimetterci in forze: quando ci eravamo accampati al Nord non sarei stato in grado di fare uno solo dei cinquanta piegamenti che ora facevo senza sforzo. Non avevamo molto tempo per la conversazione, ma riuscii a sapere qualcosa. La maggior parte degli altri coscritti erano studenti presso accademie militari di altri mondi, mandati per punizione al Nord, in piccoli gruppi, a fare delle manovre. C'era anche un cacciatore, ed un innocente turista che si era lasciato convincere a visitare il Nord. Era inconcepibile che le autorità di Inferno non fossero al corrente di questi rapimenti, ed era ovvio che nessuno di noi sarebbe mai tornato a casa a raccontarlo. La nostra sola speranza stava in una fuga dal campo di battaglia e nel tentare di raggiungere Hellas, la capitale. C'era solo una striscia di terra che collegava Hellas al Purgatorio, e così, qualunque fosse stato il nostro punto di partenza, ci sarebbe bastato raggiungere la costa per trovarla, e saremmo senz'altro riusciti ad arrivare alla capitale. Le nostre probabilità di fuga erano probabilmente esigue quanto quelle di sopravvivere al viaggio, ma non avevamo scelta. Una volta arrivati a Hellas, avremmo potuto chiedere l'assistenza di qualche funzionario della Confederación, se fossimo riusciti a non farci prendere dai militari. Quella stessa sera, ci si presentò una seconda alternativa: non era granché, ma aveva il vantaggio che grazie ad essa, forse l'Esercito non ci avrebbe uccisi appena finita la guerra. Avevamo passato diciotto o venti ore in addestramento, ed eravamo tornati agli alloggi barcollando. Ci attendevano solo della sbobba fredda e delle brande dure, ma le accettammo con gratitudine. Stavamo mangiando e scambiandoci lamentele sconsolate quando entrò il sergente Meyer. Si sedette su una branda libera, e posò un registro accanto a sé. «Oggi
non avete fatto troppo schifo. Con un po' di pratica, può darsi che riusciate a diventare dei soldati decenti». Batté la mano sul registro. «Vi darò la possibilità di scoprire se ne siete capaci. Ho qui dei moduli d'arruolamento: firmate, e diventerete dei mercenari professionisti, con un grado e una paga adeguati e la possibilità di far carriera». «E quanto durerebbe la ferma?», domandò Pancho. «Dieci anni». Posò le mani sulle ginocchia e guardò Pancho negli occhi. «Non che si combatta tutto il tempo, naturalmente. A volte passano anche dei mesi senza che ci sia una guerra». «E tra una guerra e l'altra, che si fa?». «Si è alloggiati in caserme come questa». «Come essere in galera, cioè». Si strinse nelle spalle e si alzò in piedi. «Pensateci sopra, parlatene tra di voi. La cosa presenta dei vantaggi». Lasciò cadere il registro sulla branda su cui Pancho ed io eravamo seduti. «Se l'idea vi va a genio, firmate uno di questi moduli. Ricordate di scrivere "Firmato di mia spontanea volontà il 17 Diazo 49" sopra la vostra firma». «Il 17? Vuol dire che siamo qui solo da due giorni?». «Esatto. La nostra clinica di rigenerazione è molto efficiente: se sarete feriti, ve ne renderete conto. Qui non amano vedere i soldati che perdono tempo a letto». Il 17. Coincideva col fatto che dopodomani sarebbe stato sabato, ma noi eravamo sicuri di essere rimasti fuori conoscenza per almeno una settimana, forse anche due. «E questa non sarebbe coercizione?», domandò Miko. «No. Nessuno è obbligato a firmare». «Ma se firmiamo, può darsi che vivremo un po' più a lungo», dissi. «Tornerò tra dieci minuti. Pensateci sopra». Andandosene, si fermò sulla porta. «Anch'io fui reclutato come voi, otto anni fa. Non è poi una brutta vita. Almeno, è una vita». Per un minuto, nessuno parlò, poi uno dei cadetti venne a firmare un modulo. Pancho prese a sua volta il registro e firmò. «Ci possono ammazzare una volta sola, amigo», sussurrò. «In questo modo, possiamo almeno attendere l'occasione buona». Non ero molto sicuro che in quel modo le nostre probabilità sarebbero aumentate, ma firmai. Anche Miko firmò, e poi tutto il resto della camera-
ta. Meyer tornò. Raccolse il registro e lo sfogliò. Annuì, ma non sorrise. «Avete fatto come tutti quelli che vi hanno preceduto... Sogni d'oro, angioletti. Domani sarà una giornataccia». Il primo giorno ci eravamo esercitati con munizioni a salve e granate finte. Il secondo giorno facemmo sul serio. Credo che quel che accadde fosse inevitabile, o comunque, Meyer se lo aspettava. I fucili erano copie di un modello molto primitivo: invece di far fuoco ogniqualvolta si premeva il grilletto, bisognava riaprire l'otturatore dopo ogni colpo. Era un sistema lento e macchinoso, e inoltre in un caricatore c'erano soltanto dieci colpi. Meyer ci condusse al poligono di tiro, e un caporale diede un caricatore a ciascuno di noi. Sapevamo già come fare, grazie al massacrante addestramento del giorno prima. Un coscritto, un tipo che in due giorni non aveva detto nemmeno una parola, inserì il caricatore, puntò il fucile su Meyer e fece fuoco. Meyer indossava un'armatura, naturalmente. L'impatto del proiettile io fece arretrare di un passo, ma subito estrasse la neuroshock ed abbatté l'uomo. Ci lanciò una rapida occhiata, poi ripose la pistola nel fodero. Si avvicinò all'uomo riverso. «E allora, caporale?». L'altro sottufficiale Infernale aveva ancora la pistola in pugno, e sembrava piuttosto agitato. Era un laser, non una neuro. «Cosa pensi che dovremmo fare di questo povero scemo?». «Facciamolo fuori subito. Ci risparmieremo tutte le scartoffie di una corte marziale». Meyer annuì, pensieroso. «Dovremmo usarlo per dare un esempio. È troppo stupido per fare il soldato». «Lo brucio?». Tolse la sicura. «No. Può esserci ancora utile. Lo affideremo ai macellai». Il caporale si chinò ed ammanettò l'uomo paralizzato. Meyer alzò la voce. «Domani o domenica vedrete morire quest'uomo: sarà il nostro primo diversivo tattico. Se sarete fortunati ci mostrerà da che parte viene il fuoco nemico, e salverà la pelle a qualcuno di voi». Posò la mano sul calcio della pistola. «Ci sono altri volontari?». Nessuno di noi era tanto disperato, o rassegnato. Prendemmo posizione sul poligono. I bersagli erano fantocci a grandezza naturale, che saltavano su senza al-
cuna sequenza prestabilita da alcune trincee che distavano dai cinquanta ai duecento metri da noi. Avevamo un secondo - o anche meno - per mirare e far fuoco. Era molto più difficile con i proiettili veri che con quelli a salve. Il rumore era assordante, e il calcio del fucile rinculava contro la spalla. Reagivamo a ciò irrigidendoci un attimo prima dell'impatto, e questo bastava a deviare di metri la nostra mira. Dopo cinque o sei ore di tiri mi ero impratichito niente male, ma alcuni, come Miko, erano ancora al punto di partenza. Meyer commentò sarcasticamente che saremmo molto migliorati quando i nostri bersagli ci avrebbero sparato addosso a loro volta. In seguito, ci mettemmo in fila dietro un muro trasparente di plastica scalfita. Un dirigibile-ambulanza si posò dietro di noi, e questo non ci parve certo di buon augurio. Ci mettemmo i pesanti elmetti d'acciaio che avremmo portato in battaglia. Eravamo al campo di tiro delle granate. Meyer dava una granata al primo della fila, che poi passava dall'altra parte del muro, strappava la sicura e scagliava la granata contro un bersaglio di cemento distante trenta metri, e poi si gettava a terra. I frammenti erano letali fino ad un raggio di dieci o quindici metri dal punto dell'esplosione, e quella era la distanza massima a cui alcuni riuscivano a tirare la granata. Spesso il muro di plastica vibrava, colpito dai frammenti. Uno del gruppo riuscì a procurarsi due bozzi nell'elmetto e a farsi tranciare l'ultima falange del mignolo. Meyer gli concesse un giorno di riposo, terminato il quale gli disse che lo avrebbe spedito nella trincea dirimpetto al nemico, «dove avrebbe avuto la possibilità di esercitarsi a suo piacimento». Ci allenammo anche ad usare i coltelli a mo' di baionetta, innestati all'estremità della canna del fucile. Ci dissero che ci sarebbe stato utile, nel caso finissimo le munizioni. Già: e se al nemico rimanevano ancora una pallottola o due? Al calar della sera, fummo sottoposti all'«esame»: ci spararono addosso. Dovemmo strisciare sul fondo di una trincea a zig-zag, mentre qualcuno sparava sopra le nostre teste con una mitragliatrice, un'arma che sputava un fuoco incessante. La trincea era piena di fango, e profonda meno di un metro. Tutti gli altri erano abbastanza piccoli da poter stare a quattro zampe, mentre io ero obbligato a strisciare sulla pancia. Fu una cosa piuttosto terrificante, specialmente per via del fatto che Meyer ci inseguiva, lanciando granate. Per fortuna, nessuna di esse rotolò nella trincea, e concludemmo
l'esercitazione senza dover dare nessuno per disperso. Quella sera, ci diedero un buon pasto - carne, verdure e vino - e ci lasciarono andare a letto presto. Non sarebbe stato male, se solo avessi potuto dormire. Fissai il soffitto fino a mezzanotte passata, domandandomi come sarebbe stato e se avrei mai più visto un altro tramonto, e domandandomi cosa sarebbe successo se davvero mi fossi trovato obbligato ad uccidere qualcuno. Pancho ed io ne avevamo discusso, ed eravamo giunti alla conclusione che non avremmo dovuto far altro che sbagliare deliberatamente la mira. Ma cosa sarebbe successo durante un combattimento a distanza ravvicinata? Miko giurava che sarebbe morto, prima di uccidere qualcuno per Sua Maestà, ed io ero d'accordo con lui. Ma erano solo parole. Ero quasi sicuro che anch'io avrei ucciso, se fosse stata in gioco la mia vita. Durante i giochi, sulla Terra, non avrei certo esitato. Quando finalmente riuscii ad addormentarmi, sognai di casa mia, ma non fu un sogno piacevole. Sognai che andavo alla mietitura, munito solo delle armi che avrei usato l'indomani, e che tutti gli animali feroci di Springworld mi assalivano. Non avevo mai creduto che ci potesse essere una guerra giusta, ma questa era ancor più stupida di quelle che avevo studiato sui libri. Si trattava di due colline, rispettivamente la 814 e la 905, separate da una piccola valle. Sanctuary avrebbe disposto cinquecento soldati sulla 814 e Feder avrebbe fatto altrettanto sulla 905. La guerra sarebbe durata fino a quando entrambe le colline non fossero cadute in mano dello stesso gruppo. La valle era larga quasi due chilometri, e conteneva un labirinto di profonde trincee: era evidente che proprio attorno ad esse si sarebbe combattuta la guerra vera e propria. Né i fucili né le mitragliatrici servivano molto, a due chilometri di distanza: un proiettile poteva coprire quella distanza, ma era impossibile mirare. L'ovvio espediente strategico stava nel dividere le proprie forze, lasciando una parte di esse a difendere la collina, mentre il resto, passando di trincea in trincea, cercava di raggiungere la collina nemica. A mio parere, era a questo secondo gruppo che toccava il compito più pericoloso, ma era esso ad avere le migliori possibilità di fuga. Quasi un terzo di noi era formato da specialisti: i tiratori scelti, che avevano fucili pesanti e molto precisi, sabotatori e personale medico. Gli altri due terzi erano carne da cannone. Ci svegliarono prima dell'alba e ci fecero ammucchiare sui dirigibili. Non ci recammo direttamente sulla collina, ma ci fermammo al «teatro
d'azione»: ai dirigibili non era permesso spingersi oltre, o avrebbero trasgredito le regole circa la ricognizione aerea. Coprimmo a piedi il resto della distanza, spingendo carri carichi di vettovaglie e munizioni. Costituivamo quasi un decimo dell'intero esercito di Sanctuary. Gli altri si trovavano sulla collina già da parecchi giorni, per preparare tutto. La guerra doveva cominciare a mezzogiorno. Fu solo alle undici e mezza che, esausti, riuscimmo a trascinare i carri sulla collina. Dopo quella passeggiatina, il sergente Meyer era fresco come una rosa, forse perché non era stato lui a spingere i carri. «Mettete la vostra roba in quel bunker», disse, indicandoci un buco nel terreno, «e riempite un po' di sacchetti di sabbia». Sacchetti di sabbia? Se ne andò in fretta, senza spiegarci. Quando Pancho ed io arrivammo col nostro carro al bunker, trovammo due uomini che stavano riempiendo di fango dei sacchi di plastica. Beh, in fin dei conti il fango è sabbia bagnata, no? «Ecco qua i pivelli», disse uno di loro. «Non avete una pala, in mezzo a quel casino?». Ne trovai una. «Voi riempite; noi li mettiamo a posto». Mentre costruivano attorno al buco uno spessore di due sacchetti, chiacchierarono con noi. Si chiamavano Tanner e Darty, veterani di più di un anno di guerre, ed avevano avuto il privilegio di aiutarci a preparare il nostro bunker. Avevano già preparato un mucchio di sacchetti di sabbia, e li mettevano uno sopra l'altro con la velocità che nasce dall'esperiènza. Il buco era una specie di caverna, da cui si dominava la collina. Ci spiegarono che il muro di sacchetti di sabbia, almeno in teoria, ci avrebbe protetto dal fuoco dei fucili e delle mitragliatrici, qualunque fosse la sua intensità, poiché un proiettile aveva un potere di penetrazione di soli due centimetri. Bisognava però praticare delle feritoie nel muro per sparare, e un cecchino fortunato che fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza sarebbe riuscito ad infilare un colpo nella feritoia. Chi stava sparando dietro di essa si sarebbe molto probabilmente beccato una ferita alla testa. Darty ci mostrò una cicatrice glabra che aveva su un lato della testa, e ridacchiò. Le feritoie non erano che scatole di legno rettangolari, che concedevano appena spazio e libertà di movimento ad un fucile, ed erano lunghe quando due sacchetti di sabbia. All'esterno erano coperte da una striscia di garza trasparente, dello stesso colore del fango. In quel modo, teoricamente, nessun cecchino avrebbe potuto individuare la feritoia, a meno che non vi vedesse mentre gli stavate sparando addosso.
Più che nei proiettili, il pericolo stava nella possibilità che qualcuno riuscisse ad avvicinarsi abbastanza da poter tirare una granata o una bomba incendiaria oltre il muro. In mezzo al pavimento del bunker c'era un profondo avvallamento, un «pozzetto da granata»: se una granata ci cadeva addosso dall'alto, bastava gettarla con un calcio nel pozzetto, che avrebbe concentrato i suoi frammenti verso l'alto. Se invece si trattava di una bomba incendiaria, l'unica cosa da fare era buttarsi fuori dal bunker il più presto possibile. Ad ogni modo, la strategia migliore stava nel non permettere che nessuno si avvicinasse troppo. «Date retta a me», disse Tanner, «cercate di non ammazzare nessuno, se proprio non ci siete costretti». «Ricominci?», borbottò Darty. «Sta' zitto, testone. Mirate alle gambe, alle braccia, ai fianchi o alle spalle. Anche gli altri sono nelle stesse nostre condizioni, almeno la maggioranza, e non vogliamo altro che riportare a casa la pelle. Se noi facciamo i fanatici, lo diventeranno anche loro. Non venirmi a dire che non è vero, Darty; l'ho visto coi miei occhi». Darty gli fece due occhiacci. «A meno che non si tratti di un Infernale. Quelli sono tutti cani rabbiosi, e comunque hanno voglia di morire». Un fischietto trillò sopra di noi. «Distribuzione munizioni. Andiamo». Cadendo e scivolando, riuscimmo ad arrivare in cima alla collina. C'erano il capitano Forrestor e il sergente Meyer, e un'altra dozzina di sottufficiali Infernali. Vicino a loro c'era un bunker. Da esso uscirono Alegria, vestita di bianco, ed altri nove aiutanti di sanità, tra cui due donne. Alegria ci salutò con un gesto della mano, e ci rivolse un pallido sorriso. Era piuttosto affollato, lassù: c'erano cinquecento persone che scivolavano o cadevano l'una addosso all'altra. Ci suddivisero in dieci compagnie, ognuna delle quali occupava uno spazio contrassegnato da una pila di casse e dalla bandiera della compagnia. Noi tre facevamo parte della Compagnia B, anche se Miko era stato assegnato ad un altro bunker. Quando suonarono di nuovo il fischietto, era mezzogiorno in punto, l'ora d'inizio della guerra. Distribuirono a ciascuno di noi duecento proiettili da fucile e cinque granate, poi ci suddivisero in squadre di dieci persone. Pancho ed io capitammo nella squadra D, comandata da un caporale terrestre di nome O'Connor. «Oggi è il nostro giorno fortunato», disse O'Connor. «Siamo una delle
squadre difensive, e rimarremo sulla collina. Per un po', la maggior parte del carnaio sarà nella valle. Siete stati tutti assegnati a un bunker?». Borbottammo di sì. «Bene. Le prossime ore le passeremo una sì, una no. Cioè, voglio dire che farete un'ora di sonno e una di guardia, e così via. Quanti di voi sono pivelli?». Alzammo la mano in cinque. Sospirò. «Sempre a me, dovete capitare! Fate attenzione. Non siete stati molto addestrati, e so che appena farà caldo dimenticherete tutto quello che vi hanno insegnato, e non saprete più che pesci pigliare. C'è però una cosa che non dovrete mai dimenticare, mai: quando sparate, sparate solo per uccidere. Non riuscirete a riportare a casa la pelle se non riusciremo ad indebolirli abbastanza da portargli via quella collina. Se vi limitate a ferire un tizio, la settimana dopo ve lo ritrovate di fronte, che vi spara addosso. Potete scommetterci...». Dalla parte opposta della valle arrivò fino a noi il fioco tap-tap-tap di una mitragliatrice che cominciava a sparare. «Quei bastardi si stanno già dando da fare. Raggiungete i vostri bunker e restate dietro i muretti. Verrò a trovarvi più tardi». Guardai Pancho ed aprii la bocca per dire qualcosa, ma si udirono un suono come una staffilata, e poi un rumore viscido ed umidiccio. Un proiettile aveva scavato un cratere nel fango, a tre metri da noi. Il mio scivolone fu più rapido del suo: quando mi cadde addosso, ero nel bunker già da tre secondi buoni. Si tolse il fango dalle braccia. «Credevo che quei cosi non riuscissero ad arrivare fino a qui». «Sì, ma non possono mirare. Credo che volessero solo spaventarci». Ci erano riusciti, infatti: attorno a noi sentivamo delle urla, e il rumore di gente che si buttava al riparo. Il cuore mi batteva forte, e Pancho aveva perso parte della sua abbronzatura. La nostra mitragliatrice cominciò a rispondere al fuoco. Infilai il fucile nella feritoria e regolai al massimo il mirino telescopico. Il puntino diventò rosso e si fermò, ammiccando, al centro della zona inquadrata. La collina 905 era coperta di formiche impazzite. Tanto per fare un esperimento, puntai il fucile a valle, sulle trincee ai piedi della collina. Il puntino diventò giallo e si alzò lentamente. «Non credi che più tardi avrai tutto il tempo di divertirti a sazietà, amigo?», disse Pancho. «E poi, non l'hai nemmeno caricato». Neanche a farlo apposta, un fucile tuonò in un bunker vicino.
«Non fare il fesso», gridò qualcuno. «Quella pallottola non arriverà neanche a metà strada». «Chi fa il primo turno di riposo?», disse Pancho. «Comincia tu. Io non ci riuscirei». «Neanch'io. Pari o dispari?». «Pari», dissi. Fece due, e io tre. «Sogni d'oro», disse, ed infilò un caricatore nel fucile. Improvvisamente, ci fu una confusione d'inferno: una folla di soldati armati e con gli elmetti in testa stava discendendo di corsa - o a scivoloni - il sentiero che passava accanto al nostro bunker. Avevano tutti gli zainetti da campagna che contenevano munizioni, granate e razioni d'emergenza, e stavano correndo verso il riparo temporaneo delle trincee a valle. Erano le squadre d'assalto, quasi duecento uomini. Uno di loro cadde in avanti e scivolò per dieci o quindici metri, per poi fermarsi, immobile. Un altro frenò la propria scivolata accanto a lui, gli diede un'occhiata e riprese la discesa a velocità raddoppiata, dopo aver gridato: «Aiutante! Spostamento d'aria!». Due aiutanti di sanità, entrambi maschi, raggiunsero di corsa l'uomo e si accertarono rapidamente delle sue condizioni, poi lo presero sotto le ascelle e lo trasportarono fino al nostro bunker, e cominciarono a posarlo dentro. «Ehi, dateci una mano». Lo adagiammo sul pavimento con tutta la delicatezza possibile. Uno degli aiutanti saltò giù, scelse un'ipodermica tra quelle contenute nella cassetta che portava alla cintura e gli praticò un'iniezione al braccio. L'uomo si lamentò, e scosse il capo. L'assistente gli tolse l'elmetto e glielo posò vicino. «Dove sono... cosa cavolo...». «Ti è rimbalzato un proiettile sull'elmetto, e ti ha messo fuori combattimento», disse l'aiutante. «Quando riesci a rimetterti in piedi, vieni in infermeria». Si alzò. «Oppure, vieni quando smette di piovere». Si unì all'altro aiutante, e risalirono di corsa verso la sommità della collina. L'uomo raccolse l'elmetto, e passò le dita sull'incavo in cima ad esso, poi si toccò delicatamente il bernoccolo a forma di uovo che gli stava crescendo sulla nuca, e si guardò le dita. «Per un pelo...». Deglutì, e diventò pallido. «Sei stato fortunato, amigo». «È... è la prima volta che mi colpiscono». «Da quanto tempo fai il soldato?», domandai. «Sfortunaccia nera, farsi beccare nei primi due minuti... eh?».
«Ho detto: "In quante guerre hai combattuto, senza farti ferire?"». «Ne ho passate tre», disse, toccandosi di nuovo la testa e facendo una smorfia di dolore. «Ho firmato quattro mesi fa». «Firmato? Non sembri un Infernale». Si guardò ancora le dita. «Almeno non sanguina... No, sono un terrestre, ma ero troppo dannatamente grosso per la Terra. Ho guadagnato un po' di soldi con i giochi e sono venuto qui per aprire un negozio di liquori. Poi ho fatto dei debiti». Scosse lentamente il capo. «Sarei rimasto sulla Terra, se avessi saputo che sarebbe andata a finire così. Avrei potuto guadagnare una fortuna. Chi se ne frega se la gente si ferma a guardarti». «Anche noi abbiamo fatto i giochi», dissi. «Pancho aveva i bolas, e io il bastone». «Beh, che io sia dannato!». Sorrise per la prima volta, e ci tese la mano. «Jake Newmann, vibromazza». «Io mi chiamo Carl...». Preceduto da una cascata di terra e di fango, O'Connor, il piccolo caporale terrestre, scivolò nel bunker. «Come sarebbe», disse. «Tre uomini in un maledetto bunker e nessuno che sta di guardia?». «Caso di emergenza, signore», dissi. «Non chiamarmi signore, io devo lavorare per vivere», ribatté automaticamente. «Sei tu quello che è stato colpito mentre scendeva?». «Sì, caporale. Una pallottola di quella mitragliatrice: mi è rimbalzata sulla zucca e mi ha messo al tappeto». «Così presto!», disse, scuotendo il capo. «Sfortunaccia nera!». Mi domandai se tutti i soldati fossero superstiziosi come quei due. Si rivolse a me e Pancho. «Voi due potete stare tranquilli per un'altra ora o giù di lì. Gli Azzurri non tenteranno certamente di caricare attraverso la valle». Noi eravamo i Rossi. Entrambi gli eserciti indossavano le stesse uniformi color fango, ma noi portavamo delle fasce al braccio per evitare di essere uccisi dai nostri a distanza ravvicinata. Ad ogni modo, voglio che teniate gli occhi aperti. Può darsi che mandino dei cecchini ad accerchiare ai fianchi il grosso dei nostri assaltatori - e noi stiamo facendo lo stesso, potete scommetterci -, e potrebbero arrivare qui nel giro di un'ora. Di solito, ci si accorge che c'è un cecchino solo quando ha già fatto la sua prima vittima. Un cecchino non rischia di rivelare là propria posizione se non quando è certo di riuscire a mettere a segno un colpo, Solo allora si vede la fiammata, o quel po' di fumo che basta ad individuarlo».
«Sig... cioè, caporale, non riusciremo a vederli, quando spareranno? Voglio dire, non ci sono bunker laggiù, no?», domandai. «No, niente bunker, ma hanno delle U.M.M., le Unità mimetiche mobili. Sono un po' come le vostre feritoie. Se non le vedete mentre le stanno montando - ed è molto difficile - non riuscirete a distinguerle dal resto della trincea, a meno che non vi siate studiati il terreno fino all'ultimo sassolino, e per fare quello ci vogliono un paio di settimane. Una volta appostati, sparano solo di notte». Fui contento che le regole del gioco non ammettessero l'uso dei mirini infrarossi, come quelli che usavamo su Springworld per sorvegliare i raccolti, perché se no i cecchini sarebbero stati una minaccia troppo grande. «Siete dei pivelli?», domandò Jake Newmann. «Non si vede?», disse O'Connor. «Resta con loro, finché la tua squadra non ritorna... a meno che tu non voglia andare a raggiungerli». «Come no, caporale! Da solo, in mezzo alla terra di nessuno». «Avvertirò il sergente Dubi che sei qui. Stavo proprio andando da quella parte, e credo che sarà d'accordo». «Oh, qui mi va benissimo», disse Jake. «E poi, siamo fratelli di sangue: eravamo tutti gladiatori, sulla Terra». Il caporale ci guardò con una strana espressione. «In questo caso, tutto ciò deve sembrarvi un gioco da bambini». Pancho ed io restammo zitti. «Aspettate, e vedrete», disse piano, e si issò fuori del bunker. «Ho l'impressione che non gli piacciano molto i gladiatori», disse Jake. «Come mai vi trovate qui? Vi hanno squalificati, o qualcosa di simile?». Gli spiegammo della Starschool e del nostro rapimento, e naturalmente non ne fu sorpreso. «Siete sicuri che la vostra nave sia ripartita?», domandò. Pancho si strinse nelle spalle. «Ci danno per dispersi, e per giunta in una zona remota. Non credo sia la prima volta che Bruno combina un tiro simile, e quindi non avrà lasciato niente al caso». «E la nave, secondo il programma, doveva partire ieri», aggiunsi. «Eppure, quei parrucconi della Starschool dovrebbero essere piuttosto svegli, direi», disse Jake. «Che diavolo, persino io mi accorgerei che c'è qualcosa che puzza. Chi lo sa, può anche darsi che domani vediate la vostra dannata nave che si posa nel bel mezzo della terra di nessuno!». «Non atterra mai», dissi. Su una cosa, però, aveva ragione: il rettore era effettivamente "piuttosto sveglio", pignolo e scrupoloso. «Può darsi che tu abbia ragione. Forse tutto questo addestramento ci ha
fatto dimenticare l'ottimismo e la speranza». «Ma certo. Tenete duro, e prima o poi verranno a prendervi. Guardate la cosa dal loro punto di vista: credete che torneranno a casa a dire ai vostri vecchi che avete lasciato le penne durante un dannato addestramento? Io non ci scommetterei di certo». Stavo cercando di resistere all'ondata di speranza che mi aveva invaso. «Abbiamo firmato un documento che solleva la Starschool da ogni responsabilità verso... Oh, mio Dio!». «Che c'è?», domandò Jake. «Ci siamo arruolati. Ci siamo arruolati come mercenari, e abbiamo dovuto dichiarare di averlo fatto di nostra spontanea volontà». Jake scoppiò in una risata. «Quel pezzo di carta vale quanto un pezzo di carta igienica, se avete a disposizione dei testimoni come il vostro rettore. Non siete Infernali, siete cittadini di altri pianeti: se deciderete di contestare il contratto, esso verrà sottoposto all'arbitrato della Confederaciòn, che lo annullerà». «Come fai a saperla così lunga su queste cose?», domandò Pancho. «Guardatemi!», disse Jake, allargando le braccia. «Sono un bottegaio, non un mercenario». Rise, di un riso dolce ma un po' pazzo. «Avevo un negozio di liquori, sulla Terra, prima di dover fare il gladiatore. La so davvero lunga, credetemi. Avrei potuto fermarmi qui con un permesso di soggiorno, ma ho preso la cittadinanza per risparmiare un dieci per cento di tasse. Merda, vorrei davvero... vorrei andarmene. Meglio essere al verde ed estradati che essere al verde ed arruolati». Rise ancora. «No, credetemi: conosco la legge. Sapevo che mi sarebbe successo, me lo aspettavo da un anno e più». «Non c'è niente che tu possa fare?», domandai. «Soltanto cercare di sopravvivere per dieci anni». Si fece improvvisamente tetro. «Ma oggi mi sembra più improbabile di ieri». «Su questo dannato pianeta è tutto così assurdo», dissi. «Perché no... Ad esempio, su Springworld il governo avrebbe gestito il tuo negozio, avrebbe garantito la tua sopravvivenza...». «Oh, il mio negozio è già in mano al governo, e non ha più debiti, ma qui non si può intentare causa al governo: chi mai oserebbe farlo? Quando - teoricamente -- avrò finito la ferma, mi restituiranno il negozio, e i miei debiti... più gli interessi. I miei dieci anni di paga col grado di soldato e caporale basteranno appena a pagare tutto. È per questo che mi sono arruolato».
«Non avevi detto di aver firmato?», domandai. «Esatto, ma in circostanze simili alle vostre. Potevo scegliere tra l'arruolarmi e il finire nel carcere per debitori... e dal carcere per debitori si esce solo in una cassa». «Ma alméno...». Pancho si rese conto di ciò che stava per dire, ma continuò lo stesso. «...almeno saresti morto di morte naturale». «Bravo! Dov'eri, quando avevo tanto bisogno di consigli?». Si alzò, e per rimanere in piedi dovette appoggiarsi al muretto. «Ma perché tutti quelli che non vogliono combattere non si rifiutano?», domandò Pancho. «Perché non incrociano le braccia, o qualcosa di simile?». Jake rise. «Tirerebbero a sorte per vedere chi debba avere il piacere di cominciare il massacro. Un mucchio di Infernali sarebbero contentissimi di farlo, e anche qualche coscritto. Agli inizi, il lavoro non gli piace, ma piano piano ci si affezionano. L'ho visto succedere tante volte». Ricordai l'arena, e rabbrividii. In ogni uomo c'era una parte oscura. «Sarà meglio che vada a prendere il mio fucile», disse Jake. Giaceva ancora nel fango in cui era caduto. «Meglio farlo adesso, prima che là fuori faccia troppo caldo». «Resta qui e riposati, amigo», disse Pancho. «Vado io a prendertelo». «Pancho..». La mitragliatrice stava ancora sgranando i suoi colpi. «Non fa ancora troppo caldo», disse, issandosi fuori del bunker. Non ci mise molto. «Grazie». Jake prese il fucile e cominciò a pulirlo accuratamente con uno straccio. «Come stavo dicendo, può darsi che dobbiate passare solo uno o due giorni qui, prima che vi vengano a prendere. Basta che teniate giù la testa e non facciate scemenze». Ci indicò le feritoie. «Mettete tutti i caricatori su quella mensola di legno, e tutti nella stessa direzione. È un trucchetto che vi verrà utile quando dovrete ricaricare al buio. Metteteci anche un paio di granate, vi serviranno quando non vorrete rivelare la posizione del bunker, di notte. Cercate però di non lasciarle cadere sul bunker di sotto. Tenete sempre puliti il fucile ed il mirino: è da essi che dipende la vostra sopravvivenza». «Di solito, spari con l'intenzione d'uccidere?», domandai. «Io mi limito a sparare, e basta: è la pallottola che decide». Si fece pensieroso. «Se si trattasse però di un certo sergente Azzurro di mia conoscenza ad attaccare la collina, prenderei la mira proprio bene... eccome!».
«Credi che stanotte cercheranno di prendere la collina?», domandò Pancho. «Probabilmente no, ma durante la mia seconda guerra accadde che il nemico lasciò completamente sguarnita la sua collina per lanciare un attacco in massa contro di noi. Non funzionò. Di solito, riescono al massimo ad infiltrare qualche cecchino a fondovalle: ciascuno di essi ha due o tre U.M.M., e così riescono a spararci da diverse angolazioni. Di notte, poi, può darsi che s'infiltrino anche dei guastatori, allo scopo di arrivare fin quassù e gettare granate in qualche bunker. Ad ogni modo, dopo che è calato il buio, di solito si spedisce giù una squadra di commandos a dar la caccia ai cecchini. È un lavoro per gente con lo stomaco forte, e bisogna essere molto silenziosi. A volte, i commandos che scendono incontrano i guastatori che salgono, e allora succedono cose molto spiacevoli». «Pensi che ci assegneranno ai commandos?», domandai. «No. Solitamente, sono tutti Infernali, o mercenari professionisti di altri pianeti. Bisogna essere in gamba: è un lavoro di coltello». Rabbrividii. Si strofinò forte la faccia, con entrambe le mani. «Forse dovrei andare in infermeria». «Ti aveva detto di...». «Lo so, ma i medici non mi sono mai stati simpatici». Si mise in testa l'elmetto e fece una smorfia di dolore. «Credo che dopotutto farò meglio ad andarci. Magari mi daranno anche due giorni di riposo». S'inerpicò fuori del bunker, e si sentì un suono simile ad un energico schiaffo. «Oh», disse piano, e poi scivolò giù. Lo presi al volo, prima che cadesse al suolo, e lo adagiai sulla schiena. Sentii il fiato che si strozzava nella gola di Pancho. Aveva la pelle grigia per lo shock, e sul suo petto si stava allargando una macchia rosso-scura. La stava guardando. Disse soltanto: «Non ce l'ho fatta», poi ebbe un rigurgito terribile. Il suo collo si afflosciò, e la sua testa ricadde al suolo. I suoi occhi morirono. «Dios», disse Pancho. «Mierda». Le mie mani tremavano tanto che riuscii a malapena ad aprirgli la cerniera lampo della camicia. Quando riuscii ad aprirla, mi rialzai e lottai per respingere il sentore acido del vomito che mi stava salendo in bocca. Non avevo certo voglia di esporre la mia testa sul parapetto solo per svuotare uno stomaco troppo debole. In mezzo al petto aveva un buco così grosso che avrei potuto infilarci il pugno. Era un buco rosso, bianco e giallo. C'erano delle schegge d'osso. La
pallottola doveva avergli trapassato il cuore. «Sanità!», gridò Pancho; gridò ancora, più forte. «Che c'è?», domandò una voce dall'alto. «C'è... c'è un morto». «Siete sicuri che sia morto?». Pancho lo guardò per un attimo, e poi voltò bruscamente il capo. «Più morto di così, non si può». «Aspettate un minuto». Aspettammo. Gli tolsi di tasca lo straccio, e lo usai per coprirgli il volto. Così, era un po' meglio. Dicono che quando gli studenti di medicina eseguono le autopsie, la prima cosa che fanno è asportare la faccia. «Ehi, voi». La voce non si era avvicinata. «Lasciatelo dov'è. Verremo a prenderlo dopo il tramonto». Quella era davvero un'idea grandiosa. «Credi che... che dovremmo metterlo fuori?». «No, non credo», disse Pancho. «Piuttosto, che ne diresti se per un po' montassimo la guardia tutti e due?». «Buona idea». Scavalcai il cadavere e mi sedetti a guardar fuori dalla feritoia. «Che cosa orribile», sussurrò Pancho. «Era...». Qualcuno saltò giù nel bunker, alle nostre spalle. Afferrai il fucile e ruotai su me stesso. «Non sparare, stupido!». Era O'Connor. Toccò il cadavere con un piede. «Ancora lui». Diede un'occhiata sotto lo straccio. «Che io sia dannato. Che io sia stradannato». Era più che probabile, ma non glielo dissi. «Cosa è successo?». «Stava andando in infermeria. Forse è stato un cecchino». «Macché. Questa è una ferita da calibro 50». Rovesciò parzialmente il corpo: sulla sua schiena c'era un cerchio di sangue. «Il punto d'entrata è questo», disse con tono distaccato, «più in alto del punto di uscita. Sarebbe stato più basso, se si fosse trattato di un cecchino». Lasciò cadere il corpo. «Speriamo che non abbiano davvero un cecchino con un calibro 50». «Dunque, si è trattato di un semplice colpo a casaccio di quella mitragliatrice», dissi. Si rialzò in piedi, e si asciugò le mani sulla camicia. «A volte, la nostra fortuna fa cilecca, ma due volte di seguito è un po'...». Due aiutanti di sanità arrivarono di corsa e si fermarono davanti al bunker. «Eravate voi quelli che volevano consegnare uno stoccafisso? Il tenen-
te ha detto che ci servono gli organi». «Non è vero, non ci serve nessun organo», disse il secondo. «Potete parlare liberamente, sono un caporale», disse O'Connor. «Anche se sei un ammiraglio, non me ne frega niente lo stesso. Vogliamo solo quel maledetto stoccafisso, così possiamo tornare al nostro maledetto bunker». Io e O'Connor lo afferrammo per le braccia. Un corpo esanime è più pesante del corpo di una persona viva. Gli aiutanti lo presero in consegna senza ringraziarci, e lo trascinarono via. Le punte dei suoi scarponi tracciavano due solchi paralleli nel fango. O'Connor scalciò del fango sulla macchia di sangue e si sedette, con la schiena appoggiata ai sacchetti di sabbia. Accese una sigaretta, e ci offrì il pacchetto; rifiutai, ma Pancho ne accettò una. Per un minuto restammo seduti, a guardare il punto in cui c'era stato il corpo. La mitragliatrice macinava piano, e ogni tanto si sentiva lo splash di una pallottola che finiva vicino a noi. «Devono avere munizioni a strafottere», disse O'Connor. «Perché non stiamo sparando anche noi?», domandai. «Beh, probabilmente perché qualcuno crede che loro ci vogliano far sprecare munizioni, il che vorrebbe dire che stanotte ci dovrebbe essere un assalto, qualcosa di grosso, come un'ondata umana. Forse è per questo che risparmiamo le munizioni, ma è solo un'ipotesi». Tirò una lunga boccata. «Non sarebbe male, però». «Non sarebbe male cosa? Un'ondata umana?», domandò Pancho. «È una maniera come un'altra di farla finita in fretta. Personalmente, però, preferisco combattere nelle trincee: c'è più mobilità». A fondovalle risuonarono un paio di spari, e poi molte detonazioni di granata. «Primo contatto», disse O'Connor, con un filo d'eccitazione nella voce. Ci fu una breve salva di fucileria. Si rialzò e spense il mozzicone sotto il tacco, sul pavimento. «A proposito, ci sapete per caso fare col coltello?». «No», mentii. «Non ne ho mai usato uno», disse Pancho. «Beh, sarà meglio che torni al posto di comando». Uscì dal bunker e si allontanò senza fretta. «Per noi, quell'uomo è più pericoloso di qualsiasi Azzurro», disse Pancho.
Stavo riflettendo. «Aspetta. Supponi che ci assegni un incarico da commandos. Avremmo tutta la notte per tagliare la corda, e quando non ci vedessero tornare crederebbero probabilmente che siamo stati uccisi». «L'unica pecca del tuo ragionamento è che probabilmente saremmo uccisi sul serio». Guardò dalla feritoia. «Mi domando se siano già riusciti ad arrivare a metà strada». Osservai il panorama sottostante attraverso il mio mirino telescopico. Ci fu uno sbuffo di fumo bianco e di fango, seguito dal rumore secco di una granata. Misi a fuoco su quel punto: il puntino era in basso, ma non era ancora rosso. All'improvviso, un paio di dozzine di soldati saltarono su da una trincea e cominciarono a correre verso di noi. Portavano le insegne degli Azzurri, ed avevano le baionette innestate sui fucili. «Aprite il fuoco!», gridò qualcuno, e immediatamente dai bunker attorno al nostro si cominciò a sparare. Mirai alto e premetti il grilletto, e il fucile fece un gran rimbombo all'interno del bunker. Misi un altro colpo in canna e sparai di nuovo. «Lasciateli avanzare! Una pallottola ci mette un secondo a raggiungerli». Ci sembrava che il nostro fuoco fosse inutile, ma poi vedemmo cadere in ginocchio uno dei soldati: lasciò cadere il fucile, e ritornò strisciando sui propri passi. Davanti a loro, ad una ventina di metri di distanza, dei soldati Rossi balzarono fuori da una trincea e cominciarono a sparare e a lanciare granate. Molti degli Azzurri caddero subito, ma gli altri rispondevano al fuoco durante la fuga. Qualcuno sparò un bengala, e una stella verde-chiaro si accese sulle postazioni. Era la chiamata per i rinforzi, immaginai, ma entrambe le parti l'avrebbero vista. Quasi metà degli Azzurri riuscì a far ritorno alle proprie trincee. «Cessate il fuoco!». Senza levare lo sguardo dal mirino, Pancho disse: «Sì, anch'io sono contento che siamo qui, invece che laggiù». «Vorrei che potesse continuare così. Hai colpito qualcuno?». «No, miravo alto». «Anch'io». Una granata esplose nella trincea, ed abbassai istintivamente il capo. A distanza così ravvicinata, sembrava quasi autolesionismo. Dal fragore della battaglia si staccò una detonazione più forte, quasi quanto quelle che risuonavano dai bunker vicini, e in cima alla collina qualcuno urlò. Un cecchino. «Ora sì che siamo fritti», dissi.
«Hai visto qualcosa?». «No». L'uomo colpito stava invocando l'aiuto di un medico. Mi domandai se avrei avuto il coraggio di andarlo a soccorrere, con un vestito bianco invece che color fango. Secondo le regole, era proibito sparare alla sanità. Immaginai morbosamente che Alegria dovesse correre allo scoperto per assistere quell'uomo; e che la sua vita dipendesse dalla possibilità che il cecchino rispettasse o meno le regole del gioco. Non c'erano donne combattenti, e così, forse, le aiutanti di sanità lavoravano solo al coperto. Ci fu un altro sparo, apparentemente proveniente da un'altra direzione, ma nessuno fu colpito, o almeno così sembrò. Un paio di secondi più tardi, il bunker sopra di noi aprì furiosamente il fuoco: dovevano aver visto la fiammata. Lanciarono anche una granata, ma cadde troppo corta, ed evitò di poco un bunker sottostante. «Lo vedi?», domandò Pancho. Riuscivo solo a vedere gli schizzi di fango quando i proiettili colpivano, ma nient'altro. Ci fu un altro sparo, e questa volta sentimmo sibilare la pallottola sopra le nostre teste. Nel bunker di sopra avevano smesso di sparare. Avevano del buon senso: perché andare in cerca di rogne? «Eccolo!», disse Pancho. Anche a me era sembrato di aver notato qualcosa che si muoveva cautamente. «A sinistra di quella roccia bianca?». «Proprio là». Dopo un istante, dissi: «Gli sparerai?». «Questa guerra non l'ho voluta io. E tu che ne pensi, amigo?». «Neanch'io». Continuai invece ad osservare quel punto, e cominciai a considerare l'aspetto morale della cosa da un punto di vista aritmetico, e viceversa. Se non avessi premuto il grilletto, forse sarebbe riuscito ad uccidere dieci soldati. In questo caso, sarei stato io il responsabile di quelle dieci morti, in un certo senso. D'altra parte, se avesse visto la fiammata, e se io lo avessi mancato, e se mi avesse sparato addosso a sua volta... Più che un moralista, mi sentivo un vigliacco. «Credi che ci fosse un po' di vero in quel che diceva Jake?», mi domandò Pancho. «Quella storia del rettore che verrebbe a salvarci? Non mi sentirei di scommetterci». «Neanch'io, temo. Forse ci dovremmo offrire per le azioni di commando».
Riflettei per un minuto. «Non ancora. S'insospettirebbero. O, almeno, al posto loro io mi insospettirei. Suppongo che non possiamo far altro che aspettare di vedere che piega prendono le cose. Guarda, la battaglia è finita». Non si sparava più. Sette uomini, feriti o uccisi, giacevano tra le due trincee. Un aiutante di sanità vestito di bianco e con un bracciale azzurro stava passando di uomo in uomo. Ma quanti altri corpi c'erano nelle trincee? Il fuoco dei cecchini era cessato. Forse stavano aspettando il buio, o che qualcuno si esponesse. Avevo un bisogno tremendo di orinare, ma decisi che uscire non sarebbe stato molto salutare. Pancho montò la guardia, ed io tentai di dormire. Desideravo quasi che O'Connor fosse con noi. Quella battaglia aveva coinvolto un numero molto esiguo di uomini: ciò voleva forse dire che l'attacco dell'ondata umana non avrebbe avuto luogo? O che forse c'erano altri tre o quattrocento soldati che stavano espugnando le nostre trincee? Il pensiero che tutto ciò era plausibile mi fece venire i sudori freddi: certo, perché non mandare una dozzina di uomini allo sbaraglio, come diversivo, mentre il grosso si preparava al colpo di grazia? No, si sarebbero sentiti più spari. O forse avevano attaccato in silenzio, con le baionette. Laggiù c'erano duecento dei nostri. Quanti di essi avevano effettivamente partecipato alla battaglia? Non certo tutti e duecento. E poi, le trincee erano un labirinto, e grazie a questo i cecchini riuscivano ad infiltrarsi senza farsi scoprire. Se riuscivano a passare due uomini, perché non cinquecento? Non pareva probabile. Ma nemmeno impossibile. Fu il suono degli spari a svegliarmi di soprassalto. «È giù, nella prima trincea», disse Pancho. «Non in quella falsa, ma in quella immediatamente dopo». La falsa trincea era dritta e poco profonda, a differenza delle trincee profonde e zigzaganti che segnavano il fondovalle. Guardai dalla feritoia e vidi i ciuffi di fumo che si levavano dalla trincea. Che fosse la prima fila dell'ondata umana? Non era ancora buio. «Hai visto qualcuno?». «No», dissi. «Non ancora». Il fuoco cessò all'improvviso, poi decine di soldati si riversarono dalla trincea. Vedemmo con sollievo che indossavano i bracciali Rossi. «Forse hanno beccato i cecchini», dissi. «Beh, almeno sono riusciti a tornare. Passeremo una notte un po' più tranquilla». Mi stiracchiai, ed avvertii un dolore acuto. «Ora che c'è in giro un sacco
di bersagli, andrò ad innaffiare l'erba». «Anch'io, dopo di te». I servizi igienici consistevano in un bidone da duecento litri posto in mezzo al sentiero. Mentre me ne stavo servendo, i soldati di ritorno dalle trincee passarono e mi indirizzarono commenti salaci. Alcuni di loro erano bendati e sanguinanti, e alcuni dovevano essere sostenuti dai compagni. Avevano fatto fuori due cecchini. Diedi il cambio a Pancho ed osservai il calar del sole, finché non riuscii quasi più a vedere dal mirino. Qualcuno si avvicinò al bunker e ci scivolò dentro. «O'Connor?». «Si. Siete tutti e due svegli?». «Come no», disse Pancho. «Prendete». Diede a ciascuno di noi un pesante involto. «Sono la pistola e la baionetta». «Voi gladiatori avete fegato, eh?». Non gli rispondemmo. «Beh, questo è un lavoro per gente di fegato». «Quale lavoro?». «Quésta notte, voi due andrete a caccia di cecchini. Passate tra le prime file di trincee e ammazzateli silenziosamente». «Credevo che le squadre di assalto li avessero già fatti fuori». «Sì, ma torneranno. Gli piace tanto, andare in giro di notte». «Caporale», disse Pancho, «queste pistole non sono certo silenziose, non è vero?». «No, ma non dovrete usarle se non in caso d'emergenza. Prendete qualche granata, invece: sono molto meglio». «Ecco cosa faremo». Mi piacque, quel «faremo». «Alle ventidue e venticinque, spareremo un bengala a stella doppia: vedrete due bagliori molto intensi. Non appena si spengono, uscite dal bunker e scendete dal sentiero. Avrete cinque minuti di oscurità». «A meno che il nemico non spari a sua volta un bengala». «Già. In quel caso resterete immobili, come vi hanno insegnato. È davvero molto difficile vedere un uomo che non si muove. Inoltre, attaccato al cinturone troverete un corredo mimetico. Spalmatevi la tintura sulla faccia, sulle mani e dietro il collo». Agitò una boccetta: «Queste pillole migliorano la vista notturna e scuriscono il bianco degli occhi. Prendetene una adesso». Le prendemmo. «Come faremo a sapere quando sono le ventidue e venticinque?», domandai.
«Non avete l'orologio? Quando sarà ora, vi getterò un sasso nel bunker. Se invece sentirete un fischio, vuol dire che non se ne fa niente». Si portò alle labbra un fischiettò e soffiò dolcemente. «Potrebbe succedere?», domandò Pancho. «Nel caso ci fosse un attacco in massa, ci sareste più utili qui. Durante l'addestramento, vi hanno mostrato come si uccide un uomo con la baionetta?». «Sì». Non ci eravamo allenati tra di noi, questo era certo. «Se vi dovesse succedere, il modo migliore è di sorprenderlo alle spalle, mettergli la mano libera sopra la bocca e il naso, e colpirlo alla gola o alle reni. Alla gola è più facile, ma alle reni lo farete fuori più in fretta. Tu che hai le mani grosse potresti anche strangolarlo, e finirlo in silenzio quando sviene. Il fattore fondamentale è il rumore. Può darsi che nei pressi ci sia un altro cecchino, o anche dei guastatori. È sempre meglio che uno stia di guardia mentre l'altro colpisce». «Non dev'essere certo facile prenderli di sorpresa», disse Pancho. «Se l'aspettano di sicuro». «Forse, e forse no. Manderemo avanti un diversivo tattico, quello del vostro gruppo che ha sparato al sergente. Sarà equipaggiato per una missione di commando, ma uno dei suoi scarponi scricchiolerà un po'. Dopo che l'avranno ucciso saranno meno prudenti». Si accese una sigaretta, schermando accuratamente la fiamma. «Ricordate che è sempre meglio attaccare mentre sparano. Ogni tanto, quella mitragliatrice in cima alla collina apre il fuoco a casaccio sulle trincee: quello è un momento buono. Una delle nostre mitragliatrici copre il varco nel filo spinato, ma quando passerete sospenderà il fuoco». Fumò per qualche secondo. «Quanto al ritorno, aspettate l'alba. Aspettate nella falsa trincea, sventolate un bracciale, e la mitragliatrice vi lascerà passare». «E i cecchini?». «Se avrete fatto il vostro lavoro, non ce ne saranno più. Nel caso ce ne fossero, la mitragliatrice vi coprirà». «C'è qualche Azzurro, laggiù?», domandai. «Sì. Abbiamo qualche unità nella terra di nessuno, ma sono tutte vicine all'altra collina. Se vedete o sentite qualcuno, sarà probabilmente una squadra di guastatori Azzurri. Restate nascosti, e gettategli un paio di granate. Se sono Rossi, vuol dire che hanno trasgredito gli ordini». Una punizione severa, pensai. «Ci sono altre domande?». «Solo una», disse Pancho. «Perché proprio noi? Non è un lavoro da sol-
dati esperti?». «Nella mia squadra ho solo cinque mercenari, e sono preziosi». Fece per andarsene, ma poi ci ripensò. «Resti tra di noi, ma non vi ho detto tutto: dovete aver fatto qualcosa che ha fatto girar le scatole al sergente. È stato lui a chiedermi di affidarvi una missione pericolosa. Fatevi onore, e può darsi che gli diventiate simpatici». Non ero molto sicuro che diventargli simpatici potesse essere un gran miglioramento. «Anche il vostro amico ha avuto un incarico simile». Anche Miko. «Ma il sergente non ha detto perché?». «Sentite, ho già chiacchierato troppo. Ad ogni modo, no: non mi ha detto perché. Buona fortuna». Se ne andò. Lo guardammo sgattaiolare via. «Non molto tranquillizzante», disse Pancho. «Ha tutta l'aria di un tentativo di disfarsi delle prove a loro carico», dissi. «Mi domando cos'abbiano intenzione di fare di Miko ed Alegria». «Li lasceremo qui?». Non avevo ancora considerato la questione da quel punto di vista. «Dobbiamo farlo. L'unica speranza per noi tutti è che riusciamo ad avvertire la Confederaciòn». «Credo che tu abbia ragione». Si coricò. «Quando sei stanco, svegliami». Tornai alla feritoia. La pillola stava facendo effetto, e il panorama si stava facendo più chiaro. Ogni tanto, il bagliore di un bengala mi accecava. Non c'era molta azione. La mitragliatrice vicino al filo spinato apri il fuoco una volta, e un cecchino sparò di rimando, ma il suo colpo rimbalzò sullo scudo metallico della mitragliatrice. Un bengala rivelò la presenza di un Azzurro in un tratto di terreno scoperto, ma, anche se gli spararono addosso in molti, questi riuscì a rotolare in una trincea, mettendosi in salvo. Il suo fucile era più grosso del nostro, aveva un grosso mirino telescopico e un treppiede sotto la canna. Era un'arma da cecchino. Sarebbe stato lui il primo con cui avremmo avuto a che fare... o che avremmo evitato. O'Connor mi aveva dato un'idea: se necessario, sapevo di essere capace di strangolare un uomo fino a fargli perdere i sensi, ma senza ucciderlo. Certo, sarebbe stato meglio riuscire ad aggirarlo, invece. Pancho si svegliò, e discutemmo a voce bassa un piano preliminare. La terra di nessuno era un rettangolo largo un chilometro e lungo due. La trincea più lunga vicino a noi era la terza, e ci avrebbe condotti a una
ventina di metri dal confine della terra di nessuno. Ci saremmo buttati dentro di essa e l'avremmo seguita fino in fondo, poi saremmo saltati fuori e avremmo tentato una sortita. Per quanto potessimo vedere, sembrava che non ci fosse neanche un filo spinato, ma poteva darsi che ci fossero degli allarmi. Ci avevano detto che metter piede fuori del perimetro equivaleva a disertare, e ciò comportava l'essere immediatamente passati per le armi. Forse era per questo che la maggior parte dei soldati sceglieva di stare all'interno di esso, dove almeno la pena di morte veniva procrastinata. Non riuscii a dormire che a tratti di cinque minuti, e non di più: i bengala, le detonazioni e gli incubi continuavano a risvegliarmi. Avevo una fifa maledetta, ed anche Pancho. Lo vidi, alla luce di un bengala: stava guardando la terra di nessuno, con le mascelle contratte per la tensione e il volto imperlato delle gocce di sudore che gli scorrevano sopra la tintura mimetica. Finalmente la stella doppia si accese in cielo, e un sasso colpì la sommità del parapetto. Prendemmo le pistole ed i coltelli, e non appena il bengala si spense uscimmo dal bunker e scendemmo il più rapidamente e il più silenziosamente possibile per il sentiero. Mentre stavamo attraversando il reticolato di filo spinato, quasi mi venne un attacco di cuore: la mitragliatrice si mise a sparare. Per fortuna, non stava sparando addosso a noi: era evidentemente un fuoco di copertura, per evitare che il nemico alzasse la testa. Pancho ed io eravamo esperti cacciatori, e dunque muoversi senza fare rumore era per noi una seconda natura. Mi sentii comunque terribilmente indifeso quando attraversammo strisciando i dieci metri di terreno aperto tra la falsa trincea e la prima delle trincee principali. Non furono sparati bengala, per fortuna, e potemmo calarci nella trincea senza incidenti. Per arrivare all'incrocio con l'altra trincea, dovevamo ora andare a sinistra per un centinaio di metri. Quando vedemmo il cecchino, eravamo già quasi a tre metri da lui. Stava in una specie di nicchia ricavata nella parete della trincea e, fortunatamente per noi, sembrava totalmente assorto nel proprio compito. Tentare di aggirarlo sarebbe stato impossibile. Segnalai con un cenno della mano a Pancho di starsene fermo, e con un paio di balzi gli fui addosso. Gli serrai entrambe le mani attorno alla gola e mi buttai addosso a lui, incastrandolo tra di me e la parete, in modo che si dibattesse senza far troppo rumore. L'unico suono che riuscì ad emettere fu un lamento debole e stridulo, come quello di un gattino. Smise finalmente di agitarsi, e si af-
flosciò. Strinsi ancora per qualche secondo, poi lo posai al suolo. Strappai l'otturatore dal suo fucile e me lo misi in tasca, poi feci segno a Pancho di seguirmi. C'era un altro cecchino, proprio prima dell'incrocio. Cominciammo ad usare lo stesso metodo di prima, ma quando lo afferrai sentii che il suo collo era freddo e viscido. Cadde all'indietro, contro di me. Proprio in quel momento si accese un bengala, e vidi il buco irregolare che aveva nella testa. Lo lasciai andare istintivamente, e cadde pesantemente al suolo. Ci aspettavamo che ci fosse un intero esercito pronto a balzarci addosso, ma non accadde niente. Scivolammo nella trincea trasversale, muovendoci il più in fretta possibile. Se la nostra mitragliatrice avesse aperto il fuoco, non avremmo avuto alcun posto dietro cui ripararci ed eravamo proprio sulla linea di tiro. In mezzo alla trincea c'era un cadavere con un bracciale rosso. Forse si trattava del diversivo tattico che era stato mandato fuori come esca, ma non ci fermammo ad accertarlo. Esitammo un attimo all'incrocio tra la trincea trasversale e la seconda trincea, e ciò fu la nostra salvezza. Un gruppo di uomini stava arrivando dalla nostra sinistra. Non potevano vederci, grazie alla disposizione a zig-zag delle trincee. Era una disposizione che offriva riparo dalle esplosioni delle granate, e che impediva che un uomo o una squadra armati di mitragliatrice potessero tener sotto controllo tutta una trincea. Superammo in fretta l'angolo e ci appiattimmo contro la parete. Pancho aveva già una granata in mano, e anch'io ne presi una. Avevamo ormai superato qualsiasi remora morale. Non fummo tuttavia costretti ad usarle: ci passarono a pochi metri di distanza, senza nemmeno guardare dalla nostra parte. Imboccarono la trincea trasversale e si allontanarono. Era una squadra di sei guastatori. Si accese un bengala, e la mitragliatrice aprì il fuoco. Pancho ed io ci buttammo a terra in mezzo all'incrocio. I guastatori furono sorpresi a metà strada. Risuonarono un paio di urla orribili, e un uomo invocò gli aiutanti di sanità. La mitragliatrice continuò a sparare finché anche quella voce tacque. Mi domandai se anche Miko fosse là fuori. La sua situazione non doveva essere molto migliore della nostra, e poteva anche darsi che fosse da solo. Non potevo permettermi il lusso di stare a pensarci troppo: toccava a lui togliersi d'impiccio.
Quando l'ultimo bengala si spense, proseguimmo per la trincea trasversale. Dovetti reprimere l'impulso di correre: c'eravamo accorti di quanto fosse pericoloso fare rumore. Terza trincea, poi a destra. Eravamo sempre più vicini alla libertà. Ora era meno probabile che ci imbattessimo in altri cecchini, ma eravamo ugualmente cauti: Pancho apriva la strada, percorrendo qualche metro e poi fermandosi. Io, il bersaglio più grosso, lo seguivo, attento ai suoi segnali. Arrivammo senza problemi fino in fondo alla trincea. Eravamo fortunati: evidentemente, quella sera entrambi gli eserciti dovevano aver deciso di non esporsi troppo. Ci consultammo sottovoce, e decidemmo di restare nella trincea fino al prossimo bengala: quando si sarebbe spento, avremmo tentato la sortita. Ci volle un'eternità, ma finalmente un bengala si levò nel cielo, e ci preparammo a scattare. In quella luce vivida e malferma riuscimmo a leggere il cartello sulla trincea: ATTENZIONE Vi state avvicinando al perimetro. Tornate indietro immediatamente. La pena per chi lascia la terra di nessuno è la morte. Il bengala si spense. Uscimmo allo scoperto e cominciammo a correre. Dopo qualche passo, avvertii un acuto dolore al petto. Ebbi appena il tempo di domandarmene la causa, poiché si fece sempre più intenso, fino a farmi cadere in ginocchio. Pancho cadde accanto a me. «Il petto», gemette. «Dios!». «Anche a me. Dobbiamo tornare indietro». «Indietro?». Non aveva ancora capito. «Vieni». Man mano che riguadagnavamo i nostri passi, il dolore diminuiva, ed infine cessò del tutto quando ci ributtammo nella trincea. «Credo di capire», mormorò, col respiro affannoso. «Hanno messo qualcosa nei nostri corpi». «Già, e quando si oltrepassa il perimetro, c'è un segnale che innesca la reazione». «Sono certo che se ci fossimo avvicinati di più ci avrebbe ammazzati». Scosse il capo. «E adesso, cosa facciamo?». «Seguiremo il consiglio di Jake: cercheremo di sopravvivere per un paio
di giorni, e poi per un altro paio di giorni ancora, ecco tutto. Per adesso, abbiamo il problema di restare in vita fino all'alba». «Qui siamo al sicuro». «Non so. Più restiamo qui, più rischiamo di incontrare gli Azzurri che fanno ritorno, sempre che non abbiano infiltrato solo quei due cecchini e i sei guastatori». «Se c'erano solo quelli, saremo al sicuro dappertutto», disse, con un misto di speranza e sarcasmo nella voce. Mi alzai. «Sulla strada del ritorno potremo anche essere meno veloci dell'andata, ma dovremo essere doppiamente silenziosi». «Ed evitare di ammazzare il prossimo?». «Credo che... dannazione!». «Che c'è?». «Mi sono dimenticato di smontare l'otturatore del fucile di quel cecchino morto. Quando quello che ho strangolato si risveglierà, non dovrà far altro che prendere il fucile del suo compagno». «Se è rimasto li. Se fossi al suo posto, cercherei di raggiungere piano piano la mia collina». Tornammo sui nostri passi nel silenzio più totale, e non incontrammo nessuno. Nel corridoio, i corpi dei guastatori erano solo cinque, ma trovammo il sesto sul fondo della prima trincea. Nel fucile del cecchino ucciso c'era ancora l'otturatore; lo levai. Quello che avevo strangolato, era scomparso. Feci per risalire, ma Pancho mi prese per una gamba. «No, amigo», sussurrò. «Dobbiamo ripararci dal fuoco dei nostri, e staremo meglio qui che nella falsa trincea». Aveva ragione. Ci sistemammo in una nicchia, e poi si scatenò l'inferno. Nel giro di pochi secondi, sentimmo lo scoppio soffocato di diverse granate. Ad esso seguì il fuoco dei fucili, e l'abbaiare più cupo e più veloce delle pistole. I soldati si lamentavano, gridavano ordini e chiamavano la sanità. I bengala si accendevano in continuazione, e la collina formicolava di soldati in corsa. «Guastatori», mormorò Pancho. Quattro uomini stavano discendendo il sentiero, rispondendo con le pistole al fuoco dei nostri. Riuscirono a superare indenni il varco nel reticolato: dovevano essere riusciti ad espugnare il bunker della mitragliatrice. Superarono con un salto la falsa trincea e corsero nella nostra direzione, mentre una pioggia di proiettili di fucile cadeva attorno a loro.
Sarebbero saltati nella prima trincea a pochi metri di distanza da noi. Era fisicamente impossibile che potessimo passare inosservati. «Dio mi perdoni», mormorai. Tolsi la sicura ad una granata e gliela lanciai contro. Lanciai bene, ma non al momento giusto. Uno di loro venne preso in pieno petto dalla granata, che gli rimbalzò davanti. Senza scomporsi, ce la rispedì indietro con un calcio. La granata rimbalzò di nuovo e cadde nella trincea, tra me e Pancho. Era tanto vicina che sentivo lo sfrigolio dell'innesco. Avrei potuto fare l'eroe, e gettarmi su di essa per salvare Pancho, soffocando lo scoppio col mio corpo, oppure avrei potuto essere dritto e saltar via, buttandomi a terra con i piedi rivolti verso di essa (come fece Pancho). Feci invece una stupidaggine, e la raccolsi. Conservo il ricordo di ciò che accadde: è al rallentatore, ed è terribile. Non appena l'ebbi raccolta, capii di aver fatto la cosa sbagliata. La rilanciai contro gli zappatori, che stavano avanzando, e capii di aver commesso un secondo errore: sarebbe bastato gettarla nella trincea, a pochi metri di distanza, e l'angolo della trincea trasversale ci avrebbe protetti. Scoppiò a circa un metro di distanza dalla mia mano. Non sentii dolore, ma solo una rapida fitta, e poi fui accecato dal lampo. Caddi riverso sul fondo della trincea, addosso a Pancho. Udii i guastatori saltare nella trincea, e poi una pistola a cui veniva messo il colpo in canna. Qualcuno disse: «Non sprecare una pallottola. Non vedi che è già morto?». Sentii che la mitragliatrice stava aprendo il fuoco, ma quel suono piano piano svanì. «Carl! Svegliati! Dios!». Mi risvegliai in un mondo di dolore. Mi sembrò che mi avessero tolto il viso e il petto, li avessero passati al tritacarne e poi me li avessero riattaccati con dei chiodi. Quanto al mio braccio sinistro, mi sembrava che fosse a bagno nell'olio bollente. Uno solo dei miei occhi era in grado di funzionare. Lo usai per guardarmi il braccio, e quasi svenni di nuovo. Non avevo più il pollice e l'indice. Il medio era stato tranciato e dondolava, appeso al resto della mano solo grazie a un piccolo frammento di carne. Il mio braccio aveva l'aspetto di un animale scuoiato vivo, e da esso sprizzava il sangue. Pancho mi stava mettendo un laccio emostatico. Mentre lo osservavo, il sangue cessò di zampillare. «Devo trovare aiuto», mi disse. «Tieni ferma la baionetta». Mi pose la mano indenne sulla baionetta, che aveva usato come leva per il laccio. «Non tentare di metterti a sedere. Hai un occhio
che ti pende fuori dell'orbita, ma non posso farci niente». Avevo la bocca così secca che non riuscii a parlare. Cercai di dirgli di andarsene, che ero morto, e che non c'era bisogno che mettesse a repentaglio la propria vita e quella di un aiutante di sanità. Se n'era già andato. Mi addormentai di nuovo. Doveva avermi fatto un'iniezione. Quando riaprii gli occhi, vidi il viso di Alegria. Sorrideva. «Ti rimetteremo a nuovo, Carl». Mi trovavo nell'ospedale da campo in cima alla collina. «Fra una settimana potrai usare di nuovo la mano». Avevo la vista annebbiata. Toccai l'occhio ferito: era dolorante, ma c'era. «Ti hanno rimesso a posto l'occhio. Avevi un aspetto piuttosto sinistro, quando ti portarono qui». La sua voce era tremula. Mi domandai se avesse pianto. «Come sta Pancho?». «Pressoché illeso. Devi ringraziarlo: è stato lui a ritrovare il tuo pollice e il tuo indice, mentre attendevate la sanità. È stato un colpo di fortuna che siano rimasti interi. In questo modo, l'innesto osseo è stato più facile». «Pressoché illeso? È stato colpito, allora». «È rimasto leggermente ferito quando quella granata con cui stavi giocherellando è esplosa. Solo ferite al cuoio capelluto, comunque: non se n'è quasi accorto». Stavo cominciando a riguadagnare il possesso delle mie facoltà mentali. «Siamo soli?», sussurrai. «Sì». «Mi manderanno all'ospedale principale, non è vero?». «Credo che...». «Riuscirò a fuggire! Raggiungerò la Confederación». «Non è così facile. Miko ci ha provato ieri notte, e loro lo hanno...». Sentii aprirsi una porta. «Può alzarsi?», disse una voce che non riconobbi. «Non so, signore», disse Alegria. «Credo sia meglio di no». «Lo faccia provare». Mi girai su un fianco e, facendo leva sul gomito, riuscii ad alzarmi a sedere sul letto. Stranamente, era solo l'occhio a dolermi. La voce apparteneva al capitano Forrestor. Se ne stava in piedi, con le braccia rilassate e sciolte lungo il corpo, ma con una pistola in mano. Dietro di lui c'erano Pancho e Miko, con le mani legate dietro la schiena, e alle loro spalle c'era il sergente Meyer, armato di fucile.
Posai i piedi a terra e mi alzai in piedi, intontito. Alegria si era attaccata al mio braccio sano. «Cosa accade?», dissi. «Signore». «Lo sa benissimo. Mi spiace solo che l'altra notte il chirurgo abbia perso tanto tempo su di lei, perché oggi lei morirà. Assieme al soldato semplice Bolivar, l'altra sera lei ha cercato deliberatamente di disertare. I sensori impiantati nel vostro petto vi hanno identificati. Se solo qualcuno mi avesse svegliato, vi avrei fatti fucilare, e mi sarei risparmiato delle seccature». Lanciò un'occhiata acida a Meyer. «Come se ciò non bastasse, c'è anche la questione del tentativo di diserzione del soldato semplice Riley. È arrivato più lontano di voi, grazie alla sua capacità di resistere al dolore causatogli dai sensori». Il capitano Forrestor si voltò a metà, e rivolse a Miko uno sguardo gelido. «Il soldato semplice Riley è riuscito a raggiungere il perimetro e a disattivare un pezzo della rete di allarme. Se avesse proseguito, non c'è dubbio che sarebbe riuscito a fuggire. Per folle che possa sembrare, ha voluto ritornare. Se si fosse limitato a portare con sé la donna, non avrebbe incontrato difficoltà, ma si è fatto catturare mentre cercava di portar via anche voi due. Leale, ma stupido. Peccato che non l'abbiano ucciso». Guardai Miko. Evitò il mio sguardo, e fu solo allora che notai che metà della sua faccia era stata rifatta in plasticarne, e che il suo naso era stato ricostruito. «Ho dunque delle buone ragioni per ritenere che voi quattro abbiate concertato insieme un piano d'ammutinamento. A questo punto, c'è una sola linea di condotta che io possa seguire. Siete condannati a morte». Levò la pistola. «Sergente?». Meyer poggiò il fucile contro il muro e prese un grosso rotolo di cerotto chirurgico. Lo usò per legare le mani di Alegria dietro la schiena, e poi legò le mie davanti, con la mano sana contro il braccio ingessato. Infine, ci sigillò la bocca. «Li porti contro il filo spinato, ed usi la mitragliatrice, ma prima tenga un piccolo discorso. Così, almeno, riusciremo a cavare una qualche utilità da loro». Meyer ci spinse, ma non forte, fuori della porta, e ci seguì sul sentiero che conduceva ai piedi della collina. Miko era accanto a me. Mi sentivo in colpa per tutte le cose che avevo pensato di lui. Avrei voluto dirgli qualcosa, ma non me ne avrebbero data la possibilità. I nostri sguardi s'incrociarono. Non so perché, ma ebbi la sensazione che capisse. «Lo so che non servirà a consolarvi», disse piano Meyer, «ma sappiate
che non è un incarico piacevole». Lavorando di spalla, Pancho era riuscito a staccarsi un pezzetto di cerotto dalla bocca. «Però lo fai», biascicò. «Per salvarmi la pelle. L'altra notte non ho svegliato quello stronzo solo perché quando uno riesce a dormire anche mentre c'è un attacco di guastatori, vuol dire che ha davvero bisogno di sonno. Tanto vale che vi racconti tutta la storia. Gli è arrivata l'ingiunzione - non un ordine, una ingiunzione - di rispedirvi al campo base. Sembra che qualche funzionario della Confederación abbia ficcato il naso nelle nostre procedure di arruolamento... riguardo voi, in particolare. Ci sarà un'inchiesta, ed è per questo che lui non vi vuole vivi e pronti a testimoniare. Ecco perché ieri vi sono capitati degli incarichi così interessanti. Il vostro tentativo di fuga non ha fatto che rendergli il compito più facile». «Siamo stati rapiti... come te! Non ti rendi conto che liberandoci, tu stesso riguadagneresti la libertà?». «No, ci guadagnerei solo una pallottola nel cervello. E poi, siete stati rapiti legalmente. Credo che di fronte a un giudice riuscirebbe a cavarsela, ma è un impulsivo, e i tribunali della Confederación gli incutono una paura tale da cacarsi addosso... Ehi, cosa diavolo è quello?». Eravamo quasi a metà strada. Risuonò un suono basso, melodioso, pieno di inquietanti note subsoniche. Non avevo mai visto prima un incrociatore della polizia della Confederación. Era simile ad una scodella rovesciata, nero e lucente, grande quasi quanto la collina su cui ci trovavamo. In cima ad esso, un laser gigawatt ruotò nella nostra direzione. «ABBIAMO UN MANDATO DI COMPARIZIONE PER LE SEGUENTI PERSONE: CAPITANO HARVEY FORRESTOR, SPICELLE; ALEGRIA SALDANA, SELVA; FRANCISCO BOLIVAR, SELVA; CARL BOK, SPRINGWORLD; MIKO RILEY, TERRA. SI FACCIANO AVANTI». Era come udire la voce di un semidio. «Sparate su quei bastardi!». Forrestor era in cima alla collina, ed agitava la pistola. Sparò, e il proiettile fischiò sulle nostre teste. Meyer mise in canna un proiettile e puntò il fucile verso il capitano. «La butti, capitano, o ci friggeranno tutti». Tenne la pistola puntata su di noi per un attimo, poi la lasciò cadere a terra. «Ramirez! Tulo! Sandiwell! Fate qualcosa!». Lo stavano tutti guardando da dietro i bunker. Nessuno si mosse. «Credo che farò meglio a venire con voi», disse Meyer. «Ci segua, signore».
Con lo sguardo e il fucile sempre puntati su Forrestor, disse: «Morrison, libera questa gente, per favore». Dopo aver annunciato che la guerra era temporaneamente sospesa, la nave della polizia ci prese a bordo, e dopo pochi minuti arrivammo allo spazioporto della capitale. Delle guardie armate di neuroshock ci scortarono fino ad un dirigibile, che ci portò ad un alto edificio nel centro della città. Un ascensore, un corridoio. Un corridoio e un ufficio. Nel l'ufficio c'era una grande scrivania, spoglia tranne che per quattro pezzi di carta, i nostri moduli d'arruolamento. C'erano anche tre persone: un Infernale dall'uniforme sontuosa, su cui spiccavano cinque stellette, il rettore M'Bisa e B'oosa! Quando mi vide, il rettore fece una smorfia. B'oosa disse: «Grazie al cielo, hai ancora braccia e gambe, Carl. Non me l'aspettavo». «Chi è lei?», domandò il generale. «Sergente Meyer, signore. Ho scortato i...». «Le ho solo domandato chi era. Può andare». Si rivolse a noi. «Sedete, prego. Lei rimanga in piedi, capitano Forrestor». Aspettò che ci fossimo accomodati. «Capitano, si rende conto di essere incorso in una grave violazione della legge?». Lo sguardo del capitano rimase neutro. «Mi riferisco al reclutamento di queste quattro persone». «Signore, le ho comprate da...». «Silenzio! Non so come siano arrivate al suo campo, e non mi importa». Con un indice ben curato, spinse i fogli verso Forrestor. «È di questi che le sto parlando». «Hanno firmato di loro spontanea volontà». «Molto bene». Si chinò verso di lui, e la sua voce diventò un sussurro. «Questi sono minorenni, Forrestor. Non potevano firmare un contratto simile senza il consenso dei genitori». Si voltò verso i due neri. «In questo caso, non senza il consenso del dottor M'Bisa, che fa le veci dei loro genitori». «Forse non le farà piacere sapere che abbiamo già impiccato un uomo coinvolto in questa faccenda, il sergente che le forni queste quattro persone. Le rapì, le fece passare per disperse durante un addestramento e riscosse una parte dell'assicurazione, per non parlare del premio d'ingaggio che lei gli versò. Questo pomeriggio, potrà chiarire il suo ruolo in questa vicenda di fronte a una corte marziale. Si ritenga agli arresti». «Ma... generale... tutti quanti...».
«Non si. sta mettendo in una buona luce, capitano. Agli arresti». Le guardie lo scortarono fuori della porta. Quando se ne furono andati, il generale disse: «La sua confusione è in parte giustificabile: sul suo pianeta si diventa maggiorenni a diciott'anni, mentre su Inferno lo si diventa a venticinque». «Naturalmente», disse M'Bisa. «Non si tratta dunque di un problema di competenza della Confedera-
ción, anche se siamo grati ai funzionari della Confederación, che col loro aiuto ci hanno permesso di risolverlo. Quanto al resto, interverremo secondo gli strumenti offertici dal Codice Universale di Giustizia Militare». Riuscimmo quasi a vedere le maiuscole;. «A meno che non decidiamo di costituirci parte civile», disse M'Bisa. «Mi permetta di esser franco». Ci indicò con un gesto della mano. «Si dà il caso che questo modulo sia usato sia per l'arruolamento dei mercenari che per l'arruolamento nelle nostre accademie militari. In quest'ultimo caso, anche i minorenni possono firmare». «Ma suppongo che uscirne sia un altro paio di maniche», disse B'oosa. Annuì lentamente. «Anche se ciò fosse il desiderio dei genitori. I genitori naturali». Il dottor M'Bisa si alzò. Nel suo volto e nel suo portamento c'erano i segni dell'età. «Credo che ci siamo capiti, generale. Buon giorno». «Buon giorno, cittadini». Nascosto dietro ad un cumulo di neve, B'oosa aveva visto tutto, ed aveva tracciato sulla neve un messaggio in pan-Swahili. È un linguaggio che non molti Infernali conoscono, ma che invece è conosciuto dalla maggior parte dei funzionari della Confederación. Il messaggio venne raccolto da un satellite meteorologico, e B'oosa venne preso a bordo dallo stesso incrociatore che ci aveva salvati. Passai un giorno in un ospedale Infernale, mentre i medici terrestri si affaccendavano sulla mia faccia e sulla mia mano. Tornammo a bordo della Starschool, e ci lasciammo Inferno alle spalle. Il dottor M'Bisa annunciò che d'ora in poi Inferno sarebbe stato depennato dall'itinerario della scuola. Cosa avevo imparato su Inferno? È difficile dirlo. In materia di paura, dolore e fatica, ero già abbastanza esperto. Quanto agli animali, non erano più feroci di quelli del mio pianeta. Ecco l'animale uomo. In ultima analisi, credo che tutto ciò che ho ricavato da questa esperienza sia un concetto freddo ed esangue, qualcosa come l'Immarcescibilità delle Istituzioni o l'Imperfettibilità dell'Uomo. Gli Infernali non erano meno umani di me. Ciò che non mi fa dormire di notte è il dubbio che forse fossero più umani di me. Titolo originale: Starschool on Hell.
JOHN KELLY CACCIATORI DI OMBRE L'uomo ammantato di nero camminava a passo svelto, mentre un gruppo di sicari incappucciati, disposto a cuneo, gli apriva un varco nelle strade affollate. Bisognava far presto. Udiva appena il sibilo dei loro fucili sonici; non gli importavano i loro metodi, gli importava soltanto che lo portassero a destinazione. Bisognava far presto. No, non sparavano con l'intento di uccidere. Sparavano in aria, per spaventare la folla e farla muovere. Tanto meglio. Le strade, già meno affollate quando erano entrati nella città vecchia, si fecero addirittura deserte quando raggiunsero l'entrata. Discesero in fretta la rampa che conduceva al vecchio e polveroso spazioporto, con Davidson che seguiva a pochi passi di distanza la sua scorta. Lo guidarono per il sentiero lastricato di plastica che serpeggiava in mezzo a quel labirinto di incrociatori e mercantili. Oltrepassarono in fretta le enormi ed inutili navi da esodo, con i loro imponenti scafi argentei ormai attaccati dalla ruggine, e anche navi più piccole, ma sempre troppo grandi per poter essere utili a qualcosa. Il passo spedito di Davidson faceva sì che l'immagine delle navi andasse in su e in giù di fronte ai suoi occhi. Infine, giunsero a destinazione: era un piccolo Ago dorato, un'aguzza nave monoposto che già vibrava per la potenza che stava lentamente aumentando in essa. Le guardie corsero via, lasciando cadere le armi e le maschere, e si dispersero nel labirinto formato dalle navi più piccole. «Buona fortuna», disse un uomo non troppo alto, che indossava un soprabito grigio attillato. Strinse la mano di Davidson e prese il suo mantello. «Io, cioè...». Guardò Davidson negli occhi e smise di tentare di parlare. Davidson sali nell'Ago attraverso il portello, e venne sigillato dentro. I Tecni allontanarono le gigantesche ganasce che tenevano in equilibrio l'Ago e spinsero meccanicamente l'uomo fino alla distanza di sicurezza. Il lamento dei motori divenne un urlo, e all'improvviso l'Ago si scagliò verso il cielo. Prima che il gas lo addormentasse, Davidson ebbe il tempo di pensare, di ponderare per un'ultima volta il suo piano di fuga. Tutti avevano trovato la cosa deliziosamente ironica. L'ironia stava nell'averlo nascosto nel bel mezzo della capitale, e dunque proprio nell'occhio del ciclone. Davidson avrebbe invece preferito che si trattasse di un
rifugio meno ironico, ma più sicuro. Storia antica: una volta, ai tempi «moderni» prima della Grande Espansione, c'era una sola Terra. Storia politica: come se le Quattro Ribellioni e la Grande Repressione non fossero state abbastanza, i pirati del Terrore di Drassen avevano ridotto il centro della galassia abitata ad una distesa di rovine. La prima Terra era stato uno dei pianeti più duramente colpiti: quando i pirati finivano di «punire» le città, di esse restava molto poco di abitabile. In quel clima di crisi generalizzata, si decise che non valeva la pena di restaurare quell'antico pianeta, in considerazione del fatto che le sue risorse naturali erano agli sgoccioli. Come a quell'epoca accadde a molti altri pianeti, la Terra venne semplicemente abbandonata a se stessa. Economia: mentre le risorse naturali si avvicinavano sempre di più all'esaurimento, un numero sempre maggiore di pianeti rimase tagliato fuori, finché con l'esaurimento degli ultimi Combustibili, i viaggi interstellari divennero un fatto eccezionale. Da allora in poi, non ci si occupò più tanto degli altri pianeti e di cosa vi succedeva, anche perché mantenere gli archivi era troppo costoso. Spedito su uno di quei mondi da tanto tempo dimenticati, Davidson sarebbe stato al sicuro. Nessuna ricognizione generale sarebbe riuscita a trovarlo e, quanto a lui, non si sarebbe certo tradito. Davidson raramente parlava di sé. E così, tutto sarebbe stato nuovo. Nuova vita, nuova storia, nuovo uomo. Il nuovo venuto somigliava vagamente ad un Drortiano, ma era troppo alto, e poi aveva gli occhi azzurri, invece che rossi. Sembrava uscito dal nulla, poiché nessuno lo conosceva, e lui non parlava mai del proprio passato. Non che questo, a quei tempi, significasse molto: eravamo più o meno tutti tipi così, e non solo Davidson. Allora, ero soltanto un contadino che cercava disperatamente di diventare qualcosa d'altro. Entrare al servizio di Jamaal mi era sembrata l'occasione buona. Naturalmente, anche a dispetto del mio silenzio, si erano accorti che ero un contadino. Questo non impedì loro di accettarmi, e in seguito ne seppi la ragione: un soldato inesperto è anche un soldato che non ha la testa imbottita di leggende sentite qua e là, e quindi privo di complessi d'inferiorità verso le Ombre. Alcuni membri della Guardia Scarlatta erano criminali, ne ero certo, ma che si trovassero tra noi a causa di un omicidio impunito, o perché prescel-
ti per il sacrificio o perché semplicemente in cerca di avventure, non importava molto. Ciò che era davvéro importante era che non si facessero prendere dal panico quando le Ombre cominciavano ad intonare il canto della paura. Le Ombre erano in guerra con Jamaal perché Jamaal continuava ad usare le antiche cose, e perché Jamaal non offriva sacrifici. Davidson fu sempre un guerriero al quale fare tanto di cappello, sempre. Era la sua, la spada più veloce, e non lo vidi mai impaurito. Tuttavia, non sono queste le ragioni per cui oggi è famoso. È famoso per quel giorno in cui una stella scese dal cielo per cercarlo, e quel giorno egli uccise la stella. Ed è famoso per quel giorno in cui scomparve. Sarà meglio che vi racconti la sua storia dall'inizio, e non stupitevi se vi accorgerete che è anche la mia storia. Le guardie più anziane raccontavano che Davidson era stato arruolato a causa di una rissa in una taverna, nel corso della quale aveva messo al tappeto un capitano della Guardia, prima ancora che quest'ultimo potesse sguainare la spada. Non so se questa storia sia genuina: come molte delle cose che si sentono raccontare sul conto di Davidson, anche in questa c'è più di un tocco di favola. Ad ogni modo, entrambi entrammo a far parte della guardia di Jamaal nello stesso giorno. Lo ricordo bene, poiché mentre il sarto mi misurava, lui stava già ritirando le proprie uniformi. Fu solo quando fummo nella cameretta che trovai il coraggio di rivolgergli la parola. «Mi chiamo Charya», dissi. Mi guardò senza comprendere. «Io mi chiamo Charya, e tu?». Non rispose, e finalmente cominciai a sospettare che forse non parlasse il nadico. «Sed Charya um», dissi in drortico, la lingua di mia madre. Non parlava nemmeno il drortico. Mi puntai addosso un indice. «Charya». «Davidson», rispose, con quella sua voce bassa e dolce. Nei giorni seguenti, mi accorsi di quanto poco sapesse Davidson di Nada. Eravamo le due sole reclute in addestramento, e cercavamo di darci una mano a vicenda. Ben presto mi trovai nel ruolo dell'insegnante: gli insegnai di tutto, da come rispondere agli ordini di un capitano a come mangiare con un forcucchiaio. Aveva il doppio dei miei anni, ma, per strano che fosse, ero io ad insegnargli tutto. Era una sensazione stranamente rassicurante per quel ragazzo insicuro che ero allora.
Davidson imparava piuttosto alla svelta. Nel giro di qualche settimana riuscì a parlare un nadico colloquiale niente malaccio. Durante lo stesso periodo, pur non avendo mai visto prima una spada, diventò uno dei migliori guerrieri del campo. Un bel mattino, finalmente, un capitano ci consegnò la nostra armatura scarlatta, ponendo fine con ciò al nostro apprendistato. Ciò significava che d'ora in poi avremmo potuto pavoneggiarci in città, incutendo rispetto e timore nella gente come le altre guardie, e come loro avremmo trattato sprezzantemente i cavalieri dello sceriffo. Neppure loro, potenti com'erano, avrebbero osato sfidarci. E poi, avevamo visto le Ombre, ed eravamo segnati. Ci avevano dato l'armatura con un anticipo di molte settimane, ed io scoppiavo d'orgoglio, ma poi ne seppi la ragione: le pattuglie erano poche, e le Ombre erano sparite da ormai molte notti. Ciò significava che stavano preparandosi ad attaccare, ma da quale lato della montagna, nessuno poteva prevedere. Il castello di Jamaal era in cima a una montagna, ed era visibile per un raggio di varie miglia, specialmente di notte, quando Jamaal faceva brillare gli antichi tubi di sole. Il castello era anche molto appartato, anche se ciò era in parte dovuto al fatto che la gente del villaggio si era allontanata dalla montagna quando Jamaal si era rifiutato di unirsi ai riti sacrificali. La sua posizione lo rendeva però facilmente difendibile, ed era proprio per questo che esisteva la Guardia. Per settimane eravamo stati addestrati da guardie stanche, appena rientrate dai turni di pattuglia, che ci avevano insegnato come tirare di spada e come sopravvivere nel bosco e muoversi silenziosamente in mezzo ad esso. Quella notte, finalmente, anche noi avremmo pattugliato una parte della montagna di Jamaal. Davidson ed io saremmo usciti con Manda La, la sola donna ad aver raggiunto il grado di capitano della Guardia. Essendo novellini, ci era stato assegnato il campo, l'unica porzione non alberata della montagna, cioè il punto in cui era meno probabile che avesse luogo un attacco. Se comunque l'attacco fosse stato su larga scala - come ci si attendeva - anche noi avremmo dovuto fare la nostra parte.
«Davidson?», dissi. «Davidson?». Voltò di scatto la faccia. «Sì?». I suoi occhi erano gelidi e vuoti, e mi sembrò un'altra persona, una persona che non avevo mai conosciuta. «Oh, niente», balbettai. «Scusami». Quando la camerata fu completamente buia, sentii una mano che mi si posava sulla spalla. «Scusami, Charya, ma devo lasciarla libera. Devo prepararmi, se voglio uccidere bene». C'era ancora abbastanza luce da poter vedere l'erba agitata dal vento. «Come odio questi campi!», sibilò Manda. «Perché?». «Perché l'erba mossa assomiglia troppo alle Ombre». «Ma se quasi non ci si vede!». Manda si fermò. «Anche le Ombre quasi non si vedono. Sono ancor più scure del buio, per così dire». «Come?». «Non chiedetemi di spiegarvelo. So solo che sono fatte di pura energia, e che anche in fondo alla più profonda caverna di Dror sembrerebbero scure». Davidson si stava lentamente guardando intorno. «Ma allora, come faremo a vederle?». Manda rise. «Non sarà difficile. Non vi hanno mai parlato delle Ombre?». No. Le spiegammo che i nostri istruttori si erano sempre tenuti alla larga da quell'argomento. Manda sospirò. «Avrete tutto il tempo d'imparare». Guardai ancora l'erba scompigliata dal vento, solo che ora ce n'era un tratto che si trovava troppo in alto per essere davvero erba. Fui improvvisamente invaso da una paura che quasi mi impediva di muovermi e di sentire. Mi mancò il respiro, e mi sembrò che il mio sangue ribollisse. «Ombre!», sibilò Manda. «Non ne avevo mai viste tante. Charya, corri a cercare aiuto!». Manda e Davidson si fecero avanti, incontro alle prime due Ombre, ma non potei far altro che restare immobile a guardarli. Le loro spade fecero miracoli. Le Ombre avanzavano come un fiume in piena, infilandosi sulle spade di Manda e Davidson, oppure aggirandole. Il loro obiettivo erano le visiere delle armature, la sola apertura che avrebbe permesso loro di toccare la
pelle delle guardie. Il loro tocco bastava a strappare la vita a un uomo almeno questo, me lo avevano insegnato. Gli spadaccini, intanto, stavano cercando di toccare quegli esseri amorfi con le loro spade, il cui tocco era ugualmente mortale per le Ombre. Bastava un tocco, e l'essenza dell'Ombra correva sull'armatura e si scaricava a terra. L'Ombra si dissolveva, moriva. Le guardie più esperte potevano vantarsi al massimo di aver distrutto a quel modo non più di una dozzina d'Ombre, di «aver fatto cantare sulla spada» quelle nuvole portatrici di morte. Davidson ne distrusse due, soltanto nel breve attimo che passai ad osservarli. «Charya!», gridò Manda di nuovo. «Corri a chiedere aiuto! Ora!». Era tutto inutile: ero ancora paralizzato. Fu allora che una di quelle nuvole nere e luccicanti cominciò a dirigersi verso di me. Mi si fece sempre più vicina, e infine copri persino la luce delle stelle. Mi scansai appena in tempo, e smise di avanzare per mettersi a danzare attorno alla mia spada. Era l'occasione che aspettavo, e mi misi a correre. Le Ombre erano lente, e ne approfittai per scappare. Quando tornai con le altre guardie, Manda giaceva al suolo, morta, mentre Davidson era impegnato in quello scontro che sarebbe ih seguito diventato leggendario. Era circondato da cinque o sei Ombre, e molte altre attendevano il loro turno. Schivava, parava, e quando ci riusciva, colpiva. Un'Ombra dopo l'altra dovette cantare sulla sua spada. Ora riuscivo a sentire l'altro canto delle Ombre, il brusio sommesso del loro canto di paura. Mi venne da pensare che era solo attraverso la paura che ci si accorgeva della loro presenza. La paura era un sesto senso la cui unica funzione era quella d'individuare le Ombre. Con un grido, condussi le guardie al salvataggio di Davidson. Era il mio compagno di addestramento, il mio allievo e - già allora me ne rendevo conto - il mio protettore. Dovevamo salvarlo. La mia spada fu più veloce di quanto pensassi possibile, ma le Ombre lo erano di più. Mi accorsi che una di esse stava per avvolgermi il capo, ma una rapida stoccata la ricacciò indietro. Colpii di nuovo e con un acuto ronzio la mia prima Ombra morì sul suolo ai miei piedi. «Charya!». La spada di Davidson sibilò accanto al mio orecchio, e un'Ombra cantò sulla sua armatura. Avrei voluto ringraziarlo, ma dovevo rivolgere tutta la mia attenzione al combattimento. Nel corso della battaglia, altre due Ombre cantarono sulla mia spada, ed altre due volte Davidson si accorse che un'Ombra stava per prendermi alle
spalle e mi salvò la vita. Finalmente, la battaglia ebbe termine: le Ombre cominciarono a ritirarsi nella foresta. «Davidson!». Mi appoggiai a lui, ansimante. Il suo corpo era irrigidito, e mi allontanò. Alzai la visiera e gli sorrisi, ma al di là della sua visiera non riuscivo a vedere che due occhi grigi, che sembravano contemplare tutto e niente al medesimo tempo. «Grazie, Davidson», gli dissi. Mi voltò le spalle, e si avviò verso il castello. Proprio mentre stavamo per rientrare nella camerata, udimmo provenire un urlo dal lato nord della montagna. Non si può scordare un urlo così. Quel giorno, durante la battaglia, lo avevo già sentito quattro volte: era l'urlo di un uomo la cui pelle era stata toccata da un'Ombra. Non appena riabbassate e sigillate le visiere, un'orda di guardie si precipitò sul declivio, verso il cadavere di una delle poche sentinelle che erano state lasciate di guardia agli altri potenziali punti d'attacco durante la battaglia. Le Ombre stavano tornando in forze: venivano a decine, e cantavano il loro sommesso brusio di paura. Le guardie erano già stanche, e cinque di esse morirono, malgrado la battaglia durasse poco più d'un'ora. Tre dei caduti erano donne, e le loro urla erano state ancor più pietose di quelle degli uomini. Riuscimmo comunque a respingere le Ombre, e Jamaal poté dormire tranquillo per un'altra notte. Nel corso della battaglia non ero riuscito ad uccidere nessuna Ombra, mentre Davidson ne aveva uccise sei. Quando il sole si levò, capimmo che per quel giorno non le avremmo più riviste: non si sapeva perché, ma la luce del sole indeboliva le Ombre, ed esse non si avventuravano mai all'aperto durante il giorno. Imparai in seguito che di giorno era possibile incontrare un'Ombra soltanto dentro una caverna o in una macchia molto fitta. Non che. questi dettagli ci interessassero molto, in quel momento. Ci lasciammo cadere sulle brande, alcuni senza neppure togliersi l'armatura. Quando mi svegliai, Jamaal stesso era in piedi accanto alla branda vicino alla mia. «Uomo», disse a Davidson, «sei il più grande spadaccino che io abbia mai visto». Davidson era già vestito di tutto punto. Dormiva sempre molto poco. «Grazie, ma come fai a saperlo?». Jamaal uscì in una risatina chioccia che ben si adattava alla sua venera-
bile età. «Possiedo una cosa antica che mi permette di vedere fino a molto lontano, anche se buio». Davidson rizzò il capo. «Vuoi forse dire un lungo tubo con due finestre di vetro, che funziona con una luce diversa, più bassa di quella normale? Una luce che è anche calore? In questo caso, è un...». Jamaal inarcò le sopracciglia. «Esatto! Noi la chiamiamo luce infrarossa, e il tubo è un telescopio». «Mi piacerebbe vederlo!». Il volto di Jamaal s'illuminò. «Lo vedrai. Ma prima, dovrai farmi l'onore di spiegarmi come fai a combattere con tanto impeto». Col tempo, imparai che il vecchio era astuto. Sapeva che una Guardia non ama parlare delle proprie imprese, ma sapeva anche che le confidenze di Davidson sarebbero servite a tirar su il morale a tutti gli altri. La risposta che Davidson gli diede sorprese persino lui. «Vorrei potertelo spiegare, ma non sono io a combattere. Non so come accada». Per quanto Jamaal insistesse, non riuscì a far sì che Davidson si spiegasse più chiaramente. Alla fine ci rinunciò, e, quando si voltò per andarsene, si accorse che li stavo ascoltando. «Ah, il giovane Charya. Ero preoccupato per te, ma ora credo che diventerai uno dei migliori». Lanciò un'occhiata a Davidson. «Farai bene a continuare ad imparare da quest'uomo». Detto questo, si volse e se ne andò. «Aspetta, ti prego», dissi. «Sì?». Si voltò di nuovo verso di noi, alzando un diafano sopracciglio. «Non vorresti...». «Cosa?». «Non vuoi raccontarci qualcosa delle Ombre?», domandò Davidson. «Nessuno ce ne ha mai voluto parlare». Il vecchio sorrise. «Avrete almeno sentito qualcuna delle leggende, non è vero? Charya, tu cosa ne pensi?». «Io, io so soltanto quello che raccontano i preti. Dicono che le Ombre nacquero dalla luce e dal tuono durante una grande guerra. Dicono che le Ombre erano le anime degli uomini malvagi che scatenarono la guerra, e che esse sono prigioniere per sempre nell'ombra del Diavolo, la notte. I preti dicono che rimarranno prigioniere finché non avranno punito tutti coloro che non si sono pentiti e che continuano a pensare gli antichi pensieri e ad usare le antiche cose». «E tu, ci credi?».
«No. Se fossero davvero condannate per l'eternità, non riusciremmo ad ucciderle. E poi, non capisco cos'abbiano a che fare con loro le preghiere e i sacrifici». «Ottimamente!», disse Jamaal. «Credo proprio tu abbia capito i termini del problema». «Ma allora, che cosa sono?», domandò Davidson. Jamaal si sedette lentamente su una branda libera. «Anche ai tempi d'oro della Guardia, quand'ero più giovane, non lo sapevamo con certezza. L'unico fatto certo è che sono creature formate di energia». «Come la luce del sole?», domandai. «Sì, o come la forza che fa funzionare le antiche cose. Si chiama elettromagnetismo», disse. «Ma per quanto ne sappiamo, a differenza delle Ombre e degli uomini, la luce del sole non è capace di pensare e di agire». «Eppure, in qualche modo queste nuvole di energia hanno imparato a pensare». «Come abbiano fatto, non lo sapremo mai. In effetti, è vero che esse nacquero tra le esplosioni termonucleari delle Grandi Guerre, e, secondo una teoria, esse si sprigionarono dalle menti degli uomini che si trovavano nei pressi del centro dell'esplosione. Il cervello umano funziona con un potenziale elettrico a basso livello, e forse con l'esplosione questo potenziale è salito a livelli molto più alti. O forse le Ombre sono una forma di vita che aveva bisogno di quelle grandi quantità di energia per venire alla luce». «Ma perché ti attaccano?». «Perché vogliono i miei generatori, credo. Si tratta delle cose antiche che producono la nostra energia, Charya. Forse ne hanno bisogno, come noi abbiamo bisogno del cibo. Alcune Ombre sono più grandi delle altre, e qualcuno dice che amano danzare sopra le chiome degli alberi durante i temporali. C'è una donna che afferma di aver visto un'Ombra colpita da un fulmine, e che essa diventò due volte più grande. Se davvero per loro è cibo, non devono aver bisogno di sfamarsi troppo spesso: sono sopravvissute per anni ed anni, senza aver molte cose antiche di cui cibarsi. È proprio per questo che cerchiamo di respingerle: le cose antiche che ci sono rimaste sono pochissime, e un giorno gli uomini riusciranno di nuovo a servirsene. Non voglio che la sapienza del passato muoia, ed è per questo che vi pago: per difenderla». Il vecchio si rialzò faticosamente dalla branda. «Credo che voi due sarete degli ottimi difensori delle antiche cose. Se fossero tutti come voi, potrei riposare in pace».
Uscì zoppicando dalla camera. Davidson mi aiutò ad allacciarmi l'armatura; tutti gli altri s'erano già radunati. Eravamo cento, e undici di noi erano caduti nella battaglia della notte prima, ma per le Ombre doveva essere andata molto peggio, poiché nelle settimane seguenti si mostrarono di rado. Riuscirono a radunare le forze, evidentemente, perché ben presto le pattuglie si trovarono impegnate in scaramucce quasi ogni sera. Giorno dopo giorno, Davidson salvava sempre più vite e compiva con la spada prodezze sempre più brillanti. Una volta, la nostra pattuglia si trovò circondata su un sentierino che passava per la parte più fitta della foresta. Era così buio che non riuscivamo neppure a vedere gli alberi, ma soltanto i contorni baluginanti delle Ombre. Ci danzavano attorno e ci cadevano addosso dall'alto: stavano cercando di inchiodarci contro gli alberi, o di farci inciampare nel folto tappeto di rampicanti che ricopriva il suolo della foresta. Davidson era in mezzo a noi; ci teneva uniti e ci difendeva dagli attacchi dall'alto. La sua lunga spada guizzava con magica abilità di elmo in elmo: stava tenendo a bada le tre o quattro ombre che ci stavano sopra la testa. All'improvviso, due di esse si avventarono contro due guardie che si trovavano alle opposte estremità del nostro gruppo. La lama di Davidson si mosse, invisibile. Vedemmo solo il fulmineo movimento del suo polso, e due canti striduli spezzarono il silenzio notturno, mentre due Ombre venivano uccise dallo stesso fendente. Nessuno di noi perse la vita in quella che fu poi chiamata «la Battaglia della Foresta». Un'altra volta, scoprì delle Ombre che, dopo aver eluso l'estremo cordone di guardie, stavano addirittura salendo i gradini del castello. Era l'alba, e il cielo si stava appena schiarendo. Davidson si era già tolto l'elmetto, ma a dispetto di ciò si fece sotto, e con stoccate e fendenti poderosi scacciò le Ombre. Muovendosi con agilità, riuscì a difendere la propria pelle, e tutte e tre le Ombre cantarono sulla sua spada, prima ancora che qualcuno di noi potesse intervenire. Nel giro di un anno, Davidson si era guadagnato una grande reputazione. Quando andava al villaggio, non era più una semplice Guardia Scarlatta di Jamaal: era Davidson, il Cacciatore di Ombre. Quanto a me, ero Charya, «il suo unico amico». Il mio era un titolo piuttosto esatto, poiché non gradiva la compagnia d'altri, e passavamo insieme la maggior parte del nostro tempo libero... o meglio, quella parte del suo tempo libero che egli non passava al castello, in compagnia di Jamaal. Solo in seguito seppi la ragione di quelle visite.
Ad ogni modo, Davidson conosceva bene le antiche cose, forse altrettanto bene quanto Jamaal. Discutevamo di molte altre cose, comunque, e quando mi sentii abbastanza in confidenza con lui gli rivolsi una domanda circa un fatto che mi aveva inquietato fin dalla prima battaglia. «Davidson, cosa ti succede quando combatti? Hai detto a Jamaal che diventi qualcun'altro: chi è quest'altra persona che tu diventi?». Mi fermai, timoroso. Sapevo che si trattava di una questione di cui non amava parlare. Sorrise. «Mi aspettavo che me lo domandassi, Charya. Me lo aspettavo perché tu non sei un combattente istintivo. Ti ho visto; in battaglia, sei obbligato a riflettere e a controllare sempre le tue azioni. Quando stai combattendo, sei padrone di te stesso come non mai. Per me è il contrario. Io non sono un combattente istintivo, ma quel combattente è dentro di me. È come un animale, una tigre in gabbia. Ha gli occhi di ghiaccio e le sue azioni sono rapide e spietate. Fino a quando non ho bisogno di lui, lo tengo prigioniero in un angolo della mia mente, ma quando c'è da combattere lo libero, ed egli entra in me. Lo hai conosciuto, e lui conosce te, ma era lui, e non io, che combatteva al tuo fianco sulla montagna». Riuscii soltanto ad annuire, e rimasi zitto a lungo. Non parlammo mai più di quell'argomento, ma ripensai a quanto aveva detto ogni volta che mi trovai accanto alla tigre nel silenzio della notte. Alla fine di quell'anno, Davidson fu fatto capitano della Guardia, e subito divenne il più autorevole tra i capitani. Continuò così per altri due anni. Io non venni mai promosso capitano, perché tutti sapevano che Davidson ed io dovevamo sempre uscire di pattuglia insieme. Con ogni mese che passava, la fama di Davidson diventava sempre più diffusa. Eravamo sempre noi ad effettuare le ricognizioni più lunghe e pericolose, ed ogni notte uccidevamo delle Ombre. Ci spingevamo molto lontano, e così, spesso ero io il solo testimone dei suoi combattimenti più epici. Ci fu ad esempio una volta in cui affrontò le Ombre stando sull'orlo di un precipizio, o quell'altra volta in cui tenne a bada tre Ombre solo con le braccia, dopo che la sua spada si era infissa in un tronco d'albero a causa di un suo poderoso fendente. Forse le Ombre stesse ormai ci riconoscevano, poiché a volte fuggivano al nostro cospetto, e ci obbligavano ad inseguirle. E così, forse fummo soltanto io e le Ombre a conoscere il suo vero valore, anche se su di lui si raccontavano storie fantastiche, storie di guardie novelline che narravano di aver visto in battaglia il lampo della sua spada, o almeno volevano dare ad intendere di averlo visto. E accaddero poi quei
fatti a cui è legata la più gran parte della sua gloria. Era l'alba, e una stella cadente stava precipitando dal cielo. Rallentò un poco sopra la nostra verticale, poi virò improvvisamente ed atterrò dolcemente tra le colline oltre il villaggio. Negli occhi di Davidson si affacciò la tigre, e lo udii bestemmiare in una lingua che non avevo mai sentito prima. Anche le altre guardie erano scosse, ma in maniera diversa. Non erano religiose - perché non si poteva esserlo e allo stesso tempo affrontare le Ombre come facevamo noi - ma, invece che furiose, come Davidson, erano impaurite ed impressionate. «Che cosa può volere quella stella da noi?», domandò a bassa voce una guardia. «Vuole me», disse Davidson. Si avviò giù per la collina, verso il villaggio, ed io lo seguii in silenzio. Sì, la stella mi impauriva, ma ero ancor più intimidito dall'uomo che mi stava davanti. E poi, pur di vedere una stella da vicino, sarei andato anche da solo. Tutti gli altri restarono al castello. Al limitare del villaggio, Davidson si arrestò. «Credo che gli uomini della nave stellare siano al villaggio». S'interruppe. «Penso che mi somiglino molto. Charya, vuoi andare a dare un'occhiata? Cerca di scoprire quanti sono. Verrei con te, ma temo che mi ucciderebbero non appena mi vedessero». Le sue ultime parole mi sorpresero, e lo guardai. Per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, nei suoi occhi non c'era gelo, ma solo paura. Andai. Mi fermai all'angolo della taverna, poiché all'interno di essa risuonavano delle voci straniere. «E che strada devo seguire, per arrivare al castello?», domandò una delle voci. Parlavano tutti un nadico legnoso, molto scolastico. «Per la montagna, a nord del villaggio. Se non riesci a trovare Davidson, chiedi di Charya, lui saprà dov'è». Questa era una voce locale, una voce molto spaventata. Sbirciai da dietro l'angolo, li contai, e poi mi affrettai ad uscire dal villaggio. «Erano in tre», dissi a Davidson. Ora mi sentivo più sicuro, perché vedevo che in lui c'era di nuovo la tigre. Non disse nulla, ma annuì e mi guidò sulla collina, verso la stella. La trovammo subito: era una nave meccanica, di metallo. «Ricordati», disse repentinamente, «che non sono Ombre, e che non ci basterà toccarli». Corremmo silenziosamente fin sotto la nave, col passo sicuro ed impercettibile che solo le guardie hanno.
Il portello era aperto, e balzammo dentro. Uccidere degli uomini era molto più facile che uccidere delle Ombre. Dentro, erano in due; ce ne toccò uno a testa. Davidson si avvicinò a una parete piena di leve e di finestrelle, e compì molte operazioni complicate, poi si rivolse a me: «Presto, usciamo di qui». Saltò fuori della nave, ed io lo seguii mentre correva e si tuffava dietro una roccia. Un boato incandescente devastò la quiete del mattino, e il terreno fu scosso dal rombo di mille tuoni. Fummo investiti da una bufera di terra e detriti. Quando mi rialzai, la nave non c'era più. «Adesso aspetteremo gli altri», disse. «Saranno armati e sospettosi, e quindi sarà più difficile ucciderli». Annuii, è ci nascondemmo entrambi tra le rocce. Fui io a vederli per primo, e mi sfilarono davanti senza vedermi. Ad una ventina di metri più in là si separarono, e due di essi scomparvero in direzioni diverse, lasciando il terzo a guardarsi attorno lentamente. Quando il suo sguardo si posò su di me, fece appena in tempo a vedere la mia spada. Gli trafissi la gola prima che avesse l'opportunità di reagire. Morendo, l'uomo portò la mano alla cintura e sganciò da essa una scatoletta. Me la puntò contro, e da essa scaturì all'improvviso una luce vivida, che fortunatamente mi mancò e si disperse nel cielo. La mira dell'uomo morente non era buona. Il suo braccio si afflosciò prima che potesse far fuoco di nuovo. Raccolsi l'arma dalla mano dell'uomo delle stelle, ed inseguii uno dei suoi compagni. Durante l'inseguimento, scoprii dove dovevo premere per fare la luce: contro quell'arma e la mia abilità di cacciatore, quell'uomo non avrebbe potuto spuntarla. Quando cadde, udii anche l'urlo del terzo uomo. Quando Davidson mi trovò, nei suoi occhi non c'era più la tigre. Quando vide ciò che avevo fatto sorrise, e mi chiese la scatola di luce. Quando gliela ebbi data la distrusse, bruciandola con un'altra scatola di luce che ora portava alla cintura. Lo guardai, e lui sospirò. «Queste armi vengono da un altro luogo e da un altro tempo. Il loro posto non è qui, Charya». «Da dove vengono?». «Da dove vengo io». «Dalle stelle?». Annuì, e riagganciò la scatoletta alla propria cintura. «Vogliono uccidermi», disse, «perché ho commesso un grave crimine. È
stato un delitto politico, ma anche spirituale... Ero un assassino di professione». Mi guardò, ma non avevo mosso un muscolo. «Non sei sorpreso?». Scossi il capo. «Avevo intuito subito che venivi da lontano, e quando un uomo viene a nascondersi da tanto lontano, vuol dire che ha fatto qualcosa di veramente grosso». «Nel posto da cui vengo c'era un uomo famoso. Alcuni dicevano che era un salvatore, un messia finalmente venuto a redimere l'umanità. Quell'uomo impiegava però droghe, macchine ed inganni per convincere i propri seguaci, e così gli altri decisero che bisognava fermarlo. Ingaggiarono me. Un professionista. Lo uccisi, e diventai così uno degli uomini più celebri del mio mondo, e di tutta là storia». Davidson si accigliò. «Celebre, o forse famigerato». Rizzai le orecchie. «Il tuo mondo? Credevo che tu venissi da una stella!». Annuì. «Sì, forse è il modo migliore per intenderci. Vengo da una stella, una stella molto più grande di quella nave, e ancor più grande di questo pianeta». «Più grande di questo pianeta?». La mia mente vacillava: il mio mondo non era infinito, aveva dei confini. Annuì lentamente. «Non chiedermi di spiegartelo. Ad ogni modo, gli uomini delle stelle mi danno la caccia, perché aver ucciso quell'uomo non è bastato a fermare i suoi seguaci. Essi avevano dato inizio ad una guerra, ed ora sembra che non siano riusciti a vincerla. È solo per questo che mi sono venuti a cercare; mi avevano promesso che non l'avrebbero fatto, ma sono venuti lo stesso. E torneranno». Agli angoli dei suoi occhi cominciarono a formarsi delle lacrime, lacrime piccolissime. «Potremmo scappare». Sospirò. «Era quello che volevo fare, ma ho fatto esplodere la loro nave. Prima o poi, mi prenderanno». «Possiamo lottare». «Sì, possiamo lottare. Ma loro sono molto forti». Rimase in silenzio per tutto il resto del percorso. Da quel giorno in poi, mattino e sera., Davidson andò al castello a scrutare il cielo con i telescopi di Jamaal. Portava con sé dappertutto la scatola di luce. Una sera infine mi svegliai, e non c'era più. Gli altri mi dissero che quel pomeriggio erano cadute molte stelle dal cielo. Erano cadute intorno al vil-
laggio, e si trovavano ancora là. Indossai in fretta l'armatura e corsi incontro a ciò di cui tutte le altre guardie avevano tanta paura. Ci andai, anche se Davidson mi aveva lasciato un biglietto: «So che vorresti aiutarmi, ma non è affar tuo. Sei mio fratello, ma sono stato io a commettere il crimine, e sarò io a dover pagare. Li affronterò da solo». Arrivai troppo tardi. Ero ancora per la strada quando le stelle ritornarono una ad una nel cielo. Quando giunsi al villaggio, pretesero che fossi io a spiegar loro cos'era successo. Passai giorni interi alla ricerca di tracce e di testimoni, ma nessuno aveva visto né sentito nulla. Erano tutti terrorizzati: avevano visto cader le stelle. Qualche settimana dopo, cominciarono a circolare varie storie. Le stelle cadenti erano tremendi draghi dall'alito di fiamma, e Davidson li aveva messi in fuga a prezzo della propria vita. Un'altra versione sosteneva che erano stati Davidson e Charya a respingerli, legandomi così alla sua leggenda. Altre storie ancora volevano che avessimo combattuto contro degli uomini d'oro scesi dalle stelle, o addirittura contro una versione diurna delle Ombre. E si diceva anche che Davidson non era morto, che vagava ancora per le colline, che era impazzito, che era stato ferito e che era stato non si sa come trasformato. C'era sempre più gente che affermava di averlo visto. Ben presto le storie divennero leggende, le leggende di Davidson, il più famoso spadaccino del regno. Non trovai mai il suo corpo. Il giorno stesso in cui tornai dalla mia ricerca, Jamaal mi nominò primo capitano della Guardia. Era solo la seconda volta che lo vedevo. Non mi chiese notizie di Davidson: mi sembrò che sapesse già che se n'era andato. Da allora in poi, dovetti vivere la mia vita da solo. Dovevo sedere da solo nella taverna, ad ascoltare i preti che sempre ci avvicinavano sussurrando: «Devi pentirti! Le antiche cose sono il male! Sono state loro a causare le Grandi Guerre. Devi partecipare ai riti, ed accettare che il tuo nome venga sorteggiato per il sacrificio. Devi sacrificare alle Ombre, se non vuoi diventare come loro!». Andavo da solo a visitare Jamaal, che in certi giorni era costretto a restarsene a letto. Da solo dovetti insegnare alle altre guardie cosa fossero le antiche cose, e perché dovevamo proteggerle. E mi sentivo solo quando uscivo di pattuglia: essere con le altre guardie non era come essere insieme a Davidson. Ormai, quando le Ombre fuggi-
vano non potevo più inseguirle, perché dovevo proteggere gli altri. Sulle prime, mi sembrò strano che le Ombre fuggissero solo quand'ero presente, ma poi compresi che era avvenuta una trasformazione, una metamorfosi di cui quasi non mi ero accorto. Ora anch'io avevo liberato il guerriero istintivo, la tigre dagli occhi di ghiaccio. Forse Davidson si sbagliava. Forse la tigre si nasconde in ciascuno di noi, forse possiamo tutti diventare combattenti istintivi. O forse è la tigre di Davidson che ora si serve di me per pattugliare la montagna. Il lavoro della Guardia è importante, ma la Guardia esisteva prima di me e continuerà ad esistere dopo di me. Quando Davidson c'era ancora, non avevo lasciato la Guardia Scarlatta perché Davidson era la mia vita. Non la lascerò ora, perché sono tutto ciò che rimane di lui. A meno che - chi lo sa, forse qualcuna di quelle leggende dice il vero. Non ci spero molto, ma in effetti è vero che non avevo trovato il suo corpo. Nell'oscurità di mezzanotte non cerco soltanto le Ombre, cerco anche Davidson. Forse un giorno, quando riuscirò a trovarlo, mi porterà con sé a vedere i confini del mondo. Titolo originale: Davidson, Shadow Stayer. SAMUEL R. DELANY LA STORIA DI GORGIK Sua madre ogni tanto affermava di essere indirettamente imparentata con una delle grandi famiglie di pescatrici delle Isole di Ulvayn; ne aveva gli occhi, ma non i capelli. Suo padre era un marinaio che, dopo una ferita all'anca ricevuta in mare, si era messo in secca nel porto di Kolhari, dove faceva il galoppino per un ricco importatore. Fu così che Gorgik crebbe in uno dei più grandi porti di Nevèrÿon. La sua giovinezza sui moli fu più avventurosa di quanto i suoi genitori desiderassero, e più fiorita di guai di quanto essi ritenessero possibile tollerare - anche se a dire il vero fu meno avventurosa ed inquieta di quella di certi suoi amici, che erano finiti in galera o erano morti in seguito a scherzi un po' pesanti. L'infanzia a Kolhari? Provenienti da ogni angolo del Nevèrÿon, c'erano soldati e marinai che giravano schiamazzando per tutta la città, su e giù per il vècchio Pavë; c'erano i mercanti e le loro mogli, che passeggiavano per la Strada Nera, il cui manto stradale nei giorni caldi si scioglieva sotto i sandali; c'erano i viaggiatori e i mercanti, che si incontravano a discutere di fronte alle taverne del porto, la Sentina, il Kraken, il Covo; e fra tutti
questi passavano gli schiavi e le schiave. Quelli che appartenevano a padroni aristocratici erano spesso vestiti meglio degli stessi mercanti, mentre ce n'erano altri cosi laceri e sporchi da non poterne distinguere il sesso. Tutti però portavano il collare di ferro, che poggiava su bei colletti di camicia o su spalle ossute, largo oppure stretto attorno a colli macilenti oppure grassi. Spesso un doppio ricordo tornava alla mente di Gorgik: era uscito da una stanza in cui c'era una grande quantità di monete, che, alcune ordinatamente ammucchiate, altre sparpagliate, stava sopra dei fogli di pergamena fitti di scrittura. Era entrato nel deposito, in fondo al magazzino in cui lavorava suo padre, ma invece di trovare rotoli di pelli e balle di canapa, aveva trovato un paio di decine di uomini. Alcuni sedevano a gambe incrociate sullo scabro pavimento, altri se ne stavano appoggiati contro il muro di terra. Tre dormivano in un angolo, e un altro stava pisciando, a cavallo del canaletto di scolo che scorreva in mezzo alla stanza. Erano tutti imbronciati, silenziosi e nudi, tranne che per il collare di ferro al collo. Passò in mezzo a loro, ma non lo guardarono nemmeno. Una, due o forse quattro ore più tardi entrò di nuovo nel deposito, e lo trovò vuoto. Sul pavimento giacevano una ventina di collari, aperti. Ognuno di essi era attaccato ad una catena, che serpeggiava al suolo e andava a congiungersi ai grandi anelli piantati in una trave incastrata nella parete. Il posto era freddo e fetido. Da un'altra stanza proveniva il rumore delle monete, che tintinnavano l'una contro l'altra. Aveva avuto sei anni? O sette? O cinque...? Nelle strade dietro i magazzini del porto, le donne fabbricavano monili, e gli uomini intrecciavano cesti. Per poche monetine, i ragazzi vendevano patate cotte che d'inverno erano croccanti e fredde di fuori, ma con una traccia di tepore al centro. D'estate erano invece bollenti, ma dopo il primo morso si scopriva dentro di esse un cuore duro ed umido. Da dietro le tende di rafia delle finestre, le madri rimproveravano le figlie: «Torna a casa, torna a casa, torna immediatamente a casa! C'è del lavoro da fare!». Con la primavera arrivavano le navi dal sud. E le palle: erano abbastanza piccole da poter essere nascoste nel pugno di un uomo robusto, ed erano fatte di un materiale nerastro, poco malleabile, e all'interno di esse si nascondeva una bolla grossa come un'unghia, come aveva scoperto aprendone una da bambino. Con le palle arrivava anche la filastrocca che si recitava mentre le si facevano rimbalzare sul selciato attorno alla cisterna del quartiere: alla prima apparizione della mezzaluna. Ma i Signori di Garth l'avevano coperta,
e nessuno riusciva a sedersi, e le chiavi di Belham non entravano più, e tutti i soldati combatterono un po', e a tutti i generali non importava un fico che si facessero male o no... La filastrocca continuava fino a quando si riusciva a fare rimbalzare la pallina, di solito con qualche ripetizione e con molte improvvisazioni. Quando si voleva smettere, si concludeva così: ...e l'aquila sospirò e il leone gridò l'avvertimento della mia Signora, perché tutti lo sentissero! Mentre si diceva «avvertimento!», si doveva scagliare con tutte le proprie forze la pallina contro la parete macchiata di sale della cisterna. La pallina nera prendeva il volo nella luce del sole. I bambini e le bambine correvano, danzavano, ammiccavano... Chi riusciva a prenderla aveva diritto a farla rimbalzare per primo. A volte si diceva invece «...l'avvertimento della Strega Pazza...», che però rovinava il ritmo, oppure «...l'avvertimento di Olin il Pazzo...», che andava benissimo, solo che nessuno sapeva cosa volesse dire. Chiunque avesse un nome anfibrachico veniva inserito nella filastrocca e sbertucciato. Una sola cosa era certa: da chiunque provenisse quell'avvertimento, era una cosa seria. Alcune delle palline andavano a finire nella cisterna, altre invece finivano chissà dove, dove vanno a finire tutti i giocattoli perduti. Con l'arrivo dell'autunno, non rimanevano più palline. Era un fatto che lo rendeva triste: si era allenato per molti giorni sulla cisterna in disuso, in fondo al vicolo dietro al magazzino, ed era riuscito a far rimbalzare la pallina quasi quanto i ragazzi che avevano una volta e mezza la sua età. La filastrocca indugiava negli angoli sovraffollati del magazzino della sua memoria, e si rifaceva viva ad intervalli sempre più lunghi, magari un attimo prima di addormentarsi in una sera invernale, o durante una corsa sull'argine in muratura della Grande Khora, in un pomeriggio d'estate.
Correre per le strade di Kolhari? In quelle strade risuonavano le scurrilità di una dozzina di lingue diverse. Dalle parti della Penisola, Gorgik aveva imparato che voldreg voleva dire «genitali di cammella incrostati d'escrementi», e gli parve che fosse quello l'epiteto più usato nella lingua gutturale di quegli uomini del Nord vestiti di nero. Eppure, quegli stessi uomini lo avrebbero schiaffeggiato se avesse usato in loro presenza la parola ini, che significa «garofano bianco». Nel Vicolo dei Gabbiani, abitato per lo più da gente del Sud, sentì che le donne parlavano sempre di nivu questo e nivu quello mentre trascinavano i loro cesti impastati di fango secco, pieni d'acqua che sgocciolava sulle pietre triangolari del selciato. Avevano una parlata sibilante, blesa, e di solito, quando pronunciavano quella parola, ridevano. Quando finalmente domandò a Miese, la barbara del Sud che portava il pesce e le verdure alla porta di servizio del Kraken, che cosa volesse dire, lei gli rispose ridendo che non era cosa che potesse interessare a
un uomo. «Allora deve avere qualcosa a che fare con quel che hanno le donne ogni mese, no?», le aveva domandato con tutta la spocchia ed il candore di un quattordicenne di città. Miese si appoggiò più saldamente il cesto sul fianco: «E secondo te, sarebbe una cosa che non interessa gli uomini?». Salì gli scalini e scostò con la spalla la tenda di cuoio che ogni mattino, quando venivano tolte le assi, diventava la porta di servizio del Kraken. «No, non ha niente a che vedere con le regole mensili di una donna. Voi gente di città avete proprio delle idee strampalate!». Sparì all'interno. Non seppe mai quale fosse il significato di quella parola. L'ultimo tratto del Nuovo Pavë (ma lo chiamavano «nuovo» da ormai cent'anni) era tutt'uno col porto. Era lì che le prostitute di entrambi i sessi passeggiavano, si ubriacavano per le strade ed adescavano. Molte venivano da luoghi esotici, molte altre erano invece nate nella vecchia Kolhari stessa. Tutte avevano personalità ed abiti diversi, e tutte avevano storie sorprendentemente simili. Il porto di Kolhari offriva rifugio a qualsiasi avventuriero. Un'adolescenza passata andando a zonzo in quelle viuzze chiassose e in quei viali congestionati, sempre attraversati da una parata di forestieri, aveva insegnato a Gorgik una doppia lezione, che in ultima analisi era il livello massimo di sapienza a cui qualsiasi civiltà potesse aspirare: La vastità del mondo è grande, ma, ciò non di meno, è possibile viaggiare da un posto all'altro. I costumi degli uomini sono innumerevoli e complessi ma, ciò non dimeno, comprensibili. Cinque settimane dopo il sedicesimo compleanno di Gorgik, l'Imperatrice bambina Ynelgo, il cui avvento fu giusto e generoso, prese il potere. In quel ventoso pomeriggio del mese del Topo, i soldati gridarono da ogni angolo di strada che il nome della città era ora Kolhari, cosa che ogni mendicante, mozzo, taverniere e venditore di granaglie del porto sapeva già da tempo immemorabile. Vent'anni prima, gli ultimi figli del drago ad occupare l'Alta Corte delle Aquile avevano ufficialmente ribattezzato Nevèrÿon la città, ma senza molto successo. Quella stessa notte, molti ricchi importatori furono assassinati, le loro case saccheggiate e i loro dipendenti uccisi e tra di essi, il padre di Gorgik. I familiari dei dipendenti vennero fatti schiavi. Mentre in un'altra stanza i singhiozzi di sua madre si tramutavano improvvisamente in un grido, per poi repentinamente cessare, Gorgik fu trascinato nudo nella strada gelida. I cinque anni seguenti li passò nell'entro-
terra, a cento e più chilometri di distanza dalla costa, in una miniera d'ossidiana di Nevèrÿon, ai piedi dei monti Faltha. Gorgik era alto e robusto, aveva le ossa grosse ed un buon carattere, ed era intelligente. La sua intelligenza e il suo buon carattere gli avevano evitato la morte e il carcere durante la sua adolescenza sui moli del porto; nelle miniere, aggiunte al fatto che sapeva scrivere quel tanto che bastava ad annotare i nomi e il peso dei carichi, gli guadagnarono il comando di una squadra di schiavi. Grazie a questo posto privilegiato, con un minimo di astuzia poteva procurarsi una quantità adeguata di cibo, così che a differenza dei muscoli rattrappiti che si stringevano attorno alle carcasse ossute della maggior parte dei minatori, le sue braccia, le sue cosce, il collo e il petto gli si gonfiarono, pesanti e solcati da grosse vene, attorno alle sue già grandi ossa. A ventun'anni era un imponente giovanotto di pelo nero, con gli occhi permanentemente arrossati dalla polvere di miniera, e con una cicatrice su uno dei suoi zigomi abbronzati, ricordo di un piccone che gli era stato scagliato addosso durante una rissa nelle baracche. Le sue mani erano grandi e ruvide, e le piante dei suoi piedi erano simili a cuoio screpolato. A guardarlo, dimostrava appena quindici anni in più della sua vera età. La carovana di Myrgot, Dama di compagnia e Visira dalla pelle ambrata e dagli occhi castani, stava facendo ritorno dalla favolosa fortezza di montagna di Ellamon, diretta all'Alta Corte delle Aquile di Kolhari, e fece tappa a poca distanza dalle miniere, sotto i declivi scabri e boscosi dei Faltha. Durante la propria giovinezza, Myrgot era stata definita «una ragazza interessante», ma ora dicevano di lei che era solo un pozzo senza fondo di vizi e perfidie. Era primavera, e la Visira era annoiata. Si era offerta per la missione ad Ellamon perché ultimamente, all'Alta Corte, sotto l'Imperatrice bambina Ynelgo, il cui regno era pacifico e laborioso, la vita era stata esecrabilmente tediosa. Il viaggio l'aveva rinfrescata, ma una volta entro le favoleggiate mura di Ellamon, esaurite le formalità turistiche dei pomeriggi passati al sole di montagna e dell'osservazione ammirata delle evoluzioni delle grandi creature alate (attorno alle quali erano nate tante leggende), si era trovata non solo a dover mercanteggiare con i signorotti di montagna, ma anche a dover sopportare le galanterie degli zerbinotti di provincia. Dopo una settimana, derise che erano ancora peggio dei loro omologhi di città. Ma la missione si era conclusa. Sospirò.
Myrgot stava sulla soglia della tenda. Guardava i neri Faltha che squarciavano le nubi della sera, e si domandava se sarebbe riuscita a vedere librarsi nel tramonto qualcuna di quelle nere creature di favola. No, favola e realtà erano ben diverse. Quegli animali non osavano allontanarsi dai loro nidi impervi, e il loro orizzonte si limitava a poche centinaia di metri di cielo. Guardò le donne dai fazzoletti rossi, che giravano tra le tende. «Jahor...?», chiamò. Il suo maggiordomo, un eunuco dal grosso naso, apparve alle sue spalle. Indossava un turbante e brache di lana azzurra. «Per questa sera ho messo in libertà le mie serve, Jahor, e le miniere sono vicine». La Visira, nota per la raffinatezza del tratto e per la bestialità dei propri piaceri, incrociò gli avambracci sul seno e si massaggiò i gomiti nudi ed ossuti. «Vai alle miniere, Jahor, scendi nel cunicolo più buio e più profondo e portami lo schiavo più sporco, miserabile e repellente. Voglio spegnere i miei ardori in qualche maniera bassa e volgare». Come un bocciolo rosa, la sua lingua umettò la dura linea delle sue labbra. Jahor si portò il pugno serrato alla fronte, annuì, s'inchinò, arretrò di tre passi, come prescritto, si voltò e se ne andò. Un'ora più tardi, la Visira guardò fuori dagli occhielli che tenevano uniti i teli di canapa della sua tenda. Il ragazzo che Jahor stava guidando davanti a sé nello spiazzo fece un paio di passi avanti, zoppicando, poi offrì il volto alla pioggerellina che aveva preso a cadere qualche minuto prima, aprendo e chiudendo la bocca come se stesse cercando di pronunciare una parola dimenticata da poco. Lo schiavo si chiamava Noyeed, e aveva quattordici anni. Tre settimane prima aveva perso un occhio. La ferita non gli era stata curata, e si era infettata. Aveva la febbre, e rabbrividiva. Aveva la bocca incrostata del sangue che gli usciva dalle gengive. La sporcizia gli aveva squamato la pelle. Era stato nella miniera per un mese, e nessuno credeva che sarebbe durato per un secondo mese. Considerando ciò un pretesto ragionevole, due notti prima sette minatori lo avevano violentato crudelmente e ripetutamente, era per questo che zoppicava. Jahor lo lasciò lì, a biascicare bollicine di saliva che gli scintillavano sulle labbra incrostate, ed entrò nella tenda. «Signora, io...». La Visira si voltò verso di lui. «Ho cambiato idea». Sotto i capelli bruni (ora tinti), che le ricadevano inanellati sulla fronte, era accigliata. Raccolse da un piccolo sgabello un'ampolla di rame dal collo affusolato e versò an-
cora un po' d'olio nella coppa tra le catene d'ottone. La luce della lampada si fece più vivida. Ripose l'ampolla. «Oh, Jahor, deve pur esserci qualcuno, laggiù. Tu conosci i miei gusti. In fondo, non abbiamo gusti molto diversi. Provaci ancora. Portamene un altro». Jahor si portò il pugno alla fronte, annuì col suo capo fasciato d'azzurro e si ritirò. Dopo aver riportato Noyeed alla baracca, Jahor non ebbe difficoltà a scegliere. Quando aveva bussato per la prima volta alla porta sbarrata dell'intendente, era stato indirizzato con malagrazia alle baracche, accompagnato da una guardia sonnacchiosa, e si era messo alla ricerca di uno dei capisquadra. In quel fetido dormitorio, il grosso e rude schiavo che Jahor aveva svegliato, prima aveva imprecato contro il maggiordomo, poi aveva riso nel sentire la richiesta della Visira. Il gigante si era alzato, aveva condotto Jahor in un'altra e ancor più fetida baracca, e gli aveva indicato Noyeed. Tutto sommato, gli era sembrato un tipo simpatico. Con quella faccia sfregiata e rincagnata non era certo una bellezza. I suoi capelli erano impastati di terra, ma aveva un fascino animale, ed era abbastanza sporco da soddisfare qualunque nostalgie de la boue. Così aveva pensato Jahor, mentre il caposquadra tornava ai propri sonni. Quella sera, la guardia aprì per la seconda volta le doppie serrature che assicuravano a ciascuna estremità la trave che chiudeva la porta della baracca. Jahor entrò. Pioveva, e il pavimento della baracca era fangoso quanto il suolo fuori di essa. La guardia lo seguì, levando una torcia di pino sfrigolante. Il suo fumo lambì le travi fradice, e da dietro di esse, spaventati dalla luce, fuggirono gli insetti, alcuni dei quali caddero al suolo. Jahor, muovendosi in punta di piedi tra la paglia fangosa, raggiunse il primo fagotto raggomitolato nell'ombra. Si fermò davanti ad esso, e strappò via il telo sfilacciato che lo ricopriva. La grossa testa si levò, e due occhi arrossati ammiccarono, protetti da un braccio villoso. «Oh...», grugnì lo schiavo. «Ancora tu!». «Vieni con me», disse Jahor. «Adesso lei vuole te». Gli occhi arrossati si restrinsero, e lo schiavo si puntellò su un grosso braccio. Il suo volto sembrò raggrinzirsi attorno alla cicatrice. Si massaggiò con la mano libera il collo taurino: la pelle che si tese tra il suo pollice massiccio e il suo indice calloso era grigia e screpolata. Scosse il capo, come per liberarsi dal sonno, e dai capelli gli caddero dei fili di paglia, che scivolarono sulle sue spalle possenti. Si chinò in avanti, alzò il collare e lo
richiuse. Dietro il collo, una ciocca di capelli arruffati gli rimase chiusa nel fermaglio. Riuscì a districarla, armeggiando con una delle sue dita grosse e tozze. «Ecco fatto...». Si alzò dal pagliericcio, in mezzo agli schiavi addormentati. Nella penombra della baracca, appariva ancor più grande. I suoi occhi incrociarono quelli dell'eunuco dal grosso naso. Sogghignò, e strofinò con tre dita il collare di metallo. «Così mi lasceranno rientrare. Andiamo». Fu così che Gorgik arrivò con Jahor alla tenda della Visira. Passò la notte con Myrgot - che aveva quarantacinque anni e che, almeno nello spazio ristretto che concedeva alla propria vita personale, era piuttosto romantica, Pur trascurando i preliminari, anche gli amplessi più appassionati, per non dire i più perversi, non durano a lungo, anche se si protraggono per tutta una notte. Il vero problema di Myrgot era la noia, e la lascivia era solo il suo sintomo, e così, durante le prime ore del mattino, lo schiavo si trovò a conversare con la Visira. Gli schiavi di una miniera di ossidiana non hanno molti divertimenti, a parte la conversazione e l'invenzione di storie mirabolanti, e così, quando Gorgik si accorse della vera natura del suo problema, cercò di compiacerla raccontandole storie di prima e dopo la sua schiavitù: alcune erano spacconate che erario piaciute agli altri schiavi, altre erano variazioni sul tema delle sue esperienze giovanili. Perché non mentire ed inventare? La Visira voleva divertirsi, e la notte stava per finire, e non si sarebbe mai più ripetuta. Per cinque volte, quella notte, raccontò storielle che alla Visira parvero deliziosamente comiche, e per tre volte fece delle considerazioni sulla natura dell'animo umano che le parvero sorprendentemente profonde. Per il resto, fu ciarliero e deferente, e parlò con la schiettezza di una persona senza più alcuna speranza. Gorgik pensava soprattutto all'effetto che avrebbe fatto quella storia la sera seguente, davanti a una cena di semolino freddo e grasso di maiale, anche se la prospettiva di dover affrontare dieci ore di lavoro senza aver dormito rendeva l'idea un po' meno entusiasmante. Non si illudeva che da tutto ciò avrebbe ricavato più che del materiale per una buona storia. Giaceva supino sulla seta umidiccia che il suo corpo aveva sporcata, e guardava le lampade spente che oscillavano sotto il soffitto a strisce della tende. A volte si appisolava nel bel mezzo di un ragionamento, mentre accanto a lui la Visira gli diceva la sua opinione su questo e quello. Sperava che quello sarebbe stato il prezzo massimo che avrebbe dovuto pagare.
Quando dagli occhielli agli angoli della tenda cominciò a filtrare la luce, la Visira si alzò repentinamente tra un fruscio di sete e un mormorio di pellicce, il cui splendore cullava la spossatezza di Gorgik. Chiamò seccamente Jahor, e ordinò a Gorgik di alzarsi e di aspettare di fuori. Stanco, nudo e con la testa che gli girava un po', Gorgik rimase in piedi sull'erba umida, già sciupata qua e là dall'andirivieni dei carovanieri. Guardò le tende, le montagne nere dietro di esse e il cielo senza nuvole che già indorava le chiome dei pini. Potrei scappare, pensò. Sì, e se scappassi, le guardie mi riacciufferebbero nel giro di un giorno. E poi, sono troppo stanco. Ma potrei scappare, se...
Nella tenda, Myrgot stava riflettendo, con il mento sui pugni, in cui stringeva la seta umida di sudore. «Jahor, credo che quell'uomo sia sprecato nelle miniere». Parlava piano, perché era mattina. Quando si passa la maggior parte della propria vita in un castello in cui dimora molta altra gente, la mattina ci si abitua a parlare piano. La sua voce era roca, dopo gli eccessi notturni. «Ho detto uomo. Ha l'aspetto dì un uomo, ma non è che un ragazzo. Oh, non voglio certo dire che sia un genio, o qualcosa di simile, ma parla passabilmente un paio di lingue, e ne sa quasi leggere una. È ridicolo che finisca in una miniera d'ossidiana! E poi... lo sai che sono la prima donna che abbia mai avuto?». Di fuori, in piedi e con gli occhi semichiusi, Gorgik stava ancora pensando: Sì, forse potrei... quando Jahor lo raggiunse. «Vieni con me». «Si torna alla miniera?». Gorgik borbottò qualcosa di offensivo, ma detto da lui sembrava una celia. «No», disse Jahor, con una voce energica e bassa che fece arrabbiare lo
schiavo. «Nella mia tenda». Gorgik restò per tutta la mattina nella tenda dell'eunuco dal grosso naso. Le lenzuola e le coperte non erano fini come quelle della Visira, ma erano pur sempre lussuose. L'arredamento, poi, era di gran lunga più opulento di quello della tenda della Visira: c'erano sedie, tavolini, scaffali, cassettiere e numerose statuette di bronzo e ceramica. Nel corso della mattinata, Jahor scoprì che quello schiavo era rude e alla mano, e cortese quanto lo può essere un minatore esausto alle quattro, alle cinque o alle sei del mattino. Jahor stava cercando di verificare se la Visira avesse intuito il vero circa quel giovane, e non era certo la prima volta che gli accadeva di dover fare una cosa simile. Finalmente, l'eunuco dal grosso naso si alzò dal letto, e si rifece il turbante di lana azzurra. Si scusò - inutilmente, poiché Gorgik s'era immediatamente addormentato - e tornò alla tenda della Visira. Gorgik non seppe mai di cosa parlarono. Di certo, sarebbe stato sorpreso, se non scandalizzato, da uno degli argomenti ricorrenti della conversazione: quando era molto più giovane, la Visira stessa per tre settimane era stata una schiava, e costretta a prestarsi a servizi faticosi ed umilianti alla corte di un signorotto di provincia. Il cuoco attualmente al suo servizio gli assomigliava tanto che la Visira quasi non riusciva a metter piede in cucina. Era stata una schiava soltanto per tre settimane, poi era arrivato un esercito, le frecce incendiarie erano entrate saettando dalle finestre di pietra, e la testa del signorotto era stata mozzata, ed era passata di picca in picca attorno al fuoco. I suoi liberatori erano stati dei soldati incredibilmente sporchi ed incredibilmente tatuati, così feroci ed esagitati che essa decise infine che dovessero essere pazzi, anche perché era stata testimone di ciò che avevano fatto in pubblico a due donne della corte del signorotto. Il capo di quei soldati era tuttavia un alleato di suo zio, ed era stata restituita a quest'ultimo relativamente indenne. Quell'esperienza era comunque bastata a farla giungere alla conclusione che quella della schiavitù era un'istituzione obbrobriosa, e così pure l'istituzione della guerra. Giunse addirittura a pensare che l'unico tipo di guerra giustificabile fosse quella contro lo schiavismo. Esperienze simili erano state comuni, tra i ranghi di quella democrazia oppressa per venti anni dal drago, e solo recentemente riassunta al potere, ma non tutti ne avevano ricavato la stessa morale. L'attuale governo non si opponeva ufficialmente allo schiavismo, ma allo stesso tempo si guardava dall'incoraggiarlo. La stessa Imperatrice bambina, il cui regno era orgoglioso e prudente, aveva creato un precedente non ammet-
tendo l'uso degli schiavi a corte. Gorgik si risvegliò col sole in faccia da un sogno in cui era affamato, il ventre e lo scroto gli dolevano e un ragazzo orbo, con la bocca incrostata e le mani screpolate, stava cercando di dirgli qualcosa che non riusciva a capire, qualcosa che gli sembrava tremendamente importante riuscire a capire. Stavano smontando la tenda mentre lui era ancora dentro. Una testa inturbantata d'azzurro s'interpose tra lui e il sole: «Oh, sei già sveglio... In questo caso, è meglio che tu venga con me». Mentre la carovana si preparava chiassosamente a ripartire, Jahor condusse Gorgik dalla Visira. Attorno a loro c'era il trambusto dei carrettieri, dei segretari dal turbante giallo, delle serve dal fazzoletto rosso e dei facchini, che per tutta la durata del loro colloquio entrarono ed uscirono dalla tenda, sollevando, trascinando e smontando tutto. Essa gli disse senza preamboli che l'avrebbe portato con sé a Kolhari, sotto la propria protezione. Era stato ricomprato dalla miniera, che si togliesse quel collare, e lo nascondesse da qualche parte, almeno di giorno. Non doveva mai rivolgerle la parola, a meno che non fosse lei stessa a rivolgergliela per prima. Doveva sempre ricordarsi che, se la sua decisione si fosse rivelata un errore, la Visira avrebbe saputo rendergli la vita ancor più insopportabile di quanto non fosse nelle miniere. Sulle prime, Gorgik non si sentì tanto sorpreso, quanto incredulo. Poi, quando cominciò a comprendere, prese a balbettare i propri ineleganti ringraziamenti, che s'interruppero con la stessa rapidità con cui erano iniziati quando precipitò di nuovo nella confusione e nell'incredulità. Myrgot credette invece che desistesse perché s'era accorto che anche la gratitudine va espressa con moderazione, e lo prese come un segno dell'intelligenza di lui e della propria saggia scelta. Gli uomini stavano ormai smontando anche quella tenda. Con gli occhi semichiusi, Gorgik guardò la donna dal vestito verde, seduta al sole dietro un tavolo dal quale le donne dal fazzoletto rosso stavano già mettendo via portagioie, piccole cose arrotolate e legate con nastri, strumenti di vetro e di bronzo. Era all'improvviso diventata più piccola, o era una sua impressione? Le lucide treccine nere che s'inanellavano attorno al suo capo sembravano quasi artificiali, come una parrucca, ma lui sapeva bene che non lo erano. La sua stessa veste sembrava esser stata confezionata per una donna più in carne di lei. Lo guardò, e il chiarore del mattino sottolineò impietosamente le rughe attorno ai suoi occhi, le pieghe della pelle del collo e le vene molto pronunciate sul dorso della mano - cosa che in lei era dovuta all'età, e in lui al lavoro. Mentre se ne stava lì, ammiccando al sole, Gorgik capì che ora doveva sembrarle molto diverso,
quasi quanto lei gli sembrava diversa. Jahor gli toccò un braccio e lo condusse via. Gorgik aveva almeno appurato che la sua nuova ed incerta posizione gli imponeva di starsene zitto. Il capo-carovana lo incaricò di occuparsi dei buoi, un lavoro che non gli spiaceva. Per le due settimane seguenti, passò le notti nella tenda della Visira. Per cinque o sei volte si sognò del bambino mutilato, e si risvegliò col fiato mozzo e gli occhi sbarrati. Doveva essere ormai morto: Gorgik ne aveva visti morire così a decine, durante quegli anni il cui ricordo stava ora stranamente affievolendosi. Una volta certa che, almeno durante il giorno, Gorgik sapesse essere discreto, Myrgot non gli lesinò abiti, gioielli e regalucci. Anche se lei personalmente non indossava mai ornamenti durante i viaggi, se ne portava dietro bauli interi. Jahor, nella cui tenda Gorgik passava ogni tanto un mattino o un pomeriggio, lo teneva aggiornato sugli umori della Visira, e gli diceva quando doveva presentarsi al suo cospetto puzzolente di stallatico e con addosso il lurido cencio e il collare da schiavo che erano tutto ciò che si era portato dalla miniera. A volte, invece (e la cosa si fece sempre più frequente nel corso della seconda settimana), gli consigliava di presentarsi a lei pulito, ben rasato e con addosso tutti i suoi regalini. Ancor più importante, gli diceva quando doveva esser pronto a far l'amore e quando invece a limitarsi a raccontar aneddoti, o, come ben presto accadde, ad ascoltarla, e basta. Fu così che Gorgik cominciò ad apprendere quella lezione tra tutte preziosa, senza aver appreso la quale non è possibile alcun progresso in società: se vuoi conservarti i favori dei potenti, bada a compiacere, pur se con discrezione, i loro servitori. Quel mattino, il grido che risuonava per tutta la carovana era: «Saremo a Kolhari entro mezzogiorno!». Già alle nove, il filo argenteo che serpeggiava tra i campi e i boschetti di cipresso era diventato un fiume bordato di giunchi, sul cui argine correva la strada carovaniera. Era la Khora, gli disse uno staffiere, e Gorgik trasalì. Per lui, la Grande Khora e la Khora della Penisola erano solo due canali intasati d'immondizia che si gettavano pigramente nel porto, passando sotto un ponticello dai muretti di pietra alla fine del Nuovo Pavë. La Penisola stava tra i due canali, e i suoi tuguri e i suoi sozzi vicoli accoglievano ladri, tagliaborse, assassini e peggio, o almeno così gli avevano raccontato. Su questo tratto del fiume si affacciavano invece grandi case di tre e persino quattro piani, costruite su terreni spaziosi e spesso racchiuse da cancelli. Ma dove si trovavano? Che diamine, doveva essere Kolhari, o alme-
no un suo sobborgo. Stavano in effetti attraversando il sobborgo di Nevèrÿon (che così poco tempo prima aveva dato il proprio nome all'intero porto), dove risiedeva l'aristocrazia più antica e più ricca della città. Poco lontano da lì c'era il sobborgo di Sallese, in cui i ricchi mercanti e gli importatori avevano le case. Non avevano altrettanta terra e una vista sul fiume, ma spesso le loro case erano molto più sfarzose di quelle degli aristocratici. Glielo raccontò una donna robusta, una delle serve dal fazzoletto rosso, che spesso si toglieva i sandali, si alzava le sottane ed andava a chiacchierare con i carrettieri, usando un linguaggio molto pepato. Gorgik venne sorpreso da un ricordo inaspettato; una volta, da bambino, era stato a Sellese, nel giardino del padrone di suo padre, ed aveva giocato ai bordi di una piscina contornata di statue. Assieme a quel ricordo si accorse di non avere la minima idea di come fare a raggiungere da quell'opulento sobborgo il quartiere del porto che era la sua Kolhari. Proprio mentre gli veniva alla mente l'unica soluzione logica, e cioè seguire la Khora, la carovana prese ad allontanarsi dalla strada sul fiume. Prima nel corso di una conversazione tra il capo-carovana e alcuni staffieri, e poi in un'altra tra il capo dei facchini e l'intendente delle serve, sentì parlare della Corte, l'Alta Corte delle Aquile. Più tardi, mentre passava accanto a un cavaliere nero dalle braccia sudate, la cui cavalcatura era finita in un fosso dopo una capriola, Gorgik lo sentì imprecare mentre malmenava l'esausto cavallo: «Per l'Imperatrice bambina, il cui regno è giusto e buono, ti romperò quel collo pulcioso! Dovevi cadere proprio qui, così vicino a casa?». Bastò passare un'ora sulla nuova strada, che serpeggiava tra i boschetti di cipresso, per far perdere a Gorgik il senso dell'orientamento. Si trovarono di fronte un muro, con delle garitte ai lati di un cancello sopra il quale un'aquila scheggiata e malamente scolpita apriva le proprie lunghe ali. Dei soldati spostarono le grosse travi ferrate, e poi si fecero da parte per lasciar passare i carri, scherzando l'uno con l'altro. Che l'Alta Corte fosse quel grande edificio vicino al lago? No, era solo uno degli edifici esterni. Ma laggiù, sopra quella cortina d'alberi... Laggiù...? Non lo aveva visto, tanto era grande. Quando lo vide torreggiare, incredibilmente enorme, sopra i sempreverdi, ci mise qualche secondo per convincersi di non trovarsi di fronte a qualche oggetto naturale, come i Falthas - oh, certo, qua e là era rastremato, o presentava delle fenditure, ma era un
cumulo di palazzi, padiglione su padiglione, più che un singolo edificio era una città vera e propria: possibile che fosse stato costruito? Cercava di discernere in esso i vari edifici, ma malgrado i suoi molti livelli e le sue sporgenze sembrava un tutt'unico. Desiderò che la carovana si fermasse, così avrebbe potuto continuare ad ammirarlo. Ora la strada era ricoperta da un tappeto di aghi di pino, e i sempreverdi scuotevano i loro rami quasi nudi di fronte alle torri, alle nuvole, al cielo. Poi, per qualche istante, gli sembrò che una muraglia grigia gli si stesse facendo incontro, che lo sovrastasse e che stesse per rovinargli addosso, come se un terremoto infinitamente procrastinato... Jahor lo stava chiamando. Gorgik guardò giù dal parapetto. L'eunuco gli fece segno di seguire le donne, che si erano staccate dalla carovana, tra di esse c'era anche la Visira. L'edificio le inghiottì attraverso una porticina. Gorgik dovette abbassare il capo per passare. «...finalmente a casa... che viaggio pesante... a casa, a Kolhari... quando si torna all'Alta Corte... solo a Kolhari...». Scampoli di conversazione echeggiavano nei corridori, tra i soldati che montavano la guardia, ciascuno nella propria nicchia. Gorgik si rese conto di non avere mai perso la speranza di rivedere i luoghi della propria infanzia, ma ora non gli sembrava di essere tornato a casa: non sapeva nemmeno dove si trovasse. Gorgik passò cinque mesi all'Alta Corte dell'Imperatrice bambina Ynelgo. La Visira lo alloggiò in una stanzetta dal soffitto basso e con una finestra a feritoia, proprio dietro i suoi appartamenti. Le pietre del pavimento e dei muri erano sconnesse, e tra di esse la malta si era sgretolata, come se la pressione dell'edificio sopra, sotto ed attorno ad essa avesse deformato la stanza. Già alla fine del primo mese, sia la Visira che il suo maggiordomo avevano quasi cessato d'interessarsi di lui. Ad ogni modo, prima che il suo interesse svanisse, la Visira lo aveva fatto partecipare di sovente a delle cene private (dai sette ai quattordici commensali) nelle numerose sale da pranzo dei suoi appartamenti, tutte con i soffitti a travi e arazzi alle pareti, alcune con larghe finestre che si aprivano sui tetti ed altre senza finestre, ma con intere pareti ricoperte di lampade ed ingegnosi condotti che disperdevano il fumo. Qui aveva conosciuto alcuni dei suoi amici della Corte: alcuni di essi lo avevano trovato interessante, e tre erano addirittura diventati suoi amici. Nel corso di una cena, parlò troppo, e ad altre due fu troppo taciturno. Durante le altre sei, comunque, si comportò bene, poiché nelle miniere gli schiavi sono abituati a mangiare in non meno di sette, e in non
più di quattordici. Gorgik conosceva bene i livelli di comunicazione che s'instauravano entro i gruppi di quella mole (sia che sedessero su tronchi e sassi o su cuscini e divani), anche se non conosceva le forme di cortesia su cui si basava la comunicazione in quel particolare ambiente. Le imparò. Si era subito accorto che, in materia di raffinatezza, era inutile cercare di competere con gli aristocratici: intuiva che, se ci avesse provato, ne sarebbero stati infastiditi o, peggio ancora, annoiati. Ciò che trovavano interessante in lui, era la sua diversità da loro. Andava ascritto a loro merito (o a quello della saggezza con cui la Visira sceglieva i propri ospiti), che in nome di quell'interesse (o del loro affetto per la Visira), essi si mostravano tolleranti (in maniere che egli avrebbe saputo apprezzare solo molti anni dopo) quando beveva troppo, o quando parlava con un po' troppa libertà dei pregi e dei difetti di qualcuno di loro che era assente, oppure quando si pronunciava un po' troppo impetuosamente su qualsiasi argomento di cui si stesse parlando. Spesso li accusava di essere degli sciocchi e di usarlo come un giocattolo, e proseguiva dicendo cosa avrebbe voluto far loro se solo si fosse trovato sul proprio terreno, e non sul loro. Lo diceva allegramente, ma con fermezza. Il loro linguaggio, raffinato e mellifluo, si soffermava su ogni tipo di soggetto, dallo scandaloso allo scabroso, inframmezzato dagli scoppi di risa con cui le sue indiscrezioni venivano generosamente assorbite e perdonate, se non dimenticate. Gorgik riusciva a seguire i loro discorsi, e spesso restava a bocca aperta, o, almeno, apriva i denti dietro le labbra. Il suo linguaggio, rozzo e infarcito di scatologismi che spesso facevano levare qualche sopracciglio aristocratico, era funzionale ad una gamma d'esperienze molto ristretta: le lotte e gli espedienti con cui schiavi e ladri, mendicanti e prostitute, marinai e serve cercavano di assicurarsi meschini privilegi, risibili onori e vili supremazie. Tutta gente, in breve, dietro i cui volti non c'era che un'infinita impotenza. Come soggetto di conversazione, la nobiltà della corte lo accettava solo perché Gorgik sapeva raccontare, ed era una novità stimolante in un ambiente per il quale la noia era la più grave afflizione. Gorgik non si sentiva sminuito dalle convenienze sociali che complicavano i suoi rapporti con la Visira. La Visira lavorava: era quella specie di lavoro che solo chi è addentro all'arte del governo può veramente dire di conoscere. Gli orari erano raramente definiti, e i problemi reali ben di rado venivano esposti in termini comprensibili (mentre i falsi problemi lo erano sempre). La sua giornata era fatta di conferenze e di consultazioni. Almeno
due pasti su tre li consumava in compagnia di ambasciatori, governatori o postulanti, se pure non si trattava di un pranzo di Stato. A onor del vero, fu per questa ragione che non divise ventidue cene di quel primo mese col suo schiavo. Se Gorgik non avesse passato i suoi ultimi cinque anni nelle miniere ma fosse stato, ad esempio, un apprendista intelligente e curioso presso un facoltoso vasaio del porto, forse in lui sarebbe preesistita l'immagine di un'aristocrazia infinitamente sfaccendata ed infinitamente volubile. In effetti, attorno a lui c'erano molte tracce di essa, ma se ciò gli avesse i-spirato delle meditazioni, si sarebbe certamente messo nei guai. Gorgik aveva passato una parte troppo lunga della propria vita a lavorare in condizioni che, caposquadra o no, sapeva lo avrebbero stroncato se non nel giro di altri dieci anni, certo di venti. Era troppo compiaciuto per la sua inaspettata liberazione da quel lavoro, e quindi poco incline a contestare il valore del lavoro altrui. Passare di fronte alla porta aperta della Visira, e vedere Myrgot seduta dietro il tavolo, china su una mappa, con un compasso in una mano e una riga nell'altra, per quell'apprendista curioso ed ambizioso sarebbero stati sicuri indizi di una attività lavorativa. Ripassare poco dopo per quella stessa porta, e vederla in piedi accanto al tavolo, con lo sguardo che fissava senza vederle le nuvole che passavano oltre la finestra, per quello stesso apprendista avrebbero significato un momento di riposo e di disponibilità, il che - almeno per un amante - rivelava come chiaramente irragionevole il suo ordine di non apparire al suo cospetto se non convocati. Erano due situazioni tra le quali Gorgik non sapeva semplicemente distinguere: implicavano una quantità di sfumature ricche e complesse a cui non era abituato, e che non riusciva a capire, e riusciva ancor meno a capire se implicassero un rifiuto. Per ragioni più estetiche che pratiche, Gorgik obbediva al divieto della Visira, ed in entrambe le situazioni si asteneva dall'importunarla. Gorgik agiva in questo modo perché conosceva il proprio posto: era un'attitudine mentale da schiavo, che gli avrebbe guadagnato il disprezzo di quell'ipotetico apprendista. Eppure, il giudizio di quell'apprendista sarebbe stato troppo drastico: la verità era che, sia per Gorgik che per l'apprendista del vasaio, quella società non aveva posto... se usiamo il verbo avere in un senso che non sia quello mitico (e mistificante) secondo cui uno schiavo ha un padrone, e la brava gente ha certi diritti, ma piuttosto nel senso di un possesso che implica l'esistenza di qualche maniera (la violenza, o la legge) di perpetuare quel possesso, se non concretamente, almeno in maniera simbolica. Se gliene
fosse improvvisamente venuto il capriccio, per rabbia o per una qualche altra ragione, Gorgik non avrebbe esitato ad infastidire la Visira, sia che stesse lavorando, sia che stesse riposando: era un atteggiamento che i suoi aristocratici commensali avrebbero trovato molto più simpatico di quello dell'apprendista, così pieno di distinguo. Il nostro apprendista vasaio immaginario si sarebbe senza dubbio fatto buttar fuori dal castello, lo avrebbero gettato in una delle più umide celle dell'Alta Corte e lo avrebbero ucciso: erano tempi barbarici, e la Visira si era spesso messa in luce per degli episodi di violenza e crudeltà. Se si fosse invece trattato di Gorgik, gli aristocratici lo avrebbero certo trattato con molta più comprensione, e lo avrebbero buttato fuori, gettato in una cella ed ucciso. Ciò dimostra che, in effetti, quella differenza non era poi molto utile, ai fini pratici. Comunque, stiamo solo cercando di tracciare i confini di una predisposizione naturale: Gorgik era sopravvissuto al porto, era sopravvissuto alla miniera, ed ora stava sopravvivendo all'Alta Corte delle Aquile. Per riuscirci, dovette imparare molte cose. Non gli era concesso d'avvicinare la Visira, ed era costretto ad aspettare che fosse lei ad avvicinarlo: una delle prime lezioni che imparò fu che a Corte tutti si trovavano nella sua medesima condizione nei confronti di almeno una persona, se non addirittura di interi gruppi. Era per questo che il signore di Vanar (che aveva gli stessi gusti di Jahor e che aveva donato a Gorgik diverse pietre in cui erano incastonate delle gemme, e che ora se ne stavano a raccoglier polvere in un angolo della stanza di Gorgik) e il barone Inige (che non aveva gli stessi gusti di Jahor, ma che una volta lo aveva portato a caccia nelle riserve reali, ed aveva dissertato incessantemente dei fiori di tutto il Nevèrÿon, e dal quale Gorgik aveva appreso che Vini, un nome che gli riportava alla mente un turbinare di ricordi della sua fanciullezza al porto, era un potente veleno) non potevano mai intervenire entrambi alla stessa cerimonia, anche se entrambi dovevano sempre essere invitati. Ad esempio, il feudatario di Saleema poteva essere invitato ad una cerimonia a cui partecipava anche Lord Ekoris, a meno che ad essa non dovesse partecipare anche la contessa Esulla: in questo frangente, l'invitò di Ricciolo (era il soprannome del barone Inige) sarebbe stato annullato. Nessuna persona di cui fossero noti i rapporti amichevoli con Lord Aldamir (che non era stato a Corte ormai da sette anni, anche se tutti sembravano ricordarlo con simpatia), doveva sedere di fronte, o accanto, ad alcun parente della baronessina Jeu-Forsi, fino ai cugini di secondo grado... Ah, ma forse con una mezza dozzina di eccezioni marcatamente marginali,
commentò la giovane principessa Grutn, stendendo un braccio sul cuscino infiocchettato e muovendo delle noci sul palmo della mano col suo pollice pesantemente inanellato. Ma no, non erano per niente marginali, rise Ricciolo, agitandosi sul divano e congiungendo le mani con un sorriso pieno d'emozione, come se avesse appena scoperto un nuovo esemplare di fungo. Oh, sì che lo erano, insistette la principessa, lasciando cadere le noci nel vassoio d'argento e levando il proprio calice d'argento cesellato, per meditare oscuramente sul vino in esso contenuto. E dire che, solo nel giro di quell'ultimo mese, molte persone le avevano detto quanto fosse deplorevole che il barone non comprendesse quanto marginali fossero quelle eccezioni. «A volte mi domando se l'indizio più concreto del potere della nostra graziosa cugina, il cui regno è nobile e coraggioso, non stia nel fatto che dovremo trascurare questi piaceri piccoli e grandi per partecipare ad un trattenimento a cui essa interverrà», rise Inige. Seduto sul pavimento, Gorgik ascoltava, stuzzicandosi i denti con un coltello d'argento la cui lama era più piccola del suo dito mignolo. Non ascoltava con l'avidità dell'arrampicatore sociale in cerca d'informazioni utili per le sue future conversazioni coi potenti, ma con l'attenzione rilassata di un esteta che sente recitare per la prima volta una poesia difficile, e che, conoscendo l'opera precedente dell'artista, è già rassegnato al fatto che dovrà riascoltarla molte altre volte per afferrarne il significato. Il nostro apprendista vasaio avrebbe invece partecipato a quella cena avendo già ben delineato nella testa uno schema piramidale del potere, e senza dubbio, alla luce di quelle arcane conversazioni, avrebbe creduto di poter scomporre il volume della piramide in una sola linea, con tutti i signorotti e le duchesse in bell'ordine, questo sopra e questa sotto. Avrebbe pensato che quella linea fosse percorribile, e che portasse a qualcuno, forse alla stessa Imperatrice bambina Ynelgo. Gorgik, che partecipava a quelle cene senza preconcetti, imparò ben presto, grazie alle serate passate con la Visira, alle cavalcate all'alba col barone, ai trattenimenti pomeridiani offerti dai conti Jue-Grutn (da non confondersi con due uomini più anziani che si fregiavano dello stesso titolo. Di quello barbuto di questi ultimi, si sussurrava che fosse un pazzo, o uno stregone, o entrambe le cose), o forse semplicemente grazie alle conversazioni colte al volo nel corso dei suoi vagabondaggi tra le teorie di stanze che formavano il Medio Rango del castello, che la gerarchia del prestigio era ramificata, che i rami s'intreccia-
vano; in alcuni punti, intrecciandosi, formavano cerchi inesplicabili, ma chiusi. E si accorse anche che la presenza di questo o di quel conte o feudatario (per non parlare dei maggiordomi e delle dame di compagnia), bastava a scombussolare un'intera sottosezione del sistema, è anche a spingerla verso nuove alleanze. Jahor, specialmente durante le prime settimane, passeggiò spesso con Gorgik per il castello. Il maggiordomo eunuco era prodigo d'informazioni circa la sua architettura: il minatore era ancora fortemente incuriosito dall'edificio. Le ali più antiche, come la Vecchia Sala, erano spazi vasti e cavernosi, coi soffitti aperti e rigagnoli d'acqua che scorrevano nelle scanalature dei pavimenti. Attorno ad essi si affacciavano decine di celle piccole e buie; a quelle poste più in alto si accedeva mediante scale di legno, gradini di pietra, o semplici montagnole di terra accatastata contro i muri. Jahor gli spiegò che, secoli prima, quelle caverne polverose ed umide, ancor più anguste della stanza di Gorgik, erano state le dimore di grandi re, regine e cortigiani. A volte, in esse erano stati alloggiati anche gli ufficiali dell'esercito, e, durante le molte occupazioni, persino i soldati semplici. E quella porticina murata lassù in cima, a cui non si poteva salire per mancanza di gradini? Alcuni secoli prima, dietro di essa era stata murata Olin, la Regina Pazza: nel corso di un banchetto, in quella stessa sala, aveva servito ai commensali la carne arrostita dei suoi due figli gemelli, e i loro organi interni in salamoia. A metà del pranzo, una bufera s'era abbattuta sul castello, e la pioggia si era rovesciata nella larga apertura del soffitto, mentre le bianche fruste dei fulmini serpeggiavano nel cielo. Olin aveva proibito ai propri ospiti di alzarsi da tavola prima che le vivande fossero state consumate. Non si sa ancora, celiò l'eunuco, se la murarono viva a causa del pranzo o della doccia che si erano dovuti buscare. (Olin, pensò Gorgik, l'avvertimento di Olin...? Jahor continuava a camminare e a parlare). Attualmente, eccetto la Vecchia Sala, che veniva usata di tanto in tanto, quegli antichi pozzi pieni di echi erano in disuso, le celle erano vuote, o tutt'al più adibite a deposito di quegli oggetti che la ruggine, la polvere e il tempo avevano reso inutili, se non addirittura senza significato. Cinquanta o cento anni prima, un artigiano particolarmente abile - lo stesso che aveva costruito il Nuovo Pavë, giù al porto, spiegò Jahor, ridestando l'attenzione fuggevole di Gorgik - aveva inventato il corridoio (e anche il torchio da conio). Da allora, era stata costruita almeno una metà del castello (ed era
stata coniata la maggior parte del denaro circolante a Nevèrÿon). Infatti, in almeno metà del castello si notava che sale di riunione, dispense, cucine ed appartamenti privati erano disposti lungo i corridoi. Sei intere ali, a più piani, erano state costruite a quel modo. Gli appartamenti della Visira erano al terzo piano di una delle ali più recenti, mentre era al secondo e al terzo piano di una delle più antiche che si svolgeva la maggior parte degli affari di stato, attorno alla sala del trono dell'Imperatrice bambina. Per il resto, il castello era stato costruito secondo le strane e sconcertanti concezioni dello Stile di Mezzo: c'erano stanze su cui si aprivano altre due, tre e perfino quattro stanze, e a volte c'era addirittura una quinta stanza a cui si accedeva dal soffitto. E tutte queste stanze si aprivano a loro volta su altre stanze: alcune piccole, altre grandi, alcune spoglie ed altre riccamente decorate, molte senza finestre, ed alcune incredibilmente umide. A volte, in mezzo a due stanze occupate attivamente ed in continuazione, c'erano due o tre stanze totalmente buie, che si potevano attraversare solo se muniti di torcia e candela. Era come un alveare, vasto ed irrimediabilmente illogico. E Jahor, sapeva orizzontarsi in tutto l'edificio? Nessuno poteva affermare di conoscere l'intera Corte. Ad esempio, anche se la sua padrona vi si recava occasionalmente, Jahor non si era neppure mai avvicinato agli appartamenti dell'Imperatore, o alla sala del trono. Era solo per sentito dire che sapeva in quale ala si trovassero. E l'Imperatrice bambina? Era forse lei a conoscere tutto il castello? Oh, lei meno di tutti, rispose Jahor, con un'ironia che avrebbe fatto rizzare le orecchie al nostro apprendista vasaio, ma che per uno schiavo di miniera era soltanto un'altra stranezza tra tante. Fu dopo quella conversazione che cominciò a perdere anche la compagnia di Jahor. Gli amici aristocratici di Gorgik avevano un'abitudine particolarmente fastidiosa: un giorno si comportavano in maniera perfettamente amichevole, se non addirittura confidenziale; il giorno dopo, se stavano passeggiando in compagnia di qualcuno che Gorgik non conosceva, gli passavano davanti senza neppure degnarlo di uno sguardo e non importava se anche lui sorrideva, levava la mano o faceva per parlare. A dispetto di una stoica sopportazione, il nostro apprendista prima o poi si sarebbe stufato di essere trattato a quel modo, e alla fine avrebbe commesso l'estrema indiscrezione di perdere le staffe e di inveire contro quel sistema antidemocratico. Anche se Gorgik capiva di essere il recipiente di quel comportamento offensivo,
comprendeva tuttavia che non lo trattavano così perché fosse diverso da loro, ma perché era così che si trattavano abitualmente tra di loro. La gerarchia sociale e le varie gradazioni di deferenza di cui bisognava impratichirsi erano molto più complesse - persino per un caposquadra - di quelle che bisognava apprendere quando si veniva assegnati ad una nuova baracca di schiavi. (Povero apprendista vasaio! Per numerosi che fossero i suoi preconcetti sulla vita degli aristocratici, ne avrebbe avuti altrettanti su quella degli schiavi). Tra gli schiavi, almeno, Gorgik sapeva che certe complessità di comportamento traevano origine dalla schiavitù stessa, ma qui c'era un problema a cui non riusciva a dare risposta: questi signori e signore della nobiltà, di che cosa erano schiavi? In questo caso, naturalmente, l'apprendista si sarebbe trovato avvantaggiato: avrebbe risposto semplicemente che si trattava del potere, e dell'esercizio sguaiato ed ossessivo di esso. Eppure, proprio a causa della sua ignoranza, Gorgik era più vicino agli aristocratici che gli stavano intorno di quanto, a parità d'età, il giovane apprendista avrebbe mai potuto essere. È infatti proprio stando al centro che non si riesce più a vedere chiaramente ciò che sta attorno, ciò che determina e sceglie ogni parola e che decide e porta a termine ogni azione. Come l'uccello che non sa cosa sia l'aria, anche se senza di essa precipiterebbe al suolo, e come il pesce che non vede l'acqua, anche se vi è immerso, un numero notevole, se non pauroso, dei signori e delle signore della Corte, non aveva la minima idea di cosa fosse a dar forma alle loro decisioni, ai loro riti quotidiani, alle loro abitudini inconsce. Anche Gorgik era come loro. Non avrebbe invece avuto dubbi quell'apprendista vasaio che avrebbe potuto essere Gorgik stesso, se solo cinque anni prima i giochi di potere che si erano svolti in quelle stesse sale si fossero conclusi diversamente. Pur con tutte le similitudini di temperamento a cui abbiamo accennato, Gorgik non s'illudeva (e non illudiamoci neanche noi) che i nobili ed i loro servitori lo accettassero come se fosse uno dei loro. In compenso, gli concedevano i piaceri della conversazione e della compagnia - a volte estremamente cortese - di uomini e donne che lo stimavano per le stesse ragioni per cui lo stimava la Visira. Lo sfamavano, e spesso gli facevano dei regali. Di tanto in tanto, gli abitanti di appartamenti in cui mai sarebbe entrato decidevano di andare a trovare quel giovane orso che stava nella stanzetta del terzo piano, per vedere che non avesse fame e che non si sentisse troppo solo. (Anche se non gli capitò mai di decidere di farlo quando Gorgik ne avrebbe avuto davvero bisogno). Gorgik, che non possedeva nulla tran-
ne la propria storia, cominciò a rendersi conto che proprio quella sua storia di porti e di miniere lo rendeva diverso dagli altri, e che nel suo piccolo era un'equivalente dell'aristocrazia stessa. Tutti coloro che egli incontrava a corte, si dividevano in due categorie: quelli a cui della sua storia non importava niente, e quelli invece che proprio a causa di essa lo rispettavano e tolleravano le sue eccentricità: era in fondo solo questo che i loro privilegi aristocratici concedevano loro di fare. Ci fu una volta che passò al castello cinque giorni di fila senza mangiare. Quando Gorgik non era invitato a pranzo o a cena da qualche principe o contessa, si recava a mangiare nella cucina della Visira. Jahor aveva ordinato che gli dessero da mangiare ogni volta che voleva. La Visira era però partita per una nuova missione, con la maggior parte del suo seguito, e poiché anche i suoi cuochi si erano uniti alla carovana, la sua cucina era stata chiusa. Una sera, la piccola principessa Elyne prese entrambe le grosse mani di Gorgik nelle proprie manine scure ed esclamò, mentre attorno a loro gli altri ospiti si accomiatavano: «È terribile, ma devo annullare quel nostro piccolo incontro di domani! Devo andare a trovare mio zio, il conte, che non ne può più di...». S'interruppe, e si mise una mano sulla bocca. «Oh, sono davvero imperdonabile! Sto mentendo indegnamente, e tu lo sai, non è vero? Domani devo tornare a casa, a quell'orribile vecchio castello. Lo odio, non lo posso soffrire! Lo sapevi, ma sei troppo gentile e non ne hai parlato». Gorgik rise, senza aver la minima idea di che cosa stesse parlando. «E così», proseguì la piccola principessa, «è per questo che dovremo rinviare la nostra festicciola. Ma non è colpa mia, capisci?». Vagamente ubriaco, Gorgik rise ancora, scosse il capo e levò la mano quando la principessa cominciò a trovare nuove scuse. Continuando a ridere, si voltò e tornò nella propria stanza. Il giorno seguente, come a volte succedeva, non gli pervenne alcun invito, e poiché le cucine della Visira erano chiuse, non poté mangiare. Il giorno dopo, ancora nessun invito. Perlustrò quanta più parte del castello poté alla ricerca di Ricciolo, e si accorse improvvisamente di quanto fosse piccola quella parte del castello in cui si sentiva a proprio agio. Il terzo giorno? Be', i primi due giorni di un digiuno sono i più difficili, anche se Gorgik non aveva alcuna intenzione di digiunare. Non si sarebbe vergognato di mendicare, ma come era possibile mendicare a qualcuno a cui non era stato presentato? Rubare? Sì, c'erano altri appartamenti, altre cucine. Era
ormai il quarto giorno: si sentiva solo la testa un po' vuota, ma in realtà la sua fame sembrava essersi rintanata da qualche parte. Rubare del cibo...? Sedette sull'orlo del giaciglio. I suoi pugni erano un nodo calloso di nocche intrecciate e di unghie ispessite, che gli pendeva tra le ginocchia. Quante volte i signori e le signore avevano lodato la sua sincerità e la sua onestà? Gli avevano tolto tutto, tranne la sua storia, ed ora anche quei giudizi facevano parte di essa. Anche se dall'età di sei anni, sia al porto che in miniera, non aveva mai passato un mese senza rubare qualcosa, qui non aveva mai rubato niente: intuiva che rubare in quel luogo avrebbe significato perdere parte della propria nuova storia. Ora, in quel suo stato blandamente euforico, gli sembrava che la sua nuova storia avesse un valore inestimabile, forse perché se l'era guadagnata imparando (e non con decisioni avventate, come sarebbe accaduto al nostro giovane apprendista, che, anche se non avesse mai rubato altro che una o due ciotole di seconda scelta dagli scaffali del suo padrone, in quelle circostanze avrebbe certamente rubato). Gorgik non aveva idèa di quanto ci volesse per morire di fame. Aveva visto degli uomini denutriti, che lavoravano quattordici ore al giorno, morire una settimana dopo aver passato tre giorni senza cibo in cella d'isolamento. Lui stesso, durante i suoi primi sei mesi alla miniera, era stato messo in isolamento ed era sopravvissuto. Non gli venne mai in mente che un uomo o una donna che non lavoravano (ed erano ormai quasi sei mesi che Gorgik non faceva altro che oziare) potessero comodamente sopravvivere per più di un mese nutrendosi soltanto d'acqua. Il quinto giorno si sentiva ancora la testa vuota, ma non era affamato, ed era molto preoccupato, poiché credeva che quella sensazione preludesse alla morte per inedia. Si infilò i sandali dalle fibbie d'oro e una veste rossa che gli scendeva fino a metà coscia (non si prese la briga di mettersi il collare ornamentale prescritto, né di avvolgersi per tre volte attorno ai fianchi il cordone intessuto d'oro e porpora i cui fiocchetti dovevano sfiorare il terreno: si era invece messo la vecchia striscia di cuoio che aveva usato in miniera per stringersi addosso i propri stracci, ma era stato un gesto inconscio) ed uscì. Era la sera del quinto giorno, e si mise di nuovo a vagare per il castello. Questa volta, forse a causa della sua leggerezza di testa, imboccò un corridoio per il quale non era mai passato, e ben presto si trovò davanti una scala di pietra. Per capriccio, decise di andar su, invece che giù. Dopo due rampe, giunse ad un altro corridoio, no, era un colonnato rico-
perto da un tetto. Tra gli archi, erano visibili gli spalti e i parapetti del castello, immersi nella luce polverosa di una luna latitante. Al termine del colonnato, un'altra scala lo riportò giù, nella frescura della pietra. Aveva visto in fondo ad un passaggio un debole lucore di lampade, e stava per dirigersi verso di esso, quando si accorse che ciò che aveva preso per un ronzio delle proprie orecchie era in realtà un suono di musica e conversazione proveniente dal basso, e attutito dalle pietre. Domandandosi se si trattasse di un trattenimento in cui si mangiava, e se fosse abbastanza affollato da potersi intrufolare senza dare nell'occhio, discese la stretta scala a chiocciola di pietra, appoggiandosi al muro con una mano. Nel vestibolo in fondo alla scala ardeva una lampada di bronzo, ma gli arazzi che ricoprivano le pareti erano così tetri che il piccolo locale rimaneva comunque in penombra. L'attenzione del soldato che montava la guardia all'arcata era concentrata sulla folla elegante che si trovava all'interno. Quando Gorgik, dopo aver esitato per lo spazio di qualche battito di cuore, entrò nella sala affollata, il soldato non lo fermò. Dovevano esserci almeno un centinaio di persone, nella sala illuminata a giorno. Passando in mezzo ad esse, notò il barone, Ricciolo. C'era la contessa Esulla, e là in fondo, la giovane principessa Grutn stava conversando con un signore anziano, dall'aspetto severo, il conte Jeu-Cirutn. E c'era anche il feudatario di Vanar! Sul grande tavolo che prendeva tutta una parete della sala c'erano grandi bottiglie di vino, larghe ciotole piene di frutta, vassoi di uccelli in gelatina, forme circolari di pane duro e ruote di formaggio molle. Gorgik sapeva che se avesse mangiato con moderazione, un'ora dopo il suo primo boccone le sue viscere si sarebbero liberate della bile accumulatasi in cinque giorni. In una parola, da uomo che per cinque anni era vissuto molto vicino alla fame, sapeva di essa quanto bastava per sopravvivere. Ciò non di meno, cominciò a girare lentamente per la sala, ed ogni volta che passava accanto al tavolo prendeva un frutto, o un pezzo di pane. Al settimo passaggio, poiché il cibo gli aveva procurato una sete prodigiosa, si versò una grossa coppa di vino. Tre sorsi, e gli andò tutto alla testa, come un torrente che inverte il proprio corso per tornare ad abbattersi sulle rocce. Si domandò se si sarebbe sentito male. La musica era creata da fiati e tamburi. I musicisti, che indossavano grandi copricapi di piume dorate, e non molto di più, giravano tra la folla, riuscendo non si sa come a tenere assieme i loro ritmi incalzanti e la loro flautata linea melodica.
Fu durante il suo settimo giro, mentre aveva ancora la coppa in mano e gli sembrava che il suo stomaco fosse una piccola vescica gonfia che oscillava nervosamente dentro di lui, che una ragazzina magra, dalla faccia bruna e larga e con addosso una veste bianca senza maniche, che la ricopriva dal collo ai piedi, disse: «Signore, il tuo abito non si addice a questa festa!». Aveva ragione. I suoi capelli ispidi erano riuniti in treccine, avvolte tanto strettamente attorno al suo capo che negli spazi tra di esse era visibile il cuoio capelluto. Gorgik sorrise, ed abbassò un poco il capo: era così che si parlava agli aristocratici. «Per la verità, non sono un ospite. Sono solo un intruso troppo sfacciato, un uomo affamato». Mentre continuava a sorridere, il suo stomaco si contrasse violentemente, e poi, molto lentamente, si rilassò. Accanto alle sue spalle nude e brunite, la veste della ragazzina era trapunta di piccoli diamanti. Attorno al capo aveva un sottilissimo filo d'argento, sul quale rilucevano ad intervalli regolari piccole pietre luccicanti. «Vieni dalle miniere, non è vero? Sei il favorito della Visira e il cocco della cerchia di Lord Aldamir». «Non ho mai incontrato Lord Aldamir», disse Gorgik, «ma qui a Corte ne parlano tutti col massimo rispetto». A quella risposta, la ragazza rimase senza espressione per un altro istante, poi scoppiò a ridere. Era una risata acuta e fanciullesca, ma si nascondeva in essa una nota isterica che non aveva mai sentito risuonare prima nelle risa di coloro che aveva conosciuto a Corte. «L'Imperatrice Ynelgo non ti avrebbe certo fatto cacciare soltanto perché i tuoi abiti sono miseri, però, se davvero dovevi venire, avresti potuto mostrarti un po' più rispettoso». «Il regno dell'imperatrice è giusto e generoso», disse Gorgik, perché era ciò che bisognava dire ogni volta che si nominava l'imperatrice. «Potrà probabilmente sembrar strano ad una mocciosa di buona famiglia come te che io abbia passato gli ultimi cinque giorni senza...». Qualcuno gli toccò il braccio. Si voltò, e vide che Ricciolo era apparso accanto a lui. «Vostra Altezza», disse il barone, «le era già stato presentato Gorgik? Mi voglia concedere l'onore di presentarglielo. Gorgik, ti presento Sua Maestà, l'Imperatrice bambina Ynelgo». Gorgik riuscì appena a ricordarsi di portarsi il pugno alla fronte. «Vostra Altezza, io non sapevo...».
«Lascia stare, Ricciolo», disse l'Imperatrice bambina. «Dopotutto, ci siamo già conosciuti. A proposito, non sta molto bene che ti chiami Ricciolo di fronte a lui, non è vero?». «È lo stesso, Vostra Maestà: lui mi chiama già così». «Ah, è così? Ha già sentito parlare di Gorgik. È presunzione ritenere che tu» - i suoi grandi occhi, così vicini alla superficie della sua faccia (come in molti degli aristocratici di Nevèrÿon), si posarono sul suo viso - «abbia sentito parlare un po' anche di me?». E poi rise di nuovo, ed emerse dalla risata con un «ricciolo!» così secco che anche il barone ne fu un poco sorpreso. «Vostra Altezza». Il barone si portò il pugno alla fronte e, con grande imbarazzo di Gorgik, si allontanò. L'Imperatrice osservava ancora Gorgik, con un'espressione così intensa che il giovane fu tentato di fare un passo indietro. Lei disse: «Lascia che ti parli della regione più bella e sfortunata dell'impero di Nevèrÿon, Gorgik. È la provincia di Garth, in special modo le foreste attorno al monastero di Vygernagx: fu lì che vissi, da bambina, prima che mi facessero Imperatrice. Dicono che i Vecchi Dei dimorino non si sa dove nelle rovine sotto di esso, e sono molto più antiche del monastero. Le terre sono belle, e fertili. Vorrei tanto poterci tornare, ma quel piccolo fazzoletto di terra mi dà più guai di qualsiasi altro angolo dell'impero». «Vostra Altezza, ricorderò ciò che mi ha detto», disse Gorgik, non riuscendo a trovare una replica più adatta. «Farai bene a farlo». L'Imperatrice bambina ammiccò. Si volse repentinamente a destra, poi a sinistra, si morse le labbra in maniera molto poco imperiale, e infine si allontanò, attraversando molto velocemente la stanza. I fili d'argento di cui era intessuto il suo abito scintillavano. «L'Imperatrice è deliziosa, non è vero?», disse Ricciolo, riapparendo al fianco di Gorgik. Gli mise una mano sul braccio, e cominciò a condurlo fuori. «Eh... Sì. Sì, l'Imperatrice è deliziosa», disse Gorgik, poiché nel corso degli ultimi mesi aveva imparato che, quando bisogna dire qualcosa per riempire una pausa, ma non si sa che cosa dire, ripetere qualcosa già detto in precedenza serve almeno a guadagnar tempo. «Davvero deliziosa», proseguì Ricciolo mentre camminavano. «È ancora più deliziosa di quanto l'abbia mai vista prima. In effetti, è la persona più deliziosa dell'intera corte...».
Fu proprio a quel punto che Gorgik si accorse che, come lui, anche il ba-
rone non sapeva cosa dire. Raggiunsero la porta. Il barone abbassò la voce, e il suo pomo d'Adamo piuttosto grosso si levò sotto il suo colletto ricamato. «Hai ricevuto il favore dell'Imperatrice, e questa serata non ti può offrir più niente che possa anche remotamente stare a pari con questo fatto. Sii saggio, e lascia la festa». Poi, a voce più bassa: «Quando te lo dirò, guarda alla tua sinistra. Vedrai un signore vestito di rosso, che distoglierà lo sguardo quando tu lo guarderai... Va bene - ora!». Gorgik si voltò. Dall'altra parte della sala, un uomo anziano stava conversando in scintillante compagnia. Aveva la faccia ossuta, ed i capelli bianchi picchiettati di grigio; indossava una cappa rossa, e una pesante corazza di rame sopra la giubba. Tornò alla propria conversazione con due signore ingioiellate. «Sai chi è?». Gorgik scosse il capo. «È Krodar. Per favore, adesso smettila di guardarlo. Non ci dovrebbe neanche essere bisogno di dirti che Nevèrÿon è il suo impero, che i suoi soldati hanno messo l'Imperatrice sul trono e glielo conservano. Per essere più precisi, sono state le sue forze ad abbattere i precedenti ed innominabili inquilini dell'Alta Corte delle Aquile. Il potere dell'Imperatrice bambina ti concedeva un momento di conversazione, Krodar ha lanciato nella tua direzione un'occhiataccia che pochi non hanno notato». Il barone sospirò. «La tua posizione è completamente cambiata, capisci?». «Ma in che modo? Certo, me ne andrò, ma...». Sentendosi calare addosso un presagio minaccioso, Gorgik si rabbuiò. Si sentiva confuso, e la testa gli girava. «Voglio dire, io non voglio nulla dall'Imperatrice!». «In questa sala non c'è nessuno che non voglia qualcosa dall'Imperatrice, io compreso. È per questo che nessuno ti crederebbe, io compreso». «Ma...». «Sei arrivato alla Corte come favorito della Visira. Tutti sanno - o credono di sapere - che si conquista il favore di Myrgot solo passando sul suo corpo, e questo è un fatto che trovano divertente, e del quale possono spettegolare e dunque lo tollerano. Ciò di cui molti non si rendono conto è che è Myrgot stessa a decidere quando i suoi affari privati possono diventare di pubblico dominio e, nel tuo caso, ha deciso di farlo quando già la tua carne aveva smesso d'interessarle. È in questo modo che i pettegolezzi vengono "messi a frutto"». Il pomo d'Adamo del barone continuava ad andare su e giù. «Eppure, nessuno sa di preciso cosa significhi ricevere il favore dell'Imperatrice. Nessuno può esser certo di sapere come tu o lei lo userete.
E dunque, si tratta di un dono molto pericoloso. Come se ciò non bastasse, bisogna tener conto dell'avversione che Krodar nutre per te: Krodar è il ministro dell'Imperatrice, il suo maggiordomo, se preferisci. Riesci ad immaginarti come sarebbe stata la tua vita a Corte se avessi avuto il favore della Visira, ma anche l'inimicizia di Jahor?». Gorgik annuì. Stava male, e la sua testa era sempre più leggera. «Potrei andare da Krodar, e dimostrargli che da me non ha niente da teme...». «Krodar è il padrone dell'impero, e non ha proprio niente da temere. Amico mio...». Il barone pose una mano pallida sulla massiccia spalla di Gorgik, e gli si avvicinò di più. «Quando sei entrato in questo gioco, ci sei entrato al livello più alto, e sotto la tutela di una delle giocatrici più esperte. Sai bene che la Visira non è a Corte, e che non ritornerà prima di domani: ricordati che anche chi ha organizzato questa festa ne era perfettamente al corrente. Questa sera, in questa sala, ci sono tanti uomini e donne che indossano abbastanza gioielli da poter comprare l'intera produzione di un anno della miniera in cui lavoravi. Ebbene, è gente che ha passato quasi una vita lottando per arrivare al livello dal quale tu sei partito. Ti è stato permesso di rimanere a quel livello perché non possedevi niente, e perché convincevi quelli che ti conoscevano di non volere niente. In effetti, ci servivi da diversivo, dopo i nostri giochi crudeli». «Ero un minatore che lavorava quattordici ore al giorno in una miniera che mi avrebbe ucciso nel giro di dieci anni, e ora... favorito dell'Alta Corte delle Aquile. Cos'altro potrei desiderare?». «Vedi, ora sei passato da un livello molto alto del gioco al livello più alto. Arrivi ad una festa a cui né tu né la tua padrona eravate stati deliberatamente invitati, e in cinque minuti riesci a farti rivolgere la parola dall'Imperatrice. Non ti rendi conto che, conversando per un quarto d'ora con le persone giuste, grazie a quelle poche parole potresti ottenere il governatorato di una provincia piuttosto ricca, anche se lontana? E che con un po' d'abilità potresti anche ottenere di più? Non voglio presentarti a quelle persone: con la stessa facilità, potresti trovare la morte per mano di qualcuno che ambiva quella stessa carica, e che forse ne era meritevole, ma a cui mancava la credenziale più importante: una parola di Sua Maestà. L'Imperatrice sa come vanno queste cose, ed anche Krodar: forse è proprio per questo che era accigliato». «Ma anche tu parlavi con...». «Amicò mio, io posso parlare con l'Imperatrice quando voglio: è mia cugina di terzo grado. Quando aveva nove anni ed io ne avevo ventitré,
passammo insieme otto mesi nella stessa cella, mentre la nostra esecuzione veniva rimandata giorno dopo giorno, ma a quei tempi, lei era ancora una principessa. L'Imperatrice, invece, non mi può parlare quando vuole, per non rischiare di sconvolgere il delicato equilibrio di forze tra il mio esercito di Yenla'h e il suo di Egelt'on: qualche signorotto o principe di mezza tacca potrebbe scambiare la sua familiarità per un segno di debolezza militare, e cercare di approfittarne. Ogni parola che le rivolgo è considerata come un segno di adulazione nepotistica, ed ogni parola che è lei a rivolgermi assume mille altri significati. Mi hai divertito, Gorgik. Hai persino tollerato il mio entusiasmo per la botanica. Non voglio dover sentire che il tuo corpo è stato tolto da una fogna o che, peggio ancora, è stato trovato mentre galleggiava nella Khora, vicino al porto. Perché ciò ti succeda basta una semplice smorfia di Krodar o il sorriso dell'Imperatrice». Gorgik arretrò, poiché i suoi intestini si erano repentinamente annodati. Cominciò a sudare, ma le dita sottili del barone affondarono nella sua spalla, e lo tirarono di nuovo in avanti. «Capisci? Capisci che fino a pochi minuti fa non possedevi niente che qualcuno potesse desiderare? Capisci che ora tu hai ciò che un terzo di noi ha cercato di conquistarsi ricorrendo almeno per una volta all'omicidio, e che gli altri due terzi hanno cercato di conquistarsi ricorrendo a metodi ancor peggiori? Capisci che l'Imperatrice ti ha rivolto spontaneamente la parola?». Gorgik barcollò. «Sto male, Ricciolo. Voglio una pagnotta e una bottiglia di vino...». Il barone fece una smorfia, e si guardò intorno. Erano vicini all'estremità del tavolo. «Ecco la bottiglia e la pagnotta, e là in fondo c'è la porta». Il barone si strinse nelle spalle. «Prendi i primi due ed usa la terza». Gorgik trasse un sospiro tale che la stoffa della sua giubba scivolò sulla sua schiena umida. Barcollando, prese una pagnotta in una mano e una bottiglia nell'altra, ed attraversò con passo malfermo l'arcata. Una giovane duchessa, che si trovava non lontana, disse ad Inige: «Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che il tuo strano amico, quello che solo un momento fa stava conferendo con Sua Altezza, abbia fatto una cosa davvero strana...».
«E tu lo sai», disse il barone, prendendola sottobraccio, «che due mesi fa, mentre mi trovavo nelle province dello Zenari, ho scoperto una rarissima specie di muschio di roccia, che aveva una fioritura davvero strana. Lascia che te ne parli...». Gorgik passò vacillando nel tetro vestibolo, e ancora una volta la guardia non fece niente per fermarlo. Dovette aggrapparsi per un attimo ad un a-
razzo, da cui uscirono draghi di polvere che si arricciolarono attorno al collo della bottiglia e al suo braccio madido. Si buttò sulle scale. Cominciò a salire. Ogni volta che completava una rampa, sentiva una brezza fredda che gli pungeva il fianco destro. Si fermò all'improvviso, e chinò il capo. Con la bottiglia ancora in mano, levò l'avambraccio e lo poggiò al muro (il vetro della bottiglia picchiettava sulla pietra) e vomitò. E vomitò ancora, e poi ancora di nuovo. Sozzo ed impillaccherato, col mento gocciolante, cominciò a tremare, mentre la brezza gli frustava il fianco destro. Tenendosi lontani dai fianchi il pane e la bottiglia, riprese a salire, fermandosi di tanto in tanto per pulire le suole dei sandali contro l'orlo arrotondato dei gradini. Batteva i denti, e cominciava ad avere la pelle d'oca. Il largo catino d'ottone sferragliava contro l'anello di sostegno. Finì di lavarsi, e lasciò cadere lo straccio sull'orlo del catino, che, sotto l'azione di quel contrappeso, cessò le proprie minute oscillazioni. Si girò sulle pietre bagnate, raggiunse il giaciglio e vi ci si distese sopra, nudo. La coperta di pelliccia si inumidì al contatto dei suoi capelli bagnati, delle sue gote, delle sue gambe pesanti, delle sue spalle. Il suo stomaco e i suoi intestini stavano ancora rumoreggiando, e ogni suo movimento innescava un altro attacco di dieci, venti secondi, un minuto e anche di più, durante il quale riprendeva a tremare e a battere i denti. Si rivoltò sulla schiena. E rabbrividì per un po'. Di tanto in tanto, si sporgeva dal letto per strappare un tozzo dalla pagnotta che aveva posato sul pavimento, e a volte lo intingeva nella caraffa di argento cesellato in cui aveva versato il vino, minacciando ogni volta di rovesciarla. Mentre giaceva ed ascoltava il verso dei falchi notturni, proveniente da dietro le tende che ricoprivano la sua stretta finestra, pensò alle circostanze in cui aveva imparato cosa succede al corpo durante il digiuno. Dopo la rissa in cui s'era guadagnato quella cicatrice, era stato messo per tre giorni nella cella d'isolamento, senza cibo. In seguito, un vecchio schiavo di cui non riusciva assolutamente a ricordare il nome lo aveva riportato alla baracca, gli aveva detto quali sintomi aspettarsi e, per la prima notte, aveva russato al suo fianco. Solo un uomo ricco che non avesse mai assaggiato i rigori della galera avrebbe potuto pensare seriamente di poter paragonare il palazzo ad una prigione. Eppure, ogni tanto Gorgik riusciva a convincersi che la differenza tra allora ed adesso stava solo nel fatto che ora stava un po' più male ed
era un po' più solo, e che si trovava in una situazione in cui, per ragioni che gli sfuggivano, era obbligato a fingere di star bene e di essere felice. E poi, per cinque anni aveva lavorato duramente dalle dieci alle quindici ore al giorno, ed ora invece stava in ozio da quasi cinque mesi. Il suo malore gli sembrava essere nient'altro che una proiezione di una sensazione che negli ultimi tempi lo aveva assalito di frequente: gli pareva che il suo intero corpo fosse singolarmente confuso, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, e che quella confusione non nascesse nella sua mente. Non che la sua mente non trovasse la situazione abbastanza confusa, anzi. Per un po', Gorgik pensò ai propri genitori. Suo padre era morto, era stato testimone del suo assassinio. Sua madre era... morta. Aveva sentito abbastanza da capire che qualunque supposizione sarebbe stata improbabile quanto il suo arrivo all'Alta Corte. Quei crimini erano stati commessi al tempo della presa del potere da parte dell'Imperatrice bambina e della sua cerchia, ivi compresi la Visira, Ricciolo, le principesse Elyne e Grutn, e Jahor. Era per questo che lui, Gorgik, era uno schiavo. Forse, qui alla Corte, aveva persino incontrato la persona il cui ordine, una volta eseguito, aveva allontanato Gorgik dalla sua vita di ragazzaccio del porto con la stessa drasticità con cui di recente era stato strappato alla miniera. Gorgik - durante gli ultimi minuti non aveva più rabbrividito sorrise amaramente nel buio. Ricciolo? La Visira? L'Imperatrice bambina stessa? Non era un pensiero nuovo, ma la sua insensibilità gli aveva impedito di rifletterci, prima di allora. Se lo avesse fatto, forse la sua impotenza si sarebbe arricchita di un nuovo scopo, di una ragione di vivere. Avrebbe forse sentito nascere in sé un desiderio di vendetta. Non gli era successo, poiché mesi prima si era detto che un pensiero simile era di nessuna utilità, nel male e nel bene. Ora che invece esso avrebbe potuto offrirgli un po' d'amaro conforto, non riusciva a focalizzare su di esso la propria attenzione: quell'idea esplodeva in mille pezzi, ed ogni pezzo si divideva a sua volta in una miriade di frammenti. Eppure, malgrado ciò, stava imparando - stava ancora imparando. Stava imparando che il potere - il potere grande, quello che calpesta le vite ed influenza il destino delle nazioni - era come una nebbia serale, su un prato. Da qualunque distanza, sembrava aver forma, sostanza, colore e profondità, ma quando ci si avvicinava si aveva l'impressione che essa si spostasse altrove. Finalmente, quando il senso comune vi diceva che vi ci trovavate proprio in mezzo, essa continuava a sembrare ugualmente lontana, solo che ora vi circondava da ogni parte, impedendovi di vedere il mondo die-
tro di essa. Giacendo sulla pelliccia umida, si ricordò di avere una volta camminato in un campo nebbioso, in fila indiana con degli altri schiavi, con una pesante catena attorno al collo. L'erba umida gli frustava le gambe, e stecchi e sassi mordevano il fango incrostato di cui erano ricoperti i suoi piedi. E poi anche quel ricordo si allontanò, andò in frantumi. Lord Aldamir...? Ora da tutti i nomi e da tutti i titoli di cui erano stati pieni i suoi ultimi mesi, emergeva proprio quello. Forse questo fenomeno che aveva intuito era la ragione per cui gli uomini realmente interessati alla gestione del potere sceglievano di stare alla larga dal suo centro, in modo di poter continuare a vederne i contorni. Anche quel pensiero venne dissipato da un repentino attacco di brividi. Verso l'alba, fu risvegliato dal rumore di passi nel corridoio. C'era gente che grugniva sotto il peso di grossi bauli, gente che passava, gente che avrebbe anche potuto parlare più piano. Rimase coricato, sentendosi molto meglio di quando il sonno l'aveva colto. Il seguito della Visira era di ritorno. Fino ad allora, Gorgik non aveva violato la consegna della Visira circa i loro rapporti sociali, ma ora si alzò, si vestì e raggiunse le stanze di Jahor per chiedere un'udienza. Perché?, domandò l'eunuco con aria severa. Gorgik glielo disse, e gli raccontò anche il suo piano. L'eunuco dal grosso naso annuì: sì, era molto saggio, ma perché prima non se ne andava in cucina, a consumare una prima colazione ragionevole? Gorgik sedeva ad un angolo del grande tavolo di legno, con davanti una ciotola di zuppa preparatagli dal grasso cuoco, il cui pancione peloso faceva capolino tra la cintura del suo grembiule peloso e il fondo della sua giacchetta rossa (già intrisa di sudore, poiché aveva dovuto riaccendere il focolare, freddo da una settimana), e stava scherzando con una sguattera sonnacchiosa, quando Jahor entrò nella cucina: «La Visira ti riceverà adesso». «E così», disse Myrgot, con un gomito appoggiato sul suo tavolo coperto di pergamene, e passandosi sulla fronte un pollice su cui aveva già rimesso i pesanti anelli di Corte (Gorgik sapeva che quel gesto significava che era stanca), «l'altra sera hai conversato con la nostra graziosissima Imperatrice». Gorgik fu preso alla sprovvista: non ne aveva parlato neanche a Jahor. «Ricciolo mi ha lasciato un messaggio di saluto», spiegò la Visira. «Dimmi cosa ti ha detto. Dimmi tutto. Se poi ti ricordi le parole esatte, ancora
meglio».
«Ha detto che aveva sentito parlare di me, e che non mi avrebbe mai fatto buttare fuori solo perché i miei abiti non erano adatti...». Myrgot grugnì. «Be', è vero. Devo ammettere che ultimamente non sono
stata abbastanza generosa con te...». «Mia signora, la mia non è un'accusa, stavo solo riferendo...». La Visira si allungò dall'altra parte del tavolo e toccò il grosso polso di Gorgik. «Lo so che non volevi». Si alzò, sempre tenendogli il braccio, e andò a sedersi sull'angolo del tavolo, proprio come aveva fatto lui poco prima, in cucina. «Nelle stesse circostanze, i miei sei amanti precedenti per non parlare dell'attuale - non si sarebbero meritati di accusarmi. No, l'accusa viene direttamente dalla nostra giusta e generosa sovrana». Gli fece un buffetto alla mano, poi la lasciò ricadere. «Vai avanti». «Ha anche mandato via Ricciolo - il barone Inige, voglio dire, e poi mi ha detto che la parte più bella e più inquieta dell'impero di Nevèrÿon è la provincia di Garth, specialmente le foreste attorno a un monastero...». «Vygernagx». «Sì. Disse di aver vissuto là, prima di diventare Imperatrice. Più tardi, Ricciolo mi ha detto che erano stati in prigione ins...». «So già tutto di quel periodo, ero a due celle di distanza dalla loro. Continua a riferirmi quello che ti ha detto». «Ha detto che i Vecchi Dei dimorano là, e che sono ancor più antichi del monastero. Ha detto che era una terra fertile e bella, e che desiderava rivederla, ma che quel piccolo pezzo di terra le dava più grattacapi di tutto il resto dell'impero». «E mentre ti diceva questo, Krodar ti ha dato un'occhiataccia?». La Visira lasciò cadere entrambe le mani sul tavolo. Sospirò. «Conosci la penisola di Garth?». Gorgik scosse il capo. «È un posto selvaggio, dove la civiltà non è arrivata, anche se il paesaggio è certamente bello. In quasi ogni tugurio che si incontra alloggia una strega o uno stregone, per non parlare dei soliti preti pazzi. E poi, qualche chilometro più a sud, finisce la foresta ed inizia la giungla, e non c'è altro che tribù di barbari. La quantità di noie che ci causa è assolutamente assurda!». Sospirò ancora. «Naturalmente saprai che l'Imperatrice ti associa a me. Dunque, ogni parola detta a te, e persino ogni sguardo che ti è rivolto, possono essere interpretati come un messaggio per Myrgot». «In questo caso, spero di non aver portato a Myrgot un messaggio sgradevole». «Non è un buon messaggio». La Visira sospirò, si curvò un poco all'indietro e posò un dito su una pergamena. «Se l'Imperatrice dichiara che i Vecchi Dei sono più antichi del monastero, significa che ammette la fon-
datezza di una tesi teologica che io sostengo, e a cui fino ad oggi si era opposta. Che poi dichiari di volersi recare a Garth equivale in pratica ad una dichiarazione di guerra a Lord Aldamir, nel cui circolo ci muoviamo sia tu che io, che ha il suo centro di potere proprio in quella regione. Quanto al fatto che abbia scelto te come messaggero, direi che... Ma non voglio annoiarti con queste sottigliezze». «Sì, mia signora, non ce n'è bisogno. Mia signora?». La Visira levò un sopracciglio. «Ho chiesto di poterti parlare, perché non posso più restare a Corte. Che cosa posso fare per servirti nel mondo esterno? Posso essere il tuo messaggero? Vuoi che vada a lavorare qualche pezzo delle tue terre? Qui al castello non c'è niente, per me». La Visira rimase a lungo in silenzio, e Gorgik sospettò che la sua richiesta non le andasse a genio. «Hai ragione, naturalmente», disse infine, con sollievo di lui. «No, non puoi restare qui, specialmente dopo l'altra sera. Suppongo che potrei rimandarti alle miniere...: no, scusami, era solo una battuta di cattivo gusto». «Non devi scusarti di nulla, mia signora», disse Gorgik, anche se aveva sentito un tuffo al cuore. Mentre le sue pulsazioni riprendevano un ritmo normale, arrischiò: «Sarei felice di svolgere qualunque incarico tu mi volessi affidare». Dopo ancora qualche momento, la Visira disse: «Vattene, adesso. Ti manderò a chiamare tra un'ora. Nel frattempo, decideremo cosa fare di te». «È veramente un uomo eccezionale, Jahor». La Visira era in piedi di fronte alla finestra, e attraverso le sbarre stava guardando la pioggia, e le mansarde e gli spalti velati d'acqua. «Dopo cinque mesi, vuole già lasciare il castello. E intanto, i figli e le figlie migliori dei nobili di provincia, una volta arrivati qui, fanno i parassiti e i sicofanti per cinque anni o anche più, prima di giungere alla stessa saggia decisione». La pioggia batteva sulle sbarre, e poi ricadeva sul davanzale, bagnandone una parte. Jahor sedeva sulla grande seggiola dallo schienale ricurvo della Visira e, malgrado la propria mole, non la riempiva con la stessa grazia di lei. «Era sprecato alle miniere, mia signora. È sprecato al castello. Mia signora, a che cosa è adatto, quest'uomo? Prima, un'infanzia cenciosa al porto, poi un'adolescenza come schiavo in una miniera, seguita da qualche mese di oscurità alla Corte delle Aquile, dove, evidentemente, non è riuscito a tenersi troppo nell'ombra. Un'educazione a dir poco composita. Non mi viene in mente alcun posto in cui potrebbe essere di una qualche utilità. Ri-
mandalo subito alle miniere, mia signora. Se farlo ridiventare uno schiavo ti turba, dagli la carica d'intendente: sarà sempre molto di più di quanto avrebbe potuto sperare sei mesi fa». La pioggia continuava a scorrere sulle sbarre. Myrgot meditava. Jahor raccolse dal tavolo un astrolabio di finissima fattura e fece scorrere la lunga unghia dell'indice sulle sue calibrazioni, poi strofinò il pollice sui disegni che erano incisi sul suo disco. La Visira disse: «No, non credo che lo farò, Jahor: sarebbe un'altra forma di schiavitù». Lasciò la finestra, e le venne in mente il suo cuoco. «Troverò qualcosa d'altro». «Se dipendesse da me, lo rispedirei alla miniera, come schiavo», disse ostinatamente Jahor, «ma la mia signora è quasi altrettanto generosa dell'Imperatrice stessa, ed altrettanto giusta». La Visira levò un sopracciglio: era un complimento singolarmente inopportuno. Bisognava però riconoscere che Jahor non era a conoscenza dell'ultimo messaggio dell'Imperatrice, che Gorgik aveva recapitato con tanta precisione. «No. Ho un altro progetto per lui...». «La miniera, mia signora, e ti risparmierai molti fastidi, se non addirittura dolori». Se Gorgik avesse potuto udire la discussione che stava avendo luogo negli appartamenti della Visira, molto probabilmente non sarebbe riuscito a capire chi parlasse a suo favore e chi contro di lui, e questo sarebbe stato un sicuro indizio di quanto fosse inadatto alla vita di corte. Anche se non bastante a spiegare il ruolo in cui si trovavano i due interlocutori, c'era una ragione per il tono di voce con cui venivano dibattuti i vari punti di vista: per le ultime tre settimane, l'amante della Visira era stato un diciassettenne dal corpo flessuoso, che si mordeva le unghie e che aveva gli occhi azzurri e spiritati. Prima o poi, avrebbe ereditato il titolo di feudatario di Strethi, anche se la terra di proprietà dei suoi genitori, vicino alla paludosa Avila, era poco più che una grossa fattoria. Quanto al ragazzo, malgrado il suo futuro titolo, o poco più, la sua passione erano i cavalli, che sapeva montare in maniera superba. Una notte di due mesi prima, aveva cavalcato nudo, per un'ora, alla luce della luna, attorno alla carovana della Visira, che si era recata nella provincia d'Avila per discutere delle tasse con le principali famiglie della zona. Aveva mandato Jahor ad informarsi se si potesse conoscere quel ragazzo turbolento. Una sera, ospite dei suoi genitori, scoprì che essi desideravano molto
che andasse a Corte. Scoprì inoltre che era considerato la pecora nera della famiglia, e che, per essere così giovane, aveva una quantità impressionante di figli illegittimi, sparsi nei paesi vicini. Aveva accettato di portarlo con sé, ed aveva rispettato l'accordo, ma la relazione che c'era tra loro era tanto tempestosa da farle rimpiangere di tanto in tanto le settimane passate con Gorgik. Per ben quattro volte, il futuro feudatario si era impelagato in debiti spropositati giocando con la servitù; per due volte aveva cercato di ricattarla, e l'aveva tradita con almeno tre serve del palazzo, serve che, per di più, non appartenevano alla cerchia di Lord Aldamir! La sera prima che la Visira partisse per la sua ultima missione - forse per allontanarsi da quel ragazzo? - c'era stato tra di loro un incredibile alterco a proposito di una certa catenina d'oro bianco, e alla fine lui aveva dichiarato che mai più avrebbe permesso che le labbra esangui e le mani grinzose di lei insozzassero il suo agile corpo. La sera prima, comunque, ore prima che facesse ritorno, aveva cavalcato incontro alla carovana, aveva invaso la sua tenda e le aveva detto di non poter vivere un minuto ancora senza le sue carezze. In una parola, quel piccolo spazio che Myrgot concedeva alla propria vita privata si trovava attualmente sul punto di traboccare. (In quel periodo, Jahor non aveva un amante, né gli piaceva troppo quello della Visira). La Visira, in omaggio ad una promessa molto vaga che i genitori di lui le avevano strappato, stava cercando senza molto entusiasmo di trovare al giovane un piccolo incarico d'ufficiale presso qualche guarnigione di stanza. in una parte meno pericolosa dell'impero. Sapeva che era troppo giovane per un simile incarico, e che, anche se avesse avuto una mezza dozzina d'anni in più, il suo caratteraccio gli avrebbe reso impossibile ricoprirlo. Inoltre, a quei tempi era davvero difficile prevedere quali parti dell'impero sarebbero rimaste sicure. In campo aperto, quello sciocchino - lei non si faceva illusioni, sapeva che era davvero uno sciocco - si sarebbe probabilmente fatto ammazzare e, molto probabilmente, avrebbe fatto ammazzare tutti gli uomini al suo comando, ammesso che essi non si ribellassero e lo ammazzassero per primi. (Sapeva che fatti analoghi erano già successi). Questo giovane nobile illetterato, malgrado la sua prestanza, il suo temperamento acceso e la sua futura eredità, era uno di quei tipi che si amano o si odiano, senza vie di mezzo. Mentre indagava sui suoi debiti di gioco, aveva scoperto con non poca sorpresa di essere la sola persona a Corte che riuscisse a sopportarlo. A dispetto di tutto, non desiderava che lasciasse la Corte, non ora, almeno. A volte era certa che prima o poi avrebbe desiderato che fosse il più lontano possibile, ed era in quei momenti che moltipli-
cava i propri sforzi di trovargli un posto d'ufficiale. L'incarico era arrivato in sua assenza, ed ora era lì, sul suo tavolo. No, dopo quella sua meravigliosa cavalcata per venirle incontro, non desiderava che se ne andasse... non ancora, almeno. Eppure, la sua esperienza le diceva che, con un tipo come lui, presto o tardi quel desiderio si sarebbe manifestato di nuovo. E che altre lettere d'incarico sarebbero passate sul suo tavolo. «Gorgik», disse, dopo che Jahor l'aveva fatto entrare e si era ritirato, «passerai sei settimane col maestro Narbu: è lui che addestra la milizia personale di Ricciolo, ed è lui che ha istruito nelle arti della guerra i migliori generali di questo impero. La maggior parte dei giovani che troverai presso di lui avranno due o tre anni meno di te, ma alla tua età può darsi che questo sia un vantaggio, più che uno svantaggio. Finito l'addestramento, verrai mandato a comandare una piccola guarnigione vicino ai confini del deserto di K'haki, a nord dei Faltha. Alla fine dell'incarico, potrai godere a tutti gli effetti della libertà che questa carta ti concede fin da questa mattina. Spero che ti farai onore al servizio dell'Imperatrice, che è saggia e misericordiosa». Sorrise. «Resta inteso che ciò pone termine ai nostri doveri reciproci, sei d'accordo?». «Sei molto generosa, mia signora», disse Gorgik, che era sorpreso quasi quanto quel giorno in cui era stato liberato dalla miniera. «L'Imperatrice è giusta e generosa», disse la Visira, come per correggerlo. «Io sono soltanto una sentimentale». La sua mano aveva sfiorato l'astrolabio. Raccolse all'improvviso quel disco color verderame, lo voltò e lo guardò, accigliata. «Ecco, questo è per te. Prendilo, conservalo ed accettalo assieme ad un ultimo consiglio. È un consiglio sincero, mio giovane amico. Voglio che tu ricordi sempre le parole che l'Imperatrice ti ha detto l'altra sera. Me lo prometti? Bene. Se tieni alla tua libertà e alla tua vita, non mettere mai piede sulla penisola di Garth. Se mai vedrai spuntare anche solo la cima della torre più alta del monastero di Vygernagx all'orizzonte, sopra le chiome degli alberi, fai subito dietro-front e cavalca, corri o striscia via più in fretta che puoi, e più lontano che puoi. Ora prendilo - prendilo, coraggio. E vattene». Con in mano l'astrolabio verderame della Visira, Gorgik si toccò la fronte ed uscì a ritroso, rabbuiato, dalla stanza. «Mia signora, la sua educazione è stata già abbastanza confusa. Fare di
lui un ufficiale non servirà a niente: lui ne ricaverà solo dolore, e tu imbarazzo». «Forse, Jahor. E forse no. Vedremo». Fuori della finestra, la pioggia, che per un'ora aveva lasciato il campo alla luce del sole, aveva ricominciato a cadere con violenza, oscurando le torri lontane e bagnando fino all'orlo il davanzale di pietra, e colando sul muro interno fino a raggiungere il pavimentò. «Mia signora, non c'era un astrolabio sul tuo tavolo, questa mattina?». «Un astrolabio...? Ah, sì. Il mio diavoletto dagli occhi azzurri era qui qualche momento fa, e ci stava pasticciando. Senza dubbio se l'è infilato in tasca prima di andare alle stalle. Sul serio, Jahor, devo fare qualcosa: quel piccolo tiranno dai capelli d'oro è diventato il tormento della mia vita...». Sei settimane sono abbastanza perché un uomo impari a divertirsi a cavallo, ma sono troppo poche perché impari a cavalcare. Sei settimane sono abbastanza perché un uomo impari le regole e le figure della scherma, ma non bastano a fare di lui uno spadaccino. Il maestro Narbu, lui stesso uno schiavo, nato presso una famiglia aristocratica delle colline orientali dei Faltha, non lontano dalla favolosa Ellamon, da bambino aveva dimostrato di possedere una certa grazia animale. Il suo padrone aveva pensato che sarebbe stata messa a frutto nell'esercizio delle armi: il suo era un capriccio da aristocratico autolesionista. Naturalmente, gli schiavi non venivano certo incoraggiati ad esercitarsi all'uso delle armi. Narbu aveva approfittato di quell'occasione per tentare d'emergere dalla disperazione della schiavitù. Si era allenato incessantemente, all'alba, a mezzogiorno, di notte e in ogni altro momento libero. Sulle prime aveva sperato (cosa che - segretamente - appariva a tutti ovvia e naturale, tranne che a un padrone volubile) di fuggire, ma poi la sua abilità era diventata un mestiere, e il mestiere arte. Di pari passo, si era sviluppato in lui un amore spassionato per le armi. Il barone amava mostrare la bravura del suo giovane schiavo agli amici: furono allestiti dei duelli incruenti, e poi dei duelli veri, prima con degli altri schiavi, e poi con dei nobili. Due pari del regno, orgogliosi della propria destrezza, lo sfidarono; due pari del regno morirono. Narbu si trovò così in una posizione paradossale: poteva affondare la propria lama nel ventre di un aristocratico, ma aveva licenza di farlo soltanto perché era sotto la protezione di un aristocratico. Narbu combatté validamente al fianco del proprio padrone nel corso di varie guerricciole di provincia. In altre occasioni,
il suo padrone lo noleggiava come mercenario. Non aveva ancora trent'anni, ma la sua fama era tale che da più parti si faceva pressione su di lui perché si dedicasse alle più complesse discipline che rendevano possibile la guerra. Non bastano mille pagine a raccontare un'intera vita, e noi avremo il buon senso di non tentare di farlo in mille parole. Vent'anni dopo, durante una delle molte battaglie che erano seguite all'avvento dell'attuale Imperatrice bambina Ynelgo al Trono delle Aquile, Narbu (che aveva ora quarantaquattro anni) e il suo padrone si erano trovati dalla parte vincente. Il suo padrone era stato ucciso, ma Narbu s'era coperto di onore. Come ricompensa - l'Imperatrice era coraggiosa e generosa - Narbu era diventato un uomo libero, e gli era stato offerto il posto di istruttore della Guardia dell'Imperatrice, un incarico che comportava l'addestramento dei figli degli aristocratici favoriti alle arti più raffinate (e brutali) della guerra. (Tra i primi maestri di Narbu c'erano state due figlie del misterioso Crepaccio Occidentale, ed egli doveva molto della propria primitiva abilità a quelle donne mascherate e alle loro lame strane e stranamente sinistre. Aveva combattuto due volte al loro fianco, e una volta contro di loro, ma non avevano l'abitudine di avventurarsi in grossi gruppi troppo lontano dalle proprie fertili terre. Ad ogni modo, aveva sempre sospettato che dietro agli eserciti strettamente maschili di Nevèrÿon ci fosse qualche inconfessabile desiderio...). Nella propria posizione di Real Maestro d'armi, era diventato esperto nel pronunciare una ricca invettiva rituale contro i nuovi allievi: erano delle pappa-molle, o se erano gagliardi non erano disciplinati. Se erano disciplinati, non avevano coraggio. Prima di poter cominciare davvero, dovevano dimenticare tutto ciò che era stato loro insegnato, e poi, tanto, gli aristocratici non sarebbero mai stati dei buoni soldati: quel che ci voleva era della brava gente del popolo. Anche se Narbu veniva dal popolo, aveva combattuto contro la gente del popolo ed era stato istruito da gente del popolo, Gorgik fu il primo figlio del popolo che il maestro Narbu si trovasse a dover addestrare da sei anni a quella parte. Il buon maestro scoprì che, nella sua professione, il solo linguaggio che conoscesse era quello che adoperava per addestrare i ricchi, per inetti, indisciplinati e codardi che fossero. E poi, quel giovanotto dai grossi muscoli, quieto ed affabile, non gli piaceva. Per prima cosa (e Narbu glielo disse subito), il suo non era il tipo di fisico naturalmente predisposto alle equitazioni e alle arti marziali che non fossero delle più rozze. Inoltre, si sussurrava che il giovane non fosse stato affi-
dato alle cure di Narbu grazie alla sua forza eccezionale, ma perché era il ganzo di una signora della Corte. Un mattino, il maestro Narbu si svegliò, sentendo un suono proveniente dall'esterno, e si mise a sedere sul giaciglio. Guardò attraverso le sbarre il cortile, in cui i pupazzi da addestramento erano illuminati dalla luna. Mancava più di un'ora all'alba. Sotto il portico della baracca degli allievi, sotto il liso tetto di paglia, si stava muovendo un gigante nudo, col corpo attraversato dalle ombre dei pali che reggevano la tettoia del portico. Il nuovo allievo si stava allenando. Prima provò qualche fendente con la leggera spada di legno usata per imparare le figure: si muoveva lentamente, tornava alla posizione di partenza e alzava di nuovo la lama. Stava provando fendente, parata e ritorno; era un po' legnoso, non stendeva abbastanza il braccio al culmine del fendente e teneva troppo alta la lama... Narbu fece una smorfia. Il nuovo allievo posò la lama di legno contro il muro della baracca e impugnò la pesantissima spada di ferro usata per migliorare la presa. Fendente, parata, ritorno. E poi ancora fendente, parata, l'allievo smise, fece un passo indietro e cominciò di nuovo. Bravo. Questa volta, si era ricordato di stendere il braccio. È già meglio, meditò Narbu. Meglio, ma non eccellente. Naturalmente, con la spada di ferro si trovava più a suo agio della maggior parte dei giovani, con quei grandi sacchi di muscoli che aveva attorno alle ossa, non c'era da sorprendersi... No, non lasciava che la lama s'inclinasse. Ma poi, cosa stava facendo in piedi a quell'ora? Fu allora che Narbu vide qualcosa. Narbu ammiccò, per esser certo di non essersi sbagliato. Ciò che vedeva era qualcosa che non avrebbe saputo descrivere né ad un aristocratico né a un popolano e noi stessi troveremo qualche difficoltà nel descriverla. Negli esercizi di quel giovane nudo estremamente vigoroso c'era una genuina ispirazione, di cui erano testimoni certe movenze sinuose del corpo, certe occhiate che si lanciava attorno, certe posture delle braccia e dei fianchi. Vide qualcosa che gli ricordò non un Narbu più giovane, ma un qualcosa che era stato parte del Narbu più giovane, un qualcosa che - lo capiva solo ora - era d'importanza capitale. Gli altri, pensò Narbu (e le sue labbra, in mezzo alla sua barba grigia e stopposa, mimavano le parole), erano troppo molli, troppo viziati... quante ore mancavano all'alba? Non quegli altri, no, nemmeno per... ma quello, quello sì era un vero figlio del popolo.
Narbu si coricò di nuovo. No, quel popolano, ex-mercenario schiavo, non sapeva ancora come parlare a quel popolano, ex-minatore schiavo, da maestro. Ma da allora in poi, durante le sedute di allenamento, e a volte anche nei periodi di allenamento durante e dopo di esse, Narbu cominciò a dire al giovane sfregiato cose come: «Se ti trovi su terreno roccioso, cerca un cavaliere che tiene la briglia vicino all'orecchio del cavallo, col pollice rivolto verso il basso: sarà uno di Narnis, e ti mostrerà come cavare il meglio dalla tua bestia quando sei in montagna. Restagli vicino e non perderlo d'occhio...». E: «I migliori che abbia mai visto con le armi da getto sono gli Adami del deserto: uomini timidi, con dei sottili fili d'ottone nella tua guarnigione. Cerca di allenarti con uno di loro, e può darsi che impari qualcosa...». Oppure: «Quando prenderai dei buoi da tiro nelle terre della palude di Baileron, se apparterranno agli Uomini dallo Scudo di Cuoio, insisti che sia uno di loro a guidarli, perché sono bestie forti, ma nervose. Se invece li prenderai dagli Uomini dallo Scudo di Fibra di Palma, qualunque tuo soldato saprà guidarli: li addestrano in maniera diversa, ma non so bene come». Narbu gli disse queste cose, e molte altre ancora. Cercava di fargli capire cos'altro avrebbe dovuto imparare, e dove e come, dopo quelle sei settimane. Gli disse molte cose: Gorgik ne ricordò molte, e ne dimenticò altrettante. Negli anni futuri, le cose che aveva dimenticate avrebbero potuto risparmiargli tempo e fastidi. Ma, ancor più della teoria e dell'allenamento (era il più allenato di tutti, e alla fine delle sei settimane fu senza sforzo il migliore), fu quella l'educazione che portò con sé. E Myrgot era assente dal castello, quando arrivò il suo incarico. Lungo la stretta strada c'era un sentiero per carri, e, a sinistra, le montagne occhieggiavano da sopra gli alberi. Insieme ad altri sei giovani ufficiali, guadò un gelido torrente, immerso fino alla cintola nell'acqua vorticosa. Una cavalcata sulla nuda roccia, attorno a ripide pareti d'ardesia... e poi, davanti a loro, le lingue dei fuochi del bivacco che umettavano il cielo blu, e sotto il deserto, bianco come il latte nella luce di un quarto di luna. Quando Gorgik prese il comando della guarnigione, si trovò avvantaggiato dai suoi cinque anni d'esperienza come capo di una squadra di cinquanta schiavi. Nella sua guarnigione c'erano soltanto ventinove schiavi. E non erano nemmeno rassegnati, ignoranti e condannati ad un'intera vita in schiavitù, anche se, negli anni seguenti, Gorgik si domandò di tanto in
tanto se il tessuto quotidiano della loro esistenza fosse poi tanto diverso: a quei tempi, la vita del soldato era dura. In quegli stessi anni, Gorgik diventò un buon ufficiale. Si guadagnò l'affetto dei propri uomini, soprattutto perché riuscì a farli sopravvivere in un'epoca in cui uno degli errori della guerra era il fatto che, ogni qualvolta venivano riunite più di dieci guarnigioni, il venti per cento di esse moriva a causa di malattie infettive che non avevano nulla a che fare con la battaglia. Gran parte della conoscenza che Gorgik aveva della farmacologia, risaliva alle raccomandazioni più esoteriche di Narbu circa le virtù delle erbe, delle scorze di frutta ammuffite e del muschio, e alcune delle osservazioni botaniche del barone Ricciolo, che sempre più spesso riaffioravano con profitto alla mente di Gorgik. Quanto all'Esercito, Gorgik era un uomo a cui era stata restituita da poco la speranza di sopravvivere: che tante energie umane concorressero a dar corpo ad un'istituzione il cui solo scopo era quello di calpestare questa speranza gli sembrò tanto arbitrario ed assurdo da indurlo a concentrare tutta la propria intelligenza nel tentativo di non soccombere. Per lui, la battaglia era una prova a cui ci si doveva sottoporre, e il cui premio era la libertà vera. Era già stato in passato una specie di condottiero, e lo diventò di nuovo. Ma la personalità dei suoi uomini, sia il loro cameratismo esuberante (che non sembrava altro che una pallida e farsesca imitazione di quelle brutali forme di follia distruttiva che di tanto in tanto esplodevano tra gli schiavi delle miniere, lasciando sempre tre o quattro morti) che la loro costante rassegnazione al pericolo e alla morte (che invece qualsiasi schiavo sano di mente avrebbe fatto il possibile per evitare), lo lasciavano confuso (ed aveva sempre affrontato la confusione rifugiandosi nel silenzio) e depresso (e quanto alla depressione, francamente, non aveva mai avuto il tempo di occuparsene, e neanche ora, così che le sue uniche conseguenze sarebbero state una serie di futuri aneddoti sulla stupidità della mente militare). Conosceva tutti i propri uomini, ed i suoi rapporti con loro erano molto più decontratti di quelli della maggior parte degli ufficiali di quel tempo. Ma furono pochissimi quelli di loro che considerò amici, e lo furono per non molto tempo. Accadeva spesso che qualche giovane recluta scambiasse la cordialità di una chiacchierata notturna attorno al fuoco o la familiarità che si creava durante una marcia in un mattino di nebbia per indizi di una stabile confidenza, col risultato di essere rimproverati (e, accadde tre volte in due anni, presi a botte per la loro presunzione: erano tempi brutali), in una maniera che ricordava (almeno a Gorgik, eternamente disgustato di dover ricorrere a questi metodi) l'indifferenza con cui era stato trattato
nelle sale dell'Alta Corte delle Aquile il mattino dopo qualche scambio d'idee a cuore aperto con qualche conte o principessa. Perché questi imbecilli non la capivano? Lui aveva imparato. Quelli della guarnigione capirono, e lo rispettarono per quella lezione. Qualcuno di loro avrebbe persino detto di amarlo, durante una di quelle sbornie che, nei rari periodi di calma, ora in una taverna di un villaggio, ora in un bivacco in montagna, dopo che era stato confiscato il vino ad una carovana di passaggio, erano parte integrante della vita dei soldati. Gorgik ne rideva. Lui, la situazione l'aveva vista così, fin dall'inizio: può darsi che io muoia, e può darsi che loro muoiano, ma se la loro morte può in qualche modo ritardare la mia, allora siano essi a morire per primi. Eppure, pur all'interno di quella matrice etica strettamente egoistica, riusciva a dimostrare abbastanza buon senso e coraggio da farsi ammirare da coloro che gli erano superiori ed anche inferiori di grado. Di tanto in tanto, e in special modo quando era testimone dell'altrui vigliaccheria (che spesso cercava di giustificare - e di solito ci riusciva - come stupidità), si domandava se non valesse la pena di essere spericolati. «Se», per amor della propria sopravvivenza, accantonò quella riflessione. Sopravvisse. Sopravvisse, ma si sentiva solo. Dopo sei mesi, la solitudine lo spinse a pagare uno scriba perché lo aiutasse a scrivere una lunga lettera per la Visira; inelegante, pasticciona ed incerta nel proprio linguaggio, essa evitava saggiamente di soffermarsi sia sul suo affetto che sul suo debito verso di lei, ma si diffondeva su tutto ciò che aveva imparato, visto e sentito: l'atmosfera stranamente depressa del mercato di quel villaggio per cui erano passati il giorno prima, la natura del contrabbando che si svolgeva in quel piccolo porto in cui erano di guarnigione da due settimane, ciò che pensavano i soldati e le prostitute dell'edificio pubblico che doveva sorgere sui bassifondi di una città del nord, il color d'ottone che aveva il cielo sopra un sentiero di montagna che lui e i suoi uomini avevano percorso per due ore prima di accamparsi. All'Alta Corte, la Visira lesse la sua lettera e la rilesse più volte, con un affetto che, ora che aveva dovuto abbandonare ogni pretesa alla lascivia, era cresciuto invece di diminuire, e si era avviato in direzioni che un animo più rozzo non avrebbe saputo seguire né comprendere. La lettera conteneva questo paragrafo:
«L'altra settimana, tra i tenenti circolava la voce che nel giro di un mese tutte le guarnigioni si sarebbero portate al sud per raggiungere Garth. Ho bevuto col Maggiore, che si è giocato ai dadi con me i suoi coltelli con l'impugnatura d'osso, e ho vinto. Due guarnigioni dovranno andare ad Able-aini, tra le paludi ad est dei Faltha: si tratta di schiacciare le piccole rivolte dei nobili ingrati, e mi ha detto che si tratta di un compito ingrato, più pericoloso e meno interessante che andare al sud. Gli ho restituito i suoi coltelli. Si è grattato quella sua barba grigia in cui rimangono ancora uno o due peli rossi e mi ha promesso che l'incarico per Able-aini sarà mio, ma mi ha creduto matto». La Visira lo lesse all'alba, in piedi davanti alle finestre sbarrate (la pioggia scorreva sulle sbarre come il mattino del suo ultimo incontro con Gorgik, sei mesi prima). Lo ricordò, e guardò il tavolo, dove una volta c'era un astrolabio di bronzo tra le pergamene. La fiamma di una lampada vacillò, fu sul punto di spegnersi e si rianimò. La Visira sorrise. Verso la fine dei tre anni di Gorgik (e il raro ed inconfondibile messaggero-scriba reale che venne nella sua tenda a consegnargli la risposta di Myrgot, breve e molto formale, e per farsi dettare altri eventuali messaggi accrebbe la sua reputazione presso la truppa), mentre la sua guarnigione faceva la spola bisettimanalmente tra le piccole scaramucce vicino al canyon di Venarra alla relativa calma della favoleggiata fortezza di Ellamon, sui Faltha (dove, come tutti i turisti, Gorgik e i suoi uomini andarono sulle rupi calcaree, per osservare tra i crepacci i nidi lontani delle favoleggiate bestie volanti le cui evoluzioni sfregiavano il cielo della sera), scoprì che alcuni dei suoi uomini contrabbandavano borse di sale dal deserto alla montagna. Non se la prese a male, ma convocò quello che tra i contrabbandieri era il secondo in ordine d'importanza e gli comunicò che voleva una parte - una parte modesta - dei profitti. Con quel denaro, comprò tre carri e quattro buoi per trainarli, e, con un'audacia che sconcertò i suoi uomini (gli ispettori reali dell'Imperatrice non erano né accomodanti né misericordiosi), durante il suo ultimo viaggio di ritorno - una settimana prima del suo congedo - portò con sé tre interi carri carichi di sale di contrabbando. Riuscì a farli passare evitando di seguire la strada maestra. Ben presto furono affrontati da una cenciosa guardia privata: dovevano essere arrivati al limitare di una vasta tenuta. «I soldati non possono passare sulle terre della principessa Elyne!». «Guidami da sua altezza», disse Gorgik, segnalando ai suoi uomini di fermarsi.
Tornò indietro dopo il calar della sera (col ricordo dei fuochi che ardevano alti nell'umida sala senza soffitto, e della principessa felice, con i suoi pesanti abiti ingioiellati e i suoi capelli unti, che aveva preso la sua grossa mano screpolata tra le dita sottili - e più sporche delle sue - che gli diceva: «Vedi com'è casa mia? Un mucchio di pagani e miscredenti che credono che io sia una dea, e che non possono sostenere una conversazione decente per più di cinque minuti. No, no, parlami ancora dell'ultima lettera della Visira, non importa se me ne hai già parlato due volte. Parlamene ancora, perché le mie ultime notizie da Corte risalgono a un anno fa. Oh, come desidero la loro compagnia! Tutto ciò che ho imparato a Corte è il disprezzo per questo vecchio baraccone muffito. No, siediti sulla panca, e mi siederò accanto a te. Dirò che ci portino ancora dell'idromele, del pane e della carne. Devi raccontarmi proprio tutto, amico Gorgik...»), con un salvacondotto per i suoi uomini e i suoi carri; e fu così che evitò gli ispettori doganali dell'Imperatrice. Un mese dopo il suo congedo, gli uomini di una certa tribù, la cui pelle era fitta di tatuaggi e cicatrici, gli regalarono dei vasi di rame di squisita fattura. Ad Arganini, dei signorotti di provincia glieli comprarono, pagandoli il quintuplo di quanto li avrebbero pagati in un paese civile o almeno così lo indussero a pensare le sue esperienze giovanili al porto. Dalle donne di montagna di Ka'hesh (molto più in basso di Ellamon), comprò un carico di foghe di una bacca bruna che - quando fumate - donavano la calma ancor più del vino. Era già passato un anno dal suo congedo. Portò il carico fino al porto di Sernese, e qui lo vendette in piccole quantità ai marinai dei mercantili che stavano per salpare. Mentre si trovava a Sernese, l'uomo che lo aiutava nel lavoro gli raccontò di un certo magazzino in cui era facile penetrare, e in cui era depositato un gran numero di... Ma potremmo continuare così per pagine e pagine: cercheremo di comprimere sia il tempo che le parole. L'educazione di Gorgik era finita. Gorgik era alto e aveva muscoli poderosi, e la sua faccia (col suo lungo sfregio) non dimostrava che una mezza dozzina d'anni in più di quando aveva ventun'anni. Era un uomo che conosceva le spade e i cavalli, e che si trovava a suo agio con schiavi, ladri, prostitute, soldati, mercanti, conti e principesse. Era - a proprio modo e per la propria epoca - il prodotto ottimale di quella civiltà. La miniera, la Corte, l'Esercito, i grandi porti e le fortezze di montagna: ognuna di queste istituzioni della sua civiltà aveva contribuito a educare quel gigante sfregia-
to, che indossava grosse pellicce quando faceva freddo, e quando faceva invece caldo andava in giro nudo - se si eccettua un disco di metallo ricoperto di strane incisioni, un astrolabio, che una catenina gli assicurava attorno al collo possente e venoso, qualunque fosse la stagione - quell'uomo che si trovava bene in compagnia ma che era anche capace di stare zitto. Per la civiltà in cui viveva, era un uomo civile. Titolo originale: The Tale of Gorgik.
ROGER ZELAZNY è nato a Cleveland, nell'Ohio. Ha studiato alla Western Reserve University e alla Columbia University. Nel 1962 si è impiegato presso l'Amministrazione della Sicurezza Sociale, e in quello stesso anno ha cominciato a scrivere professionalmente. Nel 1966 è apparso This Immortal, il suo primo romanzo, e dal 1969 si è dedicato a tempo pieno al mestiere di scrittore. RANDALL GARRETT ha scritto la sua prima storia di fantascienza a quattordici anni: è stata pubblicata nel 1944 su Astounding ScienceFiction, dopo che John W. Campbell se l'era tenuta nel cassetto per anni. A quell'epoca, Garrett si trovava nel Pacifico meridionale con il corpo dei Marines. In seguito ha studiato chimica, ha lavorato in diversi laboratori industriali e si è infine dedicato a tempo pieno alla letteratura. Le sue ultime opere sono Murder and Magic, una raccolta dei suoi racconti di Lord Darcy, e Takeoff, di prossima pubblicazione. SAMUEL R. DELANY è nato a New York, dove è tornato a vivere con una figlia di cinque anni dopo alcuni anni passati in Inghilterra e a San Francisco. Le sue opere più recenti sono The American Shore, una critica semiologica della fantascienza, e, con l'illustratore Howard V. Chaykin, un libro a fumetti intitolato Empire. «Gorgik» fa parte di un gruppo di cinque storie, che presto verranno pubblicate insieme col titolo Tales of Nevèryon. Delany sta attualmente lavorando ad un romanzo ambientato in un remoto futuro.
JACK HALDEMAN II è nato il 18 dicembre 1941 nel Kentucky, e ha studiato scienze naturali alla Johns Hopkins University. Ha lavorato come tecnico medico e ricercatore nei campi della medicina e della biologia. Nel 1974 è stato co-segretario della World Science Fiction Convention a Washington. JOE HALDEMAN è nato il 9 giugno 1943 nell'Oklahoma. Come suo fratello, è cresciuto a Portorico, a New Orleans, a Washington e in Alaska. Ha studiato chimica e fisica all'Università del Maryland. Chiamato alle armi, ha combattuto con la Quarta Divisione sugli Altopiani Centrali del Vietnam. Dal 1970 si dedica professionalmente al mestiere di scrittore. Vive in Florida con sua moglie, Gay, e ha fatto sapere che sta lavorando a tre libri «più o meno ben avviati»: The Endless Horizon, Worlds e Starschool. FINE