L’autore ha scelto l’anonimato in omaggio alla tradizione dei libelli secenteschi. L’editore si assume, perciò, la piena paternità delle idee espresse.
Contro Ratzinger pamphlet
Isbn Edizioni via Melzo 9 20129 Milano Direttori editoriali: Massimo Coppola, Giacomo Papi Redazione: Silvia Sartorio, Mario Bonaldi Comunicazione: Cristina Gerosa www.isbnedizioni.it
[email protected] © Gruppo editoriale il Saggiatore S.p.A., Milano 2006 Isbn Edizioni
Questo libro ha per oggetto il messaggio dell’attuale pontefice e la sua consistenza morale e filosofica. Prende in esame le istruzioni del prefetto, le conferenze del teologo e i pronunciamenti del papa dall’arrivo a Roma nel 1981 fino alla prima enciclica del gennaio 2006. Ripercorre la vita, gli atti politici (compresi i più sconosciuti e imbarazzanti) e analizza la figura mediatica di Benedetto XVI anche in rapporto a quella del predecessore. Un pamphlet utile per capire, necessario per difendersi. Questa versione è la prima versione, la seconda che comprende un capitolo in più e il titolo cambia in CONTRO RATZINGER 2.0
INDICE
Fantasioso epilogo in forma di prologo Dove si racconta la convocazione di un referendum sull’esistenza di Dio, il dilagare di un nuovo fervore cristiano nel mondo e la delusione che ne seguì.
Premessa posposta. Un clamoroso successo In cui si pongono alcune questioni. Perché Benedetto XVI piace? Quali alleanze politiche ha attivato? Da dove trae la sua autorità? Che bisogni soddisfa?
Il corpo di Karol. La reliquia e la merce Ritratto di Giovanni Paolo II, del suo carisma d’attore e della centralità del corpo nel suo pontificato. La moda vaticana e il suo significato politico.
Un ragazzo ubbidiente. Un prefetto ubbidito L’infanzia di un capo spiegata attraverso le sue reticenti memorie. Si narra di una formidabile carriera, insistendo sull’importanza di avere l’ultima parola.
Le correzioni. Dove osa l’auctoritas Fenomenologia di Joseph Ratzinger, il prefetto che contraddisse il proprio pontefice. La lotta alla teologia della liberazione e la restaurazione incompiuta.
Il bianco muove e dà scacco in tre mosse Descrizione di un’offensiva che ha di mira l’Illuminismo e per scopo affermare la razionalità filosofica del cristianesimo. Il problema Charles Darwin.
Dell’amore infecondo. Dell’orrore assoluto Degli ambigui rapporti tra omosessualità e cristianesimo. Di un’epistola del prefetto ancora più ambigua sul tema della pedofilia nella Chiesa.
De generazione. La vita e la sua proprietà Nascita, aborto, fecondazione artificiale. Analisi degli argomenti del papa e denuncia della loro incontrovertibile e inumana modernità.
Fantasioso prologo in forma di epilogo In cui s’immagina il commiato tra due vecchi amici che nella vita hanno avuto molto successo. L’ultimo dialogo tra Karol e Joseph. Un’operetta morale.
FANTASIOSO EPILOGO IN FORMA DI PROLOGO Alla fine convocarono un referendum. Il colpo di genio era venuto a un gruppo di intellettuali italiani terrorizzati dai tempi e convinti, heideggerianamente, che soltanto un dio potesse salvarli. L’idea era semplice: per sottrarre l’Europa alla decadenza occorreva stabilire per via democratica il suo fondamento divino. La prima formulazione del quesito («Dio esiste?») suonò ben presto troppo radicale. L’associazione degli industriali si oppose con un buon argomento: per rifondare l’Europa cristiana, e affrontare con meno mollezza le minacce mondiali, non si doveva imbrigliare l’idea di libertà, che tanto bene aveva fatto al mercato, nei lacci e lacciuoli dell’imposizione. Alcune autorevoli personalità firmarono un documento in cui si affermava che se a decidere dell’esistenza del Padre fosse stato l’uomo, si sarebbe trattato di un atto tracotante e, per di più, si sarebbe dato ragione alla vecchia teoria atea, secondo cui l’uomo ha creato Dio a sua immagine e somiglianza, e non è mica vero il contrario. Dopo molte dispute, l’accordo era stato trovato. In un giorno di maggio di un anno a caso del Terzo millennio, il popolo sovrano fu chiamato a tracciare una croce sul sì o sul no per rispondere a una domanda tanto sottile quanto diretta: «Volete voi che Dio esista?». I sì trionfarono, ma la vita della gente, nell’Occidente nuovamente cristiano, andò avanti più o meno come prima. Alcune riforme furono promulgate. Si istitutì l’obbligo della messa domenicale e di tutti i sacramenti, ma per facilitare le cose e non far perdere troppo tempo ai cittadini, le procedure furono alquanto semplificate, tanto che in alcuni casi potevano essere espletate via Internet. I neonati venivano battezzati, comunicati e cresimati in un colpo solo, la preghiera mattutina era obbligatoria in tutte le scuole e gli uffici pubblici, mentre quella serale veniva trasmessa per legge a reti unificate da tutte le emittenti del Paese. L’aborto fu vietato, ma si continuò ad abortire (solo che dopo era obbligatorio confessarsi). Le coppie omosessuali seguitarono ad amarsi senza tutele di legge, esattamente come fanno oggi in Italia. Agli atei e agli scettici fu permesso di dubitare in privato, dovendosi però conformare nei comportamenti pubblici ai voleri della maggioranza. I 952mila 276 musulmani residenti in Italia rimasero musulmani – potevano rivolgersi alla Mecca durante la preghiera e digiunare durante il Ramadan – ma l’usufruibilità dei loro diritti civici venne legata all’esercizio dei loro doveri cattolici. Che poi, guardando l’altare, pensassero ad Allah perteneva alla libertà individuale. Il quesito, astutamente, non specificava che nome avesse il Dio di cui si desiderava l’esistenza. Speciale attenzione fu dedicata al tema della ricerca medica, per la quale furono trovate le necessarie scappatoie tecniche. Nessuno Stato efficiente avrebbe potuto
permettersi di impedire ai malati di curarsi e agli ipocondriaci di sentirsi malati. In generale, il tono di vita della collettività acquistò soltanto un po’ più di discrezione. Dio era una necessità politica, la garanzia del ritrovato vigore di un modello di vita. La pietra recuperata dal passato su cui, in un presente impaurito, si era deciso di fondare il futuro. Per questo, che Dio esistesse davvero, non interessava quasi a nessuno. Interessava alla Chiesa e ai suoi ministri più sinceri. Eppure, in privato, alcuni sacerdoti e cardinali lamentavano la strumentalità della scelta del Parlamento italiano e la superficialità delle motivazioni che avevano indotto la maggioranza dei cittadini a esprimere parere favorevole. Di fronte a un tale atto di sottomissione, però, ogni pronunciamento men che entusiasta sarebbe apparso ingrato. L’unico invito concreto che Joseph Ratzinger aveva rivolto ai non credenti era stato accolto e trasformato in legge dello Stato. La Chiesa, ammutolita dal proprio trionfo, non poteva nutrire altre pretese. *** Una giornata cruciale (e realmente accaduta) cadde il 13 maggio 2004, anno ventiseiesimo del pontificato di Karol Wojtyla. Nella sala capitolare del Chiostro della Minerva, della Biblioteca del Senato italiano, prese la parola Joseph Ratzinger, un cardinale bavarese che a quei tempi si trovava contemporaneamente a essere prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, presidente della Pontificia commissione biblica, presidente della Commissione teologica internazionale, membro del Consiglio di cardinali e vescovi, membro della Congregazione per le Chiese orientali, membro della Congregazione per il culto divino, membro della Congregazione per i vescovi, consigliere della Pontificia commissione per l’America latina, membro della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, membro della Congregazione per l’educazione cattolica, membro del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, membro del Pontificio consiglio della cultura e decano del Collegio cardinalizio. (Esattamente un anno dopo avrebbe scambiato tutte queste benemerenze con l’elezione al soglio di San Pietro con il nome di Benedetto XVI.) Ratzinger pronunciò quel giorno uno dei suoi discorsi migliori e più neri. Riuscì a essere chiaro e serrato nell’esposizione, suadente nel modo di porgere e durissimo nella sostanza. Si dibatteva in quei giorni sull’opportunità di inserire nel testo della Costituzione europea un riferimento alle radici cristiane. Il prefetto si tenne prudentemente un passo indietro rispetto alla polemica politica («Non sono preparato per entrare in una discussione dettagliata sulla futura Costituzione europea») per dedicarsi a rifare la storia del continente da Erodoto ad Arnold Toynbee. Sostenne che senza quel riferimento e senza la viva coscienza dell’attualità di tale riferimento, l’uomo occidentale era destinato a perdere se stesso. Sarebbe stato perduto l’Uomo, il concetto stesso di umanità come riferimento normativo. Senza una svolta spirituale cristiana, il destino di tutti sarebbe stato il ritorno alla barbarie. Niente più diritti umani e niente più democrazia, niente più uguaglianza e niente più giustizia, concetti che, nell’esposizione di Ratzinger, proprio dal cristianesimo,
per gentile tramite dell’Illuminismo, traevano l’atto della propria fondazione. L’Occidente sarebbe presto apparso come un insensato e violento palcoscenico per l’avidità umana dispiegata, la terra di conquista di una cultura esausta e febbrile, indecisa tra provette, micro e blue chip. Nulla che non fosse il denaro avrebbe più avuto significato. Continuando su questa strada – ammonì implicitamente il cardinale – anche il benessere sarebbe ben presto svanito. L’ombra dell’Anticristo fu presentata anche attraverso un impietoso confronto con l’islam, il nemico pubblico numero uno del momento: «La rinascita dell’islam» disse il cardinale «non è solo collegata con la nuova ricchezza materiale dei paesi islamici, bensì è anche alimentata dalla consapevolezza che l’islam è in grado di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli, una base che sembra sfuggita di mano alla vecchia Europa, la quale così, nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto». Di fronte al destino, la sola strada sarebbe stata ricristianizzare l’Europa da capo, magari prendendo a modello il ritrovato orgoglio islamico. Ma il Vecchio continente non si trovava a fronteggiare soltanto l’avanzata dell’islam. Anche la spinta a perdersi nell’«ideale del mondo forgiato dalla tecnica e del suo benessere» che minacciava l’Asia, mostrava radici più vigorose di quelle europee. «Anche le grandi tradizioni religiose dell’Asia, soprattutto la sua componente mistica che trova espressione nel buddismo, si elevano come potenze spirituali di contro a un’Europa che rinnega le sue fondamenta religiose e morali» affermò Ratzinger, agitando lo spettro dell’altro grande spauracchio del momento: la vertiginosa crescita economica dell’India, della Cina e di tutto il Sudest asiatico. L’esibizione di sapienza, la radicalità degli argomenti, il tono suadente e il fatto che in alcuni punti Ratzinger cogliesse nel segno lasciarono un’impressione durevole. I satolli senatori della Repubblica rimiravano le macerie prossime venture così inebetiti da non accorgersi neppure che la conferenza si chiudeva con un sonoro schiaffone. Invece di chiedere collaborazione alla politica e alle istituzioni dello Stato laico di cui era ospite, il teologo scelse di appellarsi soltanto e unicamente ai credenti. Senza alzare la voce, appena addolcita dalla raucedine del lungo parlare, l’imminente pontefice disse: «Il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell’intera umanità». Dissimulando ogni intenzione provocatoria, Ratzinger stava escludendo la possibilità stessa che una minoranza creativa e salvifica potesse fiorire tra i miscredenti. Non fu sempre così poco collaborativo, il cardinale. In almeno altre due occasioni, parlando sullo stesso tema, la decadenza dell’Europa, dispensò un po’ di speranza. Suggerì la strada su cui, a suo dire, cattolici e non credenti avrebbero potuto venirsi incontro senza rinunciare alle proprie prerogative e ai rispettivi comfort, nel rispetto reciproco, salvandosi tutti, e riscattando l’Occidente dal suo inevitabile tramonto. Parlando al Monastero di Santa Scolastica di Subiaco l’1 aprile 2005 (24 ore prima della morte di Karol Wojtyla), Joseph Ratzinger esortò i cristiani a rimanere sempre
aperti alle istanze della ragione e chiese in cambio ai non credenti di vivere «come se Dio esistesse», rottamando con poche gentili parole l’atto fondativo dell’Illuminismo: «Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restare fedeli a questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal Logos, dalla Ragione Creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale. Ma a questo punto vorrei, nella mia qualità di credente, fare una proposta ai laici. Nell’epoca dell’Illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse». Precisò: «Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell'abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno». Concedendo a un Occidente rammollito dal proprio benessere di godere con moderazione dei frutti giuridici, scientifici ed economici che aveva ereditato dall’Illuminismo e dalla sua scienza, Ratzinger proponeva al mondo un ritorno light ai fasti spirituali del Sacro Romano Impero. *** Termina qui il veritiero antefatto, si ricomincia a narrare del fantasioso referendum sull’esistenza di Dio e delle conseguenze che ne fiorirono. La predicazione, come detto, aveva fatto effetto e generò il suo frutto. Dopo il trionfo, l’Italia divenne una Repubblica fondata su Dio. Nei mesi seguenti, si assistette a un entusiasmante fervore generalizzato. La gente si sentiva più sicura ed era meno impaurita. Ancorati per legge all’eterno e immutabile, ci si sentiva meno esposti ai cambiamenti improvvisi e quasi immunizzati dai pericoli in agguato. Sulle metropolitane, sui treni dei pendolari, sui tram e sugli autobus le facce erano più distese, in pochi pensavano ancora all’evenienza di viaggiare in compagnia del consueto kamikaze. Sull’onda di quell’iniziale ottimismo, l’economia riprese a girare, le fabbriche a produrre, le merci a essere vendute, il denaro a circolare. Ed è probabile che sia stato proprio questo fattore a determinare il dilagare in tutto l’Occidente dell’esperimento italiano. La tecnologia fece la sua parte. Skype, il programma che permetteva telefonate gratis all’estero, favorì immensamente le cose. Gli immigrati comunicarono agli amici e parenti rimasti nei paesi d’origine lo straordinario momento che viveva l’Italia. In pochi mesi, i governi di Ecuador, Perù e Filippine promulgarono analoghe riforme cristiane dello Stato. In Europa, il primo paese a seguire l’esempio fu la cattolicissima Croazia.
Un passo epocale verso l’ecumenismo, e verso la nuova cristianizzazione, fu compiuto quando Sua Beatitudine Teoctist, patriarca ortodosso di Bucarest, levò la sua voce a favore di quella pacifica rivoluzione teocratica. Lo imitarono nei giorni successivi Alexei II di Mosca e Christodoulos, arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia. I politici romeni, russi e greci si adeguarono prontamente. I popoli plaudirono. Il Santo Padre espresse rispettosa perplessità quando si unì al coro Bartolomeo I di Istanbul. Ma in pochi mesi la riforma fu varata perfino in Turchia che, grazie a una formulazione volutamente ambigua, riuscì finalmente a essere ammessa in Europa. Cinquecentosessant’anni dopo la caduta di Costantinopoli, a quasi mille anni dalla biforcazione dell’albero del cristianesimo, la frattura tra Oriente e Occidente si era ricomposta, le chiese sorelle divennero a pieno titolo tali, la cristianità europea fu di nuovo unica, immensa e solidale. Negli Stati Uniti fu eletto un nuovo presidente, su un programma che si richiamava direttamente ai puritani del Massachussetts. Come già aveva fatto George Bush anni prima per giustificare la decisione della guerra in Iraq, il nuovo eletto presentò alla nazione i propri provvedimenti sostenendo di averne parlato a quattr’occhi con Lui. I democratici, da tempo immemorabile all’opposizione, non trovarono di meglio che cercare di apparire ancora più devoti. La marea montante del neocristianesimo non accennava a spegnersi. In Spagna il provvedimento incontrò qualche difficoltà per ragioni di carattere economico. Da quando il primo ministro Luís Zapatero aveva reso legali i matrimoni gay, la terra di Garcia Lorca era diventata meta e residenza di centinaia di migliaia di coppie omosessuali, il cui apporto costituiva ormai una delle voci più importanti del Pil nazionale. Non si poteva rischiare di contrariarle. La scappatoia fu trovata allungando il testo del quesito da sottoporre agli elettori: «¿Quieréis vosotros que Dios exista, pero que no dañe la prosperidad de la Nación?». Un altro grande Paese cattolico d’Europa prese posto tra le teocrazie avanzate. Qualche mese più tardi, anche il cancelliere tedesco (cristiano democratico e, come il papa, bavarese) si dichiarò convinto della necessità di fondare la Germania sulla presenza del Sacro. La riunificazione della cristianità aveva in poppa il vento della storia e nulla sembrava poterla fermare. All’indomani del voto, la firma più autorevole della Frankfurter Allgemeine scrisse: «Oggi nel mondo si afferma una verità molto antica, per troppo tempo ostinatamente taciuta. Nel 1517 a Wittenberg Lutero avviò una banale lite in famiglia. Ma da oggi, nella famiglia cristiana, è fatta la pace». Rimanevano due grandi nazioni, senza le quali il processo non avrebbe potuto dirsi compiuto. In Gran Bretagna tutto avvenne assai dolcemente. L’eterno premier cattolico Tony Blair e il primate anglicano optarono per un incontro pubblico nella cattedrale di Canterbury e, sotto l’occhio delle telecamere di tutto il mondo, si abbracciarono piangendo. The Sun pubblicò in prima pagina la foto di una procace e discinta moracciona a simboleggiare Anna Bolena, e un titolo a caratteri cubitali: «Henry VIII, you were a Pig». Ancora una volta, Dio aveva salvato la regina, messa in difficoltà da un’intempestiva conversione di Charles a Scientology.
La Francia era ormai circondata e isolata politicamente. Il fatto che le sue città fossero alle prese con le quotidiane violenze delle periferie derelitte (ma soprattutto islamiche) non aiutò la politica a mantenere il timone sulla rotta della laicità dello Stato. Alle elezioni i partiti cristiani avanzavano, e nei gusti sessuali della popolazione maschile Giovanna d’Arco aveva ormai stracciato Laetitia Casta. Alla fine anche il governo dovette cedere, ma lo fece con fantasia e grandeur. La domanda sottoposta a les citoyens venne ribaltata: «Est-ce que vous voulez que Dieu n’existe pas?». Vinsero i no. *** Il mondo si cristianizzava, ma in Italia gli anni passavano e le prime crepe cominciavano a farsi visibili. All’iniziale fervore era subentrato un materialismo più ipocrita e perbene che, a tratti, appariva perfino rafforzato rispetto all’era del relativismo imperante. Finalmente liberati da un senso di colpa bimillenario, compiutamente fondati sulla presenza attiva, collettiva e individuale del divino, gli italiani si diedero a una gioia pazza, benché sobriamente esternata. Gli uomini eccedevano nell’acquisto di maglioncini di cachemire color salmone, le donne facevano scorte di coulotte, tanga, pizzi e trine da fare invidia alle conigliette di Playboy. Anche tra coloro che al tempo del relativismo di Stato avevano cercato di vivere con serietà, come se Dio esistesse davvero, si iniziarono a notare comportamenti eccessivi in reazione a quel pacificato conformismo. Un padre di famiglia equo e solidale si sputtanò la tredicesima puntando ai cavalli. Una papa-girl dei bei tempi del Giubileo limonò con due uomini diversi alla stessa festa. Dopo il riordino iniziale, l’entropia dell’umana tendenza al piacere, l’unico succedaneo di felicità che Dio abbia concesso in questa vita a noi disperati, stava riprendendo il sopravvento. A quel tempo, Benedetto XVI era ormai vecchio e affaticato. Non aveva più voglia di scrivere, di parlare e di vestirsi, mangiava meno e con meno gusto. Osservava lo spettacolo dell’uomo cristiano e si intristiva. Perfino padre Georg, il suo fedele aiutante di sempre, gli appariva meno radioso, meno bello, anch’egli intaccato dai segni del tempo e del grasso superfluo. Dio aveva vinto su tutti i fronti, l’Occidente aveva riabbracciato Cristo, anche se quell’abbraccio rischiava di soffocarlo. E nessuna felicità era comparsa all’orizzonte. Il popolo andava ancora pazzo per i reality show e i bambini scimmiottavano sempre il centravanti del momento. Inoltre – il vecchio Benedetto lo vedeva benissimo – le tensioni verso l’islam crescevano di giorno in giorno e in Occidente, a differenza che tra gli islamici, a nessuno era venuta voglia di morire. La cristianità, molle ed edonista come prima, si era fatta furba. Peccava sbocconcellando, in modo da non perdere l’imprimatur vaticano. Qualcuno dietro le mura cominciò a sussurrare. Senza più un nemico da additare ai fedeli e intorno a cui costruire quel senso di appartenenza su cui è fondata ogni comunità umana, privati per sempre della possibilità di essere scandalosi e di levare al cielo, dritto come una folgore, il dito indice segaligno, vescovi, cardinali e
sacerdoti non sapevano più come passare le giornate. «Si stava meglio quando si stava peggio» sospiravano. Avevano immaginato una grandinata di vocazioni, file di scalpitanti seminaristi e aspiranti novizie a bussare ai loro portali come al provino di un programma della televisione, e invece gli altari erano più vuoti di prima, i pretini e le suorine sempre più rari. Di fronte ai pochi sacerdoti rimasti si spalancò, spaventoso, lo sbadiglio del gregge di Dio. Visti dall’altare, i fedeli assistevano alle funzioni come mucche che guardino passare un treno. Si viveva come se Dio esistesse davvero – lo aveva proposto il papa – ma per la Chiesa l’incubo era iniziato. Joseph Ratzinger trascorreva le sue ore sprofondato nel trono di Pietro, e pensava. Ricordava la sua infanzia bavarese negli anni del nazismo, riandava con la mente alle dispute e agli incontri avvenuti durante il Concilio Vaticano II nei giorni in cui Roma gli si schiuse. Pensava agli anni dell’insegnamento e al vecchio Hans Küng, il teologo che lo aveva sostenuto a Tubinga e con cui si era scontrato negli anni dell’ascesa. Ripensava ai ventitré anni in cui aveva ammonito, notificato, corretto e scomunicato a ritmo fordista, in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, decine e decine di persone. Ricordava le loro facce, i loro gesti impacciati, gli sguardi sospesi tra la rabbia e la sottomissione. Lo chiamavano il Grande Inquisitore, a quei tempi. E a quei tempi, il soprannome lo faceva sorridere. Adesso recitava mentalmente, come fosse un rosario, la frase che l’Inquisitore rivolge a Gesù tornato sulla Terra millecinquecento anni dopo la Croce, nel romanzo di Dostoevskij: «Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi a ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?».
PREMESSA POSPOSTA. UN CLAMOROSO SUCCESSO L’ultimo papa è un enigma mediatico. Non possiede nessuna delle qualità (e dei difetti) che oggi garantiscono la popolarità, eppure piace un sacco. Delizia la destra che ha trovato un alleato formidabile, intellettualmente autorevole e capace di fornire nuove parole d’ordine, ma è largamente rispettato anche a sinistra, come un avversario fiero e dialogante. Un papa che fa il papa, insomma, senza farsi contaminare dalle superficiali e facili lusinghe della società di massa. Di fronte alle sua parole, i grandi giornali italiani e le tv mostrano una reverenza quotidiana. I pochi sondaggi disponibili a quasi un anno dall’elezione raccontano di un consenso quasi unanime: Benedetto XVI è valutato positivamente da otto italiani su dieci, 90 su cento lo considerano comprensibile, conservatore ma dialogante. La Prefettura della casa pontificia, l’organismo che gestisce le udienze vaticane, ha diffuso dati secondo cui tra maggio e settembre 2005 le presenze agli Angelus di papa Benedetto XVI sono più che raddoppiate rispetto a quelle registrate l’anno precedente da Giovanni Paolo II, passando da 262mila a 600mila. Una tendenza identica si è registrata per le udienze del mercoledì in piazza San Pietro, con le 410mila presenze in cinque mesi di Joseph Ratzinger contro le 194mila di Karol Wojtyla nel 2004. In pochi mesi Benedetto XVI è riuscito a porre Dio al centro del dibattito culturale e a sfumare la distanza tra fede e ragione, trovando spazi pubblici e sponde politiche prima impensabili. I pronunciamenti del pontefice spaziano in tutti i campi della vita sociale e privata dei cittadini. Danno disposizioni su scelte sessuali e cure mediche, sui consumi e sul lavoro; illustrano il giusto modo di amarsi, di nascere e fare nascere, perfino il giusto modo di morire. Un’insistenza vissuta con fastidio da un numero crescente di cittadini, anche se, in realtà, si tratta di argomenti su cui il Vaticano si esprime da sempre. Se la Chiesa non avesse la pretesa di parlare di tutto e per tutti, cesserebbe di essere universale. La novità non sembra risiedere, dunque, nell’invadenza, ma nell’efficacia e nella risonanza pubblica del discorso vaticano. Rispetto al carisma quasi attoriale di Karol Wojtyla, il modello comunicativo di Joseph Ratzinger appare completamente ribaltato. La forza del messaggio di Benedetto XVI non si deve al fascino del personaggio, ma all’autorevolezza della ragione. Il suo argomentare utilizza, in particolare, i modi e i linguaggi della filosofia anche se ignora – cercheremo di dimostrarlo – come molti filosofi odierni, lo scopo stesso della filosofia, cioè la verità. Il carisma di Giovanni Paolo II spirava dalla capacità di tenere la scena, dal recitare la residua presenza di Dio in un mondo in cui il sacro sembrava sopravvivere soltanto sotto forma di merce, e dall’avere compiutamente accettato la necessità di farsi personaggio mediatico (per questo si attirò gli strali di molti conservatori cattolici che lo accusarono di avere scambiato l’eterna bellezza cristiana con il piatto di lenticchie della diretta tv). La forza di
Benedetto XVI è, invece, quella della certezza ispirata dalla sapienza, è quella della ragione; rappresenta, insomma, il segno della residua autorità della filosofia in Occidente. Un’analisi seria dei discorsi e dei saggi di Joseph Ratzinger dimostra, però, che la sua critica alla modernità non si avventura mai nella confutazione delle idee, ma rimane sempre sul terreno dell’elencazione storica, quando non storicistica, delle nefandezze prodotte – anche oggi – da chi, circa trecento anni fa, iniziò a dire in giro che gli uomini potevano fare a meno di Dio. La sterminata produzione del teologo tedesco si limita a mettere in fila cause ed effetti, tacendo quasi sempre, e con grazia, i fatti che contraddicono la sua interpretazione. La litania sui danni prodotti dal pensiero moderno si riduce, così, a un appello politico alla convenienza. Ritornate a credere in Dio, perché altrimenti starete peggio. Il messaggio è forte, data l’incertezza dei tempi, ma il pensiero che dovrebbe sorreggerlo rimane debole. Da un punto di vista filosofico il discorso del «papa filosofico» appare infondato. La verità, come tale, è sottratta al dialogo razionale tra gli esseri umani per tornare a essere garantita da un’autorità indiscutibile e inverificabile che, dall’alto, può giudicare e condannare come parziale, inumana e dannosa ogni idea che non si conformi preventivamente alla verità stabilita per Legge. Se la fede conosce ragioni che la ragione non può conoscere (e in questa sede nessuno ha intenzione di contraddire l’assunto), la novità rappresentata da Joseph Ratzinger consiste nel fare appello alla ragione (e non alla fede) per negarne la forza; nell’adottare l’argomentazione razionale come strumento di persuasione irrazionale. Per millenni l‘umanità ha barattato la debolezza della ragione con la forza della religione. Non è detto, perciò, che le reticenze filosofiche e le trovate retoriche su cui si basa il messaggio del nuovo pontefice costituiscano un suo punto di debolezza. Forse Benedetto XVI è il notaio che redigerà l’atto di morte del cristianesimo, forse è il messaggero che ne annuncia la resurrezione dopo la breve parentesi della modernità. Certamente oggi rappresenta un nuovo attore politico da comprendere – ed eventualmente combattere e confutare – sul terreno della filosofia perché è su questo terreno che il suo messaggio si sta rivelando politicamente efficace. In mancanza di una critica filosofica, i pronunciamenti vaticani che riguardano sessualità, concepimento e famiglia appariranno, per esempio, difficili da rifiutare senza appellarsi almeno implicitamente alle conquiste ottenute negli ultimi due secoli (cioè ai vantaggi, cioè alle comodità, cioè ad argomenti nulli da un punto di vista razionale e discutibili da quello etico). Soltanto nel contesto della critica filosofica, Joseph Ratzinger si rivelerà prigioniero degli schemi argomentativi – funzionali ed edonistici – che pretende di combattere. Soltanto per questa via sarà smascherato come un pensatore moderno che ha scelto tatticamente di entrare in clandestinità, fingendosi un critico radicale del moderno. Con Ratzinger, per la prima volta, e in un modo nuovo rispetto a Wojtyla, il pensiero della Chiesa si specchia nella modernità, ereditandone la forza, ma anche molti limiti. La modernità costituisce, d’altra parte, la fonte stessa della sua strana capacità di parlare ai contemporanei. Una capacità che trova conferma in un ascolto giorno dopo giorno più attento e silenzioso, e che non incontra quasi contraddittorio,
nemmeno tra i non credenti, nemmeno tra i filosofi. Rinunciare alla forza della filosofia, acconsentire che un principe della Chiesa si presenti come la più alta autorità non soltanto sulle questioni di fede, ma anche nel pensiero, costituisce l’errore più grande di chi, anche a sinistra, cercando disperatamente un appiglio fermo in un’epoca antideologica, è disposto a concedere alla religione, se declinata secondo un linguaggio razionale, l’ultima parola sulle fondamentali domande poste dalla storia. Abdicando al proprio ruolo di indirizzo, acconsentendo a questa rinuncia, riconoscendo a Joseph Ratzinger un’autorità non soltanto religiosa, ma anche razionale sulle questioni fondamentali del vivere, del lottare e del morire, ci si condannerà, davvero, a intonare sul teatro della storia la sola voce della convenienza, del vantaggio facilmente ottenuto, della comodità a portata di mano. Ci si condannerà, in altre parole, a essere muti sulle grandi questioni e ad apparire petulanti, invece, sulle soluzioni tecniche da adottare perché la vita non diventi felice o più sensata, ma un po’ meno faticosa per il maggior numero possibile di esseri umani. Salutare il tradizionalismo filosofico e mediatico di Benedetto XVI come un ritorno insperato a una Chiesa che sia, di nuovo, finalmente, soltanto se stessa, significa non capire che una volta smarrita la fede nella ragione come strumento per discernere il bene dal male e per dialogare tra gli uomini (tutti gli uomini) si sarà irrimediabilmente perduti come uomini occidentali, si diventerà irrimediabilmente schiavi di piccole convenienze definite dalla misura e dettate dal buon senso, non si sarà più, irrimediabilmente, niente. Il pensiero di Joseph Ratzinger è solamente politico. E si rivela efficace proprio perché centra un interesse concreto. Quello di offrire un fondamento autorevole e apparentemente eterno al terrore crescente di veder tramontato un modello di vita che per secoli ha garantito benessere e predominio. Nelle nebbie che avvolgono le rovine del Novecento, un criterio per orientarsi esiste ancora. Consiste nel chiedersi se le parole del predicatore di turno siano più animate dalla constatazione dell’ingiustizia presente o dalla paura della catastrofe futura. Il messaggio del papa è, in questo senso, paradigmatico. Joseph Ratzinger non descrive mai un futuro migliore e invece, di regola, indugia sui disastri in agguato se l’Occidente non abbraccerà la sua versione del cristianesimo. Nei suoi discorsi, paradiso e inferno sono quasi scomparsi. La beatitudine latita, la dannazione è tutta nel mondo e nella storia. È la paura del futuro, la paura di perdere tutto, di soccombere all’avanzata dei barbari, rozzi e virili, a fare da cemento alle alleanze politiche che l’inizio del pontificato di Benedetto XVI sembra avere attivato. Che in tempi di incertezza religione e reazione si alleino non deve stupire. Si tratta di uno schema antico, il cui esordio si può far risalire all’assassinio del faraone Akhenaton che dopo avere dato vita, quattordici secoli prima della venuta di Cristo, al primo monoteismo della storia, dovette subire la reazione del clero di Ammon, il dio decaduto, che devastò la sua città e l’arte, per la prima volta realista, che là era fiorita. La storia ha riprodotto innumerevoli volte questo copione. Per limitarsi al Novecento, dall’Action Française al fascismo italiano, dal clero franchista alle
dittature sudamericane, il successo politico della paura del futuro è stato sempre garantito dalla trinità Dio, Patria e Famiglia. Una trinità che Ratzinger modernizza (la Patria diviene identità occidentale), condivide e proclama.
IL CORPO DI KAROL. LA RELIQUIA E LA MERCE Una meravigliosa terrazza vaticana con piscina, di quelle che la plebe romana immagina pensando a quanto debba essere piacevole il mestiere del pontefice. La luna e le stelle sorridono più brillarelle che mai. Karol Wojtyla, un cinquantottenne polacco fresco di nomina, è avvolto in un’elegante vestaglia fantasia e in mano tiene un cocktail. Pensa: «E se esistesse veramente?… Ihi! ... Mavvedi cosa vado a pensare…». La vignetta, comparsa sul giornale satirico Il Male qualche tempo dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, è firmata da Andrea Pazienza (i cui eredi, colpiti dal disastro seguito alla pubblicazione delle vignette danesi contro Allah, non hanno concesso il diritto di riprodurla). Nel suo modo prelogico e incasinato, il grande disegnatore aveva schizzato un fulmineo ritratto dell’Italia nell’anno del Signore MCMLXXVIII. A rivederla ventotto anni dopo, quella vignetta rivela qualcosa di ieri. Descrive la prima diffusa percezione, quasi la prevenzione, che molti italiani di destra e di sinistra provarono di fronte all’elezione a papa di un giovane polacco dall’aria sana, ironica e soddisfatta. Uno che non appariva circonfuso dall’odor di sacrestia come i suoi predecessori, ma che esibiva un corpo in grado, per la prima volta, di godersi la vita e provare piacere. In Wojtyla si annunciavano, cioè, prima che prendessero forma, gli anni ottanta come rivincita del piacere sull’impegno, della spensieratezza sulla tetraggine, come trionfo del corpo – del corpo in salute, allenato, ben nutrito – sull’ideologia dittatoriale della ragione che aveva permeato i primi otto decenni del Novecento. Non si trattava soltanto dello spirito dei tempi colto da un artista geniale, ma di qualcosa che il nuovo papa sembrava incarnare davvero. A volte la satira (anche quando assume la forma della barzelletta) possiede la capacità quasi divinatoria di inchiodare la cronaca alla croce della storia. Con la sua fede fortissima nella centralità dell’individuo, e la sua avversione alle ideologie e ai sistemi economici totalitari, il nuovo pontefice fece quasi da modello inconscio, da icona di riferimento, agli albeggianti anni ottanta. La schematizzazione più diffusa dell’era di Giovanni Paolo II va, per questa ragione, integrata e precisata. Nella memoria comune il pontificato di Wojtyla si divide in due fasi. La prima, che va dal 1978 al 1989, è quella che accompagna e favorisce la demolizione delle dittature comuniste dell’Est Europa. Nella seconda fase, che si svolge dal 1990 in poi, la critica del papa si rivolge, invece, soprattutto al modo di vita capitalistico, all’ingiustizia e infelicità che produce. Il pensiero antilluminista di Wojtyla, come quello di Ratzinger, interpreta marxismo e liberalismo come doppi metafisici speculari, ugualmente deleteri per l’uomo. A questa prima distinzione bisogna, però, sovrapporne un’altra: quella, altrettanto decisiva, fondata sul corpo.
Il corpo del papa che, nel primo decennio del suo pontificato, era apparso agile, solare e instancabile, nel corso degli anni novanta progressivamente si pietrificò nel dolore e nell’immobilità. Tanto nella salute come nella malattia, il corpo rimase, però, il nucleo e la fonte della sua enorme capacità di comunicare e persuadere. Prima di Wojtyla, l’umanità dei pontefici oscillava tra la rappresentazione ascetica e magnificente dell’immenso potere di Dio sull’uomo e l’immagine modellata sull’antropologia del vecchio zio prete. Alle morbidezze di Angelo Roncalli, «il papa buono», era seguita la magrezza esangue di Montini, uno che aveva risposto alla domanda di un giornalista sui motivi per cui non rideva mai: «Perché, lei ci trova qualcosa da ridere?». Dopo Montini, vennero i trentatré giorni di Albino Luciani, Giovanni Paolo I, «il papa del sorriso». Poi, sul finire degli anni settanta, apparve un pontefice giovane e sconosciuto che amava viaggiare e passeggiare in montagna, e che in gioventù era stato alpinista, calciatore e attore. Un papa, il primo da tanto tempo, di cui si diceva che avesse conosciuto la donna. Era polacco, inoltre; proveniva cioè da una terra che a quei tempi appariva all’Europa occidentale una specie di tundra indifferenziata, plumbea per alcuni e per altri radiosa, abitata da esseri umani con tre narici e tre tette oppure, al contrario, miracolosamente eroici e felici. Karol Wojtyla rivelò al piccolo mondo antico dell’Italia (e dell’Occidente) di allora che il mondo era più grande. Che l’umanità viveva, amava e lottava anche nelle zone dove il cono d’ombra del Signore è più fitto. Il primo papa straniero da 455 anni affiorava dalla provincia dell’impero comunista, ma seppe occupare la scena in uno dei centri strategici del capitalismo. Il pontefice dal regno più lungo dopo Pio IX, il primatista delle encicliche (14), il nominatore industriale di santi e beati (446 e 1227), è stato, anche e soprattutto, il recordman dei viaggi planetari (104 viaggi apostolici, più di un milione di chilometri percorsi, come dire Terra-Luna andata e ritorno), quando prima di lui, i pontefici rimanevano al calduccio tra le mura vaticane. L’elezione di Giovanni Paolo II aveva preannunciato, insomma, anche la «globalizzazione» degli anni novanta, che a quel tempo appariva spensierata e oggi è cupissima. Era nato a Wadowice, 30 chilometri da Auschwitz, 50 da Cracovia, il 18 maggio 1920, da Emilia Kaczorowska, figlia di un sellaio benestante, e Karol senior, figlio di un sarto di modeste condizioni. Emilia e Karol avevano avuto una figlia, Olga, che era morta alla nascita, e un figlio maschio, Edmund. Quando Karol venne al mondo, la mamma aveva 36 anni e non godeva di buona salute. Decise di portare a termine la gravidanza, ma dopo la nascita si ammalò di cuore e di reni. Morì quando il suo ultimogenito aveva nove anni. Quel giorno il padre andò a scuola, chiamò la maestra, Zofia Bernhardt, e la incaricò di darne notizia al figlio. Dopodiché, se ne andò. La maestra tornò in classe e diede la notizia. Il bambino disse: «È la volontà di Dio». Jonathan Kwitny, uno dei biografi di Wojtyla, racconta di avere «udito molte persone dichiarare che Emilia morì di parto», ma la notizia non potrà mai essere verificata. L’adorato fratello Edmund, medico, morì a 26 anni di scarlattina contratta all’ospedale Powszechny di Bielsko. Quando se ne andò anche il Karol senior, il 18 febbraio 1941, il ragazzo aveva 21 anni. Si era iscritto all’università (la stessa dove
aveva studiato Copernico), spesso pregava disteso a faccia in giù sul pavimento, le braccia aperte come un Cristo abbattutosi dalla Croce. Giocava centravanti, scalava montagne, piaceva alle ragazze, scriveva poesie, lavorò nelle cave di pietra di Zakròwek e, in seguito, come addetto alle caldaie alla Solvay. Soprattutto amava, e sapeva, recitare. Sono noti i suoi esordi, a vent’anni, nello Studio 38, il circolo teatrale di Tadeusz Kudliski, clandestino durante l’occupazione nazista. Quando decise di farsi prete, per prima cosa si tagliò i capelli. Gli amici tentarono di dissuaderlo usando il solo argomento che potevano usare: il suo talento di attore. Un dono divino che gli avrebbe permesso di portare nel mondo un messaggio, e che non si poteva sprecare. Soltanto che la recitazione richiede, prima di tutto, un palcoscenico. E nessun palcoscenico era sacro e magnificente come la Cripta di San Leonardo a Wavel dove Karol Wojtyla celebrò la sua prima messa il 2 novembre 1946, come il pulpito della parrocchia di Niegowic dove dal 1948 fu viceparroco, come la cattedra di Etica sociale cattolica all’Università Jagellonica che ottenne nel 1953, come l’altare della cattedrale di Cracovia di cui nel 1963 diventa arcivescovo metropolita, come il Concilio Vaticano II del 1963, in cui iniziò a rivelarsi al mondo e incrociò, senza conoscerlo di persona, un altro giovane intelligente e ambizioso di nome Joseph Ratzinger. Come il soglio di San Pietro dove salì il 16 ottobre 1978 (alle 17.15 circa) all’età di appena 58 anni. È stata una vita straordinaria e dolente, quella di Karol Wojtyla, perfetta per affermare l’invincibilità dell’individualità di fronte al conformismo della storia. Con Giovanni Paolo II, tramontando, il Novecento affrontò un po’ dei suoi nodi e fece un bilancio. Risiede qui la sua modernità. Risiede qui l’ambiguità, e la grandezza, del suo pontificato. Per questa consonanza con un bilancio ardentemente desiderato, ma ancora impossibile, si può dire che Karol Wojtyla sia stato compiutamente novecentesco. Dietro all’ottimismo mediatico sprigionato dal suo talento nel tenere la scena, agiva la coscienza del dolore della storia e il ricordo vivo delle tragedie del secolo. Tragedie che in Polonia aveva sperimentato durante l’occupazione nazista e, poi, sotto il dominio sovietico. Tragedie a cui dava la medesima spiegazione. Nel pensiero di Wojtyla, di cui Ratzinger è insieme ispiratore e continuatore, nazismo e comunismo rappresentano filiazioni di un’unione incestuosa: quella tra la pretesa dell’Illuminismo di fare a meno di Dio e la tecnica dispiegata germinata dal suo ventre. Alla fine del secolo scorso, Dio era morto. Per riaffermare la vitalità di questo cadavere metafisico, Karol Wojtyla adottò con l’istinto dell’uomo di spettacolo, le armi dei suoi avversari. Con molto anticipo e senza troppo scoprirsi, riuscì a vendere se stesso e il proprio prodotto secondo le regole del marketing della società di massa. Trasformò il proprio corpo, la propria voce e i propri gesti in merci secolarizzate, comprendendo che sotto il culto del marchio sopravvive pur sempre quello della santa reliquia. Che il concetto di star rappresenta la caricatura consumistica dell’idea del divino. Senza questa accettazione tattica del linguaggio del capitalismo, forse per Santa Romana Chiesa sarebbe stato impossibile restare al passo con i tempi. Karol
Wojtyla fu il primo papa a inscrivere nella propria missione il mercato come istanza oggettiva. Ma perché questa operazione avesse sostanza, perché non naufragasse nel teatrino insulso del Novecento, il nuovo pontefice aveva bisogno di restituire al corpo umano, e per suo tramite all’individuo, la sua centralità etica e metafisica, affermando, per questa via, la sua potenziale santità. Definire il corpo e il significato dei corpi uniti nell’atto sessuale e amoroso costituisce, infatti, lo sforzo maggiore dell’opera di Wojtyla filosofo. Con risultati che, per quanto palesemente vissuti, per quanto dolorosamente esperiti, sfociano sempre in un radicalismo disperato. Il futuro Giovanni Paolo II fu fondamentale, a quanto si dice, nell’ispirare al coltissimo e indeciso Paolo VI l’enciclica Humanae Vitae che nel 1968 mise la parola fine a ogni dubbio della Chiesa sulla liceità della contraccezione. La sessualità è centrale in Persona e atto, la sua opera filosofica maggiore, rielaborata in collaborazione con Anna Teresa Tymienicka, la curatrice dell’edizione americana. Alla base del sodalizio tra i due, secondo il primo biografo di Wojtyla, George Hunston Williams, spirava «un’energia erotica non praticata» che, a parere di Williams, rientrava nella tendenza di Wojtyla di mettere volontariamente alla prova, per resistere, il proprio desiderio. Centrale nell’elaborazione filosofica di Giovanni Paolo II fu anche la collaborazione con un’altra donna, la dottoressa Wanda Poltawska che conobbe nel dicembre 1956 e con cui diede vita, nel 1960, da vescovo di Cracovia, all’Istituto della famiglia per l’educazione dei laici. Ma è in un’altra opera fondamentale, Teologia del corpo, terminata nel 1979 e resa pubblica in una serie di udienze tenute dal 1981 al 1984, che Wojtyla rivelò la centralità del sesso nella propria visione dell’uomo: «Il sesso non solo decide l’individualità dell’individuo, ma allo stesso tempo ne definisce la personale identità» scrive «colui che conosce è l’uomo e colei che è conosciuta è la moglie [...] nella conoscenza di cui Genesi parla, il mistero della femminilità si manifesta e si rivela pienamente attraverso la maternità». Le tesi del cattolicesimo più tradizionale – per quanto definite dall’affermazione dell’intima unione di sesso e conoscenza e per quanto affrontate, nominate, discusse – sfociano, nel pensiero wojtyliano, nel rifiuto sofferente e totale di ogni debolezza indotta dai desideri corporei: «L’uomo che si abbandona alla lussuria non è padrone del suo corpo» ha scritto Karol Wojtyla «il dominio di sé è essenziale per la formazione della persona umana». E conclude: «L’uomo prova vergogna per il suo corpo a causa della lussuria». Nella filosofia di Wojtyla è l’intenzione a decidere della moralità dell’atto sessuale, non l’atto medesimo. Se si abbandona alla lussuria, arrivò a sostenere, l’uomo sposato può commettere adulterio perfino con la propria moglie. L’importanza della sessualità nella sua elaborazione teoretica appare, così, intrecciata all’immagine con cui per un quarto di secolo ha incantato il mondo. Perché la reliquia, secolarizzata in merce dall’eresia illuminista, riacquistasse vita e vigore, la Chiesa doveva tornare a governare la fonte stessa del desiderio e l’origine materiale della procreazione. Per ritornare a essere concreto, per ritornare a parlare agli uomini, il cristianesimo doveva radicare il proprio messaggio nella profondità
dei corpi e dei desideri degli individui. Scaturisce anche da questo bisogno di controllo, oltre che dalla necessità di offrire ai fedeli alcuni elementari criteri di orientamento etico in linea con i loro pregiudizi sedimentati, l’anatema sull’omosessualità che Giovanni Paolo II si affrettò a pronunciare davanti ai vescovi statunitensi, già nell’ottobre 1979, durante il primo viaggio negli Usa: «L’attività omosessuale, da distinguersi dalla tendenza omosessuale, è moralmente malvagia». Gli anni settanta finivano in un tremendo hang over. Il mondo si svegliava dolorante, disorientato e pieno di buoni propositi. La durezza del papa sul sesso non ne limitò la forza comunicativa che risiedeva, anche, nella capacità di non farsi rinchiudere in un’interpretazione politicamente univoca. Non lasciarsi definire non era soltanto tattica, ma derivava da un’effettiva complessità e comprensione per le ragioni di tutti. L’azione politica di Wojtyla, per quanto improntata a un’interpretazione tradizionale del cattolicesimo, ha sempre mantenuto una sua caratteristica ambiguità. A posizioni feroci, come quella sulla sessualità, corrisposero infatti aperture sostanziali in altri campi ugualmente centrali, non dettate soltanto dalla modernità comunicativa, come il rifiuto della guerra, la condanna delle ingiustizie economiche o il dialogo con le altre religioni. La sua ossessione non fu mai, a differenza del successore, la paura del disordine e del sopravvenire di un futuro diverso dal passato. Per affermare la propria visione del mondo e della storia, Karol Wojtyla finse tatticamente di allearsi a turno con i suoi nemici ideologici. Fare giocare gli avversari come alleati rappresenta una costante della sua straordinaria carriera. Era stato eletto arcivescovo di Cracovia nel 1958 perché i comunisti lo ritenevano più dialogante e moderato di altri prelati, fu eletto papa vent’anni più tardi perché liberali e conservatori si erano illusi che quel giovanotto polacco fosse uno dei loro. Il talento dell’attore e quello del politico spesso si confondono. All’epoca gli sfidanti erano due: Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, giovane e rampante, e Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, che andava per la maggiore tra i conservatori. Si tenne il conclave. Al primo ballottaggio, Siri conduceva con meno di 50 voti davanti a Benelli. Al secondo, Benelli si era portato in testa. Giunti al terzo ballottaggio fu chiaro a tutti che nessuno dei due aveva reali speranze di portare via voti all’avversario. Il nome dell’arcivescovo di Cracovia fu avanzato dall’ala liberale per dare un segno di rinnovamento attraverso l’elezione di un papa straniero, dopo l’improvvisa morte di Albino Luciani. Il fatto che fosse polacco, cioè di un paese del patto di Varsavia in cui i cattolici erano perseguitati e, quindi, anticomunista, finì per non dispiacere ai conservatori; il fatto che fosse giovane, dialogante, e che avesse in passato trattato argomenti «moderni», piacque ai riformisti. La fumata bianca si levò nel tardo pomeriggio del 16 ottobre 1978. Quando il cardinale Pericle Felici proclamò urbi et orbi il nome del nuovo pontefice, Annibale Gammarelli, l’ultimo discendente della famiglia romana che veste il papa da cinque generazioni (e che Benedetto XVI ha licenziato in favore di Euroclero), aveva un diavolo per capello. Nessuno aveva mai sentito nominare Karol Wojtyla e, dunque, nessuno era in grado di indicarne la taglia. Per ogni elezione, la sartoria by appointment of His Holiness è tenuta a tenere pronte tre tuniche bianche di taglie
plausibili (small, medium, large).L’Onnipotente aveva fatto del suo meglio per togliere dai guai il signor Annibale. La stazza del nuovo papa (1,70 cm per 80 kg) era quanto di più medium si potesse trovare. Ma non sarebbe stato un gran problema. Addestrato alla sobrietà assoluta dal padre ufficiale dell’esercito austriaco e poi polacco, Giovanni Paolo II ha sempre prediletto il vintage e ha indossato, durante i suoi 27 anni di pontificato, abiti preferibilmente usati. Anche in questo i due appaiono opposti. Se Giovanni Paolo II rinunciò alla maggior parte dei vecchi paramenti, Benedetto XVI si è affrettato a fare riaprire gli armadi per sfoggiare, con orgoglio anacronistico, la propria intenzione di dichiararsi erede della pompa vaticana. Joseph Ratzinger, che non veste pantofole Prada (come ha scritto il Washington Post il 23 dicembre 2005), ma realizzate a mano appositamente per lui da Adriano Stefanelli, un artigiano del novarese, sembra avere un debole per i copricapi. Nei primi otto mesi, oltre alla papalina e alla tiara, ha rispolverato il camauro indossato per l’ultima volta da Giovanni XXIII, ha osato un tricorno della Guardia civile spagnola e, perfino, un elmetto dei pompieri. A osservarle con attenzione, le vesti di Benedetto XVI appaiono preziose. I riferimenti stilistici impliciti esondano dal territorio della vanità individuale per farsi citazione e omaggio, dichiarazione politica. Le fotografie di Benedetto XVI vanno accostate ai magnifici ritratti di Giulio II della Rovere e di Leone X de’ Medici di Raffaello, a quelli di Paolo III Farnese, con e senza nipoti, di Tiziano (è il pontefice che nel 1542 istituì la Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione), all’Urbano VIII dipinto da Pietro da Cortona che condannò Galileo, al tetro Innocenzo X di Velásquez, a Benedetto XIV di Pierre Subleyras che saluta ieratico e ignaro l’approssimarsi della Rivoluzione francese, indossando lo stesso berretto (il camauro) e la stessa mantellina rossa (la mozzetta), che Ratzinger ha sfoggiato all’udienza generale in piazza San Pietro il 21 dicembre 2005. La moda pontificia restaurata e rimodernizzata da Benedetto XVI risale nel tempo fino alle soglie della modernità, fino agli ultimi papa re. La differenza nella scelta degli abiti rimanda a quella del corpo, la «cosa» da vestire. Se la fisicità di Karol Wojtyla è stata strabordante anche nella malattia, quella del successore quasi non esiste. Il corpo e il volto di Joseph Ratzinger appaiono rigidi, una statua con una strana bocca mobile da cui fuoriescono certezze, gli occhi appaiono vividi, ma poco diretti, e i movimenti di mani e braccia non fluidi, lontani dalla grazia del predecessore. Per fare risaltare il personaggio, l’ultimo papa del Novecento aveva eliminato ogni ornamento, presentandosi al mondo «nudo» affinché apparissero solo i suoi gesti. Ed è proprio per questa assenza, nella misura dell’indossare e del dire, tanto nella bellezza giovanilistica della figura quanto nell’obbligato immobilismo senile, che si può affermare che Karol Wojtyla sia stato un grande attore, forse il più grande, del Novecento. Quando si dice che i grandi attori sanno recitare con il corpo, significa che il corpo è presente, incarna la presenza, manifesta la presenza, è la prima testimonianza di un esserci. Per questo, Marlon Brando, dopo avere incassato l’assegno, tentò di convincere il regista Francis Ford Coppola che Kurtz non avrebbe neppure dovuto apparire in Apocalypse Now. Per questo, Coppola accettò di trasformare il suo attore
più grande in una sorta di statua ancestrale che compare soltanto alla fine del film. Per questo, la più grande prova di Karol Wojtyla – più duratura perfino del gesto, bellissimo, con cui giocò con un bambino coprendogli la testa con il mantello cremisi – è stata testimoniare la propria fede in Dio senza potersi quasi muovere. Attraverso il dolore. Giovanni Paolo II sviluppò in maniera sistematica e con sfumature molto moderne la «teologia del dolore», avendo piena consapevolezza di parlare anche come «testimone, nella mia carne». In Wojtyla la sofferenza non ha in sé un valore salvifico e il dolore torna a essere un mistero senza senso e ingiusto anche nel piano originario di Dio. In quanto parte della condizione umana, non può essere eluso e interroga, ma il cristiano può comprenderlo e accettarlo alla luce della sofferenza di Cristo che scelse proprio il dolore come luogo del suo incontro con l’uomo. Il dolore è necessario anche per Ratzinger, ma la sua è la posizione classica che vede nel dolore umano il luogo dell’unione con il Cristo della Passione. Afferma Ratzinger, già il 5 maggio 1980, un anno prima di diventare prefetto: «Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre». Nel 2001 il concetto si precisa come critica alla degenerazione edonista dell’Occidente: nel paradigma moderno, scrive Ratzinger, «la sofferenza deve scomparire, la vita essere solo piacevole». Karol Wojtyla ha vissuto e testimoniato il proprio dolore senza mai accettarlo come giusto, in modo da preservarne il mistero. Joseph Ratzinger arriva, invece, a tratteggiare una mistica della sofferenza quasi estetizzante che non può che fondarsi sull’immagine di un Dio del dolore. Lo testimonia la lettera inviata nel 2002 al meeting di Comunione e liberazione: «Qui si cela la questione più radicale se la bellezza sia vera, oppure se non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla profonda verità del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore “sino alla fine” (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo». La più tragica delle obiezioni al cristianesimo – l’esistenza del dolore nel mondo – viene estetizzata, trasformata in «bellezza». Il corpo di Giovanni Paolo II ha incarnato (che altro fanno gli attori se non incarnare?) prima la gioia e poi la sofferenza della materia, accettata come una prova, combattuta come un ostacolo, utilizzata come un linguaggio. Un’intuizione che espresse compiutamente una domenica di maggio del 1994, quando ricomparve davanti ai fedeli dopo essersi fratturato la spalla, rotto un femore ed essere andato a sciare per l’ultima volta. «Devo condurre la Chiesa nel terzo millennio con la preghiera» disse «ma mi rendo conto che questo non basta. Occorre condurla nella sofferenza, nell’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio […] Devo incontrare i potenti di questo
mondo e devo parlare. Ma con quali argomenti? Mi resta solo il linguaggio della sofferenza». L’ultimo messaggio è cattolicesimo distillato. Accettazione consapevole della necessità del male come strada per aprirsi alla speranza della resurrezione. Il modo in cui Karol Wojtyla mise in scena la propria missione afferma che il corpo e il mondo sono prigioni, le uniche prigioni che abbiamo, nel bene e nel male. Afferma che il corpo è la nostra prima bara.
UN RAGAZZO UBBIDIENTE. UN PREFETTO UBBIDITO Su Joseph Ratzinger gira a oggi una sola barzelletta, a quanto è dato sapere. Come la vignetta di Andrea Pazienza su Wojtyla, dà un’idea dell’impatto del nuovo pontefice su una porzione significativa dell’immaginario popolare. Cracovia, inverno 1944. Il cielo è plumbeo, sopra le ciminiere Solvay. Disteso sul ciglio della strada sporco di neve, un giovane operaio polacco attende il colpo di grazia. Un giovanissimo soldato tedesco in piedi davanti a lui, protende la Lüger, mira alla testa e fa fuoco. Dal cielo, un fulmine polverizza il proiettile. Il giovane nazista è sorpreso, ma ricarica l’arma, distende il braccio e preme di nuovo il grilletto. Ancora una volta, un fulmine polverizza la pallottola. Il vocione di Dio tuona, facendosi strada tra le nuvole: «Tu non ucciderai quest’uomo perché un giorno lui sarà papa».Il tedesco ha un attimo di esitazione, poi propone ad alta voce: Sì, fa pene, però dopo qvesto qvi in Faticano ci fengo io. Per quanto ingenerosa, la storiella fornisce alcune chiavi interpretative utili a descrivere le differenze che nell’immaginario comune passano tra Benedetto XVI e il suo predecessore. Karol è dipinto come un predestinato, come un uomo salvato dall’intervento diretto di Dio, mentre Joseph è un politico precoce e molto ligio al dovere. Un ragazzo abbastanza intelligente da capire la propria condizione di peccatore, ma anche abbastanza svelto da contrattarne una migliore alla prima occasione. La barzelletta richiama un episodio realmente accaduto (il 29 febbraio 1944, tornando a piedi dalla Solvay, Karol Wojtyla fu investito da un camion militare tedesco e rischiò di morire) e lega per sempre i destini dei due giovani mettendo in scena un assassinio scongiurato, un’esistenza risparmiata e una profezia comune di realizzazione mondana e spirituale. L’incontro è situato nell’Europa della Seconda guerra mondiale, cioè nel cuore stesso del Novecento, nella tragedia da entrambi vissuta e, poi, interpretata come rivelazione della disumanità della tecnica che può trasformarsi in strumento di morte e schiavitù industriali. Nel pensiero antilluminista di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, lo scandalo del nazismo rappresenta l’epifania del male tecnicamente riproducibile come colpa imperdonabile di una modernità che, avendo negato Dio, non è più in grado di mantenersi umana. Rappresenta la dimostrazione che il metodo scientifico, nella sua pretesa indipendenza da ogni istanza metafisica e religiosa, finisce per produrre mostri. L’interpretazione è storicamente discutibile non soltanto per la tesi espressa da György Lukács, con altrettanta erudizione e rigidità, nell’ormai fuori moda La distruzione della ragione (Hitler germinò dall’irrazionalismo del pensiero romantico tedesco in opposizione ai sistemi razionalisti di Hegel e Marx), non soltanto per le acquisizioni di un grande storico come George Mosse, che dimostra quanto mistiche fossero Le origini culturali del Terzo Reich, ma anche perché, più semplicemente, quando si è trattato di impartire morte e dolore, la Chiesa
cattolica non fece mancare nulla dei moderni comfort. Basti pensare alla raffinatezza tecnologica degli strumenti di tortura utilizzati dalla Santa Inquisizione. Il contrasto più nitido che affiora dall’empia storiella, però, è un altro: individua in Karol Wojtyla una vittima e in Joseph Ratzinger un servitore del nazismo. All’indomani dell’elezione, i giornali, soprattutto quelli inglesi, sono stati davvero ineleganti nel rinfacciare al nuovo pontefice la sua breve, adolescenziale militanza nell’esercito di Adolf Hitler. Titoli come «The Rottweiler of God» del Daily Telegraph e «From Hitler Youth to Papa Ratzi» del Sun appaiono davvero ingiusti se si riferiscono al servizio militare nella contraerea del Reich che il futuro Benedetto XVI prestò per 15 mesi all’età di 16 anni. Detto questo, lascia abbastanza sconcertati la lettura della sua autobiografia pubblicata nel 1997, La mia vita. Ricordi 1927 1977 (Joseph Ratzinger ha pubblicato due libri autobiografici, Karol Wojtyla nessuno). Le prime pagine appaiono glaciali e serene, come se il pontefice in carica non fosse nato nel 1927, l’anno in cui Hitler terminava il Mein Kampf, nel cuore della Germania nazista. È tutto un rincorrersi di deliziose chiesette, maestose cattedrali, che si fa celebrazione insistita dello spirito semplice e pio della gente del posto. Nelle sue memorie, che si arrestano alle soglie dell’avventura romana, il cardinale insiste nel ricordare la contrarietà al nazismo del padre gendarme, ma scrive anche frasi che suonano, in qualche misura, di giustificazione. Ratzinger spiega: «Il partito nazista faceva sempre più fortemente la sua comparsa presentandosi come l’unica alternativa al caos incombente»; racconta di «un insegnante giovane, oltre tutto assai dotato, che era entusiasta delle nuove idee»; magnifica «la sobria mentalità dei contadini bavaresi», ma sorvola sul fatto che Hitler non era bavarese soltanto perché era nato qualche metro al di là del confine austriaco e tace la circostanza che Marklt sull’Inn, il luogo in cui Ratzinger nacque il 16 aprile 1927, si trovi ad appena 16,7 chilometri da Branau, dove, il 20 aprile 1889, era venuto al mondo Adolf Hitler. Essere quasi compaesani, va da sé, non è una colpa, ma la distanza tra i due paesi è così minima da meritare almeno una riga. La tragedia dell’epoca sprofonda nell’immagine agreste e pia di un piccolo mondo contadino non ancora guastato dalla modernità. Il dramma del nazismo viene ascritto a una generica prepotenza, mancando ogni riferimento diretto a soprusi realmente accaduti, ogni rievocazione di precisi episodi di violenza o discriminazione. Gli eventi della storia rimangono sullo sfondo, come un’eco lontana, a volte terribile, a volte incoraggiante, che rischia di travolgere le pacifiche comunità contadine. «La guerra era ancora lontana da noi, ma il futuro stava davanti a noi inquietante, minaccioso e impenetrabile» ricorda Ratzinger che, però, rievoca il 1940, «l’anno dei grandi trionfi di Hitler», come un periodo di gloria: «La Danimarca e la Norvegia vennero occupate; nel giro di poco tempo vennero sottomessi anche l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia. Persino delle persone che erano contrarie al nazionalsocialismo provavano una sorta di soddisfazione patriottica». I buoni tedeschi, umiliati dalla pace seguita alla sconfitta nella Prima guerra mondiale, offesi dalla crisi economica e dalle incertezze della democrazia, non potevano, insomma, che provare un senso di rivalsa e orgoglio di fronte all’avanzata del Führer.
Nel 1939, a 12 anni, Ratzinger si era iscritto al seminario di Traunstein dove la famiglia si era trasferita due anni prima e dove, tra il 1918 e il 1920, aveva abitato anche Adolf Hitler. A quell’epoca Traunstein era una cittadina di 11mila abitanti, molto più grande dei paesi in cui il ragazzo aveva fino ad allora vissuto. In ogni caso, abbastanza da rendere gli orrori del regime pienamente visibili. Il biografo di Ratzinger, John Allen jr, ha documentato l’atmosfera che si respirava in quegli anni e gli eventi di cui gli abitanti dovettero essere testimoni. Nella piazza principale un cartello ammoniva: «Non comprare dal giudeo». Il 12 novembre 1938, tre giorni dopo la Notte dei cristalli, Traunstein fu dichiarata Judenfrei. Alle elezioni del 1932 il Partito comunista aveva raccolto il 16,9 percento dei voti, arrivando terzo, ma vicinissimo, a quello nazista. Primo fu il partito cattolico bavarese, una filiazione del Zentrum, che restò sempre maggioritario. La presenza dei comunisti in Baviera, e il terrore che essa doveva ancora ispirare, aveva avuto il suo apogeo nel 1919, quando una rivoluzione di stampo bolscevico – che aveva rovesciato e ucciso Kurt Eisner, il leader socialista democraticamente eletto un anno prima – aveva proclamato la Repubblica sovietica bavarese, l’unico stato sovietico mai sorto in Europa occidentale. L’esperimento durò pochissimo. Durante la repressione, l’esercito tedesco uccise un migliaio di persone. Il primo arresto di massa di comunisti risale al 3 marzo 1933. Gli arrestati furono inviati a Dachau, interrogati e picchiati. La maggior parte di loro fu rilasciata, ma le violenze e le intimidazioni aumentarono, come aumentarono gli episodi di opposizione da parte dei militanti. Nell’autunno del 1937, la cellula della resistenza più attiva era stata distrutta. Dopo il suicidio di Hans Braxenthaler, uno dei leader, la Gestapo arrestò e mandò a morire nei campi sette degli otto membri restanti. Se a Traunstein, come nel resto del Paese, furono soprattutto i comunisti a condurre la resistenza contro Hitler, non mancarono azioni da parte di altri gruppi politici e religiosi. Era proprio di Traunstein, per esempio, Christoph Probt, uno degli eroici studenti cattolici della Rosa bianca che dopo avere distribuito volantini sugli orrori del nazismo, furono fucilati il 22 febbraio 1943. Ribellarsi era possibile, ma molto pericoloso. Come riporta John Allen, analoghi episodi di opposizione, per quanto meno radicali, vennero dal leader del partito cattolico di Traunstein, Rupert Berger (il cui figlio avrebbe preso gli ordini insieme ai fratelli Ratzinger) e dallo stesso parroco, Joseph Stelzle, che nel 1934 venne arrestato dopo aver pronunciato un sermone che allertava i fedeli contro chi predicava «un falsificato Cristo ariano». Quando ricorda l’attività di suo padre ad Aschau, Ratzinger è accomodante: «Non fece opposizione pubblica; non sarebbe stato possibile, neppure all’interno di quel villaggio». Non si può incolpare nessuno di avere scelto di non correre rischi, è qui in questione una memoria che appare selettiva e accomodante. Come quando il pontefice ha celebrato nell’intervista a Peter Sewald che sarebbe diventata Il sale della terra (l’altra sua autobiografia pubblicata nel 1997), la figura del suo illustre prozio Georg, uomo politico e intellettuale di punta nella Baviera a cavallo tra Ottocento e Novecento, sorvolando tranquillamente sul fatto che fosse un fiero antisemita.
Nel 1943, a sedici anni, Joseph Ratzinger viene arruolato a forza nella contraerea insieme a tutti i seminaristi della sua leva. Primo incarico, «proteggere una succursale della Bmw, in cui venivano fabbricati dei motori per aerei». Anche di questo periodo, Ratzinger conserva «un bellissimo ricordo» perché «il sottufficiale a cui eravamo sottoposti difese con fermezza l’autonomia del nostro gruppo» ed «eravamo dispensati da tutte le esercitazioni militari». Nel 1944 Ratzinger viene arruolato «al servizio lavorativo del Reich» e assiste alla disfatta della Germania e alla caduta della liturgia nazista. «È vero che il comandante della compagnia era uno che sbraitava e mostrava chiaramente di credere ancora al nazismo. Ma i nostri istruttori erano uomini esperti, che avevano provato sulla loro pelle gli orrori della guerra al fronte e non volevano rendere la cosa più pesante di quanto, comunque, già non fosse.» Nel 1945 arrivarono «finalmente» gli americani. Per breve tempo il soldato Ratzinger dovette «alzare le mani e prendere posto tra i prigionieri di guerra». Sua madre, ricorda, «soffrì profondamente nel vedere suo figlio e quei resti dell’esercito sconfitto starsene lì, senza alcuna certezza, guardati a vista da soldati americani armati fino ai denti». Non c’è una parola sul contributo decisivo dei russi che, il 27 gennaio 1945, avevano liberato Auschwitz. Non c’è una parola sulle persecuzioni che erano in atto, non c’è un solo racconto dei soprusi di cui fu testimone. Soltanto nel 1993, intervistato dal settimanale Time, il cardinale ricorderà di avere visto lavoratori schiavi provenienti da Dachau, mentre prestava servizio alla Bmw e di avere assistito all’uccisione di ebrei ungheresi. Non c’è una parola sulla resistenza e sul sacrificio dei comunisti di Traunstein. Nelle memorie di Benedetto XVI la sola àncora contro la barbarie (una barbarie che pure inorgogliva) è rappresentata dalla presenza della Chiesa cattolica che «malgrado le molte debolezze umane, era stata il polo di opposizione all’ideologia distruttiva della dittatura nazista; essa era rimasta in piedi nell’Inferno, che pure aveva ingoiato i potenti, grazie alla sua forza, proveniente dall’eternità». In particolare, Ratzinger indica questo ancoraggio nell’ arcivescovo di Monaco, «la grande figura dell’anziano cardinale Faulhaber», che aveva visto da bambino «con la sua imponente veste color porpora», restandone «talmente colpito da arrivare a dire che anch’io volevo diventare come lui» (lo racconta in Il sale della Terra). I cattolici tedeschi furono – in generale, ma con un certo ritardo – critici verso Hitler. Il cardinale von Faulhaber pronunciò certamente parole coraggiose: «Dio punisce sempre» affermò «chi tormenta il suo popolo eletto». Me seppe anche essere ambiguo, come il 23 ottobre 1936 quando disse: «Lo Stato ha il diritto, nel suo ambito, di procedere contro gli abusi del giudaismo, particolarmente se gli ebrei, in quanto bolscevichi e comunisti, minacciano l’ordine statale». Il suo obiettivo era chiedere grazia per gli ebrei convertiti, contro «il principio fondato sul sangue e sulla razza». Con tutti i distinguo del caso, sembra, insomma, difficile condividerne la beatificazione. Per Ratzinger, nella figura del cardinale «si percepiva chiaramente il peso delle sofferenze che aveva sopportato negli anni del nazismo e che ora gli conferiva un invisibile alone di dignità». Nel racconto di Ratzinger, la glorificazione del ruolo del cattolicesimo conduce a tacere tutto il resto e a edulcorare il ricordo. Per quanto critico, l’atteggiamento della
Chiesa cattolica tedesca nei confronti dell’ascesa del nazismo non si lascia rinchiudere in un’interpretazione unidimensionale. Per citare due episodi soltanto: nel 1933 il Zentrum del deputato sacerdote Ludwig Kaas votò perché a Hitler fossero concessi per quattro anni i pieni poteri costituzionali, mentre l’1 ottobre 1938 il presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi, Adolf Bertram, inviò a Hitler, «su suggerimento del cardinale von Faulhaber», un telegramma che recitava: «L’episcopato tedesco si sente in dovere, in nome dei cattolici di tutte le diocesi, di presentare le sue rispettose congratulazioni e ringraziamenti, e di ordinare che questa domenica le campane vengano suonate a festa». Nel 1933, infine, Hitler firmò il Concordato che garantì alle università tedesche cattoliche e protestanti i benefici di cui godono tuttora. Erano tempi difficili, ma la visione di Joseph Ratzinger oggi appare davvero edulcorata. Anche apprezzando l’umana, cristiana, comprensione per chi non ebbe il coraggio di ribellarsi, ma soltanto quello di ubbidire, rimane difficile da accettare la mancanza di accenni ai numerosi, e sempre più gravi (la soluzione finale era iniziata nel 1941) atti di abominio perpetrati dal nazismo. L’autobiografia di Ratzinger ignora, scegliendo il silenzio, la domanda cruciale che riguarda le ragioni profonde per cui, pur sapendo, o almeno sospettando, i tedeschi accettarono. Perché la memoria di Ratzinger si chiarisca, perché riaffiori qualcosa dell’atmosfera di quegli anni, occorre aspettare il 28 novembre 1996. Intervenendo alla conferenza internazionale organizzata dal Pontificio consiglio per la pastorale della salute sul tema A immagine e somiglianza di Dio: Sempre? Il disagio della mente umana, Ratzinger ricorda: «Davanti al tema di questo convegno internazionale, emergono in me ricordi inquietanti. Permettetemi, vi prego, di raccontarvi a modo di introduzione questa esperienza personale, che ci riporta all’anno 1941, quindi nel tempo della guerra e del regime nazionalsocialista». Il cardinale narra «di un robusto figliolo, che era qualche anno più giovane di me, ma dimostrava progressivamente i segni tipici della sindrome di Down» portato via dai nazisti. «Non si avevano ancora sospetti sull’operazione di eliminazione dei disabili mentali, che già era stata iniziata. Dopo poco tempo giunse la notizia che il bambino era morto di polmonite e il suo corpo era stato cremato. Da quel momento si moltiplicarono le notizie di tal genere.» Le notizie di cui Ratzinger è testimone diretto, nel ricordo del 1996 effettivamente si moltiplicano. Episodi che nell’autobiografia non ci sono, e che quindi non guastano l’immagine serena della vita in Germania al tempo di Hitler, ma che nel discorso pronunciato quasi sessant’anni più tardi, in un’occasione non certo storica, sfociano nella condanna del pensiero moderno, sostanzialmente equiparato al nazismo, nella sua negazione di Dio: «Chi nega l’eternità» dice Ratzinger parlando della soppressione degli handicappati perpetrata dal nazismo «chi vede l’uomo solo come intramondano, non avrebbe pertanto in partenza alcuna possibilità di penetrare l’essenza della somiglianza con Dio», l’unico fondamento del rispetto per l’uomo. ***
L’excursus è finito. Joseph Ratzinger non fu nazista, ma, come molti tedeschi, per patriottismo, senso di rivincita e mancanza di coraggio, si uniformò. Certamente, però, la prima parte della sua biografia restituisce un quadro storico traforato di silenzi e un’interpretazione, almeno parziale, delle responsabilità della Chiesa cattolica in quella tragedia. Tornando alla barzelletta raccontata all’inizio, la sua verità più preziosa è un’altra e non riguarda il nazismo. Suggerisce che gli ultimi due papi della Chiesa cattolica sono complementari e opposti come i volti di una sfera. Entrambi si sono formati nella tragedia della Seconda guerra mondiale, interpretata all’unisono come il frutto marcio del razionalismo moderno. Entrambi partecipano attivamente al Concilio Vaticano II. Vivono fianco a fianco gli ultimi due decenni del Novecento e l’inizio del nuovo secolo come due fiumi che scorrono paralleli pur rimanendo misteriosamente opposti tra loro. Le vicende biografiche di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger s’intersecano, le loro filosofie si confondono, i loro pontificati sfociano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, a tal punto che è difficile stabilire quanta parte dell’era Wojtyla si debba in realtà all’influsso del suo vice, e quanto il pontificato di Ratzinger rappresenti lo sviluppo necessario dell’opera del predecessore. Poiché il bimillenario riserbo vaticano rende impossibile tracciare una chiara linea di demarcazione politica, teologica o filosofica, non resta che ripercorrere i rari momenti in cui il loro pensiero e le loro azioni sembrarono differenziarsi e, almeno in un caso, entrare in collisione. Nel 1978, al tempo dell’elezione di Wojtyla, il teologo bavarese si era già costruito una solida fama. Un anno prima Paolo VI, che per Wojtyla aveva una certa predilezione, aveva nominato a sorpresa Ratzinger arcivescovo di Monaco e di Frisinga, imponendogli un mese dopo la porpora cardinalizia. Il debutto romano risale, però, al Concilio Vaticano II, anno 1963, in veste di teologo di fiducia del cardinale di Colonia, Joseph Frings. A quell’epoca Ratzinger, che non aveva ancora quarant’anni, era considerato uno degli esponenti di punta dell’ala liberale della Chiesa tedesca. Fece clamore la forza del discorso, scritto da Ratzinger, pronunciato da Frings, con cui, l’8 novembre 1963, il vecchio cardinale di Colonia, all’epoca quasi cieco e molto malandato, accusò Alfredo Ottaviani, il figlio di un fornaio romano diventato prefetto del Sant’Uffizio, di gestire il suo compito in modo ingiusto, antidemocratico e autoritario. Un atto d’accusa pubblico che – fu un evento inaudito – fu interrotto dagli applausi dei padri conciliari. Un decennio dopo, le aperture dottrinarie del giovane Ratzinger erano già definitivamente incrinate. Negli anni sessanta, in qualità di professore alle università di Münster, Tubinga e Ratisbona, il teologo misurò con sgomento lo spiraglio che il Concilio aveva spalancato al vento dei tempi nuovi che, da allora, parevano bussare furiosi alle porte della Chiesa. Nell’autobiografia di Ratzinger è già chiaramente espressa l’idea che la riforma liturgica del Concilio e il suo aprirsi alla storia avrebbero determinato conseguenze negative e difficilmente arrestabili. Il ragionamento segue, come avviene spesso nel pensiero di Ratzinger, lo schema del sillogismo fondato su quel fallace argomentare che desume dalla negatività delle conseguenze la tesi da dimostrare all’inizio.
Scrive Ratzinger in La mia vita: il Concilio «fece a pezzi l’edificio antico», «il nuovo messale», coniugato dal Concilio non più in latino, ma nelle lingue nazionali, «ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni». Il cardinale era, e rimane, «convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia», convinzione da cui sarebbe derivata, probabilmente, la comprensione per Lefebvre mostrata dal futuro prefetto. Ratzinger lanciava già allora un appello: «Abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del Concilio Vaticano II». Come si nota, non è qui in questione la verità di tale «dono», ma soltanto la disgregazione e l’effetto dannoso che ha promosso. L’appello di Ratzinger si basa, cioè, su una considerazione di tipo utilitaristico, su un giudizio politico che con la verità, ancora una volta, non ha nulla a che fare. Se si rimanesse sul terreno della razionalità filosofica, il preteso effetto negativo della riforma liturgica voluta dal Concilio non sarebbe sufficiente a invalidare la correttezza delle premesse. Le parole che Ratzinger dedica agli anni sessanta dimostrano quanto il suo sistema di pensiero e il suo carattere siano costitutivamente avversi al marxismo e al liberalismo, specialmente quando si confusero, tingendosi di accenti libertari, nelle culture giovanili che nacquero in quell’epoca. Fa impressione misurare la comprensione con cui Ratzinger dà conto della propria giovinezza e comprende la docilità dei tedeschi rispetto allo sdegno che traspare quando racconta il vento egualitario e libertario che spirava nelle università degli anni sessanta e settanta. Scrive ancora in La mia vita, riferendosi al 1969, anno in cui inizia a insegnare Dogmatica e Storia dei dogmi a Ratisbona: «Le ondate di rivolta marxista si fecero sentire anche nella nostra giovane Alma Mater; soprattutto nell’ambiente degli assistenti c’erano degli autentici e consapevoli capofila della sinistra». «L’esistenzialismo andava in pezzi e la rivoluzione marxista si accendeva in tutta l’università, la scuoteva fin dalle fondamenta.» «Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione.» Il vento della modernità che Ratzinger aveva percepito già nel 1963 a Münster, non accennava a placarsi. All’Università di Tubinga, dove il teologo approda nel 1966 grazie a Hans Küng, cioè al più celebre teologo progressista del secondo Novecento, «in breve tempo, quasi nello spazio di una notte, lo schema esistenzialistico crollò e fu sostituito da quello marxista». Il messaggio di speranza della Bibbia conservava «il suo fervore religioso» soltanto al prezzo della politicizzazione (e perciò della distruzione) di una teologia che, abbeverandosi al «messianesimo marxista», eliminava Dio per sostituirlo «con l’azione politica dell’uomo». La croce veniva dileggiata «in modo blasfemo», il vecchio mondo, a seguito (e forse a causa) delle aperture conciliari, sembrava andare a rotoli, correre ridendo verso il disordine del relativismo, del materialismo e dell’anarchia. L’autorità della Chiesa, e a ben vedere ogni autorità della tradizione, era attaccata, assediata da ogni lato.
Per fortuna di Ratzinger, anche quella stagione finì. All’inizio degli anni ottanta, quando il cardinale giunse a Roma, il vento della contestazione, per quanto avesse lasciato tracce drammatiche e indelebili anche nel mondo cattolico, mostrava chiari segni di indebolimento. Dopo avere rifiutato un invito di Karol Wojtyla nel 1979, il 25 novembre 1981, ad appena cinquantaquattro anni, Joseph Ratzinger succedette al cardinale croato Franjo Seper nel ruolo di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. L’ala tradizionalista ne fu soddisfatta. Il cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto della Congregazione per il clero, sintetizzò con queste parole il ritorno all’ovile della tradizione dell’ex pecorella smarrita nei pascoli della modernità: «Ratzinger veniva a Roma con un gruppo che apriva nuove prospettive. Poi però comprese che questi teologi erano troppo presuntuosi e se ne liberò». Inizia quel giorno una delle collaborazioni più intense e importanti del Novecento. Una relazione, quella tra Ratzinger e Wojtyla, che nessuno, ancora, ha compiutamente ricostruito. Un elemento decisivo nella scelta e nel tono generale della relazione tra i due si deve, secondo molte testimonianze, alla nazionalità del prefetto. Padre Karl Becker, amico di Ratzinger e professore all’Università gregoriana di Roma, e l’arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, concordano nell’affermare che il polacco, per quanto di sette anni più vecchio, subisse il fascino intellettuale di quel rappresentante della gloriosa tradizione della teologia tedesca (la cui grandezza si deve anche ai finanziamenti statali concessi alle facoltà teologiche tedesche, cattoliche e protestanti, decisi dal Concordato stipulato con Hitler). Ha raccontato Weakland al biografo di Wojtyla, Jonathan Kwitny: «Sul piano intellettuale la relazione riflette il rapporto di amore-odio che i polacchi hanno per i tedeschi. Il papa è deferente nei confronti di Ratzinger. Quando un incontro stava per finire era Ratzinger che poteva aggiungere l’ultima parola, se voleva». Nella prima parte del pontificato, l’opera di Ratzinger dovette essere soprattutto di consiglio e indirizzo. Il prefetto era forse – lo ha sostenuto padre Becker – la persona con cui Wojtyla più amava dialogare e, in ogni caso, uno dei pochissimi ad avere il privilegio di un incontro settimanale fisso con il papa (si vedevano regolarmente il venerdì sera e, a volte, il martedì a pranzo). Ratzinger collaborò attivamente all’elaborazione delle linee dottrinarie e politiche del pontificato, mantenendo il timone della Chiesa cattolica a dritta. Da un punto di vista dottrinale, è impossibile stabilire dove finisse il pensiero di Wojtyla e dove iniziasse quello di Ratzinger. «Non saprei distinguere» ha detto Weakland «tra ciò che dice (il papa) e ciò che dice Ratzinger.» Con l’avanzare della malattia, il ruolo di indirizzo del prefetto dovette necessariamente rafforzarsi. Fu un inquisitore fermo e spietato, ma gentile e dialogante nei modi, che contribuì in maniera decisiva a ridisegnare (o restaurare) la geografia politica romana attraverso l’individuazione dei teologi da bloccare, condannare, emarginare o ricondurre nel grembo materno. Mostrò entusiasmo per chi era riuscito a coniugare sostanza antica e stilemi moderni, come il fondatore dell’Opus Dei, Jose Maria Escrivá de Balaguer, canonizzato il 6 ottobre 2002, o don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione. Esercitò la virtù della pazienza verso le voci più tradizionaliste e intransigenti, come quando si trattò di affrontare lo scisma di
monsignor Marcel Lefebvre. Verso le voci più progressiste fu, viceversa, intransigente e implacabile. Durante la sua guida, la scure della Congregazione si abbatté su un numero di persone abbastanza impressionante, facendo piazza pulita di ogni dissenso sinistrorso. Nell’ambito della sua azione politica, la lista delle persone che il prefetto ha condannato rappresenta una incontrovertibile, e strabordante, nota a piè pagina.
NOTE A PIÉ DI PAGINA QUI RIPORTATE DI SEGUITO AL TESTO 1984. Padre Gustavo Gutiérrez,peruviano, autore nel 1971 del sag-gio «Teologia della liberazione», si rassegna al perpetuo silenzio. 1985. Padre Leonardo Boff, teologo della liberazione brasiliano, dopo vari richiami, viene condannato a un anno di «ossequioso silenzio». - Notificazione a padre Edward Schillebeeckx, teologo belga favorevole al sacerdozio femminile e contrario al celibato sacerdotale. - Convocato padre Gyorgy Bulanyi, sacerdote ungherese delle Comunità di base che sostiene l’obiezione di coscienza alla leva. - Destituito il vescovo brasiliano dom Helder Câmara, vicino alla teologia della liberazione. Il suo sostituto riordina la diocesi procedendo ad interrogatori ed epurazioni. 1986 Il vescovo di Seattle, Raymond Hunthausen , viene esautorato dalla diocesi per le sue idee pacifiste e per l’assistenza spirituale alla comunità omosessuale. 1987 Si dimette l’abate Giuseppe Nardin per la sua vicinanza al predecessore Giovanni Franzoni, fondatore della comunità di base di San Paolo. - Charles Curran, professore di Teologia morale alla Catholic University of America, è sospeso dall’insegnamento per le tesi su divorzio, masturbazione, eutanasia e omosessualità. 1988. Sollevati dall’insegnamento i gesuiti José Castillo e Juan Estrada; dalla direzione di «Mision Abierta», Benjamin Forcano, clarettiano. - Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix de Araguaia, Brasile, accusato di sostenere la teologia della liberazione, è condannato a uniformarsi al magistero, a un periodo di silenzio e a non interferire, viaggiando, con altre diocesi. - Scomunica per Marcel Lefebvre, vescovo scismatico che non accetta le novità liturgiche del Concilio Vaticano II e ignora la sospensione a divinis inflittagli da Paolo VI. Stessa sorte per i quattro vescovi da lui ordinati. 1989. Respinte tutte le richieste della «Dichiarazione di Colonia» di 163 teologi che criticano il Vaticano e rivendicano diritti alle Chiese locali. - Si dimette Paul Valadier, direttore gesuita di «Estudes»: con altri 157 teologi ha firmato una lettera di solidarietà alla «Dichiarazione di Colonia». 1991. Commissariato l’editore brasiliano Vozes e licenziato padre Boff, direttore dell’omonima rivista. - Privato del diritto a insegnare e sospeso a divinis dal sacerdozio Eugen Drewermann, teologo dell’Università di Paderborn. Ha sostenuto che il legame ecclesiastico impedisce l’autocoscienza dei preti.
1992. Il teologo Matthew Fox, già richiamato nel 1988, è espulso dall’ordine domenicano per tesi non allineate con l’insegnamento morale sessuale del Vaticano. - No al «nihil obstat» alla docenza alla facoltà di Teologia cattolica di Strasburgo, a padre Philippe Denis per tesi critiche sull’Opus Dei. - La Congregazione pretende dal teologo canadese André Guindon la ritrattazione di un saggio in cui si definiscono moralmente legittimi i contraccettivi, i rapporti prima del matrimonio e quelli omosessuali. 1994. Bloccata la traduzione inglese del nuovo «Catechismo della Chiesa cattolica» perché ha un linguaggio ritenuto troppo femminista. - Impedita la nomina della teologa Teresa Berger alla cattedra di Liturgia di Bochum, Germania, perché ritenuta «femminista». - Divieto di diffusione e distruzione per «Woman at the altar» della teologa inglese Lavinia Byrne, perché sostiene il sacerdozio delle donne. Byrne smette la tonaca dopo 35 anni. 1995. Su richiesta della Congregazione per la dottrina della fede, la suora brasiliana Ivone Gebara, sospettata di simpatie femministe, è inviata a studiare teologia per due anni in Europa. - Destituito Jacques Gaillot, vescovo di Evreux, Normandia, perché accetta il contraccettivo in funzione anti Aids e sostiene che omosessuali e risposati siano comunque membri della Chiesa. 1997. Scomunica «latae sententia» per Tyssa Balasuriya, teologo cingalese sostenitore di teorie non ortodosse su Maria, il dogma del peccato originale e l’infallibilità del pontefice. - Dopo il commissariamento delle edizioni Paoline e cinque contestazioni ad articoli, è licenziato don Leonardo Zega, da sedici anni direttore di «Famiglia cristiana». 1998. Notificazione per padre Anthony De Mello, gesuita indiano autore di bestseller di sapore new age. - Sospeso Jacques Dupuis, teologo gesuita, docente alla Pontificia università gregoriana e direttore di «Gregorianum», a causa del suo libro «Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso». Nel 2001 seguirà una notificazione. 1999. Padre Robert Nugent e suor Jeanine Gramick, colpevoli di prestare assistenza a gay e lesbiche cattolici, sono convocati in Vaticano, costretti a sottoscrivere la professione di fede e raggiunti da notificazione. 2000. Per evitare provvedimenti disciplinari, il teologo liturgista austriaco Reinhard Messner sottoscrive un’obiezione della Congregazione nei confronti di un suo libro.
2001. Il religioso e scrittore australiano Paul Collins, sotto inchiesta dal 1997 per il suo saggio «Papal power» che pone in dubbio l’infallibilità papale, rifiuta di sottomettersi alla Congregazione e lascia i Missionari del Sacro Cuore. - Noficazione dei cardinali Ratzinger, Medina Estévez e Dario Castrillon Hoyos contro monsignor Samuel Ruiz che a San Cristóbal de las Casas, in Messico, ha ordinato 400 diaconi sposati. - Notificazione contro il libro «Moral de actitudes» del teologo spagnolo Marciano Vidal, accusato di «errori» su aborto, anche terapeutico, fecondazione artificiale, contraccezione e masturbazione. Vidal corregge l’opera secondo le direttive. - Costretto al divorzio dalla moglie Maria Sung e a riflessione forzata monsignor Emmanuel Milingo, esorcista sposato dal reverendo Moon della Chiesa dell’Unificazione. 2002. Padre Joseph Imbach lascia la docenza alla Pontificia università teologica di Roma perché il suo libro «Miracolo» è scettico sull’esistenza dei miracoli e critico verso i metodi «da servizi segreti» del Sant’Uffizio. - Scomunica per alcune donne cattoliche e per il sacerdote argentino Rómulo Antonio Braschi che le aveva ordinate sul Danubio. 2003. La Congregazione informa con una nota che il teologo Juan José Tamayo, autore di «Dios y Jesus», non ha il mandato canonico per insegnare teologia e ha posizioni non compatibili. - Ridotto allo stato laicale per ordine della Congregazione don Franco Barbero, favorevole al matrimonio dei sacerdoti e alle unioni gay. Aveva detto: «Dio non è la Fiat. Non sbaglia mai un pezzo». - Sospeso a divinis padre Bernard Kroll, che durante il primo Kirchentag ecumenico della storia ha celebrato messa insieme a pastori protestanti e comunicato luterani. 2004. Don Fabrizio Longhi è rimosso dalla sua parrocchia di Rignano Garganico. A Natale aveva fatto dire l’omelia a Pasquale Quaranta, un giovane omosessuale di Salerno. - Rimosso e destituito don Aitor Urresti, della diocesi di Deusto-San Ignacio a Bilbao, per la sua prossimità al movimento We are church, aperto all’omosessualità. 2005. Condanna per «Jesus Symbol of God» di Roger Haight che nega la missione salvifica universale di Cristo. - Sospeso a divinis don Vitaliano Della Sala, parroco no global che, già nel 2002, era stato sollevato dall’incarico alla sua parrocchia di Sant’Angelo a Scala, Avellino.
LE CORREZIONI. DOVE OSA L’AUCTORITAS La fiducia del Santo padre dovette essere davvero assoluta, ma anche la forza venne a mancare. Negli ultimi anni, Joseph Ratzinger riprecisò a destra con metodica fermezza tutte le aperture più significative dell’epoca wojtyliana. È impossibile stabilire quanto questo fosse dovuto alla fiducia, alla debolezza o a una granitica consonanza d’intenti, ma lo schema si ripete invariato in almeno quattro occasioni. Il 9 giugno 2000 la Congregazione per la dottrina della fede fa seguire all’apertura di Giovanni Paolo II alle Chiese cristiane d’Oriente un breve documento intitolato Nota sull’espressione “Chiese sorelle”. Dopo un dotto riassunto sull’uso dell’espressione «utilizzata da Wojtyla nelle encicliche Slavorum Apostoli e Ut unum sint», oltre che in una lettera del 1991 ai vescovi europei, il prefetto conclude: «Deve essere sempre chiaro, quando l’espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che l’una, santa, cattolica e apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari». Tutt’al più, concesse Ratzinger, l’espressione poteva essere accettabile se riferita alla «Chiesa particolare di Roma» rispetto a «tutte le altre Chiese particolari», ma mai alla Chiesa cattolica rispetto alle altre Chiese cristiane. Non c’è bisogno di dire che la Nota riportava l’approvazione di Giovanni Paolo II. Lo stesso meccanismo del poliziotto buono-poliziotto cattivo è in atto nella formulazione del giudizio cattolico su cristianesimo riformato ed ebraismo. Alle aperture del pontefice sul dialogo interreligioso– aperture che lo avevano condotto a parlare degli ebrei come di «fratelli maggiori» – la Congregazione fa seguire il 6 agosto 2000 l’istruzione Dominus Iesus nella quale «anzitutto si ribadisce la fede in Gesù Cristo unico e universale mediatore di salvezza per tutta l’umanità. Conseguentemente si riafferma l’unicità e l’universalità della mediazione di Gesù Cristo, Figlio e Verbo del Padre, come attuazione del piano salvifico di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Non c’è una economia salvifica trinitaria indipendente da quella del Verbo incarnato» (la sintesi è tratta da un «articolo di commento della notificazione della Congregazione per la dottrina della fede a proposito del libro di padre J. Dupuis: Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso»). Per Ratzinger, insomma, fuori dalla fede in Gesù, cioè fuori dalla Chiesa cattolica, non c’è alcuna possibilità di salvezza. L’istruzione sollevò un putiferio, ma il prefetto non si scompose e, anzi, nell’occasione, fece sfoggio di una certa arroganza intellettuale. Intervistato dal Frankfurter Allgemeine il 22 settembre 2000 sulle obiezioni sollevate contro la Dominus Iesus, Ratzinger esordisce: «Devo confessare di essere molto annoiato da questo tipo di dichiarazioni. Conosco a memoria da molto tempo questo vocabolario, nel quale i concetti di fondamentalismo, centralismo romano e assolutismo non mancano mai. Certe dichiarazioni potrei formularle da solo senza neanche aspettare
di riceverle, perché si ripetono ogni volta indipendentemente dall’argomento che si tratta. Mi chiedo per quale motivo non escogitino mai qualcosa di nuovo». Per vent’anni, Joseph Ratzinger svolse davvero, alla lettera, il ruolo di guardiano della dottrina attraverso la Congregazione e la Commissione teologica di cui era a capo. Con esiti che a volte oscillano tra la comicità e l’insulto. Il dibattito sul sacerdozio femminile (possibilità che il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, riteneva ancora aperta) fu chiuso d’autorità da Giovanni Paolo II con la breve lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994: «Dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Qualche tempo dopo arrivò a ventilare, per la seconda volta nella storia, il dogma dell’infallibilità papale stabilito da Pio IX nel 1870: il divieto era basato, dichiarò, «sulla parola scritta» ed «è stato espresso infallibilmente» dal magistero. Il cardinale di Bologna, Giacomo Biffi, paragonò l’eventualità di una donna prete alla sostituzione della Coca-Cola al vino consacrato; per rendere più accettabile l’editto, Joseph Ratzinger negò la possibilità di celebrare messa anche ai preti alcolizzati o celiaci, cioè impossibilitati a bere vino e allergici alla farina presente nell’ostia. Nella liturgia cattolica, un tema a cui Ratzinger ha dedicato gran parte dei suoi sforzi, il simbolo è la cosa: l’ostia è davvero il corpo di Cristo, il vino davvero il suo sangue. La necessità di mantenerla inalterata, superando le differenze culturali o le aperture del Vaticano II, conduce spesso a risultati paradossali. Sono, per esempio, le case madri dei missionari a inviare in Cina, dove il riso impera, ostie di frumento, le uniche che rendono valido il sacramento dell’Eucarestia (§2, canone 924, Codex di Diritto canonico). Ma in India, dove toccare un «fuori casta» conduce a essere considerati a propria volta «intoccabili», i sacerdoti impartiscono ai paria la Comunione usando apposite pinzette. Per venire a patti con le specificità dietetiche delle popolazioni dell’America del Nord, la Chiesa cattolica considerò per lungo tempo il castoro, un abile nuotatore dotato di coda squamosa, una specie di pesce e, quindi, alimento ammesso nei giorni di Quaresima. Tornando al paragone di Ratzinger tra donne e preti celiaci o avvinazzati, la probabile intenzione di mitigare l’atto di esclusione delle donne dal sacerdozio ebbe l’effetto di equiparare la condizione femminile a un vizio (l’alcolismo) o a una grave intolleranza alimentare (la celiachia). Il caso più clamoroso dell’attitudine di Ratzinger a correggere gli atti del pontefice si ebbe, però, durante il Giubileo del 2000. Karol Wojtyla, così malandato da essere costretto ad affidare proprio al suo principale collaboratore il compito di aprire la Porta santa, non rinunciò ad attuare un gesto di grande rilevanza storica. Molti teologi, tra cui Ratzinger, avevano manifestato perplessità verso la volontà di Giovanni Paolo II di chiedere perdono per le colpe passate della Chiesa, una volontà sottoposta all’assemblea straordinaria dei cardinali già nel 1994. Il «mea culpa» fu reso pubblico nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente. Il 29 novembre 1998, la bolla di indizione dell’Anno Santo Incarnationis mysterium introdusse esplicitamente il tema della «purificazione della memoria» tra le occasioni storiche offerte dal Giubileo. Il 7 marzo 2000, la Commissione teologica internazionale
presieduta da Ratzinger, pubblicò La Chiesa e le colpe del passato. Lo studio era stato intrapreso proprio su proposta del presidente e fu approvato dalla Congregazione per la dottrina della fede. Con grande eleganza, erudizione e sottigliezza, il documento già all’inizio recita: «Non sono però mancate alcune riserve, espressione soprattutto del disagio legato a particolari contesti storici e culturali, nei quali la semplice ammissione di colpe commesse dai figli della Chiesa può assumere il significato di un cedimento di fronte alle accuse di chi è pregiudizialmente ostile ad essa». Il gesto di Giovanni Paolo II, spiega il documento, va incontro a numerosi impedimenti: «La difficoltà che si profila è quella di definire le colpe passate, a causa anzitutto del giudizio storico che ciò esige, perché in ciò che è avvenuto va sempre distinta la responsabilità o la colpa attribuibile ai membri della Chiesa in quanto credenti, da quella riferibile alla società dei secoli detti “di cristianità” o alle strutture di potere nelle quali il temporale e lo spirituale erano allora strettamente intrecciati». «Si profilano, così, diversi interrogativi: si può investire la coscienza attuale di una “colpa” collegata a fenomeni storici irripetibili, come le crociate o l’Inquisizione?» La Commissione prosegue descrivendo lo sconcerto dei fedeli davanti alla proposta del pontefice ed evidenziando i vantaggi che tale richiesta di perdono potrebbe offrire ai detrattori. La frase più dura, che suona quasi come una sconfessione, si ha nelle conclusioni del capitolo dedicato alla ricerca dei fondamenti biblici: «Da quanto detto si può concludere che l’appello rivolto da Giovanni Paolo II alla Chiesa perché caratterizzi l’anno giubilare con un’ammissione di colpa per tutte le sofferenze e le offese di cui i suoi figli sono stati responsabili nel passato, così come la prassi ad esso congiunta, non trovano un riscontro univoco nella testimonianza biblica». È appena da notare il fatto che la sconfessione respinge il gesto di Wojtyla sulla base della sua opportunità politica, facendo appello ad argomenti storicisti (l’unicità storica di Inquisizione e Crociate) che Ratzinger ha criticato in decine di scritti come argomenti non conclusivi e dettati dalla degenerazione illuminista. Non era la prima volta che Ratzinger correggeva il papa. Aveva corretto Giovanni Paolo II per aver detto, abbastanza scherzosamente, che Dio non è solo padre, ma un po’ anche madre; lo aveva bacchettato per l’eccessiva disinvoltura nella nomina di santi e beati; e dopo la rivelazione del Terzo segreto di Fatima aveva ridimensionato la «santità» del pontefice, frenando bruscamente gli entusiasmi del segretario di Stato, Angelo Sodano. Se in tutti gli episodi rievocati, mancano indizi per stabilire l’effettiva opinione di Giovanni Paolo II, pare essere sempre Ratzinger ad avere l’ultima parola. C’è, però, una possibile eccezione. Riguarda il nemico dottrinario alla distruzione del quale la Congregazione per la dottrina della fede dedicò gli sforzi maggiori. In principio La teologia della liberazione era un libro, un saggio del teologo peruviano Gustavo Gutiérrez Lima pubblicato nel 1971. Poi divenne un movimento diffuso in tutto il Centro e Sud America, formato da-sacerdoti, vescovi e teologi schierati dalla parte dei poveri contro l’ingiustizia sociale e le oligarchie politiche che la promuovevano. Il fondamento teologico del movimento introduceva, secondo
Ratzinger (ma nel caso forse non si sbagliava), nel messaggio evangelico il concetto di «lotta di classe», ricavato dal marxismo. Per i teologi della liberazione, la Chiesa doveva tornare alle origini e battersi al fianco dei poveri del mondo per partecipare attivamente al loro riscatto. Il suo esponente più famoso è stato padre Leonardo Boff, un teologo brasiliano che aveva studiato in Germania sotto la guida del prefetto che lo avrebbe preso di mira. Papa Wojtyla e il cardinale Ratzinger erano d’accordo: per la Chiesa il propagarsi delle idee di Boff rappresentava il pericolo di cadere nel grembo del materialismo, di sostituire alla promessa cristiana un messianesimo dell’immanente che sostituiva la rivoluzione al paradiso. Nei primi anni l’offensiva occupò Ratzinger in modo quasi esclusivo, a cominciare dalle Istruzioni su alcuni aspetti della teologia della liberazione del 1984 per continuare con Libertà cristiana e liberazione del marzo 1986. Parallelamente allo sforzo dottrinario, il prefetto si impegnò in una lunga serie di notificazioni e interrogatori che avevano di mira gli scritti di Boff e l’attività degli altri aderenti al movimento. Sull’intera vicenda e sui giudizi del papa sui pronunciamenti della Congregazione a proposito dei teologi della liberazione, i biografi di Wojtyla sostengono interpretazioni opposte. È, però, plausibile che sulla questione il pensiero di Wojtyla, a quel tempo impegnato a combattere il socialismo reale e a liberare la Polonia dal giogo sovietico, fosse molto meno definitivo di quello del suo più stretto collaboratore. Secondo Jonathan Kwitny, per esempio, Wojtyla non condivise il contenuto della prima istruzione di Ratzinger che, nel respingere senza appello il marxismo («se si prende una parte, si finisce per accettare tutta l’ideologia»), contraddiceva alcune delle idee espresse in Etica sociale cattolica, un libro semiclandestino pubblicato da Wojtyla nel 1953. Per Wojtyla la lotta di classe non soltanto esisteva, ma il marxismo conteneva elementi di verità: «La critica al capitalismo» scrisse nel 1953 «la protesta contro il sistema di sfruttamento degli esseri umani e del lavoro umano è inequivocabilmente “parte della verità” racchiusa nel marxismo». «Il papa non era soddisfatto della “istruzione” di Ratzinger» sostiene ancora Jonathan Kwitny. Per questo, in attesa che il custode dell’ortodossia pubblicasse un secondo, più mite, giudizio, «commissionò al cardinale Roger Etchegeray – il suo effervescente consultore per Giustizia e Pace – un altro documento che volgesse in qualcosa di socialmente positivo le osservazioni di Ratzinger». Nonostante la contrarietà del papa, il prefetto non addolcì le proprie posizioni e, anzi, sempre nel 1984, convocò a Roma i vescovi peruviani perché sottoscrivessero un documento che condannava le idee espresse da Gustavo Gutiérrez nel suo saggio del 1971. Intanto, nel marzo 1986, la Congregazione pubblicava una seconda istruzione (Libertà cristiana e liberazione) che stabiliva nel concetto di redenzione l’unica liberazione («dal male più radicale, cioè dal peccato e dal potere della morte») possibile da una prospettiva cristiana. L’anno successivo, dopo una notificazione che condannava un saggio di Leonardo Boff per «relativismo ecclesiologico», la Congregazione condannò il religioso brasiliano a un anno «di ossequioso silenzio» (sentenza forse mitigata dall’intervento
di Giovanni Paolo II). Il prefetto commentò bonario la punizione: «Ecco, più che di un anno di silenzio, io parlerei appunto di un anno sabbatico, che dà a padre Boff, come teologo, come scrittore, come pensatore, un lungo tempo per la riflessione. Anch’io, per solidarietà con padre Boff, vorrei potere avere la possibilità di un anno di silenzio». Negli anni seguenti, l’atteggiamento delle parti non mutò. Nel 1987 la Congregazione impedì la pubblicazione del saggio di Boff Trinità e società. Nel 1991 Boff fu sospeso dalla rivista francescana Vozes. Un anno dopo, sotto la minaccia di perdere la cattedra di teologia, il teologo abbandonò per sempre la Chiesa. L’interpretazione di Jonathan Kwitny è contraddetta, sulla base di un colloquio con Joseph Ratzinger (onore che Kwitny non ottenne), da un altro importante biografo di Karol Wojtyla. Per George Weigel, autore di Testimone della speranza, «in L’uomo del secolo Jonathan Kwitny, sulla base di un’ipotesi già ventilata da molti altri, suggerisce che sia stata elaborata una seconda istruzione sulla telogia della liberazione perché il papa non era soddisfatto dell’Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione. Il cardinale Ratzinger lo negò decisamente nei colloqui del 18 gennaio e del 20 settembre 1997, sottolineando la fondamentale continuità tra le due istruzioni e l’insegnamento del papa a Puebla nel 1979 e in Perù nel febbraio del 1985. Aggiunse che in nessun stadio di quel processo il papa si mostrò in qualche modo insoddisfatto della prima istruzione». Sulla base della testimonianza di Ratzinger e di un assoluto antimarxismo di Giovanni Paolo II, Weigel conclude che l’ipotesi di un dissenso tra i due «non convince». Certamente, sulla teologia della liberazione Joseph Ratzinger non aveva mostrato incertezze, mentre Karol Wojtyla non le aveva dissipate. Per l’arcivescovo Weakland, il motivo per cui, nonostante una sostanziale contrarietà, il papa aveva permesso a Ratzinger di accanirsi, era da ricercarsi nel senso di deferenza verso il teologo tedesco. L’ipotesi più plausibile sta a metà strada: pur non condividendo le certezze del prefetto, Giovanni Paolo II non ne era così lontano, soprattutto all’inizio degli anni ottanta, quando l’impero sovietico fronteggiava Solidarnosc. Karol Wojtyla era vissuto sotto il comunismo, ne aveva sperimentato l’inumanità e aveva lottato da patriota per distruggerlo, ma ne aveva in qualche modo compreso le ragioni profonde. Una differenza di giudizio che si deve, forse, fare risalire a una differente spiegazione del male nella storia. Uno degli ultimi gesti clamorosi di Giovanni Paolo II fu scrivere nel 2005 in Memoria e identità, confrontando nel ricordo i due totalitarismi più sanguinari del suo secolo: «Più tardi, ormai a guerra finita, pensavo tra me: il Signore Dio ha concesso al nazismo dodici anni di esistenza e dopo dodici anni quel sistema è crollato. Si vede che quello era il limite imposto dalla Divina Provvidenza a una simile follia». Diverso il giudizio sul comunismo: «Se il comunismo è sopravvissuto più a lungo e se ha ancora dinanzi a sé, pensavo allora tra me, una prospettiva di ulteriore sviluppo, deve esserci qualche senso in tutto questo». La conclusione del giovane Wojtyla, nonostante tutti gli sforzi esegetici dei commentatori anticomunisti, è dubitativa, complessa: «Ciò che veniva fatto di pensare era che quel male fosse in qualche modo necessario al mondo e all’uomo. Non ha forse Goethe qualificato il diavolo come “parte di quella forza che vuole sempre il male e produce sempre il
bene”(Faust, I, 3)? San Paolo, per parte sua, ammonisce a questo proposito: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12, 21)». Anche accogliendo l’invito del portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls di leggere fino in fondo il paragrafo, la valutazione di Giovanni Paolo II sul comunismo e sul ruolo del male nel mondo esprime per lo meno un dubbio tra la concezione di Goethe e quella di Paolo. Un dubbio che Joseph Ratzinger non sembra avere avuto mai. Nel libro Fede, verità e tolleranza, sempre del 2004, Joseph Ratzinger si affretta a negare apertamente il dubbio di Karol Wojtyla: «Il male non è affatto come Goethe vuole mostrarci nel Faust, una parte del tutto di cui abbiamo bisogno, bensì la distruzione dell’essere. Non lo si può rappresentare, come fa il Mefistofele del Faust, con le parole: “una parte di quella forza che vuole sempre il male e opera sempre il bene”». La sensazione è che Ratzinger non abbia avuto la comprensione di Wojtyla nei confronti di uno dei totalitarismi del Novecento. Nel pensiero di Joseph Ratzinger, il comunismo appare soltanto una fonte di disordine per la società e un pericolo per l’autorità della Chiesa. Ratzinger non lo combatte perché si fonda su presupposti falsi, ma perché stravolge, posandola per terra, la promessa messianica della Chiesa e, quindi, la sua indiscutibile autorità. Per arrivare alla «seconda» istruzione sulla teologia della liberazione ipotizzata da Kwitny, per arrivare a un accenno di comprensione verso il tentativo teologico e filosofico di dare una risposta, qui e ora, alle intollerabili e palesi ingiustizie sociali di cui il mondo cristiano non solo è stato un testimone impotente, ma anche, spesso e volentieri, un complice dichiarato, occorre aspettare molti anni. Anni che, pur arricchendo il giudizio di una nuova complessità, certamente non hanno generato giudizi chiari al di là di ogni ambiguità. Occorre aspettare, in particolare, la prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est, nella quale la riaffermazione della dottrina sociale della Chiesa comprende, bontà sua, un velato accenno alle prese di posizione dei predecessori nei confronti dell’ingiustizia sociale e, in particolare, della situazione del continente americano: «Il beato papa Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961, l’enciclica Mater et magistra, mentre Paolo VI nell’enciclica Popolorum progressio (1967) e nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971) affrontò con insistenza la problematica sociale, che nel frattempo si era riacutizzata soprattutto in America latina. Il mio grande predecessore Giovanni Paolo II ci ha lasciato una trilogia di encicliche sociali: Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e infine Centesimus annus (1991)». Poche righe prima, cadono due affermazioni sorprendenti da parte di Ratzinger. La prima riconosce un contenuto di verità al marxismo (una volta stecchito): «Fin dall’Ottocento contro l’attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un’obiezione, sviluppata poi con insistenza dal pensiero marxista. I poveri, si dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia [...] In questa argomentazione, bisogna riconoscerlo, c’è del vero, ma anche non poco di errato». La seconda affermazione ha l’aspetto di un cauto e generico scusarsi: «È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo». Le due ammissioni vengono, però, respinte sulla base di una affermazione che, ancora una volta, si struttura attraverso un
giudizio storicistico e calcolabile, vale a dire sulla base delle argomentazioni limitate e inumane che Ratzinger imputa al pensiero moderno perché siano respinte. «Questo sogno è svanito» scrive Benedetto XVI. Il sogno di una società giusta inseguito dal comunismo è crollato; grazie a questo fallimento, «la dottrina sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti» da affrontare «nel dialogo con tutti coloro che si preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo». Niente in contrario, anzi, la proposta è lusinghiera. Solo che, da un punto di vista filosofico, il fallimento storico del comunismo è equiparabile, né più né meno, al fallimento storico del cristianesimo nel produrre una società più giusta o, almeno, un uomo migliore. Se l’utopia comunista va rigettata sulla base del suo fallimento, lo stesso rifiuto dovrebbe valere, a maggior ragione, per il cristianesimo. Nel pensiero dell’attuale papa, la critica al marxismo sconfina e si confonde, inoltre, con quella al liberalismo, al materialismo, al relativismo, trattati quasi come sinonimi con una disinvoltura che non apparteneva al predecessore. Il motivo è lampante: nella struttura deterministica del pensiero di Ratzinger sono tutti frutti malati dell’Illuminismo, cioè della modernità, equivalenti dal punto di vista teoretico come da quello morale. Il sistema di Ratzinger è granitico. Peccato che sacrifichi la complessità della storia all’affermazione dell’idea. Davanti a questa complessità e a queste evidenti contraddizioni non ci si può accontentare di ascrivere la figura di Ratzinger e la sua proposta politica a quella di un normale reazionario o di un ordinario nostalgico. Ci si deve sforzare di indicare in quale stagno peschino il suo pensiero e la sua azione politica. Forse Hans Küng sbaglia, perciò, attribuendo al suo antico protetto la volontà di tornare al Medioevo, all’epoca, cioè, in cui l’uomo non osava nemmeno pensare di poter fare a meno di Dio («Ratzinger lo ha detto che lui si sarebbe trovato più a suo agio nel Medioevo» ha accusato Küng in un’intervista). Certamente, in molti scritti e, più ancora, nella sua autobiografia, spira un’irresistibile nostalgia per il tempo mitico in cui cristianesimo e cultura occidentale erano tutt’uno. Il rimpianto vive nell’insistita descrizione delle cattedrali della natìa Baviera, nell’esaltazione di santi che «non sembravano sfiorati dalle correnti della storia», come frate Corrado da Parzham o Bernadette di Lourdes. Spira nella chiusa di La mia vita dedicata alla «leggenda di Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisinga», da cui Ratzinger ha «preso l’immagine dell’orso». L’impressione filosofica, però, è un’altra. Questo riandare all’indietro non sembra oltrepassare la soglia del Seicento, il secolo in cui il razionalismo spalancò la prima breccia in un universo fino ad allora governato e garantito da Dio. L’architettura politico-filosofica che riassume meglio il significato del messaggio di Benedetto XVI assomiglia straordinariamente al pensiero di Thomas Hobbes, cioè al fiero oppositore dell’inquisitore Roberto Bellarmino, cioè al fondatore del pensiero politico moderno. Se si accosta il pensiero politico di Joseph Ratzinger all’interpretazione di Hobbes elaborata dal grande pensatore politico filonazista, Carl Schmitt, le somiglianze appaiono eclatanti. In mancanza di un rigoroso, onesto e convincente discorso sulla verità, al pensiero di Ratzinger non resta che affidarsi all’auctoritas, all’atto di fede per cui qualcuno
detta legge per gli altri senza dimostrare razionalmente l’origine del proprio potere. Il motto di Hobbes, Auctoritas, non veritas facit legem (l’autorità e non la verità fa la legge), ritorna con Ratzinger a essere attuale. Come l’Hobbes di Schmitt, Ratzinger sembra avere in mente un sistema aperto alla trascendenza in alto e chiuso, in basso, dal sistema dei bisogni, un sistema che deve essere fondato sulla verità del Cristo stabilita dall’autorità del sovrano (qualunque esso sia), dall’obbedienza dei sudditi e dal rapporto di protezione che li lega nel corpo statale. All’indomani dell’elezione di Benedetto XVI, Leonardo Boff ha dichiarato: «Ratzinger ha un grande limite, è senza dubbi: e coloro che non hanno dubbi non sono aperti al dialogo, né sono capaci di apprendere dagli altri». Soprattutto, non inseguono la verità, ma soltanto la riaffermazione dell’autorità.
IL BIANCO MUOVE E DÀ SCACCO IN TRE MOSSE Leonardo Boff coglieva nel segno. Ratzinger non mostra mai dubbi, anche se ha appreso alla scuola della filosofia l’arte di argomentare come se ne avesse, come se stesse cercando davvero qualcosa. Adotta toni educati e mostra un atteggiamento dialogante, come se desiderasse dialogare davvero. In realtà, sente di avere dalla propria parte la verità eterna delle Scritture, che fonda ogni discorso umano, e per nulla al mondo la metterebbe in discussione. Il concetto stesso di dialogo che in Occidente, da Socrate in poi, è fondato sull’idea che tutti gli interlocutori, sulla sola base della ragione, possano giungere al vero, non potrebbe essere rifiutato in modo più radicale. L’autorevolezza filosofica di Joseph Ratzinger non va riconosciuta perché, al di là delle manchevolezze del suo discorso, egli ha clandestinamente sottratto al campo della ricerca razionale il suo nucleo e il suo scopo essenziali. Definendo (ma mai dimostrando) la parzialità e l’insufficienza della ragione umana com’è stata definita in epoca moderna rispetto all’autenticità del racconto cristiano, indimostrabile per definizione, il pontefice nega alla verità la possibilità di offrirsi a un’interrogazione razionale. A giudicare dalla mollezza con cui molti filosofi di professione accolgono la mossa strategica del pontefice, la filosofia – in quanto ricerca della verità – sembra morta davvero. Il pensiero sembra essersi così indebolito da gettarsi con sollievo tra le braccia della religione, una vecchia amante. La generale disponibilità all’ascolto degli accademici si deve, più che altro, alla sensazione di avere finalmente trovato un interlocutore. Condividere il proprio linguaggio al di fuori dell’accademia costituisce un’attrazione irresistibile. Davanti a questo silenzio che tracima in applauso, la sola contromossa possibile è smascherare le astuzie e la pochezza generale della proposta alternativa. La strategia culturale di Joseph Ratzinger si sviluppa in tre mosse. Tutte hanno di mira l’Illuminismo e la modernità, nessuna è stringente da un punto di vista teoretico. Nessuna, soprattutto, vuole conseguire una verità che possa essere condivisa e comunicata sulla base della ragione a tutti gli uomini; tutte si accontentano di quella, intangibile e indiscutibile, offerta dalla rivelazione. La prima mossa consiste nel sottrarre alla modernità la sua pretesa razionalità affermando che il cristianesimo, e non l’Illuminismo, è l’autentico erede della filosofia greca da cui è scaturita la cultura occidentale. Ratzinger muove una seconda volta, e passa a evidenziare le debolezze del concetto moderno di razionalità in modo da limitarne le pretese. Per portare l’attacco, Ratzinger si allea qui con la teoria del pensiero debole, ribaltandone il segno morale e politico. Lo scacco (la terza mossa) si struttura attraverso la semplice elencazione delle tragedie degli ultimi tre secoli
attribuendole, con un determinismo causa-effetto davvero elementare, al pensiero moderno, cioè alla pretesa dell’uomo di fare a meno di Dio. La critica del pontefice si concentra, in particolare, sulla teoria evoluzionistica di Darwin che per la prima volta definì scientificamente la ragione come prodotto del caso e della necessità e non di una volontà superiore. Con Darwin, ritiene il papa, il reale cessa di essere razionale, Dio diviene di fatto inutile, il mondo casuale e l’uomo più solo. La critica, al solito, non s’addentra nella confutazione, anzi nomina Darwin il meno possibile, ma si limita a scartare l’ipotesi evoluzionistica in quanto dannosa e inutile per l’essere umano. Perché le tre mosse siano efficaci, Joseph Ratzinger ha un’unica strada. Togliere alla ragione ogni sua pretesa veritativa. Negare in linea di principio il suo potere di stabilire linee di comportamento generali e giungere a ipotesi universalmente condivisibili. L’operazione è ambiziosa, non priva di una certa grandezza strategica, ma anche estremamente rischiosa. Il pericolo è esporre tutto, perfino il credo di chi demolisce, a un relativismo indistinto tale per cui l’unico criterio per stabilire la verità di un’idea diventa davvero la sua comodità. La prima mossa del papa è, quindi, più sottile. Per distruggere la pretesa razionale del pensiero moderno che, fondandosi sulla sola ragione, afferma l’insensatezza e l’inutilità di Dio, Ratzinger è costretto a spacciare il cristianesimo come vero erede della filosofia greca, cioè dell’apparire della ragione sulla scena della storia universale, cioè dell’atto di nascita stesso della civiltà occidentale. Non solo, è costretto a sostenere che la filosofia greca germinò dalla filosofia contenuta implicitamente nel cristianesimo. L’identità europea diventa in questo modo, nella predicazione di Ratzinger, la gemma ultima e molto politica, fiorita dai tre monoteismi mediorientali. In uno dei suoi discorsi più drammatici, e per questo più belli, il nuovo papa ha provato ad affrontare il problema frontalmente. Era il 27 novembre 1999. All’Università Sorbona di Parigi, il teologo tenne una conferenza intitolata Verità del cristianesimo che prendeva le mosse dall’onesta ammissione della crisi del cristianesimo come religione capace di rispondere ai reali problemi dell’uomo. «Al termine del secondo millennio» esordì l’allora prefetto «il cristianesimo si trova, proprio nell’arco della sua estensione originaria, l’Europa, in una crisi profonda, che ha la sua ragion d’essere nella crisi della sua pretesa di verità.» La domanda è correttamente formulata, ma si risolve nella constatazione «che l’uomo non si accontenta di questa sentenza. Giacché, se non sa da dove viene e perché esiste, non è in tutto il suo essere una creatura fallita? L’addio apparentemente definitivo alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente contentezza per il fatto di non doversene più occupare, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e a rimanere come cieco dalla nascita su questioni essenziali». Come si vede, si tratta di una constatazione di tipo psicologico (all’uomo la ragione moderna non basta per sentirsi completo) che, se non mette in conto in alcun modo la verità come scopo, utilizza però politicamente l’infelicità generale per riaffermare le attrattive di ciò che la Chiesa ha da offrire. La prolusione parigina avanza con gran sfoggio di erudizione e raffinatezza. Il cardinale si muove da padrone tra i millenni, cita e ricorda, con un
unico fine. Dimostrare che il cristianesimo ebbe successo allora, per lo stesso motivo per cui l’Illuminismo ha avuto successo poi: per la sua capacità di parlare il linguaggio della razionalità posseduto da ogni essere umano, per la sua capacità di assorbire (ed ereditare) la grande lezione del pensiero greco e latino da cui il discorso universale dell’Occidente è sgorgato. Dopo avere riassunto le tre teologie di Marco Terenzio Varrone, Ratzinger passava a citare Sant’Agostino (il pensatore a cui ha dichiarato di sentirsi più vicino) come arma con cui disarmare l’Illuminismo. «Meraviglia il fatto che, senza la minima esitazione, egli individuasse il posto del cristianesimo nel campo della “teologia fisica”, nel campo della razionalità filosofica [...] In tale prospettiva, il cristianesimo aveva i suoi precursori e la sua preparazione interna nell’ambito della razionalità filosofica e non in quello delle religioni.» Continua Ratzinger: «Nel cristianesimo, la razionalità divenne religione e non più sua avversaria. Stando così le cose, il cristianesimo, comprendendo se stesso come vittoria della demitologizzazione, vittoria della conoscenza e con essa della verità, dovette necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione particolare che ne reprimeva delle altre, non come una sorta di imperialismo religioso, ma piuttosto come la verità che rendeva superflua l’apparenza». La prima mossa era stata fatta: l’inconciliabilità tra fede e ragione viene colmata utilizzando tutte le armi della retorica e dell’analisi storicista. All’Illuminismo è stata sottratta la sua arma migliore, il coraggio di fare appello a una facoltà che almeno in linea di principio è condivisa da ognuno. E che perciò è universale, ma che perciò rimane limitata all’umano. Dalla drammaticità delle premesse, il lettore si attenderebbe una nuova sintesi. Invece, per riappacificare fede e ragione, il teologo non trova di meglio che liberarsi della ragione. Pur ereditando l’aspirazione alla verità della filosofia greca e la razionalità come metodo per conseguirla, il cristianesimo rispetto alle sue origini culturali presenta il vantaggio di incidere questa razionalità nella carne della storia attraverso la concretezza della figura del Cristo: «Non si prega un dio semplicemente pensato» afferma Ratzinger «ma laddove il dio trovato dal pensiero si lasciava incontrare nel cuore della religione come un dio che parlava e agiva, il pensiero e la fede si riconciliavano». È evidente che la proposta esce completamente dall’ambito della razionalità (la divinità del Cristo è un atto di fede). È anche evidente, però, che per risultare più persuasivo, il prefetto fa leva su argomentazioni storiche molto relative. La diffusione del cristianesimo, determinata dal «farsi carne» di Dio attraverso l’uomo Gesù, non dice proprio nulla sul contenuto di verità di quella religione. Se il successo storico fosse un criterio per stabilire della bontà o della verità, Hitler, Stalin e i loro massacri andrebbero rivalutati. È appena da notare, inoltre, che anche da un punto di vista puramente storico, la realtà della figura del Cristo non è dimostrata. Lo ammette lo stesso Ratzinger nel 1996 in una conferenza dal titolo La fede e la teologia dei nostri giorni che affronta il «relativismo in teologia» e, in particolare, le idee del «presbiteriano americano J. Hick» e di «P. Knitter, ex sacerdote cattolico» che propongono «di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia
pluralista della religione con le teologie della liberazione». Afferma il prefetto: «Questi ultimi si appellano all’esegesi per giustificare la loro distruzione della cristologia. L’esegesi avrebbe provato che Gesù non si è ritenuto il Figlio di Dio, il Dio incarnato, ma che solo in seguito i suoi seguaci lo avrebbero reso tale. Ambedue – anche se Hick in modo più chiaro rispetto a Knitter – si richiamano inoltre all’evidenza filosofica. Penso che il problema dell’esegesi e quello dei limiti e delle possibilità della nostra ragione, ossia delle premesse filosofiche della fede, costituiscano effettivamente il vero punto dolente dell’odierna teologia, per il quale la fede – e in misura crescente anche la fede dei semplici – entra in crisi». La contromossa del teologo non va al di là di un appello alla filosofia come auctoritas indimostrata. Ammette Ratzinger: «È vero però che, se si guarda all’esegesi moderna nel suo complesso, si può ricavarne un’impressione che è simile a quella di Hick e Knitter». Il teologo prosegue, mordendosi la coda: «La mia tesi è la seguente: se molti esegeti pensano come Hick e Knitter e ricostruiscono la storia di Gesù in modo simile, ciò è dovuto al fatto che condividono la loro filosofia. Non è l’esegesi che prova la filosofia, ma è la filosofia che produce l’esegesi». Segue l’accusa al metodo «storico-critico» che per sua natura deve analizzare la Bibbia come passato e non come presente, al quale è quindi preclusa la sua verità. In conclusione, l’esegesi moderna mette fortemente in dubbio il racconto delle Scritture, ma si tratta di un prodotto storico e pertanto inadatto a scalfire un racconto che duemila anni fa si autoproclamò vero per l’eternità. Il paradosso è che rifiutare una tesi in quanto storica, e quindi relativa, può avvenire soltanto ponendosi sul terreno della storia, può avvenire soltanto perché si rifiuta l’humus storico che l’ha generata per affermarne uno alternativo. La critica alla modernità di Ratzinger si struttura attraverso argomenti storicofilosofici che, sottoposti a verifica, si dimostrano deboli e interessati. Ma è questa apparente razionalità, questo apparente laicismo del discorso, la chiave per comprendere i motivi per cui esso risulta efficace anche presso molti non credenti. Più che sul terreno filosofico, il pensiero di Ratzinger si sviluppa sul terreno della storia delle idee e del loro influsso nella storia. Il fatto che questo tipo di discorso sia oggi scambiato per filosofia non fa che dimostrare quanto la filosofia sia diventata un sapere tra gli altri, una pratica ripiegata su se stessa e dimentica del proprio oggetto. È a causa di questo oblio dello scopo della filosofia che Ratzinger può presentarsi (e risultare credibile) come filosofo. È a causa della rinuncia non solo a rispondere, ma perfino a domandare, di molta filosofia contemporanea, che Ratzinger può rimproverare alla razionalità moderna la sua incompletezza e presentare il cristianesimo come erede del pensiero greco, come l’unica voce che si ostina a dare risposte comprensibili (e, quindi, in apparenza, a porre domande universali) sul senso del nascere e del morire, su ciò che è giusto o sbagliato, sulla possibilità del bene e sul ruolo del male nel mondo. Si tratta di un risultato eccezionale, considerato il topolino teoretico partorito dal gran rimuginare dell’ex inquisitore. Dopo avere strappato alla modernità le sue origini, assegnandole d’ufficio al cristianesimo, Joseph Ratzinger si infila nella breccia aperta dal pensiero debole, riuscendo, nel silenzio generale, a occupare il bisogno di un pensiero forte che tende sempre a
riacutizzarsi in epoche impaurite. Si situa qui la seconda mossa strategica del papa filosofo. Pur di resuscitare Dio, il filosofo Ratzinger radicalizza, con gesto quasi nichilistico, la teoria del pensiero debole, cavalca l’ammissione razionale della debolezza della ragione proprio per relegarla al ruolo di comprimaria. Si tratta di un attacco portato esplicitamente al seminario Ambrosetti di Cernobbio del 2001 e in un’intervista al quotidiano cattolico Avvenire dello stesso anno: «Nel frattempo filosofie come quelle di Singer, Rorty, Sloterdijk indicano ulteriori radicalizzazioni nella stessa direzione: l’uomo progetta e “monta” il mondo senza criteri prestabiliti e così supera necessariamente anche il concetto di dignità umana, sicché anche i diritti umani diventano problematici. In una siffatta concezione della ragione e della razionalità non rimane spazio alcuno per il concetto di Dio. E tuttavia la dignità umana alla lunga non può essere difesa senza il concetto di Dio creatore. Essa perde così la sua logica». L’appello è fondato sulla necessità, sul bisogno, in fin dei conti sulla convenienza e calcolabilità dei vantaggi ottenibili rifondandosi in Dio. Rimane, cioè, prigioniero del concetto di ragione che cerca di combattere. Ma il giudizio di Ratzinger sulla razionalità moderna era già del tutto formato il 24 aprile 1984. Aprendo a Monaco di Baviera un congresso intitolato L'eredità europea e il suo futuro cristiano, l’allora neoprefetto della Congregazione per la dottrina della fede disse: «Il vero pericolo del nostro tempo, il nocciolo della nostra crisi culturale è la destabilizzazione dell’ethos, che deriva dal fatto che non siamo più in grado di afferrare la ragione della moralità e abbiamo ridotto la ragione nell’ambito del calcolabile». Da questa accusa discende uno degli slogan più fortunati della sua predicazione: la calcolabilità dell’ethos conduce necessariamente alla sua relativizzazione. In breve tempo, nella pubblicistica italiana, l’accusa di «relativismo» è diventata una specie di condanna inappellabile, un marchio di infamia che travolge non soltanto i comportamenti più vacui e quotidiani, ma anche ogni ragionevole dubbio. Il passaggio è espresso con chiarezza nella prolusione a un convegno romano del 2004 organizzato dal Centro di orientamento politico: «Il relativismo da un parte può apparire come positivo» concede l’imminente pontefice «in quanto invita alla tolleranza, facilita la convivenza, il riconoscimento fra culture, fino al punto di ridimensionare le proprie convinzioni e riconoscere il valore degli altri relativizzando se stessi: è un passo positivo. Ma se si trasforma in un assoluto, il relativismo diventa contraddittorio in se stesso, distrugge l’agire umano e in ultima istanza mi sembra una mutilazione della nostra ragione. Ragionevole viene considerato allora soltanto ciò che è calcolabile e falsificabile o provabile nell’esperimento del grande settore, settore ammirevole, delle scienze. Qui si vede se questo è falso, se questo non lo è, se questo funziona e questo non funziona. Questo settore appare come l’unica espressione della razionalità, tutto il resto è soggettivo». L’astuzia della strategia dell’attuale Vaticano non risiede tanto nel fare appello al senso di inautenticità che la modernità sparge effettivamente a piene mani tra i contemporanei, né nella raffigurazione dei disastri futuri, ma nel fermarsi alla soglia della radicalità, non toccando molte delle comodità che la razionalità moderna ha
distribuito ai cittadini. Il cardinale bavarese non dice mai che il concetto moderno di ragione è falso (forse perché in fondo all’animo sa di condividerlo e riprodurlo), afferma che «il grande settore, settore ammirevole, delle scienze» è incompleto e che quindi non è utile a dare risposte ai veri problemi dell’uomo. Un pensiero che, come quello di Ratzinger, rigetta un’idea sulla base della sua inutilità, invece che della verità, rappresenta l’espressione peggiore di ciò che critica. È radicalmente funzionale e in compenso ha completamente rinunciato a tentare di essere vero. Se la proposta di Benedetto XVI troverà credito, e non sarà contrastata, ci troveremo di fronte a una profezia che si autoavvera. A decidere della verità non sarà più la ragione comune a ogni uomo, ma soltanto un’autorità, quale che sia, purché sia sempre indiscutibile. Una volta ridimensionate le pretese veritative della ragione, all’uomo verrebbe a mancare ogni criterio di discernimento e non rimarrebbe che scegliere il credo più adatto. A quel punto, davvero, la ragione dovrebbe accontentarsi di procurare agli uomini vantaggi calcolabili di tipo funzionale e necessariamente assai relativi. La mossa di Ratzinger, per quanto intelligente, ha dei limiti filosofici e politici. Affermare, come ha fatto il teologo parlando ai vescovi nel giugno 1999, che «lo sviluppo degli ultimi cinquant’anni mostra che la religiosità non scompare, perché è un desiderio ineliminabile del cuore dell’uomo», è una banale constatazione di psicologia della storia. Desume la verità da un successo storico durevole. Anche lo stupro e l’assassinio sono desideri durevoli. Non dice nulla sulla verità, sulla bontà o cattiveria del nostro bisogno di consolazione. In un’intervista pubblicata dalla Frankfurter Allgemeine l’8 marzo 2001, Ratzinger si spinge più in là. «L’oggetto della fede non riguarda solo la ragione» dice «bensì l’uomo nella sua interezza, e proprio per questo esso deve essere suggerito anche tramite altre vie, non solo attraverso la pura razionalità». In ambito filosofico, l’affermazione è accettabile (non vera) soltanto dopo avere definito e descritto codeste «altre vie». Senza questo passaggio, il discorso di Ratzinger resta monco, parziale, psicologistico, più limitato della ragione debole che si è dato tanto da fare per distruggere. Il teologo ventila, così, l’ipotesi di una nuova «facoltà», indefinita nella sua incolmabile distanza dalla ragion pura e dal sentimento. La vaghezza analitica della definizione (una vaghezza che ritorna ovunque negli scritti del papa) apre, di fatto, la strada all’affermarsi di ogni tipo di culto. All’affermazione del soggettivismo della religione, non solo della ragione. Apre, di fatto, le porte al relativismo. Concentrandosi sulla critica all’Illuminismo, Ratzinger espone la Chiesa al proliferare di culti prêt-à-porter, modulari, adatti alle esigenze pragmatiche dell’uomo moderno. A meno, naturalmente, di non dichiarare le Scritture più convincenti in sé di un romanzo di Ron Hubbard o di un pensierino di Osho. Distrutta la ragione e la sua pretesa di verità (o almeno di discernimento tra il plausibile e l’insensato), la cosiddetta «New Age», che l’attuale vescovo di Roma combatte in decine di discorsi con la sempiterna accusa di relativismo, si troverebbe a essere più attrezzata e agile del cristianesimo a consolare e calmare gli ignudi.
È probabile che questo paradossale risultato, questa paradossale debolezza a cui Ratzinger espone la Chiesa, si debba a un bisogno molto profondo e molto tedesco. L’amore per l’ordine (o l’orrore per il disordine). Mentre afferma la razionalità del cristianesimo, mentre si batte per convincere che il pensiero cristiano dei padri ereditò e continuò quello classico, Ratzinger sta in realtà sostenendo che la ragione umana è l’opaco riflesso di quella divina, di cui il mondo deve necessariamente, per atto di fede, essere permeato. Il grande teologo sta soltanto cercando di sfilare la ragione all’uomo per riconsegnarla, tramite Dio, a tutto il reale. Il maestoso tentativo hegeliano di dimostrare che «il reale è razionale» si sposa qui all’umano bisogno di tirare a campare in un mondo tranquillo e ordinato, nel quale l’autorità sia ferrea, le gerarchie indubitabili e le pattìne obbligatorie per legge. Ancora una volta, la strada per arrivare a questo risultato non passa come in Hegel dall’argomentazione sulla cosa, ma dall’elencazione degli effetti negativi dei pensieri. In questo senso, Ratzinger non è un filosofo. È uno storico della filosofia impegnato, quasi marxianamente, in ogni caso storicisticamente, a ripetere la litania delle devastazioni prodotte dal moderno. Le tre mosse strategiche non sono generate dall’amore per la verità, ma dal terrore del disordine. Dall’incapacità di accettare l’idea moderna che la realtà e la storia siano prodotti di eventi casuali e di meccanismi fallibili. L’idea moderna secondo cui l’uomo ce la può fare da solo. La svolta strategica del Vaticano consiste nel riaffermare la razionalità del reale e della storia, il che equivale a riaffermare l’ordine come verità. È per questo che l’ultima parte del suo tragico discorso alla Sorbona si concentra sull’evoluzionismo darwiniano che per Ratzinger rappresenta il momento della definitiva rinuncia da parte dell’Occidente all’idea di una razionalità metafisica della Natura. Un nemico, Charles Darwin, che l’ex prefetto lambisce, evita, scansa in mille discorsi, evitando accuratamente di addentrarsi nella discussione diretta, di spiegarci perché, banalmente, sotto la crosta di terra del mondo si trovino i resti di strani esseri di cui la Genesi non fa menzione. L’attacco a Darwin, le poche volte che si precisa, è sempre portato lateralmente e in modo timido. Il teologo accusa lo scienziato di essere il vero assassino di Dio e di avere devastato il buon ordinamento sociale, senza però rifiutarne le conclusioni. È il caso della dichiarazione prudente di George V. Coyne, il capo dell’astronomia vaticana, che ha scartato come «non scientifica» la teoria del Disegno intelligente (il reale è così ben fatto da dovere necessariamente ammettere l’esistenza di un’intelligenza superiore e creatrice), che secondo gli integralisti americani dovrebbe essere insegnata nelle scuole con la stessa dignità della teoria darwiniana. Joseph Ratzinger sa che cedere all’immagine di un Dio «orologiaio» ricavata, per analogia, dalla scienza moderna, significherebbe incamminarsi su una strada perdente. Per questo, inaugurando il Convegno dei catechisti e degli insegnanti di religione, nell’anno giubilare, ha detto: «Dio non è una lontana “causa ultima”, Dio non è il “grande architetto” del deismo, che ha montato la macchina del mondo e starebbe adesso fuori – al contrario: Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia». Ogni analogia con l’idea moderna della creazione come manipolazione intelligente di ciò che esiste è respinta, perché
concedere qualcosa in questo campo significherebbe perdere per sempre il concetto cristiano di creazione ex nihilo, significherebbe equiparare l’attività creatrice di Dio a quella della sua creatura prediletta. Per il papa, i danni prodotti da Darwin rimangono incalcolabili, anche se è costretto a difenderlo dall’attacco dei sostenitori della teoria del Disegno intelligente. Al seminario di Cernobbio del 2001, Ratzinger imputa a Darwin di avere offerto un fondamento al marxismo: «Il marxismo aveva invece introdotto una rottura radicale: l’attuale mondo è un prodotto dell’evoluzione senza una sua razionalità; il mondo ragionevole l’uomo deve solo farlo emergere dal materiale grezzo irragionevole della realtà». Inoltre, Darwin nega, per la prima volta in forma scientifica, che l’apparente razionalità dei fenomeni rappresenti il riflesso divino nella materia. «Si tratta di sapere» si chiede Ratzinger nella lezione alla Sorbona «se la ragione o il razionale si trova o no al principio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale è nato sulla base del caso e della necessità (o, con Popper, d’accordo con il Butler del Luck and Cunning, “caso felice e previsione”), e quindi da ciò che è senza ragione; se, in altri termini, la ragione è un casuale prodotto dell’irrazionale, insignificante, alla fine, nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera quella che è la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principio erat Verbum – al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione». È Darwin che ha ucciso Dio, dimostrando che la storia del mondo può essere concepita e spiegata senza il suo intervento. È Darwin, cioè, che ha dato all’insuperata definizione di Kant dell’Illuminismo («l’uscita dell’uomo dal suo stato di minorità autoimposta») la possibilità di farsi visione del mondo, spiegazione del reale, ideologia e perfino religione. Dice il futuro pontefice in un’intervista a Die Tagespost del 2003: «L’evoluzione è diventata, diciamo, la nuova divinità. Non vi è alcuna transizione in cui si debba ricorrere a un essere creatore – al contrario: l’introduzione di questo si rivela ostile a ogni certezza scientifica ed è pertanto qualcosa di insostenibile». Il tono è amaro, quasi rassegnato. La conclusione del discorso parigino è, in questo senso, esemplare. La verità non è neppure nominata, quasi fosse caduta completamente fuori dall’orizzonte del cristianesimo. Ciò che resta è soltanto il bisogno. Alla ragione non rimane che servirlo in modo efficiente. «Questo ethos dell’evoluzione» scrive Ratzinger «che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e dunque nella lotta per la sopravvivenza, nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha da offrire ben poche consolazioni. Anche dove si cerca di abbellirlo in vari modi, resta ultimamente un ethos crudele. Lo sforzo per distillare il razionale a partire da una realtà insensata in se stessa fallisce qui in modo lampante. Tutto ciò serve ben poco per quello di cui abbiamo bisogno.» Si ha a volte la sensazione che la straordinaria fermezza di Joseph Ratzinger nel rivendicare la necessità della fede cristiana nasca dalla constatazione di una sconfitta definitiva. L’anziano pontefice è incrollabile nel respingere la tentazione di cedere a una sensazione che sembra conoscere bene. La sensazione che il proprio intelletto, la propria sterminata sapienza, gli anni di studio matto e disperatissimo non siano in realtà che una fiammella accesa nella notte del non senso. Orgoglio e fermezza che
quasi suscitano comprensione, anche perché sfociano sempre nella disperata e onesta rivendicazione di un bisogno legittimo, quello di un senso, quello di un Dio a sostegno del quale si può portare solo l’argomento del proprio bisogno. È la preghiera dell’innamorato lasciato: torna con me perché ho bisogno di te.
DELL’AMORE INFECONDO. DELL’ORRORE ASSOLUTO I Village People sarebbero stati un gruppo straordinario se accanto al cowboy e all’indiano, al poliziotto e al carpentiere, avessero avuto il coraggio di aggiungere il prete cattolico, uno dei personaggi irrinunciabili della parata iconografica del Novecento gay. Nonostante l’indiscutibile diritto a prendere parte a questa immaginaria Gay parade, la Chiesa continua a esprimere nei confronti dell’omosessualità un accanito rifiuto. A dare una prima risposta è un vecchio vescovo gay, comprensibilmente non desideroso di turbare i suoi ultimi anni romani mettendo il proprio nome accanto alla seguente dichiarazione: «Il motivo della fermezza del Vaticano è assai semplice» ci ha spiegato «perderebbe l’esclusiva». Niente di male, ovviamente. Anzi, è probabile che per molto tempo Santa Romana Chiesa abbia svolto un meritorio ruolo di ammortizzatore sociale, riportando nel grembo della rispettabilità schiere di esseri umani che altrimenti avrebbero dovuto vivere ai margini e nell’ombra. Certo, però, che è bislacco che tante certezze in materia di sessualità provengano da anziani signori dai gusti sovente indefiniti, immancabilmente avvolti in gonne lunghe, tenuti per voto a non conoscere la donna, a non praticare, procreare e amare. L’argomento è elementare, però è difficile esimersi dal notare la discrepanza tra la durezza rivolta all’esterno e la tolleranza mostrata all’interno. La ferma condanna del Vaticano all’amore tra uguali discende, come si sa, da un episodio della Genesi (19, vv. 1-25), ovvero dall’ira divina scatenata sulla città di Sodoma dopo lo stupro perpetrato dagli abitanti sui due angeli del Signore ospitati da Lot. La prima stranezza agli occhi del profano si deve a una vaga reminiscenza di feroci dispute intorno al sesso degli angeli. Se quello stupro fu di natura omosessuale, è evidente che la Chiesa ha risolto il dilemma: gli alati e boccoluti messaggeri del Signore devono essere ritenuti, certissimamente, creature di sesso maschile. In realtà, la maggior parte dei biblisti moderni concorda nel ritenere che l’ira del Signore su Sodoma non fu determinata tanto dal carattere «contro natura» dell’atto (che Lot cercò di impedire offrendo alla folla infoiata le figlie vergini), ma dallo scandalo rappresentato dalla violazione del comandamento di dare ospitalità allo straniero. Un altro brano che va per la maggiore si trova nel Levitico, ove si legge: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso abominio». Il fatto che la condanna cada nel contesto della cosiddetta «legge di santità», che consiste in una serie di disposizioni dettagliate atte a conservare la purezza necessaria al culto (e che prescrive peraltro il divieto di congiungersi con una donna mestruata), rende il giudizio delle Scritture sull’omosessualità molto meno certo. L’opinione della maggior parte dei biblisti moderni è che il passaggio da questi
versetti dell’Antico Testamento alla condanna del Vaticano si debba a Paolo di Tarso (che contende ad Agostino il primo posto nell’hit parade dei citati da Ratzinger) e alla sua, per alcuni autorevoli commentatori sospetta, omofobia. Nella seconda Lettera ai Corinzi, Paolo parla di una «spada» che gli è stata «conficcata nella carne». Nella Lettera ai Romani, il folgorato sulla via di Damasco si lamenta: «Il bene che voglio non lo faccio, ma il male che voglio lo pratico. Disgraziato uomo che sono, chi mi libererà da questo peso di morte?». Pur basandosi su un’esegesi discutibile (nei Vangeli non si accenna al problema), la Chiesa accosta ancora oggi, come nell’episodio di Lot, l’amore tra persone dello stesso sesso allo stupro. L’equivalenza, almeno implicita nella formulazione sintattica, appare perfino nel Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, curato personalmente dal cardinale Ratzinger su incarico di Giovanni Paolo II. Nel nuovo Catechismo il tema dell’omosessualità compare nella parte intitolata La vita in Cristo, quando si tratta di spiegare, uno per uno, il significato dei dieci comandamenti. Giunti al sesto («Non commettere atti impuri»), il lemma 492 chiede conto dei «principali peccati contro la castità». Ecco la risposta: «Sono peccati gravemente contrari alla castità, ognuno secondo la natura del proprio oggetto: l’adulterio, la masturbazione, la fornicazione, la pornografia, lo stupro, gli atti omosessuali. Questi peccati sono espressione del vizio della lussuria. Commessi su minori, tali atti sono un attentato ancora più grave contro la loro integrità fisica e morale». Stupisce, in primo luogo, l’intenzionale equiparazione morale di atti molto diversi tra loro (e nel giudizio contemporaneo imparagonabili): la scelta di formulare la risposta sotto forma di elenco pone tutto allo stesso livello di gravità (seguendo la logica del Catechismo, un ragazzino che si masturba è colpevole quanto un adulto che stupra un bambino). In secondo luogo, la volontà di chi «subisce» l’azione lussuriosa di un altro non è tenuta in alcun conto ai fini del giudizio morale. È per questa volontaria ignoranza della violenza, per questo testardo affermare la bontà o cattiveria dell’azione in sé, prescindendo dalle circostanze e dalle volontà dei coinvolti, che omosessualità e stupro vengono proposti in sequenza (evidentemente dopo ponderata riflessione). A rendere ancora più problematica la risposta offerta dal nuovo Catechismo c’è, infine, l’accenno all’aggravante rappresentata dal coinvolgimento di minori. Un atto dovuto che, però, non mette al riparo il Vaticano, e l’attuale pontefice in particolare, dal dovere di fornire alcune risposte. E che costringe questo libro a una digressione sul tema. Fino a oggi, gli innumerevoli episodi di pedofilia che hanno coinvolto la Chiesa cattolica a tutti i livelli sembrano essere stati gestiti dai suoi vertici come uno scandalo da nascondere, proteggendo i colpevoli, e come un problema legale ed economico (negli Usa le richieste di risarcimento rischiano di essere un danno reale per le pur floride finanze vaticane). La Chiesa non ha finora offerto alcuna riflessione pubblica sulle ragioni del fenomeno. Piacerebbe, per esempio, ascoltare l’opinione della Chiesa, di solito così sollecita a pronunciarsi su ogni questione, sul possibile legame tra l’obbligo della castità, la glorificazione della purezza e la tendenza ad abusare dei bambini.
In attesa di chiarirsi (e chiarirci) le idee, Joseph Ratzinger non è rimasto senza far nulla. Il 18 maggio 2001, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e il suo vice Tarcisio Bertone hanno inviato a tutte le diocesi una lettera riservata (sul sito del Vaticano è tra i rarissimi documenti redatti soltanto in latino) che prescrive alle gerarchie ecclesiastiche come comportarsi di fronte ai delitti più gravi commessi dai propri membri «contro la morale e la celebrazione dei sacramenti». L’Epistula, inviata ad totius Catholicae Ecclesiae Episcopos aliosque Ordinarios et Hierarcas interesse habentes e marchiata «reservatis», rappresenta un’attualizzazione dell’istruzione Crimen sollicitationis firmata nel 1962 dal prefetto Alfredo Ottaviani, che ordinava a tutte le persone coinvolte in questo tipo di processi il silenzio perpetuo, pena la sospensione a divinis. Alla categoria grave «delitto contro la morale», la lettera di Ratzinger cita «il delitto commesso da un sacerdote contro il Sesto comandamento del Decalogo con un minore più giovane di diciotto anni d’età» (la traduzione è nostra). Coerentemente con la definizione del nuovo Catechismo, la pedofilia costituisce un’aggravante del peccato di lussuria. Il trattamento di questi delitti, scrivono Ratzinger e Bertone, «sono riservati al tribunale apostolico della Congregazione per la dottrina della fede». Quando un superiore ha «conoscenza almeno probabile di un delitto riservato, dopo aver condotto l’indagine preliminare deve darne indicazione alla Congregazione per la dottrina della fede che, se non avoca il caso a sé per circostanze speciali, dopo avere trasmesso le norme appropriate, ordina al vescovo o ai Superiori maggiori di procedere attraverso il proprio tribunale». Più avanti Ratzinger specifica come tali tribunali devono essere composti: «Nei tribunali costituiti dai vescovi o dai Superiori maggiori, le funzioni di giudice, promotore di giustizia, notaio e difensore possono essere svolte validamente in questi casi soltanto da sacerdoti». E ancora: «Casi di questo tipo sono soggetti al segreto pontificio». I reati di pedofilia in cui sono coinvolti ecclesiastici devono, insomma, rimanere segreti ed essere giudicati rigorosamente solo all’interno. L’ex Sant’Uffizio si riserva, inoltre, di avocarli a sé. Come ha spiegato Tarcisio Bertone, il viceprefetto, in un’intervista all’Observer del 2003: «A mia opinione, la richiesta che un vescovo sia obbligato a contattare la polizia per denunciare un prete che ha ammesso atti di pedofilia non è fondata». È, però, nel prosieguo che le disposizioni di Joseph Ratzinger diventano più imbarazzanti. «Deve essere notato che l’azione legale contro i delitti su cui ha competenza la Congregazione per la dottrina della fede si estingue dopo dieci anni con la prescrizione» scrive l’attuale pontefice, citando in nota due norme del Codice di diritto canonico. Le due righe dopo, che non sono avallate da note a piè pagina, si devono evidentemente a una sua iniziativa: «Tuttavia, nel delitto perpetrato da un sacerdote con un minore, il periodo di prescrizione inizia a essere calcolato a partire dal giorno in cui il minore ha compiuto diciotto anni» (in latino: «In delicto autem cum minore a clerico patrato praescriptio decurrere incipit a die quo minor duodevicesimum aetatis annum explevit»). Detto papale papale: il reato «morale» della pedofilia cade in prescrizione quando l’abusato compie ventotto anni.
L’estensione dei termini di prescrivibilità di un reato comporta, normalmente, uno svantaggio per l’accusato. In questo caso, non è così: perché insieme ai termini di prescrizione si estende anche la giurisdizione e il controllo della Chiesa sui casi di abusi su minori commessi dai propri membri. Terminato il processo, «tutti gli atti del procedimento devono essere trasmessi il più presto possibile alla Congregazione per la dottrina della fede». Per i contenuti di questa lettera riservata, il prefetto è stato denunciato per «intralcio alla giustizia» dall’avvocato Daniel Shea di Houston, Texas. Si tratta di un reato che negli Usa è punito con pene fino a cinque anni di carcere. L’avvocato Shea rappresenta uno dei tre ragazzi che hanno denunciato per violenze sessuali compiute negli anni novanta il sacerdote colombiano Juan Carlos Patino-Arago, allora assegnato alla chiesa di San Francesco di Sales di Houston. Ratzinger avrebbe dovuto difendersi dall’accusa di avere collaborato con l’arcidiocesi di GavelstonHouston nel tentativo di ostacolare la giustizia, ma poi è diventato Benedetto XVI. Il 20 maggio 2005, l’ambasciata della Santa Sede di Washington ha trasmesso un memo al Dipartimento di Stato americano con la richiesta di garantire al pontefice l’immunità in quanto capo di uno Stato estero. In un’altra occasione (che riguardava un processo per pedofilia a Louisville, Kentucky) è stato direttamente il segretario di Stato pontificio, cardinal Angelo Sodano, ad avanzare la richiesta di immunità al suo omologo americano, Condoleeza Rice. Nel dicembre 2005, conformandosi anche al parere espresso da una nota inviata dal Dipartimento di Stato Usa a maggio, la richiesta è stata accolta dal giudice distrettuale di Houston, Lee Rosenthal. Il silenzio sulla vicenda della quasi totalità dei mezzi di informazione italiani, solitamente tanto prodighi nel concedere spazio a Sua Santità, appare come un necessario pendant al silenzio del Vaticano in materia di abuso sui minori. *** A fronte di questo silenzio, si ascolta un intenso vociare. È abitato dalle parole di condanna che il Vaticano pronuncia, con insistenza sempre maggiore, contro l’amore omosessuale scelto liberamente da persone adulte. Con l’elezione di Benedetto XVI, il giudizio sull’omosessualità della Chiesa è mutato in modo sottile e radicale, precisando e purgando da ogni cedimento tendenze già presenti nel Magistero. È indicativo ripetere le parole pronunciate da Wojtyla nel 1979, durante il primo viaggio pastorale negli Usa: «L’attività omosessuale» disse Giovanni Paolo II «da distinguersi dalla tendenza omosessuale, è moralmente malvagia». Con Benedetto questa distinzione svanisce: la condanna non è più sul piano dell’azione, ma su quello della natura individuale. A essere cattivo, cioè, non è più l’atto omosessuale, ma l’omosessuale in quanto tale. Non si possono spiegare altrimenti i contenuti dell’Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri pubblicata dalla Congregazione per l’educazione cattolica, e approvata dal Santo Padre il 31 agosto 2005. Costretta a distinguere tra omosessuale profondo e omosessuale transitorio (forse per non vedere
svanire le poche vocazioni rimaste), la Congregazione «ritiene necessario affermare che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario o agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay». Va escluso non solo chi fa, ma anche chi è (e perfino chi sostiene). Una posizione che ha nel papa, da sempre, il suo più illustre sostenitore. La condanna di Joseph Ratzinger dell’omosessualità riformula in linguaggio filosofico l’antico adagio cattolico secondo il quale l’omosessualità sarebbe «contro natura». L’accortezza del retore sconsiglia di riproporre l’accusa con le stesse parole (anche perché un ponderoso tomo del 1999 del biologo Bruce Bagemihl, intitolato Biological Exuberance, ha inventariato centinaia di specie di animali – dal canguro nano della Tasmania al gatto domestico – che indulgono volentieri ai piaceri dell’amore tra uguali). Ma la sostanza non cambia di molto. A partire dalla lettera pastorale Homosexualitatis problema del 1986, Ratzinger non fa che declinare lo stesso concetto: «È impossibile accettare la condizione omosessuale come se non fosse disordinata». L’omosessualità è un «disordine oggettivo». La definizione ricorre ovunque. Nella Notificazione riguardante Suor Jeannine Gramick, SSND, e Padre Robert Nugent, SD del 31 maggio 1999 («... le posizioni espresse da Suor Jeannine Gramick e da Padre Robert Nugent in merito alla malizia intrinseca degli atti omosessuali e al disordine oggettivo dell’inclinazione omosessuale sono dottrinalmente inaccettabili») come nello scandalizzato lamento di Subiaco dell’1 aprile 2005 («Ben presto non si potrà più affermare che l’omosessualità, come insegna la Chiesa cattolica, costituisce un oggettivo disordine nello strutturarsi dell’esistenza umana»). Il concetto di «disordine», per di più se ha da essere «oggettivo», non è di quelli immediatamente spendibili sul piano dell’argomentazione filosofica. Non lo è, almeno, se prima non si riesce a definire, in modo il più possibile inattaccabile, i concetti di oggettività e di ordine. È un’esigenza, quella di arrivare a una definizione condivisibile e salda sulla base della sola ragione, che il filosofo Ratzinger non avverte, pur continuando a citare a sostegno delle proprie conclusioni una non meglio precisata, nebulosissima, ragione. Come all’inizio della già citata Homosexualitatis problema: «La prospettiva morale cattolica è fondata sulla ragione umana illuminata dalla fede ed è coscientemente motivata dal desiderio di fare la volontà di Dio». Surrettiziamente, Ratzinger introduce fantomatiche «altre vie», un’altra facoltà che unirebbe il rigore del pensiero alla verità donata a chi crede. La ragione del cuore – che per sua natura non può essere definita, ma soltanto suggerita ed evocata – conduce necessariamente a postulare che la struttura del reale è razionale. In caso contrario, Dio potrebbe non esistere, il cervello umano essere un intervallo accidentale nell’universale insensatezza e «la ragione illuminata dalla fede» una sciocchezza. Per affermare l’autorità intellettuale della fede, e quindi la propria, Ratzinger è costretto a postulare un ordo naturalis nel quale l’omosessuale costituisce un’eccezione e, quindi, una minaccia. Come può, infatti, l’ordine contemplare il disordine, perfino come eccezione?
Espellendo l’omosessualità nel «disordine», quindi al di fuori della sfera della razionalità divina, le vere domande possono non essere pronunciate e le risposte nemmeno cercate. Attraverso la sentenza «disordine oggettivo», Ratzinger può tranquillamente evitare di chiedersi che ruolo abbia l’omosessualità nel disegno di Dio e perché Dio la permetta. L’ordine naturale postulato dal papa risulta non minimamente plausibile e persuasivo, se non facesse appello a un alleato clandestino e innominabile: la teoria evoluzionistica che altrove è stata bollata come insufficiente, dannosa e, di fatto, deicida. Nella condanna all’omosessualità, il darwinismo rappresenta, cioè, una sorta di socio occulto. Perché è proprio l’incapacità generativa dell’amore omosessuale, la pietra su cui la definizione di «disordine oggettivo» pare segretamente strutturarsi. La giustificazione esplicita è molto meno violenta. La concessione di diritti civili agli omosessuali porterebbe per Ratzinger e per le gerarchie vaticane alla distruzione della famiglia legata dal matrimonio, l’istituto su cui si regge ogni società umana ordinata. La famiglia tradizionale si distingue dalle coppie omosessuali per la sua capacità di generare figli, dalle coppie di conviventi eterosessuali perché sottomette volontariamente la propria fecondità a una concezione del mondo in cui regna, o dovrebbe regnare, l’ordine. Ordine e fertilità costituiscono i due poli su cui l’attuale Vaticano sembra orientare fondamentali prese di posizione in ambito sociale. L’affermazione di un ordine intrinseco al reale e la difesa della fertilità come alleata del disegno divino sono concetti che, ancora una volta, ricadono sotto il segno della funzionalità e che ignorano la questione della verità del nostro essere al mondo. Limitare l’uomo (e la donna) alla loro capacità di riprodursi significa adottare, davvero, una concezione non solo funzionale, ma anche riduttiva dell’essere umano. Soprattutto se chi la propugna ha fatto del non avere figli una condizione centrale della propria missione. Affermare che l’amore omosessuale è dannoso per la società umana esprime esattamente la stessa inumanità di principio, la stessa intollerante incapacità di accogliere ciò che è in esubero rispetto alla macchina, che Ratzinger imputa alla dittatura del calcolabile inaugurata dal pensiero moderno. Con l’aggravante che, nella proposta della Chiesa, scompare l’ammortizzatore rappresentato, come nel liberalismo, dal rispetto per la libertà e la singolarità individuale. Per questo, nell’ottica cattolica la capacità di generare deve diventare disponibilità a generare assecondando la volontà di un Dio che si esprimerebbe nell’ordine; quindi disponiblità a fare figli nel matrimonio, non utilizzando contraccettivi e accettando anche la propria eventuale infertilità senza sovvertire, con l’aiuto della scienza, l’ordine costituito lassù. Basta dare un’occhiata in giro, per rendersi conto che il reale non è affatto razionale e ordinato. Se il papa non si decide a rivelare che Dio non è onnipotente, il concetto di «disordine oggettivo» si rivela senza senso da un punto di vista filosofico e, invece, molto efficace da quello politico. L’ossessione del buon funzionamento è la stessa delle peggiori derive della modernità, quando si è trasformata in autoritarismo. Un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna, sono condannati come un esubero rispetto alla divina (o naturale) economia dell’universo e come un pericolo per la società. Il pensiero di Ratzinger sfiora qui il darwinismo
sociale e il meccanicismo più rozzo. Viene da chiedergli conto delle parole che pronunciò a Monaco di Baviera il 24 aprile 1984 per indicare, con qualche ragione, i limiti del moderno: «Però, una volta che il funzionamento di una macchina è stato eretto a modello della ragione, allora alla morale classica non resta altro spazio che quello dell’irrazionale». *** La condanna dell’amore omosessuale rappresenta soltanto una tessera della generale attitudine del Vaticano nei confronti del sesso. La fermezza della Chiesa in materia, da punto di vista politico, sembra costituire l’ostacolo maggiore all’efficacia persuasiva del suo messaggio. Occorre, così, interrogarsi sui motivi profondi di tale rigidità. L’amore è al centro di Deus caritas est, la prima enciclica di Benedetto XVI. Attraverso la distinzione filosofica tra due tipi di amore, agape ed eros, amore e sesso, il papa non definisce soltanto la concezione cristiana del retto agire sessuale, ma ribadisce la propria critica al pensiero moderno e riafferma, in implicita contrapposizione alla teologia della liberazione, la dottrina sociale della Chiesa. La scelta di dedicare al sesso l’inizio della prima enciclica dimostra quanto l’argomento sia strategico. Senza addentrarsi in un’esplicita discussione della morale sessuale, ma con la consueta erudizione impreziosita nella circostanza da un sovrappiù di fantasia, Benedetto XVI lascia cadere alcune frasi oneste e rivelatrici. Fondando il proprio discorso sulla contrapposizione tra eros (l’amore egoistico che cerca di catturare l’oggetto del suo desiderio) e agape (l’amore che «cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca»), tutto necessariamente deve giocarsi sulla disciplina. Siamo, cioè, di fronte a una variazione dell’eterna opposizione tra caos e cosmo, tra anarchia e ordine. Il messaggio è di una chiarezza lampante. «Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità — una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere». Per raggiungere «tale traguardo» «sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia». «Non ci si può lasciare sopraffare dall’istinto.» «L’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, “estasi” verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende.» Il disciplinamento dell’eros rappresenta, nel pensiero di Ratzinger, l’unica strada percorribile per dire no alle comodità e frivolezze offerte dalla modernità. «Il modo di esaltare il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L’eros degradato a puro “sesso“ diventa merce, una semplice “cosa” che si può comprare e vendere, anzi, l’uomo stesso diventa merce.» La rinuncia a esaudire i propri desideri, spiega il pontefice, è l’unica via per ridiventare interi, per sposare in sé corpo e anima: «L’uomo diventa veramente se stesso» scrive Ratzinger «quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando
questa unificazione è riuscita.» Solo allora il corpo ritornerà a essere un dono e non uno strumento. Guardando più da vicino questo auspicato secondo matrimonio di corpo e anima, ci si accorge, però, che l’anima comanda e il corpo è lo strumento che esegue. Nella concezione di Ratzinger è fondamentale che il sesso venga disciplinato perché soltanto così gli uomini accetteranno di nuovo di concepirsi come ingranaggi ubbidienti nel disegno di Dio. L’atto sessuale è il luogo simbolico in cui si gioca la partita tra materialismo e religiosità che deciderà le sorti dell’Occidente. La distinzione tra agape ed eros riflette quella tra anima e corpo, rievoca l’orrore del cristianesimo per l’irriducibilità della materia alle disposizioni dell’ideale. Il corpo umano è ancora concepito come una scatola donata dal Creatore. «Oggi non di rado si rimprovera al cristianesimo del passato di essere stato avversario della corporeità» scrive il papa per negare l’accusa. Però, poi, elenca le brutture a cui va incontro chi non disciplina il proprio desiderio. Vengono in mente le parole con cui l’abate Odon de Cluny (879 ca. - 942 d. C.) tentò di screditare il corpo femminile agli occhi dei peccatori: «La bellezza si limita alla pelle. Se gli uomini vedessero quel che è sotto la pelle, così come si dice che possa vedere la lince di Beozia, rabbrividirebbero alla vista delle donne. Tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà che lordume. E se ci ripugna toccare il muco o lo sterco con la punta del dito, come potremmo desiderare di abbracciare il sacco stesso che contiene lo sterco?».
DE GENERAZIONE. LA VITA E LA SUA PROPRIETÀ Una vittoria epocale per il Vaticano fu quella del maggio 2005. Il nuovo papa si era appena insediato sul soglio di Pietro. I cittadini furono chiamati a esprimersi su quattro complessi quesiti referendari che riguardavano i limiti della libertà di ricerca in materia di fecondazione artificiale; quesiti che ben presto si trasformarono, sul terreno della battaglia politica e retorica, in un’unica domanda. Se fosse, cioè, lecito per l’uomo stravolgere, attraverso le possibilità offerte dalla scienza, il disegno naturale o divino (la distinzione non è stata ben chiarita) che contempla l’eventualità di generare figli. L’accusa sosteneva che le moderne biotecnologie avrebbero sprofondato l’Occidente in un materialismo senza vie d’uscita. Gli esseri umani sarebbero stati fabbricati a seconda dei gusti e dei desideri individuali o, addirittura, acquistati al supermarket. Se avesse vinto la libertà di ricerca – accusava il fronte del No, alleato della Chiesa – si sarebbero di nuovo spalancate le porte a un’eugenetica paranazista. La possibilità che coppie di omosessuali possano avere e allevare un bambino, l’eventualità che coppie eterosessuali non fertili possano scegliere sfogliando l’album delle donatrici o dei donatori il corredo genetico auspicabile per il proprio figlio, non piaceva alla maggioranza perché metteva in gioco la legittima repulsione a trattare una nascita come un acquisto e alcuni tabù sociali sedimentati, in particolare quello della fecondità omosessuale. Il Vaticano, che invitava a non andare a votare in modo che i referendum non raggiungessero il quorum e fossero invalidati, cavalcò ancora più del consueto l’argomento della «difesa della vita». Si mosse anche con una certa disinvoltura politica, non soltanto perché invitò all’astensione, ma anche perché utilizzò senza remore argomenti di sicura presa derivati dalle scoperte delle stessa genetica (scienza che al contempo accusava di favorire il ritorno al nazismo). Una spregiudicatezza tattica che trovava nel pensiero di Benedetto XVI un autorevole esempio. «La scienza genetica moderna fornisce preziose conferme» scriveva il prefetto già nel 1987 nell’istruzione Donum Vitae sul rispetto della vita nascente e la dignità della procreazione. «Essa ha mostrato» continuava «come dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo-individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate.» Il prefetto si rifaceva agli insegnamenti contenuti nella Dichiarazione sull’aborto procurato del cardinale Franjo Seper, suo predecessore al Sant’Uffizio. Nell’Italia scientista del 2005, l’argomentazione risultò persuasiva. Nessuno fece notare che la prova addotta da Ratzinger a sostegno dell’inviolabilità, «fin dal primo istante», della vita umana, conteneva in sé un sensazionale paradosso. Il fatto che il papa chiamasse la scienza a decidere della
verità della vita umana contraddiceva i discorsi del teologo sull’inumanità di un razionalismo «che non risponde a nessuna delle questioni fondamentali della nostra vita». L’argomento genetico, che da un punto di vista filosofico non dimostra nulla, costituisce, invece, la prova più lampante che il pensiero di Joseph Ratzinger si struttura nell’ambito della modernità e che ne è a tal punto prigioniero da invocare l’autorità della ricerca scientifica per affermare la correttezza della propria posizione morale. (Questo concedendo al papa la buona fede, altrimenti i dettami vaticani sarebbero solo bassa retorica politica.) Quei giorni di scontro ebbero un merito, di cui va dato atto anche alla Chiesa cattolica, ai suoi vertici e ai suoi seguaci. Per la prima volta dopo molto tempo, qualche milione di persone si ritrovò a discutere, a scontrarsi e, in alcuni casi, a interrogarsi intorno a domande fondamentali. Domande alle quali, nonostante il gran dibattere, nessuno è ancora in grado di offrire risposte indubitabili. La verità è che oggi nessuno può definire, basandosi soltanto sulla ragione, il momento in cui un embrione diventa persona. Ratzinger è nel giusto quando afferma che la scienza moderna non può pronunciare l’ultima parola, ma non può pretendere di risolvere il problema sommando la propria convinzione con un’interpretazione strumentale della ricerca sperimentale. L’intatto mistero sullo statuto morale e ontologico della vita umana oggi non si può risolvere, neppure con un atto di fede perché, senza il ricorso alla ragione, ogni decisione in merito precipiterebbe nel vortice del relativismo religioso. Ognuno potrebbe, con la stessa legittimità, dire la sua. Il feroce saladino e il dianetico, l’arancione e il cattolico, l’eugenetico hitleriano e il bonzo buddista. In mancanza di una fondazione pienamente razionale – la sola che permette di convincere ogni uomo, qualunque sia il suo credo e la sua storia personale – il discorso ricadrebbe al di fuori di ogni possibilità di dialogo tra non credenti e credenti (qualunque sia il Dio in cui credono). Autoproclamarsi «difensori della vita» sulla sola base dell’auctoritas (delle Scritture o della scienza poco importa, in questo caso) non significa soltanto accusare implicitamente gli altri di «assassinio» (e quindi negarsi a ogni possibile confronto), ma anche scegliere di battersi su un terreno meramente mediatico, in cui la verità, per definizione, è indifferente. Nessuno sostiene che la nascita, o l’impedimento di una nascita, siano atti moralmente indifferenti. Nessuno odia o disprezza «la vita». Si tratta di scegliere se la realtà, quando si presenta problematica, quando contiene in sé bene e male, vada negata, e magari assolta con un paio di Ave Maria, oppure affrontata e gestita, regolamentata e compresa, in attesa che dalla pratica sgorghi un orientamento condiviso, vale a dire una cultura dei limiti e dei divieti. Il fatto che l’aborto (che ha fatto da scenario implicito dell’intero dibattito referendario) esista da sempre e che disgraziatamente esisterà per sempre non sembra minimamente toccare i vertici vaticani. Come se la negazione ideale fosse di per sé sufficiente a eliminare il reale, come se la propria buona coscienza fosse più importante di una buona realtà. Se si ammettesse davvero il mistero della vita e ci si proclamasse inadeguati a decidere, soltanto alla scienza, in quanto strumento, sarebbe possibile affidare una sensata speranza di attutire, se non eliminare, almeno la fonte di questo dolore. Da un
punto di vista razionale, la cosiddetta «pillola del giorno dopo» lascia intatta la domanda sull’origine (anche se rimane difficile equiparare del tutto la blastula all’embrione e l’embrione al feto e il feto al bambino). È vero anche, però, che la libertà di contraccezione si situa su un altro piano, limitando radicalmente il ricorso a pratiche abortive. A meno di non equiparare ovuli e spermatozoi alle cellule fecondate (equiparazione che, a quanto risulta, nemmeno la Chiesa sostiene), la contraccezione non dovrebbe essere accusata di favorire quell’«ecatombe nascosta» (così Ratzinger nel discorso al Concistoro straordinario del 1991) pro-dotta dall’aborto in tutte le sue forme. Eppure la condanna rimane. Anzi, l’invenzione della pillola costituisce per Ratzinger una pietra miliare nella degenerazione morale di quest’epoca. Come spiega con esemplare chiarezza nel 1991: «La pillola ha provocato una rivoluzione culturale [...] Se la sessualità può essere sganciata, in maniera sicura, dalla procreazione, diventando sempre di più pura tecnica, allora il sesso ha a che fare con la morale come ce l’ha bere una tazza di caffè». Simili difficoltà di definizione valgono oggi, e varranno a maggior ragione in futuro, per la possibilità di ricorrere a tecnologie fecondative artificiali. Se alla Chiesa va riconosciuto il merito di avere ricordato a un’umanità distratta e facile all’acquisto che nascita e morte rimangono problemi aperti anche in presenza di tecnologie capaci di maneggiarle, la risposta vaticana è stata ancora una volta quella di respingere le domande della realtà in nome di una idealità ricavata dalla fede. È esattamente lo stesso schema all’opera nella condanna dell’omosessualità e della contraccezione, condannata perché potrebbe eventualmente interferire con il disegno di un Dio ipotetico, ritenuto evidentemente così fiacco da essere soggetto ai trucchetti contraccettivi dell’uomo. Per comprendere nel complesso la posizione vaticana sulla generazione, si è necessariamente costretti ad ampliare il concetto di vita fino all’astratto, fino all’assurdo di affermare che la vita è vita anche prima di esserlo, perché la sua possibilità riposa in un’imperscrutabile volontà divina. L’idea di vita umana che anima i suoi defensores prescinde perfino dall’individuo, prescinde perfino dall’uomo. Dare un nome, attraverso la fede, al mistero, invece che accettarlo, conduce spesso a simili nonsense. La debolezza dell’assolutismo vaticano (assolutismo perché proclama valori assoluti, anche se non li ha definiti da un punto di vista razionale) risiede in questo rifiuto di confrontarsi con la realtà, rinunciando così anche a elaborare una visione del bene e del male che possa davvero misurarsi con ciò che esiste. La proposta rimane modulare, efficace soltanto nella misura in cui può essere piluccata secondo le convenienze del momento, i tabù sedimentati e le convinzioni dettate dalla propria vicenda biografica. Una minoranza di coloro che al referendum di cui sopra si schierarono per la «vita» si sentirebbe di sottoscrivere la maggior parte delle conclusioni del papa in tema di nascita, parto, sessualità e matrimonio. Una recente indagine dell’Eurispes afferma, per esempio, che il 68,7 percento dei cattolici italiani è favorevole alla regolamentazione delle unioni di fatto. Quanto alla sacralità della famiglia, l’Istat calcola che i divorzi riguardano oggi per l’82,3 percento i matrimoni
religiosi, e solo per il 17,7 quelli civili (per le separazioni le percentuali sono 83,1 contro 16,9). Pochi sanno, per esempio, che la posizione formulata dal prefetto Joseph Ratzinger non fa distinzioni sostanziali tra fecondazione eterologa e omologa. Nega la liceità tanto della fecondazione artificiale che avviene perché uno degli sposi è sterile (e che, quindi, si attua ricorrendo all’ovulo o al seme di una terza persona) quanto di quella che si attua con semi e ovuli della coppia uniti dalla tecnologia medica per generare lo zigote. Pur non potendo ignorare «le legittime aspirazioni degli sposi sterili», la risposta del prefetto è negativa. «La Fivet omologa» scrive Ratzinger nel 1987 nell’istruzione Donum vitae «è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento». Questa la motivazione: «L’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla procreazione umana afferma la “connessione inscindibile, che Dio ha voluto, e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato uniti-vo e il significato procreativo”». Dopo avere condannato il desiderio sessuale, il desiderio del corpo dell’altro come malvagio in sé, la Chiesa condanna la fecondazione omologa perché nell’atto procreativo gli sposi devono essere «una sola carne». L’assurdità è che per mantenere ferma la morale cattolica in un mondo che cambia, si entra in un garbuglio che si affida proprio alla tecnica per essere sciolto: se qualcuno inventasse una macchinetta capace di catturare lo sperma durante l’atto, il Vaticano non avrebbe da eccepire. Non si tratta di un paradosso. Come sostiene Enrico Chiavacci della Facoltà teologica dell’Italia centrale di Firenze nel libro Lezioni brevi di bioetica, tra i massimi esperti vaticani sul tema, la Chiesa mostra comprensione per due soli metodi di fecondazione artificiale omologa. Il primo, praticato, ma non ufficialmente riconosciuto, consiste nel prelevare lo sperma con una siringa direttamente dai testicoli. Il metodo, dolorosissimo, ha il vantaggio di aggirare il peccato della masturbazione, il difetto di avvenire al di fuori del congiungimento fisico. Il secondo prevede che l’atto sessuale sia condotto in clinica con il medico fuori della porta, lesto ad accorrere immediatamente dopo l’eiaculazione per prelevare il seme direttamente dalla vagina della donna. È chiaro che le uniche scappatoie a questo stallo filosofico chiamano in causa la tecnica. Un altro aspetto rimasto in ombra nel dibattito televisivo sulla «difesa della vita» riguarda la salute, non soltanto delle donne che abortiscono per scelta, ma anche di quelle che si trovino a scegliere se rischiare la vita o preservare la propria capacità generatrice. Nel 1993 la Congregazione per la dottrina della fede pubblica un documento intitolato Risposte ai dubbi pro-posti circa l’isolamento uterino e altre questioni. «Quando (per esempio a causa di precedenti interventi di taglio cesareo)», è una delle domande, «l’utero si trova in uno stato tale che, pur non costituendo in sé un rischio attuale per la vita della donna, non sia prevedibilmente più in grado di portare a termine una gravidanza futura senza pericolo per la madre, pericolo che in alcuni casi può risultare anche grave, è lecito asportarlo (isterectomia), al fine di prevenire
un tale pericolo futuro derivante dal concepimento?» La risposta è un secco «no». La risposta resta negativa anche alla domanda che segue: «È lecito sostituire l’isterectomia con la legatura delle tube (procedimento chiamato anche “isolamento uterino”)?». Il prefetto motiva: «L’utero non è in sé un problema patologico per la donna», «il fine di evitare rischi per la madre, derivanti da una eventuale gravidanza, viene quindi perseguito con il mezzo di una sterilizzazione diretta sempre moralmente illecita, mentre altre vie moralmente lecite restano aperte alla scelta libera». «L’opinione contraria, che considera le suddette pratiche di cui ai numeri 2 e 3 come sterilizzazione indiretta, lecita a certe condizioni, non può essere seguita nella prassi degli ospedali cattolici.» Il sacrificio della realtà (la salute della donna) all’ideale (un’eventuale nuova gravidanza) non potrebbe essere espresso con maggior chiarezza e inumanità. Il corpo e il desiderio della donna continuano, cioè, a rappresentare la minaccia più pericolosa all’affermazione della supremazia dell’ideale di Dio nella vita umana. La libertà femminile di decidere della propria facoltà di generare diviene, in questo senso, l’immagine speculare dell’infecondità omosessuale. L’esistenza di entrambi – della donna e dell’omosessuale – sembra incarnare per la Chiesa lo scandalo moderno rappresentato dalla possibilità di coniugare libertà di scelta e tecnologia riproduttiva perché afferma che materia e anima possono scegliere indipendentemente dalla volontà di Dio. Grazie alla tecnologia la donna, fertile per natura, può decidere di non esserlo e l’omosessuale, condannato da Dio all’infecondità, può decidere di diventarlo. La dittatura dell’ideale non potrebbe essere più ferrea, astratta e, in fin dei conti, inumana. Il concetto di «vita» detta legge sull’esistenza reale dell’uomo. Appare paradigmatica, in questo senso, la condanna della contraccezione attuata per impedire mali maggiori come l’aborto o il contagio. È il caso dell’interpretazione, davvero parossistica, con cui Joseph Ratzinger liquida, per esempio, la tragedia dell’Aids nel continente africano (un’epidemia che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità ha prodotto due milioni 400mila morti). La catastrofe, per il prefetto, non è originata da un’insufficiente diffusione e promozione del preservativo (perfino gli antichi romani usavano il budello di bue), ma dalla dittatura del relativismo occidentale. Niente meno. Nel 2004, dialogando con il filosofo Jürgen Habermas, Ratzinger afferma: «Dobbiamo pensare anche alla realtà africana. Qui l’Occidente ha importato la sua visione del mondo, ha armato l’Africa in permanenza e ha distrutto i mores maiorum, cioè le regole morali che erano il fondamento di quelle tribù. Naturalmente, prima della colonizzazione l’Africa non era un paradiso. Era, parlando da cristiano, marcata dal peccato originale, da violenza, problemi, aspetti negativi. Ma c’era una forza fondante, la vita comune, la condivisione della libertà, la definizione dell’essere umano nelle diverse tribù. Questa forza morale con l’Illuminismo europeo è stata distrutta. Ora vediamo gli effetti della duplice importazione di cui parlavo prima. Vediamo la violenza crescente, che comincia a distruggere veramente i popoli, la distruzione morale, con l’epidemia dell’Aids che distrugge intere popolazioni, e la
responsabilità di introdurre un razionalismo che non risponde a nessuna delle questioni fondamentali della nostra vita». Il «papa filosofo» liquida l’ecatombe come un effetto del colonialismo occidentale – materialista, liberale, relativista e, perfino, marxista – che avrebbe distrutto l’originaria moralità dei nativi («i mores maiorum») senza neppure accennare a ciò che, oggi, si può fare per limitare il disastro. L’interpretazione storica di Ratzinger appare ingenua fino a lambire i territori dell’ignoranza (in Africa, la sessualità è per tradizione, proprio grazie ai suoi mores maiorum, poligamica). L’importante è che il paradigma ideale sia riaffermato, anche al prezzo di sacrificare l’esistenza concreta dei singoli a quella, stabilita per atto di fede, dell’insegnamento cristiano. *** Se a decidere, come predica Ratzinger, fosse davvero l’amore dell’altro e della vita (agape), se l’unico dogma su cui rifondare l’identità occidentale fosse davvero la preferibilità dell’esserci all’indifferenza del nulla (da una prospettiva cattolica, la creazione costituisce il primo e originario atto d’amore), sarebbe già tracciata la strada per definire modalità e limiti entro cui permettere a tutti di essere padri e madri, senza insultare la dignità di chi nascerà, ma neppure quella di chi è già nato. Difficoltà annidate nel senso comune e nelle carenze teoretiche del cattolicesimo generano, però, un cono d’ombra che impedisce ogni dialogo. La verità, affermata a priori e espulsa nel divino, è sottratta al confronto. In mancanza di verità, il pensiero laico, dubitativo e scientifico, non si arroga il diritto di decidere per la sensibilità del singolo. La prerogativa del Vaticano, al contrario, è di parlare ad humanitatem e di imporre, perciò, la propria verità anche a chi non si sente di condividerla. Una verità tanto grande e indiscutibile che per affermarla la Chiesa può arrivare non solo a permettere la perdita di vite umane, ma anche a utilizzare le armi e gli argomenti del proprio avversario. Il pensiero di Joseph Ratzinger si dibatte nelle contraddizioni aperte dalla filosofia moderna pretendendo di confutarle. Rigetta la funzionalità su cui si basa il metodo scientifico, ma per riaffermare la propria fede adotta argomenti utilitaristici improntati alla ricerca del male minore. Respinge come inumane le scoperte della scienza, ma poi le utilizza per sostenere la propria visione. Bolla di relativismo ogni difficile tentativo di fondare, sulla base della sola ragione, i valori di una convivenza più giusta tra gli uomini, ma poi sostiene che ogni valore è tale soltanto in relazione (se è relativo) all’esistenza di Dio. Rifiuta, infine, il marxismo perché il concetto su cui si fonda la sua promessa sacrificherebbe la concreta vita dei singoli all’affermazione di un’utopia feroce. Ma poi è ciò che fa quando, pur di negare la liceità dei contraccettivi, accetta di fatto interruzioni di gravidanza ed epidemie, limitandosi a condannarle con argomenti storicamente risibili come effetti della modernità. Nel 1999, ringraziando per la laurea honoris causa in diritto conferitagli dalla Libera Università Maria SS. Assunta di Roma, il prefetto ha pronunciato parole che potrebbero essere rivolte contro il suo pensiero: «Vi è ancora una seconda minaccia
al diritto» ha detto Ratzinger «che oggi sembra essere meno attuale di quanto non lo era ancora dieci anni fa, ma può in ogni momento riemergere e trovare agganci con la teoria del consenso. Penso alla dissoluzione del diritto per mezzo della spinta dell’utopia, così come aveva assunto forma sistematica e pratica nel pensiero marxista. Il punto di partenza era qui la convinzione che il mondo presente è cattivo – un mondo di oppressione e di mancanza di libertà, esso dovrebbe essere sostituito da un mondo migliore da pianificare e da realizzare adesso. La vera ed ultimamente unica fonte del diritto diviene ora l’immagine della nuova società». Questo diritto utopico, questo volontario ignorare la complessità del concreto in nome di una verità superiore, è precisamente la stella polare che orienta ogni presa di posizione dell’ultimo papa. È triste che la risposta più autorevole alla crisi della ragione proclamata dai teorici del pensiero debole finisca per apparire una copia sbiadita, e tanto più imperdonabile perché religiosa, dei totalitarismi che hanno funestato il Novecento. Il pensiero di Ratzinger sembra mettere «l’utopia politica al di sopra della dignità del singolo uomo, mostrando persino di poter arrivare, in nome di grandi obiettivi, a disprezzare l’uomo» (L’Europa nelle crisi delle culture, Subiaco, 1 aprile 2005). La Città celeste non può essere governata, discussa e condivisa, ma soltanto creduta. Alla Città terrena non resta che conformarsi a questa autorità. Il pensiero di Joseph Ratzinger si rivela tragico nella sua incapacità di sfuggire alla ragnatela del moderno e ingegnoso nel suo tentativo di convincere i contemporanei sulla base di una pretesa, condivisibile, razionalità. Ma non basta a dare risposte. Non basta a dare pace. Se questo tentativo andrà in porto, se l’Occidente accetterà di credere che la ragione deve ricongiungersi con la fede per ritornare a dare risposte, allora avremo barattato l’idea di un’umanità fallibile, per piegarci a un Dio dall’esistenza opinabile.
FANTASIOSO PROLOGO IN FORMA DI EPILOGO 1 Era il 25 marzo 2005, giorno di venerdì santo. Fu l’ultima volta che i due amici si videro. Da mesi il corpo di Karol Wojtyla sembrava un immobile enigma. Quella sera, una sera fredda di quelle che Roma inventa di rado, Joseph Ratzinger aveva celebrato al posto dell’amico morente la Via crucis al Colosseo. Giunto alla nona stazione, pronunciò un discorso triste che ammetteva il peccato, che forse annunciava la morte e che invocava, certamente, la resurrezione. Affermò: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Ammise: «La veste e il volto così sporchi della Tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte. le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti». «Satana se la ride» proclamò. Dopodiché annunciò la resurrezione del Signore e della sua sposa, la Chiesa: «Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi alzarti con noi». Fu un discorso sincero. La sua fede si abbevera alla fonte del pessimismo. A cerimonia finita aveva fatto ritorno a casa. Le 22, l’ora in cui abitualmente si addormentava, erano trascorse da un pezzo. Pensò che Wojtyla moriva, che tutto era stato fatto per tempo perché la Provvidenza si prendesse carico della sua successione, eppure sapeva che quando un uomo muore non è mai stato fatto abbastanza. Decise di uscire. Aprendo la porta di casa, ebbe un attimo di esitazione e si abbandonò a un gesto infantile. Riaccese le luci del salotto e si diresse allo studio per prendere la nera cartella di cuoio che lo aveva sempre accompagnato negli anni romani. La temperatura doveva essersi abbassata, sentiva più freddo. Ma Roma era bella, la notte era bella, la vita viveva, la vita moriva. Attraversò piazza San Pietro e percorse il colonnato, guardandosi intorno. Vide qualche turista, un gatto nerissimo e due innamorati. Passò un giovane prete bellissimo. Si fece annunciare. Salì le scale che aveva percorso per venticinque anni. Entrando negli appartamenti del papa, sussurrò: «Come sta?». Percorrendo il corridoio, la sua attenzione fu catturata per un attimo dalla nuca, dalle spalle e dall’andatura della suora polacca che gli faceva strada. Pensò che gli esseri umani sono come alberi caduti, che nelle posture e nei movimenti recano i segni della vita che Dio ha scelto per loro. Il papa, immobile come una cosa dotata di respiro, che cicatrici poteva ancora mostrare? La stanza era in penombra, ma si sentiva che era abitata da un corpo. Il letto di Karol stava come un’ombra nell’ombra. Joseph andò avanti veloce, imbarazzato dalla presenza della cartella che aveva portato con sé. L’aveva presa per apparire occupato dalle cose da fare, non c’era alcun dubbio. Si chiese se a spingerlo a un gesto tanto insulso fosse stato il rispetto per il papa o quello per la sua agonia. 1
L’ultimo dialogo tra Karol e Joseph. Un’operetta morale
Distinse il profilo, un gonfiore nella penombra del letto. «Vieni, Joseph. Avanti.» Poteva parlare. Si erano conosciuti di persona soltanto nel 1978, al conclave che avrebbe eletto Albino Luciani, ma le loro vite correvano parallele dal 1963, l’anno in cui si era aperto il Concilio vaticano II. Quando cinque anni più tardi, il cardinale di Varsavia, Stefan Wyszynski, bandì dalla propria arcidiocesi Introduzione al cristianesimo di Ratzinger, Karol Wojtyla, a quel tempo cardinale di Cracovia, si rifiutò di seguirlo. Avevano iniziato a scambiarsi libri nel 1974, un’abitudine che non avrebbero mai abbandonato. Una volta, scherzando, Karol gli aveva regalato un libro di Hermann Hesse, Narciso e Boccadoro, accompagnandolo con una dedica a voce: «Lo vedi che a volte è Boccadoro a fare carriera?». In una decina di passi, il prefetto ebbe il tempo di ricordare tutto. La sua opera a favore di Karol al conclave che lo avrebbe eletto e i venerdì in cui per ventiquattr’anni si incontrarono. «Sarai stanco» disse Wojtyla. «Non riuscivo a dormire.» «Neanch’io.» «Per te non è una cosa nuova.» «Stasera mi è passata la voglia di morire.» «Com’è la morte, Karol?» «È lenta e confusa.» «Ma sai sempre chi sei?» «Domanda difficile. Neppure Socrate saprebbe darti una risposta sensata.» «Cosa vuoi che sapesse quel liberale.» Nella stanza si formò, e tramontò, un doppio sorriso. «Cerca di essere gentile con gli uomini, Joseph. Cerca di distinguere sempre tra paura e speranza.» «Perché mi dici questo?» «Perché io non l’ho mai fatto. Ora vai, ho bisogno di addormentarmi.» Disse: «Buonanotte, Karol». Ascoltò alle sue spalle: «Buonanotte, Joseph».
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Contro Ratzinger / Anonimo. – Milano : Isbn Edizioni, 2006. – 160 p. - ISBN 8876380388 Ristampa Anno 0 1 2 3 4 5 2006 2007 2008 2009 Finito di stampare nell’aprile 2006 presso Lito 3 Arti Grafiche, Pioltello (Mi).