Nicola da Neckir
CONTRO LA MERITOCRAZIA Per un’Università delle capacità, dei talenti, delle differenze, delle relazion...
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Nicola da Neckir
CONTRO LA MERITOCRAZIA Per un’Università delle capacità, dei talenti, delle differenze, delle relazioni, della cura (e dei meriti)
Prefazione di Arnaldo Cecchini con il Piccolo Dizionario Disperato e Demagogico dell'Università curato da Giovanni Azzena e Marco Rendeli Illustrazioni di Vinicio Bonometto edizioni la meridiana 2011 © edizioni la meridiana Via G. Di Vittorio, 7 - 70056 Molfetta (BA) tel. 080/334. 69. 71 - 334. 03. 99 www. lameridiana. it - info@lameridiana. it ISBN 978-88-6153-224-3
Indice CONTRO LA MERITOCRAZIA ______________________________________________________ 1 PREFAZIONE _________________________________________________________________________ 4 LA MERITOCRAZIA___________________________________________________________________ 5 UNA STRANA FOLLIA ________________________________________________________________ 11 ALCUNI PREGIUDIZI_________________________________________________________________ 14 EFFICACIA ED EFFICIENZA __________________________________________________________ 18 LA TENURE ALL’ITALIANA __________________________________________________________ 20 VALUTARE, VALUTARE ______________________________________________________________ 22 MERITO, MERITI: COME VALUTIAMO DAVVERO E COME SCEGLIAMO CHI VOGLIAMO__________________________________________________________________________ 25 LA FAMIGLIA BERNOULLI ___________________________________________________________ 29 L’UNIVERSITÀ COME SISTEMA ______________________________________________________ 32 CHI GOVERNA CHI? _________________________________________________________________ 34 A COSA SERVE L’UNIVERSITÀ _______________________________________________________ 36 PICCOLO DIZIONARIO DISPERATO E DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITÀ – 2 ____________ 39
BIBLIOGRAFIA__________________________________________________________________ 47 Sinossi ______________________________________________________________________________________49
Ma nel quarto giorno fra i dirupi
gli sbarrò la strada un gabelliere: “Hai qualcosa di prezioso?”, “Nulla”. E il ragazzo che guidava il bue disse: “Insegnava”. Tutto dichiarato, dunque *
*
Leggenda sull’origine del libro Taoteking dettato da Lao Tse sulla via dell’emigrazione; è una poesia bellissima scritta nel 1938 e pubblicata nel 1939; in italiano presente in Brecht B. , Poesie e Canzoni, a cura di Fortini F. , Leiser R. , Einaudi, Torino 1959, pp. 93-96. Leggerla e meditarci su servirebbe molto per pensare a cosa devono essere la Scuola e l’Università. In originale: Doch am vierten Tag im Felsgesteine / Hat ein Zöllner ihm den Weg verwehrt: / “Kostbarkeiten zu verzollen?” – “Keine. ” / Und der Knabe, der den Ochsen führte / sprach:“ Er hat gelehrt. ” / Und so war auch das erklärt.
PREFAZIONE Quando il mio amico e collega Nicola mi ha inviato questo suo libro un po’ provocatorio e assai partigiano, gli ho raccomandato di essere prudente e moderato. Io non lo sono molto ed è per questo che conto poco, ma Nicola è un bravo studioso di lingua e letteratura rumena, il massimo esperto italiano della vita e dell’opera del noto filosofo A. C. Boib, e merita di contare di più. Ma lui ha detto: “No, voglio che esca”, e mi ha risposto con un po’ di cattiveria “Moderato sarà lei!” (citando un bel libro di Marco Bascetta e Marco D’Eramo). E ha aggiunto: “L’unica cosa che posso concederti è quella di non andare in giro io a presentarlo: manderò te”. Ho accettato, Nicola è più di un amico, è un alter ego: potrei dire, anche se so che si incazzerà, che è il mio pendant riservato, il mio lato epicureo, quella parte di me che ha sempre tifato per il “vivi nascostamente”. Immagino di sapere cosa l’abbia spinto a scrivere questo libretto: una sorta di indignazione per come Scuola e Università sono trattate in Italia da una destra ignorante e da una non-destra supponente (che spesso ricorda l’Alberto Sordi di Un americano a Roma, solo che invece dei “macaroni” distruggono la Scuola). E nel “fantastico mondo di Pisapie”, anche l’indignazione può servire: non basta, ma può servire. Eccomi qua, pronto a correre a difendere le posizioni di Nicola dovunque serva. Ma poi ho pensato che Nicola era troppo serio e che ci voleva, oltre a quella dell’invettiva, anche l’arma dell’ironia; un paio di amici colti, Giovanni Azzena e Marco Rendeli, facevano circolare un samizdat digitale (se non è un ossimoro) con un bel glossario di termini usati e abusati. Ho pensato che il loro lavoro potesse essere il degno completamento del saggio un po’ livoroso di Nicola: loro scrivono meglio e sono più divertenti. Qualche immagine poi sarebbe stata utile: per cosa alla fin fine ci stanno a fare gli architetti precari? Abbiamo chiesto a Vinicio Bonometto di inserire qualche immagine, come gli veniva. Ed eccoci qua. Indignatevi, se potete. Arnaldo Cecchini
LA MERITOCRAZIA
Si parla molto di meritocrazia, un termine che a me non piace: infatti l’unica “-crazia” che mi piace è la democrazia. Il termine meritocrazia è recente e ha una data di nascita e un padre: il 1958 e il sociologo Michael Young, il quale scrisse una satira sociale 1 , una sorta di distopia, che aveva la meritocrazia come bersaglio, cogliendone la natura perversamente classista e ingiusta. Young è un interessante personaggio, purtroppo molto dimenticato; né poteva non essere dimenticato di questi tempi, visto che ha scritto: Were we to evaluate people, not only according to their intelligence and their education, their occupations and their power, but according to their kindliness and their courage, their imagination and sensitivity, their sympathy and generosity, there would be no overall inequalities of the sort we have got used to. Who would be able to say that the scientist was superior to the porter with admirable qualities as a father, the civil servant to the lorry-driver with unusual skills at growing roses? A pluralistic society would also be a tolerant society, in which individual differences were actively encouraged as well as passively tolerated, in which full meaning was at last given to the dignity of man. Every human being would then have equal opportunity to develop his or her own special capacities for leading a full life which is also a noble life led for the benefit of others as well as the self 2 . La 1
spaventevole
distopia
della
“meritocrazia
in
azione”
è
descritta,
Cfr. Young M., The Rise of the Meritocracy, Penguin Books, Harmondsworth 1961. Se valutassimo le persone non solo sulla base della loro intelligenza ed educazione, le loro occupazioni e il loro potere, ma sulla base della loro gentilezza e del loro coraggio, della loro immaginazione e della loro sensibilità, della loro simpatia e della loro generosità, non avremmo nessuna disuguaglianza di quelle cui siamo abituati. Chi potrebbe sostenere che un scienziato sarebbe superiore a un facchino che ha la dote di essere un ottimo padre, il funzionario pubblico al camionista con un’abilità particolare per coltivare rose? Una società pluralistica dovrebbe essere una società tollerante, in cui le differenze individuali dovrebbero essere incoraggiate più che tollerate passivamente, in cui sia dato pieno significato alla dignità delle persone. Ogni essere umano avrebbe così uguali opportunità per sviluppare le sue speciali capacità per condurre una vita degna nell’interesse e in beneficio degli altri come di se stesso”. Young M., Equality and Public Service, Speech to Sociology Section, British Association for the Advancement of Science, 11 September 2000, Fabian Society.
2
inconsapevolmente e con tragicomica inconsapevolezza, nel libro di Roger Abravenel, Meritocrazia 3 , ed è rappresentata dal fatto di prendere sul serio la demenziale equazione I + E = M, che è stata sì proposta da Young, ma da lui in termini satirici; Abravanel, invece, la prende sul serio e scrive (godetevelo): Sir Michael Young, il laburista inglese che nel 1954 creò il termine “meritocrazia”, ha inventato l’“equazione del merito”: I+E = M, dove “I” è l’intelligenza (cognitiva ed emotiva, non solo l’IQ) ed “E” significa “effort”, ovvero gli sforzi dei migliori. La “I” porta a selezionare i migliori molto presto, azzerando i privilegi della nascita e valorizzandoli attraverso il sistema educativo: è l’essenza delle “pari opportunità”. La “E” è sinonimo del libero mercato e della concorrenza che, sino a prova contraria, sono il metodo più efficace per creare gli incentivi economici per i migliori 4 .
Ovviamente non tutti i “meritocratici” pensano in questo modo un po’ semplicistico, ma forse accoglierebbero la definizione che recita: “la meritocrazia è un sistema di valori che valorizza l’eccellenza” (qui eccellenza non va intesa nel senso di Sua Eccellenza, ovviamente 5 ). Sono del resto consapevole che molti usano il termine meritocrazia in un senso più generico, non in quello letterale di “potere al merito”, ma nel senso di “riconoscimento del merito come criterio unico, o largamente prevalente, per occupare delle posizioni o per fare carriera”; anche in questa concezione tuttavia – a mio avviso – la parola è un po’ pericolosa (a meno di non “stirare” troppo il concetto di merito) e comunque si può tranquillamente scrivere in questi casi: “riconoscimento del merito”, “premio a chi ha merito, è meritevole”, invece che usare la parola meritocrazia (anche l’uso di tali locuzioni comporta però il definire di che “merito” si tratti nel contesto dato). Sottolineo che è scritto “come criterio unico o largamente prevalente”, perché – in moltissimi casi – dal merito non si può prescindere e – in alcuni casi – esso ha un 3
Abravanel R., Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008. www.meritocrazia.com/index.php?option=com_content&view=article&id=62&Itemid=67. Per capire come e quanto Abravanel si appropri indebitamente della fama di Michael Young, basta leggere l’articolo di Young M., Down with Meritocracy: The Man Who Coined the Word Four Decades Ago Wishes Tony Blair Would Stop Using It, in “The Guardian”, Friday 29 June 2001. L’articolo è inoltre disponibile presso la pagina www.guardian.co.uk/politics/2001/jun/29/comment. 5 Mi permetto di citare questa piccola chicca da “Miti di oggi e miti di ieri” de “Il Sole 24 ore”: “Eccellenza. Una volta l’Eccellenza era Sua, ora di chi se la prende. Non è più una persona ma una condizione virtuosa nei secoli del virtuale. Essere vincenti, non serve. Dov’è la vittoria? È una realtà insopportabile per tutti gli altri. È giusto essere eccellenti. L’eccellenza è una convinzione di stato, una ricchezza gassosa, confermata dal vanto. Rare università, pochi centri di ricerca o di produzione, illuminate assise del sapere, in fase di proselitismo, vantano per sé l’eccellenza come un invidiabile fatturato. Tutti coloro che fanno spallucce e non riconoscono questa eccellenza si condannano da soli a non poter assaggiare nemmeno un briciolo di un’eccellenza qualsiasi. Gli increduli diventano all’istante come la casta degli intoccabili, la cui condizione non può che eccellere verso il basso. L’eccellenza però è più dicibile che (di)mostrabile, ma trionfa come un requiem sopra ogni possibile lutto di classe”. Tratto da Brusatin M., Eccellenza, in www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2008/miti-di-oggi/miti-lettori/mitilettori-finale_2.shtml?uuid=0c8697a2-84bb-11dd-a8ca-1db806f95cce&DocRulesView=Libero. Sempre a Brusatin devo il ricordo di questa citazione tratta da Collodi, Le avventure di Pinocchio: “Pinocchio alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole ‘Pietà, Signor Mangiafuoco!’ ‘Qui non ci son signori’ replicò duramente il burattinaio. ‘Pietà signor Cavaliere!’. ‘Qua non ci son cavalieri’. ‘Pietà signor Commendatore!’. ‘Qua non ci son commendatori’. ‘Pietà, Eccellenza!’. A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino tondo e, diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile” (C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Acquaviva, Milano 2002, vol. 3, p. 36). 4
ruolo preminente nello scegliere le persone cui affidare alcuni compiti. Mi piace pensare che, dopo più di due millenni, si sia tutti d’accordo che il potere spetti al popolo, ovvero che, come dicevo, l’unica “-crazia” degna di essere ammessa sia la democrazia, magari nella versione radicale di Aldo Capitini dell’omnicrazia o onnicrazia 6 , e non spetti invece a chi ha meriti, eccellenza (aristocrazia 7 ), denaro (timocrazia 8 o plutocrazia 9 ), facondia (logocrazia 10 ), bellezza (callistocrazia 11 ), convinzioni religiose (teocrazia 12 ), apparati sessuali (fallocrazia 13 ), conoscenze tecniche (tecnocrazia 14 ), saggezza (noocrazia 15 ), capacità di intimidazione di massa (oclocrazia 16 ), diritto divino o altro principio analogo (autocrazia 17 ), predominio di 6
Cfr. Capitini A., Omnicrazia, in Id., Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969. Come spesso succede gli aristocratici cercavano diverse giustificazioni al loro diritto, ma la principale era che se erano al potere dovevano essere i migliori e se erano i migliori allora avevano diritto al potere; l’aristocrazia in genere si propone come ereditaria. Per misteriose ragioni mentre il termine aristocratico ha spesso, anche se non sempre, una connotazione positiva, rimanda al termine nobiltà, (un termine “nobiltà” anch’esso troppo spesso, anzi quasi sempre, ammantato di una valenza positiva, mentre ha un orribile origine classista: “colui che è conosciuto”), il termine plutocrate non ha mai avuto tale considerazione, quasi che possedere delle terre (che spesso era la condizione dell’aristocrazia) o essere conosciuto (nobile), fosse più ragionevole e accettabile che possedere denaro; molto spesso terre e denari sono stati originariamente acquisiti con la violenza e l’inganno, come era noto a Balzac che aristocratici e borghesi li conosceva bene: Le secret des grandes fortunes sans cause apparente est un crime oublié, parce qu’il a été proprement fait. Una versione dell’aristocrazia che si apparenta alla meritocrazia è quella che potremmo chiamare “elitocrazia”. 8 Una sorta di timocrazia, ovvero di un esercizio del potere legato al censo, è presente in tutte le società, anche formalmente democratiche, specie nei casi in cui vi siano imponenti differenze di ricchezza: società in cui, ad esempio, l’accesso all’informazione sia particolarmente costoso per alcuni o in cui l’esercizio dell’elettorato passivo sia fortemente condizionato dalla disponibilità di risorse per le campagne elettorali; o in cui l’accesso agli studi superiori nelle università migliori (e alle brillanti carriere conseguenti) sia più facile per chi ha soldi; rare sono le timocrazie “piene”, frequenti quelle parziali. 9 Il termine plutocrate è molto “connotato” per l’uso fattone dai fascisti, che hanno coniato anche l’ibrido demoplutocrazie o usurocrazie, per tirar dentro gli ebrei. 10 Non è il dominio del logo (un dominio che pure meriterebbe una citazione), ma quello del discorso; molte democrazie sono state sensibili al bel parlare, anzi i politici più apprezzati erano quelli più facondi; anche in “altre” democrazie, come quella deliberativa o partecipativa (come anche nella forma africana della palabre) la capacità di argomentare è essenziale nell’influenzare la presa di decisione. 11 Non so se esista il termine, ma andrebbe coniato; potrebbe fare riferimento alla bellezza della persona che rivendica il potere (tutto il potere a Marylin Monroe!) o delle sue opere (tutto il potere a Pablo Picasso!) 12 In epoca di rivalutazioni e di revisioni, il sostegno alla giusta lotta dei tibetani per l’autonomia si spinge spesso al rimpianto per la teocrazia dei lama; tra le “-crazie”, quella in nome di un dio è tra le più terribili. 13 Il dominio del fallo può assumere aspetti simbolici o metaforici, diretti o indiretti; il potere ama l’esibizione del membro virile sia dal punto di vista dei comportamenti attesi e rispettati dai dominati, sia dal punto di vista dell’autorappresentazione simbolica in architettura. 14 Per alcuni meritocratici di formazione positivistica, tecnocrazia e meritocrazia potrebbero coincidere; la scienza politica e la sociologia di fine Ottocento erano sostanzialmente intrisi di tecnocrazia, ma la tecnocrazia trascura alcuni aspetti della meritocrazia come ad esempio lo sforzo: potremmo dire che la tecnocrazia è una meritocrazia senza valori. 15 Per alcuni meritocratici di formazione platonica noocrazia e meritocrazia potrebbero coincidere, tuttavia c’è nel termine saggezza una connotazione di “gratuità” e di assenza di uso immediato che la rende sospetta ad un “meritocrata” operativo. 16 Si tratta di qualcosa di simile al populismo, o anche, per alcuni aspetti, a regimi fascisti nell’epoca del consenso; caratteristica fondamentale dell’oclocrazia è l’intimidazione o l’esercizio senza freni della “dittatura della maggioranza”; l’intimidazione può anche essere psicologica: chi oserebbe dire nel Parlamento o sui media italiani del 2009 che anche i fannulloni e gli amanti dell’ozio hanno diritto di vivere e di essere curati, nessuno è clandestino, o che uno studente magari vuole studiare con i suoi ritmi e i suoi tempi, o che i soldi previsti per 131 caccia F-35 Lightning sono soldi buttati; posizioni sicuramente discutibili, ma che dovrebbero poter essere dette e discusse; siccome non si può osare tanto, una quota di oclocrazia pare esserci anche nella nostra democrazia, come in molte altre, che spesso sono in bilico sul crinale della dittatura della maggioranza. 17 L’autocrazia è la forma di governo in cui tutto il potere è concentrato in un’unica persona per diritto divino o per un altro principio legittimante (l’identità di popolo e guida è alla base dell’autocrazia gerarchica a più livelli, chiamata Führerprinzip); alcune autocrazie sono ereditarie e queste sono una delle possibili forme della monarchia, che però può non essere autocratica. 7
un’ideologia (ideocrazia 18 ), delega assoluta (monocrazia 19 ), conoscenza delle leggi (critocrazia 20 ), controllo dell’organizzazione (burocrazia 21 ), dominio o controllo delle opinioni (doxocrazia 22 ), controllo nascosto, occulto del potere (criptocrazia 23 ), privilegio di classe (oligarchia 24 ), anzianità (tenurocrazia 25 , gerontocrazia 26 ), giovinezza (neocrazia 27 ) o estrema giovinezza (paidocrazia 28 ), genere femminile (ginocrazia 29 ), accesso o controllo dei media (teatrocrazia, videocrazia o telecrazia 30 ), attitudine al furto (cleptocrazia 31 ), origine meticcia o mulatta (pardocrazia, ovvero governo di chi ha la pelle scura 32 ), pentitocrazia (governo basato sulla gestione dei “pentiti” 33 ), capacità di fare cose brutte e cattive (cacocrazia 34 ), capacità di 18
Gran parte della politica ufficiale dopo Margaret Thatcher è dominata da una pericolosa ideocrazia, l’ideologia del neo-liberismo (in sintesi TINA: There Is No Alternative) mascherata da discorso infinito sulla fine delle ideologie. Una versione estrema dell’ideocrazia può essere considerata la stratocrazia così come la intende Todorov, ovvero “un potere per il potere, una volontà di volontà” (in Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2004, p. 56); un altro senso di stratocrazia è l’etimologico “governo dei militari”. 19 La monocrazia può essere un’autocrazia, ma può essere anche una forma di governo collettivo, l’aspetto saliente della monocrazia è l’assenza di divisione dei poteri e la responsabilità diretta dell’organismo monocratico. Il totalitarismo, non facile da definire, l’autoritarismo, le dittature militari, l’autocrazia sono sostanzialmente monocratiche, ma non esauriscono l’intero spettro delle possibilità. 20 Il governo dei giudici, ovvero il collassare dei poteri su quello giudiziario, che in forma leggera è anche rappresentato dalla pretesa di una soluzione delle questioni politiche per via giudiziaria, è anch’esso una forma perversa di potere, vicino per diversi aspetti alla monocrazia. 21 Sul ruolo dei funzionari nel controllo dei governi non c’è molto da dire: è una costante degenerativa di molte forme di potere. 22 La doxocrazia può essere intesa in molti modi, dal peso preponderante dei media, all’ossessione per i sondaggi, all’influenza eccessiva degli opinionisti: cfr. Julliard J., La regina del mondo, Marsilio, Venezia 2009. 23 L’ipotesi dell’esistenza di un governo occulto, di un Grande Vecchio, ovvero di una criptocrazia è molto alla moda tra i sostenitori e gli inventori delle teorie del complotto; come spesso succede nella congerie di mistificazioni, miti, angosce e fantasie dei “complottisti” c’è un fondo di verità, espresso dal modo di dire: “non chiederti se sei troppo paranoico, chiediti se sei paranoico abbastanza”, o con l’espressione: “tutto quello che sai è falso”, un versione complottista del paradosso del mentitore, oppure “il Grande Vecchio non esiste, ma Licio Gelli sì”! Organi non ufficiali todopoderos (come nei totalitarismi), organizzazioni segrete (come in molti autoritarismi o nei governi controllati dalla massoneria) sono i detentori del potere: in Italia si ricorderanno la loggia P2 (della recente P3 e della recentissima P4 non parleremo, una tragica farsa si ripete in una farsa farsesca) e i servizi segreti deviati. 24 Il governo dei pochi è in generale il governo dei privilegiati, quasi sempre privilegiati per ragioni di classe o di casta. 25 La tenurocrazia è il governo di chi ha più esperienza, quasi necessariamente, ma non proprio necessariamente, dei più vecchi. 26 La gerontocrazia (o presbiarchia) è lievemente diversa dalla tenurocrazia, qui l’accento è sull’età piuttosto che sull’esperienza. 27 Quasi altrettanto stupida della gerontocrazia, è la neocrazia, che sotto certi profili è peggio della tenurocrazia; valgono le immortali leggi di Carlo Cipolla sulla stupidità, un gruppo di giovani governanti avrà la stessa percentuale di stupidi di un gruppo di vecchi governanti (e se è per questo di una qualunque combinazione di età di un qualsiasi gruppo di governanti). 28 Forse al giovanissimo sindaco di Firenze, Matteo Renzi, si applica di più il concetto di paidocrazia che quello di neocrazia, anche in virtù del suo aspetto neotenico (cfr. Gould S.J., Omaggio di un biologo a Topolino, in Id., Il pollice del panda. Riflessioni sulla storia naturale, Editori Riuniti, Roma 1980); il giovanissimo Renzi, rottamatore selettivo, è un interessante tableau vivant dei possibili guai della paidocrazia. 29 La ginocrazia purtroppo si è data raramente in epoca storica. 30 La vecchia teatrocrazia si è trasformata in videocrazia o telecrazia, mille volte più pericolosa, capillare, estesa, duratura. 31 La tendenza all’appropriazione indebita di molti governi assume in casi particolati forme patologiche che suscitano alternativamente indignazione e accondiscendenza nei governati (più la seconda della prima, in genere). 32 Cfr. Helg A., Simón Bolívar and the Spectre of “Pardocracia”, in “Journal of Latin American Studies”, vol. 35, n. 3, 2003, pp. 447-471; anche i grandi eroi (anche quelli considerati ispiratori delle esperienze di governo più “a sinistra”) erano figli, talvolta molto conformisti, del loro tempo: Bolivar non era troppo ben disposto verso mestizos, pardos y negros. 33 Come tutti i termini eccessivamente “ibridati”, anche questo ha un uso occasionale ed è effimero: coglie bene però quel che succede, anche involontariamente, quando una logica emergenziale (anche basata su vere emergenze) stravolge i meccanismi processuali in particolare per quanto riguarda le “prove”, ammettendo come “prova” le dichiarazioni dei
prostituirsi (pornocrazia 35 ), influenza del sesso mercenario e dei suoi procacciatori (mignottocrazia, prossenetocrazia 36 ), organizzazione politica (partitocrazia 37 ), adesione alle scelte di un capo (leadercrazia 38 ), ignoranza e rozzezza (onagrocrazia 39 ). È bene ricordare che non raro è il caso in cui forme diverse di governo si sono compenetrate o giustapposte, in modo regolato e istituzionalizzato o, all’opposto e più frequentemente, in modo informale basato, sulla negoziazione e sui rapporti di forza e quindi sui provvisori e precari equilibri da essi determinati. Tra l’altro sono più belle le parole composte in cui i due termini usati derivano dalla stessa lingua (solo greco in questo caso, o – in altri – solo latino) e democrazia è tra queste, meritocrazia no. Il merito è una delle qualità degli esseri umani che vivono in società (ce ne sono altri?) che vanno premiate, specie se è socialmente orientato, ma è una qualità da lodare e premiare assieme ad altre, ad esempio: la capacità di relazione, l’empatia, la “pentiti” (una lunga digressione meriterebbe l’uso improprio di una parola così connotata), al massimo con il riscontro da quella di altri pentiti. Sulla pentitocrazia cfr. La pentitocrazia mina la credibilità della lotta alla mafia, in “L’Osservatore Romano” 15 ottobre 1997. 34 Che vi siano cacocrazie (nel senso di governo dei peggiori) di fatto è comprensibile, meno comprensibile è che un tale sistema possa essere un sistema che si dichiara tale; quindi tradurrei cacocrazia come quel potere che cerca di far leva sul consenso delle persone verso chi manifesta in modo aperto i comportamenti peggiori di tutti noi, spesso facendosene vanto (ogni riferimento a persona realmente esistente non è causale). 35 Ho ritenuto opportuno distinguere la pornocrazia, sistema in cui le favorite (o i favoriti) sessuali dei governanti hanno un’influenza diretta sul governo (il termine è stato originariamente riferito alla determinante influenza delle prostitute nel papato del X Secolo), dalla cosiddetta mignottocrazia (cfr. la nota seguente), in cui i potenti non lasciano alle mignotte il potere, ma, al massimo, cedono loro cariche pubbliche (ministeri, posti in Parlamento, ecc.) in cambio di favori sessuali. 36 Il termine mignottocrazia è del giornalista e politico Paolo Guzzanti e fa riferimento alle vicende di un imprenditore e politico italiano noto come Silvio Berlusconi; il termine prossenetocrazia è mio (credo) e ha una lieve sfumatura differente, definisce sistemi di potere in cui è rilevante il ruolo dei ruffiani (il termine “ruffiano” è qui usato in senso stretto). In un certo senso la mignottocrazia, che è peggio della pornocrazia (almeno lì le mignotte comandavano davvero, qui le mignotte sono un simbolo dell’onnipotenza del potere maschile), è un po’ meglio della prossenetocrazia; le “mignotte”, o meglio le persone, in genere giovani donne, che ricevono cariche pubbliche in cambio di favori sessuali, diretti o indiretti (e qui si sconfina nella prossenetocrazia), possono essere persone intelligenti e divenire capaci e oneste e quindi magari svolgere bene o benino i loro compiti; tra le recenti presunte “favorite” investite dei ruoli di ministro, una oltre che bella, pare diventare, ogni tanto, sensibile e attenta, l’altra è una sciagura pubblica per la Scuola e l’Università, la terza una macchietta ridicola, soprattutto per l’attrazione turistica del nostro paese; bisogna anche riconoscere che il fatto di occupare una posizione politica anche per la ragione opposta (cfr. Garnero D., Silvio ossessionato da me. Non gliela do, in www.corriere.it/Politica/2008/elezioni08/santanche_berlusconi_billionaire_e73539060637-11dd-aa3600144f486ba6.shtml) non è di per sé garanzia di esiti positivi. 37 La partitocrazia, che è la degenerazione della presenza, fondamentale, in ogni democrazia moderna, dei partiti (ossia delle organizzazione dei cittadini che “prendono parte”), è a volte uno spauracchio agitato a fini ignobili: quelli della demagogia personalista e dell’autonomia del leader; la pur pessima partitocrazia è sempre meglio della monocrazia e della leadercrazia (cfr. nota seguente). 38 La leadercrazia non corrisponde all’autocrazia né tantomeno al Führerprinzip, il capo non ha altra ragione per esserlo che il controllo sui suoi sostenitori (spesso dovuto alle sue disponibilità finanziarie) e deve competere con altri leader che essendo in genere meno facoltosi sono meno solidi come capi e più periclitanti; la leadercrazia è stata introdotta in Italia per riparare ai guasti della partitocrazia, combinandone di ben peggiori; con la crisi dell’inizio degli anni Novanta, un trio di solisti, nel coro generale, pensò bene di attribuirla al sistema elettorale proporzionale e al sistema politico parlamentare e – a colpi di referendum – di smantellare l’uno e l’altro, regalandoci Berlusconi e il berlusconismo: si tratta di Achille Occhetto, Eugenio Scalfari e Mariotto Segni, di cui l’unico davvero intelligente è l’unico a non essere stato condannato all’irrilevanza politica: pur in pensione, guida il principale “partito” di opposizione. 39 “L’altro pericolo, quello degli ignoranti che teorizzano, giudicano, sentenziano, che fanno scorrere fiumi di spropositi, che mettono in giro formule senza senso, che credono di possedere nella loro ignoranza stessa una miracolosa sapienza, lo conosciamo perché lo abbiamo sperimentato bene. Si è chiamato, nella sua forma più recente, ‘fascismo’. Io ho preferito denominarlo onagrocrazia”. La frase è di Benedetto Croce ed è scritta nel 1925.
solidarietà, l’umorismo, le doti organizzative, la facondia, la saggezza, la generosità, la bellezza (intesa soprattutto nel senso di “è una bella persona”), la capacità di far gruppo, la tenacia. Non è, e non può essere, un feticcio, anche perché il merito è sovente un concetto sfuggente e non facile da definire. E tuttavia – è certo – i meriti devono essere una delle componenti alla base della selezione e delle progressioni di carriera dei docenti e della valutazione degli studenti. Per gli studenti il merito è un criterio particolarmente rilevante quando sono all’università 40 , molto meno quando sono nella scuola secondaria, irrilevante nella scuola dell’obbligo. Ho scritto particolarmente rilevante, ma aggiungo non unico, infatti vi sono studenti particolarmente refrattari ai modelli culturali consolidati e dominanti, che hanno grandi qualità e spirito critico, ma non vogliono sottomettersi ai percorsi ufficiali e che tuttavia meritano di esserci e sono anche importanti, perché ci costringono a metterci in discussione e a ricordarci di essere sempre critici: saper fare i conti anche con questi studenti è un compito irrinunciabile dei docenti e dell’istituzione universitaria (magari li bocciamo, ma non dovremmo farne a meno). Mi si consenta una nota personale: essere, come io sono, contro la meritocrazia, non vuol dire non rendere onore al merito: del resto amare la bellezza, non significa che vorrei dare il potere a Marilyn Monroe 41 (per quanto!).
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Nella Scuola dell’obbligo e nella secondaria, nella valutazione degli studenti il merito in quanto tale è meno rilevante, a mio avviso, anzi nell’obbligo è del tutto irrilevante; “fare” quella Scuola (e ciò, tutto sommato vale anche per la secondaria, se – come è ragionevole – pensiamo ad un obbligo scolastico di 13 anni) è per quegli studenti un diritto, e compito di quell’istituzione è affrontare e rimuovere gli ostacoli che impediscono ad alcuni studenti di raggiungere un livello adeguato di preparazione: ostacoli di ordine economico, sociale, culturale, psicologico e personale. 41 La callistocrazia, intesa in senso esteso (da Marylin a Picasso), è forse la forma di potere non democratico più tollerabile.
UNA STRANA FOLLIA
C’è un bel libro, che mi piace spesso citare, che si intitola Le droit à la paresse 1 , che in italiano è tradotto un po’ impropriamente come Elogio dell’ozio; è un libro di Paul Lafargue, genero di Carlo Marx e marito amatissimo e amorevole di Laura 2 . L’incipit del libro suona così: Une étrange folie possède les classes ouvrières des nations où règne la civilisation capitaliste. Cette folie traîne à sa suite des misères individuelles et sociales qui, depuis des siècles, torturent la triste humanité. Cette folie est l’amour du travail, la passion moribonde du travail, poussée jusqu’à l’épuisement des forces vitales de l’individu et de sa progéniture. Au lieu de réagir contre cette aberration mentale, les prêtres, les économistes, les moralistes, ont sacro-sanctifié le travail. Hommes aveugles et bornés, ils ont voulu être plus sages que leur Dieu; hommes faibles et méprisables, ils ont voulu réhabiliter ce que leur Dieu avait maudit 3 .
Una strana follia a me pare stia prendendo un po’ tutti i commentatori scelti della crisi e dei problemi dell’Università e della Scuola (li chiamerò i “duchini” 4 , quasi 1
Lafargue P., Il diritto all’ozio, Feltrinelli, Milano 1982. Il testo originale è del 1880. La coppia Paul e Laura ha avuto meno successo del necessario e del meritato nel movimento marxista; Paul a Laura si diedero la morte nel 1911 alla soglia dei settant’anni; Paul scrisse: “Sain de corps et d’esprit, je me tue avant que l’impitoyable vieillesse qui m’enlève un à un les plaisirs et les joies de l’existence et qui me dépouille de mes forces physiques et intellectuelles, ne paralyse mon énergie, ne brise ma volonté et ne fasse de moi une charge à moi et aux autres”. (“Sano di corpo e di spirito, io mi uccido prima che l’implacabile vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza, mi spogli delle mie forze fisiche e intellettuali, paralizzi la mia energia, spezzi la mia volontà, e faccia di me un peso per me e gli altri”). Il discorso funebre per Laura e Paul fu tenuto da Lenin. La tomba è al Père Lachaise, nel settore 77, vicino al muro dei federati. 3 “Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui regna la civiltà capitalistica. Questa follia porta con sé miserie individuali e sociali che da due secoli torturano l’infelice umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la passione esiziale del lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Anziché reagire contro questa aberrazione mentale, i preti, gli economisti ed i moralisti hanno proclamato il lavoro sacrosanto. Uomini ciechi e limitati, che hanno voluto essere più saggi del loro stesso Dio; uomini deboli e spregevoli, che hanno voluto riabilitare quel che il loro stesso Dio ha maledetto”. Il testo originale del 1880 è reperibile al sito www.marxists.org/francais/lafargue/works/1880/00/lafargue_18800000.htm. 4 “Chi sa fa, chi non sa insegna, chi non sa insegnare fa il professore universitario, chi non sa fare nemmeno quello l’editorialista del Corriere dello Zar” (Tratto da Cernysevskij N.G., Che fare?, Garzanti, Milano 2004, p. 254). L’autore cita l’autorevole giornale russo “Kurier” comunemente conosciuto come l’organo di stampa degli autocrati, ma di facciata liberale: qualunque corrente andasse al potere il “Kurier” l’appoggiava; l’altro autorevole giornale dell’epoca, “L’impero”, era considerato di “parte”, ma secondo alcuni proprio a causa del suo appoggio, la parte sostenuta da “L’impero” veniva sempre sconfitta, anche in modi imprevedibili: l’endorsement del fondatore del giornale era considerato una vera iattura da qualsiasi politico. 2
tutti loro sono professori universitari, più o meno di complemento, e alcuni di loro sono opinionisti a tempo pieno di autorevoli giornali e meno autorevoli trasmissioni televisive); il guaio è che questa strana follia ha dettato per molto tempo l’agenda del dibattito culturale: ed è questa agenda che vorrei controllare e questa strana follia che vorrei contrastare. Anche se dopo molto tempo il movimento lanciato dall’intelligenza politica e dallo spessore culturale della Rete 29 Aprile ha imposto un’agenda diversa e sta, con qualche fortuna, rilanciando un dibattito vero sui problemi dell’Università italiana e sulle possibili soluzioni 5 . La follia è la passione per la trasformazione dell’Università e della Scuola a partire da una logica aziendale, una passione moribonda che non trova ragionevoli motivazioni; non è che non ci siano problemi, anche gravi, nella Scuola e nell’Università italiana, ma essi non stanno nel fatto che Scuola e Università non siano organizzate come aziende. L’autonomia e l’autogoverno vengono presentati come autoreferenzialità, mentre sono la conseguenza di un percorso storico che ha garantito la libertà di insegnamento e la difesa del pensiero critico (una democrazia che non ha molte istituzioni che si governino da sole è debole e precaria). La presenza di attività di ricerca e di insegnamento, non legate agli sbocchi immediati di mercato, non è vista come una ricchezza culturale di enormi potenzialità, ma come spreco (come dice il ministro Tremonti, “Dante non si mangia”) con una miopia che non si sa se sia più dovuta a “malizia” o a “matta bestialitate”. La possibilità che uno studente scelga un percorso di studi “inutile” non finalizzato solo a trovare uno sbocco professionale, ma lo scelga per amore della conoscenza e che magari scelga di passare all’università uno o due anni in più per voglia di sapere o per indecisione o per fare ciò di cui gli “punga vaghezza”, è considerata un’aberrazione e non una delle modalità possibili del “fare l’università” 6 . La giusta richiesta che i professori lavorino e che facciano ricerca e che pubblichino non può essere vista come la parossistica necessità di una “minzione” continua, misurata solo in litri di liquido prodotti, in una forsennata rincorsa a pubblicare ad ogni costo (con una logica, questa sì, puramente autoreferenziale): ci vorrà qualche volta un tempo congruo per pensare e scrivere qualcosa di nuovo e di utile, e per avere la speranza che, oltre l’autore e i due o tre referee, vi sia qualcuno che legga e mediti e utilizzi 7 . La giusta esigenza che si riducano dispersioni e ritardi non può essere l’unico metro con cui si giudicano i risultati dell’insegnamento (quanti crediti dal primo al secondo anno, quanti laureati in corso, che media di voti o che punteggio di laurea, sono tutti indicatori utili, anzi indispensabili): c’è un valore legato al livello di competenze, conoscenze, abilità e capacità di rielaborazione critica, ovvero una qualità che non si riduce alla quantità, anzi che – a volte – può essere in contrasto con essa: sono due obiettivi entrambi da perseguire, ma non necessariamente correlati; e 5
Cfr. www.rete29aprile.it. Contrariamente a molti colleghi e amici, “reazionari” di destra e di sinistra, io credo che un’organizzazione didattica seria ed equa debba essere pensata e organizzata per ridurre al massimo la dispersione e il ritardo e che in questo senso una delle logiche che hanno ispirato la cosiddetta riforma del “tre più due” fosse sensata e da approvare; e tuttavia, vivaddio, ci sarà pure qualche studente che sceglie di perdersi e di rallentare! 7 Credo che fissare, oculatamente, dei parametri, diversi per settori, cui ancorare un sistema di monitoraggio dell’attività scientifica dei docenti, sia in linea di massima giusto, senza che diventi un feticcio o un automatismo tuttavia. 6
così la valutazione sui docenti non può essere fatta, solo o principalmente, dall’elaborazione dei questionari standard compilati dagli studenti (come se fosse una sorta di customer satisfaction) che pure sono non inutili come “sensori”. Insomma l’idea che l’Università non sia una comunità di apprendimento, con forti caratteristiche di autonomia e libertà, con una dose di percorsi di conoscenza caotici e anarchici, con un conflitto difficile ma fecondo tra docenti e discenti, ma l’erogatore di un servizio o di una merce, per cui gli studenti non sono parte attiva di una comunità, ma utenti o clienti, a me pare una strana follia. Ma con quelli che la condividono, questa follia, ci sono molte ragioni per ragionare, come Paul voleva fare con i suoi compagni che condividevano la follia dell’amore del lavoro. Parto anche io, come loro, dalla constatazione dello stato di debolezza e di paralisi di molta parte dell’Università italiana e condivido anche la diagnosi che tra gli effetti e tra le cause di questa debolezza vi sia spesso la mediocrità di alcuni docenti universitari, la loro faitnéantise, la struttura baronale del potere, la cooptazione di parenti e valletti, il processo di selezione negativa 8 . Ho scritto “tra gli effetti e tra le cause”, volendo dire che queste sono alcune tra le cause, non poco importanti e tuttavia non quelle davvero decisive, e volendo dire che baronie e fannullonerie sono anche effetti della crisi delle università italiane. Voglio anche precisare che a volte vi sono mediocri faitnéans, a volte faitnéantes brillanti, e a volte mediocri attivissimi. Combattere i fannulloni, eliminare i mediocri, abbattere la struttura baronale del potere, squalificare il nepotismo, produrre processi virtuosi di scelta è sicuramente un insieme di obiettivi legittimi. Per raggiungere questi obiettivi, che prima di essere di efficienza sono etici, bisogna tuttavia capire che cosa ha determinato questi fenomeni, come essi sono legati tra loro, come interagiscono con altri. Altrimenti, per il carattere controintuitivo del comportamento dei sistemi sociali 9 , si rischia la sindrome del “Bar dello sport” 10 , “per ogni situazione complessa, esiste una soluzione semplice ed evidente: ed è sbagliata”; alcuni ministri usano questa semplificazione a scopi strumentali, il numeroso corteggio di duchini (con nessuna distinzione tra duchini di destra o di sinistra, se non il differente grado di affetto per Silvio Berlusconi) perché di questa sindrome pare esser vittima (anche questa è una “strana follia”).
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A questo punto, per evitare un possibile ricorso all’argomento ad hominem contro le mie considerazioni, vorrei dire che non sono figlio d’arte (mio padre era barbiere, mia madre prima donna di servizio, poi casalinga), non ho figli, mogli, cugini o amanti impegnati in nessuna attività universitaria, mi sono laureato in Fisica con lode a 21 anni e sono stato tra i ginnasiali premiati come i migliori d’Italia, non ho una carriera universitaria particolarmente brillante, ma non sono sotto la media, sia in generale sia nel mio settore, ho sempre lavorato molto nell’Università e considero importante e gratificante e utile fare didattica, non ho ambizioni di potere di nessun tipo, ma sono stato e sono disponibile a “tirare la carretta” per il bene comune, e al bene comune tengo, essendo di sinistra. Preciso tuttavia che non rivendico alla sinistra il monopolio della moralità o dell’amore per la cosa pubblica, per questo mi irrito quando la destra rivendica il monopolio della stupidità: no, cari signori, ne abbiamo anche noi a sinistra di stupidi. 9 Ben messo in evidenza da Forrester J.W., Comportamento controintuitivo dei sistemi sociali, in AA.VV., Verso un equilibrio globale, Mondadori, Milano 1974. 10 La sindrome del “Bar dello sport” consiste – in prima istanza – nella seguente sequenza: “Come l’Italia avrebbe potuto vincere l’ultima partita, come avrebbe potuto vincere tutte le partite dell’ultimo mondiale (o europeo, o…), come avrebbe potuto vincere tutti i mondiali, come avrebbe potuto vincere tutti i tornei dall’epoca del gioco della palla nel XV secolo”. Molti ministri di molti recenti governi hanno frequentato il “Bar dello sport”.
ALCUNI PREGIUDIZI
I dati statistici come è noto possono essere utilizzati in molti modi 1 , sostenendo, a partire dagli stessi numeri di base,
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che la spesa pubblica per l’Università è in Italia modesta o rigogliosa. È modesta, meno, molto meno della media dell’OCSE: 0,7 contro 1,0 2 , ma se la misuriamo per studente equivalente (gli studenti che all’università ci sono davvero, escludendo cioè, del tutto o in parte, i fuori corso) forse le cose un po’ cambiano (ma dipende da come è calcolato il dato della spesa nel rapporto OCSE 3 ), ma forse uno studente fuori corso un po’ pesa (fa esami e la tesi); allora forse vale la pena misurare quanto si spende in cifra assoluta per studente equivalente: 8. 725 dollari in Italia e 13. 016 in Germania, con un media OCSE di 12. 336 euro 4 . Il dato non è così tragico come quello della percentuale, ma – in ogni caso – questo non ci dice che ci vogliono meno soldi per l’Università, ma che ce ne vogliono un po’ di più a numero invariato degli studenti e molti di più se vogliamo più studenti.
Che i docenti italiani lavorano molto o poco, guadagnano poco o molto. Lavorano poco come carico didattico orario ufficiale, parecchio meno della media europea 5 , ma in molte università europee vi è un’organizzazione molto più efficiente di supporto alla didattica che, forse e dico forse, rende il divario un po’ meno significativo. Lavorano parecchio, sembrerebbe se guardiamo al
Tutti conosciamo la frase di Twain nella sua “Ci sono le bugie, le dannate bugie e le statistiche”; e tutti tendiamo a dimenticarcene. 2 Cfr. www.oecd.org/document/24/0,3343,en_2649_39263238_43586328_1_1_1_37455,00.html. 3 Cfr. Benedusi L., Un’università da (ben) riformare ma non da buttar via, in “Po-lis”, aprile 2009, www.polis.it/nuovo/pdf/02/polis2_dibattito.pdf. 4 Cfr. ancora www.oecd.org/document/24/0,3343,en_2649_39263238_43586328_1_1_1_37455,00.html. 5 Anche in questo caso i confronti sono difficili, anche perché nessuno sa quanto lavorano davvero i docenti a parte le clausole contrattuali; certo è che in genere i professori italiani hanno in media un carico didattico non eccessivo e – soprattutto – mille scappatoie per non lavorare se non vogliono.
rapporto docenti/studenti che è di 1 a 20 contro una media OCSE 6 di 1 a 16. Ma se contiamo anche i docenti non di ruolo? In altri paesi i fuori ruolo non sono certo come la “categoria” dei nostri “precari”. E se rifacciamo il conto considerando in modo diverso i fuori corso? Le cose possono cambiare anche perché non è molto facile determinare il numero di persone da calcolare nel cosiddetto teaching staff (anche i precari fantasma? E come?), anche se l’OCSE prova a definirlo; e non è facile capire cosa sia esattamente un Full Time Equivalent Student (FSE): ad una prima stima la situazione, tenendo conto dei docenti effettivi anche non di ruolo, non dovrebbe, anche in questo caso, essere molto lontana dalla media europea; e tuttavia cosa possiamo dedurre dal fatto che il rapporto docenti/studenti diventa “ragionevole” solo se contiamo i docenti precari? se non che i docenti “regolari” (non dico di “ruolo”, dico dotati di un rapporto contrattuale “civile”) sono troppo pochi e dunque ancora una volta servono più soldi (e non meno soldi) e più regole e migliori? Guadagnano abbastanza 7 anche se in modo distorto: troppo poco all’inizio e – forse – un po’ troppo alla fine (specie perché l’anzianità è il solo criterio, dopo la conquista del posto da ordinario 8 ) ma solo se consideriamo i regolari; per gli altri, tutti quelli che tengono insieme la baracca, la remunerazione è scandalosamente bassa e incerta.
Che i docenti e i ricercatori universitari “producono” poco o molto nel campo della ricerca. L’impressione che si ha dai dati disponibili è che producano molto e bene i migliori, ma non è escluso che vi siano parecchi che producano poco e male. L’articolo di David King apparso su Nature 9 è stato commentato da Ugo Amaldi con queste parole 10 :
In questo periodo la ricerca italiana è denigrata da (quasi) tutti senza tener alcun conto del fatto che i finanziamenti annuali e il numero di ricercatori sono in Italia molto inferiori a quelli degli altri paesi sviluppati. [...] questo articolo mostra che l’Italia ha la metà dei ricercatori della Francia e del Regno Unito, nonostante le popolazioni siano uguali. Il numero di dottorati di ricerca è addirittura tre volte inferiore. [...] l’1% degli articoli che hanno ricevuto citazioni in ogni campo sia di scienza che di ingegneria [...] analizzando 8000 riviste pubblicate in 36 lingue. [...] l’Italia sta al settimo posto dopo gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, il Giappone, la Francia e il Canada. Ma il confronto non è corretto, perché non soltanto l’Italia ha molti meno ricercatori per milione di abitanti; anche l’investimento per ricerca e sviluppo, come tutti sanno, è l’1% del Prodotto Nazionale Lordo, mentre la Francia e la Germania investono quasi tre volte di più. [...] Così si vede che l’Italia della scienza e dell’ingegneria di punta supera, nell’ordine, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e il Giappone. In conclusione, i nostri pochi fondi sono bene investiti e i caposcuola esistono. 6
Cfr. ancora www.oecd.org/document/24/0,3343,en_2649_39263238_43586328_1_1_1_37455,00.html. Ibidem. 8 Anche se è un po’ assurda la pretesa che tutti lavorino affannosamente per pubblicare a tutti i costi come unico criterio di valutazione, invece di prendere in considerazione un ragionevole equilibrio tra due parti dello stipendio, una fissa e una variabile, legata sì alla produttività scientifica, ma anche all’impegno didattico e organizzativo. Qualche anno fa la categoria dei docenti universitari ha accolto con gioia l’abolizione della contrattualizzazione e l’equiparazione con magistrati e diplomatici; non essere più lavoratori ha avuto un effetto deleterio sui comportamenti e sulla autopercezione dei docenti: il solito piatto di lenticchie. 9 King D.A., The Scientific Impact of Nations, in “Nature”, n. 430, 14 luglio 2004, pp. 311-316. 10 http://personalpages.to.infn.it/~biolcati/protesta/Punte-ricerca-scientifica-italiana_U.Amaldi_29.10.08.pdf 7
Proviamo a dirlo: il mestiere del professore universitario è multidimensionale, ci vogliono capacità diverse e diverse “intelligenze” (più della metà di quelle previste dall’elenco di Gardner 11 ). Se è per questo anche il mestiere del pugile è multidimensionale: non basta la forza fisica, serve la velocità, la mobilità, la tenacia, la capacità di gestire le avversità, la visione, il coraggio, la pazienza, l’orgoglio, il colpo d’occhio: per questo Mohammed Alì è stato il più grande, non perché avesse il colpo più potente. Tutti i professori devono lavorare a tempo pieno se hanno scelto il tempo pieno. Lavorare, per un professore universitario, significa fare didattica, studiare, fare ricerca, seguire tesi di laurea e dottorati, partecipare alla vita delle Facoltà, contribuire ai compiti organizzativi, svolgere una funzione sociale nel territorio in cui si opera: a stipendio pieno, lavoro pieno. Nel tempo libero è consentito di partecipare a Porta a porta o scrivere sul “Corriere della sera”. Come spesso succede la miscela di queste attività può essere diversa per ciascuno (che palle 12 un mondo o un’organizzazione in cui tutti sanno fare e fanno le stesse cose) e la “bravura” nello svolgerle è diversa: è del tutto ragionevole pensare, tuttavia, che non si possa scendere sotto una certa soglia per ognuna di queste attività sia come percentuale nella miscela, sia come “livello” 13 . Ma ci sono stati e ci saranno ottimi ricercatori che fanno pessime lezioni e ottimi didatti che sono modesti ricercatori, studiosi profondi e poco produttivi, ricercatori molto attivi e più superficiali, ottimi inventori e gestori di progetti formativi che scrivono poco, e così via. In un’Università di massa, che ha bisogno di grandi quantitativi di docenti, non avremo solo luminari, ma anche docenti di qualità normale: la questione è che vi sia una soglia di qualità minima (di base: ad esempio, non commettere errori di ortografia, sapere come calcolare una media o mediana pesata, saper comunicare decentemente in una lingua straniera; e disciplinare: essere membro attivo della comunità scientifica, partecipare agli incontri importanti della propria comunità, avere pubblicazioni non troppo sotto la media del proprio settore per numero e qualità 14 ) e che essa sia chiara e necessaria; inoltre è opportuno che vi siano meccanismi di selezione “positiva” che – nel tempo – elevino la soglia. Ammettendo che ci sia del vero in questa analisi, ne risulta che valutare la qualità di un docente non può essere fatto in modo semplicistico e non può basarsi su un concetto “bastardo”, in particolare nel contesto educativo, quale è quello di “produttività”. In tutto il settore dei servizi è estremamente difficile misurare la produttività, cosa che è più facile, ma spesso non banale, nei settori (appunto) 11
Cfr. Gardner H., Intelligenze multiple, Anabasi, Milano 1994. Espressione idiomatica per dire “che noia”. 13 Si possono ammettere eccezioni: se una delle attività è svolta ad un livello eccezionale (ad esempio se la ricerca produce un Nobel) si può scendere anche a zero in una o più delle altre. 14 Non si può essere “tutti sopra la media” per definizione; anche se gli automobilisti e i professori universitari si percepiscono in stragrande maggioranza come “più bravi della media”, questa è evidentemente una fallacia e come tale va riconosciuta; si può elevare una media o ridurre la varianza, ma tutti, proprio tutti, non possono essere sopra la media. 12
“produttivi” (ma quando si mette di mezzo la “qualità” dei prodotti ci vuole attenzione anche in questi casi). Cosa misuriamo? Il numero di studenti promossi? Il tempo che hanno impiegato? I voti che hanno preso? Le competenze, basandoci su uno standard internazionale? Le conoscenze? Il successo nel trovare lavoro? I tempi per trovarlo? Il reddito dopo tre anni? Una miscela di tutte queste cose? E rispetto a quale situazione di partenza? Come tener contro degli squilibri regionali? E del contesto culturale? E del capitale sociale? E delle attrezzature? E soprattutto che fare dei modi di pensare “divergenti”, di chi pensa per sé e per il mondo in modo diverso da quelli comuni, come non premiare sempre e comunque il conformismo? Sulla questione di come valutare le capacità di un docente dovremo tornare, in ogni caso chi mi conosce sa che amo misurare e che provo ad inventarmi misure utili per capire i fenomeni sociali e territoriali. E dunque credo che misurare l’efficacia e l’efficienza del sistema scolastico e universitario sia – entro certi limiti – una cosa utile; credo cioè che vada fatta e che possa essere fatta. Ma non userei la nozione secca di “produttività” per misurare e valutare l’educazione, così come – se fossi a capo di una chiesa – non l’userei per valutare l’attività dei parroci o dei missionari.
EFFICACIA ED EFFICIENZA
Parliamo di efficacia e di efficienza, ma giocando a capirci. Efficacia viene da efficere–portare a compimento – ed è la capacità di “raggiungere il fine precedentemente determinato”, sicché un apparato di locomozione sarà efficace se ci porta a destinazione (non basta che si metta in movimento, occorre che ci porti a destinazione); se non siamo d’accordo su quale sia il fine, non si può stabilire se un mezzo sia efficace o no; un mezzo può essere efficace in tutti i casi o solo in un certo numero di casi. La radice di efficienza è la stessa: in questo caso si tratta della capacità “di produrre un effetto” e in questo caso il riferimento ad un fine precedentemente determinato (progettato) si attenua o scompare e si introduce un “grado”. Prendiamo un punteruolo per il ghiaccio: per il progettista quest’oggetto non è inteso a uccidere una persona e dal suo punto di vista non voleva essere efficace a questo scopo, ma solo (o prevalentemente) a quello di rompere il ghiaccio, ma per l’assassino sicuramente l’oggetto è efficace; indubbiamente un punteruolo per il ghiaccio è parecchio efficiente anche per un omicidio; un cavaturaccioli può essere efficace in qualche caso per uccidere, ma sarà sicuramente molto meno efficiente a questo scopo. Vediamola così: “efficace” è uno strumento, un mezzo, un’azione che raggiunge lo scopo che si prefigge (adeguatezza all’obiettivo); “efficienza” è “quanto bene” quello strumento, quell’azione, quel mezzo raggiunge l’obiettivo, lo scopo, rispetto ad un qualche tipo di “spesa”, all’uso di una qualche “risorsa”, di certi input (la misura dell’efficienza potremmo chiamarla anche “rendimento”). Un’automobile funzionante è un mezzo per raggiungere una destinazione ed è dunque efficace (anche perché è stata progettata con questo scopo), per essa possiamo però misurare tipi diversi di efficienza: rispetto al costo, al consumo di carburante, alla velocità, al rapporto velocità/consumo, alla sicurezza 1 ; di più, potremmo
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L’uso di un’automobile a fini di prestigio e per “rimorchiare” definirebbe un altro concetto molto diverso di efficacia e di efficienza; del resto la definizione stessa di “beni posizionali” (che sono quei beni che, in una società ad alto tenore di vita, i consumatori cercano di acquistare allo scopo di migliorare il proprio status reddituale relativo) fa riferimento a un confronto, a una relazione. Cfr. Hirsch F., I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani, Milano 1981.
confrontare la sua efficienza con altri mezzi atti a raggiungere quello scopo 2 . Dobbiamo chiederci quindi parlando di efficacia dell’istruzione pubblica e dell’Università: qual è lo scopo dell’Università? Serve a consentire ai docenti di fare ricerca, serve alla formazione di giovani professionisti, serve a permettere ai laureati di diventare più ricchi, serve per costruire una società più giusta o più prospera? Attenzione non vogliamo dire che questi scopi siano in contrasto tra loro: forse potrebbero rinforzarsi l’un l’altro, sempre o entro certi limiti, potrebbero essere indifferenti o essere in contrasto, quindi la domanda è cruciale. Solo dopo aver dato risposta alla domanda sull’efficacia, si possono cercare risposte sull’efficienza, ma non è semplice; non è semplice perché mentre è abbastanza chiaro il rapporto tra consumo di benzina e percorso fatto dall’automobile (se scegliamo di valutare questo tipo di “spesa” e non altri, e anche questo è un problema di scelta, non c’è la ricetta del medico da seguire), ovvero abbiamo in questo caso un chiaro e definito rapporto di causa/effetto, non è chiaro, rispetto al fine dell’Università (supponiamo di scegliere quello che sceglierei io, ma ne riparleremo: “formare persone autonome e critiche per una società più equa e prospera” 3 ), quali siano i mezzi che determinano il suo raggiungimento. C’entra e come il numero di pubblicazioni pro capite dei docenti? A mio avviso sì, in qualche modo, ma per poterlo dire bisogna avere un modello che interpreti i rapporti tra didattica e ricerca. C’entra e come la qualità delle tesi di laurea? C’entra e come la cosiddetta “impiegabilità” dei laureati: subito dopo la laurea? Dopo tre anni? Con che ruolo? Con che stipendio o reddito? E così via... Il fatto che io pensi che non sia semplice (perché non è semplice) non vuol dire che non ci si possa provare, ma vuol dire che va fatto con molta attenzione, con molta prudenza e con molta modestia e con attenzione ai contesti. Si può dunque pensare ad un sistema di valutazione dell’efficacia dell’Università e delle efficienze rilevanti in relazione a questa efficacia, ma sicuramente dovremo distinguere, almeno, per settori disciplinari, per aree geografiche, per dimensioni delle sedi, per dotazioni e attrezzature, per situazione economica e disponibilità di “capitale sociale” nel territorio di riferimento.
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In realtà quando si studia l’efficienza di un apparato, il modo corretto sarebbe quello di considerare l’efficienza sistemica, ovvero comparare tutti i metodi possibili per raggiungere diversi risultati: uno scaldabagni elettrico può avere un’efficienza alta nel produrre acqua calda, ma se lo usiamo per produrre acqua calda al posto della combustione di legna, poi non potremmo usare quell’energia per produrre lavoro; insomma l’efficacia di un bazooka per abbattere tordi potrà magari essere elevata, ma poi non potremmo usare una fionda o un fucile da caccia contro un carro armato; sull’efficienza sistemica (o efficienza epsilon) cfr. Study Group on Technical Aspects of Efficient Energy Utilization “Efficient Use of Energy”, in Physics Today, August 1975, pp. 23-33, 1975. 3 Aiuto quanti termini da definire!
LA TENURE ALL’ITALIANA
Tra gli elementi che influenzano l’efficacia e determinano il valore di parecchi tipi di efficienza, ci sono sicuramente la qualità dei docenti e le modalità del reclutamento e della promozione. Vale la pena soffermarsi su quest’ultima: è ragionevole pensare che a 23/24 anni, dopo la Laurea Magistrale, sia il momento di orientarsi verso la carriera universitaria o della ricerca (sempre con la possibilità di ripensarci, oltre che di pensarci dopo). Il dottorato, che dovrebbe essere sempre retribuito (con qualche possibile eccezione per “anziani” già occupati, cui il dottorato serve per altri scopi, non accademici, ma sarebbe da discuterne), è l’apprendistato per questo percorso: dopo tre anni a tempo pieno e dopo un’impegnativa dissertazione vi sono tutti gli elementi per accertare un’attitudine a quel lavoro. E siamo a 26/27 anni. Un concorso per una posizione a tempo determinato (tre anni) comporta l’ingresso nel mondo universitario: dopo una valutazione rigorosa, chi la supera entra di ruolo. A 30 anni (salvo le importanti e utili eccezioni di chi decide in momenti successivi “cambiamenti di vita”). Per poter funzionare e perché siamo in un’Università di massa e ci vogliono molti docenti, servono moltissimi posti. E serve una valutazione severa per l’ottenimento del dottorato e per la conferma dopo il triennio a tempo determinato. Un meccanismo di questo tipo potrebbe eliminare la pletora delle posizioni precarie, mantenendo solo i docenti a contratto (su cui tornerò). Un mio vecchio pallino (ha ormai quarant’anni) è quello del docente unico. Tutti coloro che insegnano nell’università sono “professori” e hanno gli stessi diritti e doveri nella gestione delle attività didattiche e di ricerca e nell’accesso ai fondi. E negli organi di governo. Con una sola differenza: vi sono “titoli” accademici diversi (tre fasce) e soprattutto stipendi (un po’, non troppo) diversi. In questo senso avere tre livelli di fasce docenti (titoli) non è sbagliato; potremmo avere professori aggiunti, associati e ordinari. La progressione da un “titolo” all’altro avviene attraverso delle idoneità nazionali;
gli stipendi sono agganciati non solo al “titolo”, ma anche alla qualità della ricerca e della didattica in progress, e all’impegno in attività di gestione e di organizzazione. Ovviamente l’accesso ai fondi di ricerca dipende dalla qualità dei programmi di ricerca presentati e dai risultati ottenuti in precedenza. In sostanza come si passa da una fascia all’altra dopo l’ingresso? Con il conseguimento di un’idoneità nazionale, che viene bandita ogni due anni (e che è aperta anche a persone che non hanno scelto da sempre la carriera universitaria, ma che – a parte situazioni di “chiara fama” – abbiano conseguito un dottorato) ed è basata su due passaggi successivi:
su una valutazione (anche “soggettiva”: i titoli vanno anche letti, ma torneremo sulla differenza fra misurare o calcolare e valutare) della produzione scientifica e della qualità della didattica; su una chiamata da parte di un’università, con incentivi consistenti per le università che non chiamano i “loro” docenti.
Gli atenei possono inoltre avere una certa autonomia nel fissare l’entità degli stipendi (quello nazionale con un delta del 20/30% in più). In questa idoneità nazionale serve un filtro passa-alto, come si diceva una volta in elettrotecnica, ovvero tarato a un valore relativamente grande, ma non troppo, per consentire che non vengano esclusi dagli idonei le persone meritevoli anche correndo il rischio di ammettere qualche “capra”; serve anche l’introduzione di meccanismi che riescano a premiare le università virtuose (efficaci ed efficienti, quindi quelle che anche hanno scelto buoni docenti) e che quindi possono agevolmente impedire o ridurre clientelismi e nepotismi nelle chiamate, specie se i meccanismi di idoneità nazionale sono trasparenti e ragionevolmente severi. Eliminare o spuntare le unghie ai baronati e al nepotismo e agli sprechi vuol dire avere meccanismi trasparenti e pubblici di valutazione, costruire un’etica pubblica (i baroni coprono i fannulloni e i fannulloni coprono i baroni), ma soprattutto vuol dire fare in modo che le scelte clientelari siano costose in termini di finanziamento e di credibilità dell’università che le compie o le avalla: anche a questo doveva (deve) servire l’autonomia. In questo modo nell’università vi sarebbero solo tre tipi di figure di docenti: i “triennalisti”, i docenti strutturati e – aggiungo ora – i docenti a contratto. Di questi ultimi è bene che ce ne siano, purché siano al di sotto di una certa percentuale, percentuale che sarà ovviamente diversa a seconda delle discipline. Faccio un esempio per capirci. Ci sono discipline in cui gli insegnanti migliori si potrebbero trovare prevalentemente fuori dell’accademia e tra persone non troppo interessate alla carriera accademica (è il caso di Design, tra gli altri): non è insensato che – entro certi limiti – la percentuale ammissibile di professori a contratto possa essere in questi casi significativamente maggiore. I docenti a contratto vanno pagati sempre e comunque, e selezionati tra professionisti ed esperti di consolidata esperienza e dottrina.
VALUTARE, VALUTARE
Yet to calculate is not in itself to analyze. A chess-player, for example, does the one without effort at the other 1 .
Valutare non è misurare soltanto, come dovrebbe essere ovvio. Dunque, come valutare i docenti strutturati per assumerli, per promuoverli e dopo averli promossi? Come abbiamo detto, ci sono tre o quattro attività che un docente fa: ricerca, didattica, attività organizzative, rapporti con il territorio. In qualche misura, tutte queste attività dovrebbero entrare nella valutazione. Un po’ come è successo per l’“intelligenza”: prima è stato inventato un indice e poi si è stabilizzato il concetto 2 , così è (almeno in parte) per la qualità scientifica dei docenti. Un punto da ribadire è che la valutazione non è mai una mera misurazione (numero di pubblicazioni, numero di citazioni, livello della rivista; gradimento da parte degli studenti o numero di ore di insegnamento; numero di incarichi organizzativi; numero di convenzioni o contoterzi), anche se alcuni dati, alcuni indici, alcuni indicatori aiutano. Per parlare degli indicatori varrà la pena di fare un esempio facilmente comprensibile; nulla è più chiaro di un indicatore come la densità di popolazione di uno Stato, un indicatore oggettivo che si ottiene dividendo la popolazione in un dato istante per la superficie, si tratta di un indicatore variabile nel tempo, soggetto quasi soltanto alla variazione della popolazione (almeno nella maggior parte dei casi e sul medio periodo la superficie di un paese si suppone costante); è un buon indicatore, in prima approssimazione, del grado di affollamento di un paese. Tuttavia sarebbe discutibile sostenere che un paese che ha densità superiore ad un altro ha, necessariamente, un grado di affollamento reale maggiore; infatti non conta 1
“Calcolare non è analizzare: un giocatore di scacchi per esempio fa la prima cosa senza nessuno sforzo per fare l’altra”, Poe E.A., The Murders in the Rue Morgue, www.eliteskills.com/c/5265. 2 Gould S.J., Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, Net, Milano 2005.
solo l’estensione del territorio, ma la sua configurazione fisica: laghi, deserti, montagne, foreste, paludi pur rappresentando estensioni che contribuiscono a determinare la superficie globale di un paese, tuttavia non possono essere considerate “superfici abitabili”, sicché un indicatore più ragionevole dell’affollamento potrebbe essere la densità per superficie utile, ottenuta dividendo la popolazione per la superficie “utile”; in questo caso entrambi i termini del quoziente sono variabili nel tempo. Tuttavia questa nuova definizione, pure più significativa, ha il difetto di essere più indeterminata, più opinabile, oseremmo dire, più soggettiva; se infatti esistono norme tecniche e giuridiche comunemente accettate per misurare la superficie di un paese, la nozione di “superficie utile” dipende molto dal punto di vista (ad esempio è la superficie agricola? quella edificabile?). C’è dell’altro: è ragionevole supporre che ci sia una certa differenza fra l’affollamento “ammissibile” in una società agricola e in una società industriale, e all’interno di una società industriale in una di antica o recente urbanizzazione, sicché ad un medesimo indice di densità utile, potrebbero corrispondere assai diversi livelli di reale affollamento, misurabili con indici di “densità utile corretti”, moltiplicati cioè per un qualche fattore di correzione che tenga conto del grado di industrializzazione del paese, della sua “storia urbana”, e così via. Come si vede l’interpretazione, la soggettività si insinuano sempre di più all’interno della fredda lingua dei numeri, e ancora non abbiamo parlato della percezione soggettiva della gente, che potrebbe far sentire come affollata ad alcuni una situazione che per altri non lo è affatto. Come si vede anche una misura che potevamo pensare come semplice, oggettiva, meramente quantitativa come il grado di affollamento, risulta molto discutibile e ambigua; anche ricorrendo ad un’analisi multidimensionale (che cioè costruisca un indice, articolato in diversi livelli) l’opinabilità non scompare, anche se appare più visibile l’insieme dei fattori che sono stati presi in considerazione e che, quindi, possono essere esaminati separatamente. I problemi però non sono finiti, perché la valutazione dei risultati conseguiti, comporta spesso l’uso di indicatori qualitativi, che, per definizione, sono ancora più soggettivi e sfuggenti di quelli quantitativi. In ogni caso è implicito nel nostro ragionamento che la scelta di un indicatore non è automatica e necessitata, ma dipende dal problema specifico, non è quindi quasi mai del tutto oggettiva: non bisogna tuttavia confondere qualitativo con arbitrario, anche una “misura” qualitativa è confrontabile e valutabile; non bisogna poi scambiare per qualitativi degli indicatori che, pure costruiti sulla base di scelte soggettive, sono semplicemente degli indici aggregati che, a giudizio degli ideatori, misurano proprietà qualitative. Cerchiamo di spiegarci con un esempio: molti analisti ritengono insoddisfacente per misurare il benessere di un paese fare ricorso alla determinazione del PIL o del PIL pro capite e del PIL pro capite corretto sulla base del potere d’acquisto (tra l’altro grandezze non sempre facilmente calcolabili), e si inventano degli indicatori che mettono insieme (pesandoli in modo “opportuno”) diverse variabili (ad esempio il PIL pro capite, la speranza di vita alla nascita, il grado di alfabetizzazione) come nel
caso di un possibile indicatore di qualità della vita, che è un indicatore “di qualità” sì, ma non un indicatore qualitativo. Infatti, anche in questo caso abbiamo sostanzialmente degli indicatori di tipo quantitativo, per quanto soggettivamente prescelti; il caso di indice di qualità di cui parlavamo è quello del cosiddetto “Indice di sviluppo umano” (ISU, o in inglese HDI 3 ) proposto dall’UNDP (United Nations Development Program) nel 1991; l’ISU è costruito elaborando una media pesata fra le tre variabili citate, di cui il PIL è preso in scala logaritmica: si realizza così un indicatore continuo compreso fra 0 e 1. Non si può negare che si tratti di un buon indicatore, più raffinato del solo PIL, che, benché abbia qualche correlazione tra le variabili che lo definiscono, appare comunque molto utile; e tuttavia molte critiche possono essere mosse anche a questo indicatore, che pure è più multidimensionale e articolato. E se ne discute, eccome 4 . E volete che sia semplice valutare il lavoro di un professore universitario?
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Cfr. http://hdr. undp. org/. Oltre alle aspre critiche degli “antipatizzanti”, la nozione di sviluppo umano dovuta a Mahbub ul Haq, su cui si basa dal 1990 l’annuale Human Devolpment Report, e la cui fondazione teorica è stata data da Amartya Sen e sviluppata da Martha Nussbaum, è molto discussa anche all’interno della cerchia dei simpatizzanti, ad esempio nel “Journal of Human Development and Capabilities”.
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MERITO, MERITI: COME VALUTIAMO DAVVERO E COME SCEGLIAMO CHI VOGLIAMO
Ma scendiamo nel dettaglio. Per quanto riguarda la valutazione della ricerca gli indici più interessanti sono due:
quello chiamato ISI 1 , che in sostanza misura il numero di citazioni di un ricercatore, con raffinati meccanismi che tengono conto dell’importanza della rivista in cui si pubblica (misurata da un “fattore d’impatto” 2 ), tenendo anche conto della differenza tra settori disciplinari; il cosiddetto H Index, proposto da Georg Hirsh nel 2005: “A scientist has index h if h of his or her Np papers have at least h citations each and the other (Np _ h) papers have h citations each” 3 .
Entrambi questi indici sono sicuramente interessanti e utili, entrambi hanno qualche possibilità di “sbagliare”, entrambi si prestano a qualche trucco, entrambi sono molto “conformisti” 4 . Ma sicuramente non sono inutili. E sicuramente non possono essere l’unico criterio di valutazione dell’attitudine alla ricerca o dei risultati ottenuti. Anzi la corsa a “pubblicare” tende a essere, a volte, rivale dell’approfondimento, della riflessione, dell’originalità, dello spirito critico. Tuttavia sarebbe sbagliato non tenerne molto conto. 1
Cfr. www.isiwebofknowledge.com. Cfr. http://thomsonreuters.com/products_services/science/science_products/a-z/journal_citation_reports/. 3 “Un ricercatore o una ricercatrice ha un indice H se i suoi N articoli hanno almeno H citazioni ciascuno e gli altri (NH) articoli hanno H citazioni ciascuno”. Cfr. Hirsch G.H., An Index to Quantify an Individual’s Scientific Research Output, in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, vol. 102, n. 46, 15 November 2005, pp. 16569-72. Per capirci se io ho scritto 200 articoli, e il mio articolo più citato ha 2000 citazioni, ma il successivo solo 2, il mio indice H è 2. 4 Sull’ISI cfr. Leydesdorff L., Evaluation of Research and Evolution of Science Indicators, in “Current Science”, vol. 89, n. 9, 10 november 2005 pp. 1510-1517. Sull’H-index cfr. Glänzel W., On the Opportunities and Limitations of the H-Index, in “Science Focus”, vol. 1, n. 1, pp. 10-11; reperibile in internet al sito http://eprints.rclis.org/9535/1/H_Index_opprtunities. pdf. 2
D’altro lato bisogna fare attenzione a non farne un criterio automatico. Non c’è dubbio che sarebbe un imbroglio prescinderne. E così via, alternativamente. Per quanto riguarda la valutazione della capacità didattica dei docenti si è ragionato molto meno sul come farla, affidandosi per lo più alle valutazioni degli studenti, sulla base di questionari di dubbia attendibilità 5 . Ciononostante, specie se si considerano non come una valutazione, ma come uno degli strumenti su cui costruire la valutazione 6 , questi questionari possono fornire utili strumenti e occasioni di riflessione e una delle premesse della valutazione; non è facile capire cos’altro si potrebbe valutare per un singolo docente (la percentuale di promossi e i voti rispettivi, comparati con docenti di settori simili? I materiali didattici prodotti? Un indicatore pesato per settori e percorsi di laurea sul numero dei laureati e il punteggio di laurea ottenuto? Una serie di interviste qualitative?). Qualcosa di più si può fare, specie con dati di lungo periodo su un corso di laurea nel suo complesso. Come si può vedere questa valutazione è molto più difficile e “scivolosa” di quella sulla ricerca. Ma la parola docente viene dal verbo docere. Non spendiamoci molto sulle altre due qualità: l’assunzione di compiti organizzativi, che se possono essere misurati in termini quantitativi, non è facile capire come si possano valutare (ha fatto il preside, ma l’ha fatto bene?) e la gestione dei rapporti con il territorio. Ammettiamo che si possano valutare in modo ragionevole queste caratteristiche e facendo una media pesata tra i valori delle quattro caratteristiche, stabilendo una soglia minima da raggiungere per ciascuno e un valore aggregato da ottenere, si conceda una idoneità o si assuma un nuovo docente nella fascia iniziale. Ma qual è il modo giusto per scegliere quello, tra gli idonei, che vogliamo nella nostra Università? Ammettiamo che Aldo, Barbara, Carla, Donatella, Eva e Giovanni siano tutti idonei, che Aldo sia quello che ha il punteggio aggregato più alto, Barbara il migliore nella ricerca, Carla nell’organizzazione, Donatella nei rapporti con il territorio, Eva nella didattica, mentre Giovanni, pur idoneo, ha un punteggio aggregato più basso degli altri e non è primo in nessuna “specialità”. Chi scegliamo (potremmo aggiungere altre complicazioni)? Tutti, tranne Giovanni, hanno un pessimo carattere, sono litigiosi, non sanno stare in gruppo, hanno in mente di andarsene il prima possibile. Giovanni ama lavorare, è un elemento che crea coesione, è simpatico agli studenti, vuole dedicarsi alla nostra facoltà. Chi scegliamo? Sapete com’è, i risultati dipendono dalle combinazioni. Se avessimo una partita a tre con Aldo, Barbara e Carla e se simulassimo una sorta di scontro tra “tiratori” e se il gioco fosse questo: Aldo ci piglia nell’80% dei casi, Barbara nel 60% e Carla nel 40% e vincesse quello che elimina tutti gli altri e se 5
L’attendibilità dei questionari di valutazione compilati dagli studenti in Italia è dubbia o debole per vari motivi: lo scarso numero e la variabilità dei frequentanti e quindi una certa casualità nella composizione di chi li compila, l’effetto di “trascinamento” che si ha nella risposta a una domanda sulla risposta di un’altra domanda appartenente a una sezione differente (se il professore non mi piace, dirò male anche dell’aula o viceversa), la non perspicuità di alcune domande. 6 England J., Hutchings P., McKeachie W.J., The Professional Evaluation of Teaching, in “American Council of Learned Societies”, Occasional Paper n. 33, 1996; l’articolo si può scaricare dal sito archives.acls.org/op/33_Professonal_Evaluation_of_Teaching.htm.
l’ordine di tiro fosse casuale, in entrambi i casi andando avanti sinché rimane solo uno, chi avrebbe la massima probabilità di vincere? E che ruolo avrebbe la strategia? Pensateci bene: chi è il più bravo? Chi ha la migliore capacità di tiro o chi ha le migliori capacità strategiche? O le migliori doti relazionali? E come sarebbe se l’ordine di tiro fosse prima Carla, poi Barbara, poi Aldo? Ci permettiamo di citare un’osservazione piuttosto perspicua di Umberto Eco al proposito: E qui interviene il diritto dell’ateneo che ha chiesto il posto. Facciamo un esempio in campo scientifico, dove sembra che la designazione del ‘migliore’ sia più facile. Per una cattedra di oncologia il migliore sarebbe certamente uno studioso che ha finalmente scoperto il vaccino contro il cancro e per questo ha preso il premio Nobel. E tuttavia l’ateneo in questione potrebbe non avere bisogno di un genio del genere. Ha già (poniamo) uno dei massimi cancerologi viventi, salvo che costui si occupa, giustamente, della ricerca e di alcuni seminari ad alto livello, ma è totalmente inadatto a interagire coi ragazzi dei primi anni. E l’università non ha bisogno di un altro numero uno, bensì di un buon numero due, che magari non abbia ancora fatto ricerche originalissime ma sia didatticamente perfetto, generoso con gli studenti, disposto a seguirli e a incoraggiarli. In tal caso l’unico vincolo dovrebbe essere che l’ateneo non scelga come preteso numero due un numero zero, solo perché cugino del rettore 7 .
Come sanno tutti i grandi allenatori di calcio non si può fare una grande squadra con solo fuori classe: non ha senso decidere che il criterio per acquistare un nuovo calciatore è che abbia vinto il pallone d’oro specie se di palloni d’oro ce ne sono già altri in squadra e nello stesso ruolo: di Maradona, per citare il più grande di ogni tempo, non ne andrebbero bene due in una squadra, e il grande Gianni Rivera (che è un pelo più sotto di Diego Armando, ma ha condiviso con lui il nomignolo di “ragazzo d’oro”) cosa sarebbe stato senza Lodetti? E stiamo parlando del calcio, che tra i giochi di squadra è tra i più sensibili all’importanza delle individualità, con altri sport, come il rugby, la questione che poniamo sarebbe ancor più rilevante. Vi è un altro elemento importante, che non trascurerei, specie in un’epoca come la nostra. Un grande ricercatore, persino un premio Nobel, non nasce nel vuoto, né interamente vestito e armato come Minerva. C’è un ambiente, locale e sovra-locale in cui si fa ricerca, si discute, si scambiano informazioni: insomma la produzione di nuove idee e di nuovi concetti è il risultato di un processo collettivo (questo è vero sempre, anche se in misura variabile per settori). Non sarebbe insensato quindi proporre qualche spunto di riflessione sul dono, la gratuità e su quanto essi pesino nel costruire una comunità scientifica; c’è un’area varia di sapere comune anche non espresso, implicito, non formalizzato, che è difficile attribuire come paternità o maternità a qualcuno, ci sono la realizzazione di cooperative, di collettive 8 , in cui i diversi contributi è difficile pesarli o persino individuarli e in cui chi è capace di fare rete, di costruire relazioni, è altrettanto, se 7
Eco U., A lista aperta, in “L’Espresso”, 3 aprile 2009. Benkler Y., La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Introduzione di Franco Carlini, Università Bocconi Editore, Milano 2007.
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non più, importante di chi ha maggiori capacità scientifiche. Insomma una valutazione dei ricercatori, che esasperi la competitività, può non contribuire ai risultati migliori della comunità scientifica: c’è un sottile equilibrio, che non credo sia saggio trascurare. Non voglio tralasciare qui un argomento che, come quello che citeremo nel capitolo seguente, è spesso facile, corrivo e depistante: una delle preferite retoriche sul fatto che i concorsi sono truccati è la reiterata affermazione: “Ho depositato in una busta chiusa il nome di chi vincerà quel concorso”. Non c’è dubbio che questo “potrebbe” voler dire che il concorso è viziato e che chi vincerà lo farà perché è allievo, amante, parente, amico o parente di amici dei commissari. Ma proviamo con un piccolo esperimento mentale: immaginiamo che in una competizione che davvero premi il merito e in un modo scientifico e davvero misurabile, ad esempio una gara di corsa, qualcuno dica: “Io posso dire chi vincerà la prossima gara”, e che questo lo faccia in 121 gare consecutive per undici anni; cosa ci verrebbe da pensare? Che commissari di gara, cronometristi, starter, giudici stanno attuando una congiura per favorire un allievo, un parente… oppure che si tratta di Edwin Moses dal 1977 al 1987 e la gara siano i 400 ostacoli. Un’ultima notazione: la valutazione di persone di confine, con un approccio multidisciplinare, con personalità multiple e anarchiche è particolarmente difficile e vi è una elevata probabilità che la loro carriera sia penalizzata. È con grande pena che sconsiglio agli alunni che mi piacciono di essere trasgressivi e vagabondi.
LA FAMIGLIA BERNOULLI
Una questione più minuta è quella che in passato sarebbe stata chiamata “nepotismo”, un facile e giusto bersaglio: anche qui qualche distinguo è tuttavia d’obbligo. Che marito e moglie (o un’altra qualsiasi combinazione di partner affettivi e sessuali senza legami di sangue) lavorino nello stesso dipartimento può anche dipendere dal fatto che due persone lavoravano già insieme nello stesso posto prima di mettersi insieme 1 : quindi accanto al calcolo di quanti coniugi, amanti e sodali siano presenti in un dipartimento o in un ateneo, bisognerebbe sapere se sono diventati coniugi, amanti e sodali prima o dopo esserci entrati, e, se dopo, se già da prima stavano “studiando” per entrarci, magari facendo un dottorato a Princeton. È vero che non è escluso che le carriere successive possano essere state favorite da questo fatto (e questo però non lo dicono i numeri, o soltanto i numeri). Quanto alle presenze dei parenti (di sangue) ovvero figli, nipoti, cugini, pro-nipoti non andrebbe trascurato un argomento: probabilmente vi sono alcuni fattori ereditari (soprattutto in senso ambientale e culturale, potremmo dire lamarckiano) che favoriscono una certa trasmissibilità di alcune competenze o di un certo savoir faire. Ad esempio, che diremmo se ad un’ipotetica cerimonia ad un ipotetico ateneo di Basilea nel 1740 2 si fossero ritrovati il trentenne Giovanni Bernoulli Secondo e suo fratello Daniele di trentacinque, assieme al loro padre il settantatreenne Giovanni e al loro cugino Nicola Primo cinquantatreenne, tutti professori di quell’Università, per celebrare la memoria del loro prozio Giacobbe morto trentacinque anni prima e del fratello di questi Nicola Secondo morto quattordici anni prima? Avremmo dovuto parlare necessariamente di nepotismo? E se quarant’anni dopo fossero docenti in quella stessa università i figli di Giovanni Secondo, Giovanni Terzo e Giacobbe Secondo? 1
Le persone che lavorano insieme tendono ad accoppiarsi con frequenza elevata, sia in forma palese che clandestina. Ovviamente la ricostruzione è del tutto ipotetica: i Bernoulli hanno vissuto in molti luoghi, più di uno di loro avrebbe potuto vincere un ipotetico Nobel o una medaglia Field. Saltando un paio di generazioni si avrebbe la ventura di trovare in seguito Hand Benno Bernoulli, un grande pianificatore, e la femminista Elisabeth.
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O se ripetessimo lo stesso gioco per i Carnot o per i Bach? Il che non vuol dire che non c’è nepotismo nelle università italiane e che il fatto che grandi medi o mediocri genitori abbiano aperto spazi a medi, mediocri e mediocrerrimi figli nella stessa università non sia un vergognoso esempio di familismo amorale e non possa nascondersi dietro l’esistenza dei Bernoulli o dei Bach. Anche se forse i meriti di Einstein nel non aver favorito in qualche modo i suoi eredi potrebbero essere dovuti al fatto che egli non era un ottimo padre. En passant vorremo ricordare che l’attuale, fortemente meritocratica e indubbiamente capace presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia è figlia di Steno Marcegaglia, fondatore della Marcegaglia spa di cui la dottoressa Marcegaglia è amministratore delegato; alcune vicende di tangenti e di conti in Svizzera che riguardano la sua azienda, i suoi familiari e lei potrebbero porre anche in questo caso l’esigenza di un codice etico 3 . In realtà i codici etici sono la foglia di fico dell’ipocrisia infeconda, tanto da meritare una citazione un po’ fuori misura, ma che ci sta tutta. Leggere il codice etico di Enron oggi è come leggere una sceneggiatura di Woody Allen. Copie autentiche del codice sono state vendute all’asta su eBay per più di 200 dollari l’una. L’espressione Etica di Enron è diventata proverbiale per menzogna e ipocrisia e il crac della società costituisce l’eponimo di altre simili vicende in tutto il mondo (in Italia, un caso in parte simile è stato Parmalat). L’esistenza e i contenuti dell’Enron Code of Ethics non hanno evidentemente scoraggiato le pratiche immorali (definite secondo i loro stessi standard) dei dirigenti. Questo fallimento è solo l’esempio più eclatante di come la protezione offerta dai codici etici possa essere assai labile. La cosa che colpisce di più del codice etico di Enron è che tutto quello che è indicato come valore e norma morale non ha nulla a che fare con ciò di cui Enron (a prescindere dai falsi in bilancio) si occupava: la produzione e la fornitura di energia, cioè un bene di alto valore economico e aziendale, delicato sotto il profilo ambientale e rilevantissimo per il territorio e le comunità coinvolte, umane e di altri viventi (gli stakeholders). I valori enfaticamente affermati nel codice fluttuano a migliaia di anni luce dal core business dell’azienda 4 . [...] Non c’è altro guardiano della morale che la libertà e questa possiede i suoi intrinseci criteri di validità, che la differenziano dal mero arbitrio. In una prospettiva alternativa all’etica applicata, 3
Per completezza di informazione bisogna dire che il padre di Emma Marcegaglia è stato assolto in appello nel 2009 per la vicenda Italcase-Bagaglino; in corso al momento in cui scriviamo è un’altra inchiesta sul traffico di rifiuti chiamata Golden Rubbish; nel 2010 prescrizione per incidenti sul lavoro. Il fratello Antonio ha patteggiato nel 2004 per tangenti. 4 Così continua a questo punto: “A eccezione di un breve capitolo sull’osservanza delle leggi sulla protezione dell’ambiente, la maggior parte delle norme etiche del codice di Enron riguarda l’uso delle apparecchiature informatiche e soprattutto delle informazioni riservate da parte dei dipendenti. D’altra parte, si comprende perché si ponesse l’enfasi sulla riservatezza in un’azienda che falsificava sistematicamente i bilanci. Il motivo essenziale di questa labilità è nella concezione dell’etica che è sottesa all’idea stessa di “codice etico”, non solo in ambito aziendale ma anche in quello delle varie professioni (codici di etica medica, giornalistica, forense, ingegneristica, ecc.). A parte le più spudorate operazioni di facciata (come quella di Enron), l’etica dei codici è un’istanza del tutto esterna alla pratica cui si vuole incollarla. Questa prospettiva è emblematicamente rappresentata dalla nozione di “etica applicata”. Si immagina esista una morale astratta e universale valida per ogni uso e si propone una sua “applicazione” a un ambito specifico, secondo una logica deduttiva e paternalistica. È poi naturale che un’istanza così estranea alle logiche interne delle pratiche che pretende di regolare finisca per essere da un lato una forma di moralismo arcigno e autoritario, dall’altro un mero wishful thinking quando non una vera e propria ipocrisia. Quest’immagine dell’etica ha fatto danni enormi e costituisce un tradimento dell’esperienza morale prima ancora che dell’etica stessa. I valori non risiedono fuori dalle pratiche umane e non possono essere imposti dall’esterno, come se si trattasse di vincoli legali. Mancando la forza della sanzione (la sanzione morale, cioè il biasimo, è molto più debole di quella legale, penale o amministrativa che sia), la morale è interamente affidata alla libertà degli individui.
che possiamo chiamare “etica delle pratiche”, la morale emerge piuttosto come una riflessione sui valori che costituiscono l’essenza della pratica di cui si parla. Messo a fuoco il fine di una certa attività, il suo significato economico, politico e sociale, l’etica non è altro che la tutela del perseguimento ragionevole di quello scopo, con il solo ma importante vincolo del rispetto per ciascuna persona. Le regole morali esprimono il valore che è in gioco e regolano il suo perseguimento in modo che possa essere realizzato in maniera stabile, costante e progressiva. Un codice etico, con la sua pretesa di mera applicazione di norme, non esprime proprio nulla del valore morale di un’impresa e per questo non può certo pretendere di imporre a essa dei vincoli 5 .
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Mordacci R., Elogio dell’immoralista, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 98-100. La sezione citata così finisce: “Nel caso delle imprese in un regime capitalistico, l’aspetto morale dovrebbe emergere dai vincoli interni alla pratica capitalistica nel suo insieme: questa, come mostrava Max Weber, si regge su una precisa etica del lavoro, nella quale ha un ruolo essenziale non solo il benessere (che per altro era pensato come un bene condiviso e non a esclusivo uso dei manager), ma anche la responsabilità di fronte al rischio imprenditoriale e l’affidabilità nella conduzione degli affari. L’etica capitalistica è (o era?) una miscela di valori tradizionali come l’idea di eccellenza nella competizione (l’antica idea di virtù agonistica e guerriera, condensata nell’idea aristotelica di andreia, coraggio), l’idea della fedeltà alle promesse e dell’affidabilità nei contratti (portato dell’etica kantiana e contrattualistica) e l’aspirazione a un benessere il più possibile diffuso e condiviso (un punto d’onore delle prospettive liberali utilitariste come quelle di Bentham e Mill). Tolti questi valori interni, l’economia aziendale o quella finanziaria possono ammantarsi di codici anche molto restrittivi, ma si svuotano proprio dei contenuti che ne giustificano la pratica quotidiana. Il che ha come conseguenza ultima il crollo della fiducia di tutti gli attori in gioco e, infine, la crisi del sistema?”.
L’UNIVERSITÀ COME SISTEMA
Un’altra bella domanda è come valutare le facoltà e le università. Per farlo è già non indifferente decidere se valutare le une o le altre per l’assegnazione dei fondi, o se invece valutare (anche) i dipartimenti e – in questo caso – come farlo in relazione alle facoltà 1 . Come è ovvio, la domanda “come valutare” è collegata e in qualche modo dipende dalla domanda “perché valutare”; spesso si dà per scontato che tutti si sia d’accordo sulle finalità della valutazione: una bella trappola se non esplicitiamo bene. Infatti potrebbe accadere che la valutazione serva per fare in modo che il livello medio delle università sia il più alto possibile, oppure che sia minima la varianza (in generale o tra le aree geografiche), oppure che sia il più grande possibile il livello minimo, o che gli eccellenti divengano “più eccellenti”; e rispetto a tutto questo non è indifferente se l’obiettivo finale è quello di realizzare equità e promozione sociale, sviluppo territoriale, “occupabilità” 2 dei laureati… Che gli obiettivi strumentali e quelli finali siano gli uni o gli altri, singolarmente o insieme, non è indifferente, se non si riesce a dimostrare che essi sono strettamente correlati e che quindi perseguirne o raggiungerne uno implica perseguirne o raggiungerne (o evitarne o cancellarne) gli altri. Ma anche se definissimo un criterio adeguato per misurare questi obiettivi, se 1
La distinzione di compiti e la diversa composizione tra facoltà e dipartimenti, con l’artificiosa separazione tra soggetto preposto alla didattica (la facoltà) e soggetto preposto alla ricerca (il dipartimento: tra l’altro in generale unico centro di spesa) è stata un errore e rappresenta un limite; nel suo furore ideologico liberista e meritocratico (di facciata) la legge Tremonti-Gèlmini-Giavazzi-Decleva-Polidori, la 240/2010 propone una saggia eliminazione di questa divisione (ma poi fornisce una scappatoia con la possibile costituzione di organismi di raccordo comunque denominati, ma che molti atenei si apprestano a chiamare facoltà). 2 C’è chi ha pensato che l’obiettivo principale della riforma cosiddetta del “3+2” fosse quello di adeguare l’Università al mercato del lavoro (assunto come un fatto oggettivo, quasi “naturale”): questa convinzione si è di fatto mescolata con altre, anche molto diverse, in particolare quella per cui questa riorganizzazione dovesse essere finalizzata soprattutto a combattere il fenomeno della dispersione e dei ritardi, e migliorare la qualità dell’insegnamento di un’università di massa, consentendo una diversificazione dei percorsi (con una consistente facilità di “revisione” della scelta fatta nella triennale nel passaggio alla biennale). Queste mescolanze, aggiunte alla ridicola pretesa di realizzare una “riforma” di quelle dimensioni senza sganciare un soldo, ne hanno reso quasi fallimentare la realizzazione; a ciò si è aggiunta l’irresponsabilità di una parte consistente dei docenti, che ha visto nella “riforma” un’occasione per moltiplicare piccole posizioni di potere e per inventarsi spesso nicchie culturali stravaganti.
l’Università non raggiungesse gli obiettivi concordati (o definiti autonomamente o scelti dall’alto; e ovviamente anche questo non è la stessa cosa) che cosa sarebbe opportuno fare? Punirla riducendo le risorse a sua disposizione (che potrebbe avere l’effetto di spingerla a migliorarsi o di renderle impossibile di farlo); punirla facendola gestire da un “commissario” a risorse invariate o incrementate o ridotte (tre opzioni diverse), punirla trasferendo o licenziando o diminuendo lo stipendio a tutti i docenti o all’nesimo peggior percentile tra essi, ecc. Credo che tutti converremmo sul fatto che non vi è una sola giusta soluzione, ma che dipende molto dalle circostanze, dagli obiettivi, dalle cause dei cattivi risultati. Specie se l’obiettivo fosse quello di assicurare che vi sia un livello medio alto e una bassa varianza, quindi una buona distribuzione territoriale della qualità delle università (e quindi della didattica, della ricerca e dei servizi). Inoltre anche la definizione del “criterio adeguato”, oltre a essere inscindibilmente legata agli obiettivi considerati, non è scontata.
CHI GOVERNA CHI?
Se questa è la funzione dell’Università qualcosa ne consegue anche in relazione al suo “governo” e alla sua autonomia. Il governo della “missione” generale dell’Università deve essere pubblico e nazionale e la definizione della strategia necessaria per realizzarla deve dipendere dal Ministero dell’Istruzione pubblica e della ricerca, e l’allocazione delle risorse deve servire a renderla possibile in modo sostanzialmente omogeneo su tutto il territorio dello Stato (per questo come dicevamo gli atenei che non funzionano, se non servono a questo obiettivo, vanno cancellati, se servono vanno commissariati). La gestione operativa delle strategie e delle azioni deve essere lasciata alla piena autonomia e all’autogoverno della comunità universitaria di riferimento: studenti, docenti, lavoratori; ciò deve valere sia per la gestione “politica” (i Consigli di facoltà e il Senato accademico), sia per quella amministrativa (Consiglio di amministrazione). L’assurda idea che – in una comunità auto-amministrata e, almeno in parte, democratica – le cariche politiche e amministrative non debbano rispondere alla comunità che li ha eletti è evidentemente frutto di un’altra concezione del ruolo dell’Università. Che poi essa debba essere amministrata da “esterni”, che non sono neppure quelli che pagano, ma – al limite – quelli che potrebbero guadagnare dalle scelte che fanno, a me pare stravagante e al limite dell’appropriazione privata di risorse pubbliche. Ricordiamo che una delle caratteristiche più importanti delle democrazie “che funzionano” 1 è l’esistenza di entità autogovernate che rispondono in primo luogo ai propri membri e che queste entità abbiano uno “statuto” riconosciuto e rispettato, così come è emerso dalla loro storia (dalle associazioni filateliche, all’AVIS, agli ordini professionali, all’Università, alla Chiesa). Il che non vuol dire che lo Stato si disinteressi a quel che avviene in quelle entità, specie quelle cui vengono assegnati fondi pubblici, e non debba intervenire, con 1
Cfr. Linz J.J., Democrazia e autoritarismo. Problemi e sfide tra XX e XXI secolo, il Mulino, Bologna 2006.
levità e fermezza, per indirizzane il funzionamento e ridurne o eliminarne gli anacronismi o le discriminazioni (dovrebbe farlo sempre forse anche verso istituzioni prestigiose e antiche e assai autoreferenziali e molto discriminanti, generosamente finanziate dallo Stato, come ad esempio la Chiesa cattolica in Italia). È vero che l’Università è in gran parte pagata dallo Stato (ed è per questo giusto che allo Stato rispondano dell’uso che fanno delle risorse rispetto agli obiettivi strategici), ma è anche vero che per funzionare essa deve essere concepita come una comunità di apprendimento, con una grande autonomia e forti meccanismi di autogestione. Sicuramente nelle università italiane c’è un deficit di democrazia, uno strapotere dei baroni (in gran parte ordinari anziani), un ruolo poco rilevante degli studenti, dei meccanismi decisionali pletorici, una partecipazione al dibattito e alle occasioni elettorali debole e limitata a pochissime occasioni (le elezioni del rettore). Quindi molto potrebbe e dovrebbe essere fatto: estensione dell’elettorato passivo, modalità elettorali più moderne, più potere agli studenti, allargamento degli organismi decisionali. E molto dovrebbe essere fatto per definire meccanismi di consultazione con gli enti locali e gli “attori” del territorio. È mia convinzione che ogni euro di denaro pubblico debba essere ben speso, ma che l’Università non è un’azienda e morirebbe se lo diventasse; il che implica, tra l’altro, che vi deve essere un controllo severissimo dei risultati e dell’uso delle risorse, riducendo la pletora di asfissianti e limitativi controlli ex-ante e consentendo una gestione agile delle risorse, ma mantenendo una dura verifica delle modalità di spesa; in particolare massima vigilanza deve essere fatta sulla gestione delle persone, costringendo i numerosi che lavorano poco e male (una minoranza numerosa) a cambiare sistema. Per questo le considerazioni generali non implicano in alcun modo il fatto che – specie nei tempi attuali – non servano grandi capacità organizzative e gestionali per governare e amministrare le università; capacità organizzative e gestionali che debbono essere possedute sia dalle cariche politiche sia dai dirigenti e funzionari amministrativi. Del resto una tendenza di questo genere c’è: sono sempre più i rettori e i presidi che hanno un curriculum di “amministratori” più solido del curriculum di “ricercatori”, il che – a certe condizioni – non è un male.
A COSA SERVE L’UNIVERSITÀ
Ma in realtà temo che non ci capiremo mai se non ci interroghiamo su quello che pensiamo debba essere la funzione dell’Università. L’Università (e non solo la Scuola dell’obbligo) è una struttura pubblica e deve continuare ad esserlo, quindi ha obiettivi dettati direttamente dalla sua funzione sociale. La sua visione e la sua missione (per usare una terminologia in voga nelle organizzazioni, che una volta tanto appare abbastanza perspicua e utile) sono da questa funzione determinate, sia per quanto riguarda i suoi compiti educativi sia per quanto riguarda i suoi compiti di ricerca, che non possono da questi essere scissi. Riassumerei così: “L’Università è un’istituzione che ha il compito di garantire lo sviluppo della ricchezza sociale in termini di conoscenze, competenze e consapevolezze”. Non è dunque al servizio della promozione sociale dei singoli studenti (anche se questo può esserne – a certe condizioni – un importante e auspicabile sottoprodotto), né delle esigenze del mercato del lavoro (da cui tuttavia evidentemente non può prescindere, senza però accettare di accettarlo così come esso si dà), né tanto meno degli interessi di chi ci lavora; l’Università ha inoltre tra i suoi scopi la promozione dell’equità sociale. In particolare la sua missione è:
sviluppare in senso ampio ed esteso, potenzialmente universale, le conoscenze e le competenze generali e specifiche e la consapevolezza democratica e civile degli studenti, rendendoli capaci di collocarsi in modo autonomo, critico e consapevole, al livello massimo di qualità possibile, all’interno della vita del Paese e del mondo; sviluppare la ricerca libera e creativa, pura e applicata, sulla base di criteri e di obiettivi di interesse pubblico; realizzare prodotti e servizi di qualità, che anche quando si collochino nel mercato, non vengano mai meno ad obiettivi di equità e di interesse collettivo.
Mi piace dirla con le parole di un maestro, uomo di parte, eppure aperto ad ascoltare i cambiamenti:
I want to remind you of one other thing. You, as students of this university, are privileged people. The odds are that, as alumni of a distinguished and prestigious institute you will, if you choose, have a good status in society, have better careers, and earn more than other people, though not so much as successful businessmen. What I want to remind you of is something I was told when I began to teach in a university. “The people for whom you are there” said my own teacher, “are not the brilliant students like yourself. They are the average students with boring minds who get uninteresting degrees in the lower range of the second class, and whose examination scripts all read the same. The first class people will look after themselves, though you will enjoy teaching them. The others are the ones who need you. ” That applies not only to the university but to the world. Governments, the economy, schools, everything in society, are not for the benefit of the privileged minorities. We can look after ourselves. It is for the benefit of the ordinary run of people, who are not particularly clever or interesting (unless, of course, we fall in love with one of them), not highly educated, not successful or destined for success, in fact, nothing very special. It is for the people who, throughout history, have entered history outside their neighborhoods as individuals only in the records of their births, marriages, and deaths. Any society worth living in is one designed for them, not for the rich, the clever, the exceptional, although any society worth living in must provide room and scope for such minorities. But the world is not made for our personal benefit, nor are we in the world for our personal benefit. A world that claims that this is its purpose is not a good world, and ought not to be a lasting one 1 .
Quel che dice Hobsbawm merita di essere esaminato attentamente. Questo nostro mestiere, che i grandi professori (non a caso chiamati maestri) hanno fatto con passione e rigore, è un compito sociale. Non siamo venditori della merce “sapere” e neppure i fornitori di un servizio 2 . Siamo, o dovremmo essere, parte di una comunità di liberi e uguali, che ha lo scopo, uno scopo che più degno e importante non si può, accompagnare giovani donne e giovani uomini a diventare cittadini colti e competenti, persone “verticali”, con la schiena dritta, capaci di pensare e di ribellarsi alle ingiustizie, e capaci di farlo perché competenti e istruiti, capaci di sviluppare le 1
Hobsbawm E. J. , The New Threat to History, in “The New York Review of Books”, vol. 40, n. 21, December 1993, pp. 62-64. “Ciò che voglio ricordarvi è qualcosa che mi fu detto quando iniziai la mia attività di docente all’università. ‘Le persone per le quali sei qui’, mi avvisò il mio insegnante, ‘non sono gli studenti bravi come te. Sono gli studenti di medio livello, con una mente poco brillante, che ottengono risultati poco interessanti e le cui tesi di laurea sono tutte uguali. Gli studenti di primo livello sanno badare a se stessi, anche se a te darà soddisfazione insegnare loro. Ma sono quegli altri che hanno davvero bisogno di te’. Questo ragionamento si applica non solo all’università, ma al mondo intero. I governi, l’economia, le scuole, tutte le istituzioni sociali non esistono a beneficio delle minoranze privilegiate. Noi sappiamo badare a noi stessi. Esse esistono a beneficio della gente comune, che non è particolarmente intelligente o interessante (a meno che, ovviamente, non ci innamoriamo di una di queste persone), che non ha un alto livello di istruzione, non ha successo o non è destinata al successo e che insomma non è niente di speciale. Le istituzioni esistono per le persone che, nel corso della storia, sono entrate nella storia come individui, al di fuori dei gruppi a cui appartenevano, solo perché i loro nomi sono registrati all’anagrafe con le date di nascita, di matrimonio e di morte. Ogni società in cui valga la pena di vivere è costruita per loro, non per i ricchi, gli intelligenti, gli eccezionali, anche se ogni società in cui val la pena di vivere deve offrire a tali minoranze uno spazio e un ambito di azione. Ma il mondo non è fatto per il nostro tornaconto personale e neppure noi siamo nel mondo per il nostro personale vantaggio. Un mondo che afferma che questo è il suo scopo non è un buon mondo e non dovrebbe durare”. La versione italiane è tratta da Hobsbawm E. J. , Dentro e fuori la storia, in Id. , De Historia, Rizzoli, Milano 1997. 2 Non è inopportuna una precisazione: ci sono attività umane, in particolare nei settori innovativi produttivi e dei servizi, nei quali una selezione anche estrema sulla base dei meriti è opportuna o almeno utile ed efficiente. Anche in questi casi tuttavia il “merito” da prendere in considerazione non è facilissimo da definire: prendiamo ad esempio una società estremamente innovativa come Google, nota per la selettività delle sue assunzioni; serve avere medie di ammissione alle università altissime, risultati nella carriera accademica, colloquio severo; ma serve anche superare test di empatia e sapersi comportare nelle sessioni del TGIF (Thank God It’s Friday) e anche mostrare di credere (o credere davvero) nel mitico slogan aziendale Don’t be evil. Tuttavia per essere assunti a Google o per far parte del gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” la qualità superiore delle competenze e delle conoscenze è sicuramente il criterio unico o di gran lunga prevalente. Quindi anche il merito “nudo” è – in alcune situazione – il criterio da adottare.
loro capacità, i loro talenti, di proteggere le differenze, le relazioni, la cura, e i cui risultati devono dipendere, in ultima istanza, dai loro meriti.
PICCOLO DIZIONARIO DISPERATO E DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITÀ – 2 La rovina non fa paura ai rovinati (Antico proverbio romagnolo) Avvertenza. Si propone di seguito una versione riveduta e corretta del Piccolo Disperato Dizionario Demagogico dell’Università (1), già divulgato in rete qualche anno fa. Si ringraziano gli autori, Giovanni Azzena e Marco Rendeli, della complice disponibilità e di averne curato, per l’occasione, aggiornamento e sintesi. 240: dopo 382, 509, 17… eventualmente, tombola. ACRONIMO: sigla (ANVUR, CdA, CdF, CFU, CIVR, CRUI, CUN, FFO, SA, SSD…). Moda americanofila atta, in generale, a sintetizzare un concetto, un ente o un processo tecnico. Al MIUR viene invece usata per stendere un velo pietoso su un concetto, un ente o un processo tecnico. Ve ne sono di intuibili e altri, invero oscuri. Ad esempio, si provi a chiedere, durante un consiglio di facoltà (CdF), lo scioglimento dell’acronimo RAD. ALMA LAUREA: associazione con molti soldi, che analizza l’impatto dei/sui neo-laureati nel/del mondo del lavoro, che non c’è. ALTA FORMAZIONE: scuola di montagna. AMMICCO, CULTURA DELL’: fenomeno etnologico diffuso tra le classi aristocratiche delle tribù universitarie, per il quale i tavoli dove si giocano le partite importanti sono sempre “da un’altra parte” e quello per cui vale la pena impegnarsi non è mai quello che stai facendo o che pensi tu, ma quello che stanno facendo e che pensano loro. E che comunque non ti dicono. ANVUR: (lat. arc. , o etrusco, dalla radice *civr) il termine indica, nel formulario degli àuguri, gli aves che entrano nel templum augurale dalla pars infausta. AUTONOMIA: chimera. Termine invalso alla fine degli anni Ottanta ad indicare che all’Università è dato procurarsi i soldi “in autonomia” (comeinamerica), mentre le leve decisionali restano comunque controllate centralmente (comeinitalia). Detto anche “la bufala” (dell’autonomia). AUTOREFERENZIALITÀ: 1. patologia psicologica che coglie un buon numero di docenti dopo l’adlectio all’ultima casta (v. docenza, tre fasce di): si manifesta con un’incontrollabile pulsione del soggetto al riferimento unico alla propria esperienza e alla propria bibliografia, spesso accompagnata a fasi di totale amnesia in merito ad una secolare storia della disciplina; 2. accusa infamante da utilizzare per zittire gli universitari quando vorrebbero occuparsi dei problemi dell’Università (“Colleghi, cerchiamo di non essere così autoreferenziali!”). BARONI: poveri cristi, additati dai media come i padripadroni dell’Università; in
realtà malinconici funamboli che vivono nel ricordo e nella nostalgia dei veri, antichi baroni universitari e sotto il tacco dei governi, dei duchi (v. ) e dei giovani (si fa per dire) colleghi non-baroni che li accusano di essere baroni. BASE, RICERCA DI: quella che non si fa più. Si fanno solo ricerche “di rilevante interesse nazionale”, “europee”, “di rilevante interesse europeo”, “internazionali”. Tutte, comunque, ottimizzate (v. ottimizzazione). CACCIA, ALL’ISCRITTO: sport di massa che ha conosciuto il suo momento di lancio quando si è deciso che i criteri di valutazione (v. ) degli atenei dovevano essere squisitamente quantitativi. Una volta catturato, l’iscritto deve essere fatto laureare “in fretta”, così da rispondere ad un altro ottimale criterio di valutazione, il “presto”. Nonché “bene”, secondo un altro criterio di valutazione che, per essere eccessivamente astratto, è stato reso concretamente: “con buoni voti”, magari – ma non obbligatoriamente – meritati. CALCIATORE/VELINA: attività sicuramente più redditizie e meno impegnative dello studio e della ricerca universitaria; cioè esempi da seguire. Non a caso le due etnie (calciatore e velina) spesso si incontrano (cfr. Cassano A. , Pardo P. , Dico tutto. E se fa caldo gioco all’ombra (Memorie di A. Cassano), Rizzoli, Milano 2008). Fra le seconde si annovera un ministro. CDA (EX L. 240): organo, 10 membri, dei quali due o tre esterni (“honi soit qui mal y pense”). CERVELLI, RIENTRO DEI: ottimo espediente per duchi e rettori che, in suo nome, possono far rientrare senza bisogno del concorso (v. concorso a cattedra) i fidi scudieri che abbiano trascorso un periodo (tre anni, ma non continuativi) di ricerca all’estero. CFU: unità di misura che indica il valore di una materia nella formazione culturale di un giovane: è assunta, per compromesso, quale peso lordo, pur essendo una tara. Ad esempio: un tempo l’esame di Storia romana constava del corso monografico, più 8 volumi da studiare, più 8 mesi di lezione e altrettanti di studio, nonché svariate notti insonni. Alla fine si otteneva: a) un voto, b) conoscere la storia romana. Oggi si ottengono 6 CFU. CLIENTELISMO UNIVERSITARIO: slogan mediatico. Quello vero (parentale) rappresenta circa lo 0,5% dei casi. Quello più diffuso consiste nel tentare di fare entrare nella struttura colui o colei che si sta spezzando la schiena come precario da minimo dieci anni, per stare appresso alle esigenze della struttura stessa a compilare moduli, a tradurre in inglese, a scrivere lettere, portare proiettori, fare seminari, tutorati, laboratori, ma anche lezioni, esami, tesi di laurea, ecc. CNR: entità parastatale caratterizzata dall’essere sempre stata sull’orlo della chiusura. Oggi il termine è di sovente usato quale parametro (v. ) negativo di comparazione: “l’Università è in crisi, ma sapessi il CNR…!”; oppure: “Niente, in confronto a quello che sta succedendo al CNR!”. Per abuso in tal senso il termine sta assumendo il significato finale di soglia minima di sopravvivenza (“Qui state peggio che al CNR”). COMMISSIONI, COMPOSIZIONE DELLE: elezione, elezione ed estrazione, estrazione da una lista di eletti, votazione di una lista di estratti, estrazione di votati da una lista di estratti, liste di votanti estratti, estrazione di liste votanti… locale,
nazionale, global, local, glocal… Come sia, sia: l’unico fattore davvero importante è che almeno un membro della commissione sia “straniero” (v. ). COMPETITIVITÀ: il vero, fondante parametro (v. ) della c. è stato chiarito dal ministro Gelmini: “Siamo più indietro (perfino) del Cile, che produce più laureati che noi”. Cfr. “cuscinetti a sfera, produzione di” sul Novissimo Dizionario di Confindustria. CONCORSO A CATTEDRA: modo desueto per dire “valutazione comparativa”. Rientra tra i vocaboli politicamente scorretti, come cubista (operatrice ludica del poliedro regolare) o nano (diversamente alto) o camorrista (operatore autonomo economia parallela) o negro (diversamente bianco). Prova iniziatica che serve ad entrare nell’Università e, poi, a prendere uno stipendio più alto, alla quale è preposta una sacra casta sacerdotale. Prima potevano essere sacerdoti un po’ tutti, ma il ministro Gèlmini, per combattere coraggiosamente il potere dei baroni, ha deciso che d’ora in avanti sarà appannaggio esclusivo dei baroni (v. anche: docenza, tre fasce di). CONFINDUSTRIA, PARERE POSITIVO SULLA RIFORMA GÈLMINI: questa voce è stata erroneamente trasferita su questo Dizionario dalla “Rubrica del Chissenefrega”. Gli autori se ne scusano. CONIGLI, COLLINA DEI (o, meglio, DEPRESSIONE DEI): luogo adamsiano (R. Adams, La collina dei conigli, Rizzoli, Milano 2008) nel quale trova dimora la maggior parte dei docenti universitari, specie in occasione delle riforme (v. riforme universitarie). CORSO DI LAUREA: (non) libero mercato, regolamentato da duchi (v. ) e baroni (v. ), all’interno del quale trovano ospitalità docenti strutturati e non strutturati per la loro attività didattica. Storia delle religioni: la moltiplicazione dei Corsi di laurea è ritenuta peccato mortale; la Conferenza Episcopale ha presentato istanza affinché venga annoverata quale undicesimo comandamento (“Non moltiplicare i corsi di laurea”). COSTITUZIONE: sana e robusta. Nonostante tutto. CRUI: i Crui (come i Troll e gli Uruk-hai) sono personaggi di fantasia. In particolare, ne Il signore degli Anelli, sono i servi del re del popolo dei Nani. CULTURA: voce non pervenuta. CUN: organismo che si occupa dell’eliminazione cruenta dei SSD (v. ) per conto del re del popolo dei Nani. DESTRA, PROGRAMMA CULTURALE DELLA: serie di azioni irrilevanti tese a coprire una psicosi di fondo derivante dalla sterilità congenita della destra nella produzione di intellettuali (ad eccezione di Vittorio Feltri che comunque ci prova, almeno vestendosi “come un”). DIDATTICA: ciò che si deve adeguare alla realtà socioeconomica e alle esigenze del mercato (v. ricerca). DIPARTIMENTO (EX L. 240): la riforma Gèlmini ha finalmente sostituito i vecchi, farraginosi dipartimenti con i “dipartimenti” (v. anche facoltà; strutture di raccordo). DOCENTE: 1. persona impegnata a compilare moduli per trovare soldi o a parlare con sindaci e
assessori per trovare soldi o a fare ricerche che non gli interessano perché è lì che davano i soldi; 2. persona impegnata a tradurre in inglese il testo del proprio modulo-per-trovaresoldi; 3. persona che, se non sta cercando soldi, è impegnata a riscrivere statuti e regolamenti d’ateneo secondo i dettami dell’ultimissima riforma (v. ); 4. persona che, se disturbata da uno studente mentre sta cercando soldi o riscrivendo il regolamento, risponde: “Per favore, venga durante l’orario di ricevimento”. DOCENZA, TRE FASCE DI: suddivisione in caste, ispirata all’organizzazione sociale delle culture del basso Gange. Del tutto inutile da un punto di vista pratico, ma non da quello economico; è questo il meccanismo sul quale si fonda il funzionamento sociale delle tribù universitarie. Il passaggio dalla casta più bassa a quella più alta avviene mediante il superamento di una serie di prove iniziatiche (v. concorso a cattedra), basate su una figura simbolica detta “la piramide del ricatto”. Nell’accedere all’ultima casta (il c. d. vastupurusamandala della prima fascia), all’iniziato viene praticato un reset del disco rigido (ctrl-alt-canc) che lo renda, infine, in tutto simile ai suoi pari. DOTTORATI: aree di parcheggio con abbonamento triennale. Esistono “al coperto” (con borsa) e “incustodite” (senza borsa). DUCHI: più di baroni. Casta suprema, poco nota ai media e al popolo ma molto incisiva, composta di super-intellettuali (universitari) che, se vogliono, possono scrivere sui principali giornali nazionali o parlare a tu per tu col Ministro. Ai duchi si deve il conio di neologismi, quali “merito”, “eccellenza”, “valutazione” (vv. ) utili per mantenere inalterati, attraverso Governi di destra, di sinistra e di centro, i propri titolo, ruolo e conseguenti prebende. “Per omnia saecula saeculorum. Amen”. ECCELLENZA: neologismo funzionale, creato dai duchi (v. ) al fine di riprendersi l’effettivo controllo dei concorsi (v. ) e della ricerca (v. ), che avevano perso per la troppa “autonomia” (v. ) e a causa della “moltiplicazione dei corsi di laurea” (v. ) e delle troppe università del “sapere inutile” (v. ). Si ottiene mediante una cerimonia detta “della solenne e ribadita autocertificazione”; per questo il termine è spesso usato nella forma “sua eccellenza”. ECCELLENZA, CENTRI DI: qualsiasi facoltà, indifferentemente pubblica o privata, dove sia in attività un duca non ancora rincitrullito. EDILIZIA (UNIVERSITARIA): opere di riciclaggio di strutture ottocentesche dismesse (meglio se ospedali, colonie penali, manicomi). EDUCAZIONE: termine arcaico, attualmente a-significante. ESEMPIO: animale estinto perché smise inopinatamente di riprodursi. FACOLTÀ: struttura obsoleta ed effeminata che la riforma Gèlmini ha cancellato con virile gesto innovatore (v. , ma subito, struttura di raccordo). FAMA, CHIARA: il termine sintetizza l’operazione di cooptazione di uno studioso colto, fascinoso, talentuoso, geniale, militesente, possibilmente bella presenza. Poiché persone di questo tipo, se esistono, certamente non hanno interesse a fare il professore universitario in Italia, tutta l’operazione consiste nel chiamare direttamente e senza tante storie un amico di duca (v. ). FFO (FONDO DI FUNZIONAMENTO ORDINARIO):
1. riconoscimento monetale del merito (v. ) e dell’eccellenza (v. ) basato sulla valutazione (v. ); 2. mat. : ≤0; sinonimo di “tendente allo zero assoluto”. FONDAZIONE UNIVERSITARIA: 1. entità benestante che nutre il recondito desiderio di finanziare un’università; 2. agenzia recupero crediti. IMPACT FACTOR: sistema di misurazione che, nel rugby, esprime la potenza media del pacchetto di mischia. INTERNAZIONALIZZAZIONE: ausp. : andarsene dall’Università italiana e, possibilmente, dall’Italia. INVESTIMENTO: incidente stradale che vede coinvolti un autoveicolo e un pedone. Non risultano da molti anni altre tipologie di investimento. ISTITUZIONE: termine desueto, tuttora in uso solo tra i comunisti, o in ambienti snob, ad indicare l’Università e la Scuola pubblica. LAUREA: sinonimo di perdita di tempo, frapposta tra l’individuo e le mete più agognate (v. “calciatore/velina”, “SUV”); VALORE LEGALE DELLA: qualcosa da abolire con grande urgenza per rendere più felici le università private (v. ). LEGGERE, UN LIBRO O UN ARTICOLO (scil: dall’inizio alla fine): criterio espunto a priori dai parametri di valutazione (v. ) in quanto pletorico, malgrado la geniale proposta di tradurlo in inglese (Reading Through Method – RTM). LENTICCHIE, PIATTO DI: unità di misura premonetale con la quale i Governi comprano il consenso delle tribù universitarie. L. U. I. S. S. , LIBERA UNIVERSITÀ INTERNAZIONALE DEGLI STUDI SOCIALI: ateneo privato che dal 1974 sostituisce l’Università Internazionale degli Studi Sociali Pro Deo, fondata da Padre Felix Andrew Morlion nel 1946; la pronuncia “Liuiss” è più frequente nel linguaggio corrente, specie in quello delle mamme dei giovani frequentanti, per fraintendimento fra l’acronimo italiano e una parola in lingua inglese. MASTER: ripetizioni a pagamento. MERITO: meglio non entrare nel. MERITOCRAZIA: 1. governo dei meritevoli, ad esempio quello attuale; 2. vocabolo-muro (tipo cucciolo di foca o buco nell’ozono) alla cui solidità mediatica e retorica ci si può solo arrendere, perché se dici qualcosa in contrario o sei Fabrizio De Andrè (e non può essere) o sei uno sfigato immeritevole. Oppure sei Nicola da Neckir, ma questa è un’altra storia. MODULI, MODULISTICA: (v. progetto); strumentazione atta “a trovare soldi”, ma funzionante anche in altri campi della cultura (v. ) e della vita universitaria. I moduli, in scadenza dopodomani o il 16 agosto, sono accompagnati da ponderosi tomi di istruzioni con indicazioni del tipo: “Ti inoltrerai nella palude di Gondrurf, e attraverserai il paese degli elfi, per giungere alla porta scarlatta di Bendramalius, ove è l’Antico Guardiano”. OCSE DATI E MEDIA: roba importante, da nominare in continuazione agitando l’indice.
OTTIMIZZAZIONE (EX L. 240): dare meno soldi (ma v. semplificazione). PARAMETRO: qualcosa per misurare qualcosa ma, come “paramedico” o “parafarmacia”, in forma non compiutamente professionale. Qualsiasi valutazione (v. ) è però fondata su “parametri certi e funzionali”, tant’è vero che la valutazione stessa è diventata un parametro. Comunque: il parametro per valutare un docente è che deve “fare tre prodotti all’anno” (cfr. anche Dizionario di Zoologia, sub voce “mucca”). PARTENARIATO: termine complementare a “progetto” (v. ). Sul modello di “cuori solitari” si affermano oggi Agenzie del Partenariato che possono far conoscere ai docenti “celibi” partner affidabili, puliti e carini, europei, extraeuropei, mediterranei per eventuale conoscenza e progetto. PRECARIO: essenzialmente lo stato attuale dell’istruzione pubblica in Italia; per estens: il 50% della gente che ci lavora dentro. PRIVATA, SCUOLA/UNIVERSITÀ: destinatari alternativi del FFO (v. ). PROGETTO: sistema per avere i fondi di ricerca. Deve essere sempre espresso anche in lingua inglese. Ricevono più finanziamenti i progetti che si muovono in un quadro “ampiamente consolidato”. Quel che non è dato capire è: se si ha un’idea veramente – ma veramente – geniale e innovativa (che, per costruzione, non può essere “consolidata”), come si fa ad avere il PRIMO finanziamento? PUBBLICA, SCUOLA/UNIVERSITÀ: coacervi inestricabili di brutture, infamie e nepotismi; fig. : letamai (fonte: “Sole24Ore”). Comunque da ottimizzare e semplificare (vv. ottimizzazione, semplificazione). RETTORI: partito politico trasversale, al quale si vorrebbero attribuire sempre nuovi poteri, ispirati in forma e sostanza a quelli del re Sole. Il rettore non teme niente, tranne: a) che il cielo gli cada sulla testa; b) il mandato unico. REVISORE ANONIMO (BLIND REFEREE): meglio se “straniero” (v. ). Comunque: colui che, nella penombra della sua linda stanzetta, con la mano sul cuore e il cuore rivolto alla vecchia mamma e/o al tricolore, fornirà con giustizia e equanimità un giudizio positivo sul progetto di ricerca del suo peggiore nemico accademico. RICERCA: ciò che si deve adeguare alla realtà socioeconomica e alle esigenze del mercato (v. didattica). RIFORME UNIVERSITARIE: sistema ciclico, ludico-ginnico, per tenere in costante allenamento i baroni (v. ). Consiste in questo: quando arriva la riforma, loro devono andare in giro per i corridoi dicendo: “Non so voi come fate: io non ne ho capito proprio nulla…” e, nel frattempo, inventare brillanti sotterfugi perché tutto rimanga uguale a prima. Senza usare le mani. SAPERE: tutto ciò che non produce indotto economico; s. inutile: tutte quelle materie che, sottoposte al vaglio del ministro Gèlmini, j’arimbarzano. SEMPLIFICAZIONE (EX L. 240): tagliare ulteriormente i fondi, dopo l’ottimizzazione (v. ). SENATO ACCADEMICO (EX L. 240): luogo adatto a discussioni “accademiche” tra vecchi (v. CdA). SINISTRA, PROGRAMMA CULTURALE DELLA: disperso durante la rincorsa alla visibilità mediatica della destra. SINISTRA, PROPOSTE DELLA (IN MERITO ALL’UNIVERSITÀ):
articolazione maldestra di finta intenzionalità. Per di più, tardiva. SSD (SETTORE SCIENTIFICO DISCIPLINARE): complicato, eccessivo; qualcosa da ridurre, semplificare e, soprattutto, ottimizzare (v. CUN). STATUTO: “è na cosa ch’addora di rosa e ca rosa nunn’è” (e chi vuol capire, capisce). STRANIERO: 1. sinonimo di qualità scientifica, specchiata onestà, chiara fama; 2. sinonimo di clandestino, ladro, nera fame. La scelta tra 1 e 2 dipende da quale Ministero se ne occupa. STRUTTURA DI RACCORDO (EX L. 240): Facoltà. STUDIO, STUDIARE…: attività propria di giovani e meno giovani generazioni di fannulloni che perdono tempo in attività economicamente non remunerative, sottraendo braccia all’agricoltura. Se proprio la si vuole perseguire, presto si potrà farlo ricorrendo ad un prestito ad usura. SUV: discrimine culturale; sta anche per “perdita di tempo pedagogica”, nel senso che è culturalmente ed economicamente inutile continuare a spiegare agli studenti che, per essere riconosciuti quali membri della compagine umana, non è necessario possedere un SUV. TECNOLOGICA-E-SCIENTIFICA: epiteto omerico, in apposizione fissa al sostantivo “ricerca”. Per quella “umanistica” cfr. invece “sapere” (inutile). TERRITORIO, RAPPORTI CON IL (EX L. 240): una grossa novità introdotta dalla riforma Gèlmini. Si tratta probabilmente dell’auspicio del ministro che gli universitari vadano a zappare la terra. Ma si attendono i decreti attuativi. TIROCINIO (MEGLIO SE FORMATIVO): 1. conoscenza del mondo (?) del lavoro (!!) coatta; 2. gente che mangia tapas sulle ramblas. TRASMISSIONE: 1. arc. , desueto: meccanismo insito nell’evoluzione del sapere da una generazione all’altra mediante l’esempio (v. ), lo studio (v. ) e la ricerca (v. ); 2. parte fondamentale del meccanismo di funzionamento di un autoveicolo, ad es. di un SUV (v. ). TRE PIÙ DUE: grossa ideona; trasl. : atto risolutorio, ben pensato, ben gestito e perfettamente eseguito. TURN OVER: geol. : desertificazione pianificata. UMANISTICO: costoso, economicamente improduttivo, non adeguato alle esigenze del mercato. VALUTAZIONE: operazione mediante la quale si accertano merito ed eccellenza di atenei, dipartimenti, singoli docenti, ecc. e in base alla quale si assegnano FFO e scatti stipendiali (v. anche “leggere”). Non essendo ben chiaro quale sia il metodo della valutazione, si dispone che la valutazione “è un metodo”. Comunque la v. è molto facile da attuare, ovviamente nell’ambito dei panel e all’interno del rating, mediante referee (volendo anche blind), peer review, impact factor, citation analysis, ex ante, ex post, in itinere, income e outcome, benchmarking, stakeholder’s attention, cash flow, ranking list, consensus report, rilevanza editoriale (numero di pagine, qualità della carta e scelta del carattere), appartenenza alla categoria di ordinario e/o
massone, anzianità di servizio, aver ricoperto “altre” cariche (basta che siano “altre”), avere già ottenuto un finanziamento (cospicuo), avere un solido partenariato, ecc. L’importante è che, alla fine, il tutto sia ricondotto “ad un momento di sintesi, articolato in quattro fasce: ottimo, buono, accettabile, limitato” (cit. vera! da un documento dell’ANVUR consultabile in rete). ZERO, COSTO: moda, la più in voga da almeno venti anni. Maniera elegante per definire l’impegno del dicastero nel momento in cui si attuano cambiamenti. Prove di laboratorio dell’applicazione dello “zero costo” sono state condotte su un gruppocampione di carburatoristi di Tor Pagnotta, ai quali è stato chiesto di truccare vecchi motorini “a costo zero”. Per i risultati della sperimentazione si veda il lemma “Zorro”. ZORRO: o meglio Zoro, con una “ere” sola. Etim. : il lemma presenta due distinte radici: 1. un tempo, a Roma, per definire una persona di volgari e campagnole maniere su usava darle del “burino” che evolve presto in “buro”; sul finire degli anni Sessanta, però, alcune ragazze della “Roma bene” (quelle con molti colpi di sole nei capelli) poiché tipicamente fonanti “a bocca larga” decisero che suonasse meglio boro, appellativo massimamente dispregiativo che a sua volta si sarebbe trasformato, più recentemente, in “zoro” (= volgarone o, secondo la forma oggi più diffusa, coatto, coattone); 2. in questa sede si preferisce tuttavia l’etimo filologicamente più corretto, di derivazione iberica: tu eres un zorro… (sei una volpe), cioè un furbacchione, come quello che sta provando a passare davanti alla fila dei bollettini e che si può correttamente apostrofare con un: “a Zoroo!!”. Quanto finora esposto supporta un semplice esperimento pratico sulla riforma Gèlmini, replicabile anche in ambienti non protetti: qualcuno legge ad alta voce davanti ad un pubblico eterogeneo il testo della Legge. Alla fine, se l’esperimento si è svolto senza errori, tutti quelli che ascoltano dovrebbero esclamare, spontaneamente e in coro: “a Zorooo!”. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino. Giovanni Azzena, Marco Rendeli
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la meridiana, a partire dai vissuti, dalle inquietudini, dalle marginalità un itinerario di ricerca e di incontro possibile per tutti: dall’identità alla relazione dal potere alla non violenza radicale.
Sinossi “Questo nostro mestiere, che i grandi professori (non a caso chiamati maestri) hanno fatto con passione e rigore, è un compito sociale. Non siamo venditori della merce ‘sapere’ e neppure i fornitori di un servizio. Siamo, o dovremmo essere, parte di una comunità di liberi e uguali, che ha lo scopo, uno scopo che più degno e importante non si può: accompagnare giovani donne e giovani uomini a diventare cittadini colti e competenti, persone ‘verticali’, con la schiena dritta, capaci di pensare e di ribellarsi alle ingiustizie, e capaci di farlo perché competenti e istruiti, capaci di sviluppare le loro capacità, i loro talenti, di proteggere le differenze, le relazioni, la cura, e i cui risultati devono dipendere, in ultima istanza, dai loro meriti.” Con il Piccolo Dizionario disperato e demagogico dell’Università curato da Giovanni Azzena e Marco Rendeli e le illustrazioni di Vinicio Bonometto.