IAN RANKIN CERCHI E CROCI (Knots & Crosses, 1987) A Miranda, senza la quale nulla vale la pena di essere portato a termi...
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IAN RANKIN CERCHI E CROCI (Knots & Crosses, 1987) A Miranda, senza la quale nulla vale la pena di essere portato a termine PROLOGO 1 La ragazzina emise un grido, uno soltanto. Abbastanza perché lui lo considerasse un piccolo incidente di percorso. Avrebbe potuto significare la fine, la fine prima ancora dell'inizio. I vicini che s'insospettiscono, che chiamano la polizia. No, così non andava. La prossima volta avrebbe legato il bavaglio un po' più stretto, solo un po' più stretto, l'indispensabile per non rischiare. Dopodiché aprì il cassetto e ne estrasse un gomitolo di spago. Prese un paio di forbici, forbici come quelle che usano le bambine, ne tagliò un segmento lungo una quindicina di centimetri e poi rimise gomitolo e forbici nel cassetto. Il rumore improvviso di una macchina in strada lo attirò alla finestra, facendogli urtare una pila di libri sul pavimento. La macchina però era già sparita. Sorrise tra sé e confezionò un piccolo cerchio con lo spago, legandolo con un nodo. Sulla credenza era già pronta una busta. 2 Era il 28 aprile. Giornata umida, naturalmente, l'erba stillante d'acqua. John Rebus raggiunse a piedi la tomba del padre, morto esattamente cinque anni prima. Sul marmo ancora lucido depose una corona gialla e rossa, i colori della memoria, quindi si fermò, sforzandosi di pensare a qualcosa da dire, ma sembrava non esserci nulla da dire né da pensare. Era stato un padre abbastanza buono, ecco tutto, e un uomo che non avrebbe gradito che il figlio si sprecasse in parole inutili. Perciò rimase lì fermo, con le mani rispettosamente incrociate dietro la schiena, le cornacchie che ridevano sui muri di cinta, finché l'acqua che gli s'insinuava nelle scarpe gli ricordò che, ad aspettarlo davanti al cancello del cimitero, c'era una bella
auto riscaldata. Guidava piano. Odiava tornare nel Fife, dove i vecchi tempi non erano mai stati «i bei vecchi tempi», dove fantasmi frusciavano nei gusci delle case vuote e dove al tramonto le serrande calavano su un misero pugno di negozi sparsi, offrendo ai vandali qualcosa su cui scrivere il proprio nome. John Rebus odiava tutto ciò, odiava quella singolare mancanza di ambiente che ogni volta lo nauseava col suo puzzo di sconsideratezza, di abbandono, di puro e semplice spreco di vita. Percorse i tredici chilometri fino al mare, dove viveva il fratello Michael. Mentre si avvicinava allo scheletrico grigiore della costa, sollevando spruzzi dalle migliaia di crepe nella strada, la pioggia diminuì d'intensità. Perché, si chiese, in quel posto sembravano non riparare mai le strade, mentre a Edimburgo ci davano dentro con tale zelo da aver addirittura indebolito l'asfalto per i troppi interventi? E, soprattutto, perché aveva preso la decisione malata di venire fin lì solo per onorare l'anniversario della morte di suo padre? Tentò di distrarsi, pensando ad altro, e si ritrovò così a sognare la sigaretta successiva. Attraverso il velo ormai finissimo di pioggia scorse una ragazzina che camminava sul ciglio erboso. Doveva avere più o meno l'età di sua figlia. Rallentò, mentre la superava la guardò meglio nello specchietto, quindi si fermò e le fece segno di accostarsi al finestrino. Nell'aria fredda e immota i respiri brevi della ragazza erano chiaramente visibili. Sulla fronte le spiovevano ciuffi disordinati di capelli scuri. Gli lanciò un'occhiata apprensiva. «Dove vai, piccola?» «A Kirkcaldy.» «Vuoi un passaggio?» Lei scosse la testa, lasciando partire gocce d'acqua dai capelli fradici. «La mamma dice che non devo accettare passaggi dagli sconosciuti.» «Be'», convenne Rebus, «la mamma ha ragione. Anch'io ho una figlia della tua età e le dico la stessa cosa. Solo che piove, e io sono un poliziotto, perciò puoi fidarti di me. Kirkcaldy è ancora lontana, giusto?» La ragazzina guardò la strada silenziosa, poi scosse di nuovo la testa. «D'accordo. Ma stai attenta: tua madre ha ragione», ripeté Rebus. Chiuse il finestrino e ripartì, guardando nello specchietto la ragazzina che lo guardava. Brava. Così si fa. Era bello sapere che ai genitori di oggi restava ancora un briciolo di senso di responsabilità. Se solo avesse potuto dire lo stesso della sua ex moglie. Aveva tirato su la figlia come una di-
sgraziata. Anche Michael aveva lasciato troppa libertà alla sua. Ma di chi era la colpa? Il fratello di Rebus conduceva una vita di tutto rispetto. Aveva seguito le orme del padre, si esibiva come ipnotizzatore professionista e, stando a quanto si diceva, era anche bravo. Rebus non gli aveva mai chiesto come funzionasse la cosa, come in passato non aveva mai mostrato interesse o curiosità verso gli spettacoli del padre. In compenso si era accorto che la sua indifferenza disorientava un po' Michael, che di quando in quando gli lanciava un'esca, dichiarando che nel suo show non c'erano imbrogli, venisse pure a verificare di persona. Ma, di cose da verificare, lui ne aveva già fin troppe: così gli aveva sempre risposto in quei quindici anni di servizio. Quindici anni che gli avevano lasciato soltanto una certa dose di pietà per se stesso, un matrimonio fallito e una figlia innocente sospesa tra madre e padre. Più che triste, era una storia disgustosa. Nel frattempo, invece, Michael si era felicemente sposato, aveva avuto due figli e si era comprato una casa enorme che Rebus non si sarebbe mai potuto permettere. I suoi spettacoli erano in cartellone fino a Newcastle e Wick, in alberghi, locali e persino teatri. Gli capitava di guadagnare anche seicento sterline a serata. Una cosa vergognosa. Girava a bordo di un'auto costosa, indossava capi di qualità e non si sarebbe mai fatto beccare alla sprovvista da uno scroscio d'acqua in un cimitero del Fife, nella giornata d'aprile più schifosa degli ultimi anni. No, Michael era troppo brillante per una cosa del genere. E anche troppo stupido. «John! Cristo, che succede? Cioè, voglio dire, sono contento di vederti! Perché non hai telefonato per avvisare che venivi? Forza, dai, entra.» Esattamente l'accoglienza che Rebus si aspettava: un'imbarazzata sorpresa, come se vedersi ricordare l'esistenza di un parente stretto ancora in vita causasse al fratello un estremo disagio. A Rebus non sfuggì nemmeno quell'«avvisare», laddove «dire», sarebbe stato un termine più che sufficiente. Era un poliziotto, lui. Certe cose le notava. Michael Rebus attraversò il soggiorno e andò ad abbassare il volume dello stereo. «Accomodati, John», riprese. «Qualcosa da bere? Un caffè? O preferisci roba più forte? Allora, qual buon vento?» Rebus sedette come se fosse in casa di uno sconosciuto: schiena diritta e postura professionale. Studiò le pareti in perlinato della stanza - una novità - e le foto incorniciate dei nipoti.
«Ero da queste parti, tutto qui», rispose. Mentre si girava verso di lui dalla vetrinetta dei liquori, i bicchieri già colmi, d'un tratto Michael ricordò, o fece abilmente finta di essersi ricordato. «Accidenti, John, dimenticavo! Perché non me l'hai detto? Cazzo, odio scordarmi di papà.» «Be', fortuna che ti esibisci come ipnotizzatore e non nei quiz a premi, allora. Forza, allungami il bicchiere, o hai intenzione di brindare da solo?» Sorridendo, assolto, Michael gli porse il whisky. «Quella là fuori è tua?» gli chiese Rebus, prendendo il bicchiere. «Quel gioiellino di BMW, voglio dire.» Continuando a sorridere, Michael annuì. «Però!» esclamò il fratello. «Ti tratti bene, eh?» «Se è per quello, tratto bene anche Chrissie e i bambini. Stiamo giusto allargando un po' la casa, sul retro. Un buchetto dove piazzare una jacuzzi, o una sauna. Vanno parecchio di moda, adesso, e Chrissie ci tiene molto a non restare indietro.» Rebus buttò giù una sorsata di whisky. Al malto, si accorse subito. Là dentro non c'era nulla che costasse poco, ma nemmeno nulla di veramente desiderabile. Soprammobili di cristallo, una bella boccia da vino su un vassoio d'argento, il televisore, lo stereo, le supercasse hi-fi in miniatura, la lampada in onice. Ecco, nei confronti di quella si sentiva un filo in colpa: era stato il regalo di nozze suo e di Rhona a Michael e Chrissie. Chrissie non gli rivolgeva neanche più la parola. E chi poteva biasimarla? «A proposito, dov'è tua moglie?» «Fuori, a far spese. Adesso ha una macchina sua. I ragazzi invece sono ancora a scuola. Passerà a prenderli al ritorno. Ti trattieni per un boccone?» Rebus si strinse nelle spalle. «Ci farebbe piacere», disse Michael, ma non era vero. «Allora, come ti vanno gli affari, agente? Tiri sempre a campare?» «I casi che chiudono in passivo non sono certo quelli cui si fa pubblicità. Le cose vanno come al solito, credo.» Nella stanza, cominciava a rendersi conto Rebus, aleggiava un profumo dolciastro, speziato. Michael aveva ripreso a parlare. «Tremenda, eh, questa storia delle ragazzine rapite?» Rebus annuì. «Sì», convenne. «È una storia tremenda. Il fatto è che non possiamo ancora chiamarli rapimenti a tutti gli effetti. Non è stata avanzata
nessuna richiesta di riscatto, niente di niente. Sembrerebbero più casi di violenza sessuale pura e semplice.» Michael balzò in piedi dalla poltrona. «Pura e semplice? Cosa c'è di puro e semplice in una cosa del genere?» «È solo gergo, Mickey, si fa per dire.» Rebus si strinse di nuovo nelle spalle e finì il whisky. «Insomma», incalzò Michael, tornando a sedersi, «anche noi abbiamo delle figlie, no? Mi sembra che ne parli con una tale freddezza! Non so, io trovo terrificante il semplice pensarci.» Scosse lentamente la testa, in universale segno di dolore condiviso, ma anche di sollievo per il fatto che l'orrore avesse fino a quel momento colpito qualcun altro. «Terrificante», ripeté. «E proprio a Edimburgo, poi, con tutti i posti che ci sono al mondo. Voglio dire, non immagineresti mai che cose simili possano succedere proprio a Edimburgo, no?» «Il fatto è che anche qui succede molto più di quanto la gente non creda.» «Certo.» Michael fece una pausa. «Ci sono venuto proprio la settimana scorsa, avevo una data in un albergo.» «Non me l'avevi detto.» Stavolta fu Michael a scrollare le spalle. «Perché, ti sarebbe interessato?» «Forse no», rispose Rebus con un sorriso. «Ma avrei fatto un salto lo stesso.» Michael scoppiò a ridere. Era una risata da compleanno, da banconota ritrovata nella tasca di una vecchia giacca. «Un altro whisky, signore?» «Temevo che non me lo chiedessi più.» Mentre il fratello tornava alla vetrinetta, Rebus riprese a guardarsi intorno. «Come va il lavoro?» s'informò. «M'interessa, sul serio.» «Bene», rispose Michael. «Anzi, molto bene, per essere sincero. Stanno pensando a uno show televisivo, ma, finché non lo vedo, non ci credo.» «Magnifico.» Il secondo whisky raggiunse la mano ansiosa di Rebus. «Sì, e sto preparando un nuovo numero. Un po' inquietante, a dire il vero.» Mentre inclinava il bicchiere, portandoselo alle labbra, il polso di Michael rivelò un paio di centimetri di lampo dorato. Un orologio prezioso, di quelli senza lancette. Rebus aveva l'impressione che quanto più costose fossero le cose, tanto più ridotte fossero le loro dimensioni: microscopici hi-fi, orologi senza numeri, i calzini Christian Dior traslucidi alle caviglie
di Michael. «Racconta un po'», lo invitò, accettando la sua esca. «Be', ecco», esordì l'altro, sporgendosi in avanti sulla poltrona. «Scelgo alcuni spettatori e li riporto nelle loro vite passate.» «Nelle vite passate?» Rebus fissava il pavimento come se stesse ammirando il gioco di sfumature della moquette verde fantasia. «Sì. Reincarnazione, rinascita, il genere è questo. Insomma, non dovrei essere io a spiegarti cosa vuoi dire, no? In fondo, il cristiano sei tu.» «I cristiani non credono nelle vite passate, Mickey. Solo in quelle future.» Michael gli ordinò di tacere con un'occhiata. «Scusa», abbozzò Rebus. «Come stavo dicendo, ho provato lo show dal vivo per la prima volta la settimana scorsa, anche se è un po' che mi alleno coi miei clienti privati.» «Clienti privati?» «Sì. Mi pagano per essere ipnotizzati in privato. Li aiuto a smettere di fumare, ad acquistare maggior fiducia in se stessi o a smettere di fare pipì a letto. Certi sono convinti di avere vissuto esistenze precedenti e mi chiedono di metterli alla prova in stato ipnotico. Non temere, dal punto di vista fiscale è tutto alla luce del sole. L'ufficio tasse si prende la sua parte.» «E così hai scoperto qualcosa? Ce le hanno, queste vite passate?» Michael strofinò un dito sul bordo del bicchiere già vuoto. «Resteresti sorpreso», disse. «Fammi un esempio, dai.» Rebus percorse con lo sguardo le righe sulla moquette. Vite passate, pensò. Sai che originali: anche il mio, di passato, è pieno di vita. «Be', prendiamo lo spettacolo di Edimburgo di cui ti accennavo. A un certo punto dico a questa signora in platea di salire sul palcoscenico...» Si sporse ancora più avanti sulla poltrona. «Una tizia piccolina, di mezza età. Era venuta coi colleghi dell'ufficio, ma non doveva aver bevuto come loro, perché mi cade in stato ipnotico come se niente fosse. Una volta andata, le dico che stiamo per iniziare un viaggio a ritroso nel suo passato, nel suo passato più lontano, indietro e indietro, prima della sua nascita. La prego di ripensare ai suoi ricordi più antichi...» La voce di Michael si era fatta professionalmente e suadentemente melliflua. Spalancò le mani davanti a sé, come se fosse davanti a un pubblico numeroso. Dal canto suo, Rebus continuò a stringere il bicchiere, un po' più rilassato. Ripensò a un episodio della sua infanzia, a una partita di cal-
cio, fratello contro fratello. La calda fangosità di un acquazzone in pieno luglio, la loro madre che, le maniche arrotolate fino al gomito, li svestiva per tuffarli nella vasca da bagno, in un groviglio ridanciano di braccia e di gambe... «... be'», stava dicendo Michael, «lei si mette a parlare, ma la voce non è la sua. Una cosa impressionante, John. Avresti dovuto vederla. Il pubblico se ne stava ammutolito, io ero percorso da ondate di calore e poi da brividi e poi di nuovo da ondate di calore, ma ti giuro che il riscaldamento non c'entrava. C'ero riuscito, capisci? Avevo riportato una donna in una vita passata, in cui lei era una suora. Ci crederesti? Una suora! Diceva di essere da sola, nella sua cella, si è messa a descrivere il convento e a un certo punto ha cominciato a recitare una cosa in latino e alcune persone tra il pubblico si sono fatte il segno della croce. Giuro. Ti dico che ero impietrito. Probabilmente avevo anche i capelli dritti sulla testa. L'ho fatta uscire dall'ipnosi il più rapidamente possibile, ma, prima dell'applauso, c'è stata una pausa di silenzio che non finiva più. Sono stati i suoi colleghi a esultare e a mettersi a ridere per primi... Chissà che sollievo, poveretti. Fatto sta che almeno hanno rotto il ghiaccio. Alla fine dello spettacolo ho scoperto che la signora era protestante, tifosa dei Rangers, per di più, e che non aveva mai studiato una parola di latino. Be', lei no, ma qualcun altro dentro di lei sì, però, capisci?» Rebus sorrideva. «Una storia graziosa, Mickey.» «Non è una storia: è la verità.» Michael spalancò di nuovo le braccia, in gesto di supplica. «Non mi credi, eh?» «Forse.» Michael scosse la testa. «Certo che tu proprio non ti lasci mai trasportare, eh, John? Ti dico che avevo intorno centocinquanta testimoni! E mica gente stupida.» Rebus non riusciva a distogliere l'attenzione dal disegno della moquette. «Un sacco di persone serie crede nell'esistenza di vite passate, John.» Vite passate... Sì, in qualcosa credeva anche lui... In Dio, per esempio... Ma vite passate... Senza nessun preavviso, un volto prese a gridargli dalla sua gabbia di righe nella moquette. Il bicchiere gli scivolò di mano. «John? Ti senti male? Cristo, sembra quasi che tu abbia visto...» «No, no, niente.» Rebus raccolse il bicchiere e si alzò. «È stato solo... Sto benone, davvero. Solo che» - controllò l'orologio, un orologio con lancette -, «adesso devo andare. Stasera sono di servizio.»
Michael sorrise debolmente, felice che il fratello non si trattenesse a cena e al contempo imbarazzato dal proprio sollievo. «Dobbiamo rivederci presto», disse. «Magari in campo neutro.» «Certo», rispose Rebus, tornando a registrare quell'odore speziato. Si sentiva un po' pallido e un po' scosso, come se si fosse allontanato troppo dal suo territorio. «Certo, presto.» Due o tre volte l'anno, in occasione di un matrimonio, di un funerale, o magari scambiandosi gli auguri di Natale per telefono, si promettevano d'incontrarsi presto. Ormai la promessa stessa era diventata un rito e, in quanto tale, poteva essere pronunciata e ignorata in tutta tranquillità. «Mi raccomando, non scordartene.» Sulla porta, Rebus strinse la mano al fratello. Quindi, schivando la BMW mentre si dirigeva alla macchina, si chiese quanto forte fosse la somiglianza che li legava. Nelle loro stanze fredde come la morte, zie e zii avevano spesso commentato: «Ah, voi due siete l'immagine sputata di vostra madre», ma più in là di così non si spingevano. John Rebus sapeva di avere i capelli di una sfumatura castana più chiara di Michael e gli occhi di un punto di verde più scuro. Ma sapeva anche che le differenze tra loro erano tali da rendere irrimediabilmente superficiali le somiglianze. Erano fratelli senza il minimo sentimento di fratellanza. La fratellanza apparteneva al passato. Dalla macchina, gli sventolò rapido una mano e poi partì. Sarebbe stato a Edimburgo in meno di un'ora e, nel giro di un'altra mezz'ora, sarebbe entrato in servizio. In realtà, conosceva bene il motivo per cui a casa di Michael non si sentiva mai a proprio agio: quel motivo era l'odio di Chrissie, la sua incrollabile convinzione che fosse soltanto lui, John Rebus, l'unico responsabile del fallimento del matrimonio con Rhona. Chissà, forse su quel punto aveva anche ragione. Mentalmente spuntò i compiti ben definiti che lo attendevano nell'arco delle successive sette od otto ore. Un caso di rapina a mano armata. Brutta storia, quella. L'investigativa era come sempre a corto di personale, e i recenti rapimenti avrebbero addirittura messo in ginocchio il dipartimento. Due ragazzine, stessa età di sua figlia. Meglio non pensarci. Di sicuro a quell'ora erano morte, o stavano desiderando di esserlo. Che il Signore avesse pietà di loro. E proprio a Edimburgo, nella sua amata città. Un maniaco a piede libero. La gente che si chiudeva in casa.
E un urlo nei suoi ricordi. Si strinse violentemente nelle spalle, provando una leggera sensazione di attrito in una scapola. Be', quel caso non era suo. Non ancora, almeno. In soggiorno, Michael Rebus si versò un altro whisky. Poi andò allo stereo e alzò il volume al massimo, infilò una mano sotto la poltrona e, dopo una breve ricerca, ne estrasse un posacenere. PARTE PRIMA «GLI INDIZI SONO OVUNQUE» 1 Sui gradini della stazione di polizia di Great London Road, a Edimburgo, John Rebus si accese l'ultima sigaretta della dose giornaliera, quindi spinse l'imponente portone ed entrò. Era una sede vecchia, con pavimenti di marmo scuro e un'aria di decrepita grandeur da aristocrazia in declino. Una sede che aveva carattere, insomma. Salutò con la mano il sovrintendente, impegnato a staccare vecchie foto segnaletiche dalla bacheca per sostituirle con altre, più recenti. Salì la grande scalinata curva che conduceva al suo ufficio e trovò Campbell pronto a smontare. «Ciao, John.» McGregor Campbell, agente investigativo come lui, stava indossando cappotto e cappello. «Allora, che si mormora, Mac? Mi aspetta una nottataccia?» Rebus passò in rassegna i messaggi sulla scrivania. «Questo non lo so, John. Posso solo dirti che è stata una giornata infernale. È arrivata una lettera per te da lui in persona.» «Ah, sì?» In realtà Rebus sembrava preso da un'altra lettera, che stava già aprendo. «Sì, John. Tieniti forte. Credo che ti assegneranno a quei casi di rapimento. Buona fortuna. Bene, io faccio un salto al pub, non voglio perdermi l'incontro di boxe sulla BBC. Dovrei essere ancora in tempo.» Campbell lanciò un'occhiata all'orologio. «Sì, ce la faccio tranquillamente. Ehi, John, qualcosa che non va?» Rebus sventolò la busta vuota. «Chi l'ha portata, questa, Mac?»
«Non ne ho la più pallida idea. Cos'è?» «Un'altra di quelle simpatiche letterine.» Campbell si avvicinò, fermandosi alle sue spalle, e sbirciò il messaggio battuto a macchina. «Non è lo stesso tizio?» «Osservazione acuta, Mac, visto che il messaggio è identico.» «E lo spago?» «C'è anche quello.» Rebus sollevò dalla scrivania il pezzo di spago annodato in un cerchietto. «Brutto affare, John.» Campbell si avviò alla porta. «Ci vediamo domani.» «Ci vediamo, ci vediamo.» Rebus tacque finché l'amico non fu scomparso in corridoio. Poi: «A proposito, Mac...» Campbell ricomparve sulla soglia. «Sì?» «Ha vinto Maxwell», gli annunciò allora, sorridendo. «Sei proprio un bastardo, Rebus.» Campbell uscì dalla stazione a denti stretti. «Uno della vecchia scuola», mormorò Rebus. «Allora, vediamo, che nemici potrei avere?» Riprese a esaminare la lettera, quindi passò alla busta. Bianca, tranne che per il suo nome battuto a caratteri irregolari. Era stata consegnata a mano, come l'altra. Brutto affare davvero. Scese a pianterreno e si diresse al banco all'ingresso. «Jimmy?» «Sì, John?» «Per caso avevi già visto questa?» Mostrò la busta al collega del banco informazioni. «Quella?» L'agente corrugò non solo la fronte, ma, almeno così parve a Rebus, tutta la faccia. Solo quarant'anni in polizia potevano ridurre così un uomo, quarant'anni di domande, rompicapi e croci buttate sulle spalle. «Devono averla infilata sotto il portone, John. Sì, l'ho trovata io sul pavimento, là davanti.» Indicò vagamente la porta. «Qualche problema?» «No, no, niente di particolare. Grazie, Jimmy.» Ma Rebus sapeva già che quel secondo messaggio anonimo, ricevuto a pochi giorni di distanza dal primo, l'avrebbe perseguitato tutta la notte. Tornato in ufficio, sedette e confrontò i due fogli. Macchina per scrivere vecchiotta, forse una portatile. Le S circa un millimetro più alte rispetto alle altre lettere. Carta dozzinale, priva di marchio. Il segmento di spago annodato, tagliato con un coltello o
delle forbici a lama affilata. Il messaggio, sempre lo stesso: GLI INDIZI SONO OVUNQUE Possibile. Forse c'erano davvero degli indizi. Comunque era opera di uno squilibrato, una specie di scherzo di cattivo gusto. Ma perché proprio a lui? Non aveva senso. Poi il telefono si mise a squillare. «Rebus, dell'investigativa?» «In persona.» «Rebus, sono l'ispettore capo Anderson. Ha ricevuto il mio messaggio?» Anderson. Il maledetto Anderson. Proprio quello che gli ci voleva: da uno squilibrato a un altro. «Sì, signore», rispose, incuneando la cornetta sotto il mento e aprendo contemporaneamente la busta ancora chiusa sulla scrivania. «Bene. Allora la aspetto qui tra una ventina di minuti. Il briefing è fissato nella sala operativa di Waverley Road.» «Ci sarò, signore.» La comunicazione s'interruppe mentre Rebus stava ancora leggendo. Dunque era vero. Era ufficiale. Lo avevano assegnato ai casi di rapimento. Cristo santo, che vita. Infilò i due fogli con relativi cerchi di spago nella tasca della giacca, lanciandosi intorno un'occhiata frustrata. Chi stava prendendo in giro chi? Solo un miracolo divino avrebbe potuto farlo arrivare a Waverley Road in meno di mezz'ora. E il resto del lavoro che lo aspettava? Quando avrebbe trovato il tempo per dedicarcisi? Aveva tre casi che stavano per approdare in tribunale e un'altra dozzina che rivendicava disperata attenzione, prima di sprofondare una volta per tutte nel buio della sua memoria. Sì, certo, sarebbe stato carino poterli cancellare in blocco dall'agenda. Zac, via tutti. Chiuse gli occhi. Li riaprì. La montagna di carte era sempre lì, enorme e opprimente. Inutile. Non ce l'avrebbe mai fatta. Per ogni caso che riusciva a liquidare, ce n'erano almeno altri due pronti ad aspettarlo. Come si chiamava quella bestiaccia schifosa? Era l'Idra, no? Ecco contro cosa lottava: contro l'Idra. Mozzava una testa, e al suo posto se ne materializzavano tre sulla sua scrivania. Il rientro dalle ferie, poi, era un incubo. E adesso, in aggiunta, gli stavano dando anche alcuni bei macigni da spingere su per la montagna. Levò gli occhi al soffitto. «Signore, abbi pietà», sussurrò. Quindi uscì, diretto alla macchina.
2 Il Sutherland Bar era un locale molto frequentato. Non aveva juke-box, né videogiochi, né banditaglia varia. Lo stile era spartano, il televisore sfarfallava e le immagini saltavano. Le signore non erano state le benvenute fino almeno a metà degli anni '60. Naturalmente aveva un segreto: la miglior birra alla spina di tutta Edimburgo. McGregor Campbell sorseggiava dal pesante bicchiere, gli occhi incollati al televisore sopra il bar. «Chi vince?» chiese una voce al suo fianco. «Non so», rispose lui, voltandosi. «Oh, Jim, ciao.» Accanto a lui sedeva un tizio corpulento, che aspettava di bere coi soldi alla mano. Anche lui teneva gli occhi incollati al televisore. «Ha l'aria di essere un gran bell'incontro. Secondo me vince Mailer.» Mac Campbell, però, la sapeva più lunga. «No, secondo me, Maxwell lo batte alla grande. Scommettiamo?» Il tizio corpulento infilò una mano in tasca in cerca delle sigarette e lanciò un'occhiata al poliziotto. «Quanto?» chiese. «Cinque?» «Affare fatto. Una pinta da questa parte, Tom, per favore. Gradisci anche tu, Mac?» «Per me lo stesso di prima, grazie.» Per un po' restarono seduti in silenzio, bevendo birra e seguendo l'incontro. Alle loro spalle, a ogni pugno assestato o schivato, si levavano grugniti soffocati. «Se regge sulla lunga distanza, mi sa che il tuo uomo ha la meglio», commentò a un certo punto Campbell, ordinando un altro giro. «Già. Vediamo come se la cava. E il lavoro come ti va, Mac?» «Benone. A te?» «In questo momento mi sto solo facendo un gran culo, se proprio devo dire la verità.» Di quando in quando, tra una parola e l'altra, gli cadeva un po' di cenere sulla cravatta, la sigaretta infilata tra le labbra che traballava. «Un gran culo.» «Ancora quella storia di droga?» «Non esattamente. Adesso mi occupo dei casi di rapimento.» «Sì? Anche Rebus. Sta' attento a non capitargli tra i piedi, allora.» «I giornalisti capitano tra i piedi a tutti, Mac. Fa parte del mestiere, eccetera, eccetera.»
Per quanto diffidente, Mac Campbell era grato a Jim Stevens per un'amicizia che, sebbene a tratti fiacca e tirata, gli aveva fornito diverse informazioni utili per la carriera. Naturalmente Stevens teneva per sé gran parte delle chicche più gustose: in fondo, gli scoop non erano che quello. Ma in generale era sempre disposto a trattare scambi di notizie, e Campbell aveva la sensazione che spesso al giornalista bastassero poche e innocue briciole di pettegolezzi e informazioni pseudoriservate. Era una specie di gazza: raccoglieva tutto, senza pregiudizi, immagazzinando più scorte di quante gliene sarebbero mai servite. Il fatto è che coi reporter non si poteva mai dire. La cosa sicura era che Campbell preferiva avere Stevens come amico che come nemico. «E il tuo dossier sulla droga che fine ha fatto?» Jim Stevens si strinse nelle spalle spiegazzate. «Ora come ora non nasconde niente che potrebbe tornarvi utile. Non ho intenzione di lasciar perdere, quello no, se è ciò che intendi. Là dentro si annidano troppe vipere per lasciarle andare a spasso come se niente fosse. Diciamo che continuo a tenere gli occhi aperti.» La campana dell'ultimo round suonò. Due corpi sudati e stremati si puntarono addosso, trasformandosi in un unico nodo di arti. «Continuo a pensare che Mailer ce la farà», disse Campbell, ma cominciava ad avvertire una vaga sensazione di disagio. No, non poteva essere. Rebus non gli avrebbe mai fatto una cosa del genere. All'improvviso Maxwell, il più pesante e lento dei due, ricevette un colpo in pieno viso e arretrò di qualche passo. Il pubblico del bar esplose in un urlo: nell'aria c'era odore di sangue e di vittoria. Campbell abbassò lo sguardo nel bicchiere. L'arbitro stava contando. Era finita. Per il commentatore televisivo, una vittoria sensazionale sul filo degli ultimi secondi dell'incontro. Jim Stevens tese la mano aperta. Giuro che ti uccido, Rebus, pensò Campbell. Ti uccido. Più tardi, sorseggiando altre pinte pagate coi soldi della vincita, Jim Stevens tornò proprio sull'argomento John Rebus. «Insomma, finalmente ci conosceremo, giusto?» «Forse sì, forse no. Non è esattamente in buoni rapporti con Anderson, quindi potrebbe anche andargli male e ritrovarsi a sbrigare lavori d'ufficio per il resto dei suoi giorni. D'altro canto, John Rebus non è esattamente in buoni rapporti con nessuno.» «Ah, no?» «Non è che sia cattivo, solo che non è neanche facile volergli bene, ec-
co.» Sganciando il proprio sguardo da quello indagatore di Stevens, Campbell gli osservò la cravatta. L'ultimo strato di cenere di sigaretta non era che un velo sottile su un fondo di macchie di antica data. Uova, probabilmente; unto, alcol... I peggio conciati, però, erano anche i reporter migliori, e Stevens era acuto, acuto quanto potevano averlo reso dieci anni di servizio nella redazione del quotidiano locale. Si diceva avesse declinato offerte d'importanti testate londinesi, e questo solo perché gli andava di stare a Edimburgo. La cosa che gli piaceva di più del suo lavoro era la possibilità di scavare nelle viscere più oscure della città, nel crimine, nella corruzione, nella droga e tra le gang malavitose. Era il miglior detective che Campbell conoscesse e, forse per la stessa ragione, i vertici della polizia lo screditavano e disprezzavano. Il che era una dimostrazione sufficiente che invece faceva bene il suo mestiere. Restò a guardarlo mentre un baffo di birra gli colava dal bicchiere e gli finiva sui pantaloni. «Questo Rebus», riprese Stevens, pulendosi la bocca, «è il fratello dell'ipnotizzatore, giusto?» «Credo di sì. Non gliel'ho mai chiesto, ma non credo siano in molti con quel cognome.» «E quel che pensavo.» Stevens annuì tra sé, come a confermare un dato importante. «Perché me lo chiedi?» «Oh, pura curiosità. E non è molto benvoluto, dicevi?» «No, non ho detto che non è benvoluto. In realtà, anzi, ci sto anche un po' male per lui. In fondo è pieno di casini. Hanno addirittura cominciato a mandargli lettere anonime.» «Lettere anonime?» Per un attimo, mentre col vecchio mozzicone si accendeva una nuova sigaretta, il mento del giornalista fu avvolto da un bioccolo di fumo. «Ecco, non dovevo dirtelo. Be', Jim, che resti assolutamente tra noi, intesi?» Stevens fece segno di sì con la testa. «Promesso. Assolutamente tra noi. È soltanto che una cosa del genere colpisce, no? Anche se immagino succeda spesso.» «No, spesso no. E non sempre sono lettere strane come quelle che arrivano a lui. Voglio dire, niente di osceno o roba simile. Solo che... sono strane, ecco.» «Va' avanti. Strane in che senso?» «Be', insieme con ogni lettera c'è un pezzo di spago annodato a cerchio,
e il messaggio dice qualcosa tipo: 'ci sono indizi ovunque'.» «Ragazzi! Strano davvero. Del resto, anche i Rebus sono ben strani. Uno che fa l'ipnotizzatore, l'altro che riceve lettere anonime. Se non sbaglio è stato anche nell'esercito, no?» «John? Sì, sì, era nell'esercito. Ma tu come fai a saperlo?» «Io so tutto, Mac. È il mio mestiere.» Jim aveva di nuovo l'aria interessata: quando qualcosa catturava la sua attenzione, gli fremevano leggermente le spalle. Lanciò un'occhiata al televisore. «E dell'esercito non parla?» «Non una parola. Ho provato a chiedergli, un paio di volte, ma niente da fare.» «Come ho detto, Mac, quella è una famiglia strana. Forza, bevi, che ho ancora un mucchio di soldi tuoi da spendere.» «Sei un bastardo.» «Fatto e finito», convenne il giornalista, sorridendo soltanto per la seconda volta nella serata. 3 «Signori, e, naturalmente, signore, grazie per la rapidità con cui siete venuti. Questa resterà la nostra base operativa per tutta la durata dell'indagine. Ora, come tutti sapete...» L'investigatore capo Wallace si bloccò a metà frase, mentre la porta si spalancava e, attirando l'attenzione generale, John Rebus faceva il suo ingresso nella sala operativa. L'agente si guardò intorno, imbarazzato, sorrise, a mo' di speranzosa quanto vana scusa in direzione del superiore, e si sedette sulla sedia più vicina. «Come stavo dicendo...» riprese allora l'investigatore capo. Sfregandosi la fronte, Rebus studiò la sala gremita di colleghi. Sapeva già cosa stava per dire Wallace, e in quel momento l'ultima cosa di cui sentiva il bisogno era un discorsetto d'incoraggiamento vecchio stile. Molti degli agenti avevano l'aria stanca, come se si stessero occupando già da un po' di quei casi, e senza risultato. Le facce più fresche e interessate erano indubbiamente quelle dei colleghi più giovani, alcuni convocati da stazioni di fuori città e, due o tre di essi, armati di blocco e matita, neanche fossero ancora sui banchi di scuola. In testa al gruppo, le gambe accavallate, sedevano due donne con gli occhi puntati su Wallace, che, in pieno fervore ora-
torio, camminava avanti e indietro davanti alla lavagna come un eroe shakespeariano in una recita dell'oratorio. «Due i decessi, dunque. Decessi, sì, perché purtroppo di questo si tratta.» La sala fremette in preda all'aspettativa. «Il corpo di Sandra Adams, undici anni, è stato rinvenuto alle diciotto di oggi in un lotto di terreno abbandonato vicino a Haymarket Station. Quello di Mary Andrews alle diciotto e trenta, in un piccolo appezzamento nel quartiere di Oxgangs. Entrambi i luoghi sono già presidiati da agenti e, al termine di questa riunione, alcuni di voi li raggiungeranno.» Rebus notò che l'ordine gerarchico era come sempre tacitamente rispettato: gli ispettori in prima linea, gli agenti e il resto delle forze distribuiti nelle retrovie. Le precedenze sono le precedenze, anche in piena crisi: è il Morbo degli Inglesi. Quanto a lui, se ne stava là in fondo perché era arrivato in ritardo. Un'altra nota di biasimo su di lui nel registro mentale di qualcuno. Nell'esercito era sempre stato in alto. Era stato un parà, poi aveva affrontato la selezione per entrare nel SAS e si era congedato come uno dei migliori. Lo avevano assegnato a un contingente delle Operazioni Speciali. Era tornato a casa con una medaglia e numerose attestazioni d'encomio. Era stato un bel periodo, per lui, e allo stesso tempo il peggiore dei periodi, un'epoca di stress, sacrifici, brutalità e inganni. Uscito dall'esercito, la polizia aveva avuto qualche resistenza ad accoglierlo tra le sue file, e soltanto adesso lui capiva che il problema erano state proprio le pressioni esercitate dalle forze militari perché gli venisse accordato il posto che lui chiedeva. Molti non avevano gradito l'interferenza e, non appena era stato loro possibile, gli avevano disseminato la strada di bucce di banana. Lui però era riuscito a schivarle tutte e a compiere sempre il suo dovere, ottenendo anche lì numerosi elogi, seppure a denti stretti. Peccato che le promozioni stentassero ad arrivare, e che quel fatto lo avesse indotto a lasciarsi sfuggire frasi che sarebbe stato meglio tenere per sé, frasi che da allora erano sempre state usate contro di lui. Poi, una notte, aveva menato un bastardo riottoso in cella. Che Dio lo perdonasse, per un minuto aveva perso la testa e quel precedente si era portato dietro altri guai. Be', il mondo intero funzionava male, ma proprio male. Era solo finito in una terra da Antico Testamento, una terra di barbarie e castigo. «Naturalmente domani, al termine delle autopsie, disporremo di maggiori informazioni su cui lavorare, ma per il momento è tutto. Vi lascio dunque nelle mani dell'ispettore capo Anderson, che vi darà le nuove conse-
gne.» Rebus notò che, in un angolo lì vicino, Jack Morton si era appisolato. Se qualcuno non avesse fatto qualcosa, ben presto si sarebbe messo anche a russare. Sorrise, ma il suo sorriso ebbe vita breve e cadde sotto la sferza di una voce che giungeva dal fondo della sala: la voce di Anderson. Era la ciliegina sulla torta: Anderson, l'oggetto delle sue biasimate critiche. Per un istante, si sentì perseguitato dal destino: la responsabilità delle indagini era stata affidata proprio a lui. Anderson in persona avrebbe deciso le consegne di ciascuno. Rebus rammentò a se stesso che doveva piantarla di pregare. Forse, se l'avesse fatto, il Signore avrebbe mangiato la foglia e smesso di fare la carogna con uno dei suoi pochi, veri fedeli in quel pianeta maledetto. «Gemmill e Hartley faranno un giro d'interrogatori a porta a porta.» Be', almeno con loro non era finito. C'era solo una consegna peggiore delle chiacchiere a porta a porta... «Per quanto riguarda il controllo preliminare dei dossier sul modus operandi: sergenti Morton e Rebus.» ... ed era quella. Grazie, Signore, grazie infinite davvero. Era proprio quello che speravo di fare stasera: leggermi nei dettagli i fascicoli su tutti i fottuti maniaci e i violentatori della Scozia centrorientale. Si vede che sono il Tuo prediletto! Vuoi forse mettermi contro Giobbe? Ma dal cielo non gli giunse nessuna voce di risposta. Continuava a sentire solo quella satanica e sogghignante di Anderson, che lentamente sfogliava il ruolino dei turni di servizio, le labbra umide e piene, sua moglie una notoria adultera e suo figlio - ironia della sorte - un poeta itinerante. Rebus fece piovere maledizioni sulla testa di quel superiore rigido e bacchettone, quindi allungò un calcio alla gamba di Jack Morton, riportandolo alla coscienza tra un grugnito e un ruminamento. Una serataccia. 4 «Una serataccia, eh?» commentò Morton. Aspirò goduriosamente dalla sigaretta corta con filtro, tossì, estrasse il fazzoletto dalla tasca e vi depositò qualcosa dalla bocca. Quindi esaminò il reperto. «Ah-ah, ecco qui una nuova prova d'importanza vitale», disse. Ma, nonostante l'ironia, appariva preoccupato.
Rebus sorrise. «Sarebbe ora che smettessi di fumare, Jack.» Sedevano insieme a una scrivania sulla quale erano impilati circa centocinquanta dossier su colpevoli di reati sessuali della Scozia centrale. Una segretaria giovane e vivace, che probabilmente già esultava all'idea degli straordinari che sempre si accompagnano a un'indagine per omicidio, continuava a entrare e uscire dall'ufficio con nuovi dossier e, ogni volta, Rebus le lanciava occhiate di finta quanto poderosa indignazione. Sperava così di allontanarla: la prossima volta che si fosse presentata, l'indignazione sarebbe diventata una minaccia reale. «No, John, sono questi filtri schifosi, credimi. Sarà mica il modo di fumare, dai! In culo al dottore.» Così dicendo prese la sigaretta, la spezzò all'altezza del filtro e tornò a infilarsela, ora ridicolmente corta, tra le labbra esangui e sottili. «Oh, molto meglio. Molto meglio. Questa sì che è una paglia.» Due cose avevano sempre colpito Rebus: la prima era che Jack Morton gli stava simpatico e che lui stava simpatico a Jack Morton. La seconda era la forza con cui il collega riusciva a tirare e l'esiguità della nuvoletta che in cambio esalava. Dove accidenti occultava tutto quel fumo? Non riusciva a immaginarlo. «Tu hai deciso di andare in bianco, stasera?» «Cerco di non superare le dieci al giorno, Jack.» Morton scosse la testa. «Dieci, venti, trenta... Credimi, John, alla fine non fa nessuna differenza. Il punto è che o smetti o non smetti e, se non riesci a smettere, tanto vale che ne fumi quante ne vuoi. È dimostrato, sai? L'ho letto su una rivista.» «Sì, certo, ma sappiamo bene che genere di riviste leggi, Jack.» Morton emise una risatina gorgogliante, esplose in un altro tremendo colpo di tosse e di nuovo estrasse il fazzoletto. «Lavoro di merda», mormorò Rebus, sollevando il primo dossier. Per una ventina di minuti sedettero in silenzio, navigando tra pagine di atti e fantasie di violentatori, esibizionisti, pederasti, pedofili e magnaccia. Rebus si sentiva la bocca impastata e ancora una volta si vide lì, vide il sé che faceva capolino da dietro la sua coscienza, il Mister Hyde di Edimburgo, imbarazzato per le proprie involontarie erezioni. Senza dubbio anche a Jack capitava la stessa cosa. Era una questione d'istinto, come il territorio: c'era il disgusto ma anche la fascinazione. Intorno a loro, la stazione ronzava indaffarata. Agenti in maniche di camicia superavano a passo deciso la porta della loro stanza, dell'ufficio che
era stato assegnato ai due per isolarli da tutto e da tutti, così da evitare contaminazioni di pensiero. Rebus fece una pausa, riflettendo sul fatto che il suo ufficio di Great London Road avrebbe avuto bisogno di gran parte di quelle attrezzature: una scrivania moderna (che non traballasse, e con cassetti facili da aprire), il mobile dell'archivio (idem), la distributrice di bibite appena fuori della porta. Lì le stanze erano addirittura moquettate, non come la sua, con quel pavimento di linoleum rosso-fegato dai bordi pericolosamente arricciati. Quello sì, che era l'ambiente giusto per concentrarsi nella caccia al violentatore o all'assassino. «Cosa cerchiamo di preciso, Jack?» Morton grugnì, appoggiò un sottile dossier marrone, guardò il collega, si strinse nelle spalle e accese una sigaretta. «Schifezze», sentenziò quindi, prendendo un altro fascicolo. Se quella era la risposta per Rebus, non era dato di saperlo. «Sergente Rebus?» Sulla porta c'era un giovane poliziotto ben rasato, la gola fiorita di acne. «Sì?» «Un messaggio dall'investigatore capo, signore.» Porse a Rebus un foglio ripiegato di carta da blocco azzurrina. «Buone nuove?» s'informò Morton. «Oh, le migliori in assoluto, Jack le migliori. Il capo ci invia il seguente, fraterno messaggio: 'Allora: qualche indizio?' Fine del messaggio.» «Intende rispondere, signore?» chiese il giovane. Rebus appallottolò il foglio e lo lanciò in un cestino di alluminio nuovo. «Sì, figliolo, intendo rispondere», rispose infine. «Ma dubito assai che tu voglia fare da messaggero.» Jack Morton si scrollò la cenere dalla cravatta e scoppiò a ridere. Era proprio una serataccia. Jim Stevens, finalmente diretto a casa, non si era imbattuto in nulla d'interessante, a parte la conversazione con Mac Campbell, quattro ore prima. Gli aveva detto che non intendeva affatto mollare l'inchiesta sul racket della droga a Edimburgo, ed era la pura verità. In un certo senso stava diventando un'ossessione personale e, benché il capo lo avesse assegnato ai casi di nera, avrebbe continuato a dedicarci ogni minuto del suo tempo libero. Tempo che poteva ritagliarsi soltanto a notte fonda, quando ormai le rotative funzionavano a pieno ritmo. Tempo in cui si sarebbe tuffato sempre più giù, sempre più a fondo e sempre più al largo, fuori città. Sentiva di essere ormai vicino alla tana del pesce grosso,
ma non ancora abbastanza per chiedere ufficialmente l'intervento delle forze dell'ordine. Prima di chiamare la cavalleria, voleva sapersi in una botte di ferro. Conosceva anche i rischi. Il terreno su cui camminava poteva franargli sotto i piedi in qualunque momento, facendolo scivolare nei dock di Leith nelle ore più buie e silenziose del mattino, per poi ricondurlo in superficie, legato e imbavagliato, in qualche canale di scolo dell'autostrada vicino a Perth. Non che fosse davvero preoccupato... Quello era solo un pensiero fuggevole, provocato dalla stanchezza e dal bisogno di provare qualche emozione più forte di quelle fornite dalla scena della droga di Edimburgo, smorta e d'infima qualità, una scena allestita sul fondale di mastodontici caseggiati popolari e locali after-hours, più che su quello delle scintillanti discoteche e delle case bene della New Town. La cosa che odiava, che odiava davvero, era che i veri burattinai, lassù, se ne stessero così rintanati, che fossero tanto guardinghi e, in ultima analisi, così estranei all'intero contesto. I criminali che piacevano a lui si sporcavano le mani, erano all'altezza del ruolo e amavano la bella vita. Erano i gangster di Glasgow degli anni '50 e '60, che vivevano a Gorbals e da lì operavano, prestando soldi sporchi ai vicini e, all'occorrenza, sgozzandoli senza troppi scrupoli. L'organizzazione malavitosa era di stampo vagamente familiare, non come questa, proprio no. Questa era tutta un'altra faccenda, e ciò lo disgustava. La chiacchierata con Campbell, però, era stata piuttosto interessante. Interessante per motivi diversi. Dalle descrizioni, Rebus pareva un tipo losco. Idem suo fratello. Chissà, forse c'entravano tutti e due. E se la polizia era coinvolta in quella storia, allora il suo compito sarebbe stato assai più duro, e assai più gratificante. Adesso gli occorreva soltanto una pausa, una pausa di riposo nelle indagini. Tanto ormai non poteva essere lontano dall'obiettivo. Aveva un certo fiuto per quel genere di cose. 5 All'una e mezzo si concessero uno stacco. Nell'edificio c'era una piccola mensa aperta anche a quell'ora ingrata e, mentre in città si stavano certamente consumando quasi tutti i piccoli reati della giornata, là dentro c'era un bel tepore, si stava bene, era possibile mettere qualcosa di caldo nello stomaco e assaporare le infinite tazze di caffè a disposizione degli agenti di
turno. «Bel casino», commentò Morton, dirottando nella tazza il liquido finito nel piattino. «Anderson non sa neanche da che parte girarsi per cominciare.» «Dammi una sigaretta, va'. Io le ho finite.» Rebus si tastò eloquentemente le tasche. «Cazzo, John», ribatté Morton, sibilando come un vecchio asmatico e allungandogli il pacchetto. «Il giorno che smetterai di fumare sul serio, giuro che mi cambio le mutande.» Jack Morton non era affatto vecchio, nonostante gli eccessi che lo stavano trascinando verso quel prematuro destino. Aveva solo trentacinque anni, vale a dire sei meno di Rebus, e come lui si era già lasciato un matrimonio alle spalle e quattro figli al momento in cura presso la nonna, mentre la madre si prendeva una vacanza ambiguamente lunga col suo ultimo amante. Una storia fottutamente triste, aveva detto a Rebus, e Rebus, con una figlia che gli pesava sulla coscienza, si era dichiarato d'accordo con lui. Morton faceva il poliziotto da quasi vent'anni. Diversamente da Rebus, era partito da zero e si era conquistato l'attuale posizione soltanto grazie all'impegno e al duro lavoro. Gli aveva raccontato tutta la sua vita un giorno in cui erano andati insieme a pescare, dalle parti di Berwick. Il tempo era splendido, entrambi erano tornati col paniere pieno e, nell'arco di un'unica giornata, erano diventati amici. Rebus però non si era spinto fino al punto di ricambiare col racconto della propria storia, comportandosi come un uomo prigioniero della gabbia che si è costruito da solo. Era sembrato reticente soprattutto sugli anni trascorsi nell'esercito, ma Morton aveva rispettato la sua omertà, ben sapendo che spesso si trattava proprio di uno degli effetti della vita militare. Forse nel suo armadio il collega nascondeva qualche scheletro e in fondo lo stesso valeva anche per lui: alcuni dei suoi arresti più clamorosi non erano stati certo frutto di procedure «corrette». Ultimamente, però, Morton non si occupava più di casi da prima pagina: faceva il proprio lavoro e basta, portava a casa lo stipendio, cominciava a pensare alla pensione e al tempo libero che avrebbe dedicato alla pesca, e si stordiva di alcol per cancellare dalla coscienza il ricordo della moglie e dei figli. «Niente male, questa mensa», commentò Rebus dopo essersi acceso la sigaretta, ansioso d'iniziare una nuova conversazione. «Niente male, sì. Ogni tanto ci faccio un salto. Conosco uno dei tizi che
lavorano in sala computer. È comodo, sai, avere dalla tua uno di 'sti informatici: sono capaci di risalire in un attimo a una targa, a un nome, a un indirizzo, e in genere non ti costano più di qualche pinta al momento giusto.» «Allora perché non lo sbrigano loro il nostro lavoro?» «Questione di tempo, John: prima o poi tutti i fascicoli saranno messi nel computer, e si accorgeranno di non avere più bisogno dei muli come noi. Basteranno una bella postazione informatizzata e un paio d'ispettori.» «Cercherò di tenerlo a mente.» «È il progresso, John. Dove saremmo senza il progresso? Andremmo ancora in giro tirando la pipa ed elaborando congetture con la lente d'ingrandimento.» «Forse hai ragione, Jack, però il capo dice sempre: 'Datemi una dozzina di uomini in gamba e rispedite pure tutte le macchine alla fabbrica'.» Mentre parlava si guardò intorno. Una delle due poliziotte viste in sala briefing sedeva da sola a un tavolo. «E poi», continuò, «per quelli come noi ci sarà sempre posto, Jack. La società non può fare senza: credi che un computer sarebbe mai capace di un'ispirazione? Di un'intuizione? È in questo che li batteremo, ora e sempre.» «Chissà, non so. Adesso però è meglio rimettersi al lavoro, che dici?» Morton lanciò un'occhiata all'orologio, svuotò la tazza e spinse indietro la sedia. «Va' pure, Jack. Io ti raggiungo tra un minuto. Mi è giusto venuta un'ispirazione che vorrei verificare.» «Le spiace?» Rebus, una nuova tazza di caffè in mano, estrasse la sedia dalla parte opposta del tavolo cui sedeva la collega, in quel momento sprofondata nella lettura del giornale. Non gli sfuggì il titolone in prima pagina, segno che qualcuno aveva già fatto una soffiata alla stampa. «Prego», rispose lei, senza sollevare la testa. Rebus sorrise e si accomodò, cominciando a sorseggiare la polverosa brodaglia istantanea. «È molto impegnata?» chiese. «Sì. Lei no? Il suo amico è tornato in pista qualche minuto fa.» Acuta, la ragazza. Acuta e tagliente. Per un attimo Rebus si sentì vagamente a disagio. Odiava le donne castranti e, a giudicare da quelle prime
battute, ne aveva davanti una. «Già, proprio così, ma lui è masochista. Stiamo esaminando i dossier in cerca di analogie sul modus operandi... Farei qualunque cosa per ritardare un simile piacere.» Finalmente lei alzò la testa, toccata dal potenziale insulto. «Dunque io sarei una tattica di temporeggiamento, giusto?» Rebus sorrise e si strinse nelle spalle. «Che altro?» Ora toccava a lei sorridere. Chiuse il giornale e lo piegò due volte, appoggiandolo sul piano in formica del tavolo. Poi picchiettò con un dito sul titolo. «Cominciamo a fare notizia.» Rebus ruotò il giornale verso di sé. «I rapimenti di Edimburgo diventano omicidi», diceva il titolo. «Brutto caso», commentò. «Brutto, brutto caso. E la stampa non ci aiuta di certo.» «Tra un paio d'ore dovrebbero arrivare i referti delle autopsie: forse allora disporremo di qualche pista più concreta da seguire.» «Me lo auguro. Non vedo l'ora di accantonare quei dossier.» «Credevo che i poliziotti», disse la donna, sottolineando il genere dell'ultima parola, «si eccitassero a leggere certa roba.» Rebus allargò le mani davanti a sé, in un gesto che sembrava copiato da Michael. «Vuole metterci in croce? Da quanto tempo è nella polizia?» Doveva avere una trentina d'anni. Capelli folti, castani, corti, e un naso lungo e diritto come una pista da sci. Niente anelli alle dita, ma al giorno d'oggi la cosa non aveva significato. «Da abbastanza.» «Chissà perché, ma ci avrei scommesso che mi avrebbe risposto così.» Però stava ancora sorridendo: non poi così castrante, allora. «In tal caso è più intelligente di quanto non la facessi», ribatté lei. «Oh, le sorprese non finiscono mai.» Rebus cominciava a stancarsi: quel gioco non portava da nessuna parte. Continuavano a restare a centrocampo, sembrava più un'amichevole che una finale di Coppa. Controllò l'orologio con gesto ampio ed eloquente. «È ora che vada.» Lei raccolse il giornale. «Ha già qualche programma per il week-end?» John Rebus tornò a sedersi. 6 Uscì dal quartier generale alle quattro. Gli uccelli stavano già tentando
di convincere l'umanità intera che era l'alba, ma nessuno sembrava esserci ancora cascato. Era buio pesto, l'aria pungente. Decise di lasciare la macchina nel parcheggio e di rincasare a piedi. In fondo erano solo tre chilometri. Aveva bisogno di sgranchirsi le gambe, di ossigenarsi un po', di sfidare il primo acquazzone della giornata. Inspirò, sforzandosi di rilassarsi e dimenticare, ma aveva la testa piena di quei dossier, era perseguitato da cifre, brani di deposizioni, minuscoli paragrafi d'orrore. Violenze sessuali su una bimba di otto settimane. La baby-sitter che ammetteva freddamente di essersi lasciata andare soltanto perché era «arrapata». Lo stupro di una nonna sotto gli occhi dei due nipotini, cui poi erano state offerte alcune caramelle. Atto premeditato da parte di uno scapolo cinquantenne. Il nome di una gang di strada impresso con braci di sigaretta sul seno di una dodicenne, poi creduta morta e abbandonata in una capanna in fiamme. Autori del gesto: impuniti. E adesso la perversione delle perversioni: due minorenni adescate, rapite e strangolate senza aver subito violenza sessuale. Anderson stesso aveva avuto occasione di definirla in quei termini, «perversione delle perversioni», e, in un certo senso, Rebus capiva cosa intendeva. In quel modo, le due morti apparivano ancora più arbitrarie, più immotivate e più sconvolgenti. Be', almeno non avevano a che fare con un maniaco sessuale. Non per il momento. Il che, purtroppo, rendeva il loro compito addirittura più arduo: si trovavano di fronte a qualcosa di simile a un serial killer che colpiva apparentemente a caso, senza un metodo, puntando più a fare scalpore che non a soddisfare voglie particolari. La domanda adesso era: si sarebbe fermato a due? Difficile da credere. Strangolamento. Una morte orribile. Lotti, scalci con tutta la forza che hai, piombi nel panico, comincia a mancarti l'aria... mentre, nel novanta per cento dei casi, l'assassino è alle tue spalle e ti lascia solo, col terrore di un volto senza contorni, ti manda incontro a una morte senza un chi né un perché. Ai tempi del SAS, Rebus aveva studiato varie tecniche di annientamento dell'avversario; sapeva cosa si provava col filo della garrotta tirato sul collo, sperando che un barlume di lucidità avesse improvvisamente la meglio nel nemico. Brutto modo di andarsene. Edimburgo continuava a dormire, come aveva fatto per secoli. Nelle
viuzze acciottolate, sulle tortuose scale dei caseggiati della Old Town, si nascondevano fantasmi, ma erano fantasmi dell'Età dei Lumi, rispettosi e ragionevoli, non certo inclini a balzarti addosso nell'oscurità armati di un pezzo di spago. E poi ormai era mattino e qualunque spirito timoroso di Dio se ne stava rincantucciato nel letto, proprio come lui, John Rebus, in carne e ossa, avrebbe fatto di lì a poco. Nelle vicinanze di casa superò una piccola drogheria davanti alla quale erano impilate alcune cassette di latte e vassoi di pane fresco. Il proprietario si era lamentato con lui di qualche piccolo furto occasionale, però non aveva intenzione di sporgere formale denuncia. Il negozio era buio e deserto, il silenzio della via rotto solo dal rumore distante dei pneumatici di un taxi sul selciato sassoso e dall'insistenza del cinguettio mattutino. Rebus si guardò intorno, studiando le finestre schermate dalle tende. Poi, con gesto rapido, prese sei panini da un vassoio e se li infilò in tasca, allontanandosi a passo sospettosamente deciso. Un attimo dopo rallentò, ebbe un'esitazione e, in punta di piedi, tornò fino al negozio, come l'assassino sulla scena del delitto o il cane alla pozza del proprio vomito. In realtà non aveva mai visto i cani fare una cosa del genere, ma era sicuro ne fossero capaci. Dopo essersi lanciato una nuova occhiata intorno, prelevò una bottiglia di latte da una cassetta e, fischiettando tra sé, si diede alla fuga. Al mondo nulla era più gustoso di una colazione a base di panini rubati con burro e marmellata e una bella tazza di caffelatte. Nessun peccato veniale aveva retrogusto migliore. Giunto ai piedi della tromba delle scale, annusò l'aria e subito riconobbe la minaccia persistente di piscio di gatto maschio. Salì le due rampe trattenendo il respiro, quindi si frugò in tasca per recuperare le chiavi di casa da sotto i panini schiacciati. L'appartamento era umido e di umido odorava. Rebus controllò la caldaia; naturalmente, la fiamma pilota si era spenta. La riaccese imprecando, mise il riscaldamento al massimo e andò in soggiorno. Sulla libreria, nel pensile, sulla cappa del camino, là dove Rhona un tempo aveva disposto i suoi soprammobili, restavano ancora molti spazi liberi, benché lui avesse ormai riempito gran parte dei buchi con cose sue: bollette, lettere rimaste senza risposta, vecchi anelli a strappo di lattine di birra da quattro soldi, qualche libro non letto. Rebus faceva collezione di libri che poi non leggeva. In passato no, aveva sempre letto tutto quello che comprava, ma ormai aveva così poco tempo... E poi era diventato più
critico, non era più disposto a sorbirsi sino alla fine un tomo che non gli piacesse veramente: la sua pazienza durava al massimo dieci pagine. Era il caso dei libri che teneva in soggiorno. Quelli che invece leggeva li ammassava in camera da letto, in pile ordinate sul pavimento, come altrettanti pazienti nella sala d'aspetto di un medico. Un giorno o l'altro si sarebbe preso una vacanza, avrebbe affittato un cottage nelle Highlands o sulla costa del Fife e avrebbe portato con sé tutti i libri ancora in attesa di essere letti o riletti, tutto il sapere che lo attendeva dietro quelle copertine. Il suo romanzo preferito, un libro che sfogliava almeno una volta all'anno, era Delitto e castigo. Se solo gli assassini moderni avessero dimostrato più spesso un briciolo di coscienza! Invece no, i killer di oggi si vantavano dei loro crimini davanti agli amici e giocavano a biliardo nel pub sotto casa, passando con aria affettata e sicura di sé il gesso sulla punta della stecca, sapendo già quale palla sarebbe finita in quale buca... ... mentre una pattuglia di sorveglianza sostava nei pressi del locale, i suoi occupanti praticamente impossibilitati a fare alcunché, tranne maledire l'insormontabile montagna di regole e norme imposte e gli incolmabili abissi del crimine. Il crimine. Il crimine era ovunque. Era la linfa vitale, il sangue e la forza bruta della vita: imbrogliare, depistare, scartare la legge e uccidere. Più in alto salivi lungo la scala del crimine, più sottilmente tornavi a virare verso la legalità, finché solo un pugno di avvocati poteva ancora aprire una crepa nel tuo sistema. Però anche loro erano umani, deboli, corruttibili. Quel vecchio bastardo di Dostoevskij lo sapeva bene. Lui aveva sentito puzza di marcio dappertutto. Ma il povero, vecchio Dostoevskij era morto e sepolto, e non aveva nessun invito a una festa per il week-end. Non come lui, John Rebus, che in genere agli inviti rispondeva di no, perché accettare significava lucidare le scarpe, stirare una camicia, spazzolare il vestito buono, farsi un bagno e spruzzarsi di colonia. Nonché comportarsi da persona affabile, bere e stare in allegria, chiacchierare con sconosciuti verso i quali non provava il minimo desiderio di socializzare e che nessuno lo pagava per intrattenere. In altre parole, odiava l'idea di dover recitare nei panni di un normale essere umano. Però all'invito di Cathy Jackson nella mensa di Waverley Road aveva detto sì. Ovviamente, Non solo. Gli bastò pensarci per mettersi a fischiettare, mentre in cucina allestiva la colazione che avrebbe poi consumato in camera da letto. Una specie di rito, dopo una notte di servizio. Di lì a poco si spogliò, s'infilò sotto le coperte, si mise il piatto coi panini imburrati in bilico sul torace e
si piazzò un libro davanti al naso. Niente di speciale, la storia di un rapimento. Rhona si era portata via l'intelaiatura del letto, lasciandogli giusto il materasso, ragion per cui da quella posizione gli era facile allungare la mano verso la tazza di caffè posata per terra, come scartare un libro e pescarne un altro dalla pila. Si addormentò abbastanza rapidamente, con la luce accesa, mentre sotto la finestra cominciavano a passare le prime macchine. Una volta tanto la sveglia fece il suo dovere, tirandolo giù dal letto con la forza con cui una calamita attira la limatura di ferro. Scalciò via il piumone e si ritrovò sudato fradicio. Si sentiva soffocare. Di colpo gli tornò in mente di aver regolato la caldaia al massimo. Davanti alla porta d'ingresso, mentre andava ad abbassare il termostato, si chinò a raccogliere la posta del mattino. Una delle buste non era affrancata né timbrata, ma recava solo il suo nome scritto a macchina. Rebus sentì lo stomaco serrarsi sui resti di pane e burro di qualche ora prima. Aprì la busta e ne estrasse un unico foglio di carta. PER CHI SA LEGGERE TRA LE PIAGHE DEL TEMPO Così quel pazzo sapeva anche dove abitava. Ispezionò la busta con aria disincantata, aspettandosi già di rinvenire il solito cerchiolino di spago, invece si ritrovò tra le dita due fiammiferi, legati insieme con un filo a formare una croce. PARTE SECONDA «PER CHI SA LEGGERE TRA LE PIAGHE DEL TEMPO» 7 Caos organizzato: una sintetica definizione della sede del giornale. Caos organizzato su scala grandiosa. Stevens frugò in cerca di un ago nel pagliaio di fogli della vaschetta portacarte. Dove accidenti l'aveva messo? Spalancò uno dei grandi e pesanti cassetti della scrivania, solo per richiuderlo in tutta fretta, nel timore che quel mare di detriti potesse straripare. Quindi si fece coraggio, inspirò a fondo e tornò ad aprirlo. Infilò nel disordine cartaceo una mano diffidente, come se qualcosa potesse rivoltarglisi contro e morderlo. E infatti una grossa clip a forma di cane spalancò le sue
fauci, staccandosi dai fogli che tratteneva e serrandosi di scatto sul suo pollice. Stevens richiuse il cassetto con un colpo secco, la sigaretta che gli sobbalzava tra le labbra mentre in silenzio malediceva la redazione, la professione e gli alberi, senza i quali la carta non sarebbe mai esistita. 'Fanculo. Sedette sulla sedia e strizzò gli occhi irritati dal fumo. Erano solo le undici del mattino, ma nell'ufficio aleggiava una foschia azzurrina degna del paludoso set di Brigadoon. Prese un foglio scritto a macchina, lo girò e cominciò a scriverci sopra con un mozzicone di matita trafugato da un'agenzia di scommesse. X (forse un pesce grosso?) consegna a M. Rebus. Dove s'inserisce il poliziotto? Risposta: da qualsiasi parte o da nessuna. Fece una pausa, levandosi la cicca di bocca e sostituendola con una sigaretta intera, che accese direttamente col mozzicone di quella vecchia. Ora: lettere anonime. Minacce? Codice cifrato? Gli sembrava alquanto inverosimile che John Rebus fosse all'oscuro del coinvolgimento del fratello nel giro di droga locale; più probabile era che sapesse e che vi fosse addirittura coinvolto, magari per depistare le indagini e proteggere il sangue del suo sangue. Al momento giusto, sarebbe stato uno scoop coi baffi, ma Stevens si rendeva conto che, da quel momento in avanti, avrebbe dovuto rassegnarsi a camminare sulle uova. Nessuno si sarebbe compromesso per aiutarlo a incastrare un poliziotto; in compenso, se qualcuno avesse scoperto a cosa stava lavorando, avrebbe rischiato di finire in guai seri. Anzitutto dunque doveva fare due cose: rileggersi bene la polizza sulla vita e tenere il becco chiuso con tutti. «Jim!» Il caporedattore gli fece segno di entrare in sala torture. Stevens si separò dolorosamente dalla sedia, quasi stesse lacerando un tessuto connettivo organico, diede un'aggiustatina alla cravatta a righe rosa e malva e si avviò verso una probabile reprimenda. «Sì, Tom?» «Non dovresti essere a una conferenza stampa?» «C'è ancora tempo, Tom.» «Che fotografo ti porti?» «Credi davvero che cambi qualcosa? Me la caverei meglio da solo con la
mia automatica. 'Sti pivelli non sanno neanche da che parte cominciare. Non so, Andy Fleming? Che ne dici?» «Scordatelo. Lui copre il viaggio della regina.» «Che viaggio?» Tom Jameson parve sul punto di alzarsi dalla sedia, mossa che, attuata, sarebbe stata assolutamente senza precedenti. In realtà si limitò come sempre a raddrizzare le spalle e la schiena e a scoccare un'occhiataccia al suo miglior reporter di nera. «Il giornalista sei tu, Jim. Non sei ancora andato in pensione, giusto? E non ti hanno nemmeno sbattuto dentro. Forse qualche caso di demenza precoce in famiglia?» «Ascoltami bene, Tom, il giorno in cui la regina commetterà un omicidio, sarò il primo a mettere piede sulla scena del delitto. Fino ad allora, per quanto mi riguarda, la famiglia reale non esiste neanche. A parte nei miei incubi, intendo.» Jameson lanciò un'occhiata piccata all'orologio. «D'accordo, d'accordo. Me ne vado.» Detto ciò, Stevens girò rapidamente sui tacchi e uscì dall'ufficio, ignorando le urla del capo che continuava a chiedergli quale fotografo intendesse portare con sé alla conferenza stampa. Tanto non sarebbe cambiato niente. Doveva ancora conoscere un poliziotto che fosse vagamente fotogenico. Poi, uscendo dalla sede del giornale, gli sovvenne chi era l'agente portavoce di quel particolare caso e, sorridendo, cambiò idea. «'Gli indizi sono ovunque per chi sa leggere tra le piaghe del tempo.' Un semplice gioco di parole. Poetico, ma niente di più.» Morton stava guidando in direzione di Haymarket. Era l'ennesimo pomeriggio di vento teso e pioggia fitta, sottile e gelida, di quelle che penetrano fino al midollo. La città era rimasta avvolta in quel grigiore fin dalle prime ore del mattino, al punto che, a mezzogiorno, gli automobilisti sentivano già l'esigenza di accendere i fari. Il tempo ideale per un po' di lavoro all'aperto. «Non ne sarei così certo, Jack. La seconda parte prende le mosse dalla prima come se in mezzo ci fosse un nesso logico.» «Be', allora speriamo che continui a mandarti messaggi. Forse le cose si chiariranno sempre di più.» «Forse, ma io preferirei che la piantasse e basta. Non è gradevole sapere
che uno squilibrato conosce il tuo indirizzo di casa e di lavoro.» «Il tuo telefono è sulla guida?» «No, è riservato.» «E allora come fa a sapere dove abiti?» «Che ne so io?» ribatté Rebus, rimettendosi i fogli in tasca. Quindi accese due sigarette e ne offrì una a Morton, non senza aver prima eliminato il filtro. «'Zie, papi.» Morton incuneò la minuscola paglia nell'angolo della bocca. La pioggia iniziava a farsi meno intensa. «Alluvioni a Glasgow», disse, senza peraltro attendersi risposta. Entrambi avevano gli occhi rossi per la mancanza di sonno, ma quel caso si era letteralmente impossessato di loro e adesso, con la mente annebbiata, puntavano verso il cuore materiale dell'indagine. Sul lotto di terreno abbandonato dove avevano rinvenuto il cadavere della ragazzina era stato eretto un piccolo capanno prefabbricato. Lì venivano coordinati e partivano gli interrogatori a porta a porta. Sarebbero stati ascoltati anche i familiari della vittima. Rebus si vedeva già davanti una giornata pesante e tediosa. «La cosa che mi preoccupa è questa: se i due omicidi sono collegati, abbiamo a che fare con qualcuno che probabilmente non conosceva le sue vittime», aveva detto Morton. «Quindi sarà un lavoraccio ingrato.» Rebus aveva annuito. Restava comunque la possibilità che le due ragazzine conoscessero l'assassino o che in qualche misura si fidassero di lui. In caso contrario, avendo quasi dodici anni ed essendo abbastanza sveglie, al momento del rapimento avrebbero lottato per difendersi. Invece nessuno si era fatto avanti per testimoniare nulla del genere. Il che era decisamente strano. Quando raggiunsero il prefabbricato della base operativa aveva ormai smesso di piovere. L'ispettore responsabile delle operazioni esterne era già sul posto a distribuire liste di nomi e indirizzi. Rebus assaporava la lontananza dal quartier generale, da Anderson e dalla sua sete inestinguibile di riscontri documentali. Il lavoro vero era lì, sul campo, dove si stabilivano i primi contatti, dove la più piccola contraddizione da parte di un indiziato poteva far cambiare direzione alle indagini. «Le spiacerebbe dirmi chi ha fatto il mio nome e quello del mio collega per questo particolare compito, signore?» Lo sguardo ammiccante dell'ispettore si fermò su John Rebus. «Certo che mi spiacerebbe, Rebus. E poi, cosa cambia? Ogni singolo compito assegnato in questo caso è di vitale importanza, cerchi di non dimenticarlo.»
«Sì, signore.» «Non è un po' come lavorare in una scatola da scarpe, qui dentro, signore?» commentò Morton, lanciando un'occhiata nell'angusto prefabbricato. «Sì, figliolo, io sto in una scatola da scarpe, ma voi siete le scarpe, quindi alzate i tacchi e muovetevi.» L'ispettore, pensò Rebus, infilandosi in tasca la lista, sembrava un tipo simpatico, uno con la lingua affilata al punto giusto. «Non si preoccupi, signore», gli disse. «Saremo più veloci della luce.» Sperò che il superiore cogliesse l'ironia nella sua voce. «Chi arriva ultimo è una femminuccia», rincarò Morton. Dunque stavano procedendo come da manuale, eppure il caso sembrava richiedere qualche guizzo di originalità in più. Anderson li mandava a controllare i soliti sospetti: parenti, conoscenti, gente con precedenti penali. Senza dubbio al quartier generale stavano interpellando gruppi speciali, come il nucleo antipedofilia, e Rebus si augurava che Anderson ricevesse la solita montagna di telefonate di psicopatici: rei confessi, sensitivi che offrivano il proprio aiuto per contattare le anime scomparse, mitomani che ti sventolavano la carota sotto il naso per farsi correre dietro. Tutti individui agitati da fantasie e antichi sensi di colpa. Chissà, forse era un destino universale. Rebus bussò alla porta del primo indirizzo assegnato e attese. Venne ad aprirgli una vecchia puzzolente, i piedi nudi, un cardigan dieci per cento lana e novanta per cento buchi buttato sulle spalle aguzze. «Chic?» «Polizia, signora. Siamo qui per l'omicidio.» «Che cosa? Bah, non m'importa, non voglio niente. Andatevene, o chiamo gli agenti.» «Siamo qui per l'omicidio, signora», gridò Rebus. «Io sono un agente. Devo farle alcune domande.» «Eh?» La donna arretrò di qualche passo per guardarlo meglio, e nelle sue pupille nere e opache parve scoccare una scintilla di antica intelligenza. «Che omicidio?» La giornata buttava male. Tanto per migliorare le cose, ricominciò anche a piovere, pesanti goccioloni pungenti che gli tartassavano il collo e la faccia, penetrandogli nelle scarpe. Un po' come quand'era andato a trovare il suo vecchio al cimitero... Quand'era stato? Il giorno prima? Soltanto il giorno prima? Certo che in ventiquattr'ore ne potevano succedere, di cose.
E, naturalmente, tutte a lui. Alle sette aveva interrogato sei dei quattordici nomi sulla lista. Tornò alla scatola da scarpe, i piedi che gli dolevano, lo stomaco torturato dal tè che anelava qualcosa di più forte. Jack Morton era fermo nel lotto fangoso e abbandonato, lo sguardo che vagava sugli ettari di argilla cosparsa di detriti e mattoni: un paradiso, per i bambini. «Che razza di posto orrendo per morire.» «Non è morta qui, Jack. L'ha confermato anche il medico legale.» «Ma sì, insomma, hai capito quello che intendo.» Certo. Rebus aveva capito quello che intendeva. «A proposito», riprese Morton. «Sei una femminuccia.» «Bene. Allora beviamoci sopra.» S'infilarono in uno dei bar più squallidi e malfamati di Edimburgo, uno di quelli che i turisti non arrivano mai a vedere, ma, per quanto si sforzassero di allontanare il caso dalla mente, non ci riuscirono. Succedeva sempre così, con le indagini per omicidio: finivano per risucchiarti dalla testa ai piedi e più ti consumavano, più sentivi di dover darci dentro. Ogni delitto ti liberava in corpo una scarica di adrenalina pura, e ben presto ti ritrovavi oltre il punto di non ritorno. «Sarà meglio che me ne vada a casa», disse Rebus. «Aspetta, dai. Ancora un giro.» Jack sventolò il bicchiere vuoto in direzione del banco. Rebus, il cervello annebbiato, continuava a pensare al suo corrispondente misterioso. Sospettava potesse trattarsi di Rhona, anche se non era esattamente nel suo stile. Fece un pensierino anche su Sammy: che stesse servendo al padre il piatto freddo della vendetta per averla estromessa dalla propria vita? In casi simili, all'inizio almeno, familiari e conoscenti erano i primi indiziati. In realtà poteva essere chiunque, era ovvio: qualunque persona che sapesse dove lui lavorava e abitava. Qualche collega, forse? Ipotesi da non scartare. E, come sempre, la domanda da un milione di dollari: perché? «Ecco qui, due pinte gratis. Offre la casa.» «Ottimo esempio di spirito pubblico», fu il commento di Rebus. «O repubblicano?» Morton ridacchiò alla battuta, detergendosi un filo di schiuma dal labbro superiore. Ma Rebus non rise affatto. «Gloria a loro.» «Un serial killer», mormorò Rebus. «Dev'essere un serial killer. Nel qual
caso, siamo solo all'inizio.» Morton riappoggiò il bicchiere, la sete apparentemente placata. «Le vittime frequentavano scuole diverse», continuò Rebus. «Vivevano in zone diverse della città, avevano gusti diversi, amici diversi, erano di religione diversa e sono state uccise dalla stessa persona secondo lo stesso modus operandi, senza nessun segno di violenza sessuale. Abbiamo a che fare con un maniaco, Jack, e potrebbe nascondersi ovunque.» Al banco stava scoppiando una rissa, forse per una partita a domino finita nel modo sbagliato. Un bicchiere si fracassò sul pavimento, seguito da una pausa di silenzio generale. Poi i contendenti sembrarono placarsi. Un tizio venne accompagnato fuori dai suoi sostenitori, mentre un altro rimase accasciato contro il banco a bisbigliare qualcosa a una donna. Morton buttò giù una nuova sorsata di birra. «Grazie a Dio non siamo in servizio», commentò. Poi: «Che ne dici di un salto dall'indiano?» Morton infilò in bocca l'ultimo boccone di pollo vindaloo e gettò la forchetta nel piatto. «Mi sa che andrò a fare due chiacchiere con quelli dell'ufficio d'igiene», disse, senza smettere di masticare. «Qualunque cosa fosse, non era pollo.» Si trovavano in un piccolo ristorante indiano nei pressi di Haymarket Station: lampadine viola, tappezzeria rossa con motivi in rilievo, prepotente sottofondo di sitar. «A vederti sembrava che ti piacesse», borbottò Rebus, scolando l'ultimo goccio di birra. «Certo che mi è piaciuto. Però non era pollo.» «Be', se l'hai gustato non hai di che lamentarti.» Rebus sedeva di traverso sulla sedia, le gambe allungate, un braccio sullo schienale. Stava fumando l'ennesima sigaretta della giornata. Morton si sporse con aria instabile verso il collega. «C'è sempre qualcosa di cui lamentarsi, John, specie se in questo modo pensi di cavartela con un pranzo o una cena gratis.» Strizzò l'occhio a Rebus, si raddrizzò, ruttò e si cacciò una mano in tasca, a sua volta in cerca di una sigaretta. «Stronzate.» Rebus tentò di ricostruire quante ne aveva fumate nell'arco della giornata, ma la testa gli diceva che quel genere d'impresa era fatica sprecata. «Mi domando cosa stia facendo in questo preciso istante il nostro assassino.» «Magari ha appena finito di mangiare in un ristorante indiano», suggerì
Morton. «Il problema è che potrebbe essere chiunque... Un tipo regolare, sposato con figli, lavoratore, che abita in periferia. Soltanto psicopatico, naturalmente. Uno psicopatico bello e buono.» «Non c'è niente di bello né di buono, nel nostro assassino.» «Vero.» «Comunque forse hai ragione. Una specie di dottor Jekyll e Mister Hyde.» «Esatto.» Morton lasciò cadere un po' di cenere sul piano del tavolo, già decorato da macchie di birra e salsa al curry. Fissava il piatto vuoto che aveva davanti come se si stesse chiedendo dov'era finito tutto il cibo. «Jekyll e Hyde... Sai, John, io rinchiuderei quei figli di puttana per un milione di anni. Sì, li lascerei in isolamento per un milione di anni in una scatola da scarpe. Ecco cosa farei.» Rebus contemplava la carta da parati in rilievo. Pensò ai giorni che lui aveva trascorso in isolamento, quando il SAS aveva cercato di spezzarlo, all'epoca delle prove finali, del silenzio e dei sospiri, della sporcizia e della fame nera. No, non avrebbe mai voluto ripassare di là. E sì che non lo avevano massacrato di botte. Agli altri non era andata così bene. Intrappolato nella cella, la faccia sconvolta. Fatemi uscire fatemi uscire. Fatemi uscire... «John? Tutto bene? Se ti viene da vomitare, il bagno è dietro la cucina. Anzi, già che ci sei, fammi un favore: mentre passi, butta un occhio e vedi se riesci a capire cos'è che mettono in pentola...» Pur non sentendosi affatto così sbronzo, Rebus si diresse verso il bagno col passo esageratamente cauto degli ubriachi persi. Si sentì aggredire le narici da un misto di odore di curry, disinfettante e puzza di merda. Si lavò la faccia. No, non avrebbe vomitato. Non era l'eccesso di alcol: era lo stesso brivido, lo stesso orrore fugace che lo aveva assalito a casa di Michael. Che accidenti gli stava succedendo? Era come se tutti gli organi interni gli si trasformassero in cemento, un cemento che gli rallentava i movimenti e permetteva al tempo, agli anni, di raggiungerlo e avere la meglio su di lui. Qualcosa di simile al piccolo esaurimento nervoso che già da un po' si aspettava, e che tuttavia stentava ad accettare come tale. D'accordo. Non era nulla. L'attacco era già passato. «Posso darti un passaggio, John?» «Preferisco fare quattro passi, grazie. Mi schiarirà le idee.»
Davanti al portone del ristorante si divisero. Un gruppetto di colleghi d'ufficio, cravattini allentati e una scia di profumo forte e nauseabonda, si stava facendo strada in direzione di Haymarket Station. Quella di Haymarket era l'ultima stazione di Edimburgo prima della grandiosa Waverley. Rebus ripensò a come la prematura ritirata del pene a scopo contraccettivo venisse spesso detta «scendere a Haymarket». Chi aveva detto che gli abitanti di Edimburgo erano cupi e scontrosi? Un sorriso, una canzone e uno strangolamento. Si deterse il sudore dalla fronte. La debolezza che ancora lo attanagliava lo costrinse ad appoggiarsi a un lampione. Per quanto vaga e indeterminata, un'ombra di coscienza di ciò che gli stava accadendo l'aveva: il suo intero essere stava rigettando il passato, come i suoi organi vitali avrebbero potuto rigettare il cuore di un donatore. Era riuscito a relegare così in fondo alla mente l'orrore degli anni dell'addestramento militare, che anche la più piccola eco di quel passato imponeva una lotta strenua per essere ridotta al silenzio. Eppure era proprio in quella condizione d'isolamento che aveva incontrato cose come l'amicizia, il sentimento di fratellanza, la solidarietà cameratesca, arrivando a conoscere se stesso più di quanto non capiti di fare alla maggior parte degli esseri umani. Sì, aveva imparato davvero tanto. Non ne era uscito a pezzi nemmeno il suo umore, anzi aveva concluso il periodo di addestramento quasi in preda all'euforia. Poi, il crollo nervoso. Ma solo poi. Basta così. Si rimise in marcia, cercando sostegno nel pensiero della giornata libera che lo aspettava. L'avrebbe trascorsa leggendo, dormendo e preparandosi per un party: il party di Cathy Jackson. E, l'indomani ancora, domenica, sarebbe stato un raro giorno di vacanza in compagnia della figlia. Con un po' di fortuna, forse avrebbe anche scoperto chi c'era dietro le lettere anonime. 8 La ragazzina si svegliò con la bocca salata e disidratata. Si sentiva torpida e insonnolita e non capiva dov'era. Si era addormentata in macchina. Non aveva avuto sentore della propria stanchezza finché lui non le aveva offerto quel pezzetto di cioccolato. Adesso era sveglia, ma non si trovava in camera da letto, a casa sua. Quella stanza aveva le pareti tappezzate di foto a colori prese da riviste. Foto di soldati dall'espressione fiera; foto di donne e ragazze. Guardò più da vicino un gruppetto d'istantanee appese al
muro. Ce n'era anche una che ritraeva lei, proprio lei, distesa sul letto con le braccia spalancate. Aprì la bocca, emettendo un gemito strozzato. Dal soggiorno dove preparava la garrotta, lui la sentì muoversi. Quella notte Rebus ebbe di nuovo uno dei suoi incubi. Un lungo, interminabile bacio seguito da eiaculazione, tanto onirica quanto reale. Si svegliò di colpo e si ripulì. Il fiato caldo di quel bacio gli aleggiava ancora intorno come un'aura. Scosse la testa per liberarsene. Aveva bisogno di una donna e al pensiero della festa imminente si tranquillizzò un poco. Però aveva le labbra secche. A passo felpato si diresse in cucina e prese una bottiglia di una bibita al limone. Non sapeva di niente, ma servì allo scopo. Quindi gli venne in mente che era ancora sbronzo e che, se non fosse stato attento, il giorno dopo si sarebbe ritrovato con dei brutti postumi. Versò tre bicchieri d'acqua e li buttò giù a forza. Quindi constatò che la fiamma pilota della caldaia era ancora accesa e lo prese come un segno di buon auspicio. Tornato a letto, si ricordò persino di recitare le preghiere: una bella sorpresa, per il Grand'Uomo lassù. Di sicuro Lui ne avrebbe preso nota sul Suo librone. Stasera Rebus si è ricordato di me. Domani potrei concedergli una giornatina discreta. Amen. 9 Michael Rebus amava la sua BMW quanto la vita stessa, se possibile anche un po' di più. Mentre accelerava sull'autostrada, il traffico alla sua sinistra praticamente immobile, ebbe addirittura la sensazione che, in modo strano ma gratificante, la sua macchina di fatto fosse la vita. Puntò il muso verso la linea luminosa dell'orizzonte e si lasciò condurre alla volta del futuro, pigiando a fondo sul pedale, senza concessioni a niente e a nessuno. Così sì che gli piaceva. Lusso spinto e veloce, tutto a portata di mano, anzi di dita. Tamburellò sulla guaina in pelle che copriva il volante, giocherellò col mangianastri, sprofondò la nuca nel poggiatesta imbottito. Spesso sognava di spiccare il volo, di mollare casa, moglie e figli e di andarsene, lui solo con la sua BMW. Sognava di partire per quella linea lontana, di non fermarsi mai se non per mangiare e fare il pieno, di guidare fino alla morte. Era una visione paradisiaca e ci fantasticava sopra senza farsi il minimo scrupolo, ben sapendo che non avrebbe mai osato tradurla in
realtà. All'epoca in cui si era comprato la prima macchina, in piena notte si svegliava per andare alla finestra a controllare che lei fosse sempre là fuori ad aspettarlo. A volte si alzava alle quattro o alle cinque del mattino e andava a farsi un giro, stupito della distanza che riusciva a coprire in così poco tempo e godendosi le strade silenziose, come unica compagnia le lepri e le cornacchie, la mano sul clacson pronta a sparpagliare nell'aria stormi di uccelli mattinieri. La cotta per le macchine non gli era mai passata, lui non aveva mai smesso di sognare. Adesso tutti guardavano con invidia la sua BMW. La parcheggiava nelle vie di Kirkcaldy e si allontanava di qualche metro, godendosi la reazione dei passanti. I più giovani, spavaldi e curiosi, si avvicinavano per sbirciare dentro, ammirando la strumentazione di bordo e gli interni in pelle con lo stesso interesse meravigliato con cui si osservano gli animali allo zoo. I più anziani, spesso con moglie al seguito, le lanciavano un'occhiata fugace e, non di rado, subito dopo sputavano sul marciapiede, consapevoli che quell'oggetto rappresentava ciò che più avevano desiderato nella vita senza mai riuscire a ottenerlo. Michael Rebus, invece, aveva realizzato il proprio sogno, un sogno di cui poteva bearsi in qualunque momento. A Edimburgo era diverso: se e quanto la macchina attirava attenzione, dipendeva dalla zona in cui era posteggiata. Un giorno, mentre faceva manovra, si era ritrovato alle spalle una Rolls-Royce. Era ripartito immediatamente, furibondo, e alla fine si era fermato davanti a una discoteca. Sapeva che parcheggiare una macchina fuori di un locale del genere, come davanti a un ristorante, significava poter essere facilmente scambiati per i proprietari della baracca, e quel pensiero gratificante aveva cancellato in fretta l'onta della Rolls-Royce, scatenandogli nuove fantasie. Anche una sosta al semaforo poteva trasformarsi in un'esperienza elettrizzante, tranne quando dietro, o, peggio ancora, di fianco, gli si piazzava un idiota a bordo di una di quelle moto rombanti, purosangue da ripresa che spesso lo seminavano senza pietà in una guerra da semaforo a semaforo. Meglio non pensarci. Quel giorno parcheggiò dove gli era stato ordinato: nel posteggio in cima a Calton Hill. Attraverso il parabrezza, la vista spaziava fino ai promontori del Fife, mentre, dal finestrino posteriore, Princes Street era visibile nella sua interezza da plastico per automobiline. La collina era immersa nel silenzio. La stagione turistica doveva ancora iniziare e faceva freddo. Sapeva però che di notte la zona si animava: gare di macchine, ragazzi
e ragazze in cerca di avventura, feste sulla spiaggia di Queensferry. La comunità gay di Edimburgo si mescolava ai curiosi e ai solitari, di quando in quando una coppietta entrava, mano nella mano, nel cimitero ai piedi del rilievo. Al calar del buio, la parte orientale di Princes Street diventava una zona a sé stante, un territorio da esplorare e condividere in intima segretezza. Ma Michael non era lì per condividere la sua auto con nessuno. Il suo sogno era un'entità assai fragile. Restò a contemplare il Fife sulla riva opposta del Firth of Forth. Da quella distanza appariva addirittura splendido. Poi la macchina dell'uomo rallentò sino a fermarsi accanto alla sua. Allora passò sul sedile del passeggero e abbassò il finestrino, mentre l'altro faceva lo stesso. «Hai la roba?» gli chiese. «Certo.» L'uomo lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore. Un gruppetto di gente, anzi una famigliola, aveva appena raggiunto la sommità della collina. «Meglio aspettare un momento.» Tornarono entrambi a contemplare il panorama. «Qualche fastidio a casa?» «Nessuno.» «Gira voce che hai ricevuto visite da tuo fratello. È vero?» Lo sguardo dell'uomo era duro, come lo era la sua persona. Ma l'auto su cui girava era una bagnarola. Per il momento, Michael si sentiva al sicuro. «Sì, ma niente di speciale. Era l'anniversario della morte di nostro padre. Tutto qui.» «Lui non sa niente, eh?» «Niente di niente. Mi avete preso per scemo o cosa?» L'occhiata dell'uomo lo ridusse al silenzio, sebbene la ragione per cui un essere simile riusciva a incutergli tanta paura restasse per Michael un completo mistero. Odiava quegli incontri. «Se dovesse succedere qualcosa», stava dicendo adesso, «se qualunque cosa dovesse andare storta, sarai ritenuto responsabile. Dico sul serio. In futuro gira alla larga da quel bastardo.» «Non è stata colpa mia. Mi si è presentato alla porta senza neanche telefonarmi. Che potevo fare?» Le sue mani erano aggrappate, per non dire cementate, al volante. L'uomo lanciò un'altra occhiata nello specchietto. «Via libera», annunciò, sporgendo un braccio verso il sedile posteriore. Un piccolo pacchetto scivolò oltre il finestrino di Michael. Quest'ultimo verificò il contenuto, quindi estrasse una busta dalla tasca e mise mano alla
chiave d'accensione. «Ci vediamo, Rebus», disse l'uomo, aprendo a propria volta la busta. «Sì», rispose Michael, pensando: non se potrò evitarlo. Il lavoro cominciava a mettergli una certa ansia: quella gente sembrava conoscere sempre troppo bene i suoi movimenti. Per contro, sapeva anche che, non appena si liberava di una partita e intascava i lauti guadagni che ne derivavano, la paura finiva puntualmente per svanire e lasciare posto all'euforia. E a tenerlo in pista era proprio quel momento preciso, quando la paura si trasformava in euforia. Era come la più bruciante delle partenze a un semaforo, la più bruciante che si potesse immaginare. Dalla stravaganza vittoriana in cima alla collina, la copia ridicola e incompiuta di un tempio greco, Jim Stevens vide Michael Rebus ripartire in macchina. Fin lì, nessuna novità. A interessargli era l'altro, il suo contatto, una faccia mai vista sulla scena di Edimburgo, uno che lo aveva già seminato un paio di volte e che avrebbe potuto riseminarlo in qualunque momento. Nessuno sembrava conoscere quella figura misteriosa, ma soprattutto nessuno sembrava particolarmente ansioso di scoprire la sua identità. In poche parole, quell'uomo era un problema. In preda a un'improvvisa sensazione di vecchiaia e impotenza, Stevens riuscì solo a prendere nota della targa dell'automobile. Forse McGregor Campbell sarebbe arrivato a capo di qualcosa, ma doveva stare attento a non coinvolgere Rebus nelle sue indagini, nemmeno in forma indiretta. Sentiva che la faccenda era assai più spinosa e delicata del previsto. Rabbrividendo, tentò di convincersi che in realtà così gli piaceva di più. 10 «Avanti, avanti.» Cappotto, guanti e bottiglia di vino finirono subito in mano a sconosciuti e lui si ritrovò nel bel mezzo di una di quelle feste attesissime, fumose e caotiche in cui è estremamente facile sorridere a tutti, ma praticamente impossibile conoscere qualcuno. Dall'ingresso si spostò in cucina, e dalla cucina, attraverso una porta di comunicazione, in soggiorno. Sedie, tavolo e divano erano stati ammassati a ridosso delle pareti e la stanza pullulava di coppie che ballavano e si parlavano urlando, gli uomini scravattati e con la camicia incollata al petto. A quanto pareva, la festa era cominciata da un bel po'.
Riconobbe alcune facce intorno e sotto di sé e, scavalcando due ispettori, si fece largo nella stanza. Sul tavolo dalla parte opposta c'erano parecchie bottiglie e bicchieri di plastica. Tutto considerato, quello gli parve un punto d'osservazione buono e più sicuro di altri. Il problema era come arrivarci. Gli sembrava di essere tornato ai corsi di tecnica d'assalto dei tempi dell'esercito. «Ehilà, come va?» Cathy Jackson, in una passabile versione «bambola di stracci», incrociò per un istante la sua traiettoria, quindi venne sollevata di peso dal possente - molto possente - tizio con cui fingeva di ballare. «Ciao ciao», riuscì solo a ricambiare Rebus, la faccia contorta più in una smorfia che in un sorriso. Raggiunta la sponda relativamente sicura del tavolo dei beveraggi, tanto per cominciare si versò un whisky e un ammazzawhisky. Poi guardò Cathy Jackson (la donna per cui si era lavato, pettinato, profumato, leccato e lisciato) che ficcava la lingua nella bocca cavernosa del suo cavaliere e temette di vomitare. La sua ipotetica compagna per la serata si era bruciata prima ancora di accendersi! Bella lezione di ottimismo. Che fare? Andarsene alla chetichella o pescare dal cilindro magico qualche argomento di conversazione? Dalla cucina sbucò un tizio piuttosto corpulento che non aveva affatto l'aria del poliziotto. Sigaretta in bocca, si avvicinò al tavolo reggendo in mano due bicchieri vuoti. «Cazzarola, che razza di casino c'è qui dentro», esclamò, rivolto a nessuno in particolare ed esaminando le bottiglie. «Oops, scusi la volgarità.» «Un discreto casino, sì, non c'è che dire.» Be', pensò Rebus, ecco qua: ho scambiato due chiacchiere con qualcuno. Il ghiaccio è rotto, quindi tanto vale che me ne vada finché le cose funzionano. Invece non se ne andò. Seguì con lo sguardo il tizio che abilmente tornava ad aprirsi un varco nella massa dei ballerini, i bicchieri che sembravano due minuscoli animaletti nel rifugio sicuro delle sue manone. Quindi rimase a contemplare la scena, mentre dall'invisibile impianto stereo si levavano le note di un nuovo pezzo e la folla proseguiva la sua scalmanata danza di guerra. A quel punto, una donna dall'aria non meno spersa della sua fece il suo ingresso nella stanza e qualcuno le indicò il tavolo dove sostava lui. Doveva avere pressappoco la sua età, con qualche tocco d'incipiente sfioritura. Indossava un abito sufficientemente alla moda (ma chi era lui
per parlare di moda? Lui, che in mezzo a quella gente ci faceva quasi la figura del becchino?) e doveva essere stata di recente dal parrucchiere, forse quel pomeriggio stesso. Sfoggiava un paio di occhiali da segretaria, ma non era una segretaria. Rebus notò tutti quei particolari mentre la guardava avvicinarsi, studiando le sue movenze mentre si faceva largo verso di lui. La accolse tendendole un Bloody Mary appena fatto. «Questo è di suo gradimento?» le chiese. «Ci ho azzeccato o no?» La donna accettò il cocktail con espressione grata e lo bevve d'un fiato, quindi si concesse una pausa per dargli modo di riempirle di nuovo il bicchiere. «Grazie. Di solito non bevo, ma ho gradito davvero.» Fantastico, pensò Rebus, senza smettere di sorriderle con gli occhi, Cathy Jackson si è bevuta anche il cervello e io mi ritrovo con un'astemia. No, quel pensiero non era degno di lui e non rendeva giustizia alla sua nuova compagna. Mormorò una breve preghiera di scuse. «Balla?» le chiese, in remissione dei suoi peccati. «Stai scherzando!» «Nient'affatto. Perché?» Vittima di una punta di maschilismo, John Rebus non poteva credere alle proprie orecchie. Un'ispettrice di polizia! Anzi niente di meno che la responsabile delle relazioni con la stampa per gli ultimi casi di omicidio. «Oh, così. È solo che ci sto lavorando anch'io.» «Oh, se va avanti di questo passo, tra un po' tutti gli agenti di Scozia saranno chiamati a occuparsene. Credimi, è così.» «Che vuoi dire?» «Che c'è stato un altro rapimento. La madre della ragazza ha sporto denuncia nel tardo pomeriggio.» «Oh, merda... Scusa.» Avevano ballato, bevuto, si erano separati e ritrovati e, a quanto sembrava, ormai erano diventati grandi amici. Si trovavano nel corridoio, al riparo dal rumore e dal caos della pista da ballo. In fondo al budello, davanti alla porta dell'unico bagno di casa, si stava formando un codazzo bellicoso. Rebus si scoprì a fissare le iridi verde smeraldo di Gill Templer oltre la barriera di plastica e vetro delle lenti. Avrebbe voluto dirle che non aveva mai visto occhi belli come i suoi, ma temeva di suonare posticcio e scontato. Lei era ormai passata all'aranciata; lui invece si era sciolto con un altro paio di whisky, senza più aspettarsi niente di speciale dalla serata.
«Ciao, Gill.» Nel tizio corpulento fermo davanti a loro, Rebus riconobbe l'ospite con cui aveva avuto il rapido scambio di battute al tavolo dei beveraggi. «Quanto tempo che non ci si vede.» Fece per darle un bacio sulla guancia, ma mancò il bersaglio e atterrò sulla parete. «Forse hai bevuto un bicchierino di troppo, Jim», commentò lei in tono freddo. L'uomo si strinse nelle spalle. Ora guardava Rebus. «A ognuno la sua croce, non è così?» Gli tese una mano. «Jim Stevens», si presentò. «Oh. Il giornalista?» Rebus accettò di stringere rapidamente la mano calda e sudaticcia dell'uomo. «Questo è il sergente John Rebus, dell'investigativa», disse Gill. Rebus notò il breve rossore che soffuse le guance di Stevens, i suoi occhi sgranati da lepre abbagliata. Questione di un momento, perché subito si riprese. «Felice di fare la sua conoscenza», dichiarò. Quindi, sottolineando le parole con un cenno della testa, aggiunse: «Gill e io ci conosciamo da una vita, vero, Gill?» «Una vita non così lunga come la fai tu, Jim.» Il giornalista scoppiò in una risata e guardò Rebus. «È solo un po' timida.» Pausa. «Un'altra ragazzina assassinata, dunque?» «Jim ha spie dappertutto.» Stevens si picchiettò una narice rosso fuoco, rivolgendo a Rebus una specie di ghigno. «Dappertutto», ripeté. «E riesco anche ad arrivarci, dappertutto.» «Sì, certo. Infilandosi in tutti i buchi che trova a volte ce la fa, il nostro Jim», commentò Gill in tono tagliente come una lama, gli occhi improvvisamente inviolabili nel sudario di plastica e vetro. «Ci vediamo domani per le nuove dichiarazioni alla stampa, allora?» insistette Stevens, perquisendosi le tasche in cerca delle sigarette perse chissà dove e quando. «Sì.» La mano del giornalista trovò la spalla di Rebus. «Ne abbiamo fatta di strada insieme, io e Gill», mormorò. Poi rapidamente si allontanò, sventolando dietro di sé una mano in un saluto che non chiedeva di essere contraccambiato, l'altra che ancora cercava le sigarette, il cervello che automaticamente archiviava la faccia di John Rebus. Gill Templer sospirò e si appoggiò alla parete su cui Stevens aveva stampato il suo sfortunato bacio.
«Uno dei migliori giornalisti di tutta la Scozia», dichiarò, come fosse un dato di fatto. «E il tuo mestiere è trattare con individui simili?» «In realtà è meglio di quel che sembra.» In sala stava scoppiando una rissa. «Bene», disse Rebus producendosi in un largo sorriso, «vogliamo chiamare la polizia o preferisci accompagnarmi in un ristorantino che conosco?» «È forse una tattica per rimorchiare?» «Chissà. Dimmelo tu. Sei un'investigatrice, giusto?» «Be', di qualunque cosa si tratti, sergente Rebus, sei fortunato: sto morendo di fame. Vado a prendere il soprabito.» Tutto preso dalla soddisfazione, Rebus stava quasi per dimenticare il suo. Lo recuperò in una delle camere da letto, insieme coi guanti e - sorpresa sorpresa - con la bottiglia di vino ancora intatta. Interpretandolo come un segno celeste, la fece riscivolare in tasca, in attesa del momento in cui gli sarebbe tornata più utile. Gill si trovava ancora nell'altra camera a frugare tra la pila di cappotti ammucchiati sul letto. Sembrava anche che sotto le coperte fosse in corso qualche genere di convegno, e l'intera massa d'indumenti sobbalzava e si contorceva come un'ameba di dimensioni gigantesche. Ridacchiando, Gill riuscì finalmente a recuperare il soprabito e raggiunse Rebus, che le sorrideva con aria complice dalla porta. «Ciao ciao, Cathy», salutò lei, rivolgendosi alla stanza. «Grazie per la bella festa.» Da sotto le coperte si levò una risata soffocata. Gli occhi sgranati, Rebus sentì la propria fibra morale sbriciolarsi come una galletta al formaggio. In taxi mantennero una certa distanza. «E così tu e il signor Stevens avete fatto molta strada insieme, eh?» «Solo nei suoi ricordi.» Gill fissava oltre le spalle dell'autista l'asfalto lucido e bagnato della strada. «E i suoi ricordi non sono mai la realtà. Sì, una volta siamo usciti insieme, ma una volta vuol dire una volta.» Sollevò un dito. «Un venerdì sera, se non sbaglio. Di certo fu un errore.» Rebus poteva considerarsi soddisfatto. Cominciava anche ad avere una certa fame. Il ristorante però era clamorosamente chiuso, così non si diedero nemmeno la pena di scendere e Rebus fornì al taxista l'indirizzo di casa sua. «I
miei sandwich alla pancetta sono imbattibili», disse a Gill. «Oh, ma che peccato», rispose lei. «Io sono vegetariana.» «Santo cielo, vuoi dire che non tocchi neanche una verdura? Di nessun tipo?» «Ma perché voi carnivori dovete sempre fare qualche battutina?» commentò lei, una punta acida nella voce. «È come quando parli di femminismo con gli uomini. Perché?» «Perché abbiamo paura», rispose Rebus in tono serio. Gill gli lanciò un'occhiata, ma lui stava osservando dal finestrino i tiratardi e gli ubriachi che si destreggiavano lungo il percorso a ostacoli di Lothian Road in cerca di alcol, donne, allegria. Per alcuni era un'impresa infinita che passava da pub, locali notturni e take-away, un appetito smanioso che finiva per affondare i denti in scarni bocconi esistenziali preconfezionati. Lothian Road era il cassonetto dei rifiuti della città, ma anche la via in cui si trovavano lo Sheraton Hotel e l'Usher Hall. Rebus era andato all'Usher Hall una volta sola, si era seduto con Rhona in mezzo al pubblico compiaciuto della sala e aveva ascoltato il Requiem di Mozart. Era tipico di Edimburgo, piazzare una briciola di cultura in mezzo a una distesa di fast-food. Vorrei un requiem con patatine fritte, grazie. «Allora, come funziona il vecchio ufficio relazioni con la stampa?» Adesso sedevano nel soggiorno rapidamente ripulito di casa Rebus. Il suo grande orgoglio, una piastra Nakamichi, diffondeva le note raffinate di una delle sue cassette da collezione di jazz adatte all'ascolto notturno, un pezzo di Stan Getz o Coleman Hawkins. Aveva messo insieme una scatola di tonno e qualche panino al pomodoro, dopo che Gill aveva confessato di concedersi, di quando in quando, un piatto a base di pesce. C'erano una bottiglia di vino appena stappata e una caraffa di caffè macinato fresco (qualità speciale, riservata alle colazioni domenicali). Rebus aveva preso posto di fronte alla sua ospite e la osservava mangiare. Con un sussulto si rese conto che quella era la prima donna a mettere piede in casa sua da quando Rhona se n'era andata. No, a pensarci bene non era vero, c'erano già state un altro paio di visite occasionali. «Non male. Almeno non stai lì a sprecare il tempo: oggi come oggi è un lavoro di una certa utilità, capisci.» «Oh, non intendevo certo denigrarlo.» Lei lo guardò, sforzandosi di capire se stava parlando seriamente. «Be', un sacco di tuoi colleghi invece sono convinti che sia una perdita di tempo
e uno spreco di risorse umane. Credimi, in un caso come questo è fondamentale avere i media dalla nostra e passare le informazioni che ci serve rendere pubbliche solo ed esclusivamente al momento giusto. In questo modo, evitiamo un sacco di problemi.» «Chiaro, chiaro.» «Piantala di sfottere, antipatico.» Rebus rise. «Guarda che io sono sempre serio. Puro poliziotto al cento per cento.» Gill Templer tornò a fissarlo. Aveva occhi da vero ispettore di polizia, occhi che ti scavavano dentro fiutando il senso di colpa, l'astuzia, le pulsioni, in cerca del punto debole. «E, in qualità di responsabile delle relazioni con la stampa», riprese Rebus, «sei tenuta a... intrattenere relazioni strette coi rappresentanti del settore, dico bene?» «So già dove vuoi arrivare, sergente Rebus, e in qualità di tuo superiore ti ordino di piantarla.» «Sì, signora!» Rebus accennò un breve saluto militare. Quindi andò in cucina e tornò con altro caffè. «Una festa orribile, non ti è sembrato?» disse Gill. «La migliore cui abbia mai partecipato», ribatté lui. «Voglio dire, se non ci fossi andato, magari non ti avrei mai incontrata.» Stavolta fu lei ad abbandonarsi a una sonora risata, mostrando le fauci tappezzate di briciole di pane, tonno e pomodori. «Sei fuori», commentò. «Sei veramente fuori.» Rebus inarcò le sopracciglia, sorridendo. Se temeva di aver perso in simpatia e personalità, ebbene poteva tranquillizzarsi. Conservava ancora il suo tocco di un tempo. Era un miracolo. Dopo un po', Gill chiese dov'era il bagno. Rebus stava cambiando cassetta, riflettendo sulla limitatezza delle proprie preferenze musicali. Chi diavolo erano i gruppi che lei continuava a nominare? «In corridoio», le spiegò. «Sulla sinistra.» Quando tornò era ancora jazz, a un volume a tratti quasi inudibile. E lui aveva ripreso posto in poltrona. «Che stanza è quella di fronte al bagno, John?» «Hmm...» esordì lui, versando il caffè. «Ecco... Era la stanza di mia figlia, ma adesso è una specie di deposito. Non la uso mai.» «Quant'è che siete divisi, tu e tua moglie?» «Non molto, avremmo dovuto pensarci molto prima. Dico sul serio.»
«E tua figlia? Quanti anni ha?» Aveva assunto un tono quasi materno, familiare, ogni traccia di acidità da single o donna in carriera era scomparsa. «Va per i dodici.» «Un'età difficile.» «Perché, ce n'è una facile?» Terminata la bottiglia di vino e rimasta ormai soltanto una mezza tazza di caffè disponibile, qualcuno parlò di letto. Si scambiarono timidi sorrisi e le promesse di rito di non promettersi niente, quindi, avendo tacitamente sottoscritto e firmato l'accordo, si alzarono e si diressero in camera. L'inizio fu quasi dei migliori. Entrambi maturi, avevano già giocato a quel gioco abbastanza per lasciarsi alle spalle le piccole goffaggini e le scuse imbarazzate. Rebus rimase colpito dall'agilità e dalla fantasia di Gill e si augurò di farle la stessa impressione. Lei inarcò la schiena spingendosi contro di lui, in cerca del piacere ultimo e proibito. «John», disse, scostandolo un poco da sé. «Che c'è?» «Niente. Però io adesso mi giro, d'accordo?» Lui si mise in ginocchio e lei gli voltò la schiena, lasciandosi scivolare gattoni sul pavimento, le punte delle dita che tentavano di aggrapparsi alla parete liscia. Lo aspettava. In quella breve pausa, Rebus si guardò intorno, osservò la pallida luce azzurrognola che accarezzava i suoi libri, il bordo del materasso. «Oh, un futon!» aveva esclamato lei, entrando, e con gesti rapidi si era liberata dei vestiti. Lui aveva sorriso in silenzio. Stava perdendo colpi. «Dai, John. Dai.» Si piegò su di lei, appoggiandole la faccia contro la schiena. All'epoca della cattura, aveva parlato di libri con Gordon Reeve: ne aveva parlato all'infinito, ripescandoli e rileggendoglieli dalle profondità della memoria. All'epoca dell'isolamento, la tortura sempre in agguato dietro la porta. Però ce l'avevano fatta. Avevano sopportato e superato la prova. «John, oh, John.» Gill si sollevò e girò il viso verso di lui, in cerca di un bacio. Gill e Gordon Reeve, entrambi desiderosi di ottenere qualcosa da lui, qualcosa che lui non poteva dare. Nonostante l'addestramento, nonostante gli anni di pratica, gli anni d'indefesso lavoro.
«John?» Ma lui era altrove, si stava trascinando in un campo fangoso, il capitano che gli urlava di muoversi, muoversi, era di nuovo in cella a guardare uno scarafaggio che zampettava sul lurido pavimento, era a bordo dell'elicottero, era in mare con lo zaino sulla testa, gli spruzzi salati nelle orecchie... «John?» Si girò del tutto, stavolta con un certo impaccio, preoccupata. Vide le lacrime che gli gonfiavano gli occhi. Strinse a sé la sua testa. «Oh, John. Non importa, non importa davvero.» E, qualche minuto più tardi, chiese: «Farlo così non ti piace?» Dopo giacquero uno accanto all'altra, lui attanagliato dal senso di colpa, maledicendo l'origine della propria confusione e il fatto di essere rimasto a corto di sigarette, lei in preda al torpore, ma con dolcezza, regalandogli spizzichi e bocconi della propria vita. A un certo punto il senso di colpa allentò la sua presa e Rebus si rese conto che, in fondo, non aveva nulla di cui sentirsi davvero responsabile. L'unica sensazione persistente era l'astinenza da nicotina. Gli sovvenne anche che, nel giro di sei ore, avrebbe visto Sammy, e che la madre di lei avrebbe immediatamente e istintivamente capito in che modo lui aveva trascorso la parte precedente della giornata. Quella donna aveva la capacità quasi stregonesca di leggergli nell'anima, e più di una volta aveva assistito ai suoi improvvisi scoppi di pianto. In parte, forse, era il motivo per cui si erano lasciati. «Che ore sono, John?» «Le quattro, quattro e qualche cosa.» Lui sfilò il braccio da sotto la sua testa e si alzò. «Ti va di bere qualcosa?» le chiese. «Tu a cosa pensavi?» «Al caffè. Non mi pare valga la pena di mettersi a dormire, adesso, ma se preferisci riposare, non farti problemi per me.» «No, una tazza di caffè va bene.» Dalla voce impastata, Rebus capì che sarebbe crollata senza nemmeno lasciargli il tempo di arrivare in cucina. «D'accordo», mentì. Dopodiché si preparò una tazza di caffè nero e dolce e si lasciò cadere nella poltrona del soggiorno. Accese la stufetta a gas e prese in mano un libro. Ben presto avrebbe visto Sammy. La sua mente non riusciva a concentrarsi sul romanzo, una storia d'intrighi e di complotti che non ricordava
nemmeno di avere cominciato. Sammy aveva quasi dodici anni. Era già sopravvissuta a molti pericoli, ma altri la attendevano lungo la strada della vita. I maniaci in agguato, i vecchi bavosi, gli adolescenti attaccabrighe: a tutto ciò si sarebbero aggiunte le nuove sollecitazioni dell'età, e i ragazzini che finora aveva conosciuto come amici si sarebbero trasformati in improvvisi e pervicaci cacciatori. Come se la sarebbe cavata? Se sua madre le fosse stata accanto nel modo giusto, allora ce l'avrebbe fatta e avrebbe imparato a difendersi e a schivare i colpi. Sì, ce l'avrebbe fatta anche senza i consigli e la protezione paterni. Ormai era sempre più difficile trattare coi ragazzini. Rebus ripensò alla propria adolescenza. Lui era il maggiore, il fratellone, quello che ogni volta lottava e si batteva per due, ma le coccole del padre andavano tutte a Mickey. Così aveva cercato di sprofondare sempre di più tra i cuscini del divano. Un giorno se ne sarebbe andato e non lo avrebbero più rivisto. Allora sì che avrebbero capito. E se ne sarebbero pentiti, pentiti amaramente... Alle sette e mezzo tornò in camera, per due terzi odorosa di sesso e per un terzo di tana di animale selvatico, e con baci delicati svegliò Gill. «È ora», le disse. «Alzati, ti riempio la vasca.» Profumava di buono, come una bimba su un asciugamano fresco di bucato. Ammirò le forme del suo corpo rannicchiato che a poco a poco si risvegliavano nel chiarore liquido del mattino. Era decisamente bella. Niente smagliature. Gambe lisce. Capelli arruffati al punto giusto. «Grazie.» Doveva presentarsi al quartier generale entro le dieci, per la nuova conferenza stampa. Vietato poltrire. Il caso continuava a crescere, come un cancro. Rebus fece scorrere l'acqua, aggrottando la fronte alla vista della riga scura intorno alla vasca. Aveva bisogno di una donna delle pulizie. Forse Gill si sarebbe impietosita e avrebbe preso l'iniziativa. Perdono. Un altro pensiero indegno. Così, per associazione, gli venne in mente la messa. Era di nuovo domenica e da settimane ormai si riprometteva di riprovarci, di cercarsi un'altra chiesa e di ripartire col piede giusto. Odiava gli aspetti congregazionali della religione. Odiava i sorrisi e i modi dei protestanti scozzesi vestiti per la domenica, l'accento posto su una comunione non con Dio, bensì coi propri vicini di casa. A Edimburgo aveva provato a frequentare ben sette chiese di denominazione diversa, ma nessuna si era rivelata di suo gradimento. Aveva anche tentato di dedicare
due ore, la domenica mattina, alla preghiera e alla lettura della Bibbia, però nemmeno così aveva funzionato. Si sentiva in trappola, un credente escluso dalla propria fede. A Dio bastava la fede personale? Forse, ma non la sua, che sembrava dipendere dal senso di colpa e dall'impressione d'ipocrisia avvertita ogni volta che commetteva peccato, una colpa che solo l'impegno in pubblico poteva placare. «È pronto, John?» Gill si rassettò i capelli, nuda e sicura di sé, gli occhiali abbandonati per terra in camera. L'anima di John Rebus si sentiva decisamente in pericolo. Oh, 'fanculo, pensò, afferrandola all'altezza delle anche. Il senso di colpa poteva aspettare. Poteva sempre aspettare. Poi dovette asciugare il pavimento del bagno, ennesima dimostrazione empirica della bontà della teoria di Archimede sullo spostamento di masse d'acqua proporzionali ai corpi che vi si agitano. La vasca era traboccata come una tazza di latte e miele in cui lui aveva rischiato di annegare. Comunque si sentiva meglio. «Signore, sono un vero peccatore», bisbigliò, mentre Gill si rivestiva. Quando aprì la porta d'ingresso aveva un'aria seria ed efficiente, come se avesse trascorso gli ultimi venti minuti in visita formale a qualche autorità. «Possiamo rivederci?» chiese lui. «Possiamo», rispose lei, cercando qualcosa nella borsa. Rebus si chiese a cosa fosse dovuto quel gesto così squisitamente femminile, tipico soprattutto dei film e dei thriller: perché, dopo essere andate a letto con un uomo, le donne si mettevano sempre a frugare nella borsetta? Temevano forse che i loro compagni le derubassero nel sonno? «Ma non sarà semplice», continuò. «Non se il caso manterrà la piega che sembra aver preso. Teniamoci in contatto, d'accordo?» «D'accordo.» Rebus si augurò che avesse registrato la delusione nella sua voce, la delusione del ragazzino messo davanti a un rifiuto, seppur gentile. Si scambiarono un ultimo bacetto a labbra tirate e lei se ne andò. Il suo profumo, però, rimase ad aleggiare nell'aria e lui lo inalò profondamente, preparandosi ad affrontare la nuova giornata. Scovò una camicia e un paio di pantaloni che non puzzavano troppo di fumo e li indossò, ammirandosi nello specchio del bagno, le piante dei piedi umide, mentre sottovoce intonava un inno. A volte essere vivi era un piacere. A volte.
11 Jim Stevens si ficcò in bocca altre tre aspirine e bevve. Era una vergogna farsi vedere in un bar di Leith con davanti un succo di frutta, ma la semplice idea di una sorsata di birra ricca e schiumosa gli dava la nausea. Alla festa aveva davvero esagerato, aveva alzato troppo il gomito e troppo rapidamente, in troppe combinazioni esplosive. Leith si stava dando una ripulita. Qualcuno, da qualche parte, aveva deciso che era venuto il momento di prendere secchio e spazzolone. Avevano aperto nuovi café in stile francese, enoteche, negozi di gastronomia e delicatessen ed era tutto un proliferare di miniappartamenti. Però era sempre Leith, col porto vecchio e l'eco di un passato ruggente e indaffarato, un passato in cui i vini di Bordeaux si vendevano per strada, in damigiana, scaricati da carretti trainati da un cavallo. Se Leith aveva un tratto caratteristico era proprio quella mentalità portuale, con tutte le bettole annesse e connesse. «Cristo Santo!» esplose una voce alle sue spalle. «Questo si beve tutto doppio, anche l'aranciata!» Un pugno pesante, grande due volte il suo, gli atterrò sulla schiena. Poi anche la scura figura che lo accompagnava si lasciò cadere sullo sgabello accanto a lui. La mano rimase dov'era. «Ciao, Podeen», lo salutò Stevens. L'aria calda del bar cominciava a farlo sudare e si sentiva il battito cardiaco accelerato, tutti sintomi terminali dei postumi di una sbornia. Aveva quasi l'impressione di sentire il puzzo d'alcol esalato dai suoi stessi pori. «Signore Gesù, James, ragazzo mio, in che razza di pozione vai intingendo la lingua? Presto, barista, un whisky per questo infelice che tenta di suicidarsi con succo per neonati!» Con un ruggito, Podeen staccò la mano dalla schiena del reporter quel tanto che bastava per concedergli un breve sollievo, quindi tornò ad abbassarla in una pacca bruciante e sonora. Stevens si sentì torcere le budella dal nervoso. «Posso esserti utile in qualcosa?» riprese Podeen, stavolta quasi in un sussurro. Il grande Podeen aveva fatto il marinaio per vent'anni e il suo corpo recava i segni e le cicatrici di mille approdi. Come si guadagnasse da vivere adesso, Stevens non voleva nemmeno saperlo. Ogni tanto lavorava come
buttafuori nei pub di Lothian Road e in altri locali di dubbia reputazione a Leith, ma quella era solo la punta dell'iceberg. Lo sporco era così incancrenito sotto le sue unghie, che in quel terreno marcio e fertile avrebbe potuto affondare le mani e intascare qualunque somma in nero senza dare minimamente nell'occhio. «No, amico, ti ringrazio. Sto solo cercando di schiarirmi un po' le idee.» «Io voglio fare colazione. Doppia porzione di tutto.» Il barista rispose con un saluto militare e passò l'ordine in cucina. «Come vedi», riprese Podeen, «non sei l'unico a ordinare doppio, eh, Jimmy?» La mano tornò a sollevarsi dalla sua schiena. Stevens fece una smorfia, anticipando la pacca, ma il braccio ricadde di fianco al suo, sul bancone. Allora emise un sospiro di sollievo. «Nottataccia, eh, amico?» «Se almeno me la ricordassi.» Stevens era piombato nel sonno in una delle camere da letto della casa della festa, a notte ormai inoltrata. Poi era entrata una coppia, lo aveva sollevato di peso e trasferito in bagno, o meglio nella vasca da bagno, dove lui aveva continuato a dormire per due o tre ore. A un certo punto si era svegliato, il collo, le gambe e la schiena completamente rattrappiti. Aveva tentato di riprendersi bevendo caffè, ma, come sempre in quei casi, non era bastato. Così era uscito a piedi nell'alba gelida, si era fermato a scambiare due chiacchiere con alcuni taxisti al chiosco dei giornali ed era andato a sedersi nello stanzino del portiere di uno dei grandi alberghi di Princes Street, sorseggiando tè dolciastro e parlando di football col portiere di notte dagli occhi arrossati. Sapeva che prima o poi sarebbe finito proprio lì, al pub, perché fino al pomeriggio non sarebbe montato in servizio e, nel frattempo, aveva voglia di tornare a dedicarsi alla sua piccola creatura, al pezzo sul narcotraffico locale. «Ne gira molta in questo momento, Podeen?» «Oh, be', dipende da cosa cerchi, Jimmy. Sai, corre voce che cominci a ficcare un po' troppo il naso intorno. Faresti meglio ad abbassare il tiro e a non sporcarti le mani con la roba che scotta davvero.» «Devo considerarlo un grazioso avvertimento, una minaccia, o che altro?» Non era certo dell'umore giusto per accettare minacce, non quando doveva ancora smaltire gli ultimi postumi di una sbornia del sabato sera. «Un avvertimento amichevole, Jimmy, cioè l'avvertimento di un amico.»
«E chi sarebbe l'amico?» «Io, non fare l'idiota. Tu sei troppo diffidente. Ascolta, gira un po' di marijuana, d'accordo, ma niente di più. Nessuno porta più roba pesante a Leith. La scaricano sulle coste del Fife, o su a Dundee. Lì i controlli di frontiera non esistono più.» «Lo so, Podeen, lo so. Ma so che consegnano anche qui. Lo so perché l'ho visto coi miei occhi. Non so di cosa si tratti, se è roba pesante o no, ma ho assistito a una consegna. Ti parlo di pochissimo tempo fa.» «Pochissimo quanto?» «Ieri.» «Dove?» «A Calton Hill.» Podeen scosse la testa. «Nulla e nessuno di cui io sappia, Jimmy. Davvero.» Stevens conosceva Podeen, lo conosceva bene. Le informazioni che passava erano buone, ma si trattava sempre e soltanto di cose che altri volevano che lui, Jimmy, venisse a sapere. Quelli del giro dell'eroina, dunque, avevano voluto comunicargli via Podeen che in zona girava dell'erba. Se Stevens avesse deciso di pubblicare un articolo, probabilmente quelli della marijuana sarebbero finiti con le mani nel sacco, sgombrando il campo agli altri. Era un piano ben architettato, con tanto di mosse e contromosse. Certo la posta in gioco era alta, ma Stevens non era un ingenuo e si rendeva conto dell'esistenza di un tacito accordo tra le parti per non consentirgli di mirare al vertice, ai veri pezzi grossi, cioè ai grandi burocrati e ai grandi uomini d'affari della città, ai blasonati proprietari terrieri e ai padroni delle Mercedes della New Town. Sapeva che un gioco simile non glielo avrebbero lasciato fare. Perciò gli allungavano le briciole, quanto bastava a fare aumentare un po' la tiratura del giornale e ad alimentare i luoghi comuni sull'intollerabile degrado di Edimburgo. L'importante era usare il contagocce. Stevens se ne rendeva perfettamente conto e ormai stava al gioco da così tanto tempo che a volte non sapeva nemmeno più per chi tifava. Come se poi avesse importanza da che parte stava... «Insomma, non ne sai niente?» «Niente di niente, Jimmy. Comunque terrò gli occhi aperti. Intanto, se ti può interessare, hanno aperto un nuovo bar, su, dalle parti di Mackay. Hai presente dove?» Stevens annuì.
«Be', la facciata è quella di un bar normale, ma nel retro è un bordello. La barista, uno schianto di ragazza, sa far fruttare i suoi pomeriggi.» L'altro sorrise. Dunque un nuovo arrivato stava cercando di conquistarsi una nicchia di mercato, e i vecchi, quelli per cui in ultima analisi lavorava Podeen, non vedevano la cosa di buon occhio. Lui, Jim Stevens, aveva ricevuto la giusta porzioncina di soffiata per far chiudere il locale. Oh, avrebbe potuto ricavarne un titolo di sicuro effetto, ma la notizia si sarebbe sgonfiata nell'arco di un giorno. Perché non facevano loro una semplice telefonata anonima alla polizia? Forse oggi conosceva la risposta, ma un tempo domande simili lo perseguitavano: il fatto era che a quella gente piaceva giocare secondo le vecchie regole, il che escludeva il ricorso a soffiate e tradimenti ai danni del nemico. Così lui era diventato l'ambasciatore, un ambasciatore con un potere riconosciuto dal sistema. Non un grande potere, questo no, ma senz'altro superiore a quello di chi preferiva non usare scorciatoie. «Grazie, Podeen. Ci penserò.» In quel momento arrivò la colazione, una montagna di fette di bacon lucide e arricciolate, due morbide uova semitrasparenti, funghi, pane fritto, fagioli. Stevens tenne lo sguardo inchiodato al bancone, la sua attenzione improvvisamente catturata da una delle tovagliette sottobirra, ancora fradicia e stillante dei commerci del sabato sera. «Ti spiace se questa roba vado a mangiarmela al tavolo, Jimmy?» Stevens non poteva credere alla propria fortuna. «Ti sembrano domande da fare, amico?» «Be', auguri, allora.» E con ciò Stevens ritrovò infine la pace, accanto a lui ormai solo il fantasma di un profumo di colazione. Si accorse allora che il barista gli stava fermo davanti, la mano unta e lucida tesa verso di lui. «Due sterline e sessanta.» Stevens sospirò. Quando ti deciderai a imparare qualcosa? pensò, tirando fuori il denaro. In ogni caso, era valsa la pena di andare alla festa: se non altro aveva conosciuto John Rebus, che tra le altre cose era amico di Gill Templer. Il quadro gli confondeva un po' le idee, ma nel complesso era interessante. Il personaggio stesso lo era, a partire dall'assoluta mancanza di somiglianza fisica col fratello. Sicuramente gli era parso un tipo onesto, ma anche lo sbirro più immacolato poteva nascondere un cuore marcio, sotto l'uniforme. Insomma, John Rebus usciva con Gill Templer. Stevens ripensò alla loro notte insieme, e il ricordo gli diede i brividi. Be',
quella volta lui si trovava indubbiamente al suo nadir. Si accese una sigaretta, la seconda della giornata. Si sentiva sempre la testa ingombra, ma lo stomaco cominciava ad andare meglio. Forse gli stava addirittura venendo fame. Rebus aveva l'aria di essere un osso duro, ma probabilmente dieci anni prima lo era stato anche di più. E in quel preciso momento probabilmente era a letto con Gill. Il bastardo. Il fortunato bastardo. Lo stomaco ebbe un piccolo sussulto di gelosia. Si consolò con la sigaretta. Fumare gli piaceva, gli restituiva forza e vita, o almeno quella era la sensazione. In realtà sapeva benissimo che le sigarette gli facevano male, che gli trasformavano il corpo in brandelli di carne annerita. Al diavolo. Insomma, lui fumava perché lo aiutava a concentrarsi e a pensare. E adesso stava pensando. «Ehi, un doppio, per favore.» Il barista tornò ad avvicinarsi. «Succo d'arancia?» Stevens lo guardò con compatimento. «Non diciamo scemate. Whisky. Grouse, se l'etichetta dice il vero.» «Non è nostra abitudine fregare i clienti», ribatté l'uomo. «Meglio così.» Dopo aver buttato giù il whisky, si sentì meglio. Poi ricominciò a sentirsi peggio. Andò in bagno, ma il puzzo dei gabinetti gli diede ancora di più il voltastomaco. Si sporse sul lavandino e sputò un paio di boccate di liquido, producendosi in conati tanto rumorosi quanto infruttuosi. Doveva smettere di bere. Doveva smettere di fumare. Quella roba lo stava uccidendo, eppure era ciò che lo teneva in vita. Sudando, sentendosi più vecchio dei suoi anni, si diresse al tavolo di Podeen. «Ottima colazione. Ottima colazione», commentò il bestione, gli occhi lucidi di piacere come quelli di un bambino. Stevens gli sedette accanto. «Sai niente di sbirri corrotti?» 12 «Ciao, pa'.» Aveva undici anni, ma dall'aspetto, dal modo in cui parlava e sorrideva, sembrava più grande. Erano gli effetti della convivenza con Rhona. Le diede un bacetto sulla guancia, ripensando al saluto di congedo di Gill. Sua figlia si era profumata e aveva anche un filo di trucco sulle palpebre.
Accidenti a Rhona. «Ciao, Sammy.» «Mamma dice che dovrei farmi chiamare Samantha, adesso che sto crescendo, ma credo che tu possa andare avanti a chiamarmi Sammy.» «Per carità, Samantha, mamma ha sempre ragione.» Lanciò un'occhiata in direzione della ex moglie che si allontanava, il corpo compresso, contenuto e distribuito in una forma ottenibile solo per mezzo di qualche busto super rinforzato, e fu quasi lieto di constatare che non sembrava passarsela così bene come il tono delle sue telefonate cercava di far credere. Senza guardarsi alle spalle, salì in macchina. Era una vettura piccola ma costosa, già vistosamente ammaccata su un fianco. Rebus gongolò anche di quell'ammaccatura. Gli tornò in mente quanto gli piaceva quel corpo ai tempi in cui facevano l'amore insieme, come si beava delle carni morbide - l'imbottitura, la chiamava lei - delle sue cosce e della sua schiena. Oggi lei l'aveva guardato con occhi gelidi e velati di sospetto, e aveva scorto nei suoi il lampo dell'appagamento sessuale. Si era girata di scatto. Dunque era vero: era ancora capace di leggergli nel cuore. Nel cuore, sì, ma non nell'anima, organo vitale su cui non aveva nessun potere. «Allora, cosa ti va di fare?» Erano fermi all'ingresso dei giardini di Princes Street, in piena zona di turisti. Alcuni indugiavano davanti ai negozi chiusi, altri sedevano sulle panchine del parco lanciando briciole ai piccioni e agli scoiattoli, o leggendo le pagine sgargianti dei giornali della domenica. Sopra di loro torreggiava il castello, la bandiera che sventolava nell'immancabile brezza cittadina. Quella specie di missile gotico che era il monumento a Scott indicava ai fedeli la giusta direzione del pellegrinaggio, ma solo pochi tra coloro che lo immortalavano con sofisticati obiettivi giapponesi apparivano interessati ai connotati simbolici della struttura, per non parlare di quelli reali: l'importante era tornare a casa con qualche foto da mostrare agli amici. Diversamente dalla popolazione più giovane che bighellonava nei dintorni, troppo impegnata a godersi la vita per lasciarsi catturare da immagini false, quella specie di visitatori trascorreva tanto tempo a fotografare le cose che di rado riusciva davvero a vedere qualcosa. «Ehi, dico a te: che ti va di fare?» Quello era soltanto il volto turistico di Edimburgo. Mai che qualcuno avesse il desiderio di esplorare i quartieri popolari fuori del centro, di avventurarsi fino a Pilton, a Niddrie o a Oxgangs per fare una sosta davanti a
un casermone odoroso di piscio. Gli spacciatori e i tossici di Leith non interessavano a nessuno, come la sottile corruzione della gente bene, o i piccoli furti di una società così imbevuta di materialismo da concepire il furto come unica risposta possibile ai cosiddetti bisogni. Allo stesso modo, quei turisti non sapevano nulla dell'ultima star dei media edimburghesi (be', certo, non erano mica venuti fin lì per leggere i giornali o seguire i notiziari locali), l'assassino di ragazzine che la polizia non riusciva a catturare, l'omicida che stava trascinando le forze dell'ordine in un disorientante balletto al buio. Improvvisamente Rebus ebbe compassione per Gill e per il lavoro che le toccava. Ebbe compassione per se stesso. Per la città tutta, giù giù fino ai suoi strati più bassi e disperati, ai suoi fuorilegge, alle sue puttane e ai suoi giocatori d'azzardo, ai suoi eterni perdenti e agli spietati vincenti. «Insomma, me lo dici cosa vuoi fare?» La figlia si strinse nelle spalle. «Non lo so. Una passeggiata? Ci mangiamo una pizza? Andiamo a vedere un film?» Si misero in cammino. John Rebus aveva conosciuto Rhona Phillips subito dopo essere entrato in polizia. Appena prima, invece, aveva avuto un brutto esaurimento nervoso (Perché hai mollato l'esercito, John?) ed era andato a riprendersi in un villaggio di pescatori sulla costa del Fife, senza peraltro farne parola con Michael. In occasione della sua prima vacanza come poliziotto, o meglio della sua prima vera vacanza dopo anni completamente dedicati all'addestramento o alla preparazione di esami, era quindi tornato nel villaggio di pescatori e là aveva conosciuto Rhona. Faceva la maestra e aveva già alle spalle un matrimonio fulmineamente breve e infelice. Ciò che lei vide in John Rebus fu un potenziale marito forte e capace, un uomo in grado di affrontare una rissa senza battere ciglio ma di cui, al contempo, avrebbe potuto prendersi cura, poiché era evidente che la sua forza esteriore nascondeva una grande fragilità interiore. Capì subito che gli anni trascorsi nell'esercito lo perseguitavano come fantasmi, soprattutto quelli passati nelle forze speciali. Certe notti si svegliava urlando e, a volte, facendo l'amore, versava lacrime pesanti e silenziose sul suo seno. Non ne parlava molto, e lei non aveva mai insistito perché lo facesse. Sapeva che in quel periodo aveva perso un amico, comprendeva i suoi sentimenti e tutto ciò faceva presa sulla bimba e sulla madre che erano in lei. Sembrava quasi un uomo perfetto. Troppo
perfetto. Ma non lo era. John Rebus non avrebbe mai dovuto sposarsi. Fino alla nascita di Samantha avevano vissuto discretamente felici, lei continuando a insegnare inglese a Edimburgo. Ma, dall'arrivo della figlia, i piccoli litigi e le piccole dispute di potere si erano trasformati in cupi e lunghi periodi di risentimento e sospetto. Per caso lei si vedeva con un altro, un collega della scuola? E lui, allora, non è che al posto degli onerosi doppi turni che tirava sempre in ballo, magari s'incontrava con una donna? Rhona prendeva qualche pillola a sua insaputa? John accettava bustarelle da qualcuno? In realtà, la risposta a tutti quei sospetti era sempre no, ma la vera posta in gioco sembrava un'altra. Qualcosa di ben più grande e minaccioso incombeva all'orizzonte, ma né lui né lei si erano resi conto della sua ineluttabilità finché non era stato troppo tardi. Ogni volta si limitavano a fare pace, a coccolarsi un po' e a cercare di raddrizzare la facciata della loro relazione, come in un racconto morale o in una soap-opera. In fondo, concordavano, c'era la piccola cui pensare. E così Samantha, la piccola, era diventata una ragazzina e, mentre attraversavano il parco, giravano intorno al castello e si dirigevano verso l'ABC, il cinema di Lothian Road, Rebus sentiva il proprio sguardo accarezzarla in preda al compiacimento e al senso di colpa, a seconda dei momenti. Non era bella, poiché belle sono le donne, ma certamente stava evolvendo verso un tipo di bellezza accompagnato da una sicurezza di sé che già bastava a mozzargli il fiato, e a orripilarlo. Be', dopotutto era suo padre, logico che provasse dei sentimenti. Fosse stata anche soltanto una questione di territorio... «Vuoi che ti racconti del nuovo amichetto di mamma?» «Certo che voglio, lo sai benissimo.» Samantha soffocò una risatina, una traccia della bimba che ancora albergava in lei; eppure, anche quel modo di ridacchiare sembrava diverso, adesso, più controllato e adulto. «Pare sia un poeta, ma in realtà non ha ancora pubblicato niente e le sue poesie fanno schifo. Però mamma mica glielo dice. Lei pensa solo che è fantastico, anche dove sai tu, ma l'amore è cieco.» Lo scopo era forse impressionarlo con quei modi da donna emancipata? Probabilmente sì. «Anni?» chiese, più impressionato dalla propria vanità. «Non so. Venti, forse.» Dall'impressione allo sbigottimento. Vent'anni. Ma bene, tra un po' li a-
vrebbe presi direttamente dalla culla. Oh, Gesù Gesù. Che conseguenze avrebbe avuto un comportamento simile sulla povera Sammy? O meglio, su Samantha, la fragile finta-adulta? Odiava pensare in quei termini alle cose, e poi non era uno psicanalista; semmai era più il campo di Rhona, quello, o lo era stato un tempo. «Dico sul serio, pa', come poeta fa schifo. Io ho scritto roba migliore per la scuola, giuro. Quest'autunno poi andrò a scuola coi grandi. Sarà buffo stare nello stesso posto dove lavora mamma.» «Già, non è vero?» Ecco che aveva trovato un pensierino nuovo con cui torturarsi. Un poeta di vent'anni. «E come si chiama, il ragazzo?» «Andrew. Andrew Anderson. Non è un nome ridicolo? Insomma, è carino, però è anche un tipo strano.» Rebus lanciò una silenziosa imprecazione: il figlio di Anderson, il temuto figlio poeta itinerante di Anderson aveva una storia con sua moglie Rhona! Quale ironia. Non sapeva se ridere o piangere, anche se da un certo punto di vista la prima ipotesi gli appariva più appropriata. «Perché ridi, pa'?» «Niente, Samantha, così. Sono felice, tutto qui. Cosa stavi dicendo?» «Stavo dicendo che mamma l'ha conosciuto in biblioteca. Ci andiamo spesso, sai. A lei piacciono i libri di letteratura, io invece preferisco i romanzi d'amore e d'avventura. Cioè, non li capisco, i libri di mamma. Anche tu leggevi gli stessi libri, quand'eravate... prima di...?» «Sì, sì, leggevamo gli stessi libri. Però neanch'io li capivo, sai, perciò non preoccuparti. Sono contento che la lettura ti piaccia. E com'è, questa biblioteca?» «Oh, molto grande, ci vanno anche un paio di barboni a dormire e a passare il tempo. Prendono un libro, si siedono e, bum, crollano addormentati. Dio, come puzzano!» «Be', non hai nessun bisogno di andarci vicino, no? Lasciali in pace per conto loro.» «Sì, pa'.» Il tono era lievemente risentito. Si stava comportando in maniera troppo paterna, i suoi consigli non le servivano. «Allora, andiamo a vederci un film?» Purtroppo il cinema era chiuso, così ripiegarono su una gelateria di Tollcross. Rebus osservò la figlia spazzolasi cinque palline multicolori da una coppa gigante. Era ancora nella fase benedetta della magrezza irriducibile, quella in cui ci si può permettere di mangiare qualunque cosa senza mettere su un grammo. Lui invece era consapevole del girovita che andava ap-
pesantendosi, della pancia ormai viziata, che si espandeva dove più le garbava. Ordinò un cappuccino (senza zucchero) e rimase a spiare con la coda dell'occhio un gruppo di ragazzi che, da un altro tavolo, guardavano in direzione sua e di Sammy, bisbigliando e ridacchiando. Si ravviavano i capelli e tiravano dalle sigarette come se aspirassero la vita stessa. Se non ci fosse stata anche Sammy, li avrebbe arrestati per blocco dello sviluppo autoinflitto. Sotto sotto, però, li invidiava. In compagnia della figlia si era imposto di non fumare: a lei non piaceva vederlo con la sigaretta in bocca. Una volta anche sua madre gli gridava di smetterla e gli nascondeva pacchetto e accendino, tanto che lui aveva sparso piccoli nidi segreti di sigarette per tutta la casa ed era andato avanti a fumare senza ritegno, ridendo con aria trionfante ed entrando a sigaretta accesa nella stanza in cui soggiornava Rhona, provocandola, lasciandosi rincorrere tra sedie e mobili, mentre lei tentava in ogni modo di strappargli il mostro dalle labbra. Bei tempi, quelli, tempi di schermaglie amorose. «Come va a scuola?» «Bene. Tu stai lavorando a quegli omicidi?» «Sì.» Cristo, anche lui avrebbe potuto uccidere, in quel momento, pur di accendersi una paglia. Sarebbe stato capace di staccare la testa a un ragazzino. «Lo prenderete?» «Ma certo.» «Che cosa fa alle sue vittime?» I suoi occhi fissavano con apparente indifferenza la coppa di gelato quasi vuota. «Niente. Non gli fa niente.» «Le uccide e basta?» Aveva le labbra esangui. Improvvisamente tornò a essere la sua bimba, la sua figlioletta, un esserino bisognoso di estrema protezione. Avrebbe voluto abbracciarla, rassicurarla, dirle che il mondo brutto e cattivo era là fuori, non lì dentro, che tra le sue braccia non aveva nulla da temere. «Proprio così», rispose invece. «Meno male.» I ragazzotti si erano messi a fischiare, nel tentativo di attirare la sua attenzione. Rebus si sentì arrossire. In qualunque altro momento si sarebbe alzato e sarebbe andato a passo di marcia al loro tavolo, sbattendo la legge sui loro stupidi musetti. Ma non adesso. Era fuori servizio e si stava godendo un pomeriggio con la figlia, con lo strano frutto di un unico, particolare orgasmo: quello in cui uno spermatozoo fortunato era riuscito a nuota-
re faticosamente tra gli avversari, a farsi largo nella mischia e a tagliare per primo il traguardo. Senza dubbio, a quell'ora, Rhona stava già allungando la mano verso il libro del giorno, verso la sua letteratura, dopo aver allontanato senza una parola il corpo molle ed esausto del suo amante. Chissà, forse il suo pensiero non si staccava mai dai libri. E lui, l'amante, si sentiva sgonfio e svuotato, e tutto gli era successo di colpo, all'improvviso, senza gradualità. Perché quella era la sua forma di vittoria. La vittoria di Rhona. Le avrebbe lanciato un urlo, le avrebbe dato un bacio. L'urlo del desiderio, dell'isolamento. Fatemi uscire di qui. Fatemi uscire. «Vieni, andiamocene da questo posto.» «Va bene.» Mentre superavano il tavolo di focosi adolescenti, le facce che parlavano di voglia trattenuta a stento, patetiche scimmiette agitate, Samantha rivolse un sorriso a un ragazzo. Rivolse un sorriso a uno di loro. Per strada, inspirando profondamente, Rebus si chiese dove stesse andando a finire il mondo. Forse la sua fede in una realtà diversa, trascendente, era dovuta solo alla tristezza e alla spaventosità di questa. Se all'infuori di questo non esisteva nulla, allora la vita era l'invenzione peggiore di tutti i tempi. Avrebbe ucciso quei ragazzini e desiderava soltanto stringere e proteggere sua figlia, proteggerla da ciò che lei stessa desiderava e rischiava di ottenere. Si rese conto di non avere nulla da dirle, mentre quel manipolo di stupidi ragazzi aveva tutti gli argomenti per interessarla. Di non avere niente in comune con lei, tranne il sangue, mentre loro avrebbero potuto condividere con lei qualsiasi cosa. Il cielo era scuro come in un'opera wagneriana, scuro come i pensieri di un assassino. E si scuriva sempre di più, mentre John Rebus sentiva la terra franargli sotto i piedi. «È tardi», disse lei. Gli stava di fianco ma sembrava molto, molto più grande di lui, molto più piena di vita. Aveva ragione. «Sbrighiamoci», rispose Rebus, «o prenderemo un acquazzone.» Era stanco. Ricordò di non avere dormito, di aver faticato parecchio nell'arco della pur breve nottata. Per tornare a casa prese un taxi - alla faccia dei soldi - e si trascinò lungo le scale fino alla porta dell'appartamento. Il puzzo di piscio di gatto era impressionante. Ad aspettarlo per terra, nell'ingresso, c'era una busta non affrancata. Rebus imprecò ad alta voce. Quel bastardo era dappertutto, dappertutto, eppure restava invisibile. Aprì la bu-
sta e lesse. NON STAI ARRIVANDO DA NESSUNA PARTE. DA NESSUNA PARTE. SBAGLIO? FIRMATO Ma non c'era nessuna firma, non a chiare lettere, almeno. Oltre il foglio, però, la busta conteneva quella specie di giochetto infantile, il solito cerchietto di spago. «Perché, Mister Cerchio?» mormorò Rebus, prendendolo tra le dita. «A che razza di gioco stai giocando?» In casa sembrava di stare in frigorifero: la fiamma pilota della caldaia si era di nuovo spenta. PARTE TERZA I NODI 13 Intuendo che lo «Strangolatore di Edimburgo», non sarebbe svanito dalla sera alla mattina, i media presero la storia per le corna e crearono il mostro. Troupe televisive occuparono alcune delle migliori stanze d'albergo della capitale e la città fu ben felice di accoglierle, visto che la stagione turistica vera e propria non era ancora iniziata. Tom Jameson era un caporedattore astuto né più né meno dei suoi colleghi, con un team di quattro cronisti in grado di dedicarsi ventiquattr'ore su ventiquattro al caso. Non poteva però non accorgersi che Jim Stevens era piuttosto fuori forma. Sembrava essergli venuto meno l'interesse - pessimo segno, in un giornalista - e Jameson era preoccupato. Sì, perché Stevens era il suo uomo di punta, il suo fiore all'occhiello. Doveva trovare il modo di parlargli. Col montare del caso, e dell'attenzione generale, John Rebus e Gill Templer si ritrovarono costretti a comunicare solo via telefono o in sporadici quanto occasionali incontri all'interno del quartier generale. Ormai Rebus non metteva quasi più piede alla vecchia centrale. In senso lato, era diventato a propria volta una vittima dell'assassino e tutti continuavano a ripetergli di non pensare ad altro. Lui, invece, pensava a tutto quello che poteva: a Gill, alle lettere anonime, alla sua auto che non aveva passato la revisione. E intanto osservava Anderson, il padre dell'amante di Rhona, lo
osservava e vedeva crescere in lui il bisogno disperato di trovare un movente, un indizio, un appiglio, qualunque cosa. Vederlo così agitato era quasi un piacere. In quanto alle lettere anonime, ormai aveva escluso la moglie e la figlia dalla rosa dei possibili autori. Quelli della scientifica avevano analizzato una macchiolina sul foglio dell'ultima missiva (in cambio del favore, se l'era cavata con qualche pinta di birra) e avevano scoperto che si trattava di sangue. Forse Mister Cerchi si era graffiato un dito tagliando lo spago? Un altro piccolo mistero. Ma la sua vita era già piena di misteri, non ultimo dove accidenti spariva la sua dose di sigarette giornaliera. A metà pomeriggio apriva il pacchetto, contava le sigarette e scopriva così di essersi già cremato le dieci che gli spettavano di diritto. Un'assurdità, visto che quasi non ricordava di averne fumata una, una sola di dieci, figurarsi l'intera razione. Eppure, se andava a contare i mozziconi nel posacenere, effettivamente si trovava davanti prove materiali sufficienti a cancellare ogni dubbio. Una faccenda ben strana. Era quasi come se stesse bandendo dalla propria coscienza un pezzo della sua vita da sveglio. In quel momento era al lavoro nella sala operativa del quartier generale, mentre quel poveraccio di Jack Morton se ne andava in giro per gli interrogatori a porta a porta. Dalla sua posizione poteva dunque comodamente osservare il modo in cui Anderson mandava avanti la baracca; nessuna meraviglia che suo figlio fosse diventato un ragazzo men che brillante. Tra gli altri compiti assegnati, Rebus doveva rispondere alle numerose telefonate i volonterosi che offrivano una mano, i sensitivi, i mitomani rei confessi e seguire gli interrogatori che avevano luogo in sede a tutte le ore del giorno e della notte. Ciascuno di essi andava messo agli atti, registrato, catalogato per ordine d'importanza. Era un'impresa faticosissima, ma poteva sempre darsi che, da una parte o dall'altra, emergesse qualche pista significativa, ragion per cui non poteva abbassare la guardia. Nella mensa soffocante e affollata si accese la numero undici, raccontandosi che era un anticipo sulla quota dell'indomani, quindi aprì il giornale. Esaurito il vocabolario di base, i cronisti sembravano ora tutti in cerca di frasi scioccanti e iperboliche: i gesti folli e agghiaccianti dello Strangolatore; una bestia impazzita, affamata di sesso (che importanza aveva se il killer non aveva violentato le sue vittime?); il maniaco dei grembiuli di scuola! «L'impotenza delle forze dell'ordine: nessuna tecnologia al mondo può sostituirsi al senso di sicurezza garantito dai vecchi agenti di quartiere. Perciò diciamo RIDATECELI! ADESSO!» Quell'ultimo catenaccio era di
Jim Stevens, corrispondente di nera. A Rebus tornò in mente il tizio robusto e ubriaco della festa. Rivide l'espressione sul suo viso quando Gill li aveva presentati. Ecco un'altra cosa strana. Certo che di stranezze poteva metterne insieme quante ne voleva. Posò il giornale. Reporter, cronisti. Ancora una volta augurò mentalmente a Gill buon lavoro. Quindi esaminò la fotografia sfocata sulla prima pagina del tabloid: il ritratto di una ragazzina coi capelli cortissimi e l'aria poco intelligente, che sorrideva nervosa come se l'obiettivo l'avesse colta di sorpresa. Una fessura commovente, appena accennata, tra gli incisivi superiori. Povera Nicola Turner, dodici anni, studentessa di una scuola del Southside. Nessun legame con le altre vittime. Nessun legame evidente tra le vittime in generale e, soprattutto, stavolta, l'assassino aveva mirato a un anno più in alto, dimostrando che la scelta anagrafica non seguiva una regola fissa. Colpiva a caso. E quella casualità stava tirando scemo Anderson. D'altra parte Anderson non avrebbe mai ammesso che l'assassino teneva in scacco le sue amate forze dell'ordine. In scacco assoluto. Certo, qualche indizio doveva pur esserci. Doveva. Rebus bevve il caffè e si sentì girare la testa. Gli sembrava di essere l'investigatore di un giallo da quattro soldi e gli sarebbe piaciuto molto arrivare in fretta all'ultima pagina e mettere un punto a tutta quella confusione, alle morti, alla follia, alle vertigini. In sala operativa prese la lista aggiornata delle telefonate arrivate mentre era in pausa. I centralinisti non avevano un attimo di respiro e accanto a loro un telex continuava a rigurgitare nuovi brandelli d'informazioni ritenute potenzialmente utili al caso e inviate dalle centrali di tutto il Paese. Anderson si fece largo nel baccano come un nuotatore in un mare di melassa. «Un'auto, Rebus, ecco cosa ci serve. Entro un'ora voglio sulla mia scrivania un elenco di avvistamenti d'individui sospetti che si allontanavano in macchina con a bordo delle bambine. Voglio sapere con cosa si muove quel bastardo.» «Sì, signore.» Anderson si allontanò di nuovo tra ondate di melassa abbastanza alte da annegare un essere umano normale. Non l'Indistruttibile Anderson, però, indifferente a ogni pericolo. Era la sua natura impervia a trasformarlo in una sorta di garanzia, pensò Rebus, passando in rassegna i mucchi di fogli - teoricamente ordinati - che ingombravano il tavolo. Automobili. Anderson voleva delle auto, e auto avrebbe avuto. C'erano
alcune descrizioni, a prova di giuramento sulla Bibbia, di un tizio sospetto a bordo di una Escort azzurra, di una Capri bianca, di una Mini rossa, di una BMW gialla, di una TR7 argento, di un furgone stile autoambulanza, di un altro color «gelato» (dalla pronuncia il testimone sembrava un italiano, ma aveva preferito restare anonimo) e persino di un'imponente RollsRoyce con targa personalizzata. Ma sì, perché non infilarle tutte nel computer e controllare ogni singola Escort azzurra o Capri bianca in circolazione nel Regno Unito? Poi, una volta ottenute le informazioni... cosa avrebbero fatto? Altri interrogatori a tappeto nel quartiere, altre telefonate, altre deposizioni, altri dati da archiviare, altre montagne di stronzate. Ma che importava? Tanto poi ci avrebbe pensato Anderson a compiere l'eroica traversata, indomito nel mare di follia del suo mondo personale, e alla fine ne sarebbe emerso lindo, lucido e impettito, come un genio delle pubblicità dei detersivi. Hip hip... Urrà. Rebus non aveva mai gradito gli scherzi gratuiti nemmeno quand'era nell'esercito, dove gli scherzi si sprecavano. E quando finalmente era diventato un buon soldato, si era sempre comportato bene. Poi, un giorno, come preso da un raptus, aveva fatto domanda per entrare nello Special Air Service: là gli scherzi erano pochissimi, quello era un mondo di autentiche carogne. Lo avevano costretto a rincorrere la jeep di un sergente dalla stazione fino al campo di addestramento. Lo avevano torturato con marce di venti ore ininterrotte, con istruttori brutali, coi lavori forzati. Quando Gordon Reeve e lui si erano qualificati primi della squadra, il SAS aveva premuto ancora un po' sull'acceleratore, quel filo di troppo, isolandoli, interrogandoli, lasciandoli morire di fame, drogandoli, e tutto per una stronzata di confessione, per strappare loro le due parole con cui dimostrare che avevano ceduto, che non ce l'avevano fatta. Li aveva trasformati in due animali nudi e tremanti, le teste chiuse in un sacco, sdraiati uno accanto all'altro per tenersi caldi. «La lista, Rebus. Tra un'ora», gli ripeté Anderson, passandogli di fianco. Sapeva che l'avrebbe ottenuta. Che sarebbe riuscito a succhiargli ancora un po' di sangue dalle vene. Jack Morton si ripresentò al quartier generale coi piedi dolenti e un'espressione tetra. Fece il giro della scrivania fino a Rebus, un plico di carta sotto il braccio, una sigaretta nell'altra mano. «Da' un'occhiata qui», disse, sollevando una gamba. Rebus vide uno
squarcio nei pantaloni. «Che ti è successo?» «Indovina un po'? Un fottutissimo pastore tedesco che mi è corso dietro. Credi che mi riconosceranno un penny di danni? Neanche morti.» «Io li chiederei lo stesso.» «A che pro? Mi farebbero solo passare per scemo.» Morton avvicinò una sedia al tavolo. «Allora, su cosa ti stai concentrando?» chiese, sedendosi con evidente sollievo. «Sulle macchine. Ne ho una vagonata.» «Ti va un goccetto insieme, più tardi?» Rebus lanciò un'occhiata pensosa all'orologio. «Può darsi, Jack. Il fatto è che spero di essere ancora in tempo per uscire con qualcuno, stasera.» «Vuoi dire l'affascinante ispettrice Templer?» «E tu come lo sai?» Rebus era sinceramente sorpreso. «Dai, John, non crederai che una cosa del genere possa restare un segreto... non tra poliziotti. Sta' solo attento a come ti muovi. Sai com'è, esiste pur sempre un regolamento...» «Lo so, lo so. Secondo te anche Anderson ne è al corrente?» «Ti ha detto qualcosa?» «No.» «E allora no, perché dovrebbe?» «Tu sei sprecato in questo lavoro, figliolo. Saresti un ottimo poliziotto, sai?» «Oh, papi, se me lo dici tu ci credo.» Rebus si accese la numero dodici. Era vero, non c'era segreto che resistesse in una stazione di polizia, soprattutto tra i ranghi più bassi. Si augurava solo che non venissero a saperlo Anderson e il capo. «Com'è andata la battuta di caccia?» «Indovina.» «Morton, hai la pessima abitudine di rispondere sempre a una domanda con un'altra domanda.» «Davvero? Colpa del lavoro: passo la vita a far domande.» Rebus ricontrollò il pacchetto e si rese conto che stava fumando la numero tredici. Quella storia stava diventando ridicola. Dov'era finita la dodici? «Credimi, John, là fuori nessuno sa niente. In questo modo non arriveremo da nessuna parte. Nessuno ha visto niente, nessuno ha la più pallida idea di cosa sia accaduto. Sembra quasi una cospirazione.»
«Be', forse lo è.» «Ed è certo che i tre omicidi siano opera dello stesso individuo?» «Sì.» L'ispettore capo non era tipo da sprecare parole, specie con la stampa. Sedeva come una roccia dietro la scrivania, le mani intrecciate davanti a sé, Gill Templer al suo fianco. Gli occhiali di quest'ultima - più un vezzo che una reale necessità - erano nell'astuccio, in borsetta. Sul lavoro non li usava mai, tranne in occasioni particolari. Perché allora alla festa se li era messi? Perché per lei erano come gioielli, e poi le piaceva osservare le diverse reazioni suscitate in chi le stava di fronte. Quando lo spiegava agli amici, la guardavano sempre con ironia, come se non le credessero. Forse era solo un retaggio della sua prima storia importante: lui le aveva detto che, per esperienza personale, le ragazze con gli occhiali erano quelle che scopavano meglio. Benché fossero passati ben quindici anni, Gill rivedeva ancora l'espressione dipinta sul suo viso, il suo sorriso, il lampo malizioso nei suoi occhi. E la propria reazione scioccata nell'udire una frase come: «quelle che scopano meglio». Be', certo, oggi la cosa la faceva sorridere; oggi era lei a parlare sboccato come i colleghi maschi, un altro modo per saggiare le loro reazioni. Per Gill tutto era un gioco. Tutto, tranne il lavoro. Se si era guadagnata i gradi d'ispettore non era stato per caso o perché era bella, ma perché ci aveva dato dentro con determinazione ed efficienza, guidata da una forza di volontà che l'avrebbe condotta tanto in alto quanto il mondo le avrebbe consentito. Adesso sedeva di fianco all'ispettore capo, e la sua presenza era un vero regalo in quelle occasioni. Era lei a preparare i comunicati stampa, a tenere informato il suo superiore, a trattare coi rappresentanti dei mass media. E tutti lo sapevano. Un ispettore capo poteva aggiungere alle operazioni l'onere e l'onore della propria anzianità, ma quella in grado di concedere o negare «chicche» ai giornalisti era Gill Templer. Nessuno ne era più consapevole di Jim Stevens. Sedeva in fondo alla sala, fumando senza mai staccare la sigaretta dalle labbra. Le dichiarazioni dell'ispettore capo non gli facevano né caldo né freddo. Meglio aspettare. Nell'attesa, tuttavia, ogni tanto scribacchiava qualche frase sul blocco. Questione di abitudine: era pur sempre un uomo di penna, prima o poi gli sarebbe potuta tornare utile. Il fotografo, un giovane di belle speranze perennemente alle prese coi cambi di obiettivo, se n'era già andato col rullino pieno. Stevens si guardò intorno, in cerca di qualcuno con cui andare a be-
re qualcosa a conferenza terminata. C'erano tutti. Tutti i vecchi della stampa scozzese, più i corrispondenti di quella inglese. Scozzesi, inglesi, greci, non faceva differenza: i giornalisti erano inconfondibili ovunque. Faccia robusta, fumatori incalliti, camicia sempre un po' stazzonata. Non davano mai l'impressione di essere ben pagati, eppure lo erano, eccome, e godevano di più fringe benefits della maggioranza delle persone. Ma non erano soldi regalati: il lavoro era duro, occorreva stabilire contatti sicuri, infilarsi in ogni crepa e fessura, camminare in punta di piedi. Guardò Gill Templer. Fino a che punto conosceva John Rebus? E, soprattutto, sarebbe stata disposta a parlargli di lui? In fondo erano ancora amici. Amici, sì. Forse non grandi amici, ecco, quello no, anche se lui ci aveva provato. E adesso Rebus e lei... Prima o poi lo avrebbe incastrato, quel bastardo. A condizione che ci fossero validi motivi per farlo, sicuramente. Ma di certo c'erano. Se lo sentiva dentro. Allora anche lei avrebbe finalmente aperto gli occhi. Li avrebbe spalancati e avrebbe visto quel che c'era da vedere. Stava già pensando al titolo. Qualcosa come «Fratelli di sangue - Fratelli nel sangue!» Sì, un gioco di parole del genere. I fratelli Rebus dietro le sbarre, e tutto per merito suo. Tornò a concentrarsi sui casi di omicidio, ma quella era roba fin troppo facile. Troppo facile sedersi e scrivere un pezzo sull'inefficienza delle forze dell'ordine, sul possibile profilo del maniaco. Troppo facile, ma per il momento era il lavoro che gli dava da mangiare. Fortuna che c'era sempre il panorama di Gill Templer. «Gill!» La intercettò mentre stava già salendo in macchina. «Ciao, Jim.» Tono freddo, professionale. «Ascolta, volevo solo scusarmi per come mi sono comportato alla festa.» La corsa attraverso il parcheggio lo aveva lasciato senza fiato e le parole gli uscivano lente dal torace in fiamme. «Voglio dire, ero un po' bevuto. Comunque, scusa.» Ma Gill lo conosceva troppo bene e sapeva che quello era solo il preludio a qualche domanda o richiesta. Di colpo provò compassione per lui, compassione per la sua testa bionda e bisognosa di uno shampoo, compassione per il suo corpo tozzo e tarchiato - sebbene una volta le fosse sembrato potente -, per il modo in cui tremava come se avesse sempre freddo. Ma fu un sentimento di breve durata. Aveva alle spalle una giornata lunga e pesante. «E hai aspettato fin ora? Potevi dirmelo anche alla conferenza di dome-
nica.» Lui scosse la testa. «Domenica non ce l'ho fatta a venire. Sai, i postumi... Hai visto che non c'ero, no?» «Perché avrei dovuto? La sala era piena.» Stevens accusò il colpo, ma non gettò la spugna. «Be', comunque sia, mi dispiace. Capito?» «Capito.» Gill fece per montare in macchina. «Posso offrirti un drink o un boccone? Così, per mettere un punto definitivo alle mie scuse.» «Spiacente, Jim, sono già impegnata.» «Con quel Rebus?» «Chissà.» «Stai attenta, Gill. Potrebbe non essere quello che pensi.» Lei ebbe un nuovo moto d'impazienza. «Insomma, abbi cura di te, d'accordo?» Per il momento non avrebbe aggiunto altro. Il seme del sospetto era piantato, doveva solo dargli il tempo di crescere. Allora, soltanto allora, sarebbe tornato sull'argomento facendole qualche domanda, e magari lei sarebbe stata più disposta a rispondergli. Si girò e, mani in tasca, si allontanò in direzione del Sutherland Bar. 14 Nella biblioteca centrale di Edimburgo, un vecchio edificio grande ma non pomposo, compresso tra una banca e una libreria, i barboni si preparavano al riposo quotidiano. In attesa che il destino facesse il suo corso, era lì che si recavano a trascorrere le ultime giornate di assoluta indigenza prima di riscuotere il nuovo sussidio statale. Denaro che avrebbero speso al massimo nell'arco di quarantott'ore di assurdi bagordi: vino, donne e canzoni dinanzi a un pubblico poco partecipe. L'atteggiamento dei bibliotecari nei confronti di questi emarginati andava dall'intolleranza assoluta (in genere i membri più anziani dello staff) alla mesta riflessione (gli impiegati più giovani). Si trattava comunque di un luogo pubblico e se, al momento di entrare, gli scafati vagabondi si degnavano di scegliere un libro, nulla poteva più impedire loro di trattenersi nei locali. La guardia di sicurezza piombava sulla scena solo in caso di comportamento rude e aggressivo. Si assopivano dunque nelle comode poltroncine, dinanzi al sopracciglio
inarcato di coloro che si ostinavano a chiedersi se quello era ciò che Andrew Carnegie aveva in mente quando, tanti anni prima, aveva promosso il finanziamento delle biblioteche pubbliche. Non che i begli addormentati si preoccupassero di quegli sguardi, anzi sprofondavano nei loro sogni anche se ne nessuno gli chiedeva mai che cosa sognassero. Anche se a nessuno importava di loro. L'unico divieto cui erano sottoposti riguardava l'accesso alla sezione per l'infanzia. Addirittura, qualunque adulto si mettesse a curiosare tra i libri in quelle stanze senza avere al seguito almeno un bambino veniva guardato parecchio storto, soprattutto da quando si erano verificati gli omicidi delle tre ragazzine. I bibliotecari ne avevano discusso tra loro, e l'unica conclusione era impiccare il mostro: su questo erano tutti d'accordo. In effetti il parlamento si accingeva realmente a ridiscutere della pena di morte, come accadeva ogni volta che un serial killer emergeva dall'ombra della società civile britannica. L'esclamazione più diffusa tra la cittadinanza, tuttavia, non riguardava affatto il dibattito sulla pena capitale, bensì, come ebbe a metterla una delle bibliotecarie, fu: «Ma proprio qui, nella nostra Edimburgo! Una cosa incredibile». I serial killer erano roba da quartieri bui e anneriti del sud e delle Midland, non di quella città da cartolina. Gli scozzesi annuivano, orripilati e rattristati dalla spaventosa realtà che dovevano tutti accettare, dalle signore di Morningside con la loro aria di antica nobiltà ai disgraziati che popolavano i distretti popolari, dagli avvocati ai banchieri, dagli agenti di borsa ai commessi e agli edicolanti. Tutti. In men che non si dica, si erano costituiti gruppi spontanei di vigilantes, altrettanto rapidamente dispersi dalle forze dell'ordine. Non era quella la risposta, aveva dichiarato il capo della polizia: restare vigili era una cosa, trasformare la legge in una faccenda personale, un'altra. Aveva parlato sfregandosi le mani guantate, tanto che alcuni giornalisti si erano chiesti se il suo inconscio non stesse freudianamente lavandosi le mani del caso. Alla fine il caporedattore di Stevens aveva optato per un laconico: «Tenete d'occhio le vostre figlie!» Esortazione pressoché inutile, visto che alcune venivano addirittura tenute a casa da scuola dai genitori, o vi venivano accompagnate e riprese sotto pesante scorta, con l'aggiunta di un controllo intermedio all'ora di pranzo. Negli ultimi giorni, la sezione per l'infanzia della biblioteca era rimasta in pratica deserta e i commessi avevano ben poco da fare, tranne parlare d'impiccagione e dare quotidianamente fondo alle più infime speculazioni della stampa britannica.
Stampa che sembrava aver deciso di marciare alla grande sul passato meno edificante di Edimburgo. Ogni giorno venivano riproposti profili di Deacon Brodie, di Burke e Hare e di qualsiasi personaggio losco emergesse dalle ricerche d'archivio, giù giù sino ai fantasmi che infestavano un numero addirittura sospetto degli edifici georgiani della città. In quelle giornate piatte e noiose, storie simili risvegliavano l'immaginazione dei bibliotecari. Si erano messi d'accordo per comprare ciascuno un quotidiano diverso così da raccogliere quante più informazioni possibili, ma si rendevano conto benissimo di quanto spesso i giornalisti si scambiassero i pezzi più importanti, cosicché due o tre testate diverse finivano per riportare articoli identici. A volte sembrava che esistesse una sorta di cospirazione tra scrittori. In realtà, qualche bambina che frequentava la biblioteca c'era ancora, soltanto che quasi tutte le bimbe e le ragazzine si presentavano adesso con la madre, il padre o un accompagnatore di fiducia. Due o tre continuavano però a venirci da sole. Una simile dimostrazione di avventatezza da parte di certi genitori non faceva che turbare ulteriormente il personale di sala, già preoccupato, che si premurava dunque d'informarsi ogni volta su dove si trovassero il papà e la mamma di quelle sfortunate. Soltanto di rado Samantha metteva piede nella sezione per l'infanzia, preferendo libri destinati a un pubblico più maturo, ma quel giorno si allontanò dalla madre e, mentre sfogliava alcuni cartonati per i più piccini, un commesso le si avvicinò. «Sei qui da sola, piccola?» Samantha lo riconobbe. Lavorava lì da sempre. «No, con la mamma. È di sopra.» «Bene, meglio così. Non ti allontanare troppo, dammi retta.» Samantha annuì, ma sotto sotto era alquanto infastidita. Solo pochi minuti prima si era sorbita un altro predicozzo dalla madre. Non era più una bambina, ma sembrava che nessuno volesse accettare quel fatto. Quando il commesso si diresse verso un'altra giovane lettrice, Samantha prese il libro che voleva e consegnò la contromarca alla vecchia bibliotecaria dai capelli tinti, quella che tutti i bambini chiamavano signora Slocum, perché somigliava all'attrice della serie TV Pete and Gladys. Quindi salì di corsa le scale che portavano in sala consultazione, dove sua madre stava cercando un testo critico su George Eliot. George Eliot, le aveva raccontato, era stata autrice di libri di enorme realismo e spessore psicologico in un'epoca in cui si pensava che i grandi realisti e psicologi fossero gli uomini, e che le don-
ne dovessero occuparsi solo della casa. Per quel motivo, volendo pubblicare, era stata costretta a spacciarsi per un maschio e a farsi chiamare «George». Nel tentativo di contrastare l'indottrinamento materno, Samantha aveva preso in prestito dalla sezione per l'infanzia un libro illustrato che parlava di un bambino che vola su un gatto gigante e va incontro a un mucchio di avventure in un Paese fantastico. Sperava così di contrariarla un po'. In sala consultazione c'era un sacco di gente seduta ai tavoli; quasi tutti, ogni tanto, emettevano un colpo di tosse, e ogni colpo riecheggiava nel silenzio generale. Sua madre, gli occhiali piazzati sul naso e una perfetta aria da maestra, stava discutendo con un addetto a proposito di un certo libro che aveva ordinato. Samantha avanzò tra le file di uomini e donne che leggevano e scrivevano, domandandosi per quale motivo la gente passasse tanto tempo china sui libri quando esistevano migliaia di altre cose da fare. Lei, per esempio, aveva una gran voglia di viaggiare. Forse soltanto allora, dopo aver visto il mondo, si sarebbe sentita pronta a sedere in qualche sala triste come quella per concentrarsi su vecchi libri polverosi. Forse. Ma non prima. Rimase a osservarla spostarsi fra i tavoli. Era girato di tre quarti dalla sua parte e fingeva di esaminare uno scaffale di testi sulla pesca. Lei però non sembrava affatto guardinga. La situazione era tranquilla. Semmai appariva sprofondata nel suo piccolo mondo di ragazzina, un mondo tutto suo, governato da regole speciali. Normale. Funzionava così per tutte. In compenso, però, era con qualcuno. Lo capì subito. Prese un libro dallo scaffale e si mise a sfogliarlo. A un certo punto, un capitolo attirò la sua attenzione, distraendolo da Samantha. Era un capitolo dedicato ai nodi usati per legare i vari tipi di esca. Ce n'erano molti. Moltissimi. 15 Altro briefing. Quelle riunioni cominciavano a piacere a Rebus, poiché esisteva sempre la possibilità di trovarci anche Gill e di concluderle andando a bere un caffè insieme. La sera prima avevano cenato al ristorante, ma era tardi e lei era stanca, gli aveva lanciato occhiate strane, più indagatrici del solito, e se all'inizio non era ricorsa agli occhiali, a metà serata li aveva tirati fuori. «Voglio vedere quello che mangio», aveva dichiarato.
In realtà lui sapeva che ci vedeva benissimo, che gli occhiali erano solo una stampella psicologica, una forma di protezione. Forse però si stava facendo troppi problemi: forse Gill era molto stanca e basta. Il fatto era che temeva ci fosse sotto qualcosa di più, qualcosa che non riusciva a indovinare. L'aveva involontariamente offesa? Aveva assunto un atteggiamento di superiorità di cui non si era reso conto? Be', anche lui era stanco. Dopo il ristorante erano tornati ciascuno a casa propria, ma il sonno si era fatto attendere: in fondo, avrebbero preferito restare insieme. Poi lui era sprofondato nel sogno del bacio e come sempre si era svegliato con la fronte madida di sudore e le labbra umide. Avrebbe trovato un'altra lettera anonima ad aspettarlo? La notizia di un nuovo omicidio? Benché si sentisse uno schifo per la mancanza di riposo, quel briefing continuava a procurargli una certa soddisfazione, e non solo per merito di Gill. Finalmente sembrava essere emersa una pista e Anderson era ansioso di mettere le mani su prove concrete. «Una Ford Escort azzurra», stava dicendo. Alle sue spalle sedeva l'investigatore capo, la cui presenza sembrava decisamente innervosirlo. «Una Ford Escort azzurra.» Anderson si deterse la fronte. «Alcuni testimoni hanno dichiarato di aver visto una vettura di questo tipo nella zona di Haymarket, la sera del ritrovamento del cadavere della prima vittima. Ci sono poi due avvistamenti di un uomo e di una ragazzina, quest'ultima in apparenza addormentata, sempre su una Ford Escort azzurra la sera della scomparsa della vittima numero tre.» Gli occhi di Anderson si sollevarono dalla documentazione che stringeva in mano per fissarsi, almeno così parve, in quelli di ogni singolo agente in sala. «Da adesso, questa è la nostra priorità assoluta. Voglio dati particolareggiati su tutte le Escort azzurre del Lothian e li voglio il più in fretta possibile. Ora, so bene che siete già tutti superimpegnati, ma, con un piccolo strappo, riusciremo a beccare quel criminale prima che uccida ancora. L'ispettore Hartley ha redatto un nuovo ruolino di servizio: se il vostro nome è sulla lista, qualunque cosa stiate facendo mollatela e mettetevi sulle tracce di quest'auto. Domande?» Gill Templer prendeva appunti sul suo minuscolo blocchetto, forse già impostando il prossimo comunicato per la stampa. Chissà se il capo intendeva divulgare la notizia. Probabilmente no, o non subito. Avrebbe aspettato di vedere i risultati delle prime ricerche: nel caso in cui non fosse emersa nessuna novità interessante, allora anche la cittadinanza sarebbe stata coinvolta nella caccia alla Ford azzurra. La prospettiva di poter finire a raccogliere dati sui proprietari delle Escort in circolazione a Edimburgo, di
farsi a piedi interi quartieri, di «annusare» e interrogare file di potenziali indiziati e di rigirare sulla graticola i maggiori indiziati non sorrideva per niente a Rebus. Ma proprio per niente. Avrebbe di gran lunga preferito ricondurre Gill Templer nel suo antro e trascorrere le ore seguenti facendo l'amore con lei. Dalla posizione in cui si trovava, accanto alla porta, riusciva a scorgere solo la sua schiena. Ancora una volta era arrivato per ultimo, dopo essere rimasto al pub più a lungo del previsto. Ma un appuntamento era un appuntamento, perciò si era fedelmente presentato al pranzo (liquido) con Jack Morton. Il quale lo aveva aggiornato sui lenti progressi delle indagini sul territorio: quattrocento interrogati, intere famiglie passate e ripassate al vaglio, i controlli di rito a certi pervertiti e gruppi di dubbia moralità ormai noti alla polizia, ma neanche uno spiraglio di luce sul caso. Adesso però avevano la macchina, o almeno così ritenevano. Come pista era debole, ma era pur sempre una pista, e una parvenza di concretezza era già qualcosa. Rebus si sentiva vagamente orgoglioso del ruolo svolto nell'inchiesta, poiché era stata proprio la puntigliosità della sua ricostruzione degli avvistamenti a portare alla Ford. Non vedeva l'ora di raccontare tutto per filo e per segno a Gill, e di fissare con lei un nuovo appuntamento verso la fine della settimana. Voleva rivederla, in generale voleva vedere gente, perché il suo appartamento gli stava diventando stretto come una cella. Rientrava la sera tardi o la mattina presto, si buttava sul letto e dormiva, senza preoccuparsi più di dare una pulita in giro, di leggere qualcosa o di fare un briciolo di spesa (aveva persino rinunciato ai suoi furtarelli!). Sentiva di non averne il tempo, l'energia. Si accontentava dunque di un boccone alla Casa del Kebab, dei fish-and-chips, delle panetterie che aprivano all'alba e addirittura delle distributrici di snack per strada. Era più pallido del solito e il suo stomaco protestava come se non gli fosse rimasta più pelle entro cui espandersi. Aveva ancora la decenza di sbarbarsi e annodarsi la cravatta, ma solo perché non poteva farne a meno, e comunque più in là non andava. Anderson si era accorto che le sue camicie non erano mai precisamente immacolate, ma per il momento si era trattenuto dal fargli osservazione. In primo luogo gli stava rendendo un buon servizio, essendo lui l'autore dell'unico risultato interessante nelle indagini - almeno per il momento -, e in secondo luogo chiunque era in grado di rendersi conto che, visto l'umore, dirgli qualcosa sarebbe servito solo a farlo scattare come una molla. La riunione volgeva al termine. Un'unica domanda frullava per la testa a tutti i presenti: fin quando reggeremo? Rebus si fermò appena oltre la por-
ta, aspettando Gill. Lei uscì insieme col gruppetto degli ultimi, parlando a bassa voce con Wallace e Anderson. L'investigatore capo le cinse scherzosamente la vita con un braccio, spingendola con delicatezza fuori della sala. Rebus rimase a osservare il trio di graduati, così male assortito, tuttavia Gill non parve nemmeno accorgersi della sua presenza e lui si sentì di colpo riscivolare indietro, giù giù fino alla base del mucchio. Dunque quello era amore. Ma chi voleva prendere in giro? Rimase immobile dov'era, imprecando a denti stretti come un adolescente appena scaricato, mentre i tre si allontanavano lungo il corridoio. Sì, lo avevano scaricato di nuovo. Non mi abbandonare. Ti prego, John. No! No! No! Poi l'urlo nei suoi ricordi... E di nuovo si sentiva girare la testa, sentiva il mare nelle orecchie. Barcollando, si appoggiò al muro, cercò consolazione e sostegno nella sua solidità, ma anche la parete sembrava pulsare. Inspirò faticosamente, ripensando ai giorni sulla spiaggia scogliosa, al periodo della convalescenza dopo l'esaurimento nervoso. Anche allora il mare gli risuonava nelle orecchie. A poco a poco il pavimento si fermò. La gente gli passava davanti guardandolo con aria curiosa, ma nessuno gli chiese se gli servisse aiuto. Al diavolo tutti quanti. Al diavolo anche Gill Templer. Poteva stare in piedi da solo. Se Dio voleva, poteva farcela con le proprie forze. Si sarebbe ripreso. Aveva solo bisogno di una sigaretta e di una tazza di caffè. Invece no. Invece gli avrebbe fatto tanto bene ricevere qualche pacca sulla schiena, sentirsi fare le congratulazioni per il buon lavoro svolto, riscuotere la loro approvazione. Invece aveva più che mai bisogno di qualcuno che lo rassicurasse, che gli dicesse che sarebbe andato tutto bene. Che lui sarebbe stato bene. Quella sera, un paio di bicchieri post-servizio già sotto la cintura, decise di andarsene un po' a zonzo. Morton era impegnato altrove, ma la cosa non gli importava più di tanto. Non aveva bisogno di compagnia. Percorse a piedi tutta Princes Street, inspirando l'aria promettente della sera. In fondo era un uomo libero, libero come i ragazzotti che ciondolavano davanti al locale in cui facevano gli hamburger. Si lisciavano le piume scambiandosi battute e aspettando... cosa? Be', era chiaro: aspettando l'ora di andare a letto per chiudere gli occhi fino al giorno dopo. Anche lui, a modo suo, stava aspettando. Stava cercando d'ingannare il tempo.
Al Rutheford Arms incontrò un paio di avventori conosciuti in analoghe serate di solitudine, poco dopo che Rhona se n'era andata. Per un'ora restò a bere con loro, poppando birra come fosse latte materno; chiacchierarono di football, di ippica e di lavoro. Accolse quella conversazione tranquillizzante e pacata a braccia aperte, offrendo di buon grado il proprio contributo di notizie e notiziole varie. Alla fine però ne ebbe abbastanza e uscì, alticcio ma determinato, salutando gli amici con la promessa di ritrovarsi presto e imboccando la via in direzione di Leith. Dal bancone, Jim Stevens seguì nello specchio i movimenti di Michael Rebus, che, lasciato il bicchiere sul tavolo, si diresse verso il bagno. Qualche secondo più tardi l'uomo misterioso lo seguì, dopo essersi alzato da un altro tavolo. Troppo disinvolti per avere addosso mercé che scottava, sembravano piuttosto lì per accordarsi sulla consegna successiva. Stevens continuò a fumare e ad aspettare. Meno di un minuto dopo, Rebus rifece la sua comparsa, spingendosi fino al banco per ordinare un altro bicchiere. In quel momento, John Rebus entrò nel pub e, incredulo, si avvicinò al fratello, sferrandogli una pacca sulla spalla. «Mickey! Che accidenti ci fai qui?» Michael ebbe quasi un infarto. Si sentì balzare il cuore in gola e fu colto da un istantaneo accesso di tosse. «Sono solo venuto per una pinta, John», rispose, ma aveva lo sguardo palesemente colpevole. «Mi hai fatto prendere un bello spavento, sai?» continuò quindi, sforzandosi di sorridere. «Esagerato, era una pacchetta fraterna! Cosa bevi?» Mentre i due fratelli s'intrattenevano al banco, l'uomo misterioso riemerse dal bagno e uscì dal locale senza nemmeno lanciarsi un'occhiata intorno. Stevens lo guardò andarsene, il cervello affollato da nuovi pensieri. Non poteva farsi vedere dal poliziotto, dunque si girò dall'altra parte, come qualcuno che cerchi una faccia nota tra gli avventori. Ormai ne era sicuro: anche lui doveva essere coinvolto nel traffico di droga. La sequenza delle comparse e delle azioni era ben studiata, ma non aveva più nessun dubbio. «E così ti esibisci anche qui?» Ringalluzzito dalla precedente bevuta, John Rebus aveva la sensazione che gli eventi stessero prendendo una piega nuova, migliore. Era lì, con suo fratello, per il bicchierino che si erano sempre ripromessi di bere insieme. Ordinò due whisky con relativi, abbondanti ammazzaliquore. «Questo sì che è un pub civile», commentò soddisfatto. «Dosi generose.»
Michael era tutto sorrisi, sorrisi e ancora sorrisi. Come se da quei sorrisi dipendesse la sua stessa vita. Ma la sua mente era in completo subbuglio e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era un altro drink. Se si fosse saputo in giro, le sue conoscenze a Edimburgo non avrebbero certo creduto alla coincidenza e, ammesso di uscirne vivo, si sarebbe ritrovato con le gambe spezzate. Lo avevano già avvertito. Tra l'altro, che ci faceva lì suo fratello John? Apparentemente sembrava contento di vederlo, e sembrava pure genuinamente sbronzo, ma se fosse stata tutta una messinscena? Mettiamo che il suo contatto fosse appena stato ammanettato proprio lì fuori, davanti al locale? Di colpo si sentì come quando, da bambino, aveva rubato i soldi dal portafoglio di suo padre e poi era andato avanti a negare per settimane intere, il cuore appesantito dal senso di colpa. Colpa. Colpevole. Colpa sua. Intanto John Rebus beveva e parlava, inconsapevole del cambio di umore e atmosfera, dell'improvviso interesse da parte del fratello. L'unica cosa che gli importava era il whisky che aveva davanti e il fatto che Michael fosse in procinto di alzarsi per andare a esibirsi nella sala del bingo. «Che ne dici, posso venire anch'io? Non mi dispiacerebbe vedere come si guadagna la pagnotta mio fratello.» «Ma certo», rispose Michael, giocherellando a vuoto col bicchiere. «Però questo è meglio che non lo beva, John. Devo restare lucido e concentrato.» «Si capisce. Devi trasmettere il tuo fluido misterioso e segreto.» Gli occhi spalancati, un sorriso stampato in faccia, John fece l'atto d'ipnotizzare il fratello con le mani. A quel punto, Jim Stevens raccolse il pacchetto di sigarette e, continuando a dare loro la schiena, uscì dal locale chiassoso e pieno di fumo. Se solo ci fosse stato un po' meno rumore sarebbe riuscito a origliare una parte della conversazione. Pazienza. Rebus lo vide allontanarsi. «Credo di conoscere quel tizio», disse a Michael, indicando la porta con un cenno del capo. «E un giornalista del foglio locale.» Michael si stava sempre sforzando di sorridere, sorridere e ancora sorridere, ma il mondo gli stava crollando addosso. La Rio Grande Bingo Hall era nata come cinema, ma le prime dodici file di sedie erano state eliminate e al loro posto erano stati montati i tavoli e gli sgabelli del bingo. In fondo, invece, sopravvivevano ancora diverse file di polverosi sedili rossi, e la balconata era rimasta intatta. John Rebus di-
chiarò di volersi andare a sedere di sopra per non rischiare di distrarre il fratello, quindi si accodò a una coppia di anziani diretti da quella parte. I sedili avevano l'aria accogliente, ma, non appena ebbe preso posto in seconda fila, sentì le molle protestare contro le sue natiche e, dopo alcuni tentativi di riaccomodamento, optò per una posizione tutta sbilanciata di lato. In platea sembrava esserci una discreta folla, ma lassù, nella penombra della galleria, sedevano soltanto lui e la coppia di anziani. A un certo punto, udì un rumore di passi lungo il corridoio. Lo scalpiccio s'interruppe per qualche secondo, quindi una donna procace e formosa si lasciò scivolare a propria volta nella seconda fila. Rebus non poté fare a meno di sollevare lo sguardo e di trovarsi così di fronte il sorriso della signora. «Le spiace se mi siedo qui?» s'informò subito lei. «O sta tenendo il posto a qualcuno?» Aveva un'espressione alquanto speranzosa, perciò Rebus ricambiò educatamente il sorriso e scosse la testa. «Me lo immaginavo», disse la donna. Anche Michael aveva sorriso, quella sera. Anzi non l'aveva mai visto sorridere tanto in tutta la sua vita. Possibile che incontrare il proprio fratello gli procurasse un simile imbarazzo? No, doveva esserci dell'altro. Il sorriso di Michael era il sorriso del ladruncolo beccato per l'ennesima volta con le mani nel sacco. Dovevano seriamente scambiare quattro chiacchiere. «Io vengo spesso qui a giocare a bingo, ma ho pensato che anche questo spettacolo potesse essere divertente. Da quando mio marito è morto» pausa eloquente -, «be', ecco, le cose sono cambiate. Ogni tanto mi va di uscire un pochino. Che poi, non è quello che fanno tutti? Così sono venuta anche stasera. Non so perché sono salita di sopra, comunque. Il destino, immagino.» Il sorriso si fece più ampio. Rebus ricambiò. Doveva aver superato da poco la quarantina, esagerava un po' col trucco e il profumo, ma nel complesso si teneva bene. Parlava come se non avesse aperto bocca con anima viva per giorni e giorni, come se ci tenesse particolarmente a dimostrare che era ancora in grado di farlo e di essere anche ascoltata e compresa. Rebus provò un istintivo moto di pietà. In fondo poteva quasi specchiarsi in quella donna. «E lei? Come mai qui?» Adesso cercava di far parlare lui. «Sono venuto anch'io per lo spettacolo.» Non osò confessare che lo showman era suo fratello: una dichiarazione simile avrebbe offerto troppo spazio di manovra alla donna. «Allora le piace il genere?»
«In verità è la prima volta.» «Oh, anche per me.» Altro sorriso, stavolta decisamente cospiratore. Dunque avevano qualcosa in comune. Grazie a Dio, però, le luci si stavano abbassando e sul palcoscenico si accese un faretto. Uscì un presentatore. La donna aprì la borsa e ne estrasse un rumoroso sacchetto di zuccherini, che offrì a Rebus. Il quale, con grande sorpresa, di lì a poco si ritrovò a godersi parecchio lo spettacolo. Neanche lontanamente quanto la sua vicina, però, che si sbellicava dalle risa mentre un volontario del pubblico, sfilatosi i pantaloni, fingeva di nuotare avanti e indietro per i corridoi della platea. A un'altra cavia venne fatto credere di essere molto affamata. A una terza di fare la spogliarellista di professione. A un quarto partecipante venne ordinato di addormentarsi profondamente. Pur nel pieno del divertimento, anche John Rebus cominciava a cedere al sonno. Era l'effetto dell'alcol, della mancanza di riposo e dell'oscurità della sala, calda e accogliente come una chioccia. Fu l'applauso finale del pubblico a svegliarlo. Michael, sudato negli abiti di scena, accolse l'entusiastica reazione come un tossico in astinenza, ripresentandosi con l'ennesimo inchino quando la maggior parte degli spettatori si stava ormai alzando per andarsene. Aveva detto al fratello di dover rincasare subito dopo lo spettacolo, e che quindi per quella sera non si sarebbero potuti rivedere, ma che gli avrebbe telefonato per sapere cosa ne pensava. E lui si era perso metà dello show. Se non altro però era più fresco e riposato, e di punto in bianco si ritrovò ad accettare la proposta dell'olezzante vicina di fermarsi a un pub della zona per «il bicchiere della staffa». Uscirono dalla sala a braccetto, entrambi sorridenti. Rebus era rilassato, gli sembrava di essere tornato ragazzino. Quella donna lo trattava come un figlio, e un po' di coccole non gli nuocevano di sicuro. D'accordo per il goccetto della buonanotte, dunque. Prima il goccetto, e solo un goccetto, poi la buonanotte e ognuno a casa sua. Jim Stevens li osservò allontanarsi dalla Rio Grande. La vicenda andava facendosi molto strana. Di colpo, John Rebus sembrava ignorare il fratello e, dopo essere entrato solo, usciva con una donna. Che significato aveva tutto ciò? Come minimo, che al momento giusto Gill avrebbe dovuto esserne informata. Sorridendo tra sé, Stevens prese nota della nuova occasione da non perdere. Tutto sommato era stata una proficua serata di lavoro.
In quale momento, dunque, l'amore materno si era trasformato in contatto fisico? Nel pub, forse, dove le dita arrossate di lei erano parse affondargli nelle cosce? O più tardi, quando nell'aria frizzante della notte lui le aveva buttato un braccio intorno al collo nel goffo tentativo di baciarla? O lì, nell'appartamento di lei, in quell'aria viziata che sapeva ancora di suo marito, dove si erano coricati su un vecchio divano a limonare come ragazzini? Che importava? Ormai era troppo tardi per pentirsi, o forse ancora troppo presto. E così, quando lei si ritirò in camera da letto, lui la seguì a ruota e si lasciò cadere sull'enorme letto matrimoniale a molle, coperto di trapunte e piumoni. La guardò spogliarsi nella penombra. Era uno di quei letti che Rebus ricordava dai tempi dell'infanzia, dove una boule dell'acqua calda costituiva l'unica barriera efficace contro i brividi, nonostante un mucchio di ruvide coperte e vecchi piumoni. Un letto pesante e soffocante, di quelli che affaticano anziché ristorare. Ma che importava. I particolari del suo corpo possente non gli piacquero, ragion per cui si costrinse a pensare alla cosa in termini astratti. Quando posò le mani sui suoi seni vissuti, gli tornò in mente Rhona. Aveva le caviglie grosse, non come Gill, e anche il suo viso recava i segni di troppe esperienze. Però era una donna, ed era lì con lui, quindi la rielaborò in una fantasia astratta e si sforzò di agire in maniera soddisfacente per entrambi. La cosa peggiore erano quelle coperte così opprimenti, che lo facevano sentire piccolo e intrappolato, isolato dal resto del mondo. Cercò di contrastare la sensazione d'impotenza, di lottare contro il ricordo di Gordon Reeve all'epoca dell'isolamento, quando di notte ciascuno era rimasto in ascolto delle urla provenienti dalle altre celle, resistendo, sopportando. Infine si erano ritrovati. Vincitori. Perdenti. Perché in realtà avevano perso tutto. Il suo cuore batteva al ritmo dei grugniti di lei, ora apparentemente un po' più lontani. Sentì la prima ondata di repulsione assoluta colpirlo come una manganellata allo stomaco e le sue mani scivolarono intorno a quella gola arrendevole e spalancata. I gemiti erano disumani, striduli, felini. Le sue mani premettero, strinsero un po' di più, tra la carne e le lenzuola. Lo avevano rinchiuso per poi gettare via la chiave. Lo avevano spinto al limite della morte. Lo avevano drogato. Avrebbe fatto meglio a non sopravvivere. A morire allora, in quelle fetide gabbie per animali, sotto il getto potente delle loro manichette, sotto i loro continui interrogatori. Invece era sopravvissuto. E stava venendo.
Lui, da solo. Da solo. E quell'urlo. Quell'urlo. Si rese conto dei gorgoglii sotto di lui un attimo prima che il cervello gli partisse completamente. Cadde sulla figura rantolante e perse conoscenza. Era come se avessero spento l'interruttore. 16 Si svegliò in una stanza bianca. Una stanza che gli ricordava molto quella dell'ospedale in cui aveva riaperto gli occhi tanti anni prima, dopo la crisi nervosa. Dall'esterno provenivano rumori attutiti. Si tirò a sedere, la testa che pulsava. Cos'era successo? Oh, Cristo, quella donna. Quella povera donna. L'aveva quasi ammazzata! Era sbronzo, assolutamente partito. Dio Santissimo, aveva cercato di strangolarla, giusto? Perché? Perché? Un medico spalancò la porta della stanza. «Oh, signor Rebus, sono contento di trovarla sveglio. Stavamo per trasferirla in reparto. Come si sente?» Gli prese il polso. «Riteniamo si tratti di semplice stanchezza. Di un piccolo cedimento nervoso. La sua amica che ha chiamato l'ambulanza...» «Amica?» «Sì, ha detto che l'ha vista collassare. E, stando a quanto riferito dai suoi superiori, ultimamente ha lavorato molto a quegli orribili casi di omicidio. Stanchezza, direi. Ciò che le occorre è un po' di riposo.» «E... la mia amica dov'è, adesso?» «Non ne ho idea. A casa, probabilmente.» «Dunque, secondo lei sono soltanto collassato?» «Esatto.» Questa volta Rebus fu sommerso da una piacevole ondata di sollievo. Aveva tenuto la bocca chiusa. Non aveva detto niente ai medici. Poi la testa ricominciò a martellargli. Il dottore, polsi lindi e pelosi, gli infilò sorridendo un termometro tra le labbra. Davvero non sapeva che cosa stava facendo lui prima del collasso? O forse prima di chiamare l'ambulanza la sua amica lo aveva rivestito? Doveva assolutamente mettersi in contatto con lei. L'indirizzo esatto non lo conosceva, ma i soccorritori gliel'avrebbero saputo dire e lui poteva sempre controllare. Stanchezza. Cedimento nervoso. In realtà si sentiva più riposato e, a dirla tutta, provava anche uno strano senso d'indifferenza, di distacco dalla vi-
ta. Probabilmente gli avevano dato qualcosa mentre dormiva. «Potrei avere il giornale di oggi?» biascicò col termometro in bocca. «Dirò a un infermiere di portarglielo. Nel frattempo, desidera contattare qualcuno? Qualche amico o parente?» Rebus pensò a Michael. «No, nessuno, grazie. Vorrei solo il giornale.» «D'accordo.» Il termometro venne rimosso, i dati del caso registrati. «Quanto pensate di trattenermi?» «Due o tre giorni. Vorrei che prima vedesse uno psicologo.» «Se lo scordi. Mi basterà qualche libro.» «Faremo il possibile.» Rebus si riappoggiò ai cuscini. Avrebbe lasciato che le cose facessero il loro corso: sarebbe rimasto lì a riposare anche se non ne aveva bisogno, e avrebbe lasciato che fossero gli altri a correre dietro al mostro. In culo a tutti quanti. In culo a Anderson. A Wallace. E anche a Gill Templer. Ma poi gli tornarono in mente le proprie mani che scivolavano intorno alla gola non più giovane, e fu colto dai brividi. In quei momenti era come se il cervello non gli rispondesse più, non fosse più suo. Davvero era stato sul punto di uccidere quella donna? Non era il caso che vedesse sul serio uno psicologo? Tutti interrogativi che servivano soltanto a esasperargli il mal di testa. Si sforzò allora di bandire ogni pensiero, ma tre figure continuavano a ripresentarglisi dinanzi agli occhi: il suo vecchio amico Gordon Reeve, la sua nuova amante Gill Templer e la donna con cui l'aveva tradita, e che aveva quasi strangolato. I tre volti continuarono a danzargli davanti, i contorni sempre più sfumati, finché non si addormentò. «John!» Si avvicinò al letto a passo deciso, un sacchetto di frutta e una bevanda vitaminica stretti in mano. Era truccata e indossava abiti rigorosamente civili. Gli depositò un bacio su una guancia, fragrante di profumo francese. Rebus riuscì a lanciarle un'occhiata nella scollatura della camicetta di seta, subito colto da una fitta di senso di colpa. «Buongiorno, ispettore Templer. Prego», disse, sollevando un angolo del lenzuolo, «si accomodi pure.» Lei scoppiò a ridere e avvicinò una più morigerata sedia. Altri visitatori si preparavano a entrare nella camerata, i loro sorrisi e le loro voci basse suggerivano uno stato di malattia cui Rebus si sentiva completamente estraneo. «Come ti senti?»
«Malissimo. E tu, cosa mi hai portato?» «Uva, banane, succo d'arancia diluito. Niente di originale, mi dispiace.» Rebus staccò un chicco dal grappolo d'uva e se lo tirò in bocca, allontanando il romanzetto che stava leggendo fino a poco prima. «Guardi come devo ridurmi per riuscire a vederla, ispettore.» Rebus scosse la testa con aria stanca. Gill sorrideva, ma si capiva che era nervosa. «Eravamo in pena per te, John. Cos'è successo?» «Sono svenuto. A casa di un'amica, così mi si dice. Niente di grave. Mi resta ancora qualche settimana di vita.» Il sorriso di lei acquistò calore. «Sembrerebbe il troppo lavoro...» Fece una pausa. «E tutte queste menate dell''ispettore' cosa sono?» Rebus si strinse nelle spalle, facendo il broncio. Il senso di colpa cominciava a mescolarsi col ricordo dell'affronto subito, dell'episodio che aveva messo in moto la catena di eventi e reazioni successivi. Cercò di rimettersi nei panni del paziente, lasciandosi ricadere sul cuscino. «Sono un uomo molto malato, Gill. Troppo malato per rispondere alle domande.» «Oh, be', in questo caso eviterò di lasciarti le sigarette che mi aveva dato Jack Morton per te.» Rebus tornò a sedersi. «Che Dio lo benedica. Dove sono?» Dalla tasca della giacca, Gill estrasse due pacchetti e li fece scivolare sotto il lenzuolo. Lui ne approfittò per afferrarle la mano. «Mi sei mancata, Gill.» Lei sorrise, senza ritirare la mano. Forte della prerogativa della polizia di poter prolungare a piacimento le visite ai degenti, Gill si trattenne due ore, durante le quali parlò del proprio passato e gli chiese del suo. Era nata in una base dell'aeronautica nel Wiltshire, subito dopo la guerra. Suo padre era un ingegnere della RAF, disse. «Mio padre ha fatto la guerra», ricambiò Rebus. «E io sono stato concepito nel corso di uno dei suoi ultimi congedi. Di mestiere faceva l'ipnotizzatore.» Solitamente a quel punto gli ascoltatori inarcavano un sopracciglio, ma non Gill Templer. «Si esibiva nelle sale da ballo e nei teatri, e d'estate batteva località come Blackpool e Ayr, così riuscivamo a rimediare sempre una vacanza lontano dal Fife.» Gill sedeva con la testa inclinata di lato, felice di ascoltare quei racconti. Quando poi al richiamo della campanella i normali visitatori se ne andarono, nel reparto calò la quiete. Un'infermiera passò spingendo un carrello con sopra un'enorme teiera. Anche Gill ne ricevette una tazza, accompa-
gnata dal sorriso solidale della donna. «È simpatica, quell'infermiera», commentò Rebus, del tutto rilassato. Gli avevano dato due pillole, una azzurra e una marrone, e cominciava a sentirsi anche vagamente intontito. «Mi ricorda una ragazza che ho conosciuto quand'ero nei para.» «Quanto tempo ci sei rimasto?» «Sei anni. No, scusa, otto.» «E perché alla fine hai deciso di mollare?» Perché alla fine aveva deciso di mollare? Rhona gli aveva rivolto la stessa domanda mille volte, la sua curiosità alimentata dalla sensazione che lui avesse qualcosa da nascondere, qualche mostruoso scheletro nell'armadio. «In realtà non lo so bene. È difficile ricordare con chiarezza il passato così lontano. Mi scelsero per addestrarmi nello Special Air Service e non mi piacque, ecco tutto.» Era la verità. Inutile indugiare nei ricordi del periodo dell'addestramento, della diffidenza e della paura, delle urla, delle urla che ancora gli esplodevano nella memoria. Fatemi uscire. L'eco dell'isolamento. «Be'», disse a un certo punto Gill, «se non ricordo male ho un caso che mi aspetta al campo base.» «Il che mi fa venire in mente che ieri sera ho visto il tuo amico», riprese lui. «Il giornalista, hai presente? Si chiama Stevens, mi pare. Eravamo tutti e due nello stesso pub. Strano.» «Mica tanto. Per lui è normale terreno di caccia. La cosa buffa è che, in un certo senso, ti somiglia. Certo, non è sexy come te.» Sorrise e tornò a sfiorargli la guancia con un bacio, alzandosi dalla sedia di metallo. «Cercherò di ripassare prima che ti dimettano, ma lo sai come vanno le cose: le promesse sono difficili da mantenere, sergente Rebus.» In piedi gli parve più alta di quanto se la ricordava. La massa dei suoi capelli gli piovve sulla faccia per un terzo bacio, stavolta un bacio vero, sulla bocca, e lui si ritrovò ad ammirare la fenditura tra i suoi seni. Lo aveva pervaso un senso di stanchezza, di grande stanchezza. Si sforzò di tenere gli occhi aperti anche mentre lei si allontanava ticchettando nel corridoio piastrellato, le infermiere che le sfilavano accanto silenziose come spettri nei loro zoccoli di gomma. Rebus si tirò su per non perdersi l'ultima immagine delle sue belle gambe che sparivano. Belle gambe, sì, e su quel punto la memoria non lo aveva tradito. Ricordava la forza con cui lo avevano stretto all'altezza dei fianchi, la pressione dei suoi piedi appoggiati sulle natiche. E i lunghi capelli sparsi sul cuscino, come un mare in un
quadro di Turner. Ricordava anche la sua voce che gli sussurrava nelle orecchie. Sì, John, sì. Oh, sì. Sì, sì, sì. Perché hai mollato l'esercito? Quando si girò, si era trasformata nella donna che rantolava nell'orgasmo. Perché l'hai fatto? Oh, oh, oh, oh. Oh, sì, era soltanto un sogno. Soltanto un sogno, per fortuna. 17 Gli editori gongolavano per come lo Strangolatore di Edimburgo stava incrementando la tiratura dei loro giornali. Gongolavano nel constatare che tutta la storia lievitava in maniera così organica ed equilibrata, come una piantina cresce grazie ad amorevoli e costanti cure. Nel caso di Nicola Turner, il modus operandi aveva subito una lieve variazione. A quanto pareva, prima di strangolarla l'assassino aveva stretto un nodo ad anello nella corda: un nodo con cui aveva premuto con forza sulla gola della sua vittima, e che aveva lasciato un'abrasione circolare. La polizia non lo considerava un indizio significativo: era troppo concentrata nelle ricerche della Ford Escort azzurra per perdersi dietro un piccolo particolare tecnico come quello. Gli agenti erano tutti in campo, tutti mobilitati negli interrogatori dei proprietari di auto di quel modello e colore. Gill Templer aveva comunicato la descrizione dell'auto anche alla stampa, nella speranza di ottenere una risposta univoca e compatta da parte della cittadinanza. E così era stato: vicini che denunciavano i vicini, padri che denunciavano i figli, mogli che denunciavano i mariti e mariti che denunciavano le mogli. D'un tratto si erano ritrovati con oltre duecento Ford Escort azzurre da controllare e, se non fosse emerso subito qualcosa d'interessante, sarebbero ritornati alla carica, per poi spostarsi su Escort di colori diversi o su marche diverse di modelli azzurri somiglianti. Indagini che potevano richiedere mesi, certamente settimane. Jack Morton, una nuova lista fotocopiata in tasca, era passato dal medico, per via dei piedi gonfi, e quello gli aveva detto che camminava troppo in scarpe troppo a buon mercato. Cosa che peraltro Morton sapeva già. Ormai aveva interrogato tanti indiziati da non capirci più niente. Gli sembravano tutti uguali: nervosi, deferenti, innocenti. Se soltanto lo Strangolatore avesse fatto una mossa falsa! Per il momento non disponevano di nes-
sun indizio valido su cui lavorare. Morton temeva addirittura che quella della macchina fosse una pista falsa. No, proprio nessun indizio valido su cui lavorare. Poi gli erano tornate in mente le lettere anonime ricevute da John. Gli indizi sono ovunque. Che fosse così anche in quel caso? Che si trattasse d'indizi così eclatanti da passare inosservati? O forse troppo astratti per essere notati? Di sicuro era raro - estremamente raro - che omicidi del genere avvenissero senza sbavature di sorta, senza che in una direzione o in un'altra vi fossero tracce e indizi concreti in attesa di essere raccolti. Peccato che non avesse la più pallida idea di quale fosse la direzione giusta, e forse anche per quel motivo era andato dal dottore: nella speranza di riscuotere un po' di solidarietà e di farsi dare qualche giorno di malattia. Ma a cadere in piedi era stato Rebus, quel fortunato figlio di puttana. Oh, quanto invidiava il suo ricovero. Davanti alla biblioteca, parcheggiò su una doppia striscia gialla ed entrò. L'atrio grandioso gli ricordava i giorni in cui anche lui frequentava la sezione per l'infanzia e usciva stringendo orgoglioso i suoi libri illustrati. Si chiese se la sala dedicata ai più piccoli si trovasse ancora a pianterreno. Sua madre gli dava i soldini per il biglietto dell'autobus e lui veniva in città, ufficialmente per cambiare i libri in biblioteca, di fatto per gironzolare un'ora o due nelle vie del centro e assaporare in anticipo la libertà che lo aspettava di lì a qualche anno, quando fosse diventato grande e indipendente. Si metteva alle calcagna dei turisti americani, che camminavano sussiegosi e sicuri di sé, i borselli e i marsupi rigonfi, e li spiava mentre dall'antico cimitero dei francescani fotografavano la statua di Greyfriars Bobby. Lui stesso aveva osservato a lungo il monumento dedicato al piccolo terrier, ma non aveva mai provato niente di speciale. Aveva letto di Deacon Brodie, delle pubbliche esecuzioni di High Street e si era domandato che razza di città e di Paese fossero quelli. Scosse la testa, congedandosi dalle vecchie fantasie, e si diresse al banco informazioni. «Buongiorno, signor Morton.» Si voltò e vide una ragazzina o, meglio, una giovane donna, ferma davanti a lui, un libro stretto al petto. Aggrottò la fronte. «Sono Samantha Rebus.» Morton sgranò gli occhi. «Santo cielo, ma guarda un po'. Incredibile. Be', sei proprio cresciuta dall'ultima volta che ci siamo visti, eh, signorina? Certo, dev'essere passato almeno un paio d'anni... E come stai?» «Bene, grazie. Sono qui con la mamma. Lei è venuto per questioni di la-
voro?» «Qualcosa del genere, sì.» Morton si sentì trapassare dal suo sguardo. Aveva gli occhi del padre, precisi identici. John Rebus aveva lasciato il segno. «Come se la passa papà?» Dire o non dire? Be', in fondo perché no? E, d'altro canto, perché sì? «Benone, per quel che ne so io», rispose infine, sapendo di mentire per un buon trenta per cento. «Stavo andando nella sezione per ragazzi. Mamma è in sala consultazione, ma è un posto talmente noioso.» «Splendido. Vorrà dire che ti accompagno... Ero diretto proprio lì.» Lei gli sorrise con aria soddisfatta, forse per via di qualcosa che nella sua testolina di teenager stava improvvisamente andando per il verso desiderato. Morton fu attraversato dal pensiero che, in realtà, Samantha non somigliava affatto a suo padre: era troppo carina ed educata. Era sparita la quarta ragazzina. Ciò che sarebbe accaduto sembrava quasi scontato. Nessuno avrebbe accettato scommesse in senso contrario. «Occorre maggiore vigilanza», tuonò Anderson. «Per stasera è previsto l'arrivo di rinforzi.» Gli agenti in sala avevano l'aria stravolta e il morale sotto i piedi. «Ricordate: se e quando l'assassino ucciderà la sua nuova vittima, dovrà sbarazzarsi del cadavere e, se noi o qualche privato cittadino riusciremo a coglierlo in flagrante, non avrà più via di scampo.» Si batté il pugno sulla mano aperta, in un gesto che non parve restituire il coraggio a nessuno. Lo Strangolatore si era già liberato con successo di tre cadaveri in tre zone diverse della città: Oxgangs, Haymarket e Colinton. Per quanto si sforzasse, la polizia non poteva trovarsi sempre ovunque, sebbene così sembrasse alla cittadinanza in quegli ultimi giorni. «Inoltre l'ultimo rapimento sembra avere ben poco in comune coi precedenti», proseguì l'ispettore capo, consultando un dossier. «La vittima si chiama Helen Abbott. Ha otto anni, dunque è un po' più piccola delle altre. Capelli castani, lunghi fino alle spalle. È stata vista l'ultima volta in un grande magazzino di Princes Street, insieme con la madre, la quale dichiara che la figlia è semplicemente sparita. Un minuto era con lei, e il minuto dopo non c'era più. Com'è accaduto alla seconda vittima.» Ripensandoci, in seguito, Gill Templer trovò il particolare curioso. Era impossibile che le ragazzine fossero state rapite dentro i negozi: si sarebbero sentite le urla, qualcuno avrebbe visto. Un testimone si era fatto avan-
ti, dichiarando di aver visto una ragazzina corrispondente alla descrizione di Mary Andrews - la seconda vittima, per l'appunto - mentre saliva la gradinata dalla National Gallery verso il Mound. Era sola e aveva l'aria tranquilla. Se era vero, rifletté Gill, significava che si era spontaneamente allontanata dalla madre. Ma perché? Per andare a qualche appuntamento segreto con qualcuno che conosceva, qualcuno che poi si era trasformato nel suo assassino? In quel caso era possibile che tutte le ragazzine lo conoscessero, quindi era anche possibile che avessero quello in comune. Scuole diverse, amici diversi, età diverse, ma quel comune denominatore. Se invece non era così, allora meglio arrendersi per il momento, visto l'incipiente mal di testa. Oltretutto ormai era arrivata nella via dove abitava John e aveva altre cose di cui occuparsi nell'immediato. Le aveva chiesto di andare a prendergli qualche indumento pulito per le dimissioni dall'ospedale, per controllare se c'era posta e se la caldaia funzionava ancora o si era spenta di nuovo. Le aveva consegnato la chiave di casa e, mentre saliva le scale turandosi il naso per il puzzo di piscio di gatto, Gill percepì l'esistenza di un vero legame tra lei e John Rebus. Si chiese se la loro relazione non stesse prendendo una piega seria. Di sicuro lui era una bella persona, solo un po' troppo riservato e misterioso. Ma forse era proprio il motivo per cui le piaceva tanto. Aprì la porta, raccolse due o tre buste da terra e fece un rapido giro dell'appartamento. Sulla soglia della camera da letto si fermò e ripensò alla passione della loro notte insieme. Le sembrava quasi che il loro odore aleggiasse ancora nell'aria. La fiamma pilota era ancora accesa: ecco una lieta novella per l'investigatore Rebus. Certo che aveva un bel po' di libri... Be', del resto la moglie insegnava letteratura, no? Ne prese alcuni dal pavimento, disponendoli sui ripiani vuoti dello scaffale. In cucina si preparò un caffè e sedette a berlo, nero e forte, mentre passava in rassegna la posta. Una bolletta, una busta con sopra scritto STAMPE e una lettera con l'indirizzo battuto a macchina, imbucata a Edimburgo tre giorni prima. Infilò il tutto nella borsa e andò ad aprire l'armadio. La stanza di Samantha era sempre chiusa. Altri ricordi sotto chiave. Povero John... Jim Stevens era preso fin sopra i capelli. Lo Strangolatore di Edimburgo si stava rivelando un soggetto particolarmente ingombrante: impossibile ignorarlo, anche se avevi di meglio da fare. Stevens poteva contare su tre collaboratori fissi e il pezzo forte in preparazione riguardava il problema
delle violenze sui minori in Gran Bretagna. Le cifre erano terrificanti, ma ancor più terrificante era la sensazione di attesa, di attesa che ritrovassero il cadavere dell'ultima vittima e annunciassero la scomparsa della successiva. Edimburgo era una città piena di fantasmi. Ormai i genitori tenevano le figlie in casa; quelle che ancora avevano il permesso di uscire sgattaiolavano per le strade, rapide come prede spaventate. Stevens aveva una gran voglia di dedicarsi alla sua indagine sul narcotraffico, alle prove sempre più consistenti che aveva in mano, all'ipotesi di coinvolgimento delle forze dell'ordine. Ne aveva una gran voglia, ma non era il momento. Tom Jameson gli stava col fiato sul collo e continuava a fare irruzione nel suo ufficio. Dov'è quel foglio, Jim? Forza, ragazzo, è ora che ti guadagni la pagnotta. Quand'è il prossimo briefing? Alla fine di ogni giornata, Stevens si ritrovava cotto come una pera. Decise così che le sue indagini sul caso Rebus avrebbero aspettato. Certo era un peccato, perché il fatto che le forze di polizia fossero completamente risucchiate dai casi di omicidio lasciava il campo libero per qualunque altro tipo di crimine, traffici di droga compresi. Quale occasione per la malavita di Edimburgo! Alla fine aveva anche usato la soffiata sul «bordello», di Leith, nella speranza di ottenere in cambio qualche informazione utile, ma i pezzi grossi sembravano non stare al gioco. 'Fanculo. Prima o poi sarebbe venuto il momento anche per loro. Al suo arrivo, Rebus stava leggendo la Bibbia, per gentile concessione dell'ospedale. Quando la suora aveva saputo della sua richiesta, gli aveva chiesto se desiderava parlare con un prete o un pastore, ma lui aveva energicamente declinato l'offerta. Era già soddisfatto - più che soddisfatto, anzi - di poter leggere alcuni dei passi più belli del Vecchio Testamento, rivivendone tutto il potere e la forza morale. Aveva ripassato la storia di Mosè, di Sansone e di Davide, quindi era arrivato al Libro di Giobbe e lì si era imbattuto in versi di un'intensità che non ricordava: Se un flagello uccide all'improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciata in balia del malfattore: egli vela il volto dei suoi giudici; se non lui, chi dunque sarà? I miei giorni passano più veloci d'un corriere, fuggono senza godere alcun bene,
volano come barche di giunchi, come aquila che piomba sulla preda. Se dico: «Voglio dimenticare il mio gemito, cambiare il mio volto ed essere lieto», mi spavento per tutti i miei dolori; so bene che non mi dichiarerai innocente. Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Nonostante il caldo opprimente e la gola riarsa, Rebus si sentì percorrere dai brividi. Mentre riempiva un bicchierino di plastica di acqua tiepida, vide Gill dirigersi verso di lui su tacchi più discreti dell'ultima volta. Sorrideva, portando un po' di gioia nella camerata e guadagnandosi le occhiate di apprezzamento di un certo numero di pazienti. D'un tratto Rebus fu contento di andarsene quel giorno stesso. Posò la Bibbia e accolse Gill con un bacio sulla nuca. «Che cosa mi hai portato?» Prese il pacchetto che lei gli tendeva e scoprì che dentro c'era il cambio di vestiti. «Ti ringrazio. Però non mi sembrava che questa camicia fosse pulita.» «Infatti non lo era.» Gill rise e avvicinò una sedia al letto. «Per essere precisi, di pulito non c'era niente. Ho dovuto lavare e stirare tutta la tua roba: un vero rischio biologico.» «Sei un angelo», fu il suo commento, mentre riponeva il pacchetto. «A proposito di angeli, cosa stavi leggendo?» Gill picchiettò con un dito sulla copertina in finta pelle rossa della Bibbia. «Oh, niente di particolare. Il Libro di Giobbe. Lo avevo letto una volta, molto tempo fa. Oggi però mi sembra quasi più spaventoso. L'uomo colto dal dubbio che grida al suo Dio in cerca di una risposta, e che per giunta la ottiene. C'è un punto in cui dice: 'La terra è lasciata in balia del malfattore'. E poi: 'Perché affaticarmi invano?'» «Interessante. E alla fine cosa fa, continua ad affaticarsi invano?» «Sì, è questa la cosa incredibile.» Era l'ora del tè. La giovane infermiera consegnò a Gill la sua tazza, ma stavolta per loro c'era anche un piatto di biscotti. «Ti ho portato un paio di lettere da casa, e questa è la chiave.» Gli porse la piccola Yale, ma lui scosse la testa. «Tienila. Ne ho una di scorta.» Si fissarono.
«D'accordo», accettò infine Gill. «La tengo. Grazie.» Detto ciò, gli consegnò le lettere. A Rebus bastò un secondo per scorrerle. «E così adesso inizia a spedirmele per posta», mormorò, aprendo l'ultima della serie. «Questo tizio mi sta perseguitando», disse. «Mister Cerchio, il mio piccolo maniaco personale.» Gill lo guardò con aria interessata, mentre lui si accingeva a leggere il testo del messaggio. Era più lungo degli altri. NON INDOVINI ANCORA, VERO? NON SAI CHE PESCI PIGLIARE. NON HAI LA PIÙ PALLIDA IDEA. E PENSARE CHE SIAMO QUASI ALLA FINE. QUASI. POI NON DIRE CHE NON TI AVEVO DATO UNA POSSIBILITÀ. FIRMATO Rebus estrasse dalla busta una piccola croce fatta con i fiammiferi. «Ah, mi sbagliavo, oggi è Mister Croce. Be', fortuna che siamo quasi alla fine. Immagino cominci ad annoiarsi anche lui.» «Che storia è questa, John?» «Non ti avevo raccontato delle lettere anonime? In realtà non è una storia particolarmente elettrizzante.» «Da quanto tempo va avanti?» Dopo aver letto il messaggio, Gill stava esaminando la busta. «Un mese e mezzo. Forse qualcosina in più. Perché?» «Be', questa è stata spedita il giorno in cui è scomparsa Helen Abbot.» Rebus prese la busta e controllò il timbro. Recava stampigliate le indicazioni EDIMBURGO, LOTHIAN, FIFE, BORDERS: un'area davvero ampia. Di nuovo gli venne in mente Michael. «Immagino non ricorderai le date in cui hai ricevuto le altre, vero?» «Cosa stai cercando di dirmi, Gill?» Sollevò gli occhi, e si trovò di fronte un'agente di polizia che lo fissava con aria seria e professionale. «Oh, Cristo, Gill. Questo caso ci sta dando un po' alla testa, via, cominciamo tutti a vedere fantasmi dietro ogni angolo.» «Sono curiosa, ecco tutto.» Rilesse la lettera. Non le sembravano né le parole, né lo stile del solito mitomane, e ciò la preoccupava. Ora che ci rifletteva, poi, anche lui aveva la sensazione che i messaggi gli fossero stati recapitati sempre in concomitanza dei rapimenti. Che esistesse davvero un legame di cui non si era mai accorto? In quel caso era stato imperdonabilmente miope, roba da fette di salame sugli occhi. O così, o si trattava di una coincidenza addirittura mostruosa.
«È solo una coincidenza, Gill.» «D'accordo. Allora dimmi quando sono arrivate le altre lettere.» «Non ricordo.» Si chinò su di lui, gli occhi enormi dietro le lenti. «Mi stai forse nascondendo qualcosa?» gli chiese con calma. «No!» Al suo grido, l'intera corsia si voltò a guardarlo. Rebus si sentì arroventare le guance. «No», ripeté in un sussurro. «Non ti sto nascondendo niente. O almeno...» Ma come poteva esserne sicuro? Tutti quegli anni di arresti, d'imputazioni, di dimenticanze, tutti i nemici che si era fatto... No, nessuno lo avrebbe mai tormentato in quel modo, ne era certo. Nessuno. Armati di carta e penna, e con grande concentrazione da parte di Rebus, misero per iscritto i dati relativi a ciascuna missiva: data d'arrivo, testo, mezzo di consegna. Alla fine, Gill si tolse gli occhiali, si massaggiò la sella del naso e sospirò. «Come coincidenza mi sembra davvero eccessiva, John.» Rebus sapeva che aveva ragione. Dentro di sé, in fondo in fondo, sapeva che era così. Sapeva che nulla era mai ciò che sembrava, che il caso non esisteva. «Senti», le disse dopo una pausa, allontanando il lenzuolo, «io devo assolutamente uscire di qui.» In macchina lei continuò a pungolarlo, incalzante. Chi poteva essere? Qual era il legame? Perché? «Insomma, cos'è? Mi sto trasformando in un potenziale indiziato?» sbottò lui a un tratto. Lei lo guardò dritto negli occhi, penetrante, cercando di artigliare la verità che si celava dietro di loro. Un investigatore nato, ecco cos'era: un buon detective non si fida mai di nessuno. Lo fissava come avrebbe potuto fare con uno scolaro convocato in presidenza, pieno di segreti da svelare, di peccati da confessare. Confessa! Dal canto suo, Gill era consapevole che si trattava di una pura intuizione priva di fondamento concreto, eppure là dietro, dietro le pupille ardenti di Rebus, avvertiva la presenza di qualcosa. Non sarebbe stata la prima volta nella sua carriera di poliziotto che si trovava in una situazione strana e imprevista. Le era capitato di peggio. La realtà superava sempre la fantasia e nessuno era mai solo ed esclusivamente innocente. Conosceva lo sguardo colpevole degli interrogati, di chiunque si trattasse. Tutti avevano qualcosa da nascondere. In genere però si trattava di sciocchezze, e soprattutto di acqua passata: per quel genere di crimini avrebbero dovuto istituire la Po-
lizia del Pensiero. Ma se John... Se John Rebus si fosse rivelato parte di quella storia disgustosa... No, era troppo assurdo anche solo da ipotizzare. «Non dire sciocchezze, John. Un indiziato! Però potrebbe essere importante, no?» «Lasciamo che sia Anderson a decidere, va bene?» ribatté lui, quindi si ammutolì, in preda a un leggero tremore. Fu allora che il pensiero le attraversò la mente: e se se le spediva da solo, quelle lettere? 18 Gli dolevano le braccia. Abbassò lo sguardo e vide che la ragazzina aveva smesso di lottare. Arrivava sempre il momento, quel momento improvviso e benedetto, in cui continuare a vivere cessava di avere un senso, e la mente e il corpo accettavano quel dato di fatto. Era un momento meraviglioso, pieno di pace, il momento più tranquillo dell'intera esistenza. Molti anni prima aveva tentato di suicidarsi, pregustando l'arrivo di quell'istante, ma prima in ospedale e poi in clinica gli avevano fatto un sacco di cose. Gli avevano restituito la voglia di vivere, perciò adesso li ripagava, li ripagava tutti, a uno a uno. Era consapevole di quanta ironia vi fosse in tutto quello e, ridacchiando, staccò il cerotto dalle labbra di Helen Abbot, rimuovendo con le forbicine lo spago che le immobilizzava mani e piedi. Quindi estrasse dalla tasca dei pantaloni una piccola macchina fotografica e le scattò un'ultima istantanea, una sorta di memento mori. Se mai lo avessero catturato, gliel'avrebbero fatta pagare cara, però mai e poi mai avrebbero potuto etichettarlo come maniaco sessuale. Il sesso non c'entrava affatto in quella faccenda, le ragazzine erano semplici marionette, dei burattini condannati dal battesimo. La prossima, l'ultima della serie, era quella che contava veramente. Un colpo che avrebbe tentato di mandare a segno quel giorno stesso. Non poté trattenersi dal fare un'altra risatina. Di sicuro era un gioco ben più divertente di Tris. Comunque lui vinceva a entrambi. 19 L'ispettore capo William Anderson adorava il brivido della caccia, la lotta tra istinto imperioso e lenta ricerca. E adorava anche avvertire alle proprie spalle il sostegno dell'intera divisione. Dispensatore di ordini, saggez-
za e consigli strategici, la caccia era il suo elemento naturale. Certo, avrebbe preferito catturare prima lo Strangolatore, quello era chiaro: non era un sadico, e la legge andava difesa. Ciononostante, quanto più un'indagine di quel tipo durava, tanto più intensa si faceva l'emozione dell'accerchiamento; il piacere legato al protrarsi di quella fase era una delle grandi prerogative delle cariche di responsabilità. Lo Strangolatore aveva avuto un paio di défaillance, e a Anderson non importava altro: la Ford Escort azzurra prima, e ora l'interessante ipotesi, suggerita dal tipo di nodo nella garrotta, che l'assassino fosse o potesse essere stato un militare. Presto o tardi anche piccoli indizi di quel genere erano destinati a condurre a un nome, a un indirizzo, a un arresto, e Anderson sapeva che in quella fase ai suoi uomini occorreva una guida tanto fisica quanto spirituale. Avrebbe dunque concesso un'altra intervista alla televisione, si sarebbe lasciato immortalare di nuovo dai giornali (fotogenico era fotogenico...) Oh, sì, pregustava già il dolce sapore della vittoria. A meno che, naturalmente, lo Strangolatore non decidesse di volatilizzarsi dalla sera alla mattina, come tanti prima di lui avevano già fatto. Meglio non soffermarsi su quella possibilità, perché il semplice pensiero gli toglieva ogni energia. In quanto a Rebus, non era che gli stesse antipatico. Non proprio. Come agente aveva dimostrato di possedere una certa stoffa, anche se forse a volte ci andava giù un po' troppo pesante. Inoltre si rendeva conto che, sul piano personale, quell'uomo aveva vissuto un vero terremoto, e addirittura gli avevano detto che l'ex moglie era l'attuale convivente di suo figlio. Anche quello, un pensiero da evitare. Andy se n'era andato sbattendosi la porta alle spalle, e in quel modo era uscito non solo di casa, ma anche dalla vita del padre. Ma come si poteva al giorno d'oggi impiegare il proprio tempo scrivendo poesie? Suvvia, era una cosa ridicola. Dopodiché aveva avuto il coraggio di trasferirsi in casa della ex moglie di Rebus... No, non era che gli stesse antipatico, però vederlo arrivare in compagnia della graziosa responsabile delle relazioni con la stampa gli procurò un'istantanea contrazione allo stomaco. Si appoggiò con le natiche al bordo di una scrivania sguarnita: l'agente di servizio si era allontanato per una pausa. «Felice di rivederla in pista, John. Si è rimesso?» Anderson gli aveva teso con decisione la mano e Rebus, sbalordito, si vide costretto a prenderla e a restituire la stretta. «Sì, ora sto bene. Grazie, signore.» «Signore, ha un momento da concederci?» intervenne Gill Templer.
«Vorremmo parlarle. Forse ci sono nuovi sviluppi.» «Niente di più della vaga possibilità di uno sviluppo, signore», si affrettò a precisare Rebus, lanciando un'occhiata a Gill. Anderson guardò prima l'uno poi l'altra. «Forse è meglio che veniate nel mio ufficio.» Fu Gill a esporre la situazione per come la vedeva, mentre Anderson ascoltava in silenzio, trincerato dietro la scrivania, rivolgendo sporadiche occhiate a Rebus, il quale gli sorrideva con aria contrita. Mi dispiace di essere qui a farle perdere tempo, diceva il sorriso. «Dunque, sergente?» gli chiese infine Anderson, quando Gill ebbe terminato. «Cos'ha da dire in merito? È possibile che qualcuno abbia avuto motivo d'informarla circa le proprie intenzioni? Voglio dire, è possibile che lo Strangolatore la conosca?» Rebus si strinse nelle spalle, sorridendo, sorridendo e ancora sorridendo. In macchina, Jack Morton riportò un paio di annotazioni sulla scheda del rapporto giornaliero. Incontrato individuo sospetto. Interrogato. Tranquillo, disponibile. Altro vicolo cieco, avrebbe voluto aggiungere. Altro fottuto vicolo cieco. Una posteggiatrice gli teneva gli occhi piantati addosso, sperando forse d'intimidirlo mentre, a passo di marcia, si dirigeva verso di lui. Morton sospirò, posò carta e penna e tirò fuori il distintivo. Altra giornatina no. Rhona Phillips indossava l'impermeabile. Era la fine di maggio, la pioggia sferzava il profilo dei tetti come sulla tela di un pittore. Depositò un bacio di saluto sulla testa bionda e riccioluta del fidanzato poeta, piazzato davanti a un programma televisivo del pomeriggio, e uscì di casa, frugando nella borsetta in cerca delle chiavi della macchina. Ultimamente andava a prendere Sammy a scuola, sebbene non fossero più di un paio di chilometri di distanza, e, nella pausa di mezzogiorno, la accompagnava in biblioteca, evitando di perderla di vista anche soltanto per un momento. Meglio non rischiare, con quel maniaco ancora a piede libero. Corse fino alla macchina e chiuse la portiera. Edimburgo e il diluvio universale: quella pioggia penetrava nelle ossa, nelle fondamenta degli edifici, nei più profondi ricordi dei turisti. Si depositava ai lati delle strade e tornava a sollevarsi in schizzi dalle pozzanghere, rovinava matrimoni, raffreddava, uccideva. Una pioggia onnipresente. La classica cartolina spedita a casa dall'o-
stello cittadino: «Edimburgo è splendida, la gente un po' chiusa. Ieri abbiamo visitato il castello e il monumento a Scott. In realtà è piccola, quasi una cittadina. Si potrebbe infilarla dentro New York e nessuno se ne accorgerebbe. Peccato per il tempo». Peccato per il tempo. Grazioso eufemismo. Una pioggia merdosa, ma proprio merdosa, ecco cos'era quella. E puntuale come la morte, tutte le volte che lei aveva una giornata libera. Com'era tipico che lei e Andy bisticciassero. Così adesso lui se ne stava imbronciato in poltrona, le gambe rannicchiate sotto il sedere. Una giornata no, insomma. E quella sera si sarebbe dovuta dedicare alle schede valutative per la scuola. Grazie a Dio erano iniziati gli esami. Negli ultimi tempi, i più piccoli sembravano essersi dati una calmata, i più grandi erano in preda al terrore o all'apatia preesame, e i medi leggevano in volto ai compagni il destino che ineluttabilmente li aspettava. Era un periodo dell'anno davvero interessante. Ben presto anche Sammy sarebbe stata colta dalla stessa paura; o meglio Samantha, visto che ormai era quasi una donna. Certo, anche ai genitori toccava qualche timore: dell'adolescenza, della voglia di sperimentare dei figli... A bordo della Escort la osservò uscire in retromarcia dal vialetto di casa. Perfetto. Mancava più o meno un quarto d'ora. Quando la macchina della donna fu scomparsa, avanzò fino all'altezza dell'ingresso e tornò a fermarsi. Studiò le finestre. Lui doveva essere in casa da solo. Scese e a piedi raggiunse la porta. Mentre rientrava in sala operativa dopo l'ultimo, inconcludente incontro con Anderson, Rebus non poteva sapere che il superiore lo avrebbe fatto sorvegliare. Nella grande stanza sembrava essere passato un tornado: carte sparse ovunque, un piccolo computer incastrato in un angolo, grafici e liste dei turni appesi, fogli e foglietti che coprivano ogni centimetro di superficie disponibile. «Ho una riunione», disse Gill. «Ci vediamo più tardi. Senti, John, io credo veramente che esista un legame. Chiamalo intuito femminile, chiamalo fiuto da segugio, chiamalo come ti pare, ma ti prego di prendermi sul serio. Riflettici. Prova a pensare a qualcuno che può avercela su con te. Te lo chiedo per favore.» Rebus annuì e rimase a fissarla mentre usciva, diretta nel suo ufficio in un'altra ala del quartier generale. Gli era bastata quella breve assenza per perdere di vista la sua scrivania. Si guardò intorno per un attimo, ma gli
sembrava tutto diverso, come se la disposizione stessa dei tavoli fosse cambiata. Su quello più vicino prese a squillare il telefono, così, sebbene fosse circondato da altri agenti, sollevò la cornetta per sancire il ritorno ufficiale alle indagini. Sperando di non essere diventato lui, l'oggetto dell'indagine. Sperando. Pregando. Ma cos'erano più le preghiere? «Sala operativa», annunciò. «Sergente Rebus, dell'investigativa.» «Rebus? Nome curioso.» La voce era anziana ma vivace, indubbiamente di una persona istruita. «Rebus», ripeté il misterioso interlocutore, come se stesse prendendo nota per iscritto. Rebus fissò il telefono. «E il suo nome, signore?» «Mi chiamo Michael Eiser, insegno letteratura inglese all'università.» «Bene, professor Eiser», disse Rebus, afferrando una matita e scrivendo. «In cosa posso aiutarla?» «Ecco, signor Rebus, in verità suppongo di essere io quello in grado di aiutarla in qualche modo. Ma, naturalmente, potrei sbagliarmi.» Ammesso che non si trattasse di uno scherzo, Rebus si era già costruito un'immagine del professore: capelli crespi, cravatta a farfallino, scarpe vecchiotte, abito di tweed stazzonato, mani che gesticolavano accompagnando la conversazione. «Vede, io m'interesso di giochi di parole, sto anche scrivendo un libro sull'argomento. S'intitolerà Letture e traguardi testuali: una ricostruzione esegetica. Ha colto il gioco di parole? È un acrostico. L'iniziale di ciascuna parola è una lettera di un'altra parola: in questo caso, letture. È un gioco vecchio come il mondo, ma il mio libro si concentra sull'uso del gioco di parole in opere assai più recenti: in Nabokov e Burgess, tanto per citare un paio di nomi. Inutile dire che gli acrostici rappresentano solo una parte infinitesimale dell'armamentario utilizzato dagli autori per intrattenere, guidare o convincere il pubblico di lettori...» A quel punto Rebus tentò d'interromperlo, ma era come piazzarsi davanti a un toro lanciato alla carica, perciò si fece da parte e si rassegnò ad ascoltare, domandandosi se l'uomo non fosse un pazzo mitomane e se - contro ogni procedura - non fosse quindi il caso di riappendergli in faccia il telefono senza tanti complimenti. Aveva cose ben più importanti cui pensare, senza contare il mal di testa che già lo tormentava. «... e il punto è, signor Rebus, che per puro caso ho notato una sorta di filo conduttore nella scelta delle vittime dell'assassino.» Rebus sedette sul bordo della scrivania e strinse la matita come se volesse distruggerla. «Ah, sì?» «Già. Ho qui davanti a me, scritti su un foglio, i nomi di quelle povere
bambine. Magari avrei potuto accorgermene prima, ma purtroppo soltanto oggi ho letto un articolo in cui tutti i nomi venivano riportati in fila. Vede, di regola leggo il Times, ma stamattina era esaurito dappertutto, perciò ho comprato un altro giornale e... be', eccoli lì. Ripeto, può darsi che la cosa non abbia nessun valore, che si tratti di una mera coincidenza, però magari non è così. Insomma, lascio decidere a voi del mestiere e mi limito a offrirvi uno spunto.» In quel momento, Jack Morton fece il suo ingresso in sala operativa, circondato da una nuvoletta di fumo e, notando Rebus, gli sventolò una mano in segno di saluto. Rebus ricambiò con un cenno della testa. Il povero Jack sembrava davvero a pezzi. In realtà tutti sembravano a pezzi: tutti tranne lui, rientrato fresco come una rosa dall'ultimo riposo forzato e già alle prese con un pazzo scatenato. «Di che spunto si tratta, esattamente, professore?» «Ma come, non capisce? Le vittime si chiamavano, nell'ordine, Sandra Adams, Mary Andrews, Nicola Turner e Helen Abbot.» Jack si avvicinò alla scrivania di Rebus. «Letti come un acrostico», proseguì la voce, «questi nomi ne formano un altro: Samantha. Si tratta forse della prossima vittima? O è una semplice coincidenza? Forse è soltanto un gioco, davvero, e non ci sarà nessun'altra preda.» Rebus sbatté giù la cornetta, si alzò di scatto dalla scrivania e, afferratolo per la cravatta, trascinò con sé Jack Morton, facendogli schizzar via la sigaretta dalle labbra. «Dimmi che sei qui in macchina, Jack.» Rantolando e tossendo, l'amico annuì. Gesù Cristo Santissimo. Allora era vero. Oh, Gesù Gesù. Allora il legame personale esisteva. Samantha. Tutti gli indizi, tutti gli omicidi non erano stati che un unico messaggio per lui. Oh, Gesù Cristo. Signore aiutami, Ti prego aiutami. Sua figlia era la prossima vittima dello Strangolatore. Rhona Phillips notò la macchina parcheggiata davanti a casa, ma non se ne diede pensiero. Aveva solo voglia di togliersi da quella maledetta pioggia. Corse fino alla porta, seguita a passo irregolare da Samantha, e aprì. «Dio, che tempaccio orrendo!» esclamò appena entrata, in direzione del soggiorno. Quindi scosse l'impermeabile e si diresse verso il punto in cui la TV continuava imperterrita a blaterare. Vide Andy in poltrona. Aveva le mani legate dietro la schiena e la bocca incerottata con un enorme pezzo di nastro adesivo. Intorno al collo gli penzolava ancora la corda.
Stava per emettere l'urlo più lacerante della sua vita, quando un pesante oggetto contundente la colpì alla nuca, facendola barcollare in direzione del suo amante, e sulle sue ginocchia si accasciò, svenuta. «Ciao, Samantha», disse una voce conosciuta. Ma aveva il volto mascherato e la ragazza non poté vedere il suo sorriso. L'auto di Morton sfrecciava per la città come se avesse tutti i diavoli dell'inferno alle calcagna, il lampeggiatore azzurro acceso sul tetto. Strada facendo, Rebus si sforzò di spiegare ogni cosa all'amico, ma era troppo agitato per essere anche esauriente e Jack Morton era troppo impegnato a schivare il traffico per soffermarsi sui dettagli più oscuri. Avevano già chiesto rinforzi: una volante alla scuola, in caso Samantha non fosse ancora uscita, e due a casa, dove poteva trovarsi anche lo Strangolatore. Tutti dovevano usare la massima cautela. In Queensferry Road sfiorarono i centotrenta all'ora, tagliarono pericolosamente il traffico proveniente dalla direzione opposta, svoltarono a destra e ben presto raggiunsero la linda zona residenziale in cui vivevano Rhona, Samantha, e adesso anche l'amante di Rhona. «Qui a destra», gridò Rebus, aggrappandosi ostinatamente alla speranza. Mentre imboccavano la via scorsero le due volanti già parcheggiate davanti alla casa e l'auto di Rhona ferma sul vialetto, disarmante simbolo dell'impotenza. 20 Volevano dargli un sedativo, ma lui non era disposto a ingoiare una sola delle loro pastiglie. Volevano mandarlo a casa, ma lui non sentiva ragioni: come faceva a tornare a casa, con Rhona ricoverata da qualche parte al piano superiore dell'ospedale? Con sua figlia rapita e la sua vita a pezzi come un vecchio vestito trasformato in stracci? Misurò a larghi passi la sala d'attesa. Stava bene, così gli avevano detto: bene. Sapeva anche che Gill e Anderson si trovavano là fuori in corridoio. Povero Anderson. Attraverso i vetri sporchi guardò alcune infermiere che ridevano sotto la pioggia, i cappucci gonfiati dal vento come in un vecchio film di Dracula. Come potevano ridere? Una pesante foschia stava calando dalla cima degli alberi e le infermiere, sempre ridendo, ignare dei dolori del mondo, svanirono nello sfondo bianco e umido, risucchiate da un'Edimburgo fantastica, di altri tempi.
Era quasi buio, il sole un pallido ricordo dietro la fitta cortina di nuvole. I pittori religiosi del passato dovevano aver conosciuto bene cieli come quello, dovevano averci vissuto giorno dopo giorno, accettando quei toni lividi come un segno della presenza divina, come parte integrante della forza della Creazione. Ma Rebus non era certo un pittore. I suoi occhi leggevano la bellezza non nella realtà, bensì nel mondo della carta stampata. In quella sala d'attesa d'ospedale si rese conto che, negli ultimi anni, aveva scelto e accettato di fare solo esperienze indirette, per interposta persona, come leggere i pensieri di qualcun altro. Be', adesso si trovava a faccia a faccia con la vita: adesso era di nuovo nel SAS, la sua faccia il ritratto dello sfinimento, il suo cervello dolente, i suoi muscoli tesi allo spasmo. Si sorprese in procinto di ricominciare ad astrarre ogni cosa e quella consapevolezza gli fece picchiare con le palme delle mani sul muro, come un uomo pronto a lasciarsi perquisire. Sammy era da qualche parte là fuori, in balia di un maniaco, e lui lì a improvvisare scuse e panegirici. No, così non bastava. In corridoio, Gill teneva d'occhio William Anderson. Anche a lui avevano consigliato di tornare a casa. Il medico che lo aveva visitato lo aveva trovato in stato di shock e gli aveva proposto di passare la notte ricoverato in osservazione. «Aspetto qui», aveva ribattuto lui con pacata determinazione. «Se questa storia ha a che fare con John Rebus, allora voglio restare vicino a lui. Sto bene, dico sul serio.» Invece non stava affatto bene. Era frastornato, pieno di rimorsi e confuso. «Non posso crederci», disse a Gill. «Non posso credere che tutta questa faccenda fosse solo il preludio al rapimento della figlia di Rebus. Sembra pura fantascienza. Quell'uomo è un pazzo e Rebus deve avere un'idea di chi sia.» In effetti era ciò che pensava anche Gill Templer. «Mi chiedo solo perché non ce l'ha detto», proseguì Anderson. Poi, senza nessun preavviso o falsi pudori, si trasformò di nuovo nel padre distrutto e cominciò a singhiozzare piano. «Andy...» mormorò. «Il mio povero Andy.» Si prese la testa fra le mani e lasciò che Gill gli passasse un braccio affettuoso intorno alle spalle. Intanto, davanti allo spettacolo del calar della sera, John Rebus ripensava al suo matrimonio e alla figlia. Alla sua Sammy. Per chi sa leggere tra le piaghe del tempo. Che cosa aveva rimosso? Che cosa aveva rifiutato e scacciato, tanti anni prima, passeggiando lungo la costa del Fife, un attimo prima di cedere e
crollare, un attimo prima di spegnere definitivamente la luce sul suo passato, con la stessa decisione con cui avrebbe chiuso la porta in faccia a un Testimone di Geova? Difficile, quasi impossibile dirlo. L'intruso aveva preso tempo, aveva aspettato e deciso quando e come rifare irruzione nella sua vita. Infilare il piede tra lo stipite e la porta. Mantenere aperto lo spiraglio. Lo spiraglio della percezione. Quanto gli stavano tornando utili, adesso, le sue letture? A cosa gli serviva la fede, quel debole filo cui si aggrappava? Samantha. Sammy, sua figlia. Signore, Ti scongiuro, fa' che si salvi. Dio misericordioso, fa' che viva. Tu devi sapere chi è, John. Ma lui aveva scosso la testa, aveva scosso le lacrime sulle pieghe dei pantaloni. No, che non lo sapeva. Non lo sapeva no. Era il signor Cerchio. Il signor Croce. I nomi avevano perso ogni significato per lui. Gli spedivano cerchi e croci, pezzi di spago e fiammiferi, e giochi di parole, come li aveva chiamati Jack Morton. Nient'altro. Non sapeva nient'altro. Oh, Dio misericordioso. Uscì nel corridoio e si diresse verso Anderson, immobile come un relitto in attesa d'incontrare il proprio destino. Si scambiarono un abbraccio vigoroso, stringendosi quasi a voler infondere vita l'uno nell'altro, due antichi nemici improvvisamente consapevoli di trovarsi dalla stessa parte della barricata. Si strinsero e piansero, scaricandosi dei gravosi accumuli del tempo, di anni di pattugliamenti e fatiche, di necessità di apparire sempre freddi e imperturbabili. Ormai potevano uscire allo scoperto: erano esseri umani anche loro, come tutti gli altri. Alla fine, dopo avere saputo che Rhona aveva riportato «solo» una frattura cranica, dopo avere ottenuto il permesso di vederla un momento nella stanza in cui respirava attaccata a una bombola d'ossigeno, Rebus lasciò che lo accompagnassero a casa. Rhona ce l'avrebbe fatta: era già qualcosa. Andy Anderson, invece, giaceva gelido su un tavolo d'acciaio e i medici legali esaminavano i suoi poveri resti. Povero, stupido Anderson. Pover'uomo, povero padre, povero poliziotto. Quella storia aveva assunto una piega davvero personale, rivelandosi di colpo molto più devastante di quanto avrebbero mai potuto immaginare. Devastante come una vendetta. Finalmente però avevano in mano una descrizione, sebbene piuttosto sommaria. Una vicina aveva visto il rapitore avviarsi alla macchina con in braccio il corpo esanime della ragazza. Un'auto di un colore sbiadito, aveva detto. Un'auto normale, come tante. Un tipo normale, come tanti. Non molto alto, faccia dura. Di sicuro andava di fretta. Non aveva fatto in tem-
po a guardarlo bene. Anderson sarebbe stato sollevato dall'incarico. Stessa cosa per Rebus. Eh, sì, il caso aveva assunto contorni davvero pesanti. Lo Strangolatore era entrato in un'abitazione privata e vi aveva perpetrato un omicidio. Aveva superato ogni limite. Fuori dell'ospedale, reporter e cameramen erano ansiosi di conoscere tutti i particolari dell'accaduto. Wallace, il capo dell'investigativa, avrebbe indetto una conferenza stampa. I lettori, i curiosi, i voyeur dovevano essere messi al corrente. La notizia avrebbe sollevato un enorme scalpore: Edimburgo, capitale europea del crimine. Il figlio di un ispettore capo della polizia assassinato e la figlia di un sergente dell'investigativa rapita, forse addirittura già uccisa. Cosa poteva fare lui, Rebus, se non starsene seduto ad aspettare l'arrivo di una nuova lettera? Per quanto simile a una cella, nel suo appartamento si sarebbe sentito più tranquillo. Gill gli promise di tornare a trovarlo più tardi, dopo la conferenza stampa. Una volante priva di contrassegni avrebbe naturalmente piantonato la casa, dato che nessuno ormai era in grado di prevedere quanto più personale ancora poteva diventare quella storia. Nel frattempo, a sua completa insaputa, al quartier generale stavano esaminando con la lente d'ingrandimento il suo curriculum. Da qualche parte, tra la polvere del passato, doveva celarsi lo Strangolatore. Matematico. Matematico, certo, ma Rebus sapeva anche di essere l'unico a possedere la chiave dell'enigma: peccato fosse sepolta in qualche cassetto apribile soltanto con quella stessa chiave. Perché non poteva far luce su quel frammento di storia rimossa? Gill Templer aveva telefonato al fratello di John Rebus e, a costo di farsi odiare per l'iniziativa, gli aveva in pratica ordinato di precipitarsi a Edimburgo e di restare al suo fianco. In fondo, era il suo unico parente stretto e, per quanto un po' nervoso, Michael le era parso sinceramente addolorato per il fratello. Quindi si era messa a ragionare sulla faccenda dell'acrostico. Il professor Eiser aveva visto giusto e, come da prassi, stavano già cercando di rintracciarlo per sottoporlo a interrogatorio. Ma se lo Strangolatore aveva pianificato ogni sua mossa, allora doveva aver concepito in anticipo una lista di potenziali vittime coi nomi che facevano al caso suo: in che modo? Per mezzo di qualche ignaro impiegato di un ufficio pubblico, magari? Di un insegnante? Di qualche inconsapevole operatore informatico? Le possibilità erano molte e non ne avrebbero trascurata nessuna. Poi c'era la conferenza stampa. Per ragioni di comodità era stata orga-
nizzata nell'edificio dell'amministrazione dell'ospedale. Trovò posto in piedi, e soltanto in fondo alla sala. Il suo volto - con la sua aria comprensiva, anche se mai sorridente - stava diventando familiare al pubblico inglese, almeno alla pari del volto di un giornalista o di uno speaker televisivo. Quella sera, tuttavia, il grande capo avrebbe parlato in prima persona. Gill sperava non ci mettesse molto. Voleva andare da Rebus e, desiderio forse ancora più urgente, voleva parlare con suo fratello. Qualcuno doveva pur conoscere il passato di John, che sembrava non aver mai fatto parola con nessun collega dei propri trascorsi nell'esercito. Che la chiave stesse proprio lì? O forse nella storia del suo matrimonio? Gill si concentrò sul discorso del capo, mentre i clic delle macchine fotografiche si moltiplicavano e la sala si riempiva di fumo. A un tratto scorse Jim Stevens, le labbra increspate da un mezzo sorriso, come se sapesse qualcosa. Quella vista la innervosì. Stevens le teneva gli occhi incollati addosso, sebbene la sua penna continuasse a correre sul blocco. Ripensò alla disastrosa serata passata in sua compagnia, e a quella assai meno disastrosa trascorsa con John Rebus. Perché nella vita incontrava sempre uomini complicati? Forse perché le complicazioni la interessavano. Il caso, invece, anziché farsi più complesso, sembrava finalmente prossimo a dipanarsi. Porgendo solo mezzo orecchio alle dichiarazioni del capo dell'investigativa, Jim Stevens pensò che la storia si andava complicando. Rebus e Rebus, droga e omicidi, lettere anonime e il rapimento della figlia di uno dei fratelli. Per quanto riguardava quell'ultimo sviluppo, doveva assolutamente riuscire a scavalcare il muro della polizia per saperne di più. La cosa migliore era rivolgersi a Gill Templer, cui naturalmente in cambio avrebbe offerto qualche altra informazione. Se i traffici di droga e il rapimento erano collegati, e forse lo erano, allora forse uno dei due fratelli Rebus aveva giocato sporco. E Gill Templer ne era al corrente. La raggiunse alle spalle, all'uscita dall'edificio. Lei capì subito di chi si trattava, ma per una volta aveva voglia di scambiare due chiacchiere con lui. «Ciao Jim. Posso offrirti un passaggio da qualche parte?» Perché no? Magari poteva lasciarlo davanti a un bar? A meno che, ovviamente, non avesse la possibilità d'incontrare anche solo per un minuto John Rebus. No, non ce l'aveva. D'accordo per il passaggio, allora.
«Questa faccenda si fa più bizzarra di minuto in minuto, non trovi?» Gill era concentrata sulla strada, ma il suo cervello rimuginò la domanda. In realtà sperava che fosse lui, Jim, a sbilanciarsi per primo, e col proprio silenzio si augurava di fargli credere che gli stesse nascondendo qualcosa, o che tra loro ci fosse la possibilità di scambiare qualche informazione preziosa. «Comunque Rebus sembra essere diventato il personaggio principale, e anche questo è parecchio interessante.» Gill intuì che stava per giocarsi una carta importante. «Voglio dire...» proseguì lui, accendendosi una sigaretta. «A proposito, non ti dispiace se fumo, vero?» «No», rispose lei in tono pacato, nonostante l'agitazione interiore. «Grazie. Voglio dire, è interessante perché, per quanto mi riguarda, Rebus è coinvolto anche in un'altra storia di cui mi sto occupando.» Gill si fermò in corrispondenza di un semaforo rosso, lo sguardo sempre puntato davanti a sé, oltre il parabrezza. «Ti va se te ne parlo un po'?» Se le andava? Certo che sì. Ma in cambio di cosa? «Eh, sì, è davvero interessante, quel John Rebus. Anche suo fratello, intendiamoci.» «Suo fratello?» «Michael Rebus, l'ipnotizzatore. Una coppia originale, senza dubbio.» «Ma guarda.» «Senti, Gill, perché non la smettiamo di girarci intorno, eh?» «Già, perché non la smettiamo?» Ingranò la marcia e ripartì. «Allora dimmi: per caso anche voi, internamente, state indagando sul conto di Rebus? Insomma, non è che magari sapete già chi c'è dietro a tutta questa storia, ma preferite non dirlo?» Questa volta, lei si girò a fissarlo. «Non è così che funziona, Jim.» Lui fece una smorfia. «Forse non è così che funziona per voi, Gill, ma non venire a raccontarmi che certe cose non succedono. Mi stavo solo chiedendo se circolassero anche altre voci, voci dall'alto. Magari perché qualcuno aveva osato troppo, lasciando arrivare le cose fino a questo punto.» Jim Stevens la fissava a propria volta, e con grande attenzione, buttando lì le ipotesi e le teorie più vaghe e strampalate, nella speranza che almeno una scatenasse qualche reazione. Ma lei non sembrava affatto incline ad abboccare... Be', forse significava che lei non sapeva niente, e non che
quelle teorie erano sbagliate. Poteva darsi che le cose fossero addirittura cominciate a un livello assai più alto di quello su cui lui e Gill si muovevano. «Cosa pensi di sapere a proposito di John Rebus, Jim? Potrebbe essere importante, capisci? Insomma, se ci sorgesse il dubbio che stai tacendo informazioni preziose potremmo anche coinvolgerti...» Stevens scosse la testa, emettendo qualche grugnito di disapprovazione. «Ehi, sappiamo bene che questa è solo una conversazione informale, no? Del tutto confidenziale.» Gill tornò a guardarlo. «Potrei sempre creare un precedente.» Lui la fissò. Sì, Gill era davvero capace di fare una cosa del genere. «Qui va benissimo», disse allora Stevens, indicando un punto fuori del finestrino. Dalla sigaretta gli cadde un po' di cenere sulla cravatta. Gill si fermò e lo guardò scendere. Prima di chiudere la portiera, lui rimise dentro la testa. «Pensaci. Se vuoi possiamo trovare un accordo. Il mio numero di telefono ce l'hai.» Sì, ce l'aveva, il suo numero di telefono. Se l'era scritto un mucchio di tempo prima, un mucchio di tempo così alto da essere diventato un muro che li separava. Ormai le sembrava quasi di non riuscire più a capirlo. Cosa diavolo poteva sapere sul conto di John? E di Michael? Mentre ripartiva, diretta all'appartamento di Rebus, decise che avrebbe approfittato della visita per scoprirlo da sola. 21 John Rebus aprì la sua Good News Bible, ma, in capo a qualche pagina, si rese conto di essere completamente deconcentrato e la richiuse. Anziché leggere, si mise a pregare, strizzando gli occhi come due minuscoli pugni. Poi prese a passeggiare per casa, sfiorando gli oggetti che la popolavano. Era una cosa che faceva anche ai tempi del suo primo crollo nervoso, ma questa volta non aveva paura. Se doveva accadergli di nuovo, che accadesse pure. Non aveva più forza per opporsi. Era supino, passivamente sottomesso alla volontà del suo malevolo creatore. Suonarono alla porta. Non andò a rispondere. Chiunque fosse, se ne sarebbe andato, lasciandolo solo col suo dolore, la sua rabbia impotente e i suoi oggetti impolverati. Altra scampanellata, stavolta più insistente. Imprecando tra sé, andò alla porta e aprì. Si trovò davanti Michael. «Ho fatto più presto che ho potuto, John.»
«Mickey, che ci fai qui?» replicò Rebus, invitandolo a entrare. «Mi hanno telefonato. Una tua collega mi ha raccontato tutto. Una cosa terribile, John, terribile.» Gli posò una mano sulla spalla e lui, turbato, si rese conto di non sentire da anni il contatto comprensivo e fraterno di un altro essere umano. «Sono stato bloccato da due gorilla qua fuori: a quanto pare ti tengono sotto stretta sorveglianza.» «Normale procedura.» Normale procedura, forse, ma con che razza di espressione colpevole si era fatto beccare, lui? Era bastata la telefonata per metterlo in allarme, per fargli sospettare una trappola. Prima di muoversi aveva ascoltato il notiziario locale. C'erano stati un omicidio e un rapimento. Dunque era vero. E così era venuto, si era infilato nella tana del lupo pur sapendo benissimo di doversi tenere alla larga dal fratello, pur sapendo benissimo che se quelli lo avessero scoperto lo avrebbero ammazzato, pur domandandosi se il rapimento della nipote potesse avere qualcosa a che fare coi suoi traffici personali. Che fosse un avvertimento rivolto a entrambi? Impossibile dirlo. Quando i due gorilla gli si erano avvicinati nella penombra delle scale, dunque, lui aveva pensato di essere arrivato al capolinea. Li aveva presi per gangster incaricati di farlo fuori. Invece no, erano «normale procedura». «Hai detto che ti ha contattato una mia collega? Per caso ricordi il nome? Vabbè, non importa, tanto so già chi è.» Sedettero in soggiorno. Michael si tolse la giacca di montone e, da una delle tasche, estrasse una bottiglia di whisky. «Pensi che possa aiutare?» chiese. «Se non aiuta, male non farà comunque.» Rebus andò a prendere due bicchieri in cucina, mentre il fratello dava un'occhiata intorno. «Grazioso, questo appartamento», gli gridò dal soggiorno. «Un po' troppo grande per me.» Un attimo dopo, dalla cucina giunse una specie di rantolo. Michael raggiunse il fratello e lo trovò chino sul lavello, che piangeva, silenziosamente ma in modo disperato. «John», disse, abbracciandolo. «Andrà tutto bene, John, vedrai.» Ma dentro di lui si agitava sempre il senso di colpa. Rebus cercò tentoni un fazzoletto, si soffiò vigorosamente il naso e si asciugò gli occhi. «Facile dirlo, per te», sussurrò in un mezzo singhiozzo, sforzandosi di sorridere. «Tu sei ateo.»
Bevvero metà bottiglia di whisky, seduti in poltrona a contemplare in silenzio il soffitto sfumato di ombre. Rebus aveva gli occhi rossi e le ciglia appiccicate. Di tanto in tanto tirava su col naso e se lo strofinava col dorso della mano. A Michael sembrava di essere tornato ragazzino, ma i ruoli erano stati invertiti. Non che fossero mai stati così vicini, ma il sentimento vinceva sempre sulla realtà. Di sicuro ricordava un paio di occasioni in cui John era sceso in campo per difenderlo su questioni importanti, e a quel pensiero provò un'altra fitta di senso di colpa. Rabbrividendo, decise che doveva tirarsi fuori di quel gioco, a patto di non essersi già spinto troppo in là, e se per giunta aveva involontariamente finito per coinvolgere anche il fratello... No, non poteva nemmeno pensarci. Doveva vedere il suo uomo, spiegargli come stavano le cose. Ma come? Non aveva né un indirizzo né un numero di telefono. Era sempre il contatto a chiamarlo, mai viceversa. In effetti, a rifletterci, gli sembrava quasi una farsa. Anzi un incubo. «Allora, ti è piaciuto il mio spettacolo, l'altra sera?» Rebus si costrinse a tornare con la mente alla fatidica serata, alla donna sola e profumata, alle dita strette intorno alla sua gola, alla scena che aveva segnato l'inizio della sua fine. «Sì, l'ho trovato interessante.» Si era addormentato, giusto? Pazienza. Un nuovo silenzio. Il rumore del traffico in strada. Qualche grida di ubriaco in lontananza. «Dicono sia qualcuno che ce l'ha su con me», si decise infine a mormorare. «Ah. E tu cosa pensi?» «Io non lo so. Non lo so. All'apparenza sembrerebbe.» «Ma in questo caso lo sapresti, no? Sapresti chi è.» Rebus scosse la testa. «Il problema sta proprio qui, Mickey. Io non ricordo niente.» Michael si raddrizzò nella poltrona. «Cosa, esattamente, non ricordi?» «Qualcosa. Non so, è difficile spiegare. Qualcosa. Se sapessi cosa, me lo ricorderei, no? Invece c'è un buco, so solo che c'è un buco. E so che lì c'è qualcosa che dovrei ricordare.» «Qualcosa del tuo passato?» Michael assunse un tono suadente. Forse davvero quella storia non aveva niente a che vedere con lui. Forse aveva a che fare con altro, o con qualcun altro. Gli stava tornando la speranza. «Del mio passato, sì, certo. Ma non riesco a ricordare.» Rebus si sfregò la fronte, quasi fosse una sfera di cristallo. Intanto Michael cercava qualcosa in tasca. «Io posso darti una mano,
John. A ricordare.» «E come?» «Così.» Gli mostrò una moneta d'argento stretta tra pollice e indice. «Ricordi quel che ti ho detto? Ogni giorno riporto i miei pazienti nelle loro vite passate: in confronto, credo sarebbe abbastanza semplice riportare te nel tuo passato reale.» Toccò a John Rebus raddrizzarsi nella poltrona. Si tirò a sedere, cercando di liberarsi la mente dai fumi dell'alcol. «Che aspetti, allora?» disse. «Dimmi cosa devo fare.» Ma dentro di lui qualcosa gli gridava: Non farlo, in realtà non lo vuoi, non vuoi sapere davvero. Ma lui voleva sapere. Michael si avvicinò alla sua poltrona. «Mettiti comodo, appoggiati bene allo schienale e lascia perdere per un momento il whisky. Sappi soltanto che non tutti reagiscono allo stesso modo all'ipnosi. Sii spontaneo, non ti costringere a nulla. Non ti sforzare troppo: se deve riuscire, riuscirà, che tu lo voglia o no. Rilassati e basta. Rilassati, John.» Qualcuno suonò alla porta. «Ignoralo», disse Rebus, ma Michael aveva già lasciato la stanza. Udì alcune voci all'ingresso e, quando Michael riapparve, con lui c'era Gill. «La signora che mi ha telefonato, credo», fu il commento di Michael. «Come stai, John?» Il viso di Gill esprimeva una forte preoccupazione. «Bene, grazie. Gill, questo è mio fratello Michael. L'ipnotizzatore. Stava giusto per... Com'è che dici tu, Mickey?... Stava per rimuovere i blocchi dalla mia memoria. Forse potresti prendere qualche appunto, che ne pensi?» Gill guardò prima un fratello, poi l'altro, leggermente a disagio. Una coppia originale, li aveva definiti Jim Stevens. Lei aveva alle spalle sedici ore filate di lavoro, e adesso cosa le toccava? Tuttavia sorrise e si strinse nelle spalle. «Vi spiace se prima mi verso un goccetto?» John Rebus sorrise. «Serviti pure», disse. «Abbiamo whisky, whisky allungato con acqua, o acqua. Forza, Mickey, procediamo. Sammy è da qualche parte là fuori. Magari siamo ancora in tempo.» Michael allargò un po' le gambe, sporgendosi verso di lui. Sembrava quasi che volesse risucchiarlo, gli occhi vicinissimi ai suoi, la bocca che si muoveva come in un gioco di specchi. Almeno così parve a Gill, mentre riempiva un bicchiere. Michael sollevò la moneta d'argento, cercando di catturare la fioca luce della lampadina che illuminava la stanza. Quindi deviò il raggio riflesso verso la retina di John, facendo contrarre e dilatare le
pupille. Aveva la netta sensazione che fosse un soggetto adatto all'esperimento. E, se non lo era, comunque sperava che lo fosse. «Ora ascoltami attentamente, John. Ascolta la mia voce e osserva la moneta. Guardala brillare e roteare, John. Guardala roteare sempre più forte. Sempre più forte. Vedi come gira, John? Adesso rilassati. Rilassati e continua ad ascoltarmi. E a guardare la moneta che rotea e brilla.» Per un momento, sembrò che Rebus non cedesse. Forse a renderlo immune al potere della voce era la familiarità che li legava... Però poi, in capo a qualche secondo, Michael vide i suoi occhi cambiare. Un cambiamento minuscolo, impercettibile ai non iniziati. Suo padre era stato un grande maestro. Ecco. Ecco che il fratello era entrato nel limbo, si era lasciato catturare dal riflesso della moneta, pronto a farsi trasportare ovunque volesse Michael. Era in suo completo potere. Come sempre, Michael provò un brivido: sì, quello era potere, potere totale e assoluto. Avrebbe potuto fare qualunque cosa coi suoi pazienti. Qualunque cosa. «Michael...» sussurrò Gill. «Gli chieda perché ha mollato l'esercito.» Michael deglutì. Era una buona domanda, sì, una domanda che avrebbe voluto porgli anche lui. «John», esordì. «John, perché hai lasciato l'esercito? Cos'è successo? Perché te ne sei andato, John? Parla. Raccontaci.» E così, lentamente, come se stesse imparando a usare parole nuove o una lingua a lui sconosciuta, Rebus iniziò a raccontare la propria storia. Gill si precipitò alla borsa a prendere penna e blocco, mentre Michael ricominciava a sorseggiare il suo whisky. Si misero ad ascoltare. PARTE QUARTA LA CROCE 22 Ero entrato nei paracadutisti a diciotto anni e un giorno decisi di fare domanda per lo Special Air Service. Perché? Perché un soldato sceglie di farsi diminuire la paga per entrare nel SAS? Non saprei. Quel che so è che ben presto mi ritrovai a Hereford, al campo di addestramento. Lo chiamavo «la Croce» perché ero stato avvertito che lì avrebbero cercato in tutti i modi di annientarmi. In effetti era un vero inferno, per tutti i volontari: marce, allenamento fisico, prove psicologiche, provocazioni. L'obiettivo
era spingerci fino al limite della resistenza umana, e insegnarci a essere micidiali a nostra volta. All'epoca, si vociferava di un'imminente guerra civile nell'Ulster e della possibilità che il SAS venisse impiegato contro i rivoltosi. Venne il giorno della cerimonia, ci diedero nuovi berretti e nuove mostrine: eravamo nel SAS. Ma per me e Gordon Reeve la cosa non finì lì. Fummo convocati nell'ufficio del grande capo, dove ci comunicarono che eravamo stati giudicati i due elementi migliori della nostra infornata. Se avessimo affrontato i successivi due anni di campo, saremmo diventati soldati di carriera a tutti gli effetti: un grande destino ci attendeva. All'uscita dal colloquio, Reeve mi disse: «Io lo avevo già subodorato, Johnny, avevo sentito parlare alcuni ufficiali. Hanno in mente grandi cose per noi. Grandi progetti. Credimi, Johnny, è così». Qualche settimana più tardi ci fecero fare un corso di sopravvivenza, in cui avevamo alle calcagna una moltitudine di altri soldati: in caso di cattura, non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di cavarci di bocca informazioni preziose sulla nostra missione. Mangiavamo quello che riuscivamo a cacciare, dovevamo starcene nascosti e spostarci nella brughiera solo di notte. Sembravamo quasi destinati ad affrontare ogni test insieme, anche se, in quella particolare occasione, eravamo stati accoppiati ad altri due allievi. «Hanno in programma cose speciali per noi», continuava a ripetere Reeve. «Me lo sento. Me lo sento dentro.» C'eravamo appena infilati nei sacchi a pelo del bivacco per un paio d'ore di riposo, quando il nostro compagno di guardia infilò il naso nella tenda. «Non so come dirvelo», dichiarò, e all'improvviso da ogni parte si accesero luci e sbucarono fucili e noi fummo picchiati fin quasi a perdere conoscenza. Il nostro bivacco venne distrutto. Facce mascherate, che appartenevano a uomini armati di torce elettriche, ci dissero qualcosa in una lingua straniera. Un colpo ai reni col calcio di un fucile mi rivelò che quegli individui non scherzavano affatto e che era tutto vero. Com'era vera la cella in cui venni sbattuto. Pavimento e pareti erano cosparsi di feci, sangue e altre schifezze. Dentro, c'erano solo un materasso puzzolente e uno scarafaggio. Mi sdraiai sul materasso umido e cercai di dormire, perché sapevo già che il sonno sarebbe stata la prima cosa di cui ci avrebbero privati. Le luci intense della cella si accesero di colpo e accese rimasero. Sembravano trapassarmi anche il cervello. Poi cominciarono i rumori, la co-
lonna sonora di un pestaggio e di un interrogatorio nella cella di fianco alla mia. «Lasciatelo stare, bastardi! Vi spacco la faccia!» Iniziai a battere i pugni contro il muro e, dopo un po', i rumori cessarono. Sentii la porta della cella richiudersi violentemente, il pesante fruscio di un corpo trascinato davanti alla mia porta di ferro, poi il silenzio. Sapevo che prima o poi sarebbero venuti anche da me. Così mi misi ad aspettare. Aspettai per ore, per giorni, morto di fame e di sete. Ogni volta che chiudevo gli occhi, dalle pareti e dal soffitto mi pioveva addosso un suono assordante come di radio mal sintonizzata che mi obbligava a tapparmi le orecchie con le mani. Cazzo, cazzo, cazzo! In teoria, a quel punto ero pronto per crollare. Ma, se fossi crollato, avrei buttato nel cesso tutte le mie fatiche, tutti i mesi di addestramento. Perciò decisi di mettermi a cantare. Di cantare a voce alta, per me soltanto. Grattai i muri della cella con le unghie, muri umidi di muffa, e vi incisi il mio nome anagrammato: SERBU, la cosa che più si avvicinava all'idea di schiavo, di servo. M'intrattenevo mentalmente con alcuni giochi di parole, inventavo schemi di cruciverba, limerick, scioglilingua. Trasformai in un gioco la mia stessa sopravvivenza. Un gioco, un gioco, soltanto un gioco. Continuavo a ripetermi che, per quanto la situazione sembrasse volgere al peggio, altro non era che un gioco. E intanto pensavo a Reeve, il quale peraltro mi aveva avvertito. Grandi progetti, davvero. Reeve era la cosa più simile a un amico che avessi nell'unità e mi chiedevo se il corpo che avevo sentito trascinare via era il suo. Pregavo per lui. Poi, un giorno, mi fecero arrivare un po' di cibo e una tazza di acqua marrone. Il primo sembrava essere stato pescato dai solchi fangosi dei campi di addestramento e infilato nella minuscola feritoia che improvvisamente era apparsa nella mia porta, e altrettanto repentinamente era scomparsa. Trasformai con la fantasia quella sbobba gelida in una bistecca con contorno di verdure e ne portai una cucchiaiata alla bocca. Nel giro di una frazione di secondo l'avevo già sputata. L'acqua sapeva di ferro. Sicuro di essere spiato, feci il gesto teatrale di asciugarmi il mento sulla manica. «I miei complimenti al cuoco», esclamai. Un attimo dopo piombai in un sonno profondo. Mi trovavo per aria. Non c'erano dubbi. Ero a bordo di un elicottero, mi
sentivo il vento addosso. Ripresi coscienza a poco a poco e spalancai gli occhi, ritrovandomi nell'oscurità più assoluta. Mi avevano chiuso la testa in una specie di sacco e avevo le braccia legate dietro la schiena. L'elicottero si alzava e abbassava. «Sei sveglio?» Mi pungolarono col calcio di un'arma. «Sì.» «Bene. Voglio sapere qual è il tuo reggimento e i particolari della missione. Non avremo nessuna pazienza con te, ragazzo, quindi non perdere tempo inutile.» «Fottiti.» «Spero tu sappia nuotare, allora. Spero tu ce la faccia a nuotare. Siamo a una settantina di metri sopra il mare d'Irlanda e stiamo per buttarti giù con le mani legate. Da questa altezza l'acqua è morbida come un'autostrada, ragazzo. O crepi subito, o ci penseranno i pesci a mangiarti vivo. E nessuno troverà mai il tuo cadavere. Non qui. Hai sentito quel che ho detto, ragazzo?» La voce di un ufficiale, sbrigativa e professionale. «Sì.» «Bene. Ora, voglio sapere qual è il tuo reggimento e i particolari della missione.» «Fottiti.» Cercai di parlare in tono tranquillo. Sarei diventato un semplice numero nella casistica degli incidenti di percorso, un altro morto in fase di addestramento, nulla su cui aprire un'inchiesta. Mi sarei sfracellato sulle onde come una lampadina contro un muro. «Fottiti», ripetei per la terza volta, pensando: È soltanto un gioco, soltanto un gioco. «Questo non è un gioco, ragazzo. Non più. I tuoi compagni d'avventura hanno già vuotato il sacco, Rebus. Uno di loro, Reeve, ha vuotato anche qualcosa di più, purtroppo. D'accordo, dategli quel che gli spetta.» «Un momen...» «Buona nuotata, Rebus.» Sentii mani agguantarmi per il petto e le braccia. Nella tenebra del mio cappuccio, col vento imperioso che mi soffiava contro, temetti per la prima volta di avere commesso un grave errore. «Aspettate...» Mi sentii sollevare nel vuoto, sotto di me un salto di almeno cinquanta metri fino al mare, un bel tuffo di testa, mentre i gabbiani volteggiavano, strepitando di scaricarmi.
«Aspettate!» «Qualcosa da dire, Rebus?» «Levatemi almeno questo fottuto sacco dalla testa!» gridai, disperato. «Mollate 'sto bastardo.» E con ciò mi lasciarono cadere. Per un istante rimasi fermo nell'aria, poi cominciai a precipitare, precipitare, precipitare. Come un mattone. Attraversavo lo spazio, legato come un cappone natalizio. Urlai. Un secondo. Due. Quindi toccai terra. Toccai terra. E a terra rimasi, mentre anche l'elicottero atterrava. Intorno a me un coro di risa. E ancora quelle voci straniere. Mi sollevarono e trascinarono di nuovo fino alla cella. Adesso ero felice di avere un sacco sulla testa. Almeno così non si vedeva che stavo piangendo. Dentro, ero soltanto una massa di budella tremanti e contratte, minuscoli serpenti di paura. Adrenalina e sollievo mi rimbalzavano nel fegato, nei polmoni, nel cuore. Dietro di me, la porta si chiuse con un colpo secco. Poi giunse un suono strascicato. Mani alle prese coi nodi che m'immobilizzavano i polsi. Tolto il cappuccio, mi occorsero alcuni secondi per recuperare la vista. Mi ritrovai a fissare una faccia che somigliava terribilmente alla mia. Una svolta imprevista nel gioco. Poi riconobbi Gordon Reeve e, nel medesimo istante, anche lui mi riconobbe. «Rebus?» esclamò. «Mi avevano detto che...» «Sì, anche a me hanno detto la stessa cosa di te. Come stai?» «Bene. Bene. Cristo, sono felice di rivederti.» Ci abbracciammo. Un abbraccio indebolito ma ancora umano, i nostri corpi che sprigionavano odore di sofferenza e sopportazione. Reeve aveva gli occhi gonfi di lacrime. «Sei veramente tu. Non sto sognando», disse. «Sediamoci. Le gambe non mi reggono molto.» In realtà, volevo dire che le gambe non gli reggevano molto. Si era appoggiato a me come a una stampella. Sedette con espressione riconoscente. «Che ti è successo?» gli chiesi. «Oh, per un po' mi sono tenuto in esercizio.» Si diede alcune pacche su una gamba. «Piegamenti, cose così. Ma alla fine ero troppo stanco. Mi devono aver riempito la minestra di allucinogeni. Adesso, da sveglio, continuo ad avere visioni.» «Mi hanno steso con qualcosa nell'acqua...» «Brutta roba. E poi c'è la manichetta. Credo mi facciano il trattamento
più o meno una volta al giorno. Un getto ghiacciato. Mi sembra di non riuscire mai ad asciugarmi.» «Secondo te da quanto tempo ci tengono qui?» Chissà se il mio aspetto era orribile quanto il suo. Sperai di no. Reeve non aveva fatto parola del volo dall'elicottero, perciò decisi di tacere. «Da troppo», rispose lui. «È pazzesco. Assolutamente ridicolo.» «Tu dicevi sempre che avevano in serbo qualcosa di speciale per noi, eh? Be', che Dio mi perdoni, non ti avevo mai preso sul serio.» «Sì, ma non era questo che avevo in mente.» «Eppure siamo proprio noi a interessargli.» «In che senso?» Fino a quel momento, il pensiero mi aveva solo sfiorato, come un'ipotesi, ma ormai ne ero sicuro. «Be', quella sera, quando la sentinella ha infilato il naso nella tenda, non aveva l'aria per niente spaventata o sorpresa. Credo che i nostri due compagnucci fossero solo una copertura.» «E allora cosa vogliono, scusa?» Lo guardai, seduto col mento appoggiato alle ginocchia. Fragili creature, eravamo. Il morso delle emorroidi come quello dei vampiri, le nostre bocche spaccate da piaghe e ulcerazioni, i capelli che cadevano, i denti che dondolavano. Eppure l'unione faceva la forza, ed era proprio quello che non capivo: perché ci avevano riuniti, quando, separati, saremmo ormai stati entrambi sull'orlo del cedimento? «Ehi? Ti ho chiesto: che accidenti vogliono da noi, allora?» Forse stavano cercando d'incoraggiarci con un po' di falsa consolazione, prima di un ulteriore, definitivo giro di vite. Il peggio non è mai tale, finché possiamo dire «questo è il peggio». Shakespeare, Re Lear. Allora non lo sapevo, ma adesso sì. «Non so», ripresi. «Immagino che, al momento giusto, ce lo diranno loro.» «Hai paura?» mi chiese all'improvviso. I suoi occhi sgranati erano puntati sulla porta della nostra cella. «Forse.» «Be', dovresti averne, John, dovresti averne. Io ce l'ho. Ricordo che una volta, da bambino, risalii con un gruppetto di amici il fiume dietro casa. Era in piena. Pioveva da una settimana. La guerra era appena finita e ovunque c'erano costruzioni diroccate. Camminammo sino a un tubo delle fognature. Allora giocavo sempre coi ragazzini più grandi di me, non so per quale ragione. Mi prendevano per il culo, mi mettevano in ridicolo, ma io uscivo con loro. Credo mi piacesse l'idea di stare insieme con quelli che
mettevano tanta paura ai miei coetanei. Anche se mi trattavano come una merda, in quel modo acquistavo potere nei confronti dei più piccoli, capisci?» Annuii, ma lui non mi stava guardando. «Insomma, quel tubo non era molto spesso, però era lungo, e correva in alto, sopra il fiume. Dissero che dovevo attraversarlo io per primo. A metà strada mi prese una tale strizza che mi vennero le ginocchia molli e restai completamente paralizzato. Poi mi pisciai addosso; sentivo il rigagnolo corrermi dai pantaloni corti lungo le gambe, e anche loro se ne accorsero e si misero a ridere. Ridevano di me e io non riuscivo a muovermi, non riuscivo a fare un passo. Così, dopo un po', se ne andarono. Mi lasciarono lì.» Ripensai al coro di risa mentre mi trascinavano via dall'elicottero. «A te non è mai successo niente del genere quand'eri piccolo, Johnny?» «Non credo.» «E allora perché cazzo sei entrato nell'esercito?» «Per levarmi di casa. Non andavo d'accordo con mio padre: preferiva mio fratello. Mi sentivo solo, solo e abbandonato.» «Io non ho mai avuto un fratello.» «Neanch'io, se è per questo. Semmai avevo un nemico.» Lo sveglio. Non ci pensi neanche. Questa cosa non ci porta da nessuna parte. Vada avanti. «Cosa faceva tuo padre, Johnny?» «L'ipnotizzatore. Invitava il pubblico sul palco e gli faceva fare cose idiote.» «Stai scherzando?» «Nient'affatto. Mio fratello ha seguito le sue orme, io no. Insomma, decisi di alzare i tacchi, ma non mi sembrarono particolarmente tristi nel vedermi andar via.» Reeve ridacchiò. «Nel cesto delle svendite ci attaccherebbero un bel cartellino con sopra scritto SECONDA SCELTA, eh, Johnny?» Anch'io risi, più a lungo e più forte del necessario, quindi ci passammo un braccio intorno alle spalle e restammo lì, fermi, a scaldarci. Dormivamo insieme, pisciavamo e cagavamo l'uno davanti all'altro, ci sforzavamo di fare ginnastica insieme, ci sfidavamo in giochi di prontezza mentale, e insieme pazientavamo e sopportavamo.
Reeve aveva con sé un pezzo di corda e lo girava e rigirava, eseguendo i nodi che ci avevano insegnato al corso. Fu così che gli spiegai il significato del gordian knot o «nodo gordiano», mentre lui mi sventolava sotto il naso un minuscolo nodo piano. «Nodo gordiano, nodo piano. Un piano gordiano: quello che ci ha portati qui dentro, no? Tutta colpa di Gordon.» L'ennesimo spunto per una risata amara. E giocavamo a Tris, incidendo i cerchi e le croci con le unghie sulla parete polverosa della cella. Reeve mi mostrò una tattica che, nel peggiore dei casi, ti faceva finire alla pari. Dovevamo avere già giocato almeno trecento partite, vinte per due terzi da lui. Il trucco era semplice. «Piazzi il primo O nell'angolo in alto a sinistra e il secondo in posizione diagonale. Ti garantisco che è una mossa imbattibile.» «E se il tuo avversario ti precede e ci mette una X?» «Puoi sempre vincere puntando agli angoli.» Quel giorno mi sembrava particolarmente su di morale. Improvvisò persino un balletto su e giù per la cella, quindi si fermò e mi guardò con una specie di cipiglio. «Sei proprio il fratello che non ho mai avuto, John.» Mi afferrò una mano e, con un'unghia affilata, m'incise la pelle, facendo la stessa cosa su di sé. Poi congiungemmo le palme, mescolando il nostro sangue. «Fratelli di sangue», disse lui, sorridendo. Gli restituii il sorriso, ma sapevo che si era già attaccato troppo a me, che aveva sviluppato troppa dipendenza; se ci avessero separati di nuovo, da solo non ce l'avrebbe fatta. Poi s'inginocchiò davanti a me e mi strinse in un nuovo abbraccio. La sua agitazione cresceva. Ogni giorno faceva cinquanta flessioni, il che, considerata la nostra dieta, era piuttosto eccezionale. Canticchiava tutto il tempo tra sé. L'effetto positivo della mia compagnia cominciava a svanire. Stava andando di nuovo alla deriva. Perciò cominciai a raccontargli alcune storie. All'inizio gli parlai della mia infanzia, dei trucchi di mio padre; poi però passai a storie vere e proprie, riassumendogli le trame dei miei libri preferiti. Un giorno gli raccontai la storia edificante di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo. Lui sembrava letteralmente incantato, ragion per cui la tirai in lungo il più possibile, inventandomi pezzi, dialoghi e addirittura personaggi. Quando finii, mi disse: «Ti prego, raccontamela di nuo-
vo». E così feci. «Secondo te, era una fine inevitabile, Johnny?» Accoccolato sui talloni, Reeve rastrellava con le dita il pavimento della cella. Io ero sdraiato sul materasso. «Sì», risposi. «Credo di sì. Certamente è così che l'ha voluta l'autore. La fine è già lì prima ancora che il libro inizi davvero, capisci?» «Sì, è proprio la sensazione che ho avuto.» Fece una lunga pausa, quindi si schiarì la voce. «Tu come te lo immagini Dio? Mi piacerebbe veramente saperlo.» Così glielo dissi, e, mentre parlavo intrecciando le mie traballanti argomentazioni con piccoli racconti presi dalla Bibbia, lui si sdraiò e si mise a fissarmi con due occhi che somigliavano alle lune piene invernali. Il suo grado di concentrazione rasentava la follia. «Io non riesco a crederci», dichiarò infine, mentre io deglutivo per umettare la mia gola secca. «Mi piacerebbe, ma non ci riesco. Penso che Raskolnikov avrebbe fatto meglio a rilassarsi e a godersi la sua libertà. Avrebbe dovuto procurarsi una bella Browning e farli secchi tutti.» Riflettei sulle sue parole. Senza dubbio contenevano un fondo di giustizia, ma soltanto un fondo. Reeve era come un uomo intrappolato nel limbo, uno che credeva solo nella mancanza di fede, senza per questo mancare della fede necessaria a credere in qualcosa. Cosa sono tutte 'ste stronzate? Ssstt. E così, tra un gioco e una storia, mi appoggiò una mano sul collo. «John, noi siamo amici, vero? Voglio dire, amici amici, giusto? Perché io non ho mai avuto un amico amico.» Nonostante il freddo che regnava nella cella, il suo fiato era caldo. «Invece noi siamo amici. Insomma, io ti ho insegnato a vincere a Tris, giusto, Johnny?» I suoi occhi non avevano più nulla di umano: erano diventati quelli di un lupo. Benché avessi intuito l'approssimarsi di un simile epilogo, non c'era stato nulla che avrei potuto fare per lui. Non fino a quel momento. Di colpo, vidi ogni cosa con le pupille chiare e allucinate di chi ha visto tutto il vedibile, e anche qualcosa in più. Vidi Reeve sollevare il viso verso il mio e lentamente - tanto lentamente che tutto sembrava immobile - depositarmi un bacio ansimante sulla guancia, cercando al contempo di girarmi la faccia per trovare le mie labbra. E vidi me stesso cedere. No, no, quello non doveva accadere! Era una
cosa intollerabile. Non era quello l'affetto che c'eravamo scambiati per tutte quelle settimane, giusto? E se lo era, be', allora io ero stato un pazzo fin dall'inizio. Un pazzo. «Un bacio», mi disse. «Soltanto un bacio, John. Suvvia, perché no?» Vidi le lacrime nei suoi occhi, perché anche lui si rendeva conto che, nel giro di un istante, si era sgretolato tutto. Anche lui capiva che quella era la fine di qualcosa. Ma ciò non bastò a impedirgli di avvicinarsi a me, di venirmi alle spalle, la bestia a due schiene. (Shakespeare. Ancora lui.) E io, pur tremando, restai stranamente immobile. Sapevo che era una cosa al di fuori della mia comprensione, fuori del mio controllo. Così anch'io richiamai con forza le lacrime e cominciai a singhiozzare, il naso che mi colava. «Soltanto un bacio.» L'addestramento, tutti quei patimenti, tutte quelle pressioni solo per arrivare alla meta finale, a quel momento preciso. Alla fine era ancora l'amore a muovere ogni cosa. «John.» Ero pervaso da un senso di pietà per entrambi, per i nostri corpi puzzolenti, umiliati, nudi e inutili in quella cella. Mi sentivo così frustrato, percepivo solo le lacrime pungenti di un'indignazione senza tempo. Gordon, Gordon, Gordon. «John.» La porta della cella si spalancò come se non fosse mai stata chiusa a chiave. Sulla soglia, un uomo. Inglese, non straniero, un ufficiale alto in grado. Posò il suo sguardo disgustato sullo spettacolo che aveva davanti. Senza dubbio era rimasto in ascolto, aveva sentito - e forse anche visto - tutto. Puntò un dito verso di me. «Rebus», disse. «Lei è passato. Ora è dei nostri.» Lo guardai negli occhi. Cosa significava tutto quello? Lo sapevo benissimo, cosa significava. «Ha passato il test, Rebus. Mi segua. La rimetteremo in sesto. Ora è dei nostri. Nel frattempo, la prigionia del suo... amico... continua. Da questo momento in avanti ci darà una mano anche lei.» Reeve balzò in piedi. Era sempre dietro di me, vicinissimo. Sentivo il suo fiato alla base del collo. «Che vuol dire?» chiesi. Mi sentivo la bocca e lo stomaco completamente asciutti. Al cospetto di quell'ufficiale immacolato e impeccabile divenni dolorosamente consapevole della sporcizia che avevo addosso. D'altronde,
era colpa sua se mi trovavo in quelle condizioni. «È una trappola», dichiarai. «Può essere solo una trappola. Non risponderò alle vostre domande. Non vengo. Non mi avete cavato una sola informazione. Non sono crollato e adesso non potete abbandonarmi!» Mi ritrovai a gridare, in preda al delirio. Eppure sapevo che quell'uomo aveva detto la verità. L'ufficiale scosse la testa. «Posso comprendere la sua diffidenza, Rebus. E stato tenuto a lungo sotto pressione, sotto una pressione terrificante. Ma ce l'ha fatta, ha superato la prova. L'ha superata col massimo dei voti, su questo non c'è il minimo dubbio. È promosso, Rebus. Ora è dei nostri, e ci aiuterà a mettere in ginocchio il qui presente Reeve. Chiaro?» Scossi la testa. «No, è una trappola.» L'ufficiale sorrise con aria comprensiva. Di certo aveva avuto a che fare con centinaia d'individui nel mio stato. «Ascolti, non deve fare altro che seguirmi e chiariremo tutto.» Reeve saltò in avanti, portandosi al mio fianco. «No!» gridò. «Vi ha già detto che non verrà! Fuori dei coglioni!» Poi, rivolgendosi a me e posandomi una mano sulla spalla: «Non dargli retta, John. È una trappola, come dici tu. Questi bastardi non sanno fare altro». Era terrorizzato. I suoi occhi si muovevano rapidi, la bocca era socchiusa. Sentendo la sua mano sulla mia spalla, seppi di avere già deciso, e Gordon ne era altrettanto consapevole. «Credo che la decisione spetti al soldato Rebus, non trova?» intervenne l'ufficiale. E mi lanciò uno sguardo amichevole. Non avevo nessun bisogno di voltarmi, di guardare Reeve o la cella. Semplicemente continuavo a pensare: è una nuova fase del gioco, solo una nuova fase del gioco. E avevo deciso già da tempo. Loro non mi stavano mentendo, e io avevo voglia di uscire da quella cella. Era tutto preordinato. Non c'era nulla di arbitrario in quello che stava accadendo. Mi avevano avvertito fin dall'inizio. Mossi un passo in avanti. Gordon si attaccò ai resti slabbrati della mia camicia. «John», disse, un tono di urgenza nella voce. «Non mi abbandonare. Ti prego, John.» Ma io mi liberai della sua debole stretta e uscii. «No! No! No!» Le sue grida si levavano alte e disperate. «Non mi abbandonare, John! Tiratemi fuori di qui! Tiratemi fuori!» Poi si mise a urlare, e io fui sul punto di accasciarmi sul pavimento. Era l'urlo della follia. Dopo essere tornato presentabile ed essere stato visitato da un medico,
venni portato in quella che eufemisticamente chiamavano «sala debriefing». Era stata un'esperienza infernale, anzi lo era ancora, ma loro erano pronti a parlarne come di una banale esercitazione scolastica. Erano in quattro, tre capitani e uno psichiatra. Soltanto allora mi raccontarono tutto. Mi spiegarono che, all'interno del SAS, stavano costituendo un nuovo nucleo di punta, con compiti d'infiltrazione e destabilizzazione dei gruppi terroristici che, a partire dall'IRA, con la degenerazione della lotta nazionalista in guerra civile, cominciavano a porre seri problemi. Data la natura degli obiettivi, solo gli elementi migliori - i primi tra i primi sarebbero stati ammessi nel nucleo, e Reeve e io eravamo stati appunto giudicati i più validi del nostro scaglione. Per questo motivo c'erano state tese imboscate, eravamo stati fatti prigionieri e sottoposti a prove senza precedenti all'interno del corpo stesso. A quel punto, ormai nulla riusciva più a stupirmi. Pensai solo agli altri disgraziati in lizza per la stessa maledetta avventura. E tutto perché, nel caso un giorno ci fossimo trasformati in ostaggi veri, dovevamo essere in grado di non tradirci. Poi arrivarono a Gordon. «Nei confronti di Reeve nutriamo una certa ambivalenza.» A parlare era il tizio in camice bianco. «È un soldato eccellente: qualunque compito, lui lo esegue. Ma ha trascorsi di solitudine, è uno abituato a fare da solo... Per questo vi abbiamo messo insieme: per capire come avreste reagito nel condividere una cella, e soprattutto come avrebbe reagito Reeve nel momento in cui fosse stato privato del suo compagno.» Ma allora sapevano del bacio, sì o no? «Purtroppo temo che l'esito del test sarà negativo», proseguì il medico. «A quanto pare, ha sviluppato una forte dipendenza da lei, John, o sbaglio? Per converso, sappiamo bene quanto lei abbia conservato la sua autonomia da lui.» «E le grida provenienti dalle altre celle?» «Registrazioni su nastro.» Annuii, improvvisamente stanco e indifferente. «Anche quelle una fottuta prova?» «Naturalmente.» I quattro si scambiarono un breve sorriso. «Ma non deve più preoccuparsene, Rebus: la cosa che conta, per lei, è che ha superato l'esame.» Invece ero preoccupato, eccome. Cosa stavo facendo? Avevo rinunciato a un'amicizia in cambio di quel superficiale debriefing, all'affetto in cambio di quei sorrisi falsi, e l'urlo di Gordon mi risuonava ancora nelle orec-
chie. Vendetta, supplicava. Vendetta. Appoggiai le mani sulle ginocchia, mi piegai in avanti e cominciai a piangere. «Bastardi», dissi. «Razza di bastardi.» Se in quel momento avessi avuto una pistola, avrei passato da parte a parte i loro teschi sogghignanti. In un ospedale militare mi sottoposero a ulteriori visite, questa volta più approfondite. Nell'Ulster era veramente scoppiata la guerra civile, ma si trattava di un evento su cui non riuscivo a fissare l'attenzione: i miei occhi vedevano solo Gordon Reeve. Che ne era di lui? Ne stava uscendo distrutto? Mi sentivo tutta la responsabilità sulle spalle e ogni tanto cedevo al pianto. Mi diedero una scatola di fazzoletti di carta. Ecco come risolvevano il problema, loro. Poi le crisi di pianto si fecero continue, a volte incontrollabili. Il peso della responsabilità, il senso di colpa, erano enormi. Decisi di lasciare l'esercito. Pretesi che accettassero le mie dimissioni. Con riluttanza, le accettarono. In fondo non ero che una cavia. Andai in un piccolo villaggio di pescatori nel Fife, dove, facendo lunghe camminate sulla spiaggia sassosa, cercai di riprendermi da quello stato di esaurimento, di cancellare ogni ricordo dalla mia mente, di chiudere l'episodio più doloroso e lacerante della mia vita in qualche cassetto inaccessibile e di buttare via la chiave, imparando a dimenticare. E ci riuscii. Non solo. Furono anche generosi con me. Quando decisi di entrare in polizia, loro mi riconobbero un risarcimento in denaro e per aiutarmi tirarono parecchi fili dietro le quinte. Oh, no, non potevo certo lamentarmi di come si erano comportati con me... Però non mi era assolutamente permesso di sapere che fine avesse fatto il mio amico, e in futuro non avrei più avuto contatti con nessuno di loro. Diciamo che ero morto. Il mio nome era sparito per sempre da tutti i loro archivi. Ero un fallito. E lo sono ancora. Un matrimonio distrutto. Una figlia rapita. Però almeno adesso le cose hanno senso. Almeno ora so che Gordon è vivo, che ce l'ha fatta, eccome, che la mia piccola è nelle sue mani e che la ucciderà. E che ucciderà anche me, se solo gli si presenterà l'occasione. E che per riaverla io dovrò uccidere lui. Almeno adesso so che lo farei. Che il Signore mi aiuti, perché adesso sì che lo farei.
PARTE QUINTA CERCHI E CROCI 23 Quando John Rebus si svegliò da quello che gli era parso un sonno particolarmente profondo e disturbato da sogni, scoprì di non essere affatto nel suo letto. Vide Michael sopra di lui, un cauto sorriso dipinto in faccia, e Gill che camminava avanti e indietro per la stanza, ricacciando indietro le lacrime. «Ehi, cos'è successo?» chiese subito. «Niente», gli rispose Michael. Soltanto allora ricordò di essere stato ipnotizzato. «Niente?» sbottò Gill. «E lei lo chiama niente?» «John... Non mi ero mai reso conto di come ti sentissi nei confronti miei e di papà», riprese Michael. «Se ti abbiamo fatto soffrire, mi dispiace.» Appoggiò la mano sulla spalla del fratello, un fratello che non aveva mai conosciuto davvero. Gordon, Gordon Reeve. E a te, cos'è successo? Sei sporco e distrutto, mi volteggi intorno come pulviscolo in una strada spazzata dal vento. Come un fratello. Hai preso mia figlia. Dove siete? «Oh, Gesù.» Rebus chinò il capo e strizzò forte gli occhi. La mano di Gill gli accarezzò i capelli. Fuori albeggiava e gli uccelli, infaticabili, erano già al lavoro. Rebus provò un moto di gratitudine verso quel canto che lo richiamava alla realtà e gli ricordava che là fuori esistevano anche esseri felici. Amanti che si svegliavano l'uno nelle braccia dell'altra, un uomo che improvvisamente si accorgeva che era una giornata di festa, una vecchia che ringraziava il Signore per averle concesso un altro giorno di vita. «Un'autentica notte di tenebre per l'anima», disse, mettendosi a tremare. «Ehi, qui dentro si gela. La fiamma pilota dev'essersi di nuovo spenta.» Gill si soffiò il naso e incrociò le braccia. «No, John, non fa così freddo qua dentro. Ascolta...» disse quindi in tono lento, deferente, «ci servo la descrizione fisica accurata di quest'uomo. Lo so che sono passati quindici anni, ma è meglio di niente. Poi dovremo verificare cos'ha fatto dopo il tuo abb... dopo che lo lasciasti in cella.» «Tutte informazioni archiviate, sono sicuro.»
«E dobbiamo informare il capo degli sviluppi», proseguì imperterrita Gill, come se lui non avesse nemmeno aperto bocca. Guardava fisso davanti a sé. «Dobbiamo trovare quel pazzo.» Rebus aveva la sensazione che nella stanza regnasse una calma insolita, come se fosse morto qualcuno, mentre in realtà era stata semmai una sorta di rinascita, quella che si era dipanata, una rinascita se non altro del ricordo. Del suo ricordo di Gordon. Dell'uscita da quella cella infernale. Del suo voltafaccia... «Sei certo che Reeve sia il nostro uomo?» Michael riempì un bicchiere di whisky e glielo offrì, ma lui scosse la testa. «No, grazie, mi sento già abbastanza rintronato. Be', sì, direi che possiamo affermare con certezza che è lui. I messaggi, i cerchi e le croci: tutto torna, adesso. E tornava anche prima. Reeve penserà che devo essermi rimbecillito, dopo settimane di messaggi assolutamente chiari. E io che non capivo... Ho lasciato morire quelle bambine... solo perché non riuscivo a guardare in faccia la verità... la verità...» Gill si chinò dietro di lui e gli posò le mani sulle spalle. Lui si alzò di scatto, girandosi. Reeve. No, Gill. Gill. Scosse la testa in muto segno di scusa. Poi scoppiò a piangere. Lei guardò Michael, ma Michael aveva abbassato gli occhi. Allora strinse Rebus in un abbraccio al quale lui non si sarebbe mai più potuto sottrarre e gli sussurrò che era lei, che era lì al suo fianco, in carne e ossa: Gill, non un fantasma del passato. In che razza di situazione era andato a cacciarsi? si domandava intanto Michael. Non aveva mai visto il fratello piangere. Di nuovo il senso di colpa s'impossessò di lui. Oh, ma si sarebbe tirato fuori. Se ne sarebbe stato buono e avrebbe lasciato che il suo contatto si stancasse di cercarlo, che i suoi clienti andassero a scovare nuovi corrieri. Avrebbe chiuso quella faccenda, e non per John, ma per se stesso. Lo trattavamo come uno stronzo, continuava a pensare. Come uno stronzo. Il vecchio e io lo trattavamo come se fosse un intruso. Più tardi, davanti a una tazza di caffè, Rebus sembrò aver riacquistato la calma, ma Gill, assorta e preoccupata, non lo perdeva di vista un istante. «Di sicuro questo Reeve non ci sta più con la testa», dichiarò. «Può darsi», ribatté lui. «Ma l'unica cosa veramente certa è che sarà armato e pronto a tutto. Non dimentichiamo che abbiamo a che fare con un ex soldato di carriera, nonché uno del SAS. Con lui non avremo gioco fa-
cile.» «Anche tu lo sei stato, John.» «E quindi sono la persona giusta per piombargli addosso. È importante che il capo se ne renda conto, Gill. Da questo momento torno a occuparmi del caso.» Gill serrò le labbra. «Non so se lui te lo concederà.» «Be', allora che s'impicchi. Lo troverò comunque da solo.» «Ben detto, John. Ben detto», intervenne Michael. «Non dare retta a quello che dicono loro.» «Mickey...» mormorò Rebus. «Tu sei il miglior fratello che avrei mai potuto avere, sai? Ora però mettiamo qualcosa sotto i denti, perché sto morendo di fame.» «E io di stanchezza», rincarò Michael, tutto compiaciuto. «Ti spiace se mi sdraio un paio d'ore, prima di rimettermi al volante?» «Ma figurati. Vai pure in camera mia.» «Buonanotte, Michael», disse Gill. Lui uscì dalla stanza con un sorriso. Cerchi e croci. Cerchio o croce? Era così chiaro, così evidente. Reeve doveva averlo scambiato per un idiota, e in un certo senso aveva ragione. Quelle interminabili partite a Tris, tutti quei trucchi e quelle manovre, tutti quei discorsi sulla cristianità, sulla croce. Dio, che stupido era stato a credere che il passato fosse un guscio spaccato e inutile, un guscio da cui il suo spirito colava fuori goccia dopo goccia, perdendosi. Che stupido. «John, stai rovesciando il caffè.» Gill era tornata dalla cucina con un vassoio di fette di pane tostato e formaggio. Rebus si riprese in fretta. «Mangia. Ho parlato al telefono col quartier generale, ci aspettano tra due ore. Hanno già cominciato a scavare nel curriculum di Reeve. Non dovremmo metterci molto a trovarlo.» «Me lo auguro, Gill. Oh, Signore, me lo auguro davvero.» Si strinsero. Lei suggerì il divano. Si sdraiarono insieme, in un abbraccio affettuoso, mentre Rebus si chiedeva se quel viaggio nelle tenebre non fosse stato una specie di esorcismo capace di restituirgli la tranquillità a letto con una donna. Anche quello, si augurava. Di sicuro però non era né il luogo, né il momento adatto per cercare di scoprirlo. Gordon, amico mio, cosa ti ho fatto?
24 Stevens era un uomo paziente. I due agenti erano stati inamovibili: per il momento nessuno poteva vedere il sergente Rebus. Così era tornato al giornale, si era concentrato su un servizio per l'edizione del mattino e infine era tornato all'appartamento di Rebus. Lassù le finestre erano ancora illuminate, ma davanti al portone di casa si erano aggiunti altri due gorilla. Parcheggiò sul lato opposto della strada e si accese l'ennesima sigaretta. I conti tornavano a meraviglia. Le due piste diventavano una sola. Gli omicidi e i traffici di droga s'intrecciavano, e Rebus aveva tutta l'aria di essere la chiave del mistero. Di che cosa potevano parlare, a quell'ora infame, lui e il fratello? Di un piano per far fronte agli imprevisti, probabilmente. Dio, cos'avrebbe dato per essere una mosca sul muro del soggiorno! Qualunque cosa. Conosceva colleghi di Fleet Street che ricorrevano a tecniche di sorveglianza sofisticatissime - cimici, microfoni superamplificati, spie telefoniche - e ora anche lui si chiedeva se non valesse la pena d'investire un po' di denaro in quella direzione. Intanto formulava nuove ipotesi, ipotesi con centinaia di permutazioni. Se il racket della droga di Edimburgo era arrivato a rapire e uccidere per lanciare un avvertimento chiaro a qualche sfortunato bastardo, allora la situazione era veramente grigia e lui, Jim Stevens, avrebbe dovuto stare sempre più attento. Tuttavia, Podeen non ne sapeva niente. Forse una nuova gang aveva fatto la sua entrata in scena, cercando d'introdurre anche nuove regole. Il che apriva lo spazio per una guerra tra clan, in puro stile di Glasgow. No, ormai le cose non funzionavano più in quella maniera. E, d'altro canto, chi poteva dirlo con certezza? Stevens si teneva sveglio così, a colpi di teorie, prendendo appunti sul blocco. Aveva acceso la radio e ogni mezz'ora ascoltava distrattamente il notiziario. La nuova vittima dell'assassino di bambine di Edimburgo era la figlia di un poliziotto. Nel corso dell'ultimo rapimento c'era stato un morto, un uomo, strangolato nella casa della madre della bambina. Eccetera, eccetera. Stevens continuava a pensare, a speculare. Ciò che non era ancora stato reso noto, era che tutti gli omicidi avevano un legame con John Rebus. Ma la polizia non avrebbe rilasciato quell'informazione a nessuno, nemmeno a Jim Stevens. Alle sette e mezzo, con una piccola mancia, riuscì a convincere un giovane strillone ad andargli a comprare un po' di latte e un paio di panini in
un negozio lì vicino. Buttò giù i panini farinosi col latte ghiacciato e, nonostante il riscaldamento acceso al massimo, continuò a sentirsi alquanto intirizzito. Agognava una doccia calda, una bella sbarbata e qualche ora di sonno, non necessariamente in quell'ordine; ma era troppo vicino alla meta per mollare. Aveva la tenacia - qualcuno magari l'avrebbe definita fanatismo, follia - di tutti i bravi giornalisti. Nell'arco della notte aveva visto arrivare altri reporter, e tutti erano stati rispediti indietro. Uno o due lo avevano visto e raggiunto in macchina per scambiare due chiacchiere e tentare di carpirgli qualche informazione. Ogni volta aveva nascosto il blocco, ostentando disinteresse, dichiarando che ben presto sarebbe andato a casa anche lui. Bugie, tutte bugie. Adesso, finalmente, stavano uscendo di casa. Com'era ovvio c'erano già in agguato alcune telecamere e qualche microfono, ma niente di clamoroso, nessuna ressa, nessuno spintone: intanto era un padre sofferente, e poi era anche un poliziotto. Nessuno gli avrebbe dato fastidio. Stevens rimase a guardare mentre Gill e Rebus sparivano, inghiottiti da una Rover delle forze dell'ordine ferma col motore in folle. Cercò di studiare le loro facce. Rebus aveva l'aria stravolta - e c'era da aspettarselo -, ma dalla maschera di dolore affiorava un tratto più duro e cupo, forse per via della linea diritta e affilata della bocca. Quel fatto gli diede da pensare. Era come se John Rebus stesse partendo per andare a combattere. Accidenti. E poi c'era Gill Templer. Anche lei piuttosto provata, forse addirittura più dello stesso Rebus. Occhi arrossati... e anche qui qualcosa di strano, qualcosa di fuori posto. Qualunque reporter degno di tal nome se ne sarebbe accorto, se soltanto avesse saputo con precisione cosa stava cercando. Stevens si sentiva rodere dall'insoddisfazione. Doveva saperne di più, quella storia era come una droga, aveva bisogno di dosi sempre più forti. E fu anche sorpreso di riuscire ad ammettere a se stesso che, alla base di una simile dipendenza, non c'erano il mestiere o la passione, bensì la sua personale curiosità. Rebus lo incuriosiva, sì. E, naturalmente, Gill Templer lo interessava. E Michael Rebus... Michael Rebus non era uscito con loro. Il circo stava levando le tende. La Rover svoltò a destra e abbandonò la tranquilla Marchmont Street, ma i gorilla restarono al loro posto. Nuovi gorilla. Stevens si accese un'altra sigaretta. Forse doveva restare anche lui, vedere cosa succedeva. Tornò alla macchina e la chiuse. Quindi, sgranchendosi le gambe intorno all'isolato, mise a punto un nuovo piano.
«Chiedo scusa, signore, lei abita qui?» «Certo che abito qui! Che storia è mai questa? Voglio andarmene a letto.» «Forse ne ha bevuto uno di troppo?» Il tizio dagli occhi stanchi e arrossati sventolò tre sacchetti di carta marrone sotto il naso degli agenti. Contenevano sei panini ciascuno. «Sono fornaio, faccio i turni. E adesso, se permettete...» «Il suo nome, prego?» Mentre superava il gorilla sul portone, Stevens fece in tempo a leggere alcuni nomi sul citofono. «Laidlaw», disse. «Jim Laidlaw.» Il poliziotto controllò su una lista che aveva in mano. «Bene, signore. Ci scusiamo per l'inconveniente.» «Ma che diavolo succede, si può sapere?» «Lo saprà presto. Buonanotte, signore.» Gli restava ancora un ostacolo da superare e Stevens sapeva che, per quanto scaltro, se il portone fosse stato chiuso, sarebbe stato chiuso e basta, e il suo piano miseramente fallito. Diede una spinta piuttosto energica e sentì la pesante porta cedere. Non era chiusa. Il suo santo protettore aveva un occhio di riguardo per lui, quel giorno. Nell'atrio del palazzo si sbarazzò dei panini ed escogitò un nuovo stratagemma. Salì le due rampe di scale fino all'appartamento di Rebus. Il puzzo di piscio di gatto sembrava pervadere ogni cosa all'intorno. Davanti alla porta si fermò a riprendere fiato, in parte perché fuori esercizio, in parte perché si sentiva trepidante ed eccitato. Erano anni che non gli capitava un'avventura simile ed era in fibrillazione. In una giornata come quella, sarebbe stato capace di qualunque cosa. Premette con decisione sul campanello. Dopo un po', gli occhi gonfi e la mano davanti alla bocca, Michael Rebus venne ad aprire. Finalmente si trovavano a faccia a faccia. Stevens gli fece balenare davanti un tesserino identificativo, rilasciato in realtà da un club di boccette di Edimburgo. «Ispettore Stevens, dell'investigativa. Spiacente di svegliarla.» Fece sparire il tesserino. «Suo fratello ci aveva avvisati che probabilmente l'avremmo svegliata, ma ho pensato di venire lo stesso. Posso entrare? Solo qualche domanda. Non ci vorrà molto.»
I due agenti, i piedi insensibili nonostante le calze termiche e il fatto che fosse ormai quasi estate, saltellavano da una gamba all'altra, sperando in una tregua. Non si parlava d'altro che dell'ultimo rapimento e del fatto che fosse rimasto ucciso il figlio di un ispettore capo. Alle loro spalle il portone si aprì. «Ancora qui? Mia moglie mi aveva detto che c'erano dei piedipiatti, ma io non le credevo. Be', cos'è successo?» Era un vecchietto in pantofole e cappotto, sbarbato a metà e senza la dentiera inferiore. Sgusciò fuori del portone calcandosi un berretto sulla testa. «Nulla di grave, signore. Ben presto saprà ogni cosa.» «Oh, benone, allora. Vado a prendere latte e giornale. Di solito a colazione mangiamo pane tostato, ma qualche disgraziato ha mollato venti panini freschi nell'atrio. Se non li vuole lui, li vogliamo noi, giusto?» Ridacchiò, mostrando la gengiva inferiore rossa e rovinata. «Gradite qualcosa dal negozio?» Ma i due agenti si stavano fissando, muti e allarmati. «Sali», disse finalmente uno al collega. Poi: «Il suo nome, signore?» Il vecchio batté i tacchi: un ex soldato. «Jock Laidlaw», disse. «Per servirvi.» Stevens stava sorseggiando con gratitudine la tazza di caffè nero, la prima sostanza calda che riusciva a mettere in pancia da tempo immemore. Sedeva in soggiorno, lo sguardo che vagava ovunque. «Sono lieto che mi abbia svegliato», stava dicendo Michael Rebus. «È ora che torni a casa.» È proprio ora, figlio di buona donna, è proprio ora. Rebus appariva più rilassato del previsto. Rilassato, riposato, un uomo con la coscienza tranquilla. La faccenda si faceva sempre più curiosa. «Come le ho detto, signor Rebus, solo qualche domanda.» Michael sedette, accavallò le gambe e sorbì il suo caffè. «Prego.» Stevens estrasse il blocco. «Per suo fratello è stato certo un brutto colpo.» «Infatti.» «Lei crede che si riprenderà?» «Sì.» Stevens finse di scrivere. «Ed è riuscito a chiudere occhio, stanotte? A riposare un po'?»
«Be', veramente nessuno di noi ha avuto modo di riposare molto. Non credo che John abbia mai dormito, no.» La fronte di Michael Rebus cominciava ad aggrottarsi. «Ma questo che c'entra, scusi?» «Routine, signor Rebus, semplice routine. Lei capisce, se vogliamo risolvere questo caso ci servono tutti i particolari, anche i più insignificanti.» «Ma il caso è già risolto, no?» A Stevens balzò il cuore in gola. «Ah, sì?» si sentì dire in tono indifferente. «Ma come, non lo sa?» «Certo, certo, ma ci occorrono tutti i particolari, gliel'ho già detto.» «Sì, me l'ha già detto. Senta, le spiace se ridò un'occhiata al suo tesserino? Giusto per essere sicuro.» All'improvviso, un rumore di chiave che grattava nella porta. Oh, Cristo, pensò Stevens, sono già di ritorno. «Ascoltami bene», sbottò allora a denti stretti, «sappiamo tutto del tuo coinvolgimento nel racket della droga. O ci dici chi c'è dietro, o sarai tu a finire in galera per il resto dei tuoi giorni!» Il volto di Michael assunse una sfumatura azzurrina, quindi grigiastra. La bocca parve sul punto di aprirsi per dire qualcosa: per dire quel qualcosa che Stevens aveva sperato di sentirsi confessare. Ma proprio in quel momento uno dei gorilla fece irruzione nella stanza, sollevandolo di peso dalla poltrona. «Non ho ancora finito il mio caffè!» protestò lui. «Sei fortunato se non ti spezziamo l'osso del collo, amico», fu la risposta dell'altro. Anche Michael Rebus si alzò, ma non riuscì a spiccicare parola. «Un nome!» urlò Stevens. «Mi basta un nome! Se non collabori, finirai sulle prime pagine dei giornali! Un nome!» Continuò a gridare fino in fondo alle scale, fino all'ultimo gradino. «E va bene, me ne vado», disse a quel punto, svincolandosi dalla pesante stretta al braccio. «Me ne vado. Eravate distratti, eh, ragazzi? Stavolta terrò la bocca chiusa, ma per la prossima state in campana, intesi?» «Levati dai piedi», gli intimò uno dei gorilla. E Stevens si levò. Scivolò in macchina, più frustrato e curioso che mai. Dio mio, c'era andato così vicino! Cosa aveva voluto dire Michael Rebus? Cosa significava che il caso era risolto? Sul serio lo era? Allora voleva arrivare per primo, voleva conoscere tutti i dettagli. Non era abituato a farsi battere sul tempo, in genere era lui a dettare le regole del gioco. No, un'u-
scita del genere non era nel suo stile e non gli piaceva affatto. Dio, che emozione! Insomma, se il caso era risolto, allora il tempo stringeva. E se non era riuscito a ottenere quel che voleva da un fratello, l'avrebbe ottenuto dall'altro. Credeva di sapere dov'era John Rebus. Quel giorno il suo intuito volava alto. Si sentiva ispirato. 25 «Be', John, la cosa mi sembra assolutamente fantascientifica, ma non vorrei escludere niente a priori. Di certo è la pista più solida che abbiamo, per quanto mi riesca difficile pensare a un odio capace di spingere un uomo a uccidere quattro ragazzine innocenti solo per fornirle gli indizi sull'ultima vittima.» L'investigatore capo Wallace guardò prima Rebus e poi Gill Templer, quindi ancora Rebus. Alla sinistra di quest'ultimo sedeva Anderson. Le mani di Wallace giacevano sulla scrivania come due pesci morti; davanti a lui, una penna. La stanza era spaziosa e ordinata, una palese oasi di sicurezza. Lì i problemi trovavano sempre una soluzione e le decisioni prese erano sempre quelle giuste. «Il punto adesso è come trovarlo. Se rendiamo pubblica la notizia, rischiamo di spaventarlo e di mettere in serio pericolo la vita di sua figlia, John. D'altro canto, un appello alla cittadinanza potrebbe rivelarsi la via più rapida per localizzarlo.» «Non ci pensi nemmeno!» Nella tranquillità della stanza, Gill Templer era sul punto di esplodere, ma Wallace la zittì con un cenno della mano. «Sto solo facendo alcune ipotesi ad alta voce, ispettrice Templer, niente di più. Sto lanciando sassi in uno stagno.» Anderson sedeva a propria volta come un cadavere, gli occhi fissi a terra. Benché ufficialmente in licenza per lutto, aveva insistito per continuare a seguire le indagini e l'investigatore capo Wallace aveva acconsentito. «Inutile dire, John, che deve assolutamente abbandonare il caso», aveva ripreso il superiore. Rebus si alzò. «Si sieda, per favore.» Wallace aveva occhi onesti e severi, gli occhi di un vero poliziotto, di uno della vecchia scuola. Rebus obbedì. «Ora, che lei mi creda o no, posso ben immaginare come si sente, ma la posta in gioco è troppo alta. Troppo alta per tutti. Lei ormai è troppo coinvolto sul piano
personale per poter contribuire in maniera efficace alle indagini, senza contare che l'opinione pubblica ci accuserebbe di usare tattiche da vigilantes. Spero se ne renda conto, John.» «L'unica cosa di cui mi rendo conto è che, senza di me, Reeve non si fermerà davanti a nulla. La sua vera preda sono io.» «Proprio così. E noi dovremmo essere tanto stupidi da servirgliela su un piatto d'argento? Faremo tutto ciò che è nelle nostre possibilità. Si fidi, sergente.» «L'esercito non vi rilascerà nessuna informazione, questo lo sapete.» «Li costringeremo.» Wallace prese a giocherellare con la penna, come se l'avesse sempre tenuta lì per quello scopo. «In ultima analisi, il loro capo è anche il nostro. Vedrà che li costringeranno a parlare.» Rebus scosse la testa. «No, quelli sono un mondo a sé, per loro valgono leggi diverse. Il SAS, poi, lo si può chiamare a malapena esercito: se loro non vogliono parlare, non scuciranno una virgola.» La mano di Rebus calò pesantemente sulla scrivania. «Neppure una fottutissima virgola.» «John...» Gill gli diede una stretta affettuosa su una spalla, chiedendogli in silenzio di calmarsi. Lei stessa sembrava una furia, ma sapeva quand'era meglio tacere e lasciare alla semplice presenza fisica il compito di trasmettere tutta la rabbia e la disapprovazione che provava. Per Rebus, invece, a contare erano i fatti, e ormai sentiva di essere rimasto fin troppo a lungo seduto in panchina. Si alzò dalla sedia come una massa di energia pura, senza nulla di umano, e in silenzio abbandonò la stanza. L'investigatore capo guardò Gill Templer. «È sollevato dal caso, Gill, e occorre farglielo capire. Credo che tra voi esista una certa intesa», continuò, aprendo e chiudendo un cassetto. «Ai miei tempi era così che si diceva, almeno. Forse potrebbe aiutarlo a comprendere meglio la posizione in cui si trova. Prenderemo quest'uomo, ma non con Rebus che ci balla intorno in cerca di vendetta.» Wallace lanciò un'occhiata a Anderson, che lo guardava con distacco. «Non vogliamo muoverci come vigilantes», ripeté. «Non a Edimburgo. Cosa direbbero i turisti?» Il suo viso fu illuminato da un freddo sorriso. Un'altra occhiata a Anderson, poi a Gill, quindi si sollevò dalla poltrona. «Questa faccenda sta diventando...» «Una guerra intestina?» suggerì Gill. «Volevo dire una cosa incestuosa. L'ispettore capo Anderson, suo figlio e la moglie di Rebus, lei stessa e Rebus, Rebus e questo Reeve, Reeve e la
figlia di Rebus. Spero che certi particolari non arrivino alle orecchie della stampa. Lei è responsabile della riservatezza: avrà mano libera nel punire chi la violerà. Sono stato chiaro?» Gill Templer annuì, sopprimendo un repentino sbadiglio. «Bene.» Wallace annuì a propria volta in direzione di Anderson. «E ora facciamo in modo che l'ispettore capo Anderson torni a casa senza problemi.» Sul sedile posteriore della macchina, William Anderson consultava il suo elenco mentale di amici e informatori. Conosceva un paio di persone che potevano sapere qualcosa del SAS. Un episodio come quello che aveva visti coinvolti Rebus e Reeve non poteva essere passato completamente sotto silenzio, benché potessero averne cancellato ogni traccia sulla carta. In un modo o nell'altro i soldati dovevano averne saputo qualcosa. I tamtam interni esistevano ovunque e, a farli funzionare, erano spesso le persone più insospettabili. Forse gli sarebbe bastato torcere un paio di braccia e allungare qualche bustarella, ma alla fine avrebbe trovato quel bastardo, fosse stata anche l'ultima cosa che faceva al mondo. O sarebbe stato lì quando Rebus lo avesse trovato. Rebus lasciò il quartier generale da una porta posteriore, proprio come Stevens si era augurato. Immediatamente prese a seguirlo, mentre il poliziotto, l'aria sconvolta, si allontanava, guardingo. Che diavolo stava succedendo ancora? Be', non importava. Se riusciva a stargli alle calcagna, prima o poi avrebbe saputo tutto, e certo la storia era promettente. Stevens continuava a lanciarsi occhiate alle spalle, ma Rebus non sembrava essere sorvegliato. In realtà, gli pareva strano che gli permettessero di andarsene a zonzo come niente fosse, dato che non c'era modo di sapere quali reazioni avrebbe potuto avere un padre cui avevano rapito la figlia. Ormai riponeva tutte le speranze nel gran finale: che Rebus lo portasse dritto dritto dai pezzi grossi dietro il nuovo giro della droga. Se con un fratello non aveva funzionato, avrebbe funzionato con l'altro. Come un fratello per me, e io per lui. Cos'era successo? In realtà sapeva bene qual era il vero problema: era il metodo. L'isolamento, il distacco e la ricomposizione della disputa. Ma la ricomposizione era stata un discreto fallimento, giusto? Ciascuno a modo proprio, ma erano entrambi uomini distrutti. La consapevolezza di quel fatto non sarebbe comunque bastata a
impedirgli di mozzare la testa a Reeve. Oh, no, nulla avrebbe potuto fermarlo, adesso. Peccato che dovesse ancora trovare quel figlio di puttana, e che non avesse la più pallida idea del luogo da cui partire. Sentiva la città serrarglisi intorno con tutta la pesantezza della sua storia, e annichilirlo. Dissenso, razionalismo, illuminismo: Edimburgo si era specializzata in tutti e tre i campi, e adesso anche lui avrebbe avuto bisogno di attingervi. Doveva lavorare da solo, rapidamente ma metodicamente, ingegnosamente, sfruttando ogni attrezzo e strumento a sua disposizione. Soprattutto, doveva seguire il suo istinto. In capo a cinque minuti sapeva già di essere seguito e sentì un brivido lungo la schiena. Sì, perché non era il classico pedinamento da poliziotto... Altrimenti non sarebbe stato così facile da notare. Che fosse...? Possibile che si trovasse già tanto vicino...? A una fermata si bloccò e si girò di colpo, come per controllare se stava arrivando l'autobus. Vide l'uomo eclissarsi in un androne. Ma non era Gordon Reeve. Era solo quel maledetto giornalista. Rebus aspettò che il cuore rallentasse la sua corsa, ma nelle vene gli pulsava già l'adrenalina e si sarebbe messo a correre anche lui, lungo quella strada lunga e diritta, si sarebbe messo a correre a perdifiato. Tuttavia, in quel preciso momento, l'autobus sbucò davvero da dietro l'angolo, e lui lo prese. Dal finestrino posteriore vide il giornalista balzare fuori del portone e fare disperatamente segno a un taxi di fermarsi. Rebus non aveva altro tempo da dedicargli. Doveva pensare, pensare in quale angolo del mondo potesse nascondersi Reeve. Ed era tormentato da un'idea: l'idea che alla fine fosse proprio Reeve a trovare lui. In tal caso, non avrebbe avuto bisogno di dargli la caccia. Ma purtroppo era anche la possibilità che lo spaventava di più. Gill Templer non riusciva a trovarlo. John Rebus si era dileguato come un'ombra. Fece telefonate, andò di stanza in stanza, chiese e prese tutte le iniziative che si addicevano a un buon poliziotto, ma si scontrò unicamente con un dato di fatto: quell'uomo non era soltanto un ottimo poliziotto, ma era anche stato uno dei soldati di punta del SAS. Sarebbe stato capace di nascondersi sotto le sue décolletée sotto la sua scrivania, dentro i suoi stessi vestiti, e lei non lo avrebbe trovato. Insomma, aveva deciso di far perdere le proprie tracce. E aveva deciso in quel modo, pensò Gill, perché era entrato in azione,
perché si stava già muovendo, rapido e metodico, per le strade e i bar della città, perché era già partito in cerca della sua preda, consapevole che, non appena trovata, la preda si sarebbe trasformata ancora una volta in cacciatore. Tuttavia non si diede per vinta e continuò nei suoi tentativi, rabbrividendo al pensiero del passato tragico e orrendo che il suo amante aveva alle spalle, e della mentalità di coloro che consideravano necessarie certe pratiche. Povero John. Cosa avrebbe fatto lei, al suo posto? Sarebbe uscita dalla cella e avrebbe continuato a camminare, proprio come lui. E proprio come lui sarebbe stata perseguitata dal senso di colpa, avrebbe cercato di dimenticare ogni cosa e sarebbe rimasta invisibilmente segnata per la vita. Perché gli uomini che incontrava dovevano essere dei poveri disgraziati nervosi, contorti e complicati? Era capace di attirare soltanto gemme ancora grezze? Avrebbe quasi potuto farci sopra una risata, non fosse stato che quella volta c'era di mezzo anche Samantha e che, per quanto la riguardava, non c'era proprio niente da ridere. Da che parte si comincia a cercare un ago in un pagliaio? Le tornarono in mente le parole dell'investigatore capo Wallace: il loro capo è anche il nostro. Una verità che era meglio affrontare in tutta la sua complessità. Perché, se il capo era lo stesso, ora che quella vecchia e terribile storia era tornata a galla, forse avrebbe cercato d'insabbiarla di nuovo. Se i particolari fossero arrivati sui giornali, all'interno dello Special Air Service si sarebbe scatenato il finimondo a ogni livello. Forse avrebbero accettato di collaborare per mettere a tacere la cosa. O forse gli sarebbe bastato mettere a tacere Rebus. Dio mio, e in quel caso cosa avrebbero fatto? Mettere a tacere Rebus significava automaticamente mettere a tacere Anderson, e anche lei. Significava usare il potere del denaro o pensare a una soluzione più drastica e definitiva. Doveva stare attenta, molto attenta. Da quel momento in avanti, ogni passo falso sarebbe potuto costarle il congedo forzato, e questo non lo voleva. Per fare giustizia occorreva anzitutto sapere cos'era la giustizia, e un insabbiamento di certo non lo era. Il grande capo, chiunque o qualunque cosa fosse, non poteva passarla ancora liscia. La verità doveva trionfare, oppure quella era tutta un'impostura, una farsa, e impostori erano coloro che vi recitavano. E i suoi sentimenti nei confronti di John Rebus, attore protagonista al centro del palcoscenico della vergogna? Non sapeva nemmeno più cosa pensarne. Per quanto assurdo potesse sembrare, era ancora rosa dal dubbio che, dietro tutta quella storia, potesse esserci proprio lui, John Rebus: nessun Reeve, nessuna lettera anonima, bensì una gelosia così forte da fargli
desiderare di uccidere l'amante della ex moglie, mentre teneva nascosta la figlia da qualche parte, in qualche luogo così simile alla vecchia cella. Un'ipotesi addirittura impensabile. E proprio per quello, visto il modo in cui erano andate le cose fino ad allora, Gill Templer ci pensava e ripensava serissimamente. Ci pensava e la rifiutava, la rifiutava per il semplice fatto che lei e John Rebus avevano fatto l'amore, che una volta lui le aveva aperto la propria anima, le aveva afferrato la mano sotto un lenzuolo d'ospedale. Un uomo con un fardello simile da nascondere si sarebbe forse compromesso con una poliziotta? No, troppo azzardato, assolutamente troppo azzardato. Dunque, proprio perché azzardata, era una possibilità come tutte le altre. Cominciavano a pulsarle le tempie. Dove accidenti era finito John? E se Reeve lo trovava prima che lo trovasse lui? Se John Rebus era un faro ambulante per il suo nemico, non era stata una follia allontanarsi così, da solo, per andarsene chissà dove? Ma certo. Una follia e un'idiozia. Era stata un'idiozia lasciarlo uscire da quella stanza, da quel palazzo. Lasciarlo svanire come un sussurro nell'aria. Merda! Per l'ennesima volta sollevò la cornetta e compose il numero di casa sua. 26 John Rebus si spostava nella giungla della città, quella giungla che i turisti non arrivavano mai a vedere, impegnati com'erano a fotografare gli antichi splendori, splendori ormai passati, ma innegabili come ombre. La giungla si affollava invece intorno a loro, inesorabile ma invisibile, una vera forza della natura, la forza della dissipazione e della distruzione. Edimburgo è un posto facile per i pattugliamenti, sostenevano i suoi colleghi della costa ovest. Prova Partick per una notte, e poi me lo vieni a raccontare. Ma Rebus la sapeva più lunga. Sapeva che Edimburgo era tutta apparenza, cosa che rendeva il crimine meno visibile, ma non per quello meno innegabile e clamoroso. Edimburgo era una città schizofrenica, non a caso la culla di Jekyll e Hyde, la città di Deacon Brodie, delle signore in pelliccia ma senza mutande (come dicevano sempre all'ovest). Ma era anche una città piccola, e ciò tornava effettivamente a suo vantaggio. Spinse la sua caccia nei bar più malfamati, nei quartieri popolari dove eroina e disoccupazione la facevano da padroni, sapendo che, in quell'anonimato, un uomo duro e stanco avrebbe potuto trovare riparo, sopravvivenza, tempo per ordire le sue trame. Stava cercando di mettersi nei panni
di Gordon Reeve. Panni stracciati più e più volte. Finalmente dovette così riconoscere di sentirsi lontano anni luce da quel fratello di sangue folle e assassino. Se un tempo lui gli aveva giratole spalle, quel giorno Reeve si rifiutava di ricomparirgli davanti. Forse gli avrebbe spedito un'altra lettera, un altro strafottente indizio. Oh, Sammy, Sammy, Sammy. Signore, Ti scongiuro, fa' che viva, fa' che viva. Gordon Reeve era sbucato, mostruoso e gigantesco, proprio dal mondo di John Rebus, e ora li spiava tutti dall'alto, gongolando, forte del suo nuovo potere. Per mettere a punto la sua trappola gli erano occorsi quindici anni... ma che trappola aveva allestito! Quindici anni, nel corso dei quali probabilmente aveva cambiato nome e aspetto, accettato un lavoro umile, rovistato a fondo nella vita di John Rebus. Da quanto tempo lo controllava? Da quanto tempo lo controllava e lo odiava e tramava? Se ripensava a tutte le volte in cui si era sentito venire la pelle d'oca senza un motivo apparente, in cui aveva ricevuto telefonate mute... Tutti piccoli incidenti che si dimenticano in fretta. E intanto Reeve sogghignava, là sopra, sopra la sua testa, piccolo demone custode del suo destino. In preda ai brividi, John Rebus entrò in un pub e ordinò un triplo whisky. «Qui serviamo dosi grandi, amico. Sicuro che vuoi un triplo?» «Certo.» Al diavolo, tanto che differenza faceva? Se Dio imperversava nei cieli, chinandosi di tanto in tanto per sfiorare le Sue creature, allora le Sue carezze erano davvero curiose. Rebus si lanciò un'occhiata intorno e vide solo disperazione. Vecchi seduti davanti a una pinta che fissavano con occhi vuoti la porta del locale. Si chiedevano forse cosa c'era là fuori? O erano solo spaventati all'idea che, qualunque cosa fosse, un giorno sarebbe entrata anche lì, avrebbe raggiunto i loro sguardi codardi, i loro angoli bui, con la forza irata di un mostro dell'Antico Testamento, del diavolo-ippopotamo di Giobbe, di un diluvio universale? Rebus non riusciva a leggere nulla nei loro occhi, come loro non potevano leggere nei suoi. Quella capacità di non lasciarsi coinvolgere dalla sofferenza altrui era ciò che consentiva alla massa intera dell'umanità di andare avanti, concentrandosi sul proprio «io», schivando le suppliche dei mendicanti a mani tese. Dietro il suo sguardo, ora anche Rebus supplicava, supplicava il suo strano e incomprensibile Dio di lasciargli trovare Reeve, di dargli il modo di spiegarsi con quel pazzo. Ma Dio non rispondeva. Soltanto la TV. Soltanto la TV blaterava, ma non era che un banale gioco a premi. «Contro l'imperialismo e contro il razzismo.»
Una giovane ragazza con cappotto in finta pelle e piccoli occhiali tondi si fermò alle sue spalle. Rebus si voltò. In una mano stringeva un barattolo delle elemosine e nell'altra aveva una risma di giornali. «Contro l'imperialismo e il razzismo.» «Ho capito.» Sentiva già l'alcol agire sui suoi muscoli facciali, liberandoli dalla tensione. «Chi siete?» «Partito Rivoluzionario dei Lavoratori. L'unico modo per distruggere il sistema imperialista è che tutti i lavoratori si uniscano per combattere il razzismo. Il razzismo è la spina dorsale della repressione.» «Ah, sì? Non è che per caso stai mettendo insieme due cose assolutamente diverse, dolcezza?» La vide arruffare il pelo, pronta a lanciarsi in battaglia. Come tutti quelli come lei. «Le due cose sono interdipendenti. Il capitalismo è nato e continua a prosperare grazie al lavoro degli schiavi.» «Be', non mi pare che tu ti esprima come una schiava, cara. Da dove arriva quell'accento? Dalla magnifica Cheltenham forse?» «Mio padre era uno schiavo dell'ideologia capitalista. Non sapeva quel che faceva.» «Nel senso che ti ha mandato in scuole costose?» Pelo superarruffato. Rebus si accese una sigaretta e ne offrì una alla ragazza, che però scosse la testa. Un prodotto del capitalismo, immaginò: foglie di tabacco raccolte da schiavi in Sudamerica. Peccato, perché era graziosa. Diciotto, diciannove anni. Strane scarpette vittoriane, affusolate e appuntite, e lunga gonna nera, diritta. Nero, il colore del dissenso. In quel momento si sentiva il dissenso in persona. «Sei una studentessa?» «Già», rispose lei, cambiando posizione. Cominciava a rompersi. Ormai riconosceva al volo un compratore, e quello non lo era di certo. «Vai all'università qui?» «Sì.» «E cosa studi?» «Scienze politiche e inglese.» «Inglese? Per caso conosci un tizio chiamato Eiser? Dovrebbe essere un docente.» La ragazza fece segno di sì con la testa. «Un vecchio fascista», disse. «La sua teoria sulla lettura è il classico esempio di propaganda della destra per confondere il proletariato.» Rebus annuì. «Com'è il nome del vostro partito?»
«Partito Rivoluzionario dei Lavoratori.» «Però sei una studentessa, giusto? Non una lavoratrice, e nemmeno una proletaria.» La giovane era paonazza, gli occhi di brace. Se fosse scoppiata la rivoluzione, Rebus sarebbe stato il primo a finire al muro. Il fatto è che non aveva ancora nemmeno giocato il suo asso nella manica. «In poche parole sei un'impostora e contravvieni alla legge che regolamenta le attività in luogo pubblico, giusto? E questo barattolino da elemosine? Sei munita di regolare permesso per la raccolta di offerte?» Il contenitore in questione era vecchio, riciclato da chissà quale altro uso precedente, un semplice cilindro di latta rossa. «Per caso sei un poliziotto?» «E brava la mia fanciulla. Allora, ce l'hai questo permesso o no? In caso contrario, potrei vedermi costretto ad arrestarti.» «Vaffanculo, stronzo!» Apparentemente soddisfatta da quella battuta finale, la ragazza voltò le spalle a Rebus e si diresse alla porta. Ridacchiando, Rebus finì il suo whisky. Poveraccia. Prima o poi si sarebbe data una regolata. Ogni idealismo sarebbe svanito di fronte all'ipocrisia di quel gioco e ai lussi della vita postuniversitaria. Una volta laureata, avrebbe voluto il massimo per sé: un posto da dirigente a Londra, un bell'appartamento, una bella macchina, un bello stipendio, una bella cantina di vini. Davanti alla torta, l'acquolina sarebbe stata più forte dell'ideologia. Adesso però era troppo presto per capire: quella era la fase della reazione alle origini. In fondo, l'università non era altro che quello. Una volta usciti di casa, i ragazzi erano tutti convinti di poter cambiare il mondo. Anche per lui era stato così. Aveva pensato di poter tornare dall'esercito col petto coperto di medaglie e un fascio di attestati d'encomio sotto il braccio, cose che avrebbe mostrato a tutti. Invece era andata in ben altro modo. Ritrovata la calma, stava quasi per andarsene quando una voce lo chiamò da qualche sgabello di distanza. «Quella roba non ti cura mica, figliolo.» A offrirgli una simile perla di saggezza era una vecchia strega dalla bocca cariata. Rebus fissò la lingua flaccida che sbatacchiava nella nera caverna. «'Notte», disse al barista, pagando. L'uomo lo ringraziò, sorridendogli coi denti della gioventù. Rebus sentiva la televisione, il ritornello della cassa, brandelli di conversazioni animate tra anziani, ma, dietro tutto ciò, dietro quella cacofonia, c'era un altro suono, un'eco bassa e distinta, più reale di tutto il resto.
Era l'eco delle grida di Gordon Reeve. Tiratemi fuori di qui! Tiratemi fuori! Quella volta, però, non fu colto dalle vertigini, né dal panico né da un cieco istinto di fuga. Rimase fermo al centro di quella eco e lasciò che gli gridasse quello che voleva, che gli rovesciasse addosso ogni conto in sospeso. D'ora in poi, non sarebbe più fuggito dal suo ricordo. «L'alcol non ha mai curato niente, figliolo», riprese la sua strega personale. «Guardami. Una volta ero come tutti gli altri, ma poi mio marito è morto e io mi sono ritrovata a pezzi. Capisci, figliolo? L'alcol era l'unica cosa che mi aiutava, o così credevo. Invece è un traditore, gioca brutti scherzi. Alla fine tu passi le giornate seduto a bere, la vita va avanti e ti lascia indietro.» Aveva ragione. Come poteva permettersi di starsene appollaiato lì a macinare whisky e lacrime, quando la vita di sua figlia correva su un filo? Doveva essere matto, stava di nuovo perdendo il senso della realtà, e la realtà era l'unica àncora che possedeva. Certo, poteva ricominciare a pregare, ma la preghiera sembrava solo allontanarlo dai fatti nudi e crudi, e in quel preciso momento erano fatti quelli cui dava la caccia, non sogni. Il fatto che un pazzo scatenato uscito dal fondo dei suoi peggiori incubi si fosse intrufolato nel mondo reale e gli avesse rapito la figlia, per esempio. Sembrava una favola? Meglio così. Significava solo che c'era ampio spazio per il lieto fine. «Hai ragione, tesoro», rispose. Quindi, preparandosi ad andarsene, indicò il suo bicchiere vuoto. «Ne vuoi un altro?» Lei lo guardò con occhi cisposi e agitò il mento in una parodia di arrendevolezza. «Un altro per la signora», disse Rebus al barista denti-belli. Poi gli tese una manciata di monete. «Queste le conservi per lei.» E uscì. «Ho bisogno di parlare. Credo ne abbia bisogno anche lei.» Piazzato davanti alla porta del bar, Stevens si accese una sigaretta con enfasi alquanto melodrammatica, o almeno così parve a Rebus. Al bagliore dei lampioni la sua pelle appariva quasi gialla e così sottile da coprirgli a stento il cranio. «Allora? Parliamo?» Il reporter rimise l'accendino in tasca. Aveva i capelli unti e non si radeva da uno o due giorni, sembrava affamato e infreddolito. Ma, dentro di sé, si sentiva elettrizzato. «Complimenti per la giostrina, Mister Rebus. Posso chiamarla John?»
«Stia a sentire, Stevens, a che punto siamo lo sa. Per quanto mi riguarda, ho già abbastanza carne al fuoco perché non ci si metta anche lei.» Fece per scansare il giornalista, ma lui lo bloccò, afferrandolo per un braccio. «Eh, no», disse, «no che non lo so, a che punto siamo. Ho la netta sensazione di essere stato buttato fuori a metà spettacolo.» «In che senso?» «Nel senso che lei sa perfettamente chi c'è dietro a tutto questo, giusto? Ma certo che lo sa, e adesso lo sanno anche i suoi superiori. O forse no? Gli ha raccontato la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, John? Gli ha raccontato di Michael?» «Che c'entra Michael?» «Oh, suvvia.» Stevens mosse qualche passo stanco, guardando i casermoni che li circondavano. Alle loro spalle, il cielo del tardo pomeriggio. Si abbandonò a una risatina, poi rabbrividì con una strana specie di sussulto che Rebus ricordava di avere già notato alla festa. «Dove possiamo andare per stare un po' più tranquilli? Nel pub? O lì dentro c'è qualcuno che non devo vedere?» disse infine. «Sì è bevuto il cervello, Stevens. Dia retta a me, vada a casa, dorma un po', mangi, si faccia un bel bagno e soprattutto mi lasci in pace. Ci siamo capiti?» «Altrimenti cosa pensa di fare, eh? Di chiamare gli amichetti ben spallati di suo fratello perché mi diano una lezione? Mi ascolti, Rebus, il gioco è finito. Io so. Solo che non so tutto. Per lei sarebbe molto meglio avermi come amico, che come nemico. Non mi prenda per stupido. So che ha abbastanza buonsenso per fare la cosa giusta. Non mi abbandoni.» Non mi abbandonare. «In fondo, quelli hanno in mano sua figlia. Le occorre il mio aiuto, io ho amici ovunque, dobbiamo allearci nella lotta.» Confuso, Rebus scosse la testa. «Giuro che non ho la più pallida idea di cosa stia dicendo, Stevens. Davvero, perché non se ne va a casa?» Jim Stevens sospirò, scuotendo a propria volta malinconicamente la testa. Lanciò la sigaretta sul marciapiede e la spense con la scarpa, schizzando all'intorno tante piccole scintille. «Be', allora mi dispiace, John. Mi dispiace davvero. Con le prove a suo carico di cui ormai dispongo, Michael finirà dietro le sbarre per un bel po'.» «Prove? Prove di che?» «Ma del fatto che spaccia, no? Di che altro?»
Stevens non vide il pugno arrivare e, anche se lo avesse visto, non gli sarebbe servito a niente. Fu un colpo cattivo, che partì dal fianco di Rebus e, curvando verso l'alto, lo centrò al basso ventre. Il giornalista tossì uno sbuffo di fiato e cadde sulle ginocchia. «Bugiardo!» In quella posizione continuò a tossire e tossire, come al termine di una maratona. Cercava di respirare, le braccia incrociate sulla pancia. «Se lo dici tu, John. Però è la verità, mi dispiace.» Sollevò lo sguardo su Rebus. «Sul serio non sai niente? Niente di niente?» «Sarà meglio che tu disponga davvero di ottime prove, Stevens, o giuro che te la faccio pagare cara.» Stevens fu preso in contropiede. Era stato preso in contropiede fin dall'inizio. «Be', questo cambia ogni cosa», disse. «Cristo, ho bisogno di un goccio. Vieni con me? Credo sia davvero il momento di scambiare quattro chiacchiere. Non ti tratterrò a lungo, ma penso sia giusto che tu sappia.» E, col senno di poi, naturalmente Rebus si rese conto di avere sempre saputo, anche se in maniera del tutto inconscia. Quel giorno, il giorno dell'anniversario della morte di suo padre, quando si era infradiciato le ossa davanti alla tomba e poi era andato a trovare Mickey, in soggiorno aveva sentito chiaramente quell'odore speziato... Be', ora sapeva al di là di ogni dubbio di quale spezia si trattava. Ci aveva pensato anche al momento, ma poi si era distratto. Oh, Cristo santo! Di colpo sentì il mondo intero sprofondare nella palude della sua follia personale. Si augurò che il crollo definitivo non fosse lontano: non poteva reggere ancora per molto. Profumo di spezie, favole, Sammy, Sammy, Sammy. Difficile tenersi aggrappati alla realtà, quand'era la realtà stessa a sopraffarti. I paraventi servivano a difendersi, a proteggersi. Cedere, dimenticare, erano due paraventi. Ridere, un altro. «Offro io», disse infine, ritrovando la calma. Gill Templer comprese a fondo ciò che aveva sempre saputo: nella scelta delle sue vittime, l'assassino aveva sempre seguito un metodo, dunque aveva avuto accesso ai loro nomi prima di adescarle e rapirle. Il che significava che le quattro ragazzine dovevano a loro volta avere qualcosa in comune, l'elemento in base al quale Reeve era stato in condizione di sceglierle. Ma quale? Avevano già controllato a trecentosessanta gradi e le uniche cose in comune a tutte erano il gioco del netball, la musica pop e i libri.
Netball. Musica pop. Libri. Netball. Musica pop. Libri. Questo voleva dire controllare tutti gli allenatori di netball (ma erano donne, perciò via uno), i commessi di negozi di dischi, i DJ, i librai e i bibliotecari. Le biblioteche. Biblioteche. Rebus intratteneva Reeve raccontandogli storie e trame di libri. Samantha frequentava la principale biblioteca comunale, e lo stesso facevano le altre ragazze. Una delle vittime era stata vista dirigersi verso il Mound e la biblioteca proprio il giorno della sua scomparsa. Eppure lì era già andato a controllare Jack Morton. In effetti uno dei commessi della biblioteca aveva una Ford Escort azzurra. L'uomo era stato ascoltato, ma un interrogatorio era sufficiente? Voleva parlare con Morton, dopodiché avrebbe reinterrogato personalmente l'indiziato. Stava per mettersi a cercare il collega, quando il telefono squillò. «Ispettrice Templer», rispose nella cornetta beige. «La ragazza muore stasera», sibilò una voce all'altro capo del filo. Gill si rizzò di colpo sulla sedia, finendo quasi per terra. «Ascolti...» mormorò. «Se è uno scherzo...» «Chiudi la bocca, stronza. Non è uno scherzo e lo sai. Io sono quello vero. Senti qui.» Da qualche parte giunse un lamento soffocato, il singhiozzo di una bambina. Poi il sibilo tornò a farsi udire. «Augura a Rebus buona fortuna. Certo non può dire che non gli ho fornito indizi...» «Ascolti, Reeve, io...» Non aveva avuto intenzione di dirlo, di farglielo sapere, ma il gemito di Samantha l'aveva mandata nel panico. Sentì un altro verso, il rantolo strozzato e sinistro del folle che è stato scoperto. Un verso che le fece rizzare i capelli in testa e raggelò l'aria intorno a lei. Il grido della Morte in uno dei suoi mille travestimenti. Il grido di trionfo finale di un'anima persa. «Lo sai», gorgogliò, la voce un misto di gioia e di terrore. «Lo sai, lo sai, lo sai. Allora sei una donna acuta, oltre che con la voce sexy. Chissà, forse un giorno verrò a trovarti. E Rebus? È stata una bella scopata? Eh? Digli che ho la sua bambina, e che stasera muore. Hai capito bene? Stasera.» «Ascolta, io...» «No, no, no. Mi hai già sentito parlare abbastanza, signorina Templer. Quasi quanto basta per localizzarmi... A presto.» Clic. Quanto bastava per localizzarlo. Che stupida. Perché non ci aveva pen-
sato subito? Perché non ci aveva pensato in assoluto? Forse Wallace aveva ragione. Forse non era soltanto John a essere troppo coinvolto in quella storia. Si sentiva stanca, vecchia e logorata. Aveva la sensazione che il suo lavoro si fosse improvvisamente trasformato in un impossibile fardello, che tutti i criminali del mondo fossero invincibili. Le bruciavano gli occhi. Pensò di rimettersi gli occhiali, il suo paravento personale. Doveva trovare Rebus. O era meglio cercare prima Jack Morton? Occorreva informare John di quella telefonata. Avevano ancora un po' di tempo a disposizione. Un po', non molto. La prima risposta doveva essere quella giusta. Chi, allora: Rebus o Morton? Alla fine decise: John Rebus. Innervosito dalle rivelazioni di Stevens, Rebus si avviò verso casa. Doveva scoprire alcune cose. Mickey poteva aspettare. Nel corso di quel pomeriggio a piedi aveva fatto troppe mosse sbagliate. Adesso doveva rimettersi in contatto coi suoi vecchi datori di lavoro, con l'esercito. Doveva fargli capire che c'era in gioco una vita, a loro che tenevano la vita in così strana considerazione. Forse gli sarebbero occorse molte telefonate, quindi meglio prepararsi. Ma la prima che fece fu all'ospedale. Rhona stava bene. Era già un piccolo sollievo. Comunque non le avevano detto del rapimento di Sammy. Rebus deglutì a fatica. E della morte del suo compagno? Nemmeno. Ovviamente. Ordinò che le recapitassero dei fiori. Quando ormai si accingeva a comporre il primo di una lunga lista di numeri, il telefono si mise a suonare. Lo lasciò andare avanti per un po', ma chiunque lo stesse cercando non aveva l'aria di volersi dare per vinto. «Pronto?» «John! Dio sia lodato. Ti ho cercato dappertutto.» Era Gill. Dalla voce sembrava agitata, nervosa, ma anche ansiosa di comunicargli la propria solidarietà. Una voce ricca di sfumature che gli fece balzare il cuore in petto... o ciò che ne restava. «Che c'è, Gill? È successo qualcosa?» «Mi ha appena chiamato Reeve.» I resti del suo cuore rimbalzarono nuovamente tra le pareti della loro gabbia. «Dimmi tutto.» «Niente, ha chiamato e ha detto che lui ha Samantha.» «E..?» Stavolta fu Gill a deglutire a fatica. «E che la ucciderà stasera.» Dalla parte di Rebus vi fu una specie di pausa, una strana colonna sonora di mo-
vimenti lontani. «John? Sei ancora lì, John?» Rebus smise di pestare i pugni sullo sgabello imbottito vicino al telefono. «Sì, sono ancora qui. Sono ancora qui. Oh, Cristo. E non ha detto nient'altro?» «Senti, John, è meglio che non resti solo, davvero. Io...» «Non ha detto nient'altro?» Ora stava gridando, il respiro corto come quello di un maratoneta. «Be', ecco, io...» «Cosa?» «Mi sono lasciata sfuggire che sapevo chi era.» Rebus inspirò a labbra strette e si guardò le nocche delle dita. Era riuscito a ferirne una. Succhiò il sangue che usciva, lasciando vagare lo sguardo oltre la finestra. «E lui come ha reagito?» chiese alla fine. «Come un pazzo.» «Naturale. Gesù Santo, spero che adesso non venga a prendersela... Insomma, perché credi che abbia telefonato proprio a te?» Dopo essersi succhiato la nocca si concentrò sulle unghie, nere e sporche, e cominciò a rosicchiarle e a sputarle in giro per la stanza. «Be', sono la responsabile delle relazioni con la stampa. Potrebbe avermi vista in televisione o aver letto il mio nome sui giornali.» «O forse ci ha visto insieme. Forse sono giorni che mi tiene d'occhio.» Dalla finestra osservò un tizio vestito male che risaliva a passo strascicato la via, fermandosi per raccogliere un mozzicone dal marciapiede. Accidenti, anche lui moriva dalla voglia di una sigaretta. Si guardò intorno in cerca di un posacenere, preziosa fonte di mozziconi riutilizzabili. «A questo non avevo pensato.» «E perché avresti dovuto? Fino a... Cos'era, ieri? Mi sembra già una settimana... Fino a ieri non sapevamo neanche che questa storia aveva a che fare con me. Però, se ricordi, le sue prime lettere sono state recapitate a mano.» Accese quel che restava di una vecchia sigaretta, inspirando a fondo il fumo pungente. «Dio mio, mi è rimasto sempre vicinissimo e io non me ne sono mai accorto, non ho mai avuto un sentore... Bel sesto senso, per un poliziotto.» «A proposito di sesto senso, John, ho un'idea.» Gill era sollevata nel sentirlo più calmo. Anche lei si sentiva più tranquilla, quasi si stessero aiutando vicendevolmente a restare attaccati a una scialuppa di salvataggio sferzata da onde poderose. «E sarebbe?» Rebus si lasciò cadere in poltrona e si guardò intorno nella
stanza inospitale, caotica e polverosa. Vide il bicchiere di Michael, un vassoio pieno di croste di pane tostato, due pacchetti di sigarette vuoti e due tazze da caffè. Ben presto avrebbe venduto quella casa, e non importava se, per la fretta, ci avrebbe ricavato poco. Voleva togliersi di lì. Il prima possibile. «Le biblioteche», disse Gill, contemplando a propria volta la stanza in cui si trovava, i dossier e le montagne di carte, gli accumuli di lavoro di mesi e di anni, la lampada con l'eterno sottofondo di ronzio elettrico. «L'unica cosa che tutte le ragazze avevano in comune, Samantha compresa, è la frequentazione, per quanto irregolare, della biblioteca centrale. Forse Reeve ci lavorava, probabilmente è così che è riuscito a procurarsi i nomi che gli servivano per costruire il suo rompicapo.» «Be', è senz'altro una possibilità», commentò Rebus, d'un tratto interessato. Certo, sarebbe stata anche una bella coincidenza, no? Nessun modo migliore per occuparsi del vecchio nemico che cercarsi un lavoretto tranquillo per qualche mese o qualche anno, e nessun modo migliore per incastrare delle ragazzine che indossare le vesti del mite bibliotecario. Reeve si era camuffato bene, tanto bene da rendersi invisibile. «Il caso vuole», riprese Gill, «che il tuo amico Morton avesse già controllato la biblioteca e si fosse imbattuto in un personaggio sospetto, il proprietario di una Escort azzurra. Dopo averlo interrogato, però, l'ha lasciato andare, credendolo pulito.» «Sì, era successo più volte, anche con lo Squartatore dello Yorkshire. Direi che potremmo tornare a controllare. Come si chiamava, il tizio in questione?» «Non lo so. Ho già provato a rintracciare Morton, ma non lo becco da nessuna parte. Sono stata così in pena per te, John. Dov'eri finito?» «Tempo e fatica sprecati, ispettrice Templer. Perché non si occupa del vero ricercato? Trovi Jack. E scopra quel nome.» «Sì, signore.» «Se hai bisogno di me, per un po' sai dove trovarmi. Anch'io ho qualche telefonata da fare.» «Mi hanno detto che Rhona sta meglio...» Ma lui aveva già riagganciato. Gill sospirò e si passò le mani sul viso, provata dalla mancanza di sonno. Decise d'inviare qualcuno a casa di Rebus: meglio non lasciar suppurare la ferita, rischiando magari la setticemia. Intanto lei si sarebbe occupata di quel nome. Ma per scoprire il nome doveva prima trovare Jack Morton.
Rebus si preparò un caffè, valutò la possibilità di uscire a comprare il latte e alla fine decise di berlo scuro e amaro, del gusto e del colore dei suoi pensieri. Ripensò anche alla teoria di Gill. Reeve bibliotecario? Detto così, sembrava alquanto improbabile, se non impossibile, ma anche gli eventi di quell'ultimo periodo erano stati impensabili. Di fronte all'irrazionale, la razionalità diventava un nemico potente. Combattere il fuoco col fuoco. Accettare il fatto che Gordon Reeve potesse essersi trovato un impiego come bibliotecario, passo di per sé innocuo ma essenziale al suo progetto. Così, all'improvviso, per John Rebus e per Gill i pezzi sembravano incastrarsi alla perfezione. Per coloro che sanno leggere tra le piaghe del tempo. Per coloro che un tempo, tra le piaghe della sofferenza, si raccontavano pagine di libri. Signore, esiste forse qualcosa di casuale e arbitrario in questa vita? No, nulla. Dietro l'apparenza d'irrazionalità si celava il chiaro disegno della trama. Dietro il mondo visibile, un altro mondo. Reeve lavorava in biblioteca: Rebus ne era sicuro. Le cinque: gli restava appena il tempo di andarci prima che chiudesse. Ma Gordon sarebbe stato ancora lì oppure, adesso che aveva in mano la sua ultima vittima, si era già volatilizzato? No. Un'altra cosa di cui Rebus era intimamente sicuro era che Sammy non sarebbe stata l'ultima vittima di Reeve. Anzi non sarebbe stata una vittima e basta: al massimo, un semplice strumento. Perché la sua vera e unica vittima era lui, John Rebus, e per quel motivo Reeve doveva essere ancora nei dintorni, alla sua portata. Sotto sotto voleva essere scoperto e trovato, ma lentamente, come a guardie e ladri, e nel ruolo inverso. Rebus ripensò a quando ci giocava ai tempi della scuola. A volte il ladro, un maschio rincorso da una guardia femmina, o una femmina rincorsa da una guardia maschio, desiderava farsi prendere perché aveva una passioncella per l'inseguitore o l'inseguitrice. E così alla fine il gioco si trasformava in qualcosa di assolutamente diverso da ciò che sembrava. Ecco, così era la caccia di Reeve. Il topo e il gatto. Reeve era il topo, eccitato e pronto a mordere, e Rebus il gatto, innocuo come il latte, morbido come l'appagamento. Per Gordon non c'era stato appagamento, non per molti anni, non da quand'era stato tradito da chi chiamava fratello. Solo un bacio. Il topo era catturato. Il fratello che non ho mai avuto. Povero Gordon, in equilibrio sul tubo della fogna con le gambe sporche di piscio e gli amici che ridevano di lui.
E povero John, ignorato da suo padre e da suo fratello, da un fratello che si era macchiato di crimini e che un giorno avrebbe pagato per le sue colpe. E povera Sammy. Sammy: era a lei che doveva pensare adesso. Pensa a lei, John, soltanto a lei, e tutto finirà per il meglio. Ma anche se era un gioco serio, un gioco di vita e di morte, doveva tenere a mente che pur sempre di un gioco si trattava. Ora sapeva di avere Reeve in pugno, ma, una volta che lo avesse catturato, cosa sarebbe successo? I loro ruoli si sarebbero invertiti, e lui non conosceva ancora tutte le regole. C'era soltanto un modo per impararle: uno soltanto. Lasciò la tazza di caffè a raffreddarsi sul tavolino del soggiorno, accanto a tutti gli altri resti. In fondo, di amaro in bocca ne aveva già abbastanza. E là fuori, là, sotto la cortina grigio ferro della pioggia, una partita aspettava di essere conclusa. 27 Dal suo appartamento di Marchmont alla biblioteca centrale la distanza era quella di una piacevole passeggiata tra i luoghi più significativi del centro di Edimburgo. Attraversò una zona verde e rigogliosa chiamata The Meadows, e, sullo skyline davanti a sé, vide stagliarsi la sagoma grigia e imponente del Castello, una bandiera che sventolava sui bastioni nella pioggerella fine. Superò il Royal Infirmary, culla di scoperte e celebrità, parte dell'università cittadina, il cimitero di Greyfriars e la minuscola statua di Greyfriars Bobby. Per quanti anni quel cagnolino si era steso accanto alla tomba del suo padrone? Per quanti anni Gordon Reeve si era coricato, la sera, covando pensieri al vetriolo contro di lui? John Rebus rabbrividì. Sammy, Sammy, Sammy. Quanto avrebbe voluto conoscere meglio sua figlia! Quanto avrebbe desiderato dirle che era bella, e che la sua vita sarebbe stata colma d'amore. Signore, fa' che la trovi viva. Sul ponte George IV, che consentiva a turisti e normali pedoni di scavalcare l'area di Grassmarket, a distanza di sicurezza da barboni e derelitti, dai poveri dell'ultima ora, dai disperati senza un rifugio, Rebus rimuginò alcuni fatti. Tanto per cominciare, Reeve doveva essere armato, e forse irriconoscibile e travestito. Ricordò i discorsi di Sammy sui senzatetto che trascorrevano le loro giornate in biblioteca: poteva benissimo essere uno di loro. Si chiese come avrebbe reagito nel momento in cui si fosse trovato a faccia a faccia con lui. Cosa gli avrebbe detto? Ma tutte quelle domande e
ipotesi lo innervosivano, lo spaventavano quasi quanto sapere che il destino di Sammy nelle mani di Reeve sarebbe stato dolorosamente lungo. Ma lei era più importante dei ricordi: lei era il futuro. Per questo continuò a camminare alla volta della facciata gotica della biblioteca con un'espressione determinata, e non impaurita, sul volto. Fuori della biblioteca, un venditore di giornali avvolto in un cappotto come in un fazzoletto bagnato strillava i titoli delle ultime notizie, che quel giorno non riguardavano lo Strangolatore bensì qualche disastro marittimo. Nessuna notizia aveva lunga vita, ormai. Rebus evitò lo strillone, non senza averlo prima guardato bene in faccia. E mentre si accorgeva che, come al solito, dalle scarpe gli entrava acqua, spinse le porte girevoli in quercia del grande atrio. Al banco informazioni, una guardia di sicurezza sfogliava distrattamente un giornale. Non somigliava in nessun modo a Gordon Reeve. Rebus inspirò, cercando di controllare il tremore generale. «Stiamo per chiudere, signore», disse la guardia da dietro il giornale. «Certo, lo so.» La guardia non dovette gradire il suono della sua voce, dura e gelida come un'arma. «Mi chiamo Rebus. Sergente Rebus, dell'investigativa. Sto cercando un tizio di nome Reeve, dovrebbe lavorare qui. Sa dove posso trovarlo?» Voce gelida o no, Rebus si augurava di suonare almeno calmo, cosa che non si sentiva affatto. La guardia posò il giornale sulla sedia e si alzò. Studiò Rebus con aria diffidente. Benone, quello era un effetto sperato. «Posso vedere il suo distintivo?» Con gesti quasi impacciati, le dita delle mani per nulla disposte alla delicatezza, Rebus pescò il distintivo. La guardia lo esaminò con calma, quindi gli lanciò un'occhiata. «Ha detto Reeve?» Gli restituì il distintivo ed estrasse una lista di nomi pinzata a un reggifogli di plastica gialla. «Reeve, Reeve, Reeve, Reeve. No, non abbiamo nessun Reeve, qui.» «Ne è sicuro? Potrebbe anche non essere un bibliotecario. Guardi tra gli addetti alle pulizie, o tra gli altri collaboratori.» «Mi spiace, su questa lista ci sono tutti i nomi dei dipendenti, dal direttore fino all'ultimo dei portieri. Ecco, legga qui, questo sono io: Simpson. La lista è completa, se lavorasse qui ce lo troverebbe. Dev'essersi sbagliato.» Il personale della biblioteca cominciava ad andarsene e l'atrio riecheggiava di: «Buona serata!» e: «A domani». Se non si sbrigava, rischiava di
lasciarsi scappare Reeve. Ammesso e non concesso che lavorasse ancora lì. Il filo era così sottile, la speranza così tenue che Rebus sentì riaffiorare il panico. «Potrei vedere la lista?» Tese la mano, lo sguardo carico di autorità. La guardia esitò un istante, quindi gli consegnò la tavoletta coi fogli. Rebus passò ansiosamente in rassegna i nomi, cercando anagrammi, indizi, qualunque cosa. Non dovette sforzarsi molto. «Ian Knott», sussurrò. Ian Knott. Gordian knot, il nodo gordiano. E il nodo piano e il piano gordiano. Tutta colpa di Gordon. Chissà se in quel momento Reeve aveva già fiutato il suo odore nell'aria. Perché lui aveva fiutato l'odore di Gordon Reeve. A separarli solo pochi passi, forse una rampa di scale, ma non di più. «Dove lavora Ian Knott?» «Il signor Knott? Lavora part-time nella sezione per l'infanzia. L'uomo più gentile del mondo. Perché? Cos'ha fatto?» «In questo momento è in servizio?» «Credo di sì. Mi pare che venga un paio d'ore al giorno, prima della chiusura. Senta, ma cos'è questa storia?» «Sezione per l'infanzia? Al piano inferiore, giusto?» «Giusto.» Ormai la guardia era entrata in agitazione. Sapeva riconoscere le grane da lontano. «Mi dia il tempo di avvisarlo per tele...» Rebus si sporse sul banco, arrivando sotto il naso dell'uomo. «Lei non farà niente di niente, mi ha capito bene? Se lo avvisa, giuro che le ficco la cornetta su per il culo fino a tirargliela fuori della bocca. Siamo intesi?» La guardia cominciò ad annuire piano, ma Rebus si era già voltato e si stava precipitando giù per la scala luccicante. La biblioteca odorava di libri usati, di umido, di ottone lucidato. Per Rebus era l'odore dello scontro finale, un odore che non avrebbe dimenticato più. Mentre scendeva verso il cuore della biblioteca, si trasformò nell'odore di una doccia gelida nel cuore della notte, di un fucile strappato dalle mani del suo proprietario, di marce infinite e solitarie, di bagni comuni, di un incubo senza confini. Gli sembrava che persino i colori, i suoni, le sensazioni avessero un odore. Era un fenomeno conosciuto, con un nome preciso, ma in quel momento non gli veniva in mente quale. Contò i gradini della scala, cercando di calmarsi. Dodici, poi un angolo e una curva, quindi altri dodici. Si ritrovò così davanti a una porta a vetri con sopra una piccola decorazione: un orsacchiotto e una corda per saltare.
L'orsacchiotto stava ridendo. Rebus lo prese per un sorriso rivolto a lui. Non un sorriso gradevole, però: un sorriso irriverente. Avanti, accomodati, chiunque tu sia. Lanciò un'occhiata all'interno della sala. Non si vedeva anima viva. Adagio, senza fare rumore, spinse la porta. Immediatamente sentì qualcuno che stava risistemando libri sugli scaffali. Il suono proveniva da una parete divisoria alle spalle del banco dei prestiti. Rebus lo raggiunse in punta di piedi e abbassò la mano sulla campanella di chiamata. Da dietro la parete, canticchiando, spazzandosi polvere invisibile dalle mani, sbucò un uomo sorridente, invecchiato, ingrassato: Gordon Reeve. Somigliava un po' all'orsacchiotto sulla porta. Rebus si aggrappò al bordo del banco. Gordon Reeve smise di canticchiare non appena lo vide, ma il sorriso continuò a giocare sul suo volto facendolo apparire innocuo, normale, innocente. «Felice di rivederti, John», esordì. «E così alla fine mi hai trovato, eh, vecchio diavolo? Come stai?» Gli stava tendendo la mano, cordiale, ma Rebus sapeva che, se avesse abbandonato la presa del banco, si sarebbe accasciato sul pavimento. Adesso se lo ricordava bene, ricordava ogni particolare dei giorni trascorsi insieme. Ricordava i gesti del commilitone, le sue stoccate maligne, i suoi pensieri. Erano stati fratelli di sangue, avevano patito insieme, insieme avevano resistito e alla fine erano stati quasi capaci di leggersi nella mente. E fratelli di sangue sarebbero stati di nuovo. Rebus lo leggeva già negli occhi folli e cristallini del suo sorridente aguzzino. Sentì il mare invaderlo con le sue ondate, sentì un bruciore nelle orecchie. Dunque era quello. Era quello che Reeve si aspettava da lui. «Voglio Samantha», dichiarò. «La voglio viva e subito. Poi sistemeremo la cosa tra di noi. Dov'è, Gordon?» «Lo sai da quanto tempo nessuno mi chiama più così? Ormai sono Ian Knott da una vita, io stesso fatico a pensarmi come 'Gordon Reeve'.» Sorrise ancora, lanciando un'occhiata alle spalle di Rebus. «E la cavalleria, John, dove l'hai lasciata? Non dirmi che sei venuto qui da solo? E contro le procedure, mi pare.» Rebus non era così stupido da dirgli la verità. «Non temere, gli altri sono fuori. Io sono sceso per parlare, ma lassù ci sono tutti i miei colleghi. Sei finito, Gordon. E adesso dimmi dov'è.» Ma Gordon Reeve si limitò a scuotere la testa, ridacchiando. «Suvvia, John, non sarebbe nel tuo stile presentarti con la scorta. Dimentichi che ti
conosco.» All'improvviso aveva l'aria stanca. «Ti conosco così bene.» La maschera gli stava scivolando via, pezzo per pezzo. «No, tu sei venuto solo. Tutto solo. Solo come ero io, ricordi?» «Dov'è?» «Chi lo sa.» Reeve era pazzo, non c'erano dubbi, e forse lo era sempre stato. Esteriormente non aveva nulla di diverso dai giorni che avevano preceduto il periodo di detenzione, trascorso sull'orlo del baratro: un baratro confinato nella sua mente ma non per questo meno spaventoso, poiché del tutto incontrollabile. Sorridente, circondato da manifesti colorati, lucidi disegni e libri illustrati, era l'uomo più pericoloso che Rebus avesse mai incontrato in vita sua. «Perché?» Reeve lo guardò come se non avesse potuto rivolgergli domanda più infantile. Scosse la testa, sempre sorridendo, il sorriso della puttana, il sorriso freddo e professionale dell'assassino. «Lo sai, perché», disse. «Per tutto quello che è stato. Perché mi hai piantato in asso, come di sicuro avresti fatto se fossimo stati davvero nelle mani del nemico. Hai disertato, John. Hai disertato il sottoscritto. Lo sai qual è la pena, vero? Lo sai cosa si fa ai disertori?» La voce gli era diventata isterica. Ridacchiò di nuovo, cercando di calmarsi. Rebus si preparò all'azione, alla violenza, pompando l'adrenalina che gli scorreva in corpo, serrando i pugni e tendendo i muscoli. «Conosco tuo fratello.» «Cosa?» «Tuo fratello Michael, lo conosco. Lo sapevi che è un pusher? Un mediatore, per essere più precisi. Comunque è nei guai fino al collo, John. Per un po' sono stato il suo fornitore. Giusto il tempo di sapere di te. Michael ce l'ha messa tutta per rassicurarmi che non era un infiltrato, un informatore della polizia. Era ansioso di farmi conoscere i dettagli che ti riguardavano, John, di conquistarsi così la mia fiducia. Ha sempre creduto di essere entrato in chissà quale giro, ma in realtà c'ero solo io. Che ne dici? Non sono stato bravo? Comunque lui l'ho già sistemato, ormai è fregato, giusto? Diciamo che era un piano per tutelarmi contro gli imprevisti.» Aveva in pugno suo fratello. Aveva in mano sua figlia. Mancava soltanto lui all'appello, e lui si era infilato dritto dritto nella tana del lupo. Doveva temporeggiare, temporeggiare e pensare. «Da quanto lavoravi al tuo progetto?»
«Non saprei dire esattamente.» Sempre più sicuro di sé, scoppiò in una risata. «Da quando mi hai abbandonato, immagino. Michael è stato la parte più semplice, sai, assetato com'era di denaro facile. Convincerlo che la droga era la risposta giusta è stato uno scherzo da ragazzi, e adesso c'è dentro fino al collo, tuo fratello.» Sputò quell'ultima parola come fosse veleno. «Grazie a lui ho conosciuto meglio anche te, John, il che mi è tornato molto utile.» Reeve si strinse nelle spalle. «Perciò, vedi, se tu mi consegni, io consegno lui.» «Non mi freghi, Reeve. Voglio troppo la tua pelle.» «Oh, e così sei disposto a lasciar marcire tuo fratello in galera? Pazienza. Comunque vada, vinco io. Non lo capisci?» Sì, sì che lo capiva, ma solo vagamente, per intuizione, come un'equazione difficile alla lavagna in un'aula soffocante. «E tu? Che fine hai fatto?» chiese, cercando ancora di guadagnare tempo. Era venuto alla carica senza prendere la minima precauzione, senza avere in testa la minima strategia di difesa, e adesso era incastrato lì, in attesa che Reeve facesse la prima mossa. Non poteva mancare molto. «Voglio dire, cosa ti è successo dopo che io... ho disertato?» «Oh, non ci misero molto a farmi crollare.» Reeve ne parlava in tono quasi sportivo. Be', poteva permetterselo, adesso. «Mi buttarono fuori. Per un po' mi tennero in ospedale, poi mi cacciarono. Avevo sentito delle tue dimissioni, e la cosa mi aveva un po' consolato, ma poi seppi che eri entrato nella polizia. Be', quello no, non potevo sopportarlo. Non tolleravo che te la passassi bene, non dopo quello che avevamo vissuto insieme e il modo in cui ti eri comportato.» Ogni tanto uno spasmo gli alterava i lineamenti. Posò le mani sul banco e Rebus sentì l'odore acetoso del suo sudore. Parlava come se fosse continuamente sul punto di scivolare nel sonno, ma Rebus sapeva che in realtà a ogni parola diventava più pericoloso, e lui non era ancora capace di prendere un'iniziativa. «Ti c'è voluto un bel po' per arrivare a me.» «Però è valsa la pena di aspettare.» Reeve si grattò una guancia. «Certo, mi è capitato di pensare che sarei morto prima di compiere la mia missione, ma sotto sotto ho sempre saputo che non sarebbe finita così.» Sorrise. «Vieni, John, devo mostrarti una cosa.» «Sammy?» «Non essere idiota.» Il sorriso scomparve di nuovo, ma solo per un secondo. «Credi che la terrei qui? Ma dai! No, ho un'altra cosa per te, una cosa che dovrebbe interessarti. Vieni.»
Condusse Rebus dietro la parete divisoria. Rebus, i nervi scoperti, fissava la schiena di Reeve, i muscoli ben riparati da uno strato di vita sedentaria. Bibliotecario. Bibliotecario per l'infanzia. E serial killer di Edimburgo. Dietro la parete si aprivano file di scaffali di libri, alcuni precariamente impilati, altri disposti in ordinata successione, le costole ben allineate. «Questi sono tutti in attesa di riordino», spiegò Reeve, sventolando una mano all'intorno. «Sei stato tu a introdurmi al mondo dei libri, John, ricordi?» «Certo, ti raccontavo le trame dei romanzi.» Rebus si era messo a pensare a Michael. Senza di lui forse non sarebbe mai riuscito a trovare Reeve, anzi forse non sarebbe mai arrivato a sospettarlo. E adesso sarebbe finito in prigione. Povero Mickey. «Ma dove l'ho messo? Lo so che sei qui da qualche parte. L'ho accantonato apposta per te, John, per mostrartelo nel caso fossi risalito fino a me. Anche tu ce ne hai messo di tempo, eh? Non sei stato particolarmente acuto, mi pare.» Com'era facile dimenticarsi che quell'uomo era pazzo, un pazzo che per gioco aveva già ucciso quattro ragazzine e che ne teneva ancora una alla sua mercé. Era davvero facilissimo. «No», disse Rebus. «Non sono stato particolarmente acuto.» Sentì il proprio corpo tendersi, l'aria intorno a lui farsi più sottile. Stava per accadere qualcosa. Ne era certo. E, per impedirle di accadere, non aveva che da assestare un pugno nelle reni a Reeve, bloccargli il collo, immobilizzarlo e legarlo. E allora perché non lo faceva? Non lo sapeva nemmeno lui. Sapeva solo che qualunque cosa dovesse accadere sarebbe accaduta, e che tutto era già stabilito come in un progetto di costruzione di un edificio o in una partita a Tris di tanti anni prima. A iniziare il gioco era stato proprio Reeve, dunque Rebus era sconfitto in partenza. Ma non poteva ritirarsi prima della mossa finale. Prima che Reeve avesse cercato a fondo nei suoi scaffali, trovando quello che voleva. «Oh, eccolo qui. È un libro che stavo leggendo...» Ma se lo stava leggendo, pensò subito Rebus, come mai era nascosto così bene? «Delitto e castigo. Sei stato tu a raccontarmelo, giusto?» «Sì, ricordo. E più di una volta, anche.» «Bravo, John, proprio così.» Era un'edizione di lusso, rilegata in pelle e piuttosto vecchiotta. Non a-
veva affatto l'aria di una copia da biblioteca. Reeve la maneggiava come se fosse denaro, come un diamante. Come se non avesse mai posseduto nulla di più prezioso al mondo. «Contiene un'illustrazione che volevo mostrarti, John. Ricordi cosa dicevo a proposito di Raskolnikov?» «Che avrebbe dovuto farli secchi tutti...» Il doppio senso gli sfuggì fino all'ultimo. Ancora una volta aveva tardato a interpretare gli indizi forniti da Reeve. Nel frattempo Gordon Reeve, gli occhi lucidi, aveva aperto il libro e, dal nascondiglio interno, aveva estratto un piccolo revolver a canna corta. Glielo aveva già puntato all'altezza del torace, quando Rebus scattò in avanti, sferrandogli una craniata sul naso. Prepararsi era importante, ma a volte era il semplice istinto a salvarti la vita. Dalle ossa rotte sgorgò un improvviso fiotto di sangue e muco. Reeve emise un gemito strozzato e Rebus gli allontanò la pistola con la mano. Allora l'altro si mise a gridare. Era un urlo che riaffiorava dal passato, da un numero infinito di incubi, e che spiazzò Rebus, catapultandolo all'indietro, fino all'antico tradimento. Rivide le guardie, la porta aperta, rivide se stesso voltare le spalle alle grida dell'amico intrappolato. Poi la vista gli si appannò e davanti a lui la scena esplose. Il colpo attutito nella spalla si trasformò rapidamente in una perdita di sensibilità generale, quindi in un dolore bruciante che gli si diffuse in tutto il corpo. Si strinse la giacca e l'imbottitura leggera trasudò sangue. Dunque era questo che si provava, quando ti sparavano. Ebbe la sensazione di stare per vomitare, di essere prossimo allo svenimento, ma, dal profondo dell'anima, gli risalì un'ondata di energia, la forza cieca dell'ira. Non gli avrebbe dato partita vinta. Vide Reeve detergersi il sangue e il muco dalla faccia, tamponarsi gli occhi che continuavano a lacrimare, mentre ancora sventolava la pistola. Afferrò un tomo dall'aria pesante e lo calò sulla sua mano armata, facendo schizzare il revolver su una catasta di libri. Immediatamente Gordon Reeve si ritirò, barcollando, tra le file di scaffali, rovesciandoli l'uno dopo l'altro al suo passaggio. Rebus tornò di corsa al banco per chiedere aiuto via telefono, gli occhi aperti sul suo possibile ritorno. Ma nella sala era calato il silenzio. Sedette per terra. Di colpo la porta si spalancò e, vestito di nero come un angelo vendicatore, entrò William Anderson. Rebus sorrise. «Come diavolo mi ha trovato?» «La seguivo da un po'.» Anderson si piegò a esaminargli la ferita. «Ho sentito lo sparo. Immagino abbia trovato il nostro uomo, vero?»
«Si nasconde ancora qui, da qualche parte, ma è disarmato. La pistola è là.» Anderson gli legò un fazzoletto intorno alla spalla. «Ha bisogno di cure, John.» Ma Rebus si stava già rimettendo in piedi. «Non ancora. Prima chiudiamo la partita. Come mai non mi sono accorto di essere pedinato?» Stavolta fu Anderson a concedersi un sorriso. «Solo un ottimo poliziotto si accorge di avermi alle calcagna, John, e non è il suo caso. Per adesso, lei è solo un buon poliziotto.» Dietro la parete divisoria, ripresero a muoversi con cautela in mezzo all'intrico di scaffali rovesciati. Rebus raccolse la pistola e se la cacciò in tasca. Nessun segno di Gordon Reeve. «Guardi.» Anderson stava indicando una porta semiaperta in fondo alla stanza. Avanzarono in quella direzione, senza mai abbassare la guardia, e Rebus aprì del tutto la porta. Si trovò di fronte il pozzo di una scala di ferro, ripida e male illuminata, che pareva affondare nelle viscere della biblioteca. Non restava altro da fare che scendere. «Credo di averne sentito parlare», sussurrò Anderson, i bisbiglii che riecheggiavano nel buio. «La biblioteca sorge sulle antiche fondamenta del tribunale e le celle utilizzate un tempo resistono ancora. Credo le usino come deposito per i vecchi libri. È un labirinto che si snoda fino sotto il centro storico.» Più scendevano, più le lisce pareti intonacate cedevano il passo ad antichi mattoni. Rebus sentì odore di muffa, l'odore vecchio e amaro di un'epoca passata. «Allora potrebbe essere ovunque.» Anderson si strinse nelle spalle. Avevano raggiunto la base della scala; si trovavano in un ampio corridoio privo di libri. Ai lati del passaggio, tuttavia, si aprivano piccole alcove - le celle di un tempo - in cui erano stivati mucchi di libri, in apparenza senza ordine. Si trattava di libri antichi. «Probabilmente da qui può andarsene», sussurrò ancora Anderson. «Credo esistano uscite in corrispondenza dell'attuale tribunale e della cattedrale di Saint Giles.» Quel pezzo di vecchia Edimburgo, intatto e incontaminato, ispirava a Rebus un sentimento di soggezione. «È incredibile», disse. «Non sapevo nemmeno che esistesse, un posto del genere.» «Ce ne sono altri. Sotto le City Chambers si suppone vi siano intere strade appartenute alla città antica, su cui gli urbanisti hanno semplicemen-
te continuato a edificare. Intere strade, case, negozi. Tutta roba vecchia di secoli.» Anderson scosse la testa, consapevole quanto Rebus della limitatezza della conoscenza umana: era possibile camminare ogni giorno sopra qualcosa di reale senza mai scoprirne nemmeno l'esistenza. Continuarono a procedere lungo il corridoio, grati della seppur debole illuminazione a soffitto, controllando ogni cella senza risultato. «Insomma, chi è?» chiese Anderson in un bisbiglio. «Un mio vecchio amico», rispose Rebus. Cominciava ad avere un po' di vertigini, come se là sotto vi fosse poco ossigeno. Sudava copiosamente e sapeva che era una conseguenza della perdita di sangue, sapeva che avrebbe fatto molto meglio a fermarsi, ma essere lì per lui era un dovere, una necessità imprescindibile. Gli vennero in mente cose cui avrebbe dovuto pensare prima, come chiedere alla guardia l'indirizzo di Reeve e inviare una pattuglia sul posto, in caso Sammy si fosse trovata lì. Adesso era troppo tardi. «Eccolo!» Anderson lo aveva intravisto parecchio più avanti e tra ombre così fitte che Rebus riuscì a individuare la sua figura solo allorché essa riprese a correre. Anderson inseguì Reeve, mentre Rebus gli arrancava dietro sbuffando e cercando di tenere il passo. «Attento, è un uomo pericoloso.» Sentì le parole sprofondare nel vuoto davanti alla sua bocca: non aveva nemmeno più la forza di gridare. Improvvisamente tutto prese ad andare storto. Vide Anderson raggiungere Reeve, e Reeve lasciar partire un calcio laterale quasi perfetto, una delle mosse imparate tanti anni prima e mai dimenticate. La testa di Anderson ruotò con uno scatto, mentre finiva contro il muro. Rebus era caduto in ginocchio e ansimava, la vista sempre più sfocata. Dormire. Aveva bisogno di dormire. Il terreno freddo e accidentato lo chiamava come il più suadente dei letti. Ondeggiò, pronto a crollare. Gli parve che Reeve stesse tornando verso di lui, mentre Anderson si accasciava a terra. Sembrava enorme, un gigante che avanzava nell'ombra, a ogni passo più grande, più imponente, finché non gli torreggiò sopra con un ghigno da orecchio a orecchio. «Ora tocca a te», ruggì. «A te.» Rebus sapeva che, da qualche parte sopra le loro teste, il traffico continuava a transitare ignaro sul ponte George IV, che una folla di lavoratori si apprestava a fare ritorno a casa a piedi, verso una tranquilla serata in compagnia della famiglia e della TV, e, mentre tutto ciò accadeva, lui se ne stava in ginocchio ai piedi del suo incubo vivente, come un animale bloccato tra i denti del forcone alla fine dell'in-
seguimento. A nulla gli sarebbe servito gridare, a nulla opporsi al destino. Vide l'immagine confusa di Reeve chinarsi di fronte a lui, la faccia innaturalmente distorta. Giusto. Gli aveva spaccato il naso. E Reeve non se n'era certo dimenticato. Lasciò partire un altro calcio, stavolta diretto al mento di Rebus. Qualcosa dentro di lui doveva ancora funzionare, perché si spostò quel tanto che bastava per ricevere il calcio su una guancia e cadere su un fianco. Rannicchiato in posizione fetale, udì la risata di Reeve e scorse le sue mani avvicinarsi a serrargli la gola. Ripensò alla donna e alle proprie, di mani, serrate intorno al suo collo. Era quella la giustizia? Se sì, allora che fosse. Ma poi pensò a Sammy, a Gill, a Anderson e a suo figlio assassinato, alle ragazzine già morte. Giustizia anche quella? Sentiva già gli occhi e la lingua tendersi, gonfiarsi e, mentre Gordon Reeve gli sussurrava: «Sei contento adesso, eh? Ti pare un sollievo, vero, John?», infilò una mano in tasca. Una nuova esplosione riempì il corridoio, ferendo le orecchie di Rebus. Il rinculo dell'arma gli vibrò nella mano e in tutto il braccio, mentre l'odore dolciastro tornava a solleticargli le narici come il profumo speziato in casa di Michael. Attonito, Reeve si paralizzò per un attimo, quindi si accartocciò come un foglio e cadde riverso su di lui. Schiacciato là sotto, Rebus decise che era venuto il momento di chiudere gli occhi e concedersi un po' di riposo... EPILOGO Sotto gli sguardi curiosi dei vicini, presero a calci e abbatterono la porta della piccola casa di Ian Knott, una sorta di minuscolo e tranquillo bungalow di periferia, e trovarono Samantha Rebus pietrificata dalla paura, legata a un letto, imbavagliata col nastro adesivo e in compagnia delle fotografie delle altre ragazzine morte. Dopodiché, mentre Samantha usciva in lacrime dalla sua prigione, le procedure riacquistarono toni più moderati. Il vialetto d'accesso era nascosto alla vista della proprietà confinante da un'alta siepe, ragion per cui nessuno aveva notato i movimenti sospetti di Gordon Reeve. I vicini lo descrissero come un uomo tranquillo. Si era trasferito lì sette anni prima, quand'era stato assunto dalla biblioteca. A quella conclusione, Jim Stevens tirò un sospiro di sollievo. C'era abbastanza di che scrivere pezzi per una settimana intera. Ma come aveva fatto a prendere una cantonata simile sul conto di John Rebus? Quello proprio non se lo spiegava. In realtà anche le sue indagini sul giro di droga si
erano concluse, e Michael Rebus sarebbe finito dentro. Su quel punto non c'erano dubbi. La stampa londinese era venuta a costruire la sua personale versione degli eventi. Stevens incontrò un collega al bar del Caledonian Hotel: l'uomo sperava di comprargli la storia di Samantha Rebus. Si palpò la tasca della giacca, come a rassicurarlo circa la presenza di un bell'assegno in bianco. A Stevens parve un gesto malato. Non solo perché i media erano in grado di ricreare la realtà per poi manometterla a loro piacimento, ma perché, al di sotto delle apparenze, della superficie, c'era qualcosa di diverso dal solito marciume e disordine, qualcosa di assai più ambiguo. L'intera storia non gli era piaciuta e soprattutto non gli erano piaciuti gli effetti che aveva sortito su di lui. Col giornalista di Londra si trattenne a discutere di concetti vasti e inafferrabili come la giustizia, l'equilibrio, la fiducia. Parlarono per ore, bevendo birra e whisky, eppure la domanda di fondo restava. Edimburgo aveva svelato un volto di sé che Jim Stevens non conosceva, un volto acquattato e nascosto tra le ombre di Castle Rock. Tutto ciò che i turisti scorgevano erano le ombre della storia, ma l'anima della città era qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che Jim Stevens non aveva gradito, come in quel momento gli riuscivano sgraditi il mestiere e gli straordinari. L'offerta di Londra era sempre valida. Arrampicandosi sugli specchi, trovò il modo di tagliare la corda. RINGRAZIAMENTI Nella stesura di questo romanzo mi sono avvalso dell'enorme aiuto offerto dagli agenti del nucleo investigativo di Leith della città di Edimburgo, che hanno accolto con grande pazienza le mie numerose domande e tutta la mia ignoranza in materia di procedure di polizia. E, benché si tratti di un prodotto della fantasia, con tutte le pecche che ne derivano, sono grato a Tony Geraghty per il suo interessantissimo libro sullo Special Air Service, Who Dares Wins (Londra, Fontana, 1983). FINE