Casi classici della psicologia
Geoff Rolls
Casi classici della psicologia
Traduzione e cura dell’edizione italiana: Laura Piccardi e Simonetta D’Amico
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Geoff Rolls Lecturer in Psychology at Peter Symond’s College Winchester, UK Edizione italiana tradotta e curata da: Laura Piccardi Dipartimento di Scienze della Salute Università degli Studi dell’Aquila, L’Aquila Laboratorio di Neuropsicologia IRCCS Fondazione Santa Lucia, Roma Simonetta D’Amico Dipartimento di Scienze della Salute Università degli Studi dell’Aquila, L’Aquila Titolo originale dell’opera: Classic case studies in Psychology Titolo pubblicato in originale in lingua inglese nel Regno Unito dalla Hodder and Stoughton Limited, Londra, Regno Unito. First published in the English language in the UK by Hodder and Stoughton Limited, London, UK First Edition Published 2005 © 2010 Geoff Rolls ISBN 978-88-470-1922-5
e-ISBN 978-88-470-1923-2
DOI 10.1007/978-88-470-1923-2 © Springer-Verlag Italia 2011 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore, e la sua riproduzione è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla stessa. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per uso non personale e/o oltre il limite del 15% potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail
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Dedicato ai miei amati genitori: Peter e Sylvia Rolls
Presentazione all’edizione italiana
La prima volta che ebbi l’opportunità di sfogliare “Classic case studies in Psychology” di Geoff Rolls mi trovavo in una libreria londinese. Leggendo alcuni brani del libro ne rimasi affascinata e pensai che fosse un peccato non avere nulla di simile in italiano. Nel libro di Geoff erano raccolti tutti i casi più famosi della psicologia che avevo letto da studente, con l’unica differenza che per la prima volta li trovavo raggruppati all’interno di un unico testo. Il libro mi conquistò, lo comprai, lo lessi rapidamente e decisi che alla fine di ogni argomento di Psicologia Generale avrei raccontato agli studenti un caso aneddotico. In tal modo, quando spiegavo l’apprendimento e il condizionamento, non potevo non associare questi temi al caso del piccolo Albert. Quando descrivevo la memoria parlavo di H.M., l’amnesico o di Solomon S., il grande mnemonista. Spiegando la fallacia della memoria, l’esistenza di falsi ricordi e l’attendibilità dei testimoni, il caso di Holly Ramona era paradigmatico. Se descrivevo il ruolo delle funzioni esecutive, Phineas Cage rappresentava l’esemplificazione perfetta di ciò che voleva dire avere un deficit in tali funzioni. Il linguaggio si associava facilmente alla storia di Washoe, lo scimpanzè che aveva appreso da Fouts la lingua dei segni americana. Spiegando il concetto di ignoranza pluralistica non potevo non parlare della Sindrome Genovese e della triste storia di Kitty Genovese. Negli studenti italiani, come in quelli inglesi di Rolls, le storie di questi uomini e donne suscitavano grande interesse e per merito delle loro vicissitudini, abilità e deficit le grandi tematiche della psicologia venivano ricordate più facilmente. Verso la fine del corso mi sono trovata a parlare con entusiasmo del libro con la mia collega, Simonetta D’Amico, che insegna Psicologia dello Sviluppo. Simonetta era l’interlocutrice ideale perché molti dei casi descritti nel libro di Rolls riguardano specificamente l’ambito dell’età evolutiva, e ho scoperto che anche lei come me raccontava a lezione molte di queste storie. Senz’altro parlava di Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, così come, parlando dell’acquisizione del linguaggio, anche lei accennava alla straordinaria impresa di Fouts con Washoe. Simonetta convenne con me che un libro che racchiudesse tutti questi casi sarebbe potuto diventare una risorsa preziosa per i nostri vii
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Presentazione all’edizione italiana
studenti. Concordando sulla valenza storica delle vicende narrate in questo libro e sul loro contributo nell’avviare sperimentazioni successive, prendemmo la decisione di proporre alla Springer la traduzione del libro. Secondo noi il testo di Rolls poteva interessare non solo gli studenti di psicologia, ma anche i non addetti ai lavori con un interesse verso la disciplina. Il modo in cui vengono affrontati e descritti i diversi casi li rende fruibili a tutti, consentendo la conoscenza di ambiti e di aspetti diversi della psicologia. Tematiche più cognitive, sociali o di sviluppo, così come argomenti di psicologia fisiologica, di psicologia animale e comparata, ma anche di psicologia delle differenze individuali sono rappresentati nel volume. Questo approccio multidisciplinare lo rende accessibile a lettori dalle esigenze più diverse e inoltre l’assenza di un linguaggio troppo tecnico rende il libro godibile e non solo didattico. È però necessario ricordare che i casi descritti nel volume sono descrizioni sintetiche tratte da monografie ampie e dettagliate, anche se questo non mette in discussione il loro valore aneddotico, così come la loro dimensione storica. Questa raccolta di casi può rappresentare per lo studente di psicologia una prima ricognizione storiografica e teorica di vicende parzialmente riportate che potranno essere approfondite consultando le opere originali da cui sono state tratte. È giusto sottolineare che, proprio per la storicità dei casi, metodi, tecniche e proposte teoriche descritti in alcuni di essi sono ormai superati. La presente traduzione è frutto di una lettura critica e ragionata adattata ai lettori italiani, è il risultato di lunghe discussioni e nasce dalla volontà di condividere argomenti che suscitano da sempre grande interesse. Laura Piccardi Simonetta D’Amico
Prefazione all’edizione originale
Se si sfoglia un qualsiasi manuale di psicologia si vedrà che la psicologia viene definita “scienza”. È ormai ampiamente accettato che essa sia “lo studio scientifico della mente e del comportamento” e come tale si è modellata sulla tradizione scientifica delle scienze naturali, fisica e chimica in particolare. Ma vi è sempre stato un acceso dibattito sulla natura della scienza e sulla validità di provare a studiare la mente umana e la sua espressione esteriore, il comportamento, usando metodi (in particolare, esperimenti in laboratorio) tratti dalle scienze naturali. Per gli psicologi che sostengono in modo caparbio l’approccio scientifico, lo studio dei casi singoli – l’indagine approfondita di un individuo, di una coppia di individui, come nel caso dei gemelli, o di un’intera famiglia – si colloca all’estremo opposto dell’esperimento scientifico. La maggior parte degli studi di casi singoli deriva spesso dal lavoro di clinici: psicologi, psichiatri e altri operatori sanitari che lavorano con persone affette da difficoltà psicologiche o disturbi mentali. In questi casi, diversamente da quello che succede in un esperimento, gli psicologi o gli psichiatri non si propongono di verificare una teoria al fine di pubblicarne i risultati. Lo studio di un caso ha una ricaduta su pazienti o clienti1 ed è di solito un risultato inaspettato di un lavoro particolarmente interessante e insolito – persino unico – svolto dai clinici. Perché gli psicologi che si considerano degli scienziati vedono questi studi come interessanti di per sé, ma con scarso valore scientifico? La risposta è semplice, questi studi sono irreplicabili e irripetibili, si può dire invece l’opposto degli esperimenti, ragione per la quale gli scienziati rigorosi li trovano così attraenti. Ma non è proprio questo il punto? Non è l’unicità degli individui che rende il loro studio così inestimabile nella comprensione della mente umana? Questi casi sono unici, proprio perché il loro comportamento talvolta anormale e bizzarro può essere in piccola parte osservabile anche nel comportamento “normale”, proprio perché stiamo parlando di esseri umani e non di alieni, che potrebbero essere affascinanti, ma in definitiva,
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In psicoterapia spesso il paziente viene chiamato cliente (NdT). ix
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Prefazione all’edizione originale
così diversi da noi. Questo è forse il punto cruciale: il fatto che altri psicologi non possano replicare lo studio non ne invalida il risultato. Al contrario, il comportamento di questi individui è probabilmente una mera esagerazione o distorsione di comportamenti più comuni e “normali” che vengono dalla stessa “miniera” comportamentale. Più simili a racconti che a resoconti scientifici, lo studio dei casi singoli si focalizza sui dettagli che rendono gli esseri umani così affascinanti e così complessi. Raccontano una “storia” che non è solo intrinsecamente interessante, enigmatica e talvolta sorprendente, ma che è anche istruttiva per tutti noi. Quello che li rende “scienza” piuttosto che letteratura, è che gli psicologi o gli psichiatri inquadrano queste storie all’interno di teorie scientifiche nel tentativo oggettivo e formale di comprendere e spiegare il comportamento. Mentre possono essere letti “come storie”, essi non sono raccontati allo scopo di intrattenere, sebbene possano avere questo effetto, ma allo scopo di contribuire alla comprensione scientifica di noi stessi, talvolta con importanti risvolti pratici, come avviene quando ad essere descritto è il trattamento e le terapie di persone affette da problemi psicologici. Geoff Rolls, come professore di psicologia e autore, riporta in questo libro unico ed estremamente ben scritto diversi aspetti dello studio dei casi singoli, attraverso la selezione di un numero di casi (inclusi alcuni dei più studiati e famosi della psicologia), che molti non-psicologi probabilmente avranno già sentito. Questi studi sondano una gamma enormemente ampia di comportamenti umani, sia anormali che semplicemente insoliti o eccezionali, che raramente possiamo osservare in noi stessi o in persone a noi vicine. Ogni capitolo è il riassunto dello studio di un caso originale (riportato in un libro o in una rivista scientifica), e l’abilità di Geoff è stata quella di condensare una quantità enorme di informazioni in poche pagine raccontando comunque una buona storia e riuscendo ad introdurre in ognuna di esse sia la teoria che la sottende che le ricerche ad essa collegate rendendola in questo modo scienza a tutti gli effetti. L’autore consente così sia al lettore naïf, che non ha mai sentito nessuno di questi casi, che allo studente di psicologia, che può trovarli familiari, ma non conoscerli troppo nel dettaglio, di apprendere qualcosa di nuovo sul comportamento umano. Le “storie” raccontate da Geoff, ne sono sicuro, li affascineranno, intrattenendoli piacevolmente. Richard Gross
Ringraziamenti dell’Autore
Desidero ringraziare tutte le persone che hanno lavorato all’Hodder Education per realizzare questa seconda edizione del libro. Tra loro: Liz Wilson, Tamsin Smith, Bianca Knights e Jasmin Naim. È un team meraviglioso che mi ha dato il giusto sostegno e ampio spazio per lavorare a questo testo. Ad Emma Woolf va il merito di avermi sostenuto nella prima edizione del libro, tradotta con successo in diverse lingue tra cui il russo e il coreano! Il mio “amico di scrittura Hodder”, Richard Gross, sempre presente nei miei sforzi di scrittura e che ringrazio anche per la sua preziosa amicizia. Questo libro non sarebbe stato possibile senza l’aiuto, l’incoraggiamento e l’esperienza della mia compagna Eve Murphy e dei miei bambini Billy e Ella. I casi riportati hanno suscitato in me un grande senso di soggezione per quello che gli esseri umani possono realizzare spesso di fronte ad avversità estreme. Per questa ragione è mio desiderio ringraziare e rendere omaggio alle persone le cui storie sono descritte in questo libro, la cui unicità costituisce fonte di lezione per noi tutti.
È stato fatto ogni sforzo per rintracciare i possessori dei diritti del materiale riprodotto in questo libro: l’autore e l’editore ringraziano tutti coloro che hanno dato il permesso di riproduzione di illustrazioni coperte da copyright1.
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Materiale iconografico presente solo nell’edizione originale (NdR). xi
Introduzione all’edizione originale
Questo è uno strano libro, pieno di storie ancora più strane. La Psicologia è una disciplina affascinante con molte storie affascinanti da raccontare e fra quelle più affascinanti vi sono senz’altro le descrizioni di casi singoli: storie di persone senza memoria e storie di persone che non possono dimenticare; storie di bambini selvaggi, abbandonati e storie di bambini prodigio. Senza dubbio, questi sono gli aspetti più interessanti della psicologia. Lo studio del caso singolo può essere molto eloquente nella conoscenza del comportamento umano, stimolando la curiosità del lettore ad approfondire l’argomento che può essere solo accennato nei libri di testo. Le riviste specialistiche sono orientate verso gli aspetti scientifici, mentre il lettore vorrebbe sapere anche cosa avviene nella vita quotidiana di questi individui, in particolare a livello umano. Com’è possibile farlo? Che preoccupazioni hanno questi individui? Come si sentono? Come affrontano la loro vita? Che cosa è successo dopo? Questo libro tenta proprio di colmare questo vuoto, rispondendo a simili domande. Importanti scoperte in psicologia sono state spesso precedute dalla prima descrizione di un caso. Questi studi da sempre affascinano sia gli studenti di psicologia che i non addetti ai lavori. L’uso del metodo dello studio dei casi singoli aiuta ad avvicinare la psicologia alla vita quotidiana e avvicina le persone alla psicologia. Gli psicologi continuano a discutere sullo stato scientifico della psicologia. Vi sono pochi dubbi che alle scoperte scientifiche si tende a dare maggiore credibilità dei sentito dire o delle esperienze soggettive. Ciò nonostante, quando si tratta di studiare la mente umana o il comportamento, può essere difficile condurre scientificamente esperimenti controllati che non superino confini morali ed etici. In questo caso lo studio dei casi singoli può essere particolarmente utile, permettendo agli scienziati di studiare aspetti della mente e del comportamento che non sono normalmente osservabili. Esplorando lo straordinario possiamo apprendere molto di più sull’ordinario. Lo studio dei casi singoli in psicologia ha una lunga tradizione. Infatti, uno dei primissimi casi descritti risale al 1801 ed è il racconto della storia di Itard, l’Enfant Sauvage (vedi Capitolo 9). Negli ultimi anni, molti libri hanno fornito intuizioni uniche sui xiii
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Introduzione all’edizione originale
deficit insoliti o sugli eccessi di alcuni individui. Generalmente, questi libri tendono ad essere scritti da neurologi e i casi descritti sono pazienti osservati nel corso della loro esperienza medica. Questo libro è diverso perché fornisce molti dettagli relativi ai più noti casi della psicologia – casi che sono riportati in molti libri di psicologia. Ovviamente, libri interi e numerosi articoli sono stati scritti sui più famosi tra essi, ma qui ogni capitolo è condensato in modo da renderlo più facilmente digeribile, trattando però gli aspetti più interessanti ed eloquenti di ogni caso. Inoltre, esso considera sia l’importanza scientifica che l’aspetto umano esperienziale di ogni caso descritto, proprio per permettere al lettore di guardare alle persone descritte in questo libro come a degli esseri umani con un’unica abilità o difficoltà, piuttosto che a dei “casi scientifici”. Lurija, professore all’Università Statale di Mosca, distinse due approcci allo studio del comportamento umano, che chiamò uno scienza “classica” e l’altro scienza “romantica” [1]. Lo scopo della scienza classica è quello di formulare “leggi astratte generali” che possano risultare nella “riduzione della vita reale con tutta la sua ricchezza di dettagli a uno schema astratto”. Lurija notò che questo tipo di approccio prendeva sempre più piede con l’avvento dei computer che riducevano le osservazioni scientifiche a complesse analisi matematiche. In questo libro viene adottato il punto di vista della cosiddetta scienza “romantica” o letteraria. Le storie sono trattate da un punto di vista scientifico e inquadrate all’interno delle diverse aree della psicologia, ma sono scritte da un punto di vista umano, essenzialmente sono storie di uomini. Lo studio dei casi singoli è usato ampiamente in diritto, economia e medicina, ma viene usato meno comunemente in psicologia. Questo è un peccato, perché spesso ricordiamo in modo più vivido singoli casi che ci aiutano ad umanizzare la scienza, così come ad illustrare delle scoperte. Lo studio di un caso singolo implica la raccolta dettagliata di informazioni su un individuo o su un gruppo. Solitamente include dettagli biografici, così come dettagli del comportamento e delle esperienze. Il caso singolo consente al ricercatore di esaminare un individuo più approfonditamente di quanto consentirebbero i comuni metodi sperimentali di indagine. In tali studi si utilizzano i cosiddetti metodi della ricerca qualitativa dove è difficile quantificare l’osservazione, e il più delle volte si tratta di un resoconto descrittivo, dove vengono riportati i sentimenti o le credenze rispetto a uno specifico argomento1. Questi metodi tendono ad essere considerati come meno “scientifici” e meno meritevoli rispetto ai metodi sperimentali più rigorosi che utilizzano analisi statistiche vere e proprie. Una critica aggiuntiva rivolta allo studio dei casi singoli è che talvolta il ricercatore che conduce lo studio può essere influenzato nella sua interpretazione e nel metodo utilizzato. Questa “soggettività” potrebbe rendere difficile estrarre l’informazione legata ai fatti e separarla da quella inferita dal ricercatore. La consapevolezza di questo non nuoce alle storie riportate. Infatti, i ricercatori non avrebbero mai ottenuto una ricchezza di dettagli dai resoconti di prima mano dei loro pazienti senza averli messi
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Esistono dei metodi più quantitativi per lo studio di casi singoli – questi tendono ad essere piuttosto diversi rispetto al “metodo più qualitativo e descrittivo” usato nei casi riferiti in questo libro.
Introduzione all’edizione originale
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a loro agio e aver stabilito un rapporto amichevole. Questo dovrebbe esser visto come la forza di questo approccio e non come la sua debolezza. Lo studio dei casi singoli può aiutare a gettare luce sia su aspetti psicologici generali che specifici, consentendo agli psicologi di studiare comportamenti o esperienze unici, impossibili da studiare in altro modo. I casi riportati nel testo ne sono un esempio e come si può vedere rappresentano le diverse aree della psicologia, per quanto l’inquadramento in aree specifiche possa apparire un po’ artificiale. Ad esempio, se si considera il caso di David Reimer inserito nell’area della psicologia dello sviluppo, ci si accorge che esso va ben oltre, convergendo anche nell’area della psicologia sociale e in quella della psicologia fisiologica. Bromley (1986) [2] ha riportato come i casi singoli siano “il fondamento dell’indagine scientifica”, trascurati a causa della preoccupazione degli psicologi legata all’idea che nello studio del caso vi sia una mancanza di rigore sperimentale. Lo studio dei casi singoli ha il vantaggio di fornire un’approfondita conoscenza e una più grande comprensione di un individuo permettendo di enfatizzare la diversità umana: i casi singoli trattano di “persone reali e genuine”, riferendo di situazioni reali e di per sé memorabili. Ciò nonostante, lo studio dei casi singoli è anche criticato per essere inattendibile, non vi sono due casi uguali tra loro, e pertanto i risultati non possono essere generalizzabili ad altre persone. Tale questione sorge in relazione all’obiettivo di trovare verità universali di comportamento, ma cade se ci si limita ad esplorare delle vite di individui unici. Gli studenti di psicologia riconosceranno molte di queste storie, ma ne vorranno senz’altro sapere di più, i non-psicologi le troveranno un’utile e interessante introduzione al più grande mistero di tutti i misteri: la comprensione della mente umana e il comportamento umano in tutte le sue sfaccettature.
Bibliografia 1. Lurija A (2005) Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla. Armando Editore, Roma 2. Bromley DB (1986) The Case Study Method in Psychology and Related Disciplines. Wiley, Chichester
Indice
Parte I: Psicologia cognitiva 1 2 3 4 5
L’uomo che non poteva dimenticare: il caso di Solomon Shereshevsky (S.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’uomo che viveva nel presente: il caso di H.M. (Henry Gustav Molaison) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’uomo che fu deluso da quello che vide: il caso di S.B. . . . . . . . . . . . . . . Kim Peek: il vero Rain Man . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Holly Ramona e la natura della memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Parte II: Psicologia sociale 6
La ragazza che gridò aiuto: la storia di Catherine ‘Kitty’ Genovese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Parte III: Psicologia dello sviluppo 7 8 9 10
L’innocenza perduta: la storia di Genie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 Il ragazzo che non fu mai una ragazza: la storia di David Reimer . . . . . . . 77 Il ragazzo selvaggio di Aveyron: la storia di Victor . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 Storie di bambini: il piccolo Albert il piccolo Peter . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
Parte IV: Differenze individuali 11 Il bambino che aveva bisogno di giocare: la storia di Dibs . . . . . . . . . . . . . 12 L’uomo che si eccitava alla vista di carrozzine e borsette . . . . . . . . . . . . . 13 L’analisi di Freud della fobia di un bambino: la storia del piccolo Hans . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 I tre volti di Eva: la storia di Chris Costner Sizemore . . . . . . . . . . . . . . . . 15 Il ragazzo che non poteva smettere di lavarsi: una storia di DOC . . . . . . .
119 129 143 153 169
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Parte V: Psicologia fisiologica 16 Gli uomini che non dormivano: la storia di Peter Tripp e Randy Gardner . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 17 L’uomo che visse con un buco nella testa: il caso di Phineas Gage . . . . . . 185 18 L’uomo senza cervello? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195 Parte VI: Psicologia comparata 19 Parlare agli animali: Washoe e Roger Fouts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201 Riassumendo
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Glossario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217
Psicologia cognitiva L’uomo che non poteva dimenticare: la storia di Solomon Shereshevsky (S.)1
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Un giorno del 1905, un reporter moscovita diciannovenne, Solomon Shereshevsky, arrivò come suo solito al lavoro e come sempre aspettò l’incontro quotidiano con il redattore per l’assegnazione degli incarichi giornalieri. Diversamente dai suoi colleghi, ma come era sua abitudine, Solomon non prese nessun appunto durante l’incontro, nonostante venissero forniti numerosi nomi e indirizzi. Il redattore che aveva già notato con sorpresa questo modo di fare decise di metterlo alla prova chiedendogli i dettagli che aveva dato durante l’incontro. Solomon fu in grado di ripetere tutto quello che era stato detto, parola per parola: questo episodio cambiò per sempre la sua vita e fu l’inizio della sua nuova carriera come il più grande mnemonista del mondo o “memory man”.
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Solomon Shereshevsky è il vero nome di S., anche se talvolta il suo cognome è scritto diversamente. Spesso, il vero nome dei partecipanti è protetto per ragioni di privacy e ci si riferisce a loro con le sole iniziali. In molti articoli e libri, ci si riferisce a Solomon Shereshevsky semplicemente con ‘S’. Comunque, siccome il suo nome è ora ben noto, ci sembra ragionevole riferirci a lui con il suo vero nome.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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La memoria di Solomon Il redattore si meravigliò della memoria di Solomon e Solomon si meravigliò che le persone pensassero che la sua memoria fosse degna di nota. Nessun altro possedeva una memoria altrettanto buona? Avrebbe scoperto la risposta nei mesi e negli anni a venire. Ritenendolo un caso interessante, il redattore spedì Solomon all’Università locale per testare ulteriormente la sua abilità di memoria. Fu qui che Solomon conobbe Alexander Romanovich Lurija, un professore russo che trascorse i successivi 30 anni a studiare la più straordinaria memoria mai esaminata prima. Lurija iniziò l’esame raccogliendo le informazioni biografiche. Solomon, nato in Lettonia, aveva poco meno di trent’anni ed era figlio di un libraio e di una madre con una buona istruzione. Il padre era in grado di ricordare la collocazione di ogni libro nel negozio e la madre, un’ebrea devota, poteva citare lunghi paragrafi della Torah. I suoi fratelli e le sue sorelle erano individui equilibrati, alcuni dotati di talento musicale. Anche Solomon mostrò una certa inclinazione musicale e si esercitò come violinista fino a quando un’infezione all’orecchio mise fine alla sua possibilità di avere una carriera in quel campo e gli fece decidere di dedicarsi al giornalismo. Dato lo stretto legame tra abilità eccezionali e malattia mentale, Lurija indagò la storia familiare di Solomon senza trovarne casi in famiglia. Lurija iniziò somministrando a Solomon una serie di test per valutarne la capacità di memoria, numeri e parole venivano presentati oralmente o in forma scritta e Solomon doveva ripeterli nell’ordine di presentazione. Lurija iniziò con 10 o 20 item aumentandoli gradualmente fino a 70. Solomon fu in grado di ripetere tutti gli item perfettamente. Raramente Solomon esitava nelle sue risposte, quando ciò avveniva, fissava il vuoto, prendeva una pausa e poi continuava ripetendo il materiale ricordato perfettamente. Solomon era in grado anche di ripetere le lettere e i numeri in ordine inverso rispetto alla loro presentazione e di indicare quale lettera o numero seguiva in una sequenza. Questa tecnica è nota come serial probe (memoria seriale) e consiste nella lettura ad alta voce di una lista di numeri o parole seguita dalla ripetizione di un item da parte dell’esaminatore; il compito del soggetto è quello di ricordare l’item successivo2. Può essere condotta come prova di memoria a breve termine (durata del tempo di rievocazione fino a circa 30 secondi). La maggior parte degli individui trova questo compito estremamente difficile, specialmente quando le sequenze sono lunghe. Solomon non aveva alcuna difficoltà, a condizione che la presentazione della lista avvenisse ad un ritmo abbastanza lento, che è esattamente l’opposto di quello preferito dai cosiddetti partecipanti “normali” che tendono ad eseguire leggermente meglio il compito di serial probe se gli item vengono presentati abbastanza velocemente. Questo perché con i partecipanti normali più la presentazione è veloce e mi2
Questa tecnica prevede che l’esaminatore legga una lista di parole, ad esempio “cane, gatto, casa, barca, sole”, successivamente produrrà un item bersaglio della lista, ad esempio “casa”, il partecipante dovrebbe ripetere “barca” che è l’item seguente all’item bersaglio presentato precedentemente dall’esaminatore (NdT).
1 L’uomo che non poteva dimenticare: la storia di Solomon Shereshevsky (S.)
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nore è il tempo di decadimento degli item nella memoria a breve termine. Si scoprì che Solomon usava un sistema differente per ricordare gli item – non uno basato sulla normale elaborazione acustica o verbale, bensì uno che richiedeva l’utilizzo di immagini o figure, che gli permetteva di ricordare indefinitamente le sequenze di item, mentre la maggior parte dei partecipanti è in grado di ricordare gli item solo per pochi minuti oltre la durata dell’esperimento. Lurija somministrò a Solomon diversi compiti di memoria. Generalmente si ricorda più facilmente parole di senso compiuto piuttosto che sillabe senza senso o trigrammi (tre consonanti senza significato, es. PQV), Solomon, al contrario, non mostrava alcuna differenza e nessun problema nell’esecuzione del compito. Lo stesso avveniva con i suoni e con i numeri, purché vi fosse una pausa di circa 3-4 secondi tra un item e l’altro. Allo scopo di valutare la capacità di memoria, i ricercatori hanno ideato una tecnica sviluppata originariamente da Jacobs nel 1887, detta tecnica del digit span. Questa implica l’aumento graduale degli item da ricordare fino a quando il partecipante non inizia a confondersi e non è più in grado di ricordare gli item più lunghi nell’ordine corretto. Lo span tipico è di 7 item, più o meno 2. Nel caso di Solomon fu Lurija a confondersi, poiché lo span del paziente sembrava non avere limiti! Lurija organizzò nuovi incontri all’Università per valutare ulteriormente la memoria di Solomon. Nel corso delle valutazioni, Solomon fu in grado di ricordare perfettamente gli item appresi negli incontri precedenti. Questi risultati confusero Lurija ancor di più, poiché non solo la capacità di memoria di Solomon non sembrava avere limiti, ma anche la durata delle sue tracce di memoria sembrava essere illimitata. Lurija scrisse: “Non passò molto tempo, che lo sperimentatore cominciò a provare una sensazione di vero e proprio smarrimento, di fronte al fatto che aumentare il numero e la lunghezza della serie non creava a S. un apprezzabile aumento delle difficoltà, tanto che si dovette riconoscere che il volume della sua memoria non aveva praticamente limiti determinabili” (p. 25) [1]. Lurija non fu in grado di misurare né la capacità né la durata delle tracce di memoria di Solomon, cosa che in genere si fa abbastanza facilmente in un laboratorio. Ancor più sorprendentemente, trovò che 16 anni più tardi Solomon poteva richiamare alla mente gli item appresi durante i loro primi incontri. Lurija riporta che Solomon disse: “Sì sì questo accadde da voi, in quell’appartamento… Voi sedevate al tavolo e io sulla sedia a dondolo… Avevate un abito grigio e mi guardavate così… ecco, vedo che mi parlavate” (p. 25). Questo racconto fornisce un indizio di come funzionava la memoria di Solomon – le immagini erano la chiave della sua memoria prodigiosa. Lurija realizzò che non vi era un modo per misurare la memoria di Solomon, poiché sembrava essere illimitata, quindi un’analisi quantitativa era impossibile e per i successivi 30 anni, decise di concentrarsi sulla descrizione qualitativa della memoria di Solomon. Solomon usava un meccanismo particolare per aiutarsi: a prescindere dal tipo di informazione (parole, numeri, suoni, gusti e così via), convertiva sempre gli item in
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immagini visive. L’importante è che potesse disporre del tempo necessario per convertire gli item in immagini che rendevano i suoi ricordi illimitati e durevoli. Per poter immagazzinare in memoria una tabella di 50 cifre, Solomon impiegava circa tre minuti di tempo. Come faceva? Affermava che se i numeri erano scritti su un foglio, allora quando gli veniva chiesto successivamente di ripeterli, egli avrebbe richiamato l’immagine del foglio come se lo stesse ancora fissando. Se smettessi di leggere adesso e provassi a ricordare tutto quello che hai visto su questa pagina, dopo aver alzato gli occhi, molto probabilmente ricorderesti solo una frazione di quello che hai effettivamente visto. Per Solomon il ricordo era perfettamente fedele, perché vedeva la pagina con gli occhi della mente in ogni singolo dettaglio! Molti compiti di memoria considerano gli errori fatti durante il richiamo differito. Tali errori, detti “errori di sostituzione” forniscono un indizio su come funziona la memoria. Sarebbe sbagliato dare l’impressione che Solomon non commettesse mai errori; sebbene non ve ne fossero molti e non avvenissero spesso, erano di solito di tipo simile, costituendo un ulteriore indizio sul funzionamento della sua memoria. Ad esempio, Solomon di tanto in tanto commetteva errori di sostituzione, specialmente tra numeri simili: 3 e 8 o 2 e 7. Questi errori suggerivano ancora una volta che la sua memoria era quasi esclusivamente il risultato di un’elaborazione visiva o ortografica. Quando viene data una lista di numeri o parole da memorizzare, le persone comuni spesso ricordano i primi e gli ultimi item della lista. Il ricordo dei primi item è il cosiddetto effetto “primacy”, mentre quello degli ultimi è detto effetto “recency”. Questo modello di richiamo è noto come “effetto seriale di posizione”. Si pensa che le prime parole vengano trasferite nella memoria a lungo termine attraverso un meccanismo di ripetizione e che gli ultimi item della lista siano ancora nella memoria a breve termine. Ancora una volta, così come avvenne per la capacità e per la durata della memoria, Lurija non riuscì ad osservare questo fenomeno in Solomon, in quanto era in grado di rievocare tutti gli item presenti nella lista! Solomon aveva una memoria prodigiosa. I suoi ricordi risalivano alla prima infanzia, ricordi che pochi di noi possiedono. Si pensa, infatti che i ricordi della prima infanzia non siano richiamabili in quanto la codifica del materiale è resa impossibile dal mancato sviluppo della memoria e/o del linguaggio. Diversamente, il modo in cui avveniva la codificava dei suoi ricordi faceva sì che la sua abilità fosse innata. Riportava, ad esempio, dei ricordi di se stesso neonato, disteso nella culla e di sua madre che lo prendeva tra le braccia: “Ero ancora molto piccolo, forse non avevo un anno… Più vivo di ogni altra cosa affiora nella memoria un arredo… Non ricordo l’arredamento di tutta la stanza, ma solo quello dell’angolo in cui si trovavano il letto di mia madre e la mia culla. “Culla”, sapete, è quel lettino con le sponde dai due lati, con la base di assi ricurve, che dondola… La tappezzeria era marrone, il letto bianco… Ecco, mia madre mi prende in braccio...” (pp. 59-60). Ricordava persino la sua vaccinazione antivaiolosa: “Ricordo una massa di nebbia, di colori; so che c’era rumore, forse una conversazione o qualcosa di simile. Ma non provo dolore” (p. 60).
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Di certo, è impossibile scoprire l’accuratezza di queste memorie ma la loro vividezza suggerisce un elemento di verità. Con una memoria così prodigiosa, Solomon era brillante nello scovare contraddizioni nelle storie, spesso individuando errori che gli stessi autori non avevano notato nei propri scritti. Ad esempio, segnalò di un personaggio nel racconto di Cechov “Il grasso e il magro” che si toglieva il berretto che non aveva mai indossato. Pensando a questa particolare abilità di Solomon, lo immaginiamo facilmente nei panni di un detective o di un avvocato, in grado di cogliere dettagli e contraddizioni che nessuno avrebbe mai notato.
Sinestesia Lurjia riporta che Solomon spesso aveva delle difficoltà a codificare o ad elaborare le informazioni se avveniva una distrazione durante il processo di codifica. Queste distrazioni potevano essere anche minime, bastava un “sì” o un “no” dello sperimentatore a una risposta di Solomon per interferire con la sua codifica. Solomon riportava che queste parole “offuscavano” l’immagine nella sua testa e creavano “sbuffi di vapore” o “spruzzi” che gli coprivano la vista degli item. Più tardi, durante i suoi show, colpi di tosse tra il pubblico avrebbero avuto un simile effetto distraente. Sembrava che tutte le informazioni creassero un’immagine nella testa di Solomon a prescindere dalla sua volontà. Lurjia concluse che Solomon aveva una forma pronunciata di sinestesia. La sinestesia deriva dal termine greco syn “insieme” e asthesis “percezione”. è una forma di percezione combinata dove due o più sensi si intrecciano, ciò comporta che quando uno dei sensi è stimolato, automaticamente scatta l’altro senso che agisce involontariamente. Ad esempio, i giorni della settimana possono essere associati con un particolare colore, un mio studente afferma che il martedì è definitivamente un giorno “blu”. Quando si chiede la spiegazione, la maggior parte dei sinesteti dice che è così e basta! Non c’è una spiegazione per la quale i sensi si intrecciano. Altri sinesteti possono “gustare le forme” o “vedere i suoni”. Queste esperienze si ripetono: stessi stimoli evocano in modo consistente stesse reazioni, sottolineando il carattere innato e non appreso della sinestesia. Tale fenomeno tende ad essere unidirezionale: un senso può suscitare un altro senso, ma non viceversa (ad esempio, se un sinesteta quando ascolta una nota musicale vede un colore, non è detto che vedendo quel colore la mente evochi quella nota). Poiché la sinestesia è l’incrocio di due o più sensi, vi sono 31 diverse possibili combinazioni di vista, odorato, tatto, gusto e udito, la più comune tra queste è la cromoestesia. La maggior parte dei sinesteti esperisce la fusione di solo due sensi, Solomon sembrava avere quattro sensi collegati! Solo il senso dell’odorato non si intrecciava con gli altri. L’abilità che Solomon aveva nel formare immagini visive per le parole era la chiave della sua notevole memoria. Ogni volta che sentiva una parola, a prescindere dal suo significato, veniva creata immediatamente un’immagine visiva. Egli raccontava che se sentiva la parola “verde” vedeva un vaso verde con dei fiori; nella parola
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“rosso” vedeva un uomo con una camicia rossa che si avvicina; il “blu” evocava l’immagine di qualcuno alla finestra che agita una bandiera blu. Persino le parole senza significato evocavano delle impressioni visive immediate che poteva continuare a “vedere” chiaramente anni dopo. Quando a Solomon veniva chiesto di ascoltare dei toni o delle voci, egli vedeva delle immagini. Troviamo un esempio di questo fenomeno nel suo resoconto relativo a un incontro in cui gli venne chiesto di ascoltare un tono di 30 cicli al secondo a un’intensità pari a 100 decibel: “Ho visto una banda della larghezza di 12-15 cm, di colore argento antico; gradualmente la banda si restringeva come se si allontanasse e si trasformava poi in un oggetto indefinito, lucente come l’acciaio” (pp. 30-31). Questi esempi mostrano chiaramente come funzionava la sua sinestesia. La ripetizione dei toni, mesi dopo, riportava alla mente esattamente le stesse immagini. Ogni suono che sentiva evocava un’immagine visiva indimenticabile con una sua forma distinta, un suo colore e un suo gusto. Il richiamo differito di numeri funzionava allo stesso modo. Solomon riportava che la forma del numero 1 era “acuta, stabile e finita”; il numero 2 era “piatto, rettangolare, biancastro, quasi grigio”. I numeri producevano anche immagini più concrete: il numero 1 era un “un uomo fiero e ben piantato”; il numero 2 era una “donna piena di entusiasmo” e così via. Per Solomon la visione, il gusto, il tatto e l’udito si fondevano tutti insieme. Più tardi, nella sua carriera di mnemonista professionista, il pubblico lo mise spesso alla prova con parole senza senso o lingue straniere e persino queste parole non familiari producevano delle sensazioni gustative, tattili o visive. Questi pezzetti aggiuntivi di informazioni extra lo aiutavano a dare l’avvio al ricordo. Solomon riportava persino di sentire un’associazione con il “peso” di una parola. Queste sensazioni erano così vivide che egli diceva: “Non devo far niente, perché essa mi viene alla mente da sola” (p. 34).
Il metodo dei Loci Il metodo dei Loci è una mnemotecnica che Solomon utilizzava allo scopo di ricordare gli item in una sequenza particolare. Questo metodo agisce immaginando gli “oggetti da ricordare in un posto familiare” e risale all’antica Grecia, dove gli oratori già l’usavano per ricordare lunghi discorsi. Una storia associata a questa tecnica riguarda l’oratore Simonide di Ceo, durante un discorso a un banchetto, nel quinto secolo a.C., avendo ricevuto un messaggio fu costretto a lasciare il palazzo. Mentre era fuori la sala crollò, tutti gli ospiti morirono e i corpi non erano identificabili. Usando il metodo dei Loci, Simonide fu in grado di localizzare i corpi degli invitati richiamando alla mente l’immagine che li ritraeva dove li aveva visti prima di lasciare il palazzo. Grazie a Simonide i familiari delle vittime furono in grado di identificare i resti dei loro cari. Questo ci mostra
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non solo quanto utile sia questo metodo, ma quanto importante sia prestare attenzione ai messaggi! Per usare il metodo dei Loci, è necessario immaginare un percorso o un luogo familiare: Solomon spesso usava una strada della sua città natale, Torzok3, o una ben nota via di Mosca come via Gor’kij. Una volta immaginata, collocava in punti precisi della via gli elementi da ricordare, distribuendoli in vari luoghi come case, cancelli, alberi, o vetrine (“i loci”). Per ricordare la lista, gli bastava ripercorrere i propri passi e “vedere” gli item posti lungo la via. Con la sua prodigiosa memoria visiva Solomon non aveva alcuna difficoltà a ripercorrere questi “cammini”, a lui sembrava veramente di camminare lungo la strada. Nelle poche occasioni in cui falliva nel ricordare un item, spiegava di averlo posto in un luogo che aveva difficoltà a vedere mentre ripercorreva la strada. Talvolta posizionava gli item in posti debolmente illuminati – ad esempio, all’ombra di un albero – e pertanto l’item in questione poteva sfuggirgli. Per Solomon, questi errori erano difetti di percezione (non vedere gli item lungo la strada) piuttosto che difetti di memoria. Un classico esempio di questo tipo riguarda la parola “uovo” che egli collocava su un muro bianco e fallendo successivamente nell’individuazione durante la riproduzione mentale del percorso. Una volta divenuto mnemonista professionista, Solomon divenne anche più attento nel posizionare gli oggetti in luoghi appropriati, riducendo sensibilmente il numero di errori.
La sua memoria Quando fu chiaro a Solomon che le persone potevano essere interessate alla sua memoria, lasciò il lavoro presso il giornale e divenne mnemonista professionista, eseguendo le sue imprese di memoria sul palcoscenico. Il pubblico spesso provava a coglierlo in fallo sottoponendogli parole senza senso o inventate da ricordare. Sebbene Solomon fosse in grado di farlo, tutte le visualizzazioni che egli doveva fare per richiamare alla mente queste “parole” richiedevano un tempo più lungo di elaborazione dell’informazione. Egli si rammentava che di una delle più difficili esecuzioni fu quando gli venne chiesto di ricordare una lunga serie di sillabe ripetitive (oltre 50) come MA VA NA SA NA SA VA MA e così via. A tal proposito Solomon raccontava: “Sentita la prima parola, mi trovai immediatamente sulla strada che attraversa il bosco nei dintorni del villaggio di Mal’ta, dove da bambino trascorrevo l’estate… Terza parola. Diavolo! Ancora la stessa, l’ordine era diverso… Mi trovai in difficoltà… per ciascuna parola si doveva cambiare percorso nel bosco… avrebbe richiesto più tempo del previsto, e sulla scena anche un secondo è prezioso. Vedevo già qualcuno sorridere e quei sorrisi, come punte aguzze, mi si conficcavano direttamente nel cuore” (p. 47).
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Latvia nel testo inglese, Torzok in quello italiano (NdT).
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Nonostante queste riserve, Solomon riuscì a riprodurre la sequenza correttamente. Dopo otto anni e senza nessun preavviso, Lurija chiese a Solomon di ripetergli quella monotona lista di sillabe ed egli lo fece senza nessuna difficoltà! Come mnemonista, Solomon provò a semplificare la propria tecnica di richiamo allo scopo di velocizzare la prestazione. Come già detto, egli faceva attenzione a che le immagini mentali fossero chiaramente “visibili”, in seguito sviluppò anche un sistema stenografico delle immagini, che consisteva nel creare immagini semplici e meno dettagliate, che gli consentivano di ripetere la parola impiegando meno tempo al momento della codifica dell’informazione. Iniziò ad associare le immagini alle molte sillabe, lavorando anche più di quattro ore al giorno e divenne maestro nel formare immagini di sillabe senza senso che il pubblico gli richiedeva di memorizzare. Questa tecnica gli consentiva di ricordare oltre a parole in lingua straniera, anche formule matematiche e sillabe senza senso. Lurija fu categorico nel sostenere che la memoria di Solomon fosse una caratteristica innata, l’uso delle mnemotecniche durante gli spettacoli era un semplice meccanismo per aumentare e velocizzare un’ abilità naturale al fine di soddisfare un pubblico esigente.
Altre abilità associate L’incredibile memoria visiva di Solomon gli consentiva anche di controllare i propri processi fisiologici. Sosteneva: “Quando voglio qualcosa, io la immagino” (p.94). Non si trattava di una vanteria, egli, attraverso la sua immaginazione, era in grado di regolare il battito cardiaco e persino di alterare la percezione del dolore. Gli bastava immaginare di correre dietro un treno o di essere disteso a letto immobile e rilassato per alterare il battito cardiaco. Inoltre, era anche in grado di mutare la temperatura delle sue mani immaginando di piazzarne una in una stufa accesa e di tenere nell’altra un pezzo di ghiaccio. Misurando la temperatura delle sue mani si poteva osservare l’aumento o la diminuzione di un paio di gradi. Inoltre, poteva anche alterare la percezione del dolore, ad esempio poteva immaginare qualcun altro sotto al trapano del dentista. Questo significava che un’“altra persona” stava provando dolore, non Solomon! Era in grado anche di adattare i suoi occhi al buio immaginandosi in una stanza buia e di produrre un riflesso cocleo-pupillare immaginando di “sentire” un suono acuto. Nonostante fosse oggetto di studio da parte di un clinico specializzato in neurologia le spiegazioni di queste abilità erano di difficile comprensione, se non addirittura impossibili.
Problemi di memoria È chiaro adesso che Solomon possedeva una memoria unica, vi erano però degli inconvenienti dovuti all’abbondanza delle immagini che egli associava ad ogni paro-
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la che sentiva. Doveva leggere le informazioni piuttosto lentamente allo scopo di elaborare la parola come un’immagine. Molte persone che incontravano Solomon per la prima volta notavano che appariva piuttosto disorganizzato, ottuso o duro di comprendonio. Questo era certamente vero nel caso dovesse leggere una storia ad un ritmo veloce. Egli infatti trovava che la gamma delle immagini che ogni parola produceva entrava in collisione con le immagini della lettura ad alta voce e con quelle di tutti gli altri suoni esterni. Il risultato era quello di un caos di immagini. Un semplice passo scritto richiedeva uno sforzo erculeo di elaborazione. Scremare la lettura di un passo o cogliere il senso di un brano era oltre le sue possibilità, poiché ogni parola evocava un ricco assortimento di immagini. Solomon trovava impossibile selezionare le parole chiave da un testo. Ogni dettaglio, in ogni testo produceva ulteriori immagini, che spesso lo allontanavano sempre di più dal punto centrale di ogni passaggio. Solomon era anche molto scarso nell’elaborare concetti astratti. Per lui, ogni cosa veniva elaborata visivamente, al punto che riportava: “Gli altri pensano, io vedo” (p. 80). Spesso succedeva che una parola in un passo suscitasse un’immagine e poi, da quell’immagine un’altra correlata non associata al testo originale. Il suo pensiero veniva guidato dalle immagini più che dal testo di per sé! Le parole astratte erano un vero problema, poiché non potevano facilmente essere visualizzate. Per esempio, gli era impossibile visualizzare la parola “infinità”. Vedeva la parola “qualcosa” come una densa nuvola di vapore e “niente” come un diluente, una nuvola completamente trasparente. In effetti, egli non poteva afferrare un concetto o una parola a meno che non le vedesse e alcuni concetti ed alcune parole sono difficilmente visualizzabili! Il tormento di Solomon era di trascorrere molte ore della sua vita alle prese con cose che per il resto di noi è facilmente affrontabile. Solomon era incredibilmente incapace di cavarsela con sinonimi o metafore a causa delle immagini che affollavano la sua mente. Per lui un “bambino” o un “piccino” significavano cose molte diverse, mentre uno scrittore può usarle in modo interscambiabile senza pensarci troppo. Per Solomon invece venivano elaborati in modo completamente diverso. Inoltre, termini omografi e omofoni, vale a dire parole scritte o pronunciate alla stessa maniera ma con significati diversi, potevano causargli dei problemi poiché l’immagine che evocavano era sempre la stessa. Spesso Solomon era così impantanato nei dettagli che non poteva vedere l’insieme. La poesia era quasi impossibile per lui da leggere, poiché ogni parola formava un’immagine anche se non era nell’intenzione del poeta, e l’immagine che Solomon vedeva spesso camuffava il significato associato. Un’altra capacità che Solomon aveva carente era quella di individuare una forma di organizzazione logica del materiale. Solomon non individuava prontamente delle configurazioni che potevano aiutarlo al momento del richiamo del materiale; infatti non usava nessuna logica per richiamare alla mente il materiale appreso. A causa della sua eccessiva dipendenza dalle tecniche immaginative gli capitava spesso di non accorgersi del significato di molte parole. Una volta gli fu dato un elenco di uccelli da apprendere – egli apprese la lista perfettamente ma non si accorse che si trattava di un elenco di diversi tipi di uccelli! La sua tecnica immaginativa faceva sì che una parola evocasse una o più immagini distinte che non erano collegate alla pa-
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rola successiva della lista. La stessa cosa avveniva quando gli venivano dati dei numeri che seguivano una particolare sequenza. Infatti, Solomon commentava: “Anche se mi avessero proposto l’alfabeto, io non me ne sarei reso conto e mi sarei messo tranquillamente ad impararlo a memoria” (p. 51). Sorprendentemente, Solomon aveva una scarsa memoria per i volti o per le voci sentite al telefono. Si lamentava che i volti e le voci erano così mutevoli e dipendevano dall’umore o dall’espressione che avevano in un determinato momento. Solomon vedeva i volti costantemente mutevoli e per lui il riconoscimento di un volto era paragonabile ad un’onda che cambia sempre la sua forma. Dichiarò che la voce di una persona poteva cambiare 30 volte anche nella stessa giornata, ogni cambio di voce produceva un diverso insieme di immagini questo gli creava una difficoltà al momento del riconoscimento, era talmente preoccupato dal suono della voce di una persona che non si accorgeva neppure di quello che gli stava dicendo. Certamente questo può essere considerato un vantaggio da molte persone! La sinestesia di Solomon gli consentiva di avere una memoria fenomenale, ma la mancanza di una linea divisoria tra i suoi sensi portava al verificarsi di strani avvenimenti. Ad esempio, raccontava che per mangiare in un ristorante ci doveva essere un certo tipo di sottofondo musicale, altrimenti il suono della musica interferiva con il sapore del cibo. Solomon affermava che, “Se è ben scelta tutto diventa più gustoso… Probabilmente quelli che lavorano nei ristoranti lo sanno bene” (p. 62). Un episodio dimostra chiaramente questa interferenza, Solomon aveva voglia di un gelato e andò a comprarlo in una bancarella vicina, quando chiese al gelataio che gusti erano disponibili, l’uomo rispose “gelato alla frutta” con un tono di voce simile “a un mucchio di carbone, di nera scoria, che le salta fuori di bocca”. Naturalmente non mi è più possibile comperare il gelato, dopo quella risposta” (p. 62). Un altro esempio ne è la parola russa svin’ja che significa maiale. Per Solomon questa parola evocava un’immagine delicata ed elegante: idea piuttosto insolita, considerando le qualità che sono di solito associate ai maiali. Comunque per Solomon il suono di una parola, la voce di una persona e il significato della parola vengono codificate congiuntamente e devono legare tra loro.
Provare a dimenticare Diversamente dalla maggior parte delle persone che passano il loro tempo a studiare strategie per ricordare, Solomon passava il proprio tempo cercando strategie per dimenticare! Dopo esser diventato uno mnemonista di professione, Solomon si accorse di avere delle difficoltà ad organizzare il materiale che doveva ricordare quando aveva più spettacoli nella stessa giornata. Così sviluppò una serie di strategie per superare questo problema. Primo, deliberatamente provò a ridurre le immagini che usava per aiutarsi a ricordare il materiale appreso focalizzando l’attenzione sui dettagli essenziali che servivano per richiamare l’item appreso. In effetti, iniziò ad usare versioni stenografiche delle immagini: ricordava ancora perfettamente il materiale ma non aveva biso-
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gno di codificare tutti i singoli dettagli che ogni item normalmente gli evocava. Sebbene ciò fosse d’aiuto, ancora non aveva individuato un sistema per dimenticare il materiale appreso. Una strategia per dimenticare fu quella di visualizzare mentalmente il materiale dello spettacolo come se fosse stato scritto su un foglio, quindi immaginava di accartocciarlo e di gettarlo via. Nonostante ciò ancora aveva delle difficoltà, in particolar modo a causa delle interferenze tra materiali simili dei vari spettacoli. Tale difficoltà viene definita interferenza proattiva, in cui le memorie più vecchie hanno effetti su quelle più nuove, e più simile è il materiale più grande è l’interferenza. Per una volta la memoria di Solomon sembrava funzionare come quella di qualsiasi altra persona, poiché l’interferenza è una delle possibili spiegazioni alla base dell’oblio, sebbene nel suo caso non si potesse realmente parlare di oblio, trattandosi piuttosto di un effetto disorientante durante il processo di rievocazione. Nella ricerca di una nuova tecnica per dimenticare, Solomon realizzò che molte persone scrivono le cose per aiutarsi a ricordarle, cosa che a lui appariva ridicola. Ciò nonostante, decise di provare questo sistema, ragionando che se qualcosa veniva annotato non vi era nessuna necessità di continuare a ricordarselo! Solomon quindi decise di appuntarsi le cose apprese e successivamente di gettare a terra l’appunto, arrivando in alcuni casi persino a bruciarlo. Sfortunatamente, neppure questa strategia si mostrò vincente in quanto continuava a vedere i suoi appunti anche tra le ceneri! Solomon sempre più preoccupato ideò un metodo per dimenticare che né lui né gli psicologi che lo studiavano riuscirono a capire. Spiegò che dopo aver dato tre spettacoli in una serata, preoccupato degli effetti di interferenza durante il quarto spettacolo, pensò: “Ora vedrò se mi si accenderà dentro la prima tabella. E quasi temevo che ciò non accadesse. Lo volevo e, al tempo stesso, non lo volevo. Cominciai a pensare: la lavagna ancora non appare, ed è comprensibile: io non voglio che appaia! Ecco! Se non lo voglio io, non appare! Dunque, non c’era da far altro che rendersi conto di questo!” (p. 56). Stranamente, questa tecnica di provare deliberatamente a dimenticare sembrava funzionare, sebbene ancor oggi nessuno abbia idea di come funzionasse.
Postscriptum Cosa possiamo trarre dalla vita di Solomon Shereshevsky? La vita di Solomon era un paradosso: la sua più grande abilità era anche il suo più grande handicap. La sua memoria sorprendente lo rendeva incapace di dimenticare, apparendo agli altri lento e smemorato. La sua memoria gli creava difficoltà pratiche nella vita quotidiana, trascorrendo diverse ore al giorno perso nella sua notevole memoria. Nonostante il successo sulle scene come mnemonista, svolse molti altri lavori, tra cui anche quello di tassista a Mosca, senza mai raggiungere traguardi elevati grazie alle sue sbalorditive abilità. Si pensa che Solomon si sia sposato ed abbia avuto un figlio, da un
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resoconto non confermato la sua morte risulta nel 1956. Solomon si era sempre sforzato di fare qualcosa di grande nella sua vita ma probabilmente sentì di non aver avuto successo. In ogni caso, considerando il suo lascito alla psicologia si può dire che egli raggiunse il suo scopo.
Bibliografia 1. Lurija A (2005) Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava mai nulla. Armando Editore, Roma
Psicologia cognitiva L’uomo che viveva nel presente: il caso di H.M. (Henry Gustav Molaison)
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Un giorno d’estate del 1953, il neurochirurgo Bill Scoville provò una nuova tecnica sperimentale per curare una forma particolarmente debilitante di epilessia farmaco-resistente in un suo paziente. Mentre il paziente era ancora sveglio, praticò un foro nella sua testa e aspirò una parte del suo cervello mediante una cannuccia d’argento. In seguito, scherzando, riferiva che invece di aver rimosso la sua epilessia, aveva rimosso la sua memoria. H.M., come fu chiamato, fu destinato a diventare il più famoso caso neurologico al mondo.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Il suo passato Henry Molaison (H.M.) ebbe un’infanzia abbastanza ordinaria. Nato il 26 febbraio del 1926 in un’area popolare di Hartford, Connecticut, era un ragazzo quieto, riservato e timido con comportamenti adeguati alla sua età: trascorreva il suo tempo con gli amici al chiosco delle gazzose e nuotava nella vicina riserva. Amava anche sparare, e passava diverse ore felici nei boschi vicino casa a caccia di uccelli e fagiani da cucinare. All’età di nove anni ebbe un incidente in bicicletta piuttosto importante che richiese per la medicazione della ferita ben diciassette punti al volto e alla testa. Si pensa che molti dei successivi problemi neurologici ebbero origine proprio da questo incidente. Il giorno del suo sedicesimo compleanno, mentre conduceva la macchina per recarsi con i propri genitori in città per festeggiare, all’improvviso il suo corpo si irrigidì ed ebbe la sua prima crisi epilettica di tipo “grand mal”. H.M. privo di sensi, con il corpo rigido scosso in modo incontrollabile, perse il controllo della vescica e si morse la lingua fino a ferirsi. Le convulsioni si interruppero dopo circa un minuto. Questi sono i sintomi classici di una crisi epilettica di tipo “grand mal”. Prima di allora, H.M. aveva già notato momenti in cui il suo respiro si affievoliva e la sua mente si assentava temporaneamente. L’ereditarietà familiare del suo disturbo era ipotizzabile dalla presenza di epilessia anche nei primi tre cugini da parte paterna. L’epilessia è una condizione neurologica che rende le persone soggette ad attacchi, o “accessi”, come storicamente venivano definiti. Una crisi epilettica è causata da un cambiamento temporaneo nel modo di lavorare delle cellule cerebrali: nell’enorme rete di neuroni che costituisce il cervello, miliardi di messaggi elettrici vengono inviati avanti e indietro. Pensieri, sensazioni e comportamenti costituiscono il risultato dell’ampio intreccio di tali connessioni. Raramente, senza nessuna avvisaglia, uno scompiglio nella chimica cerebrale può far sì che questi messaggi divengano confusi. I neuroni “scaricano” più velocemente del normale e si bruciano. Una crisi epilettica di solito dura solo pochi secondi o minuti e in seguito le cellule cerebrali tornano a funzionare normalmente. Benché l’epilessia si presenti spesso con un tratto di familiarità, può altrettanto spesso non essere associata ad alcuna causa nota in grado di spiegarne la comparsa. Sfortunatamente, la malattia di H.M. non fu affrontata in modo positivo né dalla sua famiglia né dai suoi coetanei. Veniva spesso deriso a scuola, al punto che finì per abbandonarla e diplomarsi in un altro istituto, ma perfino il giorno del diploma i suoi insegnanti si rifiutarono di consegnarglielo sul palco per paura che egli potesse avere una crisi proprio al momento della consegna. Il padre, Gustav, inorridito dall’avere “un malato mentale” in famiglia, cercò conforto nell’alcool, lasciando il futuro del figlio nelle mani della moglie. I piani di H.M. di seguire le orme del padre e di diventare un elettricista furono quindi abbandonati e, a soli 26 anni, sembrava destinato ad una vita senza prospettive lavorative. H.M. viveva nella paura costante di avere una crisi epilettica: dall’estate del 1953 ebbe dieci assenze e un attacco di tipo “grand mal” a settimana. Il suo medico cercò a questo punto un “esperto” in grado di aiutare H.M. nel locale ospedale neurologico. All’epoca vi erano due specialisti che avrebbero potuto
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seguire il caso, uno era esperto in lobotomie, e l’altro era un esperto in epilessia. Bill Scoville, l’esperto in lobotomie, per sua sfortuna, prese in carico il caso di H.M.
L’assistenza sanitaria? Nell’Ottocento, quando i medici iniziarono ad interessarsi all’infermità mentale, o alla pazzia, credevano che il malato mentale avesse perso la sua ragione, ossia avesse perso proprio quella caratteristica che “rende umani gli uomini”. I sistemi di cura, spesso cruenti e barbari, non contemplavano alcuna forma di rispetto per la dignità umana, attuando pratiche più vicine a forme di tortura che a forme di terapia. Così veniva praticata abitualmente la costrizione e restrizione fisica dei pazienti per un tempo che poteva variare da una settimana all’eternità. Alcuni sostenevano i benefici effetti delle sedie rotanti, altri scuotevano i pazienti per ore, mentre altri ancora li immergevano nell’acqua ghiacciata: la speranza era che tali trattamenti avrebbero restituito la sanità alla mente disturbata del paziente mediante un effetto shock. Molti di questi trattamenti sembravano aver successo nel migliorare i comportamenti maniacali, anche se nella realtà il successo era probabilmente ascrivibile allo spavento che induceva i pazienti alla sottomissione. I dottori cercavano disperatamente una cura per le malattie mentali. Negli anni Trenta l’incidenza delle malattie mentali gravi era in aumento, altrettanto non si poteva dire né riguardo alla comprensione delle cause alla base di tali malattie, né tanto meno rispetto alla terapia più efficace da adottare. Egas Moniz, medico portoghese, durante una conferenza, suscitò molto interesse mostrando come scimpanzè bizzosi divenissero placidi dopo la rimozione dei lobi frontali. L’interrogativo che poneva Moniz era se una simile procedura avrebbe funzionato anche sui malati di mente arrivando quindi ad ipotizzare che la malattia mentale potesse essere causata da un malfunzionamento delle cellule nervose. Se queste cellule venivano distrutte il paziente mostrava dei miglioramenti? Sebbene Moniz non avesse prove scientifiche a favore della sua ipotesi, iniziò ad eseguire interventi di psicochirurgia su pazienti umani. Con un’interpretazione di parte e assolutamente soggettiva, Moniz dichiarava il successo degli interventi chirurgici eseguiti. Il Professor Walter Freeman, neurologo americano, accolse con entusiasmo queste nuove tecniche “invasive” e iniziò a decantare le loro virtù dall’altro lato dell’Atlantico. Moniz e Freeman pubblicarono un libro influente che promosse l’uso delle lobotomie per curare i malati di mente: il numero delle lobotomie eseguite negli USA aumentò da 100 nel 1946 a 5000 nel 1949. La tecnica sembrava offrire speranza laddove nessuno l’aveva offerta prima. Freeman, descritto come un personaggio ribelle e controverso, sviluppò una tecnica che richiedeva di sollevare la palpebra del paziente e di inserirvi un leucotoma (uno strumento simile ad un rompighiaccio) attraverso il dotto lacrimale. Egli spingeva il leucotoma fino a 3 centimetri e mezzo nel lobo frontale muovendo la punta sottile avanti e indietro, ripetendo poi la stessa procedura anche nell’altra orbita. Gli piaceva mettere in mostra la sua abilità eseguendo la lobotomia a due mani, operando simultaneamen-
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te in entrambe le orbite. Esibizionista com’era ordinò che i suoi leucotomi fossero di oro zecchino e fatti a mano. Incredibilmente, egli uccise un paziente per fare un passo indietro e scattargli una foto mentre accidentalmente il suo leucotoma affondava in profondità nel cervello del paziente. All’epoca, Moniz ricevette il Premio Nobel per la scoperta della lobotomia frontale, che in seguito fu descritta come la più scandalosa assegnazione nella storia del premio Nobel. Nello stesso periodo, Scoville studiava medicina all’università e non poteva non essere influenzato dalla scoperta di questa nuova procedura “miracolosa”. Bill Scoville, anch’egli personaggio irrequieto e sfrenato, noto alla polizia locale per la guida spericolata della sua Jaguar rossa e per altre rischiose bravate come scalare i tralicci del ponte George Washington di notte, alla ricerca sfrenata di fama, conduceva anche la sua vita professionale assumendosi alti rischi. Sostenendo il motto di Walter Freeman “la lobotomia li riporta a casa”, sottoponeva pazienti volontari a operazioni pionieristiche. I dubbi sorti, a partire dal 1953, circa l’effettiva efficacia della lobotomia, costituirono per Scoville un’occasione per tentare nuovi esperimenti alla ricerca di un nuovo sito del cervello che fosse la sede della malattia mentale. Apertamente dichiarò ai giornali che stava asportando nuove e diverse aree del cervello dei pazienti, prevalentemente schizofrenici, indagandone gli effetti. Scoville stesso riportò che non ci furono effetti collaterali ad eccezione di un caso, e questo fu il primo riferimento ad H.M. su una rivista medica. Nonostante Scoville fosse stato precedentemente ammonito sui pericoli delle sue operazioni, H.M. si sedette sulla sua sedia operatoria il 25 agosto del 1953. Non avendo il cervello recettori per il dolore, ad H.M fu somministrata solo un’anestesia locale. Quindi, quando Scoville iniziò ad incidere la pelle della fronte, H.M. era sveglio. Usando un trapano manuale, il medico praticò due fori nel cranio per accedere al cervello di H.M. e inserì una spatola metallica allo scopo di sollevare i lobi frontali per accedere alle strutture più profonde del cervello (anni più tardi le lastre mostrarono che i suoi lobi frontali erano ancora leggermente sollevati e appiattiti). Successivamente inserì una cannuccia d’argento e aspirò una massa di sostanza grigia della dimensione di un’arancia da entrambi gli emisferi. Nello specifico, Scoville rimosse gran parte dell’ippocampo (un piccolo organo a forma di cavalluccio marino), dell’amigdala e delle cortecce perinali ed entorinali. Alcune funzioni di queste aree non sono ancora del tutto note: l’amigdala, per esempio, sembra giocare un ruolo nell’organizzare le informazioni sensoriali e cognitive allo scopo di interpretare il significato emozionale di un evento o del pensiero. Circa la funzione svolta dall’ippocampo è oggi chiaro, proprio grazie al caso di H.M., che svolga un ruolo consistente nell’apprendimento. Infatti, in un momento, H.M. aveva perso la sua capacità di codificare nuove memorie, restando bloccato tra passato e presente senza nessun futuro da aspettare. Mentre stava per finire l’intervento, Bill Scoville decise di collocare delle clip metalliche nel cervello di H.M. al fine di segnare il confine del taglio, qualora l’operazione avesse avuto successo, le clip avrebbero consentito ai ricercatori mediante i raggi X di localizzare precisamente il sito dell’incisione. Il giorno successivo all’intervento, H.M. soffrì di un’altra crisi epilettica di tipo “grand mal”, insinuando un immediato dubbio sull’esito positivo dell’intervento, ma nella realtà dei fatti
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le crisi epilettiche di H.M. divennero meno frequenti fino a ridursi ad una crisi maggiore ogni pochi mesi. Un po’ fortuitamente, l’ipotesi di Scoville sulla natura della trasmissione della crisi epilettica nel cervello era parzialmente corretta (risulta chiaro oggi il coinvolgimento dell’ippocampo nella malattia mentale, essendo noto che sia nella schizofrenia che in alcuni tipi di depressione l’ippocampo sembra essere di misura ridotta rispetto a quello di un individuo sano). Sfortunatamente, egli non aveva però previsto l’effetto collaterale permanente che ebbe l’intervento sulla vita di H.M.: l’intervento rese incapace H.M., da allora fino alla sua morte, avvenuta nel 2008, di aggiornare le sue memorie. Nonostante ciò, Scoville scrisse in cartella, al momento delle dimissioni di H.M.: “Condizione migliorata”! La perdita di memoria fu immediatamente palese. Sua madre rimpianse di aver dato il consenso per l’intervento, era arrabbiata con suo marito per averle lasciato il peso della decisione, e con Scoville per averla persuasa del successo dell’intervento. Scoville tornò a casa e scherzò con sua moglie: “Indovina? Ho provato ad asportare l’epilessia di un paziente, ma invece ho asportato la sua memoria! Che scambio!” Egli non si sentì in colpa per l’operazione effettuata, e infatti pubblicò diversi articoli che la descrivevano, avvertendo però gli altri scienziati del pericolo di svolgere questo tipo di operazione. Contattò uno dei più famosi neurologi del tempo, Wilder Penfield in Canada per raccontargli del suo paziente. Penfield, sebbene furioso per l’ignobile intervento, decise che H.M. rappresentava un’opportunità unica per la comprensione del funzionamento del cervello.
“Svegliarsi dal sogno” Brenda Milner, collaboratrice di Penfield, visitò H.M. e iniziò a valutarlo sistematicamente. Principalmente per il suo lavoro con H.M., Milner è oggi considerata uno dei più eminenti ricercatori nel campo della memoria. H.M. presentava uno dei più chiari deficit di memoria mai documentati prima. Per lui era virtualmente impossibile acquisire qualsiasi nuova memoria, al punto che ad ogni nuovo incontro non riconosceva la Milner, che pure lavorò con lui per 20 anni. Dal giorno dell’operazione H.M. fu destinato a vivere la sua vita nel passato, ripeteva lo stesso materiale ancora e ancora, ma era inconsapevole di farlo. Milner si affezionò ad H.M., ma non instaurò mai con lui un rapporto profondo, in qualche modo secondo lei H.M., insieme all’intervento, aveva perso una qualità unicamente umana, poiché gli era impossibile instaurare un’amicizia genuina con una persona che avrebbe dimenticato l’attimo dopo. Cosa esattamente era in grado di ricordare H.M.? Egli possedeva ancora una memoria a breve termine normale, era in grado di ripetere una lista di cifre e di lettere appena sentite. Il suo digit span (il numero di item che si può correttamente trattenere in memoria per un breve termine) era normale (ossia egli poteva ricordare approssimativamente sette item). Era senz’altro consapevole di quello che gli era accaduto un minuto o poco prima. Ma al di là di questo, o se veniva distratto, non era più in grado di ricordare nulla. H.M. soffriva della più grave forma di amnesia anterogra-
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da mai vista prima di allora. L’amnesia anterograda si riferisce alla perdita della memoria di ogni evento successivo al trauma, o in questo caso, all’intervento. In altre parole egli era quasi del tutto incapace di formare delle nuove memorie. All’inizio, H.M. sembrava essere affetto anche da amnesia retrograda (perdita di memoria prima del trauma), ma gradualmente iniziò a recuperare le memorie precedenti l’intervento. Si ricordava dell’incidente della sua infanzia, riconosceva fotografie di persone famose degli anni Quaranta e alla fine recuperò la maggior parte delle sue memorie fino all’età di 16 anni. Tuttavia, insieme alla quasi totale incapacità di formare nuove memorie, egli soffriva di un’amnesia retrograda della durata di 11 anni, vale a dire che non era in grado di recuperare gli eventi avvenuti nella sua vita fino a 11 anni prima dell’intervento. Tale aspetto ha costituito una evidenza del fatto che i ricordi impiegano un tempo lungo per essere consolidati in memoria (infatti H.M. aveva conservato nei suoi ricordi solo avvenimenti molto vecchi). Dopo l’intervento, H.M. continuò a vivere con i suoi genitori. In particolare la madre lo incoraggiava a lavorare per riacquistare sia la memoria che l’indipendenza. Ad esempio, quando gli veniva chiesto di tosare il prato, ricordava la procedura e comprendeva dove doveva tagliare dall’altezza dell’erba, ma se la sua attenzione veniva distolta a metà strada, perdeva la consapevolezza del lavoro che stava svolgendo e lo abbandonava. Divenne presto chiaro che era incapace di condurre una vita indipendente e “normale”. H.M. qualche volta sorprendeva i ricercatori riportando alcuni ricordi immagazzinati dopo l’intervento: aveva un vago ricordo dell’assassinio del Presidente Kennedy, anche se spesso lo confondeva con l’attentato a Franklin D. Roosvelt avvenuto nel 1933. Egli apprese cos’erano le lenti a contatto e si ricordava che “Magnum” era il nome della sua serie televisiva poliziesca preferita. Sembrava che dopo centinaia di ripetizioni fosse in grado di codificare alcune (ma spesso confuse) nuove memorie. Questo può essere spiegato da ciò che si evidenziò più tardi attraverso i metodi di neuroimmagine più all’avanguardia che consentirono di rilevare che alcune parti dell’ippocampo erano ancora presenti dopo l’intervento. Nonostante la devastante situazione in cui si trovava, H.M. rimase un uomo intelligente, divertente ed educato. La sua forza intellettuale non fu colpita dalla chirurgia: il suo QI ai test di intelligenza dopo l’intervento variava da 104 a 117 (il QI medio della popolazione generale è di 100). Una volta accadde che un ricercatore chiudesse accidentalmente le sue chiavi nella stanza sperimentale, H.M. rise, sottolineando che almeno lui sapeva dove trovarle, cosa che invece era impossibile per lui! H.M. continuò a risolvere cruciverba, passava ore e ore a completarli, forse perché tutte le informazioni erano su un’unica pagina. Poteva riprenderli quando voleva e vedere dove doveva proseguirli. In continuazione diceva ai suoi visitatori che risolveva cruciverba, senza accorgersi di averlo già detto. Riferendosi al suo stato amnesico e alla sua passione per i cruciverba, egli una volta si dichiarò “il re dei cruciverba”. Poteva ancora leggere e scrivere, ma leggeva la stessa rivista di caccia ancora e ancora, dimenticando ogni volta di averla già letta. Come molti amnesici, H.M. sviluppò delle strategie per provare a nascondere la sua amnesia. Per molti anni dopo l’intervento, lavorò in un’officina svolgendo lavori umili e ripetitivi. Era in grado di svolgere il lavoro a lungo fino a quando non smetteva o
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si distraeva. Se andava alla toilette poteva anche non essere in grado di tornare indietro. Il suo supervisore lo chiamava per raccogliere gli utensili, gli dava un’immagine dell’utensile di cui aveva bisogno e in genere H.M. lo individuava con successo. Imparò anche a cogliere sottili indizi non verbali che le persone familiari esprimevano, questo lo aiutava a realizzare che si trattava di persone che avrebbe dovuto conoscere. Ma non sempre funzionava: tornato a vivere a casa con sua madre, subito dopo l’intervento, invitò per una tazza di tè tutti quelli che chiamarono, pensando che fossero tutti amici e non volendo sembrare maleducato! La ricerca su H.M., successivamente, si spostò al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Un’ex studentessa della Milner, di nome Suzanne Corkin, prese l’incarico nel 1966 e continuò a sottoporlo a prove 3 volte l’anno fino alla sua morte avvenuta nel 2008. A quel tempo l’anonimato di H.M. cessò e il suo vero nome fu rivelato: Henry Molaison. Dopo l’intervento, Henry non aveva idea di quanti anni avesse o di che giorno fosse. Credeva di avere circa 33 anni e spesso ipotizzava di essere nel 1930, rimanendo ogni volta scioccato quando si guardava allo specchio (ma sono così allora!). Non era, infatti, in grado di riconoscersi in foto recenti. Quando gli veniva mostrata una fotografia di Muhammed Alì, diceva che si trattava di Joe Louis. Non ricordava l’intervento ma sapeva di avere un problema di memoria. Si preoccupava spesso di dire cose che avrebbero potuto indispettire qualcuno senza che lui se ne ricordasse e preoccupato da tale eventualità spesso chiedeva alle persone se le aveva offese. Rendendosi conto che la sua condizione poteva essere di aiuto agli altri, una volta disse: “Penso di aver subito molto probabilmente un’operazione, in qualche modo ho perso la memoria, sto cercando di immaginare. È preoccupante in qualche modo, per me… hanno appreso da questa situazione che potrebbe essere di aiuto ad altri.” Sebbene fosse allegro per la maggior parte del tempo, Henry occasionalmente appariva ferito quando ci si riferiva a lui come “un caso”. Descriveva la sua vita come “un risveglio da un sogno… ogni giorno è unico in sé”. Trovava difficile portare avanti delle conversazioni e fare domande poiché era consapevole di non ricordare “quello che era avvenuto poco prima”. Negli ultimi 50 anni della sua vita aveva ripetuto più e più volte una dozzina di aneddoti che conosceva. I test psicologici evidenziarono come Henry fosse particolarmente deficitario nello stimare il tempo, oltre i 20 secondi era incapace di valutarlo accuratamente. Le sue stime erano così scarse che i ricercatori ritenevano che per lui pochi giorni trascorsi equivalessero a dei minuti, settimane a ore, ed anni a settimane. Questo era un dono di Dio per qualcuno nella situazione di Henry, poiché significava che gli ultimi 50 anni di vita trascorsi come amnesico non erano stati per lui più lunghi di pochi mesi.
Il suo dono alla scienza Uno dei doni di Henry alla scienza fu di far conoscere l’esistenza di diverse forme di memoria localizzate in differenti aree cerebrali. La sua perdita di memoria coinvolgeva “il processo di memoria”, ossia, la formazione, la classificazione e l’imma-
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gazzinamento di nuove memorie. In questi processi svolge un ruolo principale l’ippocampo, occupandosi non solo di archiviare nuove memorie, ma consentendo il collegamento con memorie associate e contribuendo alla definizione dei significati. Fu possibile stabilire che gli amnesici possono apprendere nuove cose senza esserne pienamente consapevoli. Henry era in grado di apprendere una serie di operazioni procedurali. Le memorie procedurali (talvolta chiamate “memorie implicite o non dichiarative”) implicano l’immagazzinamento di tecniche o procedure come ad esempio giocare a tennis, nuotare o andare in bicicletta. Queste memorie mentre sono facilmente dimostrabili eseguendo l’azione, sono difficilmente descrivibili. Ad esempio, provate a descrivere come si fa lo stile libero a qualcuno. Nello specifico, attualmente si ritiene che la memoria procedurale comprenda tre tipi di memorie: (1) riflessi condizionati (2) associazioni emozionali e (3) abilità e abitudini. Ognuna di queste memorie è localizzata in diverse aree cerebrali. Si ritiene che l’apprendimento dei riflessi condizionati sia a carico di una particolare struttura cerebrale, il cervelletto. L’esempio più famoso fu riportato da Claparede nel 1911. Una dei suoi pazienti amnesici non si ricordava mai di lui quando lo rivedeva alla visita successiva. Un giorno Claparede nascose un ago nella mano e la punse quando si strinsero le mani. La volta successiva, la paziente non lo riconosceva ancora, ma si rifiutò di dargli la mano. Non era in grado di spiegare perché, ma era molto riluttante a farlo. Questo è un esempio di un condizionamento semplice (apprendimento). Il cervelletto di Henry non fu colpito dall’intervento lasciando supporre che avrebbe potuto apprendere cose come queste, persino senza esserne consapevole. I test di condizionamento su Henry furono abbandonati quando gli studiosi si resero conto che egli aveva un’atipica alta resistenza agli shock elettrici, sembrava in grado di tollerare shock che una persona normale avrebbe trovato dolorosi. Sebbene la spiegazione resti poco chiara, è facile supporre che questo potesse essere un altro sintomo del suo esteso danno neurologico. Le associazioni emozionali, come sapere quando essere spaventati o quando sentirsi in collera, sono a carico dell’amigdala. La gran parte di questa struttura cerebrale fu rimossa in Henry e sebbene egli sembrasse spaventato e arrabbiato, era inconsapevole del perché egli provasse queste emozioni. Dopo l’intervento, occasionalmente Henry manifestò scoppi di rabbia. Una volta si ruppe un dito prendendo a pugni ripetutamente la porta della stanza da letto e urlando, “Non mi ricordo, non mi ricordo”, e almeno in un’occasione minacciò di uccidersi. Vi era il timore che potesse realizzare quanto vuota fosse la sua vita in seguito alla perdita di memoria. Comunque, il più delle volte, non ricordava il motivo della sua ira, né del suo scoppio di rabbia. Sembrava che i suoi sentimenti di rabbia sorgessero senza una reale fonte emotiva, determinando uno stato di confusione e di frustrazione. È ancora poco chiaro quali strutture cerebrali siano associate con le abilità e le abitudini, anche se si suppone che sia il cervelletto sia l’ippocampo ne siano coinvolti. Henry era in grado di acquisire e mantenere nuove abilità. Ad esempio, Corkin gli insegnò la tecnica del disegno allo specchio. Si tratta di copiare una figura su un foglio mentre la si vede solo allo specchio. All’inizio, è molto difficile, ma con un po’ di pratica le persone migliorano nell’esecuzione del compito. Henry apprendeva come le persone normali questa abilità, ma nelle successive occasioni quando gli
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veniva chiesto di ripetere il compito, appariva completamente inconsapevole di avere appreso questa particolare abilità. Successivamente, imparò anche le tecniche della scrittura e della lettura allo specchio. Questi esempi riecheggiano il caso di un paziente amnesico che apprese a giocare a ping pong ad un buon livello, ma che era inconsapevole della sua abilità, delle regole del gioco e di come si teneva il punteggio. Ad un pianista amnesico fu insegnato un nuovo brano musicale, in seguito egli non fu in grado di ricordarlo, ma se gli venivano date le prime note era in grado di suonarlo perfettamente. Quello che mancava ad Henry era l’abilità di formare nuove memorie inerenti agli episodi che avvenivano nella sua vita (per esempio, il suo compleanno). Questo tipo di memoria viene definito memoria “episodica”. Henry non solo non era in grado di immagazzinare gli eventi della sua vita, ma aveva anche perso la capacità di apprendere nuovi fatti (come ad esempio chi fosse il Presidente degli Stati Uniti in carica). Quest’ultimo tipo di memoria è definita memoria “semantica”. È evidente che le strutture cerebrali che Henry aveva perso non erano responsabili della memoria procedurale ma erano essenziali per ritenere le memorie semantiche ed episodiche.
Postscriptum Come riassumere ciò che abbiamo appreso dai 50 anni di studio di Henry? I ricercatori hanno scoperto che la memoria a breve termine non è localizzata nell’ippocampo; che esistono diverse forme di memoria a lungo termine; che l’ippocampo non è implicato nella codifica o nella ritenzione di memorie procedurali; che l’ippocampo è implicato nella formazione di nuove memorie a lungo termine (episodiche e semantiche); e che la personalità non è largamente colpita dalla perdita dell’ippocampo. Grazie alla sua longevità, Henry sopravvisse alla sua famiglia. Ma non ebbe mai alcun ricordo delle loro morti. Quando si faceva riferimento alla morte di sua madre si affliggeva nuovamente ogni volta, anche se qualche volta diceva che aveva la sensazione che lei lo avesse lasciato in qualche modo. Con il suo intelletto intatto, poteva stimare la sua età guardandosi allo specchio e dedurre che doveva avere l’età che aveva sua madre quando morì. Suzanne Corkin, che passò gran parte della sua carriera accademica studiando Henry, divenne un suo “tutore”, badando ai suoi interessi e aiutandolo ad organizzare diversi aspetti della sua vita. Lo aiutò nella casa di riposo nella quale alloggiò fino alla sua morte e organizzò i suoi appuntamenti come soggetto sperimentale al MIT. Divenne un suo prezioso consigliere, anche se Henry non si ricordò mai di lei. Henry diceva sempre che voleva aiutare gli altri in difficoltà ed egli con il suo tutore legale diede il consenso per donare alla sua morte il suo cervello alla scienza. Questo avrebbe consentito un’analisi dettagliata del suo cervello. Come Corkin scrisse, Il suo desiderio di aiutare le altre persone sarà esaudito. Sfortunatamente, egli resterà inconsapevole della sua fama e dell’impatto che la sua partecipazione nella ricerca ha avuto nelle comunità scientifiche e mediche a livello internazionale.
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Le persone spesso riflettono su che tipo di vita sarebbe una vita senza memoria. Senza memoria dove sarebbe la razza umana? Non ci sarebbe linguaggio, né scienza, né arte, né storia, né famiglia, né un’esistenza ricca di significato. La nostra esistenza si svolgerebbe attimo per attimo. Noi avremmo solo i nostri riflessi innati con i quali affrontare il mondo. Un mondo che sarebbe completamente differente da quello che conosciamo oggi. Grazie ad Henry noi possiamo rispondere ad alcune di queste domande. Può essere possibile guardare alla perdita di memoria di Henry come ad una benedizione per certi versi. La sua perdita di memoria lo preservò anche dal realizzare pienamente che vita senza senso condusse dopo l’intervento. Il caso di Henry è tragicamente ironico. L’uomo senza memoria ci ha insegnato così tanto sulla natura della memoria e continuerà a farlo tuttora. Quando gli fu detto del suo cruciale contributo alle neuroscienze, se ne dimenticò rapidamente, ma questa notizia lo rese molto felice anche se per pochi secondi. Henry Molaison morì di insufficienza respiratoria all’età di 82 anni il 2 dicembre 2008 in una casa di riposo nel Connecticut. Come precedentemente accordato, Suzanne Corkin organizzò l’espianto del suo cervello e l’invio presso l’Observatory Brain dell’Università della California, San Diego. Il 2 dicembre del 2009, il cervello di Henry fu dissezionato e tagliato in specifici segmenti. Fu la prima dissezione ad essere trasmessa in diretta. Le informazioni ottenute saranno messe su internet per consentire ai ricercatori di accedere in futuro al suo cervello. Corkin progetta di scrivere un memoriale del suo lavoro con Henry, e i diritti per un film sulla vita di Henry sono stati venduti recentemente alla Columbia Pictures. Sembra che l’uomo senza memoria non sarà mai dimenticato.
Psicologia cognitiva L’uomo che fu deluso da quello che vide: il caso di S.B.
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S.B.1 perse la vista a 10 mesi a causa di un particolare problema agli occhi che all’epoca fu dichiarato inoperabile. Molti anni più tardi la scienza era progredita al punto da permettergli il recupero della vista. E così, all’età di 52 anni, S.B. fu nuovamente in grado di vedere. Riuscì a vedere sua moglie per la prima volta e anche ogni altra cosa. Sarebbe dovuto essere entusiasta per il dono della vista che gli veniva restituito, e invece rapidamente si scoraggiò, entrò in depressione, e nel giro di due anni morì come un uomo spezzato, rimanendo deluso da ciò che aveva visto.
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Il nome vero di S.B. era Sidney Bradford.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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La vita di un bambino cieco S.B. nacque nel 1906, settimo figlio di una famiglia relativamente povera di Birmingham. Divenne cieco all’età di 10 mesi in seguito ad un’infezione causata dalla vaccinazione antivaiolosa. La sorella maggiore portava S.B. alla clinica oftalmica presso la quale ogni settimana gli venivano tolte le bende e medicati gli occhi. La famiglia, per gioco, era solita indagare la vista di S.B., in queste situazioni lui era in grado solo di distinguere le luci e di indicare alcuni “oggetti larghi e bianchi”, poteva distinguere con il suo occhio destro i movimenti delle mani di una persona che si trovava a circa 20 centimetri di distanza. Per la gran parte dell’infanzia la testa di S.B. fu coperta da bende. Diceva di avere solo tre ricordi visivi relativi ai colori rosso, bianco e nero. A tutti gli effetti, condusse la vita di un bambino cieco, frequentando la Birmingham Blind School dall’età di 9 anni fino a quando ne uscì nel 1923 con una buona educazione e le abilità necessarie per svolgere il lavoro di calzolaio. Durante gli anni di scuola fu descritto come un ragazzo bravo, ben educato e brillante, solo raramente disobbediente. Iniziò a riparare stivali sotto la tettoia del giardino della sua casa in Burton-on-Trent, tutti gli strumenti e l’equipaggiamento erano pensati per lui e la qualità del suo lavoro era considerata alta al punto da consentirgli un’esistenza indipendente, anche se il salario da lui guadagnato era minore se confrontato con quello dei suoi colleghi vedenti. Mise su casa, si sposò e veniva descritto da tutti come una persona gioviale e attiva. Si sentiva sicuro al punto da attraversare la strada senza aiuto e in genere non portava il bastone bianco quando usciva, anche se poteva capitare che si ferisse sbattendo contro le macchine parcheggiate o altri ostacoli inattesi lungo il percorso familiare verso il pub o verso alcuni negozi. Era un ciclista appassionato e faceva lunghe corse in bicicletta tenendo la mano sulla spalla di un amico come guida. Gli piaceva inoltre il giardinaggio e veniva descritto come una persona positiva che abbracciava con entusiasmo la vita. Questa era la sua vita – relativamente tranquilla, ma piena – fino ad un esame di routine agli occhi, eseguito nel 1957, che aprì la possibilità di riacquistare la vista. Il chirurgo oftalmico, Mr. Hirtenstein, visitò S.B. e suggerì che poiché non era veramente cieco (tecnicamente, questo significa totalmente insensibile alla luce), vi poteva essere un intervento che avrebbe migliorato il suo funzionamento corneale e di conseguenza la sua vista. La cornea viene considerata la finestra dell’occhio, dovrebbe infatti essere trasparente e permettere alla luce di entrare nell’occhio. Quando questo non può avvenire, la luce che arriva alla retina è distorta e/o bloccata, con una corrispondente perdita di vista. Un trapianto corneale implica la rimozione di una parte della cornea e la sua sostituzione con una parte simile prelevata dall’occhio di un donatore. Il progredire delle tecniche chirurgiche aveva fatto sì che tali operazioni divenissero possibili e il 9 dicembre 1958 S.B. subì un trapianto corneale all’occhio sinistro, seguito un mese più tardi con un’operazione simile all’occhio destro. Un quotidiano nazionale, il Daily Express, venne a sapere dell’intervento e riportò la notizia. Richard Gregory, un professore universitario di psicologia, lesse la storia e immediatamente scrisse al chirurgo, chiedendo di poter vedere il pazien-
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te. A quei tempi, Gregory era uno degli esperti mondiali di percezione visiva e per questa ragione gli venne accordato il consenso. Gregory, e il suo assistente Jean Wallace, visitarono S.B. 48 giorni dopo l’intervento al suo occhio sinistro.
La vista riacquistata La prima esperienza visiva che S.B. ebbe dopo l’intervento, una volta rimosse le bende, fu il volto del chirurgo. Il Daily Express riporta che egli vide una forma scura con una protuberanza che sporgeva e sentì una voce. Tastando il proprio naso, realizzò che la “protuberanza” di fronte a lui dovesse essere un naso e pertanto la forma scura doveva essere un volto, pertanto concluse che quello doveva essere il volto del chirurgo. Successivamente i resoconti di S.B. suggeriscono che egli riconobbe “la confusione di colori” come il volto del chirurgo, solo perché riconobbe la voce del chirurgo. Ammise che non avrebbe saputo che quello era un volto senza l’accompagnamento vocale e la sua pre-esistente conoscenza della voce che veniva da quel volto. Inizialmente, S.B. trovava difficile identificare i volti, che non erano affatto oggetti semplici. Descriveva sua moglie come “semplicemente bella come pensavo che fosse”. Uno studio ben controllato avrebbe previsto che i ricercatori esaminassero e studiassero S.B. sia prima che dopo l’intervento, fornendo anche del tempo in più per costruire una serie di test percettivi, nonostante il breve preavviso con il quale Gregory e Wallace vennero a conoscenza del caso di S.B. prepararono una serie di test per valutare le sue abilità visive. La prima volta che lo videro stava camminando in modo sicuro lungo un corridoio dell’ospedale. Passò attraverso una porta senza aver bisogno di utilizzare il tatto, lo descrissero come sicuro, estroverso e allegro, e in generale come uno che sembrava avere una vista normale. Ben presto realizzarono però che non era certamente quello il caso. S.B. teneva lo sguardo fisso di fronte a sè, non esplorava la stanza e vi prestava attenzione solo quando gli veniva chiesto di guardare qualcosa nella stanza, in quel caso iniziava a fissarla deliberatamente con un’enorme concentrazione. S.B. era in grado di nominare tutti gli oggetti nella stanza e poteva persino leggere l’ora sull’orologio appeso alla parete. Considerato che molte persone che hanno “riacquistato la vista” hanno grandi difficoltà nel riconoscimento degli oggetti, Gregory e Wallace lo interrogarono su come facesse ad essere così bravo nell’identificare gli oggetti. S.B. spiegò che era in grado di riconoscere la maggior parte degli oggetti basandosi sulla sua esperienza tattile acquisita quando era cieco, mostrò loro il suo orologio da polso che aveva il vetro rimosso e mostrò come aveva appreso a leggere l’ora attraverso il tatto. Inoltre, disse di essere in grado di identificare le lettere maiuscole poiché gli era stato insegnato a distinguerle quando frequentava la scuola per non vedenti. Era evidente che non fosse in grado di riconoscere le lettere minuscole (non gli era stato insegnato a riconoscerle al tatto), ma spesso grazie a delle congetture intelligenti era in grado di sopperire a tali anomalie percettive. Questo “colmare i vuoti” della sua conoscenza riecheggiava il caso di H.M. (Ca-
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pitolo 2) che anche usava “strategie che rispecchiavano il suo livello di istruzione” per provare a superare la sua mancanza di memoria. S.B. non era altrettanto sicuro nel riconoscimento dei colori. Casi precedenti di pazienti che avevano riacquistato la vista avevano evidenziato come il giallo fosse spesso visto come un colore sgradevole; S.B. dal canto suo si lamentava che vi fossero molti diversi tipi di giallo. Mostrava anche una marcata preferenza per il verde e il blu e per tutti i colori luminosi, ed era deluso, in generale, dai colori “sporchi”. Trovava il mondo piuttosto sciatto ed era infastidito dalla vernice scrostata e dalle imperfezioni delle cose. La percezione di S.B. della profondità era estremamente limitata: poteva guardare fuori dalla sua finestra d’ospedale, che era a circa 14 metri d’altezza dal terreno sottostante, e credere di poter sporgersi e toccare il terreno. Anche la sua stima delle misure era inaccurata. Stimava correttamente la lunghezza degli autobus, ma li reputava molto più alti. Lui presumeva che questo potesse dipendere dal fatto che avesse esperito la lunghezza dell’autobus da cieco, ma non era familiare con la loro altezza. In pratica la sua stima delle misure era ragionevolmente accurata se aveva esperito precedentemente l’oggetto attraverso il tatto. Vi erano due oggetti che lo affascinavano in modo particolare. Tre giorni dopo il suo intervento chiese alla caposala cos’era quell’oggetto nel cielo, sorprendendosi molto nello scoprire che si trattava della luna. Pensava che un quarto di luna fosse come un quarto di torta piuttosto che una forma crescente! Ancora una volta la luna era un oggetto che non aveva mai toccato precedentemente. Aveva anche una passione sfrenata per gli specchi che conservò per tutto il resto della sua vita. “Abitualmente” al pub locale sedeva per ore sulla sua sedia preferita di fronte allo specchio, divertendosi a osservare ciò che vi era riflesso.
Valutazione psicologica Gregory e Wallace sottoposero S.B. a una serie di diversi test percettivi. Questi includevano ben note illusioni visive per indagare la profondità e la lunghezza, così come test di visione del colore e di cambio di prospettiva. Diversamente dalle persone “normali”, S.B. non sembrava essere confuso dalle illusioni percettive, di fatto, non sembravano funzionare come illusioni. Ad esempio, dopo un’attenta considerazione, dichiarava che le linee verticali nell’illusione di Zollner erano parallele (vedi Figura 3.1), quando solitamente vengono percepite come angolate l’una verso l’altra (cioè non parallele). In modo simile, S.B. non vedeva il cubo di Necker (vedi Figura 3.2) come la rappresentazione di un oggetto tridimensionale, né trovava le facce del cubo reversibili, come succedeva alle persone che lo fissavano e che dopo un periodo di tempo avevano l’impressione che la faccia frontale si spostasse dietro e viceversa. A S.B. furono anche mostrate una serie di figure di oggetti e paesaggi. Gli fu mostrata un’immagine di Cambridge che ritraeva un ponte su un fiume, ma S.B. non fu in grado di distinguere né il fiume né il ponte. Raramente riconosceva i colori, e mai quello che rappresentavano.
3 L’uomo che fu deluso da quello che vide: il caso di S.B.
Fig. 3.1 L’illusione di Zollner
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Fig. 3.1 Il cubo di Necker
Non era consapevole del concetto di sovrapposizione (talvolta chiamato copertura o interposizione), che ci dà l’informazione di distanza tra due oggetti, per cui l’oggetto che copre la vista dell’altro sarà più vicino a noi rispetto a quello coperto; inoltre sembrava possedere una conoscenza limitata del concetto di grandezza relativa o di grandezza-distanza. Tali caratteristiche si riferiscono al fatto che oggetti della stessa grandezza collocati a distanze diverse gettano sulla retina immagini di diversa misura, infatti nel mondo reale oggetti che sembrano più piccoli possono essere semplicemente più distanti, e viceversa. A S.B. fu somministrato un test per valutare la cecità per i colori, denominato Tavole di Ishihara, composto da numeri o lettere raffigurati da pallini colorati che emergono dallo sfondo colorato, almeno per chi non ha un deficit nella percezione del colore. S.B. leggeva ogni singolo numero correttamente senza esitazioni, mostrando che nonostante non fosse in grado di riconoscere i colori aveva comunque una normale visione di essi. A S.B. fu anche chiesto di disegnare una serie di oggetti che includevano un autobus, una fattoria, un martello e così via. I suoi disegni si rivelarono simili a quelli dei non vedenti: le caratteristiche che egli aveva precedentemente riconosciuto al tatto erano presenti e riconoscibili, mentre erano mancanti molte caratteristiche che non aveva precedentemente esperito per via tattile. Ad esempio, nel suo disegno dell’autobus aveva esagerato i finestrini, oggetti molto familiari, ma mancavano il cofano e il radiatore; le ruote dell’autobus avevano i raggi come le ruote di una bicicletta o di un carretto. Inoltre nei disegni l’autobus era raffigurato sempre dal lato sinistro, infatti era così che era stato percepito attraverso il tatto alle fermate dell’autobus. I suoi disegni mostravano che, sebbene S.B. potesse vedere il mondo, lo vedeva ancora filtrato e profondamente dipendente dalla modalità tattile. Il caso di S.B. ci fornisce delle buone evidenze sul trasferimento crossmodale da un senso all’altro, nel suo caso, dal tatto alla vista: S.B. era certamente in grado di vedere e di dare un senso agli oggetti con i quali aveva precedentemente acquisito familiarità attraverso il tatto.
“Stanco di Londra e stanco della vita in sé” Subito dopo il suo intervento, S.B. fece un viaggio a Londra. Lungo il percorso sembrava depresso e indifferente, non mostrando alcun interesse per ciò che vedeva nonostante gli scenari non fossero familiari. Si lamentava del fatto che il mondo
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gli appariva “monotono” e che era deluso quando il sole tramontava. Il suo umore si era enormemente modificato: da allegro ed estroverso che era stato prima e subito dopo l’intervento, diventò triste e passivo. Durante il viaggio a Londra si mostrò poco interessato al paesaggio e trovò Trafalgar Square noiosa, con palazzi monotoni e un traffico spaventoso. Il traffico lo terrorizzava e perse la sua sicurezza persino nell’attraversare le strade secondarie più tranquille, mentre quando era cieco attraversava senza alcun problema strade principali molto trafficate. In una visita al Museo delle Scienze, mostrò poco interesse agli strumenti e ai macchinari fino a quando un custode gli permise di toccare un tornio. Si animò immediatamente e disse, “Adesso che l’ho sentito, posso vederlo”. Allo zoo di Londra era in grado di identificare correttamente alcuni animali (la giraffa, l’elefante, la scimmia, il leone) ma non di identificarne altri (gli orsi, le foche e i coccodrilli). L’unica occasione in cui Gregory e Wallace videro S.B. ridere fu quando le teste di due giraffe lo fissarono da sopra il bordo della gabbia. La gita a Londra non ebbe il successo sperato, S.B. si mostrò disinteressato dai panorami cittadini e in generale deluso dalla vita in sé. Insieme alla sua delusione per i colori e per le imperfezioni così evidenti di alcuni oggetti era anche deluso dalle facce, affermò che “Ho sempre sentito nel mio intimo che le donne erano piacevoli, ma adesso le vedo brutte”. S.B. non apprese mai ad interpretare le espressioni facciali della gente; non era in grado di determinare cosa stesse provando una persona da un sorriso, da una smorfia eccetera. Era in grado di ricavare i suoi sentimenti più che altro dal tono della sua voce.
“Vedere” non ci delude Gregory e Wallace andarono a trovare S.B. nella sua casa sei mesi dopo l’intervento. Lo videro usare i suoi attrezzi per riparare le scarpe e per lavorare il legno con sorprendente destrezza. Usava dei macchinari per tagliare la legna da ardere con spaventosa velocità e abilità. Si confidò con loro e disse di trovare la vista una grande delusione. Mentre, precedentemente, come uomo cieco, si sentiva ammirato per la sua indipendenza e aveva guadagnato un enorme rispetto per i suoi successi nonostante il suo handicap, adesso realizzava che il dono della vista non gli consentiva di vivere la vita che desiderava. La vista gli offriva meno possibilità di quelle che aveva immaginato. Infatti, per certi versi, continuava a vivere la vita di un uomo cieco. Alla sera, spesso sedeva al buio e non si curava di accendere le luci. I vicini e i colleghi di lavoro non lo ammiravano più per i suoi successi, ma lo guardavano come uno “strano”. Alcuni lo prendevano in giro per le sue difficoltà – in particolare, la sua incapacità a leggere. Poteva vedere adesso, allora perché non poteva riconoscere gli oggetti o non poteva leggere? S.B. stesso realizzava che le sue imprese come cieco erano state ammirevoli, ma le sue imprese nel mondo dei vedenti lo erano molto meno. Come uomo intelligente, avrebbe forse potuto realizzare molto di più se non fosse stato cieco per 50 anni. Sebbene riluttante a parlare di questo argomento, S.B. ammise che aveva mostrato un iniziale entusiasmo dopo l’intervento, dovuto alla sua gratitudine verso il chirurgo e verso quelle persone che si
3 L’uomo che fu deluso da quello che vide: il caso di S.B.
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erano interessate al suo caso. Soffriva ovviamente di una forte depressione che lo portava ad affermare di aver perso molto di più con l’intervento di quello che aveva guadagnato. Il suo entusiasmo iniziale fu attribuito al desiderio di S.B. “di non deludere nessuno”: molte persone avevano investito tempo, conoscenza ed esperienza per aiutarlo e non voleva apparire ingrato. Comunque, col passare del tempo, egli non riusciva più a nascondere la propria delusione.
La rilevanza del caso di S.B. per la percezione Come per tutti i casi presentati in questo libro è difficile trarre delle conclusioni dallo studio di un caso singolo. Nel caso di S.B., resta poco chiaro se quello che avvenne in lui dopo il recupero della vista può essere in qualche modo paragonato a ciò che avviene nel normale percorso di sviluppo della vista nella prima infanzia. Psicologi come Donald Hebb riportano che la “crisi di motivazione” esperita da S.B. sia avvenuta anche in altri casi di recupero della vista, e che sia attribuibile alla difficoltà nell’acquisire le abilità percettive della visione. Gregory e Wallace ritenevano che vi fosse un senso generale di inadeguatezza che colpisce negativamente i pazienti, dovuto al ritmo lento con il quale le abilità percettive vengono apprese. Tali pazienti, piuttosto che accettare il fatto che siano necessari dei tempi lunghi di apprendimento percettivo, realizzano che resteranno sempre handicappati nel mondo dei vedenti. Hebb sottolinea le somiglianze esistenti tra il processo di apprendimento della percezione nell’infanzia e quello che avviene in seguito al recupero della vista. Diversamente, Gregory e Wallace non sono in accordo con questo punto di vista. Ad esempio, si domandano perché un bambino non sembra entrare in crisi per la lentezza del processo di apprendimento percettivo e aggiungono che le persone che hanno riacquistato la vista hanno trascorso anni dando un senso al mondo attraverso il tatto. Questo è molto diverso dal bambino che comincia da zero. Gregory e Wallace concludono che lo sviluppo della percezione visiva nel bambino e nell’adulto che ha riacquistato la vista è un fenomeno molto diverso e pochi confronti significativi possono essere fatti. Secondo loro la difficoltà principale di S.B. non era l’apprendimento di per sé ma il cambiamento da un apprendimento dipendente dal tatto ad uno dipendente dalla vista. S.B. non aveva appreso le sue abitudini percettive allo scopo di apprenderne di nuove. Apprendere qualcosa da capo è sempre più difficile. Ad esempio, se hai appreso a fare qualcosa in modo scorretto, è molto più difficile apprendere a farla correttamente, piuttosto che apprendere fin da subito a farla correttamente. Rispetto alle illusioni visive, la prestazione di S.B. suggerisce che la sua organizzazione spaziale non era normale, suggerendo inoltre che alcuni indizi percettivi sono appresi e non innati. S.B. non li aveva ancora appresi. È interessante speculare se sarebbe stato in grado di percepire le illusioni come tali col trascorrere del tempo.
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Postscriptum La salute di S.B. continuò a peggiorare. I suoi nervi peggiorarono, le sue mani svilupparono un evidente tremore, smise di lavorare, svenne in un paio di occasioni e fu indirizzato da uno psichiatra. Con la perdita del suo “handicap” aveva perso il rispetto di sé. S.B. morì il 2 agosto del 1960 meno di due anni dopo il suo intervento. Non è un’esagerazione dire che morì deluso da ciò che vide.
Bibliografia 1. Gregory R (1986) Odd Perceptions. Routledge, London
Psicologia cognitiva Kim Peek: il vero Rain Man
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Nel film premio Oscar Rain Man, Tom Cruise interpreta il ruolo di Charlie Babbitt, un giovane uomo che scopre di essere stato escluso dal suo defunto padre da un patrimonio di 3 milioni di dollari. Il beneficiario dell’eredità diviene il fratello maggiore Raymond, mai conosciuto prima, interpretato nel film da Dustin Hoffman. Raymond vive in un mondo tutto suo ed è ricoverato in un istituto. Il film è costruito attorno ad un viaggio in macchina che i due fratelli fanno sulla West Coast americana – un viaggio di scoperta per entrambi i fratelli, in particolar modo per Charlie, che inizia a riconoscere il dono speciale che suo fratello possiede. Sebbene si tratti di fiction, l’ispirazione viene dalla vera vita di un savant di nome Kim Peek. Per certi versi Kim Peek è persino più notevole del personaggio interpretato da Dustin Hoffman nel film: è stato definito come un “google vivente” ed è il savant più famoso al mondo. Sfortunatamente, Kim Peek ebbe un attacco cardiaco e fu dichiarato morto nell’ospedale della sua città natale Salt Lake City, nello Utah, il 19 dicembre 2009.
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Molto del materiale di questo capitolo viene dal brillante e affascinante libro scritto da Fran Peek [1].
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Infanzia Kim Peek nacque l’11 novembre del 1951. Sarebbe piuttosto insolito per la maggior parte di noi ricordare che giorno della settimana era, ma Kim l’avrebbe saputo in un istante – non semplicemente perché era il suo compleanno, ma perché aveva l’abilità mentale di sapere il giorno della settimana di qualsiasi data della storia. Sebbene i suoi genitori, Fran e Jeanne Peek, non avessero notato niente di insolito durante la gravidanza, divenne evidente sin dalla nascita che Kim aveva qualcosa di particolare. La testa era di circa il 30% più grande del normale, era così grande che il muscoli del collo non erano in grado di sostenerne il peso. Col progredire del tempo, Kim non raggiunse gli stadi di sviluppo nel modo standard, ad esempio gli occhi si muovevano indipendentemente uno dall’altro, non giocava e non rispondeva agli stimoli a cui solitamente gli altri bambini rispondevano. Un’escrescenza della forma di una bolla, detta encefalocele, iniziò a crescere nella parte posteriore della testa di Kim, che non venne rimossa per timore che potesse effettivamente contenere parte del suo cervello. Durante una visita effettuata all’età di nove mesi, fu dichiarato “ritardato mentalmente” e venne raccomandato ai genitori di trovargli una sistemazione in un istituto allo scopo di essere “liberati” dalla smisurata quantità di cure che avrebbero dovuto dedicare a Kim nel corso degli anni. All’epoca, Kim passava la maggior parte del tempo sul sofà e quando gattonava doveva spingere la sua testa avanti come uno spazzaneve perché non era in grado di sostenerne il peso. Fran e Jeanne ignorarono il suggerimento dei medici riguardo l’istitutalizzazione, tennero Kim a casa e gli dedicarono tutta la loro attenzione. Passarono ore e ore del loro tempo a leggere e ad aiutare Kim a tracciare con le dita le parole sulle pagine. Quando Kim compì 3 anni, l’escrescenza si ritirò all’interno della sua testa, e si pensa che circa la metà del suo cervelletto o venne danneggiata o non si sviluppò. A quel tempo, avvenne un incidente incredibile che fornì il primo indizio a Fran di avere un figlio molto speciale. Fran Peek racconta che Kim gli chiese il significato della parola “confidenziale”, e scherzando lui gli rispose di cercarla nel dizionario: Kim fece esattamente quello che gli era stato chiesto, la cercò, la trovò e lesse al padre meravigliato il significato della parola. Kim amò leggere da subito al punto di divorare qualsiasi scritto. I suoi genitori si accorsero che era in grado di ricordare qualsiasi cosa leggeva e poteva ripeterla parola per parola semplicemente menzionandogli il numero di pagina del libro! All’età di sei anni, Kim avevo letto e memorizzato per intero l’enciclopedia che avevano a casa. Quando arrivò il momento di andare a scuola, la sua carriera scolastica finì ancor prima di cominciare. Kim fu costretto a lasciare la classe dopo solo sette minuti perché la sua influenza fu considerata negativa a causa della sua iperattività. A quel tempo, venne suggerito che Kim si sarebbe giovato di una lobotomia – una procedura che era considerata all’epoca una terapia appropriata. Fortunatamente, a causa delle alterne vicende della lobotomia che veniva prima osannata e poi completamente screditata, i genitori di Kim decisero su due piedi di rifiutare questa pratica e di educarlo a casa. Sebbene la reale conoscenza di Kim si espandesse a ritmo formidabile, altre aree della vita di Kim non progredivano altrettanto. Kim era molto timi-
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do, isolato e introverso e non era in grado di vestirsi o di lavarsi da solo. Il primo cenno che Kim fosse in grado di interagire con persone diverse dai familiari più stretti avvenne un Natale quando aveva 12 anni. Era tradizione della famiglia Peek radunarsi a casa della nonna e recitare storie e canti di Natale. Quell’anno, Kim si propose volontario per recitare l’intera storia di Natale di fronte a tutti i parenti. Principalmente educato in casa, con l’aiuto aggiuntivo di poche ore di insegnamento formale a settimana, Kim raggiunse i requisiti per completare l’istruzione secondaria superiore all’età di 14 anni.
“Kimputer” Kim continuò ad essere affamato di nozioni (acquisendo una formidabile conoscenza fattuale), rimanendo nascosto ore e ore nella sua stanza, e aggiungendo fatti su fatti alla sua memoria fenomenale, senza dimenticare alcun dettaglio di ciò che apprendeva. Una delle attività preferite di Kim, a cui si dedicava abitualmente, era visitare la biblioteca pubblica di Salt Lake City nello Stato dello Utah, dove trascorreva tantissimo tempo. Di solito tirava giù dagli scaffali diverse opere da consultazione ed elenchi telefonici e li disseminava sulla scrivania. Portava con sé un blocco notes, dove aveva annotato il punto esatto in cui si era interrotto la volta precedente e che gli permetteva di riprendere proprio da lì. Era in grado di leggere ad una velocità sorprendente, sfogliava le pagine così velocemente, che un ignaro osservatore poteva pensare che non stesse veramente leggendo il contenuto del libro. Poteva leggere la pagina sinistra con l’occhio sinistro e la pagina destra con l’occhio destro, anche se solitamente non lo faceva. Era in grado di leggere due pagine in circa 15 secondi e una volta lesse il libro di Tom Clancy, La grande fuga dell’Ottobre Rosso, in 85 minuti. In una tipica visita alla biblioteca Kim poteva leggere otto o nove libri, ed era in grado di ricordare il 98% di quello che aveva letto, decisamente molto di più della maggior parte delle persone. Ad esempio, quattro mesi dopo aver letto il romanzo di Tom Clancy, era ancora in grado di ricordare il nome dell’operatore radio russo. Una volta che un libro era stato letto, Kim lo riponeva sottosopra sullo scaffale e questo per lui era un segnale che indicava che il libro era stato memorizzato nel suo “hard disk”. I suoi amici in modo affettuoso l’avevano soprannominato “Kimputer” per la sua prodigiosa capacità di memoria, ma la differenza principale tra lui e un computer era che Kim non sembrava avere limiti di memoria, né tanto meno un tasto per cancellare, inoltre sembrava immagazzinare informazioni per il gusto di farlo. Alla fine di ogni visita alla biblioteca, dopo aveva letto un elenco telefonico, era in grado di ricordare il nome, l’indirizzo, la città, il codice di avviamento postale e il numero telefonico di ogni persona segnata nell’elenco. Infatti, Kim poteva ricordare tutti i codici di avviamento postale degli Stati Uniti. Fran Peek descrisse il sistema di immagazzinamento mentale del figlio come un “internet indipendente”. Ciononostante, Kim non era molto bravo con il linguaggio metaforico, tendeva a prendere le cose alla lettera e pertanto aveva difficoltà con me-
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tafore e proverbi. Aveva anche difficoltà ad eseguire compiti che richiedevano creatività e non era neppure molto bravo a risolvere problemi matematici. Un incidente esemplifica quanto potesse prendere letteralmente ciò che leggeva o udiva: interrogato da un professore sul discorso pronunciato da Abramo Lincoln a Gettysburg2 (in inglese: Gettysburg Address), Kim, senza rendersi conto della comicità della sua risposta, iniziò: “Will’s House, 227 North West Front Street, ma alloggiò lì solo una notte prima di pronunciare il suo discorso il giorno dopo”. Il suo forte era una memoria prodigiosa, ma sarebbe sbagliato classificare Kim come un semplice registratore, era infatti in grado di comprendere la maggior parte del materiale che memorizzava, un’abilità non sempre evidente negli altri savant. Negli ultimi anni, Kim aveva iniziato a leggere anche la narrativa dopo aver realizzato quanto le persone si divertivano a leggere certi romanzi e questo fa capire quanto la sua capacità di leggere non era un mero sfoggio di una competenza, ma puro divertimento. Kim aveva anche altre notevoli abilità: era, ad esempio, in grado di leggere la pagina di un libro capovolto o girato di traverso, poteva leggere anche specularmente senza eccessiva difficoltà, trovare legami e fare delle associazioni su parole e concetti apparentemente non connessi tra loro. Un’idea poteva suscitare innumerevoli altri fatti che Kim era in grado di ricordare e di legare tra loro. Sfortunatamente non era sempre facile per gli altri capire queste connessioni, pertanto a volte i suoi processi di pensiero potevano sembrare confusi e incomprensibili, quando però questo avveniva, era possibile seguire a ritroso il suo processo di pensiero e vedere come il ragazzo era riuscito a legare un pensiero all’altro. Sembra che le sue idee turbinassero troppo velocemente nel suo cervello al punto da rendere impossibile alle altre persone tenere il passo. Kim aveva sempre avuto un interesse per la musica classica. Era in grado di ricordare ogni brano musicale ascoltato e dire anche quando e dove era stato composto ed eseguito. Conosceva il nome del compositore e la sua biografia, possedeva il cosiddetto orecchio assoluto ed era in grado di canticchiare a bocca chiusa o di cantare un brano dopo averlo sentito una sola volta. Un’altra area delle sue abilità savant venne fuori nel 2002, quando conobbe April Geenan, un professore di musica alla University of Utah, che gli insegnò a suonare il pianoforte. Grazie al suo orecchio assoluto e ad una conoscenza enciclopedica della musica, Kim gradualmente migliorò la propria destrezza manuale al punto che il professor Geenan lo paragonò a Mozart! Sebbene Kim avesse delle abilità straordinarie, trovava difficile affrontare in modo più consono semplici attività quotidiane. Aveva bisogno dell’aiuto di suo padre per
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Nel testo inglese vi è un gioco di parole intraducibili sul discorso del Presidente Abramo Lincoln. Gettysburg Address è il nome del discorso (probabilmente il discorso più famoso nella storia degli Stati Uniti) che Lincoln tenne il 9 novembre del 1863 al Soldier’s National Cemetery a Gettysburg, Pennsylvania dopo che l’esercito dell’Unione sconfisse i Confederati nella decisiva battaglia di Gettysburg. Tradotto letteralmente significa però anche “Indirizzo di Gettysburg”. Kim risponde come se il professore gli avesse chiesto l’indirizzo di casa di Lincoln, address infatti in inglese vuol dire indirizzo. Sembra che Lincoln scrisse il suo storico discorso proprio a Will’s House (NdT).
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radersi, lavarsi i denti e vestirsi a causa della sua scarsa coordinazione motoria, probabilmente dovuta al danno al cervelletto. Il padre di Kim mostrava una straordinaria determinazione e pazienza con il figlio sostenendo che “condividevano la stessa ombra”. Kim aveva anche momenti in cui sembrava “perdersi”, nei quali appariva molto arrabbiato e agitato e che lui stesso definiva “partenze improvvise”. Un cambiamento improvviso di tempo, da cui il titolo “Rain Man” del film, o una notizia sconvolgente erano avvenimenti in grado di agitarlo. Questi scoppi emozionali sembrarono attenuarsi dopo l’uscita nelle sale del film Rain Man, che ebbe effetti molto positivi su Kim.
Rain Man e la telefonata di Hollywood Nel 1984, uno sceneggiatore di Hollywood di nome Barry Morrow accettò un invito dal Comitato dell’Associazione Nazionale per Cittadini con Ritardo, di cui Fran Peek era Presidente. Fu così che Morrow conobbe Kim. Dopo poche ore di colloquio con Kim, avendone scoperto la straordinaria memoria, Morrow dichiarò che avrebbe scritto una sceneggiatura liberamente tratta dalle abilità di Kim. Due anni più tardi i Peek ricevettero una telefonata da Morrow che li informava che il copione era stato venduto alla United Artists e che il film si sarebbe chiamato Rain Man. I film di Hollywood non vengono girati immediatamente, ma finalmente Kim e Fran seppero che Dustin Hoffman avrebbe interpretato il ruolo e che Hoffman, per calarsi meglio nella parte voleva incontrare il vero Rain Man. Questo richiese un’impegnativa, ma eccitante gita a Hollywood, dove Fran e Kim passarono del tempo con Barry Morrow e si godettero il soggiorno al Century Plaza Hotel di Beverly Hills. Entrando nell’atrio, Kim annunciò al concierge, “Rain Man è qui!”. Passarono un po’ di tempo con le persone che lavoravano al film ed ebbero un incontro con Dustin Hoffman. Al primo incontro con Hoffman, Kim si inclinò in avanti fino a che i loro nasi non si toccarono e disse, “Dustin Hoffman, da adesso in poi noi saremo come un’unica persona!” Hoffman trovò Kim attraente e carismatico e si divertì durante il loro incontro. Kim gli diede una t-shirt con stampata la sua faccia, che Dustin indossò immediatamente. Per circa un’ora Kim mostrò a Hoffman alcuni dei suoi manierismi, che Hoffman provò ad imitare come meglio poté. Guardando Hoffman nel film, è evidente che usò molti di essi nella sua interpretazione di Kim. Quando fu il momento di andarsene, Hoffman abbracciò Kim e gli disse, “Io posso essere la stella, ma tu sei il firmamento.” Hoffman parlò a Fran Peek e gli disse che Kim era una persona così speciale che “doveva essere condivisa con il mondo.” Di certo il film ebbe un eclatante successo ed ottenne consensi sia dalla critica che dal pubblico. Hoffman vinse l’Oscar come miglior attore e il film ottenne anche numerosi altri premi come migliore fotografia, miglior regista e migliore sceneggiatura. La notte degli Oscar, Hoffman iniziò il suo discorso così: “Io vorrei ringraziare Kim Peek per il suo aiuto nel rendere Rain Man reale”. Kim e suo padre erano tra il pubblico e Kim non sembrava più il timido e introverso ragazzo di un tempo, bensì sembrava gradire l’attenzione dei media e la luce dei riflettori.
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Il film Rain Man ebbe degli effetti sorprendentemente benefici sul ragazzo. Kim stesso dichiarò che Rain Man aveva cambiato la sua vita, e in parte come reazione alla risposta del pubblico, Kim e suo padre iniziarono a contemplare la possibilità che Kim facesse delle apparizioni in pubblico nel tentativo di educare il pubblico e di promuovere un’immagine positiva della disabilità. Sebbene la maggior parte della sua famiglia fosse contraria all’idea per paura di trasformare Kim in un fenomeno da baraccone, dopo attenta considerazione, Kim e suo padre decisero che sarebbe stata una buona idea incontrare il pubblico e diventare ambasciatore delle persone con bisogni speciali. Gradualmente Kim iniziò ad apparire in pubblico e a tenere discorsi, conferenze, seminari e workshop, che divennero molto popolari e di successo assicurandogli anche dei consistenti guadagni. Di solito il pubblico era troppo educato per provare la capacità di memoria di Kim e vedere quanti fatti fosse in grado di memorizzare, e suo padre, sempre presente a questi eventi, lo guidava assicurandosi che nessun problema sorgesse. Quello che una volta era l’introverso Kim incontrò ben oltre due milioni di persone durante le sue apparizioni pubbliche: divenne l’esempio vivente che le persone con disturbi dello sviluppo sono in grado di fare notevoli progressi. Attraverso le apparizioni pubbliche, Kim diventò più abile nell’interazione con gli altri sviluppando migliori abilità sociali.
Radiografie cerebrali Kim fu sottoposto ad una radiografia cerebrale quando aveva 32 anni, l’esame mostrò che il suo cervello aveva un massiccio emisfero cerebrale e che i tessuti e le varie aree sembravano fuse insieme. Tipicamente, le persone hanno due emisferi separati e connessi tra loro da un fascio di fibre chiamato corpo calloso. Nel caso di Kim il corpo calloso era inesistente e quindi gli emisferi erano fusi in una solida massa di tessuto cerebrale. Ulteriori lastre confermarono le scoperte iniziali e mostrarono anche che il lato destro del suo cervelletto era suddiviso in circa otto parti. Tale danno si era probabilmente generato nel momento in cui la protuberanza della parte posteriore della testa si era ritratta al suo interno. Il cervelletto è di solito associato con l’attività motoria, ed il danno a questa struttura era probabilmente la causa delle molte difficoltà di movimento di Kim. Esistono casi di persone con agenesia del corpo calloso che non presentano alcuna anomalia e analogamente, vi sono persone che hanno subito un intervento chirurgico di rescissione del corpo calloso, ad esempio allo scopo di ridurre gli attacchi epilettici impedendone la generalizzazione ai due emisferi (questa operazione rilega infatti le crisi in un solo emisfero), che funzionano altrettanto bene con due emisferi indipendenti tra loro. Queste persone come Kim, che era nato senza il corpo calloso, sembrano funzionare con un unico emisfero gigante. Tuttavia rimane ancora poco chiaro quale sia l’esatta funzione del corpo calloso, tant’è che alcuni neurologi suggeriscono che le uniche due funzioni del corpo calloso di cui possiamo essere certi siano diffondere le crisi epilettiche e tenere insieme il cervello! [2]
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Anche nell’emisfero sinistro di Kim erano presenti anomalie strutturali. Una teoria, che è stata proposta per spiegare la presenza di queste anomalie, suggerisce un danno causato da un eccesso di testosterone. Questa teoria spiegherebbe anche il perché nei maschi, i disturbi savant, l’autismo e la dislessia siano più diffusi rispetto alle femmine: i feti maschili hanno in circolo più testosterone, sostanza tossica per lo sviluppo dei tessuti cerebrali e l’emisfero sinistro si sviluppa più lentamente del destro, restando esposto per un periodo più lungo al testosterone e subendo di conseguenza più danni. Nel caso del cervello di Kim ci si aspetta qualcosa di extra e non di deficitario in grado di spiegare i suoi talenti, invece il suo cervello, così come appariva dalle radiografie, era chiaramente danneggiato. Poiché l’emisfero sinistro presentava delle lesioni, si può immaginare che l’emisfero destro non subisse la dominanza del sinistro e che una forma di disinibizione lo lasciasse libero di agire al posto del sinistro. Il danno all’emisfero sinistro può anche aver incoraggiato un processo di compensazione del deficit da parte dell’emisfero destro, in grado di spiegare le speciali abilità di Kim. Dopo tutto, è noto che alcuni non vedenti sviluppano un udito migliore proprio per compensare la loro mancanza di vista. È anche interessante riflettere se le abilità di Kim possano essere presenti in tutti noi, ma soppresse dal pieno funzionamento di entrambi gli emisferi e in particolare dell’emisfero sinistro. La particolarità di Kim non è tanto che egli fosse in grado di immagazzinare così tante informazioni, data la nostra enorme capacità cerebrale, questo è pienamente fattibile, bensì che egli avesse un così facile accesso ad esse.
Savant I cosiddetti savant presentano una condizione rara dove una o più abilità cognitive risultano assolutamente brillanti e in netto contrasto con il funzionamento generale e le limitazioni globali. Sebbene questo disturbo sia spesso associato con l’autismo, non sempre è così: solo il 10% di individui con autismo possiedono delle abilità straordinarie del tipo savant e solo la metà dei savant sono autistici o affetti da altre disabilità. Comunque in uno studio più recente Howlin et al. [3] hanno trovato che il 28% degli individui con autismo mostrano alcune abilità di tipo savant e riconoscono che persino questa cifra possa essere una lieve sottostima. Darold Treffert [4] ha suggerito che una caratteristica condivisa da quasi tutti i savant sia quella di possedere una memoria prodigiosa. Strettamente parlando, Kim non era semplicemente un savant, ma un mega savant presentando abilità speciali in 15 differenti aree – che includevano la storia, Shakespeare, la musica classica, la geografia, gli sport, il cinema, gli attori, la letteratura, la Bibbia e la storia ecclesiastica. Si stima che Kim abbia letto 12.000 libri. Kim può essere anche classificato come un savant prodigioso, il cui livello di abilità in un campo lo qualifica come un prodigio o come uno con un talento eccezionale. La più comune abilità dei savant riguarda la straordinarietà della memoria, ma sono state registrate anche eccezionali abilità artistiche, come nel caso dell’artista bri-
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tannico Stephen Wiltshire3 o nel caso del talento musicale del musicista americano Tony deBlois4. Il termine “Idiot savant”, idiota sapiente, fu coniato la prima volta nel 1887 da John Langdon Down, più famoso per aver coniato anche l’eponimo della Sindrome di Down. Il termine “idiot” fu adottato nei primi del Novecento dagli scienziati e dai medici che descrissero una persona con un punteggio di QI al di sotto di 25 (in media la popolazione ha un QI di 100). L’uso di tale termine scientifico nella nomenclatura specialistica è stato oggi abbandonato a causa del suo uso offensivo nel linguaggio quotidiano. D’altronde il termine era inappropriato per descrivere i savant: i savant valutati in questi ultimi anni sono risultati avere sempre un QI al di sopra di 40, ed alcuni savant sono diventati famosi per avere un QI ben al di sopra della media. Riconoscendo come il ritardo mentale non sia un prerequisito dei Savant, il termine “Savant”, o “persona sapiente”, è stato scelto come voce derivata dal francese savoir, “sapere”. Molto deve essere ancora scoperto sui savant, e non vi è una teoria unica in grado di spiegare le cosiddette “abilità e malattie” mostrate da molti savant. Un’interpretazione suggerisce che i savant focalizzino le loro abilità cognitive sui dettagli e questo favorirebbe la loro memoria di tipo-savant; un’altra suggerisce che possiedano un’accresciuta percezione e che possano quindi accedere ad informazioni che normalmente sono scarsamente elaborate dal cervello e che individui normali non sembrano consapevoli di possedere. Un’altra teoria suggerisce che la presenza di una lesione all’emisfero sinistro del cervello possa dar luogo a una sovra-compensazione da parte dell’emisfero destro. Le abilità possedute dalla maggior parte dei savant tendono ad essere associate all’emisfero destro, mentre quelle mancanti all’emisfero sinistro. Esami neuroradiologici del cervello sembrano andare a sostegno della presenza di un danno all’emisfero sinistro in individui savant. Ulteriori evidenze a tal proposito provengono da individui che hanno sviluppato da adulti abilità di tipo-savant, la cosiddetta “Sindrome savant acquisita”, in seguito ad un danno all’emisfero sinistro o più specificatamente al lobo temporale anteriore sinistro. Ci sono stati anche casi in cui persone anziane affette da demenza fronto-temporale mostrino abilità di tipo-savant, come anche esempi isolati di persone con una memoria eccezionale sviluppatasi in seguito a stimolazione del cervello durante interventi di neurochirurgia. Esempi come questi suggeriscono che alcune abilità di tipo-savant possano essere dormienti in tutti noi. Non è chiaro perché non possiamo usare o non usiamo tali abilità, ma un suggerimento è che la memoria procedurale o meccanica (simboleggiata dalle memorie di tipo-savant) è soffocata dal più ampio e racchiuso circuito di conoscenza semantica che porta ad un maggior successo nella vita quotidiana. Ricerche future lasciano aperta l’interessante possibilità di usare la stimolazione magnetica transcranica (TMS) per inibire funzioni di aree specifiche cerebrali e per verificare se altre aree del cervello possano compensare e produrre diverse abilità cognitive. Le abilità di tipo-savant tendono ad essere ristrette a cinque aree ge-
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Per maggiori informazioni www.stephenwiltshire.co.uk/art_prints.aspx?page=9 Maggiori informazioni su Toni deBlois sono disponibili sul sito www.tonydeblois.com/
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nerali: musica, arte, calcolo matematico, meccanica (ad esempio riparazione di macchine) e abilità spaziali (ad esempio lettura di mappe e memorizzazione di percorsi5). Il calcolo del calendario, raro nella popolazione generale, sembra un’abilità comune nei savant, come dimostrato da Kim, anche se le ragioni rimangono sconosciute e Kim stesso sembrava farlo automaticamente senza alcuna idea del come! Anche le abilità musicali, incluso l’orecchio assoluto, sembrano essere relativamente comuni tra i savant, dono in effetti presente sia in Kim Peek che in Stephen Wiltshire. Altri savant hanno abilità linguistiche speciali o una sensibilità straordinaria agli odori o al tatto, e altri ancora sono abili nello stimare con precisione il trascorrere del tempo. Lavorare con i savant ha indotto gli psicologi a chiedersi se un danno cerebrale possa condurre allo sviluppo di strategie compensatorie o permettere alle abilità latenti di emergere e se tali abilità speciali non siano realmente dormienti in tutti noi. Quesiti tutt’ora irrisolti.
Il futuro? In una giornata tipica, Kim si alzava alle 5 del mattino e trascorreva circa un’ora a leggere il giornale, controllava la sua mail, e nel primo pomeriggio gironzolava in centro per andare a visitare la sezione “Libri da consultazione” della Biblioteca di Salt Lake City, dove trascorreva il tempo intento a memorizzare fatti su fatti. Dopo l’uscita del film Rain Man e per il resto della sua vita ha continuato anche il suo ruolo di portavoce delle persone con bisogni speciali, ed è stato fonte di ispirazione per tutti coloro che l’hanno incontrato. Suo padre mostrò nei suoi confronti un amore e una devozione notevoli, un amore che qualsiasi padre dovrebbe sperare di essere in grado di donare, anche se inevitabilmente deve aver passato momenti difficili da sopportare. Fu Kim stesso a dire che suo padre aveva la pazienza di un santo. Kim Peek è stato di ispirazione per tutti noi, un mix straordinario di disabilità e genialità, che neurologi e psicologi tentano ancora oggi di interpretare: potrebbe succedere che un giorno i savant ci diano la chiave per sbloccare il vero potenziale presente nel cervello di noi tutti. Kim finiva molte delle sue apparizioni in pubblico dicendo: “Imparare a riconoscere e a rispettare le differenze degli altri – trattarli come tu vorresti essere trattato per avere un mondo migliore nel quale vivere – non devi avere un handicap per essere diverso – ognuno è diverso.”6
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Per maggiori informazioni visitate il sito www.wisconsinmedicalsociety.org/savantsyndrome/ Citazione dal video: Verklightens Rain Man, in lingua inglese all’infuori del documentario svedese di Anders S. Nilsson con i commenti di Kim e Fran Peek, dei dottori Treffert e Christensen e di Barry Morrow [5].
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Bibliografia 1. Peek F (1996) The Real Rain Man: Kim Peek. Harkness Publishing Consultants, Salt Lake City 2. Treffert DA, Christensen D (2005) Inside the mind of a savant. Scientific American, December:108-113 3. Howlin P, Goode S, Hutton J, Rutter M (2009) Savant skills in autism: psychometric approaches and parental reports. Philosophical Transactions B 364:1359-1367 4. Treffert DA (2009) The savant syndrome: an extraordinary condition. A synopsis: past, present, future. Philosophical Transactions B 364:1351-1357 5. www.wisconsinmedicalsociety.org/savant_syndrome/savant_profiles/kim_peek
Psicologia cognitiva Holly Ramona e la natura della memoria
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La famiglia Ramona viveva il sogno americano a Napa Valley, California. Il 5 settembre del 1989, Holly Ramona, diciannovenne, si recò da una terapista per trattare la sua depressione e la sua bulimia, e lì, attraverso le parole della terapista, Marche Isabella, apprese che la bulimia, talvolta, è la conseguenza di un abuso sessuale subito nell’infanzia. Durante le sedute successive, gradualmente, Holly descrisse nei dettagli i ricordi orribili dei 12 anni di abuso che ella aveva subito da suo padre, Gary Ramona. Tali rivelazioni divisero la famiglia, conducendola a un sensazionale processo, e portarono all’attenzione del pubblico il concetto di ricordi rimossi. Gli accademici e i terapisti si confrontarono duramente sulle prove a favore e contro l’esistenza di tali memorie, e ancor oggi la questione non è risolta e il dibattito è molto acceso.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Questo capitolo riporta il più controverso dei casi esaminati in questo libro. I protagonisti della disputa sull’esistenza o meno di ricordi rimossi o dissociati hanno ricevuto lettere minatorie, alcune persino con minacce di morte. Gli accademici, che hanno messo in discussione l’esistenza di tali ricordi, sono stati accusati di proteggere i pedofili, mentre quelli che credevano nella loro esistenza sono stati accusati di sfruttare delle persone vulnerabili, dividendo famiglie e, in casi estremi, aiutando a mettere in prigione genitori innocenti. È sufficiente dire che la ricerca ha evidenziato chiaramente che tutte le memorie possono essere fallibili e possono essere alterate da esperienze passate, anche se ciò non significa che tutti i ricordi siano fallaci. A partire da tali considerazioni, con ogni probabilità anche questo capitolo può essere soggetto a possibili distorsioni.
La famiglia “perfetta” e il sogno americano La famiglia Ramona, composta da Gary, dalla moglie Stephanie e dalle tre figlie Holly, Kelly e Shawna, viveva a Napa Valley, California, e Gary percepiva uno stipendio a sei cifre dalla Mondavi Wine Company. Visti dall’esterno rappresentavano lo stereotipo della famiglia perfetta, ma in verità, sotto l’apparenza, si celavano forti tensioni tra Gary e sua moglie, per lo più legate a problemi di gelosia e di pulizia ossessiva che rendevano il matrimonio insopportabile. Holly era una figlia timida e tranquilla che nella prima adolescenza iniziò ad ingrassare. Nel 1988, Holly alta solo un metro e sessanta, pesava 70 kg. Una volta trasferitasi al college, Holly iniziò ad abbuffarsi e subito dopo ad assumere lassativi: soffriva di bulimia. Nell’agosto del 1989, fece la sua prima seduta con Marche Isabella, una terapista nota come esperta nel trattamento psicologico dei disturbi alimentari. Durante questa prima intervista, nel suo colloquio con Stephanie (madre di Holly), Marche dichiarò che circa nel 70% dei casi di bulimia vi erano alla base molestie sessuali. A causa di questa dichiarazione, Marche fu successivamente accusata di negligenza professionale1. Holly iniziò la terapia, riferendo flashback o “ricordi” di suo padre che abusava di lei. Partecipò a sedute di terapia di gruppo e quando chiese a Marche di verificare se questi flashback potevano essere dei veri ricordi, la terapista suggerì di usare l’amytal sodium, noto come il “farmaco della verità”. Stephanie, madre di Holly, divenuta consapevole delle accuse contro suo marito non sapeva cosa fare: non aveva mai visto Gary toccare le figlie in quel modo e sapeva che affrontarlo significava mettere fine al loro sogno – la famiglia “felice”, la casa lussuosa, lo stipendio di 400.000 dollari che Gary guadagnava – e mettere fine al matrimonio. Nonostante non ci fosse alcuna prova valida, Stephanie credeva ad Holly. Fu consigliata di non rilasciare dichiarazioni immediate per non apparire in collusione con Gary, radunò le sue figlie e le informò delle dichiarazioni di Holly ed iniziò immediatamente le pratiche
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Una delle fonti migliori è l’eccellente libro di M. Johnston [1].
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per il divorzio. Le figlie più giovani, interrogate, negarono categoricamente che il padre avesse fatto nei loro confronti avance sconvenienti. Alla ricerca di prove valide dell’abuso fu fissata una visita ginecologica per Holly: non furono trovate prove definitive per poter stabilire che il suo imene fosse stato rotto da penetrazione, l’esame mostrò una piccola lacerazione che poteva essere stata causata da diversi fattori come le mestruazioni, l’andare in bicicletta o l’andare a cavallo. Holly volle parlare con suo padre Gary a proposito dell’abuso, sebbene a quel tempo Gary non fosse consapevole di essere stato accusato di abusi sessuali nei confronti della figlia. Infatti, Gary chiese se Holly era stata molestata da qualcuno e inizialmente sembrò che egli pensasse che le accuse potessero essere rivolte a un loro vicino adolescente. L’intervista effettuata sotto amytal sodico avvenne il giorno prima di quello che Holly aveva fissato per confrontarsi con suo padre, e sembrò confermare a Holly e a Marche Isabella che Gary Ramona avesse stuprato sua figlia. Sebbene fosse preoccupata di poter aver mentito sotto l’influenza del farmaco, Marche la rassicurò sul fatto che questo era altamente improbabile. Il giorno dopo, affrontò il padre e gli disse che l’aveva stuprata. Gary rispose all’accusa con incredulità, era sbalordito dal fatto che qualcuno potesse credere alla versione dei fatti fornita da Holly e non a quella fornita da lui. Sua moglie Stephanie non gli chiese mai se si trattasse della verità e da quel momento in poi la vita di Gary andò in pezzi. Stephanie e le figlie più giovani si schierarono dalla parte di Holly e tentarono di promuovere le accuse di molestia sessuale contro Gary, ma senza prove sufficienti del crimine Gary non poteva essere imputato. La vita di Gary era in completo subbuglio, sospettava che i ricordi di Holly fossero stati “impiantati” dalla terapista di Holly, Isabella Marche, al fine di avvalorare la sua teoria sulle origini della bulimia e della depressione di Holly. Nonostante provassero a tenere nascosti i fatti, gli amici iniziarono a sospettare quale verità si celasse dietro la rottura della famiglia e inevitabilmente non rimasero che pochi amici intimi.
Il processo La famiglia era ormai divisa e Gary viveva separato dalla moglie e dalle figlie. Il divorzio fu concesso e Gary si trovò presto senza lavoro, avendo la Moldavi Wine Company deciso di non aver più bisogno di lui; perse la sua posizione sociale, così come amici e soci che si schierarono o con lui o con Stephanie e le sue figlie. La fortuna che lui e la sua famiglia avevano costruito lavorando duramente fu presto perduta. Gary decise di intentare causa alla terapista di Holly per negligenza professionale e per danni, tentando anche in questo modo di ripulire la sua reputazione. Il processo fece molto scalpore, e ad Holly e alla sua terapista Marche Isabella fu consentito di fornire delle prove contro Gary (possibilità precedentemente negata per l’inconsistenza delle prove). Alcuni accademici vennero a fornire le loro testimonianze in qualità di esperti, tra questi un professore di psicologia, Elizabeth Loftus, dell’Università di Washington, che sosteneva la tesi della natura ricostrutti-
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va della memoria, e uno psichiatra esperto di abusi infantili Lenore Terr, quest’ultimo si presentò per testimoniare a favore di Holly. Durante il processo, Holly raccontò la sua versione dell’abuso sessuale: riportò sogni di serpenti dentro di lei, riferì del suo rifiuto di fare visite ginecologiche, del suo odio per Tom Cruise, a causa dei “denti canini appuntiti” come quelli di suo padre. Spiegò che non poteva mangiare una banana intera, doveva essere tagliata a fette, raccontò la propria avversione verso il formaggio fuso e la maionese che le ricordavano il sesso orale con suo padre. Riportò anche ricordi più dettagliati degli stupri ripetuti subiti da parte di suo padre. La terapista Marche Isabella sostenne che questi erano tutti i classici sintomi di un abuso sessuale subito nell’infanzia. Non tutti erano in accordo con quanto sostenuto dalla terapista, imputandole un’incomprensibile e acritica fiducia nei ricordi rimossi di Holly. Per arrivare a dare un giudizio sulla negligenza professionale, la giuria doveva ascoltare i testimoni, con nessuna prova valida a sostegno dell’abuso, basandosi esclusivamente sul peso della “preponderanza della prova”. Sebbene alcuni dei giurati avessero il dubbio che “qualcosa fosse successo” tra Gary e Holly, la decisione raggiunta fu che non vi erano prove sufficienti di abuso sessuale, e quindi per poter scagionare Marche Isabella dall’accusa di negligenza professionale. La giuria dichiarò che Gary doveva essere stato un padre incapace, ma non uno che aveva abusato della figlia, almeno, secondo le dichiarazioni dei giurati, in oltre 12 anni di orribili e violenti abusi fisici sarebbe dovuto rimanere qualche segno in più che non una parziale lacerazione dell’imene. La giuria fu forzata ad assegnare la proporzione di responsabilità al danno sofferto da Gary: il 40% della colpa fu ascritto a Marche Isabella, la terapista, il 5% a Gary stesso e il 40% ad altre persone coinvolte. Tra queste, oltre una piccola percentuale di responsabilità assegnata all’ospedale e a uno dei medici che avevano visitato Holly, veniva menzionata Stephanie e altre sue amiche che, spettegolando, avevano condannato pubblicamente Gary come pedofilo, in assenza di prove. La giuria assegnò un premio di 500.000 dollari a Gary per i danni subiti, sebbene il suo avvocato ne avesse richiesto 8 milioni. Il processo divenne uno spartiacque per la terapia sul recupero dei ricordi e un avvertimento sull’utilizzo di tecniche controverse. Stephanie si ritenne oltraggiata e urlò che Gary non avrebbe ricevuto un penny per aver stuprato sua figlia e da quel giorno Stephanie e Holly furono irremovibili sul fatto che l’abuso era avvenuto. Holly Ramona intentò una causa civile contro suo padre alla Corte Suprema di Los Angeles, ma successivamente la Corte di Appello dichiarò il caso archiviato; nel 1977 Holly decise nuovamente di appellarsi contro tale decisione, proseguendo la sua battaglia legale contro il padre in prima persona, sostenendo che, qualora avesse perso quest’ultimo processo, sarebbe ricorsa a legali che già avevano sostenuto altre vittime di abuso sessuale. A titolo di aggiornamento: la famiglia restò divisa, sebbene diversi anni dopo una delle figlie di Gary, Shawna, incontrò il padre, invitandolo a prendere un caffè e a scambiare due chiacchiere, un piccolo segno di una possibile futura riconciliazione.
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La natura delle memorie “rimosse” Il caso Ramona mise in risalto il problema e lo stato dell’arte della sindrome delle memorie rimosse o recuperate. Ovviamente, l’idea della rimozione non è nuova: Freud [2] credeva che alcune dimenticanze facessero parte di un processo inconscio ma motivato, ritenendo che noi dimentichiamo perché alcuni ricordi sono psicologicamente troppo dolorosi per restare ad un livello di consapevolezza. Tali ricordi non sono “persi”, ma rimangono inaccessibili nel nostro inconscio. La rimozione è pertanto un “meccanismo di difesa” per proteggere la nostra mente conscia. Il termine “rimozione” può descrivere ricordi che sono stati dissociati dalla consapevolezza, così come quelli che sono stati rimossi senza dissociazione. I ricordi rimossi possono talvolta essere recuperati anche diversi anni dopo, infatti una memoria codificata può essere evocata da stimoli ambientali, come un odore particolare, un gusto o semplicemente da un evento simile. Come fu presunto nel caso Ramona, i ricordi rimossi possono essere recuperati anche grazie ad un suggerimento durante la psicoterapia, e ciò non presuppone necessariamente la loro irrealtà. Studi sperimentali sulle memorie rimosse sono quasi impossibili da condurre. Levinger e Clark (1961) condussero uno studio che fornì una prova sperimentale della teoria della rimozione di Freud: ai partecipanti veniva data una lista di parole dal significato emotivamente negativo (ad esempio, “odio”, “rabbia”, “paura”) e parole neutre (ad esempio, “finestra”, “mucca”, “albero”). Veniva quindi chiesto loro di dire esattamente ciò che la comparsa di ogni parola richiamava in mente, si tratta di un classico compito di associazione libera di parole. Durante la prova, furono misurate le risposte cutanee galvaniche (GSR: Galvanic Skin Responses) dei partecipanti. Tale tecnica consente di misurare la risposta emozionale, rilevando le minuscole tracce di sudore sulle dita. Inoltre, ai partecipanti era chiesto di ripetere le associazioni fatte precedentemente alla comparsa di una determinata parola (cue). Levinger e Clark trovarono che i partecipanti impiegavano più tempo a pensare delle associazioni per le parole emozionali rispetto al tempo necessario per le parole neutre e che le misure rilevate con GSR erano più alte per le parole emozionali che non per quelle neutre. Anche il richiamo delle associazioni per le parole emotive erano più povere di quelle neutrali. Levinger e Clark conclusero che le parole emozionali erano più ansiogene e pertanto la formazione di associazioni e il richiamo di queste parole era più difficile proprio in conseguenza della rimozione. Questo studio è accettato come una delle migliori dimostrazioni sperimentali della rimozione. Bisogna tener conto che studi sperimentali sulla rimozione sono difficili da condurre, in quanto richiederebbero l’esposizione ad un’esperienza ansiogena da parte dei partecipanti all’esperimento e questo è ovviamente immorale. Gli studi, comunque esistenti, hanno evidenziato che un’arousal (attivazione) negativa compromette la memoria a breve termine (MBT), ma aiuta di fatto quella a lungo termine (MLT). Eysenck e Wilson [3] hanno al contrario sostenuto che la rimozione non può spiegare l’effetto di potenziamento della MLT. Inoltre, un problema metodologico dell’esperimento di Levinger e Clark (1961) è attribuibile al fatto che le parole emotivamente pregnanti sono
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meno facili da visualizzare e pertanto è più difficile formare delle associazioni con esse. Se si considera valida questo obiezione, è possibile che il risultato dello studio non abbia niente a che vedere con la rimozione! Bressel van der Kolk, esperto riconosciuto a livello internazionale nel campo dei traumi psicologici, fondatore e direttore medico del Trauma Center nel Bookline, nel Massachusetts, sostiene la tesi dei ricordi rimossi. Nel 1995 scrisse che i ricordi traumatici a contenuto emotivo permanevano più a lungo ed erano più accurati rispetto a quelli ordinari e che potevano essere banditi attraverso la dissociazione, per poi riemergere solo successivamente come ricordi consapevoli attendibili. Applicò questa sua idea in uno studio che condusse sul disturbo da stress post-traumatico (DPTS) e sui traumi infantili nel quale 46 persone con DPTS riportarono il ricordo di memorie traumatiche, almeno inizialmente, nella forma di tracce mentali dissociate. Nel tempo, i partecipanti riportarono l’emergere graduale di ulteriori dettagli, e dei 35 individui con trauma infantile 15 (43%) avevano sofferto di un’amnesia significativa o completa del trauma subito nelle loro vite. Van der Kolk riportò che in 27 dei 35 individui veniva confermato il trauma infantile (77%) (Van der Kolk e Fisler, 1995) [4]. Le evidenze cliniche riportate dagli psicoterapeuti sostenevano tali risultati. Ad esempio, Richard Kluft, direttore dei disturbi dissociativi all’Institute of Pennsylvania Hospital, USA, affermò che oltre il 60% di pazienti che avevano riportato durante le sedute di terapia ricordi rimossi di abusi sessuali infantili erano in grado di documentare almeno un episodio dell’abuso subito. Vi sono molti resoconti aneddotici e sperimentali di rievocazioni di memorie inaccurate. Jean Piaget, uno dei più famosi psicologi dell’età evolutiva, una volta riportò il ricordo di un uomo che tentò di rapirlo all’età di due anni. Piaget ricordava di trovarsi sugli Champs-Elysées nel passeggino mentre una bambinaia badava a lui. Si ricordava della bambinaia che lottava con l’uomo, e dei graffi che aveva ricevuto durante la lotta. Il rapimento non ebbe successo e la bambinaia ricevette un orologio costoso dai genitori di Piaget in segno di gratitudine. Comunque, tredici anni dopo Piaget si sorprese quando scoprì che l’ex bambinaia aveva restituito l’orologio con una lettera indirizzata ai suoi genitori nella quale affermava di avere completamente inventato l’episodio del rapimento. Piaget si rese conto che durante la sua infanzia l’episodio del rapimento gli era stato raccontato così spesso che egli era in grado di raccontarlo come se fosse un ricordo accurato, realmente richiamato alla mente ed esperito. Tutti hanno esperienza di distorsione o inaccuratezza dei ricordi, ma la questione chiave è se intere memorie mai esistite possono essere create. Vi sono prove che alcune “memorie” sono false e create dalla suggestione o dall’ipnosi. Quattro studi di Spanos et al. [5] hanno mostrato che alcuni partecipanti erano in grado di regredire al di là della nascita fino a raccontare episodi di vite precedenti. La credibilità che i partecipanti assegnavano ai ricordi delle esperienze delle loro vite passate era influenzata dalla definizione di realtà o fantasia che l’ipnotista ne dava.
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Ricerca sperimentale Altri accademici che non credono nell’esistenza di ricordi rimossi: Elizabeth Loftus, ora illustre professore di Ecologia Sociale, Legge e Scienza Cognitiva presso l’Università della California, Irvine, ha trascorso la maggior parte della sua vita professionale studiando la natura della memoria [6]. La Loftus testimoniò che i ricordi rimossi di Holly erano il risultato di suggestione e di ricordi inaccurati. Loftus citò gli studi scientifici che aveva condotto e che mostravano come le memorie vengono ricostruite sulla base di esperienze precedenti, aspettative precedenti e suggestione. Bartlett [7] fu uno dei primi ricercatori a dimostrare che la memoria non funziona accuratamente come una macchina fotografica, piuttosto, è soggetta ad inaccuratezza e ad interpretazioni che si basano su esperienze precedenti o schemi. In altre parole, le memorie sono soggette a errori di ricostruzione. Loftus stessa era diventata famosa all’Università di Washington indagando le applicazioni pratiche della ricostruzione della memoria, in particolare l’accuratezza della testimonianza oculare (EWT, Eye-Witness Testimony). La studiosa mostrò che le memorie oculari possono essere influenzate dalle parole usate durante un interrogatorio che normalmente viene fatto alla persona che assiste ad un crimine. Identificò due tipi di domande fuorvianti che sembrano colpire l’EWT: • Domande principali: una domanda formulata in modo da rendere l’evento probabile e che influenzerà il partecipante a fornire la risposta desiderata. • Domande di “informazione del dopo-fatto”: nuove informazioni fuorvianti sono aggiunte nelle domande che vengono poste dopo che l’incidente è avvenuto e influenzano il ricordo del testimone. Loftus e Palmer condussero uno studio che esaminava l’effetto delle domande principali [8]. Ai partecipanti, studenti universitari, venivano mostrate alcune diapositive di un incidente tra due automobili. Ad alcuni veniva posta la seguente domanda: “Qual era la velocità delle due automobili al momento dello scontro?” Agli altri veniva posta la stessa domanda in cui alla parola “scontro” venivano sostituiti i verbi: “colpire”; “urtare”; “collidere”. Lo studio ha dimostrato che la velocità stimata dai partecipanti era influenzata dal tipo di verbo usato: con la parola “scontro”, la velocità media stimata era di 42 miglia all’ora, mentre se si usava “contatto” veniva stimata una velocità media di 32 miglia all’ora. Tale studio, così come altre ricerche, sembrava mostrare che i ricordi possono essere distorti dal linguaggio usato. Un altro lavoro, che dimostrò il potere delle “informazioni dopo-fatto” aggiunte, fu condotto su due gruppi di partecipanti che guardavano un filmato di una macchina che percorreva una strada di campagna [9]. Al primo gruppo veniva chiesto: “Quanto andava veloce la macchina bianca quando passava il segnale di “Stop” lungo la strada di campagna?” (si vedeva un segnale di “Stop” nel filmato). Al secondo gruppo veniva chiesto: “Quanto andava veloce la macchina bianca quando passava il fienile lungo la strada di campagna?” (non si vedeva nessun fienile, ma la domanda presupponeva che vi fosse). Una settimana più tardi il 17% del secondo gruppo riportava di aver visto un fienile, rispetto al primo gruppo. L’informazione “dopo-fatto” aveva falsamente suggerito loro che vi fosse realmente un fienile. La spie-
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gazione di questa fonte di cattiva attribuzione è che i testimoni confondono il fatto reale di per sé con un’informazione “dopo-fatto”. Resta comunque aperto il dibattito se i risultati di questi studi possano essere applicati alle memorie di vita reale e se possano essere rilevanti nei casi di ricordo di abuso infantile. Nelle ricerche presentate, i partecipanti non si aspettavano di essere deliberatamente fuorviati da ricercatori universitari e pertanto le scoperte ricostruttive possono essere attese, poiché i partecipanti credono che i ricercatori stiano dicendo la verità. Inoltre, le conseguenze di ricordi inaccurati sono minime in un setting sperimentale, se confrontate a quelle per crimini avvenuti nella vita reale, conseguentemente i partecipanti possono non essere veramente motivati a ricordare accuratamente gli eventi. Foster et al. [10] mostrarono che l’identificazione da parte dei testimoni oculari era più accurata per crimini nella vita reale che non nelle simulazioni. Infatti, vi erano prove che la memoria per gli eventi importanti non è facilmente distorta quando l’informazione è ovviamente fuorviante e che l’informazione fuorviante colpisce la testimonianza solo in modo minore, ad esempio colpisce aspetti relativamente poco importanti della ricerca (per esempio, i dettagli sul “fienile” nella ricerca menzionata prima). Possono questi risultati venire applicati a 12 anni di abuso sessuale, come nel caso di Holly Ramona? Possono eventi così traumatici essere completamente persi piuttosto che reinterpretati in modo chiaramente minore? Possono i ricordi essere così distorti al punto che una persona sia convinta che qualcosa sia accaduto quando in realtà nulla è accaduto? Data la rilevanza di tali critiche Loftus cercò di indagarle attraverso uno studio divenuto assai noto e intitolato: “Persi in un centro commerciale”.
“Persi in un centro commerciale” Loftus chiese ai suoi studenti di reclutare 24 individui di età compresa tra i 18 e i 53 anni in qualità di partecipanti alla ricerca [11]. Ad ogni partecipante veniva dato un opuscolo contenente delle brevi descrizioni di tre incidenti realmente accaduti in età infantile che erano stati precedentemente forniti da un parente del partecipante stesso. Veniva anche descritto un quarto falso incidente apparentemente avvenuto mentre il partecipante e un suo parente prossimo si trovavano a fare shopping in un centro commerciale o in un grande magazzino. Ai partecipanti veniva detto che stavano partecipando ad uno studio sui ricordi infantili, e che i ricercatori erano interessati a conoscere in che modo e perché le persone ricordano alcune cose ma non altre. Ai partecipanti veniva chiesto di completare l’opuscolo leggendo quello che i loro parenti avevano detto ai ricercatori su ogni evento, e scrivendo successivamente quello che loro ricordavano di ogni evento descritto nell’opuscolo. Se non ricordavano l’evento, veniva detto loro di scrivere quello che non ricordavano. Sette (29,2%) dei 24 soggetti “ricordavano” il falso evento, o del tutto o solo in parte. I partecipanti venivano poi intervistati a proposito dei loro ricordi una settimana dopo aver compilato il libretto. A questo punto, solo sei (25%) credevano ancora che il falso ricordo fosse vero. I partecipanti effettuarono anche una seconda intervista
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una settimana più tardi e venne detto loro che i ricercatori avevano provato a creare una falsa memoria. Ai partecipanti veniva chiesto di scegliere la falsa memoria tra quelle indicate nel libretto. Cinque persone (20,8%) sceglievano erroneamente uno degli eventi veri reputandolo falso. Le percentuali non erano di primaria importanza, ma secondo Loftus e Pickrell questo studio mostrava che la sindrome delle false memorie esisteva e che alcune persone potevano esserne colpite. Comunque, lo studio non è immune da critiche. I ricercatori si sono interrogati sulla rilevanza di questo studio nei casi di abuso sessuale infantile: vi è una notevole differenza tra un evento credibile ma falso raccontato da un parente e uno che implica un abuso sessuale da parte di un parente prossimo. Ad esempio, uno studio di Pezdek e Hodge [12] trovò che, sebbene 14 su 39 partecipanti (36%) ricordassero la falsa memoria plausibile di essersi persi in un entro commerciale, solo 4 dei partecipanti (di età compresa tra i 5-7 anni) accettavano la falsa memoria non plausibile che i loro genitori avessero fatto loro un clistere doloroso. Il lavoro di Loftus resta controverso sia per gli aspetti teorici che per quelli metodologici ed anche per il modo in cui è stato presentato in tribunale e dai media. La studiosa è nota per aver testimoniato in diversi processi famosi: Oliver North, colonnello statunitense accusato di traffico illegale di armi con l’Iran; Rodney King, un tassista vittima di un pestaggio da parte della polizia; i fratelli Menendez, accusati del barbaro assassinio dei loro genitori; Michael Jackson, il famoso cantante incolpato di molestie sessuali da un suo fan, e Ted Bundy, serial killer statunitense accusato di numerosi omicidi di giovani donne1. Testimoniare in questi processi ha messo alla prova i suoi lavori sia da un punto di vista metodologico che etico [13,14]. È sempre difficile giudicare i meriti di ogni lavoro e questo è reso ancora più difficile dalla natura dell’argomento di studio. Come ammette la stessa Loftus, in tutte le aree della scienza è importante non accettare acriticamente ogni lavoro, ma adottare un punto di vista che cerchi di raggiungere un rigoroso scrutinio scientifico. Loftus continua a lavorare nel campo della memoria e aiuta gli individui che sono stati accusati di abusi sessuali infantili in seguito a ricordi rievocati. Alle soglie del
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Oliver North è un militare statunitense famoso perché coinvolto nello scandalo Iran-Contras affair (Irangate), scandalo politico che nel 1985-1986 coinvolse alti funzionari dell’amministrazione di Ronald Reagan accusati di traffico illegale di armi con l’Iran; Rodney Glen King è un tassista afroamericano divenuto celebre per essere stato vittima, il 3 marzo 1991, di un violento pestaggio da parte di diversi agenti della polizia di Los Angeles che lo avevano fermato per eccesso di velocità. Gli agenti coinvolti testimoniarono di aver creduto che l’uomo fosse sotto l’effetto di fencicledina, una sostanza allucinogena. Questo caso portò alla ribalta il fenomeno del razzismo negli USA; Joseph Lyle ed Erik Galen Menendez il 20 agosto del 1989 massacrarono i loro genitori, inscenando una rapina. Nel dicembre del 1992 i fratelli Menendez furono arrestati e per mesi il loro legale cercò di convincere la giuria che i due avevano commesso il duplice omicidio perché per anni avevano subito abusi da parte dei genitori. Questa versione dei fatti non fu mai confermata e la giuria, tenendo conto dello stile di vita tenuto dai due fratelli negli anni successivi al delitto, ritenne che il movente fosse solo di natura economica; Theodore Robert Bundy è stato un serial killer statunitense, autore di omicidi di numerose giovani donne tra il 1974 e il 1978 (NdT).
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nuovo millennio, Loftus ricevette una lettera da moglie e marito la cui figlia aveva accusato dei membri della famiglia di abuso. Ancora una volta, i ricordi erano emersi nel corso della terapia, Loftus chiese il nome del terapista e rimase sorpresa di scoprire che era la stessa terapista coinvolta nel caso di Holly Ramona [15]. È il caso di dire che molti terapisti sono colpevoli di vedere del fumo dove non c’è il fuoco. Come l’avvocato difensore di Gary disse durante il processo: “Come Freud disse, a volte un sigaro è solo un sigaro”. L’American Psychological Association afferma che attualmente non è possibile distinguere tra un vero ricordo rimosso e uno falso senza prove avvaloranti. Il Royal College degli psichiatri in Gran Bretagna ha ufficialmente vietato ai suoi membri di usare in terapia dei metodi per recuperare ricordi rimossi di abusi sessuali infantili. La British Psychological Society [16] non è andata così lontana, ma ha raccomandato i terapisti di “evitare di essere coinvolti nella ricerca di ricordi di abusi infantili”.
Postscriptum La maggior parte degli psicologi sono d’accordo sul fatto che ogni ricordo comprende un processo di ricostruzione, e pertanto implica un certo grado di distorsione. Le persone possono credere di avere dei ricordi genuini e ciononostante essere in errore e talvolta questi ricordi errati possono avere degli effetti estremamente dannosi. Molte ricerche sostengono l’esistenza dei ricordi rimossi, mentre molte altre ritengono che questi ricordi vengano impiantati durante la terapia. Quelli che sono a favore dell’esistenza dei ricordi rimossi tendono a basarsi maggiormente sullo studio dei casi clinici, mentre quelli che sono a favore dei ricordi impiantati tendono ad enfatizzare la mancanza di prove in molti casi di ricordi rimossi riportati e l’estrema malleabilità della memoria. Le ricerche che dimostrano la possibilità di recuperare falsi ricordi sono affascinanti e le conseguenze di questi falsi ricordi sono profonde. Comunque, sarebbe una tragedia se queste ricerche ci rendessero ciechi verso casi genuini di abuso infantile. Ricordi rimossi o ricordi impiantati? Resta la possibilità che entrambi possano esistere e attualmente non abbiamo la certezza dell’esistenza né dell’uno né dell’altro.
Bibliografia 1. Johnston M (1997) Spectral Evidence: the Ramona case: incest, memory and truth on trial in Napa Valley. Houghton Mifflin, Boston 2. Freud S (1901) Psychopathology of Everyday Life. Fisher Unwin, London 3. Eysenck HJ, Wilson GD (1973) The Experimental Study of Freudian Theories. Methuen, London 4. van der Kolk BA, Fisler R (1995) Dissociation and the fragmentary nature of traumatic memories. Overview and exploratory study. J Traum Stress 8:505-525 5. Spanos N, Menary E, Gabora N et al (1991) Secondary identity enactments during hypnotic
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Psicologia sociale La ragazza che gridò aiuto: la storia di Catherine ‘Kitty’ Genovese
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Il 13 marzo del 1964 la ventottenne Catherine Genovese ritornava a casa a piedi dopo una giornata di lavoro. Non c’era nulla di insolito in questo, se non che quella fu la sua ultima passeggiata, fu infatti pugnalata e assassinata da un aggressore sconosciuto dopo essere stata violentata. Sebbene questi crimini non siano nuovi a New York, questo delitto scioccò ed ebbe ripercussioni sul mondo intero. All’orrendo crimine che durò circa mezz’ora, assistettero 38 persone e per tutto il tempo nessuno di loro chiamò la polizia. Il caso di “Kitty” Genovese (come fu chiamata dai mass-media) catalizzò le ricerche sullo studio del comportamento dei passanti e sulla loro inerzia nell’agire. Tale fenomeno è ormai noto come “Sindrome Genovese”, di cui gli psicologi ancora discutono le cause. Il Professor Stanley Milgram, docente di psicologia a New York commentò: “Il caso toccò un aspetto fondamentale della condizione umana… Se ci capitasse di aver bisogno di aiuto, chi ci sta vicino lascerà che ci facciano del male o ci presterà soccorso?”
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L’aggressione Quando, nelle prime ore del mattino, Catherine, direttrice di un bar, finì il suo lavoro, prese la sua Fiat rossa e la parcheggiò vicino al proprio appartamento. Abitava a Kew Gardens, un quartiere tranquillo dove risiedeva il ceto medio, nell’area del Queens, uno dei distretti di New York. Nel breve tratto che la separava dal portone di casa notò una figura che le veniva incontro. Lo stesso aggressore in seguito testimoniò che non appena lo vide la donna fuggì lontano da lui, avendo notato il coltello che egli teneva in mano. Catherine tentò di raggiungere la più vicina cabina di polizia che le avrebbe permesso di collegarsi immediatamente con il 112o distretto1. L’aggressore la rincorse e le saltò addosso pugnalandola diverse volte alla schiena. Catherine urlò a squarciagola: “O mio Dio! Mi pugnala! Vi prego aiutatemi! Vi prego aiutatemi!” A questo punto, molti vicini accesero le luci, Irene Frost sentì le urla chiaramente e fu in grado di vedere la lotta. Irene riportò: “Vi fu un altro urlo e la donna era a terra e gridava”. Dal settimo piano, Robert Mozer aprì la sua finestra vide il combattimento e urlò: “Ehi, lascia andare la ragazza!” L’aggressore sentì le sue grida e corse via. Al sesto piano, Marjorie e Samuel Koshkin riportarono di aver visto l’aggressore correre verso la sua macchina, ma notarono che dieci minuti dopo stava ancora vagando nei dintorni alla ricerca di una vittima. Sfortunatamente, questa non è stata la fine della tragedia. Catherine, sebbene gravemente ferita, riuscì barcollando a raggiungere il proprio condominio e crollò nell’atrio. Vide il suo aggressore ritornare, e mentre la pugnalava nuovamente gridò: “Sto morendo! Sto morendo!” Ancora una volta, molti dei suoi vicini udirono le grida. L’aggressore in seguito disse: “Tornai indietro perché sapevo di non aver finito quello che avevo iniziato a fare”. Egli la stuprò e la lasciò a morire. In tutto, la violenza durò ben 32 minuti e durante questo tempo, nessuno dei testimoni chiamò la polizia. L’aggressore quindi si precipitò verso la sua macchina e scappò via, ma pochi isolati dopo, mentre era fermo ad un semaforo rosso, notò che il guidatore di una macchina vicina si era addormentato, allora scese dalla sua macchina e svegliò il guidatore mettendolo in guardia dal pericolo di addormentarsi al volante. Un sorprendente atto di altruismo compiuto da uno che aveva ancora le mani sporche di sangue. Non si può parlare nel caso di Winston Moseley di un raptus improvviso in quanto Catherine Genovese, in fin dei conti, fu la sua terza vittima.
L’aggressore: Winston Moseley Una settimana dopo, Winston Moseley, un manovale ventinovenne, fu arrestato per l’omicidio: non aveva precedenti penali e viveva con la moglie e i due bambini nel
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Al tempo dei fatti negli USA esistevano delle cabine telefoniche che consentivano di collegarsi direttamente alla centrale di polizia più vicina (NdT).
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vicinato. Durante l’interrogatorio della polizia, confessò subito l’omicidio, dicendo di essersi sentito in preda ad un incontrollabile impulso omicida. Il processo per l’omicidio avvenne tre mesi dopo, nonostante la richiesta di riconoscimento di infermità mentale. L’11 giugno del 1964 Winston Moseley fu riconosciuto colpevole e condannato alla sedia elettrica. Grazie all’errore giudiziario commesso dal giudice, che non aveva permesso di accogliere le prove riguardo l’infermità mentale, la pena fu commutata in ergastolo. Un anno dopo Moseley tentò di evadere dalla prigione, assalì una guardia penitenziaria, rubò la sua pistola e prese cinque civili in ostaggio. Stuprò una delle donne che aveva preso in ostaggio e si arrese solo dopo mezz’ora agli agenti armati dell’FBI. Moseley è ancora oggi incarcerato nella Great Meadow State Prison di New York. In un’udienza, nell’aprile del 2008, Moseley dichiarò che la colpa del suo comportamento era da ricercare nella sua infanzia, in particolare nel padre, uomo violento e vizioso, che picchiava la moglie e che più volte aveva tentato di ucciderla. I dettagli dell’omicidio di Kitty erano orribili e provocarono una grande emozione nell’opinione pubblica. La storia, riportata da tutti i giornali, non si soffermava tanto sui particolari dell’omicidio, quanto sul fatto che di 38 testimoni che avevano assistito nessuno aveva chiamato la polizia durante l’aggressione. L’unica persona che lo fece, la chiamò quando la donna era ormai morta e solo dopo aver chiamato un amico, a Nassau County, per un consiglio. Ricevuto il consiglio di chiamare la polizia si recò da una vicina chiedendole di fare la telefonata. I poliziotti arrivarono in due minuti dalla chiamata. Successivamente spiegò che non voleva essere coinvolto. Se ogni testimone avesse chiamato la polizia al momento in cui iniziò l’aggressione, quasi certamente Catherine Genovese sarebbe ancora viva oggi. L’interrogativo ancora attuale è: perché nessuno chiamò la polizia quando videro chiaramente che una donna innocente stava per essere uccisa?
Troppi testimoni per essere d’aiuto? Subito dopo l’omicidio, molti esperti provarono a spiegare l’apatia dei testimoni e la loro riluttanza ad intervenire. Una delle interpretazioni si riferiva all’alienazione dell’individuo (“de-individuazione”) dovuta alla mancanza del senso di comunità per la città in cui si vive. Successivamente, sarebbero state riportate diverse testimonianze aberranti riguardanti il ruolo della folla nell’esortare individui che stanno tentando il suicidio a gettarsi. In più di un’occasione, quando la polizia cerca di convincere il potenziale suicida a non gettarsi, gli spettatori fischiano e gridano. Ironicamente, un teologo chiese di rimanere anonimo quando fece delle dichiarazioni sul fenomeno della depersonalizzazione nella città e questo va oltre ogni immaginazione! Comunque, la maggior parte delle spiegazioni del fenomeno erano delle mere congetture e così due professori di psicologia di New York decisero di condurre delle ricerche sul comportamento dei testimoni, iniziarono a fare ricerca in quest’area in seguito all’omicidio di Catherine Genovese. Questi ricercatori erano Bibb Latané e John Darley.
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Latané e Darley si chiesero se il motivo per il quale nessuno intervenne durante l’aggressione a Kitty Genovese fosse legato alla numerosità dei testimoni presenti sulla scena del crimine. La prima spiegazione che avanzarono riguardava il fenomeno che definirono “ignoranza pluralistica”. Suggerirono che nelle situazioni ambigue, le persone osservano e riproducono il comportamento degli altri: se gli altri intervengono, intervengono anche loro, altrimenti non intervengono (realtà sociale). In una situazione di emergenza, se tutti i testimoni sono incerti e si guardano l’un l’altro in cerca di una guida, la loro osservazione può condurli in fallo e far sì che il loro comportamento si riduca alla non azione. Forse nel caso di Kitty Genovese i testimoni guardarono negli altri appartamenti e non videro nessuno agire, questo fece sì che la situazione fosse interpretata come una non emergenza. Molto semplicemente, se nessuno accorre in aiuto, non si tratta di una reale emergenza. Per ridimensionare ciò che si è visto vengono ipotizzate spiegazioni alternative, ad esempio si può pensare di star assistendo a solo “una lite tra innamorati” o a “solo una coppia che scherza”. Una testimone, Madeleine Hartmann, una donna francese, ammise più tardi di aver male interpretato l’incidente e di non aver pensato che fosse un’emergenza. Riportò che “Così tante volte ho sentito delle grida durante la notte. Non sono mica la polizia e il mio inglese non è perfetto.” La seconda spiegazione che i due psicologi proposero è ancora una volta collegata al numero di testimoni presenti sulla scena del crimine. La presenza di altre persone può influenzare il processo di presa delle decisioni, determinando la cosiddetta “diffusione della responsabilità” per cui ogni persona si sente meno responsabile di dover affrontare l’emergenza, nella convinzione che qualcun altro può intervenire. Dato il gran numero di testimoni nel caso Genovese, questi avevano l’impressione che vi fossero molti altri a guardare lo svolgersi dell’atto criminoso, visto che c’erano molte luci accese e persone alle finestre, pensando erroneamente quindi che altre persone si sarebbero assunte la responsabilità. In ogni caso se nessuno aveva prestato aiuto, la colpa non poteva essere completamente tua, visto che nessun altro era intervenuto. Si può sempre dire: “Beh, non è colpa mia. Nessun altro è intervenuto!” Ogni testimone penserebbe, quindi, che chiamerà un altro testimone la polizia. A sostegno di questa spiegazione vanno anche alcune delle testimonianze di chi aveva assistito. Tra queste, quella dei coniugi Koshkin, che abitavano al sesto piano, il marito voleva chiamare la polizia, ma la moglie non glielo permise, dichiarando successivamente alla stampa: “Io non glielo permisi, gli dissi che dovevano aver ricevuto già almeno 30 telefonate”. Sorprendentemente, Moseley sembrava consapevole della probabilità che i testimoni fossero apatici. Successivamente, dichiarò l’indifferenza che aveva provato alle grida provenienti dagli altri palazzi, sostenendo: “Avevo la sensazione che l’uomo avrebbe chiuso la finestra e sarebbe tornato a dormire e, quasi certamente, fu quello che fece”.
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Ricerca psicologica Latané e Darley condussero una serie di eleganti esperimenti dove analizzarono il cosiddetto effetto del passante. Nel primo studio [1], ad alcuni studenti veniva chiesto di sedersi in una stanza e di compilare un questionario sulla pressione della vita metropolitana. Durante la somministrazione, del fumo, precisamente vapore, veniva diffuso nella stanza attraverso una piccola feritoia del muro. Nei primi quattro minuti, il 50% dei partecipanti all’esperimento fecero qualcosa e il 75% aspettò sei minuti prima di fare qualcosa, ossia agì solo verso la fine dell’esperimento. Comunque, nei gruppi di tre partecipanti solo il 4% di essi prese l’iniziativa di dare l’allarme per la presenza di fumo nei primi quattro minuti e solo il 38% di essi lo fece entro i sei minuti. Quando due confederati (partecipanti a cui l’esaminatore chiedeva di comportarsi in un certo modo, o ricercatori che facevano finta di essere dei partecipanti e mettevano in atto dei comportamenti ben precisi) si unirono ai partecipanti e risposero “No” a tutte le domande (ad esempio, “Pensi che dobbiamo fare qualcosa?”), solo il 10% dei partecipanti avvertirono la presenza di fumo entro i sei minuti. Questo esperimento va a sostegno del fenomeno dell’ignoranza pluralistica: le persone non vogliono reagire in modo eccessivo e perdere la loro calma. In presenza di altri, la nostra tendenza è quella di guardare gli altri e di seguirli come guida. Se ci sembrano calmi, allora non vi è nessun problema. Nel secondo esperimento [2], gli studenti erano invitati a discutere i loro “problemi personali di fronte ad altri studenti”. Per evitare imbarazzo, gli studenti sedevano in cabine separate e comunicavano tramite interfono. A turno, ad ogni studente era consentito parlare per due minuti. Durante il primo turno, un partecipante menzionava di soffrire di crisi epilettiche quando era sotto stress. Al secondo turno, sembrava ovvio che questa persona stesse avendo una crisi epilettica. Urlava: “Aiutatemi… Penso di avere una crisi… Sto per morire… Aiuto”. L’85% delle persone che pensava di essere sola, mentre lo studente stava avendo la crisi interveniva in due minuti; il 62% di quelli che erano in gruppi da tre persone (partecipante, vittima e testimone) aiutavano la vittima nei due minuti, mentre solo il 31% delle persone dei gruppi composti da sei membri (partecipante, vittima e quattro testimoni) accorsero ad aiutare la vittima nei primi due minuti. Questo è un chiaro esempio di diffusione della responsabilità: la presenza di altri fa sì che ogni persona si senta meno responsabile a fornire aiuto. Una combinazione di diffusione della responsabilità e di ignoranza pluralistica probabilmente spiega perché i testimoni presenti all’omicidio della Genovese si comportarono così. Presumibilmente, ritenevano che, poiché nessun altro stava agendo come se ci fosse un’emergenza, era probabile che l’emergenza non ci fosse. Inoltre, anche se qualcuno sospettò che potesse esserci un’emergenza, l’effetto della diffusione della responsabilità li fece sentire meno in obbligo e più restii ad agire. In una situazione di gruppo, è molto più facile per un individuo pensare che non deve fare nulla e che qualcun altro si occuperà di chiamare la polizia o di urlare dalla finestra.
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Il caso Genovese solleva inoltre la questione: “Perché non vogliamo apparire come quelli che reagiscono eccessivamente in una situazione di emergenza?” Sarebbe stato sicuramente meglio reagire eccessivamente che non reagire affatto? Molte persone hanno spiegato tale comportamento in termini di paura del ridicolo o di imbarazzo. Ma perché è imbarazzante fare quello che si ritiene giusto? Forse le persone portano avanti un’analisi dei costi-benefici e realizzano che i costi potenziali (tempo, sforzo, pericolo) hanno un peso maggiore dei probabili benefici. Questi comportamenti sarebbero stati gli stessi in altre culture?
Apatia prevedibile? La polemica intorno al caso di Catherine Genovese continua tutt’oggi: come hanno potuto tutti quei testimoni ignorare le grida di aiuto di Catherine? Perché non fecero nulla? Perché molti di loro si mostrarono indifferenti rispetto al fatto di non aver prestato soccorso quando furono intervistati successivamente? Forti delle interpretazioni fornite da Latané e Darley, sembra che i testimoni avessero agito in modo perfettamente prevedibile e in linea con quello che sappiamo adesso sul comportamento sociale in situazioni di gruppo. Il fatto che i testimoni fossero consapevoli della presenza l’uno dell’altro suggerisce che si trattava di una situazione di gruppo. Nel 1985 Shotland [3] concludeva: Dopo 20 anni di ricerche, l’evidenza indica che “l’effetto del testimone”, come venne chiamato, avviene in tutti i tipi di emergenza, da quelle mediche a quelle criminali. Manning et al. [4] si domandarono se un testimone che sta in finestra da solo possa essere considerato come gruppo, singolo individuo o folla. Qualunque sia la verità, non c’è dubbio che l’omicidio di Catherine Genovese promosse le ricerche sull’effetto del testimone. Prima di questo caso, gli psicologi tendevano a concentrarsi sul pericolo delle azioni messe in atto dalla folla o sui comportamenti di gruppo. Dopo questo caso, la questione fu reindirizzata in termini di pericolo dell’inattività e della passività della folla.
Una lezione da imparare Le grida inascoltate di Catherine, sono state vane, o questo caso ha fornito una lezione per chi si possa trovare in una situazione simile? Cosa avrebbe dovuto fare Catherine per aumentare le sue chance di sopravvivenza? La “sindrome Genovese” ha fornito un’aumentata conoscenza su semplici regole da ricordare quando si chiede aiuto. Il primo imperativo è impedire che i testimoni abbiano dubbi sul fatto che si tratti o meno di un’emergenza, e che viene richiesto il loro intervento. Ad esempio, deve essere chiaro che ti stanno assalendo e che
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non sei semplicemente ubriaca, bisogna essere espliciti e specifici. Devi impedire che si crei l’effetto della “diffusione di responsabilità” scegliendo un individuo al quale chiedere aiuto. È piuttosto facile ignorare un generale grido di “Aiuto” piuttosto che “Ehi, tu con la giacca grigia vieni qui, questa è un’emergenza. Ho bisogno del TUO aiuto. Chiama la polizia immediatamente!” Hai bisogno di incaricare qualcuno e di renderlo responsabile. Quando una persona fornisce aiuto, le norme sociali all’interno della situazione si modificano, passando da una situazione di non-aiuto ad una di aiuto, ed è probabile che gli altri percepiscano la situazione come un’emergenza e che tutti agiscano in modo da essere di aiuto. In questo modo riuscirai a superare l’effetto dell’“ignoranza pluralistica”. Come Darley et al. [5] stessi affermarono, la comunicazione tra i testimoni presenti sulla scena aiuta a prevenire l’effetto del passante. Verrai sommerso da offerte di aiuto! Fai lavorare la psicologia per te, non contro di te. Vi è un altro modo in cui il caso può avere un effetto benefico. Pochi anni fa, un ubriaco barcollava lungo la strada fuori casa mia. Io vivevo in una strada trafficata e vi erano molte possibilità che egli avesse un incidente. Pensai di chiamare la polizia, ma riflettei sul fatto che avesse già ricevuto molte chiamate. Citando la sindrome Genovese a mia moglie, decisi poi di chiamare la polizia che arrivò in cinque minuti e lo portò via. Il giorno dopo, la polizia ritornò per ringraziarmi: la mia fu la prima chiamata di quella notte, mi dissero anche che per loro non è mai un problema ricevere più chiamate. L’ubriaco fu rilasciato la mattina dopo, illeso. Una più chiara comprensione delle spiegazioni psicologiche del caso Genovese permette alle persone una migliore consapevolezza di come affrontare le emergenze, salvando la propria vita o quella altrui. Sfortunatamente la storia di Catherine Genovese non è stata l’ultima. Ogni anno, vi sono deplorevoli incidenti che riecheggiano il suo caso. Nel 2005, il Ministro svedese per gli Affari Esteri, Anna Lindh, fu accoltellata in un grande magazzino affollato dopo essere stata inseguita su per la scala mobile. Vi erano dozzine di testimoni, ma nessuno intervenne per aiutarla. La “Sindrome Genovese” avvenne nuovamente. Il New York Times riportò che una modella venticinquenne fu picchiata a morte nel suo appartamento di Kew Gardens il giorno di Natale del 1974. Almeno un vicino riportò di aver sentito le sue urla e di non aver fatto niente [6].
Dubbi recenti? Negli ultimi anni vi sono state ulteriori ricerche sul caso Catherine Genovese. Un residente di Kew Gardens, Joseph De May, iniziò a re-investigare gli esatti dettagli del caso [7]. De May dichiarò che vi siano le prove che alcune persone chiamarono effettivamente la polizia durante l’attacco. Per esempio, Michael Hoffman, che aveva 15 anni a quel tempo, giurò di aver detto a suo padre che aveva visto Winston Moseley fuggire e testimoniò che suo padre chiamò la polizia. La polizia non ha registrazioni della chiamata, ma Hoffman successivamente divenne un poliziotto di
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New York e sembra essere una fonte attendibile. Inoltre, De May stima che vi erano solo tre testimoni che avevano una buona visuale dell’attacco iniziale; e il fatto che l’aggressore lasciò la scena e Catherine continuò ad andare verso il suo appartamento può aver suggerito ai testimoni che fosse relativamente illesa. Solo tre testimoni furono chiamati a testimoniare durante il processo (Irene Frost, Andre Picq e Robert Mozer) [8], sebbene Charles Skoller, all’epoca dei fatti assistente Procuratore Distrettuale, avesse dichiarato che vi erano più testimoni, ma che non furono chiamati per la loro apparente mancanza di azione ed insensibilità che poteva costituire fonte di distrazione per i giurati. Data la velocità del primo attacco, nessun altro testimone avrebbe potuto raggiungere le finestre in tempo per vedere qualcosa. Il secondo violento attacco ebbe luogo dentro il palazzo dove abitava, dove nessuno avrebbe potuto vedere qualcosa. Qualsiasi testimone che avesse udito le urla avrebbe potuto concludere che provenivano da qualche nottambulo che faceva bisboccia in un ben noto locale notturno molto chiassoso. È pertanto stato messo in dubbio recentemente quanta dell’inazione dei testimoni dipendesse dalla loro apatia o da un’erronea interpretazione dei fatti. Un’altra istruttiva intervista ebbe luogo nel 2004, quando la persona che divideva l’appartamento con Catherine al tempo dell’omicidio si fece avanti per parlare dell’omicidio. Mary Ann Zielonko era la compagna di Catherine da molto tempo e riportò di essere anche la sua amante. Alcune persone si chiesero se alcuni dei vicini sospettassero qualcosa sui loro rapporti e se una forma di “omofobia” fece sì che le persone non volessero essere coinvolte. Nonostante i diversi punti di vista e le diverse attitudini che potevano essere prevalenti nel 1964 sui gay, sembra improbabile che le persone abbiano deciso di non intervenire per questo motivo. In ogni caso, Zielonko sostenne che le donne non erano apertamente gay e che la maggior parte dei vicini non ne era a conoscenza. La maggior parte dei testimoni si riferiva a Catherine nel miglior modo possibile e la descriveva come una piacevole giovane donna.
Postscriptum Cosa possiamo dire sul caso Catherine Genovese? Forse può essere riassunto nel modo seguente: “Il delitto fu tragico, ma ha fornito un servizio alla società, esortando le persone su come prestare aiuto agli individui in pericolo.” Questo è un estratto di una lettera scritta da Winston Moseley e pubblicata sul New York Times nel 1977. Moseley alla fine si scusò per i suoi crimini e mentre era in prigione prese una laurea in sociologia. Continua a richiedere la libertà condizionale che gli è stata rifiutata già 13 volte, e mostra poco rimorso per gli orrendi crimini commessi. I fratelli e la sorella di Catherine si batteranno fino all’ultimo per impedire che gli venga concessa la libertà condizionale. Non portano nessun rancore verso gli apatici testimoni, ma solo verso l’assassino.
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Psicologia dello sviluppo L’innocenza perduta: la storia di Genie
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Un giorno, nella prima metà di novembre del 1970, Irene Wiley cercò il servizio per ciechi presso l’ufficio locale di assistenza pubblica di Los Angeles County. L’accompagnava la figlia di tredici anni. Completamente cieca da un occhio, e con una cataratta che provocava il 90% di cecità nell’altro, la donna entrò per sbaglio negli uffici dei servizi sociali generali. Questo errore cambiò per sempre la vita di entrambe. Mentre si avvicinavano al banco, l’assistente sociale rimase paralizzato a fissare la ragazza: a prima vista, sembrava una bambina di sei o sette anni con la schiena incurvata e uno strano passo trascinato. Fu chiamato un supervisore che iniziò immediatamente delle indagini: finalmente dopo tredici anni di isolamento, abbandono e abuso il mondo è venuto a conoscenza di una ragazza, successivamente conosciuta come “Genie”1[1,2].
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“Genie” fu lo pseudonimo scientifico che le venne dato per proteggere la sua identità. Fu una scelta appropriata, poiché sembrava venuta dal nulla. Comunque, quando il caso fu portato in tribunale, i giornali riportarono i nomi e gli indirizzi delle persone coinvolte. È stato così ampiamente riportato su Internet che certo non nuoce riportare il suo vero nome: Susan M. Wiley. Anche suo fratello John rilasciò un’intervista all’ABC News il 19 maggio del 2008 nella quale fornì ulteriori dettagli personali sul caso. Vedi http://abcnews.go.com/Health/story?id=4873347&page=1
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Contesto familiare Figura chiave nella storia di Genie, anche per aver trascorso molto tempo con lei negli anni successivi, fu Susan Curtiss, una linguista laureata presso l’università della California. Curtiss scrisse e pubblicò la sua tesi di dottorato su Genie [3] sostenendo che “per capire questo caso bisogna come prima cosa conoscerne il contesto familiare”. Si sperava che esplorando la storia familiare di Genie, si potesse trovare una qualche spiegazione per la situazione incredibile in cui la ragazza si era trovata. Irene, la madre di Genie, aveva avuto un’istruzione elementare, con un padre amorevole ma poco presente e una madre con un atteggiamento severo e piuttosto inavvicinabile. Uno sfortunato incidente si verificò nella sua infanzia quando, per aiutare la madre a fare il bucato, scivolò e sbatté la testa sulla maniglia di una vecchia macchina per strizzare i panni. Quest’urto provocò dei danni neurologici che avrebbero successivamente causato la sua cecità ad un occhio, rendendone difficile l’autonomia personale. Attorno ai vent’anni sposò Clark Wiley, un uomo di vent’anni più grande di lei, e sebbene l’avesse incontrato ad Hollywood, la loro storia non avrebbe seguito la tradizione cinematografica e non avrebbe avuto alcun lieto fine. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, Clark trovò facilmente lavoro e dimostrò a se stesso di essere un lavoratore prezioso nell’industria aeronautica, tanto che continuò a lavorare anche dopo la fine della guerra. Dall’esterno Irene e Clark apparivano una coppia felice e contenta, ma in casa Clark, come successivamente Irene riferì, diventava eccessivamente protettivo e piuttosto geloso e restrittivo, al punto che in seguito Irene arrivò ad affermare che la sua vita è terminata in corrispondenza del suo matrimonio. Nonostante l’espressa volontà di Clark di non avere figli, dopo cinque anni di matrimonio Irene rimase incinta e durante un ricovero in ospedale per curare le lesioni inferte dal marito, Irene diede alla luce una bambina sana. La piccola morì solo tre mesi più tardi, a causa di una polmonite, ma si sospettava che la bambina fosse morta per essere stata lasciata a lungo nel garage da Clark che non ne sopportava il pianto. Il secondo figlio morì per avvelenamento del sangue dopo la nascita, di nuovo l’incuria potrebbe essere stato un fattore scatenante. Il terzo figlio, John, nato perfettamente sano, ebbe uno sviluppo cognitivo molto lento, ancora una volta attribuibile all’abbandono in cui cresceva. Venne quindi affidato ed aiutato dalla nonna paterna, Pearl, che temendo che il figlio Clark avesse seri problemi di instabilità mentale, accudì John a volte anche per mesi. Nell’aprile del 1957, nacque la quarta figlia, Susan Wiley (nota successivamente al pubblico con il nome di Genie). La piccola sopravvisse ad un parto difficoltoso grazie a numerose trasfusioni di sangue. Essendo ormai la nonna Pearl troppo anziana per aiutare la coppia di genitori nell’educazione e nella cura della bambina, Irene e Clark crebbero la piccola come meglio poterono. Durante un esame medico nel primo anno di vita, fu descritta come “lenta” e “ritardata”. Un episodio chiave in quel periodo coinvolse la madre di Clark: un giorno durante una visita Pearl fu uccisa da un pirata della strada mentre attraversava la strada per comprare un gelato al nipote John. Clark, molto legato alla madre, in seguito all’incidente entrò in uno stato di grave depressione, acuito dalla mite sentenza,
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sospensione condizionale della pena, emessa nei confronti del conducente colpevole. Clark si ritenne oltraggiato dalla sentenza chiudendosi sempre più in se stesso a causa delle idee persecutorie che aveva sviluppato in quel periodo: sentiva di essere stato trattato molto male dalla società. Decise quindi che avrebbe potuto fare a meno di un mondo così e che la sua famiglia avrebbe fatto lo stesso. Chiuse con il lavoro e si isolò trasferendosi con la famiglia nella casa di Pearl a Golden West Avenue in Temple City, California. A nessuno fu consentito di usare il letto di Pearl, che fu lasciato intatto dal giorno in cui la donna era morta. Sfortunatamente, Clark riteneva che il miglior modo di proteggere la sua famiglia fosse quello di vivere segregati in casa: pensando alla malvagità del mondo riteneva che dovesse impedire ad altri di approfittare della loro vulnerabilità, costringendoli a vivere prigionieri per 10 anni. I vicini di casa confermarono di non aver quasi mai visto la famiglia. Sicuramente Clark non realizzò che non poteva proteggere la sua famiglia dalla sua malvagità, una malvagità di gran lunga superiore rispetto a quella che avrebbero potuto sperimentare nel mondo esterno.
Isolamento I risultati delle indagini portarono a scoprire che Genie aveva trascorso praticamente tutta la sua vita in una piccola camera da letto nella casa a Golden West, costretta a trascorrere la maggior parte del tempo seduta su un vasino per bambini attaccato ad una sedia. Segno evidente era un callo di forma circolare della grandezza del vasino che si era prodotto sul suo sedere per aver passato giorni e giorni seduta su quel vasino. Non poteva muovere niente eccetto le mani e i piedi. A volte durante la notte era spostata in un sacco a pelo modificato per tenerla bloccata, simile ad una camicia di forza. Genie veniva scoraggiata dall’emettere qualsiasi suono, il padre la picchiava con un bastone non appena ci provava, e l’uomo si rivolgeva alla bambina esclusivamente attraverso latrati e ringhi simili a quelli di un cane. Il fratello di Genie, John, ammonito dal padre, raramente parlava con lei. Del resto in casa, suo fratello e sua madre di solito sussurravano per comunicare tra di loro, temendo di infastidire l’uomo. Durante tale periodo di isolamento Genie ascoltò difficilmente suoni. Non sorprende, quindi, che abbia imparato a rimanere in silenzio. Neanche il suo senso della vista venne stimolato: la stanza, dove era confinata, presentava solo due finestre, entrambe cieche, tranne che per un’apertura di pochi centimetri nella parte alta per far filtrare un poco di luce. Poteva vedere del mondo esterno solo uno scorcio di cielo. Occasionalmente, Genie era autorizzata a “giocare” con due impermeabili di plastica appesi nella camera, e a volte le era permesso guardare una copia della rivista dei programmi televisivi, dalla quale il padre toglieva qualsiasi immagine provocante. Delle volte il suo unico altro gioco consisteva in un rocchetto di filo vuoto. Genie era anche malnutrita, le veniva dato poco da mangiare, solo cibo per bambini, cereali ed eccezionalmente uova sode. Era alimentata velocemente e in silen-
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zio dal fratello che riduceva i contatti con lei al minimo. Se si soffocava o sputava il cibo, le veniva rigettato in faccia. È difficile immaginare un’esistenza più crudele e isolata per una bambina piccola. Tale regime di vita era imposto e mantenuto da Clark. Subito dopo la nascita di Genie, il medico che la visitò disse loro che non avrebbe vissuto a lungo e le diagnosticò un ritardo mentale. Clark disse ad Irene che se Genie avesse vissuto per dodici anni, allora avrebbero cercato un aiuto per la bambina. Forse miracolosamente, Genie visse così a lungo, e quando Clark rifiutò la richiesta di Irene di aiutare Genie, Irene decise di fare finalmente qualcosa. Dopo un’orrenda lotta durante la quale Clark minacciò di uccidere Genie, Irene prese la bambina e scappò per rifugiarsi a casa dei propri genitori. Dopo pochi giorni madre e figlia finirono ai servizi sociali mentre erano in cerca di aiuto per la sua disabilità visiva e per il sussidio di assistenza a Genie. Finalmente Genie era stata scoperta.
Presa in trattamento Per le prime indagini, Genie venne trasferita e presa in cura presso l’ospedale pediatrico della California. I genitori vennero accusati di abuso intenzionale di minore e citati in giudizio il 20 novembre 1970. Quella mattina Clark prese la sua colt Smith & Wesson e si sparò alla tempia destra. Sul letto aveva preparato gli abiti per il funerale e lasciato 400 dollari per John insieme a due biglietti che spiegavano il suicidio. In uno diceva dove la polizia poteva trovare suo figlio, nell’altro scriveva: “Il mondo non potrà mai capire. Sii un bravo ragazzo. Ti amo.3” Irene, già in tribunale quando apprese la notizia, durante il processo supplicò di essere dichiarata non colpevole, sostenendo di aver agito obbligata da un marito violento. La sua richiesta fu accettata. Sembrava che alla fine Genie ed Irene potessero tornare nuovamente a vivere, comunque Irene accettò che Genie fosse posta sotto tutela dello Stato. La bambina esaminata all’ospedale pediatrico venne trattata immediatamente per la grave malnutrizione: a 13 anni pesava circa 27 kg ed era alta 1 metro e 37 cm. Era incontinente e non poteva masticare cibi solidi, non poteva deglutire correttamente, presentava una salivazione eccessiva e sputava in continuazione, al punto che i suoi vestiti erano spesso ricoperti di sputi; si urinava addosso quando era eccitata, emanando di conseguenza spesso un cattivo odore. Inoltre la sua vista era ridotta, al punto da non vedere bene oltre i tre metri e mezzo. Aveva due buchi tra i denti e i suoi
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Nella traduzione italiana del libro di Russ Rymer [2]. I due biglietti lasciati da Clark sono stati così riportati, il primo quello per la polizia: “Mio figlio è fuori davanti a casa con gli amici. Non ha idea di ciò che sta succedendo qui” (pag. 39). Il secondo quello per il figlio: “Non riprenderti la camicia. È per il mio funerale. Sai dov’è la mia camicia blu. La biancheria è nell’armadio in ingresso. Ti voglio bene, addio e sii buono. Papà” (pag. 39). Clark non scrisse nessun biglietto, né per la moglie né per la figlia, ma nei suoi addii inserì la frase: “Il mondo non potrà mai capire” (pag. 39) (NdT).
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capelli erano estremamente sottili. Camminava con grande difficoltà e non poteva distendere gli arti correttamente. Non aveva una buona percezione del caldo e del freddo. Non piangeva mai e riusciva a malapena a parlare. Comprendeva poche parole: “Mamma”, “blu”, “cammina”, “porta”, e produceva solo poche negazioni come “smettila” e “basta”.
Tempo di esami James Kent, psicologo dell’ospedale pediatrico, iniziò la valutazione delle abilità cognitive ed emotive di Genie. Sostenne che “era la bambina più profondamente danneggiata che avesse mai visto… La vita di Genie era un deserto” [2]. A causa dell’incapacità di parlare era difficile valutarne l’intelligenza. Sembrava in grado di esprimere solo poche emozioni come la paura, la rabbia, la sorpresa, la gioia. Tuttavia la sua rabbia era spesso espressa interiormente, poteva grattarsi la faccia, urinare, ma non emetteva alcun suono. Genie fece però rapidi progressi. Già dal terzo giorno, riusciva, se aiutata, a vestirsi e ad usare la toilette. Alcuni mesi dopo, fece il gesto di colpire una ragazza nel centro di riabilitazione perché indossava un abito che lei stessa aveva indossato in precedenza. I suoi osservatori trascrissero questo come il primo segno di esternazione della rabbia. Iniziò anche ad impossessarsi di vari oggetti come libri, indice di sviluppo del senso di sé. Un mese più tardi, mentre James Kent si allontanava dopo una seduta, lo afferrò per la mano come per ordinargli di fermarsi: sembrava iniziasse a sviluppare dei rapporti di amicizia. Sottoposta a nuovi test di valutazione del suo quoziente intellettivo mostrò miglioramenti incredibili rispetto ai primi mesi. In alcune aree sembrava aver recuperato in pochi mesi un intero anno di sviluppo. Vi era un forte divario nelle sue capacità: era ad esempio in grado di lavarsi da sola, come un bambino di nove anni, ma la sua masticazione era simile a quella di un bambino di un anno. Il livello di acquisizione linguistica rimase comunque estremamente povero, ma iniziò ad interagire nel gioco con gli altri e ad accettarne il contatto fisico. Era felice di andare fuori dall’ospedale per piccole gite. Per Genie generalmente tutto era nuovo ed eccitante, era molto amichevole con le persone che incontrava e gli estranei in genere si comportavano amichevolmente nei suoi confronti. Curtiss sosteneva che Genie avesse una forte capacità di comunicazione non verbale. Era convinto di riconoscere in Genie un modo di comunicare senza parole – una sorta di telepatia. Alla bambina piaceva particolarmente fare shopping e collezionò ben 23 secchielli di plastica colorati, che teneva vicino al suo letto. Tutto ciò che era di plastica era da lei ambito. Si riteneva che questa sua ossessione potesse essere spiegata dal ricordo dei due impermeabili di plastica che aveva visto nella sua camera e che avevano costituito la sua maggior fonte di gioco, presumibilmente associava la plastica al gioco. Genie sviluppò il concetto di permanenza dell’oggetto. Tale abilità si riferisce al
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fatto di possedere una rappresentazione mentale dell’oggetto stesso svincolata dalla sua presenza sensibile. Piaget riteneva che i bambini potessero esibire tale capacità sono nel secondo anno, grazie al pieno sviluppo dell’intelligenza senso-motoria. Aveva anche sviluppato la capacità di imitazione differita, cioè l’abilità di imitare un comportamento visto precedentemente: ad esempio una volta mostrò di abbaiare come un cane che aveva visto nel corso della giornata. Genie inoltre stava diventando meno egocentrica, segno che iniziava a comprendere che gli altri possono avere un altro punto di vista diverso sulle cose, il suo modo di pensare non era l’unico possibile. Questa abilità caratterizza lo stadio di sviluppo definito preoperatorio che si osserva nei bambini nel periodo tra i due e i sette anni.
Il premio Jay Shurley, psichiatra, esperto degli effetti dell’isolamento, fu invitato a visitare Genie. La descrisse come il bambino esposto al termine massimo d’isolamento sociale mai descritto in letteratura. Per la rarità del “caso” si sviluppò una competizione tra i diversi professionisti su chi dovesse condurre il trattamento e lo studio. Genie era diventata un premio, al centro della battaglia politica tra i ricercatori. I ricercatori discutevano sul caso di Genie e tale discussione verteva sul fatto se si dovesse privilegiare l’aspetto terapeutico o quello sperimentale, nell’ipotesi che le conclusioni scientifiche potessero essere di aiuto in futuro nella soluzione di casi simili. Occasionalmente Genie trascorreva qualche giorno in casa di Jean Butler, una delle insegnanti del centro di riabilitazione. Durante uno di questi soggiorni, Butler contrasse la rosolia. Per evitare di contagiare altre persone si decise di lasciare Genie in quarantena in casa della sua insegnante. La vicinanza portò l’insegnante a stabilire un forte senso di protezione nei confronti di Genie, entrando in aperto disaccordo con gli altri membri del “Team di Genie”, come veniva chiamato. Il problema sollevato era relativo alle modalità di intervento su Genie: Butler sosteneva che Genie fosse eccessivamente oggetto di sperimentazione e che la ricerca fosse in qualche modo di ostacolo per la riabilitazione. Il team di ricerca sosteneva al contrario che l’insegnate volesse diventare famosa come la persona che aveva salvato Genie dal suo isolamento. Butler chiese che Curtiss fosse allontanata dal team e che le fosse impedito di incontrare Genie. Butler chiese l’affidamento della bambina, ma la richiesta venne respinta poiché contraria alla politica ospedaliera che riteneva incongruo inserire i pazienti nelle case del personale. Non essendoci altre alternative, David Rigler, professore e psicologo della divisione psichiatrica dell’ospedale, acconsentì a prendere con sé Genie per un piccolo periodo. Poiché nel frattempo era cambiata la politica ospedaliera sulla relazione personale-paziente, Genie restò presso i Rigler per quattro anni. Non sorprende che la bambina non fosse l’inquilino ideale: faceva i propri bisogni nel cestino della figlia dei Rigler, prendeva le cose degli altri bambini e continuava a sputare. Aveva però sviluppato un grande interesse verso la musica. Sembrava rimanere incantata dalla musica, ma esclusivamente dal genere classico. Ri-
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gler scoprì che durante il suo isolamento un vicino di casa prendeva lezioni di pianoforte e forse queste erano state l’unica fonte regolare di musica per la bambina. Venne iscritta in una scuola ospedaliera e in seguito in una scuola pubblica per persone mentalmente ritardate, dove avrebbe potuto interagire con altri bambini. Durante la permanenza dai Rigler rifiorì: sviluppò un buon senso dell’umorismo, imparò a stirare e cucire. Amava disegnare e a volte i disegni le venivano in aiuto per rappresentare i suoi pensieri quando le parole sembravano mancarle. Al test di disegno di Gestalt, che prevede di trovare l’organizzazione dietro una scena frammentata o di comprendere l’intero disegno composto da numerose parti, Genie realizzò un punteggio più alto rispetto a quello previsto dalle norme. Un giorno dell’estate del 1972, mentre era fuori con Curtiss per fare degli acquisti, eccitata per l’esperienza, si voltò verso Curtiss e disse: “Genie felice”. Nel frattempo sua madre, Irene, aveva recuperato la vista grazie all’intervento alla cataratta ed era tornata a vivere nella casa a Temple Avenue. Continuò ad andare a trovare Genie, ma sfortunatamente non si sentiva ben accetta a casa Rigler, dove fu invitata solo tre volte in quattro anni. Iniziò quindi a diffidare degli scienziati che avevano in cura Genie e sentiva che loro la disprezzavano. Non aveva partecipato in alcun modo all’abuso di Genie, ma alcuni degli scienziati si interrogavano sul suo ruolo passivo. La donna aveva mantenuto l’amicizia con Jean Butler, che si interrogava rispetto alla “ricerca scientifica” condotta su Genie, e che era convinta che Genie durante il soggiorno dai Rigler fosse peggiorata. Dopo quattro anni, il finanziamento che i Rigler richiesero per proseguire lo studio e la ricerca su Genie venne rifiutato a causa degli scarsi progressi fatti da Genie, e del numero ridotto di lavori scientifici pubblicati. Rigler argomentò che la natura “aneddotica” della ricerca era in contrasto con gli standard richiesti dalla comunità scientifica. Un mese dopo Genie fu nuovamente trasferita, non potendo più i Rigler accudirla né studiarla per mancanza di fondi.
Ritorno a casa Sorprendentemente venne data l’autorizzazione alla madre di riportarla a casa e quindi Genie tornò nel luogo del suo abuso. Non fu un successo. La donna non era in grado di far fronte alla situazione e i servizi sociali trasferirono presto la bambina presso una nuova famiglia affidataria. Fu un disastro. La nuova famiglia conduceva uno stile di vita militare, in contrasto sia con l’esperienza da lei vissuta in casa Rigler che con le sue reali esigenze. Regredì immediatamente, tornando ad essere introversa e chiusa al mondo esterno. Voleva il controllo della sua vita e sentiva che l’unico modo per ottenere ciò era di nascondere il suo volto e la sua voce. Divenne stitica e rifiutò di parlare a tutti per cinque mesi. La nuova madre adottiva, esasperata da questo, una volta provò ad estrarre le sue feci con il bastoncino di un leccalecca. Le violenze iniziarono nuovamente e dovette sopportare di restare con questa famiglia per ben 18 mesi. La vita di Genie stava andando a pezzi, ed insieme a essa anche la ricerca scientifica.
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Durante questo periodo, la Curtiss fu l’unica professionista a visitarla, benché non ricevesse alcuna sovvenzione per il suo lavoro, avendo evidentemente sviluppato un rapporto affettivo oltre che assistenziale con Genie. Essendo riuscita a dimostrare alle autorità che Genie presentava segni di malnutrizione, ottenne che la bambina fosse riassegnata all’ospedale pediatrico. Alcune dispute finanziarie peggiorarono ulteriormente la situazione. Quando Genie ereditò una piccola somma di denaro dalle proprietà del padre, Rigler presentò un conto per la psicoterapia che aveva effettuato nel periodo in cui la ragazza aveva vissuto con la sua famiglia, un conto superiore alla somma da lei ereditata. Il caso andò in giudizio: Rigler ebbe un’assegnazione parziale della somma da lui richiesta, anche se successivamente sostenne di non aver mai avuto il denaro, chiarendo di aver intentato la causa esclusivamente per evitare che lo Stato si impossessasse dell’eredità. Tuttavia, quando la madre Irene tornò ad essere il tutore legale della figlia, e del suo patrimonio, il denaro era sparito. Questo fu solo l’inizio di una serie di processi per Genie. Irene era infastidita dall’etichetta “bambina selvaggia” usata dalla Curtiss nel titolo del suo libro e contraria al fatto che conversazioni private fossero state pubblicate senza il suo consenso. Accusò la scienziata di aver valutato Genie troppo spesso in modo insensibile, sostenendo che i test potevano prendere 60 o 70 ore a settimana. La Curtiss negò questo e dichiarò che Genie si divertiva durante le sessioni di test, molte delle quali erano informali. Sia Rigler che Curtiss credevano che la loro amica Jean Butler fosse la reale istigatrice dell’azione legale. Dopo molte dispute legali, nel marzo 1979 fu raggiunto un accordo sul pagamento di una somma la cui entità non fu divulgata. Irene diede il consenso agli scienziati di vedere Genie solo per particolari ricerche. Genie avrebbe ricevuto tutti i compensi provenienti da questi studi e tutte le royalty dalla vendita del libro della Curtiss. In conseguenza di ciò la Curtiss aveva disposto un fondo fiduciario per Genie. Virtualmente tutti gli scienziati coinvolti nel caso di Genie realizzarono di aver fallito. Il “Team di Genie” si separò e ognuno prese la sua strada. Molti di loro erano riluttanti a parlare della loro esperienza. La maggior parte ammise che i loro metodi erano stati pieni di pecche, nonostante le onorevoli intenzioni. Jay Shurley andò oltre, affermò che Genie fu sfruttata dai ricercatori, dei quali faceva parte anch’egli. Credeva che Genie fosse un caso unico ed eccezionalmente difficile e nessuno realmente sapeva agire al meglio, non vi era un manuale da poter seguire.
La fine della ricerca Irene nascose Genie in una residenza per adulti mentalmente ritardati. Non permise più ad alcun scienziato di visitarla. La Curtiss in particolare fu molto provata da tale separazione. Genie si recava in visita dalla madre un fine settimana al mese. Nel 1987, Irene vendette la sua casa in Golden West Avenue senza lasciare alcuna traccia di sé. Si suppone che la donna morì nel 2003 in California. A tutti gli effetti Genie scomparve nuovamente. Nel 2008, il fratello di Genie, John Wiley, concesse un’intervista
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al network televisivo ABC. Era un uomo di 56 anni che viveva nell’Ohio e che si guadagnava da vivere come pittore e decoratore. Anche lui aveva riportato profondi effetti delle violenze vissute da bambino. Aveva 18 anni quando finalmente fuggì via dalla casa dove Genie venne ritrovata. Interrogato dalla polizia per ottenere dettagli sul caso, venne ignorato dalle autorità e non ricevette alcuna consulenza o cura. Non venne mai accusato per non essere intervenuto contro le violenze alla sorella, essendo egli stesso ritenuto una vittima del padre, che frequentemente lo picchiava con un bastone di legno. Dichiarò di aver cercato di cancellare il ricordo di Genie dalla sua mente poiché provava vergogna. Abbandonata la casa, John ebbe una vita problematica, che incluse scontri con la legge, l’allontanamento dalla Marina Militare ed il naufragio di un matrimonio durato 17 anni, in cui era nata una figlia. John raccontò di aver scoperto che Genie si trovava presso un buon istituto privato nel sud della California dove era ben curata. La ragazza poteva dire alcune parole e conosceva la Lingua dei Segni Americana (ASL) meglio di quanto fossero riusciti a insegnargliela i ricercatori. John non visitò Genie fino al 1987. Un’altra segnalazione della vita di Genie all’interno dell’istituto proviene da Jay Shurley, che le fece visita per il suo ventisettesimo e per il suo ventinovesimo compleanno. La segnalazione descrive una donna ormai cronicamente internata, dall’aspetto incurvato che sfugge il contatto visivo. Parlava poco ed appariva depressa. In questa segnalazione il suo comportamento venne descritto come quello di un soggetto completamente isolato che a tratti emerge per vivere e sperimentare ciò che il mondo gli offre, per tornare subito dopo nel suo isolamento. Nell’intervista del 2008, John Wiley evidenziò alcune somiglianze tra il caso di Genie e quello dell’austriaco Josef Fritzl, che aveva tenuto prigioniera sua figlia e il resto della famiglia per più di 24 anni nello scantinato della sua casa. Quando furono finalmente scoperti, alcuni membri della famiglia apparvero malnutriti e di statura ridotta, la crescita si era infatti arrestata, e fisicamente presentavano la schiena incurvata e soffrivano di un deficit di linguaggio causato da anni di isolamento. Sarebbe meglio che gli psicologi che li prenderanno in cura evitino con cura i problemi che capitarono a Genie.
Neurologia Dalle prime indagini neurologiche, apparve evidente che Genie eseguisse bene i tipici compiti elaborati dall’emisfero destro, mentre la sua prestazione era particolarmente scarsa nei compiti a carico dell’emisfero sinistro, come ad esempio le prove linguistiche di cui si occupa generalmente l’emisfero sinistro. È noto infatti che ogni emisfero del cervello controlla la parte opposta del corpo: questa caratteristica viene definita controllo controlaterale. Ad esempio un ictus che colpisce l’emisfero sinistro produce molto probabilmente alcune disabilità nella parte destra del corpo e viceversa. In un compito di ascolto dicotico, alle persone viene chiesto di ascoltare tramite delle cuffie speciali due differenti messaggi trasmessi uno all’orecchio destro e l’al-
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tro all’orecchio sinistro. In questo compito, i suoni presentati a ciascun orecchio vengono elaborati quasi interamente dall’emisfero opposto. Usando questa procedura è possibile ottenere delle informazione sul funzionamento dei due emisferi. Curtiss la utilizzò con Genie perché voleva scoprire cosa avveniva nel suo cervello. La Curtiss trovò che il cervello di Genie elaborava il linguaggio nell’emisfero destro, mentre generalmente tale elaborazione viene fatta dall’emisfero sinistro. Notò che la risposta di Genie ai suoni elaborati dall’emisfero sinistro era simile a quella di un bambino che aveva subito un’emisferectomia sinistra. Tali evidenze portarono la Curtiss a concludere che lo sviluppo del nostro cervello sia determinato dall’ambiente in cui siamo immersi, più specificatamente, dall’esposizione al linguaggio prima della pubertà.
Acquisizione della capacità linguistica: un esperimento innaturale Il tema dell’acquisizione del linguaggio è stato centrale nel dibattito tra linguisti e psicologi. Le posizioni teoriche possono essere riassunte in due opposte interpretazioni: la posizione innatista, che pone l’enfasi sui fattori innati, e la posizione empirista, che fa risalire l’acquisizione agli effetti dell’esperienza. Quindi anche in tema di acquisizione del linguaggio si fa riferimento alla controversia natura-cultura. Un bambino cresciuto senza ascoltare alcun suono della lingua umana potrebbe ugualmente sviluppare una qualche forma di linguaggio, basata quindi esclusivamente su capacità innate? Pinker (1948) sostenne che l’acquisizione linguistica è un processo forte: “Virtualmente non c’è modo di impedire che ciò avvenga anche crescendo un bambino in una botte” (p. 29). Ovviamente un esperimento di tale tipo è impossibile da attuare, ma il caso di Genie si presentava come un esperimento in natura, in cui gli effetti dell’ambiente avevano agito in modo “naturale”, quindi il caso venne visto dagli studiosi come una reale opportunità per verificare le due ipotesi alternative finora non testabili. Il più conosciuto esponente della teoria innatista è Noam Chomsky. Chomsky riteneva che l’acquisizione del linguaggio non potesse essere spiegata da semplici meccanismi di apprendimento, sostenendo il carattere di innatezza del linguaggio umano e l’indipendenza dall’apprendimento. Gli empiristi, d’altro canto, sostenevano che la lingua poteva essere appresa anche senza alcuna abilità innata o intrinseca. Gli innatisti ritenevano che i bambini apprendessero la lingua attraverso una capacità innata di organizzare le regole linguistiche, e che ciò si verificava solo in presenza di altri esseri umani. Gli adulti non “insegnavano” formalmente il linguaggio ai bambini, ma le abilità innate non possono essere utilizzate senza l’interazione verbale con gli altri. L’apprendimento indubbiamente gioca un ruolo fondamentale nell’acquisizione di una lingua specifica, cosicché i bambini di una famiglia di lingua inglese apprendono l’inglese e così via. Gli innatisti sostengono l’innatezza di un meccanismo specifico denominato Language Aquisition Devise (LAD; dispositivo innato di acquisizione del linguaggio). Tale meccanismo incorpora i maggiori principi del linguag-
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gio, mentre altri parametri verrebbero successivamente innescati in base alla lingua specifica a cui il bambino viene esposto. L’esposizione ad una specifica lingua farebbe sì che il LAD determini i parametri corretti, deducendo di conseguenza le regole grammaticali sottostanti la specifica lingua. Il meccanismo funzionerebbe indipendentemente a prescindere se si tratti di inglese o cinese. Seppur controverso tale approccio presenta alcune evidenze a sostegno della sua validità. Prima fra tutte il fatto che i bambini presentano tutti la stessa sequenza evolutiva di linguaggio, indipendentemente dalla lingua cui sono esposti. A circa un anno la produzione linguistica riguarda poche parole isolate, verso i due anni vengono prodotte frasi brevi composte da due o tre parole, verso i tre anni molte frasi grammaticalmente corrette e dai quattro anni la produzione è simile a quella degli adulti. Il verificarsi di tale sequenza in diverse culture, suggerisce l’ipotesi di innatezza. La valutazione linguistica di Genie evidenziò, all’età di 13 anni, lo sviluppo linguistico di un bambino di un anno. Esisterebbe una struttura grammaticale universale per tutte le lingue, che risulta simile per numerosi aspetti. Un’ulteriore evidenza deriverebbe dai bambini nati con sordità profonda, mai esposti ad una lingua verbale o a una lingua dei segni, che tuttavia sviluppano un sistema di comunicazione manuale che rispecchia alcuni dei tratti del linguaggio parlato. Brown e Herrnstein [4] concludono “l’impressione è di assistere ad un unico processo di sviluppo biologico che funziona nello steso modo in tutti gli appartenenti alla specie umana”(p. 479). Come altri comportamenti innati l’acquisizione del linguaggio presenta un periodo critico. Lenneberg [5,6] fissò il termine del periodo cruciale per l’apprendimento del linguaggio attorno ai dodici anni di età. Genie quando fu trovata ne aveva tredici. Dopo la pubertà, l’organizzazione del cervello sarebbe ormai completata, mancando conseguentemente la necessaria flessibilità per imparare una lingua. L’autore sostenne “l’ipotesi del periodo critico”, intendendo che dopo questo periodo non fosse più possibile la normale acquisizione e l’uso completamente funzionale di una lingua. Non ebbe alcun interesse nello studiare Genie, convinto che nel caso di Genie fossero intercorse troppe variabili che non consentivano di trarre alcuna conclusione certa. Il concetto di un periodo critico in natura non è nuovo: l’imprinting ne costituisce un ottimo esempio. È stato verificato che ad esempio gli anatroccoli e i paperi, se correttamente esposti, subito dopo la schiusa dell’uovo, possono seguire come fossero la propria madre galline, persone oppure oggetti meccanici. I bambini prima del primo anno di vita sono in grado di distinguere i fonemi di ogni lingua. Tale abilità viene persa alla fine del primo anno: i bambini giapponesi, ad esempio, perdono la capacità di distinguere il fonema /l/ dal fonema /r/ [7]. Il caso di un bambino mai esposto al linguaggio poteva costituire una prova diretta dell’ipotesi del periodo critico, e Genie si presentò proprio come uno di questi casi. Inserita in un ambiente culturale ricco di stimoli Genie avrebbe potuto apprendere il linguaggio pur avendo superato il periodo critico di acquisizione? Se ciò fosse avvenuto l’ipotesi del periodo critico si sarebbe rivelata sbagliata, al contrario se non fosse stata in grado di apprendere il linguaggio l’ipotesi sarebbe stata confermata. Molti psicologi e logopedisti spesero anni nel tentativo di insegnare a Genie a par-
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lare e nonostante questo lavoro Genie non sviluppò mai una “tipica” forma di linguaggio: sebbene il suo vocabolario si sviluppasse rapidamente, non era in grado di apprender le costruzioni sintattiche nonostante specifici training. Nelle valutazioni iniziali effettuate all’ospedale pediatrico Genie ottenne lo stesso punteggio di un bambino di un anno: sembrava riconoscere esclusivamente il proprio nome e la parola “scusa”. Mostrò presto un grande interesse nello scoprire il mondo intorno a lei ed il suo vocabolario accrebbe rapidamente: iniziò con frasi composte da una sola parola, come un bambino piccolo, e presto riuscì ad unire due parole in modi che mai aveva sentito prima, come ad esempio want milk (voglio latte) oppure Curtiss come (Curtiss viene). Dal novembre 1971 fu in grado qualche volta di unire tre parole in uno stesso enunciato come small two cup (due tazza piccola) o white clear box (scatola bianca vuota), mostrando degli incoraggianti segnali di acquisizione linguistica. Infine produsse la frase little bad boy (piccolo bambino cattivo) in seguito a un incidente in cui un bambino le aveva sparato con una pistola giocattolo. Usava il linguaggio anche per descrivere eventi passati, producendo anche frasi terribili come “Padre prendere bastone. Colpisce. Piange”; “Padre arrabbiato”, che ripeteva all’infinito. I bambini che raggiungono questo stadio di linguaggio successivamente presentano una fase definita di “esplosione del linguaggio” nella quale in pochi mesi il vocabolario cresce e sviluppa. In Genie tale fase non fu mai riscontrata. Curtiss sospettava che Genie fosse pigra, in quanto spesso accorciava le parole o le combinava, assegnandole il soprannome di “grande riduttrice”. Il suo eloquio progredì fino a comprendere frasi semplici come “ non mangio pane” o “signorina ha una nuova macchina”. Questo mostrava una consapevolezza nell’uso dei verbi, occasionalmente indice di acquisizione di alcune regole grammaticali. Non era però in grado di fare domande, ed aveva molta difficoltà con i pronomi (you e me che usava in modo interscambiabile a dimostrazione del suo egocentrismo) ed i miglioramenti erano veramente lenti, nonostante l’allenamento intensivo e l’utilizzo di metodi avanzati. Evidentemente da quel momento la sua acquisizione linguistica si arrestò e si stabilizzò a questo livello. Sebbene l’evidenza non fosse convincente, Genie costituì una prova per l’ipotesi del periodo critico: il suo caso suggerisce che il linguaggio sia una capacità innata degli esseri umani che deve essere acquisita durante un periodo critico compreso tra i due anni e la pubertà. Dopo la pubertà diventa più difficile acquisire una lingua, e questo spiega anche il motivo per cui apprendere una seconda lingua sia più difficile. Comunque, Genie seppure parzialmente acquisì alcuni elementi della sua lingua, dimostrando la possibilità di apprendimento di alcuni aspetti anche successivamente al periodo critico. Gli aspetti che Genie non riuscì mai ad apprendere erano quelli grammaticali, che secondo Chomsky costituirebbero l’elemento distintivo tra linguaggio umano e animale. Per alcuni aspetti quindi il punto di discussione si riduce alla definizione di ciò che viene considerato “linguaggio”. Il problema metodologico nel caso di Genie era legato al fatto che la bambina non fosse stata esclusivamente deprivata della possibilità di esercitare e ascoltare la lingua, ma avesse ricevuto abusi e violenze in numerosi altri modi. Era malnu-
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trita, e aveva sofferto di una mancanza di stimoli visivi, tattili e sociali. Assegnando al linguaggio un ruolo cruciale nelle interazioni umane e nell’apprendimento, è inevitabile che se qualcuno viene privato del semplice stimolo linguistico viene di fatto privato anche delle altre opportunità di normale apprendimento e di sviluppo sociale. Risulta in tal senso impossibile districare gli effetti dalle cause. Inoltre vi erano persistenti dubbi sul fatto che Genie presentasse sin dalla nascita ritardi biologici o congeniti: il padre stesso ne aveva fatto cenno ed il primo pediatra che l’aveva visitata aveva riferito alcuni problemi di sviluppo. Comunque, la madre sosteneva che Genie avesse iniziato la fase di lallazione, producendo anche le prime parole prima che il padre la costringesse al totale isolamento. Ciò suggerisce che stava apprendendo la lingua in modo normale prima della segregazione. Dato il carattere aneddotico di tali prove è evidente che non possano essere prese come base di evidenza scientifica a sostegno di una teoria. Curtiss sosteneva che Genie non presentasse alcun ritardo mentale, aveva punteggi molto alti nei test spaziali e aveva sviluppato la capacità di vedere il mondo assumendo una prospettiva diversa dalla propria (teoria della mente). Susan Curtiss considerò Genie come la confutazione della versione forte dell’ipotesi del periodo critico di Lenneberg, che prevede che la naturale acquisizione del linguaggio non avvenga più superata la pubertà [3]. La studiosa evidenziava che Genie aveva acquisito una parte di linguaggio dopo la pubertà, apprendendolo attraverso una “semplice esposizione”. Nei lavori successivi tuttavia rivide la sua posizione a favore dell’ipotesi di innatismo linguistico, sostenendo che Genie non forniva una prova certa del possibile sviluppo linguistico dopo la pubertà. Separatamente, sia Sampson [8] che Jones [9] evidenziarono che le ultime pubblicazioni della studiosa presentavano un’interpretazione del caso di Genie apertamente contrastante con quanto aveva sostenuto nel suo primo libro, senza fornire nuovi elementi di interpretazione né spiegazioni ulteriori per spiegare la sua diversa opinione.
Postscriptum Cosa possiamo dire su Genie? Certamente suo padre sbagliò con lei; il sistema utilizzato per proteggere i bambini da questo tipo di abuso non aveva funzionato con Genie; anche dopo che era stata “scoperta” i professionisti che dovevano prendersi cura di lei fallirono. Sebbene Genie sia diventata forse il caso più famoso della psicologia in tal senso, non ha fornito prove conclusive a favore o contro l’ipotesi dell’esistenza di un periodo critico nello sviluppo del linguaggio. Diventò il fulcro del dibattito sulla ricerca etica e sul potenziale conflitto tra le necessità degli scienziati e i diritti dei partecipanti (eticità). Senza sapere se lei fosse ritardata fin dalla nascita, non è stato possibile chiarire il dibattito natura-cultura. Infine la storia di Genie può essere vista come un catalogo di errori, di sfortuna e di fraintendimenti. La sua storia può essere considerata il prodotto della deviazione umana. D’altro canto, nonostante l’abuso, la mancanza di cure e d’amore, tutte
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le sofferenze, le menzogne e il disinteresse da lei subiti, la storia di Genie arriva alle persone e tocca i loro cuori, mostrando la via umana del perdono. Nel suo modo speciale, Genie è fonte di ispirazione per tutti noi.
Bibliografia 1. Rymer R (1993) Genie: A scientific tragedy. HarperCollins, New York 2. Rymer R (1993) In volo dal silenzio. La storia di Genie. Baldini&Castoldi, Milano 3. Curtiss S (1977) Genie: A psycholinguistic study of a modern-day “wild child”. Academic Press, New York 4. Brown R, Hernstein R (1975) Phychology. Methuen, London 5. Lennerberg E (1967) Biological foundation of language. Wiley, New York 6. Lennerberg E (1982) Fondamenti biologici del linguaggio. Bollati Boringhieri, Torino 7. Eimas P (1985) Speech perception in early infancy. Scientific American 252:46-52 8. Sampson G (1997) Educating Eve. Cassell. London 9. Jones P (1995) Contradictions and unanswered questions in the Genie case: a fresh look at the linguistic evidence. Lang Commun 15:261-280
Psicologia dello sviluppo Il ragazzo che non fu mai una ragazza: la storia di David Reimer
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Bruce Reimer nacque il 22 agosto 1965, primo di una coppia di gemelli. Ad otto mesi, sottoposto a un normale intervento di circoncisione, il suo pene fu accidentalmente cauterizzato. A seguito della consulenza di un sessuologo di fama mondiale, il Dott. John Money della John Hopkins University, i genitori si convinsero che la cosa migliore per Bruce fosse crescere come se fosse una ragazza, e lo chiamarono Brenda. Tale decisione preludeva a un programma di riadattamento psicosociale, da farsi attorno ai 12 anni, e a un successivo intervento di cambio di identità sessuale. Il caso fu riportato nelle riviste scientifiche come un caso di assoluto successo e, all’insaputa dello stesso Bruce, divenne uno dei più famosi casi-studio della letteratura scientifica medica e psicologica. Il caso noto con il titolo “Gemelli” ha permesso un’importante indagine sul tema dell’identità di genere e sul dibattito relativo alla classica controversia natura/cultura. Il cambio di sesso nei bambini, in presenza della condizione di genitali ambigui, ancora oggi si basa almeno in parte sull’evidenza di questo caso (del caso di Bruce). In realtà l’esperimento fu un totale fallimento. Venuta a conoscenza della verità, “Brenda” successivamente scelse di riassumere la propria identità di uomo, ricominciando una vita nuova con una moglie e dei figli nella città di Winnipeg in Canada.1
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Buona parte del capitolo proviene dall’interessante libro su questo caso scritto, con il consenso di David Reimer, da John Colapinto [1].
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Background Ron e Janet Reimer crebbero in una zona di campagna nelle vicinanze di Winnipeg in Canada. Entrambi membri di famiglie appartenenti alla comunità dei Mennoniti, una comunità di osservanti religiosi simile a quella degli Amish, trascorsero l’adolescenza nella più stretta osservanza religiosa, fino al momento del loro trasferimento in città, dove Janet trovò un lavoro da cameriera e Ron trovò posto in una macelleria. Si sposarono il 19 dicembre del 1964 e il loro sogno era di avere dei gemelli. Nove mesi più tardi il sogno divenne realtà. I gemelli furono chiamati Bruce e Brian, e sebbene fossero identici Janet e Ron potevano distinguerli bene, Bruce era il più attivo tra i due. La famiglia trascorreva una vita appagata, semplice e felice. Attorno ai sette mesi Janet notò che i bambini avvertivano fastidio nell’urinare. Il medico diagnosticò una fimosi, una condizione nella quale il prepuzio è troppo stretto e che è facilmente rettificabile con la circoncisione. L’intervento venne fissato per il 27 aprile 1966. Quel giorno il medico che abitualmente praticava questo tipo di intervento non poté effettuare l’operazione e fu sostituito dal un praticante, il Dr JohnMarie Huot. Un’infermiera fu mandata a prendere uno dei due gemelli per il primo intervento, e per caso, fu preso Bruce. Gli esatti dettagli dell’operazione sono confusi, ma sembra che una clip per arterie venne applicata sul prepuzio di Bruce e che al posto del bisturi per rimuovere il prepuzio fu usato un cauterio di Bovie, un macchinario che utilizzava la corrente elettrica collegata ad un dispositivo tagliente che serviva a cauterizzare i bordi delle incisioni, chiudendo i vasi sanguigni per evitare il sanguinamento. Utilizzare sia il clippaggio che l’elettrocauterizzazione era inutile e pericoloso, poiché la clip avrebbe condotto la corrente elettrica sul pene. Quando il dispositivo fallì il primo taglio, il voltaggio della corrente elettrica fu aumentato con degli effetti devastanti. Il pene di Bruce fu cauterizzato fino alla base, gli venne applicato un catetere e l’intervento del gemello, Brian, fu cancellato. Due settimane dopo, la piccola parte residua del pene bruciato di Bruce si essiccò e squamò fino a che non rimase più nulla. Non vi era alcuna possibilità di riportare l’organo al suo precedente stato, ed ai genitori venne detto, in ospedale, che l’unica e la migliore possibilità per il bambino sarebbe stata di impiantare un fallo artificiale prima dell’ingresso nella scuola. Tale tecnica negli anni ’60 era agli albori e un eminente psichiatra li informò che in futuro Bruce avrebbe dovuto realizzare che “era incompleto, fisicamente handicappato e diverso, il che l’avrebbe portato a vivere un’esistenza a parte”. Ron e Janet fecero ritorno a casa con i gemelli in evidente stato di shock. Alla loro angoscia si aggiunse il fatto che la fimosi di Brian si era risolta da sola senza nessun intervento - Bruce pertanto non avrebbe dovuto essere affatto circonciso. L’intervento mal riuscito ebbe effetti devastanti sulla famiglia. Ron raccontò ad alcuni colleghi di lavoro l’accaduto, ma verificando che questi ne facevano oggetto di scherzo e derisione, prese la decisione assieme alla moglie di non rivelare più a nessuno l’accaduto, ritenendo in tal modo di tenere la famiglia al sicuro dagli inevitabili pettegolezzi. L’effetto di tale scelta fu un totale isolamento: divennero prigionieri nel-
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la loro stessa casa, non volendo rischiare che alcuno, ad esempio una eventuale babysitter, potesse scoprire la verità su Bruce al momento del cambio del pannolino.
Una possibile soluzione? Dieci mesi dopo l’intervento, Ron e Janet erano seduti a guardare un programma televisivo, ignari che ciò che stavano guardando avrebbe catalizzato una catena di eventi ancora peggiori di ciò che già era accaduto. Ospite del programma era il Dott. John Money della John Hopkins University, uno studioso e ricercatore di sessuologia di fama mondiale, oltre che un accademico carismatico e persuasivo. Durante la trasmissione riferì che il suo team di ricerca aveva condotto con successo un intervento di cambio-sesso, sostenendo la possibilità per un individuo di poter cambiare di genere. Sosteneva che il sesso così assegnato era l’indicatore migliore del futuro genere dell’individuo, molto più del corredo sessuale ascrivibile ai cromosomi, agli ormoni ed alle gonadi. Un transessuale intervistato affermò che si sentiva più felice ed accettato dalla società con il nuovo genere di donna. Infine il programma trattò l’argomento dell’intersessualità dei bambini, in riferimento a bambini nati con genitali ambigui. Al riguardo Money spiegò che in tali casi attraverso l’intervento e la terapia ormonale si poteva consentire a questi bambini di crescere positivamente qualunque fosse stato il sesso loro assegnato. Lo studioso sosteneva, quindi, che tra sesso genetico e sesso psicologico (genere2) non vi fosse corrispondenza. Ron e Janet rimasero affascinati dal Dott. Money, immediatamente scrissero allo studioso raccontando nel dettaglio la loro situazione e ricevettero una pronta risposta. Il Dott. Money aveva infatti realizzato l’eccezionalità del caso che gli veniva presentato. A lungo lo studioso aveva sostenuto che una chiara identità di genere non era determinata dalla nascita, formalizzando la teoria di “neutralità di genere”. Riteneva che, nei casi di sesso ambiguo, i chirurghi avrebbero dovuto scegliere il genere più appropriato dalla nascita e successivamente con una combinazione di interventi chirurgici, di trattamenti ormonali e di psicoterapia, ciascun bambino si sarebbe adattato con successo a qualsiasi tipo di genere assegnato. Le critiche a questa teoria sono relative al fatto che possa applicarsi esclusivamente ad un piccolo gruppo di popolazione, ossia ai bambini nati con genitali ambigui o ermafroditi. Money al contrario sosteneva che la teoria della neutralità di genere potesse esser applicata a tutti i bambini ed il caso di Bruce gli dava l’opportunità di darne prova. Inoltre il gemello identico Brian avrebbe costituito un controllo perfetto.
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Sebbene “sesso” e “genere” siano spesso utilizzati in modo interscambiabile in letteratura, qui con “sesso” si fa riferimento al sesso biologico o genetico mentre per “genere” ci si riferisce al senso personale di appartenenza di genere, ossia ciò che una persona sente di essere a prescindere dal suo sesso biologico. (NdT: in inglese la distinzione tra “sesso” e “genere” è più netta rispetto all’italiano).
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Se un bambino sano di sesso maschile poteva essere con successo riassegnato al sesso femminile, si sarebbe dimostrato che la sessualità è indifferente al dibattito psicologico natura-cultura, sintetizzato nel quesito: siamo ciò che siamo grazie alla nostra eredità genetica o siamo ciò che siamo grazie all’ambiente nel quale ci sviluppiamo e alle esperienze che viviamo dopo la nascita? Se Money avesse potuto dare una risposta a tale quesito sarebbe divenuto l’accademico più famoso e rispettato del mondo, non poteva quindi lasciarsi sfuggire una simile occasione. La famiglia Reimer fu immediatamente invitata alla John Hopkins University per discutere il caso. All’epoca un giovane studente, Milton Diamond, iniziava il proprio percorso di studi di dottorato, presso l’università del Kansas, esaminando gli effetti degli ormoni sul comportamento umano. Il giovane ricercatore non era molto convinto della teoria della neutralità, al contrario riteneva che il comportamento di genere fosse pre-programmato già nell’utero. Il gruppo di studio del Kansas sperimentò quest’idea su un gruppo di cavie ermafrodite create attraverso l’inoculamento di testosterone in femmine gravide. Il risultato ottenuto fu che le femmine nate presentavano un clitoride della misura di un pene. Il quesito cui si voleva rispondere era se queste femmine avrebbero esibito comportamenti maschili o femminili. La risposta fu che le femmine trattate con testosterone agivano come maschi, ad esempio tentando di montare femmine non modificate sperimentalmente. Diamond riteneva con tale prova di aver dimostrato che le esperienze pre-nascita determinano i comportamenti genere-specifici. In altre parole, almeno nei porcellini d’India, il comportamento maschile poteva essere programmato precedentemente alla nascita e indipendentemente dal sesso reale dell’animale. Tali evidenze sembravano contraddire apertamente la teoria della neutralità del genere alla nascita, ma erano al momento provate esclusivamente su campioni animali e non era provato che i risultati potevano essere estesi al comportamento umano. Diamond era tuttavia convinto che Money fosse in errore, inequivocabilmente sosteneva che i fattori pre-nascita fossero di prioritaria importanza per l’identità di genere mentre la socializzazione giocasse un ruolo secondario. Egli riteneva che sebbene ci fosse la possibilità che un ermafrodita potesse essere con successo indirizzato verso uno dei due generi indifferentemente, la teoria del genere neutro non poteva essere applicata a tutti i neonati “normali”. Fu lo stesso Diamond a gettare il guanto di sfida a Money, suggerendo che per sostenere la sua teoria avrebbe dovuto portare la prova di un bambino sano di sesso maschile riassegnato con successo al genere femminile. Il caso dei gemelli ha significato la possibilità per Money di sperimentare questa teoria e sfortunatamente il pensiero di Diamond fu ignorato per molti anni a venire.
Da maschio a femmina? Già dal primo incontro i Reimer sentirono che John Money era la persona che avrebbe potuto risolvere il loro problema. Si trattava di un accademico di rispetto e con un grande potere di persuasione, lo consideravano un “Dio” e gli accordavano piena
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fiducia. Money spiegò loro che Bruce avrebbe potuto con successo crescere come una ragazza e svilupparsi con successo come donna. Sarebbe stata in grado di avere rapporti sessuali come una donna e sarebbe stata attratta dagli uomini. I Reimer erano ignari che Money indicava una serie di azioni che mai era stata sperimentata su un bambino sano nato con un sesso maschile perfettamente funzionante. Money era insofferente alle domande sul futuro dei due genitori, essendo convinto che la riassegnazione di genere dovesse essere fatta prima del secondo anno di vita. Dopo attente riflessioni, Ron e Janet presero la loro decisione, nella convinzione che sarebbe stato più facile per Bruce essere cresciuto nel ‘gentil sesso’ a partire dalla considerazione che i problemi che avrebbe sofferto a vivere una vita da uomo privo di pene sarebbero stati troppo duri da sopportare. Il 3 luglio 1967 Bruce fu castrato chirurgicamente e venne scelto per lui un nome che iniziava con la stessa lettera B: Brenda. I Reimer tornarono a casa con una serie dettagliata di raccomandazioni di come crescere la loro figlia che applicarono alla lettera sin da subito: le lasciarono crescere i capelli, le comprarono bambole per giocare e non fu mai fatta menzione della tragedia avvenuta. A tutti gli effetti erano diventati genitori di una coppia di gemelli non-identici: un maschio e una femmina. Guardando i gemelli un estraneo vedeva due bei bambini non somiglianti: Brian con i suoi capelli neri corti e Brenda con bei capelli lunghi mossi fino alle spalle. Questa differenza sparì non appena Brenda iniziò a camminare e a parlare: in ogni cosa facesse, era un vero maschio. Non avrebbe mai voluto giocare con i giochi da bambina che le avevano regalato, preferendo prendere in prestito quelli del fratello. Amava i giochi fisici, le pistole giocattolo, i soldatini ed un set da falegname che Brian aveva. Imitando il fratello camminava come un ragazzo, sedeva con le gambe aperte e spesso vinceva alle lotte che i due ingaggiavano. Brenda poteva essere descritta come il “maschio” dominante della coppia. Per Brenda tutto ciò generava confusione e per Brian era deprimente. Money sminuì tutti questi comportamenti da ‘maschiaccio’ di Brenda insistendo con i coniugi Reimer di proseguire l’educazione di Brenda al femminile. Vi erano ulteriori indizi nel passato di Brenda. Ad esempio la bambina insisteva a voler fare pipì in piedi. L’insegnante della scuola materna, così come il suo assistente, avevano già notato questi comportamenti più da maschio che da femmina e ben presto Brenda iniziò ad avere problemi a scuola. Nonostante i lineamenti delicati (e il fatto che Janet la vestisse sempre con i capi di abbigliamento più femminili), finiva spesso a ingaggiare lotte con i maschi tornando a casa coperta di fango. Il QI di Brenda era stato valutato dal Dott. Money, ed il punteggio era risultato 90, collocandola leggermente al di sotto dell’intelligenza media; i risultati scolastici erano molto più scarsi, se confrontati con il QI. Ron e Janet non avevano informato la scuola della problematica storia di Brenda, ma per evitare che venisse rimandata un anno indietro insieme a compagni più piccoli, decisero finalmente di informare le sue insegnanti. La battaglia che Brenda viveva a scuola era in aperto contrasto con i successi accademici che il Dott. Money stava raccogliendo. Durante gli anni ‘50 aveva sostenuto che i fattori ambientali dopo la nascita erano di importanza determinante per la costruzione dell’identità di genere. Aveva portato prove su gemelli intersessuali che erano stati cresciuti con successo con una nuova identità di genere, ed ora poteva pro-
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durre come prova il caso dei gemelli a sostegno della propria teoria. Money aveva due ragazzi identici, la cui esperienza pre-nascita seguiva un normale modello maschile, ed ora uno dei due viveva con successo una vita da ragazza. Lo studioso non fece mai riferimento ai problemi comportamentali di Brenda, sostenendo che alcuni tratti da maschiaccio erano solo il risultato della volontà di Brenda di ricopiare il fratello. La conclusione dell’esperimento aveva mostrato che maschi e femmine si diventa, non si nasce. Il caso dei “gemelli” ebbe un’immediata risonanza. I testi scientifici furono riscritti riportando le prove a sostegno che la cultura sia il fattore determinante la costruzione dell’identità di genere. Il comportamentismo era il paradigma teorico dominante a quel tempo e le idee di Money ne erano una perfetta conferma. Il movimento dei diritti delle donne prese spunto da queste assunzioni per suggerire che le differenze biologiche non potevano sostenere più a lungo la discriminazione sessuale. Chirurghi e genitori, che a lungo si erano interrogati sul tipo di comportamento da tenere nel caso di un figlio intersessuale, si convinsero rapidamente ad interventi chirurgici di cambio di sesso. Dopotutto se un maschio poteva essere cresciuto con successo come una ragazza, un ermafrodita avrebbe avuto ancora meno problemi. Le ramificazioni prodotte dal caso dei gemelli erano ampie e Money riscuoteva il proprio successo personale. Ma vi era una voce dissenziente in tale deserto: Diamond, il quale non era ancora pienamente convinto della teoria della neutralità di genere. Sosteneva che il caso dei gemelli accendeva una luce sulla meravigliosa adattabilità del comportamento umano ma che la biologia continuava a giocare un ruolo centrale nell’identità sessuale. Diamond non poteva credere che la biologia non giocasse un ruolo chiave e davvero c’erano stati casi di bambini maschi nati con micropene, a cui era stato chirurgicamente riassegnato un sesso femminile, ma che alla fine erano ritornati ad essere maschi durante l’adolescenza. Inoltre sottolineava alcuni problemi metodologici nello studio di Money. Un articolo in cui venivano esposti tali aspetti fu preventivamente bloccato al momento della pubblicazione su insistenza di Money e grazie al suo potere, e quando finalmente fu pubblicato le critiche vennero ignorate. Money era un accademico di fama internazionale e il caso dei gemelli era ormai considerata la prova definitiva e conclusiva della sua teoria della neutralità di genere. Money suggeriva la ri-assegnazione di sesso chirurgica fin dalla nascita per bambini nati con genitali ambigui e questa procedura venne adottata nei maggiori paesi del mondo ad eccezione della Cina. Il caso dei gemelli dovrebbe costituire un monito per l’accettazione cieca del punto di vista dell’esperto, in modo particolare per chi viene considerato il migliore nel suo campo!
Dubbi sperimentali? Come parte del programma di ri-assegnazione sessuale di Brenda, la famiglia faceva visite annuali alla John Hopkins University di Baltimora per incontrare il Dott. Money. Brenda reagiva con orrore e ira ad ogni visita: già dai quattro anni di età combatteva tirando pugni e calci a chiunque volesse sottoporla a test. Anche suo
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fratello Brian era invitato a queste visite, che trovava altrettanto noiose. Lentamente cominciava ad essere chiaro ai gemelli che ci fosse qualcosa che non andava: perchè dovevano sottoporsi a queste visite, alle quali nessuno dei loro amici veniva sottoposto? Brenda non poteva comprendere perché la maggior parte delle domande fossero sul sesso e sul genere. Quando fu sottoposta al test del disegno della persona, che si suppone aiuti ad identificare l’identità di genere del soggetto, raffigurò un’esile figura di ragazzo. Quando gli fu chiesto chi avesse disegnato, rispose semplicemente “me”. I due ragazzi iniziarono a realizzare il tipo di risposte che veniva richiesto loro. Demand characteristic è quel fenomeno che in psicologia si riferisce al verificarsi di un artefatto sperimentale nel quale i partecipanti indovinano gli obiettivi dello studio cui sono sottoposti e conformano i loro comportamenti ad essi. Questo è esattamente ciò che i gemelli iniziarono a fare, quindi i risultati di Money possono essere stati invalidati da questo bias. Naturalmente, Money era consapevole di questi problemi metodologici e cercò di mettere alla prova le risposte dei ragazzi, tuttavia la sua obiettività era messa a dura prova perchè stava iniziando ad ottenere le risposte che sperava di sentirsi dare. Un particolare incidente può illustrare molto bene la non obiettività dello studioso. Money chiese a Brenda di una gita allo zoo, chiedendole poi in quale animale le sarebbe piaciuto trasformarsi se avesse potuto, Brenda rispose: una scimmia. Quando Money le chiese se avesse preferito una scimmia “maschio” o una scimmia “femmina”, lei rispose “femmina”. Questa risposta fu presa da Money come prova di preferenza di genere di Brenda. Anni più tardi, Brenda, ormai ritornata ad essere maschio con il nome di David, sostenne che la sua risposta era stata ‘gorilla’ e non scimmia. Pur non volendo sottolineare una deliberata volontà nell’errore commesso da Money nel riportare il dato, questo fatto chiarisce molto bene quanto il ricercatore ascoltasse quello che voleva sentire. Gli stessi gemelli anni più tardi riferirono che lo stesso Money si presentava in differenti modi durante le sedute: in presenza dei genitori appariva come un “amichevole zio”, in loro assenza poteva addirittura urlare loro. Arrivò a chiedere ai gemelli, all’età di sei anni, di simulare una scena di sesso tra di loro. In altre situazioni mostrò ai ragazzi delle foto di sesso esplicite al fine di rinforzare la loro identità di genere. Tali accuse vennero successivamente negate da Money, sebbene egli stesso avesse scritto che foto simili potevano utilmente far parte dell’educazione sessuale di un ragazzo. Ron e Janet erano assolutamente ignari di tutto ciò e dovevano continuamente offrire ai gemelli ricompense, come viaggi a Disneyland, per convincerli a proseguire le visite alla John Hopkins. Quando Brenda raggiunse l’età di sette anni, Money iniziò a parlare della possibilità di un futuro intervento di ricostruzione della vagina, sostenendo che molti dei problemi della bambina fossero dovuti alla sua consapevolezza di essere diversa dalle altre bambine. Incluse quindi tra i compiti dei genitori da svolgere a casa di parlarle dei genitali e dell’eventuale intervento. Effettivamente Brenda era consapevole della propria diversità, ma non aveva nessuna intenzione di sottoporsi ad alcun intervento. Divenuta sempre più triste nel vedere che i propri genitori seguivano Money e non i suoi desideri, messa sotto pressione da Money stesso, costantemente infelice a scuola, Brenda ebbe un forte esaurimento nervoso.
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Dubbi in famiglia? Ron e Janet iniziarono a nutrire dei dubbi sulla decisione presa. Osservarono l’infelicità di Brenda e constatarono che la ri-assegnazione sessuale non sembrava funzionale. Credevano in John Money, avevano riposto in lui la loro fiducia e non vedevano strade alternative. Ma la situazione era divenuta insostenibile. Anche Brian iniziava a mostrare difficoltà comportamentali: era geloso di tutte le attenzioni rivolte a Brenda, ed una volta fu scoperto a rubare in un negozio locale. Nella più cupa delle disperazioni e alla ricerca di un nuovo inizio, la famiglia Reimer vendette la loro casa e si trasferì verso ovest in British Columbia. Ma lo spostamento più che una rinascita fu un vero disastro: Brenda si ritrovò ancora più isolata, Ron, completamente assorbito nel lavoro in segheria, la sera si attaccava alla bottiglia e Janet ebbe una grave depressione. Ingoiò una bottiglia intera di sonniferi e fu salvata solo grazie al tempestivo intervento di Ron. La famiglia decise quindi di tornare a Winnipeg. Brenda riteneva di essere la causa della maggior parte dei problemi della famiglia. Decise così di tentare di salvare il matrimonio dei propri genitori assumendo dei comportamenti più femminili, nonostante ciò i suoi sforzi erano limitati da alcuni cambiamenti fisici che manifestavano la sua mascolinità, come la profondità del tono di voce e la crescita dei muscoli. I problemi a scuola continuavano, veniva trattata come un disadattato, tentò di unirsi ad un gruppo di maschiacci, tentando di sviluppare delle amicizie. I suoi compagni di classe la prendevano in giro apostrofandola ‘cavernicola’. Le fu anche vietato di utilizzare il bagno delle donne quando fu scoperta a fare pipì dalla posizione eretta, doveva quindi utilizzare un angolo appartato della strada per i suoi bisogni. Chiaramente divenne sempre più problematica, e gli psichiatri locali a cui era affidata stentavano ad identificare la vera realtà di Brenda con quella che veniva descritta e avevano letto nelle relazioni redatte dal Dott. John Money. In ogni caso nessuno mise in questione la decisione originaria di riassegnarle un sesso nuovo diverso da quello biologico, al contrario cercarono di convincere Brenda ad assumere estrogeni, gli ormoni femminili, per facilitare il corso della pubertà femminile. Non avendo altra possibilità, attorno ai suoi dodici anni, Brenda iniziò tale terapia, anche se, quando poteva, gettava via le pillole, ma nel tentativo di mascherare gli effetti degli estrogeni, iniziò a fare grandi abbuffate per cercare di prendere peso. Agli psichiatri locali Brenda riferì di sapere di essere fisiologicamente differente da un soggetto normale, avendole il padre riferito di un qualche “errore” avvenuto nell’infanzia. Successivamente riferì che pensava che fosse stata la madre ad averla “battuta” tra le gambe. Tale asserzione risulta perfettamente compatibile con la teoria dello sviluppo psicosessuale di Freud, dove viene ipotizzato il desiderio sessuale del figlio maschio per la madre: il complesso di Edipo, così viene definito da Freud stesso, in riferimento al mito greco in cui un giovane uomo inconsapevolmente uccide il proprio padre per sposare la madre. I ragazzi realizzano presto di essere in competizione con i propri padri per ottenere l’affetto esclusivo delle madri, ma quando realizzano la maggior forza dei padri, soffrono per quella che viene definita “an-
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sia da castrazione”, che corrisponde al timore di venire castrati. Nel tentativo di evitare ciò e per farsi notare dalle madri assumerebbero il comportamento del padre. Freud sosteneva che dall’altro lato le femmine soffrivano del complesso di Elettra: scoprendo la mancanza del pene, soffrirebbero di ‘invidia del pene’ addossandone la responsabilità alla madre. Quest’ultima interpretazione potrebbe essere quella fatta da Brenda, attribuendo la perdita del pene alla madre. Al fine di rientrare in possesso del proprio pene le bambine sceglierebbero il proprio padre come oggetto del proprio amore; entrando in una relazione sessuale simbolica con il padre si riapproprierebbero del proprio pene. Secondo la terapia psicoanalitica si trae beneficio nel riconoscere tali pensieri inconsci per risolvere eventuali disfunzioni. Il problema con tale approccio è ovviamente relativo al fatto che possono essere individuate molteplici spiegazioni alternative per interpretare la situazione. Quando a Janet fu rivelato che Brenda si chiedeva se lei avesse abusato sessualmente della figlia, inorridì. In tale situazione Janet domandò alla figlia se ci fosse ancora ragione di continuare le visite annuali dal Dott. Money e avendo ottenuto un netto diniego le visite furono annullate. Con grande soddisfazione di tutta la famiglia non fecero mai più ritorno a Baltimore.
Qual era il mio nome? Nel 1979 la BBC inviò una troupe a Winnipeg e a Baltimore, nell’intento di ottenere maggiori dettagli sul caso dei “gemelli” per un film sul tema dell’identità di genere. Gli inviati contattarono gli psichiatri di Brenda e anche il Dott. Money. Sebbene all’inizio Money accolse volentieri i giornalisti, quando questi rivelarono che avevano anche contattato altri accademici che avevano messo in discussione il successo del caso, facendo esplicita menzione al giovane Milton Diamond, immediatamente il suo atteggiamento mutò, li scacciò in malo modo e scrisse successivamente una lettera di protesta al direttore generale della BBC in cui lo minacciava di azioni legali e per ottenere il risarcimento dei danni causati alla famiglia Reimer. Il programma della BBC andò in onda nonostante le proteste, ma non ebbe il successo atteso presso la comunità accademica. Vennero sollevate critiche, ma la reputazione di Money non fu intaccata, così come non furono messe in discussione le prove da lui presentate. Pur non avendo più contatti diretti con Brenda, Money dopo gli anni ’80 tenne una lunga serie di relazioni pubbliche sul caso, spiegando che la propria riluttanza a pubblicare articoli di aggiornamento del caso era dovuta proprio all’intrusione dei media nella vita della ragazza. I mesi passavano e Brenda sviluppava sempre più tratti da ragazzo. Divenne sempre più maschile nel suo vocabolario, negli abiti e nelle azioni. Gli psichiatri locali, e gli stessi genitori, decisero che era giunto il momento di rivelarle la verità sulla sua nascita, così un giorno Ron invitò fuori Brenda per un gelato. Brenda intuì il peggio, dal momento che spesso le notizie peggiori le erano state dette durante un’uscita per prendere un gelato. Ron iniziò raccontando a Brenda della sua nascita e dell’incidente avvenuto nei mesi successivi. Mentre Ron piangeva, Brenda rimase im-
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pietrita guardando rigidamente davanti a sé. In realtà una miriade di emozioni la pervadevano: incredulità, sbigottimento e rabbia, ma principalmente un senso di sollievo. Alla fine c’era una spiegazione, per quanto orribile, a tutte le difficoltà che aveva attraversato. Fece un’unica domanda al padre: “Qual era il mio nome?”. Brenda decise subito di ritornare al proprio sesso biologico. Il problema era come realizzare questo progetto. In effetti non si trattava di qualcosa che potesse essere fatta semplicemente, come quando si cambiano degli abiti. Una simile decisione, ovviamente, avrebbe attirato critiche, pettegolezzi e allusioni e Brenda aveva già sperimentato le ferite di tali maldicenze. Non voleva riprendere il suo precedente nome, Bruce, che non gradiva, così scelse di chiamarsi David, in omaggio al re David, un nome che lei associava alle grandi difficoltà che Davide aveva incontrato quando aveva dovuto affrontare il gigante Golia. Una settimana dopo aver compiuto i quindici anni, David fece la sua prima uscita pubblica ad un matrimonio di un parente. Aveva cominciato ad assumere testosterone, per contrastare gli estrogeni assunti, si sottopose ad un doloroso intervento di mastectomia e poco prima dei sedici anni si sottopose anche all’intervento di costruzione di un pene artificiale. I gemelli erano d’accordo sulla versione ufficiale da fornire e diffondere: Brenda era morta in un incidente aereo e David era un lontano cugino che non vedevano da molto tempo. Alcuni credettero a questa versione, mentre altri, pur sospettando, si astennero dal fare domande per avere ulteriori chiarimenti. Sebbene David fosse molto più felice nei panni di ragazzo, altre esperienze dolorose lo attendevano. Ad esempio, non potendo smettere di pensare al medico che gli aveva sbagliato l’intervento di circoncisione, decise di vendicarsi. Acquistata una pistola di seconda mano, e dopo aver scoperto l’indirizzo del luogo di lavoro del Dott. Huot, si recò nella stanza del medico. Riconoscendo David, il Dott. Huot iniziò a piangere, a quel punto David gli chiese se si fosse mai reso conto di tutto il male che gli aveva causato, gettandolo in un vero e proprio inferno. Detto ciò lasciò la stanza, raggiunse il fiume locale dove, dopo aver gettato la pistola, finalmente scoppiò a piangere.
Diventare uomo All’età di 18 anni David poté riscuotere la somma che aveva ottenuto come risarcimento del danno subito dal St. Boniface Hospital sedici anni prima. Con una piccola parte dei 170.000 dollari avuti, acquistò un furgoncino che ironicamente aveva chiamato “macchina per fare sesso”. Spesso, David accampava scuse alle sue ragazze per astenersi dall’avere realmente dei rapporti sessuali, e spesso simulava di perdere i sensi a causa del troppo alcol bevuto. In un’occasione, realmente privo di sensi, non aveva potuto impedire che una ragazza scoprisse il suo segreto. Sebbene le avesse raccontato l’intera sua storia, la giovane non riuscì a fare a meno di raccontare a tutti gli altri ciò che aveva scoperto, e David si ritrovò ancora una volta ad essere oggetto di pettegolezzi, di ridicolizzazioni ed allusioni. Dopo questo episodio la madre lo trovò quasi privo di vita
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per aver ingerito una overdose di farmaci. Janet ricorda che in quella occasione aveva chiesto al marito se non fosse stato meglio lasciarlo morire in pace, visto che aveva già sofferto abbastanza, ma nonostante questi pensieri nella testa aveva trasportato il più rapidamente possibile il figlio all’ospedale più vicino dove gli fu effettuata una lavanda gastrica. In seguito a tale episodio David si chiuse in se stesso e decise di trascorrere un lungo periodo vivendo isolato in una casetta di legno nella foresta vicino al lago Winnipeg, dove sviluppò un forte amore per la natura.
La tragedia finale A circa 22 anni David subì una nuova falloplastica, il cui risultato lo rese finalmente felice. La moglie del fratello, Brian, avendo conosciuto una giovane donna di nome Jane, madre single di tre figli, organizzò un appuntamento a sorpresa tra i due. Si creò subito un sentimento di amicizia fin dal primo incontro. Jane era già stata informata di tutti i problemi passati da David, ma ciò non sembrava mutare il suo sentimento per lui, quindi il 22 settembre 1990 si sposarono. David veniva descritto in quel periodo come un giovane uomo con un gran senso dell’umorismo, sicuro di sé, soddisfatto sia del proprio lavoro che della propria famiglia, amante delle attività all’aria aperta come la pesca e il camping, e grande fan di Elvis Presley. Si diceva che avesse accettato il proprio passato, senza averlo cancellato. Alla fine era riuscito ad ottenere una vita normale, che includeva rapporti sessuali con sua moglie. Ciò che maggiormente lo feriva della castrazione chirurgica subita era l’impossibilità di avere figli propri. In quel periodo David non era a conoscenza di quanto il suo caso fosse famoso e citato nel mondo accademico e sicuramente non poteva credere che alcuni lo ritenessero un caso risolto con successo. Fu Milton Diamond ad informarlo di tale notorietà, cosa che fece scattare in lui una risposta immediata: abbandonare l’anonimato per diffondere l’intera verità sul suo caso. Il suo intento era quello di aiutare altri che si fossero trovati nelle sue stesse condizioni. Rese così pubblica la propria storia, partecipando anche al noto show di Oprah Winfrey. Nel 2000 scrisse allo stesso Money per chiedere un incontro e delle scuse ufficiali, ma ottenne un netto rifiuto. Sfortunatamente una nuova tragedia si abbattè sulla famiglia Reimer: nel 2002 Brian malato di schizofrenia, morì. Morì solo nel proprio appartamento ed il corpo fu scoperto solo tre giorni dopo la morte. Benché si sospettasse il suicidio, la madre Janet insistette nel ribadire che la causa della morte fosse dovuta ad una emorragia cerebrale. La perdita del gemello identico, avvenuta in tal modo, ebbe un profondo effetto su David. Si ritirò nel proprio dolore, andando a visitare la tomba del fratello ogni giorno ed ebbe una grave depressione. Nonostante altri casi di malattia mentale in famiglia, David incolpava se stesso per la morte del fratello. Brian aveva ricevuto spesso meno attenzioni da parte dei genitori, ed anche a lui erano state tenute nascoste le esatte circostanze avvenute alla nascita del fratello. Inoltre era sicuramente stato traumatizzato dalle visite annuali dal Dott. Money e fatto oggetto di scher-
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no dai suoi colleghi di lavoro quando David aveva reso pubblica la sua storia. Irrazionalmente David accusava se stesso per tutto questo. Ciò lo condusse in una tale spirale di dolore che lo portò a perdere il lavoro e alla separazione da Jane, fino a perdere ogni contatto con i figliastri che avevano iniziato a chiamarlo “papà”. In un disastroso investimento economico, perse i 65.000 dollari che aveva ricevuto dalla casa produttrice per aver preso parte ad un film sulla sua vita. Un libro sulla sua vita, scritto dal giornalista John Colapinto, vincitore anche di un premio, da cui è tratta buona parte di questo capitolo, riscosse un gran successo e l’autore, generosamente, decise di dividere il ricavato con David. Colapinto si domandò se questi fondi avessero favorito David nell’abbandonare il lavoro che l’aveva poi portato a rimuginare sugli eventi della sua vita. In seguito a queste circostanze e all’intera sua vita, David Reimer, il 4 maggio 2004, all’età di 38 anni, si suicidò. Guidò fino al supermercato di zona, e nel parcheggio si sparò con un fucile a canne mozze. Janet Reimer attribuì la colpa della morte di entrambi i figli all’educazione impartita loro in seguito alle circostanze così particolari che si erano venute a creare. Un portavoce della John Hopkins University pubblicò una dichiarazione a nome di John Money in cui ribadiva la propria volontà di non commentare più il caso dei gemelli.
Errori di ricerca Nonostante John Money non abbia più fatto riferimento al caso dei gemelli dopo il 1980, continuò a promuovere la sua teoria della neutralità di genere e del successo della riassegnazione chirurgica del genere. E continuò incurante del fatto che in California un ricercatore avesse dimostrato che le iniezioni di testosterone potevano sviluppare le misure del pene in soggetti nati con un micro-pene. All’inizio del 1990, Milton Diamond decise di scoprire la verità sul caso dei gemelli. Il caso è rimasto il più famoso ed influente caso di ricerca sullo studio dell’identità di genere e ancora vi sono sospetti sul fatto che non tutto fosse stato riportato da Money. Il Prof. Diamond è oggi docente di Anatomia e Biologia Riproduttiva all’Università delle Hawaii. Nel 1994, consultò lo psichiatra esercente alla John Hopkins University (Dott. Keith Sigmunson) e scoprì che Brenda aveva vissuto come un maschio fino all’età di 14 anni. Con l’aiuto della BBC, Diamond rintracciò David, e con il suo consenso scrisse un lavoro [2] in cui presentava le prove che David non avesse mai accettato il sesso che gli era stato riassegnato. Un indice della diffusa influenza di Money fu che per pubblicare tale esplosivo lavoro Diamond impiegò più di due anni. Molte persone rimasero turbate e scettiche sui risultati e sulle conclusioni avanzate nello scritto. Effettivamente nel suo lavoro Diamond demoliva molte delle argomentazioni portate da Money. Diamond sosteneva che gli individui non sono psicosessualmente neutri alla nascita e che lo sviluppo psicosessuale non è determinato dai genitali o dall’educazione: è impossibile cambiare i genitali di un bambino, educarlo e aspettarsi che adotti con successo il genere che si è scelto per lui. Come David stesso aveva detto: “Se una donna perde il suo seno, la fai diventare un uomo?” Diamond cita altri studi che ipotizzano la presenza di una forte base neurologi-
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ca sul comportamento sessuale [3,4,5], suggerendo che l’organo principale nella determinazione dell’identità del genere è il cervello e non i genitali. Ci sono altri studi che hanno riportato casi di ragazzi nati con micro-pene indubbiamente corretti come maschi [6] e il caso di una ragazza, che dopo aver dichiarato di essere un ragazzo a 14 anni, scoprì di essere cromosomicamente un maschio [7]. Anche l’Intersex Society of North America (ISNA), un gruppo di crescente influenza, cui appartengono 400 individui intersessuali, sostiene la necessità di abbandonare la pratica della riassegnazione chirurgica di sesso nei bambini. L’ISNA continua a richiedere tale cambiamento, anche se questa richiesta causa in molti membri della Società una profonda angoscia, in quanto contiene una critica implicita alle decisioni prese dai loro genitori molti anni prima. Diamond concluse che non esiste alcun caso conosciuto in cui un maschio cromosomico abbia “facilmente e pienamente accettato una vita imposta come femmina malgrado interventi fisici o medici”, e suggerisce che un maschio cromosomicamente sano dovrebbe essere cresciuto come maschio e gli interventi chirurgici dovrebbero seguire questa linea, indipendentemente dalla difficoltà del tipo di intervento. Sebbene un intervento molto precoce e la riassegnazione al sesso femminile possa apparire più favorevole, facile ed immediata, ciò non è vero a lungo termine. Nonostante queste osservazioni le idee di Money sono ancora seguite e gli interventi di riassegnazione alla nascita sono ancora praticati. Successivamente Money pubblicò un articolo in cui spiegava i motivi per i quali il caso di David non poteva essere preso come evidenza del fallimento della teoria del genere neutro. Sebbene all’inizio Money avesse sostenuto che David costituiva la prova per la sua teoria, successivamente argomentava che le particolari circostanze che riguardavano il caso consentivano di concludere ben poco. Mentre inizialmente aveva sostenuto che un bambino sano nato maschio poteva essere cresciuto con successo come una femmina, come nel caso di David, ora sosteneva che David proprio perché era nato maschio non poteva costituire un esempio, non avendo nulla a che fare con le migliaia di bambini che ogni anno nascono con sesso ambiguo. Si stima che gli interventi di riassegnazione di sesso su bambini nati con genitali ambigui nel mondo siano circa 1000 l’anno. Diamond, contrario a questo tipo di intervento, evidenziò come le prove a favore di questi interventi non fossero sufficienti, sosteneva un approccio più conservativo nell’idea che la riassegnazione di genere avrebbe dovuto basarsi sull’analisi di una molteplicità di fattori unici da considerare in ciascuna situazione3. I bambini avrebbero dovuto avere sin da subito un’identità di genere, ma non assegnata chirurgicamente, fino a che una chiara preferenza di genere non si fosse manifestata. A tale considerazione, Money replicò che non era possibile lasciare un bambino indefinito come una “cosa” fino alla manifestazione chiara di preferenza di genere e che un intervento tempestivo, fin dalla nascita, fosse da preferire. La vicenda ebbe un forte impatto sulla carriera accademica di Money, che si ritirò anticipatamente dal lavoro, e morì il 7 Luglio 2006, all’età di 84 anni a causa delle complicazioni del morbo di Parkinson che lo aveva colpito. Era sta-
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Corrispondenza personale, 16 febbraio 2007.
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to sposato per un breve periodo attorno agli anni ‘50, ma non aveva mai avuto figli. Nell’ultimo periodo della sua vita non aveva più voluto parlare del caso, ma persone a lui vicine riferiscono che si sentiva sconvolto dallo sviluppo degli eventi. Molti genitori sono ancora oggi favorevoli ad un precoce intervento chirurgico per la ri-assegnazione del sesso, sostenendo di non poter lasciare un tale fardello, l’ambiguità del sesso, sulle spalle dei figli. Lo stesso Money, riprendendo tali posizioni, accusava Diamond che l’assunzione della sua teoria avrebbe causato profondi danni psicologici nelle prime fasi dell’infanzia a un numero imprecisato di bambini nati con ambiguità genitale. Oggi si sostiene il modello più conservativo e sicuramente, se l’incidente fosse avvenuto oggi, Bruce sarebbe stato allevato come un maschio. Un numero sempre crescente di medici si stanno spostando dalla posizione interventista di Money a quella più conservativa di Diamond. Il dibattito scientifico su questi temi continua vivace e la vita di David Reimer, ‘il caso-studio risolutivo’, serve da monito sull’importanza del dibattito.
Bibliografia 1. Colapinto J (2000) As Nature Made Him: the boy who was raised a girl. HarperCollins, New York 2. Diamond M (1997) Sex reassignment at birth: a long-term review and clinical implications. Arch Pediatr Adolesc Med 151:298-304 3. Le Vay S (1991) A difference in the hypothalamic structure between heterosexual and homosexual men. Science 253:1034-1037 4. Swaab DF, Filers E (1985) A sexually dimorphic nucleus in the human brain. Science 228:1112-1115 5. Diamond M (2006) Biased interaction theory of psychosexual development. How does one know if one is male or female? Sex Roles 55:589-600 6. Reilly JM, Woodhouse CR (1989) Small penis and the male sexual role. Journal of Urology 142:569-572 7. Reiner WG (1996) Case study: sex reassignment in a teenage girl. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 35:799-803
Psicologia dello sviluppo Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron: la storia di Victor
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Il 9 gennaio 1800, un bambino tra gli 11 e i 12 anni comparve dalla foresta ai margini del villaggio di St-Sermin-sur-Rance, nel sud della Francia. Camminava con postura eretta, ma non parlava né emetteva suono intelligibile. Era coperto da una camicia stracciata e non provava alcuna vergogna per la propria nudità. Fu catturato mentre entrava nel giardino del conciatore di pelli del paese, mentre l’uomo era intento a zappare. Come avviene nei piccoli paesi, la notizia della cattura del ‘ragazzo selvaggio’ presto si diffuse. Iniziò così la storia del ragazzo selvaggio dell’Aveyron,1-come è stato conosciuto- la storia di un ragazzo selvaggio di cui si sarebbe presto parlato in tutta Europa [1,2,3].
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NdT: in italiano è stato tradotto il resoconto scientifico del medico e scienziato J. Itard che si occupò del ragazzo nell’Istituto per sordomuti di rue Saint-Jacque, Parigi, che all’epoca dirigeva [4].
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Il ritrovamento Si capì presto che il ragazzo non era abituato alla vita civile: si accovacciava per urinare e defecava in piedi ovunque si trovasse. Si nutriva esclusivamente di patate che gettava nel fuoco e che poi mangiava ancora bollenti, bruciandosi. Divenne chiaro a tutti coloro che lo visitarono nei primi giorni, tra i quali anche molti curiosi, che egli aveva vissuto allo stato selvaggio nei boschi per lungo tempo e che era completamente privo di qualsiasi convenzione sociale. Dopo due giorni il ragazzo fu trasferito nell’orfanatrofio locale, in St-Affrique, dove gli fu dato il nome di Joseph. Joseph si rinchiuse in se stesso e andò incontro ad una forma di forte depressione. Si riportò infatti che non produsse alcun suono nelle successive due settimane. Rifiutava qualunque tipo di cibo, ad eccezione delle patate, e beveva solo acqua. Strappò qualunque vestito gli fosse dato e rifiutò di dormire in un letto. Era alto circa 1 metro e 40 centimetri, bianco ma dalla carnagione abbronzata, il volto tondeggiante, il naso a punta, capelli scuri aggrovigliati, e centinaia di piccoli cicatrici che coprivano l’intero corpo. Presentava anche una cicatrice di 41 mm alla gola. Tali cicatrici fecero supporre che fosse stato maltrattato da bambino e/o che gli fosse stata tagliata la gola prima di esser abbandonato. La sua gamba destra era curvata leggermente all’interno, il che provocava una leggera zoppia. Tutti i suoi sensi sembravano intatti, ma risultava scarsamente reattivo a qualsiasi stimolo eccetto il cibo ed il sonno. Il direttore dell’orfanatrofio comprese di essersi imbattuto in un caso unico, che avrebbe affascinato sia gli studiosi che la gente comune. Definì il ragazzo un “fenomeno” e scrisse alla stampa parigina chiedendo che il ragazzo venisse affidato e studiato dallo Stato. La storia de L’enfant sauvage de L’Aveyron divenne argomento di conversazione a Parigi. Tale caso costituiva una occasione per verificare le teorie filosofiche di Jean-Jacques Rousseau. Nei suoi primi scritti il filosofo sosteneva che l’uomo è sostanzialmente buono, un “buon selvaggio” quando si trova nello “stato di natura”, ossia nella condizione di tutti gli altri animali e quella vissuta dall’uomo nella fase precedente la civilizzazione e la creazione della società. Le persone naturalmente “buone” vengono corrotte e rese infelici dalle esperienze nella società. Rousseau considerava la società “artificiale” e “corrotta” ed era convinto che lo sviluppo della società conducesse alla continua infelicità dell’uomo. Il ritrovamento del “ragazzo selvaggio” forniva l’opportunità di verificare pienamente queste idee, attraverso lo studio di un ragazzo cresciuto in ambiente naturale mai contaminato dalle influenze “innaturali della società”. All’epoca a Parigi esisteva un famoso istituto per sordomuti diretto da Roch-Ambroise Cucurron Sicard, un influente studioso ed un riconosciuto esperto nell’educazione dei sordi. Essendo venuto a conoscenza del caso, Sicard scrisse due lettere richiedendo la custodia del ragazzo per scopi scientifici. Una delle lettere era diretta a Lucien Bonaparte, fratello di Napoleone e Ministro dell’Interno della Nuova Repubblica. Il prefetto locale suggerì che il ragazzo rimanesse ancora nella zona del ritrovamento, così da poter verificare l’autenticità della storia, temendo un’impostura, e per
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consentire ai genitori della zona, che avevano perso dei figli, di potersi accertare se egli non fosse per caso uno di quei bambini smarriti. In questo periodo Joseph ampliò la propria dieta, cominciando a mangiare piselli, fagiolini, noci e pane di segale; iniziò anche a nutrirsi di carne, anche se indifferente al fatto che si trattasse di carne cotta o cruda. Gli avanzi dei pasti venivano da lui sotterrati in giardino, forse per essere recuperati successivamente.
Gli anni dell’isolamento Si indagarono altri aspetti della vita del ragazzo. Vi erano infatti molte domande ancora da chiarire: il ragazzo era veramente un ragazzo vissuto allo stato naturale, oppure si trattava di un soggetto ritardato abbandonato poco tempo prima del ritrovamento nei boschi? Era in grado di prendersi cura di sé nella foresta? Da quanto tempo conduceva la sua vita selvaggia? Dove e come aveva vissuto? I resoconti riportavano semplicemente che un ragazzo nudo era stato avvistato nei precedenti due-tre anni nelle vicinanze di Lacaune, circa 70 miglia a sud di StSernin. Si nutriva di radici e ghiande e scappava quando si tentava di avvicinarlo. Era stato visto occasionalmente camminare a quattro zampe, anche se più tardi si scoprì che lo faceva solo quando era molto stanco. La mancanza di calli prominenti alle ginocchia, suggerisce che perlopiù camminasse in posizione eretta. Sembrerebbe che gli abitanti della zona fossero a conoscenza della sua esistenza, e lo considerassero puramente una curiosità da ignorare. Venne anche riportato che fosse stato catturato nel 1798 ed esposto nella piazza del paese, ma che successivamente fosse riuscito a fuggire e non si fosse più avvicinato al paese per almeno un anno. Nel giugno del 1799 tre cacciatori si imbatterono casualmente in lui e lo catturarono. Una vedova della zona si prese cura di lui per alcune settimane, gli insegnò a cuocere le patate e gli dette una camicia, la stessa camicia stracciata che egli indossava quando fu ritrovato mesi dopo. La gentilezza mostrata dalla vedova lo incoraggiò a cercare maggiormente il contatto umano e fu infatti più frequentemente avvistato dai contadini della zona. Si avvicinava spesso alle fattorie isolate ed aspettava il cibo che gli veniva offerto. Un contadino, in particolare, gli dava delle patate che egli cuoceva nel fuoco per poi mangiarle ancora bollenti. Dopo essersi nutrito scompariva di nuovo nelle colline per nascondersi in luoghi isolati. Di fatto i contadini lo trattavano alla stessa stregua di un animale, di un uccello selvatico che si presenta occasionalmente. Sebbene essi lo riconoscessero come umano, non reputavano di dover cercare di trattenerlo o vestirlo. Non faceva alcun male e quindi non vi era ragione di doverlo sottomettere. All’epoca le persone avevano maggiore dimestichezza con i cosiddetti “idioti del villaggio”, che circolavano liberi nel paese, ed il ragazzo selvaggio sembrava rientrare in questa tipologia umana. Il ragazzo avrebbe potuto continuare questa vita, ma decise di spostarsi verso nord, nella zona di St-Sernin. La gente del luogo non lo conosceva e la sua cattura divenne quindi più probabile. Il prefetto cercò di scoprire come fosse giunto lì, e non ri-
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uscì a trovare alcuna informazione utile per comprendere come fosse stato abbandonato nella foresta. In seguito si svilupparono molte storie fantasiose, che fosse stato allevato dai lupi o da animali simili, ma restarono pure congetture. Per verificare se fosse un impostore Joseph venne sottoposto inizialmente ad alcuni rozzi esperimenti. Per vedere la sua reazione gli venne dato uno specchio, vide l’immagine di un ragazzo ma apparentemente non si riconobbe, tanto che cercò di acchiappare la patata nello specchio. Si dubitava anche del fatto che fosse riuscito a sopravvivere ai freddi inverni di quella zona della Francia, caratterizzati da frequenti nevicate e da temperature notturne al di sotto dello zero. Il ragazzo sembrava inoltre non amare il freddo, spendendo molte ore accoccolato vicino al fuoco. Per verificare la sua tolleranza al freddo, il ragazzo venne condotto nudo all’aperto in una notte fredda. Non ebbe alcuna reazione e provò piacere per questa incursione all’aperto. Si concluse che, similmente a un cane o a un gatto, il freddo gli fosse indifferente ma che, potendo scegliere, preferisse il tepore del fuoco.
Inviato a Parigi per ulteriori studi Nei cinque mesi trascorsi nel distretto locale, il ragazzo aveva fatto ben pochi progressi. I responsabili ai quali era affidato, scoraggiati, lo consideravano più animale che umano. Si pensò quindi che inviarlo a Parigi per le successive attività rieducative fosse una soluzione migliore. Sfortunatamente contrasse il vaiolo durante il viaggio verso la capitale, ritardando l’arrivo, ma il 6 agosto 1800 la sua diligenza arrivò alle porte dell’Istituto dei sordomuti, presso i Giardini del Lussemburgo. Venne immediatamente affidato alle cure di Sicard. Per le prime due settimane il medico fu così impegnato in altri casi, che Joseph venne praticamente abbandonato a se stesso. Joseph era visibilmente ingrassato, amava essere solleticato ed era spesso sorpreso a ridere senza alcun apparente motivo. Ma tali segni di progresso non corrispondevano ad altri comportamenti: continuava a non usare i servizi igienici, svolgendo le sue funzioni corporali all’esterno senza alcuna vergogna. Si interessava esclusivamente al cibo e a dormire, veniva riportato che “il suo intero essere era concentrato sul suo stomaco”. Non mostrava interesse per ciò che lo circondava e divenne completamente apatico. Evitava gli altri ragazzi dell’Istituto, pur non mostrando aggressività verso le altre persone. Informazioni contraddittorie sono state riferite sulla sua libertà di movimento all’interno dell’Istituto. Alcune fonti suggeriscono che fosse completamente libero di muoversi, e che tuttavia non provò mai a fuggire, altri riferiscono che venisse spesso legato con le catene alla vita per impedirgli di fuggire. In ogni caso nessuno si occupò del ragazzo per tre mesi durante i quali le sue condizioni peggiorarono. Ricominciò a sporcare il letto e ad infliggersi ferite e a mordere e graffiare le persone che si prendevano cura di lui. Veniva spesso visitato da curiosi che corrompevano gli inservienti solo per vedere “il ragazzo selvaggio”. Joseph, infastidito da tali incontri, si aggirava nei corridoi e nel giardino dell’Istituto in uno stato pietoso. Sicard, il grande educatore, sembrava ignorare la propria responsabilità. Dall’essere l’oggetto di interesse
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dell’intera nazione, Joseph tornò ad essere un ragazzo dimenticato ed abbandonato. Si suppone che Sicard considerasse Joseph un caso senza speranza, e che avrebbe rischiato di rovinare la propria reputazione se avesse tentato di curarlo. Una nuova commissione si occupò di misurare sistematicamente le capacità di Joseph, arrivando alla stessa conclusione di Sicard: Joseph era un “idiota”, ridotto agli istinti animali dal periodo trascorso nei boschi, e nulla poteva essere fatto per lui. Se un tale ragazzo venisse oggi ritrovato (come il caso di Genie, vedi capitolo 7), sarebbe oggetto di un’intera batteria di test psicologici al fine di definire i deficit e le possibili cause: una causa “organica” dove il deficit dipende da una causa fisica, quale un danno cerebrale, o una causa ‘funzionale’ in assenza di apparenti cause fisiche. La spiegazione funzionale suggerirebbe che il deficit dipenda dalle circostanze ambientali, mentre la spiegazione organica suggerirebbe la presenza di un danno alla nascita. Queste due ipotesi riflettono il dibattito natura-cultura discusso in relazione al caso di Genie. Joseph è nato con un problema “organico” o i suoi problemi sono il risultato della sua limitata “educazione”? La scarsità di informazioni affidabili sul caso non ci permette di trarre conclusioni definitive. Comunque, fatta eccezione per la cicatrice alla gola, che suggeriva o che si fosse ferito gravemente durante la vita selvaggia nei boschi, o che qualcuno avesse tentato di tagliargli la gola prima di abbandonarlo nei boschi, non presentava altre lesioni fisiche. Nel 1967, Bruno Bettelheim [5,6] esaminò questo caso e concluse che Joseph probabilmente soffriva di una forma di autismo, sebbene fosse impossibile comprendere se fosse nato con tale condizione, e che ciò avesse contribuito al suo abbandono, o se avesse sviluppato la patologia durante gli anni di isolamento. Altri importanti esperti del campo considerano improbabile che un ragazzo autistico, o un idiota, abbia potuto sopravvivere da solo nei boschi per cinque o sei anni. Effettivamente la sopravvivenza per un periodo lungo nei boschi richiede un alto livello di intelligenza, è comunque riconosciuto che gli autistici possono essere molto intelligenti.
Speranza La sua vita non sembrava andare in nessuna direzione. La speranza per Joseph giunse però nell’autunno del 1800 con l’arrivo di un nuovo dottore che era stato assunto dall’Istituto. Si trattava di Jean-Marc Gaspard Itard, che immediatamente si interessò al ragazzo iniziando ad osservarne il comportamento. Itard vide delle potenzialità in Joseph che evidentemente gli altri accademici non avevano visto, ed intraprese presto un programma di valutazione e di riabilitazione. L’educatore ottenne un appartamento all’interno dell’istituto che gli permise di vivere a stretto contatto con Joseph, era un entusiasta giovane dottore ricco di nuove idee e di innovativi metodi di trattamento, senza una sua famiglia, motivo per il quale decise di dedicare l’intera vita al proprio lavoro, e quando morì, lasciò quello che aveva guadagnato a beneficio delle generazioni future di sordomuti dell’Istituto. In via ufficiosa Itard divenne il padre adottivo di Joseph, dedicandogli sempre più tempo. Per certi versi, contestava la diagnosi del suo mentore, Sicard. Infatti, diversamente da
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lui, Itard credeva che Joseph avesse delle possibilità. Sostenuto dalla convinzione che le persone fossero il prodotto del loro ambiente, Itard era convinto che era possibile rieducare Joseph, fornendogli un ambiente appropriato. Se ciò fosse stato provato si sarebbe potuta sostenere la teoria della tabula rasa dello sviluppo umano, che suggerisce che i bambini nascono con ben poche capacità innate e che lo sviluppo avviene quasi esclusivamente come risultato delle influenze ambientali. Tale posizione enfatizza il fattore “cultura” nel tradizionale dibattito filosofico della contrapposizione natura-cultura. Itard sapeva di non poter dedicare tutto il tempo a Joseph ed era consapevole che l’aiuto di un altro adulto era essenziale, di qualcuno che sarebbe diventato un genitore sostitutivo. Madame Guerin viveva all’Istituto con il marito, che lavorava nei giardini ed entrambi vivevano in un piccolo appartamento vicino alle cucine, precisamente sotto alla stanza assegnata a Joseph. I Guerin erano sulla quarantina con figli già adulti che non vivevano più con loro. Madame Guerin era una donna gentile, amichevole e molto compassionevole che non si scoraggiò minimamente di fronte agli strani comportamenti di Joseph. Proprio per queste sue caratteristiche Itard la reclutò come genitore sostitutivo ed ella, in modo notevole, dedicò i successivi 27 anni della sua vita a Joseph. Joseph iniziò a trascorrere la maggior parte del tempo insieme a Madame Guerin che lo nutriva, lo vestiva, lo curava, lo portava in gita fuori dall’Istituto e badò a lui assicurandosi che avesse tutto quello di cui aveva bisogno. Tenendo conto dello stretto rapporto tra Joseph e Madame Guerin, qualsiasi merito sui miglioramenti comportamentali fatti da Joseph va diviso tra Itard e Madame Guerin.
Riabilitazione Itard realizzò un programma terapeutico per Joseph con l’obiettivo di migliorare sia le sue abilità cognitive (linguaggio e pensiero) che quelle sociali, in particolare la sua capacità di interagire con gli altri. Itard e Madame Guerin iniziarono a migliorare le attenzioni che Joseph riceveva fin dal suo arrivo in Istituto, diedero libero sfogo alle sue attività, lasciandolo passeggiare nei campi circostanti anche quando il tempo era brutto, cosa che Joseph amava molto fare e di andare a letto quando calava il buio. Spesso durante le notti di luna piena, Joseph restava alzato a guardare fuori dalla finestra per molte ore, talvolta anche fino all’alba. Come molti “ragazzi selvaggi” amava la neve, una mattina mostrò tutto il suo piacere nel trovare il paesaggio innevato, rotolandosi a terra mentre rideva di cuore. Durante i primi miserabili mesi all’Istituto, Joseph aveva mostrato poco interesse in generale eccetto che per il cibo, non rispondeva mai a nessun suono ad eccezione di quelli connessi al cibo e non piangeva mai, nonostante la sua vita sventurata. Itard decise che poiché i bambini piccoli traggono beneficio dall’acqua con bagni quotidiani, Joseph avrebbe fatto un bagno caldo tutti i giorni. Questo regime sembrò produrre un effetto immediato, Joseph sembrava non vedere l’ora di fare il bagno e si divertiva a schizzare l’acqua ovunque. Gradualmente iniziò a rifiutare di farsi il bagno se l’acqua non era sufficientemente calda e sembrava aver appreso un’av-
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versione verso l’acqua fredda. Questo produsse due effetti: primo, smise di bagnare il letto durante la notte e, secondo, iniziò ad indossare abiti caldi adatti alle temperature che Parigi raggiungeva in pieno inverno. Altri miglioramenti furono immediatamente visibili: aveva iniziato a vestirsi da solo e a usare un cucchiaio per mangiare il suo piatto preferito, le patate bollite, senza aspettare che venissero tolte dal tegame bollente. Itard suggerì che il suo senso dell’odorato si stava iniziando a sviluppare, e notevolmente, vide Joseph starnutire per la prima volta nella sua vita. Sebbene Itard non potesse essere sicuro che si trattasse della prima volta, la reazione spaventata di Joseph sembrava suggerire proprio questo. Joseph iniziò a diventare anche difficile sul cibo: dopo anni di vita selvaggia in un sudiciume inimmaginabile, iniziò a mostrarsi ossessivo rispetto allo sporco, rifiutando piatti che pensava potessero avere qualcosa di sbagliato. Iniziò anche a prendere dei raffreddori e anche altri piccoli malori, il che portò Itard a dichiarare ironicamente che il processo di civilizzazione era iniziato! Lo studioso cercò anche di sviluppare le facoltà mentali di Joseph. Come nel caso di Virginia Axline e del suo trattamento con Dibs avvenuto quasi 200 anni dopo (vedi capitolo 11), Itard diede grande importanza al ruolo del gioco nello sviluppo dell’intelligenza di Joseph. Itard rimase però deluso dalla mancanza di interesse di Joseph verso i giocattoli che gli venivano dati, infatti il ragazzo spesso li nascondeva o li distruggeva quando ne aveva l’opportunità. Un gioco che sembrava divertirlo era quello di nascondere degli oggetti sotto delle tazze capovolte, mischiarle ed indovinare dove l’oggetto si trovava. Inizialmente, per attirare il suo interesse, Itard nascondeva una noce, che Joseph avrebbe poi potuto mangiare. Joseph divenne molto bravo a seguire le mosse di Itard: ciò suggeriva l’esistenza di un livello di intelligenza intatto. Un giorno, Itard organizzò una gita di due giorni in campagna con Joseph che richiedeva di viaggiare in una carrozza chiusa trainata dai cavalli. In netto contrasto con la sua assenza di interesse mostrata il mese precedente verso i panorami visti durante una gita a Parigi, Joseph sembrava entusiasta di essere nuovamente all’aperto in mezzo ai boschi e ai campi. Saltava da un finestrino all’altro per cercare di vedere la campagna da tutti i lati. Itard fu talmente preoccupato da questo suo rinnovato interesse che prese molte precauzioni al fine di evitare una possibile fuga. Al ritorno in Istituto, Joseph manifestò un’eccitazione incontenibile, al punto che Itard decise di non portarlo mai più in campagna. Madame Guerin continuò a fare delle passeggiate in giardino con lui tutti i giorni e Joseph sembrò calmarsi, tornando alla routine a lui familiare. Secondo Madame Guerin, Joseph appariva generalmente felice.
Imparare a comunicare Joseph ancora non comunicava con nessuno. Nonostante fosse evidente che udisse, non prestava una vera attenzione a nessun suono, escluse risposte occasionali a suoni inattesi o toni di voce estranei. Era in grado di ridere e di emettere delle grida soppresse, ma eccetto questi mugugni inarticolati non emetteva alcun suono. Itard sapeva che Joseph sentiva, poiché quando sentiva delle voci si rivolgeva verso il
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suono e correva velocemente a nascondersi nella direzione opposta. Sembrava particolarmente responsivo anche al suono “O”, per questa ragione, Itard propose di ribattezzare Joseph con un nome che finisse con questo suono. Da allora fu chiamato Victor (pronunciato alla francese VicTOR con l’enfasi sulla seconda sillaba), nome che sembrava riconoscere quando veniva pronunciato. Il linguaggio prodotto da Victor non migliorò in modo considerevole, mentre si registrarono alcuni miglioramenti in comprensione. Alcuni attenti esami condussero comunque alla conclusione che Victor fosse in grado di produrre il linguaggio e che il taglio alla gola non aveva colpito le corde vocali. Itard passò mesi frustranti nel tentativo di incoraggiare Victor a parlare. Victor beveva principalmente acqua (eau in francese), e ogni volta che gli veniva data dell’acqua, Itard rinforzava l’azione producendo la parola appropriata più e più volte nella speranza che Victor associasse uno dei suoi suoni preferiti2 con la bevanda. Victor fece qualche progresso nel linguaggio parlato, ad esempio iniziò a riprodurre il frequente ritornello di Madame Guerin che era solita dire “Oddio” (Oh Dieu), almeno nella misura in cui esso appariva riconoscibile come tale. Itard suggerì anche che le azioni di Victor, al tempo, erano talmente espressive che non sembrava aver bisogno del linguaggio per farsi capire. Victor non aveva difficoltà ad esprimere i suoi desideri, indicare fuori significava voler uscire a fare una passeggiata, tirar fuori la sua tazza era la richiesta per avere del latte. Se dei visitatori erano particolarmente noiosi, Victor andava a prendere i loro guanti al fine di accelerare la loro partenza. Quali parole potevano essere più chiare di queste? Nonostante l’Istituto alloggiasse circa un centinaio di sordomuti che utilizzavano quotidianamente la lingua dei segni, non vi è nessuna evidenza che a Victor fu fatto un training nell’uso del linguaggio “mimico”. Moderni terapisti del linguaggio sostengono che Victor avrebbe potuto rapidamente rispondere ad un insegnamento di questo tipo. Itard non diede alcuna spiegazione del perché questa via non fosse stata intrapresa, ma ideò, invece, un altro metodo di insegnamento, che comprendeva l’utilizzo di oggetti attaccati sotto semplici disegni che li rappresentavano, Itard toglieva i disegni e chiedeva a Victor di rimpiazzarli con l’oggetto appropriato. Victor apprese in fretta ciò che gli veniva richiesto persino quando gli oggetti erano collocati in altri punti della stanza. Victor stava definitivamente sviluppando la capacità di “confrontare e contrastare” oggetti e disegni. Lo stadio successivo era quello di portare Victor a distinguere colori e forme usando una procedura simile, mediante fogli colorati di varie forme che venivano appesi nella stanza da letto di Victor. Ancora una volta, il ragazzo apprese rapidamente ad associare sia le forme che i colori. Itard proseguì realizzando compiti di giorno in giorno più difficili, mentre Victor però appariva sempre più frustrato e non sembrava vivere queste prove come una sfida da superare. Era più che altro divenuta una battaglia di volontà tra i due, con Itard che forzava il ritmo e Victor che si frustrava sempre di più posto di fronte a compiti che percepiva come troppo difficili. La risposta abituale di Victor era uno scoppio di rabbia che culminava in un lancio di oggetti. Un giorno Victor, dinanzi alla difficoltà di un compito che gli era stato richiesto di svolgere, si arrabbiò a tal punto da iniziare a
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La parola francese eau, acqua, si pronuncia “o” (NdT).
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mordere il caminetto, gettando carboni roventi, per finire steso a terra in preda ad una crisi epilettica, che gli fece perdere i sensi. A quel punto, Itard tornò a presentargli compiti più semplici, anche se il problema non si risolse, gli attacchi si presentavano più frequenti di fronte alla minima frustrazione. Itard, seriamente preoccupato per il ragazzo, si chiedeva il perchè Victor ricorresse a questi attacchi in risposta ad ogni tipo di frustrazione, interpretando le crisi come un’abitudine appresa, una forma di auto-protezione. Itard decise quindi di ricorrere ad un’azione drastica. Un giorno, mentre Victor iniziò a presentare dei segni iniziali di una “crisi”, lo afferrò per i fianchi e lo fece penzolare a testa in giù dalla finestra del quinto piano. Dopo pochi secondi, lo riappoggiò a terra. Victor rimase lì tremante, pallido e bagnato di sudore freddo, a quel punto l’educatore gli intimò di raccogliere il lavoro che aveva sparpagliato per la stanza, dopo di che Victor si coricò nel suo letto e scoppiò a piangere. Fu questa la prima volta che Itard lo vide piangere. La minaccia di Itard ebbe un effetto notevole sul comportamento di Victor, che da allora “sottomesso” lavorò, opponendo minor resistenza e senza più capricci. Nel giro di pochi mesi, Itard riportò che Victor apprese a sillabare semplici parole e a capire che le parole rappresentavano degli “oggetti”. Qualche volta portava con sé delle lettere ai fini di comporre con esse i suoi bisogni. Ad esempio, una volta prese le lettere L-A-I-T e le piazzò sul tavolo per prendere un bicchiere di latte (lait in francese). Itard era entusiasta di fronte ai progressi compiuti da Victor, al punto da intonare il mantra “l’educazione è tutto”, sostenendo che, con l’amore, la pazienza, la comprensione e l’uso sistematico di premi e punizioni, gli esseri umani sono in grado di realizzare imprese notevoli. Gli psicologi possono comparare alcuni dei metodi usati da Itard con le tecniche di “condizionamento operante” che, sinteticamente, significano apprendere attraverso le conseguenze delle proprie azioni. Itard principalmente adottò un approccio umano e amichevole che teneva conto dei bisogni individuali di Victor, forse un confronto più appropriato per i suoi metodi pensati su misura per l’individuo può essere fatto con quella che noi oggi definiamo “educazione speciale”. Victor ovviamente amava Madame Guerin e, forse in misura minore Itard. Vengono narrati episodi nei quali Victor faceva arrabbiare Madame Guerin ma poi piangeva a lungo per il dispiacere delle sue azioni. Itard stesso raccontava che passava a salutare Victor prima che si addormentasse e che Victor lo accoglieva sempre con baci, abbracci e risate prima di invitarlo a sedersi sul letto con lui. Per arrivare a questo punto, Itard aveva impiegato nove lunghi mesi, ma aveva senz’altro fatto dei progressi considerevoli con Victor, a dispetto delle credenze dell’epoca.
Sviluppo di altre facoltà Itard decise di continuare a sviluppare alcune facoltà di Victor inclusi l’udito, il linguaggio e il gusto. A tal fine, sviluppò un metodo nel quale bendava Victor per vedere se fosse in grado di discriminare suoni musicali e parole diversi. Nonostante l’abilità di Victor nel discriminare i suoni e il fatto che il suo udito fosse intatto, i pro-
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gressi raggiunti dopo mesi di insegnamento furono minimi e includevano l’apprendimento di poche semplici parole monosillabiche che identificavano rabbia o amicizia. Itard si scoraggiò e iniziò nuovamente a valutare i progressi di Victor, che comprendevano la capacità di sillabare la parola lait quando gli veniva presentato il latte e questo veniva senz’altro acclamato come la sua più grande conquista cognitiva. Anche se Itard notò che Victor usava la parola solo quando il latte era presente nel contesto immediato. Come per il suo linguaggio, Victor non era in grado di separare la parola lait dalla presenza del latte stesso, in altre parole, non era in grado di usarla per indicare che voleva il latte. Itard concluse che, senza questa capacità di astrazione, non si poteva dire che Victor possedesse una reale capacità di linguaggio. Itard scoprì anche che Victor non era in grado di imitare, mise due lavagne una accanto all’altra e chiese a Victor di imitare i suoi movimenti, ma Victor non fu in grado di riprodurli. Questa incapacità di imitare deve aver gravemente compromesso la sua capacità di apprendere e consente l’interpretazione sulle sue abilità. Molti animali non umani possono imitare con successo il comportamento, ciò non di meno Victor non appariva in grado di farlo. Per quanto demoralizzato, Itard non si arrese e non smise i suoi insegnamenti. Iniziò a chiedere a Victor di andare a prendere oggetti che aveva posto in un’altra stanza. Dopo un po’ di addestramento, Victor era in grado di andare in un’altra stanza e di portare ad Itard i quattro oggetti che gli aveva mostrato precedentemente rappresentati su delle carte. Questo fu interpretato come un chiaro segno dello sviluppo dell’abilità cognitiva. Successivamente Itard mandò Victor in un’altra stanza per prendere un libro: nonostante la stanza fosse piena di libri, Victor non era in grado di associare la parola “libro” con un libro qualsiasi, ma solo con lo specifico libro che lui aveva inizialmente associato alla parola. Non era in grado di generalizzare le parole che gli venivano presentate raffigurate sulle carte con qualsiasi oggetto, ma solo con un oggetto specifico. Ancora una volta Itard descrisse questo risultato come terribilmente scoraggiante, al punto che arrivò a definire Victor un essere inutile. Nonostante Victor non fosse in grado di capire la parola usata da Itard, deve aver percepito il tono del messaggio al punto di chiudere gli occhi e iniziare a singhiozzare disperatamente. A quel punto Itard abbracciò Victor come qualsiasi padre avrebbe fatto, e tale contatto fisico fu di grande aiuto e facilitò nei mesi successivi il loro lavoro. Alla fine Victor apprese a generalizzare che una parola può avere più significati e può essere usata per indicare più oggetti. Iniziò a generalizzare fin troppo, al punto da far confusione tra la parola “spazzola” e la parola “scopa”; tra “rasoio” e “coltello”. Nonostante le battute di arresto, i progressi, sebbene lenti, proseguivano. Victor iniziò ad apprendere sempre più nomi (stanze, persone) e iniziò a combinarli con dei semplici aggettivi (ad esempio, “grande”, “piccolo”) e anche con dei verbi (ad esempio, “toccare”, “bere”). Victor riuscì persino a scrivere semplici parole leggibili e Itard riportò che alla fine del 1803 Victor fu in grado di comunicare attraverso la scrittura e la lettura in modo basilare e rudimentale. A quel tempo, Victor aveva appreso anche ad imitare il comportamento, così Itard trascorse mesi ad aiutarlo a formare con la bocca dei suoni al fine di facilitare il suo linguaggio. Alla fine abbandonò qualsiasi tentativo e concluse che Victor non sarebbe mai stato in grado di usare il linguaggio parlato. Itard dovette accettare che nessun tipo di training
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avrebbe superato i suoi primi deficit e ciò portò Itard a mettere in dubbio la questione se le influenze ambientali (cinque anni di training, in questo caso) avrebbero mai potuto superare la natura o le prime influenze ambientali.
Civilizzato o selvaggio? Date tali condizioni, Victor può essere considerato un bambino muto, civilizzato o resta ancora il bambino selvaggio ritrovato tanti anni prima mentre vagava vicino St-Sermin? Il ragazzo non perse mai il suo immenso entusiasmo per la bellezza della natura – la vista della luna piena in una sera estiva poteva ancora rapirlo e continuò ad adorare le passeggiate quotidiane. Questo comportamento può essere interpretato in diversi modi – indicava che in lui restava qualcosa del bambino selvaggio o piuttosto rifletteva il fatto che egli adesso riconoscesse, come risultato di un processo di civilizzazione, la bellezza della natura? Victor continuò a vivere con i Guerin e sembrava felice di contribuire all’andamento del manage familiare. Si rendeva utile in molti modi, eseguendo piccole faccende come spaccare la legna, apparecchiare. Un giorno, Monsieur Guerin si sentì male e dopo pochi giorni morì. Lo stesso giorno Victor mise il piatto anche al posto dell’uomo nella tavola, come faceva sempre, provocando uno scoppio di lacrime in Madame Guerin. Realizzando che la sua azione aveva fatto piangere Madame Guerin, Victor sparecchiò immediatamente e non apparecchiò mai più per Monsier Guerin. Queste azioni suggeriscono che stava sviluppando una maturità emozionale – che era in grado di comprendere i sentimenti di un altro e di provare empatia nei suoi confronti. Subito dopo la morte di Monsieur Guerin, Madame Guerin si ammalò e non fu in grado di badare a Victor. Conseguenza di ciò fu la fuga di Victor dall’Istituto, che venne successivamente ritrovato dalla polizia in un villaggio vicino. Ci vollero due settimane perché fosse identificato e ricondotto all’Istituto, nel momento in cui si riunì con Madame Guerin, che nel frattempo si era ripresa, fu estremamente felice – come un figliolo che ritorna dalla sua amata madre. Subito dopo questo incidente, Itard decise di osservare il senso di giustizia di Victor. In modo crudele, decise di punirlo ingiustamente per valutare la sua comprensione del giusto e dell’ingiusto. Un giorno, dopo che Victor aveva lavorato bene sui suoi libri per un tempo abbastanza lungo, Itard improvvisamente cancellò quello che Victor aveva scritto, gli afferrò la mano e lo iniziò a trascinare verso il guardaroba dove talvolta lo confinava in punizione. Victor oppose una grande resistenza alla punizione, iniziando a mordere la mano di Itard così forte da lasciargli il segno dei denti. Il ragazzo non aveva mai reagito in questo modo quando riteneva di aver meritato la punizione in precedenza. Itard fu entusiasta del risultato, al punto da affermare che il dolore alla mano era gioia per il suo cuore. La ritorsione legittimata dimostra che Victor era in grado di comprendere ciò che era giusto da ciò che non lo era e di avere un senso di giustizia. Per Itard, questo era un’evidenza di un effetto di civilizzazione ed era un segno del cambiamento di Victor da ragazzo a uomo. Victor era così sicuro del suo senso del giusto e dell’ingiusto al punto di arrivare a sfidare l’autorità del proprio insegnante.
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A quel tempo, Victor aveva circa 17 anni e Itard si aspettava un cambiamento marcato nel suo comportamento dovuto alla pubertà e un interesse per tutte le faccende sessuali. Il ragazzo aveva condotto una vita isolata, lontana dagli altri bambini dell’Istituto e non aveva coetanei che potevano guidare la sua condotta sessuale. Senza nessun aiuto proveniente da Itard o da Madame Guerin deve aver avuto una completa perdita di ciò che poteva sviluppare i suoi desideri sessuali. Viene detto che egli accarezzava le donne, le abbracciava e qualche volta le afferrava per far posar loro la testa sulla sua spalla, suscitando sicuramente grande imbarazzo nelle donne preoccupate e confuse da Victor. Essendo spesso Victor di pessimo umore, a causa di queste deludenti interazioni, Itard e Madame Guerin organizzavano diete speciali, bagni freddi e esercizi fisici per lenire gli effetti della pubertà, convincendo alla fine Victor ad abbandonare i suoi sforzi verso il sesso opposto.
La fine del suo trattamento Dal 1805, Itard era stato l’educatore di Victor per cinque anni. È giusto supporre che entrambi, sia Itard che Victor, fossero stanchi dei loro sforzi e avessero bisogno di un pausa. A Madame Guerin Victor fu affidato ufficialmente nel 1806, assegnandole un salario di 150 franchi all’anno per badare al ragazzo. Nel 1810, Sicard scrisse un resoconto su Victor sostenendo la correttezza della sua diagnosi originale di “completa idiozia”, e che virtualmente nessun progresso era stato fatto. Tale affermazione risulta ingiusta sia nei confronti degli sforzi e dei successi di Itard che nei confronti degli sforzi e dei successi di Victor e fu motivo dell’uscita di Victor dall’Istituto. Dal 1811, l’Istituto era diventato un’organizzazione solamente maschile e gli amministratori ritenevano che Madame Guerin dovesse lasciare la sua residenza con giardino per trovare una casa nei paraggi. Si riteneva inoltre che Victor fosse senza speranza e che fosse di disturbo per gli altri bambini. Alla donna vennero offerti ulteriori 500 franchi per facilitare il suo trasferimento e per far sì che si trasferisse con Victor in una casa più piccola ad Impasse de Feuillantines, proprio all’angolo con l’Istituto. La scelta fu fatta in modo da consentire ad Itard, se lo avesse desiderato, di continuare a lavorare con Victor. Comunque, per ragioni poco chiare ciò non avvenne e Victor divenne nuovamente una persona abbandonata. Vi sono veramente pochi resoconti sulle vite di Victor e di Madame Guerin dopo l’uscita dall’Istituto. Sappiamo che Victor continuò a vivere con Madame Guerin senza dare problemi, né scandali. Si racconta che le persone lo riconoscessero dalla sua andatura zoppicante. Non sappiamo cosa fece della sua vita o se fu in grado di guadagnarsi da vivere, possiamo ipotizzare che essendo muto, tale prospettiva fosse difficile, tuttavia il salario annuale di Madame Guerin avrebbe impedito loro di finire sul lastrico. Victor morì nel 1828 all’età di 40 anni, di certo non un’età avanzata neppure per l’epoca. Non vi sono documenti che riportano la causa della sua morte e neppure il luogo di sepoltura. Victor Hugo visse a 4 porte di distanza per due anni, ma non vi è nessun chiaro riferimento nei suoi scritti sull’esistenza del ragazzo selvaggio, suggerendo un tipo di vita molto ritirata. Il fatto che continuasse a vivere nelle vie secondarie
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di Parigi suggerisce che la sua vita precedente nei boschi non gli mancasse poi tanto. Itard continuò a lavorare nell’Istituto e sviluppò un numero di metodologie di insegnamento che derivavano proprio dal suo lavoro con Victor, tecniche che vennero applicate con successo ai sordomuti. Fece carriera e divenne un riconosciuto e rispettato esperto nell’ambito della sordità. Al termine della sua carriera, lavorò con un promettente accademico, Edouard Seguin, che rimasto enormemente impressionato dall’approccio di Itard sviluppò in seguito dei programmi speciali per individui mentalmente ritardati. Maria Montessori, psichiatra italiana, fu, a sua volta, influenzata da Seguin e fondò le scuole Montessori, che ancora oggi utilizzano nelle classi lettere e forme ritagliate, usando un metodo simile a quello promosso da Itard con Victor. Sia Montessori che Seguin hanno un debito di riconoscenza nei confronti di Itard. Numerose sono le critiche mosse nei riguardi dell’approccio di Itard, in particolar modo sull’isolamento dal resto dei coetanei in cui aveva fatto vivere Victor, anche se non intenzionalmente. Tale situazione lo aveva escluso potenzialmente da una forma vitale di apprendimento, quella che deriva dall’interazione sociale con i propri pari. Victor, in qualche modo, fu destinato a trascorrere la sua intera esistenza in una forma di ristretto isolamento. Un’altra critica mossa fu quella di non aver mai insegnato a Victor l’utilizzo della lingua dei segni, non si sa se questo metodo avrebbe sortito successo oppure no, ma si sa che ebbe successo in seguito con casi simili, anche se meno gravi rispetto al caso di Victor.
Postscriptum Cosa possiamo concludere dal caso di Victor? Lo studio di casi di bambini selvaggi, come Victor, porta un importante contributo al dibattito natura-cultura, ma come è emerso anche dallo studio dei casi successivi, permane spesso il dubbio se i deficit osservati siano presenti fin dalla nascita o siano il risultato del periodo di isolamento. Nel caso di Victor, vi sono opinioni contrastanti, l’idea che Victor fosse nato “idiota”, usando la descrizione di Sicard, incapace di mostrare qualsiasi progresso reale, può essere largamente scartata. Victor infatti aveva fatto numerosi progressi insieme a Itard e l’essere sopravvissuto nei boschi per un certo periodo di tempo, senza essere catturato né mangiato, deve aver richiesto certo un’intelligenza pronta. In un’ipotesi alternativa, Victor può esser stato affetto da deficit psicologici e aver subito degli abusi prima del suo abbandono, e le sue capacità mentali e fisiche possono essere il risultato di anni di isolamento. Resta incerto quale delle due spiegazioni sia più vera. Itard credeva nella seconda e trascorse quasi cinque anni della sua vita provando a risolvere gli effetti dell’isolamento; resta controverso decidere se egli abbia avuto successo oppure no, poiché non siamo in grado di immaginare, ma possiamo solo provare a farlo, quali possano essere gli effetti su un bambino di sette anni di un lungo tempo vissuto in completo isolamento nei boschi. Inoltre, senza una valutazione di base delle abilità di Victor è impossibile misurare i reali miglioramenti successivi. Le evidenze suggeriscono che Victor non nacque “idiota”, ma che possa aver avuto dei problemi di apprendimento, ad esempio una forma
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di autismo. Vi sono molti diversi tipi di autismo, ma in genere si tratta di una disabilità dello sviluppo che colpisce significativamente sia la comunicazione verbale che quella non verbale, così come l’interazione sociale. Il periodo di isolamento ha certamente prodotto un effetto profondo sul suo sviluppo fisico, emozionale e sociale. È evidente che l’infanzia è un periodo critico per l’apprendimento di molte abilità, non per ultima il linguaggio, ma che alcuni deficit possono essere superati grazie ad un training intensivo. La storia di Victor è una delle più famose (insieme al caso di Genie)3 che narra il caso di un bambino deprivato. Ci sono molti altri casi di bambini e bambine ritrovati tra i boschi, che forniscono ulteriori evidenze degli effetti di un’infanzia deprivata e della mancanza di un normale processo di socializzazione. Tra questi casi si va dal recente ritrovamento nel 2004 di un bambino allevato dai cani in Siberia, a un ragazzo che fu trovato nel 1945 tra gli struzzi!4 Molti di questi casi hanno alimentato il dibattito su cosa significa essere “umani”: sebbene tutti fossero nati e fossero classificabili come “homo sapiens”, qualcosa in più è necessario per poter dire di possedere tutte le caratteristiche di quello che si intende con “essere umano”. I bambini nascono con grandi potenziali, ma è necessario un ambiente in cui si viene allevati per apprendere ad essere “umani”. I bambini che ne vengono deprivati attraverso l’isolamento e l’abuso trovano estremamente difficile, se non impossibile, superarne gli effetti in uno stadio successivo. La storia di Victor ne è una chiara evidenza. Un post scriptum del successo (o meno) del Caso del Ragazzo Selvaggio dell’Aveyron fu scritto da Itard stesso 20 anni dopo. Itard riporta che una gran parte dei miei giorni per sei anni fu sacrificata a questo arduo esperimento. Il ragazzo… non ottenne dalle mie attenzioni tutti i vantaggi che speravo, ma le numerose osservazioni che io fui in grado di fare, le procedure educative… non furono completamente inutili, e successivamente le usai nel trattamento di bambini il cui mutismo sorgeva da situazioni meno insormontabili.
Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
3
4
Shattuck R (1980) The Forbidden Experiment. Quartet, London Lane H (1976) The wild Boy of Aveyron. Harvard University Press, Cambridge, Massachussetts Lane H (1989) Il ragazzo selvaggio. Piccin, Padova Itard J (1970) Il fanciullo selvaggio. Armando Editore, Roma Bettelheim B (1967) The empty fortress. Free Press, New York Bettelheim B (2001), La fortezza vuota. L’autismo infantile e la nascita del sé. Garzanti, Milano Candland DK (1993) Feral Children and Clever Animals: Reflections on human nature. Oxford University Press, Oxford
La storia di due ragazze, Amala e Kamala, trovate in India nel 1920, che vissero con i lupi, è forse ugualmente famosa [7]. Altre storie sorprendenti di bambini possono essere trovate nel dettagliato sito internet www.feralchildren.com
Psicologia dello sviluppo Storie di bambini: il piccolo Albert e il piccolo Peter
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La storia della psicologia è disseminata da accademici che disputano sui meriti delle rispettive teorie con le quali cercano di spiegare tutte le diverse componenti del comportamento umano. Uno di questi accademici, J.B. Watson, propose un modello di psicologia oggettiva e scientifica del comportamento che prese il nome di “comportamentismo”. Watson sosteneva che era possibile studiare l’apprendimento senza far riferimento ad alcun processo mentale interno, rifiutando energicamente l’idea dell’introspezione e spostando l’attenzione sul comportamento osservabile e su come un organismo, umano e/o animale, apprenda adattandosi al proprio ambiente. L’enfasi fu messa sul concetto di “cultura”, nella classica contrapposizione filosofica naturacultura. Ivan Pavlov, in Russia, aveva già mostrato l’effetto del condizionamento su comportamenti semplici, come la risposta di salivazione nei cani, e Watson suggerì che anche comportamenti umani più complessi potessero essere facilmente condizionati. Allo scopo di verificare tale ipotesi, decise di sperimentare la teoria su un bambino di 11 mesi, provando a condizionare la risposta di paura del bambino, in associazione ad uno stimolo neutro. Sulla base di questa idea ebbe inizio uno dei casi più citati nella storia della psicologia: la sperimentazione sul piccolo Albert.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Background teorico John Broadus (“J.B.”) Watson iniziò la propria carriera nel campo dell’apprendimento animale, spostando presto il proprio lavoro, nel 1916, sull’uomo e in particolare su soggetti in età evolutiva. Inizialmente si concentrò sullo studio dei riflessi condizionati applicando tale metodo per studiare le sensazioni nei bambini, riportando in numerosi saggi i risultati sul condizionamento delle paure nell’uomo. Notò che i suoi figli sembravano avere una paura innata di tuoni e lampi e iniziò a valutare diversi metodi con i quali potesse condizionare tali paure in laboratorio all’interno di un setting sperimentale. I primi tentativi di inibizione della risposta a protendere la mano verso una candela accesa avevano richiesto oltre 150 tentativi (in gran parte, dichiarò, causati dal fatto che era costretto a fermare il bambino prima che si ustionasse gravemente!) e non fu pertanto un’eccitante dimostrazione del potere del condizionamento. Sebbene nessuno sappia con certezza quando lo studio del piccolo Albert ebbe inizio, sembra ipotizzabile che fu avviato all’incirca a Natale del 1919. Nel 1920, infatti, pubblicò in collaborazione con la sua assistente Rosalie Rayner [1] un saggio in cui veniva suggerito che la complessa gamma delle emozioni mostrata da un adulto deve essere il risultato di un apprendimento ambientale. Per dimostrare ciò misero a punto un esperimento che coinvolgeva un bambino di 11 mesi che chiamarono “Albert B”. Albert veniva descritto come un bimbo “normale”, ben sviluppato per la sua età, con un carattere flemmatico, “impassibile e distaccato”. Fu scelto da Watson e Rayner in quanto facilmente coinvolgibile nello studio (la madre di Albert era balia presso la residenza dei bambini invalidi) e anche per il carattere stabile e forte che secondo i due ricercatori avrebbe fatto sì che il bambino potesse essere “relativamente poco danneggiato” dallo studio che volevano condurre. L’uso di queste frasi suggerisce la consapevolezza di possibili danni causati dall’esposizione all’esperimento. A nove mesi, Albert fu sottoposto ad una batteria di test emozionali. Per misurare le sue reazioni gli vennero mostrati una serie di stimoli: un topolino bianco, un coniglio, un cane, una scimmia, dei volti mascherati, dell’ovatta e un giornale in fiamme. Le risposte ai diversi stimoli vennero filmate: in nessun momento Albert mostrò paura alle situazioni presentate. Durante la valutazione si notò che il bambino raramente piangeva. Watson e Rayner, volendo analizzare le sue reazioni di paura, dovettero ideare un metodo per indurre la paura in Albert. Osservando la reazione ai tuoni dei propri bambini, a Watson venne in mente la tecnica di produrre, senza preavviso e senza essere visto, un forte rumore. A tale scopo un ricercatore, posizionato alle spalle di Albert, colpiva con un martello una barra di acciaio lunga un metro e venti. Questa procedura produsse l’effetto desiderato e Albert mostrò immediatamente una reazione di pericolo al rumore inatteso e sgradevole: il suo respiro accelerava, le sue braccia scattavano verso l’alto e le sue labbra tremavano. Alla terza stimolazione, “il bambino ruppe in un pianto improvviso e inconsolabile” (pag. 2).
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Questioni da considerare Nel loro saggio, Watson e Rayner riportarono di aver trascorso due mesi nell’incertezza sulla procedura da adottare, mostrando una genuina preoccupazione dei possibili effetti dell’esperimento su Albert. Ciononostante, decisero che molte delle reazioni paurose che avrebbero indotto sarebbero potute avvenire naturalmente nella “baruffa di casa”. Quando decisero di iniziare la serie di esperimenti sul campo, Albert aveva 11 mesi e 3 giorni. Erano interessati ad indagare e rispondere ai seguenti quesiti: è possibile condizionare la paura di un essere umano verso un animale che viene presentato nello stesso momento in cui il ricercatore colpisce la barra di acciaio? È possibile trasferire una risposta emozionale condizionata (la paura) su altri animali? Quanto durerà questa risposta? E, inoltre, che metodo può essere ideato per la rimozione della risposta nel caso essa non si estingua immediatamente? Per rispondere alle prime domande, mostrarono ad Albert un topolino bianco dentro un cestino e mentre il bimbo senza nessun cenno di paura allungava la sua mano sinistra verso il topolino e lo toccava, producevano un forte suono inatteso, dietro le spalle del bambino, colpendo con un martello una barra di acciaio. Albert sussultò violentemente e nascose il volto nel materasso. Dopo poco, Albert provò ancora a toccare il topolino e la procedura venne ripetuta. Albert cadde in avanti e iniziò a piagnucolare. Watson e Rayner riportarono che, “allo scopo di non disturbare il bambino troppo seriamente, nessun test venne eseguito per una settimana” (pag. 2). Per la precisione sette giorni più tardi il topolino fu nuovamente mostrato ad Albert, ma questa volta senza nessun frastuono associato, Albert però non fece nessun tentativo per raggiungerlo e quando lo spostarono più vicino, Albert ritirò immediatamente la sua manina. Era chiaro che il comportamento di Albert era stato modificato dopo solo due presentazioni e l’effetto era ancora presente dopo una settimana. Diedero quindi ad Albert dei blocchi di costruzioni con cui giocare per esser certi che non fosse stato condizionato ad aver paura anche di altri oggetti che gli venivano dati. Albert non mostrò alcuna paura delle costruzioni e giocò con esse come era solito fare. Le costruzioni vennero tolte e Watson e Rayner mostrarono ad Albert per cinque volte il topolino associato al rumore, ed Albert si mostrò molto spaventato ad ogni presentazione. In seguito, quando ad Albert veniva mostrato il topolino anche senza il rumore, il bambino iniziava a piangere, a girarsi bruscamente cercando di gattonare via rapidamente, in modo così repentino che i ricercatori facevano appena in tempo ad afferrarlo prima che cadesse dal tavolo dove era seduto! Watson e Rayner descrissero questo come “un caso convincente di una risposta di paura completamente condizionata come era stato teoricamente anticipato” (pag. 2). La reazione era stata instaurata con solo sette presentazioni congiunte del topolino e del rumore in un lasso di tempo di soli sette giorni. Avevano quindi trovato le risposte ai quesiti di partenza. È possibile condizionare la paura verso un animale mostrandolo in associazione ad uno stimolo sgradevole, inatteso ed inspiegabile. Sembra evidente che Albert avesse acquisito una risposta emozionale (paura) condizionata, o appresa. Prima che il condizionamento avvenisse, Albert non mostrava
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alcuna paura del topo che a tutti gli effetti si può definire uno stimolo neutrale. Il rumore sgradevole causato dal colpo sulla barra di acciaio era uno stimolo incondizionato (SI) poiché naturalmente provoca una risposta di paura (una risposta incondizionata o RI) in Albert. Attraverso presentazioni ripetute del topolino associato al rumore sgradevole, la vista del solo topo diventava uno stimolo condizionato (SC) e produceva una risposta di paura appresa (risposta condizionata o RC) nel bambino. Questa procedura di condizionamento classico1 è riassunta nella Tabella 10.1.
Prima del condizionamento
Durante il condizionamento
Albert non mostrava di aver paura del topo (stimolo neutro)
Il topo (SC) viene associato Albert mostra paura (RC) con il rumore sgradevole → alla presentazione (SI) che naturalmente produce del topo (SC). una risposta di paura in Albert
→
Dopo il condizionamento
Tabella 10.1 Il condizionamento classico del piccolo Albert
Dopo cinque giorni, il piccolo Albert fu nuovamente riportato nella stanza sperimentale, dove giocò felice con le sue costruzioni, dimostrando che non vi era stato nessun trasferimento della paura ad altri oggetti presenti nella stanza, al tavolo o alle costruzioni. Quando gli venne mostrato nuovamente il topolino, Albert mostrò immediatamente una risposta di paura condizionata. Per verificare se la reazione di paura fosse stata trasferita anche verso altri animali, gli venne presentato un coniglio bianco. Albert reagì immediatamente, scostandosi il più possibile e iniziando a piangere e a gridare. Quando il coniglio gli fu avvicinato, gattonò via come aveva già fatto precedentemente alla vista del topo. Dopo un intervallo di tempo, in cui gli furono nuovamente date le costruzioni per giocare gli fu mostrato un cane. La reazione di Albert venne descritta come meno pronunciata rispetto a quella alla vista del coniglio, ma ancora una volta fu una reazione di pianto. Vennero registrate le sue reazioni anche verso altri oggetti che includevano una pelliccia di foca, alla vista della quale Albert pianse e gattonò via, e dell’ovatta, alla vista della quale mostrò una reazione di shock più contenuta. Un ricercatore si mascherò da Babbo Natale e anche in quel caso Albert mise in atto una risposta di paura, ma quando un altro ricercatore abbassò la testa per vedere se Albert mostrava la stessa reazione di fronte a dei capelli ottenne una risposta molto meno negativa di quella mostrata dinanzi alla figura di Babbo Natale. Watson e Rayner ottennero così una risposta anche al loro secondo quesito: la risposta condizionata di paura può essere trasferita o generalizzata ad altri animali e anche a degli oggetti simili.
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Il più famoso psicologo comportamentista, B.F. Skinner, chiamò questo tipo di apprendimento “condizionamento operante o rispondente”, in quanto questo tipo di apprendimento è rispondente a un antecedente ambientale.
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Ancora, dopo cinque giorni, il piccolo Albert fu riportato nella stanza sperimentale e collocato sul materasso sopra al tavolo. Watson e Rayner decisero di rafforzare la sua reazione di paura sia di fronte al cane che di fronte al coniglio, e a tale scopo accoppiarono la presentazione di questi stimoli al colpo contro la barra di acciaio. Albert fu portato in una stanza più grande e luminosa, Watson e Rayner vollero cambiare ambiente per vedere se le reazioni del bambino sarebbero state le stesse in una situazione diversa da quella del setting sperimentale originale. In occasioni diverse presentarono singolarmente il topolino, il coniglio e il cane senza associare gli stimoli al rumore. Ad ogni presentazione gli autori riportarono una leggera reazione di paura, ma, come descrissero nel loro saggio, non sembrava così marcata come quella ottenuta nel primo setting sperimentale. I ricercatori decisero a quel punto di “rinfrescare la reazione alla vista del topo” accoppiandolo nuovamente al rumore. Dopo una singola presentazione topo-rumore nel nuovo ambiente, Albert mostrò una reazione di paura sia alla vista del topo che alla vista del coniglio in una presentazione successiva. Alla presentazione del cane, Albert non mostrava una forte reazione di paura, ma quando il cane arrivò a circa 15 centimetri dal suo volto, abbaiò per tre volte, in precedenza era sempre stato in silenzio. Watson e Rayner notarono che questo avvenimento provocò una forte reazione di paura sia in Albert che si mise ad urlare immediatamente che nei ricercatori presenti che non si aspettavano questa reazione da parte del cane! Watson e Rayner conclusero che il trasferimento emozionale ha luogo indipendentemente dal setting sperimentale. Il passo successivo fu quello di verificare la durata della risposta. Watson e Rayner dissero di essere a conoscenza del fatto che Albert avrebbe dovuto lasciare l’ospedale dopo un mese e pertanto questo fu il periodo più lungo che loro ebbero a disposizione per osservare la durata della risposta emozionale condizionata. Durante questo mese, Albert non fu più sottoposto a sessioni di condizionamento, sebbene ogni settimana fosse comunque sottoposto a test di valutazione dello sviluppo, tra questi ad esempio venne valutata la sua preferenza manuale. Tre settimane dopo, al compimento del primo anno di età del bambino, furono nuovamente misurate le sue reazioni emozionali agli stimoli precedentemente condizionati. Alla presentazione della maschera di Babbo Natale, Albert si ritrasse e “forzato a toccarla”, piagnucolò e urlò. Quando gli venne presentata la pelliccia di foca, la sua reazione fu immediata, ritrasse entrambe le mani ed iniziò a piagnucolare, e quando i ricercatori la spostarono vicino a lui, provò a scalciarla via. Successivamente, gli vennero date le sue costruzioni con le quali giocò allegramente, mostrando una capacità di discriminazione e l’abilità a differenziare stimoli diversi. Albert quindi permise al topolino di andargli vicino, ma quando arrivò a toccargli la mano la ritrasse immediatamente. Watson e Rayner gli misero allora il topolino sul braccio e Albert iniziò ad agitarsi e a piangere, a quel punto permisero al topolino di camminare sul petto di Albert che si coprì gli occhi con entrambe le mani. La reazione di Albert alla presentazione del coniglio fu molto tiepida all’inizio, ma dopo pochi secondi provò a spingerlo via con i piedi. Comunque, non appena il coniglio si avvicinava, Albert riusciva a toccargli l’orecchio, ma se glielo mettevano in grembo iniziava ad urlare e cercava conforto, come spesso faceva, succhiandosi il pollice. Quando gli venne
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presentato il cane, Albert iniziò a piangere e si coprì il volto con le mani. Watson e Rayner conclusero che questi esperimenti sembravano dimostrare che sia le risposte emozionali condizionate direttamente che quelle condizionate tramite generalizzazione persistevano per periodi più lunghi di un mese, sebbene vi fosse comunque una perdita nell’intensità della reazione (pag. 6). Watson e Rayner stavano anche pianificando un modo per rimuovere la risposta emozionale condizionata, ma questo fu impossibile da realizzare poiché “sfortunatamente Albert fu portato via dall’ospedale il giorno prima che la sessione di rimozione avesse luogo” (pag. 6). Conclusero che le risposte emozionali che erano state condizionate in Albert sarebbero durate in modo indefinito, fino a quando non fosse stato messo in atto accidentalmente un metodo per rimuoverle. Ciononostante, Watson e Rayner descrissero come avrebbero tentato di rimuovere le risposte condizionate di Albert, suggerendo che ciò sarebbe avvenuto presentando costantemente lo stimolo condizionato, ad esempio il topo, senza l’associazione con lo stimolo incondizionato, il rumore, e che dopo ripetute presentazioni il bambino si sarebbe abituato allo stimolo. Alternativamente, avrebbero tentato anche una forma di ricondizionamento nella quale avrebbero accoppiato sensazioni piacevoli allo stimolo che induceva la paura. Suggerirono di offrire dei dolci ad Albert alla presenza del topo o “simultaneamente stimolando delle zone erogene, attraverso il tocco… Prima le labbra, poi i capezzoli e come ultima risorsa gli organi sessuali” (pag. 6). Nel loro lavoro originale del 1920, Watson e Rayner aggiunsero ulteriori osservazioni, discutendo anche il fatto che quando Albert era turbato emozionalmente reagiva cercando conforto nel succhiarsi il pollice. Questa forma di consolazione rendeva difficile l’induzione della paura, al punto che per impedirgli di farlo i ricercatori gli toglievano continuamente il dito dalla bocca.
Che lezione ci insegna il piccolo Albert? Quale insegnamento possiamo trarre dallo studio di questo caso? Watson e Rayner sono riusciti a dimostrare che è possibile acquisire una fobia (una paura illogica ed esagerata nei confronti di un oggetto o di una categoria di oggetti) attraverso il condizionamento classico? Dovrebbe essere citato tale studio come una pietra miliare degli studi classici sul campo sugli effetti del condizionamento classico sul comportamento o esistono giuste remore relative agli aspetti etici dello studio, in particolare sul trattamento riservato al piccolo Albert? Esistono critiche metodologiche importanti da prendere in considerazione? Un problema nello studio del caso del piccolo Albert è relativo alle discrepanze riscontrate nello studio: Molte delle spiegazioni avanzate da Watson e Rayner nella ricerca condotta su Albert originano dalla distorsione dei fatti. Dalle informazioni sullo stesso Albert, ai metodi sperimentali di base, ai risulta-
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ti, nessun dettaglio dello studio originale è sfuggito all’interpretazione fuorviata dal raccontare e riraccontare questo pezzo di folklore di scienza sociale [2]. È dimostrato che numerosi manuali di psicologia contengono errori rispetto agli esatti dettagli descritti nell’articolo originale del 1920. Ciò è attribuibile a diversi fattori: la fonte più probabile della confusione e, forse la più sorprendente, è lo stesso Watson. Infatti, Watson scrisse una serie di articoli negli anni successivi in cui riporta i dettagli del caso di Albert e spesso sembra aver riferito in modo erroneo dettagli importanti scritti diversamente nell’articolo originale [3]. Ad esempio, Watson non menzionò di essere già a conoscenza del fatto che Albert avrebbe lasciato l’ospedale e che pertanto il ricondizionamento non sarebbe stato possibile. Lo studioso omise intenzionalmente questo dettaglio al fine di apparire meno crudele? Altri errori nei manuali di psicologia includono l’utilizzo di stimoli diversi rispetto a quelli usati originariamente nell’esperimento da Watson e Rayner per il condizionamento, come ad esempio la barba di un uomo, un gatto e persino un orsacchiotto di peluche. Molti libri cambiano il finale e riportano che Watson e Rayner rimossero o ricondizionarono la paura di Albert. Spiegazioni possibili di tali errori possono risiedere nel desiderio umano di raccontare storie eticamente migliori, e nella volontà di far coincidere i dati sperimentali con quelli esperiti nella vita quotidiana – nell’intento di rendere le scoperte più facilmente credibili. Si suppone inoltre che tali cambiamenti aiutino a ritrarre lo studio e il ruolo di Watson in modo più favorevole e conciliante, evitando quindi che le critiche allo studio siano generalizzate anche alla teoria ed ai suoi esponenti più influenti. Sono quindi questi errori solamente delle sviste o implicano qualcosa di più serio? Osservando lo studio più da vicino è possibile notare delle critiche metodologiche importanti che emergevano dallo studio originale del 1920: la procedura di Watson e Rayner di togliere ad Albert il pollice dalla bocca per promuovere la risposta di paura; il fatto che Albert occasionalmente venisse forzato a toccare alcuni stimoli, ma non tutti, e la decisione di “rinfrescare periodicamente un po’ la reazione di paura” suggeriscono che le procedure sperimentali non godevano di una standardizzazione ben delineata. La mancanza di dettagli riguardanti questi comportamenti conduce a formulare dubbi circa le tecniche sperimentali utilizzate e alcune critiche ironizzano sulla ricerca – in particolare sull’enfasi che Watson dava all’obiettività dei metodi scientifici utilizzati. Un altro problema sollevato riguarda i successivi fallimenti delle ricerche successive che hanno tentato di replicare lo studio di Albert – la replicabilità di uno studio è senz’altro un prerequisito della scienza e l’impossibilità di replicare gli esperimenti condotti sul piccolo Albert fornisce un’ulteriore indicazione che “il processo (di condizionamento) non è così semplice come la storia di Albert suggerisce [4]”. Perché Watson non replicò lo studio di Albert su altri bambini? Watson ha trascorso i primi anni della sua carriera facendo sperimentazione sugli animali e non aveva mai provato a fare ricerca prima del piccolo Albert su un singolo partecipante. Alcuni libri suggeriscono che per Watson fu impossibile replicare su altri bambini gli esperimenti condotti su Albert in quanto aveva rassegnato le dimissioni alla John Hopkins University poco dopo lo studio di Albert. Tali voci ancora una volta riflettono il desiderio di rendere la spiegazione più credibile poiché, in effetti, Watson continuò a lavorare presso
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l’Università fino a settembre del 1920, ben oltre sei mesi dopo la pubblicazione dello studio del caso del piccolo Albert. Inoltre, lo scienziato continuò ad avere un ruolo attivo nell’ambito della ricerca comportamentale per molti anni ed avrebbe senza dubbio avuto l’opportunità di supervisionare direttamente la replicazione dello studio se solo avesse voluto. Viene inoltre sollevato il dubbio di quanto la reazione di paura fosse stata indotta nel piccolo Albert [2], tanto che c’è chi suggerisce che Albert non sviluppò una fobia ai topi, e nemmeno una paura marcata o pronunciata né verso i topi né verso qualsiasi altro animale. Persino nell’articolo originale, la descrizione della reazione di Albert al topo dopo otto presentazioni in un periodo di dieci giorni rivelò che, sebbene egli provasse ad allontanarsi gattonando, “non vi erano urla, e strano a dirsi, appena si allontanò iniziò ad emettere dei gridolini di benessere”. Vi sono ulteriori descrizioni, come ad esempio “una leggera reazione di paura… permise al topo di arrivargli vicino senza ritrarsi” e “raggiunse l’orecchio del coniglio in modo incerto e lento e lo toccò con la sua mano destra, e infine lo manipolò”. Tutte queste risposte non sembrano accordarsi molto con la forza del sentimento che normalmente viene associato con una paura marcata o fobia. Quante persone con aracnofobia raggiungerebbero e toccherebbero volontariamente un ragno? Considerate tutte queste contraddizioni non sorprende che lo studio “potrebbe non essere preso come paradigma di condizionamento umano proprio sulla base delle sue discutibili evidenze scientifiche” [5]. Persino Watson stesso descrisse lo studio come in un tale stato incompleto che non è possibile verificarne le conclusioni; quindi in sintesi, come molti altri studi psicologici, lo studio di Albert deve essere visto come un’esposizione preliminare di possibilità, piuttosto che un catalogo di risultati usabili concretamente. Questa citazione è in diretto contrasto con una precedente affermazione nella quale Watson e Rayner descrivono lo studio di Albert “come un caso convincente di una risposta condizionata di paura come potrebbe venire tracciata teoricamente”. A quale versione prodotta dagli stessi autori dobbiamo credere? E perché questo studio divenne così “classico”?
Il dibattito accademico Alla fine del loro articolo, Watson e Rayner ridicolizzarono gli analisti freudiani che avrebbero potuto un giorno provare a trattare la fobia di Albert affermando: Fra vent’anni i freudiani, a meno che la loro ipotesi non cambi, quando analizzeranno la fobia di Albert alla pelliccia di foca, assumendo che vada in analisi a quell’età, lo prenderanno in giro inscenando un sogno dal quale la loro analisi mostrerà che a tre anni Albert tentò di giocare con i peli pubici di sua madre e fu rimproverato violentemente. (Non abbiamo modo di negare che questo possa essere in altri casi una delle condizioni). Se l’analista avrà sufficientemente preparato Albert ad accettare questo sogno, che spiegherà la sua tendenza all’evitamento, e se l’analista avrà l’auto-
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rità e la personalità di farsi valere, Albert potrà essere veramente convinto che il sogno sia un vero rivelatore dei fattori che si celano dietro la paura. L’inclusione di questo paragrafo suggerisce due cose. Primo, conferma che Watson e Rayner ritenessero che la fobia di Albert potesse persistere anche in età adulta, suggerendo una certa leggerezza ed indifferenza verso questo aspetto e verso le conseguenze del loro esperimento sulla vita di Albert. Qualunque fosse l’opinione di Watson e Rayner sulle interpretazioni freudiane, sembra incredibile che pensassero di poter usare la disgrazia di Albert (conseguenza delle loro azioni) per ridicolizzare e denigrare il punto di vista dei terapisti freudiani sull’acquisizione delle fobie.
Da un punto di vista etico La ricerca di Watson e Rayner non sarebbe mai stata realizzata ai nostri giorni, grazie alle linee guida etiche attualmente in vigore. Molti potrebbero dire che è scorretto imporre gli standard etici correnti ad una ricerca che ha più di 80 anni, tanto che in effetti al tempo in cui fu effettuato lo studio di Watson e Rayner non furono avanzate critiche in merito [6], ma il cambiamento culturale avvenuto è di per sé interessante. Nel 1920, gli psicologi non avevano delle linee guida etiche da seguire, né dovevano chiedere un’autorizzazione ad un Comitato Etico per effettuare i propri studi. Analizzando il caso di Albert ci sono pochi dubbi che almeno una delle regole delle linee guida sia stata infranta, nello specifico quella che impedisce che i partecipanti vengano danneggiati fisicamente e psicologicamente dalla ricerca. Albert soffrì un grosso disagio che molto probabilmente si protrasse ben oltre la fine dello studio. Watson e Rayner scrissero che fu una sfortuna che Albert lasciasse l’ospedale prima che loro avessero l’opportunità di ricondizionarlo. Gli scritti successivi alludono al fatto che gli studiosi furono colti di sorpresa dalla partenza di Albert, ma nel loro lavoro originale traspare chiaramente che fossero a conoscenza della sua partenza da almeno un mese prima che essa avvenisse. In ogni caso, quanto sarebbe stato difficile rintracciare Albert e ricondizionarlo al fine di togliergli le fobie? La questione relativa a quanto cercassero di minimizzare il danno permanente fatto ad Albert resta senza risposta. Watson e Rayner, pur avendo discusso la possibilità che Albert subisse un danno in seguito ai loro esperimenti, decisero lo stesso di andare avanti nella convinzione che molte delle reazioni emozionali che loro avevano pianificato di indurre potevano avvenire nella vita di tutti i giorni, anche in famiglia. Ciò può aver tranquillizzato Watson e Rayner, anche se resta discutibile il fatto che tutte le reazioni possano essere sperimentate nella vita quotidiana: molti bambini avranno senz’altro visto un coniglio, ma difficilmente avranno sentito un rumore sgradevole dietro le loro spalle mentre lo toccavano. In genere, la maggior parte dei bambini ha dei ricordi piacevoli del primo incontro con un coniglio o con un cane, al punto che queste associazioni positive conducono i bimbi a desiderare fin dalla prima infanzia un animale domestico. Sebbene una piccola minoranza di bambini, a causa di alcune circostanze, sviluppi natural-
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mente una fobia, ad esempio quella dei cani, nulla giustifica di infliggerne deliberatamente una. Potrebbe essere stata una fortuna per Albert il fatto che Watson e Rayner non abbiano potuto “ricondizionarlo”, in effetti le tecniche che suggerivano lasciavano adito a molti dubbi. Viene spesso riportata la loro idea che contemplava il ricondizionare Albert associando il topo (diventato a quel punto stimolo condizionato) a uno stimolo piacevole, come dei dolci, per provare a contrastare l’effetto dell’associazione precedente del topo con il rumore sgradevole. Ma suggeriscono anche l’utilizzo di altri metodi, tra i quali la stimolazione tattile delle labbra, successivamente dei capezzoli e, come ultima risorsa, degli organi sessuali. Questi metodi oltraggiosi sarebbero visti oggi come una forma di abuso sessuale infantile.
Ulteriori studi: il piccolo Peter Watson, in effetti, contribuì, fornendo delle consulenze, a studi successivi che coinvolgevano bambini piccoli e le loro paure e fobie. Questi esperimenti, sebbene fossero stati da lui supervisionati, vennero realmente condotti da Mary Cover Jones [7]. Scopo della ricerca della studiosa era quello di studiare sistematicamente il miglior metodo per eliminare le paure nei bambini. Bambini provenienti da case di cura, dai 3 mesi ai 7 anni di vita, che già presentavano alcune paure di determinate situazioni, come il buio, la vista improvvisa di un topo, un coniglio, una rana e così via, presero parte allo studio. La Jones provò molti metodi diretti per l’eliminazione delle emozioni negative, incluso il condizionamento diretto. Il bambino che venne sottoposto ad un “condizionamento diretto” si chiamava Peter [8]. Il caso del piccolo Peter è ampiamente conosciuto come il seguito del caso del piccolo Albert e diede a Watson e Jones l’opportunità di sperimentare i principi del “ricondizionamento” che non erano stati messi in pratica con il piccolo Albert. Peter aveva 2 anni e 10 mesi e un’intensa paura di diverse cose tra cui topi, conigli, pellicce e ovatta. Inizialmente, provarono a ridurre le sue paure usando delle tecniche di “modellamento”, nelle quali a Peter veniva permesso di osservare e interagire con bambini che giocavano felicemente con un coniglietto bianco – uno dei suoi oggetti fobici. Il coniglietto veniva avvicinato a Peter ogni giorno un po’ di più e questa tecnica graduale sembrava produrre un effetto positivo, al punto che avrebbe potuto accarezzare il coniglietto sul dorso. Sfortunatamente, Peter contrasse la scarlattina e in quel periodo venne spaventato da un cane di grossa taglia. Secondo Watson e Jones questo evento provocò una riacutizzazione delle paure del bambino verso gli animali, anche verso il coniglio. A quel punto idearono una nuova tecnica che implicava la presentazione di cibo (uno stimolo piacevole incondizionato) simultaneamente alla presentazione del coniglietto (lo stimolo condizionato). Il coniglietto veniva gradualmente avvicinato a Peter insieme al suo cibo preferito. Peter divenne di giorno in giorno sempre più tollerante nei confronti del coniglietto (presumibilmente grazie all’associazione con il suo cibo preferito) fino a che fu in grado di toccarlo senza più paura. Quando le sue paure spontaneamente si ripresentarono, Wat-
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son e Jones usarono un metodo simile di contro-condizionamento: Peter veniva lasciato giocare mentre il coniglietto veniva gradualmente avvicinato a lui sempre di più ad ogni sessione, alla fine Peter fu in grado di giocare con il coniglietto divertendosi. Il piccolo Peter è considerato il primo caso di terapia comportamentale e costituisce la base della successiva tecnica di desensibilizzazione sistematica proposta da Joseph Wolpe. Sebbene Wolpe [9] venga generalmente considerato il promotore della tecnica, egli ha un debito di riconoscenza nei confronti di Mary Cover Jones. In seguito allo studio del caso del piccolo Peter e di altri studi successivi, Mary Cover Jones guadagnò il titolo informale di “madre della terapia comportamentale”.
Cosa accadde al piccolo Albert e a Watson? Nell’ottobre del 2009, tre ricercatori, rintracciandone la vera identità attraverso i registri dell’ospedale l’Harriet Lane Home (al tempo dello studio), in cui la madre di Albert era impiegata come balia, scoprirono la sorte del piccolo Albert [10]. Da questa loro ricerca conclusero che il bambino dovesse essere Douglas Merritte, morto all’età di sei anni, senza tuttavia essere riusciti a sapere se le sue fobie erano durate per tutta la sua vita o se si erano estinte prima, grazie a un fenomeno di abituazione o attraverso alcune forme di contro-condizionamento. Abbiamo invece maggiori certezze di quello che avvenne a Watson. Durante lo studio del piccolo Albert, Watson ebbe una relazione extraconiugale con la sua co-autrice Rosalie Rayner. Lo scandalo che ne conseguì, quando la relazione divenne di dominio pubblico, lo portò a rassegnare le dimissioni dalla sua carriera accademica, avendo sperato di raggiungere una certa fama all’interno della comunità scientifica: nonostante negli anni Venti non vi fossero linee guida sul comportamento etico a protezione dei partecipanti alla ricerca, come Albert, esistevano standard morali molto severi cui gli accademici dovevano attenersi (la relazione extra-coniugale tra Watson e la Rayner non fu ben accetta dal mondo accademico). Amaramente deluso, Watson si servì della propria conoscenza della psicologia, e del comportamento umano, utilizzandoli nell’ambito della pubblicità, campo sicuramente distante, ma finanziariamente più redditizio, divenendo un pioniere dell’uso delle tecniche di condizionamento in ambito pubblicitario. Watson era convinto che il successo di uno spot pubblicitario non dipendesse interamente dalla qualità del prodotto, ma dalle risposte emozionali che i consumatori avrebbero associato ad ogni prodotto. A tal fine, esortò così i pubblicitari: Digli qualcosa che lo vincoli con la paura, che gli smuova una rabbia sottile, che tiri fuori amore o tenerezza, o che lo colpisca nei suoi bisogni psicologici profondi o nelle sue abitudini. [11] Attualmente, grazie in buona parte anche a Watson, il condizionamento classico viene usato nella maggior parte degli spot pubblicitari. L’idea è di produrre uno spot (lo stimolo incondizionato) ed esser sicuri che esso sviluppi una risposta positiva (risposta incondizionata) nell’opinione pubblica. Il prodotto che deve essere pubbliciz-
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zato diventa pertanto lo stimolo condizionato. La volta successiva che un individuo va a fare compere, assocerà il sentimento positivo, che ha provato durante lo spot, al prodotto stesso. Il sentimento positivo per il prodotto diventerà quindi la risposta condizionata che il pubblicitario vuole produrre nella persona quando acquista il prodotto stesso allo scopo di prolungare e consolidare la risposta. Usando tali tecniche, Watson aiutò ad influenzare l’opinione pubblica attraverso diverse campagne pubblicitarie, tra cui il caffé Maxwell House, la crema detergente Pond, il borotalco della Baby’s Johnson, Odorono (uno dei primi deodoranti) e la pasta dentifricia Pebeco. Nella pubblicità del borotalco, fece leva sulle paure che le giovani madri avevano nella cura dei loro bambini. Nella campagna per il dentifricio Pebeco, associò la marca del dentifricio con l’eccitazione sessuale: una giovane donna vestita in modo seducente veniva rappresentata mentre fumava una sigaretta e pronunciava le seguenti parole: “Puoi fumare ed essere ancora gradevole se usi Pebeco due volte al giorno.” In questo caso la donna attraente rappresenta lo stimolo incondizionato e il dentifricio quello condizionato. C’è chi affermò che Watson fu colui che inserì la parola “sesso” nella frase il “sesso vende”. Watson contribuì alla ricerca empirica nell’ambito del marketing sottolineando l’importanza della conoscenza del consumatore attraverso lo studio scientifico. Lo studioso vedeva il processo della vendita come un laboratorio e confrontava spesso il consumatore ai partecipanti sperimentali. Nello stesso modo in cui aveva manipolato il comportamento di Albert, Watson credeva che con gli appropriati rinforzi i pubblicitari avrebbero potuto manipolare il comportamento di acquisto dei consumatori. A tal fine, sviluppò tecniche di ricerca di marketing e fu uno dei primi a studiare l’idea della fedeltà al marchio – un tema ancor oggi studiato dai pubblicitari. Il successo di Watson nella pubblicità fu tale che dal 1924 gli garantì un posto come Vice Presidente della J. Walter Thompson Advertising Agency – una delle più grandi agenzie pubblicitarie del mondo. Nella sua vita personale ebbe meno successo: dopo il divorzio dalla sua prima moglie, sposò Rosalie, ebbe con lei due figli, ma sfortunatamente la donna morì a soli 35 anni per complicazioni sopraggiunte in seguito ad una dissenteria. Watson si ritirò dal mondo della pubblicità nel 1945 e bruciò tutti i suoi lavori non pubblicati poco prima della sua morte avvenuta nel 1958. Una delle più memorabili e maggiormente citate frasi di Watson contribuì alla promozione dell’idea dell’influenza ambientale sul comportamento: Datemi una dozzina di bambini sani, ben sviluppati e io li renderò qualsiasi tipo di specialista – un dottore, un avvocato, un capo settore, e sì persino un mendicante o un ladro a prescindere dal loro talento, inclinazione, tendenza, abilità, vocazione e razza dei loro antenati. Ma la frase che segue è la meno citata: Sono andato oltre i fatti e lo ammetto, ma lo hanno fatto anche i sostenitori della tesi opposta e hanno continuato a farlo per migliaia d’anni. [12] Una delle lezioni che bisogna apprendere dalla storia del piccolo Albert è il modo in cui l’evidenza sperimentale possa essere inavvertitamente mal interpretata e ri-
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valutata. I miti di seconda mano, presi come “fatti”, a loro volta, aiutano a conferire allo studio lo status di “classico”. Non ci sono dubbi che lo studio del caso del Piccolo Albert rimanga un “classico” della psicologia, ma la questione, se esso meriti tale posto sulla base delle scoperte sperimentali, resta aperta. Forse merita lo status di “classico” sulla base della sua influenza (meritata o meno) che ha avuto allora e che continua ad avere anche oggi.
Bibliografia 1. Watson JB, Rayner R (1920) Conditioned emotional reactions. Journal of Experimental Psychology 3:1-14 2. Harris B (1979) Whatever happened to Little Albert? American Psychologist 34:151-160 3. Watson JB, Watson RR (1921) Studies in infant psychology. Scientific Monthly 13:493-515 4. Hilgard E, Maquis D (1940) Conditioning and Learning. Appleton-Century, New York 5. Samuelson F (1980) J.B. Watson’s Little Albert, Cyril Burt’s Twins and the need for a critical Science. American Psychologist 35:619-625 6. Gross RD (2003) Key Studies in Psychology. Hodder & Stoughton, London 7. Jones MC (1924) Elimination of children’s fears. Journal of Experimental Psychology 7:381390 8. Jones MC (1924) A Laboratory study of fear: the case of Peter. Pedagogical Seminary 31:308315 9. Wolpe J (1958) Psychoterapy by Reciprocal Inhibition. Stanford University Press, Stanford 10. Beck H, Levinson S, Irons G (2009) Finding Little Albert: A Journey into John B. Watson’s Infant Laboratory. American Psychologist 64:605-614 11. Buckley KW (1982) The selling of a psychologist: John Broadus Watson and the application of behavioral techniques to advertising. J Hist Behav Sci 19:207-221 12. Watson JB (1924) Behaviorism. University of Chicago Press, Chicago
Psicologia delle differenze individuali Il bambino che aveva bisogno di giocare: la storia di Dibs
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Dibs sedeva solo al centro della sala giochi, aveva cinque anni e lo sguardo fisso dinanzi a sé, sembrava inconsapevole del fatto che gli altri bambini stessero giocando intorno a lui. Le sue mani pendevano senza vita lungo il corpo completamente immobili. Gli unici movimenti avvenivano quando qualcuno si avvicinava a lui: in tal caso lo picchiava selvaggiamente o provava a morderlo o a graffiarlo. Infine, andava a nascondersi sotto il tavolo a testa china, dove rimaneva per il resto del tempo. Era ovvio a chiunque incontrasse Dibs che il bambino presentava gravi problemi comportamentali, e sebbene le insegnanti nutrissero dell’affetto per lui, trovavano impossibile lavorare con Dibs. La madre fu informata alla nascita che il bambino aveva un ritardo mentale e anomalie cognitive. Riecheggiando il caso di Genie, gli psicologi furono invitati a studiarlo e a proporre interventi terapeutici: Virginia Axline, una psicologa clinica, decise di usare con Dibs una tecnica nota come “ludoterapia”. Dieci anni dopo, il ragazzo fu sottoposto a una serie di test per valutare lo sviluppo mentale ed emerse che era anormale: Dibs era a tutti gli effetti un genio1.
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I lettori italiani possono trovare maggiori informazioni sul caso di Dibs nel libro di Virginia Axline [1]. Segnaliamo però che la versione italiana è fuori commercio (NdT).
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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“No casa” La storia di Dibs inizia a scuola. Diversamente dalla maggior parte dei bambini della sua età, Dibs sembrava odiare la scuola. A tutti gli effetti, sembrava odiare la vita. Spesso stava per diversi minuti con la testa sepolta tra le braccia appoggiato al muro. A volte sedeva nello stesso posto tutta la mattina, senza muoversi e senza dire una parola. Altre volte si raggomitolava a palla e restava in quella posizione fino a quando non doveva tornare a casa. Fuori di casa, nel parco, di solito cercava un angolo lontano, si accovacciava e grattava lo sporco con un bastone. Era un bambino silenzioso, isolato e infelice. Nonostante questo strano comportamento, gli insegnanti riconoscevano che a Dibs effettivamente la scuola piaceva. Quando era il momento di tornare a casa, il suo autista arrivava e Dibs sbatteva, mordeva, tirava i calci e urlava: “No casa” ancora e ancora. Questi capricci non li faceva mai quando doveva andare a scuola. Dibs non parlava né aveva mai un contatto visivo con gli altri. Era un bambino infelice, solo, in quello che a lui appariva come un mondo ostile. Nonostante questo comportamento, i suoi insegnanti nutrivano dell’affetto genuino nei suoi confronti. La forza della sua personalità li commuoveva. Il suo comportamento era certamente bizzarro – e il più delle volte sembrava mentalmente ritardato, ma occasionalmente faceva qualcosa che suggeriva una acuta intelligenza. Amava i libri e li accettava sempre quando gli venivano offerti e durante l’ora di storia, spesso si appostava sotto un banco in modo di essere abbastanza vicino da ascoltare tutto quello che veniva detto. La scuola ricevette molte lamentele sul comportamento aggressivo e distruttivo di Dibs e lo staff organizzò un incontro con degli psicologi in modo che potesse essere sottoposto a una serie di test psicologici. Gli psicologi non riuscirono a valutarlo, poiché Dibs rifiutava qualsiasi test. Era ritardato mentalmente? Era autistico? Aveva qualche malattia mentale? Dopo due anni di questo comportamento, quando Dibs aveva già cinque anni, i suoi insegnanti chiamarono una psicologa clinica. Fu allora che Dibs conobbe Virginia Axline, la quale fornì la stimolazione e i suggerimenti necessari a Dibs per superare i suoi problemi.
La porta inizia ad aprirsi La madre di Dibs acconsentì a fargli frequentare una serie di sedute di ludoterapia con Axline, della durata di un’ora fissate settimanalmente ogni giovedì. La ludoterapia è una forma specifica di psicoterapia per bambini in cui viene usato il potere terapeutico del gioco per aiutare i bambini a prevenire o a risolvere varie difficoltà psicologiche. Ai bambini viene data la possibilità di esprimere o di interpretare le loro esperienze, sentimenti e problemi giocando con bambole, giocattoli e altri materiali di gioco sotto la guida o l’osservazione di un terapista esperto. Attraverso questo processo i bambini possono, talvolta, essere aiutati a raggiungere il loro pieno po-
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tenziale. I ludoterapisti ritengono che giocare possa essere un mezzo per smuovere i sentimenti “bloccati” e le emozioni, aiutando ad aumentare l’autostima, gestire la rabbia, i sentimenti di inadeguatezza e permettere la liberazione delle emozioni. Vi sono due ampie categorie di ludoterapia. La terapia non direttiva, che consiste nel lasciare il bambino a briglia sciolta nella sala giochi, lasciandolo così giocare con qualsiasi cosa gli interessi. Il terapista ascolta o registra tutto il comportamento attraverso una telecamera posta dietro uno specchio unidirezionale. Il terapista fornisce consigli pratici da mettere in atto, come ad esempio: “Così oggi giocherai a fare il padre della bambola” per consentire lo sviluppo del gioco. Questo è il metodo che Axline usò con Dibs. Per ovvie ragioni, ci si riferisce comunemente ad esso come terapia centrata sul paziente. Nella terapia direttiva, invece, il terapista assume un ruolo più attivo durante il gioco. Spesso suggerisce i giochi appropriati e usa la seduta per specifici scopi diagnostici. I ludoterapisti spesso creano degli scenari di gioco di ruolo che simboleggiano le esperienze di vita del bambino per lavorare successivamente su delle possibili soluzioni. Ad esempio, dei burattini a forma di animale possono essere usati per rappresentare una lotta che può simboleggiare delle discussioni tra i genitori ai quali il bambino può avere assistito. Poiché a cinque anni la maturità cognitiva per beneficiare di una chiacchierata sui propri problemi è insufficiente, Axline sentì che il gioco poteva dare a Dibs un maggiore senso di sicurezza. Dibs aveva quindi l’opportunità di essere padrone delle sue sessioni di gioco e di indirizzare come credeva le attività. Il gioco permise a Dibs di superare qualsiasi sentimento negativo e simbolicamente trionfare sulle preoccupazioni e sui traumi che lo avevano derubato della sua stabilità. Inoltre, poteva farlo in piena sicurezza, accettando l’ambiente. Ma la domanda resta: come ha affrontato Dibs questa nuova situazione? La chiave per questo processo di guarigione dovrebbe essere la propria immaginazione e creatività. La stanza della ludoterapia usata da Axline conteneva una casa delle bambole con diverse bambole, macchinine giocattolo, della sabbia, acquerelli e colori a mano, blocchi da disegno e cancelleria, ed una bambola gonfiabile del tipo “sempre in piedi” che quando veniva colpita, appunto, rimaneva in piedi. Durante la sua prima seduta, Dibs semplicemente camminò per la stanza nominando ogni giocattolo con voce monotona. Axline incoraggiò questa vocalizzazione confermando il nome di ciascun oggetto. Afferrando la casa delle bambole, Dibs singhiozzò immediatamente: “Non chiudere le porte, non chiudere le porte”, ripetendolo numerose volte. Il processo terapeutico era iniziato.
Un ragazzo di eccezionale coraggio Alla visita successiva, Dibs mostrò un forte interesse per il cavalletto e i colori. Si avvicinò e dopo averli fissati a lungo, ne dispose sei a formare lo spettro dei colori. Prese una particolare marca di colori e disse che erano i migliori che uno potesse comprare. Axline realizzò che Dibs stava leggendo le etichette. Si sedette ed ini-
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ziò a dipingere, mentre dipingeva, diceva ad alta voce il nome di ciascun colore. Era anche in grado di fare lo spelling di ognuno. Fu immediatamente ovvio alla psicologa che Dibs non era mentalmente ritardato. La tecnica terapeutica non-direttiva usata da Axline diede a Dibs la libertà di dirigere da solo il gioco. Axline rispondeva prontamente alle domande di Dibs, ma era comunque lui che decideva il ritmo dell’interazione e l’attività di gioco. Lei cercava di essere un acceleratore per Dibs nel processo di scoperta del vero se stesso. Sperava di dargli la possibilità di lavorare sui suoi sentimenti in un ambiente non minaccioso. Axline disse a Dibs che la sala gioco era il suo posto speciale dove divertirsi, un posto dove nessuno poteva ferirlo, un luogo dove poteva “spazzare le nuvole e far tornare il sereno”. Axline sapeva che il processo terapeutico avrebbe preso una gran quantità di tempo e richiesto molti sforzi con nessuna garanzia di successo, in ogni caso, sperava che Dibs avrebbe rivelato sempre di più il suo vero sé non appena si fosse sentito più sicuro in sua compagnia. Al termine di ciascuna seduta, la terapeuta spesso aveva difficoltà con Dibs, perché il bambino continuava a ripetere singhiozzando: “Dibs non andare a casa”. Occasionalmente arrivava a gridare e a tirare calci in segno di protesta, quando sua madre veniva a prenderlo. Durante tali capricci, Axline non provava a confortare Dibs, anzi il più delle volte, se ne andava via, lasciandolo solo nell’idea che fosse necessario per il bambino essere indipendente da lei. Dopo tutto, Dibs la vedeva solo per un’ora a settimana, sarebbe stato molto più sconvolgente per lui attaccarsi emozionalmente ad una persona che poteva incontrare solo settimanalmente. La sua forza doveva venire da dentro, e sebbene la terapia fosse importante, Axline assicura che non divenne una parte dominante della vita di Dibs. Uno dei pericoli della terapia riguarda il fatto che i pazienti possano diventare troppo dipendenti dai loro terapeuti e lei voleva impedire che questo accadesse a Dibs. Così al momento del distacco, Axline si fermava a metà strada, lungo il corridoio, e Dibs con riluttanza camminava verso sua madre. Con questo semplice atto, Axline dimostrava la propria fiducia in lui, comprendendo anche che Dibs era un ragazzo di eccezionale coraggio.
“Te-rapia” Durante una seduta, Dibs notò la scritta sulla porta della sala giochi: riconobbe e lesse ad alta voce la parola “gioco” e guardò dall’altra parte. Stava provando a scoprire il significato di quel segno non familiare. “Te-rapia”1, esclamò. Durante la seduta di gioco, Dibs frequentemente sceglieva di giocare con la ca-
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In inglese “the rapy” crea falsamente l’idea di un nome con articolo. È possibile che, non conoscendo il significato della parola, il bambino l’abbia letta come se fosse un nome preceduto dall’articolo. In italiano è praticamente intraducibile, soprattutto è difficile rendere la logica del ragionamento effettuato da Dibs (NdT).
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sa delle bambole o nel recinto con la sabbia. Spesso chiedeva che le porte della casa della bambola venissero chiuse. Come parte della terapia, Axline incoraggiava Dibs a seguire le proprie impressioni. Ad esempio, quando Dibs chiedeva che la casa fosse chiusa, Axline gli chiedeva se voleva che la casa venisse chiusa. Se Dibs rispondeva che era proprio quello che voleva, lei gli suggeriva di farlo e non lo faceva mai al suo posto. Quando Dibs esclamava che la casa era chiusa, lei si congratulava con lui per la sua impresa. Axline cercava di evitare domande dirette o inquisitorie. Questo aiutava ad evitare confronti e ad infondere sicurezza. Riconosceva il proprio desiderio di fare domande dirette ma ritenendo che nessuno rispondeva mai accuratamente ad esse durante la terapia, ne faceva un uso limitato. Al contrario, Axline provava sempre a rivolgere a Dibs domande aperte che gli permettevano maggiormente di esprimersi. Spesso riparafrasava ciò che Dibs diceva per dargli la possibilità di identificarsi maggiormente con i suoi pensieri. Ad esempio, quando Dibs le offriva un disegno che aveva fatto, piuttosto che accettarlo con un semplice grazie, gli chiedeva: “Oh, è per me questo?” Questo sistema le permetteva di tenere aperta la conversazione e consentiva a Dibs di esprimersi se lo desiderava. Inoltre, aiutava a rallentare il processo terapeutico e a non imporre dei modelli comportamentali nell’interazione. Attraverso queste tecniche sottili, Dibs iniziava gradualmente ad uscire dal proprio guscio. Stava iniziando a rilevare il vero se stesso. Stava prendendo il controllo e iniziava a divertirsi grazie alla ritrovata fiducia e libertà. Iniziò ad avere un contatto visivo con Axline e sempre più frequentemente spuntava un sorriso incorniciato dai suoi boccoli scuri.
Ogni settimana ha un giovedì Axline sentiva che Dibs stava facendo progressi. Aveva però pochi contatti con i genitori di Dibs e con la sua scuola, per questa ragione non sapeva se questi progressi erano evidenti anche in luoghi diversi dalla sala giochi della terapia. Nonostante i suoi progressi, Dibs continuava ad avere profonde difficoltà. Quando era turbato, spesso tornava a chiedere il latte nel suo biberon, che sembrava rassicurarlo. Axline notò anche che Dibs usava delle strategie di difesa ogni volta che doveva parlare delle sue emozioni e dei suoi sentimenti. Talvolta il suo linguaggio diventava molto elementare e rudimentale, e in altre occasioni cambiava argomento parlando della sua indiscussa abilità intellettuale nello scrivere, nel leggere e nel far di calcolo. Axline si rese conto che Dibs aveva bisogno di nascondere i propri sentimenti e le proprie emozioni e che si sentiva molto più a proprio agio nel dimostrare le proprie abilità intellettuali. Forse Dibs talvolta nascondeva anche le proprie abilità perché rimaneva turbato dal grande valore che le persone attribuivano ad esse. Un giorno durante una seduta, Dibs prese un soldatino che identificò come “Papà”. Lo alzò e gli fece scalare una collinetta di sabbia, “così duro e diritto come una vecchia inferriata d’acciaio” e poi proseguì facendolo cadere giù più e più volte, do-
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po di che lo seppellì nella sabbia. Dibs lo lasciò lì per tutta la settimana. Axline notò l’ovvio messaggio del gioco e, allo stesso tempo, si meravigliò della sua creatività e della proprietà di linguaggio di Dibs. È facile vedere il significato simbolico di molti dei giochi di Dibs. Ad esempio, la casa delle bambole potrebbe rappresentare tutte le porte chiuse che egli aveva incontrato nella sua breve vita – la porta chiusa della sala dei giochi a casa, la porta chiusa sull’amore dei suoi genitori. Queste interpretazioni non sono mai state suggerite a Dibs e non facevano parte del suo processo terapeutico, ma appare ragionevole pensare che potessero avere quel significato. Solo Dibs sarebbe in grado di dirlo. Era evidente che Dibs aspettasse il giovedì e che si divertisse durante le sedute. Correva dentro la sala giochi ed entrava sorridendo. Disse anche ad Axline quanto amasse quegli incontri. Le disse: “Io arrivo con allegria in questa stanza e me ne vado con tristezza”. Sembrava contare i giorni che lo separavano dalla successiva seduta: calcolava in che giorno sarebbe caduto il giovedì successivo, che fosse il compleanno di George Washington o il giorno dopo il 4 di luglio2. Sapeva sempre in che data cadeva il giovedì, il mercoledì era sempre un lungo giorno prima della sua seduta con “Miss A”, come Dibs chiamava Axline.
Così tanto da dire Durante le sedute, Axline ebbe pochi contatti con i genitori di Dibs. Un giorno il padre del ragazzo venne a prenderlo e Axline si presentò. Dibs interruppe i loro convenevoli dicendo al “Papà” che quell’anno il giorno dell’Indipendenza sarebbe caduto di mercoledì, tra quattro mesi, e due settimane. Il padre si imbarazzò molto e gli intimò di smetterla con i suoi farfugliamenti senza senso. Chiamò Dibs idiota. Dibs apparve terribilmente mortificato e se ne andò in silenzio. Più tardi Dibs urlò e prese a calci suo padre, gridandogli quanto lo odiasse, urlò così tanto che per calmarlo fu chiuso a chiave nella sua stanza dei giochi. Stranamente, questo episodio fu una chiave di svolta nella relazione tra Dibs e i suoi genitori. I genitori di Dibs si spaventarono, non avevano mai veramente discusso dei loro sentimenti e delle loro emozioni. Questo incidente li forzò a confrontare le loro paure e le loro preoccupazioni. Realizzarono di aver fallito con Dibs, avevano trascorso tutta la loro vita usando la loro razionalità per proteggersi da reazioni emozionali e Dibs innocentemente aveva fatto lo stesso. Forse anche i genitori di Dibs erano stati cresciuti in un deserto emozionale. A modo loro, tutti e tre avevano provato ad usare la loro intelligenza come una forma di comportamento protettivo e que-
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Il compleanno di George Washington viene celebrato il terzo lunedì di febbraio ed è noto anche come giorno dei Presidenti; è una festa celebrata a livello federale in diversi Stati USA. Il 4 luglio (Independence Day) è la festa nazionale degli Stati Uniti d’America che commemora l’adozione della Dichiarazione di indipendenza avvenuta il 4 luglio 1776, con la quale le allora Tredici Colonie si staccarono dal Regno Unito (NdT).
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sto li aveva resi più vulnerabili che mai. La madre e il padre di Dibs decisero di tentare di fare qualcosa. La mattina seguente, la madre di Dibs telefonò per fissare un appuntamento con Axline. Al suo arrivo, la madre di Dibs era molto a disagio e confessò di avere “così tanto da dire” sentendo una grande responsabilità nei confronti di Dibs. Questo incontro rappresentava la sua possibilità per parlare e liberarsi del senso di colpa che provava. Apparentemente, suo marito voleva che Dibs smettesse la terapia, perché credeva che la terapia facesse stare peggio Dibs. Infatti, il bambino, nelle ultime settimane, sembrava più infelice. Axline rimase sorpresa. Possibile che i miglioramenti che lei osservava in Dibs e che a lei sembravano così evidenti non fossero visibili oltre la sala gioco? Attraverso le lacrime, la madre di Dibs descrisse l’amara delusione nello scoprire di essere rimasta incinta: era un chirurgo dotato e la sua carriera fu ostacolata dalla gravidanza. Suo marito era uno scienziato brillante, ma assente e anche lui mal sopportò la nascita di Dibs, vivendola come un’intrusione. Inoltre, erano imbarazzati dal fatto che Dibs non fosse normale. Loro erano brillanti e loro figlio appariva mentalmente ritardato. Si vergognavano e si sentivano completamente umiliati. Quando un neurologo non trovò nulla di sbagliato in Dibs, pensarono che potesse essere schizofrenico, ma anche lo psichiatra che lo esaminò lo trovò perfettamente normale, sostenendo che si trattava solamente del risultato di un grave abbandono emozionale. Lo psichiatra raccomandò la psicoterapia ai genitori di Dibs, non a Dibs. Axline chiese alla madre di Dibs notizie sul comportamento del bambino a casa. La donna, in effetti, riportò un marcato miglioramento nel comportamento di Dibs: parlava di più, non si succhiava più il pollice e i suoi capricci erano un ricordo del passato. La madre di Dibs descrisse l’incidente che Dibs aveva avuto con il padre interpretandolo come una protesta razionale al rimprovero privo di sensibilità che il padre gli aveva fatto. Dibs avrebbe continuato la sua terapia. La famiglia aveva fatto una svolta ed era pronta ad affrontare i problemi. Axline notò che molti terapeuti non intraprendono la terapia senza l’accordo o la partecipazione attiva dei genitori. Nel caso di Dibs, il coinvolgimento dei genitori avvenne in un secondo momento e dimostra che la terapia può avere successo anche senza l’iniziale coinvolgimento della famiglia.
La foglia Durante una seduta, Dibs raccontò ad Axline una storia su un albero che cresceva fuori dalla finestra della sua cameretta. Al loro giardiniere, Jake, fu detto di sfrondare la folta chioma dell’olmo. Dibs, sporgendosi dalla finestra, chiese a Jake di lasciare i rami che poteva toccare affacciandosi dalla finestra. L’uomo acconsentì e lasciò quei rami più lunghi. Il padre di Dibs, avendoli notati, chiese nuovamente a Jake di tagliarli. Il giardiniere spiegò al padre di Dibs che al bambino piaceva affacciarsi alla finestra per toccarli, ma il padre di Dibs fu irremovibile e gli ordinò di tagliarli, aggiungendo che non voleva che Dibs si sporgesse dalla finestra. Jake fu costretto a tagliare
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i rami ma regalò le loro punte a Dibs, una parte dell’albero che lui poteva conservare nella sua stanza. Dibs fece tesoro delle punte dei rami e le conservò in gran segreto. Jake raccontava spesso a Dibs storie inventate da lui sul giardino. Gli raccontò anche una storia sul suo olmo: in primavera, le foglie diventano verdi grazie alla pioggia e in estate le foglie donano frescura con la loro ombra, ma in inverno, il vento soffia via tutte le foglie per far far loro il giro del mondo. L’ultima foglia sull’albero si sentiva sempre molto sola, ma il vento se ne accorgeva e soffiava ancora e la piccola foglia veniva trasportata verso la più meravigliosa avventura di tutti i tempi. Ma siccome alla piccola foglia mancava Dibs, il vento la soffiava indietro verso lo stesso vecchio olmo. Jake aveva trovato un giorno la foglia sotto l’albero e l’aveva donata a Dibs. Dibs incorniciò la foglia, e ogni volta che la guardava, immaginava tutte le cose meravigliose presenti nel mondo e tutte le cose sorprendenti che aveva letto. Dibs parlò ad Axline anche dei suoi sentimenti verso Jake: “Mi piace, mi piace tantissimo. È forse un amico?” Durante la ludoterapia, il bambino veniva incoraggiato a raccontare storie sulle sue esperienze quotidiane. Le storie potevano riguardare un episodio realmente accaduto nella sua vita di bambino (come in questo caso) o potevano essere inventate. Questo lo aiutava ad evidenziare le sue preoccupazioni e gli permetteva di dare un senso ad esperienze problematiche o preoccupanti. Attraverso la ripetizione della storia, il bambino aveva la possibilità di lavorare sulla paura e sulla rabbia che aveva accompagnato l’episodio.
“Mamma, ti voglio bene” Con il passare del tempo, Dibs divenne più fiducioso e rilassato. Raccontò di quanto si piacesse e di una giornata felice trascorsa al mare insieme ai suoi genitori. Dibs nascondeva ancora la sua proprietà di linguaggio quando voleva. Sapeva bene quanto questo comportamento turbasse suo padre ed era il suo modo per affrontare le critiche che gli venivano mosse. Un giorno dopo una seduta di terapia, egli corse per il corridoio e si gettò tra le braccia di sua madre gridando: “Oh, mamma, ti voglio bene”. Sua madre scoppiò in un mare di lacrime. Dibs non vedeva l’ora di trascorrere le vacanze estive con la sua famiglia. Sembrava rendersi conto che la terapia aveva fatto il suo corso. Era felice e contento. Sua madre andò nuovamente a parlare con Axline. Questa volta ci andò per ringraziarla per i suoi sforzi. Le confidò anche di aver sempre saputo che Dibs non era ritardato. Era sicura che fosse in grado di leggere già a due anni, poiché glielo aveva sistematicamente insegnato prestissimo. Le raccontò anche che a sei anni Dibs era in grado di riconoscere centinaia di sinfonie classiche e che i suoi disegni avevano un senso della prospettiva sorprendente. Lo aveva fortemente esortato al successo, pensando di aiutarlo, sollecitando le sue abilità innate, ma tutto ciò a spese della sfera emozionale. Forse sua madre era incerta su come relazionarsi con Dibs e si era concentrata sugli aspetti in cui si sentiva più sicura – l’aspetto intellettuale – per nascondere la propria incapacità di stare emozionalmente vicina al figlio.
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Durante l’ ultima seduta, Dibs era rilassato, socievole e felice. Il suo comportamento era spontaneo. Il suo saluto di addio fu: “La signora della meravigliosa stanza dei giochi”. La settimana successiva, uno psicologo clinico somministrò a Dibs un test per misurare il suo quoziente intellettivo (QI). Si tratta di un test standard, che stabilisce il livello di intelligenza di una persona misurandone l’abilità nel formare concetti, risolvere problemi, acquisire informazioni, ragionare ed eseguire altre operazioni mentali. Il QI medio nella popolazione generale è 100. Dibs aveva un punteggio stupefacente di 168. Meno di una persona su mille ha un punteggio così alto. Non finì la prova di lettura perché la trovò noiosa, ma la prova che gli era stata somministrata era già molto più avanzata di quella prevista per la sua età. Il bambino risultava dotato intellettualmente in tutte le aree dello sviluppo. Dibs doveva accettarsi e così dovevano fare i suoi genitori. È molto difficile stabilire la riuscita della ludoterapia. Quale tipo di misure possono essere applicate per valutarne l’effettiva efficacia? La terapia effettuata da Dibs sembra indubbiamente essere riuscita, ma quali sono stati gli elementi del successo? Erano stati l’attività ludica, i giocattoli, il calore della relazione con Axline, il contatto uno a uno o semplicemente una maturazione nello sviluppo che avevano aiutato Dibs? Potrebbe anche essere stata una sottile combinazione di tutti questi elementi. La mancanza di rigore sperimentale è una delle critiche che viene mossa alla terapia del gioco. D’altra parte, sarebbe impossibile negare la terapia ad un altro bambino, che presentasse esattamente gli stessi problemi, per verificare se otterrebbe comunque identici miglioramenti nello stesso periodo anche in assenza di terapia.
Postscriptum Due anni e mezzo dopo, puramente per caso, la famiglia di Dibs si trasferì in un nuovo appartamento vicino a quello dove viveva Axline. La incontrarono un giorno per strada e Dibs la riconobbe subito ricordandole che la loro ultima seduta si era svolta un giovedì di due anni, sei mesi e quattro giorni prima. Egli aveva strappato la data della sua ultima seduta dal calendario e l’aveva incorniciata appendendola al muro della sua cameretta. Era un giorno speciale e Dibs disse ad Axline che era stata la sua prima migliore amica. Dibs eccelleva nella sua nuova scuola per ragazzi dotati, i suoi genitori erano felici e così lo era lui. La famiglia di Dibs si trasferì nuovamente, perdendo ancora una volta i contatti con Axline. Un’insegnante sua amica, sapendo quanto fosse interessata ai ragazzi coraggiosi, le mostrò una lettera scritta da un ragazzo di 15 anni sul giornalino della scuola, in questa lettera il ragazzo lamentava il trattamento della scuola nei confronti di un alunno. La lettera conteneva una serie di argomentazioni convincenti ed eloquenti. L’insegnante ammise che molto probabilmente la scuola avrebbe seguito quei suggerimenti, conosceva il ragazzo che aveva scritto la lettera e lo considerava brillante, sensibile ed ammirato dai suoi compagni. Axline notò che il ragazzo che aveva scritto la lettera non era altro che Dibs.
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Durante la sua terapia, Dibs una volta aveva sostenuto che ogni bambino avrebbe dovuto avere una collina tutta sua su cui arrampicarsi. Dibs aveva avuto la collina più alta della maggior parte dei bambini, e attraverso un duro lavoro, molta pazienza, un grande impegno e una buona guida aveva raggiunto la vetta e ora ne godeva la vista. Egli aveva trovato il senso di “sé”.
Bibliografia 1. Axline VM (1969) Storia di Dibs. Mondadori, Milano
Psicologia delle differenze individuali L’uomo che si eccitava alla vista di carrozzine e borsette
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Questo caso riguarda un uomo sposato che aveva sviluppato una perversione sessuale particolarmente insolita: si eccitava sessualmente alla vista di borse e carrozzine. Questa perversione era diventata così marcata che fu arrestato in numerose occasioni con l’accusa di aver causato danni a questi oggetti. Come trattamento venne suggerita una leucotomia pre-frontale, ma prima di ricorrere a una così drastica e irreversibile procedura il paziente fu sottoposto a una forma rigorosa di terapia aversiva. La terapia aversiva è caratterizzata da una sorta di lavaggio del cervello e richiama quella descritta nel libro di Anthony Burgess Arancia Meccanica [1,2] e nel successivo film.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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Il problema Questo caso [3] è senza dubbio tra quelli descritti in questo libro uno dei meno noti, ma è anche quello che spesso le persone trovano più affascinante, l’interesse è dato forse dalla descrizione di un feticismo sessuale piuttosto bizzarro. Il paziente era un uomo sposato di 33 anni, paziente esterno dell’ospedale psichiatrico che venne valutato per una leucotomia pre-frontale – un’operazione di neurochirurgia che prevede la rescissione chirurgica dei tratti nervosi che ricevono e inviano informazioni ai lobi frontali. L’operazione veniva adottata allo scopo di alleviare gravi ed intrattabili problemi mentali e comportamentali benché spesso determinasse evidenti cambiamenti cognitivi e/o della personalità. Nella storia della psicochirurgia fu adottata per la prima volta nel 1935 e successivamente venne praticata su pazienti resistenti a qualsiasi altro tipo di trattamento, la cui psicosi era talmente grave da far sì che i cambiamenti prodotti dalla leucotomia fossero il male minore. Ai giorni nostri una simile motivazione sarebbe inammissibile e un tipo di intervento così devastante inaudito. Il problema presentato dal paziente consisteva in una bizzarra attrazione sessuale verso borse e carrozzine. Questo strano comportamento si manifestò per la prima volta all’età di dieci anni in cui per la prima volta provò un impulso irresistibile ad attaccare e danneggiare borse e carrozzine. Talvolta questo implicava poco più che un graffio, fatto con l’unghia del pollice lungo il lato di una borsa o di una carrozzina, ma vi furono occasioni in cui le aggressioni ai danni di questi oggetti furono molto più serie: una volta inseguì una donna che stava spingendo una carrozzina imbrattandola con dell’olio da motore. In un’altra occasione era arrivato a tagliare e a dar fuoco a due carrozzine vuote trovate alla stazione dei treni. Un’altra volta ancora aveva deliberatamente diretto il suo motorino contro una carrozzina con un bimbo al suo interno, evitandola solo per un soffio all’ultimo momento. Si divertiva anche a spingere la sua automobile dentro pozzanghere fangose al solo scopo di schizzare qualsiasi persona stesse spingendo una carrozzina lungo il marciapiede. Fu proprio a causa di tali comportamenti, dopo che la polizia fu chiamata ad intervenire per oltre 12 volte, che venne accusato di guida negligente e disattenta e successivamente anche incarcerato con l’accusa di aver provocato dei danni alle proprietà altrui. In seguito confessò di aver compiuto anche altri cinque atti vandalici nei quali aveva tagliato e graffiato delle carrozzine. La storia del paziente rivelò che era stato sottoposto a svariati anni di trattamento psichiatrico, ammise che questi raptus verso le carrozzine erano già presenti all’età di 12 anni. Per quanto riguardava le borse, di solito si sentiva soddisfatto graffiandole con l’unghia e poiché questo poteva essere fatto senza essere notati, finì nei guai con la polizia solo una volta per aver danneggiato una borsa. Giudicato responsabile, piuttosto che essere inviato in carcere venne affidato ad un ospedale psichiatrico e ricoverato nel reparto nevrosi, dove gli psichiatri, avendo verificato l’inefficacia della psicoterapia, ne decisero il ricovero permanente in quanto lo ritennero potenzialmente pericoloso. Nonostante ciò dopo un periodo di tempo venne dimesso, riprendendo dopo poco a danneggiare carrozzine.
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Il trattamento psicoanalitico a cui fu sottoposto per ore ed ore era indirizzato ad individuare le ragioni del suo strano comportamento. Durante il trattamento venne suggerito che il comportamento potesse aver avuto origine da un incidente avvenuto durante l’infanzia mentre giocava con il suo yacht giocattolo nel laghetto locale per le barche: accidentalmente era andato a sbattere con il suo modellino contro il lato di una carrozzina ferma lì vicino, restando “impressionato dallo sgomento femminile” mostrato dalla madre del bambino. Riferì anche un episodio nel quale aveva avuto un’improvvisa ed immotivata erezione alla vista della borsa di sua sorella. Il paziente accettò il possibile significato di questi eventi e ascrisse un simbolismo sessuale sia alle carrozzine che alle borse. In termini freudiani, borse e carrozzine essendo “contenitori” usati dalle donne, potrebbero rappresentare il desiderio per la madre o, più in generale, verso i genitali femminili. Ovviamente i problemi sollevati da un caso del genere sono molteplici: da una parte interrompere gli attacchi verso gli altri per l’effettiva pericolosità in cui potevano essere messi, d’altro lato l’uomo sentiva che questo problema aveva effetti nocivi sulla sua vita. Se il suo feticismo sessuale non fosse stato pericoloso per dei bambini, non sarebbe stato necessario neppure il trattamento ed egli avrebbe potuto continuare la sua bizzarra attitudine sessuale. Era un buon marito e un buon padre, a detta di sua moglie, che era però ben consapevole dei suoi problemi, avevano avuto due figli e il paziente riferiva che occasionalmente aveva attaccato anche la carrozzina dei suoi stessi figli e la borsa di sua moglie.
Una possibile soluzione? Cosa possono fare gli psicologi per questo paziente? Benché il suo interesse primario fossero carrozzine e borse, il paziente era consapevole e preoccupato di poter ferire accidentalmente un bambino che poteva trovarsi in una delle carrozzine che lui attaccava. Fu quindi ancora una volta ricoverato in ospedale psichiatrico per 18 mesi, senza ottenere miglioramenti. Dopo ulteriori guai con la polizia, fu ancora una volta affidato in prova presso un ospedale mentale alla ricerca di un trattamento medico appropriato. Fu durante quest’ultimo ricovero che iniziò a farsi largo l’ipotesi della psicochirurgia. Comunque, prima che venisse effettuato questo tipo di trattamento drastico e irreversibile, gli psicologi suggerirono che poteva essere un caso in cui poteva essere impiegata la cosiddetta terapia aversiva. Si tratta di una forma di terapia comportamentale definita da Wolpe (1958) come “l’uso di leggi di apprendimento stabilite sperimentalmente allo scopo di modificare il comportamento disadattivo”. La base di tale intervento è costituita dall’associare un comportamento indesiderabile ad uno stimolo aversivo o indesiderabile. Comunemente si associa a nausea indotta farmacologicamente o a dolore causato da scarica elettrica. Attraverso questo condizionamento, gli stimoli aversivi vengono associati al comportamento indesiderabile causando la soppressione di quel comportamento. In un passato non così remoto, questa terapia venne usata per una serie di comportamenti considerati indesiderabili, inclusa l’omosessualità!
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Lo scopo del trattamento in questo caso particolare era di provare ad alterare l’ossessione erotica del paziente verso le borse e le carrozzine usando delle tecniche di condizionamento, associandole a sensazioni spiacevoli. Il paziente benché scettico acconsentì a sottoporsi al trattamento, prese questa decisione dopo aver notato un incremento della propria ossessione, al punto che anche le pubblicità di borse e carrozzine pubblicate su riviste e giornali lo eccitavano! I principi della terapia aversiva si basano sul condizionamento classico, per la prima volta descritto dal fisiologo russo, Ivan Pavlov (1849-1936). Mentre svolgeva le sue ricerche sul sistema digestivo dei cani, Pavlov notò che i cani salivavano alla sola vista della persona che li nutriva. Lo scienziato chiamò la salivazione dei cani in risposta al reale sapore e odore della carne risposta incondizionata (non appresa o innata), poiché avveniva naturalmente, senza alcun precedente addestramento, definendo la carne stimolo incondizionato. Pavlov osservò in seguito che un atto normalmente neutrale, come il suono di una campanella, poteva venire associato con la comparsa del cibo e produrre pertanto salivazione come risposta condizionata, in risposta a uno stimolo condizionato. Il processo è illustrato nella Figura 12.1. In ricerche successive, Pavlov trovò che per mantenere una risposta condizionata, essa doveva essere associata periodicamente allo stimolo incondizionato o l’associazione appresa veniva dimenticata, fenomeno noto come estinzione. Il condizionamento classico può essere applicato al comportamento umano e può spiegare fe-
1. Prima del condizionamento
Cibo
Risposta
Stimolo Incondizionato
2. Prima del condizionamento
Salivazione
Stimolo Incondizionato
Risposta
Stimolo Neutrale
Risposta Incondizionata
Nessuna salivazione Risposta Non condizionata
4. Dopo il condizionamento
3. Durante il condizionamento
Diapason Cibo
Diapason
Salivazione Risposta Incondizionata
Diapason
Risposta
Stimolo Condizionato
Fig. 12.1 Il meccanismo del condizionamento classico
Salivazione Risposta Condizionata
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nomeni complessi come la reazione emozionale di una persona ad un particolare suono o profumo sulla base di precedenti esperienze passate associate a quel suono o a quel profumo o a quella reazione. Il condizionamento classico (chiamato anche pavloviano o apprendimento associativo) è anche alla base di molti diversi tipi di paure o fobie, che possono instaurarsi attraverso un processo di generalizzazione dello stimolo: un bambino che ha avuto una cattiva esperienza con un particolare cane, ad esempio, può apprendere ad aver paura di tutti i cani (si veda Capitolo 10). I principi del condizionamento classico sono stati sviluppati in una varietà di tecniche terapeutiche, una di queste è appunto la terapia aversiva, dove lo scopo è quello di rendere spiacevole uno stimolo desiderabile. Il trattamento di condizionamento proposto in questo caso consisteva nell’iniettare un farmaco, l’apomorfina, che produceva malessere o nausea. Le carrozzine o le borse venivano mostrate immediatamente dopo che il farmaco era stato iniettato, quando si manifestava la nausea. Le carrozzine e le borse erano pertanto lo stimolo condizionato (appreso) e la nausea rappresentava la risposta spiacevole con la quale lo stimolo condizionato veniva associato. Il regime di trattamento era duro. Il trattamento veniva effettuato ogni due ore, giorno e notte, e nessun cibo era consentito, di notte per tenere sveglio il paziente venivano usate le amfetamine. Alla fine della prima settimana, il trattamento fu sospeso e al paziente fu permesso di ritornare a casa. Dopo otto giorni, egli fu condotto nuovamente in ospedale per proseguire il trattamento e riportò con gioia che era stato in grado di avere dei rapporti sessuali con sua moglie senza nessuna delle sue vecchie fantasie su borse o carrozzine. Sua moglie riportò anche di aver notato un marcato miglioramento nel suo comportamento. Nonostante questo miglioramento, il trattamento fu ripreso ma fu usato un diverso emetico (farmaco che induce nausea) quando l’effetto dell’apomorfina divenne meno pronunciato. Dopo soli cinque giorni il paziente riportò che la sola vista di carrozzine e borse lo faceva star male. Fu confinato a letto e gli vennero date delle borse e delle carrozzine con cui giocare e il trattamento continuò ad intervalli irregolari. Alla sera del nono giorno, suonò il campanello e supplicò le infermiere di portar via le carrozzine e le borse, le infermiere si rifiutarono di farlo. Comunque, poche ore dopo, durante le quali aveva urlato ininterrottamente, un dottore rimosse le carrozzine e le borse e gli diede un bicchiere di latte e un sedativo. Il giorno seguente il paziente aprì la sua ventiquattrore e rinunciò a diverse fotografie di carrozzine consegnandole al dottore, dicendogli che le aveva portate dietro per un anno ma che sentiva di non averne più bisogno. Il paziente fu dimesso dall’ospedale, ma continuò a frequentarlo come paziente esterno. Dopo sei mesi venne deciso un nuovo ricovero per un richiamo del trattamento che il paziente accettò con grande riluttanza. Gli psicologi proiettarono un film che mostrava delle donne che portavano delle borse e che spingevano delle carrozzine nel modo “eccitante e provocatorio” che egli aveva precedentemente descritto: prima dell’inizio del film gli fu somministrato l’emetico che lo fece sentire male. Fu questo l’ultimo trattamento, anche se continuò ad essere seguito per diversi anni, mostrando ulteriori miglioramenti. Non fece più fantasie su carrozzine e borse e sua moglie riferì di non essere più preoccupata che potesse impazzire, o di essere chiamata dalla polizia, e che i loro rapporti sessuali erano molto migliorati. L’uomo non ebbe più problemi con la polizia e ottenne anche una promozione sul lavoro. Eysenck, lo psicologo che lo aveva
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seguito, riportò che il trattamento aveva avuto un successo considerevole per il paziente, per sua moglie, per la sua famiglia e anche per l’intera società.
Problematiche del trattamento Questo caso e l’uso della terapia aversiva sollevano una serie di problematiche che approfondiremo. Un primo aspetto è relativo agli effettivi metodi di trattamento utilizzati. Molte persone discuteranno sul fatto che la terapia aversiva non è molto comprensibile, i trattamenti spesso sembrano molto meccanici e molte persone, inclusi molti psicologi, trovano riprovevole tale trattamento nei confronti di esseri umani. Non ci sono dubbi che il trattamento implichi dolore e sconforto. Alcuni sostengono che si tratti di una sorta di lavaggio del cervello – un processo degradante nel quale gli esseri umani vengono visti come una semplice scatola di riflessi condizionati. Si sostiene infatti che l’uso della terapia aversiva svaluti l’unicità dell’individuo perché parte dal presupposto che tutti gli uomini apprendano nello stesso modo e quindi possano essere trattati e condizionati in modo identico. Eysenck sostiene la necessità di prendere in considerazione le alternative alla terapia aversiva. La prima alternativa era l’uso di altre forme di psicoterapia, forse la psicoanalisi. Lo studioso sostiene che vi sono alcune evidenze, da lui stesso riportate, che questo tipo di trattamento non abbia dei reali benefici, se non addirittura degli effetti nocivi. Un’altra alternativa è quella di non intervenire lasciando che un paziente migliori da solo semplicemente col trascorrere del tempo – questo effetto è chiamato “remissione spontanea”, anche in questo caso è stato dimostrato che generalmente disturbi di questo tipo non mostrano un’alta percentuale di remissione spontanea. Nel caso specifico, il paziente aveva già ricevuto una grande varietà di trattamenti psichiatrici inefficaci prima di essere sottoposto alla terapia aversiva. Una diversa possibilità, di certo, sarebbe stata condannarlo alla prigione per un lungo periodo a scontare la pena per i suoi atti. Ma vi sono poche evidenze che questa forma di punizione possa avere degli effetti benefici a lungo termine in grado di modificare il comportamento futuro, in particolare nel caso di perversioni sessuali. Al contrario alcuni sostengono che la prigione abbia come unico effetto quello di rendere le persone più caute e attente a non farsi sorprendere in flagranza di reato. Di certo, una delle altre alternative era quella di lasciarlo libero o di affidarlo in prova. Dopo tutto, molti dei suoi comportamenti, non erano gravi ed implicavano solo qualche graffio fatto con l’unghia sulla fiancata della carrozzina. Ma la società non ha il diritto di essere protetta da questi individui? Sebbene il paziente affermasse di non avere nessuna intenzione di ferire dei bambini, ovviamente questo poteva accadere come conseguenza sfortunata della sua attrazione verso le carrozzine. Inoltre, alcuni dei suoi attacchi verso le borse delle donne avevano destato anche molta preoccupazione nelle sue vittime. Guardando a tutte le opzioni disponibili, Eysenck commenta che la scelta doveva esser fatta tra chiedere al paziente di sottoporsi a un metodo di trattamento, che è senz’altro spiacevole e scomodo, ma che non dura troppo tempo, sebbene al paziente sembrasse interminabile, spedirlo in prigione, e con-
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sentirgli la libertà vigilata o chiedergli di sottoporsi a un lungo, costoso e forse inutile trattamento psicoterapeutico in ospedale. Eysenck suggerisce che, date le differenti opzioni disponibili, la terapia aversiva era la più appropriata e, la forma più efficace di trattamento per tutte le problematiche mostrate dal paziente. Si potrebbe discutere se sia eticamente giusto non usare un trattamento efficace esclusivamente perché alcune persone ritengono che sia in qualche modo degradante per gli individui. Tale discussione fu sviluppata da Eysenck, che riteneva che i pazienti che si sottoponevano alla terapia non si lamentavano (come vedremo in seguito, questo è un argomento controverso). Eysenck dichiarò che molte persone hanno già fatto lunghi percorsi prima di scoprire l’esistenza della terapia comportamentale e che ad essi non dovrebbe essere negato il diritto al trattamento. Lo studioso considerava tale terapia un trattamento sicuro ed efficace per molte condizioni che sono difficili da correggere e scrisse che era giusto lasciare la decisione finale a chi stava soffrendo. La discussione si sposta quindi se sia legittimo impedire ad un paziente di usufruire di una terapia che desidera effettuare. Di fatto, molte persone sono contrarie all’uso della terapia aversiva per condizioni che non provocano nessun pericolo per la società: in passato, un esempio dei comportamenti che la terapia aversiva cercava di alterare era l’omosessualità. L’omosessuale che cerca di cambiare la sua propensione sessuale lo sta facendo molto probabilmente per evitare la disapprovazione sociale. La disapprovazione e la pressione sociale possono essere fattori potenti in grado di spingere un omosessuale a desiderare di sottoporsi alla terapia aversiva. Dovremmo discutere se non sia il caso di non rendere accessibile questo trattamento agli omosessuali; o piuttosto dovremmo consigliar loro di accettare la loro omosessualità e di capire che il problema, in questo caso, è sociale e non individuale. Nel passato, il “trattamento” dell’omosessualità [4] consisteva principalmente nel mostrare al paziente delle immagini o dei film di uomini nudi. Questi filmati rappresentavano gli stimoli condizionati. In questi esperimenti, emetici e/o shock elettrici erano usati come risposte incondizionate o indesiderabili. Gli shock elettrici avevano una serie di vantaggi rispetto agli emetici: per prima cosa l’intensità dello shock poteva essere regolata e la sua presentazione poteva essere molto più accurata. Senso di nausea e vomito dopo l’iniezione del farmaco non sono regolabili come lo shock elettrico. Uno shock viene rilasciato in circa un secondo, mentre la nausea può avvenire anche diversi minuti dopo l’iniezione. Secondo i principi del condizionamento, la durata della risposta incondizionata è particolarmente importante nel processo di apprendimento, più è breve il tempo di rilascio della risposta e più è rapida l’associazione, in base alla legge di contiguità. In relazione all’omosessualità, una delle questioni sollevate è relativa alla possibilità di cambiare il comportamento sessuale di una persona attraverso l’uso di questa terapia. L’ipotesi è che fermando l’attrazione sessuale per membri dello stesso sesso, il paziente viene lasciato senza alcun desiderio sessuale. Molti critici della terapia aversiva sostengono che questo è esattamente quello che avviene. Eysenck sosteneva invece che in concomitanza al calo di interesse per i membri dello stesso sesso nella maggior parte dei casi si verificasse un aumento di interesse verso i mem-
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bri del sesso opposto. Vale a dire che un omosessuale trattato non rimane asessuato ma il più delle volte si regola su uno stile di vita eterosessuale. Successivamente venne riportato1 che Eysenck non accettava che una minoranza di individui fosse diventata sessualmente disfunzionale in seguito alla terapia aversiva. Sebbene Eysenck e altri sostenitori della terapia aversiva dichiarassero che il tasso di cura era alto e si aggirava intorno al 50%, queste dichiarazioni non furono mai dimostrate in modo soddisfacente. Vi furono persino dichiarazioni che pazienti resi asessuati in risposta alla terapia venissero contati tra i successi della terapia. Molti psichiatri abbandonarono l’uso della terapia aversiva, non per motivi etici o perché pensassero che il trattamento fosse inumano, ma perché semplicemente ritenevano che non funzionasse. È stato documentato che alcuni omosessuali sottoposti alla terapia aversiva abbiano successivamente sofferto di gravi effetti psicologici a lungo termine, inclusi depressione, disperazione e tentato suicidio. Come molti argomenti controversi e dibattuti della psicologia, uno dei principali protagonisti era una figura controversa. Lo stile combattivo di Hans Eysenck che lo accompagnò tutta la vita fece sì che il biografo lo definisse “il polemico del mondo intellettuale” [5]. Eysenck era ben consapevole di questo e sembrava crogiolarsi in questa definizione, al punto di scrivere di sè nei seguenti termini: Dai giorni dell’opposizione al Nazismo nei primi anni della mia giovinezza, a quelli della mia opposizione contro i freudiani e le tecniche proiettive, alla mia perorazione della terapia comportamentale e degli studi genetici, fino alle più recenti tematiche, io da sempre mi considero contro le istituzioni e a favore dei ribelli… Preferisco pensare che su questi argomenti la maggioranza abbia torto e io ragione. Eysenck certamente polarizzò le opinioni di un pubblico di accademici, così come di quello di non accademici e intitolò la sua autobiografia Ribelle per una causa [6]. Un critico di rilievo fu l’attivista per i diritti dei gay Peter Tatchell che ebbe una serie di ben pubblicizzati scontri con Eysenck negli anni Settanta e negli anni Ottanta. Tatchell e altri misero in discussione con veemenza l’uso e il successo della terapia aversiva, in particolare per il trattamento dell’omosessualità. Tatchell riportò casi di pazienti che erano diventati depressi cronici come risultato diretto della terapia. Tra questi il caso del Capitano Billy Clegg del Royal Tank Regiment viene spesso citato come esempio di abuso della terapia. Billy Clegg fu arrestato a Southampton in un periodo in cui l’omosessualità era illegale. Fu condannato a sei mesi di terapia aversiva obbligatoria al locale ospedale psichiatrico militare. Morì durante il trattamento e nonostante il certificato di morte affermava che la sua morte fosse dovuta a cause naturali, vi furono molti in quel periodo (inclusi medici esperti) che sostennero che egli morì in coma per le convulsioni provocate dalle iniezioni di apomorfina. Sfortunatamente, vi sono molte testimonianze di giovani uomini che furono sottoposti a trattamenti orribilmente dolorosi e infruttuosi negli anni Sessanta sotto forma di terapia aversiva.
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Guardian, 13 settembre 1997.
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“Arancia Meccanica” Parallelismi sono stati anche fatti tra l’uso della terapia aversiva e la descrizione che ne è stata data nel libro Arancia Meccanica e nella sua successiva trasposizione cinematografica. Sebbene molti comportamentisti negarono il legame, il trattamento ricevuto dal protagonista principale del libro, Alex, presenta molte somiglianze con essa. L’autore, Anthony Burgess, intendeva esplorare le nuove tematiche del libero arbitrio e del comportamentismo. Nel libro, Alex, un hooligan adolescente, incarcerato per i crimini commessi, accetta di sottoporsi alla “terapia aversiva” allo scopo di ridurre la condanna ricevuta. Una volta curato e reinserito nella società, si trova ad essere rifiutato da amici e parenti. A quel punto, egli irrompe nella casa di uno scrittore, che sta scrivendo un libro chiamato Arancia Meccanica, nel quale si sostiene che la terapia aversiva non dovrebbe essere usata perché conduce le persone alla follia riducendole a delle arance meccaniche (Ourang2 è il termine malese per “uomo” e Anthony Burgess servì nelle Forze Armate in Malaysia). La posizione di Burgess era che la terapia negasse alle persone il libero arbitrio, ad esempio scegliendo la possibilità di essere buono. Burgess scrisse: In Gran Bretagna, nel 1960 circa, le persone rispettabili iniziarono a lamentarsi dell’aumento della delinquenza giovanile e suggerirono [che i giovani criminali] fossero una razza inumana e in qualche modo richiedessero un trattamento inumano… Vi erano delle persone irresponsabili che parlavano di terapia aversiva… La società, come sempre, fu messa al primo posto. I delinquenti, certamente, non erano del tutto esseri umani, erano in minor numero e non avevano diritto di voto; non erano abbastanza per opporsi, chi rappresentava la Società? Ogni lettore comprenderà che il caso del paziente attratto dalle carrozzine e dalle borse non dovrebbe essere realmente confrontato con il trattamento agli omosessuali. Prima degli anni Settanta, l’omosessualità veniva effettivamente classificata tra i disturbi psichiatrici. A quel tempo, molte persone si chiedevano se la terapia aversiva dovesse essere utilizzata con persone che indulgevano in pratiche che non recavano alcun danno alla società. Inoltre, ci si domandava se questo trattamento dovesse essere somministrato anche nel caso in cui gli stessi individui lo richiedevano. Talvolta i trattamenti sono eticamente discutibili. Ad esempio, la dismorfia corporea si riferisce ad un disturbo mentale che viene definito come una preoccupazione per un difetto percepito nel proprio aspetto, i mass media spesso si riferiscono ad esso come la “sindrome della bruttezza immaginata”, anche se per la persona che ne è affetta la bruttezza è molto reale. Una forma di dismorfia corporea è l’apotemnoilia, nella quale il paziente desidera l’amputazione degli arti anche se sani. Nei casi in cui viene rifiutata, alcune persone arrivano a praticarsi “un’amputazione fai da te”, collocando il loro arto sui binari ferroviari e aspettando l’arrivo del treno. Per quanto concerne gli omosessuali, il problema più che essere individuale è in
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In inglese il titolo originale del libro è Clockwork Orange (NdT).
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relazione alla società. I sostenitori della terapia affermano che il paziente riceve la terapia solo dopo un’approfondita spiegazione del trattamento, avendo ovviamente fornito il suo consenso informato al trattamento e firmato l’autorizzazione; gli oppositori all’utilizzo di tale trattamento sostengono che molti individui erano virtualmente ricattati ad acconsentire a tale terapia e avevano poche altre opzioni a parte firmare il modulo di consenso. Visto che molte volte la scelta era tra prigione o trattamento, molti optavano “volontariamente” per il trattamento. Molti omosessuali erano talmente ostracizzati e oppressi dalla società che sceglievano, sebbene controvoglia, di sottoporsi al trattamento. La terapia aversiva effettuata in laboratorio ha un numero di svantaggi. Come precedentemente menzionato, il primo è che le risposte condizionate sono soggette ad estinzione quando non vengono continuamente rinforzate, per tale motivo il paziente con l’attrazione per “le borse e le carrozzine” dovette tornare per un ciclo di terapia di “richiamo”. La risposta condizionata di una persona, come tutte le risposte condizionate, cambiano da un giorno all’altro, da un’ora all’altra a seconda della sua forza. Questo fenomeno è ben noto in laboratorio ed è stato dimostrato sui cani che erano stati addestrati a salivare al suono della campanella. Il cambiamento nella forza della risposta dipende da un gran numero di fattori: ovviamente, maggiore è la fame del cane, maggiore sarà la sua salivazione. Lo stesso può essere applicato anche all’omosessualità o nel caso dell’uomo che aveva un feticismo per borse e carrozzine. Se il desiderio è forte, in questo frangente propizio le persone possono non essere così brave a resistere alle tentazioni. Se ciò accade, si produrrà un’estinzione del processo di condizionamento e in una successiva situazione simile la volontà di resistere alla tentazione sarà ancora meno forte. Il principio dell’estinzione lavora contro la terapia e a favore della remissione spontanea della risposta condizionata, che si cerca di rimpiazzare. In altre parole, la risposta condizionata appresa, che costituiva il disturbo, può effettivamente ripresentarsi. In casi come questi, si suggerisce che il condizionamento aversivo dovrebbe avvenire ben oltre il punto dove aveva iniziato a produrre un effetto. Ciò viene talvolta definito sovracondizionamento e certamente è avvenuto nel caso del paziente con il feticismo per borse e carrozzine. Il paziente stesso disse di essere guarito già qualche giorno prima che gli fosse effettivamente permesso di lasciare l’ospedale. In pratica, il sovracondizionamento non si verifica a lungo e non si mantiene nel tempo. Diversi motivi possono essere addotti: primo, esso richiede molto tempo per il paziente; secondo, gli esperimenti che usano emetici sono confusi e costosi in termini di tempo terapeutico; terzo, il processo è faticoso e sgradevole sia per lo sperimentatore che per il paziente, da ciò consegue che è preferibile svolgere la terapia per il minor tempo possibile. Alcuni di questi punti fanno ritenere maggiormente idonea la tecnica dello shock elettrico. Per quanto riguarda il sovracondizionamento si tratta sicuramente di una pratica medica standard per una serie di disturbi. Ad esempio, i pazienti che sono stati desensibilizzati verso alcune allergie, spesso devono essere sottoposti a delle dosi di richiamo una volta l’anno per assicurarsi che l’immunità perduri. Anche i vaccini spesso devono essere richiamati di tanto in tanto. Pertanto è una pratica standard in alcune cliniche richiamare su base annuale alcuni pazienti che sono stati trattati
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in questo modo allo scopo di ricevere brevi cicli di richiamo del trattamento. Un altro aspetto interessante della terapia aversiva è che il rinforzo funziona meglio quando non si basa al 100% su un rinforzo continuo. Il miglior modo per condizionare è quello di usare una tecnica di rinforzo parziale o intermittente. In altre parole, se noi vogliamo addestrare un cane a salivare al suono di una campanella, non dobbiamo produrre la carne (stimolo incondizionato) ogni volta che la campanella viene suonata, il metodo più efficace è di rinforzare lo stimolo condizionato (la campanella) solo il 25% o il 50% delle volte. Sebbene, intuitivamente, ci si aspetterebbe che questo metodo di condizionamento sia meno efficace, esso effettivamente funziona meglio della tecnica a rinforzo continuo. Il rinforzo parziale fa sì che l’estinzione si produca meno facilmente e più lentamente rispetto a quando si rinforza al 100%. Sebbene non siano perfettamente chiare le ragioni per le quali ciò avviene, un suggerimento è che se sei stato addestrato con un rinforzo continuo, alla prima occasione in cui alla campanella non segue la carne realizzi immediatamente che il condizionamento non si sta più verificando. Ma se sei stato condizionato con una tecnica intermittente, ad esempio, il 25% delle volte, sentire la campanella e non ricevere la carne non significa che la prossima volta che sentirai la campanella non la riceverai e pertanto la risposta di salivazione continuerà al suono della campanella.
Il potere del condizionamento Abbiamo discusso la terapia aversiva parlando del caso piuttosto strano di un uomo con un’attrazione per borse e carrozzine e anche del suo uso nel trattamento dell’omosessualità. Comunque, forse l’esempio migliore di uso di terapia aversiva va cercato nel trattamento dei casi di alcolismo. Questa terapia è stata usata per diversi anni nella storia della psicologia e nello specifico l’uso più lungo se ne è fatto per contrastare l’abuso di alcol. Ancora una volta il metodo usato implica l’uso del condizionamento: viene effettuato in una stanza buia e tranquilla, tipicamente con un riflettore che illumina delle bottiglie di alcolici poste su un tavolo di fronte alla persona. Il paziente è la sola persona presente oltre al dottore. Il medico inietta un misto di emetina, efedrina, uno stimolante per migliorare il processo di condizionamento, e di pilocarpina, una sostanza che stimola la sudorazione e la salivazione del paziente, inducendo nausea, fino al vomito, fino al punto che qualsiasi piccola quantità di alcol causa immediatamente il vomito. Il problema è dato dal fatto che è piuttosto difficile mantenere un paziente sull’orlo del vomito, a tale scopo è necessaria una considerevole esperienza, così come una buona conoscenza del paziente. Tra le diverse sedute devono essere servite al paziente delle bevande analcoliche e dell’acqua, per evitare che sviluppi un’aversione verso i bicchieri o verso l’atto di bere in generale. Migliaia di pazienti sono stati trattati in questo modo. Forse il più famoso tra di loro è George Best, sebbene nel suo caso la terapia sia rimasta tristemente infruttuosa. Nella maggior parte dei casi, metà dei pazienti riesce a restare senza alcol dai 2 ai 5 anni dopo la fine della terapia, e un quarto dai 10 ai 13 anni. Alcuni richiedono ulteriori interventi, con trattamenti successivi nel corso degli anni.
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Se si includono trattamenti successivi nel corso degli anni, il tasso di astinenza complessivo si aggira intorno al 51% per tutti i pazienti, tale recupero è sicuramente sorprendente se confrontato con quello ottenuto con altri metodi.
Altri aspetti del condizionamento Potrebbe sembrare che il condizionamento nel campo delle modificazioni sessuali abbia notevoli effetti, anche se ad una più attenta riflessione il successo non sia così considerevole. Ad esempio, nella società occidentale l’atto sessuale implica preliminari come il bacio, lo scambio di tenerezze, o l’importanza del seno come oggetto sessuale. Ciò non è altrettanto vero in altre società in cui ad esempio l’importanza del seno è vista solo in senso funzionale di allattamento e svezzamento. Gli isolani del Mare del Sud non potrebbero capire perché i marinai bianchi mostrano un grande interesse verso i seni esposti delle donne native. Persino nella nostra società il culto del seno è un fenomeno culturale. Negli anni Venti il seno piaceva piuttosto piatto e veniva quasi totalmente nascosto dalle donne. Questa tendenza cambiò gradualmente negli anni Cinquanta e Sessanta quando figure femminili ben proporzionate venivano maggiormente apprezzate. Attualmente, è vero forse il contrario. Potrebbe oggi una Marilyn Monroe, una taglia 46, divenire un’icona, tenendo conto che la moda è quella della donna “snella”? Gli antropologi culturali hanno riportato molti esempi di cambiamenti avvenuti in particolari culture, tali differenze suggeriscono il notevole potere del condizionamento sulle reazioni sessuali. Si parla di sindromi legate alla cultura di appartenenza (o cultura specifica). Il Koro è un disturbo sessuale osservabile solo nel sudest dell’Asia, tale disturbo fa sì che gli uomini e le donne credano che i loro sessi si stiano ritirando all’interno del corpo. L’omosessualità è stata rimossa dalla lista dei disturbi psichiatrici negli anni Settanta ma questo non ha segnato la fine dell’uso della terapia aversiva per trattare i comportamenti sessuali non conformisti. Sebbene non sia più approvata dall’American Psychiatric Association3 come trattamento appropriato per l’omosessualità, alcuni terapisti continuano ad usarla, specialmente quelli coinvolti nel movimento della terapia riparativa. La terapia aversiva è stata usata anche per trattare i pedofili e altri aggressori sessuali. Delle variazioni della terapia aversiva più umane e fisicamente più sicure sono state usate con tali pazienti: gli stimoli aversivi e devianti vengano immaginati o descritti dal paziente, piuttosto che effettivamente esperiti. Una procedura simile viene detta Shame Aversion Therapy (terapia aversiva della vergogna) e consiste nel sottoporre il paziente alla vergogna pubblica o all’umiliazione connessa al suo comportamento deviante. Altri studi hanno investigato l’efficacia della terapia aversiva su comportamenti come la pedofilia, l’esibizionismo e il travestitismo. Nella maggior parte dei casi
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Associazione Psichiatrica Americana (NdT).
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sono stati usati emetici o farmaci che inducevano la deprivazione di sonno, ma trattandosi di pochi studi, con scarsi controlli, nessuna ferma conclusione può essere tracciata sull’efficacia di questi trattamenti [7].
Bibliografia 1. Burgess A (1962) A Clockwork Orange. Penguin, Hamondsworth 2. Burgess A (2005) Arancia Meccanica. Einaudi, Torino 3. Eysenck HJ (1965) The case of the prams and handbags. In: Fact and Fiction in Psychology. Penguin, Harmondsworth 4. Smith G, Bartlett A, King M (2004) Treatment of homosexuality in Britain since the 1950s – An oral history: the experience of patients. British Medical Journal 238:427-429 5. Gibson HB (1981) Hans Eysenck: the man and his work. Peter Owen, London 6. Eysenck H (1997) Rebel with a Cause. Transaction Publishers, New Jersey 7. Council on Scientific Affairs of the American Medical Association (1987) Aversion therapy. Journal of the American Medical Association 258:2562-2565
Psicologia delle differenze individuali L’analisi di Freud della fobia di un bambino: la storia del piccolo Hans
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Sigmund Freud è il più famoso psicologo di tutti i tempi. La totalità delle sue pubblicazioni copre una vasta gamma di argomenti, dall’infanzia allo sviluppo della personalità, dall’interpretazione dei sogni ai trattamenti terapeutici dei disturbi mentali. Freud nella sua ricerca usò principalmente il metodo dello studio dei casi, e sebbene abbia menzionato 133 casi nei suoi scritti, ne documentò dettagliatamente solo sei. Tuttavia l’influenza dello studioso era tale che anche alcuni dei suoi pazienti divennero delle piccole celebrità dell’epoca. Nonostante l’enfasi sull’importanza delle esperienze infantili nello sviluppo dell’adulto, Freud documentò un solo caso di un bambino. Per questo lo studio del piccolo Hans risulta di cruciale importanza all’interno della teoria freudiana. Questa pietra miliare nello studio dell’analisi del bambino provocò grande interesse e numerose controversie al momento della sua prima pubblicazione, controversie proseguite fino ai giorni nostri.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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L’amicizia con Freud Max Graf (1873-1958) era ai suoi tempi un autore noto, studioso e critico riconosciuto di storia, teoria e scienza della musica, anche se oggi è forse più famoso come buon amico di Sigmund Freud (1856-1939). Ottenne infatti una posizione unica negli annali della psicoanalisi, in quanto padre del piccolo Hans. Max Graf conobbe Freud grazie alla moglie che fu una delle prime pazienti di Freud. La donna era già sua paziente prima del loro matrimonio, che fu per altro incoraggiato dallo stesso Freud. La coppia era solita frequentare un gruppo di studio il mercoledì sera al 19 di Berggasse a Vienna, residenza dello studioso. Altri famosi membri del gruppo erano Alfred Adler e Carl Jung, considerati come primi “discepoli” di Freud. Il gruppo successivamente costituì la Società Psicoanalitica di Vienna. Freud sperava che la psicoanalisi potesse aprirsi un varco tra le diverse discipline e così persone come Max Graf provenienti da un campo artistico erano particolarmente benvenute. Graf fu ovviamente un enorme ammiratore di Freud e successivamente lo descrisse come la persona più colta e raffinata che egli avesse mai conosciuto. Freud incoraggiò i membri del gruppo a raccogliere dati sullo sviluppo dei propri figli e i Graf furono particolarmente diligenti in questo lavoro, iniziando a tenere note dettagliate dei loro figli a partire dai primissimi anni. Max Graf, sotto la guida di Freud, iniziò anche la prima analisi di suo figlio, ricevendo da Freud consulenza e suggerimenti sul processo terapeutico, che lo stesso Freud nel 1909 descrisse in un articolo intitolato L’analisi di una fobia in un bambino di cinque anni [1]. Al bambino di cinque anni fu dato lo pseudonimo di “Hans”. L’autore aveva già scritto e pubblicato nel 1905 [2] una spiegazione della sua teoria della sessualità infantile e intendeva usare lo studio del caso del “Piccolo Hans” come prova a favore della propria teoria. La teoria della sessualità da lui presentata non aveva ricevuto una buona accoglienza ed era stata stigmatizzata come un lavoro abominevole, osceno e immorale. Freud si proponeva di descrivere dettagliatamente lo sviluppo e la risoluzione di una fobia come forma di un disturbo nevrotico. Già in un articolo del 1907 sulla sessualità Freud aveva fatto menzione al caso del piccolo, descrivendo un bambino di tre anni che faceva delle congetture sulla riproduzione avendo visto sua madre incinta. In questo articolo, ci si riferisce ad Hans con il suo vero nome, Herbert. Si crede che Freud abbia deciso di ribattezzare il bambino dopo la vicenda di un cavallo famoso a quei tempi, soprannominato “The Clever1 Hans”, che si diceva fosse in grado di svolgere semplici compiti matematici2 come contare: il cavallo batteva infatti lo zoccolo per fornire il numero corretto della somma richiesta. Freud doveva aver pensato che il nome era appropriato, data la fobia di Herbert per i cavalli e la sua grande intelligenza.
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L’intelligente (NdT). Si scoprì successivamente che il cavallo era effettivamente in grado di rispondere ad indizi visivi che gli venivano forniti dal suo maestro e che non possedeva nessuna speciale abilità matematica.
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“Il piccolo Hans” Il “piccolo Hans” nacque a Vienna il 10 aprile del 1903. Fu descritto come un bambino vivace e diretto, cresciuto in un ambiente amorevole, in una tipica famiglia borghese. Era gioioso e loquace e amava entrambi i genitori. I Graf erano amici prossimi di Freud, vicini abbastanza perché Freud facesse un generoso regalo di compleanno al bambino. Sorprendentemente, vista la fobia che Hans aveva per i cavalli, Freud scelse come dono un cavallo a dondolo. Nel 1942 [3], Max Graf raccontò che questo dono fu fatto ad Hans al suo terzo compleanno, anche se dieci anni più tardi riportò che si trattava del suo quinto compleanno. Se ci fu un regalo per il suo terzo compleanno, fu una notevole coincidenza che egli più tardi sviluppasse una fobia per i cavalli, quindi sembra più probabile che Freud gli avesse fatto questo dono al suo quinto compleanno per convincerlo del fatto di esser guarito dalla sua fobia. Incidentalmente, il momento in cui Freud diede ad Hans il regalo corrispondeva alla seconda volta in cui Freud incontrava il bambino. Precedentemente, si erano incontrati solo per una breve seduta terapeutica, successivamente non si incontrarono più, se non diversi anni dopo, quando Hans era ormai un adulto. La stretta amicizia di suo padre con Freud è anche attestata dal fatto che Max Graf discusse con Freud se allevare Herbert da cattolico o da ebreo: Graf aveva avuto esperienza in prima persona dell’odio razziale verso gli ebrei nella Vienna di inizio ventesimo secolo e cercava suggerimenti da Freud su come proteggere il suo giovane figlio. Sebbene non avesse dubbi sul pericolo, Freud gli suggerì che essere allevato come ebreo soggetto a discriminazione avrebbe favorito in Herbert lo sviluppo di un dinamismo interiore che gli sarebbe stato utile successivamente nella sua vita, pertanto Herbert rimase ebreo. Quali tecniche usò Freud nel suo studio di Hans? Freud usò il metodo dello studio dei casi singoli e seguì Hans, principalmente usando delle informazioni di seconda mano prese da Max Graf, dall’età di 3 anni a quella di 5 anni (1906-1908). I dati raccolti includevano elementi biografici e note stenografiche esclusivamente riportate dai genitori di Hans. Max Graf solitamente consultava direttamente Freud, che ebbe una sola occasione di avere parte diretta nel trattamento di Hans, durante una conversazione che ebbe luogo il 30 marzo 1908, quando l’analisi stava arrivando alla fine. Le tecniche analitiche usate includevano analisi di fantasie, l’osservazione del comportamento , delle fobie, e l’analisi dei sogni. Freud riteneva che l’interpretazione dei sogni fosse la “strada reale” alla comprensione dell’inconscio. Per Freud, ogni sogno aveva un contenuto latente ed uno manifesto. La parte manifesta è quella che può essere richiamata alla coscienza, mentre la parte latente è quella nascosta. Ed è la parte latente che può essere rilevata analizzando il vero significato del sogno.
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L’analisi della fobia di un bambino Lo studio del caso del “piccolo Hans” è dettagliato e complesso, gli scritti di Freud sul piccolo Hans tradotti in inglese ammontano a circa 150 pagine. Oltre il resoconto originale, esistono numerose riletture dei dettagli del caso3 [4]. L’interpretazione psicoanalitica degli eventi è spesso sorprendente e contrastata. Il punto di vista di Freud sugli eventi significativi degli anni formativi di Hans possono essere riassunti nei seguenti punti. Freud riportò che Hans mostrava “un vivo e peculiare interesse per il suo fapipì” (il pene). Il bambino si divertiva toccandosi i genitali, fino al giorno in cui la madre lo minacciò di tagliarglielo. Nonostante la sua ansia da castrazione, il piacere che traeva da questa attività sessuale aumentò, così come il suo interesse per l’argomento: notò ad esempio che gli animali dello zoo avevano dei “fapipì” molto più grandi del suo ed esprimeva rammarico di non aver visto i “fapipì” di sua madre e suo padre da vicino. Presumeva che, essendo grandi, i loro “fapipì” dovessero essere grandi “come quelli di un cavallo”. Durante una vacanza estiva, il padre di Hans fu assente per un lungo periodo e Hans prese coscienza del fatto che gli piaceva avere sua madre tutta per sé. All’inizio, desiderava che il padre “se ne andasse”per un breve periodo, ma in seguitò desiderò che “se ne andasse” per sempre, ossia che morisse. L’evento che secondo Freud influenzò maggiormente lo sviluppo psicosessuale di Hans fu la nascita della sorellina, Hannah, quando egli aveva tre anni e mezzo. Tale evento causò in Hans una grande ansia e un sentimento di ostilità nei confronti della sorella: il bambino sentiva che sua sorella occupava troppo il tempo di sua madre ed esprimeva indirettamente la propria ansia attraverso la paura di fare il bagnetto. Pensava che sua madre potesse farlo cadere nella vasca ma, in realtà sperava che la madre facesse cadere sua sorella. In analisi, Hans dava espressione evidente al suo desiderio di morte verso sua sorella, ma non lo considerava cattivo come quello che provava verso il padre. Un giorno, mentre era per strada, Hans ebbe un attacco d’ansia. Sebbene non fosse in grado di riferire cosa causasse il suo spavento, gli sembrò che essere malati potesse fornirgli la possibilità di rimanere a casa e di essere coccolato dalla madre. Col tempo, la sua paura si intensificò al punto da essere spaventato persino quando la madre usciva insieme a lui. Hans riferiva anche la paura specifica che un cavallo bianco lo mordesse. Ai nostri giorni può sembrare una paura insolita, così non era nella Vienna dei tempi in cui viveva Hans, in cui vi erano ovunque cavalli dedicati al trasporto di merci e persone nella città. Vi erano due aspetti della fobia di Hans per i cavalli. Il primo riguardava l’avvertimento, che Hans aveva udito per strada, dato da un padre al suo bambino mentre scendevano dal calesse, “Non mettere le dita vicino alla bocca del cavallo bianco, altrimenti ti morderà”. Freud supponeva che la prima metà di questa frase riecheg-
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In italiano l’edizione della Boringhieri [5], considerata una traduzione integrale, è di 128 pagine (NdT).
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giasse le parole usate da sua madre quando lo avvertiva di non toccarsi i genitali. Il secondo è relativo all’informazione che il bambino aveva ricevuta dal padre circa il fatto che le donne non avessero il pene e mise in relazione la minaccia di castrazione che gli aveva fatto sua madre col fatto che a lei era stato tagliato il pene. Anche questa evidenza fu ricondotta all’associazione fatta da Hans tra la sua ansia di castrazione e i cavalli. Hans successivamente riportò una fantasia su due giraffe, raccontando un sogno in cui una giraffa sgualcita, la madre, veniva portata via al padre, un’altra grande giraffa, che protestava e urlava perché Hans gli aveva preso quella sgualcita. Freud disse ad Hans che era spaventato da suo padre a causa dei pensieri ostili che aveva formulato contro di lui, interpretando anche la paura per i cavalli, nello stesso senso, suggerendo che il cavallo rappresentasse il padre. Il morso nero che stringeva la bocca del cavallo e i paraocchi rappresentavano rispettivamente i baffi e gli occhiali del padre. Dopo l’incontro con Freud, Max riportò una conversazione dove Hans diceva: “Papino non trottare subito via!” Hans fornì ulteriori dettagli della sua fobia, che egli stesso definiva come la sua “sciocchezza”. Riportava di essere spaventato dai cavalli che cadevano così come dagli omnibus e da altri mezzi di trasporto caricati pesantemente4. Ricordava un episodio dove vide un cavallo di un omnibus cadere in strada e scalciare con gli zoccoli, ne rimase terrorizzato e pensò che il cavallo fosse morto. Il padre di Hans evidenziò che, quando vide il cavallo morto, doveva aver pensato a lui. Hans aveva quindi spostato le sue paure relative al padre sui cavalli, che glielo ricordavano. Sembra che la consapevolezza di questa spiegazione sia stata per Hans un punto di svolta che lo portò alla liberazione dalle paure e migliorò la relazione con il padre. Hans divenne anche gradualmente meno spaventato dai cavalli. Due fantasie finali suggerirono che aveva risolto i suoi sentimenti verso il padre. Nella prima, Hans raccontò che venne un idraulico e con le sue tenaglie si portò via il fapipì dandogliene poi in cambio uno più grande. Nella seconda, Hans disse a suo padre che egli si immaginava come il padre dei suoi bambini immaginari, non la madre, come era successo in passato. Secondo Freud, entrambe le fantasie mostravano che Hans era passato dal desiderare la morte del padre all’identificarsi con lui. Con queste due fantasie sia la malattia di Hans che la sua analisi arrivarono alla fine. Uno dei temi chiave del lavoro di Freud era l’importanza dei primi anni di vita nel successivo sviluppo della personalità. Freud riteneva che i bambini esperiscono conflitti emozionali e che il loro futuro benessere dipendesse dalla modalità di risoluzione di tali conflitti. Lo studioso riteneva ad esempio che, comunican-
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“Hans si impaurisce in modo particolare, quando i carri, con una brusca voltata, entrano o escono dal cortile. Gli ho chiesto perché ha tanta paura e mi risponde: – Ho paura che i cavalli cadano per terra quando il carro gira – (A). Hans ha egualmente paura, come ho già detto, quando i carri in sosta davanti alla piattaforma di carico si rimettono improvvisamente in moto per andar via (B). – Inoltre ha paura (C) dei grossi cavalli da tiro più che dei cavalli piccoli, dei cavalli di campagna più che di quelli eleganti (delle vetture, ad esempio). Infine, ha più paura quando un veicolo passa a forte velocità (D), che quando i cavalli vengono trottando lentamente. Queste differenze, com’è naturale, sono apparse chiaramente solo negli ultimi giorni.” (pag. 45) [5] (NdT).
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do le proprie paure, Hans avesse risolto con successo tutti i conflitti e le ansie. Diversamente dalle convinzioni dell’epoca, Freud riteneva che i bambini non fossero asessuati fino alla pubertà, ma che la sessualità infantile venisse fuori nei diversi stadi dello sviluppo con un diverso focus su una differente parte del corpo ad ogni stadio, ritenendo che lo studio del caso del piccolo Hans fornisse sostegno a tale teoria. Postulava l’esistenza di 5 stadi di sviluppo psicosessuale, attraversati da tutti i bambini: lo stadio orale, anale, fallico, latente e genitale. I primi stadi sono relativi ai primi cinque anni di vita del bambino, il piccolo Hans si trovava ad attraversare verso la fine della sua analisi proprio lo stadio fallico. In tale stadio, che va dai tre ai cinque anni, verrebbe stabilita l’identificazione sessuale del bambino, e proprio in questa fase Freud ipotizzava che Hans, come tutti i bambini piccoli, esperì quello che lui chiamò il Complesso di Edipo. Il Complesso di Edipo, viene spiegato dall’autore, è il desiderio che un bambino avrebbe di possedere sessualmente il genitore di sesso opposto (in questo caso la madre di Hans) e di escludere il genitore dello stesso sesso (il desiderio di Hans di escludere suo padre). Certamente, Hans realizzò che questo era impossibile dati la forza e lo schiacciante potere del padre. Secondo Freud, l’ansia di Hans era riconducibile al fatto che il padre lo vedesse come un rivale e come tale lo castrasse. Tali conflitti disturbano il bambino e vengono risolti attraverso l’ identificazione con il genitore dello stesso sesso. Per Freud, Hans era riuscito in questo, sviluppando un meccanismo detto “identificazione con l’aggressore”, che è evidente nell’ultima fantasia di Hans, dove il bambino si immaginava come il padre dei suoi (del padre) bambini, cioè dei suoi stessi fratelli. In questo modo, tutti i bambini piccoli apprendono ad identificarsi con il loro padre. Freud proponeva che le bambine esperissero il “Complesso di Elettra”, ma l’enfasi posta dallo studioso sullo sviluppo maschile lo aveva portato ad essere criticato come sessista e “fallocentrico”. Freud riteneva che l’inconscio fosse una parte della mente della quale non siamo consapevoli che contiene un numero di conflitti irrisolti, quali il Complesso di Edipo. Questi conflitti colpiscono il nostro comportamento (la fobia di Hans per i cavalli) e vengono rilevati nelle nostre fantasie e nei nostri sogni (le fantasie della giraffa e dell’idraulico). Proprio per la loro natura minacciosa e preoccupante, i conflitti appaiono in forme mascherate e necessitano di essere interpretati allo scopo di rivelarne il vero significato.
Sigmund Fraud5? Qual è stato il contributo dello studio del caso del piccolo Hans alla psicologia? I sostenitori di Freud suggeriscono che esso dimostra come alcune fobie si sviluppano nei bambini, costituendo il mezzo per affrontare l’ansia e il conflitto. Al riguardo sono state proposte una serie di spiegazioni alternative. Forse una delle più plau-
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Gioco di parole tra Freud e fraud, “frode” (NdT).
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sibili è quella che considera la fobia come una risposta di paura condizionata operata attraverso un processo di condizionamento classico (vedi anche Capitolo 10). L’incidente a cui Hans aveva assistito, in cui il cavallo era crollato sulla strada poteva essere considerato come l’effettiva causa del disturbo. La risposta di paura a questo evento iniziale era stata quindi generalizzata a tutti i cavalli e alla paura di uscire per strada dove Hans avrebbe potuto indubbiamente incontrare dei cavalli. Freud fu il primo a suggerire che la cosiddetta “cura delle parole” potesse essere applicabile nel caso di un bambino così piccolo come Hans. Attraverso lo studio del caso, Freud dimostrò il suo estremo rispetto per le opinioni di Hans, al punto che quando Hans venne punito da suo padre per il desiderio che la sorella venisse affogata, il piccolo Hans rispose che era una cosa buona da pensare perché era evidente che tale pensiero poteva essere utile al “Professore” (Freud). Quando il fatto venne riferito a Freud, egli commentò che non avrebbe potuto desiderare “una comprensione migliore della psicoanalisi da parte di nessun adulto”. L’incidente può essere visto come un esempio delle caratteristiche dell’analisi: un partecipante (Hans) fornisce una risposta che pensa che il ricercatore (Freud) abbia voglia di sentire. Di per sé questa può sembrare una critica ai metodi adottati da Freud, anche se è indiscutibile che il lavoro innovativo e pionieristico che Freud aveva svolto con Hans abbia ispirato l’intero approccio della maggior parte dei lavori psicoterapeutici condotti attualmente con bambini, così come la considerazione del ruolo dell’inconscio nella determinazione di gran parte del nostro comportamento è un fatto oggi ampiamente accettato. L’analisi dello studio del caso del piccolo Hans si è concentrata sul resoconto soggettivo del caso. Tutti i resoconti erano stilati da Max Graf (padre di Hans) o da Freud. La relazione speciale che Hans aveva con il suo analista, che era anche suo padre, rappresenta un caso unico e fa sì che i risultati non siano generalizzabili. Freud era consapevole di questa possibile critica ma sosteneva che la relazione speciale tra Hans e suo padre era stata uno dei motivi per cui l’analisi aveva avuto successo. Secondo Freud la relazione tra padre e figlio era proprio la forza della terapia e non una debolezza, e riteneva che di conseguenza gli psicoanalisti avrebbero dovuto favorire delle forti relazioni con i loro clienti. Dal suo avvento ai giorni nostri, la psicoanalisi era e resta un approccio controverso. Considerate le evidenze e le interpretazioni sia di Max Graf che di Freud, non sorprende che il caso del piccolo Hans sia considerato da molti come il caso più assurdo nella storia della psicologia. La psicoanalisi è stata considerata come una “fiaba scientifica” e una terapia totalmente inefficace che non va al di là di un semplice effetto placebo. È stata comparata ad un culto, con Sigmund Freud nelle vesti di alto sacerdote. Furono molti gli articoli scritti con la promessa di “seppellire Freud” [6] denunciandolo come bugiardo e sessista. Come autore dell’”ipotesi della seduzione” fu ritenuto responsabile per la misera situazione dei genitori di bambini accusati erroneamente di aver “abusato” dei loro figli, e quando successivamente rinunciò all’ipotesi fu ritenuto responsabile per la situazione dei bambini realmente vittime di abuso [7]. La gente si chiedeva come una teoria della mente così difettosa potesse aver avuto una così grande influenza sulla psichiatria per oltre mezzo secolo. Il modo nel quale le ingannevoli idee di Freud, che si basavano su evidenze po-
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co convincenti, avessero influenzato la psichiatria e la società in generale (un esempio ne è l’uso diffuso della terminologia freudiana anche tra i non addetti ai lavori) è considerato come uno dei più straordinari eventi nella storia del pensiero intellettuale del ventesimo secolo. Comunque, la psicoanalisi ha continuato a svilupparsi anche dopo l’esordio freudiano. Freud era un prodotto del suo tempo e deve essere assolutamente visto come tale. Il suo approccio all’analisi profonda della mente umana fu rivoluzionario per quei tempi. Il suo metodo può non essere accettabile se confrontato con quello scientifico impiegato oggigiorno, ma reggeva bene il confronto con quelli dell’epoca. Freud era veramente uno scienziato ben addestrato e guardava a se stesso come ad un archeologo della mente che scavava sempre più in profondità nell’inconscio. Fin dai primi tempi in cui faceva sperimentazioni con la cocaina, l’ipnosi e l’elettroterapia, tutti metodi successivamente abbandonati, Freud aveva una determinazione intensa e risoluta ad avere successo e a lasciare il proprio segno nel mondo. Era consapevole del fatto che alcune persone lo vedevano come un monomaniaco, ma era convinto che con la sua teoria dell’inconscio aveva sfiorato uno dei grandi segreti della natura e pochi potrebbero mettere in dubbio che egli non abbia raggiunto il suo scopo. Sua nipote Sophie Freud affermò che suo nonno aveva sempre pensato che sarebbe diventato un grande uomo. Se egli esagerò o no le evidenze, bisogna comunque ammirare la sua volontà e determinazione nel cercare di afferrare la più complessa struttura dell’universo, la mente umana, e nel cercare di esplorarla. Fraud (vedi NdT 5) o no, Freud fornì molto nutrimento per la mente. Una delle critiche moderne alla psicoanalisi è quella di dare troppa enfasi all’influenza attuale di Freud. Il grande matematico A.N. Whitehead [8] una volta affermò che “una scienza che esita nel dimenticare il suo fondatore è perduta”, così secondo questo suggerimento è forse arrivato il momento di accantonare Freud. La psicoanalisi contemporanea ha almeno ancora tre punti a suo favore. Primo, enfatizza l’importanza dello sviluppo infantile sulla personalità successiva dell’adulto; secondo, enfatizza l’importanza delle relazioni umane sul benessere psicologico; e infine, fornisce un linguaggio per esplorare ed esprimere tutti i tipi di sentimento [9]. Ad esempio, nello studio del caso del piccolo Hans, Freud usò per la prima volta il termine “transfert” nei suoi scritti. Il transfert rappresenta lo spostamento dei conflitti e delle ansie irrisolte su un oggetto sostitutivo. Le ansie di Hans nei confronti di suo padre furono trasferite su un oggetto sostitutivo – nel suo caso, i cavalli. L’oggetto fobico diventa un utile veicolo per esprimere i propri sentimenti.
Herbert Graf: “Hans” adulto Come crebbe il piccolo Hans? Alcuni critici sostenevano che l’intervento di Freud nella vita di Hans l’avesse derubato della sua innocenza, predicendo quindi un futuro sfortunato per il povero piccolo bambino. Hans fu persino ritratto come vittima della psicoanalisi. Freud predisse questo attacco nel suo articolo originale quando scrisse:
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Io mi devo chiedere che male abbia fatto ad Hans il portare alla luce i suoi complessi che sono generalmente repressi nei bambini, e temuti dai loro genitori? Freud suggerì che i dottori che avevano frainteso la natura della psicoanalisi avrebbero pensato erroneamente che gli istinti cattivi si rafforzano nell’essere resi coscienti. Freud sosteneva che il risultato dell’analisi fu che Hans migliorò, cessò di aver paura dei cavalli e sviluppò persino una relazione più amichevole con suo padre. Infatti, egli racconta che Hans un giorno disse a suo padre: “Io penso che tu sapessi ogni cosa, come sapevi della storia dei cavalli”. Freud perse i contatti con Hans nel 1911 ma vi fu almeno un ultimo incontro tra i due: nella primavera del 1922, Herbert Graf, ormai diciannovenne, entrò nello studio di Freud. Freud racconta di un giovane grande e grosso perfettamente in salute, senza alcuna inibizione o problema apparente, emozionalmente stabile nonostante il divorzio dei genitori e le successive nuove nozze di entrambi, in grado di mantenere buone relazioni con entrambi i genitori. Herbert aveva continuato a vivere con il padre6, forse a sostegno del punto di vista di Freud sul fatto che Hans avesse una relazione stretta con il padre, mentre sua sorella, a cui era eccessivamente affezionato, era andata a vivere con la madre. Herbert riportò che quando lesse la storia del piccolo Hans gli sembrò estranea! Non ricordava nulla. L’analisi non aveva preservato gli eventi dall’amnesia7. Herbert Graf, come suo padre, fece carriera nel campo musicale. Dopo aver lavorato in diversi teatri d’opera in Germania, Svizzera e Austria, Herbert si trasferì nel 1936 negli Stati Uniti, all’età di 33 anni. Qui, la sua carriera decollò e raggiunse la salda e prestigiosa posizione di Direttore dell’Opera del Metropolitan di New York. Dopo un periodo di successo tornò alle sue radici europee, diresse Maria Callas a Firenze e fu partecipe di acclamate opere sia al Covent Garden che a Salisburgo. Fu Direttore dell’Opera di Zurigo dal 1960 al 1962 e divenne anche Direttore dell’Opera di Ginevra. Herbert Graf fu anche autore di diverse pubblicazioni: nel libro del 1951 Opera for the People, scrisse a lungo su tutti gli aspetti della produzione dell’opera. Herbert fu descritto come un grande uomo di teatro, brillante, creativo e particolarmente ben visto dagli artisti. Herbert intitolò un’intervista in quattro parti che concesse all’Opera News [10], Memoirs of an Invisible Man8 – il titolo voleva essere un riferimento al suo ruolo di
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Nella traduzione italiana viene riportato che Hans vive solo, che mantiene delle buone relazioni con entrambi i genitori e che è dispiaciuto di essere separato dalla giovane sorella che gli è molto cara (pag. 128) [5] (NdT). “Dichiarò che quando aveva letto il suo caso clinico, tutto gli era parso estraneo, non si riconosceva, non si ricordava di nulla; solo leggendo del viaggio a Gmunden gli era balenata l’idea, quasi un barlume di ricordo, di poter esser stato lui. L’analisi dunque, lungi dall’aver preservato gli eventi dall’amnesia, vi era essa stessa soggiaciuta. Succede talvolta in modo simile nel sonno a chi ha familiarità con la psicoanalisi: costui è destato da un sogno, decide di analizzarlo senza indugio, si riaddormenta soddisfatto del risultato, e il giorno dopo sogno e analisi sono dimenticati” (pag. 128) [5] (NdT). “Memorie di un uomo invisibile” (NdT).
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persona dietro le quinte, mai sul palco. La scelta di una carriera musicale mostra una chiara identificazione con il padre, ma fu anche suggerito che dirigere dietro le quinte poteva essere interpretato come un’identificazione con il ruolo invisibile ricoperto da Freud durante il periodo dell’analisi [11]. Colleghi e conoscenti descrivevano Herbert come un uomo di grande fascino e intelligenza. Comunque, egli veniva anche ritratto con qualche difetto, alcuni aspetti indesiderabili del suo carattere erano evidenti a chi lavorava con lui, anche se tali difetti restarono invisibili a Freud negli anni dell’analisi! Fu anche descritto come un amante del buon vino e delle belle donne, anche se non ebbe particolarmente successo in amore e non si formò mai una famiglia. È stato suggerito che tale insuccesso costituiva un’evidenza (piuttosto fiacca) che l’analisi infantile non aveva avuto un così grande successo come Freud aveva sperato. Herbert si ammalò di cancro e morì a Ginevra nel 1973. Nonostante i notevoli successi raggiunti nella vita adulta, Herbert Graf resterà per sempre famoso come il “piccolo Hans” di Freud.
Bibliografia 1. Freud S (1909) Two case histories: “Little Hans” and the “Rat Man”. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud. Volume X. Published 1955. The Hogarth Press, London (Reprinted 2001, Vintage Publishers) 2. Freud S (1905) Three Essays on the Theory of Sexuality. Pelican Freud Library, Vol 7. Penguin, Harmondsworth 3. Graf M (1942) Reminiscences of Professor Sigmund Freud. Psychoanalytic Quarterly 11:465476 4. Gross R (2003) Key Studies in Psychology. Hodder & Stoughton, London 5. Freud S (1976) Casi Clinici 4 - Il piccolo Hans. Bollati Boringhieri, Torino 6. Tallis R (1996) Burying Freud. The Lancet 347:669-671 7. Masson J (1985) The Assault on Truth: Freud’s suppression of the reduction theory. Penguin, London 8. Whitehead AN (1929) The Aims of Education and Other Essays. Macmillan, Free Press, New York 9. Jeremy Holmes, The assault on Freud. http://human-nature.com/freud/holmes.html 10. Graf H (1972) Memoirs of an Invisible Man: A dialogue with Francis Rizzo. Opera News, 5 February:25-28; 12 February:26-29; 19 February:26-29; 26 February:26-29 11. Holland N (1986). Not so Little Hans: Identity and ageing. In: Woodward K, Schwartz M (eds) Memory and Desire. Indiana University Press, Bloomington
Psicologia delle differenze individuali I tre volti di Eva: la storia di Chris Costner Sizemore
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Il Disturbo da Personalità Multipla (DPM), attualmente denominato disturbo dissociativo dell’identità1, era quasi sconosciuto fino a quando due psichiatri americani (Corbett Thigpen e Hervey Cleckley) non pubblicarono negli anni Cinquanta il loro studio di un caso. Gli studiosi descrissero il caso di una paziente che stavano trattando e che presentava tre distinte personalità, che chiamarono Eve White, Eve Black e Jane. Ogni personalità era separata dall’altra e si comportava in modo completamente diverso. I tre volti di Eva, e il successivo film “Three faces of Eve”2, che valse il premio Oscar all’attrice protagonista, si basava su questo caso e portò tale disturbo all’attenzione del grande pubblico. Altri casi simili hanno catturato l’immaginazione del pubblico, tra cui il più famoso è quello descritto in un libro degli anni Settanta da cui è stato tratto il film Sybil3. Il caso di Eve portò il DPM dall’essere un disturbo sconosciuto e una condizione rara all’essere ampiamente riconosciuto e comunemente diagnosticato. In anni recenti gli accademici hanno iniziato a domandarsi se il DPM esista “realmente” o se si tratti di un disturbo iatrogeno, una creazione dei terapisti “impiantata” nelle menti dei loro suggestionabili e vulnerabili pazienti.
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Resta una disputa considerevole sul termine più appropriato da usare [1]. La donna dai tre volti (Three faces of Eve) (USA, 1957), film drammatico, regia di Nunnally Johnson con Joanne Woodward, David Wayne, Lee J. Cobb e Edwin Jerome tratto dal libro di due medici che descrissero il caso, un dramma a forti tinte, sceneggiato dallo stesso Johnson, che pure lo produsse. Intensa interpretazione della Woodward che le valse un Oscar (NdT). Sybil (USA, 1976), film TV drammatico, regia di Daniel Petrie del 1976, con Joanne Woodward, Sally Field, Brad Davis e Martine Bartlett: ispirato ad una vicenda realmente accaduta a New York nel 1954. Una psichiatra prende in cura Sybil, una ragazza che ha tentato il suicidio e che presenta sedici diverse personalità. Durante gli undici anni di cure terapeutiche emerge che Sybil ha subito gravissime torture fisiche e psicologiche da parte della madre (NdT).
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Che cos’è il DPM? Il Disturbo da Personalità Multipla (DPM) è uno dei disturbi psichiatrici dissociativi4, il cui sintomo più evidente è dato dal fatto che la persona ha almeno una personalità alternativa, o “alter ego”, che controlla il comportamento. L’alter ego subentra spontaneamente e involontariamente e funziona in modo completamente indipendente dall’altro sé. Nel 1994, il DSM-IV (Diagnostic Statistical Manual) dell’Associazione Psichiatrica Americana ha sostituito il termine DPM con DDI: disturbo dissociativo dell’identità. Sebbene il titolo diagnostico sia stato cambiato negli Stati Uniti, la vecchia etichetta (DPM) viene ancora usata nel Regno Unito, e si è scelto di adottarla in questo capitolo perché rimane a tutt’oggi la nomenclatura più nota, e quella più descrittiva. Il cambiamento del nome negli USA non ha alterato la lista dei sintomi, che sono diversi e variano da paziente a paziente, così resta molto difficile descrivere un “tipico” caso di DPM. Un individuo affetto da DPM può avere un numero di personalità, tipicamente possono arrivare a 20 o a 30. Vi è di solito una personalità “centrale” che affronta la vita quotidiana e ordinaria, che di solito è inconsapevole della presenza delle altre personalità o, se ne è consapevole lo è in modo indiretto. Ad esempio, grazie all’evidenza che le altre personalità hanno compiuto un’azione sebbene non vi sia la memoria di essa. Le altre personalità possono sapere dell’esistenza di varie personalità e talvolta possono nascere delle amicizie o delle alleanze tra di loro a discapito di altre personalità ancora! Molte di queste personalità non sono pienamente sviluppate e rimangono frammentarie. Possono avere età, sesso e persino nazionalità differenti. Ogni personalità ha una identità separata (che può implicare una diversa gestualità, scrittura, linguaggio e immagine corporea) dalle altre. Una persona con DPM potrebbe manifestare della allucinazioni così forti da percepire realmente una diversa personalità allo specchio [2].
Storia del DPM Sebbene certamente non fosse ben noto prima dello studio del caso di Eve da parte di Thigpen e Cleckley, il DPM ha una storia relativamente lunga, che risale addirittura al 1874. Vi sono dei resoconti che riportano il caso di Victor Race, un bracciante agricolo vissuto a Soissons, Francia, che presentava i sintomi del DPM. Un giorno, Victor cadde in uno stato alterato di consapevolezza dove la sua solita lentezza
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La dissociazione è un meccanismo che consente alla mente di separare o mettere in compartimenti stagni alcuni pensieri o alcune memorie dalla normale consapevolezza. La caratteristica distintiva di una dissociazione è “una distruzione di funzioni solitamente integre della consapevolezza, la memoria, l’identità, o la percezione dell’ambiente” (The Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), American Psychiatric Association, 1994).
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di pensiero venne rimpiazzata da una brillante e acuta personalità. Una volta tornato al suo solito stato di consapevolezza non serbava nessun ricordo degli eventi o della trasformazione nella sua personalità [3]. Forse il primo resoconto dettagliato di DPM fu pubblicato da Eberhard Gmelin nel 1791 e riguardava una donna di 21 anni proveniente da Stuttgart che improvvisamente assunse la personalità e il linguaggio di una donna francese. Nel suo stato alterato riteneva di essere scappata in Germania per sfuggire alla Rivoluzione Francese. In questo stato di consapevolezza, era in grado di parlare solo un tedesco rudimentale con accento francese. La donna era inconsapevole dell’esistenza del suo stato alterato. Sebbene in letteratura vi siano stati successivi resoconti di personalità multiple, il più famoso fu lo studio di Miss Beauchampe condotto da Morton Prince [4] (uno studio citato da Thigpen e Cleckley). Data la scarsa frequenza il DPM è stato largamente ignorato nei circoli psichiatrici, Thigpen e Cleckley scrissero che la “personalità multipla è una rarità in psicopatologia”. Nel 1954 la pubblicazione del caso di Eve modificò questa situazione [5].
Eve Corbett Thigpen era uno psichiatra che aveva in trattamento una donna sposata di 25 anni per “atroci emicranie”. La donna lamentava anche di avere dei “blackout” in seguito alle emicranie. Thigpen e il suo collega Hervey Cleckley la chiamarono “Eve White” nei loro scritti successivi. Dopo poche sedute terapeutiche conclusero che i sintomi erano causati da un tipico insieme di conflitti con il marito e di frustrazioni personali. Niente nel suo caso era degno di nota, ma un giorno, Thigpen, inaspettatamente, ricevette un’enigmatica lettera anonima che realizzò essere stata scritta da Eve White. Notò, comunque, che l’ultimo paragrafo era stato evidentemente scritto da qualcun altro: il contenuto immaturo e lo stile di scrittura suggerivano che era opera di un bambino. Interrogata a proposito della lettera nella visita successiva, Eve negò di averla mai vista. Si ricordava di aver iniziato la lettera ma credeva o di averla distrutta o di non averla finita. Eve era alquanto agitata durante l’intervista, e improvvisamente chiese se sentire una voce immaginaria fosse un segno di malattia mentale. Thigpen era interessato a questi segnali che Eve non aveva mai precedentemente mostrato o menzionato, e prima che lo psichiatra avesse avuto una possibilità di rispondere alle domande della donna, ella si portò entrambe le mani alla testa come per attutire un dolore lancinante. Dopo un breve momento, ritrasse le mani, fece un rapido e smagliante sorriso e in una voce brillante disse: “Ciao, Doc!” La riservata, familiare e convenzionale Eve White era stata rimpiazzata da una nuova venuta con una personalità diabolica e spensierata che parlò a lungo di Eve White come di una persona diversa. Quando le fu chiesto chi fosse replicò: “Oh, io sono Eve Black!” Improvvisamente, una persona completamente diversa si era presentata a Thigpen. Durante i successivi 14 mesi, nel corso di una serie di interviste che avevano ap-
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prossimativamente richiesto un centinaio di ore era stato raccolto un ricco materiale sul comportamento e sulla vita intima sia di Eve White che di Eve Black. Thigpen e Cleckley riportarono che Eve Black esisteva come personalità indipendente fin dall’infanzia e che era il risultato di eventi distruttivi nella vita adulta di Eve White. Inoltre, mentre Eve White era ignara dell’esistenza di Eve Black, Eve Black sapeva di Eve White e quando era “celata” era comunque consapevole di quello che Eve White stava facendo, anche se non era vero il contrario. Sebbene Eve Black “saltasse” fuori spesso spontaneamente, all’inizio poteva essere richiamata solo sotto ipnosi, ma dopo diverse sedute terapeutiche, l’ipnosi non fu più necessaria e Cleckley poteva semplicemente chiamare le personalità con cui voleva parlare. Uno sfortunato effetto collaterale di questo fu che Eve Black divenne più abile a “subentrare” al posto di Eve White. Thigpen e Cleckley suggerirono che la frammentazione in diverse personalità era stata un metodo per affrontare esperienze che la donna non sarebbe stata in grado di sopportare. Questa ipotesi sembrava in linea con la biografia di Chris Costner Sizemore5 [6] (vero nome di Eve), nella quale venivano evidenziati una serie di incidenti traumatici che aveva vissuto negli anni della sua crescita in North Carolina durante il periodo della Grande Depressione6. Il primo incidente consistette nell’essere presente durante il ritrovamento e il recupero da un fossato del corpo di un uomo annegato, gonfio di acqua. Si pensò che egli fosse caduto ubriaco la notte prima e che fosse annegato. Christine riportò che ella “vide” una bambina piccola sul ponte che guardava la scena, i cui capelli rossi brillavano al sole del mattino, con occhi di un azzurro limpido che apparivano calmi e non spaventati. Un altro incidente degno di nota aveva coinvolto sua madre. Inspiegabilmente, mentre sua madre teneva in mano una bottiglia di vetro di latte, questa si ruppe, realizzando che Christine si trovava proprio sotto la bottiglia, Zueline (sua madre) strinse i frammenti di vetro a sé per proteggere la figlia e nel far questo dei pezzi di vetro la tagliarono al polso sinistro. La vista del sangue terrorizzò Christine e sebbene le fosse stato detto di andare a chiedere aiuto, lei scappò via e crollò come un sacco in un angolo della stanza. La bambina dai capelli rossi con i freddi occhi azzurri comparse ancora una volta e rimase ferma a guardare per un po’ il sangue rosso mischiato con il bianco del latte prima di correre a chiedere aiuto. Un altro incidente traumatico avvenne poco dopo, presso la segheria locale dove lavorava il padre di Christine. Alla segheria, la giornata di lavoro era caratterizzata da un fischio d’inizio e da uno di fine giornata, ma un giorno verso le dieci e mezza del mattino si sentì il segnale: a quell’ora quel suono poteva voler dire un’unica cosa – c’era stato un incidente alla segheria. Tutti i parenti dei lavoratori, tra cui anche Christine, corsero alla segheria per vedere cosa fosse successo. Quando Christine arrivò e si trovò dinanzi la vista grottesca del corpo di un uomo tagliato a metà all’altezza della vita, le cui metà giacevano a breve distanza una dall’altra, notan-
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Il nome Costner fu aggiunto in seguito al matrimonio. In un libro successivo (A Mind of my Own, pubblicato nel 1989), Sizemore sostenne che le sue diverse personalità erano state presenti fin dalla nascita.
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do anche che un braccio era stato mozzato, si trovò dinanzi ad un corpo fisicamente separato in tre parti distinte. Christine più tardi scrisse che un bambino non dovrebbe mai vedere una cosa così orribile poiché non sarebbe in grado di sopportarne la vista, suggerì anche che forse la bambina dai capelli rossi avrebbe potuto guardare quello che lei non era stata in grado di affrontare. Nonostante questi incidenti, Christine visse in circostanze abbastanza favorevoli se paragonate a quelle della vita di tanti altri bambini cresciuti durante il periodo della Grande Depressione. Trascorse gran parte della sua infanzia in seno ad una grande famiglia allargata, in una fattoria produttiva di proprietà. La sua famiglia era stata fortunata ad investire nella terra, a quei tempi lavorare la terra significava evitare terribili stenti. Ciononostante, Christine finiva sempre nei guai, compiva azioni che le era stato detto di non fare negando poi di averle compiute. Questi incidenti e le successive “menzogne” esasperavano i suoi genitori che le infliggevano punizioni sempre più severe. Dal momento che all’epoca le punizioni tendevano ad essere di natura fisica, succedeva che mentre la sculacciavano, Christine spesso dicesse tra i singhiozzi: “È stata lei!” e continuasse a protestare per la propria innocenza. Una caratteristica particolare di molti casi successivi di DPM è l’esistenza di abuso sessuale durante l’infanzia. Nonostante numerose sedute di terapia, che spesso includevano l’ipnosi, non ci fu mai l’evidenza che Eve avesse subito degli abusi. Il catalizzatore delle creazioni delle altre personalità di Eve sembrava essere legato a incidenti traumatici (non di natura sessuale) avvenuti nella sua infanzia. Thigpen e Cleckley usarono tecniche diverse per esplorare le personalità di Eve. Intervistarono i familiari di Eve (suo marito e i suoi genitori), i quali, confermando i diversi incidenti riportati da Eve Black, la descrivevano come una donna che “mentiva con disinvoltura e senza rimorso”, anche se i terapisti non furono in grado di verificare la veriditicità di tutte le sue storie. Il marito di Eve White e i suoi genitori avevano assistito a molti dei cambiamenti di personalità riportati da Eve ai terapisti, ma essendo ignari dell’esistenza del DPM li avevano considerati come “impeti di collera” o “insolite abitudini”, come li chiamava innocentemente sua madre. Avevano anche notato che i cambiamenti di personalità contrastavano fortemente con la sua natura docile e gentile. Quando veniva messa di fronte ai suoi misfatti, Eve Black esprimeva tutto il suo divertimento nel “saltar fuori” per commettere qualcosa di proibito e avventuroso, lasciando poi Eve White ad affrontare le punizioni conseguenti. Eve White, d’altra parte, riportava sconcerto e perplessità nel venir punita per la sua condotta riprovevole di cui non serbava alcun ricordo. Eve Black conduceva uno stile di vita edonistico che comprendeva tra le altre cose, spese eccessive, vestiti inutili, avventure con stranieri in nightclub di cattivo gusto. Quando si chiedeva a Eve White qualcosa sui suoi nuovi vestiti, negava di averli mai visti. Inorridita quanto suo marito all’idea di affondare nei debiti, correva immediatamente nei negozi a riportare gli abiti e a chiedere un rimborso. Incapace di dare una spiegazione per la presenza di quegli abiti nel suo armadio, sospettava il marito di averceli messi lui per farle credere che stava diventando “pazza”. Ad Eve Black piaceva divertirsi, uscire la notte ed ubriacarsi, consapevole del fatto che sarebbe stata Eve White a risvegliarsi con i postumi del-
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la sbornia, ignara delle cause o di che cosa avesse fatto la notte prima. Eve White aveva una figlia di quattro anni, che, a causa dei problemi psichiatrici di Eve viveva con i suoi nonni. Eve White lavorava in una città a 100 miglia di distanza da quella in cui viveva la bambina e ciò le causava disperazione e grande infelicità. Diversamente, Eve Black era a conoscenza della bambina, ma non nutriva nessun sentimento verso di lei. In genere la ignorava o la trattava con completa indifferenza. In un’occasione, comunque, Eve Black riportò che “la piccola peste mi aveva dato sui nervi”, e ammetteva di aver provato a strangolarla prima dell’intervento del marito di Eve White. Consapevole dell’incidente, ma ignara della parte che aveva avuto in essa, Eve White poco tempo dopo si recò volontariamente in un’unità psichiatrica. Eve Black negava completamente il matrimonio di Eve White, di cui disprezzava profondamente il marito. Thigpen e Cleckley erano dell’idea che il matrimonio di Eve White con suo marito sarebbe molto probabilmente fallito per la loro incompatibilità, ma la presenza di Eve Black assicurava questo fallimento. Eve Black non feriva intenzionalmente Eve White con la sua cattiveria, ma non provava nessuna colpa o compassione se questa procurava dei problemi ad Eve White.
Valutazione Psicologica Thigpen e Cleckley sottoposero Eve White e Eve Black anche ad un elettroencefalogramma (EEG) e ad una serie di test proiettivi e psicometrici, inclusi il Rorschach (il test delle macchie di inchiostro), test di intelligenza e di memoria. Un riassunto dei risultati a questi test è riportato in Tabella 14.1. Questi test psicologici furono condotti dal dottor Leopold Winter, uno psicologo clinico privato. I suoi resoconti andarono a sostegno della diagnosi di DPM e fornirono ulteriori dettagli del contrasto nelle personalità delle “due” donne. I test proiettivi mostravano che la personalità di Eve Black era il risultato di una regressione a prima del matrimonio. Secondo lo psicologo, non vi erano due diverse personalità, ma un’unica personalità ferma in diversi momenti della sua vita. Adottando un approccio psicoanalitico, Winter suggerì che Eve White provava un’enorme ansia per il proprio ruolo di moglie e di madre. Solo facendo uno sforzo supremo era in grado di rivestire entrambi i ruoli. Lo sforzo richiesto le causava un’ansia ulteriore e un certo disagio nei confronti dei due ruoli. Dal momento che il conflitto era inaccettabile, la donna utilizzava un meccanismo di difesa, in questo caso la regressione, per affrontare gli attacchi di ansia, e la rimozione per cancellare la situazione conflittuale dal suo stato cosciente. Allo stesso tempo, si calava (inconsciamente) nel ruolo di Eve Black allo scopo di dirigere la sua ostilità verso Eve White per la quale provava un totale disprezzo. Il disprezzo era dovuto al fatto che non era stata in grado di prevedere la situazione in cui si trovava in quel momento né aveva avuto il coraggio di risolverla. (La spiegazione del “meccanismo di difesa” riecheggia quella fornita per la fobia del “piccolo Hans”; vedi anche Capitolo 13). Durante lo studio del caso, Thigpen e Cleckley si imbatterono in un distante
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Tabella 14.1 Riassunto dei risultati dei test diagnostici condotti su Eve White e Eve Black Caratteristiche
Eve White
Eve Black
Personalità
Riservata, quasi una santa
Egocentrica, festaiola
Volto
Dolce con tratti tristi
Occhi pieni di malizia, espressione caparbia, non mostra mai tristezza
Abbigliamento
Semplice, pulito, tradizionale
Un po’ provocatorio
Postura
Dolce, moderatamente femminile
Sguaiata, provocatoria, spiritosa, con uso costante del dialetto
Temperamento /attitudine
Fedele, laboriosa, contemplativa, forza passiva, mancanza di iniziativa, raramente vivace, raramente scherzosa
Capricciosa, estemporanea, spontanea, sconsiderata, insensibile, burlona, pronta allo scherzo, divertente e immediatamente simpatica
Punteggio al test di intelligenza (QI)
110 (il punteggio può essere stato inficiato dall’ansia)
104 (il punteggio può essere stato inficiato dall’indifferenza)
Prestazione al Test di Memoria
Superiore a quella di Eve Black e Inferiore a quello di Eve White, superiore rispetto a quello che ci si ma in linea con il suo punteggio sarebbe aspettato in base al suo di QI punteggio di QI. Una scoperta sorprendente data la sua storia di amnesia
Risultati al test di Rorschach
Molto ansiosa rispetto al suo ruolo di moglie e madre. Tratti ossessivo-compulsivi
Una lieve tendenza isterica, ma più sana di Eve White
Risultati agli altri test proiettivi
Repressione
Regressione
Salute fisica
Nessuna allergia presente
Allergica al nylon
parente di Eve White che rivelò che la donna era stata sposata precedentemente. Eve White negò questa unione, e così fece Eve Black. Comunque, dopo molta insistenza, Eve Black ammise di essere stata sposata precedentemente ma che solo lei era stata la sposa, non Eve White! Eve Black riportò che una notte, mentre Eve White lavorava a molte miglia di distanza dalla casa dei suoi genitori, lei era “saltata fuori” ed era andata a bere e a ballare. Dopo una notte particolarmente selvaggia, tra il serio e il faceto aveva acconsentito di sposare un uomo che conosceva appena. Sebbene non ci fossero registri ufficiali del matrimonio che lo potessero situare correttamente nel tempo, Eve Black raccontò che vi fu senz’altro una sorta di cerimonia, un matrimonio informale nel quale ella credeva di averlo sposato. Visse con quest’uomo come “moglie” per un po’ di mesi. Durante quel periodo, Eve Black fu dominante su Eve White, che ovviamente non aveva nessun ricordo di questo matrimonio. Eve Black riteneva che questo dipendesse dalla sua abilità a cancellare alcuni aspetti della memoria di Eve White!
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Il trattamento di Eve Dopo circa otto mesi di trattamento psichiatrico, sembrò che Eve White stesse facendo progressi incoraggianti. Non aveva più avuto attacchi di emicrania o “blackout”, venne promossa sul lavoro (centralinista) ed era riuscita a stringere nuove amicizie. Eve Black si annoiava durante le ore di lavoro di Eve White e raramente compariva in quei momenti, continuava ad apparire, più raramente, durante i momenti di piacere per abbordare uomini inadatti. A un certo punto, le emicranie di Eve White e i “blackout” si ripresentarono. Venne osservato che gli episodi di blackout corrispondevano allo scambio tra le due personalità, ma Eve Black non era in grado di riconoscere tutti gli episodi, si mostrò curiosa riguardo questi episodi e se ne uscì in modo ambiguo con la seguente frase: “Non so dove andiamo, ma dove andiamo facciamo.” Eve se ne era andata dalla casa del marito (per i suoi problemi) e in più di un’occasione fu trovata dalla sua coinquilina stesa a terra priva di sensi. Sembravano non esserci dubbi che la condizione di Eve stesse peggiorando, fu anche minacciata di essere rinchiusa in un istituto psichiatrico nella speranza che Eve Black ricominciasse a cooperare durante la terapia per paura di essere confinata. Un giorno, durante una seduta di terapia, mentre si stava ripercorrendo un incidente avvenuto nell’infanzia, Eve chiuse gli occhi e si azzittì. Circa due minuti dopo riaprì gli occhi, si guardò intorno e apparve in uno stato confusionale, si girò verso Thigpen e gli chiese con una voce roca e sconosciuta, “Chi sei?”. Una terza personalità era emersa, una personalità che rispondeva al nome di Jane. Fu immediatamente chiaro che Jane non aveva i difetti di Eve Black, era più matura, brillante e capace, e possedeva più iniziativa di Eve White. Jane conosceva l’esistenza sia di Eve White che di Eve Black. Tramite Jane i terapisti furono in grado di dire quando Eve Black mentiva. Sebbene Jane non si sentisse responsabile per il ruolo di moglie e di madre di Eve White, ella provava compassione per la situazione di Eve White, e quindi iniziò a svolgere una serie di compiti di Eve White, sia a casa che a lavoro, e si mostrò anche pronta ad avere un ruolo attivo nell’educazione e nella crescita della figlia di Eve White. Subito dopo la comparsa di Jane, fu fatto un EEG a tutte e tre le personalità, nel quale fu possibile distinguere nettamente il tracciato di Eve Black da quello delle altre due personalità. Il ritmo a riposo di Eve Black veniva registrato a 12 cicli e mezzo al secondo, che la individuava come la più tesa delle tre personalità, corrispondente alla sua vita anomala e borderline. Seguiva Eve White, con Jane che era la meno tesa delle tre e nelle registrazioni rientrava nel range normale. Poiché il DPM è una dissociazione della personalità, all’inizio della terapia Thigpen e Cleckley cercarono di reintegrare le due personalità originali. Avevano cercato di far questo chiamando le due personalità nello stesso momento, ma ciò aveva provocato una violenta emicrania e uno stress emozionale nella donna così forte che Thigpen e Cleckley decisero che non era saggio procedere in questo modo. Comunque, con la comparsa della più sicura Jane, esisteva la possibilità che Jane integrasse le altre due personalità e che ne assumesse il pieno controllo.
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Thigpen e Cleckley erano riluttanti, anche se tentati, all’idea di provare a rinforzare la personalità di Jane a spese delle altre due, e la stessa Jane condivideva la loro riluttanza a partecipare a qualsiasi atto portasse all’estinzione di Eve White. Sebbene, Eve White, la madre della figlia, avrebbe continuato ad esistere fisicamente, Jane non si sentiva di rivestire il ruolo della madre da un punto di vista psicologico. Eve White stessa riconosceva la possibilità che Jane subentrasse a lei e sembrava accettare la propria estinzione, anche se pensava che Jane non potesse sostituirla in quel ruolo materno in cui aveva così fallito. In effetti, Eve White sembrava in grado di sacrificare la propria vita per quella di sua figlia. Verso la fine della terapia, Jane scrisse una lettera a Thigpen raccontandogli un incidente durante il quale Eve White aveva messo a repentaglio la sua vita, gettandosi in mezzo la strada per mettere in salvo un bambino piccolo che stava per finire sotto una macchina. La donna scrisse che Eve White se ne era andata, portando tra le braccia il bimbo che aveva soccorso. Sostenne che lei (Jane) era dovuta ricomparire per riportare il bambino alla più vicina stazione di polizia temendo che Eve White venisse arrestata per rapimento! Jane scrisse di non poter affrontare la morte di una persona così di valore, e che a sopravvivere dovesse essere Eve White, non lei. Inoltre, scrisse che non sentiva Eve Black da molto tempo e si chiedeva se fosse andata via. Quest’ultimo evento suggerisce che i conflitti tra le diverse personalità si stavano risolvendo con successo.
Questioni da considerare Questa però non fu la fine del caso. Thigpen e Cleckley descrissero il caso di Eve in un libro [7] dal quale fu tratto un film7 con lo stesso nome (The Three Faces of Eve, interpretato da Joanne Woodward). Sia il libro che il film ebbero un enorme successo. Il libro fu tradotto in 22 lingue e ricevette diversi premi letterari per la saggistica. Joanne Woodward vinse sia il Golden Globe che l’Oscar come miglior attrice per la sua interpretazione di Eve. Sia il libro che il film portarono il DPM all’attenzione del grande pubblico. Vennero poste a Thigpen e a Cleckley molte domande sul resoconto originale del caso, in particolare se Eve fosse una vera “truffatrice”. Thigpen e Cleckley avevano trascorso molto tempo con Eve e ritenevano che neppure un’attrice professionista sarebbe stata in grado di interpretare le diverse parti in modo così convincente e coerente nel tempo. I due psicologi inoltre avevano cercato di verificare le informazioni riportate da Eve e la maggior parte di esse furono in effetti confermate dai suoi parenti. Chiesero anche al Dottor Winter, un esperto, di effettuare altre misure fisiologiche e psicologiche che confermarono l’esistenza delle diverse personalità. Come avviene nello studio di molti casi, è difficile sapere se le scoperte possono essere generalizzabili oltre il caso specifico: era Eve un caso unico o era il tipi-
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The Three Faces of Eve (1957) diretto da Nunnally Johnson. Twenthieth-Century Fox.
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co caso di DPM? L’emergere di diverse identità e gli aspetti amnesici sono aspetti “tipici” del DPM, ma la mancanza di evidenze di abusi sessuali durante l’infanzia è piuttosto insolita8.Questo caso si basa su racconti di memoria retrospettiva di eventi che possono non essere così attendibili. Gli eventi associati ad Eve Black, una bugiarda incallita, prestano più degli altri il fianco alle critiche. Con più di 100 ore di terapia svoltesi in 14 mesi, non vi sono dubbi che i terapisti stabilirono una forte relazione con Eve e sebbene ciò fosse una parte importante della terapia, è possibile che i terapisti abbiano sviluppato dei bias selettivi. Nello studio di questo caso vi erano un numero di aspetti etici da considerare, Thigpen e Cleckley se ne resero conto al momento di decidere la possibile uccisione di una delle personalità e conclusero che “non ci siamo giudicati abbastanza saggi da prendere una decisione attiva o esercitare un’influenza personale nel modellare Eve”. Alcuni hanno dichiarato che pubblicando lo studio del caso Thigpen e Cleckley avessero intruso con la vita di Eve in modo inutile, e dati i suoi problemi, resta poco chiaro se avessero richiesto ed ottenuto il suo consenso informato prima della pubblicazione. In pratica, la loro fortuna (fama e guadagno economico) avvenne come diretto risultato dello sfruttamento della sventura della donna. Comunque i due terapeuti non rivelarono mai la vera identità di Eve fornendo un grande contributo nel tracciare il profilo di un importante disturbo psichiatrico, fatto che in seguito è risultato di aiuto per altre persone affette da DPM.
La ricomparsa di Eve Non si seppe più nulla del caso fino al 1977, quando Chris Sizemore rivelò di essere Eve [6], svelando alcuni dettagli del caso che contraddicevano quelli riportati da Thigpen e Cleckley. La donna rivelò di avere approssimativamente 22 personalità e che queste erano presenti sia prima che dopo la terapia. Inoltre, asserì di non essere stata curata da Thigpen e Cleckley. In una conferenza tenutasi a Londra nel 2009, la Sizemore affermò di essere grata a Thigpen e Cleckley per aver provato ad aiutarla e per aver avuto il coraggio di formulare un’insolita diagnosi, ma il loro trattamento non aveva avuto successo come invece affermavano loro. Lei aveva effettivamente continuato la terapia con un altro dottore, il dottor Tony Tsitos. In un libro più recente [8], lei affermò di essere finalmente guarita dopo aver sofferto di DPM per 45 anni e dopo 20 anni di terapia. Sizemore riteneva di essere diventata la somma integrata di tutte le sue personalità, dichiarando: “Io non sono nessuna di loro, ma tutte quante loro”. Grazie a questa integrazione, Sizemore recuperò molte delle sue memorie che fino ad allora erano state accessibili solo alle singole personalità. La donna arrivò inoltre ad affermare che: “Eve Black era la mia personalità preferita – lei sicuramente sapeva come divertirsi e questo è importan-
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L’esistenza di abusi infantili è una caratteristica consistente nei casi descritti successivamente di DMP, ma non era così nel 1954.
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te”. Sizemore non sopportava il modo in cui Thigpen fece i soldi pubblicizzando la sua storia e promuovendo la rappresentazione Hollywoodiana. Infatti, nel 1989, Sizemore intentò causa con successo alla Twentieth-Century Fox per i diritti del film The Three Faces of Eve. È corretto comunque riferire che Thigpen non fece mai pagare alla Sizemore nessuno dei trattamenti. Sizemore è andata avanti con le sue forze e ha impiegato molto tempo a promuovere la comprensione del DPM. Studiò il ruolo dell’arte come parte del processo terapeutico, fece numerosi discorsi sul DPM per l’American Mental Health Association9 e ricevette molti premi per i suoi sforzi. Divenne anche una valida pittrice e molti dei suoi lavori sono stati venduti a delle gallerie prestigiose.
Il fenomeno Sybil? Dopo il caso di Eve, il più noto caso di DPM è quello di “Sybil”, una paziente che aveva sviluppato ben 16 personalità allo scopo di affrontare e superare un orrendo abuso sessuale subito durante l’infanzia. Il caso fu successivamente riportato dalla giornalista Flora Rheta Schreiber in un drammatico libro che divenne il best-seller [9] dell’anno. Come con The Three Faces of Eve, dal libro fu velocemente tratta una versione televisiva di successo, intitolata Sybil10, con Joanne Woodward, che aveva interpretato Eve nel precedente film, che ora tornava sullo schermo nei panni della terapista, dottoressa Cornelia Wilbur. Ancora sulla scia del primo film, Sally Field vinse un Emmy per l’interpretazione di Sybil. Diversamente dal caso di Eve, vi sono diversi dubbi sulla veridicità del caso. Herbert Spiegel, un rispettato psichiatra, conosceva sia Wilbur che Sybil. Infatti, fu menzionato brevemente nei ringraziamenti, ma in nessun altra parte del libro. Questa è un’omissione sorprendente se si pensa che lo psichiatra trattò Sybil in più di un’occasione e che lei partecipò persino ad alcune sue dimostrazioni ipnotiche alla Columbia University. Spiegel classificò Sybil come altamente suggestionabile, accusando Wilbur di aver indotto nella donna le diverse personalità riportate successivamente. Sybil potrebbe essere stato il classico caso di malattia iatrogena, dove la malattia è indotta nel paziente dall’attività, dai modi e dalle terapie del medico. In sintesi, nel caso di Sybil, le personalità possono essere state prodotte dalla forza della suggestione indotta da Wilbur durante l’ipnosi. Ci fu anche una richiesta di risarcimento danni sul modo in cui lo studio fu riportato. Ad esempio, Wilbur promosse l’idea del libro quando si rese conto che il caso non era pubblicabile su nessun giornale scientifico di buon livello. Un’altra richiesta di risarcimento danni riguardava il fatto che Schreiber insisteva che Sybil venisse “curata” prima che il libro fosse scritto. Nonostante queste critiche, i casi di Eve e Sybil hanno portato ad una aumentata conoscenza del DPM tra gli operatori sanitari così come nel grande pubblico.
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Associazione Americana per la Salute Mentale (NdT). Sybil (1976) diretto da Daniel Patrie. CBS Fox.
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Cosa successe a Thigpen e Cleckley? Cleckley e Thigpen erano già rispettati accademici anche prima della pubblicazione dello studio del caso di Eve e proseguirono nella loro carriera, il libro li portò ad una fama di livello internazionale. In un follow-up [10] sull’incidenza del DPM, pubblicato 30 anni dopo lo studio del caso di Eve, Thigpen e Cleckley misero in guardia contro un’eccessiva facilità nel descrivere casi di DPM. Grazie alla loro esperienza, gli erano stati inviati centinaia di pazienti con diagnosi di DPM, ma in oltre 30 anni di pratica combinata, avevano osservato solo un altro caso che potesse essere considerato un esempio genuino di personalità multipla. Parlarono di “pellegrini” riferendosi alla processione di questi pazienti che arrivavano in Georgia dove esercitavano la professione, raccontando inoltre il caso di una donna che telefonò ai due e con voci diverse presentò loro tutte le sue differenti “personalità”! Thigpen e Cleckley riportarono anche la loro preoccupazione riguardo al fatto che alcuni pazienti, e alcuni terapisti, cercassero di attirare l’attenzione attraverso la diagnosi di DPM: descrissero il caso di pazienti che passavano da un terapista all’altro, fino a trovare quello disposto a confermare la diagnosi di DPM. Sebbene concordassero che fosse necessario aiutare questi pazienti, non condividevano la stima dell’alta incidenza di casi di DPM. Suggerirono persino che vi fosse un’insana competizione tra alcuni pazienti e terapisti per vedere chi poteva descrivere più personalità. Il motivo di tale fenomeno sarebbe stato l’attenzione ricevuta una volta ottenuta una diagnosi e il guadagno secondario che ne derivava. Il vantaggio consisteva nella possibilità di non essere ritenuti responsabili delle proprie azioni. Tale seconda spiegazione aveva un peso maggiore nei casi dove era presente anche un crimine, in questo caso per un paziente ricevere la diagnosi di DPM era un vero affare. Uno di questi fu il celebre caso di Billy Milligan [11] che fu inizialmente diagnosticato come DPM (una diagnosi fatta anche dalla dottoressa Cornelia Wilbur, la stessa che aveva diagnosticato il famoso caso di “Sybil”), dopo il trattamento fu giudicato in grado di affrontare il processo, ma poi ebbe una ricaduta prima dell’inizio del processo stesso. Thigpen e Cleckley suggerirono che il desiderio di evitare di assumersi la responsabilità per una delle sue azioni potesse motivare una persona ad ulteriori dissociazioni. Certamente, Milligan sosteneva di essere un caso genuino di DPM, bisogna però convenire con Thigpen e Cleckley quando suggeriscono che molti casi di DPM sono stati “creati” dagli stessi psichiatri. Thigpen e Cleckley si chiedono anche se sia giusto che una diagnosi di DPM sollevi la persona da tutte le responsabilità delle proprie azioni. Inoltre, gli psicologi sostengono che sebbene la persona principale possa non serbare alcun ricordo del proprio comportamento, le altre personalità sono consapevoli delle proprie azioni e non compiono mai gesti che possano essere pericolosi per la sopravvivenza del proprio corpo. Sostengono in conclusione che la diagnosi di DPM dovrebbe essere riservata a persone come Chris Sizemore che appaiono frammentate in modo netto. Cleckley, studente di Rodi che aveva frequentato l’Università di Oxford nel 1926, divenne professore di psichiatria e neurologia all’Università della Georgia
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Medical School prima della pubblicazione del libro The Three Faces of Eve nel 1957, morì il 28 gennaio del 1984 all’età di 79 anni. Corbett Thigpen, ebbe una carriera simile, esercitò la professione medica per oltre 50 anni e divenne professore clinico di psichiatria alla Georgia Medical School fino al suo pensionamento nel 1987. Thigpen morì il 19 marzo del 1999 all’età di 80 anni.
Il DPM è un disturbo reale o indotto? Ancora oggi, la diagnosi di DPM resta inaffidabile. Alcuni dei sintomi, quali le allucinazioni acustiche, la creazione di mondi immaginari e le auto-mutilazioni sono presenti anche nella schizofrenia, per questa ragione esiste una possibile confusione tra i due disturbi. Il DPM non è una forma di schizofrenia. Diversamente dal DPM, la schizofrenia è un tipo di psicosi dove il contatto con la realtà e la dimensione cognitiva sono compromessi. In sintesi, la schizofrenia implica la “scissione della mente”, mentre nel DPM si presenta la costruzione di intere personalità. I pazienti schizofrenici di solito riportano le loro allucinazioni ai terapisti, mentre un paziente con DPM non è in grado di farlo, proprio a causa della profonda amnesia. Inoltre, mentre una causa biologica o chimica della schizofrenia è stata trovata, nessuna spiegazione biologica è stata ancora avanzata per il DPM. Forse riflettendo sulle differenze nelle esperienze diagnostiche, il DPM sembra maggiormente prevalente in alcuni paesi Occidentali (quali ad esempio, gli Stati Uniti e l’Olanda) e meno in altri (ad esempio, Regno Unito e Germania). Nella prima metà del ventesimo secolo sono stati riportati in letteratura solo una manciata di casi, ma dalla sua introduzione nel 1980 nel manuale diagnostico psichiatrico, i casi di DPM improvvisamente iniziarono a spuntare un po’ dappertutto. In un sondaggio su larga scala condotto sulla popolazione di Winnipeg, 1% della popolazione adulta fu stimata affetta da DPM a causa di abusi infantili [12]. Il DPM resta principalmente una specificità dell’Occidente ed è raramente riportato in altre culture. Questi dati indicano una maggiore capacità di riconoscimento e diagnosi di un disturbo o piuttosto suggeriscono che il disturbo sia di natura iatrogena? L’85% dei casi di DPM riguardano donne. Ciò dipende dal fatto che vi sia una tradizione di DPM nelle donne o che esse siano più suscettibili, o ancora che siano le vittime più frequenti di abusi nella nostra società? O ancora, si tratta di un disturbo legato al sesso, oppure le donne subiscono più abusi nell’infanzia e hanno quindi un maggiore bisogno di frammentare la loro personalità e di proteggere loro stesse dai ricordi? Un altro problema riguarda l’amnesia infantile. Si stima che nel 90% di casi di DPM la causa scatenante sia un trauma infantile (più comunemente un abuso sessuale). Comunque, i bambini virtualmente non ricordano praticamente nulla della loro infanzia prima dei tre anni di vita e i ricordi prima dei cinque anni sono pochi e poco accurati. I sostenitori del DPM ritengono che le diverse personalità emergenti siano quelle in grado di ricordare ciò che la vittima non è in grado di affrontare. Richard Kluft [13], nel suo libro, ha confermato solo
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il 15% dei racconti dei pazienti di abuso sessuale infantile, la bassa percentuale di per sé non prova che essi non siano avvenuti. Dopo tutto è nell’interesse dell’aggressore nascondere, distruggere e negare qualsiasi evidenza. Elizabeth Loftus [14], una dei massimi esperti mondiali nel campo della memoria, esclude l’idea che i bambini piccoli possano ricordare episodi particolarmente dolorosi. Se ciò fosse possibile sostiene la studiosa, perché i bambini non dovrebbero ricordare quando sono stati circoncisi o quando hanno fatto i vaccini? Uno psicoanalista probabilmente risponderebbe che ciò non avviene perché questi ricordi vengono rimossi! (vedi anche Capitolo 5). La diagnosi di DPM presenta oggi un problema aggiuntivo, ironicamente originato proprio dallo studio del caso di Eve. Il caso descritto da Thigpen e Cleckley è divenuto talmente noto e fu talmente ben descritto da affascinare anche il grande pubblico, al punto che oggi si sostiene che nessun caso di DPM può essere osservabile dall’emergere di processi inconsci, senza che non vi sia stata un’esposizione a fattori esterni, come medici o mezzi mediatici [15]. Sybil lesse persino il libro The Three Faces of Eve e ne rimase affascinata. Ci fu anche chi sostenne che Sybil fosse stata enormemente influenzata dai mezzi mediatici nel suo racconto del disturbo. In sintesi, le fu insegnato come calarsi nel ruolo. In una serie di studi famosi condotti verso la metà degli anni Ottanta, Nicholas Spanos [16] mostrò di essere in grado di suggestionare facilmente le persone ad assumere altre personalità, in molti casi, lo fece anche senza ricorrere all’ipnosi. Egli sostenne inoltre che i ricordi di abusi infantili rimossi e il Disturbo da Personalità Multipla sono “costruzioni sociali governate da regole stabilite, legittimate e mantenute attraverso le interazioni sociali.” In altre parole, suggerì che la maggior parte dei casi di DPM sono indotti dai terapisti con la collaborazione del paziente e della società (vedi anche Capitolo 5). Come sottolineato, esiste un’ampia divergenza di opinioni tra gli psichiatri sull’autenticità e la diagnosi del DPM, tuttavia a prescindere dal fatto che il DPM sia un disturbo reale o iatrogeno, i pazienti affetti da questo disturbo, meritano senz’altro sostegno e di non essere colpevolizzati. Nel 1987, Paul Chodoff [17] scrisse: vi è una tendenza nella storia della psichiatria che certe condizioni vengano riconosciute, raggiungano la popolarità e poi decadano in concomitanza di determinanti culturali. È questo il destino del DPM?
14 I tre volti di Eva: la storia di Chris Costner Sizemore
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Bibliografia 1. Dual personality, multiple personality, dissociative identity disorders – what’s in a name? www.dissociation.com/index/Definition/ 2. Sileo CC (1993) Multiple personalities: the experts are split. Insight on the News, 9 October, 43:18-22 3. Crabtree A (1993) From Mesmer to Freud: Magnetic sleep and the roots of psychological healing. Yale University Press, New Haven 4. Prince M (1906) The Dissociation of Personality. Longmans, Green, New York 5. Thigpen C, Cleckley H (1954) A case of multiple personality. Journal of Abnormal and Social Psychology 49:135-151 6. Costner Sizemore C, Pittilio ES (1977) I’m Eve. Doubleday, New York 7. Thigpen C, Cleckley H (1957) The Three Faces of Eve. Secker & Warburg, New York 8. Sizemore C (1989) A Mind of My Own. William Morrow, New York 9. Schreiber FR (1973) Sybil. The true story of a woman possessed by sixteen separate personalities. Penguin, New York 10. Thigpen C, Cleckley HM (1984) On the incident of multiple personality disorder: a brief communication. Int J Clin Exp Hypn 32:63-66 11. Keyes D (1995) The Minds of Billy Milligan. Bantam Books, New York 12. Ross CA (1991) Epidemiology of multiple personality disorder and dissociation. Journal of the Psychiatric Clinics of North America. September 14:503-17 13. Kluft RP (1985) Childhood antecedent of Multiple Personality Disorder (Clinical Insights Monograph). American Psychological Association, Washington 14. Loftus EF (1997) The Myth of Repressed Memories. St Martin’s Press, New York 15. Merskey H (1992) The manufacture of personalities – the production of multiple personality disorder. British Journal of Psychiatry 160:327-340 16. Spanos NP (1996) Multiple Identities and False Memories: a sociocognitive perspective. American Psychological Association, Washington 17. Chodoff P (1987) Effects of the new economic climate on psychotherapeutic practice. American Journal of Psychiatry 144:1293-1297
Psicologia delle differenze individuali Il ragazzo che non poteva smettere di lavarsi: una storia di DOC
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Da quando aveva 14 anni, Charles passava almeno tre ore al giorno a farsi la doccia, lo faceva da anni, non riusciva a smettere, doveva lavarsi in continuazione.
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Queste furono le frasi con cui Judith Rapoport introdusse lo studio di un caso particolare nel suo libro del 1989, dal titolo The Boy Who Couldn’t Stop Washing1 [1,2]. Il libro è oggi considerato un classico della psicologia e uno dei primi a riportare il Disturbo Ossessivo-Compulsivo o DOC. Caratteristiche principali di tale disturbo sono: pensieri ossessivi ricorrenti e atti compulsivi. I pensieri ossessivi sono costituiti da idee, immagini o impulsi non volontari che si ripresentano più e più volte nella mente di un individuo. Possono includere paure persistenti di venire feriti, o che vengano ferite le persone amate, paure irragionevoli di essere contagiati o di ammalarsi in generale, così come un eccessivo bisogno di fare le cose perfettamente. Charles aveva questi pensieri intrusivi relativi al bisogno di lavarsi in continuazione. Gli atti compulsivi vengono individuati in comportamenti stereotipati che si ripresentano alla mente più e più volte, tra i più comuni vi sono il lavarsi e il controllare, tanto che nella terminologia anglosassone del disturbo le persone che soffrono di DOC vengono classificate come “washers” o “checkers” a seconda del comportamento compulsivo messo in atto. Charles rientrava nel primo gruppo. Questi comportamenti non sono piacevoli, ma molti a volte servono ad alleviare l’ansia associata al DOC Tra le compulsioni comuni vi sono anche il contare e l’accumulare. Per molti anni, il DOC è stato considerato un disturbo raro, dal momento che le persone che ne soffrono tengono i loro pensieri e i loro comportamenti segreti, senza riuscire a trovare un trattamento efficace per la loro condizione. Tali fattori conducono a sottostimare l’incidenza del disturbo. Il libro di Rapoport ha aiutato a scoprire la portata del problema, mostrando come il DOC fosse molto più comune di altri disturbi ben noti, come ad esempio il disturbo bipolare (maniaco depressivo) o la schizofrenia. Viene adesso stimato che circa il 2% della popolazione soffra di DOC e che maschi e femmine ne siano affetti in egual misura.
Il ragazzo che diede il via a tutto Charles costituiva un esempio ideale di DOC perché mostrava molti dei tipici sintomi del disturbo. Il DOC è classificato all’interno dei disturbi di ansia ed è una condizione invalidante che può durare anche tutta la vita. Tipicamente, i sintomi emergono durante l’adolescenza; anche se possono fare la loro comparsa precedentemente. Soffrire di questo disturbo durante i primi anni dello sviluppo infantile può avere effetti drammatici a lungo termine sul comportamento. Se non trattato, il DOC può distruggere la capacità di una persona di condurre una vita normale e questo fu certamente il caso di Charles. A scuola, Charles era stato uno studente entusiasta, particolarmente bravo sia in chimica che in biologia. Nei colloqui scolastici gli insegnanti ipotizzavano per Char-
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I lettori italiani possono leggere il racconto di Charles in una traduzione del libro della Rapoport in cui oltre a questa storia sono riportati anche altri casi di disturbi ossessivi [2] (NdT).
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les una possibile carriera nell’ambito della medicina. All’età di 12 anni, però, iniziò a lavarsi compulsivamente. Non sembravano esserci delle motivazioni che spiegassero la comparsa di questo comportamento, ma il lavarsi iniziò a occupare un tempo sempre maggiore ogni giorno. La maggior parte degli individui che soffrono di DOC lottano per contrastare e bloccare i loro pensieri ossessivi e per evitare di mettere in atto azioni compulsive. Charles da questo punto di vista non era diverso dagli altri. Per un po’ fu in grado di tenere sotto controllo i suoi sintomi ossessivo-compulsivi, ad esempio durante le ore scolastiche, ma con il passare dei mesi, la sua capacità di resistenza si indebolì e il DOC divenne così grave che il tempo che trascorreva nello svolgimento dei suoi rituali prese il sopravvento sulla sua vita. Fu costretto a lasciare la scuola perché passava la maggior parte del tempo a lavarsi. I suoi rituali di pulizia seguivano sempre lo stesso modello: doveva tenere il sapone nella sua mano destra sotto il getto dell’acqua per circa un minuto e poi per un altro minuto fuori dal getto di acqua nella mano sinistra, ripetendo questa operazione per almeno un’ora. Dopo si doveva lavare per circa tre ore e poi impiegava circa due ore per vestirsi. Così come molti altri individui affetti da DOC, il comportamento di Charles aveva delle ripercussioni gravi sulla vita di altre persone oltre che sulla propria. La madre non sapeva più dove sbattere la testa. All’inizio, scoraggiò questi strani rituali, ma successivamente, non sopportando di vedere la sofferenza del figlio, iniziò ad “aiutarlo” pulendo ossessivamente ogni oggetto della casa che potesse “contaminarlo”. Puliva ogni cosa che Charles toccava con lo spirito e impediva alle persone di portare in casa i loro “germi”. Il padre di Charles non era in grado di comprendere questo comportamentoe decise così di trascorrere sempre più tempo a lavoro. Rapoport riporta che Charles era un ragazzo molto accomodante, amichevole e gioioso, che aveva chiesto volentieri il suo aiuto, essendo ben consapevole del proprio disturbo e desiderando di poter superarlo. La psicologa propose di studiare l’attività elettrica cerebrale di Charles, usando un elettroencefalogramma (EEG), sfortunatamente per far questo, gli elettrodi dovevano essere applicati sullo scalpo mediante una pasta conduttrice, una sostanza molto appiccicosa che raccapricciava il ragazzo e che era l’equivalente di un anatema per lui. Charles, non sopportando il pensiero di mettere qualcosa di appiccicoso e vischioso sul proprio corpo, diceva: “L’appiccicume è terribile. È come una sorta di malattia, è qualcosa di incomprensibile per voi” (p. 92). Nonostante le sue dichiarazioni, riuscirono a convincerlo a sottoporsi all’EEG, anche se dopo l’esame passò tutta la notte a lavarsi.
Perché? Rapoport passò diverse ore a parlare con Charles, nel tentativo di comprendere cosa avesse originato il disturbo. Il ragazzo riferiva di sentirsi costretto a comportarsi così, da qualcosa di impellente che veniva da dentro. Non sentiva delle voci che gli dicevano di farlo, ma sentiva qualcosa di insistente che proveniva dal suo intimo e che lo spingeva a lavarsi compulsivamente. Era consapevole che il suo comporta-
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mento appariva folle. Come molti altri individui affetti da DOC, Charles era consapevole della propria condizione, riconosceva le sue ossessioni e trovava ridicole le sue compulsioni, ma non era in grado di smettere. Sentiva la compulsione a lavarsi e non poteva smettere di farlo. Al ragazzo venne chiesto di spiegare cosa sarebbe potuto succedere se si fosse fermato, a questa domanda Charles rispondeva che credeva che si sarebbe ammalato o gli sarebbe successa qualche disgrazia. Sebbene fosse un ragazzo intelligente, non era in grado di spiegare adeguatamente perché questa compulsione aveva avuto inizio né perché continuasse. Charles non aveva mai incontrato un’altra persona con DOC e quindi non poteva aver appreso questo comportamento osservando altri, non era neppure consapevole del fatto che altre persone potessero avere dei comportamenti così bizzarri. Quindi cos’è che aveva causato il suo disturbo?2
Causa? Le spiegazioni attuali sulle cause del DOC si concentrano sui fattori biologici. I pazienti con questo disturbo sembrano trarre beneficio dai trattamenti farmacologici. Charles seguì un trattamento farmacologico fino a quando non sviluppò un’assuefazione al farmaco, momento in cui gli effetti benefici cessarono. Molto probabilmente il disturbo ha anche delle basi neurobiologiche, anche se le influenze ambientali possono intervenire nel predisporre una persona a svilupparlo, e pertanto le ricerche si concentrano sull’interazione tra fattori neurobiologici e influenze ambientali, così come sui processi cognitivi. Le immagini cerebrali di questi pazienti suggeriscono che i loro pattern di attivazione cerebrale siano diversi da quelli di soggetti sani senza disturbi mentali. Ad esempio, è stato verificato che gli individui che soffrono di DOC hanno una quantità significativamente minore di sostanza bianca, e in generale una corteccia cerebrale più spessa rispetto ai partecipanti di controllo, cosiddetti “normali”. Questa scoperta suggerisce ancor di più l’esistenza di una causa neurobiologica alla base del DOC [3].
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“Una spiegazione psicologica potrebbe essere che la coazione a lavarsi nasce dal senso di colpa e di vergogna per la masturbazione. Ho sicuramente ascoltato da altri pazienti adolescenti confessioni circa i loro desideri e impulsi sessuali con i relativi timori, ma non da Charles. Questa teoria è insufficiente a spiegare la gravità del disturbo. Ora, ad anni di distanza e dopo aver conosciuto tanti malati ossessivi, le cose appaiono ancora più complicate…..Un’utile spiegazione della configurazione dei sintomi nei disturbi ossessivi deve prevedere chi ne sarà colpito, per quale ragione è tanto diffusa la coazione a lavarsi e perché la malattia ha limitati periodi di remissione per poi presentarsi di nuovo.” (pp. 92-93) [2] (NdT).
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Il trattamento Charles fu trattato con l’Anafranil e i suoi sintomi scomparvero per circa un anno. Sfortunatamente, l’assuefazione al farmaco, provocò da un lato una riduzione della sua efficacia, e dall’altro il necessario aumento del dosaggio per ottenere una risposta costante. Sebbene alcuni dei suoi sintomi fossero ritornati, non si presentarono in modo marcato come in precedenza, ed il ragazzo si mostrò in grado anche di controllare la quantità di lavaggi. Ad esempio, si rese conto che mettendo in atto i classici rituali la sera, non interferiva così tanto con le sue attività quotidiane. Due sono gli approcci terapeutici principali per il DOC: la terapia farmacologica e la terapia comportamentale. I due tipi di terapia possono essere usati simultaneamente, in genere questa decisione viene presa dal terapeuta in accordo con il paziente. I farmaci svolgono un effetto sulla serotonina, un neurotrasmettitore, e risultano efficaci nella riduzione dei sintomi del DOC. L’Anafranil fu uno dei primi tra questi e fu quello usato con Charles. Questo gruppo di farmaci lavora inibendo il riassorbimento della serotonina durante la trasmissione sinaptica. Gli studi hanno mostrato che c’è una correlazione tra livelli ridotti di serotonina ed efficacia clinica: tre quarti dei pazienti riportano un miglioramento con l’uso di questi farmaci. La terapia comportamentale è ritenuta il trattamento più efficace per la maggior parte dei sintomi del DOC. Implica il far esperire all’individuo le situazioni spaventose che fanno scattare l’ossessione (esposizione) e mettere in atto delle azioni per impedirne i comportamenti compulsivi o ritualistici (risposta preventiva). Gli studi hanno mostrato che i tre quarti dei pazienti con DOC che completano circa 15 sedute di trattamento mostrano una significativa e duratura riduzione dei loro sintomi ossessivo-compulsivi. Se confrontata con la terapia farmacologica, la terapia comportamentale sembra produrre miglioramenti più consistenti e frequenti. Tuttavia, si registra che più di un terzo delle persone con DOC rifiuta o abbandona la terapia comportamentale. Sfortunatamente, vi è spesso riluttanza ad indurre il disagio legato all’esposizione alle situazioni paurose. Più recentemente, gli psicologi hanno aggiunto degli interventi cognitivi al trattamento comportamentale. La Terapia Cognitivo-Comportamentale (o TCC) è un approccio che aiuta le persone a riformulare i propri pensieri e le proprie credenze che possono rinforzare i sintomi ossessivo-compulsivi. Insieme alla terapia comportamentale tradizionale, tale approccio si è dimostrato efficace nel dare speranza alle persone affette da DOC.
Postscriptum Charles presentava molti dei sintomi classici del DOC. Cercando attivamente aiuto, ricevette un programma di trattamento appropriato che lo condusse alla riduzione di molti dei suoi sintomi, permettendogli di ricominciare una vita quasi normale. La pubblicazione dello studio del suo caso ebbe anche l’effetto di portare il DOC
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all’attenzione del grande pubblico. Molti altri individui affetti da tale malattia improvvisamente scoprirono di non essere soli, divennero meno riservati e prudenti riguardo al loro disturbo, nella ricerca di trattamenti in grado di aiutarli, permettendo quindi anche l’accrescimento delle conoscenze scientifiche sul DOC.
Bibliografia 1. Rapoport JL (1989) The Boy Who Couldn’t Stop Washing. Signet, New York 2. Rapoport JL (1994) Il ragazzo che si lavava in continuazione e altri disturbi ossessivi. Bollati Boringhieri, Torino 3. Jenike MA et al (1996) Cerebral structures abnormalities in obsessive-compulsive disorder. A quantitative morphometric magnetic resonance imaging study. Archives of General Psychiatry 53:625-632
Psicologia fisiologica Gli uomini che non dormivano: la storia di Peter Tripp e Randy Gardner
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Peter Tripp era un famoso disc-jockey alla fine degli anni Cinquanta, Randy Gardner era invece un normale studente di San Diego. Entrambi decisero di fare qualcosa di straordinario: battere il record mondiale del tempo più lungo trascorso senza dormire. Gli psicologi che vennero a sapere del loro tentativo li avvertirono, invano, della pericolosità di tale impresa. Entrambi raggiunsero il loro scopo, ma con sistemi diversi. Le loro esperienze hanno aiutato gli psicologi a scoprire alcuni dei misteri del sonno. Nella letteratura scientifica rimasero famosi come “gli uomini che non potevano dormire”.
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Perché dormiamo? Gli psicologi ancora non sanno rispondere a quesiti di questo genere: “Perché dormiamo?; Di quanto sonno abbiamo bisogno?”. E ancora: “Abbiamo veramente bisogno di dormire?”. Una possibile risposta a tali domande sarebbe trovare un individuo che non dorme mai e che risulti perfettamente in salute. Sfortunatamente, non vi sono casi del genere documentati ed è molto improbabile che ve ne saranno in futuro. Forse questo fatto di per sé risponde all’ultima domanda. Un altro modo per studiare la funzione del sonno è quella di privare degli individui del sonno e notare gli effetti che ne derivano. È necessario distinguere fin da subito tra gli studi sul sonno quelli che utilizzano una tecnica di deprivazione parziale e quelli che ne utilizzano una di deprivazione totale. Il sonno anche se può apparire come un singolo momento di riposo, nella realtà si compone da un numero distinto di stadi. Questi stadi possono essere osservati con l’elettroencefalogramma (EEG) che consente di registrare le onde cerebrali. Sono stati documentati quattro stadi di sonno ad onde lente e un quinto stadio, noto come stadio REM (Rapid Eye Movement – movimenti oculari rapidi). Nel sonno REM, scariche di movimenti oculari rapidi sono registrabili, ed è proprio in questo stadio che l’individuo sogna. Un ciclo completo di sonno dura tipicamente circa 90 minuti, e quindi in una notte media, una persona esperirà dai 4 ai 5 cicli completi di sonno. È possibile effettuare una deprivazione parziale di sonno in un laboratorio fornito di EEG, in cui ai partecipanti vengono impediti, in modo selettivo, alcuni stadi del sonno. Nella condizione in cui si deprivano persone, o animali di tutto il sonno, viene usata una tecnica di deprivazione totale di sonno. Alcuni studi condotti sugli animali hanno indagato gli effetti della deprivazione parziale o totale di sonno, e fra questi le prime ricerche furono eseguite da Marie de Manaceine [1], nel 1894, su dei cuccioli che vennero deprivati totalmente del sonno e che morirono dopo 4-6 giorni di deprivazione. Jouvet [2] ideò un crudele esperimento per deprivare i gatti del loro sonno REM o dei loro sogni. I gatti da laboratorio venivano posti su delle piccole isole, vasi da fiori capovolti, circondate da acqua. Nel momento di sonno REM, che comportava il massimo del rilassamento dei muscoli posturali, il rilassamento portava alla perdita di equilibrio con conseguente caduta in acqua dell’animale. Ovviamente, a questo punto il gatto si svegliava, si arrampicava sul vaso e il ciclo del sonno ricominciava. Successivamente si verificò che i gatti attraversavano tutti gli stadi del sonno, ad eccezione della fase REM: in modo interessante, risultarono condizionati dal ripetersi delle sequenze, fino a svegliarsi autonomamente prima di entrare nella fase REM, evitando così di cadere ogni volta in acqua. Il metodo ebbe effetti patogenetici molto rapidi sugli animali che morirono in media dopo circa 35 giorni. Tali scoperte non possono essere generalizzate al comportamento umano, lo scenario ideale sarebbe trovare un essere umano che vuole rimanere sveglio il più a lungo possibile. Il primo studio di deprivazione di sonno condotto su partecipanti umani fu eseguito nel 1896 da Patrick e Gilbert [3] che studiarono tre uomini svegli da 90 ore. Nei partecipanti si registrava un decremento dell’acuità sensoriale, una riduzione dei tempi di risposta e di abilità di memoria, uno di loro presentava anche al-
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lucinazioni visive. Le imprese di individui che hanno preso parte a competizioni in cui è necessario restare svegli il più a lungo possibile sono storie ben documentate, forse tra gli esempi più interessanti vi sono le cosiddette Maratone di Danza, o “Derbies”, che negli USA raggiunsero la loro massima popolarità nel periodo della Grande Depressione (1920-1930), anche se si ritiene che il primo esempio di questo genere di maratone sia quella che si svolse a Londra nel 1364. Le regole in tali eventi sono molto semplici: le coppie danzanti devono restare sveglie il più a lungo possibile e “danzare” a ritmo di musica. L’ultima coppia che resta in piedi vince un premio in denaro. I premi negli anni Trenta, andavano dai 500 ai 3.000 dollari, somme consistenti per l’epoca. Alcune di queste maratone prevedevano dei piccoli break di riposo, mentre altre permettevano ad uno dei due partner di addormentarsi appoggiato al compagno, che lo aiutava a stare in piedi e continuava a “danzare”. La più lunga maratona di ballo durò oltre 22 settimane! Nel tempo, queste gare persero molto del loro fascino, e furono messe a bando in molti stati americani. Il film reportage “Non si uccidono così anche i cavalli?1” interpretato da Jane Fonda riportò proprio questo soggetto vincendo anche un Oscar.
Peter Tripp Uno dei primi studi scientifici sulla deprivazione di sonno nell’uomo fu effettuato nel 1959 e vide come protagonista Peter Tripp, un affermato disc-jockey di New York. In una bravata che successivamente ispirò Randy Gardner, Tripp decise di raccogliere del denaro da destinare in beneficienza restando sveglio per otto giorni e otto ore. Sebbene questa fosse una chiara trovata pubblicitaria, alcuni psicologi e alcuni medici colsero al volo la possibilità di studiare gli effetti che tale impresa poteva avere sul comportamento. Tripp andò avanti nella sua impresa trasmettendo il suo programma da un gabbiotto di vetro in Times Square attorno al quale mosse da curiosità si radunavano diverse persone. Inizialmente il trentaduenne Tripp sembrava cavarsela piuttosto bene senza dormire. La sua trasmissione manteneva un buon livello di intrattenimento, rideva e scherzava come era solito fare durante il
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Titolo originale del film è They shoot horses, don’t they?, diretto da Sydney Pollack nel 1969, e tratto dall’omonimo romanzo del 1935 di Horace McCoy, premiato con l’Oscar al miglior attore non protagonista Gig Young. Narra della vita di diverse persone che si ritrovano o si incontrano per la prima volta in una maratona di ballo. Lo sfondo è quello della Grande Depressione degli anni Trenta e la maratona di ballo è uno spettacolo durante il quale coppie di disperati senza lavoro ballano per giorni interi, attratti, ancor prima che dal premio in denaro a chi resisterà di più, dalla semplice possibilità di avere almeno il vitto assicurato per qualche tempo. La gara, iniziata da cento coppie, si prolunga per molti giorni, è un vero e proprio gioco al massacro, che porta i concorrenti fino ai loro limiti fisici e psicologici e al completo esaurimento, al punto da continuare in uno stato di semi-coscienza, sostenendosi l’uno al corpo dell'altro, senza riuscire a riposare davvero durante le brevi pause in uno squallido dormitorio, mentre i pasti vengono consumati direttamente sulla pista da ballo (NdT).
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suo show quotidiano della durata di tre ore. Al terzo giorno, però, Tripp iniziò ad essere offensivo verso i colleghi e, non sorprendentemente, riferiva di essere stremato, iniziando a soffrire di allucinazioni visive. Ad esempio, raccontò di avere delle ragnatele nelle scarpe. Dopo 10 ore senza dormire, i test di agilità mentale, che gli veniva chiesto di eseguire, divennero intollerabili. Uno degli scienziati che lo osservava gli apparve vestito di vermi pelosi. Dopo 120 ore, si recò all’Hotel Astor per cambiarsi d’abito e, aprendo un cassetto “vide” il suo interno letteralmente in fiamme e corse in strada per chiamare aiuto. Quando fu chiaro che non vi era nessun fuoco, Tripp accusò i medici di aver inscenato l’accaduto al fine di sottoporlo a nuovi test. Negli ultimi giorni della sua impresa, l’eloquio di Tripp divenne indistinto e sviluppò persino una psicosi paranoide acuta esperendo allucinazioni visive e acustiche. Accusò chi gli era attorno di volerlo avvelenare, riportò di aver visto gatti e topi, e si chiese anche se egli fosse il vero Peter Tripp. Non era in grado di eseguire semplici compiti, come ad esempio recitare l’alfabeto e iniziò a convincersi che i dottori stessero cospirando contro di lui al fine di mandarlo in prigione. L’ultima mattina, scambiò uno dei dottori per un impresario delle pompe funebri che a suo avviso era venuto a portar via il suo corpo! Durante la prova di resistenza, alcuni studiosi tentarono di valutare Tripp quotidianamente, ma sfortunatamente, durante gli ultimi giorni, molti di questi test non furono completati perché Tripp rifiutava di collaborare con i dottori “cospiratori”. Vi sono pochi dubbi che nel caso di Tripp la mancanza di sonno sfociò in un disturbo mentale. I dottori descrissero il suo stato mentale come “psicosi notturna”. Questo caso sembrava mostrare che il sonno è essenziale per il normale funzionamento dell’individuo; semplicemente, corpo e cervello hanno bisogno di dormire. Infatti, sebbene durante la sua impresa Tripp si mantenne sveglio, le sue attivazioni cerebrali spesso erano simili a quelle di un individuo che dorme. Tripp vinse il record mondiale restando sveglio per 201 ore. La “maratona” del sonno di Tripp divenne un caso di studio scientifico. Secondo suo figlio Peter: “Quella che iniziò come una bravata divenne per le scienze comportamentali un caso citato nei college e nelle università da costa a costa”. Vi erano due fattori specifici che hanno reso questo caso rilevante nell’ambito della ricerca sul sonno. Il primo è che Tripp fece uso di una grande quantità di stimolanti per restare sveglio durante le ultime 66 ore della sua maratona. Il secondo è che l’esperienza di Tripp possa aver avuto un esito negativo perché avvenne dinanzi a un grande pubblico. È probabile che l’uso di farmaci e il peso dello sguardo costante della gente abbia aggravato i sintomi dell’uomo. A causa di questi elementi, molti scienziati si sono chiesti se i risultati di questo studio potessero essere realmente generalizzabili ad una popolazione più ampia. Dopo la maratona, Tripp dormì per 13 ore e 13 minuti e passò la maggior parte di questo tempo nella fase REM, tanto che uno degli episodi di sonno REM fu anche uno dei più lunghi mai registrati. Il fenomeno per il quale le persone deprivate di sonno passano le notti successive a sognare più a lungo o trascorrono più tempo nella fase REM, prende il nome di “REM rebound”. Sembrerebbe che proprio la perdita di sonno REM avesse prodotto i sintomi psicotici così evidenti in Tripp. William Dement, uno degli esperti di sonno coinvolti nel monitoraggio, con-
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cluse che se alle persone venisse soppresso il sonno REM diverrebbero mentalmente instabili. Inizialmente Dement suggerì anche che i risultati ottenuti da questo studio forniscono delle evidenze a sostegno della teoria di Freud secondo cui se i tabù o i desideri non venissero espressi nei sogni, in fase REM, la pressione psichica inespressa condurrebbe verso episodi allucinatori psicotici. In sintesi, Dement riteneva i sogni una sorta di valvola di sicurezza della mente, senza di essi Tripp era divenuto mentalmente instabile. Con il senno di poi e il beneficio derivante da anni di ricerche, non ultimo il caso di Randy Gardner riportato nel paragrafo successivo, Dement mise in discussione la sua iniziale posizione, non essendo mai riuscito a dimostrare in modo inconfutabile che la deprivazione di REM fosse causa di malattia mentale. La nuova ipotesi di Dement era che fossero stati gli stimolanti del tipo amfetamine, il Ritalin, somministrati a Tripp in dosi abbondanti per mantenerlo sveglio a causare le allucinazioni e la paranoia. A quel tempo si sapeva molto poco degli effetti provocati da questo tipo di farmaci mentre attualmente sono ben note e ampiamente descritte in letteratura le forme psicotiche indotte da amfetamine, simili a quelle manifestate da Tripp. Sembra che Peter Tripp finì letteralmente in un “trip” e che gli episodi psicotici furono il risultato dei farmaci piuttosto che il risultato della deprivazione di sonno REM. L’uomo si riprese dalla sua maratona e proseguì nella sua carriera, che però subì un rapido crollo e, dopo una serie di scandali finanziari, nel 1967 finì con la perdita del lavoro. Viene spesso riportato che le maratone del sonno possono avere degli effetti a lungo termine sulla personalità, Tripp però riportò successi in una serie di lavori intrapresi successivamente, dimostrando quindi che la sua bravata non produsse in lui danni permanenti o duraturi.
Randy Gardner Sei anni dopo, Randy Gardner lesse dell’impresa di Tripp proprio quando si stava domandando cosa avrebbe dovuto fare per vincere il premio al Salone della Scienza di San Diego, e con l’aiuto di due compagni di scuola decise di battere il record mondiale di Tripp resistendo 11 giorni senza dormire. Gardner riteneva di poterlo fare e secondo le sue parole di farlo “senza impazzire”. Anche questo caso fu studiato da William Dement e cambiò ulteriormente la sua opinione sugli effetti a lungo tempo della deprivazione di sonno. Dement venne a conoscenza del tentativo di Randy Gardner di battere il record mondiale di Tripp leggendo un giornale locale che riportava che Randy aveva già con successo completato 80 ore delle 264 che aveva pianficato di fare. Dement contattò immediatamente Randy e i suoi genitori e offrì la propria assistenza. I genitori di Randy, in particolare, furono contenti della presenza di un medico esperto, anche perché erano piuttosto in ansia per le conseguenze derivanti dal tentativo. Dement ed un collega, George Gulevich, si accordarono nel supervisionare e nel registrare il tentativo. Quando incontrarono Randy si trovarono di fronte a un diciassettenne in forma, allegro e che inizialmente non presentava difficoltà ad affrontare la
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sua deprivazione di sonno, fatto che con il trascorrere del tempo lentamente cambiò. Durante la notte, i ricercatori si accorsero che diventava sempre più difficile tenerlo sveglio, Randy chiedeva di poter chiudere gli occhi solo per “riposarli” non per dormire. Talvolta, Randy si infuriava e occasionalmente dimenticava perché non poteva dormire. Per affrontare tali difficoltà furono messe a punto diverse tecniche per impedirgli di addormentarsi. Dement e Gulevich assicuravano che Randy era fisicamente attivo, senza sembrare mai particolarmente sonnolento. Gli permettevano di giocare a basket nel cortile nel mezzo della notte o Dement lo portava in giro nel quartiere, nella sua decappottabile con la radio a tutto volume. Randy era costretto a guardarsi intorno come un falco per non appisolarsi. Durante la sua impresa, Randy non prese mai stimolanti neppure caffè. Un effetto collaterale del suo regime era che anche i due ricercatori subirono una deprivazione di sonno, in una occasione, Dement fu multato e diffidato per aver guidato contromano in una strada a senso unico. La giustificazione fornita, che stava conducendo uno studio sugli effetti della deprivazione da sonno, non fece breccia nei poliziotti. In seguito, lo stesso Dement riconobbe che guidare mentre era stanco era stato un atto estremamente sconsiderato e che aveva pienamente meritato la multa. L’ultima notte dello studio, Dement portò Randy in una sala giochi dove giocarono, circa 100 partite al baseball meccanico. Randy vinse ogni volta, a dimostrazione del fatto che affrontava abbastanza bene le ore di deprivazione di sonno, oppure possiamo pensare che Dement fosse particolarmente scarso in questo gioco! Dement ricorda che verso la fine dell’impresa Randy riuscì a restare sveglio anche grazie all’attenzione che la sua prodezza aveva attirato su di lui: giornalisti dei quotidiani e reporter televisivi erano arrivati da tutto il mondo a San Diego per vedere se il record mondiale sarebbe stato battuto. Randy trovò la situazione estremamente eccitante e senza dubbio ciò aumentò la sua motivazione nell’andare avanti, Randy non voleva di certo fallire di fronte al pubblico di tutto il mondo. Alle 5 del mattino dell’ undicesimo giorno senza dormire, Randy tenne una conferenza stampa per annunciare che aveva battuto il record mondiale [4] di deprivazione da sonno. La sua prestazione durante la conferenza fu descritta come “ineccepibile”, parlò in modo eloquente e non vi fu alcun segno evidente di deprivazione da sonno. Randy dichiarò che la deprivazione da sonno era solo una questione di “forza di volontà” e che volendo avrebbe potuto resistere un altro giorno o persino due senza dormire ma era consapevole della necessità di tornare a scuola dopo l’interruzione natalizia! Il Dottor John Ross del locale Naval Hospital si offrì come volontario per monitorare il sonno di Randy nelle notti successive, e alle 6 del mattino Randy si addormentò, dopo aver raggiunto il record mondiale di 264 ore senza dormire. Si racconta che impiegò circa 3 secondi ad addormentarsi dal momento che appoggiò la testa sul cuscino, dormì per 14 ore e 40 minuti e si sentì bene al punto da riuscire ad andare a scuola il giorno seguente. La notte successiva dormì per 10 ore e mezza prima di venire svegliato per andare a scuola. Si stima che Randy abbia perso circa 75 ore di sonno negli 11 giorni della sua impresa. Non recuperò pienamente queste ore nelle notti successive, e anche lui esperì il fenomeno del REM rebound, passando la gran parte delle sue ore di sonno nella fase REM. In totale, solo il 24% del sonno totale perduto venne recuperato. Questa evidenza suggerisce che la fase REM è una fase particolarmente im-
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portante del sonno. Diversamente, dalle sue prime conclusioni derivanti dallo studio di Tripp, il caso di Randy Gardner portò Dement a concludere che la deprivazione da sonno non conduce inevitabilmente alla psicosi. La perdita di sonno non fece impazzire Randy. Quarantacinque anni dopo nessun altro aveva ancora infranto il record mondiale di Randy ed è improbabile che qualcun altro si cimenti nell’impresa tenuto conto del suo pericolo intrinseco. Dement si chiede se uno studio del genere avrebbe mai potuto ottenere al giorno d’oggi l’approvazione di un comitato etico. Vi sono stati altri resoconti di volontari che sono rimasti svegli per otto o dieci giorni in situazioni di laboratorio attentamente monitorate. Come Randy, nessuno di questi volontari ebbe gravi problemi psicologici o fisiologici, ma tutti soffrirono di un graduale calo delle capacità di concentrazione, motivazione e percezione all’aumentare del periodo di deprivazione di sonno. Tutti questi volontari recuperarono pienamente dopo poche notti di sonno. Viene spesso riportato che Randy non ebbe ripercussioni negative dalla sua impresa, tanto che Coren [5] afferma che questa conclusione è così diffusa che ormai viene riportato come “fatto” stereotipato in tutti i manuali di psichiatria e psicologia che hanno un capitolo sul sonno ma Dement menziona alcuni effetti collaterali esperiti da Randy. Dement notò che le abilità analitiche, la memoria, la percezione, la motivazione e il controllo motorio di Randy furono tutti colpiti in gradi diversi. Randy mostrava delle reazioni più lente e talvolta non era in grado di eseguire semplici calcoli matematici. Ciononostante, molti di questi deficit sono spesso non così rilevanti come uno si aspetterebbe. John Ross, dell’Unità di Ricerca Neuropsichiatrica allo US Navy Medical Hospital, descrive [6] i sintomi di Gardner molto in dettaglio. Egli riportò che dal secondo giorno, Randy aveva difficoltà a mantenere fissi gli occhi e dal quarto giorno soffriva di allucinazioni (scambiò un segnale stradale per una persona reale) e deliri (pensava di essere un famoso giocatore di football di colore), che continuarono ad andare e venire durante tutto il periodo dell’impresa. Ebbe episodi di pensiero sconnesso e il suo span attentivo era particolarmente breve. Quando gli venne chiesto di sottrarre al contrario partendo da 100 blocchi di 7 egli riuscì ad arrivare fino a 65 prima di dimenticare le consegne del compito. Coren rimase dell’idea che “prolungati periodi di deprivazione di sonno conducono alla comparsa di gravi sintomi mentali”. Allo stesso modo Dement [7] replica: “Non posso dire con assoluta certezza che stare sveglio per 264 ore non causi nessun problema psichiatrico”. È generalmente riconosciuto che Randy mostrò alcuni netti cambiamenti neurologici, il dibattito è relativo all’entità di questi sintomi: si trattava di sintomi minori o importanti? Secondo Dement Randy affrontò bene la deprivazione da sonno perché era giovane e fisicamente in forma. È stato dimostrato successivamente in esperimenti di deprivazione da sonno su giovani ratti che tali fattori sono di vitale importanza. Il caso di Randy fornisce risposte al quesito se il sonno sia necessario per il normale funzionamento umano o meno. Come accennato, i ricercatori continuano a discutere questo punto. È importante sottolineare il gran numero di problemi nella con-
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duzione degli studi sulla deprivazione da sonno. Forse il più importante consiste nel fatto che comprendere come funziona la deprivazione non necessariamente fa capire come avvenga l’attività del sonno. Altri meccanismi fisiologici, ad esempio, potrebbero avere un ruolo nel compensare gli effetti della perdita di sonno. In biologia molecolare, è stato dimostrato che l’eliminazione di un gene non sempre porta a un chiaro fenotipo: al contrario, un comportamento che è colpito in modo negativo dalla mancanza di sonno suggerisce che il sonno gioca un ruolo in quel comportamento, ma non prova che il sonno da solo sia il responsabile di quello specifico comportamento. Inoltre, fin dallo studio di Gardner, i ricercatori hanno dimostrato l’esistenza di subitanei intervalli in cui il soggetto si addormenta, detti “microsonni” che durano solo pochi secondi e che Dement riferisce essere stati esperiti anche da Gardner. Tali attività risultano evidenti solo per mezzo di strumenti di registrazione che consentono di monitorare l’aspetto fisiologico continuamente, cosicché ogni studio futuro dovrebbe utilizzare queste tecniche per assicurare che questi “microsonni” non aggiungano una significativa quantità di sonno nel lungo periodo. William Dement è uno degli esperti mondiali di sonno e studiò sia il caso di Peter Tripp che quello di Randy Gardner. Dement riporta risultati conflittuali e sostiene che, nonostante Randy Gardner non abbia sofferto di effetti collaterali in seguito alla sua impresa, la deprivazione di sonno può avere gravi conseguenze e porta come prova una serie di disastri tutti avvenuti in seguito a decisioni affrettate prese da persone che avevano sofferto della mancanza di sonno: la fuoriuscita di 42.000 metri cubi di greggio in seguito ad una manovra sbagliata da parte della super petroliera Exxon Valdez2, uno dei maggiori disastri per l’ecosistema con l’inquinamento di 1.900 km di coste; l’incidente della navicella spaziale Challenger3 e il disastro nucleare di Chernobyl4. Si stima che ogni anno negli Stati Uniti avvengano 24.000 incidenti automobilistici fatali attri-
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Exxon Valdez era il nome di una superpetroliera che il 24 marzo 1989 si incagliò in una scogliera dello stretto di Prince William, un’insenatura del golfo di Alaska disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di petrolio (NdT). Lo Space Shuttle Challenger fu distrutto in un incidente dopo soli 73 secondi di volo, la mattina del 28 gennaio 1986, a causa di un guasto a una guarnizione che provocò una fuoriuscita di fiamme che causarono un cedimento strutturale del serbatoio esterno. Il lancio fu trasmesso in diretta TV, anche se molti telespettatori lo seguirono in differita nella stessa giornata. L’evento fu molto pubblicizzato, e risultò particolarmente drammatico, poiché per la prima volta una insegnante, Corista McAuliffe, prendeva parte a un programma spaziale e gli studenti di tutto il mondo attendevano la trasmissione televisiva della sua lezione di scienze dallo spazio. (NdT). Il disastro di Černobyl’ è stato il più grave incidente nucleare della storia, avvenuto il 26 aprile 1986 presso la Centrale nucleare V.I. Lenin di Černobyl’, in Ucraina. Nel corso di un test definito “di sicurezza”, furono paradossalmente violate tutte le regole di sicurezza e di buon senso portando ad un brusco e incontrollato aumento di potenza (e quindi di temperatura) del nocciolo di un reattore della centrale, che provocò la rottura delle tubazioni di raffreddamento, innescando una fortissima esplosione e lo scoperchiamento del reattore. Una nube di materiali radioattivi fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale che furono pesantemente contaminate. Nubi radioattive raggiunsero anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia, raggiungendo anche l’Italia, la Francia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e i Balcani, fino anche a porzioni della costa orientale del Nord America. (NdT).
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buibili a stanchezza. Si suggerisce che in media un adulto abbia bisogno di circa otto ore di sonno per notte e si raccomanda alle persone di non accumulare un debito di sonno. Randy Gardner completò con successo la propria istruzione, ottenne un lavoro di collaborazione con uno dei ricercatori esperti di sonno. Non soffrì di effetti collaterali a lungo termine da deprivazione di sonno, è oggi in pensione e vive ancora a San Diego. Randy Gardner sarà per sempre conosciuto nella letteratura scientifica come “il ragazzo che non dormì”.
Bibliografia 1. de Manaceine M (1897) Sleep: Its physiology, pathology, hygiene and psychology. Walter Scott, London 2. Jouvet, M (1967) Mechanisms of the states of sleep: a neuropharmacological approach. Res Publ Assoc Res Nerv Ment Dis 45:86-126 3. Patrick GT, Gilbert JA (1896) On the effects of loss of sleep. Psychology Review, 3:469-483 4. Pinel J (2000) Biopsychology. Allyn & Bacon, Boston 5. Coren S (1998) Sleep deprivation, psychosis and mental efficiency. Psychiatric Times 15 (3) 6. Ross JJ (1965) Neurological findings after prolonged sleep deprivation. Archives of Neurology 12:399-403 7. Dement W, Vaughan C (2001) The Promise of Sleep. Pan Books, London
Psicologia fisiologica L’uomo che visse con un buco in testa: la storia di Phineas Gage
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Phineas Gage era caposquadra di un’impresa edile, che lavorava nel 1840 alla costruzione di una nuova linea ferroviaria che avrebbe attraversato il Vermont. Sovrintendeva ai lavori di scavo della roccia che bisognava far saltare in aria per spianare il terreno e posare i binari. Un giorno commise un errore cruciale e un metro di barra metallica, usata per mandar giù l’esplosivo, venne sparata in aria e atterrò a circa 30 metri di distanza. Sfortunatamente, prima di essere scagliata in aria, attraversò la guancia sinistra di Gage, forando la scatola cranica nella parte frontale per poi fuoriuscirne. Sorprendentemente, Gage sopravvisse, ma in seguito all’incidente la sua personalità ne uscì completamente cambiata. Divenne questo un caso da manuale nell’ambito delle neuroscienze e senz’altro uno dei più famosi casi studiati in psicologia.
Casi classici della psicologia. Geoff Rolls © Springer-Verlag Italia 2011
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L’uomo più fortunato Il 13 settembre 1848, Phineas Gage [1,2] si recò al lavoro come al solito, non sapendo che alla fine del giorno sarebbe stato il sopravvissuto più fortunato. Il suo lavoro consisteva nell’organizzare una squadra di operai per aprire la via a un tracciato diretto dove poter gettare i binari della nuova linea ferroviaria. Gage era un lavoratore eccezionale, molto meticoloso e popolare tra i colleghi, sia per il suo ruolo che per la sua precisione si occupava personalmente di piazzare le cariche di esplosivo. Si trattava di un lavoro pericoloso, ma anche di un lavoro adatto a Phineas che lo svolgeva con molta bravura. La procedura usata per piazzare l’esplosivo era sempre la stessa: il suo assistente metteva la polvere in un foro scavato precedentemente nella roccia, a quel punto veniva inserita la miccia, poi ricoperta con sabbia, che Phineas doveva “pressare” con una serie di colpi accurati inferti mediante una barra di metallo lunga circa 1 metro, in modo che la polvere potesse esplodere in profondità nella roccia, la sabbia così pressata infatti faceva sì che l’esplosione restasse all’interno della roccia. Phineas era un virtuoso della pressatura, al punto da farsi costruire una barra su misura per lui, realizzata dal fabbro in base a precise indicazioni dettate da Gage. Nessuno fu in grado di dire di chi fu esattamente la colpa, ma Phineas iniziò a pressare prima che il suo assistente avesse posizionato la sabbia. È probabile che una scintilla a contatto con il granito abbia innescato la miccia e che l’esplosione abbia spedito in aria la barra con Phineas ancora attaccato ad essa. La barra metallica atterrò a circa 20-25 metri di distanza impiastricciata del sangue e del tessuto cerebrale di Phineas essa era infatti penetrata nella guancia sinistra di Phineas e fuoriuscita dopo una frazione di secondo, forando la base della scatola cranica e attraversando la parte frontale del cervello. I suoi compagni di lavoro accorsero pensando di trovarlo morto. Incredibilmente, l’uomo era seduto con il sangue che sgorgava dalla sua ferita aperta. Era cosciente e subito iniziò a parlare in modo coerente dell’incidente. Fu trasportato dai suoi uomini su un carro trainato dai buoi nella città più vicina, a più di un chilometro di distanza, per esser medicato dal dottore locale. Quando il dottor Harlow arrivò circa mezz’ora dopo, Phineas scherzò persino sull’entità delle sue ferite mentre sedeva nel portico dell’hotel. Sebbene provasse un dolore considerevole, Phineas fu aiutato dal fatto che non vi sono recettori del dolore nel cervello, ma solo sulla superficie cutanea della testa.
Le sue ferite e opinioni contrastanti Il dottor Harlow non poteva credere all’entità del danno, vi era ben poco che la sua esperienza medica potesse fare in quella situazione, così si limitò semplicemente a radere la testa di Phineas, a rimuovere alcuni frammenti ossei e di tessuto cerebrale e pressare all’interno quelli più grandi, rimise anche dei pezzi del cranio a loro posto, pulì a fondo la pelle e bendò la ferita; lasciò la ferita nella bocca di Phineas intatta in modo tale che potesse spurgare. Il medico nutriva pochi dubbi che Phineas
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sarebbe morto in poche ore e l’ebanista locale venne a prendere le misure dell’uomo per costruirgli la bara. Passati i primi giorni, Phineas migliorò sensibilmente, riuscendo a restare sveglio e a parlare. Purtroppo, la ferita iniziò ad emanare un odore terribile e non vi furono dubbi che stava iniziando ad infettarsi inoltre, un ascesso iniziò a svilupparsi nel cervello. In quei giorni vi era un ampio dibattito tra i medici su cosa fosse necessario fare in tal caso: alcuni ritenevano che l’ascesso fosse parte del processo di rigenerazione cerebrale e dovesse essere spinto all’interno del cranio, altri invece credevano che dovesse venire rimosso. Il dottor Harlow lasciò sviluppare l’ascesso per un po’ prima che un amico gli mostrò che il recupero era ostacolato dall’ascesso che si stava sviluppando fuori dalla testa! Frustrato dalla sua mancanza di conoscenza e apprezzando il semplice ma realistico suggerimento dell’amico, decise immediatamente di rimuoverlo. A Phineas venne la febbre e iniziò a delirare. Enormi quantità di pus venivano drenate da sotto i suoi occhi. All’epoca, i dottori non avevano conoscenze sufficienti sulle infezioni batteriche, e la prognosi non poteva essere peggiore. Il dottor Harlow usò la tecnica del “salasso” per aspirare un po’ del sangue di Phineas, ritenendosi all’epoca, erroneamente, che i pazienti soffrivano a causa di un eccesso di sangue. Nel caso di Phineas questa tecnica lo aiutò realmente, poiché riducendo la pressione sanguigna, si ridusse di conseguenza anche la pressione sul suo cervello gonfio. Il fatto che il cranio fosse forato fece sì che Gage avesse subito un trauma cranico aperto il che permise anche al suo cervello di espandersi maggiormente all’interno del cranio stesso. Ventidue giorni dopo l’incidente, Phineas iniziò a recuperare e in dieci settimane recuperò a pieno le sue ferite, anche se perse la vista all’occhio sinistro, fisicamente recuperò quasi completamente, ma forse non psicologicamente.
“Gage non è più lui” Il dottor Harlow riportò che Phineas era in grado di svolgere tutti i compiti come prima dell’incidente, anche se era evidente ai suoi occhi che vi fosse in Phineas qualcosa di strano e stonato, che gli destava profonda preoccupazione per lo stato mentale dell’uomo. Sei mesi dopo l’incidente, Phineas ritornò dal suo datore di lavoro reclamando il proprio posto di lavoro. Le sue capacità fisiche sembravano essere buone, il suo linguaggio era chiaro e la sua memoria intatta. Comunque, dopo un periodo di prova il datore di lavoro fu costretto a sciogliere il contratto. Se molti resoconti riportano che Phineas aveva recuperato tutte le forze fisiche, altri riportano che aveva delle continue debolezze fisiche e comunque si registrò un evidente cambiamento nella sua personalità. L’uomo era diventato inattendibile, impaziente, ostile, maleducato e brusco, usava un linguaggio scurrile e volgare, cambiava i suoi progetti futuri in continuazione, era divenuto disinibito e mostrava una certa attitudine verso il rischio. In questo stato non poteva essere considerato affidabile e il medico e i suoi amici sostenevano “Gage non è più lui”. Nessuna forma di persuasione o nessun ragionamento aiutava Phineas a cambiare quel modo di fare – sembrava incapace di controllare il suo comportamento imprevedibile e offensivo, per-
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sino quando era così ovvio che ciò aveva un effetto dannoso nella sua vita. Nel frattempo il suo caso aveva richiamato l’attenzione di altri medici, in particolare quella del dottor Bigelow dall’Università di Harvard, Boston Massachussets, che chiese a Phineas di andare ad Harvard per essere sottoposto ad un esame approfondito. All’epoca non era facile esaminare il cervello e i medici cercavano di scoprire il suo funzionamento. Senz’altro esaminare un caso unico come quello di Phineas rappresentava un’occasione per avvicinarsi a tale comprensione: il fenomenale incidente di Phineas aveva causato un danno specifico ad un’area specifica del cervello. All’epoca erano diffuse due scuole di pensiero sul funzionamento cerebrale: vi era chi, come il dottor Bigelow, riteneva che l’intero cervello fosse coinvolto nei processi di pensiero e di comportamento, sostenendo inoltre che un danno in un’area specifica del cervello venisse compensato dalle altre aree cerebrali intatte. D’altro canto, nel diciannovesimo secolo, la frenologia era un paradigma ampiamente seguito e usato per spiegare il funzionamento cerebrale. Le funzioni di ogni regione erano inferite esaminando le caratteristiche esterne del cranio: protuberanze e rientranze del cranio venivano messe in relazione con il carattere di quella persona e, in tal modo, venne tracciata una “mappa mentale” del cervello. Non avendo evidenziata alcuna differenza tra crani maschili e femminili, l’idea della frenologia piacque alle donne, in quanto risultò di grande utilità nella loro lotta per l’eguaglianza tra sessi. Questa scuola di pensiero sosteneva l’idea che vi fosse una localizzazione specifica delle funzioni del cervello (punto di vista condiviso dal dottor Harlow), in tal senso specifiche aree del cervello svolgerebbero specifiche funzioni al punto che un danno in un’area provocherà uno specifico deficit del pensiero o del comportamento. La frenologia, “scienza” emergente, riecheggiava questo punto di vista che è ancor oggi visibile nei duplicati dei modelli che rappresentano la testa frenologica. I sostenitori delle due scuole di pensiero erano ovviamente interessati a casi come quello di Phineas Gage, essendo rara, infatti, per gli scienziati la possibilità di studiare le conseguenze di un danno profondo ai lobi frontali di un individuo. Virtualmente, la persona sarebbe dovuta essere morta a causa dell’entità del danno subito. Come succede spesso in simili dispute, il caso di Gage venne preso a sostegno di entrambi i punti di vista. Da una parte, c’era chi affermava che le altre aree del cervello di Phineas dovevano essere intervenute per sanare la funzione danneggiata, altrimenti sarebbe morto o ben più compromesso a livello cognitivo, e probabilmente non sarebbe stato in grado di pensare in modo appropriato, di controllare i suoi movimenti, di parlare e così via. Il caso veniva quindi portato come esempio per spiegare la complessità del cervello, il fatto che esso lavori in modo integrato e che vi sia una flessibilità tale da permettere ad altre aree di svolgere il lavoro di quelle compromesse. Il dottor Bigelow sosteneva tale punto di vista, e deliberatamente aveva sottovalutato i cambiamenti evidenti nel carattere di Phineas in seguito all’incidente allo scopo di rafforzare la sua posizione. D’altro canto, il dottor Harlow, sebbene provasse a mantenere i dati del paziente riservati, riferì ad alcuni colleghi fidati che Gage non era più lo stesso. Ciò fu preso come evidenza che le aree del cervello distrutte fossero responsabili di specifici pensieri e comportamenti che Gage aveva perso. Tali funzioni sembravano connesse principalmente con la capacità di pianificazione, ragionamento e con una disinibizione
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generale verso gli altri, evidente dalla mancanza di rispetto e dall’eloquio grossolano e rude. Considerando il modello frenologico in tale perdita erano incluse le regioni della benevolenza, della gentilezza e della piacevolezza, che in effetti erano localizzate proprio nell’area attraversata dalla barra metallica, i frenologi e i sostenitori della teoria localizzatoria delle funzioni cerebrali citavano il caso di Gage come esempio a sostegno del proprio punto di vista. In ogni caso, il dottor Harlow non pubblicò nulla sui cambiamenti del carattere di Gage se non diversi anni dopo la sua morte, cosicché il resoconto del dottor Bigelow di un Gage apparentemente illeso dopo l’incidente si diffuse a macchia d’olio. L’aspetto affascinante del caso è proprio in relazione al fatto che la stessa informazione può essere usata per sostenere due scuole di pensiero completamente opposte. Comunque, guardando al caso con le conoscenze attuali, non è sorprendente che entrambi questi gruppi lo potessero usare a sostegno, poiché entrambi i gruppi avevano parzialmente ragione. Attualmente è ormai certo che il cervello è un organo sorprendentemente complesso, un organismo interconnesso che comprende 10 miliardi di neuroni e che non funziona come un pezzo unico. È forse più accurato pensare al suo funzionamento come al funzionamento di circuiti individuali che lavorano insieme e che hanno specifiche funzioni. Persino attività come riconoscere un volto o richiamare alla mente un nome, che sembrano essere chiaramente localizzate in specifiche aree del cervello, funzionano in interconnessione ad altre aree. In sintesi, il cervello può essere visto sia come localizzato che come interconnesso, ciò di cui possiamo esser certi è che la frenologia come “scienza” è inesatta.
“L’unico uomo vivente con un buco nella testa” Il dottor Bigelow dichiarò che il caso di Gage era “il più notevole, mai osservato nella storia dei danni cerebrali”. Venne realizzato un calco in gesso del suo cranio, che ancora oggi si trova alla Scuola di Medicina dell’Università di Harvard, e dopo una serie di eccitanti settimane trascorse presso questa istituzione, Phineas Gage tornò alla sua vita. È controverso quello che avvenne in seguito nella vita di Gage, è possibile che egli andò in giro nelle principali città del New England a raccontare la sua storia ad un pubblico pagante che veniva ad esaminare il suo cranio e ad ispezionare la barra metallica. Anche se pochi documenti possono provarlo, per molto tempo ci fu chi sostenne che Phineas prese la sua barra metallica e calcò le scene come fenomeno da baraccone all’American Museum di PT Barnum1 a Broadway. Si esibiva mostrando un altro cranio, in cui aveva effettuato un buco con un trapano, per far capire alla gente che
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L’American Museum di PT Barnum sorgeva a New York e precisamente all’angolo tra Broadway e Ann Street e funzionò dal 1841 al 1865. Il suo proprietario era PT Barnum un famoso uomo di spettacolo che lo dirigeva insieme al suo partner, John Scudder, che ne fu in realtà il primo proprietario. PT Barnum sapeva come attrarre il pubblico e per questa ragione il museo era un luogo di intrattenimento che diveniva zoo, museo, teatro, dove si tenevano delle lezioni e anche degli spettacoli in cui persone con delle anomalie fisiche venivano messe in mostra (NdT).
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tipo di foro c’era nel suo cervello; veniva presentato come “l’unico uomo vivente con un buco nella testa” e i cartelloni pubblicitari lo mostravano con la barra di metallo ancora attaccata alla sua testa! Sebbene questa sia una gran storia, non risulta documentata in alcun modo:, appare probabile, che se fosse vera, qualche documento delle apparizioni dell’uomo sarebbe dovuto emergere da qualche fonte. In effetti, appare chiaro che Phineas, dovendo contendersi il palco con gli orangutan, le donne “barbute” e le “sirene”, dovesse risultare come un’attrazione di minor rilievo. Sembra che Phineas trascorse i successivi nove anni passando da un lavoro all’altro, lavorando prevalentemente con i cavalli, si sostiene che avesse lavorato a lungo in una scuderia e trascorso molti anni a guidare diligenze in Cile. Nel 1859, Phineas ritornò a vivere con sua madre a San Francisco dove fu impiegato in lavori agricoli, ma ogni lavoro diventava temporaneo, poiché trovava difficile adattarsi e lavorare con altre persone. Iniziò anche a soffrire di attacchi epilettici che aumentarono sia in frequenza che in intensità. Seppure la causa non fosse chiara ai medici appariva probabile che l’incidente avesse giocato una parte importante nella loro comparsa. Infine, il 21 maggio del 1860 Phineas Gage morì. Phineas fu seppellito senza gran pubblicità in un piccolo cimitero di San Francisco e nessuno seppe nulla di lui fino a quando nel 1866 il dottor Harlow, volendo scoprire cosa fosse accaduto al suo paziente più famoso, riuscì a rintracciare la madre di Phineas, la quale gli disse della morte del figlio, a quel punto il dottor Harlow le chiese il consenso per riesumare la salma e prendere il suo cranio per donarlo alla Scuola di Medicina dell’Università di Harvard. La madre di Phineas acconsentì: dalla bara estrassero un oggetto insolito, la barra di metallo che era penetrata nella testa di Phineas, che era stata sua compagna per tutta la sua vita e l’aveva accompagnato anche nella morte. Phineas era diventato molto bravo a raccontare la storia straordinaria del suo incidente a qualsiasi persona fosse interessata ad ascoltarlo e usava la barra di metallo come prova a dimostrazione della veridicità del suo racconto. Armato del cranio di Phineas, della barra di metallo e libero dalla preoccupazione della riservatezza dei dati del paziente, il dottor Harlow pubblicizzò il caso di Phineas Gage, sostenendo che l’incidente aveva gravemente colpito la personalità di Gage che aveva riportato un forte danno dalla diminuzione delle sue abilità sociali. Il medico fu in grado di dimostrare che negli undici anni seguiti all’incidente, Gage non era mai realmente guarito e che era vissuto letteralmente con un buco in testa. Ad Harlow va il merito di aver riportato all’attenzione il caso di Gage impedendo che venisse dimenticato e che fosse cancellato dagli annali storici della medicina.
Ricerche ulteriori Crani con danni simili causati da frecce o dagli effetti della trapanazione possono essere visti ancora oggi al Science Museum di Londra. La trapanazione è la forma più antica di chirurgia cerebrale e consiste nel forare il cranio del paziente. Tale pratica, che può essere considerata a tutti gli effetti una delle prime forme di psicochi-
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rurgia, veniva adottata storicamente, ritenendo che dal foro potessero essere liberati gli spiriti cattivi o i demoni. Si praticava inoltre nella convinzione che potesse alleviare gravi forme di emicrania, dovute alla pressione intracranica, in questi casi in effetti questo tipo di intervento poteva essere una terapia utile. Un anno dopo la morte di Gage, uno scienziato, Paul Broca, fece un ulteriore passo in avanti nella comprensione delle funzioni cerebrali studiando il caso di un paziente, Leborgne, che in seguito a ictus aveva conservato la capacità di comprendere il linguaggio trovando però impossibile pronunciare alcuna parola, ad eccezione dell’espressione “tan” (ci si riferisce spesso al paziente come il signor “Tan” proprio per questa ragione). Alla morte di Leborgne, si scoprì che egli aveva un danno in una piccola area del cervello nella parte inferiore del lobo frontale sinistro2. L’importanza di quest’area fu confermata attraverso lo studio di altri pazienti e prese il nome di area di Broca. Nel 1874, Carl Wernicke trovò un’altra area cruciale per la comprensione del linguaggio: gli individui che hanno subito un danno in quest’area (detta area di Wernicke) non sono più in grado di comprendere il “contenuto” delle parole quando le ascoltano e sono incapaci di produrre frasi di senso compiuto, il loro linguaggio presenta una struttura grammaticale, ma è completamente privo di senso. Alla luce di queste successive scoperte, sembra piuttosto sorprendente che Phineas non avesse sofferto di alcun disturbo di linguaggio. Certamente, tenendo conto della conoscenza delle neuroscienze del tempo, è impossibile sapere esattamente che tipo di danno avesse subito Phineas. Comunque, sull’ incidente sono stati effettuati almeno dodici studi che hanno cercato di comprendere l’esatto percorso effettuato dalla barra di metallo all’interno del suo cranio. Forse il lavoro più recente, condotto nel 1994 da Hanna Damasio e dai suoi collaboratori, ci fornisce le informazioni più dettagliate e accurate. Nello studio si è cercato di ricostruire il cranio di Gage in coordinate tridimensionali avvalendosi di una tecnica computerizzata, Brainvox, che permette di ricostruire immagini tridimensionali del cervello di esseri umani viventi, sulla base d’elaborazione di dati grezzi provenienti dalle immagini di risonanza magnetica3. Con tale tecnica sono state riprodotte le possibili traiettorie della barra, e quelle più probabili in relazione al foro di entrata e a quello di uscita ancora visibili sul cranio, tenendo conto anche delle sottili differenze anatomiche che possono esserci nei cervelli degli individui. Ma anche quando la traiettoria viene calcolata in modo così accurato non si può essere certi delle aree danneggiate, principalmente a causa delle differenze cerebrali anatomiche di ciascun individuo. Damasio et al. [4] successivamente confrontarono il cranio di Gage con 27 cervelli normali e fra questi ne identificarono 7 che presentavano virtualmente le stesse dimensioni anatomiche di Gage, a quel punto simularono la traiettoria della barra metallica attraverso ognuno di questi cervelli e trovarono che le aree cerebrali lese erano identiche in tutti e sette i casi, per questa ragione, si sentivano sicuri di poter sostenere di aver localizzato sia la traiettoria che le aree danneggiate
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Nel piede della terza circonvoluzione del lobo frontale di sinistra (NdT). I lettori italiani possono approfondire sia la tecnica utilizzata da Damasio e collaboratori, che l’affascinante caso di Phineas Gage [3].
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durante l’incidente. Precisamente identificarono le aree danneggiate come “la metà anteriore della corteccia frontale orbitale… le cortecce frontali mesiale anteriore e polare… e la parte più anteriore del giro cingolato anteriore” [4]. Ma persino con una tecnica così raffinata e accurata si possono sollevare dei dubbi aggiuntivi, ad esempio non è possibile essere sicuri dei danni causati dall’impatto al momento dell’incidente e di quelli derivanti dalle successive infezioni cerebrali, né quali possono essere realmente identificati attraverso lo studio del cranio. Inoltre, anche se accettiamo di conoscere i dettagli precisi del danno cerebrale, non possiamo essere certi degli effetti derivanti sulla personalità di Gage o sul suo comportamento, poiché l’uomo non fu mai studiato in modo sistematico, a quei tempi non venivano effettuate valutazioni neuropsicologiche sistematiche e standardizzate.
Postscriptum Il contributo di Gage va al di là della bizzarria medica – il suo danno ha cambiato la nostra comprensione sulla localizzazione delle funzioni cerebrali, in particolare nella corteccia frontale. Il suo caso diede anche un contributo importante alla chirurgia cerebrale, in quanto ventilò la possibilità che la maggior parte degli interventi cerebrali chirurgici potessero essere effettuati senza risultati nefasti. L’importanza di questo caso è enfatizzata dal fatto che viene ancor oggi citato nel 60% delle introduzioni dei manuali di psicologia. Nel 2008, due collezionisti di fotografie antiche, Jack e Beverly Wilgus, pubblicarono un vecchio dagherrotipo4 su internet di quello che credevano fosse un cacciatore di balene e il suo arpione. Alcuni studiosi commentarono immediatamente che non si trattava di un arpione e Michael Spurlock, un osservatore molto arguto, suggerì che potesse trattarsi di Phineas Gage. I Wilgus, a quel punto, controllando la ferita, evidente nella foto, constatarono la verosimiglianza con quella di un‘immagine del calco in gesso effettuato quando Phineas era ancora vivo. Il confronto, basato sui documenti internet riguardanti la fotografia, che ritraeva anche la barra metallica, con quella ancor oggi custodita ad Harvard, ha portato gli esperti a concordare che al 99% la foto ritraesse proprio Phineas Gage [5]. Sebbene vi siano stati altri casi di individui che hanno subito dei gravi danni cerebrali, Phineas Gage resta comunque l’esempio più noto di un individuo che avendo riportato un gravissimo danno cerebrale è riuscito a sopravvivere. Tenuto conto
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Il dagherrotipo è una vecchia fotografia che si ottiene utilizzando una lastra di rame su cui è stato applicato elettroliticamente uno strato d’argento, quest’ultimo viene sensibilizzato alla luce con vapori di iodio. La lastra deve quindi essere esposta entro un’ora e per un periodo variabile tra i 10 e i 15 minuti. Lo sviluppo avviene mediante vapori di mercurio a circa 60 °C, che rendono biancastre le zone precedentemente esposte alla luce. Il fissaggio conclusivo si ottiene con una soluzione di tiosofalto di sodio, che elimina gli ultimi residui di ioduro d’argento. L’immagine ottenuta, il dagherrotipo, non è riproducibile e deve essere osservata sotto un angolo particolare per riflettere la luce in modo opportuno (NdT).
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della gravità del danno che egli aveva subito in quel fatale giorno di settembre del 1848, non è un’esagerazione sostenere che all’epoca fu il sopravvissuto più fortunato. Per i restanti 11 anni della sua vita, egli ricordò spesso sia il suo incidente che la sua fortuna e nella letteratura scientifica ancor oggi viene descritto come “l’uomo che visse con un buco nella testa”.
Bibliografia 1. Macmillan M (2002) An Odd Kind of Fame: Stories of Phineas Gage. MIT Press, Cambridge, Massachussetts 2. Fleischman J (2002) Phineas Gage. Houghton Mifflin, Boston 3. Damasio A (1995) L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Adelphi, Milano 4. Damasio H, Grabowski T, Frank R, Galaburda A, Damasio A (1994) The return of Phineas Gage: Clues about the brain from the skull of a famous patient. Science 264:1102-1105 5. Wilgus J, Wilgus B (2009) Face to face with Phineas Gage. J Hist Neurosci 18:340-345
Psicologia fisiologica L’uomo senza cervello?
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Il professor John Lorber era intento a osservare la lastra del cervello dello studente seduto di fronte a lui, uno studente con un QI di 126 (la media è 100) che studiava per laurearsi in matematica. Gli era stato segnalato dal medico del campus che aveva notato come la testa del ragazzo fosse leggermente più larga del normale. Conoscendo l’interesse scientifico di Lorber per l’idrocefalo1, ritenne che lo studente potesse costituire un interessante caso per ulteriori approfondimenti. Le immagini svelarono però che il ragazzo non aveva praticamente cervello. Venne stimato che il suo encefalo pesava non più di 150 grammi, laddove il peso normale per un uomo della sua età è di circa 1500 grammi. Tale caso, così come l’esistenza di altri casi rari, condussero Lorber e collaboratori a porsi un quesito di base: il nostro cervello è realmente necessario? La storia riportata in questo capitolo ha messo in discussione la nostra comprensione del funzionamento del cervello umano ed è stata citata a sostegno della comune idea che noi useremmo solo il 10% del nostro cervello.
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Una condizione, spesso congenita, nella quale un accumulo anormale di fluido nei ventricoli cerebrali causa un allargamento del cranio e una compressione del cervello, distruggendo, durante questo processo, i neuroni.
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Background Il cervello umano è l’organo umano più complesso, costituito circa da 100.000.000.000 (100 miliardi) di neuroni e da 1.000 a 10.000 sinapsi, e connessioni, per ogni neurone. Le sinapsi possono trasmettere circa 10 impulsi al secondo, che producono un limite massimo di 10 quadrilioni di operazioni sinaptiche al secondo! I numeri sono difficili da apprezzare, ma qualcuno ha calcolato che un mucchio di 100 miliardi di fogli di carta prenderebbero circa 5.000 miglia, la distanza che intercorre da San Francisco a Londra [1]. In media il cervello umano pesa circa il 2% del peso corporeo, ma consuma avidamente circa il 25% dell’energia corporea. Date queste nozioni, non sorprende troppo che ci sia ancora molto da scoprire sul cervello umano. I fisiologi e gli psicologi hanno trascorso anni nel tentativo di localizzare le aree cerebrali responsabili di diverse funzioni. Uno dei primi tentativi scientifici in tal senso venne dalla frenologia che ha origine dalle teorie del medico viennese Franz Joseph Gall. Gall era convinto che la forma del cervello fosse determinata dallo sviluppo dei suoi organi costituenti, e quindi il cranio assumeva una determinata forma per adattarsi al cervello, la superficie del cranio forniva quindi indizi sulla personalità e sulle abilità psicologiche di un individuo, ad esempio, una protuberanza sulla fronte poteva essere indice della gentilezza di una persona. Dopo aver ottenuto grande popolarità in epoca vittoriana (negli anni trenta dell’Ottocento alcuni datori di lavoro chiedevano le referenze caratteriali ad un frenologo al fine di valutare le prospettive lavorative dei candidati!), la frenologia fu quasi completamente screditata verso la metà del diciannovesimo secolo [2]. Comunque, una delle assunzioni alla base della frenologia, la localizzazione cerebrale delle funzioni, è sopravvissuta fino ai nostri giorni. Con il termine localizzazione di una funzione si intende semplicemente che parti diverse del cervello si occupano di funzioni diverse (ad esempio, visione, movimento volontario, linguaggio e così via). Sebbene questo sembri ovvio, altri organi interni, come ad esempio il fegato, non funzionano certo così, infatti le varie parti del fegato svolgono essenzialmente lo stesso compito. Con il passare del tempo e soprattutto grazie a numerose ricerche cliniche, è stato dimostrato che le deduzioni frenologiche non fossero del tutto errate, almeno in relazione all’aspetto della localizzazione delle funzioni cerebrali, mentre lo erano rispetto al dettaglio funzionale, ossia in relazione al supposto ruolo della specifica area cerebrale.
Prime ricerche Uno dei primi pionieri nello studio scientifico delle funzioni cerebrali fu Karl Lashley (1890-1958) che studiava la localizzazione delle tracce di memoria o degli engrammi nel cervello. Il suo lavoro con i topi consisteva nell’addestrarli ad apprendere un percorso all’interno di un labirinto, per procedere successivamente alla rimozione sistematica di porzioni di corteccia cerebrale (fino a rimuovere ben
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il 50% della massa cerebrale) per poter osservare gli effetti delle lesioni sul percorso appreso. Lashley osservò che potevano essere asportate anche massicce porzioni di corteccia senza che apparentemente vi fosse effetto sulla memoria degli animali [3]. Lashley era solito scherzare dicendo che il problema non era localizzare gli engrammi, ma stabilire dove non fossero! Come risultato diretto di questo lavoro, Lashley formulò due principi. Nel primo, si sostiene che tutte le aree della corteccia cerebrale sono importanti nell’apprendimento e nella memoria, e che un’area corticale può svolgere il lavoro di un’altra area (principio di equipotenzialità). Nel secondo principio si afferma che le memorie per compiti complessi sono immagazzinate nella corteccia cerebrale, (principio dell’azione di massa) e non sono isolate e ristrette ad una singola area. In sintesi, la forza della memoria dipende dalla quantità di tessuto disponibile, quindi secondo lo scienziato la localizzazione delle lesioni non è importante quanto la quantità di tessuto cerebrale danneggiato. Il dato che dimostrava come i topi con pochissima corteccia cerebrale fossero ancora in grado di richiamare alla mente il percorso effettuato all’interno del labirinto condusse alcuni studiosi a domandarsi se la corteccia non fosse una componente vitale dell’apprendimento. Le scoperte provenienti dagli studi, inclusi quelli di Lashley, furono mal interpretate e presto divenne una credenza diffusa quella che gli esseri umani usano solo il 10% del loro cervello. Altre ricerche sperimentali che comprendono sia studi di gruppo che casi singoli hanno evidenziato l’esistenza di aree specifiche del cervello responsabili di funzioni diverse (ad esempio, l’area di Broca controlla la produzione del linguaggio). La metodologia di ricerca di Lashley era semplice e non abbastanza raffinata da scoprire l’origine della memoria. Ciononostante, Lashley accennava correttamente al fatto che molti apprendimenti implicano interconnessioni parallele di neuroni distribuiti ampiamente nel cervello. Questo tipo di attivazione dà l’idea di un’ “azione di massa” nella quale il cervello opera come un unico organismo, il paragone più calzante e accurato è quello con un’orchestra sinfonica i cui strumenti contribuiscono alla coerenza e alla fluidità del pezzo suonato. Nonostante gli studi che si oppongono a tale punto di vista siano in aumento, il dibattito sul ruolo della corteccia cerebrale è ancora attuale e vivace. Ad esempio, sebbene non sia documentato, è ampiamente riportato che Einstein era solito scherzare dicendo che la sua intelligenza fosse il risultato dell’intromissione di aree inutilizzate del suo cervello.
L’uomo senza cervello John Lorber, un pediatra e un esperto di spina bifida, fu spinto all’interno di questo dibattito dopo aver valutato un paziente inviatogli da un medico generico del campus universitario dell’Università di Sheffield. Lorber era un chirurgo specializzato nel trattamento dell’idrocefalo. Idrocefalo è una parola di origine greca (ydroképhalon) composta da ydro che significa “acqua” e kefalè “testa”. Tale patologia è caratterizzata da un anomalo ed eccessivo accumulo di liquido cerebrospinale (LCS) nel-
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le cavità, ventricoli, cerebrali. Se il LCS non viene riassorbito abbastanza rapidamente crea una pressione nei ventricoli e causa lo schiacciamento verso il cranio della corteccia cerebrale. Lorber praticava un intervento chirurgico inserendo delle valvole, dette “shunt”, allo scopo di ridurre la pressione causata dall’accumulo di LCS. Il medico era particolarmente sorpreso dal fatto che i pazienti sembravano avere nessuno, o pochi, deficit mentali anche quando le immagini cerebrali mostravano dei ventricoli estremamente allargati, che virtualmente erano poco distinguibili dalla corteccia cerebrale. Tra i suoi pazienti, il caso più famoso era quello di uno studente universitario con un QI di 126 che ottenne successivamente anche il titolo di laurea con lode. Lorber dichiarò che la corteccia cerebrale di questo ragazzo appariva nelle immagini del cervello non più spessa di un millimetro, completamente schiacciata dalla presenza di un idrocefalo, fatto impressionante se si paragonava il suo spessore con quello abituale solitamente pari a quattro o cinque centimetri. Lorber stimò che l’intero cervello del ragazzo pesasse circa 150 grammi, un peso irrisorio se confrontato con i normali 1500 grammi. Lorber successivamente pubblicò un articolo dal titolo provocatorio: “Il cervello è veramente necessario?” [4], mettendo in discussione l’utilità delle aree della corteccia cerebrale. In un documentario per la televisione, affermò: La mia impressione è che noi tutti abbiamo una considerevole riserva di neuroni e di cellule cerebrali… di cui non abbiamo bisogno e che non usiamo [5,6]. Lorber riportò di aver documentato circa 600 di questi casi che aveva distinto in quattro gruppi: (1) i casi con un cervello simile a quello normale (2) quelli con circa il 50-70% di LCS all’interno del cervello (3) quelli con il 70-90% di LCS e (4) quelli con il 95% di LCS. In quest’ultimo gruppo vi erano solo 60 casi e approssimativamente la metà di essi aveva un ritardo mentale profondo, mentre l’altra metà, che includeva anche il laureato in matematica, aveva un QI al di sopra del 100. In passato, nei bambini dove il cranio non era ancora completamente calcificato, era possibile vedere un palloncino che si creava all’esterno del cranio causato dalla pressione interna del LCS. Prima che venissero usate le moderne tecniche di drenaggio, un disturbo del genere poteva condurre alla morte. Alla fin fine cosa suggeriscono questi casi? Suggeriscono forse che molta della corteccia cerebrale è ridondante o è possibile rintracciare spiegazioni alternative?
Risultati contrastanti Una prima considerazione è costituita dal fatto che in molti di questi casi possa essere stata sovrastimata la perdita cerebrale. Lorber utilizzò una TAC (tomografia assiale computerizzata) per osservare le strutture interne del cervello. Si tratta di una procedura a raggi X che, combinata con un personal computer, può generare sezioni trasversali degli organi interni e delle strutture del corpo. Una delle critiche mosse fu che molto probabilmente le immagini TAC di una corteccia cerebrale
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spessa poco più di un millimetro potessero essere poco chiare, suggerendo che nella realtà dei fatti la corteccia potesse essere più spessa ma non visualizzabile con la tecnica in vivo. Lorber fu d’accordo sul fatto che la lettura della TAC fosse difficile ma rimase nella convinzione che la propria interpretazione del dato fosse corretta. Tecniche di neuroimmagine più avanzate avrebbero mostrato che la corteccia cerebrale non è “persa” ma compattata nell’unico spazio disponibile, dimostrando anche la notevole capacità del cervello di adattarsi alle circostanze, dato ulteriormente confermato dagli studi condotti su danni cerebrali insorti nell’infanzia. È infatti ben documentato che la capacità di recupero da un trauma cranico nei bambini è molto più rapida rispetto a quella degli adulti, proprio grazie alla plasticità e alle capacità di adattamento del cervello umano. Vi sono casi di bambini a cui è stato rimosso chirurgicamente un emisfero cerebrale che mostrano che dopo un periodo iniziale di riaggiustamento, i piccoli pazienti recuperano le abilità precedentemente acquisite, incluso il linguaggio. Tali evidenze suggeriscono che le aree rimanenti del cervello hanno vicariato le funzioni dell’emisfero rimosso. Questa procedura di “affollamento” potrebbe essere avvenuta anche nel caso del laureato in matematica riportato da Lorber. Resta aperto l’interrogativo circa la mancanza di deficit riportata da Lorber nei suoi pazienti, tra cui il più notevole è senz’altro il caso dello studente universitario. È possibile ipotizzare che alcuni degli effetti dell’idrocefalo siano abbastanza sottili e non facilmente rilevabili dai test cognitivi standard, tra cui anche quelli che misurano il livello cognitivo, come ad esempio le misure di QI.
Quanto è necessario il nostro cervello? Nonostante i casi studiati da Lorber, sembra che la corteccia cerebrale sia essenziale. Vi sono casi ben descritti di persone affette da deficit cognitivi particolarmente gravi in seguito a danni neurologici relativamente piccoli. Se molta della nostra sostanza grigia è ridondante, allora ci si può aspettare che le persone che hanno subito un danno cerebrale possano recuperarlo piuttosto in fretta. Inoltre, sembra improbabile che la selezione naturale abbia fatto sì che un organo, che richiede un consumo energetico così elevato, sia poco utile, oltre il fatto che avere un cervello così grande rende il momento del parto più difficoltoso e pericoloso sia per la madre che per il bambino. Un cervello più piccolo in grado di svolgere efficientemente tutte le funzioni cognitive sarebbe stato sicuramente vantaggioso e pertanto selezionato naturalmente nel processo di sopravvivenza della specie. Quindi il fatto che il nostro cervello sia così grande ha senz’altro un vantaggio a livello di selezione della specie. La ridondanza è un bene che non ha costi aggiuntivi, mentre i costi di un cervello più grande che pesa di più deve necessariamente essere controbilanciato dal beneficio della sua funzionalità. Le moderne tecniche di neuroimmagine hanno anche messo in evidenza quante aree del cervello si attivano durante diverse attività, dimostrando anche come un’ampia quantità cerebrale è coinvolta in quasi tutte le attività. Persino durante il sonno,
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che sembra un processo più passivo che attivo, il cervello è particolarmente attivo, soprattutto quando si sogna – tanto che il sonno caratterizzato dai sogni è spesso chiamato “sonno attivo”. Prima della sua morte, avvenuta nel 1996, Lorber, che già aveva una reputazione controversa, ammise la possibilità di aver esagerato i suoi dati, sostenendo che ciò fosse stato necessario per ottenere l’attenzione degli altri. Riteneva che troppo spesso i risultati non in accordo con spiegazioni in auge vengono marginalizzati come risultati “anomali”. Continuò a sostenere che dovevano esserci ridondanza e capacità risparmiate nel cervello, così come avveniva per altri organi, quali i reni o il fegato. I dati sperimentali provenienti dagli studi sui ratti vanno a sostegno della posizione di Lorber: i ratti a cui sono state rimosse larghe aree di corteccia cerebrale sembrano avere grosse disfunzioni, mentre i ratti a cui la stessa larga porzione di corteccia cerebrale è stata rimossa in fasi successive recuperano bene e mostrano pochi deficit. Questo risultato sembra rispecchiare gli effetti graduali che avvengono durante la formazione e l’accrescimento di un idrocefalo che Lorber osservava nei suoi pazienti. Ai nostri giorni, l’idea di capacità di riserva nel cervello resta un argomento controverso, sembra più probabile che avvenga una nuova assegnazione di funzioni, particolarmente quando parliamo di danni in un cervello in via di sviluppo, come può essere quello di un bambino. Sulla base dei risultati sperimentali, è certo che la corteccia cerebrale sia necessaria e che l’affermazione che venga usato solo il 10% del nostro cervello costituisca un mito o una “leggenda metropolitana”. Siamo ormai abbastanza certi che usiamo tutto il tempo tutto il nostro cervello. I casi descritti da Lorber rappresentano uno sguardo affascinante su come funziona il cervello, ma più che fornire prove della sua ridondanza, mettono in evidenza la sua sorprendente adattabilità e complessità. Una complessità che stiamo solo iniziando a comprendere…
Bibliografia 1. www.brainconnection.com 2. http://pages.britishlibrary.net/phrenology/overview.htm#whatwasit 3. Lashley K (1950) In search of the engram. In: Physiological Mechanisms in Animal Behaviour. Academic Press, New York 4. Lorber J (1981) Is your brain really necessary? Nursing Mirror 152:29-30 5. Beyerstein B (1998) Whence cometh the myth that we only use ten per cent of our brains? 6. Della Sala S (1999) Mind-Myths. John Wiley, Chichester
Psicologia animale e comparata Parlare agli animali: Washoe e Roger Fouts
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Parlare con gli animali è sempre stato uno dei desideri dell’uomo. Una speranza rimasta vana per anni, fino al momento in cui un gruppo di ricercatori è riuscito a insegnare la Lingua dei Segni Americani (ASL) a una scimpanzé di nome Washoe. Dopo oltre 30 anni, Washoe sembrava comprendere e produrre l’ASL, fornendo delle forti prove a favore del fatto che gli animali potessero apprendere e usare il linguaggio. Questo studio ha aiutato a comprendere il comportamento degli scimpanzé, sviluppando il dibattito sull’etica dell’utilizzo di questi animali nella ricerca biomedica. Roger Fouts ha lavorato con Washoe per oltre 30 anni sia come insegnante che come ricercatore, la sua storia è un racconto sorprendente della relazione tra un essere umano e uno scimpanzé, che hanno condiviso uno stesso linguaggio e che hanno contribuito a fornire notevoli intuizioni sul nostro posto nel regno animale.
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I primi tentativi Non erano solo Tarzan o il Dottor Doolittle a voler parlare con gli animali, ma a differenza loro la maggior parte dei nostri tentativi di conversazione col regno animale erano stati deludenti. Uno dei primi documenti scientifici che riporta l’abilità di un uomo di parlare con gli animali riguardava un cavallo soprannominato “Clever Hans”. Nel 1891 William von Osten, tedesco, affermò che il suo cavallo, “Clever Hans”, era in grado di rispondere a diverse domande semplicemente battendo il suo zoccolo a terra. Per quesiti matematici, Hans batteva a terra con lo zoccolo tante volte quante il numero da produrre, in caso di risposte che richiedevano lettere, l’alfabeto era codificato come A = un colpo, B = due colpi e così via. Incredibilmente, Hans sembrava in grado di addizionare, sottrarre, moltiplicare, dividere, riportare il tempo, i giorni della settimana, leggere, fare lo spelling e comprendere il tedesco. Von Osten credeva che gli animali possedessero un’intelligenza uguale a quella degli uomini, nel tentativo di dimostrarlo, provò ad insegnare a diversi animali, inclusi un gatto e un orso, a fare semplici calcoli matematici, ma fu solo Hans a dimostrare di possedere veramente tali abilità. Clever Hans andò in tournée per l’Europa, le sue esibizioni erano sensazionali ed il pubblico si accalcava per vedere le sue sorprendenti prestazioni. L’animale fu valutato anche dal Professor Carl Stumpf, della Scuola di Psicologia Sperimentale di Berlino nel 1904, che attestò la genuinità delle sue abilità. Nel 1907 la “Commissione Hans” testò le capacità del cavallo con maggior rigore rilevando che l’animale era in grado di rispondere solo se si trovava nella condizione di vedere l’intervistatore e solo a quelle domande di cui l’intervistatore conosceva la risposta. Sembra quindi evidente che Hans rispondeva a suggerimenti visivi forniti dall’intervistatore, essendo in grado di decifrare, per formulare la risposta corretta, piccoli movimenti involontari che l’intervistatore forniva. Avvalendosi di questi suggerimenti, Hans si fermava e forniva la risposta giusta. Nonostante, la valenza di tale abilità, si dimostrava però che Hans non capiva il tedesco o la matematica o qualsiasi altra disciplina, e che dopotutto “Clever Hans” non era così intelligente. Altri tentativi di instaurare una conversazione con gli animali sono stati caratterizzati da successi apparenti seguiti da successivi fallimenti, anche se, negli ultimi 50 anni, la ricerca ha iniziato a dimostrare che parlare con gli animali può non essere una meta così impossibile da raggiungere come ritenuto inizialmente. La psicologia è attraversata da un lungo dibattito sul tema di ciò che rende gli esseri umani diversi dagli animali1, e diversi scienziati nel corso dei decenni hanno tentato di rispondere al quesito su quanto simili o diversi siano gli esseri umani dal resto del regno animale. Sono gli esseri umani qualitativamente diversi, o siamo in presenza esclusivamente di una differenza quantitativa misurabile secondo un continuum biologico?
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Gli psicologi spesso usano un termine maldestro “animali non umani” per riferirsi agli “animali” poiché gli umani sono, di certo, anche animali. In questo capitolo, userò il termine “animale” per riferirmi agli “animali non umani”.
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Prima dello scritto di Darwin del 1859, si riteneva generalmente che gli esseri umani fossero separati e distinti dagli animali in quanto ritenuti gli unici esseri viventi con un’anima e gli unici in grado di usare il linguaggio. Molti famosi filosofi, inclusi Plauto, Aristotele, Cartesio e Huxley sostenevano che parlare con gli animali fosse impossibile e che vi fosse un baratro tra ciò che costituisce un uomo e ciò che costituisce un animale. Darwin, nel 1859, teorizzò l’evoluzione degli esseri umani come risultato di una sorta di “discendenza con modificazione”, probabilmente derivata dalle scimmie della savana africana. La teoria dell’evoluzione della specie venne usata a sostegno dell’idea di un continuum tra uomo e animale, con lo sfortunato risultato iniziale che molte razze non-europee furono trattate come esseri inferiori lungo il continuum della civilizzazione, tesi esposte e presentate in diverse Fiere della Scienza sia in America che in Europa (Savage-Rumbaugh e Lewin, 1994) [1]. Un esempio è quello che accadde alla Fiera Mondiale di St. Louis del 1904, dove alcuni pigmei furono alloggiati con scimpanzé e scimmie poiché considerati più vicini a queste creature che agli Europei. Sebbene la teoria di Darwin sia stata usata in modo improprio, lo stesso Darwin non sembrava essere in grado di individuare alcune differenze ovvie tra uomini e animali, o tra diverse razze umane. In tal caso, potrebbero le specie a noi più vicine comprendere il linguaggio nello stesso modo in cui razze diverse apprendono a parlare lingue diverse?
Washoe: una scimpanzé speciale A marzo del 1967, un giovane laureato di nome Roger Fouts fece domanda per un posto di dottorato in Psicologia Sperimentale all’Università del Nevada a Reno, negli Stati Uniti. Per pagare la retta universitaria ed affrontare le diverse spese fece richiesta per un posto da assistente universitario: il lavoro consisteva nell’insegnare agli scimpanzè a parlare. Disperatamente alla ricerca di denaro e incuriosito dall’idea Fouts accettò e così iniziò il lavoro della sua vita con uno scimpanzé femmina di nome Washoe [2,3]. Il primo colloquio di lavoro si svolse nell’agosto del 1967, quando per la prima volta Fouts incontrò i coniugi Allen e Beatrix Gardner, parte del team di ricerca che si occupava del Progetto Washoe [4]. Fouts racconta che durante il colloquio emerse la sua ignoranza sull’argomento, ma che dal primo contatto con Washoe, una femmina di scimpanzé di due anni, fu sicuro di poter ottenere quel lavoro. La scimpanzè poteva giocare libera nel cortile del nido dell’università la domenica, giorno in cui non erano presenti i bambini frequentanti la scuola. Dopo il deludente colloquio, Allen Gardner e Fouts attraversarono il cortile e Washoe li individuò da lontano, emettendo dei gridolini eccitati e raggiungendoli di corsa, saltò in braccio a Fouts abbracciandolo calorosamente. Fouts ritenne di aver ottenuto il lavoro proprio grazie a questo episodio. Un mese dopo Fouts iniziò a lavorare nella casa dei Gardner, una casa a piano terra con 5.000 mq. di cortile, garage annesso, e una roulotte dove viveva Washoe. Era questo il laboratorio dei Gardner. Entrando in casa Fouts notò che tutti bisbigliavano,
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i Gardner non volevano che Washoe venisse esposta alla lingua parlata, infatti Fouts avrebbe conversato con Washoe utilizzando esclusivamente la Lingua dei Segni Americana (ASL). L’idea della coppia era che Washoe non dovesse realizzare che gli esseri umani utilizzavano un’altra modalità, quella parlata, per comunicare, essendo noto ormai da tempo che gli scimpanzè non possono parlare a causa di limitazioni nella fisiologia del loro tratto orale. Washoe venne allevata come un cucciolo umano, ad esempio le fu fatto indossare inizialmente il pannolino, dove fare i propri bisogni, e successivamente fu Fouts ad insegnarle l’uso del vasino. Fouts lasciò inizialmente numerosi vasini dentro la roulotte ed in giro per il cortile, e finalmente, dopo una serie di contrattempi, Washoe iniziò ad usarli, realizzando forse che fosse più semplice usare il vasino piuttosto che i pannolini. Sotto il profilo comunicativo Washoe era già in grado di usare alcuni segni semplici della lingua dei segni: segnava IN FRETTA, nel momento in cui si dirigeva in fretta e furia verso il vasino in cortile, e segnava NON POSSO NON POSSO in risposta a Fouts che le diceva di raggiungere la toilette.
Linguaggio degli scimpanzé? L’idea dei Gardner era che, essendo gli scimpanzè i parenti più vicini all’uomo, potessero avere la stessa capacità innata per il linguaggio; inoltre i risultati incoraggianti delle ricerche di Konrad Lorenz con gli anatroccoli e le papere che mostravano come questi animali potessero ricevere un imprinting verso il primo oggetto in movimento che vedevano, suggerì ai Gardner che Washoe potesse essere in grado di apprendere nuove abilità in un ambiente adatto. Già in passato erano stati riportati casi aneddotici di scimpanzè adottati da famiglie di umani che avevano appreso a svolgere diversi compiti, come ad esempio mangiare con le posate, lavarsi i denti con lo spazzolino e sfogliare riviste, ma nessuno fino ad allora aveva mai insegnato con successo l’uso della lingua dei segni agli scimpanzè2. L’idea dominante nella comunità scientifica dell’epoca era comunque che il linguaggio fosse al di là delle capacità degli scimpanzè e delle scimmie. Fouts, ed altri nel suo campo, sostenevano che il fallimento conseguito da alcuni studiosi nell’insegnare una lingua alle scimmie, non potesse costituire una ragione per sostenere l’impossibilità di tale evento, inoltre, che gli insuccessi conseguiti potessero essere ascritti ad un errore metodologico nell’approccio al problema, sostenendo che le giuste condizioni e un metodo corretto di insegnamento o di addestramento avrebbero consentito di raggiungere importanti scoperte. I Gardner sostenevano che il problema era individuabile nel fatto che i ricercatori avevano fatto corrispondere il linguaggio con il linguaggio parlato, ma di per sé il linguaggio parlato è solo un modo per comunicare e, considerata la fisiologia e il comportamento degli scimpanzè, non era certo il modo più promettente. In tal senso i Gard-
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Keith e Cathy Hayes sono riusciti ad insegnare al loro scimpanzé Viki pochi segni del linguaggio dei segni [5].
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ner decisero di usare al posto del linguaggio parlato la Lingua dei Segni Americana (ASL), utilizzandola immediatamente in una ricerca sul campo. Il progetto era di continuare il programma già avviato che aveva avuto successo nell’insegnare agli scimpanzè ad agire come esseri umani ma senza l’uso del linguaggio, aggiungendo nel nuovo programma l’ASL al posto del linguaggio. Il programma comprendeva attività ludiche, giocattoli, libri e riviste che insegnavano come usare l’ASL. I ricercatori che lavoravano con Washoe non si parlavano l’un l’altro, ma conversavano tra di loro usando la lingua dei segni. In sintesi, Washoe non aveva mai sentito il linguaggio parlato ed aveva esperito solo l’ASL. Washoe iniziò immediatamente a segnare percorrendo le stesse tappe di sviluppo dei bambini umani che apprendono a parlare: quando voleva BERE, faceva il pugno con il pollice spiegato verso la bocca; per indicare ASCOLTARE, si toccava le orecchie con l’indice della mano, e così via. Dopo quasi un anno, Washoe aveva iniziato a combinare i segni come SPORCO BUONO per indicare il vasino e BIMBA MIA quando teneva in braccio la sua bambola. Washoe iniziò a segnare un giorno che Fouts la portava sulle spalle, dicendogli VAI LÌ, e poco dopo segnando la parola BUFFO, Fouts inizialmente non capì fino a quando non sentì l’urina di Washoe scorrergli lungo la schiena fino a finirgli nei calzoncini! Fouts notò che il modo più semplice per insegnare a Washoe la lingua era attraverso il gioco; a tal fine ideò numerose forme di “nascondino” o di “Simon dice3”, trascorse diverse ore a segnare per Washoe storie tratte da libri o riviste. In seguito Washoe avrebbe dovuto riprodurre disegnandolo quello che aveva visto. Washoe trascorreva ore pedalando su un triciclo, saltando su un materasso o dondolandosi sui rami. Mentre lavorava con Washoe, Fouts si chiedeva quali fossero le sue origini, ipotizzando che fosse stata catturata da cacciatori africani, abituati a sparare alle madri degli scimpanzè e a vendere i loro cuccioli negli Stati Uniti. Il viaggio era molto difficoltoso e solo il 10% dei cuccioli di scimpanzè sopravvivevano e arrivavano in Occidente. Nel 1966 un cucciolo di 10 mesi si trovava al Laboratorio di Medicina dell’Aeronautica, proprio mentre i Gardner erano in visita nella speranza di ottenere uno scimpanzé per le loro ricerche. Fu così che ottennero Washoe, la portarono nella loro casa in Nevada e la chiamarono col nome della contea nella quale avrebbe vissuto: Washoe. Il segno che usavano per WASHOE era una doppia W eseguita con le mani dietro le orecchie, che letteralmente significava: “Washoe grandi orecchie”! Washoe mostrò di possedere molte altre abilità oltre la capacità di comprendere l’ASL. Mostrava ogni giorno di avere ottime capacità di problem-solving: quando un nuovo zerbino, ad esempio,veniva messo fuori dalla sua roulotte, Washoe appariva inizialmente molto spaventata, ma riusciva a superare la paura posizionando una
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“Simon Says” è un gioco per bambini molto popolare, in cui si gioca in tre o più giocatori e dove uno interpreta il ruolo di “Simon” e impartisce istruzioni, di solito chiede ai partecipanti di fare delle azioni fisiche, ad esempio salta a piedi uniti o fai l’occhiolino. Gli altri partecipanti devono eseguire le istruzioni di Simon esclamando prima “Simon dice”, ad esempio: “Simon dice salta a piedi uniti”, possono essere eliminati se non eseguono le istruzioni correttamente o se non le impartiscono dopo aver pronunciato la frase “Simon dice...” seguita dall’istruzione (NdT).
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bambola sullo zerbino per pochi minuti, e controllando che non le venisse fatto alcun male, solo a quel punto accettava di muoversi non avendo nulla da temere dal nuovo zerbino. Come molti genitori sanno, i bambini sono molto bravi nel manipolare gli adulti e Washoe non faceva eccezione. Un giorno mentre Fouts stava riordinando dopo la colazione, richiudendo il cibo nella credenza , notò Washoe intenta a guardare qualcosa dietro una roccia in giardino. Chiedendosi cosa potesse essere Fouts uscì fuori per guardare cosa avesse attratto così tanto l’attenzione di Washoe, ma non appena Fouts uscì dalla roulotte la scimmia corse dentro, aprì la credenza che non era ancora stata chiusa e rubò una bevanda rifugiandosi al sicuro su un albero. Fouts non trovò nulla sotto la roccia, e realizzò che si era trattato di un piano deliberatamente architettato da Washoe per facilitare il furto della bibita. Un’altra dimostrazione delle complesse capacità cognitive di Washoe riguardava il mangiare l’uva verde. Le viti in cortile, occasionalmente, producevano dell’uva verde piuttosto acerba che procurava a Washoe una forte diarrea. Washoe realizzò che Fouts non voleva farle mangiare i grappoli e smise, ma quando voleva qualcosa che non le era consentito, si arrampicava sulle viti e minacciava Fouts facendogli capire che avrebbe mangiato i grappoli, inducendolo in genere a cedere alle proprie minacce. Nei casi in cui Fouts non la accontentava Washoe si arrampicava sul ramo più alto e gli urinava addosso! Fouts sentiva di rivestire il ruolo del fratello maggiore nei confronti di Washoe, la bambina piccola, osservandone tutti i giorni l’uso del linguaggio nella vita quotidiana. Ad esempio, Washoe poteva fare il segno di SILENZIO, quando entrava in una stanza e non voleva farsi vedere. Giocava spesso con le sue bambole durante la giornata ed era abituata a conversare con loro, usando la lingua dei segni, parlando loro come avrebbe fatto qualsiasi altro bambino. Ai critici che sostenevano che Washoe si limitava ad imitare e copiare il comportamento umano, come un qualsiasi protagonista del circo, si può facilmente dimostrare che questo non era vero. Infatti, lei era stata circondata da adulti che si prendevano cura di lei che si comportava come una bambina (ad esempio, giocava con le bambole), e a tal proposito bisogna considerare che Washoe non fu mai avvicinata ad un bambino. Fouts e Washoe facevano spesso delle gite fuori porta, visitavano i parchi, proprio come farebbe un genitore con il proprio bambino, le gite alla fine vennero interrotte perché Fouts non voleva che Washoe sentisse parlare le persone ed inoltre perché la sua presenza nei centri commerciali o nei parchi causava grande agitazione nelle persone che incontravano e che vedevano un piccolo di scimpanzè andare in giro come se fosse un bambino. Inoltre era difficilmente trasportabile, non poteva essere presa facilmente in braccio, come quando era più piccola, dal momento che era orami cresciuta.
Semplice condizionamento? Forse la teoria psicologica più popolare a quei tempi per spiegare l’apprendimento era quella proposta da B.F. Skinner dell’Università di Harvard, il quale suggeriva che l’apprendimento del linguaggio, così come altre forme di apprendimento, pote-
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va essere spiegato dal condizionamento operante, vale a dire che il comportamento si modella tramite il comportamento stesso. Detto in modo semplice, i rinforzi (le ricompense) o le punizioni operano per modellare e modificare il nostro comportamento. Se noi eseguiamo un’azione (scrivere un saggio) e otteniamo un premio (ad esempio, una lode) saremo portati a ripetere questo comportamento. Se mangiamo una bacca e ci sentiamo male, non saremo tentati di ripetere questo comportamento. Secondo Skinner l’apprendimento del linguaggio avverrebbe nello stesso modo, attraverso premi e punizioni. I genitori ci ricompensano per le vocalizzazioni (incoraggiamenti, sorrisi, attenzioni) e più vicina sarà la vocalizzazione alla parola desiderata più grandi saranno i premi. So bene questo, avendo passato ore ad incoraggiare i miei figli a dire “Papà” come prima parola! I Gardner credevano che questo metodo fosse quello adatto per Washoe, decisero quindi di usare le tecniche di condizionamento operante. Come succede spesso, la teoria è difficile da mettere in pratica. Decisero di usare numerose ricompense, il cibo, il solletico e i giochi, ma realizzarono presto che usare queste tecniche era impossibile. Spesso Washoe si spostava da un gesto ad un altro, occasionalmente produceva un segno approssimato che loro volevano ricompensare, ma nel momento in cui il premio (un applauso o un sorriso) veniva presentato Washoe stava già facendo qualcos’altro. Dopo mesi di condizionamento, Fouts riconobbe che Washoe aveva appreso un solo segno grazie a questo metodo, sostenendo che questo sistema funzionava solo in condizioni molto rigide di laboratorio, cosa che spiegava anche il motivo che aveva indotto Skinner ad ideare le cosiddette Skinner box, ideate proprio al fine di avere un controllo completo sull’ambiente in cui si trovavano gli animali, che generalmente erano ratti. Washoe apprese i segni per imitazione – semplicemente osservandoli mentre venivano usati. Era in grado di coglierli anche senza l’istruzione precisa di farlo, ad esempio Fouts poteva indicare la macchina e segnare MACCHINA e successivamente Washoe utilizzava lo stesso segno quando vedeva una macchina. Qualche volta il segno usato inizialmente da Washoe poteva non essere molto accurato, ma poteva correggerlo guardando gli adulti intorno a lei segnare. Ancora una volta questo comportamento riproduceva quello dei bambini umani che inizialmente possono pronunciare male le nuove parole, ma che successivamente dopo averle ripetutamente ascoltate, apprendono a produrle in modo più accurato. Fouts aiutava Washoe guidandola nei segni, ad esempio indicava un oggetto e poi posizionava le sue dita in modo tale che fossero correttamente impostate. Washoe apprendeva in questo modo, dimostrando molto bene una flessibilità nell’apprendimento diversamente da quello che si può osservare nelle performance degli animali del circo. A Washoe non fu insegnato, e non venne condizionata in nessun modo formale, apprendeva spontaneamente e nella maggior parte dei casi l’apprendimento iniziava attraverso il gioco. La fame o il cibo possono essere dei buoni rinforzi primari, ma Fouts trovava che, se Washoe era affamata i segni deterioravano in una ripetitiva richiesta di cibo. Vi sono studi condotti sugli esseri umani che dimostrano come un rinforzo positivo (ad esempio, il denaro) possa produrre delle conseguenze negative e ridurre la performance in compiti creativi o nei compiti che vengono svolti per il piacere di farli, ossia compiti in cui la motivazione intrinseca è già alta.
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Amabile [6] chiese a 72 scrittori di scrivere alcune poesie, ad alcuni furono date delle ragioni estrinseche per farlo: il pagamento del loro lavoro, ad altri invece furono date delle ragioni intrinseche: il divertimento in sé del compito creativo. I loro sforzi furono valutati da 12 poeti indipendenti e l’ampiezza e la qualità dei lavori del gruppo dei poeti con motivazione intrinseca furono giudicate più alte di quelle dei lavori del gruppo con motivazione estrinseca. Altri studi vanno a sostegno di queste scoperte, ad esempio ai bambini piace disegnare e quando viene offerta una ricompensa per i loro disegni, disegnano meno di quelli che lo fanno puramente per divertimento e a cui non sono mai stati offerti degli incentivi finanziari. Questo è vero anche per gli adolescenti a cui viene offerto del denaro per fare dei giochi di parole che si divertono meno rispetto ai loro coetanei a cui non è mai stata offerta nessuna ricompensa [7]. Per Washoe, l’apprendimento della lingua dei segni doveva essere una ricompensa di per sé, in quanto le permetteva di controllare il suo ambiente (ricompensa intrinseca) e non erano necessarie altre ricompense esterne. I ricatti e gli scherzi che Washoe realizzava, dimostravano senza ombra di dubbio a Fouts e ai Gardner che gli scimpanzè erano gli animali più vicini all’uomo, biologicamente, da un punto di vista comportamentale, e in modo più cruciale, cognitivamente. Tutto ciò non è una grande sorpresa: alcuni ricercatori avevano già dimostrato che gli scimpanzè erano in grado di usare degli utensili per mangiare le termiti o rompere le arachidi, ed infatti la parola “scimpanzè” deriva dal dialetto congolese e significa “imitazione di uomo”. Inoltre, Sibley e Ahlquist [8] hanno mostrato che esseri umani e scimpanzè condividono il 98,4% del loro DNA costituendo tra le specie di primati non umani quella più vicina all’uomo, più di quanto non lo siano ad esempio gorilla e orangutan. Alcuni psicologi si sono chiesti se Washoe usasse il linguaggio in modo simile agli esseri umani. I Gardner e Fouts usarono una tecnica definita doppio-cieco che mostrava come Washoe non si limitasse a rispondere a suggerimenti come aveva fatto anni prima il Clever Hans. Per escludere definitivamente questo sospetto, organizzarono una cabina in cui il ricercatore posizionava alcuni oggetti che Washoe poteva vedere, quindi Washoe doveva segnare un oggetto ad un altro osservatore che si trovava in un’altra cabina e che non poteva vedere l’oggetto. Washoe eseguiva la maggior parte dei compiti molto bene, sebbene alcune riproduzioni di oggetti creassero delle difficoltà: ad esempio produceva il segno BABY per indicare la foto di una macchina riprodotta in miniatura, evidentemente riferendo il segno al concetto di piccolo e non di macchina. Avendo interpretato questi possibili fraintendimenti i ricercatori erano in grado di comprendere correttamente quanto segnato da Washoe, anzi osservavano che le figure funzionavano quasi come gli oggetti reali, scoperta che permise di procedere molto più rapidamente. Quando raggiunse i quattro anni di età, Washoe era in grado di eseguire l’80% delle prove in modo corretto, e gli errori che commetteva erano utili informazioni sullo stato delle sue conoscenze. Ad esempio, poteva segnare PETTINE al posto di SPAZZOLA o MUCCA per CANE, ma non si confondeva mai tra categorie, suggerendo che aveva sviluppato una rappresentazione gerarchica di classi e categorie. Il suo vocabolario aumentava rapidamente e si espandeva, includendo diversi tipi di frasi: le
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attributive (LE TUE SCARPE), le azioni (ME APRIRE PORTA) e le esperienziali (FIORI PROFUMANO). Sia Fouts che i Gardner erano convinti che le abilità di Washoe indicassero chiaramente che stava usando il linguaggio nella stessa modalità umana. Alcuni psicologi accettarono tali evidenze, ma non altri, la cui definizione di linguaggio era volta, secondo Fouts , a tenere fuori “tutti i non umani dal club del linguaggio” [2].
Cambio casa Nel 1970, quando Washoe aveva circa cinque anni, i Gardner decisero di mandarla all’Istituto degli Studi sui Primati dell’Oklahoma University. Diverse ragioni pratiche portarono a questa decisione, prima tra tutte il fatto che Washoe stava diventando troppo grande per il cortile, e che la gente che abitava nel vicinato iniziava a preoccuparsi della “scimmia giù nella strada”. Dopo molte riflessioni, Fouts decise di voler continuare il suo lavoro con Washoe, prendendo tale decisione, si trasferì con la sua famiglia in Oklahoma. Il primo ottobre del 1970 a Washoe vennero somministrati dei tranquillanti e fu trasportata con un Learjet privato in Oklahoma. Fouts rimase sconvolto nel trovare Washoe rinchiusa in una piccola gabbia – dopo che per anni aveva vissuto in una sua roulotte e aveva dormito in un letto proprio – insieme ad altri 20 scimpanzè adulti rinchiusi in attigue gabbie di acciaio intenti ad urlare e a sbattere contro le sbarre. Il dottor William Lemmon era il responsabile dell’Istituto, e negli anni successivi, Fouts e Lemmon ingaggiarono delle vere dispute sul modo appropriato di ospitare Washoe e gli altri scimpanzè. Diversamente dalle tecniche usate da Fouts con Washoe, Lemmon dominava sugli scimpanzè, nel suo istituto di ricerca, usando speroni e pallottole in caso di ribellione. Una temporanea tregua fu raggiunta tra i due quando Fouts si trasferì su un isolotto al centro del lago più vicino all’istituto con l’intera colonia di scimpanzè. L’isola di fatto era stata realizzata dall’uomo, detriti e sterpaglia avevano creato un quarto di ettaro, ma per Fouts fu l’inizio di un’eccitante nuova era. Il ricercatore realizzò rapidamente che l’esperienza fatta con uno scimpanzè particolare che credeva di essere umano non lo rendeva pronto a lavorare con altri scimpanzè. Col passare del tempo divenne il responsabile di scimpanzè orfani e lavorò con altri scimpanzè incredibili, quali Thelma, Cindy, Booee, Bruno, Ally, Loulis, Moja, Tatu e Dar [2]. Molti di questi scimpanzè erano stati allevati e assoggettati a sperimentazioni mediche. Booee, ad esempio, aveva una resezione del corpo calloso (tessuto che connette i due emisferi cerebrali) che faceva sì che i suoi emisferi cerebrali lavorassero indipendentemente. La nuova famiglia allargata iniziò ad apprendere l’ASL da Fouts e Washoe. In effetti, Washoe iniziò anche ad apprendere l’inglese parlato perché Fouts decise di usarlo con molti degli scimpanzè che erano in grado di comprenderlo (alcuni erano stati allevati in casa e avevano sempre sentito parlare inglese). Tutti questi scimpanzè dimostrarono che Washoe non era uno scimpanzè geniale, ma che tutti erano in grado di apprendere il linguaggio, infatti furono tutti in grado di imparare delle forme di linguaggio, ognuno con i propri tempi di apprendimento.
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Nel 1972, Fouts cercò di dirigere la sua esperienza accademica su un altro campo, quello dei bambini autistici, iniziò a lavorare con un bambino di nove anni, David, che presentava un linguaggio estremamente limitato ed esibiva i classici comportamenti ripetitivi e ritualistici privi di un apparente significato. Fouts decise di provare ad insegnare anche a lui l’ASL, e nel giro di poche sessioni, David comunicava usando l’ASL di base, e dopo poche settimane improvvisamente iniziò a vocalizzare alcune semplici parole come “mamma” e “bere”. Iniziò quindi a lavorare con altri bambini autistici e ottenne dei successi molto simili a quelli ottenuti con David. Fouts stesso ed altri ricercatori hanno dimostrato che insegnare la lingua dei segni avvia la comunicazione, processo che può facilitare una successiva espressione vocale della lingua. Ulteriori sviluppi della ricerca hanno portato Fouts ad osservare come l’area del cervello responsabile dei movimenti della mano sia la stessa implicata nel controllo del linguaggio, suggerendo quindi un’interazione positiva tra lingua segnata e lingua vocale. Fouts ipotizzò che i primi uomini abbiano iniziato proprio dalla comunicazione non verbale, che si sviluppò in grugniti e suoni, fino ad arrivare, attraverso la pressione evolutiva all’anatomia adatta (il tratto vocale) che ha consentito il linguaggio parlato. Fouts credeva che il linguaggio fosse emerso per un’esigenza culturale e sperava che, mostrando agli scimpanzè in cattività come comunicare con i segni e insegnando ai più giovani come utilizzarli sarebbe riuscito a dimostrarlo. L’uso di strumenti in animali nati non in cattività aveva già mostrato come esso fosse stato appreso dai loro genitori vissuti in cattività. Dopo che Washoe aveva perso il suo piccolo, Fouts riuscì a persuaderla ad adottare un cucciolo maschio di 10 mesi, Loulis. Fouts assicurava che i ricercatori avevano mostrato solo sette segni in presenza di Loulis. Pertanto qualsiasi altro segno che Loulis avrebbe usato doveva essere stato appreso dagli altri scimpanzè. Nel giro di otto settimane, Loulis frequentemente segnava agli uomini o agli scimpanzè, ma non aveva mai usato i segni che aveva visto fare dagli altri ricercatori. Sembrava apprendere solo attraverso l’osservazione degli altri scimpanzè. Fouts, pertanto sentiva di poter concludere che gli scimpanzè apprendono l’acquisizione del linguaggio attraverso una tecnica di apprendimento semplice condivisa con gli umani. In numerose videoregistrazioni effettuate nel corso degli anni, Fouts mostrava che gli scimpanzè interagiscono e utilizzano spontaneamente i segni tra di loro. Ci sono stati numerosi altri tentativi di insegnare il linguaggio alle grandi scimmie da parte di altri ricercatori, ad esempio Sue-Savage-Rumbaugh lavorò con un bonobo maschio di nome Kanzi e Penny Peterson con un gorilla di nome Koko. Herbert Terrace, ricercatore statunitense, riportò dei primi successi con una scimmia che scherzosamente chiamò Nim Chimsky (un gioco di parole basato sul nome del noto linguista Noam Chomsky), anche se successivamente dichiarò che la capacità della scimmia di segnare era semplicemente stata promossa dai ricercatori, in modo simile a quello che era avvenuto con il Clever Hans. Fouts mostrò che vi erano stati importanti problemi metodologici nell’approccio di Terrace, ma questo non arrestò le critiche nell’ambito dell’acquisizione del linguaggio da parte delle scimmie, e anzi Chimsky fu usato come evidenza dell’unicità del linguaggio umano. A partire dal 1974, Fouts divenne un accademico acclamato a livello internazionale che viveva in Oklahoma con la sua famiglia. Comunque, le condizioni erano
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molto lontane dall’essere ideali sia per Washoe che per gli altri scimpanzè. Fouts stava anche iniziando a realizzare che, sebbene amasse Washoe come se fosse un membro della famiglia, Washoe era ancora tenuta come una “prigioniera scientifica” da Lemmon e da alcuni membri del suo staff. Fouts stava persino accarezzando l’idea di provare a rieducare Washoe per riportarla nell’Africa selvaggia, ma quest’idea venne presto abbandonata come un’impresa impossibile. Invece, provò a cercare un posto che fosse più adatto a Washoe e agli altri scimpanzè, rivolgendosi a diverse università e ricevendo infine dall’Università Centrale di Washington una cattedra come professore e l’opportunità di costruire un centro di ricerca sui primati. Una notte del 1980, Fouts noleggiò un camper e guidò fino a Ellensburg, Washington, con tre dei suoi scimpanzè: Washoe, Loulis e Moja. Nel tempo Fouts constatò che la sua area di ricerca stava diventando meno popolare con una conseguente diminuzione dei fondi necessari. Nell’intento di risparmiare denaro iniziò a raccogliere frutta e verdura scadute buttate fuori dai mercati, e alla ricerca di finanziamenti accettò di diventare consigliere scientifico per il film Tarzan diretto da Hugh Hudson. I soldi che vennero da questa sua ultima impresa lo aiutarono ad acquistare le attrezzature per la sua ricerca con gli scimpanzè.
Le linee guida etiche della ricerca sugli animali Alla fine degli anni Ottanta, Fouts decise di volgere la sua attenzione alle linee guida etiche della sperimentazione con le grandi scimmie. Fouts aveva visitato molti laboratori in cui si lavorava con gli animali e sapeva il tipo di procedure a cui questi animali erano sottoposti. Spesso le scimmie erano tenute in isolamento anche se erano animali sociali e nonostante Fouts stesso nelle sue ricerche avesse dimostrato che erano esseri senzienti. Fouts contestò procedure e linee guida etiche utilizzate in questi esperimenti, sostenendo che lo stress esperito dagli animali li esponeva maggiormente al rischio di ammalarsi e di essere colpiti da problemi psicologici. In tutte queste ricerche, vi era una contraddizione: o è possibile estrapolare i risultati dalle scimmie e dagli scimpanzè per arrivare all’uomo proprio grazie alle loro somiglianze, o non lo è. Se è possibile e noi stiamo sostenendo che siano abbastanza simili, allora non dovrebbero anche essere trattati come esseri umani? L’esperienza vissuta portò Fouts a divenire un sostenitore dell’interruzione e dell’abolizione di tutte le ricerche condotte sugli animali, incluse le proprie. Sapeva che era impossibile reintegrare i suoi scimpanzè nella foresta, decise quindi di permettere loro di vivere le loro vite nel miglior ambiente possibile. In tale intento spese 15 anni della propria vita ed il 7 maggio del 1993, riuscì ad aprire lo Chimpanzee e Human Communication Institute a Washington. Si trattava di una casa tropicale tridimensionale che includeva 1646 metri quadri di terreno e vegetazione con aree, aperte e chiuse, per gli esercizi, zone notte e cucine a vista, con vetrate, tali che gli scimpanzè potessero vedere il loro cibo mentre veniva preparato. Fouts modificò le regole di interazione tra uomo e scimmia: gli esseri umani non erano ammessi nell’area degli scimpanzè eccetto che per ragioni pratiche di pulizia o per riparazioni all’interno del complesso.
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Fouts aprì il complesso ai visitatori cosicché tutti potessero osservare gli scimpanzè e il lavoro che si svolgeva con loro, credendo che ciò avrebbe portato beneficio alla causa degli scimpanzè e che avrebbe aiutato ad educare il pubblico alla conoscenza di tali animali. Le scoperte sul comportamento degli scimpanzè e sulla loro cultura, conducevano Fouts a ritenere completamente errate le ricerche ancora in corso in molti laboratori. Considerava gli scimpanzè nostri fratelli evolutivi più vicino a noi rispetto alle scimmie e agli altri primati non umani e continuava ancora oggi a promuovere il Great Ape Project4 nell’intento di assicurare alle scimmie il diritto di vivere, di essere libere e di non essere sottoposte a torture. Fouts in una dichiarazione ha sostenuto che tutti facciamo parte della stessa catena evolutiva e quindi la legge dovrebbe proteggere gli scimpanzè allo stesso modo con cui impedisce a qualcuno di fare esperimenti su un perfetto sconosciuto, anche se lo scopo fosse salvare la vita del proprio figlio. Il dibattito attuale è rivolto a comprendere se Washoe realmente abbia acquisito una forma di linguaggio umana, o se abbia appreso solo poche parole di un vocaboTabella 19.1 Sintesi delle ragioni per le quali vengono usati gli animali nella ricerca in psicologia
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Pro
Contro
• La ricerca sugli animali evita di fare test che possono essere nocivi su esseri umani. Pertanto è possibile usare gli animali dove è impossibile o immorale usare degli esseri umani. • Gli animali hanno meno diritti, e pertanto è possibile avere più controllo durante il processo sperimentale. • La durata della vita degli animali è più breve, e quindi i cambiamenti legati alla maturazione possono essere rilevati più facilmente e più rapidamente. • La ricerca sugli animali tende ad essere più economica e più facilmente conducibile. • A favore di un continuum evolutivo: gli umani sono animali, l’apprendimento si svolge con simile modalità, per questa ragione la ricerca sugli animali può essere generalizzata agli esseri umani. • La ricerca sugli animali può aumentare la nostra conoscenza teorica. • La ricerca sugli animali può condurre direttamente a dei benefici pratici per gli esseri umani, ad esempio: i cani guida, o la sperimentazione di farmaci. • La ricerca di laboratorio sugli animali può portare benefici anche alle specie animali utilizzate nella ricerca stessa. • È dovere dell’uomo e sua responsabilità migliorare la vita umana al di sopra di quella degli animali.
• Gli animali non possono riportare le loro impressioni o gli effetti, così non possiamo essere sicuri di quanto stiano soffrendo in conseguenza dell’esperimento. • Gli animali dovrebbero avere gli stessi diritti degli uomini – perché mai dobbiamo sfruttare gli animali per i nostri fini? • Non sfruttare gruppi svantaggiati è una norma etica dell’uomo. Non applicare tale principio alle scimmie risulta una forma di “razzismo verso una specie diversa”. • La scienza dovrebbe lavorare a favore e non contro la natura. • La ricerca sugli animali fornisce alla psicologia e alla scienza una ben misera immagine. • Gli esseri umani sono unici e molto diversi dagli animali, e quindi non possiamo generalizzare conoscenze dagli animali all’uomo. • L’uso di strategie alternative è preferibile – ad esempio l’uso di simulazioni al computer. • A causa dello stress derivante dalla situazione di laboratorio, non possiamo essere sicuri della causa né degli effetti osservati. • Se le scimmie sono così simili agli uomini, dovrebbero avere diritti simili a quelli che hanno gli uomini [9].
Vedi www.greatapeproject.org per ulteriori dettagli.
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lario. Fouts fornì più evidenze sulle abilità di Washoe, alcuni linguisti ridefinirono cosa si intendesse con il termine “linguaggio” al fine di escludere il linguaggio non umano. Per 60 anni, l’uomo ha imprigionato gli scimpanzè e li ha usati nei suoi programmi di ricerca, apparentemente allo scopo di migliorare le condizioni umane, ma più spesso a spese degli scimpanzè. Non ci rendiamo conto di quanto gli scimpanzè siano vicini a noi, geneticamente, comportalmente e culturalmente – ma forse, grazie a Washoe adesso lo sappiamo.
Postscriptum Washoe fu il primo animale ad acquisire il linguaggio umano e suo figlio adottivo Loulis fu il primo ad acquisire il linguaggio umano da un altro scimpanzè. Washoe morì dopo una breve malattia, a 42 anni, il 30 ottobre del 2007. Nel corso degli anni, Washoe, la nonna nel mondo degli scimpanzè, ci ha fornito degli insight affascinanti sulla mente degli scimpanzè e ha messo in discussione le nostre cosiddette abilità “uniche”. Certamente, gli esseri umani sono unici, ma forse Washoe ha dimostrato che non siamo così diversi come pensavamo di essere.
Bibliografia 1. Savage-Rumbaugh S, Lewin R (1994) Kanzi: An ape at the brink of the human mind. Wiley, New York 2. Fouts R, Mills ST (1997) Next of Kin. Quill, New York 3. Fouts R, Mills ST (2000) La scuola delle scimmie. Mondadori, Milano 4. Gardner RA, Gardner BT (1969) Teaching sign language to a chimpanzee. Science 165:664672 5. Hayes C (1952) The Ape in Our House. Gollancz, New York 6. Amabile T (1985) Motivation and creativity: Effects of motivational orientation on creative writers. J Pers Soc Psychol 48:393-397 7. Kohn A (1999) Punished by Rewards: The Trouble with Gold Stars, Incentive Plans and Praise and Other Bribes. Houghton Mifflin, Boston 8. Sibley CG, Alquist JE (1984) The phylogeny of the hominid primates, as indicated by DNA – DNA hybridization. Journal of Molecular Evolution 20:2-15 9. Singer P (1993) The rights of apes. BBC Wildlife 11:28-32
Riassumendo
Lo scopo di questo libro era condividere con i lettori i casi più affascinanti e sorprendenti che ho conosciuto nei miei 25 anni di carriera nell’ambito della psicologia. Durante questi anni gli studenti a cui presentavo tali casi, durante le mie lezioni, ne rimanevano colpiti e interessati. Erano tanto curiosi da voler conoscere anche i minimi dettagli, erano ansiosi di sapere l’impatto che questi casi avevano avuto nella psicologia e cosa fosse realmente accaduto alle persone in seguito. In questo libro ho cercato di rispondere a questo interesse. Molti dei casi qui riportati possono creare un forte disagio e possono risultare angoscianti, ma molti di loro rivelano anche la forza del carattere dell’uomo: Genie rappresenta la capacità di lottare con grande forza e di sopravvivere all’abuso in età infantile, Henry M. ci mostra come sia possibile scherzare su una devastante perdita di memoria. Il caso di S.B. dimostra come le persone devono essere felici di essere nella “norma”, e “l’uomo senza cervello”, così come Phineas Gage, sono l’esempio di come gli esseri umani possano adattarsi brillantemente a situazioni potenzialmente catastrofiche. Kim Peek, Dibs e Chris Costner Sizemore mostrano come sia possibile trionfare sulla propria psiche conducendo una vita appagante. I casi di David Reimer e di Holly Ramona servono da monito rispetto alla consapevolezza della nostra conoscenza limitata del comportamento umano e da monito per i professionisti, che per quanto eminenti, dovrebbero mantenere vivo il dibattito, non abbracciando in modo cieco le loro posizioni teoriche. La maggior parte di questi studi solleva anche importanti tematiche etiche sul modo in cui gli scienziati osservano il comportamento umano e il modo in cui le scoperte scientifiche vengono riportate e diffuse. Sebbene situazioni “uniche”, questi casi ci raccontano qualcosa di universale sulla condizione umana e forniscono un importante contributo alla comprensione della scienza umana. Questo libro vuole essere un tributo alle persone che vi sono descritte, in modo tale che il loro ricordo resti tuttora vivo.
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A Amnesia: Perdita della memoria dovuta a trauma fisico o psicologico. Può essere di due tipi: Amnesia anterograda: definisce l’incapacità a ricordare nuove informazioni successive all’episodio amnesico Amnesia retrograda: definisce l’incapacità a richiamare alla mente ricordi precedenti all’episodio amnesico Approccio nativista: un approccio che enfatizza i contributi innati o ereditati al comportamento. Approccio psicodinamico: si riferisce ad ogni teoria che enfatizza lo sviluppo e il cambiamento in un individuo e ogni teoria in cui l’impulso è l’idea centrale nello sviluppo. La teoria psicodinamica più nota è la psicoanalisi freudiana. Attaccamento: forte legame emozionale tra due persone. Di solito implica affetto reciproco ed è in genere presente nella relazione che lega il bambino a figure stabili che si prendono cura di lui, molto spesso i genitori. B Bias dell’osservatore: la tendenza che hanno i ricercatori a conoscenza dell’ipotesi di osservare quello che loro credono stia accadendo, piuttosto che quello che realmente succede. Per salvaguardare un esperimento da questa distorsione, è meglio avere un osservatore “cieco” allo scopo dello studio ossia un osservatore che ignori le ipotesi sperimentali. Bulimia nervosa: un disturbo della condotta alimentare nel quale la persona mangia in modo incontrollabile (frenetico) e poi si auto induce episodi di vomito (purga). C Cervelletto: la parte del cervello vicino alla base del cranio responsabile dell’attività muscolare, non consapevole. Complesso di Edipo: nella teoria freudiana, la nozione che i bambini piccoli maschi desiderano la loro madre sessualmente e pertanto esperiscono una rivalità con il loro padre per la competizione nell’affetto della madre. Comportamento del passante: detto anche “effetto del testimone”, dove le persone che assistono ad una situazione di emergenza tendono a non fare niente per aiutarle (vedi capitolo 6). Condizionamento classico: anche detto condizionamento pavlovano (dato che Ivan Pavlov
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fu il primo a coniare il concetto). Il condizionamento classico è una forma di apprendimento associativo, dove la comparsa di uno stimolo o di un evento è predetta da un altro stimolo o evento. Un SIC è lo stimolo incondizionato (non appreso) (ad esempio il cibo) e la RIC è la risposta incondizionata (non appresa) (ad esempio la salivazione). Dopo associazioni ripetute, uno stimolo neutrale (ad esempio il suono di una campanella) può diventare uno stimolo condizionato (appreso; SC) in cui il soggetto saliva già alla presentazione della campanella. La salivazione al suono della campanella rappresenta pertanto un esempio di risposta condizionata (appresa; RC)1. Condizionamento operante: anche chiamato condizionamento strumentale. Il condizionamento operante è attribuito a B.F. Skinner e implica l’uso di conseguenze che modellano o mantengono il comportamento. Il condizionamento operante modifica il comportamento volontario o “operante”. Un evento che o aumenta o rinforza una risposta è chiamato rinforzo. I rinforzi positivi aumentano la probabilità che un comportamento venga prodotto più spesso. Le punizioni o rinforzi negativi (la rimozione di uno stato sgradevole) rende meno probabile che il comportamento iniziale si riproduca in futuro. Corpo calloso: tessuto nervoso che connette i due emisferi del cervello. D Dibattito natura/cultura: controversia sull’importanza sul comportamento delle caratteristiche ereditate (es., la genetica) o acquisite (es., l’influenza ambientale). Digit Span: un test di memoria a breve-termine dove al partecipante è data una serie di numeri da ripetere immediatamente. Lo span medio è di circa 7, più o meno 2 numeri. Differenze individuali: il confronto tra caratteristiche e comportamenti delle persone e la consapevolezza che la gente differisce per questi aspetti. Le differenze individuali sono spesso sminuite nella tradizione scientifica anche se se ne riconosce l’importanza, in particolare attraverso lo studio di casi. Dissociazione: la separazione inconsapevole dei pensieri dalla psiche – un distacco della mente dalle emozioni. La dissociazione è caratterizzata da un senso del mondo con le sembianze di un sogno o di un mondo irreale e può essere accompagnata da una scarsa memoria di specifici eventi. Disturbo d’ansia: l’ansia implica un sentimento di apprensione e paura di solito accompagnato dall’aumento dell’arousal fisiologico. Un disturbo d’ansia è un complesso di disturbi caratterizzati da una grave forma di ansia. Esempi comuni di disturbi d’ansia includono il disturbo da stress post-traumatico e il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC): un tipo di disturbo d’ansia dove la persona è affetta da ossessioni e/o compulsioni eccessive, intrusive e inappropriate. I tipi più comuni sono i “checkers” (persone che devono controllare le cose più e più volte) e i “washers” (persone che devono lavarsi e/o lavare e pulire le cose ripetutamente). DPM (Disturbo da Personalità Multipla): una condizione psichiatrica nella quale il paziente sembra dividersi in due o più separate personalità. Ogni personalità può o non può essere consapevole della presenza delle altre. Il DPM è un disturbo relativamente recente ed è estremamente raro. I critici sostengono che sia un’invenzione clinica piuttosto che un disturbo reale. Il caso più famoso di DPM è quello di Chris Costner Sizemore.
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Nel caso dell'esperimento di Pavlov, il cane che associa la campanella alla presentazione del cibo inizierà a salivare già al suono della campanella, che diventa in tal modo uno stimolo condizionato (NdT).
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DSM (Diagnostic Statistical Manual): il manuale psichiatrico usato negli USA. Riporta la classificazione, la definizione e la descrizione di oltre 200 disturbi di salute mentale. L’ultima versione è il DSM-IV pubblicato nel 2000. E Effetto primacy: si riferisce al fatto che il materiale presentato abbia più probabilità di essere ricordato con maggiore probabilità dal partecipante nel momento in cui deve richiamarlo a mente rispetto al materiale presentato successivamente. Vedi anche effetto recency. Effetto recency: si riferisce al fatto che il materiale presentato per ultimo (quindi ascoltato o visto più recentemente) abbia più probabilità di essere ricordato dal partecipante rispetto al materiale presentato precedentemente. Vedi anche effetto primacy. Effetto seriale di posizione (memoria): la scoperta che le parole all’inizio (effetto primacy) e alla fine di una lista (effetto recency) vengono ricordate più facilmente di quelle al centro della lista. Elettroencefalografia (EEG): un metodo di registrazione dell’attività elettrica del cervello. Epilessia: una condizione fisica che si realizza a seguito di un improvviso e breve cambiamento nell’attività cerebrale. Quando le cellule del cervello non stanno lavorando propriamente, la consapevolezza della persona, i movimenti o le azioni possono essere alterati per un breve periodo. Tali cambiamenti sono definiti crisi epilettiche. F Frenologia: una pseudoscienza che sostiene che le protuberanze sulla superficie del cranio siano collegate a particolari funzioni. Freud: Sigmund Freud (1856-1939) è il fondatore della psicoanalisi. Fobia: un tipo di disturbo d’ansia dove vi è una paura persistente, irrazionale e irragionevole di un oggetto o di una situazione. I ICD (International Classification of Disease): un sistema di classificazione per disturbi fisici e psicologici pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’ultima versione è l’ICD-10, che riguarda la sintomatologia e l’evoluzione dei disturbi piuttosto che le loro cause o i loro trattamenti. L’ICD è usato nel Regno Unito, mentre il DSM è usato negli Stati Uniti. Idrocefalo: si tratta di un’anomala massa di fluido cerebrospinale (FCS) nei ventricoli cerebrali. L’eccesso di fluido provoca un aumento della pressione che spesso può comprimere e danneggiare il cervello. Ignoranza pluralistica: una situazione di gruppo dove ognuno guarda l’altro per capire come si deve comportare, siccome ognuno cerca nell’altro una guida si arriva all’inazione e nessuno interviene perché si pensa che quella sia la norma in quella determinata situazione. Intersesso (ermafrodita): termine usato per descrivere persone il cui sesso è ambiguo e non può essere classificato né come maschile né come femminile (ermafrodita è il termine arcaico della condizione). Introspezione: l’esame dei propri pensieri, impressioni e sentimenti. Non viene accettato in psicologia tra i metodi scientifici. L Lobotomia: tecnica chirurgica nella quale delle incisioni vengono fatte nel lobo frontale del
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cervello allo scopo di recidere le connessioni neurali tra il lobo frontale e altri centri del cervello. Raggiunse il massimo della sua popolarità negli anni Quaranta, cadde in disgrazia quando si scoprì la sua inefficacia nella cura della schizofrenia e i suoi effetti negativi sui pazienti ai quali fu praticata. Localizzazione di una funzione: la convinzione che specifiche aree della corteccia cerebrale siano responsabili di specifiche funzioni fisiche o comportamentali. M Meccanismo di difesa: un meccanismo inconscio che protegge la mente cosciente dall’ansia. Originariamente proposti da Freud, i meccanismi di difesa aiutano a distorcere/reinterpretare la realtà, cosicché gli individui possano affrontare meglio una particolare situazione. Il più noto meccanismo di difesa è la rimozione. Memoria a breve termine (MBT): si riferisce ad un sistema di memoria che conserva le tracce per pochi secondi, in genere dai 20 ai 30 secondi. Memoria a lungo termine (MLT): un sistema di memoria che contiene tracce che possono perdurare dai 30 secondi all’intera esistenza. Memoria episodica: Endel Tulving (1972) fu il primo a suggerire che la memoria a lungotermine era divisa in diversi tipi. La memoria episodica si riferisce a memorie personali o episodi della propria vita, mentre la memoria semantica riguarda una conoscenza fattuale condivisa che noi tutti possediamo. Memoria semantica: un tipo di memoria a lungo termine associata con la conoscenza fattuale o generale.2 Metodo dei loci: una tecnica mnemonica che migliora le capacità di recupero dei ricordi. Implica l’apprendimento di una serie di posizioni (ad esempio, dei luoghi all’interno di un percorso preferito) nelle quali si immaginano gli item da ricordare. Per recuperare il ricordo degli item è sufficiente ricreare il percorso con l’occhio della mente e “vedere” ogni item nel luogo dove era stato immaginato. Mnemotecniche: tecniche di memoria, come il metodo dei loci descritto sopra, che aiutano a migliorare la capacità di memorizzare. P Partecipante naïf: un partecipante ad un esperimento che non conosce lo scopo del lavoro o che è stato fuorviato dal vero scopo dello studio. A differenza del confederato che è “coinvolto” nello studio e che sa di cosa tratta la ricerca e cosa ci si aspetta da lui/lei. Permanenza dell’oggetto: la comprensione che gli oggetti che sono nascosti alla vista continuano ad esistere, nonostante non ci siano evidenze fisiche della loro esistenza. Jean Piaget sostenne che i bambini di età inferiore ad otto mesi non sono in grado di comprendere la permanenza dell’oggetto. Psicoanalisi: la teoria ideata da Freud per spiegare il comportamento umano. È anche usata come termine per descrivere una forma di trattamento che egli propose per disturbi mentali.
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Memoria semantica: contiene la rappresentazione dei concetti, delle loro relazioni e più in generale di tutte le conoscenze che si formano attraverso i processi di astrazione. Tulving E (1972) Episodic and semantic memory. In: Tulving E, Donaldson W (eds), Organization of memory. Academic Press, New York (NdT).
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Psicologia animale e comparata: branca della psicologia che studia il comportamento animale e lo “confronta” con quello umano. Psicologia clinica: branca della psicologia che si occupa di valutare e trattare malattie mentali, il comportamento anomalo e i problemi psichiatrici. Psicologia cognitiva: branca della psicologia che studia i processi mentali, includendo anche il modo in cui le persone pensano, percepiscono, ricordano e apprendono. Psicologia dello Sviluppo: branca della psicologia che studia i progressivi cambiamenti sociali, mentali e comportamentali che avvengono in un individuo dalla nascita fino alla morte. Spesso l’enfasi è posta sullo sviluppo del bambino, sebbene tutti gli stadi della crescita possano essere inclusi nel termine “sviluppo”. Psicologia Fisiologica: branca della psicologia che si concentra sui processi fisiologici sottostanti al comportamento. Q QI (Quoziente Intellettivo): sistema per confrontare l’età mentale di un soggetto con la sua età cronologica. Il QI è calcolato dividendo l’età mentale con l’età cronologica e moltiplicando il risultato per 100. Il QI medio della popolazione generale a ogni età è 100. R Rapid Eye Movement (REM): si riferisce agli stadi del sonno caratterizzati da movimenti oculari e dai sogni. Negli adulti, il sonno REM di solito avviene per circa 15 minuti ogni 90 minuti di ciclo di sonno. Responsabilità diffusa: la tendenza dei testimoni ad essere meno propensi ad aiutare le persone quando sulla scena del crimine vi sono più testimoni, ciò in quanto la responsabilità viene vissuta come suddivisa tra i presenti ed ognuno è meno propenso ad intervenire. S Schizofrenia: grave disturbo mentale caratterizzato da una grave compromissione nel funzionamento psicologico. I sintomi principali includono disturbi del funzionamento del pensiero, della percezione, delle emozioni, presenza di deficit motori e sociali. Scuole Montessori: sono scuole che furono inizialmente dirette dalla dottoressa Maria Montessori nelle quali viene enfatizzato un metodo di insegnamento completamente centrato sul bambino. Sindrome “Genovese”: fenomeno psicologico che spiega il motivo che porta le persone a non intervenire o a intervenire meno in una situazione di emergenza quando vi sono altre persone presenti. Tale fenomeno trova spiegazione nei fenomeni di “responsabilità diffusa” e di “ignoranza pluralistica”. Stadio anale dello sviluppo: il secondo stadio della teoria sullo sviluppo psicosessuale infantile proposta da Freud. In questo stadio il piacere libidico proviene principalmente dalla ritenzione o dall’espulsione delle feci. L’uso del vasino, in questo stadio, è un comportamento chiave nella vita del bambino, e l’eccessiva frustrazione o soddisfazione può portare ad una fissazione a questo stadio e ad uno sviluppo di un carattere adulto “anale”. Stadio di sviluppo latente: in relazione agli stadi dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud. Durante la fase di latenza, la pulsione sessuale si rafforza senza esprimersi e i bambini si concentrano di più sulle relazioni, sugli hobby e sui loro interessi. Stadio fallico dello sviluppo: è il terzo stadio nella teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud. Avviene intorno ai 3-7 anni, dove il piacere passa principalmente dagli orga-
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ni sessuali. Anche qui, l’eccessiva frustrazione o l’eccessiva soddisfazione fa sì che la persona resti fissata a questo stadio e che sia preoccupata dalla potenza sessuale, dalla prestazione e dalla conquista. Stadio genitale di sviluppo: uno degli stadi della teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud. Lo stadio genitale (12 anni in su) è il culmine dello sviluppo psicosessuale e la fissazione dell’energia sessuale avviene a carico dei genitali. Questo ci muove verso la relazione sessuale adulta. Stadio orale dello sviluppo: il primo stadio dello sviluppo nella teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud. In questo stadio, il piacere deriva principalmente dalla bocca. La frustrazione eccessiva o la soddisfazione può causare che la persona rimanga fissata a questo stadio e sviluppi una personalità “orale”. Studio di un caso: lo studio dettagliato e approfondito di un individuo o di un piccolo gruppo. Di solito consiste in descrizioni e interpretazioni del caso che lasciano spazio alla soggettività dell’interpretazione. Lo studio di casi usa tipicamente metodi qualitativi. T TAC (Tomografia Assiale Computerizzata): una forma di visualizzazione in vivo del cervello. Terapia aversiva: la terapia aversiva è una forma di trattamento (terapia comportamentale) nel quale il paziente è esposto ad uno stimolo che produce un comportamento deviante mentre simultaneamente gli viene somministrata una qualche forma di punizione o viene messo in una situazione di disagio. È una forma di condizionamento con una “punizione positiva”. Terapia comportamentale: qualsiasi tecnica di modificazione del comportamento che si basa sulle leggi del condizionamento classico. Wolpe (1958) la definì “come l’uso di leggi dell’apprendimento stabilite sperimentalmente per indurre al cambiamento di comportamenti disadattivi”.